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Patriarcato di Venezia Ufficio evangelizzazione e catechesi VIII CONVEGNO DELLE SEGRETERIE VICARIALI DEI GRUPPI DI ASCOLTO Centro Pastorale diocesano Card. G. Urbani Zelarino, 8-9 giugno 2007 «E Dio vide che era cosa molto buona»

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Patriarcato di Venezia Ufficio evangelizzazione e catechesi

VIII CONVEGNO DELLE SEGRETERIE VICARIALI DEI GRUPPI DI ASCOLTO

Centro Pastorale diocesano Card. G. Urbani Zelarino, 8-9 giugno 2007

«E Dio vide che era cosa molto buona»

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Contenuti

Il presente Sussidio contiene: - la trascrizione della relazione La Genesi nella continuità fra

Antico e Nuovo Testamento di Padre Gianfranco Barbieri tenuta all’incontro per animatori, famiglie ospitanti e coordinatori di caseggiato (Gazzera, 24 febbraio 2007); il testo non è stato rivisto dall’autore.

- una traccia della relazione che sarà tenuta al Convegno da don Mauro Deppieri sul tema: Genesi: un solo libro, tanti studi.

- una rassegna di testi Per non perdersi nei «boschi» della Bibbia, curata dalla Commissione Diocesana per i Gruppi di Ascolto. Questa rassegna prende in considerazione studi che possono essere utili ad animatori e partecipanti ai GdA per la preparazione agli incontri su Genesi 1-11; sono stati scelti per orientare la lettura, secondo le diverse esigenze, tra gli studi più recenti e che presentano le interpretazioni bibliche più aggiornate.

Indice dei testi: J.L. Ska, Il libro sigillato e il libro aperto, EDB, Bologna 2006 (i

primi capitoli). J. Ratzinger-Benedetto XVI, In principio Dio creò il cielo e la terra.

Riflessioni sulla creazione e il peccato, Lindau, Torino 2006 (quattro omelie).

Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Roma 1993.

Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 2001.

J. L. Ska, La Parola di Dio nei racconti degli uomini, Cittadella Editrice, Assisi 2000 (il primo capitolo).

A. Wénin, L’uomo biblico, EDB 2005 (introduzione). L. Mazzinghi, «In principio dio creò il cielo e la terra». Il racconto

della creazione come profezia, Parola, Spirito e Vita, 41, 1, 2000.

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G. Barbieri

La Genesi nella continuità fra Antico e Nuovo Testamento

Incontro annuale per Animatori dei Gruppi di Ascolto,

famiglie ospitanti, e coordinatori di caseggiato, Gazzera 24 febbraio 2007

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Un cordiale saluto a tutti voi che da tempo vi impegnate

nell’evangelizzazione e nella formazione biblica di questa diocesi, che scopro sempre più bella. Da quasi dieci anni stiamo vivendo insieme questa meravigliosa avventura. Mi fa piacere quando arrivo e trovo qualcuno che mi saluta: mi sento quasi di casa; grazie, grazie davvero. Ben ritrovati a tutti.

Mi è stato chiesto di parlare di un tema non facile: la continuità tra il Nuovo e l’Antico Testamento; non è una cosa semplice, tanto che c’è stato anche un intervento autorevole della Pontificia Commissione Biblica destinato a puntualizzare tale problema. Dobbiamo parlare di questa continuità perché il prossimo anno, voi leggerete le meravigliose pagine di Genesi 1-11: narrazioni affascinanti, ma anche un po’ difficili, testi che possono spaventare gli animatori, i quali già si chiedono, se vale ancora la pena approfondire l’A.T. Una volta qualcuno mi ha detto: «È venuto Gesù, che bisogno abbiamo dell’ A.T.? A guardare all’A.T. è come se un architetto guardasse un geometra». Per rispondere a questa domanda, vorrei percorrere due strade, più una terza, bellissima e peculiare di Venezia.

La prima strada è quella del Magistero che ci ha donato un documento prezioso a firma dell’allora Card. Ratzinger dal titolo Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia Cristiana. In esso la Chiesa afferma che esiste un’unità inscindibile tra il Nuovo e l’Antico Testamento. Ed è bella l’immagine che usa: «Come un albero non può crescere e vivere senza le sue radici, così senza l’Antico il Nuovo sarebbe un Libro indecifrabile; una pianta privata delle sue radici è destinata a seccarsi».

Esiste una continuità di temi tra i due Testamenti: dalla rivelazione di Dio alla concezione della persona umana, al grande tema dell’alleanza; cosicché per approfondire la conoscenza del Nuovo Testamento, bisogna ricorrere agli scritti antichi e la conferma più autorevole la troviamo nella parole di Gesù risorto. Ai suoi discepoli egli dice: «Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi. Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me, nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (Lc 24,24)

È nota, inoltre, l’insistenza dei vangeli sul compimento delle Scritture in Gesù. Quante volte si legge «Questo avvenne affinché si adempisse quanto era stato scritto».

Questo dato conferisce un’estrema importanza all’A.T., perché gli eventi cristiani sarebbero senza significato se non corrispondessero a quanto l’A.T. afferma. Se gli evangelisti dicono «Questo avvenne perché si adempisse quanto era scritto» e quanto è scritto non ci interessa, allora vuol dire che non ci interessa neanche quanto è avvenuto.

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Senza questo riferimento – questo il ragionamento sottile di Ratzinger – Dio non avrebbe realizzato nessun disegno. Senza l’A.T. Gesù sarebbe come un fiore che spunta nel deserto, e ancora: «È chiaro che un congedo dei cristiani dall’ A.T. avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo». Sono parole pesanti! Il congedarsi, il dire «basta, non ci serve più», sarebbe dissolvere davvero tutta l’esperienza cristiana.

A me sembra che se in questi ultimi tempi si sta riscoprendo Genesi 1-11 è perché in parallelo c’è un attacco mediatico a Cristo, nei romanzi, come nei film. Questo fatto è importante, secondo me, per sostenere le nostre tesi. Questa mattina è stato annunciato che qualcuno ha scoperto la tomba di Gesù Cristo: gli archeologi hanno risposto che non è vero ma Hollywood ha scoperto il filone che tira commercialmente e ne faranno lo stesso un film; guadagneranno un sacco di soldi, senza curarsi dei nostri sentimenti. Qual è l’antidoto, l’antiveleno? È proprio il riferimento alle Scritture.

Seconda via: l’esperienza cristiana, o meglio l’esperienza della comunità, perché è soprattutto lì che si usa l’A.T., nella preghiera, specialmente liturgica. Ogni giorno usiamo i Salmi, nelle Lodi, nei Vesperi, nella Compieta. Nella liturgia eucaristica c’è sempre una lettura tratta dall’A.T., e un Salmo responsoriale di commento. Tutte le domeniche noi sentiamo la lettura dell’A.T., ed è bello capirla, pregarla, meditarla!

Un discorso analogo, e questo riferimento lo faccio perché mi era stato accennato ai desideri del vostro Patriarca, vale per la catechesi. Paragonando la catechesi alla fontana del villaggio, don Cesare Bissoli, che è uno dei salesiani più famosi nel campo della catechesi, scrive: «È lecito affermare che l’A.T. fa parte dell’acqua della fontana catechistica, in maniera esplicita, continua, sana, ed insieme sobria». L’acqua della catechesi contempla anche l’A.T.

Ma secondo me, per Venezia c’è un motivo in più. Voi avete un tesoro: i mosaici della vostra Basilica. A S. Marco passano centinaia di migliaia di persone ogni anno ad ammirarli. Ed è bene che sappiate quale tesoro offrite ai turisti. È bellissimo contemplare quei mosaici che sono un’interpretazione affascinante di molte pagine della Scrittura.

Di fronte a questi tre filoni, nella predicazione ma anche nell’insegnamento di religione, sembra forse ancora troppo poco l’impegno per far emergere l’importanza dell’A.T. La gente ne ha una visione un poco «pittoresca». Basta ricordare, come vengono ricordate pagine, quali, ad esempio, quelle della creazione. Che cosa pensiamo noi della creazione? La pagina che abbiamo sentito prima proclamare del peccato originale, come viene descritta? Provate a pensare al diluvio universale: «come viene pensato?». E la torre di Babele? Sono tutte pagine di Genesi 1-11. Sono racconti che forse conosciamo, quasi «istintivamente», ce li hanno raccontati da bambini, ma il loro significato dottrinale, teologico, quanti lo conoscono? Eppure sono di una ricchezza straripante. C’è da dire anche che occorre tener presente che la corretta valutazione dell’A.T. può aiutare

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molto anche in chiave di dialogo interreligioso con i fratelli ebrei e anche con i musulmani.

E ora un’altra domanda: come leggere l’A.T.? Tutti sappiamo che il testo pone non pochi problemi sia alla nostra preparazione, sia alla nostra sensibilità. Però, lasciatemi ricordare le parole di un vescovo – vedo con gioia che voi fate riferimento ai vostri vescovi, perché i vescovi sono i maestri della Chiesa. Io faccio riferimento al Card. Martini, il quale diceva; «Quando si legge la Bibbia, ogni volta la si trova più difficile”; questo non vuol dire che si deve chiudere il libro, ma ci deve spingere a dire: «Mi devo impegnare di più, devo studiare di più». La difficoltà deve spingere ad un maggior impegno, non al disimpegno. Siccome è difficile, mi impegno a studiare di più.

La lettura dell’A.T. richiede attenzione; io ho solo un’ora per darvi alcune indicazioni e mi vergogno un po’ perché ci vorrebbe molto più tempo. Vi offro solo qualche pennellata, qualche schizzo. Prima di tutto leggendo l’A.T. si coglie il cammino, il percorso educativo che il Signore ha fatto percorrere al suo popolo. Leggendo certe pagine dell’A.T. si resta sconcertati perché Dio sembra più severo, più duro, castiga, e qualche volta duramente, il suo popolo; poi invece viene Gesù e ci parla in tutt’altro modo. Qualcuno potrebbe quindi affermare che è inutile andare all’A.T. Ma non è possibile perché nell’A.T. si coglie proprio il cammino che il popolo di Dio – in modo più preciso ma anche tutta l’umanità con lui – ha dovuto percorrere, preso per mano da Dio per poter arrivare alla rivelazione definitiva.

Con l’A.T., è come se il Signore prendesse l’umanità per mano dicendole: «Dai fa il primo passo, poi un altro, dai avanti, avanti ancora». È il Signore che ci prende per mano e partendo da una intuizione di Dio tremenda – basti pensare al Sinai, guai a chi toccava la sacra montagna, restava fulminato! – fino ad arrivare, prima ancora del N.T., già dai Profeti, ad incontrare Dio Padre e Sposo. Io sono innamoratissimo di Osea, di quelle pagine in cui Dio dice che ha preso Israele come un bambino, lo ha innalzato fino alla guancia, lo ha guardato negli occhi, lo ha innalzato per legarlo a sé con legami di amore, lo ha preso per mano per farlo camminare; e siamo ancora nell’A.T, in quel tratto di cammino che Dio fa fare al suo popolo per farlo arrivare fino a Gesù. Ecco, l’A.T. va letto con questa attenzione. La diversità con il vangelo non deve spaventarci, piuttosto deve aiutarci a capire: «Guarda che fortuna, guarda come ci ha aiutato il Signore a crescere!». Talvolta questo è il cammino che si fa fare ai bambini; quando sono piccoli, non si può spiegare loro più di tanto, ma pian piano bisogna portarli fino all’incontro maturo con Dio.

Tale pedagogia parte quindi da una primitiva concezione religiosa che via via conduce il popolo ebraico ad affinarsi lungo i secoli nella visione di Dio, ma anche dell’umanità. L’uomo è immagine di Dio, e chi ha di Dio una visione tremenda e severa, facilmente anche dell’uomo ha una visione tremenda e severa. Chi invece ha di Dio una visione paterna e sponsale, facilmente anche degli altri, dei fratelli ha una visione simile.

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Anche la morale, inizialmente, in Israele faceva i conti con un popolo primitivo, alle prime armi; Gesù stesso lo dice: «Per la durezza del vostro cuore Mosè ha permesso...». Ma si parte dall’occhio per occhio, dente per dente che è già un passo avanti rispetto alla vendetta di Lamech, per arrivare alle beatitudini; un cammino stupendo.

Per questo la lettura dell’A.T. ci educa a cogliere il prezioso cammino che ci ha portato fino a Gesù Cristo. Sarebbe difficilmente comprensibile la stessa figura di Gesù, fuori da questo cammino. Così mentre leggo l’A.T. posso cogliere l’identità, e nello stesso tempo la differenza tra la concezione antica di Dio e quella nuova. È sempre lo stesso Dio, ma non è più lo stesso Dio, è sempre il Dio di Abramo, quello che ha promesso la discendenza regale ecc. ma quello che ci rivela Gesù, alla fine, è il Dio che mai avremmo potuto conoscere: il Dio Trinitario. C’è una continuità quindi, ma c’è anche una estrema novità.

Regola preziosa è quella di non cercare nell’A.T. sempre e comunque il riferimento a Cristo, quasi che ogni pagina debba parlare di lui. Occorre sforzarsi di comprendere come Dio prepara il suo popolo ad accogliere Gesù Cristo. L’A.T. è una specie di «avvento»; tutto conduce lì: Dio prepara, si sceglie un popolo che alla fine accolga Gesù. Sappiamo che non tutti l’hanno accolto, però culturalmente, religiosamente, fu proprio quel «resto» di Israele che diede vita alla Chiesa primitiva. In questo modo l’A.T. conserva intatta la sua attualità, perché aiuta anche noi a raddrizzare le strade, a purificare i cuori, ad accogliere il Salvatore, proprio come nell’avvento.

Nel caso di Genesi 1-11, vedremo quanta luce viene dalla lettura di queste pagine, sia sul versante dell’immagine di Dio, sia su quello della risposta umana con tutte le implicanze che sono già state annunciate,

Certo occorre entrare dentro al linguaggio perché il cammino dell’A.T. è come quello che un vescovo biblista ha descritto così: è una strada antica, lastricata da pietre vecchie; alcune eccessivamente lucide perché ci sono passati in tanti ed è facile scivolare; talaltra le pietre mancano perché il tempo consuma e c’è magari un buco, un vuoto; altre invece sono ancora belle, squadrate. Comunque, nell’insieme, tutte quelle pietre lisce, sdrucciolevoli, mancanti, belle squadrate, tutte ci indicano il percorso per muovere con sicurezza i nostri passi.

L’ immagine delle pietre lisce e sdrucciolevoli ci aiuta a capire che bisogna stare attenti a certe pagine, perché si rischia davvero di prendere lucciole per lanterne. Bisogna stare attenti anche dove manca qualcosa, perché dobbiamo fare un salto, allungare il passo. Faccio un esempio partendo dalla pagina che abbiamo ascoltato. Non possiamo ascoltare questo testo senza una premessa di carattere culturale, senza chiederci: che genere letterario è questo? E la domanda sorge facile e immediata perché io di serpenti che parlano non ne ho mai incontrati, solo nei cartoni animati si trovano i serpenti che parlano! Bisogna capire che cosa ci sta sotto, come interpretare il serpente. Ancora: che senso ha proibire di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male quando è

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il Signore stesso che ci educa a distinguere il bene dal male? È Lui che vuole che impariamo a dire: «Questo è giusto, questo è sbagliato», è Lui che ce lo insegna. Non si possono leggere queste pagine senza aver chiarito alcuni temi di fondo. Sarà questo il compito di chi vi prepara. Ma state tranquilli, spiegate bene, queste pagine affascinano ed entusiasmano. Un parroco venne a dirmi: «Nella mia parrocchia i GdA stavano calando un po’; affrontando la Genesi se ne sono aperti due in più». È vero che queste pagine presentano qualche problema interpretativo, ma dopo affascinano perché il messaggio che contengono è grande, è attualissimo, come ha detto benissimo il vostro Patriarca. Altro che pagine vecchie! Sembrano scritte oggi; sembrano prese dal giornale di stamane, tanto è attuale la loro problematica. Certo è difficile parlare dell’A.T., per tutti questi problemi cui abbiamo accennato, però è importante sapere che poi ci saranno certamente i vostri insegnanti, quelli che vi preparano, che vi aiuteranno ad affrontare il GdA senza timore, con una preparazione più che sufficiente per il lavoro che farete.

