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Dicembre MMXVI GALLERIA FARINI CONCEPT QUATTRO PITTORI FRA ROMA, MILANO E L'EMILIA CELESTINO FERRARESI ANTONIO LAGLIA GIANLUCA TEDALDI LUCA VERNIZZI La Mod l a L Studio La Pi tu a e l o t r

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Dicembre MMXVI

GALLERIA FARINI CONCEPT

QUATTRO PITTORI FRA ROMA, MILANO E L'EMILIA

CELESTINO FERRARESI

ANTONIO LAGLIA

GIANLUCA TEDALDI

LUCA VERNIZZI

La Mod l a

L Studio

La Pi tu a

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ARTE CONTEMPORANEA

Presenta

La Modella, Lo Studio

La Pittura

Dipinti

di Celestino Ferrarresi, Antonio Laglia,

Gianluca Tedaldi e Luca Vernizzi

Bologna, 10-21 Dicembre 2016

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La Galleria Farini Concept è lieta di presentare una mostra molto particolare e speciale, La Modella, Lo Studio, La Pittura. Quattro pittori fra Roma, Milano e l'Emilia.

Quattro artisti , Celestino Ferraresi, Antonio Laglia, Gianluca Tedaldi e Luca Vernizzi, che hanno attraversato

questo passaggio di secolo con fedeltà tenace alla pittura di figurazione. Quattro artisti molto diversi tra di loro,

ma ognuno in grado di lasciare il segno tramite le proprie opere che derivano dalla lezione della Scuola Romana

e dal Chiarismo milanese.

Il pubblico della Galleria Farini Concept conosce già uno di loro ed è questa l'occasione per saperne di più e per

riprendere le fila dell'arte che ha fatto la Storia degli ultimi decenni, a cavallo tra Novecento e Duemila.

Questa esposizione si colloca all'interno idi un programma preciso della Farini Concept, che oltre a lasciare il

più ampio spazio possibile ad artisti contemporanei emergenti, trova interessante ed importante unire l'apporto

di chi il mondo dell'arte lo ha attraversato ai livelli più alti, tanto da potersi fare luce per i più giovani.

Il nostro intento è questo: offrire, in una location d'eccezione, qualcosa di straordinario, come l'esperienza di

questi quattro artisti, per poter avviare un confronto, un dialogo, diretto e duraturo nel tempo, figlio di una

tradizione che nella Capitale aveva smosso acque di stampo accademico e che volgeva verso nuove

sperimentazioni.

Ferraresi, Laglia, Tedaldi e Vernizzi, giungono da questo ambiente e il pubblico oggi, grazie a questa mostra,

può trovarsi di fronte al loro linguaggio pittorico e grafico, comprenderne le scelte, le tematiche e la poetica .

Una mostra che si pone a metà strada fra una esposizione collettiva e l'insieme di quattro mostre personali, dato

che al pubblico sarà offerta la possibilità di scoprire ognuna delle quattro personalità, inquadrata secondo un

percorso ragionato, sia nel presente catalogo sia nell'allestimento.

Non sveliamo di più, lasciamo che siate voi a scoprire l'arte di questi pittori.

Benvenuti alla mostra La Modella, Lo Studi, La Pittura. Quattro pittori fra Roma, Milano e l'Emilia.

Grazia Galdenzi, titolare

Roberto Dudine, direttore artistico

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INDICE

Introduzione: di Gianluca TedaldiIl mestiere del Bello

Opere

Celestino Ferrarresi, di Azzurra Immediato

Antonio Laglia, di Azzurra Immediato

Gianluca Tedaldi, di Azzurra Immediato

Luca Vernizzi, di Azzurra Immediato

Appendice biografica

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IL MESTIERE DEL BELLO: FARE PITTURA OGGI IN ITALIA

Ferraresi, Laglia, Tedaldi, Vernizzi

Il bisogno di bellezza

Un sottotitolo di questa mostra potrebbe anche proporre Roma e Milano come luoghi di formazione (e

Bologna – intermedia – come occasione d'incontro). Non si tratterebbe solo di recuperare una vigoria delle

proprie radici culturali, ma anche di dare notizia che la pittura è vitale, che resta una insostituibile distillazione

di scoperte circa il proprio stare al mondo, che necessitano di essere condivise. Quindi, più che questione di

temi, soluzioni formali, citazioni, l'urgenza vera del dipingere è esistenziale e, in particolare, quella di dare un

ragguaglio del reale.

Il tema del bello segue da vicino questo affaccio sullo spettacolo del mondo e il suo mistero perché ne

costituisce la risposta intima che si scopre solo col lavoro sul vero, un vero con cui si lotta ma che si rispetta.

Di più: la pittura non è solo immagine ma anche spessore di materia. Con un termine forse audace, si potrebbe

parlare di incarnazione nel definire questa parte privilegiata che la materia gioca nella manifattura dell'opera.

Il percorso Novecentesco ha insegnato a gustare i rilievi, i pesi, le appoggiature anche gli sgarbi della materia,

come, in senso ampio, al corpo umano è stata riconosciuta pari dignità.

Questa buona eredità è anche un antidoto a quell'incipiente disgusto della fisicità che pare di intravedere nel

dominio dell'antropologia digitale e della tecnica.

Celestino Ferraresi, Antonio Laglia, Gianluca Tedaldi e Luca Vernizzi hanno avuto percorsi creativi

indipendenti.

Vernizzi, tutto concentrato su Milano, generato alla familiarità col mestiere dal padre Renato, si è presto

lanciato in quel teso confronto fra tradizione e novità (è d'obbligo citare almeno il patrocinio ai suoi esordi

offerto da Testori) dal quale la città non è mai rifuggita e che gli ha fruttato un linguaggio aggiornato senza il

sacrificio della propria radice, come dire: a proprio agio nel mondo.

Luca Vernizzi, docente, ritrattista, capace di affrontare le sfide di commissioni pubbliche, evoca Bernini per

l'approccio disinvolto e – si direbbe oggi – vincente con la realtà. Cioè, capace di gestire i linguaggi del

moderno in continuità con la tradizione, di proporre tematiche, quasi un fare politica in senso tutto culturale,

insomma, saper comunicare attraverso il bello.

Celestino Ferraresi è venuto a mancare quest'anno. Anch'egli docente d'Accademia (prima allievo e poi

assistente di Ziveri), sicuramente una vita dedicata alla pittura, simile in questo a una vocazione (per lui non

credente) che ogni creatura naturale possiede e che lo consegna a generare un proprio frutto, senza

commisurare l'impegno al successo anzi (soprattutto in lui) con un fiero disgusto per quei ripieghi che

sottomettono il talento al guadagno di uno spiraglio di luce mondana. Celestino ha progressivamente eletto il

suo studio ad universo, “orizzonte degli eventi” nel quale una protagonista ha la dominanza: la luce, punto di

unione di fisicità e metafisica. Gli accadimenti che compongono i suoi quadri sono sempre - per sua

affermazione – frutto di un pensiero. L'idea si trasmette – si incarna – in emozioni.

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Antonio Laglia, altro romano (ma, in realtà – come Celestino - entrambi praticamente di origine reatina

avendo l'origine in Amatrice, lui, e presso Accumoli Celestino: precisazione oggi dal sapore drammatico)

sembra esser nato, come Atena, già in armi e adulto (in quanto pittore) dal capo di Giove: a quattordici anni

aveva una padronanza della tecnica che ha riscontro solo con quegli esordi precoci di cui la storia dell'arte è

punteggiata. Antonio esercita nel rapporto col reale un atto di profonda immedesimazione nel quale

sensibilità, sensualità ed emozioni arrivano a consonare quasi perfettamente alle forme che sceglie di ritrarre.

La sfida è di non prevaricare quelle forme pur godendo di questa identificazione: in un senso moderno, mimesis esistenziale.

Gianluca Tedaldi si inserisce fra queste personalità così ben strutturate in modo più disinvolto, nel senso che il

suo gusto per la ricerca dei materiali e delle tecniche esecutive genera a volte il carattere stesso del quadro: a

volte più sorvegliato e fermo altre quasi sfatto , qualcosa che in musica potrebbe avvicinarsi al blues. La vena

narrativa, poi, è spiccata, porta la stessa figurazione a lambire il margine del verosimile verso una più sognante

direzione: basta considerare alcune tele che, eseguite nello stesso studio di Antonio Laglia, hanno però

generato risultati diversi da quelli dell'amico. Così diversi che sarebbero spunto per un filosofo che si

proponesse di definire cosa effettivamente sia il reale.

La mostra, come proposto in esordio, affida al pubblico il suggerimento di tornare alla bellezza come valore

costitutivo della nostra esperienza, liberando anche la sensibilità dal ritegno di usare questo termine sul quale si

è andato via via accumulando un sospetto di inattualità, addirittura di insincerità, forse per una crescente

sfiducia nella possibilità che esiste un sentire comune.

G.T.

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Cos'è il ? A cosa pensa, ognuno di noi, quando scomoda il ? reale concetto di realtà

E' una dimensione, certamente; è il luogo che oggettivamente abitiamo, così come quello cui facciamo

riferimento allorquando intendiamo paragonare qualcosa d'altro. Il reale è ciò che percepiamo attraverso i sensi e

mediante i processi cognitivi, tanto da distinguere, a loro volta, il surreale e l'irreale.

La realtà è anche costruita sulla struttura innescata dai processi mnemonici interiori, una stratificazione che

permette che persino l'idea di reale muti. Esistono, pertanto, un reale soggettivo ed un reale oggettivo?

Percezione e ragionamento danno luogo a verità e menzogne? Oserei affermare che nel reale convergono e

convivono, talvolta a fatica, tutte queste sfaccettature. L'arte, naturalmente ha, da sempre, cercato un dialogo con

il reale, che fosse di matrice mimetica o che fosse l'esatto opposto. Il dato oggettivo è stato ricercato con passione

o annullato con altrettanto entusiasmo, tanto da lasciar posto ad una miriade di continue evoluzioni e traslazioni,

talvolta volute, talaltre filiazioni di momenti storici particolari. Il reale, spesso, ha voluto coincidere con la ricerca

del Bello, tendenzialmente un ideale, in un tempo ossessionato dalla riconoscibilità identitaria di oggetti e

personaggi, in cui il reale ha funto da modello ossimorico per se stesso. Il reale, tuttavia, è il simbolo, il luogo,

l'alter ego dimensionale, tutto ed il contrario di tutto. Il reale è ciò che cerchiamo, ogni giorno, di comprendere,

di far sì che diventi appiglio per il quotidiano, e ciò che non lo è si traduce in una dimensione altra, che attende

d'essere indagata, compresa. Non v'è certo tutta questa semplicità di dualismo tra realtà e suo opposto; tuttavia,

se si volesse fare soltanto riferimento all'universo della Storia dell'Arte, la nostra memoria non ci ingannerebbe,

portando ad emersione il ricordo entro cui racchiudere un incasellamento di scelte stilistiche e formali, oltre che

concettuali ed ontologiche, naturalmente, attraverso le quali le arti visive si sono biforcate. Il reale ha assunto le

forme del vero, in pittura ed in scultura, fin dall'arte classica, per poi modificarsi, mutarsi in linguaggi che si

allontanavano dal'ideale di per giungere ad altre visioni. Fintanto che, in epoche a noi più vicine, dalle mimesis scelte di Cézanne e impressioniste fino alle grandi avanguardie, il dato oggettivo, reale, ha smesso di coincidere

con la figurazione, per tutta una serie di motivi, o, in altri casi, per giungere ad esasperazioni stilistiche di

iperrealismo tali da tendere ai risultati della fotografia, che, certamente, nel Novecento ha contribuito ad mediumun cambio di rotta di certe espressioni pittoriche.

Ciononostante, il reale resta quel che permette, ed , di inoltrarsi, attraverso l'arte, entro le punctum ex ante ex postprofondità dell'animo, della società, del nostro tempo, più in generale. La bellezza dell'umano vivere,

dell'umano sentire, in ogni sua sfaccettatura; la bellezza dei luoghi sentiti come propri o come estranei;

l'immersione nelle spire della vita, nei suoi contrasti, nelle sue affezioni e nei suoi scoramenti, sono i fili che

congiungono le esperienze, non meramente artistiche, di , e Celestino Ferraresi, Antonio Laglia Gianluca TedaldiLuca Vernizzi, colleghi e amici, compagni di una vita, afferenti alla seconda Scuola Romana, sotto l'egida di

Alberto Ziveri e altri maestri, e al Chiarismo milanese, di cui Vernizzi e, prima suo padre Renato, sono state figure

importanti e oggi qui, in ricordo del compianto Ferraresi, questa mostra che non è una semplice collettiva, ma

neppure un'antologica, è anche una sorta di viaggio nella storia dell'arte del '900. Attraverso le opere presenti,

ogni fruitore potrà compiere, seguendo i diversi linguaggi dei quattro pittori, un rivolgimento agli stili, certo,

ma anche alle intuizioni di quattro differenti genialità.

La Modella, Lo Studio, La Pittura - Quattro pittori fra Roma, Milano e l'Emilia è il titolo di questa esposizione ed

anche il che lega Ferraresi, Laglia, Tedaldi e Vernizzi, il loro linguaggio, le loro storie personali, che li fil rougehanno visti protagonisti sulla scena romana e su quella milanese che trovano in Emilia alcune loro radici

familiari; tale filo, tuttavia, lega anche la fruizione e l'interpretazione che l'accompagnano, secondo la ricerca di

un ideale di bellezza, inteso, dunque, quale elemento di fusione da esperire e apprezzare teso verso uno sguardo

evocativo ed emotivo.

Azzurra Immediato

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OPERE

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Precarietà, tempera all'uovo su tela, cm 145x102, 1991

Celestino Ferraresi

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Carmen, tempera all'uovo su tela, cm 97x103,5, 1993

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In cerca di pensieri, tempera all'uovo su tela, cm 130x100, 1995

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Senza titolo , tempera all'uovo su tela,cm 120x145 (modella assopita)

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Autoritratto, tempera all'uovo su tela, cm 155x130

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Apparenza di un ritratto, tempera all'uovo su tela, cm 150x98, 1997

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Autoritratto con sigaro, olio su tela, cm 45x35, 1992

Antonio Laglia

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Joel, olio su tela, cm 100x80, 2012

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Io e Lory, pastelli a olio e olio su tela, cm 100x80, 2012

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Burlesque, pastelli a olio e olio su tavola, cm 120x80, 2012

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Il camerino di Lindsay Kemp, olio su tela, cm 200x145, 2012

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Eva, olio su tavola, diametro cm 70, 2015

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Fabio come pugile, olio su tela, cm 100x100, 1997

Gianluca Tedaldi

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La prova, tempera grassa, olio ed encausto su tela, cm 120x100, 2010

particolare

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Danzatrice del ventre, tempera grassa, olio ed encausto su tela, cm 120x100, 2010

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Natascia e Giuseppe, olio, encausto ed acquarello su tela, cm 70x50, 2013

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Valeria in bianco, olio su tela, cm 65x100, 2014

particolare

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Paola in rosso, olio ed acquarello su tela, cm 100x80, 2016

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Schiena di donna, olio e tempera su tavola, cm 110x87,5, 1991

Luca Vernizzi

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Doppio nudo, tempera su tavola, cm 84,5x72, 1996

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Studio nero e tela bianca, tempera su tela, cm 100x60, 2000

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Mutandine, tempera su tela, cm 100x80, 2005

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Nada in piedi, grafite e tempera su carta intelata, cm 189,5x 75, 2004

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L'architetto Giuseppe Gentile e il pittore Gennaro Minini, olio su tela, cm 140x120, 2008

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Apparato fotografico

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Celestino Ferraresi

Senza titolo (cipolle e miglio),tempera all'uovo su tela, cm 28x35

1998

Malinconia,

tempera all'uovo su tela, cm 130x100

1992

Senza titolo (la rosa e il burattino),tempera all'uovo su tela, cm 40x35

1994

Malinconia, par far rima con sinestesia e, osservando questo dipinto,

l'osservatore non potrà che provare un sentire comune, vicino a

quello che Ferraresi ha inteso.

In opere come questa, l'artista, restituisce al quotidiano, ai suoi

oggetti, una identità altra, una evocazione animista, direi quasi.

