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NELL’ANNO DEL SIGNORE 517 VERONA AL TEMPO DI URSICINO crocevia di uomini culture scritture catalogo della mostra FONDAZIONE CENTRO ITALIANO DI STUDI SULL’ALTO MEDIOEVO SPOLETO 2018 IN PREPARAZIONE E PRESTO DISPONIBILE

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NELL’ANNO DEL SIGNORE 517VERONA AL TEMPO DI URSICINO

crocevia di uomini culture scritture

catalogo della mostra

FONDAZIONE

CENTRO ITALIANO DI STUDISULL’ALTO MEDIOEVO

SPOLETO

2018

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biblioteca capitolare di verona

università degli studi di verona

Dipartimento di Culture e civiltà

Nell’anno del Signore 517Verona al tempo di UrsicinoCrocevia di uomini, culture, scritture

VeronaBiblioteca Capitolare, Salone Arcidiacono Pacifico16 febbraio - 16 maggio 2018

Mostra promossa da

In collaborazione con

Con il patrocinio di

Con il contributo di

Comitato organizzatoreMons. Bruno Fasani, prefettoClaudia AdamiBruno AvesaniMassimiliano BassettiMarco StoffellaFranco TrevisaniGian Maria Varanini

Mostra a cura diMassimiliano Bassetti

Con la collaborazione diGiulia SaccomaniGaia Sofia SaianiMarco Stoffella

PromozioneUfficio stampa e comunicazione istituzionale

dell’Università di VeronaFondazione Discanto

Progetto dell’allestimentoAlessandro Cesaraccio

Realizzazione dell’allestimentoIB Arredamento

Artwork & comunicazioneAgenzia Perdonà

Catalogo

A cura diMassimiliano Bassetti

Autori saggi e schedeClaudia AdamiMassimiliano BassettiFilippo BriguglioMons. Dario CervatoCarla FalluominiPaolo FiorettiPaolo GattiMaddalena ModestiGiulia SaccomaniGaia Sofia SaianiMarco StoffellaDonatella Tronca

Redazione del CatalogoGaia Sofia Saiani

NELL’ANNO DEL SIGNORE 517VERONA AL TEMPO DI URSICINO

crocevia di uomini culture scritture

Catalogo della mostraVerona, Biblioteca Capitolare16 febbraio – 16 maggio 2018

a cura diMassimiliano Bassetti

FONDAZIONE

CENTRO ITALIANO DI STUDISULL’ALTO MEDIOEVO

SPOLETO

2018

Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevoP.zza della Libertà, 12 - Palazzo Ancaiani I–06049 Spoleto (PG)

tel. +39 0743 225630 fax +39 0743 49902 [email protected]

Biblioteca Capitolare di VeronaPiazza Duomo, 13 I–37121 Verona

tel. +39 045 [email protected]

www.bibliotecacapitolare.it

In copertina: valva posteriore del dittico consolare di Flavio Anastasio, console per l’Oriente nell’anno 517: è l’anno del colophon di Ursicino

Verona, Biblioteca Capitolare

ISBN 978-88-6809-169-9

© 2018 – Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto

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SOMMARIO

9 Presentazione, di mons. Bruno Fasani

10 L’ottagono della mostra, di Alessandro Cesaraccio

11 Viatico per la mostra, di Massimiliano Bassetti e Marco Stoffella

17 I vescovi di Verona dal IV al VI secolo, di mons. Dario Cervato

31 Una biblioteca di bibliothecae, di Massimiliano Bassetti

35 I codici della Biblioteca Capitolare al tempo di Ursicino, di Claudia Adami

I manoscritti esposti

41 Il codice di Ursicino [Ver. xxxviii (36)] (M. Bassetti)

49 I Gothica Bononiensia [Bologna, Archivio della Fabbriceria di S. Petronio, cart. 716/1, n. 1] (M. Modesti)

55 I Gothica Veronensia [Ver. li (49)] (C. Falluomini)

59 Gli Scholia Vergilii e una silloge di classici [Ver. xl (38)] (P. Fioretti)

65 La Concordia canonum di Cresconio: dal Codex ai frammenti e ritorno [Ver. lxii (60)] (G. Saccomani)

73 L’unico frammento superstite delle Institutiones del giurista Gaio [Ver. xv (13)] (F. Briguglio)

79 La più antica copia del De civitate Dei di S. Agostino [Ver. xxviii (26)] (D. Tronca)

85 L’evangeliario purpureo [Ver. vi (6)] (G. S. Saiani)

93 Il salterio bilingue greco-latino [Ver. i (1)] (G. S. Saiani)

101 L’unica copia superstite delle Complexiones di Cassiodoro [Ver. xxxix (37)] (P. Gatti)

107 Un dossier attorno alla dottrina cristiana [Verr. xxii (20), liii (51) e lix (57)] (G. S. Saiani)

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PRESENTAZIONE

«La vita va vissuta in avanti, ma va capita solo all’indietro». Così sosteneva il grande teologo, filosofo e scrittore danese, Søren Kierkegaard. Una verità che la prassi ci conferma anche nelle piccole scelte quotidiane. Ogni progresso fiorisce a partire da quanto l’esperienza ci ha insegnato, risparmiandoci gli impedimenti già incontrati lungo il cammino. Una sorta di istinto vitale con cui la nostra intelligenza ma anche il nostro inconscio vanno ad attingere nel database del vissuto, ossia in quell’archivio di informazioni sedimentate, che ci permettono di camminare in avanti facendo tesoro dell’esperienza pregressa.

La rivoluzione digitale, che segna una tappa miliare nell’ambito della comunicazione, sta insinuando, nel sentire diffuso, che basti una lettura sincronica e sintetica per avere una adeguata strumentazione con cui affrontare la vita. Una rivoluzione che finirà per scalzare, almeno come verrebbe da pensare partendo dai suoi presupposti, quella cultura del libro, analitica e diacronica, che parte invece dalla storia per veicolarne nel presente tutte le suggestioni sapienziali.

La mostra di Nell’anno del Signore 517. Verona al tempo di Ursicino: crocevia di uomini, culture e scritture va a intercettare questa sensibilità per raccontarci come il già accaduto sia in grado di illuminare i passi vacillanti del presente, ma anche per investirci di responsabilità nel modo di gestirlo. Guardando infatti a questi antichi e preziosissimi codici si evince in filigrana quanto preziosa sia stata l’opera della Chiesa, nel tenere alto il valore della cultura, in una stagione storica in cui il declino della ci-viltà latina doveva misurarsi con le nuove culture barbare incombenti. Ai canonici che hanno dato vita a questo scriptorium, a quelli che hanno custodito nei secoli questo patrimonio inestimabile, ai reverendi canonici attuali va riconosciuto il merito di aver sempre creduto nella cultura e averle dato voce come motore sociale ed ecclesiale, capace di fare da traino alla com-plessità e ai momenti critici della storia.

Questa mostra, nella quale il presente catalogo ci introduce, si inserisce in questo filone di sensibilità, oggi reso ancora più significativo, grazie alle sinergie con cui si è lavorato, a cominciare dalla straordinaria collaborazione con il Dipartimento di Culture e civiltà dell’Università di Verona che di questa mostra è stata grande apportatrice di mente e cuore in una sintonia fraterna unica, a cominciare da quella del prof. Massimiliano Bassetti, che qui ha espresso senza risparmio la preziosità del suo sapere.

Una iniziativa culturale capace di unire scienza e fede, teologia ed enciclopedia, il tutto dentro lo scenario di una Verona che per secoli ha custodito nel suo cuore la Biblioteca Capitolare, riconosciuta come la più antica al mondo tra quelle in attività, e che oggi vuol restituire i suoi tesori ai visitatori, attraverso l’esposizione delle cose belle qui custodite.

Una mostra che non è soltanto un piccolo espediente pubblicitario per acquisire ulteriore rinomanza, ma un primo umile passo verso quello che dovrebbe diventare il destino di questo luogo. Spazio per gli studiosi, ma anche opportunità di visita e di conoscenza per quanti volessero scoprire tra i tesori di Verona e d’Italia un vero patrimonio dell’umanità. È l’au-gurio che ci facciamo e vogliamo fare alla città, resi audaci dal sentire intorno a noi tanta stima e tanto caloroso incitamento a procedere.

Presentazione

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È una speranza riposta in fondo al cuore, ma che assume ogni giorno di più contorni stabili che le danno il profilo di piccole certezze che avanzano. Contando sull’aiuto di tutti, convinti come siamo che ognuno, privato o istituzione che sia, senta questa Biblioteca Capitolare come bene proprio.

Mons. Bruno Fasani, Prefetto

L’OTTAGONO DELLA MOSTRA

«Un ritorno alle venerabili forme dei templi antichi». Così Leon Battista Alberti auspicava venissero edificate le chiese nell’età dell’Umanesimo. Era alle concezioni paleocristiane che si ricollegava, perché in quell’epoca e solo in quell’epoca, l’antico spirito pagano si era fuso con l’anelito di fede e la purezza della Chiesa primitiva.