Quando don Valter mi ha chiamato per parlarmi della scelta fatta, ho detto «Non aver paura, proponi pure la Genesi e non sbagli». Non sbagli perché è un tema che affascina. Anche davanti a pagine come quella della creazione, che sembrano così ripetitive, spiegate bene, si resta a bocca aperta.

Una speranza più forte della delusione Leggendo le prime pagine della Genesi, confrontiamo tra loro due

testi chiave: Dio contempla tutto ciò che ha fatto e ne prova soddisfazione. Dio vide quanto aveva fatto ed è una cosa molto buona (1,31). In ebraico le parole, «buona» e «bella» sono espresse da un unico vocabolo: la Bibbia CEI preferisce tradurre «Vide che era cosa molto buona» ma si potrebbe tradurre anche «Vide che era cosa molto bella». Buona e bella assieme. Ma in 6,12 la situazione è completamente cambiata: Dio vede che la terra è corrotta, perché ogni uomo ha pervertito la sua condotta. Se il primo testo manifesta la soddisfazione di Dio, il secondo manifesta la sua delusione. La causa di questa delusione è la violenza. Allora ecco la pagina di Noè. «Allora Dio disse a Noè: È venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra per causa loro è piena di violenza». E c’è una frase che fa riflettere, di quelle più scioccanti di tutto il testo biblico: «E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo». Pensate! All’inizio, tutto era bello, tutto buono; Dio è contento e finalmente si riposa perché ha fatto una cosa meravigliosa. Due pagine dopo: «si pentì!». È molto forte la delusione di Dio che aveva creato un mondo bello e buono e lo ritrova rovinato dalla malvagità che nasce e si nasconde nel cuore dell’uomo. Ma la delusione di Dio non è irrimediabile, perché Egli non si scoraggia, continua in maniera tenace ed appassionata a sperare. Ma quali speranze ha Dio sul mondo? Che cosa si aspetta Dio dalla creazione?

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Come Dio reagisce alle delusioni causate dalle libere scelte dell’umanità? E ancora, se Dio è buono e ha creato tutto bello, perché il mondo è diventato cattivo? Cosa è successo? Da dove viene il male? Da dove viene il disordine? Da dove viene la violenza? A queste domande rispondono i primi 11 capitoli della Genesi.

Il Dio dell’Esodo e dell’alleanza è anche il Dio della creazione Innanzitutto è necessario ricordare che Genesi 1-11 costituisce

un’unità letteraria, chiaramente delimitata. Il libro della Genesi infatti risulta composto di due parti: dal cap. 1 all’ 11 e dal cap. 12 al 50.

Si tratta di due cicli narrativi: il primo interpreta l’enigma della storia umana, utilizzando il linguaggio simbolico della teologia narrativa, il secondo presenta i racconti patriarcali; il tutto è legato dal «filo rosso» della promessa.

Questi due cicli formano il preludio necessario per la liberazione narrata nell’Esodo; questa liberazione viene interpretata alla luce della promessa di Dio (che precede l’avvenimento storico) alla luce della creazione, considerata come condizione di possibilità, di liberazione tanto dall’Egitto, quanto da Babilonia. Il riferimento alla schiavitù in Babilonia è indispensabile perché è proprio lì che nascono queste pagine. Israele è in esilio; ha visto crollare tutti i pilastri della sua religiosità: la terra è persa perché il popolo è stato deportato; il tempio è stato distrutto dagli invasori; la promessa della dinastia non esiste più perché i re sono stati uccisi. L’unica cosa rimasta è la parola di Dio; ma questo basta per tornare a rivivere? Questo basta per tornare a credere? Chi ci libererà? Allora nascono questi capitoli per rispondere alle domande: il Dio che ci ha liberato dall’Egitto, vale ancora? È ancora forte? Potrà liberare ancora una volta il suo popolo?

Sono domande legittime perché nella mentalità di quel tempo, la vittoria di un popolo, di un re, è la vittoria del suo Dio; la sconfitta di un popolo è la sconfitta del suo Dio. Israele è stato sconfitto, Gerusalemme è caduta nelle mani dei Babilonesi (587-586 a.C.). Questa sconfitta viene inesorabilmente letta come la vittoria del Dio babilonese, Marduch su YHWH. Questo costringe i sacerdoti, i profeti, i responsabili del popolo, ad un confronto critico, ad uno scontro vivace, con il mondo culturale babilonese nella ricerca di una risposta alle molteplici e complesse domande esistenziali. L’alleanza che YHWH ha stabilito con i nostri padri è irrimediabilmente persa? E le nostre infedeltà, i nostri peccati, hanno vanificato le promesse di YHWH? Sradicati dalla nostra terra possiamo ritrovare i valori che caratterizzano la nostra diversità, la nostra specificità, in mezzo agli altri popoli? L’esilio apre una speranza o no?

Sono concetti abbastanza impegnativi questi, ma se ci pensate bene, molte di queste domande, fatte le debite proporzioni, sono attualissime oggi. Il nostro Dio è ancora forte in una società che sembra aver

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dimenticato il senso religioso e dove sembra prevalere invece la laicità o l’ateismo pratico? Leggendo queste pagine, troverete anche il tema della famiglia, disastrata come non mai: i «triangoli», i figli che si vogliono a tutti i costi, le ragazze madri cacciate. In Genesi 12-50 trovate tutto questo, quasi il condensato della storia non solo di ieri ma anche di oggi.

Queste pagine sono una riflessione certamente alimentata dall’esperienza della fede maturata prima, ma che a Babilonia è costretta a misurarsi con problemi nuovi e a cui deve dare risposta. Prima dell’esilio Israele viveva sicuro, protetto, gli altri popoli non gli interessavano. Adesso, deportato, deve fare i conti anche con altre religioni. L’esperienza originale del popolo ebraico, quella che sta a monte e che gli ha dato identità, è l’uscita dall’Egitto: in essa Israele scopre che il suo Dio è sorgente di libertà e di vita. Ma adesso vale ancora? Nel rispondere, Israele afferma che vale, perché il Dio che lo ha tratto fuori dall’Egitto, non è un Dio qualsiasi, è il Creatore, è colui che ha fatto tutto, e tutto bello; ha fatto tutto buono, ha fatto tutto con una parola; questo è il Dio di Israele. Allora Genesi per noi diventa la chiave di lettura di tutta la storia, perché il linguaggio simbolico con cui l’autore si esprime ha un carattere universale, è valido per l’uomo di ogni tempo. E cercheremo di capirlo accennando ad alcuni temi presenti nei primi capitoli.

La struttura letteraria Anzitutto guardiamo brevemente la struttura letteraria. Genesi 1-11

è stato letto per molto tempo in modo unilaterale e riduttivo, come racconto della creazione e del peccato originale. Ci si dimenticava troppo spesso di alcune pagine molto belle; quella di Noè era descritta come la piccola bella fiaba a lieto fine; la torre di Babele poi, si ricordava solitamente a Pentecoste, perché vi avviene il miracolo contrario. Si ha davvero l’impressione che ci si fermi al peccato. Chi poi ha un po’ coraggio e va avanti, trova l’altro peccato, quello di Caino. Io invece vorrei proporvi una sintesi. Provate a guardare la storia letta così: Dio crea l’uomo e lo pone nel paradiso terrestre; tutto bello, tutto buono; quando viene creata la donna, l’uomo ne è entusiasta: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa!» (Gen 2,23). Tutto è gioia e bellezza. Con la scivolata del peccato originale c’è subito il primo dissenso. Alla domanda: «di chi è la colpa?», l’uomo subito accusa Eva. L’armonia non esiste già più; non solo, ma i due vanno a nascondersi, sono «nudi». Qual è il senso della nudità nell’A.T.? Dopo aver perso il rapporto con Dio l’uomo è indifeso, si sente solo e questo gli fa paura: ha paura di tutto, deve difendersi, deve nascondersi. Pensate a come è attuale questa esperienza: l’uomo d’oggi ha perso Dio e guardate quanti hanno paura, non sanno più di avere un Padre in cielo e vivono sulla terra come orfani. Avendo rotto questa armonia, anche gli animali cominciano a subire questa terribile conseguenza. La terra non produce più nulla. Il lavoro diventa una fatica

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ed è mal pagato. L’uomo lavorerà con il sudore della fronte, ma la terra gli darà tribolazioni. La donna si sente attratta verso l’uomo, ma lui la dominerà: è la prima denuncia della violenza contro la donna. Mettere al mondo i figli doveva essere una gioia, ora diventa un dolore. Si è rotta l’armonia iniziale. Potremmo dire con una parola di oggi: l’ecosistema è saltato.

Ma non basta! Al cap. 4 incontriamo Caino che, per invidia, uccide il fratello Abele e un po’ più avanti Lamech, un patriarca un po’ strano (già non si accontenta di una donna, ne ha almeno due: Ada e Zilla). Caino sarà vendicato sette volte, Lamech 70 volte 7. È la legge della vendetta; ancora qualche pagina avanti e troviamo una corruzione generale tanto che Dio si pente di aver dato origine all’umanità, manda il diluvio, ma subito stabilisce un’alleanza nuova dando l’arcobaleno come segno di pace.

Dopo il diluvio – come racconta l’episodio di Babele – gli uomini vorrebbero diventare tutti uguali: una sola lingua, un solo pensiero, tutti fatti con la fotocopiatrice e non con la fantasia di Dio; e così vogliono raggiungere il cielo, non accettano più le diversità. Poco prima la Bibbia aveva descritto le diverse razze, ognuna con la sua attività: l’artigiano, il pastore, il contadino ecc. e le diversità di lavoro esprimevano anche diversità culturali. L’uomo, con Babele, vorrebbe appiattire tutto, anche la fantasia di Dio: tutti uguali e così non c’è posto per nessuno. Questo episodio può ben far riflettere sul tema della multiculturalità oggi: o come noi, o non si entra. Questa è discesa a caduta libera.

Si ferma qui la prima parte di Genesi, ma il cap. 11 non termina con il dramma perché ora si apre un nuovo orizzonte con il padre Abramo che parte verso la terra, un’altra terra. Questo dà l’avvio affinché nel cap. 12, Dio prenda per mano Abramo e con lui inizi un cammino nuovo.

In modo molto sintetico, è questa la struttura letteraria di Genesi 1-11; questi passaggi mostrano come il dono di Dio viene letteralmente sgretolato, ma Dio non si arrende perché quello che ha voluto, un mondo bello, lo rifarà e lo rifarà piano piano finché arriverà il giorno del nuovo Adamo, cioè Gesù Cristo. Ma tutto parte da lì.

Più difficile da affrontare, invece, è il genere letterario usato nei racconti di Gen 1-11. Per capirlo bene, occorre far riferimento al momento storico e all’ambiente culturale in cui essi nascono. Il mondo dell’antico, vicino oriente (Siria, Iran, Iraq, Turchia ecc. oltre la Palestina) tra il terzo e il primo millennio, aveva prodotto parecchi testi con un linguaggio mitico, cercando di rispondere alle domande perenni dell’uomo sul senso della sua vita nel mondo: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo; e su questi argomenti aveva prodotto degli scritti. L’autore di Genesi 1- 11 li conosce, e ne conosce anche il linguaggio, il modo di esprimersi che utilizza categorie simboliche. Anche l’autore sacro usa tali categorie con una finalità ben precisa: non era così ingenuo da pensare che il lettore non capisse che il serpente, per esempio, non può parlare.Utilizza quel linguaggio per farci capire che la realtà che vuole comunicare è una di

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quelle che non si riesce a descrivere, si può solo intuire; allora per non equivocare usa questi simboli.

Faccio l’esempio del serpente: nei villaggi antichi, non c’erano le grandi città, le case erano tutte una ridosso all’altra, le strade strettissime; quando uno incontrava un serpente sulla sua strada, o lui uccideva il serpente, o il serpente uccideva l’uomo. Allora usare il simbolo del serpente, vuol dire riferirsi al nemico mortale dell’uomo. È bello questo modo di ragionare. Chi è il demonio? Il diavolo, colui che tenta Adamo ed Eva: è il nemico mortale dell’uomo, è quello che vuole la sua morte. Chi nella vita di ogni giorno attenta alla vita e vuole la sua morte? Solitamente il serpente. Ecco perché il linguaggio ricorre a questa figura.

Non si tratta allora di racconti di favola; Genesi 1-11 è tutt’altro che una favola; viene usato un linguaggio particolare per esprimere l’interpretazione dell’esistenza in una forma narrativa adeguata all’esperienza dell’uomo di allora. In questo racconto, inoltre, c’è una ricchezza di conoscenza psicologica incredibile. Provate a rileggerlo; il diavolo afferma in modo subdolo che Dio ha proibito tutto; Eva lo nega, ma la sua sicurezza è minata, e il serpente ne approfitta per affermare che Dio ha proibito all’uomo la cosa più importante, ciò che gli permette di diventare come lui. Ha ragione il serpente? Per vedere devi provare. Ma se provi disubbidisci. È un gioco psicologico finissimo, stupendo; che descrive esattamente quello che succede molto spesso anche oggi. Quando dite ad un figlio «Questo è male!» lui risponde «Lasciami provare», solo che quando si provano certe cose, non si torna più indietro.

È un linguaggio tutt’altro che ingenuo, non un raccontino da favola; dietro c’è una profonda dottrina teologica: come parlare della fedeltà a Dio? Dio è affidabile? Il serpente dice no! Adamo ed Eva si fidavano di Dio, ma di fronte a questa realtà, a questa tentazione crollano. Poi si nascondono, si fanno una cintura con foglie di fico; e Dio anziché farli morire come aveva detto in precedenza, gli fa un vestito di pelle; non li abbandona, nonostante tutto. Voi direte che è il castigo; no, non è il castigo, ma è la conseguenza di una libera scelta.

Il linguaggio usato è il linguaggio della gente semplice, come affermava Padre Rossi De Gasperis riportando un episodio accaduto quando era stato in Sardegna a parlare di queste cose: un pastore gli aveva detto: «Padre ha ragione. Quando mi fanno una domanda e mi dicono di dare una risposta, io non so parlare come gli avvocati e come i dottori; come faccio allora? Gli racconto un fatto». La gente semplice di fronte ad una domanda difficile racconta una storia e nella morale della storia c’è la risposta. Questo è ciò che ha fatto l’autore di Genesi. Di fronte ai grandi problemi dell’uomo Genesi racconta un fatto, usa l’arte narrativa: il lettore sa bene che il serpente non parla, ma così riesce a passare dal simbolo alla realtà. Chi ha rovinato l’uomo è il suo nemico mortale, il demonio,

Giovanni Paolo II nelle sue catechesi su Genesi 1-11, ha affermato con chiarezza: il termine mito (qui si parla di mitologia) «non designa un

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contenuto fabuloso, ma semplicemente un modo arcaico di esprimere un contenuto più profondo». Senza grandi difficoltà, sotto lo strato della antica narrazione, scopriamo un contenuto veramente mirabile, per quanto riguarda la qualità, la condensazione delle verità che vi sono racchiuse. Il mito è una forma poetica di leggere la storia con procedimento tipicamente sapienziale.