Lo spazio si racconta mediante degli oggetti caratterizzanti, in una

inanimata visione, di qualcosa che è stato e che forse sarà ancora.

Ferraresi restituisce, attraverso scelte luministiche mirate, una sorta di

incanto che non sfugge al sentimento, alla memoria e alla bellezza di

un reale già noto ma mai elaborato secondo canoni di una estetica

legata all'umano sentire.

E' con questa opera qui in catalogo che si apre la

quadreria di lavori che sono, in realtà, “senza titolo” e che

lasciano un che di sospeso, non già nell'interpretazione

della figurazione, quanto nell'immanenza che essa porta

avanti.

Ben oltre la natura morta tradizionale, questa opera,

come le altre afferenti a questa categoria, è pervasa da

una riflessione sul quotidiano, sul tempo che non è un

semplice ammonimento, categorico ed imparziale; si

tratta, piuttosto, della poesia dell'oggetto, del verso, steso

con il pennello, sorto nel solco di una mirabile

sensibilità.

Sempre più, nel caso di un'altra opera , Ferraresi pur non Senza titolocompiendo un enunciato fattuale, lascia che a “parlare” sia l'immagine,

tralasciando ogni il rimando concettuale evidenziato da una eventuale

locuzione descrittiva, per far sì che sia la scena a dar indicazione di

leggibilità.

In questo lavoro si ritrova un importante impianto simbolico, in cui la

metafora dell'effimero è giocata dal ruolo della bellezza della rosa nel

vitreo vaso, che incuriosisce per l'aderenza mimetica e, solo ad uno

sguardo più attento, lascia intravvedere un burattino, abbandonato a sé

stesso. Il rimando è certo alla poetica metafisica, al concetto dell'emblema

del manichino, in un più perturbante e sottile contrasto, rivelato e

rafforzato dalla luce e dai suoi giochi.

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Senza titolo (cesto di fichi),tempera all'uovo su tela, cm 40x50

1996

Senza titolo (aglio e peperoncini),tempera all'uovo su supporto misto, cm 24x30

1994

Senza titolo (fiori essiccati),tempera all'uovo su tela, cm 45x35

1997

Un compendio, un piccolo catalogo che riporta alla

mente le opere didascaliche dei grandi studiosi di

botanica del Cinquecento, ad esempio, paiono dar un

secondo livello di lettura ed analisi a questo tipo di opere

che Ferraresi ci ha lasciato.

Piccole composizioni, chiuse nel silenzio della casa, nei

luoghi più nascosti, che caravaggescamente emergono.

Dalla del maestro lombardo, la realtà Canestra di fruttasembra aver preso posto in queste delicate e liriche

osservazioni di Ferraresi. La curiosità, il gusto per le

“cose insignificanti” che tali non sono, guidano l'artista

in questo tipo di scelta figurativa, rivelando il suo spirito

anticipatore su quella che sarebbe poi divenuta una

rivisitazione in chiave fotografica di certe scene, i

cosiddetti scatti “still life”

Osservando questi piccoli dipinti, sembra di entrare in

contatto con l'artista nella sua intimità domestica, di

averlo seguito tra una seduta di pittura e l'altra, magari

mentre facendo attendere gli altri suoi compagni pittori,

andava a prendere qualcosa da bere o da mangiare.

Lo immagino così, attraversare le stanze e rimanere

folgorato da oggetti come questa cesta con dei fichi,

rivelati dalla luce che li attraversa, li svela nel buio della

stanza. Visioni come queste, colpivano la sensibilità di

Ferraresi che, come in una raccolta di momenti ed

istanti, ne ha tradotto una sorta di osservazione sul

quotidiano, carico di lirismo.

Il reale, quello che entra nello spazio pittorico e si appropria della tela, della

materia, della luce, della cromatica. Ne trae forza per sostanziare non palettesolo l'oggetto in quanto tale, ma tutta una serie di relazioni percettive e

metaforiche che attraverso esso trova una nuova e propria dimensione.

Nei particolari di un dipinto come ritroviamo Senza titolo (fiori essiccati)stilemi afferenti ad un linguaggio di matrice nordica e dell'epoca moderna.

I contrasti luministici, le trasparenze del vetro del barattolo, i fiori non più

vividi, ma memoria di un tempo passato, portano l'osservatore, ed in primisavevano portato l'artista, a riflettere sullo dell'effimero, statusdell'implacabile passare del tempo, che forse, solo l'arte, con il proprio

potere, può, in qualche modo fermare.

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Il tempo che non passa mai, tempera all'uovo su compensato, cm 80x652002

Senza titolo (melograno sul tavolo),tempera all'uovo su tela, cm 60x40

1999

Senza titolo (vecchio divano),tempera all'uovo su carta (rifoderato su tela),

cm 90x136

La simbologia del melograno, frutto dionisiaco, avrà avuto a che fare

con la scelta di Celestino Ferraresi o si tratta di un frutto, per caso,

poggiato su quel tavolo che ha incuriosito il pittore, tanto da averlo reso

soggetto di una sua opera?

Non ci è dato saperlo, tuttavia, la fascinazione deriva dal felice contrasto

ottico che Ferraresi ha donato a questa rappresentazione. Luci e ombre,

tonalità di grigio, rese dalle vibranti pennellate, rendono il luogo

equilibrato per accogliere i chicchi color rubino della melagrana,

pronta per esser sgranata o semplicemente osservata, nella sua bellezza,

nella sua purezza di oggetto di natura.

Il tempo che non passa mai è il titolo di questa tela emblema simbolico di

una narrazione che affonda le proprie radici in una ontologia

complessa.

Tratti delle teorie di psicologia entrano in scena, rendendosi

protagoniste, mediante loro totemiche icone: un orologio di cui non

scorgiamo le lancette, una parete spoglia che stringe il proprio su focus quello straniante quadrante, al di sotto del quale sostano delle piccole

bambole, molto probabilmente modellini da studio della figura,

poggiate come fossero state abbandonate in un portaoggetti.

In questa opera, più che in altre, il concetto di assume una memento moridiversa valenza, legandosi a temi proustiani e al perturbante freudiano.

Al gusto dell'osservazione, la fruizione conterà anche un momento

interpretativo ben più profondo ed evocativo.

Un è il protagonista di questa opera, un vecchio divanodivano che l'osservatore più attento avrà imparato a

riconoscere in altre opere di Celestino Ferraresi,

presenti anche qui.

Tuttavia, adesso, l'oggetto sofà diviene soggetto

dell'opera. Non più luogo che ospita voluttuosi corpi di

modelle, non più giaciglio per pensieri di chi vi si

accomoda, non più canapè per amici artisti.

Ora, Ferraresi osserva questo oggetto, parte integrante

del suo e ne scopre tutte le più piccole atelier caratteristiche, quelle dell'usura, quelle di una sorta di

affezione velata di nostalgia, in una animista visione.

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Senza titolo (la conchiglia),tempera all'uovo su tela, cm 50x55

Senza titolo (piatto di fragole),tempera all'uovo su tela, cm 35x45

Senza titolo (grappoli d'uva),tempera all'uovo su supporto misto, cm 26x35

Il colore si rende protagonista di questa piccola tela, dove

l'armonia compositiva è raggiunta da Celestino

Ferraresi mediante un sincopato accostamento di

chiaroscuri, in cui il rosso scarlatto delle fragole e il

bianco delle ceramiche, si pongono quale contraltare al

brumoso spazio circostante.

E' un dipinto dell'attesa, come quelli che afferiscono a

questo filone produttivo e che traduce i gesti quotidiani,

in narrazioni degne di nota.

Il pensiero mnemonico va indietro, alla pittura francese

post impressionista, certamente, per la resa della materia,

della pennellata, non in funzione di copia, o

ammodernamento linguistico, ma in funzione

concettuale.

Nόστος e άλγος , nostalgia, sembra essere il filo conduttore di questa tela.

Questa conchiglia somiglia ad un fiore reciso e morente; simboleggia il doloroso pensiero alla propria origine, quel mare che il grigio dell'interno urbano non può sostituire. Ferraresi avrà ascoltato le onde accostando la conchiglia all'orecchio? Certamente, però, ne ha colto un messaggio più profondo, che sottosta ad un incantato stupore, quello che si prova dinanzi alle meraviglie della Natura.

La conchiglia, oggetto solitario, illuminato da una luce che ha un che di salvifico, si rende emblema dalle diverse chiavi interpretative:dalla simbologia antica fino a quella di epoca moderna, essa sosta a metà strada fra la vita effimera e la meraviglia del creato, tra la fertilità e la morte.

Esiste nella tradizione della Storia dell'Arte una vera e propria estetica del l 'uva, o meglio del la sua rappresentazione in pittura. A partire dall'iconografia dionisiaca di matrice attica, sino all'intera simbologia mediterranea, per proseguire nel Medioevo in special modo in scultura, e poi nella fortuna delle nature morte moderne, l'uva è stata emblema del passaggio tra vita e morte, come simbolo dello scorrere del tempo.

La riflessione di Ferraresi sul concetto di tempo, di sua inesorabilità, si riflette nella pittura tramite il ricorso a soggetti di natura, che per quanto siano frutti, cibi, fiori o fossili belli da vedere, buoni da gustare, tendono a segnare un tempo limitato, una gioia, un godimento pressoché effimero.

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Senza titolo (fichi d'india e limone),tempera all'uovo su compensato, cm 28x36

Senza titolo (tre fichi),tempera all'uovo su compensato, cm 20x23

Probabilmente tra le prime opere raffiguranti dei fichi, possono essere rammentate le pitture parietali di Oplontis – area archeologica vicina a Pompei, identificabi le oggi con Torre Annunziata – e si tratta di un affresco del I sec. d.C.

Questo frutto, nei secoli, è stato investito di molti significati allegorici, dai racconti biblici, sino alla pittura controriformata. Possiamo esser certi che Celestino Ferraresi, il professore, conoscesse a fondo la fortuna critica di un simbolo allegorico nell'ambito della tradizione figurativa, tuttavia, la sua originalità sta nel compiere un passo oltre.

Egli, invero, non si dilunga in una didascalica descriptio da accademico, piuttosto coglie quelle che sono le peculiarità di un bello oggettivo, di un reale che trascende dalla spettacolarizzazione e si mostra per ciò che è che non tutti riescono ad ammirare.

Forme, colori, rielaborazione del dato oggettivo, hanno fatto sì che Celestino Ferraresi portasse a compimento delle opere come quest'ultima.

Piccolissime dimensioni, per un dipinto che, al contrario, esprime la sua forza mediante l'incisivo contrasto semiotico. La composizione si anima grazie alla forza del colore dei fichi d'india e del limone, in un contrasto che ha qualcosa di sinestetico: alla dolcezza dei frutti spinati, si contrappone l'acidità dell'agrume, in un piccolo e divertente gioco intellettuale.

Al contempo, luce e ombra giocano a estremizzare tale contrasto, lasciando che i soggetti scelti dall'artista, acquisiscano propria e nuova identità, estrapolati dal loro contesto e capaci di meravigliare per casi e coincidenze del tutto straordinarie.

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Antonio Laglia

Eugenio che scrive,sanguigna, carboncino e gesso su cartone,cm 70x952002

Claudia, pastello su carta, cm 44x321981

Il tifoso,

olio su tela, cm 200x125

Una delle prime opere in oggetto è del 1981, che ritrae , Claudiamoglie di Antonio Laglia. Si tratta di un lavoro estremamente

poetico, che non cerca di spettacolarizzare un rapporto, ma pare,

riuscendovi, di cogliere un istante profondamente intimo,

appartenente alla vita quotidiana, alla dimensione domestica di una

coppia. La donna non guarda verso chi osserva, probabilmente

presa da altri pensieri, sui quali, il fruitore si interrogherà

certamente.

La composizione rimanda a certi interni francesi del seconlo

precedente ma la suggestione dell'attimo appena colto è raggiunto

mediante la “partecipazione” della scena, dei suoi oggetti, dei

contrasti cromatici delicati, dati dall'uso del pastello.

Non resta che osservare, silenziosamente, quasi non a non voler

disturbare…

Vi è qualcosa in più, in questo disegno, che un semplice

ritratto. E'uno sguardo paterno, un amorevole guardare.

Eugenio, infatti, il protagonista, è il figlio di Antonio

Laglia, qui descritto bimbo, mentre è intento a scrivere,

impegnato nel proprio lavoro di alunno, chissà?

Senza dubbio, è assorto nel proprio fare, come tutti i

soggetti che entrano nella sfera pittorica di Laglia, quasi

non si fosse accorto che il babbo era lì a guardarlo, a

fermare un istante così. In tal modo, l'artista ha raggiunto

quella verità mimetica ma prima di tutto ontologica, che

ha portato avanti in tutta la sua carriera.

Torna Eugenio, cresciuto ed in foggia di tifoso, mentre regge un grande tricolore.

Alcuni fruitori riconosceranno quel separé presente in molte altre opere dell'artista, ma dovranno, dinanzi a questo grande dipinto, soffermarsi a riflettere sulla tematica scelta da Laglia, quella del tifo.

L'analisi dell'artista mette a nudo una serie di concetti che si aprono ad una più ampia indagine di espressione sociale varia e variabile. Il contrasto si concentra, in realtà, fuori da questa immagine: Eugenio ha l'aria di un tifoso pacifico, sereno, orgoglioso di quel tricolore. Ma è sempre così? No, sappiamo che non lo è.

L'opera, pertanto, si traduce in uno sguardo sul reale antropologico, in un varco fenomenico per uno sviluppo speculativo più generale, in cui anche la violenza diventa soggetto.

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Autoritratto, olio su tavola, cm 100x682006

Lorenzoolio su tavola, cm 120x802002

May, pastelli a olio e olio su tela, cm 145x115

2009

Il tema della violenza, come anticipato, è stato indagato dalla poetica di Laglia,

sempre sussurrato, quasi ad instillare un dubbio, un tarlo nella mente

dell'osservatore. Si riallaccia all'opera , questo ritratto, titolato , Il tifoso Lorenzoaltro familiare dell'artista. In verità, questa tavola, così come appare oggi, è

frutto di un mutamento ; la composizione iniziale doveva esser in itineredifferente, tuttavia, nel momento in cui il soggetto si è spogliato per il caldo,

seduto in quel modo, ha fatto tornare alla mente di Laglia, una scena del film di

Kubrick “Arancia Meccanica”.

L'artista, rimasto colpito da tale intuizione, ha proseguito, dando vita a questo

suggestivo ed intenso ritratto, dove il contrasto netto dei colori, il ruolo della

luce e del buio, la completa decontestualizzazione, generano una raffigurazione

carica di drammaticità e . pathos

E' questo il terzo presente in catalogo di Antonio Laglia. Se il primo, Autoritrattodel 1992 e l'ultimo del 2012, segnano un passaggio cronologico ma una scelta figurativa tradizionale, in questo caso, l'originalità è la vera protagonista.

Siamo nel 2006, interno dello studio del pittore. Il centro della composizione è occupato da una strana infilata di cappelli, l'un sull'altro, da un lato e dall'altro, scorgiamo altri oggetti d'arredo, strumenti di lavoro e quant'altro. E dov'è l'artista che si autoritrae? V'è uno specchio, come molte altre volte in Laglia, una di quelle velleità note al genere autoritrattistico, in cui ben guardando, scorgeremo anche l'immagine del pittore, intento al cavalletto. Si tratta di un quadro nel quadro, non già e non solo per la presenza dello specchio in cui Egli si riflette, ma anche per delle stampe e altri dipinti appesi nella stanza. Un continuo gioco del riconoscimento, colto e iconico, così come totemica, non solo metaforicamente, è stata la scelta di quell'assembramento di cappelli, forse dello stesso artista, come suggerisce l'autoritratto del '92. Si attua, pertanto, uno stravolgimento concettuale dei soggetti che assume le forme del “gioco serio dell'arte”.

Ecco che Laglia pone l'osservatore dinanzi a quel concetto che Stoichita ha

denominato “quadro nel quadro”. Attua, in questo caso, una moltiplicazione

dei piani pittorici e reali, lasciando riconoscere opere alle pareti, che sono anche

tra queste pagine e scompaginando il livello di lettura tra dipinto reale, dipinti

nel dipinto e riflesso nello specchio di una donna vera.