Ecco perché è stata scelta la forma ottagonale, geometria che oggi ci accoglie ospitando la mostra dedicata ad Ursicino e a quel periodo di purezza della Chiesa primitiva. L’ottagono deriva dal cerchio, dalla figura “perfetta”, dove lo schema geometrico apparirà assoluto, immutabile, statico e perfettamente intellegibile. Attraverso questo equilibrio «dove ogni parte è in relazione armonica con le altre, come le membra di un corpo», la Divinità potrà rivelarsi.

Lo spazio ottagonale, derivato dal cerchio, ha la caratteristica che tutti i punti sono equidistanti dal centro, punto dal quale il visitatore può trarre un effetto rasserenante e contemplativo nell’osservazione dell’intero spazio e di ciò che esso contiene.

Le quattro sezioni che si definiscono al suo interno, sono divise per periodi: l’età dei Goti, l’eredità dei Classici greci, latini e cristiani, l’età di Bisanzio, le controversie dottrinarie al tempo dei Longobardi.

Per ogni periodo, protetti da teche, sono visibili i codici manoscritti del periodo di riferimento.Sul lato opposto all’ingresso, troviamo, inserita in un pannello rosso, la tavoletta in avorio raffigurante Agapito. Anche se

sarebbe semplice farne coincidere la posizione con quella dell’altare, abbiamo preferito invece seguire le indicazioni dell’Al-berti che... evitò di affrontare l’argomento.

Il colore scelto per le pareti è un grigio caldo, semplice e puro. Anche le bacheche che ospitano i preziosi codici mano-scritti, sono state dimensionate e realizzate seguendo le indicazioni proporzionali derivanti dallo spazio ottagonale. I mate-riali impiegati sono “poveri” ma lavorati con estrema cura e perizia da artigiani locali. Anche in questo caso, la semplicità e la purezza sono essere a servizio delle straordinarie opere che dovranno contenere.

La disposizione delle teche, segue anch’essa la regola sulla costruzione della Chiesa primitiva, esse sono posizionate in luogo delle cappelle lungo i lati dell’ottagono. Il visitatore potrà così percorrere in circolo l’intero spazio, contemplando la bellezza che oggi più che mai, questi antichi manoscritti sono capaci di trasmetterci sfidando un mondo sempre più “digi-tale”!

Arch. Alessandro Cesaraccio

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Provate a pensare cosa abbiano in comune la prima com-parsa della lingua italiana scritta; le uniche tracce super-stiti in originale del diritto e della giurisprudenza ro-mana classica, la più antica antologia dei classici latini con commento, la sola copia superstite della Città di Dio realizzata mentre il suo autore, s. Agostino, era ancora vivo, alcuni tra i primi libri realizzati con la scrittura fatta creare da Carlo Magno per il suo impero (la stessa con cui sono scritte queste pagine e che usiamo ancora oggi, pressoché senza modifiche)?

Se non vi viene in mente niente, non preoccupatevi: siete già vicini alla soluzione. La risposta, infatti, riposa tra gli am-bienti di un luogo unico al mondo: la Biblioteca Capitolare di Verona. È questa la sola Biblioteca del mondo occidentale che dall’inizio della sua storia non ha mai smesso di fun-zionare e non ha mai cambiato sede. Esattamente il primo agosto dell’anno 517 – qualche mese più di millecinquecen-to anni fa – questa biblioteca dà il primo segnale concreto di sé. Lo lascia uno scriba, il chierico veronese Ursicino, che in quel giorno finisce di scrivere un libro con la vita di due santi da mettere in biblioteca. Un libro come tanti, né bello né brutto, né lussuoso né misero, più scorretto che forbito, ma importantissimo per noi: è il più antico libro dell’Occi-dente latino con una data e un nome precisi. È una fonte di luce, quindi, in una storia piena di zone scure. Una sorgente di luce che illumina anche tutti i libri che stavano (e sareb-bero stati) attorno a quello scritto da Ursicino e che assieme

a quello si sono conservati malgrado le inondazioni, i terre-moti, le scorrerie, i saccheggi, i rivolgimenti di potere che in questi millecinquecento anni di storia hanno interessato la città di Verona.

In questa biblioteca, tra i molti altri, hanno cercato libri altrove introvabili Dante e Petrarca, Bernardino da Siena e l’umanista Guarino Guarini. Quei lettori illustri cercavano in quegli ambienti (gli stessi che si possono visitare oggi) i li-bri che nelle altre simili biblioteche il passato aveva spazzato via. I libri più antichi della cultura classica, soprattutto latina, di quella cristiana e di quella germanica (gota, longobarda e anche merovingica). Sono questi, del resto, i tre pilastri sui quali si è costruita la modernità dell’Occidente e la nostra convulsa e contraddittoria età contemporanea.

Per celebrare il millecinquecentesimo compleanno del libro di Ursicino, la Biblioteca che da quindici secoli lo conserva ha deciso di condividere con la città i suoi cimeli più preziosi: i libri manoscritti che sono stati protagonisti dell’incrocio di culture del VI secolo, del secolo di Ursici-no.

Se vi chiedete il perché di questa scelta, la risposta è sem-plice. La ragione è che in qualche modo, alcuni più altri meno evidenti, per la nostra civiltà tutto comincia da qui. E quella che qui si offre è la possibilità di accostarsi a quei pilastri, di osservarli da vicino e di sperimentare come il rapido mutare della nostra società sia solo un disordinato e vorticoso mulinare attorno a questi punti fermi.

Massimiliano Bassetti, Marco Stoffella

VIATICO PER LA MOSTRA

Massimiliano Bassetti, Marco Stoffella

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il vi secolo: un po’ di storia

L’insediamento dei barbari all’interno del mondo roma-no si realizzò attraverso la formazione di nuovi regni fondati da eserciti federati romani di origine barbarica, coordina-ti da Bisanzio. Tramite questi regni l’imperatore d’Orien-te mantenne il controllo dei territori imperiali, e con essi il controllo ideale dell’Occidente. Nel 476 un generale di origine barbarica, lo sciro Odoacre, depose l’ennesimo im-peratore d’Occidente Romolo Augustolo: senza nominare un successore, egli inviò le insegne imperiali all’imperatore d’Oriente Zenone. Acclamato rex dalle sue truppe, definito patricius dai Romani, Odoacre trovò il sostegno della classe dirigente romana – il ceto dei senatori – e assicurò all’Italia un periodo di pace e di stabilità (476-489). In quegli stessi decenni gli Ostrogoti, dopo avere attraversato i Balcani alla guida del loro rex e magister militum (generale) Teoderico ed essersi stanziati come fe-derati dell’impero in Pannonia (attuale Ungheria), mossero alla volta dell’Italia con il sostegno dell’imperatore Zenone. Nel 489 sconfissero Odoacre sull’Adda e cinsero d’assedio Ravenna, la capitale, che cadde nel 493. Dopo avere guida-to dal 471 gli Ostrogoti nel loro percorso di avvicinamento alla penisola, Teoderico fu acclamato rex in Italia. Al contempo ne resse le sorti come patricius, rappresentante legale del potere imperiale: controllò la struttura militare con i suoi guer-rieri e lasciò al Senato e alle famiglie latifondiste romane il controllo delle funzioni civili. Nonostante la ripartizione delle competenze tra Romani e Goti, Teoderico cercò di mantenere in vita l’amministrazione imperiale all’interno di una convivenza armoniosa. Un ostacolo alla fusione fu però giocato dalla diversa fede religiosa, ariana per molti Ostro-goti e per la stessa famiglia degli Amali di cui era espressio-

ne Teodorico, cattolica per i Romani. Non dobbiamo però immaginare i Goti solo come guerrieri: grazie soprattutto alla formazione del clero di fede ariana, essi raggiunsero un livello di cultura scritta assai elevato e non paragonabile a quello i altri gruppi militari conquistatori dell’occidente. Anche il dualismo Romani-Goti è il risultato dell’ideologia formulata dalla corte teodericiana e tramandata dagli scritti raccolti nelle Variae da Cassiodoro, il ministro più famoso del re, più che un reale dualismo sociale. Proprio grazie a Cassiodoro, autore di una perduta storia dei Goti ripresa dalla successiva opera di Giordane, si tentò di inserire le vi-cende dei sostenitori di Teoderico all’interno della storia e

della civiltà romana, da difendere per poterne godere i benefici. In questo contesto fu essenziale il sup-

porto di gran parte del ceto senatorio, dalle cui file uscì anche l’aristocrazia religiosa fa-

vorevole al nuovo regime: il risultato fu la prosecuzione del periodo di pace e di sta-bilità iniziato sotto Odoacre.