Occorre pertanto precisare di che storia si tratta. Non è certamente la cronaca che leggiamo sui giornali e vediamo alla

TV, non è nemmeno la storia riportata dai libri, che si basa su testimonianze e documenti. E non si tratta neppure di preistoria. Come dire. «Si, è successo così, ma mancano gli elementi, i documenti, se li trovassimo, potremmo capire…». Succede allora che partono spedizioni scientifiche, come quella sul Monte Ararat per cercare i resti dell’arca di Noè. Ci sono andati e ad accompagnarli c’era una guida di Macugnaga che portava anche me sulle pareti del monte Rosa, qualche anno fa quando ero più giovane. È un uomo di molto buon senso, va poco in chiesa; sapeva che io ero prete e mi disse «Padre Gianfranco, io li ho accompagnati per soldi, perché è il mio mestiere, mi hanno chiesto una guida, ma se la Chiesa crede a quelle cose lì, in chiesa non ci verrò mai». E questo, perché arrivati sul monte Ararat, un archeologo vedendo una placca liscia aveva esclamato: «Ecco le assi dell’arca di Noè». Guai a dire così! Quando venne fuori questa faccenda e i giornali ne parlarono, Mons. Ravasi commentò: «Se andiamo avanti di questo passo, c’è il rischio che qualcuno vada alla ricerca delle tavole di Mosè sul monte Sinai». Bisogna stare molto attenti, questi testi non raccontano fatti accaduti all’inizio del mondo, ma ciò che riguarda ogni momento della storia, ciò che viene sperimentato in ogni tempo, offrendoci una lettura della storia espressa nella forma della teologia narrativa. È successo certamente qualcosa all’inizio, ma che cosa? Resta un mistero.

Quello che più conta è capire che questi racconti non nascono per dire «Allora Adamo ed Eva hanno sbagliato, tutti siamo rovinati». Nascono per dire un’altra realtà, e questo ce lo spiega bene S. Paolo, nella Lettera ai Romani, «Tutti abbiamo peccato in Adamo, perché tutti potessimo essere salvati in Cristo». Quel che conta è che tutti siamo salvati in Cristo. Per essere tutti salvati in Cristo, occorre un legame e quindi un aggancio a quell’aspetto della comunità che sta molto a cuore al vostro Patriarca, ma credo a tutti i vescovi. Ciò che ci salva è il fatto che siamo una cosa sola con Cristo: il sacrificio di Cristo ci ha salvati nella misura in cui siamo uniti a lui, siamo una cosa sola con lui. Se ciascuno si salvasse per conto proprio, Cristo avrebbe salvato se stesso e basta. Come il peccato di uno ha rovinato tutti, così il sacrificio di uno ha salvato tutti. L’esempio più chiaro è quello dell’alpinista in montagna: ci si lega con la guida che va su, quando lei si muove sotto si sta fermi, si tiene la sicurezza; poi lei raggiunge un pianerottolo, pianta il chiodo, mette la sicurezza e tira su gli altri. Se vola la guida, si vola giù tutti, se la guida ci tiene legati nella corda si va su tutti, si è in cordata. Sulla punta del Monte Bianco c’è un

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bassorilievo sul quale è scritto «Criste premier de corde», «Cristo il capo cordata». È questo quello che conta. Noi ci fermiamo sempre sulla questione del peccato originale. Quante volte ho sentito dire: «Ma cosa è venuto in mente a Eva e Adamo di mangiare questa mela, guarda come ci ha rovinati!». Ma il discorso è un altro: il Signore non ci ha fatti singoli, nessun uomo è un’isola, ci ha fatti tutti uniti, così che il sacrificio di Cristo ci salva tutti.

Il genere letterario è quello di una eziologia (l’eziologia è lo studio delle cause). Il sapiente biblico ha cercato di capire come mai, se Dio è buono, tutte le cose belle create si sono rovinate. Questa è la causa: Dio aveva fatto tutto in ordine, Dio aveva fatto tutto buono, ma l’uomo non si è fidato di Lui, ha rovinato tutto. Dio però non si ferma, anzi; Egli inizia un cammino nuovo, quello dell’alleanza, per riportare tutti alla bellezza primitiva. Questo noi lo cantiamo la notte di Pasqua: nuova vita, nuovo mondo, tutte le cose sono fatte nuove.

Termino con un esempio. In ebraico, che si legge da destra a sinistra, la lettera iniziale è una

bet, che è fatta così: una linea sotto, una linea sopra e una sul lato destro, come un quadrato incompleto: chiuso da dove si parte e aperto in avanti. Perché la Bibbia inizia così? Perché il lato sotto della bet ti avverte che non devi guardare sotto; quello sopra, che non devi guardare sopra; quello a destra, che non devi guardare indietro: puoi e devi guardare in avanti. Genesi non è il racconto di una cosa da guardare indietro, ma è un racconto fatto per guardare avanti. È un’analisi delle cause, per permettere al popolo di avere ancora speranza.

C’è un ulteriore indizio. Dio dice: «Facciamo l’uomo». Dio non solo parla a se stesso, ma anche agli uomini, per invitarli a definire, completare con il loro lavoro la creazione divina. L’uomo è chiamato a collaborare. In 1,27 compare due volte il termine immagine, mentre non si ripete il termine somiglianza. Come a dire che gli uomini sono creati a immagine di Dio, ma tocca a loro, con la loro vita, con le loro scelte, assomigliare a Dio. I racconti di Genesi non sono l’evocazione nostalgica di un mondo ormai perduto, ma l’annuncio profetico del progetto di Dio sul mondo e sull’uomo, che alla fine si realizzerà.

La continuità tra i due testamenti viene evidenziata anche dall’Apocalisse. Abbiamo detto che all’inizio nel giardino c’è l’albero della conoscenza del bene e del male. L’Apocalisse dice: «Vidi la città santa, la Gerusalemme, scendere dal cielo come una sposa pronta per il suo sposo» (21,2). Se proseguite la lettura, trovate che nella piazza della città c’è l’albero della vita, quell’albero della vita che abbiamo trovato all’inizio. Sono queste due immagini che completano la storia della salvezza; la fine si congiunge al principio e il principio rivela la sua proiezione verso la fine.

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Genesi: un solo libro, tanti studi Traccia dell’intervento per il Convegno

di don Mauro Deppieri

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L’esegesi: leggere e interpretare un testo Una storia dell’esegesi del libro della Genesi e del Pentateuco, dalla sua composizione fino ad oggi. Tentativi di soluzione, davanti a problemi reali dei testi: lo studio diacronico.

L’ipotesi dei frammenti Il Pentateuco è la fusione di racconti isolati, tramandati da più generazioni e generati in contesti ed epoche diverse. Il processo di unificazione di questi racconti («frammenti») ha il suo inizio poco prima dell’esilio e perdura fino alla stesura definitiva dell’attuale Pentateuco.

L’ipotesi dei complementi Al tempo della monarchia si era iniziato a costituire un «documento base», dove Israele monarchico ha riflettuto e messo per iscritto una testo sulle proprie origini. Questo documento si è poi sviluppato nel tempo attraverso l’aggiunta di parti che lo hanno completato, fino all’opera attuale.

L’ipotesi documentaria Questa ipotesi si basa sugli studi di Wellhausen e vede il Pentateuco come il frutto di un’opera redazionale di differenti fonti scritte, ciascuna appartenente ad una sua epoca. Ogni testo quindi si può collocare in un periodo storico e avere una teologia del tempo.

Tradizione Jahvista («J») Così chiamata perché Dio viene designato prevalentemente con JHWH, è opera di scribi e di sapienti alla corte di Salomone (verso il 950 a. C.) e si caratterizza per due interessi specifici: uno religioso, ossia celebrare JHWH come Dio nazionale che libera e salva, e uno politico, cioè legittimare la monarchia davidica.

Tradizione Elohista («E») Tra l’850 e il 750 a.C. prende avvio, nel regno del Nord, la tradizione Elohista, così detta perché Dio è chiamato Elohim. Gli interessi principali sono la contestazione alla monarchia, perché prostituita ai culti cananei, al potere economico e alle potenze straniere, e forte appello al popolo per un suo ritorno (conversione) all’esperienza di un incontro autentico con Dio.

Jehovista (J+E) Dopo la caduta di Samaria (721 a.C.) alcuni leviti, rifugiandosi al sud portarono questo scritto a Gerusalemme. Qui avvenne la fusione tra lo scritto J e quello E, dando origine al codice Jehovista.

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Tradizione Deuteronomistica («D») Quasi contemporaneamente all’Elohista sembra che alcuni leviti, prima della caduta di Samaria, abbiano tentato di riformulare le leggi di Mosè attualizzandole al nuovo contesto di sedentarizzazione e di vita dedita all’agricoltura e al commercio. Nasce così il cosiddetto codice deuteronomico (Dt 12-26). Dopo il 721, anche questo testo viene portato al sud ove subisce un rimaneggiamento e viene dimenticato fino al suo ritrovamento nel tempio di Gerusalemme durante i lavori di restauro voluti dal re Giosia (622 circa; 2 Re 22-23) e utilizzato da quest’ultimo come base della sua riforma politico – religiosa. Si fa risalire a questo periodo la prima redazione del libro del Deuteronomio. La seconda invece viene collocata in epoca esilica, con probabili ritocchi nell’immediato postesilio (Dt 1-4; 27; 29-34).

Tradizione Sacerdotale («P») Ultima tradizione presente nel Pentateuco attuale è quella denominata Sacerdotale (P, dal tedesco Priestercodex), di epoca esilica (Pg) e postesilica (Ps), anche se si concorda che parte del suo materiale è più antico. Riprende tutta la storia patriarcale ed esodale rileggendola come un cammino di autosvelamento di Dio.

Redazione finale Infine, verso la fine dell’epoca persiana, degli scribi, per avere un codice che fosse base e punto di riferimento per la società di allora impostata su modelli teocratici con il predominio della classe sacerdotale, si dedicano alla fusione definitiva di tutte le tradizioni precedenti. Quest’opera ha il suo culmine al tempo di Esdra (400 circa a. C.; ma per altri tra il 400 e il 350) e porta alla redazione finale dell’attuale Pentateuco sulla base della tradizione P. Sembra certo comunque che, dopo il 350 a. C., il testo non abbia subito più alcuna modifica di rilievo.

Dal consenso al dissenso. La crisi dell’ipotesi documentaria e nuovi interessi: lo studio sincronico.

Conclusioni:

«Non vale la pena entrare nel “conflitto dei metodi” o fare la guerra per difendere tale o tale tipo di analisi. i metodi sono solo strumenti che l’esegeta sceglie in funzione della natura dell’oggetto che deve studiare. In questo campo come in tanti altri, il dialogo offre vie più fruttuose delle controversie. Il metodo migliore è quello che riesce a spiegare il testo del

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Pentateuco con più chiarezza e senza ignorare la complessità (...). Chi, inoltre, “perde” tempo per ripercorrere le vie della ricerca nei secoli passati, in realtà risparmierà tempo, perché non dovrà rifare, a proprie spese, lo studio già fatto e — magari — non ripeterà gli stessi errori»1

1 J. L. Ska, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per l’interpretazione dei primi cinque

libri della Bibbia, EDB, Bologna 2000, 185.

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Per non perdersi nei «boschi» della Bibbia

Rassegna di testi per la lettura e l’approfondimento di Genesi 1-11

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«Ci sono due modi per passeggiare in un bosco. Nel primo modo ci si muove per tentare una o più strade per uscirne al più presto. Nel secondo modo ci si muove per capire come sia fatto il bosco, e perché certi sentieri sono accessibili e altri no. Ugualmente ci sono due modi per percorrere un testo narrativo…»

U. Eco

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L’immagine del bosco come metafora del testo narrativo che Umberto Eco ha suggerito nel suo Sei passeggiate nei boschi narrativi è stata ripresa in modo originale da Jean Luis Ska e applicata alla Bibbia. In un suo saggio intitolato Sacra Scrittura e Parola di Dio egli usa due metafore per illustrare due diversi modi di leggere la Bibbia e per orientare il lettore – secondo il suggerimento di Eco – verso il secondo modo, cioè verso una lettura critica del testo. Le due metafore sono: la sfera e il bosco.

La sfera sta ad indicare la lettura che dobbiamo evitare: quella fondamentalista. Secondo questo modo di leggere la Scrittura, la verità della Bibbia può essere paragonata a una sfera. «La forma perfetta, secondo gli antichi – scrive Ska – era precisamente la sfera, poiché non vi è alcuna differenza fra i diversi punti della sua superficie. Ogni parte della sfera può sostituire un’altra. Ogni parte può stare in alto, in basso, dietro, davanti, a sinistra o a destra. Si può girare la sfera in tutti i sensi ed essa rimane sempre uguale a se stessa». Considerare la Bibbia come una sfera significa ritenere la rivelazione divina perfetta in ogni «punto» delle Scritture. Quindi partire dal principio che la Bibbia, essendo Parola di Dio ispirata ed esente da errore, dev’essere letta e interpretata letteralmente in tutti i suoi dettagli. La lettura fondamentalista – come ci insegna il documento del Magistero L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (di cui più avanti è riportata una sintesi) –

- «esclude ogni sforzo di comprensione della Bibbia che tenga conto della sua crescita nel corso della storia e del suo sviluppo». - «rifiuta di ammettere che la Parola di Dio ispirata è stata espressa in linguaggio umano ed è stata redatta, sotto l’ispirazione divina, da autori umani le cui capacità e risorse erano limitate. Per questa ragione, tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per parola dallo Spirito e non arriva a riconoscere che la Parola di Dio è stata formulata in un linguaggio e una fraseologia condizionati da una data epoca». - «non accorda nessuna attenzione alle forme letterarie e ai modi umani di pensare presenti nei testi biblici, molti dei quali sono frutto di una elaborazione che si è estesa su lunghi periodi di tempo e porta il segno di situazioni storiche molto diverse». - «insiste anche in modo indebito sull’inerranza dei dettagli nei testi biblici, specialmente in materia di fatti storici o di pretese verità scientifiche. Spesso storicizza ciò che non aveva alcuna pretesa di storicità, poiché considera come storico tutto ciò che è riferito o raccontato con verbi al passato, senza la necessaria attenzione alla possibilità di un significato simbolico o figurativo».

«L’approccio fondamentalista – conclude il documento – è pericoloso, … perché invita, senza dirlo, a una forma di suicidio del pensiero. Mette nella vita una falsa certezza, poiché confonde inconsciamente i limiti umani del messaggio biblico con la con la sostanza divina dello stesso messaggio».

La Bibbia non presenta una teologia o una morale uniformi, né una

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storicità inconfutabile ad ogni pagina: la Bibbia non è una sfera. La verità della Bibbia viene resa in modo più adeguato

dall’immagine del bosco. «Perché paragonare la Bibbia a un bosco e la lettura della Bibbia a una serie di passeggiate in un fitto bosco? Le ragioni sono molteplici: …innanzitutto la Bibbia offre mille volti diversi, esattamente come una foresta. Come si sa, la parola Bibbia significa «libri». Si tratta quindi di una vera e propria biblioteca con tanti libri diversi, appartenenti a molti generi letterari e distribuiti in molte sezioni. In questo senso la Bibbia è come una foresta, con le sue valli, i suoi fiumi, i suoi colli e le sue radure. Vi si trovano alberi di differenti essenze, e si passa dal bosco deciduo alla fustaia, dalla macchia alla pineta, da un faggeto a un querceto, o ancora a un’ontaneta nei fondi umidi. La varietà dei paesaggi e della prospettive è infinita. Perciò, come non si può mai scoprire tutta la foresta in un solo colpo d’occhio, non si può mai avere una conoscenza complessiva di tutta la Bibbia. La foresta va scoperta gradualmente e sempre parzialmente, e lo stesso vale per la Bibbia.

Inoltre, la foresta cambia costantemente. Non è la stessa all’aurora e alla sera. Vi è una foresta diversa in ogni ora del giorno e in ogni stagione, ed essa cambia anche volto e vestito quando cambia il tempo. Possiamo dire che anche la Bibbia offre un volto diverso per ogni momento della giornata, per ogni stagione della vita e per ogni nostro stato d’animo.

Vi è un secondo aspetto del bosco che permette di capire meglio la Bibbia: il bosco è segreto: chi vi entra per la prima volta non si accorge che è un universo popolato. Gli abitanti del bosco sono quasi sempre invisibili ma chi ha sensi esercitati riesce a indovinare la loro presenza…

Il lettore della Bibbia, come il conoscitore del bosco, è qualcuno che ha esercitato i suoi sensi per scoprire nelle pieghe del testo le tracce di una presenza elusiva, quella di uomini e donne del passato, delle loro storie e delle loro esperienze, e quella di un affascinante mistero chiamato Dio».