C'è qualcosa di straniante, mentre la fascinazione retinica avviene tramite la

maestria nella trattazione della raffigurazione, seguendo la volontà del reale. Il

tempo si abbatte, la memoria di arte moderna fa i conti con l'anno dell'opera, il

riflesso nello specchio con ciò che vediamo… la fruizione cede a qualche

piccolo rebus.

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Lipstick, pastelli a olio e olio su tela, cm 200x1452009

Pub, pastelli a olio e olio su tela, cm 115x1452009

Al bagno (Eva e Gaia)pastelli a olio e olio su tela,

cm 150x110, 2010

Pub è il titolo dell'opera. Laglia sta immortalando due giovani

donne in un locale o è tutto costruito nel suo atelier?

Lo immaginiamo conoscendo l'approccio alla pittura che

Laglia ha, ci è forse suggerito, ma poco importa, in verità. Ciò

su cui la vista si sofferma sono i suoi soggetti, due giovani

donne, di quella a sinistra sappiamo essere Eva, la figlia

dell'artista.

L'attimo immortalato riesce ad estrapolare un dialogo? Sembra

di no, pare, piuttosto, un silenzioso scambio di pensieri, tale da

ricordare alcuni dipinti di Degas. A tale silenzio assistiamo,

curiosi tanto da continuare a sostare sull'uscio.

Lo studio del corpo, l'osservazione delle modelle, l'eterno

femminino indagato nelle sue molteplici vesti, è un tema caro

ad Antonio Laglia ed ognuna di queste grandi tele ne sancisce

un aspetto.

In ed altri dipinti, l'artista porta in scena il legame che si Lipstickcrea tra le sue modelle, un'intima complicità che denota grande

sintonia. All'osservatore l'agio di ammirare la composizione,

naturalmente ricca di particolari, suggestiva ed evocativa,

mentre i tratti psicologici invadono la trama della tela, la materia

e i nostri occhi.

L'opera ivi proposta, Al bagno (Eva e Gaia), si mostra per ciò che

semioticamente è, la cattura di una scena privata delle due protagoniste,

Eva, figlia dell'artista, e Gaia, alle prese con rituali classici della cura del

proprio corpo, che lasciano immaginare un accadimento precedente e uno

possibile di lì a poche ore di distanza.

La narrazione appare cristallina nelle opere di Laglia, il quale, nella fusione

tra dato sensibile e dato pittorico, riesce a fermare il tempo, come in una

fotografia, nell'intero racconto di una storia ben più lunga. Il divertissement del fruitore, diviene anche quello di scorgere nell'opera particolari

riconoscibili e riconducibili al proprio vissuto quotidiano, creando un

legame forte e silente tra le due parti.

I sé segni emozionali che si trasferiscono dai suoi soggetti a noi che

osserviamo attuano un rapporto “realmente” dialogico tra le parti. Mai un

soggetto porta il suo sguardo ad incrociare quello del fruitore, mentre la

presenza, spesso, di specchi potrebbe produrre un rimando tra i diversi

luoghi mondani, dall'allure cinematografica d'antan.

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Eris, pastelli a olio e olio su tela, cm 65x55

2012

Julia, pastelli a olio e olio su tela, cm 70x502011

Eva, pastelli a olio e olio su tela, cm 100x70, 2012

Si svela l'arcano: nello studio di Antonio Laglia è stata

costruita una serie di “interni”, quasi si trattasse di set

cinematografici, afferenti all'immaginario neorealista e a

tratti felliniano.

Le suggestioni teatrali donate da questo artifizio

scenografico, permettono, tuttavia, di non allontanarsi dalle

suggestioni del reale, che resta il traino di ogni narrazione

di Laglia, il quale si presta allo studio del corpo femminile

secondo le più interessanti interpretazioni, ben oltre la

trattazione accademica.

Forme uniche, nuove pose, nuove storie, nuove scoperte,

ecco cosa è davvero racchiuso in questa serie di dipinti di

Antonio Laglia.

La volontà di ricreare un immaginario decisamente

personale e non convenzionale, pur vicino alla realtà di un

quotidiano verosimile, per così dire, ha permesso all'artista

di giocare in maniera originale anche con il tema del nudo.

Se lo studio della figura è uno dei temi che ricorre nella

parabola dei quattro pittori qui presentati, è pur vero che

Laglia ha scelto la via di non mostrare del tutto, non sempre

quantomeno, il nudo integrale. Non certo perché pudico,

ma perché ha esaltato la narratività di un istante catturato,

spogliando l'anima dei soggetti e non solo i corpi, in cui la

luce, invero, ha ruolo di protagonista formale.

Quello specchio, quello sfondamento della trama pittorica che torna, incessante, in molti dipinti di Laglia. Abbiamo imparato a riconoscerlo, tanto da voler adesso, indagare, ogni volta, di chi sia il volto riflesso o quale angolo sarà svelato.

La diarchia di rappresentazione, lo sdoppiamento del reale, il riflesso come alterità, come dimensione dall'identità non definita, è un gioco intellettuale molto amato e attraversato dall'artista. Il dubbio riguarda proprio questo rimando: cosa è più reale? Ciò che l'osservatore vede descritto nello spazio scenico o ciò che si riflette nello specchio?

Poi, d'un tratto, l'intuizione: è solo un dipinto, certo. Ma la carica di suggestione che ne deriva per volontà di Laglia è intensa e mutevole, ampia e ambigua.

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Natasha, pastelli a olio su tela, cm 70x50

2015

Cocorita, olio su tela, cm 70x60

2013

Cocorita, questo il titolo di questo olio, è valso ad

Antonio Laglia una mostra alla National Gallery di

Londra, nell'ambito del progetto Portrait Gallery.

Decisamente fuori dal coro delle opere sinora vedute,

questo nudo, che solo tale non è, del 2013, è un dipinto

estremamente armonico, nella composizione, nelle

cromie e nella valenza di quella luce diretta che tanta

centralità ha nella ricerca dell'artista. Non c'è volontà di

una sensualità a tutti i costi, la modella, colta in un

momento di riposo, è immersa nei propri pensieri, non

esprime una voluttuosa ricerca dell'altro, come anche il

riflesso nello specchio alle sue spalle denota.

E' un'immagine profondamente basata sul valore

meditativo di una donna, mentre il pappagallo che offre

una nota insolita all'ambiente, rimanda, in ogni caso, ad

altro tipo di speculazioni ontologiche. Un ritratto

profondamente lirico, carico di , in cui all'eros è pathoslasciato un ruolo secondario.

Natasha, la modella, è con Laglia in atelier, mentre

tentano di cercare la posa migliore che possa far al caso

loro.

Eppure, questo quadro ha qualcosa di improvvisato. La

modella si guarda allo specchio, alzando la sottoveste,

tentando di trovare un'alternativa alla posa. Il gesto,

come direbbe Chastel, in questo caso, rimanda ad una

sorta di “grammatica” in grado di offrire una prospettiva

concettuale diversa da quella forse originaria.

Con questa ultima opera in oggetto, cogliamo quella

ricchezza dell' cui Antonio Laglia ci ha hic et nuncabituati, godendo della bellezza del reale.

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Gianluca Tedaldi

Camilla al pub,

tempera grassa, olio ed acquarello su tela, cm 100x120

2009

Eva sullo sgabello, olio su tela, cm 70x502003

Sulla pedana,olio ed encausto su tela, cm 50x702011

L'incontro tra artisti si mostra in tutta la sua ricchezza allorquando, taluni

soggetti riescono ad essere interpretati secondo visioni vicine ma

differenti.

E' questo il caso della prima opera di questa serie, afferente alla poetica di

Gianluca Tedaldi che ha ritratto Eva Laglia, figlia dell'artista abruzzese

Antonio, compagno di pittura di una vita a Roma. La peculiarità di

questa pinacoteca cartacea permette, almeno in parte, di scoprire

analogie e divergenze nelle scelte formali e stilistiche tra quattro artisti

uniti da intenti di poetica.

L'occhio dell'osservatore, ormai avvezzo, riconoscerà nella pennellata di

Tedaldi che qualcosa è decisamente cambiato, il tratto, rispetto ai

precedenti artisti, s'è fatto più sperimentale, non seguendo una mimesis tout court ma una visione di realtà ricca di un gradiente di guizzo

espressivo.

Camilla al pub raccoglie quella sorta di sfida non voluta tra Tedaldi e Laglia. Dunque, spesso, lo studio di quest'ultimo è stato condiviso dai due artisti, ragion per cui, altrettanto spesso, la costruzione degli scenari di posa erano i medesimi; tuttavia, lo sviluppo delle opere non ha seguito il percorso di studio tradizionale, lasciando piuttosto emergere, anche con sorpresa da parte di Tedaldi, i diversi e personali linguaggi.

La donna qui ritratta è la stessa modella che ha posato per Pub di Laglia; Tedaldi ribalta l'intera raffigurazione. Il suo focus si stringe solo su una delle due donne presenti, la resa pittorica si avvale della ricchezza della materia, che non cerca la trama da iperrealismo, e si arricchisce, invero, di colature, pennellate energiche, ma estremamente libere.

Mutano le visioni, i punti di vista, le titolazioni, a sancire

una diversità profonda, che pur affonda le radici nello

stesso di studio e di , quella di Alberto Ziveri, humus lectiosia nel caso di Gianluca Tedaldi che di Antonio Laglia.

Seppur il soggetto è il medesimo, Tedaldi ne affronta la

descrizione in maniera da porre l'attenzione anche al

peculiare gioco di ombre che si affastellano sulla parete di

fondo. Non più il riflesso allo specchio, rimasto ora muto,

ma luci e oscurità paiono narrare una nuova storia, una

narrazione in foggia di , tale da ampliare l'idea di alter egoun tempo e di un reale che si rincorrono, soffermandosi

per pochi istanti.

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Celestino che disegna, acrilico su tela, cm 70x502013

Pugilatrice, olio su tela, cm 150x1002012

Modella in giallo,tempera grassa, olio ed acquarello su tela, cm 80x802016

“Il tema del pugilato è ricorrente nei dipinti eseguiti allo studio di Antonio Laglia” afferma lo stesso Tedaldi.

La modella, in questo caso, si traduce in soggetto e oggetto per il

pittore, se ne scorge appena il volto, riflesso nel grande specchio che

apre la scena all'osservatore. E' un momento di riposo quello scelto da

Tedaldi, reso in una composizione profondamente geometrizzante

nell'attestazione dello spazio. Le linee squadrate degli oggetti

sembrano il contraltare del corpo sinuoso della giovane donna,

nonostante sia, invero, impegnata ad impersonare un ruolo poco

femminile.

Il gioco sottile delle luci, delle cromie, dona a questo dipinto

un'atmosfera fumosa e di calma, con cui il tema del ring è

diversamente affrontato.

Celestino che disegna, opera del 2013, appare oggi come un tributo

all'amico artista scomparso poco tempo fa.

La scena si svolge all'interno dell' di Ferraresi, nello specchio atelierappare il riflesso della modella in posa sul divano – a noi già noto – che

si presta per un disegno dell'artista.

Tedaldi ha immortalato un momento di lavoro, di studio, di creazione,

che oggi rappresenta un ricordo, lirico, dolce, in foggia di quadro. E la

soggettività è segnata ancor più dallo stile pittorico di Tedaldi, che

lascia scoprire un altro modo di osservare quel luogo e quelle donne

che Ferraresi ha reso nelle proprie creazioni. Le pennellate di Tedaldi,

decise, rapide, pastose, non si fermano alla descrizione lenticolare, ma

fanno emergere evocative suggestioni, emozionanti costruzioni che

si arricchiscono nella ricerca di armonie diverse.

L'immediatezza del tratto del gesto segnico, la volontà di matrice

francese di abbandonare per un momento la rigorosità del disegno,

della precisione, per dar forza all'intuizione.

Una dimensione narrativa che insiste sul rapporto dell'artista con il

corpo della modella, con il suo sostare o muoversi nello spazio

circostante, in una fusione generata da una pittura quasi disfatta,

disciolta, che caparbiamente si fa tramite di un segno che traduce un

certo sentimento onirico.

Sarà certamente stata riconosciuta la modella che Laglia aveva scelto

per il dipinto . Il punto di vista di Tedaldi muta, affrontando, in Cocoritatal modo, un più ampio discorso sulla oggettività del reale, di matrice

speculativa.

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Posa allo studio di Celestino, encausto e acquerello su tela, cm 65x552012

Valentina, olio e tempera grassa su tela, cm 80x452012

Paola di profilo,

olio encausto e acquerello su tela, cm 45x90

2016

Un nudo molto particolare, i cui retroscena d'atelier sono stati

descritti in una incisione che Tedaldi presenta in mostra e che seguirà

in questa galleria fotografica.

Il tema della modella e del suo corpo vengono affrontati dall'artista

secondo stilemi che lasciano emergere un vibrante afflato che va ben

oltre il mero esercizio posto in essere dal rapporto pittore-modella.

Di , riusciamo a carpire qualcosa nello sguardo, non rivolto a Valentinapubblico, ma, solo osservando l'incisione, l'analisi interpretativa sarà

ampia e completa.

E' questo uno di quei dipinti di Tedaldi nel quale vi è una poesia

sottesa che permette allo spettatore di entrare ancora una volta nello

studio di Celestino Ferraresi, di condividere un momento topico dello

straordinario rapporto tra gli artisti che hanno lavorato insieme a

Roma.

Si riconosce la tipicità della mano di Tedaldi, quel suo dipingere in

maniera tale da non rientrare, in effetti, in alcuna categoria definita,

ma di restare semrpe un po' sul limite. Da ciò, deriva una pittura

estremamente vibrante.

Un'opera del 2016 che presenta un ambiente molto

ricco di particolari, anche da un punto di vista

cromatico. L'occhio attento del fruitore, che ormai ha

imparato a cercare, in queste opere, qualche dettaglio

che possa aiutarlo nella propria lettura, riconoscerà sulla

parete di fondo un'opera che ha già riconosciuto anche

in mostra, un autoritratto di Laglia, titolato Io e Lory.

Ancora una volta è il missaggio tra le esperienze di

questi artisti ciò che emerge con forza e che dimostra,

tuttavia, quanto, ad esso, corrisponda, invero, una

predominanza dell'originalità delle scelte di ognuno,

una identità sempre svelata.

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Giulietta che dorme, olio su tela, cm 60x801990

Modella che si spoglia,olio su tela, cm 50x352006

Simona che ride,olio su tela, cm 70x602006

Modella che si spoglia è la visione finale di una opera incisoria che, in

forma omonima, qui ritroviamo.

La visione, dunque, si amplia, la materia e le cromie sostanziano

quell'idea in nuce che era sulla lastra e si resta affascinati dai giochi di

colori, ombre e luci che si pongono quale disegno astratto su oggetti

reali e sul corpo della modella, intenta a denudarsi per offrirsi all'arte.

Il contrasto tra aree più scure e zone illuminate, rende questo dipinto,

del 2006, un esempio di quella propensione di Tedaldi per la

costruzione compositiva mediante il colore che in molte altre opere

abbiamo potuto notare e che qui si arricchisce della traduzione dalla

lastra alla tela.

Il nome evocativo, Giulietta, d'antica memoria, sembra

quasi contrastare con ilo ritratto della giovane fanciulla,

assopita sul sofà, in abiti e atteggiamento estremamente

moderno.

In questo dipinto, Tedaldi ha seguito l'onda emozionale,

la stasi del riposo, una quiete che ha trovato traduzione

puntuale nella pennellata, meno vibrante, meno

nervosa; a differenza d'altre opere, questo dipinto

infonde, empaticamente, una calma che è non solo

semantica, quanto sensibile, portando la visione

pittorica ad un passo nello spazio mondano.

Un'espressione dettata dall'animo, il sorriso che prende forma

sul viso di una splendida ragazza, si fa latore di diverse letture.

L'osservatore, curioso, si chiederà quale il motivo di quel

ridere; chi guarderà con occhio alla composizione, troverà in

questo schema semiotico una visione dal taglio fotografico,

che par quasi uno scatto rubato ad un momento altro.