La politica di Teoderico, improntata all’imitazione del potere imperiale, si concretizzò nell’indossare la porpora e nel rilanciare alcune città come sedi re-gie. Furono così restaurate e ampliate le

mura di Pavia e di Verona: qui e a Raven-na furono ristrutturati i palazzi, un tempo

sedi delle autorità romane, e ora destinati ad accogliere la corte itinerante del re. A Ravenna

furono costruite nuove chiese e a Roma furono re-staurati numerosi edifici; nella stessa Ravenna Teoderico si fece seppellire in un apposito mausoleo all’interno di un sarcofago di porfido, la pietra riservata agli imperatori (526). Per quanto concerne Verona è soprattutto l’Anonimo Vale-siano, che scrisse nel corso del VI secolo, a informare che la città fu favorita dal sovrano goto: oltre alle mura e alle terme, qui Teoderico provvide all’edificazione di un palatium posto

Viatico per la mostra

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nelle immediate vicinanze del teatro romano. A conferma del legame speciale tra il re goto e Verona, il vescovo di Pavia Ennodio nel suo panegirico lodò il legame tra Teoderico e la città scaligera, definendola ‘Verona tua’. Dal punto di vista della politica internazionale Teoderico costruì una rete di alleanze, sposando una sorella del re dei Franchi Clodoveo e dando a sua volta in sposa le proprie figlie ai sovrani dei Vi-sigoti, Burgundi, Turingi e Vandali. Funse infine da referente della chiesa romana, scismatica fino al 519 rispetto a quella

orientale e in polemica con l’imperatore Zenone a causa della sua promulgazione dell’Henotikon.

Nei circa quarant’anni che vanno dalla morte dell’impe-ratore Zenone (491) all’ascesa al trono di Giustiniano (527), l’impero romano d’Oriente fu scosso da lotte interne ed esterne che non consentirono un intervento diretto in Oc-cidente. Tuttavia il fragile equilibrio raggiunto da Teoderico crollò nel momento in cui Bisanzio attuò un cambio di po-litica religiosa e, così facendo, ottenne il sostegno della classe

Massimiliano Bassetti, Marco Stoffella

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senatoria: la scomparsa di Teoderico nel 526 e il conflitto tra le aristocrazie gote per le modalità di trasmissione del po-tere regio, infine, segnarono l’interruzione della successione ereditaria della carica di re.

La riaffermazione piena dell’autorità imperiale nel Mediterraneo si concretizzò con la politica di Giusti-niano, che contrastò i regni barbarici anche sul piano religioso avversandone l’arianesimo, mentre in orien-te cercò di ridurre il dissidio religioso tra ortodossi e monofisiti con la condanna dell’eresia dei Tre capitoli

nel 553, decisione che provocò un vivissimo malcon-tento soprattutto in Italia. Fautore di una restaurazio-

ne del sistema fiscale imperiale, sotto la guida del giurista Triboniano Giustiniano diede vita in

soli cinque anni (528-533) alla codificazione del diritto romano nel Corpus iuris civilis, sulla cui base l’intero occidente nel corso del XII secolo riprese lo studio e l’elaborazione del diritto. Raggiunto un accordo con la Persia sasanide nel 532, a partire dall’anno succes-sivo Giustiniano promosse delle campagne contro i Vandali riconquistando il Norda-frica e la Sicilia, e diede inizio alla lun-ga e sanguinosa campagna di riconquista dell’Italia controllata dai Goti (535-553). Con la Prammatica sanzione (554) Giu-stiniano estese all’Italia la validità delle leggi e degli editti già in vigore in Orien-te, pretendendo inoltre di riscuotere le imposte arretrate.

Nonostante le vittorie militari di Giu-stiniano, in molte regioni mediterranee la situazione rimase instabile; nei Balcani, inoltre, si affacciarono nuovi popoli pronti a insediarsi all’interno dei confini dell’im-pero e a colmare il pesante declino demo-

grafico; Giustiniano tentò di contenere la loro avanzata con una serie di fortificazioni predisposte lungo il Danubio. Tra questi vi erano i Longobardi, stanziatisi in Pannonia e in parte dell’attuale Slovenia. I Longobardi, che già avevano combattuto in Italia nelle fila dell’esercito bizantino, incal-zati dagli Avari si mossero verso la nostra penisola nel 568 o 569 attraverso le Alpi Giulie sotto la guida del loro re, Alboi-no. L’arrivo dei Longobardi non solo segnò una svolta fon-damentale nella storia d’Italia, ma avviò anche un processo di allontanamento di Bisanzio, la Roma d’Oriente, dall’Oc-cidente dove si rafforzavano i regni barbarici. L’entrata in scena dei Longobardi e l’allontanamento di Bisanzio dimo-strano con chiarezza che i rapporti di forza nelle regioni un tempo parte dell’impero erano ormai sul punto di essere riscritti radicalmente. Nuovamente Verona venne a trovarsi al centro della scena politica: re Alboino la scelse come capi-tale del nuovo regno per la sua centralità rispetto ai territori conquistati. Il palazzo che era stato di Teoderico fu il teatro in cui Paolo Diacono, l’autore della Historia Langobardorum che racconta delle vicende del popolo dei Longobardi, mise in scena l’uccisione di re Alboino per mano della moglie Rosmunda in una congiura con l’esarca di Ravenna. Con la conquista di Pavia, che divenne la nuova capitale, Verona mantenne un ruolo politico centrale per tutto il periodo longobardo come sede stabile di un duca.

m. s.

il vi secolo: gli eventi culturali

Se prendiamo come riferimento la cultura in senso am-pio, il VI secolo è quasi perfettamente spaccato in due parti. Più o meno alla metà di quei cento anni finisce l’Antichità e inizia il Medioevo. Possiamo assumere a emblemi della prima metà del secolo, ancora radicata nell’antichità classica, due grandi autori come Boezio (475 ca.-525 ca.) e Cassio-doro (485 ca.-580 ca.). Sono entrambi uomini di estrazio-

Viatico per la mostra

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ne nobiliare, con interessi politici, filoso-fici, scolastici e didattici che, solo tardi, si volgeranno in un itinerario personale di tipo cristiano. Entrambi, forti della propria identità “romana”, partecipano quali mas-sime cariche civili al progetto del re goto Teoderico di costituire una federazione di popoli germanici in Occidente (Franchi, Vandali, Ostrogoti e Visigoti) per liberare la parte occidentale del fu impero romano dal controllo dei legittimi eredi di quello stato, gli imperatori di Bisanzio. Entrambi, sia pure in modi diversi, pagano le ama-re conseguenze connesse al proprio ruolo, quando il progetto del re goto si esauri-sce. Boezio finisce imprigionato e ucciso per ordine dello stesso Teoderico, che ne sospettava simpatie filobizantine. Durante la carcerazione quel serissimo traduttore di Aristotele lascia come testamento personale la sua opera più toccante: la Consolazione della Filosofia.

Cassiodoro sopravvive (e a lungo: muore quasi cente-nario) al fallimento teodericiano, ma è costretto a un esilio che lo porta prima a Ravenna, poi a Bisanzio e, da ultimo, a finire i suoi giorni in un vasto possedimento familiare in Calabria, chiamato Vivarium, dove raccoglie e alimenta una vasta biblioteca, si dedica al servizio di Dio con lo studio e la preghiera, e scrive le sue ultime opere. Tra esse una spiega-zione delle lettere di Paolo, degli atti degli apostoli e dell’A-pocalisse (si intitola Complexiones) conservataci da una sola copia: quella che si può ammirare in questa mostra.

Simbolo dei secondi cinquant’anni di quel secolo è la grandiosa figura di Gregorio Magno (540 ca.-605). Ram-pollo di una famiglia della classe senatoria romana, egli trova la sua dimensione pubblica come vescovo della chiesa di Roma (590-605), avamposto bizantino in Italia insieme a

Ravenna, nei difficili anni dell’assedio dei Longobardi. La sua produzione letteraria, di tipo esegetico (la Spiegazione secondo la morale del libro di Giobbe), omiletico (le Quaranta omelie sui Vangeli), pastorale (la Regola pastorale) e agiografico (i Dialoghi), fa di lui il primo intellettuale del Medio-evo, ormai di stampo schiettamente cri-stiano.

Il “best seller” tra le opere di Grego-rio Magno (e poi di tutto il medioevo) è il libro dei Dialoghi: una rassegna di san-ti uomini da cui trarre esempio. Uno tra i protagonisti dell’opera è un giovane di buoni studi e di buona famiglia di tradi-zione romana che, alla metà del secolo (e forse proprio durante l’avvio delle guerre greco-gotiche), scrive una Regola (530-540) per la vita comunitaria di quelli che,

come lui, stanno scegliendo di abbandonare il mondo per ritirarsi in preghiera. Quel giovane è Benedetto da Nor-cia (480 ca.-547). Questa Regola — e l’Ordine che vi si identifica da subito, quello benedettino — riesce a facilitare la diffusione anche in Occidente del monachesimo, un fe-nomeno religioso fino a quel momento prevalentemente orientale. Il monachesimo occidentale si impone così sia come scelta spirituale sia come “alternativa” intellettuale. Ora, soprattutto negli ambienti monastici, si afferma e ha modo di diffondersi in molte copie una letteratura che ha come veri temi centrali la fede e la mistica.