Ska conclude la metafora del bosco, messa al servizio del lettore della Bibbia, con alcuni suggerimenti: - lasciarsi guidare nella lettura da una autentica curiosità, così

come chi entra nel bosco deve essere guidato dal desiderio di sapere e dal gusto dell’avventura:

- andare oltre l’utilitarismo: non leggere solo perché ci serve, ma con il gusto e la gioia di leggere gratuitamente. Chi entra nel bosco per raccogliere legna conoscerà solo quello che del bosco gli è utile. Se la Scrittura è Parola di Dio ha valore in se stessa, anche se non ne riceviamo un beneficio immediato.

- siamo invitati a leggerla e rieleggerla in continuazione: non si può conoscere la foresta della Bibbia senza percorrerla e perlustrarla continuamente.

Con questo spirito d’avventura offriamo agli animatori dei GdA questa rassegna di studi, cominciando dalla raccolta di saggi da cui sono tratte queste riflessioni di J. L. Ska.

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J.L. Ska, Il libro sigillato e il libro aperto, EDB, Bologna 2006.

Una prima passeggiata nella foresta biblica L’autore sottolinea tre aspetti principali da prendere in

considerazione per questa prima esplorazione: 1) la Bibbia è un’opera di compilazione; 2) la Sacra Scrittura si corregge, si attualizza e aggiorna se stessa; il

processo di revisione e interpretazione comincia nello stesso testo sacro;

3) i libri biblici hanno un’intenzione, cioè tendono verso una meta.

1. compilazione significa: «comporre uno scritto raccogliendo, ordinando ed elaborando materiale tratto da fonti diverse». Chi ha compilato la Bibbia non si è preoccupato di cancellare le divergenze, i doppioni, le contraddizioni. Un esempio: il racconto della creazione. La Genesi ce ne presenta due. «Il mondo è uno solo, Dio è lo stesso, ma vi sono almeno due modi di raccontare l’origine dell’universo». Il primo più universale e cosmologico, il secondo più antropologico e centrato sulla persona umana. Il primo racconto è interamente positivo, nel secondo fa la comparsa il male. Il lettore a quale versione deve credere? Qual è la verità? Il lettore è chiamato a confrontarle e a cercare la verità nel dialogo fra due visioni della stessa realtà. Un altro esempio: i vangeli. Sappiamo che sono quattro, che sono diversi, in alcuni punti concordano, in altri divergono. Il compilatore avrebbe potuto armonizzare i racconti, cancellare le contraddizioni ma non lo ha fatto: la Bibbia è plurale e polifonica. È evidente che sui punti essenziali c’è unità di pensiero: l’AT conosce un solo Dio, un solo creatore, un solo Mosè, un solo Israele. Il NT conosce un solo salvatore, Gesù Cristo che compie tutte le Scritture nella sua vita, morte e risurrezione. Il punto importante da tenere presente è che la verità è una ma vi sono tanti modi per presentare questa verità essenziale. 2. revisione: la Bibbia non solo contiene voci diverse ma corregge continuamente se stessa: cioè dentro il testo stesso della Bibbia possiamo verificare che c’è un «costante sforzo di attualizzare, di aggiornare, di completare e di rivedere le posizioni più antiche». Un esempio dal libro della Genesi: l’apparizione di Dio ad Abramo alle querce di Mamre (Gen 18,1-15). Il patriarca accoglie gli ospiti e si reca da Sara per chiederle di impastare tre staia di farina. Il testo per farina riporta due termini, uno quello usuale per farina (qemach), l’altro che indica la farina (solet) che si offre nel culto. Come si giustifica l’accostamento e ripetizione dei due termini? Lo scriba deve essersi reso conto nel

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trascrivere che il pasto preparato era destinato a Dio e dunque aggiunge questo secondo termine, che è come una nota a piè pagina. Lo scriba ha così riletto e riattualizzato il testo per il suo pubblico; in questo caso è bastata l’aggiunta di una sola parola. Anche nei vangeli abbiamo esempi di revisioni e integrazioni: Ska propone come esempio il confronto tra la parabola del seminatore in Mt 13,3-8 e in Lc 8,15 e la diversa preoccupazione degli autori nel rispondere alle richieste dei loro ascoltatori. 3. intenzione: i finali più importanti della Bibbia, quelli del Pentateuco, della Bibbia ebraica (2Cr 36,22-23), della Bibbia cristiana (Ml 3,22-24), e quello del NT (Ap 22,20) hanno in comune una speranza, un’apertura verso il futuro: un fiume da attraversare, una città e un santuario da costruire, qualcuno da aspettare. Ognuna di queste conclusioni apre una porta, invita il lettore a fare un passo decisivo, a mettersi in cammino per andare a costruire la città dove Dio abita in pace in mezzo al suo popolo o a prepararsi all’incontro con il Signore. Lo sguardo del credente e del lettore della Bibbia è sempre rivolto verso questa meta. In sintesi: la verità è sempre al di là della «lettera» del testo, «è sempre da approfondire, da attualizzare, da esprimere in termini nuovi e adatti alle circostanze, se vogliamo che la Parola di Dio abbia un impatto sul presente». La verità è «nell’atto intelligente e critico del lettore che prolunga, all’interno della comunità dei credenti, lo sforzo di aggiornamento iniziato nella stessa Scrittura. Infine, la Bibbia ci apre gli orizzonti e guarda verso il futuro…».

Come leggere l’Antico Testamento? Il titolo del libro Il libro sigillato, il libro aperto richiama due

immagini presenti nell’Apocalisse (Ap 5,1-2 e 10,2) di cui l’autore si serve nell’introduzione per tracciare un breve percorso che, a partire da Isaia (Is 6,5-6), e attraverso Geremia (Ger 1,9) e Ezechiele (Ez 2,8-3,3) segna il passaggio dalla tradizione orale alla tradizione scritta nella trasmissione della Parola di Dio. Contemporaneamente l’autore si serve di queste immagini per enunciare l’intento del libro di fornire una chiave di lettura dell’A.T., per superare le difficoltà, i sigilli appunto, che apparentemente potrebbero ostacolarne l’accostamento.

Il testo di Ska si compone di tre parti ed è il risultato di una raccolta di saggi ed articoli già pubblicati in varie riviste. In questa sintesi viene presa in considerazione solo la prima parte che si intitola significativamente «Orientamenti» ed è composta di due capitoli.

Il primo capitolo: Come leggere l’Antico Testamento affronta innanzitutto «le difficoltà obiettive» cioè i dubbi che si possono presentare

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al lettore e che riguardano principalmente tre problemi: 1) la moralità delle grandi figure bibliche; 2) la durezza manifestata da Dio in alcuni racconti; 3) la teologia insufficiente riguardo all’aldilà. Alcuni comportamenti improntati alla menzogna, alla viltà e

all’inganno, a partire da quello di Abramo che fa passare sua moglie per sua sorella (Gen 12,10-20), potrebbero scandalizzare il cristiano; considerare tali comportamenti solo come appartenenti ad un’epoca passata o in senso figurato potrebbe giustificare la scelta di leggere solo il Nuovo Testamento e accantonare l’A.T.

Anche i racconti di distruzioni e massacri eseguiti su esplicita indicazione di Dio disorientano il lettore perché pongono un problema teologico, soprattutto in riferimento alle parole di Gesù sull’amore verso i nemici.

La figura di Giobbe, un giusto che vive un dramma che verrebbe svilito se privo della prospettiva della risurrezione dei morti, sintetizza la terza problematica.

Alcuni «atteggiamenti contraddittori» dei cristiani, inoltre, aumentano le difficoltà nell’affrontare l’A.T.; infatti i racconti sui comportamenti poco edificanti di personaggi biblici (quale ad esempio Saul), contenuti in opere letterarie o musicali, vengono accettati dal punto di vista artistico ma non da quello teologico. Infatti «il cristiano non cerca nella Bibbia anzitutto una soddisfazione di ordine estetico, ma un nutrimento per la sua fede» . Ciò comporta che ci siano canoni diversi nella lettura della Bibbia.

È necessario pertanto individuare «alcuni principi interpretativi». L’interpretazione della Bibbia in funzione di elementi estranei ad

essa e la ricerca del significato al di fuori del racconto stesso costituiscono il primo pericolo derivato dall’esegesi fondata esclusivamente sull’analisi della storicità dei racconti biblici e del loro contenuto «ideologico», cioè sul far coincidere storicità con verità del racconto. Questo atteggiamento porta a spogliare il testo della sua forma letteraria per enucleare un senso che assume un carattere razionalista o da credente, a seconda della posizione dell’interprete. Inoltre si arriva a fare una lettura statica in cui l’interpretazione coincide e si limita alla conoscenza di fatti e contenuti.

L’atteggiamento corretto è invece quello di trovare il senso del testo nel suo intreccio, cioè di leggere i testi biblici secondo le norme che essi stessi si danno, individuando i rapporti che essi stabiliscono con la realtà storica in accordo con le convenzioni letterarie della loro epoca e di conseguenza individuando la loro peculiare teologia seguendo le vie proprie ad ogni testo. È importante quindi decodificare le convenzioni letterarie o meglio i generi letterari (così come sono chiamati nella Dei Verbum e nella Divino afflante spiritu).

In merito alla specificità dei problemi individuati si può dire in

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sintesi: La questione morale, pur non essendo rimossa, non è al primo

posto: il comportamento delle figure bibliche viene letto in una dimensione di ricordo che rafforza il legame alle origini del popolo e dei momenti essenziali della sua storia. «Che Abramo, Isacco e Giacobbe abbiano avuto le loro debolezze non impedisce che essi siano i padri d’Israele, secondo la carne e nella fede». […] «Quelle figure del passato riflettono tutti i brancolamenti, le esitazioni, le cadute e i risvegli di una fede che si forma a poco a poco nel corso delle vicende della storia nelle più svariate circostanze».

Di conseguenza ci si può riconoscere negli antenati «poiché la loro esistenza è lo specchio di ciò che costituisce l’essenziale della vita di ciascuno».

Il lettore può concludere che «l’esperienza di Dio è inseparabile da una ricerca di Dio con tutte le sue vicissitudini».

Se Gesù ha dato un nuovo orientamento al credente ciò non gli evita di camminare a tentoni come fecero gli antenati.

In concreto il lettore cristiano non deve cercare modelli da imitare ma esperienze da condividere; «la dimensione propriamente religiosa del racconto è inscindibile dal modo di rivivere l’episodio»; è così che l’esperienza di fede può essere nutrita.

La crudeltà dei racconti va letta nell’intento del popolo d’Israele, che stava perdendo la propria terra, di idealizzare il passato componendo un affresco epico di un passato glorioso per esorcizzare il presente.

La teologia insufficiente di Giobbe: «La fede nella resurrezione cambia la nostra lettura di Giobbe?». Il libro rappresenta lo scontro tra una dottrina tradizionale imperniata su un concetto di giustizia distributiva interamente a favore di Dio e un caso individuale che la rimette in causa. Facendoci sperimentare il suo dramma di fronte al silenzio di Dio, Giobbe invita il lettore a cercare un senso che non è tanto un’idea su Dio o sulla sofferenza, quanto piuttosto una partecipazione attiva ad uno scontro nel quale cercare una via verso il giudice supremo e inaccessibile. I discorsi di Dio che insistono sul carattere insondabile dell’azione divina portano ad un epilogo in cui Dio premia la pazienza di Giobbe. La resurrezione non annulla questo dramma perché Gesù non è scampato alla sorte degli innocenti accusati ingiustamente, ma perorando la loro causa (anche di quelli dell’A.T.) ha patito la loro sorte fino alla morte, conservandone le tracce nel suo corpo glorioso. La resurrezione si manifesta nella e al di là della morte, non al di fuori di essa» .

Il racconto speculare Nel secondo capitolo, vengono fornite altre indicazioni utili ad un

corretto atteggiamento nei confronti dell’A.T. Innanzitutto viene sottolineata la necessità di una partecipazione del lettore nella

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ricerca del senso del testo che viene paragonato ad uno spartito musicale che ha bisogno di qualcuno che lo suoni o lo canti per produrre la musica. Oltre alla correttezza dell’interpretazione è necessario aggiungere qualcosa di personale per avere un’interpretazione vera.

Inoltre vengono citati alcuni testi (2Re 22,1-23,3; Ger 36; Es 24,3-8) chiamati «racconti speculari» che rispecchiano tutto il processo della lettura, fino alla risposta del lettore.

Il primo testo descrive, durante il regno di Giosia, il ritrovamento fortuito nel tempio di Gerusalemme di un rotolo che viene fatto leggere alla profetessa Culda la quale annunzia la fine del regno di Giuda. Nel secondo testo Geremia ordina a Baruc di scrivere una serie di oracoli da leggere nel tempio destinati al re Ioiakim in cui si annunzia che tutto il paese sarà conquistato dal re di Babilonia. Il terzo testo descrive come Dio trasmette a Mosè le parole della Legge.

I racconti descrivono - l’effetto della lettura (nel primo caso l’impegno del re di

concludere un’alleanza davanti al Signore per evitare la condanna di Gerusalemme in seguito alla sua infedeltà; nel secondo caso il re straccia il rotolo; nel terzo caso l’impegno di tutto il popolo siglato da un patto di sangue);

- l’importanza del rotolo, confermata dalla storia di Israele, che sopravvive alle catastrofi naturali e permette al popolo di conservare la sua identità;

- il passaggio dalla parola proclamata alla parola affidata ad un libro perché possa attraversare i secoli;

- la posta in gioco: l’esistenza del popolo che dipende dalla fedeltà all’alleanza.

Il procedimento contenuto in questi brani è comune anche alle parabole.

Forse «la chiave che permette al lettore di ieri così come a quello di oggi di aprire il libro sigillato» è quella di interrogarsi sulla propria posizione, attraverso il confronto con quelle dei vari personaggi descritti nei racconti, e «a dare una risposta libera alla proposta divina».

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J. Ratzinger-Benedetto XVI, In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, Lindau, Torino 2006.

Premessa L’azione dell’uomo che minaccia la vita ha conferito nuova urgenza

al tema della creazione. Assistiamo, però, paradossalmente alla scomparsa quasi totale dell’annuncio della creazione dalla catechesi, dalla predicazione e perfino dalla teologia. I racconti della creazione vengono taciuti; le loro affermazioni non sembrano più proponibili.

Esempio: «Concetti come “selezione” e “mutazione” sono intellettualmente molto più onesti del concetto di “creazione”; la “creazione” come piano cosmico è un’idea orami finita; il concetto di “creazione” è perciò un concetto irreale; “creazione” significa “vocazione” per l’uomo: quanto altro viene ancora detto, anche nella stessa Bibbia, non è il messaggio della creazione in quanto tale, bensì la sua formulazione in parte mitologica e apocalittica».

E ancora in un altro autorevole testo la creazione viene definita in questi termini: «Così, parlando di Dio come creatore, affermiamo che il senso primo e ultimo della vita si trova in Dio stesso, presente nel più intimo del nostro essere». Anche qui il termine «creazione» perde il suo senso letterale originario: la creazione deve essere interpretata in senso esistenziale. Questa riduzione «esistenziale» del tema della creazione comporta però un’enorme (se non totale) perdita di realtà da parte della fede, il cui Dio non ha più nulla a che fare con la materia.

Dio creatore (Genesi, 1,1-19) L’inizio della Bibbia ricorda a molti di noi il primo incontro con il libro

sacro. Ci fece uscire dal nostro piccolo mondo infantile, ci conquistò con la sua poesia e ci fece presagire qualcosa dell’immensità della creazione e del suo Creatore. Eppure proviamo una specie di dissociazione di fronte a queste parole, belle e familiari. Ma sono anche vere?