La realtà dell' è stata immortalata, cristallizzata da hic et nuncTedaldi che ha saputo render nota di un istante non andato

perduto.

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Sul divano, tempera grassa, olio ed encausto su tela, cm 80x452013

Eugenio,

olio ed acquarello su tela, cm 100x100

2016

Posa d'inverno, dittico, acrilico ed encausto su tela, cm 50x1402016

Il continuo scambio ideale, che fa del reale una dimensione soggettiva e relativa, einstenianamente intesa, diviene uno rimando prolifico nella pittura di Gianluca Tedaldi.

La condivisione dello studio con Laglia, porta l'artista a proporre la propria visione di altrui spazi. Ritroviamo, in tal modo, Eugenio Laglia, figlio dell'amico, già soggetto di opere paterne, qui ormai ragazzo a noi coevo. Tuttavia, il tema dello scorrere del tempo e della sua cristallizzazione, è affrontato dall'artista secondo un gioco compositivo e semiotico particolare: in primo piano una scultura di Eugenio da bimbo, realizzata da Laglia, sulla poltrona dinanzi alla riconoscibile toeletta, il ragazzo, oggi.

Un dipinto certamente carico di affezione ma anche di una profonda riflessione sulla vita, sui suoi percorsi e i suoi processi naturali, il passato ed il futuro, uniti dal presente che Tedaldi ha dipinto.

La gravità realistica traduce il protagonismo di questa scena, così

profondamente carica di . Il tema del nudo è affrontato da Gianluca pathosTedaldi, in questo caso, attraverso un ricorso ad una volontaria esperienza

sostanziata da suggestioni, evocative riflessioni.

Come in altri casi, non v'è neppure qui un dialogo tra la modella e l'osservante,

c'è una cesura tra i due mondi, nonostante la frontalità con la quale essi si

pongono l'uno all'altro.

Qualcosa di diverso è in questo dipinto; non si tratta solo della libertà della

trattazione tematica o dello stile puramente pittorico; c'è una verità profonda,

abissale, che rimanda a moti dell'animo e che trovano nella del realismo gravitasil punto apicale, che Tedaldi coglie con maestria.

Posa d'inverno è probabilmente una delle opere più suggestive. Si tratta, innanzitutto di un dittico, creato in modo tale da render quasi separate la descrizione di una parte dell'atelier e quella del corpo. In nessuna delle due dimensioni Tedaldi si spinge verso un concitato iperrealismo.

Si evince, in maniera naturale, quanto Egli sappia

sostanziare la sensibilità delle emozioni, l'essenza di un luogo e quella espressa da un corpo femminile.

La modella, nuda, che volge le spalle all'artista e a chi osserva, non è solo spogliata

degli abiti, ma è resa in grado di rivelare qualcosa della sua anima, in maniera del

tutto percettivo. La perfezione formale e mimetica non tange la ricerca di Tedaldi, e,

un nudo come questo è più nudo d'altri ignudi soggetti.

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Giulietta, acquaforte, lastra realizzata al solo tratto incrociato, senza acquatinta, mm 60x205

Danzatrice del ventre, acquaforte e acquatinta, mm 245x225

Julia di profilo,acquaforte e acquatinta, mm 115x115

Dagli insegnamenti dell'altro maestro, oltre a Ziveri, Arnaldo

Ciarrocchi, Gianluca Tedaldi ha appreso e sviluppato la tecnica

incisoria, che porta avanti con molta originalità.

Questa piccola incisione lascia compiere un salto nel passato di

cui s'è già detto, ma supporta il valore di quest'opera, legata,

infatti, alla realizzazione del dipinto che porta la medesima

titolazione, traduce un di Tedaldi. modus operandi

Emerge, in tal modo una visione primigenia, epifanica della

t r a d u z i on e s u c c e s s i va i n p i t t u r a , per m e t t en d o

all'interpretazione fruitiva di convogliare la propria attenzione

su un processo creativo più ampio. E affascinante.

La delicatezza di questa incisione è delineata dall'intrico

del tratto incrociato, che offre profondità allo spazio,

secondo prospettive animate dalle geometrizzanti

sovrapposizioni di oggetti.

La dimensione fenomenologica si suddivide, pertanto,

in una più complessa e, il quotidiano imageriedell' la resa dello studio dell'artista sul tema del atelier,nudo, si traduce in una rappresentazione molto vicina

alle tendenze e alle istanze della fotografia d'autore.

Osservando questa incisione, la sua straordinarietà

risiede nella originalità di Tedaldi ma, anche, nella

interiorizzazione della lezione di Renoir, ad esempio, ed

altri maestri del passato.

Questa acquaforte determina una riflessione sul concetto di

affronto del reale e sua traduzione visiva. Il ritratto di Julia,

invero, è reso da Tedaldi secondo un processo ontologico che

traduce la mimesi ad una sorta di trasfigurazione.

Il tratto è deciso, ben diverso dall'incisione precedente, a

mostrare la volontà dell'artista di indagare sia la materia che la

tecnica. Nel caso di questa opera, il ricorso allo spirito pittorico si

fa evidente e abbraccia l'incisione, senza soffocarne la propria

natura.

Il reale è spodestato da una visione che nei toni e nella resa

formale, ha un che di straniante, come se la donna raffigurata

giungesse dai bui abissi del sogno.

Incisioni

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La lezione, acquatinta,

mm 95x145

Julia di spalle, acquaforte e acquatinta, mm 165x65

La vicinanza tematica e di soggetto all'amico Laglia la ritroviamo anche

nelle incisioni di Gianluca Tedaldi, che, in questa opera ha ripreso la

medesima posa di un dipinto dell'artista abruzzese, titolato , qui Evapresentato.

Tedaldi in , riporta la seggiola, lo specchio e quegli elementi Julia di spallefondanti la scena del dipinto citato, ma ne promuove l'essenza più

intrinseca. Il riflesso, più che quello fisico e retinico è atmosferico,

avvolgente, nei dettagli che “l'impressione” tanto tecnica quanto

emozionale, sa trasmettere.

Non v'è dubbio che molte delle opere presenti in questo catalogo rappresentino una vera e propria incursione non solo e non già alla volta della conoscenza didascalica delle varie poetiche, dei differenti linguaggi artistici, ma anche e soprattutto, oserei dire, nella vita dei quattro pittori. Le loro opere, sommate, permettono di conoscere ben più di ciò che le normali biografie raccontano.

Giunge questa acquatinta a rafforzare il mio pensiero, che raffigura un momento nell' del maestro atelierincisore Nino Palleschi. Un altro studio, altri personaggi, a mostrare la ricchezza di un dialogico rapporto che nella Roma dell'arte ha ancora valore.

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Modella che si spoglia, acquaforte e acquatinta, mm 195x95

Come già in altri casi, anche per quanto riguarda questa incisione, si tratta di un'opera progettuale, che accompagna il dipinto omonimo e che offre una ulteriore possibilità di entrare in contatto con quella che potremmo definire la genesi del dipinto, lo studio dello spazio, del soggetto, della composizione.

Mediante i tratti incisori, Tedaldi mostra come un gesto segnico possa tradurre un pensiero, un'idea, un'immagine pregressa, mentale. La ricerca del bello, della essenza di natura, si ritrova in piccoli dettagli come questi che, successivamente vengono magnificati dalla traslazione in pittura, arricchiti dal colore, in un percorso che giunge a posteriori.

Noi, ora, qui, siamo di fronte all'immagine dell'idea, alla gestazione di un pensiero.

Modella nello studio,

acquatinta, mm 190x145

Lo stesso discorso varrà, dunque, anche per questa acquatinta,

con una differenza semiotica importante.

La , in foggia di incisione, si è trasformata, Modella nello studioattraverso l'attestazione identitaria, in un ritratto intitolato

Valentina che vediamo esser presente nella scena.

Ciò che, invero, tuttavia, stupisce, è il gradiente formale con cui

Tedaldi sa confrontarsi. Rispetto all'incisione precedente e a

quella che sta per succedere, lo stile adottato dall'artista, che qui

tende alla lezione di Picasso, rivela quanto la ricerca di questo

peculiare linguaggio sia un valore aggiunto a tutta la parabola

artistica di Tedaldi.

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Manuela sul divano, acquaforte e acquatinta, mm 175x230

Urania, puntasecca e acquatinta, mm 175x105

Manuela sul divano è forse l'immagine più “classica” e tradizionale di tutte quelle rappresentate con il linguaggio espressivo e la tecnica dell'incisione.

Rimanda alla tradizione di Goya e ancora Renoir, questo lavoro, e presenta un equilibrio che è tanto formale quanto di trattazione del segno. Si tratta di una incisione che molto ha a che fare con il linguaggio pittorico e che lascia credere che non si tratti né di un bozzetto né di un'idea preparatoria, ma di un'opera finita, fine a sé stessa, entro la quale si racchiudono i temi della bellezza, della resa della realtà, della percezione e della dimensione spaziale.

La calma che investe la raffigurazione giunge sino a noi, come fossimo stati bravi ad osservare, minutamente ogni lavoro di Tedaldi e ne sapessimo, ora, qualcosa in più.

Ο ρανίαὐ .

Sono rimasta immediatamente affascinata da questa incisione, perché il titolo, , fa riferimento anche ad una delle origini del mio nome, Uraniaseppur di matrice persiana.

Tuttavia, Tedaldi ha voluto alludere, naturalmente, alla Musa Urania, che era signora dell'Astronomia e della Geometria. La vediamo qui sotto un cielo stellato infatti, in una poetica rivisitazione del mito greco.

“Scendi dal cielo, Urania, se è davvero questo il nome con il quale sei chiamata, così che seguendo la tua divina voce io mi possa innalzare sopra il monte olimpio superando nel volo anche l'ala di Pegaso.”

Con i versi scritti nel Seicento da John Milton, possiamo ammirare questo lavoro e sperare che l'arte non sia mai priva di muse ispiratrici.

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Luca Vernizzi

Caraffe nello studio nero, tempera su tela, cm 80x1002000

Estate 1983, olio su tela, cm 80x80

1983

Straccio bianco e oggetti rosa,tempera su tela, cm 100x802000

E' questa l'opera più lontana da noi, in senso cronologico,

essendo del 1983 ed avendo l'età della sottoscritta.

Estate 1983 rappresenta, da principio, il linguaggio del tutto

diverso, originale ma abbastanza distante, formalmente e

stilisticamente, dagli altri tre artisti del gruppo. Lo spazio, la

figura, sono trattati in maniera perentoria, pragmatica, essenziale

ma differente, pur attestando la ricerca di Vernizzi tesa verso il

medesimo .focus

Qui noteremo da subito una estraneazione dalla dimensione

realistica del luogo abitato dal soggetto, a sua volta, una

silhouette, sostanziata dal colore e da pochi tratti, quasi si trattasse

di un disegno.

Con un balzo temporale non indifferente, si arriva al 2000 e con esso ad un nuova evoluzione del linguaggio pittorico scelto da Luca Vernizzi.

Il colore si è reso denso, è una tempera, e le scelte nuancesdall'artista sono brumose, cupe. L'unico punto luminoso è focalizzato sulla brocca vitrea.

Il rimando a nature morte ben prima che esse divenissero genere autonomo, è forte. Il ricordo di nicchie illusorie con all'interno oggetti, spesso anche in foggia di tarsie lignee, sono state un prolifico e simbolico linguaggio rinascimentale. Qui, Vernizzi, tuttavia, stravolge l'asservimento della metafora e rende degno di identità lo spazio in quanto tale, il reale inteso quale luogo esistenziale.

Afferente allo stesso ciclo, anche questo dipinto trova nel del quiddecorativismo geometrico, nella resa spaziale fenomenicamente

traslata, una delle chiavi interpretative.

Vernizzi, pertanto, sottende alla costruzione simbolica, una sorta di

perturbante straniamento, che guarda al reale, al quotidiano, in

maniera quasi metafisica.

E', infatti, in opere come questa e la precedente, che la visione

mimetica cede il passo ad una visione sostanzialmente interiore, una

dimensione che fonde e con-fonde irrealtà e realtà, in una sequenza

rapida di piani pittorici, dove il colore, gli sfondamenti, gli oggetti

quotidiani tinti di improbabili toni, crea nell'atto fruitivo una

riflessione su quel che potrebbe definirsi una astrazione cosciente da

ciò che è noto.

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Liliana seduta, pennarello e tempera su carta, cm 189x752004

Josine seduta, tempera e grafite su carta intelata, cm 188x752004

Il 2004 è segnato da un diverso filone produttivo, che si sostanzia un ritratti

femminili su carta, di notevoli dimensioni, quasi in scala 1:1 e che risultano

essere iconici più che didascalici.

Alla descrizione mimetica, Vernizzi applica una sorta di filtro, mediante

cui, l'immagine che viene restituita cerca un dialogo con la lezione pop e

con quella espressionista di matrice scandinava.

I dettagli fanno la differenza; i corpi delle modelle, descritti in modo quasi

opposito rispetto a quanto prodotto da Ferraresi, Laglia e Tedaldi, sono

inseriti in luoghi decontestualizzati, sono posti su uno sgabello, o in piedi,

abbigliati in maniera varia ma senza lasciare spazio al nudo.

Il gioco delle cromie rivela l'importanza del discorso semiotico, attraverso

cui, l'intero impianto si compone.

Dopo , è la volta di Liliana, protagonista di questo lavoro a Josine sedutapennarello e tempera su carta, di grandi dimensioni.

Rispetto al precedente, tuttavia, il contrasto cromatico assume valore

opposto, mentre si fanno strada ancora certi riferimenti stilistici ad una

trattazione tipica di decenni precedenti da un lato, e di modello da

campagna stampa, dall'altro.

In ogni caso, è pur sempre qualche dettaglio secondario ad attirare

l'attenzione di chi guarda. Che si tratti di un punto di colore negli abiti della

protagonista, o che si tratti di un gesto, Luca Vernizzi opera secondo una

precisa, quanto complessa semantica che, per quanto trovi appiglio nella

chiara titolazione dei lavori, lascia qualcosa in sospeso.

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Francesca in piedi,grafite e tempera su carta intelata, cm 185x74,52004

E' questo, , il quarto pannello afferente a quella che sembra Francesca in piediessere una vera serie costruita secondo una coesistenza di differenti sistemi gestuali.

Chiaro e scuro, tonalità aggreganti o allontananti, che lasciano dominare, nell'economia compositiva, l'analisi stilistica su quella delle forme.

Un linguaggio apparentemente semplice, che, al contrario, cela un più complesso modo di intendere la figurazione. Non si evince il senso di , atelierné di posa tradizionale. Questi lavori, in effetti, somigliano più ad una rielaborazione fotografica, della cui matrice compositiva sono intrisi.

I gesti delle donne rimandano a comportamenti ben chiari così come ad un linguaggio non verbale che il corpo è in grado di portare avanti in maniera indipendente e, su questo, si sofferma Luca Vernizzi.

Patrizia in piedi, grafite e tempera su carta intelata, cm 189x74,52004

Alle due donne sedute, Josine e Liliana, fanno da contraltare due donne in

piedi, Patrizia e Francesca.

Patrizia è la protagonista ritratta in questo pannello; è l'opera più significativa

da un punto di vista del legame tra corpo e spazio. Se alla delocalizzazione del

soggetto, spinto contro un fondo di un blu brillante, si oppone l'importanza

del gesto, ecco, dunque, che la posa della donna assume valenza non solo di

studio, ma anche di semiotica della comunicazione.

Esiste davvero, nell'intenzione di Vernizzi, una volontà di sottendere una

seconda interpretazione di questi quattro lavori? Molto probabilmente sì, non

fosse altro che il suo linguaggio e le sue radici sono milanesi, improntate da

una diversità storica del '900, nell'ambito dell'immagine sociale e della sua

rappresentazione.

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Al 2004 appartiene anche questo interessante dipinto, realizzato su carta con tempera e grafite che si allontana dalle opere appena scorse e segna una comunanza con alcune scene rappresentate dai tre “romani”.