La fede cristiana, appunto. Nel VI secolo il cristianesi-mo vive una delle sue stagioni più tormentate. Il dogma affermato dal concilio di Nicea, sotto la presidenza dell’im-peratore Costantino il Grande (306-337), continua a essere minacciato dall’eresia che lo stesso concilio aveva tentato di estirpare, quella ariana, secondo la quale (ma molto ba-

Massimiliano Bassetti, Marco Stoffella

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nalizzando) Cristo, in quanto creato dal Padre, non sarebbe eterno come Dio. Dal V secolo correva anche, come estre-ma reazione all’arianesimo, una forma di cristianesimo detto “monofisita”, secondo il quale, invece, Cristo avrebbe par-tecipato di una sola natura: quella divina. L’arianesimo è una vera spina nel fianco del cristianesimo “ufficiale”, rispettoso dei decreti dei concili di Nicea (325) e Calcedonia (451). Gli Ostrogoti, prima, e i Longobardi, poi, abbandonano la propria religione pagana, prima dell’arrivo in Italia, abbrac-ciando proprio il cristianesimo nella sua versione ariana. Presso il regno dei Goti, poi, l’appartenenza religiosa è un ulteriore elemento di distinzione sociale: ariani e dediti alle funzioni militari i germani, cattolici e relegati alle funzio-ni amministrative i romani. Più sfaccettata è la situazione presso i Longobardi. Dopo gli esordi ariani, già durante il regno di Agilulfo (591-615) si registra una cauta apertura del re verso il cattolicesimo. La regina Teodolinda (bavara di nascita, quindi cattolica) si avvicina, invece, alla dottrina dei Tre Capitoli, scismatica rispetto al cattolicesimo ufficiale e condannata dall’imperatore Giustiniano. Sono costanti tra la popolazione, tuttavia, riemersioni dell’antica religione pa-gana. Una situazione molto frastagliata: basti pensare che il ripudio ufficiale dell’eresia ariana in favore del cattolicesimo si ebbe soltanto per iniziativa del re Ariperto (653-661).

Rientra a pieno titolo tra le grandi iniziative culturali del VI secolo, anche se pensata con fini essenzialmente politi-co-amministrativi, la grande opera di riordino del diritto e della giurisprudenza romani ordinata dall’imperatore Giu-stiniano (527-565): tra il 529 e il 534 un piccolo gruppo

di giuristi, guidato dal “ministo della giustizia” Triboniano, realizza il Corpus iuris civilis, che il medioevo riscoprirà nel XII secolo e conoscerà come Codex Iustinianus, facendone la pietra di fondazione dei diritti nazionali moderni. Com-pongono questa raccolta il Codice vero e proprio (le costitu-zioni imperiali antiche), il Digesto (con una scelta ragionata della giurisprudenza romana classica), le Istituzioni (una sor-ta di manuale in quattro libri per l’insegnamento del diritto civile, organizzato secondo il modello delle Istituzioni del giurista Gaio) e le Novelle (la grande compilazione delle leg-gi emanate da Giustiniano). Di questa formidabile impresa culturale e politica, che ha avuto un’influenza decisiva sui secoli a venire, non resta tuttavia che un pugno di fram-menti dei materiali originali. In questa mostra se ne possono ammirare due pezzi straordinari: i soli frammenti giunti sino a noi del Codex e delle Istituzioni di Gaio.

Rispetto alla spaccatura verticale tra Antichità e Medio-evo, il sesto secolo è dunque attraversato anche da divisioni “orizzontali” di tipo etnico, religioso e culturale, intestate ai diversi protagonisti del secolo: Romani, Goti, Bizantini, Longobardi. Sotto il profilo della storia culturale, insomma, il VI secolo ci appare molto più di altri come un centennio segnato dallo “scontro di civiltà”. I libri manoscritti che si potranno osservare in questa mostra sono stati sia il campo di battaglia sia le armi di questo scontro. Ciascuno di essi è stato prodotto secondo scopi e con funzioni specifiche dalla fazione che intendeva servirsene. Eppure, usciti dalla fase più cruda dello scontro, essi sono stati anche — nel loro insieme, idealmente messi uno accanto all’altro e non

uno contro l’altro — il punto d’incontro, il sostegno, il gradino per superare le mura difensive di ciascun partito e per edificare su di esso l’idea di κοινὴ europea appena di là da venire.

m. b.

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Introduzione

In questa sede mi soffermo sui vescovi che coprono gli anni che vanno dalla costituzione di una gerarchia vescovile a Verona fino al declino della dominazione ostrogota, pur presentando qualche cenno di storia della Chiesa veronese e facendo riferimento nell’appendice al tema dei 36 o 38 santi vescovi di Verona.

Anche una presentazione sintetica dei vescovi di Vero-na dal sec. IV al VI non può prescindere dalla conoscenza della cronotassi dei vescovi di Verona, cioè della loro serie cronologica, che risulta peraltro difficile da stabilire con si-curezza e, per più di qualche caso, impossibile. A tale propo-sito sono indispensabili i cataloghi dei vescovi veronesi, dai primi fino ai più recenti. Tra questi i due elenchi forniti dal Velo di Classe (765 ca), in ordine cronologico per i primi 35 vescovi, e dal Versus de Verona (796-805) per i primi otto, con l’aggiunta di Mauro e Annone. Il Velo di Classe (fig. 1) è un prezioso tessuto ordinato dal vescovo sant’Annone per coprire l’urna dei santi Fermo e Rustico nella solen-ne traslazione che egli ne fece il 27 marzo 765, poi passato nel monastero di Classe a Ravenna (di qui il nome), ora al Museo Nazionale di quella città. Esso presentava i nomi e le effigi di 43 vescovi veronesi, dal primo fino a sant’An-none (ca 750-80) escluso. Di essi sono leggibili attualmente 35. Non sono quindi tutti i vescovi di Verona, né sono tutti santi. Più in generale, per questa ricerca non mancano altri strumenti bibliografici: le storie di Verona e della sua Chiesa,

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I VESCOVI DI VERONA DAL IV AL VI SECOLO

fig. 1

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la serie dei vescovi di Verona data dal prof. Giovanni Battista Pighi nel 1977, il Catalogus sanctorum pubblicato dal Segala nel 1986, le fonti e gli studi di Liturgia veronese, studi storici e agiografici, intorno ai primi otto vescovi, a san Zeno e ai suoi successori per il periodo tardo antico e nel periodo medioevale fino a sant’Annone.

A una discussione storico-critica, che risulterebbe com-plessa e difficile da seguire nelle argomentazioni, si preferisce il ricordo del loro nome con qualche cenno più ampio per alcune figure nel contesto della loro storia e del culto loro attribuito, con le variazioni intervenute dalle prime fonti archeologiche e documentali - tra le quali grande valore hanno i codici liturgici più antichi - fino all’ultimo aggior-namento del Martirologio Romano.

Primo a Verona predicò il vescovo Euprepio

Quanto alla presenza di cristiani nell’Italia settentrionale del III secolo, è assodato che essi erano presenti solo nei centri più importanti, mentre la nuova fede non si sarebbe diffusa nelle campagne prima del IV o V secolo. Circa la dif-fusione del cristianesimo a Verona, l’importanza della cit-tà e i suoi contatti con Roma e le città vicine, tra cui Milano, Aquileia e Padova, possono suggerire delle ipotesi diverse, nell’ambi-to almeno del secolo III, quando l’ac-coglienza del messaggio evangelico diede luogo, in periodo anteriore alla pace costantiniana del 313, a una co-munità cristiana organizzata attorno a un vescovo.

Il Velo e i Versus concordano nel dare la seguente lista, relativa ai pri-mi otto vescovi: Euprepio, Dimidriano, Simplicio, Procolo, Saturnino, Lucillo, Cricino, Zeno. Tra i sette predecessori di san

Zeno, Lucillo, sesto della serie, trova riscontri storici precisi nel 343, mentre dei cinque precedenti non si hanno tracce nei documenti del tempo. Solo sulla base delle date testi-moniate per Lucillo è possibile collocare quindi il periodo coperto dai cinque precedenti episcopati tra la metà del III secolo, o meglio tra gli ultimi decenni di quello - comun-que prima della pace costantiniana - e gli anni Quaranta del secolo successivo.

Tra i primi otto vescovi sopra citati, il quarto, san Proco-lo, è presente nella posteriore e leggendaria Passio dei santi Fermo e Rustico, martiri africani del sec. III che in testi medievali furono attribuiti a Bergamo e a Verona. Assoluta certezza storica offre l’episcopato di san Lucillo, che inter-venne nel 343 al concilio di Sardica, ove si sottoscrisse con i 59 vescovi che difesero la fede nicena contro l’eresia ariana e fu ricordato anche in testi di sant’Atanasio e sant’Ilario di Poitiers. In ogni caso, Verona, con Milano, Aquileia, Pavia, Padova e Brescia, è una delle più antiche sedi vescovili della Decima Regio augustea o Venetia et Histria dioclezianea.