Le scienze naturali hanno fatto piazza pulita delle idee delle prime parole della Bibbia: l’idea di un mondo spazialmente e cronologicamente misurabile, l’idea di un creato costruito pezzo dopo pezzo in sette giorni. Oggi conosciamo il «big bang», sappiamo che le stelle non vennero «appese» al cielo né la vegetazione creata in ordine successivo ma la terra e l’universo hanno assunto la forma che conosciamo nel corso di un periodo lunghissimo e per vie quanto mai complicate.

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Le prime parole della Bibbia dunque non hanno più alcun valore? Insieme con la parola di Dio, con tutta la tradizione biblica, sono forse regredite tra i sogni dell’infanzia dell’umanità, quei sogni di cui sentiamo magari nostalgia ma che non possiamo condividere? Oppure esiste una risposta positiva, che possiamo responsabilmente ancora oggi sostenere?

Prima risposta: la Bibbia non è e non vuole essere un manuale di scienze naturali. È un libro religioso per cui non possiamo attingere da essa delle nozioni scientifiche né sapere come il mondo ha avuto scientificamente origine. Essa ci comunica solo delle verità religiose. Immagini che servono a far capire all’uomo la verità autentica e profonda.

Distinzione tra forma e contenuto: la forma fu scelta tra gli elementi che in quel tempo risultavano comprensibili, tra le immagini in cui gli uomini di allora vivevano, pensavano e parlavano, tramite le quali riuscivano a capire realtà autentiche e superiori. Solo il contenuto autentico, che traspare attraverso le immagini, è l’elemento permanente, quello che la Bibbia intende affermare. Secondo questa concezione la Bibbia non intende raccontarci come sono sorte a poco a poco le specie vegetali, come il sole, la luna e le stelle si sono formati, bensì, ci dice solamente: Dio ha creato il mondo.

Il mondo non è un affastellamento di forze tra loro contrastanti, non è la sede di potenze demoniache da cui l’uomo deve difendersi. Il sole e la luna non sono divinità che regnano su di lui; il cielo non è popolato di divinità inquietanti; tutto questo proviene piuttosto da un’unica potenza, dalla ragione eterna di Dio, che nella parola divenne forza creatrice. L’uomo sperimentò in queste parole il vero «illuminismo» che gli fa riconoscere che solo una potenza «è al fondo di tutto e noi nelle sue mani»: il Dio vivo. Questa stessa potenza è quella che ha creato la terra e le stelle e che sorregge tutto l’universo, che incontriamo nella parola della Sacra Scrittura.

Questa spiegazione è giusta ma non ancora sufficiente: perché questo non fu detto nei tempi passati?

Si ha l’impressione generale che negli ultimi quattro secoli la storia del cristianesimo sia stata una continua battaglia di ripiegamento, nel corso della quale sono state dimesse una dopo l’altra molte affermazioni della fede e della teologia trovando ogni volta qualche sotterfugio per potersi ritirare.

Questo è il malessere di un cristianesimo che non ha più il coraggio di essere se stesso, e che di conseguenza non può irradiare fiducia ed entusiasmo perché deriva da sommesse interpretazioni della parola le quali somigliano più a scappatoie che a spiegazioni, che non trasmettono convinzione ma cercano solo di mascherare la sconfitta.

Domandiamoci ancora una volta: la distinzione fra immagine e affermazione vera e propria è solo una scappatoia, perché non riusciamo più a comprendere il testo e tuttavia vogliamo continuare a farlo oppure la Bibbia stessa ci fornisce dei criteri che ci indicano questa

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strada e avallano perciò tale distinzione? Essa stessa ci mette a disposizione delle distinzioni di questo tipo? La fede della Chiesa conosceva e aveva già operato queste distinzioni?

Dopo queste domande riaprendo la Bibbia constatiamo che il racconto della creazione non è un blocco erratico, definito e compatto fin dall’inizio. Anzi l’intera Scrittura non è stata scritta semplicemente dal principio alla fine come un romanzo o un manuale: essa è piuttosto l’eco della storia di Dio con il suo popolo; è il frutto delle lotte e degli itinerari di questa storia attraverso la quale possiamo riconoscere gli slanci, le depressioni le sofferenze, le speranze, la grandezza e poi di nuovo i fallimenti di questa storia. La Bibbia è quindi l’espressione della lotta di Dio con l’uomo per farsi a poco a poco da lui capire, ma è anche l’espressione della lotta dell’uomo per capire Dio.

Per questo il tema della creazione non viene proposto tutto in una volta ma attraversa con Israele la storia, anzi tutta l’antica alleanza è un cammino compiuto insieme con la parola di Dio.

Perciò anche noi possiamo riconoscere la sua vera direzione solo nella totalità di tale cammino. In qualità di cammino Antico e Nuovo Testamento sono tra loro collegati. L’A.T. appare al cristiano come marcia di avvicinamento a Cristo diventando chiaro quel che intendeva propriamente dire e significava solo quando perviene a Cristo. Perciò noi interpretiamo teologicamente nella maniera giusta il singolo testo solo se lo comprendiamo come tratto di un cammino progressivo, solo se riconosciamo in esso la tendenza, l’orientamento intrinseco di questo cammino.

Che significa ora quanto detto per l’intelligenza del racconto della creazione? Israele ha sempre creduto nel Dio creatore condividendo questa fede con le grandi culture del mondo antico, addirittura con sorprendenti elementi comuni anche tra civiltà che non poterono mai incontrarsi, segno questo del contatto profondissimo dell’umanità con la verità di Dio.

Nello stesso Israele il tema della creazione è passato attraverso varie vicende. Esso non fu mai del tutto assente ma non fu neppure sempre importante allo stesso modo arrivando a trovare la sua formulazione attuale e autentica durante l’esilio babilonese che per la mentalità di allora era incomprensibile poiché significava che il Dio d’Israele era stato vinto, che era stato possibile sottrargli il suo popolo, la sua terra e i suoi adoratori.

Qui i profeti insegnarono a Israele che solo ora si stava manifestando il vero volto del loro Dio, che non era legato ad un fazzoletto di terra ma era colui che disponeva del cielo e della terra.

L’esilio, l’apparente sconfitta d’Israele, permettono allora di giungere alla conoscenza del Dio che ha in mano tutti i popoli e tutta la storia, il Dio che sorregge tutto, perché è il Creatore di tutto e ha potere su tutto.

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Di fronte alle esperienze inquietanti dell’uomo col mondo e con se stesso che a quel tempo in Babilonia si riassumevano nella convinzione che il mondo avesse avuto origine dalla lotta fra potenze contrapposte e che prese la sua forma attuale quando entrò in scena Marduk, il dio della luce, che aveva tagliato in due il drago originario dando vita al cielo e alla terra (immagini inquietanti) il racconto della Sacra Scrittura dice: non è stato così ma «la terra era deserta e disadorna». Il nulla e Dio che ha creato il mondo e lo tiene nelle sue mani. Su questo sfondo comprendiamo la polemica che si cela dietro il testo biblico che tende ad eliminare tutti quei miti confusi come, ad esempio, quando il sole e la luna vengono definiti come lampade che Dio appende al cielo per misurare i tempi. Pensiamo agli uomini di allora che invece li adoravano come grandi divinità quale empietà fossero queste dichiarazioni! Il racconto della creazione quindi si rivela come l’«illuminismo» decisivo della storia, l’esodo dalle paure che avevano attanagliato l’uomo. Significa la consegna del mondo alla ragione, il riconoscimento della sua razionalità e libertà.

Prima si diceva che Israele sperimenta cosa sia la «creazione» lentamente e questo implica che nella Bibbia non c’è un solo racconto ma vari racconti della «creazione» con immagini sempre modificate adattandole alle successive mentalità, trasformandole di continuo per testimoniare in maniera sempre nuova l’unica verità: Dio è il creatore. Con questo lento e faticoso progresso di immagini capiamo che sono solo immagini che rivelano qualcosa di più profondo e grande.

Un particolare decisivo: l’A.T. arriva alla meta con il messaggio di Gesù Cristo e nella nuova alleanza. Solo qui troviamo il racconto definitivo e normativo della Sacra Scrittura a proposito della creazione quando Giovanni lo rilegge con Cristo (Gv 1,1-3). Noi cristiani non leggiamo l’A.T. in se stesso e per se stesso, come un qualcosa in sé compiuto, ma lo leggiamo sempre con Cristo e per mezzo di Cristo. Per questo non siamo tenuti ad osservare la legge di Mosè, le prescrizioni relative alla purezza e all’alimentazione ed altro ancora. Cristo ci libera dalla schiavitù della lettera e ci restituisce la verità delle immagini che divengono, allora, rivestimento della profondità con cui egli ci rivela la realtà permanente, il terreno solido su cui possiamo poggiare in tutti i tempi.

Si rivela quindi un enorme errore leggere la Bibbia cercando di spiegare solo il singolo passo isolandolo dal tutto e contraddicendo l’essenza intrinseca dei testi biblici. Da qui è insorto quel conflitto tra scienza naturale e teologia che rappresenta ancora oggi un peso per la fede, peraltro senza motivo perché fin dall’inizio la fede è stata superiore, più ampia e profonda. La fede nella creazione non è neppure oggi irreale. Essa è tutt’oggi ragionevole e, anche alla luce dei risultati delle scienze naturali, è l’«ipotesi migliore», quella che spiega di più e meglio di tutte le altre teorie. La fede è ragionevole. La ragione della creazione deriva dalla ragione di Dio. Non ci è lecito nascondere la fede nella creazione neppure oggi perché solo se il mondo deriva dalla libertà, dall’amore e

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dalla ragione possiamo avere fiducia gli uni negli altri, possiamo andare incontro al futuro, possiamo vivere come uomini. Solo perché Dio è il Creatore di tutte le cose ne è anche il Signore e noi possiamo pregarlo. Questo significa che la libertà e l’amore sono le potenze fondamentali della realtà. Solo così possiamo anche oggi professare la nostra fede dicendo: «Credo in Dio, Padre onnipotente creatore del cielo e della terra».

Il senso dei racconti biblici della creazione (Gen 1,24-31; 2,1-4) Per approfondire l’idea che la fede nella creazione è ragionevole

bisogna partire dal «dato» della creazione che esige una causa e che rinvia a quella potenza all’inizio che potè dire: Sia fatto!

Nel secolo XIX, quando le scienze naturali parlavano dell’esistenza di due grandi leggi della conservazione della materia e dell’energia, sembrava che le cose stessero diversamente perché sembrava che questo mondo fosse un cosmo eternamente sussistente e dominato dalle leggi della natura e che non ha bisogno di nulla al di fuori di sé.

Poi sopraggiunsero nuove conoscenze come l’entropia che dice che l’energia viene consumata e trasformata in uno stato da cui non può più essere fatta retrocedere e che ci confermò che il mondo vive un processo di divenire e di passaggio che porta in sé inscritta la temporalità. Poi si scoprì che la materia si trasforma in energia, ciò che modificò automaticamente le due leggi della conservazione. Quindi sopraggiunsero la teoria della relatività e altre conoscenze che confermarono che il mondo porta in se stesso i propri orologi che ci permettono di riconoscere un cammino di principio e di fine e questa conoscenza della temporalità dell’essere fece di nuovo intravedere quell’istante che la Bibbia chiama il principio, quel principio che rimanda a colui che ebbe il potere di porre l’essere, il potere di dire: sia fatto – e fu fatto.

Da quel «sia fatto» non derivò un magma informe. Più conosciamo il mondo più vediamo balenare in esso una intelligenza che riconosciamo nello Spirito creatore cui anche la nostra ragione deve se stessa.

«Nelle leggi della natura si rivela una ragione così superiore che tutta la razionalità del pensiero e degli ordinamenti umani è al confronto un riflesso assolutamente insignificante» (A. Einstein).

Questa ragione la riconosciamo nel macrocosmo quale ragione potente che tiene insieme l’universo ma anche nelle cellule e nelle unità originarie della vita che ci fanno scoprire una razionalità stupefacente.

La fisica, la biologia, le scienze naturali in genere ci hanno fornito un racconto della creazione nuovo, inaudito, con immagini grandiose e nuove che ci permettono di riconoscere il volto del Creatore e ci fanno di nuovo sapere: sì, all’inizio e al fondo di tutto l’essere c’è lo Spirito creatore. Il mondo deriva da una intelligenza, da una libertà, da una

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bellezza che è amore. Riconoscere questo ci infonde il coraggio di vivere, il coraggio che ci rende capaci di affrontare fiduciosi l’avventura della vita.

Abbiamo sin qui visto che i racconti biblici della creazione sono un modo di parlare della realtà diverso da quello proprio delle fisica e della biologia. Essi non descrivono il processo del divenire e la struttura matematica della materia, ma dicono in molti modi che esiste un unico Dio e che il mondo non è l’arena di potenze oscure, ma la creazione della sua parola. Questo però non significa che le singole proposizioni del testo biblico perdano ora qualsiasi significato e che rimanga valido solo questo nucleo. Anch’esse sono un’espressione della verità, anche se naturalmente in modo diverso dalla fisica e dalla biologia. Sono verità nella maniera del simbolo come, ad esempio, una vetrata gotica ci permette di conoscere qualcosa di molto profondo attraverso il gioco delle sue luci e dei suoi segni. Due elementi figurativi:

1) il racconto biblico della creazione è contraddistinto da numeri che esprimono non la struttura matematica del mondo bensì, per così dire, il modello intrinseco del suo tessuto, l’idea secondo cui è costruito: 3, 4, 7 e 10. Dieci volte leggiamo: «E Dio disse» quale preludio ai dieci comandamenti. I dieci comandamenti sono l’eco della creazione non regole arbitrarie con cui si limita la libertà. Il numero dominante è il 7; con lo schema dei sette giorni dà una caratterizzazione tipica al tutto. Si tratta del numero di una fase lunare e ci dice, allora, che il ritmo dell’astro a noi vicino ci indica anche il ritmo della vita umana, venendo noi a sapere così che noi uomini non siamo prigionieri del nostro piccolo io ma siamo immersi nel ritmo dell’universo. Nella Bibbia questo pensiero avrà un ulteriore sviluppo nell’affermazione che il ritmo degli astri è in senso più profondo espressione del ritmo del cuore, del ritmo dell’amore di Dio che ivi si manifesta.

2) la creazione è orientata al sabato, che è il segno dell’alleanza di Dio con l’uomo. La creazione è edificata in modo da tendere all’ora dell’adorazione. Il creato venne fatto per essere un luogo dell’adorazione, esiste per adorare. Il centro autentico, la forza che muove e ordina dall’interno il ritmo delle stelle e della nostra vita è l’adorazione. Solo quando ne è permeato, il ritmo della nostra vita trova il suo giusto equilibrio. In tutte le culture i racconti della creazione tendono ad affermare che il mondo esiste per la glorificazione di Dio. Questa unità delle culture circa le domande più profonde che agitano l’uomo, è qualcosa di molto prezioso perché presentano una profonda unità con la fede biblica e racchiudono un sapere umano originario che è aperto anche nei confronti di Cristo. Esiste un sapere originario comune, che indica la strada e unisce le grandi culture pur nella consapevolezza che questo sapere è stato di continuo deformato in primis con la convinzione che nell’adorazione l’uomo dà agli dei qualcosa di cui essi hanno bisogno. La Bibbia potè ribadire la pura relazione d’amore quale l’adorazione dovrebbe sempre essere, purificando in tal modo l’orientamento del mondo all’adorazione. Questa idea fondamentale compare nell’immagine del

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sabato che è a sua volta sintesi della Torà. Nell’adorazione quindi è racchiuso tutto l’ordinamento morale di Dio e la legge, quale espressione della storia che Israele vive con Dio, è a sua volta espressione dell’amore di dio, del sì da lui detto all’uomo che ha creato, affinché questi ami e sia amato. Dio ha creato il mondo per iniziare una storia di amore con l’uomo e per diventare uomo ed effondere il suo amore, per poi riversarlo anche su di noi e invitarci a corrispondere tale amore.