“Il corpo è davanti a un quadro. A un tratto un dettaglio ci attira tanto da farci avvicinare. L'intero quadro diventa resto. Il dettaglio è l'isola del quadro. Il quadro scompare, lo ha inghiottito il buio. Resiste solo il dettaglio che ci ha fatto segno. Ora è un mondo.” A.Anedda

La mirata volontà di non inserire in uno spazio definito i soggetti, fa di Vernizzi un estraneo alle scelte che, al contrario, gli altri artisti hanno compiuto. I soggetti di Vernizzi, invece, procedono secondo una conquista della dimensione pittorica incurante, in questo caso, dello spazio. La protagonista, infatti, non è assolutamente interessata a quanto accade o potrebbe accadere alle sue spalle. Noi che la guardiamo, l'artista che la ritrae… Ella riposa, il candore del suo corpo, niveo elemento in un luogo oscuro, riflette una carica patetica giocata su un contrasto di vuoti e di pieni, che persuade l'occhio del fruitore.

Il dettaglio, elemento fondante in un tipo di lavoro che

rimanda alla grafica, che medita sulla pittura ma che

tende ad una sintetizzazione dell'essenza.

Nel caso di questa opera, il dettaglio è già chiarito nella

titolazione, ovvero che si rendono quasi i sandaliprincipali attori della scena, rispetto al corpo nudo della

modella, che in parte si scorge.

Lo studio del nudo, pertanto, traccia una mappatura

dello spazio che occupa, ma anche di un

aggiornamento di linguaggio, del quale Vernizzi si fa

latore.

Nuda seduta che riposa,tempera nera e grafite su carta, cm 70x502004

I sandali di Ania,

grafite e tempera nera su carta, cm 25x35

2010

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Tutti a disegnare,inchiostro nero e acquerello su carta,

cm 21,3x29,5

2012

Nuda su fondo lilla, grafite, acquerello e penna a biro nera su carta, cm 28,8x20,22012

Miriam di schiena, grafite e tempera nera su carta, cm 29,5x21,52012

Il nudo come soggetto intrinseco di composizioni che poi si rimescolano

con gli sfondi acquerellati, con i toni più decisi che paiono distogliere

l'attenzione dal soggetto, rendendolo, invero, ancor più degno di attenzione

retinica prima, e analitica poi.

Il fondo lilla, carico di richiami simbolici, si pone in diarchica opposizione

con il corpo nudo della modella, in un gioco di rimandi di forme, linee e

sinuosità.

Toni caldi e freddi prendono il posto di quel bianco e nero deciso, con

cui Vernizzi creava altri contrasti.

Il 2012 si rappresenta, nella fortuna critica di Vernizzi, un anno estremamente prolifico e questo catalogo ne dà nota.

Da qui in avanti una sequenza di opere, realizzate con tecnica mista e acquerello, crea un filone produttivo che ristabilisce una sorta di continuità con la tradizione dello studio, della realizzazione di rappresentazioni di figura, non certo come esercizio di stile o peregrinazioni ontologiche per i propri studenti, ma quale attraversamento di un sistema ben più ampio e complesso, in cui sperimentare continuamente.

Qui siamo dinanzi alla più classica delle scene: la modella al centro della stanza, attorniata da chi la ritrae. In ciò si racchiudono due sentimenti; il primo è quello del Vernizzi docente, l'altro è quello della condivisione dell'arte e della propria visione, di cui la modella diviene soggetto coprotagonista.

A proposito di quel contrasto netto tra bianco e nero, nell'opera su carta Miriam di schiena palette, Luca Vernizzi torna ad utilizzare la medesima essenziale ,

tuttavia un cambiamento è avvenuto.

Se nel 2004 il contrasto era forte, esibito, in grado di dare vita d uno scontro con

il reale, in lavori come questo in oggetto, quel rapporto con il reale pare

addolcirsi, come se una più ampia riflessione sull'icona fosse stata sviluppata e

fosse maturata nel pittore.

L'immagine della modella oltrepassa la necessità di porsi quale limite oggettivo

– nonostante ancora adesso la donna sia voltata, come allora – e sancisce un

ruolo che conta sull'osservazione del dettaglio, sulla sua centralità nella

composizione ma non come termine ultimo semmai, come dettaglio da cui

prendere avvio per nuove oggettivazioni.

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Valentina coricata su drappo marrone,grafite e acquerello su carta, cm 21,5x29,6

2012

A Brera, grafite di due forze e acquerello su carta,

cm 26,6x21

2012

Valentina, grafite su carta, cm 29,7x21,5

2012

A Brera, sempre del 2012, individua fisicamente il luogo dove

l'azione rappresentata si sta svolgendo e dove Vernizzi ha svolto

la sua docenza.

Una modella posa in aula, mentre pare, a sua volta, soggetto di

una singolare. Il corpo della modella, reso mise en abîmeattraverso un colore che ne determina una vicinanza ad un

soggetto del reale, è a sua volta, però, inquadrato in linee

prospettiche e di proporzione che sulla carta sono state tracciate

dall'artista.

Un gioco di raddoppiamento delle visioni si attua, un viaggio

alla scoperta non solo e non più all'interno di un , di atelierun'aula, di una realizzazione scenografica o di un bozzetto

incisorio; Vernizzi ci fa entrare dentro la creazione di un

disegno, non finito, ancora nella rincorsa alla in itinere,definizione di una iconografia programmata e ragionata.

Ad un'avventura tra le aule accademiche, sembra invitarci

mediante questi acquerelli, Luca Vernizzi.

Non resta che seguirlo, scomponendo i vari pezzi del reale,

liberando lo spazio pittorico da ogni orpello, optando per una

sintesi non solo di creazione ma anche di visione; ciò non vuol

dire, però, non riuscire a cogliere i dettagli che tessono una

storia che va oggettivata ben oltre il supporto.

Le modelle di Vernizzi, inoltre, per quanto nominate e pertanto

restituite all'analisi interpretativa secondo una identità ben

definita, perdono il proprio riconoscibile nella traduzione quidgrafica, sciogliendo un enigma sulla osservazione e sulle

dinamiche della rappresentazione del reale.

Linee essenziali, costruzione grafica di un soggetto, apparato di

studio, visione e tensione verso la bellezza e il suo posto nel reale.

Questo piccolo disegno non necessita d'altre parole, esso è, nella sua

sintesi costruttiva e compositiva, in grado di bastare a se stesso. Il

richiamo alla tradizione del disegno, in special modo a quello del

Settecento e poi a quello dell'Ottocento, riesce, tuttavia, a farlo

relazionare, con grande fluidità espressiva, con la tradizione

contemporanea.

Tanto basta per compiere un solo atto, nel momento fruitivo:

guardare e trovare il di unione tra prospettiva reale e sua punctumvisione mentale.

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Due nude e sgabello verde, grafite, pennarello e inchiostro nero su carta,

cm 20x29,7

2013

Labbra,

tempera su carta da pacco intelata,

cm 86x114

2012

Angela addormentata ,

grafite su carta, cm 20x29,8

2013

“Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo”, cantava

De Gregori e tale verso mi è sovvenuto sia per il soggetto

descritto da Luca Vernizzi in questo dipinto a tempera, sia

perché l'artista lo ha realizzato su carta da pacco per spedizioni.

Ingannevole coincidenza, naturalmente, ma che chiarisce

come, da un'immagine derivata dal reale, e quindi

dall'osservazione diretta di un modello preso a soggetto, l'atto

fruitivo può tradursi in una visione altrettanto reale, quanto,

però, diversa da quella primigenia ideata dal pittore.

Di tali , carnose, rosse, sensuali, emerge la diarchia Labbrarispetto ad altre opere. E' questa, probabilmente, nell'ambito

di tale breve , l'opera più tendente alla mimesi che excursusVernizzi abbia presentato e, su tale concretezza deve

imperniarsi l'osservazione del pubblico.

Ombre, dettagli, costruzione di uno spazio non definibile eppure abitato dalle due modelle, nude, che, ancora una volta, offrono a chi osserva solo la negazione di una identità definita.

Il dettaglio è quello sgabello verde, al quale una delle due fanciulle è poggiata; esso non segna il centro esatto né del supporto né della composizione, esso, piuttosto, funge da elemento catalizzatore, estraneo, rispetto all'elemento umano.

La speculazione ontologica si applica adesso al tema del doppio, ma, al contrario di quanto visto in Laglia, qui non vi è complicità tra le donne semmai, una distanza evidenziata da un oggetto posto quale baluardo di un limite che non sappiamo se essere invalicabile.

L'ultima opera di questa sequenza, afferente alla produzione di

Luca Vernizzi, è un disegno del 2013, titolato Angela addormentata.

Una linea quasi continua, che pare non aver mai abbandonato

la carta e che, invece, si risolve in una disinvolta dissoluzione

dello spazio, del reale, dello stesso corpo della modella.

Alla maniera del disegno barocco, Vernizzi lascia sulla carta un

ritratto estremamente moderno – più che contemporaneo – in

cui alla durezza delle prime opere qui presentate, sostituisce

una fluidità delle linee, dei contorni, che paiono come

sciogliersi, seguendo la sinuosità dei soggetti, non più oggetti,

ma corpi umani, ricchi di un proprio intimo sentire.

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CELESTINO FERRARESI

PrecarietàCarmenIn cerca di pensieriApparenza di un ritrattoAutoritrattoSenza titolo (modella assopita) MalinconiaSenza titolo (cipolle e miglio)Senza titolo (la rosa e il burattino)Senza titolo (aglio e peperoncini)Senza titolo (cesto di fichi)Senza titolo (fiori essiccati)Senza titolo (melograno sul tavolo)Il tempo che non passa maiSenza titolo (vecchio divano)Senza titolo (piatto di fragole)Senza titolo (la conchiglia)Senza titolo (grappoli d'uva)Senza titolo (tre fichi)Senza titolo (fichi d'india e limone)

***

ANTONIO LAGLIA

Autoritratto con sigaroJoelIo e LoryBurlesqueIl camerino di Lindsay KempEvaClaudiaEugenio che scriveIl tifosoLorenzoAutoritratto (i cappelli)May

PubLipstickAl bagno (Eva e Gaia)JuliaErisEvaCocoritaNatasha

GIANLUCA TEDALDI

Fabio come pugile La provaDanzatrice del ventreNatascia e GiuseppeValeria in biancoPaola in rossoEva sullo sgabelloCamilla al pubSulla pedanaPugilatriceCelestino che disegnaModella in gialloValentinaPosa allo studio di CelestinoPaola di profiloModella che si spogliaGiulietta che dormeSimona che rideEugenioSul divanoPosa d'inverno

Incisioni

Danzatrice del ventre

GiuliettaJulia di profiloJulia di spalleLa lezioneModella che si spogliaModella nello studioManuela sul divanoUrania

***

LUCA VERNIZZI

Schiena di donnaDoppio nudoStudio nero e tela biancaMutandineNada in piediL'architetto Giuseppe Gentile e il pittore Gennaro MininiEstate 1983Caraffe nello studio neroJosine sedutaLiliana sedutaPatrizia in piediFrancesca in piediNuda seduta che riposaI sandali di AniaNuda su fondo lillaTutti a disegnareMiriam di schienaA BreraValentina coricata su drappo marroneValentinaLabbraDue nude e sgabello verdeAngela addormentata

Elenco opere

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Celestino Ferraresi

La luce, l'essenza, il rigore. L'osservazione suggestiva che deriva dalla memoria, la ricerca di una bellezza che

giunge dalla verità, quella del reale, dell'oggetto, di quanto appartiene al quotidiano, anche a quello considerato

più banale.

Celestino Ferraresi era tutto ciò, era tutto questo e molto di più. Egli è il primo degli artisti cui la mostra anche La Modella, Lo Studio, La Pittura - Quattro pittori fra Roma, Milano e l'Emilia rimanda e guarda, offrendo spunto per

poter intraprendere un viaggio a ritroso in quella feconda stagione pittorica formatasi in seno alla Scuola

Romana di seconda generazione. Ferraresi giunge a Roma da Accumoli, da quei luoghi che oggi mostrano la

loro forza combattendo contro il terremoto; luoghi e gente autentici, con una innata passione per

l'intransigenza, per il duro lavoro e il sacrificio. Celestino Ferraresi inizia il suo percorso accademico sotto l'egida

di Piero Sadun e Alberto Ziveri, da cui apprende non solo la artistica, quanto, il , costellato di lectio modus operandiriferimenti, certo, ma anche di volontà pragmatica nel processo di elaborazione delle proprie opere, senza seguire

le mode del momento, restandone, piuttosto, come era stato per Ziveri, in disparte. Al fianco del maestro, ne

diviene assistente prima e successore poi, scegliendo l'insegnamento quale luogo ontologico da esperire. Nella

docenza, invero, Ferraresi trovò ed attuò la dimensione dello scambio tra sé e i suoi studenti, in una visione di

arricchimento ampio e prezioso; proprio nell'insegnamento l'artista scoprì la sua ottimale dimensione, un limbo

entro cui giocare un ruolo diverso da quanto l'arte di quegli anni chiedeva. Tale scelta personale è ravvisabile

nelle sue opere e nelle tematiche da Egli predilette. L'osservazione del quotidiano si è tradotta, dunque, in una

sorta di trasfigurazione dell'oggetto, del corpo, della forma, che hanno preso vita a sé stante, propria identità,

quasi si fosse trattato di una rivelazione giunta per la fede nutrita verso l'arte, lo studio e la riflessione ontologica.

La bellezza rivelata, ma non nel modo consueto, quanto secondo paradigmi ed istanze che traevano dal humusproprio universo; un mondo, quello dell' , ricco di suggestioni, divenuto luogo nodale del sodalizio tra i ateliernostri quattro artisti, del quale Ferraresi ha raccontato molto attraverso la sua poetica pittorica. In tale ambito si

inseriscono quelle che sono state per l'artista abruzzese i riferimenti traslati sulla tela, secondo una pittura resa

quasi esclusivamente mediante la tecnica della tempera all'uovo, di atavica memoria ed in grado, tuttavia, di

esaltare attraverso la propria innata opacità, quel senso di evocazione, di esaltazione del soggetto, comprenderne

il senso più celato, al fine di attuare uno svelamento che nell'immagine raffigurata potesse lasciar emergere

l'insita poesia. Celestino Ferraresi potrebbe esser definito , allorquando la sua arte si fa sintesi un poeta della pitturae contrazione di una osservazione scevra da ogni qualsivoglia sovrastruttura, alla ricerca di una essenza sincera,

persino stupefatta e tralasciata sovente dall'accademismo. Il tempo, i luoghi, gli oggetti e i personaggi delle sue

opere non sono gli uni contro gli altri, non v'è una sfida di ruoli, tutto, al contrario, concorre alla suggestione

narrativa; la metafora del linguaggio e della semiotica compositiva, hanno permesso al pittore di estrapolare dal

quotidiano una visione del reale in grado di restituire non una pittura metafisica, quanto, piuttosto, una pittura

di , in cui il tutto è invocato da una luce che si è tradotta in essenziale. memento quid

Parrà al fruitore di entrare nei luoghi abitati dai soggetti ritratti dall'artista, si stabilirà una sottile quanto potente

empatia, in grado di rivelare l'anima delle cose e dei luoghi. Ciò che solitamente tutti noi neppure osserviamo,

diviene, d'un tratto, sotto la luce pittorica e concettuale di Ferraresi, qualcosa di infinitamente lirico. Che si tratti

di angoli dello studio, laddove, ad esempio, un divano consunto, uno specchio, piccoli e quotidiani oggetti,

come ortaggi, fiori, vasi e simbolici burattini, trovano posto, o che si tratti di autoritratti e modelle che lavorano

per l'artista, la cui esperienza umana loro legata, si traduce in un sentire profondo; Ferraresi non dipinge nature

morte alla maniera di Morandi, né alla maniera secentesca, seppure da esse trae quel suggerimento simbolico

che punta l'analisi in direzione del ruolo del tempo, della fuggevolezza di cui, tuttavia, tale cristallizzazione porta

al godimento.