Ultimo vescovo prima di san Zeno, per il periodo intor-no al 357 fino al 362, fu san Cricino. La sua ricorrenza litur-

gica era celebrata il 30 dicembre. I Versus lo chiamano doctor e secondo il tardivo Chronicon Venetum del

doge e cronista Andrea Dandolo (1306-54) fu appunto «doctor egregius [qui] plura

preclara scripsit opuscula». Con ogni probabilità si tratta d’una spiegazione di quanto i Versus accennano. Purtrop-po, dei suoi scritti, niente ci giunse. Si deve arrivare a san Zeno per avere una testimonianza storica certa della cul-tura e della produzione letteraria dei

vescovi di Verona.Dove vivevano i primi vescovi vero-

nesi? I vescovi prezenoniani si ritrovavano con i primi cristiani in eventuali domus ecclesiae,

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cioè case private adibite a luogo di raduno della comunità cristiana, o avevano già degli edifici cultuali più specifici per la comunità? Non si hanno dati che permettano di rispon-dere a tale questione. Non si esclude tuttavia la possibilità che sulla riva destra dell’Adige, ai margini della civitas, una chiesa del tempo di san Lucillo sia stata preceduta da una casa privata. Nella sua seconda fase, tale chiesa, inserita in un sistema di annessi, tra i quali doveva tenere il primo posto il battistero, è testimoniata con certezza al tempo di san Zeno, che allungò, rialzò e abbellì il precedente edificio. Tra i suoi sermoni il De aedificatione domus Dei a Salomone (II, 6) - indi-cato come il più bel sermone zenoniano - sembra appunto riferirsi alla dedicazione di tale chiesa. Se per molto tempo tale sermone e un discorso di san Petronio – che esaltando san Zeno parla del «sacro edificio in cui si conservano le sue spoglie» – erano gli unici argomenti a sostegno della presen-za di una chiesa consacrata da san Zeno, con gli scavi di fine Ottocento e della metà del Novecento anche l’archeologia è venuta a confermare tali dati. Gli scavi sotto l’attuale chiesa di Sant’Elena hanno messo in evidenza, al di sotto dei resti musivi appartenenti a un edificio sacro posteriore, la pianta di un precedente edificio, più piccolo, che deve risalire all’e-poca prezenoniana.

San Zeno con la sua predicazione condusse Verona al battesimo

Dopo i primi sette pastori, a sviluppare, organizzare e guidare la comunità cristiana di Verona fu san Zeno, che «con la sua predicazione condusse Verona al battesimo». La città lo invoca come suo patrono principale annualmente il 12 aprile/21 maggio, e lo addita come insegna e simbolo delle tradizioni cristiane e civili veronesi. Secondo l’opinio-ne comune san Zeno fu d’origine africana e operò in epoca ambrosiana. La durata del suo episcopato sembra essere stata di circa 18 anni: dal 362 al 380 circa. Gli argomenti affrontati

nei suoi sermoni e altri esterni ad essi confermano l’ambro-sianità del periodo: sono essi la confutazione delle eresie del tempo, come l’arianesimo o quella sulla verginità perpetua di Maria; si aggiunga il fatto che il culto cristiano era libera-mente permesso in città, il culto degli idoli era relegato nelle campagne e un gran numero di neofiti riceveva a Pasqua il battesimo; lo attesta pure il cenno di sant’Ambrogio che in una lettera al vescovo Siagrio di Verona (ca 385-95) parla di una «giovane [Indicia] approvata dal giudizio di Zenone, di santa memoria, e santificata dalla sua benedizione».

Indubbiamente il ricordo migliore che san Zeno vesco-vo e patrono della Chiesa veronese ha lasciato sono i suoi 94 sermoni, detti anche trattati, raccolti dalle reportationes di tachigrafi e uditori, il che significa che anche allora a Verona c’era chi scriveva. Sono i più antichi sermoni noti di un pa-dre italico. Con essi san Zeno apre la serie dei padri latini e permette di formarci quasi una sintesi degli argomenti dot-trinali, liturgici e morali del tempo, precedendo Gaudenzio di Brescia e Cromazio di Aquileia. Dagli stessi sermoni, si possono trarre anche le scarne notizie che riguardano la bio-grafia del santo. I sermoni zenoniani, utilizzati verso la fine del sec. VII (tra il 680 e il 691) nell’Antifonario di Bangor, un manoscritto irlandese ora nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, tramandati da manoscritti veronesi e non, in diocesi e fuori, furono editi per la prima volta nel 1508 a Venezia. In seguito l’opera zenoniana ha conosciuto successivi perfezio-namenti critici, edizioni e traduzioni, fino al 2008-12.

Banditore della fede, san Zeno fu anche l’organizzatore della Diocesi di Verona che lo invoca come suo Patrono. Sant’Ambrogio lo ricordò come uomo di santa memoria, come ricordato, mentre san Petronio di Verona (425-50 ca) ne parlò in un discorso di 40 anni posteriore alla sua morte e il suo nome fu ben noto a san Gregorio Magno (590-604), che scrisse due secoli dopo. Il suo culto si diffuse a Verona e in molte località della diocesi, come anche in luoghi lontani da Verona, come Ravenna, sulle sponde del lago di Como

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e in diocesi di Milano, a Campione, nella Svizzera e nella Germania meridionale. Tutti questi elementi testimoniano il rilievo che san Zeno ebbe nel costituire la comunità cri-stiana veronese, che col tempo avvolse la sua taumaturgica figura in leggende, raccolte e spigate negli anni sessanta del secolo scorso dal professor Pighi.

Ancora, sotto l’aspetto culturale, se l’interpretazione di un’affermazione di san Zeno relativa ai suoi collaboratori: «Operarii, qui mecum sunt» (I, 41,3) non fosse troppo esten-siva, si potrebbe pensare che costoro facessero vita comu-ne con il vescovo. Poteva essere questo al tempo stesso un primo nucleo di quella schola sacerdotum che si sviluppò dal secolo VIII-IX e proseguì nel secolo XV nella Scuola Acco-litale della cattedrale, centro di studio, cui era connessa la Bi-blioteca Capitolare coi suoi preziosi codici. Uno di questi, il cod. lv (53), contenente nella parte palinsesta un frammento dei fasti consolari e il testo della Didascalia Apostolorum, fu scritto nel secolo V (ca. 490), ma non è sicuro che sia stato scritto a Verona. Se i fatti accennati portano forse a qualche tempo successivo, resta acquisito tuttavia che san Zeno si preoccupò senza dubbio di radunare accanto a sé un grup-po di persone adatte a servire la comunità cristiana: studio e attività cultuale-pastorale dovettero essere la base della loro formazione, come testimonianze posteriori confermeranno.

La venerazione e il culto di san Zeno, infine, si esplica-rono sotto vari titoli: confessor, patronus, martyr, e in forme e tradizioni molteplici. A ragione perciò la sede episcopale di Verona si richiama al santo patrono, qualificandosi come Zenonis Cathedra, a indicare, con tale espressione, l’ufficio episcopale di san Zeno e dei suoi successori.

Nelle tempeste che afflissero i nostri padri

Dopo la sconfitta di Adrianopoli in cui nel 378 trovò la morte l’imperatore Valente nella battaglia conto i Visigoti, il periodo dal 380 al 493, che dalla morte di san Zeno si estese

fino all’inizio del regno di Teodorico, fu agitato politica-mente e risultò sconvolto per le iterate pressioni e migra-zioni dei popoli germanici e per la progressiva decadenza dell’Impero romano. Ciò portò al dissolvimento della strut-tura statale e a una situazione nella quale i vescovi restavano spesso l’unica autorità riconoscibile e riconosciuta, anche se la Prammatica Sanzione, che prevede tale ruolo per i Ve-scovi, verrà emanata il 13 agosto 554. Nelle migrazioni di quegli anni il territorio veronese fu prima attraversato dai Visigoti e quindi dagli Unni di Attila. Partiti verso l’ovest nel novembre 401, nel 402 i Visigoti di Alarico furono vinti da Stilicone (395-408) prima a Pollenzo e poi presso Verona. Ciò ritardò di poco il saccheggio di Roma, avvenuto nel 410. Quarant’anni più tardi, nel 452, Attila invase l’Italia e assediò Aquileia, costringendola alla resa. La fine di Aqui-leia provocò l’accrescimento dell’importanza strategica di Verona, che cessava d’essere una modesta città di provincia, dedita al commercio di transito, per assumere il più oneroso ruolo di ultimo baluardo d’Italia verso oriente. Verona usciva dall’ombra e diventava verso la fine del secolo una delle città teodoriciane.

Anche dal punto di vista ecclesiastico intervennero delle variazioni. La Chiesa veronese, sottoposta fino all’inizio del sec. V alla giurisdizione metropolitana di Milano, passò, col trasferimento dell’Impero d’Occidente a Ravenna nel 402, ad essere suffraganea di Aquileia, divenuta sede metropolita-na e attestata tale nel 442, solo dieci anni prima della distru-zione della città provocata da Attila. Nel concilio di Milano del 451, fra i 16 vescovi sottoscrittori, mancano - eccetto quelli di Brescia e di Cremona, città situate nell’Oltremin-cio - i nomi dei suffraganei della Venetia et Histria, compreso quindi anche quello di Verona. Il distacco era avvenuto ed era definitivo. Quale era poi l’estensione delle terre soggette alla giurisdizione dei vescovi di Verona? Per una risposta ap-propriata a tale domanda, va tenuto presente che l’ampiezza attuale della diocesi veronese, che s’inoltra nella provincia

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bresciana, risente ancora dell’antica centuriazione romana. Ciò fa ritenere che l’estensione attuale della diocesi risalga al sec. V. Di tale prolungamento verso Brescia si ha indizio nella chiesa di San Zeno presso Lonato, come anche dalla diffusione alla Valtenesi del culto di san Procolo, che potreb-be risalire al sec. V o al VI.