Celebrare il sabato, allora, significa celebrare l’alleanza tornando all’origine ed eliminando tutte le impurità che la nostra opera vi ha introdotto. Significa contemporaneamente anticipare un mondo nuovo, in cui non ci saranno più schiavi né padroni ma solo figli liberi di Dio in cui l’uomo, l’animale e la terrà parteciperanno insieme fraternamente alla pace e alla libertà di Dio. Ricusare il riposo di Dio, allora, l’ozio davanti a lui, l’adorazione e la sua conseguente pace e libertà significa cadere nella schiavitù del proprio attivismo e rendersi così schiavi, allontanandosi dalla propria somiglianza con lui calpestando il mondo.

Un’ultima considerazione sul versetto 28: «Soggiogate la terra» che è divenuto punto di partenza degli attacchi al cristianesimo per le terribili conseguenze di questo imperativo. Il compito affidato dal Creatore all’uomo dice che questi deve prendersi cura del mondo come creazione di Dio, seguendone il ritmo e la logica. Il senso di tale compito è precisato nel capitolo successivo della Genesi con le parole «lavorare e custodire» (2,15).

La fede biblica comporta soprattutto che l’uomo non si chiuda in se stesso, che sia consapevole di trovarsi inserito nel grande corpo della storia, che deve alla fine diventare corpo di Cristo. Non cada, come nel nostro tempo, in quel tormentato narcisismo che taglia in uguale misura i ponti con il passato e il futuro e vuole soltanto il proprio presente.

La via cristiana rimane l’unica che veramente salva. In essa è presente la convinzione che possiamo essere realmente «creativi» solo in unità con il Creatore del mondo. Possiamo servire veramente la terra solo se ci poniamo di fronte a essa secondo le indicazioni della parola di Dio. Allora possiamo realmente far progredire e perfezionare noi stessi e il mondo. «Operi Dei nihil praeponatur»: non bisogna preferire nulla all’opera di Dio, non bisogna anteporre nulla al culto di Dio. Questa frase è la vera legge della conservazione della creazione contro la falsa adorazione del progresso, contro l’adorazione del cambiamento che calpesta il mondo e il creato allo stesso tempo, impedendo loro di raggiungere il proprio fine. Soltanto il Creatore è il vero redentore dell’uomo, solo se abbiamo fiducia nel Creatore camminiamo verso la redenzione del mondo, dell’uomo e delle cose.

La creazione dell’uomo Con uno stile omiletico, e quindi chiaro e comunicativo, l’autore

intende in questa riflessione indicare, senza la pretesa dell’esaustività, le

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fondamentali implicazioni che discendono dal racconto biblico della creazione dell’uomo.

Le immagini del racconto della creazione dell’uomo, con i loro contenuti ispirati, hanno influenzato in maniera determinante non soltanto la vita e la cultura del popolo che li ha ricevuti, ma anche quelli dell’umanità intera orientandoli verso un destino di piena realizzazione dell’Uomo.

Che cos’è l’uomo? È la domanda alla quale ognuno di noi deve dare una risposta se vuole che la sua vita abbia un senso e guardare con fede al racconto della creazione contenuto nella Sacra Scrittura può servirci a «riconoscere qual’è il progetto di Dio sull’uomo, aiutarci a dare in modo creativo la nuova risposta che Dio attende da ognuno di noi.”

L’uomo tratto dalla terra: ad esempio guardando all’immagine che l’uomo è stato formato con la polvere della terra ne ricaviamo un’idea che è allo stesso tempo «umiliante» e «consolatoria».

L’umiliazione, o se vogliamo l’invito ad un atteggiamento di umiltà, a non considerare l’uomo al pari di un dio, deriva dal fatto che essa ci rivela che non siamo dèi, che siamo limitati, destinati alla morte come ogni altro essere vivente.

La consolazione è invece evocata dalla constatazione che l’uomo non è neppure un demone, non è fatto di potenze negative, ma della terra buona di Dio. Ma, cosa ancora forse di maggior importanza, quest’idea ci indica una cosa essenziale: l’uguaglianza di tutti gli uomini.

L’uguaglianza fatta di un’unica discendenza e di un’unica condizione in quanto «l’imperatore e il mendicante, il padrone ed il servo sono in fondo un’unica cosa, un unico e medesimo uomo tratto dalla stessa terra e destinato a ritornare ad essa»

Il genere umano ha dunque un’unica provenienza e, diversamente da quanto indicano i miti di varie altre religioni o tante ideologie contemporanee, non esistono caste e razze diverse composte da uomini di diverso valore, in quanto «siamo tutti quanti un’unica umanità, plasmata con l’unica terra di Dio.”

Immagine di Dio: secondo la Genesi, però, l’uomo non è solo tratto dalla terra, esso è molto di più in quanto «Dio soffia l’alito di vita sul corpo precedentemente modellato». Se il racconto della creazione ci fornisce l’idea dell’uomo fatto ad immagine di Dio e che porta in sé il suo alito, ne scaturisce inevitabilmente la considerazione dell’inviolabilità della dignità umana, in aperto contrasto con tutte le ideologie che si basano sulla considerazione dell’uomo in chiave prettamente utilitaristica e che escludono, come accade a certi atteggiamenti meramente tecnico-scientifici, di dare ragionevolezza al morale ed al sacro, relegandoli nel campo delle irrazionalità da superare. Ma quando ciò accade, quando cioè si riduce l’etica alla fisica si «estingue la realtà autentica dell’uomo» ed invece di liberarlo lo si distrugge.

Ancora, dal concetto di immagine-somiglianza inteso nel senso del «riferimento» dinamico, che cioè mette l’uomo in moto e lo orienta all’altro,

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consegue che «l’uomo è capace di Dio» e si distingue dall’animale in quanto «è l’essere capace di pensare Dio, è l’essere capace di pregare» cosicché l’uomo diviene l’essere della parola e dell’amore che, se seguiamo la fondamentale ed aurea regola di leggere l’Antico Testamento in uno con il Nuovo, è «la creatura che può diventare fratello di Cristo», il nuovo Adamo, l’Uomo definitivo, colui che manifesta il contenuto più profondo del progetto della creazione.

Creazione ed evoluzione Ma, si può dare ancora credibilità ai racconti sulla creazione dopo le

teorie sull’evoluzione? Secondo J. Ratzinger la domanda è mal posta in quanto non si tratta di scegliere tra creazione ed evoluzione perché le due dinamiche possono coesistere. Infatti, il racconto biblico della creazione non ci narra come l’uomo ha avuto origine, ma ci indica cosa egli è, cioè ci parla della sua origine più intima, ci illustra il disegno che sta dietro di lui. L’autore svolge quindi un serrato ed appassionante confronto con le teorie materialistiche dell’evoluzione che escludono qualsiasi intervento divino nella creazione e lasciano solo «al caso» ed alla «necessità» il ruolo di protagonisti assoluti, evidenziandone i limiti intrinseci ed oggettivi che lo portano a concludere che «oggi possiamo dire con una certezza e una gioia nuove: Sì, l’uomo è un progetto di Dio. Solo lo Spirito creatore fu sufficientemente forte, grande e ardito da escogitare questo progetto. L’uomo non è uno sbaglio, ma è voluto, è il frutto di un amore».

Peccato e redenzione L’uomo contemporaneo ha completamente rimosso l’idea del peccato:

per cinema e teatro esso è solo oggetto di ironia, sociologia e psicologia lo considerano un complesso, il diritto riduce l’idea di bene e male ad un dato statistico che si limita a distinguere tra comportamenti normali e comportamenti devianti.

Questo modo di pensare, che penetra tutta la nostra cultura, comporta la conseguenza logica di non considerare valida per l’uomo alcuna misura a lui preesistente «una misura non escogitata da noi, bensì derivante dalla bontà intrinseca del creato».

Si tratta, però, soltanto di una rimozione, in quanto il peccato continua ad esistere. Le conseguenze sono pesantissime: «poiché l’uomo può sì rimuovere la verità ma non eliminarla, egli si ammala»

Ecco allora l’essenziale intervento dello Spirito Santo che opera anche per convincere «il mondo quanto al peccato» (Gv 16,8).

È questa la preoccupante premessa dalla quale parte l’autore per introdurre la meditazione sul terzo capitolo del libro della Genesi che,

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proprio quale frammento di questa azione dello Spirito Santo, ci parla, anche attraverso l’immagine del «giardino» e quella del «serpente» di verità che oltrepassano i limiti della nostra intelligenza.

Il giardino, in quanto espressione di un mondo ordinato che nutre e sorregge l’uomo, mostra i tratti della presenza dello Spirito. Non è, infatti, una selva pericolosa e selvaggia bensì una patria che protegge l’uomo e rivela la propria natura di dono, segno della bontà salvifica di Dio.

La figura del serpente, invece, rimanda agli antichi culti della fecondità che furono nei secoli la vera tentazione del popolo di Israele invitando l’uomo a non attenersi all’alleanza stretta con il Dio d’Israele che pone tanti limiti, e ad «immergersi nella corrente della vita, dell’ebbrezza e nella sua estasi».

Il serpente, figura archetipica della tentazione, non predica l’ateismo, non nega l’esistenza di Dio, ma insinua sfiducia e diffidenza: «è vero che non dovete mangiare di nessun albero del giardino?».

È dunque l’alleanza con Dio che è messa in dubbio con l’invito all’uomo a liberarsi dai limiti del bene e del male, i limiti della moralità semplicemente ignorandoli.

È questo il peccato originale e anche nei nostri tempi possiamo vedere esempi lampanti di questa tendenza. Nessun limite, ad esempio, può essere imposto secondo la mentalità prevalente, all’arte ed alla tecnologia.

Nell’arte non conta il bene o il male, il buono o il cattivo, bensì solo la capacità, l’abilità, il potere. Così, allo stesso modo, nella tecnologia l’unico limite imposto è la capacità dell’uomo.

Quest’inganno di Satana ha un unico fine: «distruggere l’uomo ed il mondo gettando il sospetto sull’alleanza, sul Dio vicino dell’alleanza e, con lui, sui limiti del bene e del male, sulla misura intrinseca dell’essere umano e della creaturalità». Sono limiti di cui l’uomo vuole liberarsi e divenire dio lui stesso, inevitabilmente alterando il rapporto con il creatore e con le stesse altre creature ed il mondo. L’uomo che non conosce i propri limiti («Se ne mangerete, morirete» Gen 3,3) vive nella menzogna e nella irrealtà, la sua vita cade sotto il dominio della morte.

Il peccato di Adamo è detto originale perché esso turba le relazioni che legano Dio agli uomini e l’uomo agli altri uomini. Se consideriamo che l’uomo «è relazione e ha la propria vita solo nel mondo della relazione» ed il peccato è negazione, perdita o turbamento della relazione possiamo capire che se questa relazione è turbata fin dall’inizio (peccato originale) «ognuno di noi finisce in un intreccio le cui relazioni sono falsate. Ognuno è perciò turbato fin dall’inizio nelle proprie relazioni, non le riceve così come esse dovrebbero essere. Il peccato si estende fino a lui ed egli ne diviene compartecipe».

Ecco perché è possibile parlare di peccato originale anche se per noi il concetto di responsabilità è quasi esclusivamente personale (ma, se ha peccato Adamo, io cosa c’entro?).

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Ed ecco, allora, che si comprende meglio anche la risposta Neotestamentaria al peccato originale, il fatto che Gesù Cristo percorra in senso inverso il cammino di Adamo e che la croce, il luogo della sua obbedienza, divenga così il vero albero della vita.

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Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Roma 1993.

La problematica attuale

L’interpretazione della Bibbia da sempre ha costituito un aspetto

problematico non solo per alcune oscurità del testo, legate alle difficoltà stilistico-espositive dell’autore ma anche per la comprensione del messaggio di fede in esso rivelato ed esplicitato nel corso dei secoli.

Possiamo affermare infatti che il problema dell’interpretazione dei testi biblici non è affatto nuovo e non è dovuto solamente ad una richiesta/urgenza del nostro tempo (v. alcuni passi del profeta Daniele – 9,2 – che si interroga su Geremia, o l’Etiope negli Atti degli Apostoli – 8,30-35 – per quanto riguarda alcuni passi del profeta Isaia).

Si deve tuttavia riconoscere che esso si è accentuato in particolare nei tempi moderni con il progresso delle scienze umane: l’individuazione di metodi scientifici relativi allo studio e all’interpretazione dei testi dell’antichità ha posto ulteriori aperture e difficoltà, mettendo in campo nuovi strumenti di indagine con forti interrogativi nei confronti di uno studio appropriato anche della Sacra Scrittura.

D’altro canto, considerata la fondamentale importanza della Bibbia per la fede cristiana, per la vita della Chiesa e per i rapporti dei cristiani con i fedeli delle altre religioni, l’argomento, a lungo tenuto sotto silenzio, non poteva non essere preso in considerazione ed è stato affrontato, con un’evoluzione positiva, a partire dal 18 novembre 1893 con l’enciclica Providentissimus di Leone XIII, con l’enciclica Divino afflante Spiritu di Pio XII (30 settembre 1943) fino alla Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II Dei Verbum (18 novembre 1965).

Viene accolto, pertanto, e seguito anche nell’esegesi cattolica il metodo «storico-critico»: il metodo storico, ritenuto indispensabile per lo studio scientifico dei testi antichi e quindi anche per la corretta comprensione del testo biblico, un metodo attento all’evoluzione storica dei testi o delle tradizioni nel corso del tempo. Esso cerca di chiarire i processi storici di produzione dei testi biblici, processi diacronici talvolta complicati e di lunga durata. È un metodo critico perché opera con l’aiuto di criteri scientifici in modo da rendere accessibile al lettore moderno il significato dei testi biblici e permette nello studio critico della redazione dei testi di meglio comprendere il contenuto della rivelazione divina.

Ha il merito di aver aperto un nuovo accesso alla Bibbia, indicando che essa è una collezione di scritti che per lo più non sono creazione di un unico Autore – soprattutto per l’A.T.– e che hanno avuto una lunga preistoria, legata alla storia di Israele o a quella della Chiesa primitiva.

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Dobbiamo ricordare che, precedentemente, l’interpretazione giudaico cristiana della Bibbia non aveva una coscienza chiara delle condizioni storiche concrete nelle quali si è radicata la parola di Dio.

I limiti: il metodo si restringe alla ricerca del senso del testo biblico nelle circostanze storiche della sua produzione e non si interessa alle altre potenzialità di significato.

Successivamente questo metodo viene messo in discussione: nel

mondo scientifico, da altri metodi ed approcci interpretativi e, nella Chiesa, da molti cristiani che lo giudicano insufficiente dal punto di vista della fede. Si pone quindi in dubbio la validità dell’esegesi scientifica per una «lettura» corretta della Bibbia; essa viene incolpata di giungere con alcuni esegeti a posizioni contrarie alla fede e alla Tradizione della Chiesa e di portare sterilità nel progresso della vita cristiana.

Si propongono altri metodi che insistono su una comprensione sincronica dei testi per quanto riguarda la lingua, la composizione, la trama narrativa, il loro sforzo di persuasione, sostituendo alla preoccupazione di ricostruire il passato (metodo diacronico «storico-critico») la volontà di interrogare i testi collocandoli nelle prospettive del tempo presente, di ordine filosofico, psicanalitico, sociologico, politico, ecc

Si riportano di seguito i metodi di lettura sincronica, ciascuno dei quali presenta elementi validi accanto ai limiti relativi all’interpretazione dei testi biblici:

– Metodi di analisi letteraria quali analisi retorica/«nuova retorica», analisi narrativa, analisi semiotica.

La caratteristica dell’analisi retorica/nuova retorica è l’attenzione alla capacità persuasiva e convincente del linguaggio; dell’analisi narrativa la facilitazione del passaggio dal senso del testo nel suo contesto storico al senso che ha per il lettore di oggi; dell’analisi semiotica la capacità di risvegliare nei cristiani il gusto di studiare il testo biblico e di scoprire alcuni significati, anche senza possedere tutte le conoscenze storiche riferite al testo e al contesto socio-culturale.