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È una pittura riflessiva, le opere in mostra esaltano tale volontà, e la loro fruizione giunge ad una diarchia tra la

volontà di indagine e di interpretazione e quella più carica di . Nelle nature morte, che tali non sono, alle πάθος

quali Ferraresi non aveva voluto dare titolazione, sancendo una cesura eziologica nel rapporto semantico, non

certo per superbia, piuttosto per una volontà evocativa, in cui ogni osservatore avrebbe potuto ritrovare una

propria intima e personale rivisitazione, accade ciò: dinanzi alla sospensione che pare attuarsi dinanzi alla

esternazione di , mediante cui un varco si apre tra la presenza/assenza dell'elemento umano, petit jeuxdell'osservazione, pacata e riflessiva di una serie di circostanze che, invero, raccontano altre storie, l'artista

rimanda a qualcosa che non è presente figurativamente ma che, poeticamente, giunge nello spazio reale, quel

medesimo reale a cui questa arte tende. La ricerca del bello si mostra in particolar modo nel filone produttivo che

vede protagoniste le modelle e lo studio della figura, come sancisce il titolo stesso della mostra. Tuttavia, non

siamo dinanzi a dipinti in cui il soggetto modella/corpo umano è trattato in maniera accademica, di studio. Le

opere di Ferraresi, come ad esempio o , si stringono attorno ad una visione che fa Precarietà In cerca di pensieridell'umano sentire il valore a cui giungere, attraverso il linguaggio del corpo. Paiono scatti rubati, momenti

sottratti a riflessivi istanti di giornate in studio, tra una posa e l'altra. La carica psicologica è ciò che offre

struttura, anche compositiva, alle scene dipinte; la ricreazione sulla tela di un luogo che si fa al contempo reale ed

immaginario, universalmente emozionale, permette che ad emergere siano le percezioni. Si evince un doppio

filo conduttore: il primo è quello che oserei definire storico, legato alla tradizione figurativa del rapporto tra

artista e le proprie modelle, dal mito greco ai giorni nostri. Il secondo, è, tuttavia, il modo di affrontare questo

tema da parte di Celestino Ferraresi.

Ammirando i dipinti citati e altri presenti in questo catalogo ed in mostra, il fruitore avrà come l'impressione di

osservare un curioso e peculiare , imperniato sulla circolarità delle emozioni, sulle ingerenze della mementopsiche, in grado di darsi voce tramite il corpo. Una sorta di amletica rievocazione, che non ha sapore di finzione

né di studiato . Al contrario, è come se tutto ciò che era solito muoversi nello spazio dell' tableau vivant atelieravesse avuto diritto di ruolo dignitario, un ruolo che Ferraresi avrebbe consapevolmente concesso per passione

dello studio, per il suo sguardo sempre sorpreso ma altrettanto colto. La modella, nel caso di queste tempere,

diviene lo specchio umano per suggerire emozioni, come dai titoli si evince. Il dualismo semantico rivela la

volontà di indagine dell'artista, tanto da permettere all'osservatore di cogliere una ampia gamma di declinazioni

di significato. Alla sensualità che un corpo femminile trasuda di sua sponte, fa da contraltare una vibrante

emozionalità che si ritrova nei gesti immortalati, nelle posizioni raffigurate, in una sorta di silenziosa

immanenza che pare abitata dal pensiero più che dalla parola. L'impressione è quella di tornare indietro nel

tempo e cogliere attimi di un'intimità intellettuale ormai perduta, di cui restano, come istantanee, questi dipinti,

ed in maniera simbolica, quasi coincidente, giunge una delle opere più seducenti, , nella Apparenza di un ritrattoquale un abito evoca l'assenza dell'elemento umano, uno specchio, in cui si riflette un tavolo con su una cornice

fotografica all'interno della quale campeggia un primissimo piano femminile. In tal modo, in questo simbolico

lavoro, pare convogliarsi l'effimero del tempo, della vita stessa, su cui Ferraresi riflette, senza sosta, in tutta la sua

parabola artistica. La bellezza diviene campo di indagine, il reale ne è la sua matrice, laddove le radici eziologiche

affondano.

Il contrasto dei colori, la vibrazione della pennellata, le scelte luministiche, in accordo armonioso con l'impasto

della materia e con le cromie, tendono a rendere la narrazione un luogo emotivo, non solo mera

rappresentazione, ma soggettivazione universalizzata di un infinito non sempre noto, bistrattato o reso

inaccessibile dal sistema dell'arte. L'astrazione del sa tradursi in una malinconica e profonda visione, che è λόγος

vita, afflato e sostanziazione di una carica espressiva che è tanto oggettiva quanto personale. Tanto agli oggetti

quanto ai corpi, è offerto il ruolo della messa in scena iconica ed inconscia, con cui misurarsi e attraverso cui

compiere un viaggio nelle strade della realtà e del suo bisogno di rivelamento.

Azzurra Immediato

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Antonio Laglia

Non molti mesi fa ho indirettamente conosciuto il lavoro del secondo artista del gruppo, Antonio Laglia.

Anch'egli, come Ferraresi, ha origini dell'area reatina, avvalorando quella tesi del Venturoli, secondo la quale la

Scuola Romana era tale non già per origine ma per vocazione da altrui terre.

In un altro mio scritto avevo visto nella pittura di Laglia non un gioco di parole ma una “il realismo della realtà”ellittica visione che pone le basi non solo e non già nella diretta osservazione delle opere dell'artista ma nel suo

modus pingendi “Realista di mente”. , invece, lo aveva definito, sul finire degli anni '70, il maestro Alberto Ziveri,

quando sin da subito fu lampante la peculiarità del linguaggio del giovane giunto da Amatrice. La sua

formazione, di stampo tradizionale, ha giocato un ruolo fondamentale nell'acquisizione di una consapevolezza

verso la ricerca del nuovo, tale da permettere al pittore di portare avanti un linguaggio peculiare, di taglio

iperrealistico. Ecco, dunque, il ricorso a quel reale che si pone quale del gruppo, una volontà che non fil rougetrova soltanto nelle mimesi la sua ragion d'essere, quanto, piuttosto, nel consolidamento di un ragionato modo di

osservare la realtà, cui è sotteso un forte legame con la ricerca di una certa alterità. Il mondo che osserva e traduce

Laglia è abitato da personaggi afferenti al mondo del teatro, della musica, dell'arte ma anche da momenti del

quotidiano familiare, di cui sua moglie e suo figlio si rendono protagonisti. Una visione caratterizzata da una

volontà di rendere il reale figurativamente veritiero, in cui la traduzione in pittura non snatura le scelte narrative

che, tuttavia, non si fanno didascalica rappresentazione.

Ciò appare chiaro anche negli autoritratti, in cui l'atto di guardarsi non è solo un riflesso, né un gesto egoico,

quanto, piuttosto, una sorta di immedesimazione nel soggetto, da intendersi quale valore attoriale della pittura

ritrattistica, resa tale dalla volontà di Laglia di indagare il quotidiano, scorgere nel reale ciò che con la fisicità ha a

che fare, fondendosi con una via contemplativa che si pone a metà strada fra un universo reale e un mondo di

filiazione onirica. Grande attenzione viene resa alla trattazione del dato oggettivo, agli interni rappresentati

secondo un taglio che può definirsi di matrice fotografica, ma con la maestria nel trattare l'afflato di vita

protagonista, in maniera straordinaria. Non v'è mera registrazione del reale, e neppure soltanto una descriptionarrante fine a sé. Realtà ed immaginazione, frutto della fantasia fruitiva, si fondono e confondono, nello spazio

pittorico così come nello spazio di analisi interpretativa. , evocano, nella La Modella, lo Studio, la Pitturaproduzione qui presente di Antonio Laglia, una commistione che non è soltanto tematica: è un modo di

affrontare, attraverso l'arte, il gioco della vita, di cui la pittura si fa traduttrice al fine di lasciar emergere sentimenti

e suggestioni interiori. In tal modo, secondo tale approccio, l'artista permette a chi osserva di entrare nell' , ateliernei camerini teatrali, alle prove di un qualche spettacolo. Noi che guardiamo siamo, d'un tratto, parte della scena

raffigurata, accediamo ai luoghi non visibili al pubblico; Laglia ci offre una via d'accesso ai momenti più intimi

dei suoi protagonisti. Noi guardiamo con lui e carpiamo ciò che ha colpito il suo sguardo. Una osservazione che

diviene meticoloso rapporto pittorico, in cui presenza e assenza sono valori formali e concettuali in grado,

scambievolmente, di prendere parte all'attuazione di un piano rappresentativo, inscenato magistralmente in

studio.

La verità iperrealista, offerta dalle scelte stilistiche che sono cifra riconoscibile dell'artista, si ritrova nella

dipintura dei corpi, degli oggetti, delle stanze, laddove anche i più insignificanti particolari e oggetti, che tali,

evidentemente non sono, concorrono a dar forza alla composizione. Energia che è data anche mediante il

missaggio luministico-cromatico, che sostanzia la realtà pur dichiarandosi pittura e raggiungendone vertici

non convenzionali. Le opere di Antonio Laglia, realizzate ad olio, si trasformano in inquadrature lenticolari,

ricordano, per tale tratto, la pittura nordica del Cinque e Seicento, ma scendono, per via delle tematiche e del

parallelismo di un tempo per noi riconoscibile, nel nostro quotidiano, dando luogo ad una fruizione in grado di

farsi intrinseca fusione.

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Le modelle che si preparano, le ballerine che entrano in scena o fanno le prove, donne che si rilassano in un pub,

sono, spesso, le medesime che anche qualcuno degli altri quattro artisti ha immortalato, tuttavia, la peculiarità di

questi pittori, risiede nella straordinaria valorizzazione del proprio apporto, privo di antagonismo, ma in

continuo rimando dialogico. Sarà interessante, invero, osservando le opere qui presenti, giocare a riconoscere

oggetti, luoghi e personaggi, stupendosi per la differenziazione soggettiva di intendimento ottico e ontologico,

mentre lo studio dell'artista diviene luogo della multiformità.

Illusione o realtà è ciò che, tuttavia, lo spettatore si troverà a dover discernere, azioni descritte ed ex ante ex postaltre azioni, come se Laglia avesse deciso di immortalare un istante tra tanti, offrendo modo di accedere ad un

cosmo non sempre noto. Le composizioni, pertanto, si rivestono di una singolare ontologia, la materia pulsa vita,

ma la raffinatezza della mano di Laglia, rende tutto impeccabile, un'abilità in grado di portare ad emersione non

solo una immagine, ma una emozionale resa del momento, l' . Ci sembra quasi, dunque, che tutte le hic et nuncemozioni racchiuse in quei luoghi possano essere empaticamente provate nello spazio reale, tanto da divenire

una sorta di scambio suggestivo. La narrazione di un certo quotidiano, nel caso delle opere più note, raggiunge

una sublimazione mediante una sorta di simbologia, non metaforica, quanto concettuale e speculativa. Ciò,

tuttavia, accade anche per i dipinti che si calano nella quotidianità familiare, laddove i protagonisti sono la

moglie dell'artista, il figlio o, appunto, nel caso degli autoritratti, Laglia medesimo.

E l'osservatore? Egli è al confine del rapporto tra il pittore, la realtà e la bellezza. Noi che fruiamo, siamo la

frontiera, emblema della tangibilità di quella realtà traslata sulle grandi tele e quello in cui quotidianamente

siamo calati, in una sorta di limbo di riconoscibilità alterata, mentre la curiosità, lo spirito voyeuristico invade lo

spazio antistante le opere. L'impressione è suggestiva, pare di percepire in maniera sensibile che l'immagine

raffigurata sia un momento contemporaneamente in atto e non filtrata dal . Le grandi dimensioni delle mediumtele scelte dall'artista, inoltre, contribuiscono a definire ulteriormente quella sorta di enigmatico inganno che è

offerto dal pittore. La spazialità che con maestria l'artista tratta, sfonda il limite del pittorico, per inondare la

nostra, non lasciando chiara distinzione tra le frontiere delle dimensioni fenomenologiche. Iconografia,

iconologia e forma plastica si uniscono, donando alle scene il entro cui l'analisi della realtà compie il proprio quidpercorso; si tratta, tuttavia, di un realismo che direi quasi essere dinamico: tra la messa in scena e la riconoscibilità

dell'artifizio uno straniante senso di meccanismo prende forma, l'energia pittorica, materica, si avvale delle scelte

semiotiche che non possono, mai, non cedere alla fascinazione semantica messa in campo da Laglia.

Egli, pertanto, ci si chiederà, pone il pubblico di fronte ad uno spettacolo, ai suoi retroscena, ai momenti

precedenti, carichi di ansia e nervosismo, a quelli posteriori, invasi da stanchezza e calma? E' libera tale

interpretazione, così come lo è quella degli accadimenti quotidiani, che appartengono, in verità, ad ognuno di

noi, in un ambito antropologico e narrativo ben più ampio. Ecco, dunque, un'altra peculiarità della poetica di

Antonio Laglia: la riconducibilità del proprio vissuto pittorico alla sensibilità universalmente intesa, in grado di

aprire un varco per un incessante dialogo tra osservatore e opera, in cui la semantica potrebbe rivestire un piano

secondario, mentre, invece, alcuni oggetti debitamente scelti dall'artista, segnano il passo. E' il caso degli specchi

o di riflessi altri: mai lo sguardo dei protagonisti dei dipinti affronta quello di chi osserva, se non quello del pittore

medesimo quando si rende soggetto delle opere, v'è sempre, infatti, qualcosa d'altro che lega le due dimensioni

mondane, dando vita ad un rapporto che oserei definire di sottile ed enigmatica strategia, indiretto, come se

prevalesse la volontà di dominare, in un certo qual modo, quella realtà in cui Egli per primo è calato e che ha

desiderio di raccontare. E'una o una ? L'illusorietà si accosta alla realtà fuggevole di un mise en scene mise en abîmemomento, quello immortalato dalla rappresentazione, la curiosità dello spettatore cerca di fermare quell'istante

narrato, quasi frettolosamente, fintanto che, al contempo, la via pittorica intrapresa dall'artista concorre ad essere

meravigliosa e minuta interpretazione del suo tempo.

Azzurra Immediato

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Gianluca Tedaldi

Romano, l'unico dei quattro, di nascita, è l'artista che nel gruppo si pone in maniera trasversale, punto di

congiunzione tra e , in qualità di pittore e storico dell'arte. Allievo di Alberto Ziveri, grande maestro λόγος τέχνη

sotto la cui egida si è formata la generazione contemporanea di quella che fu la prima Scuola Romana, da cui

Tedaldi ha appreso i segreti della pittura e da cui ha dato vita ad un percorso personale e originario, ha, poi, egli

ampliato la propria formazione scegliendo altri due linguaggi legati strettamente all'espressione artistica: l'arte

incisoria appresa da Arnaldo Ciarrocchi e gli studi specialistici in Storia dell'arte medievale e moderna.

A differenza di Celestino Ferraresi, di Antonio Laglia e Luca Vernizzi, la docenza non rappresenta uno degli

aspetti del quotidiano di Gianluca Tedaldi, il quale, in questo gruppo, si rivela essere, in verità, il , tra trait d'unionRoma e Milano, come suggerisce il titolo della mostra. Compagno di studi in Accademia a Roma con Antonio

Laglia, mentre Celestino Ferraresi era già giovanissimo assistente di Ziveri, porta avanti il proprio percorso

pittorico insieme con i due artisti romani d'adozione, e molte sono le opere realizzate nei loro studi; Vernizzi,

invece, impegnato a Milano, ha un grado parentale con l'artista romano. Interessante è scoprire, analizzandoli,

quanto diverso sia il linguaggio di Tedaldi rispetto a quelli di Ferraresi e Laglia, e a quello di Vernizzi, fattore

determinato da una differenza di gusti, naturalmente, ma anche per un concetto che lo stesso Tedaldi mi ha

“confessato” e che avrei piacere di condividere con Voi:

“Rispetto agli altri artisti (due sono stati compagni di una vita, l'altro è mio cugino) mi considero – anche se in senso non dispregiativo – “dilettante” nel senso profondo del termine “diletto”, ossia, quello di non avere la responsabilità di uno stile ben definito.”