Intanto si verificava la rapida conversione delle masse dal paganesimo al cristianesimo, fatto di cui si rallegrava anche Gaudenzio di Brescia, esprimendo la sua soddisfazione. Il passaggio al cristianesimo non avvenne però senza contrasti, come prova a Verona l’episodio di resistenza pagana avvenu-to tra il 379 e il 383. Favorita comunque anche dalle decisio-ni imperiali, culminate nel riconoscimento del cristianesimo come religione di stato il 27 febbraio 380 da parte di Teo-dosio, la Chiesa andò affermandosi, interessando non solo la città, ma progressivamente anche il suo territorio. Se non del sec. III, furono certamente del IV i primi edifici cristiani sorti nell’ansa dell’Adige, dov’era la chiesa zenoniana, segui-ta da un’altra più grande, detta postzenoniana, sull’area tra la cattedrale attuale e l’Adige. Al sec. V risalgono, oltre le mura cittadine, l’edificio sacro dei Santi Apostoli, l’attiguo sacello o oratorio di Santa Teuteria, la chiesa cimiteriale di Santo Stefano, la chiesa dei Santi Fermo e Rustico e il martyrium o sacello dei Santi Nazario e Celso (sec. VI), pure su area cimiteriale. Con queste costruzioni religiose e altre anco-ra, i veronesi procedevano fra Tardoantico e Medioevo alla conquista cristiana dello spazio extraurbano, caratterizzando dai christiana tempora fino ad oggi il volto della Verona sacra. Sul territorio però persisteva tenace il paganesimo, se san Zeno deplorava in un suo sermone l’indifferenza di alcuni ricchi cristiani che, possedendo dei fondi in campagna, vi lasciavano sussistere e custodivano le are di divinità pagane. La penetrazione cristiana anche sul territorio si presentava quindi un compito che avrebbe richiesto ancora qualche secolo e l’opera di numerosi vescovi e dei loro collaboratori.

Dal 380, anno presunto della morte di san Zeno, fino

al termine del secolo V la cronotassi dei vescovi veronesi registra una decina di nomi, intorno ai quali restano però pochi dati certi. Fra i sottoscrittori degli atti del concilio di Aquileia del 3 settembre 381, promosso da sant’Ambrogio, presieduto da Valeriano di Aquileia e frequentato da 32 e più vescovi dei quali 13 dell’Italia settentrionale, non appare il vescovo di Verona. A confermare la condanna dell’arianesi-mo in Occidente e specialmente nell’Illirico erano presenti invece i vescovi di città vicine, come ad esempio Abbondan-zio di Trento e Filastrio di Brescia: segno che la sede verone-se era forse vacante, oppure che il vescovo Agabio o Agapito, il cui episcopato viene assegnato al 380-85, non vi partecipò?

I nomi dei successori di san Zeno sono quelli dell’appena citato sant’Agapito o Agabio, celebrato un tempo il 4 agosto e di san Lucio o Lucidio, celebrato il 26 aprile, presentato dalla tradizione conservata dal Martirologio Veronese del Valier come tutto dedito allo studio e all’orazione per poter erudire il suo popolo. Segue il vescovo Siagrio, noto per l’affare della vergine Indicia, nel quale intervenne sant’Ambrogio, e non computato tra i 36 santi vescovi veronesi. Segue san Lupicino, celebrato il 22 maggio. Quanto ai santi Massimo, Luperio e Servolo, celebrati un tempo, rispettivamente il 29 maggio, il 15 novembre e il 26 febbraio, i loro nomi sono assenti dal Velo di Classe, e proprio per questo, sembrano doversi espungere dal catalogo dei vescovi di Verona. Per quel che riguarda in particolare san Massimo, egli fu sicuramente vescovo di Emo-na (Lubiana), venendo più tardi reputato come vescovo di Verona. Va inoltre tenuto presente che per i vescovi successivi a san Lupicino e fino a san Clemente compreso (fine secoli IV-VII), non si può garantire l’ordine cronologico dei nomi. I problemi di cronotassi di questi vescovi, come di altri di secoli successivi, specialmente dell’XI, restano aperti.

Con san Petronio, celebrato un tempo il 6 settembre e il cui episcopato viene collocato tra il 425 e il 450 si ha una nuova attestazione di notevole valore culturale. Senza entrare in questa sede sulla discussa identificazione del Pe-

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tronio veronese e di quello bolognese, ricordiamo che a san Petronio, definito «uomo di una certa singolare eloquenza», si deve il sermone In natale santi Zenonis. Dal sermone tra-spare che Petronio aveva udito la predicazione di san Zeno, anche se in misura minore rispetto agli uditori, mentre vi viene sottolineata l’accresciuta fama del santo. Il nome di san Petronio è connesso ancora alla storia della chiesa di Santo Stefano, edificata ai tempi suoi e certamente non sen-za la sua opera. Al suo successore sant’Innocenzo, celebrato il 14 marzo, ed espunto dopo di lui san Gaudenzio, che fu vescovo di Bettona in Umbria, seguì il vescovo Montano, non annoverato tra i santi forse per la sua negligenza nel combattere l’eresia di Eutiche, come afferma Gian Giaco-mo Dionisi. Durante il suo episcopato avvenne l’incontro, presso Arilica, l’odierna Peschiera, della delegazione romana capeggiata da san Leone Magno con il barbaro re Attila, che fu indotto a ritirarsi in Pannonia. Si era nel 452. L’episcopato

di san Valente, attestato dal Corpus Inscriptionum Latinarum per l’anno 531, sembra a questo punto, nel quale lo colloca il prof. Pighi con il nome di Valenzio, eccessivamente anticipa-to e continua a costituire un problema di difficile soluzione. Espunto quindi san Cerbonio, che risulta vescovo di Po-pulonia-Massa Marittima e non di Verona, seguì il vescovo san Germano, che morì intorno al 475 ed era venerato il 10 ottobre. Il successore di san Germano, il vescovo san Felice, a causa dei disordini provocati prima dagli ariani e poi da-gli Eruli, si ritirò secondo la tradizione in alcune grotte del colle sovrastante la città, vivendovi per alcuni anni nascosto insieme con qualche fedele. Morto e venerato un tempo il 19 luglio, in suo onore fu eretta sulle Torricelle una chiesa, detta appunto di San Felice. Durante il suo episcopato, nel 476, cadde l’Impero Romano d’Occidente e in Italia suben-trò il Regno degli Eruli, con Odoacre (476-493).

Se le chiese di San Procolo e di Santo Stefano furono

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chiese cimiteriali per i vescovi veronesi dei primi secoli, è convinzione oggi prevalente tra gli storici che la sede della chiesa madre sia stata sempre nel-lo stesso luogo, cioè nella zona in cui ancora oggi si innalza la cattedrale. La presenza di costruzioni nell’area del duomo, di Sant’Elena e del canonicato ha attirato in maniera crescente l’attenzione di ar-cheologi e studiosi che hanno potuto così meglio localizzare e illustrare le due chiese sorte in epoca zenoniana e postzenoniana. La chiesa di cui parla san Zeno fu ben presto rinnovata e ampliata in un secondo edificio. Anche tale iniziativa è attribuibile a san Petronio che vi accenna nel Sermo in nata-le sancti Zenonis. Nel fervore di devozione maria-na caratteristico dell’epoca, la grande chiesa, eretta parzialmente sullo spazio della precedente verso la metà del V secolo, venne dedicata probabilmente alla Madre di Dio, con tale titolo proclamata nel concilio di Efeso del 431.

Pastori, sepolti in loco pien d’onore

Ci avviciniamo a grandi passi al 517, anno in cui fu promulgata la Lex Romana Burgundiorum, qui ri-chiamata solo per coincidenza cronologica. Sempre al 517 è fatta risalire la capitolare tavola d’avorio del console orientale Anastasio. Più precisamente, la data del 1° agosto 517 costituisce il motivo delle presenti celebrazioni tenute nella Biblioteca Capitolare in cui ci troviamo. Vale forse la pena di esplicitare perciò la cronologia del primo quarto di secolo di cui quella data fa parte.