– Approcci basati sulla Tradizione: approccio canonico, approccio mediante il ricorso alle tradizioni interpretative giudaiche, approccio attraverso la storia degli effetti del testo

– Approcci attraverso le scienze umane: approccio sociologico, approccio attraverso l’antropologia culturale, approcci psicologici e psicanalitici

– Approcci contestuali: approccio liberazionista, approccio femminista.

Sono approcci che si sono sviluppati recentemente e che intendono

leggere la Bibbia non come un insieme di testi privi di qualsiasi relazione fra di loro, ma come un insieme di testimonianze di una stessa grande Tradizione. Oppure prendendo in considerazione l’apporto della sociologia, dell’antropologia e della psicologia per la migliore comprensione di certi

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aspetti dei testi. O ancora adottando punti di vista nuovi corrispondenti a certe correnti di pensiero contemporanee.

Questi metodi ed approcci vengono usati nell’esegesi biblica in modo differenziato per approfondire i vari aspetti di un testo, considerati degni di attenzione e sono complementari.

Si considerano, inoltre, approcci più semplici, una lettura sincronica

o addirittura si rinuncia ad ogni tipo di studio e si raccomanda una lettura cosiddetta spirituale, guidata unicamente dall’ispirazione soggettiva (da non confondere con il «senso spirituale» della Scrittura: lettura delle Scritture alla luce della vita secondo lo Spirito); oppure si cerca nella Bibbia il Cristo rispondente alla personale concezione e la risposta ad una religiosità spontanea; o si pretende di trovare risposte dirette a ogni tipo di domanda , personale o collettiva.

La lettura fondamentalista La lettura fondamentalista parte dal principio che la Bibbia, essendo

Parola di Dio ispirata ed esente da errore, deve essere letta ed interpretata letteralmente in tutti i suoi dettagli. Per «interpretazione letterale» essa intende un’interpretazione letteralista, che esclude ogni sforzo di comprensione della Bibbia che tenga conto della sua crescita nel corso della storia e del suo sviluppo. Si oppone perciò all’utilizzazione del metodo storico-critico per l’interpretazione della Scrittura, così come di ogni altro metodo scientifico. Questo genere di lettura ha trovato sempre più numerosi aderenti nell’ultima parte del XX secolo in alcuni gruppi religiosi e sette e anche tra i cattolici.

Il problema di base di questa lettura fondamentalista è che, rifiutando di tener conto del carattere storico della rivelazione biblica, si rende incapace di accettare pienamente la verità della stessa Incarnazione; evitando la stretta relazione del divino e dell’umano nei rapporti con Dio, rifiuta di ammettere che la Parola di Dio ispirata è stata espressa in linguaggio umano ed è stata redatta, sotto l’ispirazione divina, da autori umani, le cui capacità e risorse erano limitate. Tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per parola dallo Spirito e non arriva a riconoscere che la Parola di Dio è stata formulata in un linguaggio e una fraseologia condizionati da una data epoca storica. Non accorda nessuna attenzione alle forme letterarie e ai modi umani di pensare presenti nei testi biblici, molti dei quali sono frutto di una elaborazione che si è estesa su lunghi periodi di tempo e porta il segno di situazioni storiche molto diverse.

Il fondamentalismo insiste anche in modo indebito sull’inerranza dei dettagli nei testi biblici, specialmente in materia di fatti storici o di pretese verità scientifiche. Spesso storicizza ciò che non aveva nessuna pretesa di storicità, poiché considera come storico tutto ciò

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che è riferito o raccontato con verbi al passato, senza la necessaria attenzione alla possibilità di un significato simbolico o figurativo.

Il fondamentalismo porta inoltre a una grande ristrettezza di vedute: ritiene infatti conforme a realtà una cosmologia antica superata, il che impedisce il dialogo con una concezione più aperta dei rapporti tra cultura e fede. Si basa su una lettura non critica di alcuni testi della Bibbia per confermare idee politiche e atteggiamenti sociali segnati da pregiudizi del tutto contrari al vangelo cristiano.

Sensi della Scrittura ispirata Gli sviluppi recenti dello studio scientifico delle letterature

permettono all’esegesi biblica di approfondire la comprensione del suo compito: accanto alla tesi dell’unicità di significato (esegesi storico critica) si afferma la polisemia dei testi scritti posta dai nuovi studi. Si deve inoltre considerare la varietà dei generi dei testi: racconti storici, parabole, oracoli, leggi, proverbi, preghiere, inni, ecc. E’ possibile tuttavia presentare alcuni principi nella interpretazione biblica.

Senso letterale Il senso letterale della Scrittura, da non confondere col senso

«letteralistico» su cui si basano i fondamentalisti, è quello espresso direttamente dagli autori umani ispirati; è necessario comprenderlo secondo le convenzioni letterarie del tempo (es. rilevarlo a seconda che si tratti di un testo metaforico, o di un racconto storico e non, di una parabola, ecc) ed essere attenti all’aspetto dinamico dei testi. Il senso letterale è aperto a sviluppi ulteriori, che si producono grazie a riletture in contesti nuovi. Questo però non vuol dire che ci può essere qualsiasi significato.

Senso spirituale Il senso spirituale, da non confondere con le interpretazioni

soggettive dettate dall’immaginazione o dal ragionamento, è il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l’influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne deriva, la vita nello Spirito. La lettura spirituale, fatta comunitariamente o individualmente, deve mantenere queste prospettive e caratteristiche.

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Senso pieno Si definisce «senso pieno» il senso più profondo del testo, voluto da

Dio, ma non chiaramente espresso dall’autore umano. Se ne scopre l’esistenza in un testo quando viene studiato alla luce di altri testi biblici o nel suo rapporto con lo sviluppo interno della rivelazione.

Dimensioni caratteristiche dell’interpretazione cattolica L’esegesi cattolica non si distingue usando un metodo scientifico

particolare. Essa riconosce che i testi biblici sono opera di autori umani, che si sono serviti delle proprie capacità e degli strumenti che il loro tempo e il loro ambiente mettevano a loro disposizione. Perciò usa tutti i metodi e gli approcci scientifici che permettono di meglio comprendere il significato dei testi nel loro contesto linguistico, letterario, socio-culturale, religioso e storico, illuminandoli anche con lo studio delle loro fonti e tenendo conto della personalità di ogni autore (v. Divino afflante Spiritu, EB 557).

La sua caratteristica è di situarsi consapevolmente nella tradizione vivente della Chiesa, la cui prima preoccupazione è la fedeltà alla rivelazione attestata dalla Bibbia.

Interpretazione nella Tradizione biblica Questo comporta una grande varietà di aspetti e significa nel caso

limitato e specifico che: - nella Bibbia gli scritti biblici posteriori si basano spesso su quelli

anteriori, fanno allusione ad essi, ne propongono delle «riletture», che sviluppano nuovi aspetti di significato;

- tra Antico e Nuovo Testamento c’è un rapporto dialettico e di reciproca illuminazione: ci si accorge che le Scritture rivelano il senso degli eventi e che gli eventi rivelano il senso delle Scritture (v. la posizione di Gesù durante il suo ministero pubblico).

Si può concludere che la Bibbia contiene numerose indicazioni e suggerimenti sull’arte di interpretarla. La Bibbia è infatti, fin dall’inizio, essa stessa interpretazione. I suoi testi sono stati riconosciuti dalle comunità dell’antica Alleanza e del tempo apostolico come valida espressione della loro fede. È secondo l’interpretazione delle comunità e in relazione con essa che questi testi sono stati riconosciuti come Sacra Scrittura.

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Interpretazione nella Tradizione della Chiesa La Chiesa, popolo di Dio, è cosciente di essere aiutata dalla Spirito

Santo nella sua comprensione e interpretazione della Scrittura. Così i primi discepoli facevano l’esperienza nella loro vita di comunità, di un approfondimento e di una progressiva esplicitazione della rivelazione ricevuta. Anche la Chiesa continua il suo cammino sostenuta dalla promessa di Cristo: «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto». (Gv 14, 26)

Guidata dallo Spirito Santo e alla luce della Tradizione, la Chiesa ha identificato gli scritti che devono essere considerati come Sacra Scrittura: «scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio come autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa» e contengono «la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre lettere» (Dei Verbum, 11).

Formazione del Canone Le comunità della prima Alleanza riconobbero in un certo numero di

testi la Parola di Dio che suscitava la loro fede e le guidava nella vita; essi ricevettero questi testi come un patrimonio da custodire e da trasmettere, diventando proprietà comune del popolo di Dio. Il Nuovo Testamento attesta la sua venerazione (Sacre Scritture, ispirate dallo Spirito Santo), che riceve come una preziosa eredità trasmessa dal popolo ebraico.

A questi testi che formano l’Antico/Primo Testamento la Chiesa ha unito strettamente gli scritti in cui ha riconosciuto la testimonianza autentica proveniente dagli apostoli e garantita dallo Spirito Santo «su tutto quello che Gesù fece e insegnò» (At 1,1) da una parte e dall’altra le istruzioni degli apostoli e degli altri discepoli per costituire la comunità dei credenti: il Nuovo Testamento.

Fissando il canone delle Scritture la Chiesa fissava anche la sua stessa identità e nello stesso tempo poneva le Scritture come uno specchio nel quale la Chiesa può, secolo dopo secolo, riscoprire se stessa e la sua fedeltà al Vangelo, per trasmetterlo con fedeltà.

Esegesi patristica I Padri della Chiesa, che hanno avuto un ruolo particolare nel

processo di formazione del canone, hanno anche un ruolo fondatore per quanto riguarda la tradizione vivente che accompagna e guida la lettura e la interpretazione che la Chiesa fa delle Scritture.

Il contributo particolare dell’esegesi patristica consiste in questo:

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essa ha tratto dall’insieme della Scrittura gli orientamenti di base che hanno dato forma alla tradizione dottrinale della Chiesa e ha fornito un insegnamento teologico per l’istruzione e il nutrimento spirituali dei fedeli.

Presso i Padri della Chiesa la lettura della Scrittura e la sua interpretazione occupano un posto considerevole. Il luogo abituale della lettura biblica è la chiesa, durante la liturgia; le opere sono omelie, commentari ma anche opere di teologia.

L’interpretazione allegorica delle Scritture che caratterizza l’esegesi patristica rischia di disorientare l’uomo moderno, ma l’esperienza di Chiesa, che questa esegesi presenta, esprime un autentico spirito cristiano.

Ruolo dei diversi membri della Chiesa nell’interpretazione In quanto date alla Chiesa, le Scritture sono il tesoro comune di tutto

il corpo dei credenti: «La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un unico deposito della Parola di Dio affidato alla Chiesa» (Dei Verbum, 10).

Tutti i membri della Chiesa hanno un ruolo nell’interpretazione delle Scritture:

– nell’esercizio del loro ministero pastorale, i vescovi in quanto successori degli apostoli sono i primi testimoni e garanti della tradizione vivente nella quale le Scritture sono interpretate in ogni epoca.

– i sacerdoti in quanto collaboratori dei vescovi, hanno come primo dovere la proclamazione della Parola. In quanto presidenti della comunità eucaristica ed educatori della fede essi hanno come compito principale non solo quello di fornire un insegnamento ma anche di aiutare i fedeli a comprendere e discernere ciò che la parola di Dio dice nei loro cuori, quando ascoltano e meditano le Scritture.

– lo Spirito è anche dato ai cristiani individualmente, così che i loro cuori possano diventare «ardenti» quando pregano e fanno uno studio orante delle Scritture.

Il concilio Vaticano II ha chiesto con insistenza che l’accesso alle Scritture sia facilitato in tutti i modi.

– la Chiesa accorda la sua stima agli esegeti, coloro cioè che manifestano una particolare capacità e competenza nell’interpretazione della Scrittura. Particolare attenzione va al numero crescente di donne esegete che offrono spesso nuovi e penetranti punti di vista nell’interpretazione della Scrittura.

L’interpretazione della Bibbia non è monopolio degli esegeti. La

Chiesa non considera la Bibbia semplicemente un insieme di documenti storici concernenti la sua origine, ma l’accoglie come Parola di Dio che si rivolge ad essa e al mondo intero nel tempo presente.

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Questa convinzione di fede comporta: uno sforzo di attualizzazione e di inculturazione del messaggio biblico accanto all’elaborazione di diversi modi di uso di testi ispirati nella liturgia, nella lectio divina, nel ministero pastorale e nel movimento ecumenico.

A che punto siamo? Conclusione Si riconosce e viene affermato dalla Pontificia Commissione Biblica

che la natura stessa dei testi biblici esige che, per interpretarli, si continui ad usare il metodo storico-critico, almeno nelle sue operazioni principali.

La Bibbia infatti si presenta come l’attestazione scritta di una serie di interventi attraverso i quali Dio si rivela nella storia umana; il messaggio biblico è solidamente radicato nella storia. Ne consegue che gli scritti biblici non possono essere compresi correttamente senza un esame del loro condizionamento storico. Le ricerche «diacroniche» saranno sempre indispensabili all’esegesi e gli approcci «sincronici», qualunque sia il loro interesse, non sono in grado di sostituirle.

Tuttavia il metodo storico-critico, pur valido, non può avere la pretesa di essere sufficiente a tutto. Mettendo a profitto i progressi fin qui fatti dagli studi linguistici e letterari, l’esegesi si avvarrà del contributo dei nuovi metodi e di approccio sincronico (retorico, narrativo, semiotico e altri) dando un’interpretazione più ampia e fedele del Testo Sacro.

L’esegesi cattolica pertanto non si distingue con l’uso di un particolare metodo scientifico, ma usa tutti i metodi e gli approcci scientifici che permettono di meglio comprendere il significato dei testi nel loro contesto linguistico, letterario, socio-culturale, religioso e storico, illuminandoli anche con l’interpretazione della tradizione biblica e con la tradizione della Chiesa.

Si deve inoltre affermare che l’ermeneutica biblica, anche se fa parte

dell’ermeneutica generale di ogni testo letterario e storico, presenta caratteri specifici che derivano dal suo oggetto: gli eventi di salvezza e il loro compimento nella persona di Gesù Cristo che danno senso a tutta la storia umana. Le interpretazioni storiche nuove potranno essere solo uno svelamento o una esposizione di queste ricchezze di significato. Il racconto biblico di questi eventi non può essere compreso pienamente dalla sola ragione; la sua interpretazione deve essere guidata dalla fede vissuta nella comunità ecclesiale e dalla luce dello Spirito Santo.

Emerge ancora una seconda conclusione molto importante: l’esegesi

biblica adempie, nella chiesa e nel mondo, a un compito indispensabile.

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Voler fare a meno di essa per comprendere la Bibbia sarebbe un’illusione e dimostrerebbe una mancanza di rispetto per la Scrittura ispirata.

La necessità di un’ermeneutica cioè di una interpretazione nell’oggi del nostro mondo trova fondamento nella Bibbia stessa e nella storia della sua interpretazione: è quindi evidente. L’insieme degli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento si presenta come il prodotto di un lungo processo di reinterpretazione degli eventi fondatori, in stretto legame con la vita delle comunità dei credenti.

«Si è fedeli all’intenzionalità dei testi biblici solo nella misura in cui si cerca di ritrovare, nel cuore della loro formulazione, la realtà di fede che essi esprimono e se si collega questa realtà con l’esperienza credente del nostro mondo».

La Pontificia Commissione Biblica con queste precisazioni ha voluto indicare le strade da percorrere per arrivare ad una interpretazione della Bibbia la più fedele possibile al suo carattere umano e divino.

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Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 2001

Il testo preso in esame ci interessa soprattutto perché vi si trovano

espresse in modo molto chiaro ed autorevole le motivazioni che hanno portato alla scelta di offrire alla riflessione e alla preghiera dei GDA alcune pagine dell’A.T.