La pittura e l'incisione per “diletto” hanno, tuttavia, portato, negli anni, a risultati di grande gradevolezza, di

freschezza compositiva e materica, segnata, in particolare, da quella volontà e quella libertà “deresponsabilizzata”

che ha lasciato alla sperimentazione ruolo di protagonista, in quell'indagine sul reale, sulla sua trasmissione dal

vero al supporto e al rapporto con la bellezza, ideale o concreto, grande margine di azione. Affrontando lo studio

dei quattro artisti, ho convenuto quanto l' di un pittore sia il luogo di lavoro in cui paiono prendere corpo le atelier sensazioni, i ricordi, le ispirazioni, uguali e opposite, le suggestioni dell'artista quasi si trattasse di un

rovesciamento della realtà in un unico spazio, a metà fra set cinematografico e fucina di nuove oggettività. La

presenza, inoltre, delle modelle, dei modelli e di altri protagonisti di tale luogo – degli artisti medesimi, comuni

denominatori della condivisione, come nel caso di Tedaldi con Ferraresi e, in special modo, con Laglia – ha

determinato una sorta di consapevole complicità divenuta essenza di un quotidiano condiviso ma, al contempo,

solco di ricerche diverse, visioni peculiari all'animo di ogni personalità. Tedaldi medesimo si è stupito, talvolta,

per la diversità di esito tra sue opere e quelle dell'amico e collega Laglia, che pure avevano stessi soggetti e stesse

scena. Tuttavia, ciò va a mostrare quanto l'eterogeneità umana, del sentire, del percepire secondo sensibilità

diverse, possa portare a risultati parimenti validi ma altrettanto lontani da un punto di vista formale.

La pittura di Gianluca Tedaldi è sostanziata da una matericità in grado di determinare una traduzione della

mimesis in funzione soggettiva, laddove anche una colatura, una approssimazione della pennellata, una

volontaria determinazione nel non scendere nel campo dell'iperrealismo, sancisce una libertà espressiva che ama

soffermarsi sull'essenza della visione di insieme, volta ad essere soggetto di una imperitura sperimentazione. E' in

tal modo che, ad esempio, alcuni punti di vista si concentrano in maniera focale sulla scena o su un particolare, la

prospettiva si chiude verso un punto peculiare, tralasciando larga parte dell'insieme. Uno stile distintivo, che

affonda le proprie radici nella svolta della pittura operata, secoli addietro, da Annibale Carracci e delle correnti

tardo ottocentesche italiane, post impressioniste, di cui Tedaldi conosce bene la storia.

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Intanto, all'osservatore accorto non sfuggirà, neppure nel caso delle opere di Gianluca Tedaldi, qualche dettaglio

già noto; ricordando che molte dei lavori qui presentati sono stati realizzati nello studio di Laglia, ritornano

oggetti, quali il divano, il tappeto, la toeletta con lo specchio e altri, che, tuttavia, sono riconoscibili per un senso

di evocazione, più che per una minuta descrizione. Ecco, dunque, che punto di vista e punto di partenza sono il

quid che sancisce l'unione ma anche le differenze tra i due stili, a vantaggio di un piano narrativo che, nel caso di

Tedaldi, giunge ad una sorta di scomposizione emozionale, in cui ad ogni pennellata, ad ogni gesto, pare riferirsi

una prospettiva espressiva di altro gradiente, determinando, per lui, il ruolo di artista poliedrico, capace di dar

corso a scene di genere, a vedute paesaggistiche – di cui, purtroppo, non abbiamo esempi nel presente catalogo –

agli interni d' , nudi e ritratti, in foggia di pittura ma anche di incisione, ricorrendo, pertanto ad una atelierpluralità di linguaggi che ha sancito non solo la specificità stilistica di Tedaldi, ma anche la volontà di indagare la

materia, la composizione e il soggetto, sotto ottiche varabili. Se nelle opere pittoriche, ma anche in quelle

incisorie, l'artista dà corpo ad una rappresentazione del modello non più stagliato su uno sfondo neutro bensì

all'interno di un ambiente – l' e le storie che sa inscenare – ma colto in attività quotidiane o in momenti di atelierintimità, oppure circondato dagli oggetti che parlano della sua vita e del suo lavoro, il ruolo fondante ed il

rapporto con l'ambiente e le modelle, si fanno tramite, varco emozionale per uno stile essenziale ma

profondamente lirico e suggestivo.

La trascrizione del dato naturale e oggettivo, grazie alla sapiente fusione di conoscenza tecnica e radici teoriche,

si rende fonte di un interesse che guarda alla resa atmosferica del reale – riportando alla mente le esperienze e la

lezione di Giovanni Boldini – trattato secondo quello che oserei definire un “realismo originale”che asserisce la

padronanza con cui il vero è trattato: talvolta in maniera nitida, talaltra in maniera trasognata, per quella forma di

“diletto” entro la quale si racchiude una libertà generata dalla pura passione, come si evince, in particolar modo,

nelle incisioni, studi dedicati in larga misura all'universo femminile, in quello stretto rapporto con la modella,

che i nostri quattro artisti hanno celebrato, involontariamente, grazie al proprio lavoro. In tali opere, Tedaldi, ha

indagato il cosmo di Venere con grande sensibilità e raccontando, attraverso la delicatezza del tratto pittorico

quanto nelle scalfiture sulla lastra, una ampia gamma di emozionalità, sempre secondo quella emancipazione

stilistica e formale che è il vero della parabola e della poetica di Tedaldi. La sensibilità per la luce, per punctuml'elemento evocativo, restituisce a noi che osserviamo i suoi lavori, qualcosa che va oltre la mera rappresentazione

del dato oggettivo e si immerge nella vastità di un vitale approccio sensibile.

Il mistero del mondo è pertanto da ricercare, in GianlucaTedaldi, in quegli interstizi che paiono lasciar fuggire il

pennello oltre la delineazione tradizionale di un soggetto, mentre pare che la sua attenzione si focalizzi su

qualcosa d'altro. Un oggetto? Un altrove verso cui gli sguardi e i pensieri delle modelle e dei protagonisti delle

sue opere sono rivolti? Probabilmente sì, ma non si tratta di distrazioni, quanto, piuttosto, di una volontà

empatica con l'ambiente vissuto, abitato e ritratto. Un'affezione di matrice interiore sembra prender parte alle

scene dipinte o incise dall'artista, quasi si trattasse di un compendio, di un diario di immagini di momenti vissuti,

condivisi e analizzati anche con l'occhio critico dello studioso. All'urgenza della narrazione figurativa si accosta

una visione del reale che è vagliata, nel caso di Tedaldi, da una forte componente sensibile. Le sue opere, dunque,

non paiono esser filiazione di lunghe sedute in studio, quanto, piuttosto di una sorta di sguardo veloce,

sintetizzato secondo stilemi pittorici che rimandano ad esempi scandinavi dell'Ottocento e che si traducono in

un suggestivo memento.

Il ruolo di Gianluca Tedaldi, si pone non quale ma quale punto di forza dell'intero gruppo, e : deus ex machina Α Ω

è lui che ha riunito queste personalità secondo scelte di matrice ontologica e, al contempo, è lui che, per larga

misura, porta oggi, grazie ad alcune sue opere, la testimonianza di una stagione artistica feconda, anche in

ricordo di Celestino Ferraresi.

Azzurra Immediato

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Luca Vernizzi

Chiude questa rassegna Luca Vernizzi, artista del Nord, docente di Brera, che trova nella mostra La Modella, Lo Studi, La Pittura. Quattro pittori fra Roma, Milano e l'Emilia, il luogo mediano in cui sostare per incontrare i

linguaggi provenienti dalla capitale, in una sorta di rivisitazione della stagione moderna dell'arte italiana.

Luca Vernizzi, figlio d'arte, ha scelto, sin dagli inizi, un linguaggio figurativo capace di porsi a cavallo fra stilemi

di matrice tradizionale e la volontà di scendere fin nel cuore dell'espressione coeva, nella sperimentazione in

grado di offrire una ragionata quanto aggiornata incursione nel sistema figurativo della sua generazione.

Giunge a Bologna al termine di una monografica in Triennale a Milano, titolata, emblematicamente, L'inerenza e l'altrove, suggerendo due fondamentali chiavi di lettura della sua poetica. Luca Vernizzi infatti, negli anni, ha

portato avanti un linguaggio figurativo che ha posto radici in ontologie di stampo esistenziale, che riguardano

l'indagine sul reale altrimenti inteso.

A differenza dei tre pittori romani, l'artista, docente e critico d'arte Luca Vernizzi ha affrontato l'idea del mondo

razionale e reale non cercando una sicura rappresentazione mimetica, quanto, piuttosto, una sua scomposizione,

da attuarsi nel connubio, o nell'ossimoro, . immagine/immaginazione

Spazio e tempo sono, per alcune opere, quelle di interni ad esempio che descrivono l' , una convenzione che atelierl'artista decide di alterare, di geometrizzare e rendere straniante, come a voler “comunicare l'impossibilità, di una cosa o di un pensiero, di essere altro da sé”; e ciò può ritenersi valido tanto per le scene di genere in cui l'elemento

umano è ritrattato in maniera effimera, evocata, suggerita, sia quando esso, al contrario, è presente. Il racconto, la

spinta narrativa, tendono a farsi urgenza ma anche secondo una volontà di far rivivere suggestioni di un

momento passato, su cui l'uomo non ha più potere ma forse, l'artista, in qualche modo, si.

Il reale, dunque, come apparato effimero di un pensiero più profondo, la cui traslazione sul supporto vira verso

una nuova grammatica rappresentativa, in grado di creare un doppio filo conduttore per l'atto di fruizione: il

primo è quello che sensibilizza lo sguardo verso la visione e la reazione alla forma, il secondo, più complesso ma

anche più importante, è determinato dall'abbandono di tale assoggettamento sovrastrutturale, per giungere ad

una più libera evocazione, dettata dalla suggestione dell'opera e di ciò che in essa l'artista ha voluto trasporre. Tale

conditio atelier ben si confà a quei grandi lavori che lasciano entrare negli spazi dell' , nell'oscurità di una fucina

creativa dove, tuttavia, si assiste non ad una ricerca naturalistica, quanto ad una inerenza, appunto, che è

sostanziata dall'espressione di una percezione, di uno sguardo che travalica l'esperienza del dato oggettivo e

scardina le relazioni razionali. Reale e surreale si confondono e missano, l'altrove immaginato finisce per

coincidere con il qui visibile, seppur trasfigurato, come se e operassero insieme ma pars costruens pars destruens tendendo verso risultati da esperire che fungono da dualistica ricerca e diarchica dimensionalità.

Luca Vernizzi, attua, in tal modo, una sottile, ma fondamentale azione intellettuale: usa il tempo e lo trasforma in

esperienza, il solo modo per tenerlo vivo, nel ricordo, nell'immagine che fermata sul supporto pittorico, si

universalizza nello sguardo e nell'indagine interpretativa della fruizione. Differenti realtà potrebbero, a tal punto,

sovrapporsi, creando una confusione, ma ciò non accade: qualcosa ferma quello che, sarebbe un irreversibile

processo. Intervengono, nell'idealità di un universo che non è asettico bensì, razionale e quasi metafisico, altri

temi che Vernizzi frappone nella sua parabola e nelle propria ricerca.

Si tratta delle opere che portano lo spettatore ad osservare e conoscere il lavoro dell'artista sotto un altro punto di

vista; non più il suo intendimento dello spazio privato, intimo, dell' , ma quello delle aule di atelier

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Brera, laddove lui è docente tra giovani discenti – come ad acuire quella relazione uomo/tempo che tanto

affascina Vernizzi – .

Tra modelle, tele, pennelli e altri strumenti, l'aula si trasforma in una personificazione contemporanea del genius loci, dove, tuttavia, non si coglie alcun dramma, se non un probabile affastellamento di sensazioni che domina chi

all'interno di quelle sale osserva, studia, crea, sbaglia, impara, dinanzi all'insegnante e di fronte alla modella,

essere quasi mitologico, corrispettivo del bello ideale e del bello oggettivo, musa ispiratrice e, al contempo, punto

cardine per il superamento dei propri limiti. Tutta questa ricchezza del sentire umano, tuttavia, è tenuta in gran

parte fuori dallo spazio pittorico. Le opere di Vernizzi lasciano intravvedere, evocano una situazione facilmente

immaginabile, ma si traducono in visioni parziali, trattazioni delicate e forti al contempo, tali da rendersi

delineazione di uno sguardo interiore, che proprio nell'interiorità deve trovare appiglio.

I molti studi sul corpo, i nudi, i gesti, le pose, il variare della relazione dei corpi stessi nello spazio e nella loro

interazione è mutato negli anni e le opere qui presentate si possono leggere anche secondo uno schema

cognitivo e concettuale. Il tratto pittorico e cromatico estremo, forte, deciso, degli anni Ottanta e dei primi

Duemila ha lasciato il posto ad un disegno molto più sciolto, leggero, o meglio, leggiadro, in grado di rendere

quei corpi visioni quasi oniriche, ascensioni umane che tali più non paiono. Tuttavia, prima di questo

mutamento, condivido con voi una ontologica con cui Luca Vernizzi raffronta (Anna, descriptio Mutandine"mutandine" in corsivo) a Doppio nudo i: Doppio nudo

“Rappresentazione che al tutto dichiarato (e per di più simultaneamente riproposto) di “Doppio nudo” contrappone, facendo vedere il meno possibile, solo immaginazione. Stati d'animo differenti avevano imposto un guardare del tutto differente.”

Si comprende, dunque, quanto, pur secondo scelte stilistiche che nel tempo hanno preso direzioni diverse, in

quella che si compone come una ampia scala di sperimentazioni e naturali crescite espressive, la valenza

soggettiva di una visione interiore sia il essenziale di tutta la ricerca dell'artista. Qualcosa che va ben oltre gli quidaccademismi, di cui pure si fa latore nelle proprie lezioni, ma che abbandonano l'animo subito dopo aver appreso

e fatto apprendere le nozioni della tecnica figurativa. L'immaginazione, l'umano sentire, sono il valore doppio

concettuale e, come nel caso dell'opera citata, anche formale e semiotico, su cui si gioca l'equilibrio delle

creazioni di Luca Vernizzi. Un equilibrio che, da un punto di vista strettamente compositivo si anima nel legame

tra luci e ombre, bianchi e neri che ipnotizzano e danno carattere all'intera narrazione, nell'inquietudine da cui

alcune figure sono contraddistinte, mentre al colore, sia nelle opere degli anni Novanta, in cui tenebrose nuancessostanziavano luoghi – secondo quella che oggi, potrebbe essere intesa come una dimensione di ascendenza

cinematografica capace di generare un confronto diretto con le atmosfere di Lynch, anche in qualità di pittore

del secondo espressionismo – che in quelle più vicine ai nostri tempi, in cui la tempera ha lasciato ampio

margine all'acquerello e alla delicatezza di una nuova, Vernizzi cede a tratti di malinconia che non urlano, palettepiuttosto si fanno silenziosi ed impossibili dialoghi, tra i suoi personaggi, nelle scene raffigurate, ma anche tra

quelle e lo spazio fruitivo.

Spesso, invero, sono i corpi in posa delle modelle, nella bellezza degli incarnati, nei dettagli che si fanno

peculiarità di un nudo, piuttosto che di un altro, a voltare le spalle al mondo reale, a restare in quella che oserei

definire una “zona di sicurezza” che è l'immagine soggettiva ed interiore dell'artista, in cui la verità, il reale, il

quotidiano, il banale, addirittura, migrano in una dimensione tendenzialmente onirica, di trasfigurazione, in cui

il soggetto concreto, ossia quello che dall'esperienza vissuta ha preso corpo sul supporto per mano dell'artista,

lascia il suo posto, ideale, alla commistione di ἦ , e di aristotelica memoria. θος λόγος πάθος

Azzurra Immediato

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Appendice biografica

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Celestino Ferraresi

Nato nel 1949 tra i monti del reatino in uno di quei luoghi sperduti con quattro case di pietra, la chiesa con una

Crocifissione dei tempi di Cola Filotesio dipinta a fresco sopra l'altare; un piccolo cimitero per poche anime. Nel

ricordo, il cerchio delle montagne che lo circondano è il confine del mondo.