Tra le Chiese di Roma e CP era in corso lo scisma acaciano (489-519), causato dall’Enotikón (482), pro-fessione di fede a sapore monofisita anticalcedonese, preparata dal patriarca Acacio e imposta dall’impera-

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tore Zenone nel 482; lo scisma sarebbe durato fino al 519, quando vennero ristabiliti i rapporti tra le due Chiese. Nel-la primavera del 507 ebbe luogo la battaglia di Vouillé tra Franchi e Visigoti, guidati rispettivamente da Clodoveo e da Alarico II, in seguito alla quale i Visigoti furono costretti a spostarsi in Spagna. Nello stesso anno 507, Teodorico, re d’I-talia dal 489/93 al 526, il quale dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476 e il regno di Odoacre (476-93), perseguiva il progetto di un’alleanza tra Romani e Visigo-ti, decise di sostenere il papa Simmaco nello scisma sorto tra Simmaco e Lorenzo nel 498/99. Dal 1° settembre 506, anno d’inizio della sua prima opera, le Orationes giovanili in onore di Teodorico, e fino al 511, era questore del sacro Palazzo Aurelio Cassiodoro (ca 490-585), che a tale alleanza culturale e alla sua realizzazione avrebbe sempre creduto. Intorno al 507 Severino Boezio (ca 480-525) scriveva il De institutione musica distinguendola in mondana, umana e stru-mentale. Nel 512 Teodorico controllava l’intera Italia, esclu-so il capo Lilibeo presso Marsala, rimasto in mano ai Vandali. I territori controllati da Teodorico si estendevano allora alla Dalmazia, Svevia, gran parte della Rezia, al Norico, Panno-nia, Provenza e, indirettamente alla Spagna, dov’era reggen-te il nipote Amalarico. Nell’ambito ecclesiastico, nel 513 fu eletto vescovo di Pavia il fecondo scrittore Ennodio, detto appunto di Pavia, e il 20 luglio 514, morto papa Simmaco, fu eletto il papa Ormisda che avrebbe portato al superamento dello scisma acaciano il 28 marzo 519. Nel frattempo, nel 515, Amalasunta, figlia di Teodorico sposò Eutarico spagnolo, cui era promessa la successione in Spagna. Fino all’anno del suo futuro consolato, nel 519, sarebbe giunta in seguito la com-posizione della Chronica scritta da Cassiodoro, opera che va da Adamo fino ad Eutarico, celebrato in quell’opera. Intanto, nel 518, a Costantinopoli, morto l’imperatore Anastasio I, fu acclamato Giustino, che riconobbe Calcedonia superando il monofisismo dell’Enotikón. Nel 523, morto Ormisda, gli successe il papa Giovanni I. Cresciuta intanto la tensione

tra Costantinopoli e Ravenna, Teodorico, ormai vecchio e sospettoso, fece giustiziare nel 524 Albino Cecina accusato di complottare con Bisanzio contro il re ostrogoto. Nel 525 fu la volta della morte decretata per Boezio, che in carcere scrisse il De consolatione Philosophiae, e di Simmaco suo suo-cero. Nello stesso 525 – notizia più consolante – Dionigi il Piccolo, introdusse nella cronologia la data della nascita di Cristo, per cui da allora il tempo si divide in tempo prima e dopo Cristo. L’anno successivo, nel 526, il papa Giovanni I, tornato da Costantinopoli, dove era stato inviato da Teo-dorico per trattare con Giustino il tema delle chiese ariane, e incarcerato da Teodorico che giudicò insoddisfacente il risultato del viaggio, morì a Ravenna il 18 maggio. Il 30 agosto morì anche Teodorico. Gli successe Atalarico, figlio di Eutarico († 522) e di Amalasunta, che gli fece da reg-gente. Iniziata prima del 526, Cassiodoro stava componendo l’Historia Gothorum, conclusa nel 533 (secondo altri era stata composta già tra il 519 e il 522), andata perduta e nota attra-verso la Getica o Storia dei Goti di Iordanes. Giunto a questo punto, concludo il cenno fatto ai fatti politici e religiosi e all’intreccio di questi con le alcune creazioni culturali del tempo.

Ritornando a Verona, nove anni prima della morte di Te-odorico, il 1° agosto 517, Ursicino, lettore della Chiesa ve-ronese, essendo console Agapito in Occidente e il già citato Anastasio in Oriente, firmava il cod. xxxviii (36). Com’è noto, Verona ebbe un certo beneficio dall’avvento di Teodo-rico, che la scelse come una delle sue residenze, dotandola di palazzo, acquedotto, terme e mura. Verona crebbe anche demograficamente per il sorgere di Falsorgo tra l’Arena e porta San Zeno (poi Borsari) e per il costituirsi nella sinistra dell’Adige della città gota, tra castel San Pietro, Santo Stefano e San Giovanni in Valle, luogo d’insediamento del presidio militare e della popolazione gota non combattente. I Goti risiedevano anche sul territorio, nella zona di San Floriano, a Gossolengo (Bussolengo), a Mongodi di Sommacampagna

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e quasi certamente a Villafontana. I nuovi arrivati erano però ariani o semiariani, e quindi difficil-mente omologabili alla popolazione locale. Come accennato, durante il periodo teodoriciano la vita cittadina si avvantaggiò indubbiamente per la pre-senza della corte, ma ne ricevette anche qualche contraccolpo in ambito religioso. Ciò fu dovuto, già nel periodo iniziale del regno, alla questione del citato scisma tra papa Simmaco e l’antagonista Lorenzo, che coprì gli anni dal 498 al 507 e nel quale Teodorico ebbe un contegno non sempre chiaro. Il contrasto si acuì sul finire del regno di Teodorico con la già citata uccisione di Albino Cecina, Severino Boezio e Simmaco. Questi epi-sodi e altri ancora, come l’abbattimento dell’absi-de di Santo Stefano in Verona per la costruzione delle mura teodoriciane, alimentarono la leggenda di Teodorico di Verona (Dietrich von Bern), re bar-baro e ariano, rapito dal diavolo e inabissato nel-lo Stromboli. L’arianesimo persisteva a corte, tra la popolazione gota della città, come tra i nuclei disseminati sul territorio. Al progresso dell’orto-dossia, corrispose il consolidarsi dell’ordinamento ecclesiastico cittadino ed extra. In città è testimo-niata nel 520 la chiesa di San Pietro in Castello, mentre resta discusso se San Giovanni in Valle, sor-ta forse in questo tempo, fosse adibita a cattedrale ariana. L’organizzazione ecclesiastica s’incentrava nella cattedrale e nel vescovo, che aveva attorno a sé sacerdoti e chierici collaboratori, come attesta-no l’attività calligrafica di Ursicino lettore nel 517 e l’iscrizione sepolcrale del prete Urbano del 533. Anche in campagna l’ordinamento ecclesiastico andava precisandosi già nel corso del sec. V.

Quanto ai vescovi veronesi tra fine secolo V e inizi del VI, non è identificabile con san Silvino,

vescovo di Verona, e non è veronese il vescovo Servusdei, come si credeva, ma piuttosto Fero-nensis, dell’Etruria, fedele seguace di Simmaco, presente ai sinodi romani del 23 ottobre e 6 novembre 502. Il nome di san Silvino appari-va nel Velo di Classe ed è ricordato nel Mar-tirologio Romano, commemorato al 12 settem-bre. Il Valier e l’Ughelli lo dicono eccellente in dottrina, soave nel sermone, adorno di ogni virtù, ma di più preciso non si sa. All’opera di evangelizzazione degli ariani, particolarmente di quelli residenti nel castrum sovrastante la ci-vitas, deve aver dato particolare impulso il ve-scovo san Teodoro tradizionalmente assegnato agli anni 502-22, considerato in certo senso il protettore dell’elemento militare. Morì il 19 settembre 522. È tradizione che sia stato sepolto dapprima a Santo Stefano, poi in una chiesa eretta in suo onore vicina a quella di Santa Maria Matricolare. Rovinata questa chiesa, forse per il terremoto del 1117, dopo varie vicende, nel 1534 il corpo di san Teodo-ro fu collocato dal vescovo Gian Matteo Gi-berti (1495-1543) in cattedrale sotto la mensa dell’altare, nella cappella ora dedicata alla Ma-donna del Popolo, dove anche presentemen-te si trova dietro il parapetto dell’altare stesso. All’epoca di san Teodoro appartiene il già ci-tato codice xxxviii (36) firmato da Ursicino il 1° agosto 517 al termine della trascrizione della Vita di san Martino, composta da Sulpi-zio Severo, e di quella di san Paolo di Tebe, scritta da san Girolamo. Altro codice impor-tante di quel tempo è il Fragmentum Lauren-

tianum segnato col numero xxii (20), scritto fra il 514 e il 519, relativo allo scisma laurenziano

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al tempo di papa Sim-maco, già ricordato. Negli stessi anni, come accennato, era attivo anche Cassiodoro, che scriveva ed esaltava in una sua lettera il vino acinatico o recioto ve-ronese. Nella già citata chiesa del castrum, San Pietro in Castello, te-stimoniata nel 520, che veniva così ad ag-giungersi, sempre sulla sinistra dell’Adige, alla chiesa di Santo Stefa-no, risultano essere stati sepolti i vescovi san Valente e san Verecondo. Il primo viene riferito al 531 dall’epigrafe del Corpus Inscriptionum Latinarum, già più sopra accennata; essa recita: «Qui riposa in pace san Valente vescovo che visse circa 85 anni e sedette vescovo anni 8, mesi 8, giorni 11». Nel Velo di Classe, dopo san Teodoro, si legge invece Concessus, Concesso I. Gli eruditi pensano che san Valente fu «conces-so», fu cioè coadiutore durante la persecuzione dell’aria-no re Teodorico, avendo dovuto allontanarsi il vescovo san Verecondo da Verona. San Valente fu sepolto nella chiesa di San Pietro in Castello e venerato il 24 luglio. San Verecondo era ricordato il 22 ottobre. Sembra sia stato eletto vesco-vo subito dopo san Teodoro, ma dovendosi allontanare da Verona per le persecuzioni di Teodorico, avrebbe ordinato vescovo il santo e vecchio sacerdote Valente allo scopo di impedire che durante la sua assenza venisse intruso qualche vescovo ariano, e sarebbe appunto per questo motivo che san Valente può essere stato chiamato Concessus, coadiutore. San Verecondo pare sia stato esule nell’Umbria, dove ebbe

ed ha culto liturgico. Alla morte di Teodorico, san Verecondo, forse chiamato da Amalasunta, reggente e poi regina degli Ostrogoti, tornò a Verona e qui morì, venendo sepolto con san Va-lente nella chiesa di San Pie-tro in Castello e da ultimo in Cattedrale. Infatti, quando la chiesa di San Pietro in Ca-stello nel 1801 fu atterrata dai Francesi, le reliquie dei due santi furono traslate dal vescovo Avogadro alla Can-celleria vescovile, poi il 16 novembre 1817 dal vescovo Liruti furono poste nel duo-mo, sotto l’altare dei Santi

Andrea e Annone. Sulla tomba di ambedue è incisa la pal-ma, simbolo di persecuzione e di martirio, sia pur incruento. Come vescovo del periodo di trapasso dai Goti ai Bizantini è attestato da documenti posteriori e poco attendibili san Senatore, sepolto in Santo Stefano e celebrato il 7 gennaio. Riparò i danni spirituali del defunto re Teodorico, che aveva atterrato l’abside di Santo Stefano per la costruzione delle mura in quella zona e aveva concluso il suo regno in modo negativo, per cui fu visto dai veronesi come il re ingannato dal demonio e trascinato dallo stesso a perire nello Strom-boli; ciò appare anche tra le sculture della facciata della ba-silica di San Zeno.

Se, dopo san Senatore si aggiungono i vescovi successivi, e cioè i vescovi da Solazio ai beati Egino e Ratoldo, si arriva all’840, in periodo carolingio, quando era arcidiacono Paci-fico (779-844), direttore dello scrittorio veronese in piena attività; se poi all’elenco aggiungiamo anche questi 2 ultimi

Dario Cervato

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vescovi, raggiungiamo appunto la cifra dei 36 o 38 santi ve-scovi veronesi.

Appendice. Trentasei o trentotto santi vescovi veronesi?

Da nomi isolati e frammenti di cataloghi provenienti da monumenti (chiese cimiteriali e lapidi) o documenti (dittici, calendari e codici liturgici) precedenti, la lista dei santi ve-scovi veronesi andò formandosi soprattutto nei secoli VIII-IX e poi soprattutto nel Quattrocento (Francesco Corna da Soncino, Giovanni Antonio Panteo, Ermolao Barbaro), per fissarsi sul numero 36 nel Cinquecento (cfr. cod. lxvi [63*]). Nella lista dei 36 santi vescovi non sono recepiti alcuni ve-scovi come Siagrio, Solazio, Iuniore, Montano, per ragio-ni legate alla loro vicenda o a prese di posizioni contrarie all’ortodossia. Ciò permette di affermare che non c’è cor-rispondenza tra lista episcopale e lista santorale. Se, secondo una prima impressione, sembra che le due liste si sovrap-pongono, così da sembrare identiche e che sia avvenuto un semplice passaggio della lista episcopale a quella santorale, in realtà, essendo esclusi da quest’ultima alcuni vescovi per ragioni di ortodossia o ortoprassi, tale identità non sussiste. Perché quindi quasi tutti i vescovi, escluso qualcuno, siano venerati come santi, questo è dovuto non a un mero passaggio dagli elenchi necrologici a quel-lo santorale, ma alla concezione legata alla santità dell’ufficio episcopale in quanto tale, secondo il modo di pensare di Ennodio di Pavia, per cui santità del ruolo e del titolare corrispondono.

Tutto ciò appare dalla storia dei vescovi ve-ronesi fino al secolo VIII, quando il catalogo dei 36 santi vescovi cominciò a imporsi. Poiché non erano a disposizione strumenti storico-critici af-finati, oltre i criteri di ortodossia e ortoprassi se-gnalati, poterono entrare nella lista nomi di vesco-

vi non veronesi, di santi venerati altrove e recepiti a Verona (Cerbonio, Massimo) o entrarono sovrapposizioni di vescovi e di loro collaboratori o sdoppiamenti di nomi. Anche que-sto è stato possibile vedere per cenni in questa sintesi delle vicende della Chiesa veronese e dei suoi vescovi. Ciò per-mette, da una parte una certa conoscenza della storia della Chiesa veronese tra i secoli IV e VI e di rispondere insieme almeno ad alcune delle tante domande che la lista dei 36 santi vescovi veronesi comporta.

Un’ultima sottolineatura sia permessa sul fatto che quasi tutti i vescovi ricordati portano il titolo di santi. A que-sto proposito, su testimonianza di mons. Ampelio Martinelli (1924-2003), dopo il concistoro in cui mons. Giuseppe Car-raro (1899-1980) fu annunciato vescovo di Verona, mentre secondo l’uso gli imponeva il rocchetto, il papa Giovanni XXIII (1958-63), chinandosi su di lui, gli sussurrava dolce-mente: «Ah, Verona! Quanti santi! Quanti santi! Pensi che 38 dei suoi vescovi sono stati onorati come santi! È una fortuna, è una grazia rara, per non dire unica!». Se l’elenco tradizionale ne riferisce 36, anche il vescovo Ermolao Bar-baro, come il santo papa Giovanni XXIII, parlava nel secolo XV di «ultra triginta sex episcopi in Sanctorum numero adscripti».

Conclusione

Se può essere interessante conoscere i vescovi come figure rilevanti per il ruolo anche sociale, civile e politico esercitato nella storia, altrettanto e più interesse suscita nel credente e nel popolo cristiano la conoscenza dei propri pastori san-ti come realizzazione più piena della presenza e azione di Cristo buon pastore, amici di Dio, modelli e intercessori, motivo di lode e azione di grazie a Dio perché si mostra grande nei suoi santi.

I vescovi di Verona dal IV al VI secolo

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Oltre a ciò, nel contesto delle celebrazioni per i 1500 anni del codice di Ursicino, è interessante rilevare per alcuni di essi quanto la tradizione ha tramandato sui loro interessi culturali e sui loro scritti, siano essi giunti o meno fino a noi, senza dimenticare in ogni caso il contesto culturale in cui essi hanno operato o che hanno contribuito a formare.

Infine, si segnala che i nomi dei 36 o 38 santi vescovi ve-ronesi, in traduzione italiana e in ordine alfabetico sono for-niti nel volume Viri memoria digni, dal cui indice si possono raccogliere in ordine alfabetico da sant’Agabio a san Zeno. Come poi si formò a Verona il culto dei 36 santi vescovi, quali furono i criteri in base ai quali furono destinati al culto, come si arrivò a questa lista, come si consolidò il loro cata-logo, quale evoluzione subì fino alla definitiva fissazione av-venuta il 15 febbraio 1503 e la successiva ricezione da parte del Giberti nelle sue Costituzioni; quale fu inoltre l’ordine cronologico di successione dei 36 santi vescovi? Rispondere a queste domande e ad altre ancora non è facile, data la mol-

teplicità di problemi da risolvere per una risposta che sia, se non definitiva, quanto più possibile esauriente rispetto alle problematiche storiche presentate dalla lista stessa. A ciò si è cercato di dare risposta negli studi e pubblicazioni a di-sposizione e in particolare nel primo capitolo del volumetto in stampa che s’intitola Verona Agiografica, che si spera sarà a disposizione del pubblico quanto prima.

Nota bibliografica

D. Cervato, Diocesi di Verona, Padova, 1999; Id., Storia della Chiesa in Verona, Padova 2016;Id., Viri memoria digni. Dizionario storico dei Vescovi di Verona, Verona 2013; Id., Verona agiografica (in stampa); Cronologia della Storia d’Italia, a cura di G. Martignetti, I. Preistoria - 1454, Torino, 2008; E. Curzel, Nell’anno del Signore. Date e nomi per la storia della Chiesa, Milano, 20172; I Manoscritti della Biblioteca Capitolare di Verona. Catalogo descrittivo redatto da don Antonio Spagnolo, a cura di S. Marchi, Verona, 1996; F. Segala, Sant’Euprepio primo vescovo di Verona. Note sulla comunità cristiana precostantiniana della città nel centenario dell’editto di Costantino (313), Verona, 2013 (Studi e Documenti di Storia e Liturgia, 44); Id., I vescovi di Verona e la città in età tardoantica e precarolingia (secc. V-VIII), Verona, 2014 (Studi e Documenti di Storia e Liturgia, 47).

ISBN 978-88-6809-169-9