All'età di cinque anni il padre, maestro di scuola, trasferisce i cinque figli a Roma per farli studiare. Crescendo

frequenta l'Istituto d'Arte e poi l'Accademia. Tra gli anni sessanta e settanta la sua formazione si sviluppa nella

ricchezza culturale dell'ambiente artistico romano caratterizzata dall'attività di molte gallerie. In quegli anni si

coglie l'aspra contrapposizione tra artisti figurativi e astratti , mentre la generazione pop di Piazza del Popolo

apre la strada all'affermarsi di altri linguaggi.

Tante esperienze contrapposte scompigliano la fantasia di un giovane… l'incontro con Piero Sadun e Alberto

Ziveri, maestro dell'informale il primo e lirico realista il secondo; i loro generosi apprezzamenti, se non

chiariscono ancora le sue scelte, imprimono in lui la capacità di guardare sempre la pittura nella sua concreta e

singolare bellezza, mai con giudizio di parte.

Si lega spesso ad artisti più anziani di cui stima l'autenticità della vena poetica e la sincera umanità. Da loro

impara a capire le ragioni della poesia e la capacità che ha il colore di esplorare e raccontare sentimenti. La scelta

del soggetto narrativo diventa irrinunciabile nella sua pittura cercando, però, di non guardare le cose con crudo

realismo; tra i pittori della sua generazione si è ostinato a rappresentare i valori della pittura e del suo legame con

la storia. L'intenso e solitario dialogo con la luce, le riflessioni sul fascino del silenzio e sulla impietosa labilità del

tempo lo portano ad evocare nel suo lavoro spazi tra realtà e memoria nel tentativo di cogliere le ragioni e i

sentimenti dell'esistenza umana.

Attratto dal dialogo con le nuove generazioni, insegna all'Accademia di Venezia, Firenze e Roma, un tempo

luogo privilegiato per pittori, scultori e incisori

Mostre di Celestino Ferraresi dal 2000

2000 All'inizio del terzo millennio, Promotrice delle Belle Arti, Torino;

2001 (f)atti d'arte, Promotrice delle Belle Arti, Torino;

2002 L'apoteosi dell'effimero, Centro d'arte contemporanea 'Luigi Montanarini', Genzano, Roma

2006 4 Scuole dell'Accademia, Roma

2009 L'arte con noi, Eboli, Salerno

2010 Coincidenze, allievo/maestro, Centro per l'arte 'Diego Martelli', Rosignano Marittimo, Livorno

2011 Maestro-Discepolo, Temple University Gallery, Roma

2013 Tre maestri contemporanei, University of Lanzhou, Lanzhou, Gansu (China)

2014 Disegnare il '700, Napoli-Parigi, Maschio Angioino, Napoli

2014 Dalla tradizione alla contemporaneità. Accademia Nazionale di Pittura, Pechino

2014 Magnifici Maestri, Muef Art Gallery, Roma

2015 Après moi, Muef Art Gallery, Roma

2016 Pensieri sulla religione di un pittore laico, Galleria ART G.A.P., Roma

2016 Alberto Ziveri nel pensiero dei suoi allievi, Museo Crocetti, Roma

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Antonio Laglia

Antonio Laglia si è avvicinato alla scuola di Ziveri possedendo già per natura un talento non comune nella resa

dell'oggettività ritratta. In epoca di riproduzioni fotografiche, naturalmente, questo potrebbe paradossalmente

essere considerato un difetto perché non risalta immediatamente la qualità del talento visto che l'ausilio

meccanico mette molti in grado si approssimarsi all'esattezza del dato fisico e, invece, coloro che più si

distaccano dalla fedeltà alla resa veristica possono fregiarsi di una lode allo stile, al carattere. Eppure, come disse lo

stesso Picasso, la fotografia (o l'elettronica, oggi) non è da temete perché essa mostra 'ciò che la pittura non è'. In

questo senso, l'immedesimazione di Laglia nel soggetto potrebbe essere paragonata alla meditazione, nella quale

il successo consiste nel non fare più conto della propria fisicità ed essersi immedesimati nell'Altro e o nel tutto.

Rispetto all'esempio di Ziveri, la pittura dominata e cristallina di Antonio Laglia può apparire difforme ma la

sequela al maestro si ha nei principi che la informano: primato del rapporto col vero – nel senso di verità del

rapporto – rifiuto della narrazione che trasforma il soggetto in pretesto, lo scrupolo di non risparmiarsi e finire

quando la materia stessa, satura, induce a lasciare il lavoro. I suoi soggetti sono ultra-quotidiani, nel senso che lo

studio, l'illuminazione artificiale, la riconoscibilità dei modelli il ricorrere degli oggetti di contorno, tutto tende a

mettere in scena un piccolo cosmo che è quanto il pittore riesce a dominare della realtà. A ben guardare è anche

una 'ritirata strategica' rispetto alla straordinaria disinvoltura dei pittori del passato (per non dire del plein aireimpressionista) ma è l'unico segno di una situazione di disagio nei confronti della modernità. Per il resto, nello

spazio consacrato dal lavoro artistico, tutto si risolve: il rapporto con il passato, il cimento con la fisicità dei

modelli, quello con la materia degli oggetti in una ricapitolazione del deposito tradizionale che offre una nuova

via alla direzione 'fiamminga' dell'arte, quella più vicina alla materia e quella che più la trasfigura.

Durante il Liceo Artistico incontra a Roma il maestro Enrico Gaudenzi e studia all'Accademia di Belle Arti al

Corso di Pittura con il maestro Alberto Ziveri, ed Incisione con il maestro Arnaldo Ciarrocchi. Vive e lavora a

Roma.

Principali mostre

Dal 1971 al 2001 partecipa a numerose mostre collettive:

“Premio Roma” a Palazzo Brancaccio, Roma.

Galleria d'Arte Marino, Roma.

Galleria La Nuova Margutta, Roma.

Palazzo Te, Mantova.

Galleria Boccuzzi, Firenze.

Centro Europeo d'Arte, Firenze.

Primo Premio Nazionale di Pittura Giuseppe Friuli, Grosseto.

Premio “Sinaide Ghi: mostra dell'Acquerello promossa dall'Associazione Brutium”, Palazzo Pignatelli, Roma.

Premio “Giuseppe Palizzi” Palazzo Barberini, Roma.

Premio “Carlo Siviero” Palazzo Barberini, Roma.

Galleria d'Arte Porto di Ripetta, Roma.

Sala Consiliare di Costacciaro.

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Nel 2002 al Padiglione Rococò della Coffee House di Palazzo Colonna, Roma.

Nel 2003 alla Biennale del 18×24 presso la Galleria Doha in Qatar.

Nel 2004 al Museo del Giocattolo di Albano di Lucania.

Nel 2005 “Pittori romani sui luoghi di Ziveri” e “Acqueforti di paesaggio 1936-1967 di Alberto Ziveri” alla Torretta Valadier di Ponte Milvio , Roma.“La Realtà nel tempo: con una selezione di opere di Alberto Ziveri” al Palazzo Ducale di Urbania.

Nel 2006 “Dal figurativo al puro sostanzialismo cromatico” Biblioteca Comunale Elsa Morante, Roma.Collettiva presso il Castello di Palombara Sabina (RM).Collettiva presso la sede dell'Associazione A.R.C.A., Roma.“Quali Idee di Pace: Diritti Umani, 8 Obiettivi di Sviluppo del millennio”, mostra d'Arte itinerante (Biblioteca Elsa Morante, Sala Consiliare Piacentina Lo Mastro, biblioteca Corviale), Roma.

Nel 2007 “Compagni di Scuola” , Sala della Musica Latina.“La Forza dell'Evidenza”, La Scuola Romana tra passato e presente” Mostra al Museo di Palazzo Altieri di Oriolo Romano.“Il Tempo ritrovato”, presso la Biblioteca Elsa Morante, Roma. “Incontro d'Arte” mostra organizzata dal Comune di Riofreddo.“L'Amicizia col Vero” : mostra di pittura Figurativa di Tradizione Romana” presso il Castello di Capalbio.“Confronti”, Biblioteca Marconi, Roma.“Arte Realtà e Utopia” Galleria Angelica, Roma.“Circolo Progetto Arte”, Roma.

Nel 2009 “Da Roma all'antica Bisanzio : pittori italiani in mostra a Istanbul” presso il Cemal Resit Rey Konser Salonu, Istanbul.

Nel 2010 ”Giuseppe Di Vittorio – l'impegno – il lavoro” Biblioteca Elsa Morante, Roma.“Il Mito del Vero – il ritratto – il volto “ Palazzo Durini, Milano.

Nel 2011 “17 marzo 1861: donne private di storia” Biblioteca Elsa Morante, Biblioteca Marconi, Galleria d'Arte “Atelier degli Artisti”, Roma.“Premio Internazionale il Giocattolo” Palazzo Rospigliosi, Zagarolo.LV edizione 2011 Premio Nazionale di Pittura e Fotografia B. Cascella “La ricerca dell' Unità” , Museo Civico di Arte Contemporanea Palazzo Farnese di Ortona (CH).

UNESCO Chair in Bioethics and Human Rights. Global Art Competition 2011 and 2012 Exhibits:The Woodlands, Texas USA, New York, New York USA, Rome, Italy, Houston, Texas USA

“150 LIBRI L'ITALIA SI RACCONTA”, Biblioteca Rispoli, Roma.

Nel 2012 “LA CITTA' E L'UMANO” – IV Esposizione Nazionale delle Arti Contemporanee –

Nel 2013 “BP PORTRAIT AWARD 2013″ – National Portrait Gallery, June 2013 –

Nel 2015 “Arte a palazzo” – L'ebbrezza del contemporaneo – Palazzo Fantuzzi, Bologna.

Nel 2016 “BP PORTRAIT AWARD 2016” – National Portrait Gallery, 23 giugno – 4 settembre 2016.

Galleria Usher a Lincoln, 12 settembre – 13 novembre 2016.

Scottish National Portrait Gallery, Edinburgh, novembre 2016 – marzo 2017.

New Walk Museum & Art Gallery, Leicester, aprile – giugno 2017.

“Arte a palazzo” XIV Collettiva Internazionale di Pittura Scultura e Fotografia, settembre 2016, Palazzo Fantuzzi, Bologna .

Ha tenuto mostre personali nel Palazzo Comunale di Amatrice, alla Galleria d'Arte il Capricorno di Roma e allo Studio

d'arte “Porta Segreta” di Calcata (Roma). Ha ricevuto riconoscimenti per la sua attività artistica a Palazzo Brancaccio

(“Premio Roma”, 1971), gli è stato assegnato il “Premio Sociale Arti Figurative” (Roma, 1975), gli viene assegnata una borsa

di studio dal Governo Ungherese per l'anno accademico 1974-75 e nel 1979 riceve dall'Accademia di San Luca il “Premio

Tiratelli” con un opera che è stata inserita nella Collezione dell'Accademia stessa. Hanno scritto di lui Dino Carlesi, Salvatore

Chiolo, Secondo Sannipoli, Alberto Ziveri, Nelda Riva Ziveri, Gehum Tabak, Carlo Fabrizio Carli, Gianluca Tedaldi di

Tavasca.

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Gianluca Tedaldi

Gianluca Tedaldi, nato a Roma nel 1952, frequenta l'Accademia di Belle Arti di Roma e completa la sua

formazione storico artistica con la specializzazione in Storia dell'arte medievale e moderna presso l'Università La

Sapienza di Roma.

Come pittore completa gli studi diplomandosi all'Accademia di Belle Arti con il professor Alberto Ziveri

Prima personale a Latina nel 1981.

Successivamente, fa sempre parte di collettive con altri allievi di Ziveri o amici pittori (oltre ad Antonio Laglia,

anche Mauro Baldino, Cristina Annino, Franca Clemente, Massimo Fiocco, Claudio Recchi) sia a Roma sia nei

dintorni ( Oriolo Romano, Ostia, Palombara Sabina). Ina Italia ha anche esposto a Siena ed Urbania, all'estero ad

Istanbul nel 2009. In Polonia, partecipa con dipinti ai simposi dell'International workshop of painters and Symposium of local cultures ospitati dal municipio di Stary Saçz (Cracovia)

Pratica l'incisione che ha appreso, in Accademia, da Arnaldo Ciarrocchi ed ha poi praticato con Ernesto

Palleschi; è attualmente partecipe dell'attività della Stamperia del Tevere.

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Luca Vernizzi

Luca Vernizzi nasce a S. Margherita Ligure nel 1941, figlio d'arte. Dal 1960 firma solo con il nome,

accompagnato dalla data dell'opera. Il padre aveva fatto parte dello storico gruppo dei Chiaristi e la madre era

un'eccellente disegnatrice. Compie studi classici e artistici.

Dopo quattro anni di critica d'arte al Corriere della Sera come Vice di Leonardo Borgese, nel 1968 esordisce,

presentato da Emilio Radius che ne è lo scopritore, con una mostra alla Galleria Pagani di via Brera a Milano. A

seguito di questo suo esordio sarà definito “il pittore dei giovani”, poiché in tutta l'opera che produce in questo

periodo iniziale (dipinti, disegni, incisioni, sculture) ricorrono gruppi di ragazzi e di ragazze uniti nell'affrontare

gli entusiasmi e le problematiche della loro età, sovente rappresentati su tele, tavole o carte di consistenti

dimensioni. All'interno dei temi specifici è sempre stata dominante nella sua poetica una ricerca approfondita sul

ritratto, che ha portato a una visione rinnovata della ritrattistica. A questo peculiare aspetto della sua produzione

affianca un'indagine, che si potrebbe definire di impronta metafisica, sugli oggetti comuni della nostra vita.

Negli anni gli vengono allestite esposizioni in Gallerie private e pubbliche in Italia e nel mondo. La prima di

queste al Museo d'Arte Moderna di Saarbrucken nel 1975, anno in cui inizia l'attività di docente all'Accademia

di Brera, che si protrae fino al 2013. Successivamente, nel 1979, il Comune di Milano patrocina nelle sale

dell'Arengario, oggi Museo del Novecento, l'esposizione della sua grande opera (cm 335 x 948) La vita dell'uomo. Nel 1980 gli viene allestita una mostra alla Galleria Comanducci di Milano, con introduzione di Riccardo

Bacchelli. L'anno successivo, sempre a Milano, un suo florilegio di ritratti a personalità di grande rilievo viene

presentato alla Galleria Cortina con testi introduttivi di Riccardo Bacchelli, Ruggero Orlando e Alberto

Bevilacqua. Fra i tanti effigiati si ricordano Giorgio Armani, Michele Alboreto, Riccardo Bacchelli, Pietro

Barilla, Alberto Bevilacqua, Enzo Biagi, Valentino Bompiani, Dino Buzzati, Emerson Fittipaldi, Alberto

Lattuada, Mino Maccari, Giulietta Masina, Eugenio Montale, Ruggero Orlando, Edilio Rusconi, Luciana

Savignano, Giulietta Simionato, Mario Tobino, Umberto Veronesi.

Nel 1988 entra a far parte degli artisti della Compagnia del Disegno di Milano dove, nel 1992, Giovanni Testori

scrive il testo introduttivo per una sua personale. Del 1995 è una mostra alla Galleria Nazionale Ataturk ad

Ankara e, nel 1996, agli Archivi Imperiali della Città Proibita di Pechino, con patrocinio del Ministero della

Cultura. Sempre nel 1996 la Compagnia del Disegno pubblica La realtà immaginata, ampia monografia della sua

opera, con testi critici di Enzo Fabiani e Rossana Bossaglia. Nel 2004 l'Ambasciata d'Italia promuove

l'esposizione di tre grandi dipinti al Centro Culturale Borges di Buenos Aires.

Nel 2011 vince il Concorso per l'installazione a Roma di un monumento in onore del Pontefice Giovanni Paolo

II al Santuario del Divino Amore, a cura di Alfredo Paglione; testo, in pubblicazione correlata, di Elena

Pontiggia. Nello stesso anno è invitato da Vittorio Sgarbi alla 54. Biennale di Venezia, Padiglione per i 150 anni

dell'Unità d'Italia, dove espone il pannello Ieri sera Caravaggio. Nel 2016 gli viene allestita, con testi introduttivi

di Sandro Mancini, Elena Pontiggia ed Elisabetta Sgarbi, una mostra di dodici grandi opere, con titolo L'inerenza e l'altrove, al Palazzo della Triennale di Milano.

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