Già nella prefazione, l’allora card. Ratzinger affermava che se ci si congedasse dall’A.T., il Nuovo Testamento non avrebbe senso in se stesso o sarebbe del tutto «indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi» (n. 84).

Ciò che dà fondamento a tale affermazione è il fatto che Gesù stesso ha avanzato la pretesa di essere il vero erede dell’A.T. e di essere colui che ne dà l’interpretazione definitiva (Lc 24).

La sua origine storica infatti lo lega al popolo ebraico ed il cristianesimo, nato in seno al giudaismo, non poteva dimenticare le sue radici ebraiche; ne ha perciò accettato le Scritture come Parola di Dio, di cui si è sentito destinatario, e da sempre ne ha riconosciuto l’origine divina.

Tale riconoscimento si può riscontrare dalla lettura di testi del N.T. (ad esempio l’Apocalisse) in cui, in modo implicito si fa riferimento alle Scritture ebraiche utilizzando linguaggio, forme, espressioni, e riferimenti strettamente connessi ad esse.

Nei Vangeli e negli Atti sono presenti, invece, molte citazioni esplicite dell’A.T. che mostrano come la Bibbia venisse riconosciuta fin dalle origini della Chiesa, quale rivelazione divina.

Questo è la tesi su cui si argomenta nella prima parte del documento «Le sacre scritture del popolo ebraico parte fondamentale della Bibbia cristiana», articolato in 5 paragrafi di cui i primi due trattano dell’autorevolezza delle Scritture del popolo ebraico, e la conformità del N.T. ad esse.

Più volte nei sinottici le citazioni della Bibbia ebraica vengono utilizzate come «parole vive, la cui autorità è sempre attuale» (n. 4). Gesù stesso fa riferimento alle scritture per dare forza alle sue parole e dichiara che «la scrittura non può essere abolita» (Gv 10,35) e il suo valore deriva dal fatto di essere parola di Dio.

In molti altri testi inoltre viene espressa la convinzione che le Scritture del popolo ebraico devono compiersi, perché rivelano un disegno di Dio che non può non realizzarsi: anche la vita la morte e la risurrezione di Cristo, ad esempio corrispondono pienamente a quanto viene annunciato in queste Scritture.

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L’espressione più netta si trova nelle parole rivolte da Gesù risorto ai suoi discepoli, nel vangelo secondo Luca. «Sono queste le parole che vi dicevo quando ero con voi. Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (Lc 24.44) (n.6). La comprensione del mistero e della missione di Gesù sarebbero incomplete se noi non guardassimo alla Bibbia ebraica come parola di Dio rivelata.

Sovente nei vangeli si trova l’affermazione «affinché si compiano le Scritture» e questo fa capire l’importanza data alle Scritture del popolo ebraico e come per gli evangelisti gli avvenimenti narrati sarebbero stati privi di significato se non avessero corrisposto a quanto esse dicono; se così non fosse, non si tratterebbe della realizzazione del disegno di Dio.

La fede cristiana non è quindi basata soltanto su degli eventi, ma sulla conformità di essi alla rivelazione contenuta nelle Scritture del popolo ebraico a cui il N.T. si mostra indissolubilmente legato. Possono bastare, come esempio, l’episodio in cui Gesù, all’inizio del suo ministero, applica a sé la profezia di Isaia (Lc 4,17-21 ; Is 61,1-2) e la conclusione del vangelo in cui Luca parla del compimento di «tutte le cose scritte» riguardo a Gesù (Lc 24,44).

Nella seconda parte del documento pontificio «Temi fondamentali delle Scritture del popolo ebraico e loro accoglienza nella fede in Cristo» si mettono a confronto alcuni temi presenti nella Bibbia ebraica e che il cristianesimo ha accolti come parte fondamentale della propria fede.

Vi si afferma il rapporto reciproco esistente tra i due Testamenti: il Nuovo richiede di essere letto alla luce dell’Antico e questo va riletto alla luce di Gesù Cristo. Infatti «il disegno salvifico di Dio, che culmina in Cristo (cfr. Ef 1,3-14), è unitario, anche se si è realizzato progressivamente nel tempo… Fin dall’inizio, l’agire di Dio nei suoi rapporti con gli uomini è teso verso la pienezza finale… Questo è particolarmente evidente in alcuni grandi temi che si sviluppano attraverso tutta la Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse: il cammino, il banchetto, la dimora di Dio tra gli uomini» (n. 20).

L’A.T. possiede in se stesso un immenso valore come parola di Dio, ma leggerlo da cristiani non vuol dire volervi trovare in ogni pagina dei diretti riferimenti a Gesù e alle realtà cristiane. Per i cristiani tutta la storia di salvezza del popolo ebraico è in movimento verso Cristo ed è possibile cogliere qualcosa di questo movimento, ma nello stesso tempo è necessario anche percepire la sua distanza in rapporto a Cristo.

«Quando il lettore cristiano percepisce che il dinamismo interno all’A.T. trova la sua realizzazione in Gesù, si tratta di una percezione retrospettiva, il cui punto di partenza non si situa nei testi come tali, ma negli eventi del N.T. proclamati dalla predicazione apostolica. Non si deve perciò dire che l’ebreo non vede ciò che era annunciato nei testi, ma che il cristiano, alla luce di Cristo e della Chiesa, scopre nei testi un di più di significato che vi era nascosto» (n. 21).

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Vengono poi presi in considerazione alcuni temi fondamentali comuni ai due Testamenti, mettendone in evidenza non solo gli aspetti di continuità, ma anche quelli di «novità» che il N.T. presenta:

- La rivelazione di Dio: un Dio che parla agli uomini, un Dio unico, un Dio creatore e provvidente nell’A.T.; lo stesso Dio che nel Nuovo parla attraverso il Verbo, è sollecito e provvidente verso tutti (Mt 6,30), ma che mostra il suo volto trinitario.

- La persona umana: la sua grandezza perché creata ad immagine di Dio (fatto che attribuisce uguale dignità a tutti gli esseri umani) e nello stesso tempo la sua miseria che trova spiegazione nel peccato di origine. Nelle pagine di Paolo c’è un salto qualitativo: l’uomo è chiamato da Dio alla gloria immensa di diventare suo figlio (1Ts 2,12), membro del corpo di Cristo (Rm 5,8), pieno di Spirito santo (1Cor 6,19); nello stesso tempo in altri passi viene constatato come l’umanità si trovi in una situazione di miseria fisica (malattie e morte) e morale (il peccato).

- Dio, liberatore e salvatore, dalla schiavitù dell’Egitto per Israele, che spera però anche che il Signore «lo redimerà da tutte le sue colpe» (Sal 130,8), e la salvezza operata da Cristo non solo sul piano spirituale, ma anche sul piano corporale.

- L’alleanza, impegno assunto da Dio già con Noè, poi con Abramo, con Mosè sul Sinai e quella promessa da Geremia (Ger 31,32-34) come alleanza nuova e che si realizza in Cristo, fondata sul suo sangue versato per amore.

- La legge, ricevuta come dono da Dio e contenente regole morali, giuridiche, rituali e cultuali, e che viene riconosciuta come valida anche nel N.T. (Mt 5,18-19), ma in una nuova interpretazione e a cui Gesù dà compimento talvolta dandole un’interpretazione più esigente (omicidio, adulterio…) a volte più flessibile (sabato, ritualità…), unificandola nell’unico comandamento dell’amore

Altri temi comuni presi in considerazione, confrontando A.T. e N.T. riguardano la preghiera, le promesse (la terra, la perennità di Israele, il regno…); anche in questi temi, accanto ad una vera continuità, è sempre presenti una certa discontinuità, ma nelle conclusioni del documento viene ribadito come il popolo ebraico e le sue Scritture occupino nella Bibbia cristiana non solo un posto di estrema importanza, ma ne costituiscano una parte essenziale.

Un’ultima interessante annotazione riguarda alcune difficoltà che il cristiano incontra nell’affrontare passi dell’A.T. che presentano «aspetti di slealtà o di crudeltà che sembrano moralmente inaccettabili, ma che è necessario comprendere nel loro contesto storico e letterario. È opportuno riconoscere l’aspetto di lento progresso storico della rivelazione: la pedagogia divina ha preso un gruppo umano là dove si trovava e l’ha condotto pazientemente verso un ideale di unione con Dio e di integrità morale , che la nostra società moderna è del resto ben lontana dall’aver raggiunto» (n.87). Questa lenta pedagogia di Dio, la sua lunga pazienza nel condurre l’umanità verso la piena realizzazione di sé e della storia, ci

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fanno accogliere con gioia e fiducia anche le pagine più difficili e ardue che l’A.T. ci può presentare.

Il documento, nato anche per dare respiro e fondamento al dialogo con il mondo ebraico, si conclude auspicando che il patrimonio comune che unisce cristiani ed ebrei aiuti ad eliminare pregiudizi e incomprensioni da una parte e dall’altra; una motivazione questa non secondaria, per affrontare con fiducia e speranza le prime pagine della Bibbia in cui troviamo le radici comuni della nostra fede.

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J. L. Ska, La Parola di Dio nei racconti degli uomini, Cittadella Editrice, Assisi 2000.

Jean Louis Ska, con il volume La Parola di Dio nei racconti degli

uomini, si prefigge lo scopo di introdurre ad una lettura «semplice» della Bibbia.

Partendo da una serie di conferenze e di dibattiti svolti nell’anno 1999, rileva un tema importante e particolarmente discusso: quello del legame tra le «storie» della Bibbia e la «storia» come viene definita ai giorni nostri, nel nostro mondo moderno.

Il legame tra fede e storia è essenziale sia per il Nuovo Testamento, dove le affermazioni centrali della nostra fede sono certamente fondate su ciò che i primi testimoni hanno sperimentato, sia per l’Antico Testamento dove ci viene presentato un Dio che guida il suo popolo in tutte le vicende della sua storia.

Studi recenti ci dicono però che è sempre più difficile leggere i racconti biblici come racconti storiografici.

Per risolvere il problema di due posizioni contrapposte, l’una che considera le storie della Bibbia come resoconti storiografici e la seconda che dichiara non esserci nulla di rilevabile da resoconti di cronaca, l’autore invita a percorrere una via mediana, per la quale è necessario attrezzarsi con alcuni strumenti:

• Bisogna sapere che nell’ultimo secolo (il 1900), gli studiosi di scritti biblici hanno sottolineato che i racconti biblici ci rivelano molto di più sul «mondo degli autori» che sul «mondo del testo». Il racconto di Genesi 1, non vuole descrivere con esattezza come Dio ha creato il mondo, ma ci spiega come i suoi autori (la classe sacerdotale del sesto secolo a.C.) vedeva l’universo.

• Dotarsi di senso critico e di distanza critica. Nel mondo d’oggi, meno ingenuo ed infantile, nessuno può più leggere la Bibbia alla lettera. Chi vuole leggere la Bibbia, cristiano o non cristiano, deve riflettere con rigore ed onestà sulle fondamenta dell’esistenza umana. Non può accontentarsi di risposte già fatte, di luoghi comuni e di formule che vanno bene a tutti. La Bibbia non offre risposte già pronte a domande precostituite.

La Bibbia è stata scritta tanto tempo fa, in un mondo antico e in un’altra cultura; è necessario prendere una certa distanza che permetta di vedere le cose nella giusta prospettiva.

Il mondo antico della Bibbia è all’origine della nostra fede e della nostra cultura cristiana. Solo dopo aver preso la necessaria distanza critica e rimesso ogni cosa nel suo contesto appropriato si può cominciare a porre le domande e quindi attualizzare il messaggio.

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• Avvalersi del gusto dell’avventura, di una certa curiosità intellettuale e spirituale che aiutano a superare i rischi che necessariamente si presentano nell’affrontare le novità.

• La gratuità, poiché il piacere della scoperta non è un piacere immediato, non si può cogliere subito la sua utilità. L’avventura, nell’affrontare il testo biblico, perché sia una gioia deve essere un «piacere vero»: correggere visioni parziali e superate, approfondire il senso della propria fede e degli ideali della comunità cristiana. La vera fede è una ricerca permanente.

• La fiducia nella Parola di Dio (e quindi in Dio stesso). Riportando S.Giovanni, al cap. 8, l’autore ci ricorda che «chi cerca la verità non potrà essere deluso» e «la verità vi renderà liberi»

Uno degli esercizi che irrobustisce la fede è quello di affrontare con franchezza e serenità le domande che le rivolge il mondo scientifico e tecnico oggi.

J. L. Ska, sottolineando come i racconti biblici siano molto vicini alle opere d’arte, ci aiuta a rispondere oggi, all’importante domanda su quale sia fra la differenza tra «storia raccontata dalla Bibbia» e «storia reale», non mirando all’esattezza di una cronaca fedele e dettagliata, quanto a trasmettere un messaggio esistenziale a proposito degli avvenimenti che descrivono: vogliono più «formare» che «informare».

Grazie alle ricerche di studiosi, storici ed archeologi, ci si può chiedere se le affermazioni bibliche possono, o meno, essere confermate da documenti coevi.

Il modo di scrivere degli scrittori biblici è molto più vicino a quello dei romanzieri moderni che a quello di giornalisti e corrispondenti. Significa che la forma del racconto biblico non comporta nessun giudizio sul loro contenuto. La Bibbia racconta cose che sono «veramente» accadute, cose sulle quali la nostra fede può appoggiarsi con sicurezza.

Dovendo affrontare il racconto di Genesi, l’autore – presupponendo che esistono diversi modi di scrivere la «storia» – si pone alcune domande fondamentali: Chi racconta? Come può il narratore sapere quello che racconta? Vi sono documenti extrabiblici sugli stessi avvenimenti? Quali sono le differenze fra i racconti biblici e i documenti extrabiblici? Come spiegare queste differenze?

Per comprendere meglio l’intenzione di questo racconto, è opportuno collocarlo nel suo contesto storico: per la maggioranza degli esegeti questo testo è stato concepito e scritto durante o subito dopo l’esilio (586-536 a.C.) e devono essere sottolineati cinque punti:

1. In Genesi 1, l’inizio della storia coincide con l’inizio del nostro mondo: prima esisteva solo Dio e la terra «deserta e vuota»;

2. Il Dio d’Israele è il creatore del mondo: è il Dio che fa uscire il suo popolo dall’Egitto e lo conduce attraverso le vicende della sua storia. Durante l’esilio, Israele si confronta con la cultura mesopotamica di gran lunga superiore alla propria e soprattutto era la cultura dei vincitori.

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Nonostante ciò, Genesi 1, afferma la superiorità del suo Dio sulle divinità delle altre nazioni. Questo sforzo di riflessione teologica ha permesso alla fede di Israele di sopravvivere all’esilio;

3. Per combattere la disperazione e lo scoraggiamento diffusi dalla distruzione della Samaria e Gerusalemme, Genesi riparte dalle origini del mondo per mostrare che il «male» non fa parte del piano divino. Pertanto la radice di ogni cosa e di ogni essere in questo mondo è sana. Su questo fondamento si può ricostruire la speranza d’Israele;

4. Genesi introduce una critica radicale della mentalità contemporanea dimostrando chiaramente che gli uomini sono tutti uguali; sono stati creati a immagine di Dio, conseguentemente, ogni uomo porta in sé qualche cosa di «sacro» e di inviolabile;

5. Il testo è stato ideato in un’epoca in cui Israele non possiede una sua terra: non dispone di un luogo sacro per celebrare il suo Dio. Genesi afferma che il «tempo» prevale sullo «spazio»: il Dio d’Israele è il Signore del tempo e della storia. Dio abita il tempo prima di abitare in un tempio: in tal modo Israele può incontrare e venerare il suo Dio senza possedere un «luogo sacro».

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André Wénin, L’uomo biblico, EDB 2005.

Chiavi di lettura Perchè mai crediamo al serpente? Per un cristiano la chiave di lettura delle Scritture è Gesù

morto e risorto, e in quanto, in lui, si manifesta dell’uomo e di Dio. Se in lui, il Figlio, il Verbo, tutto è stato creato, bisogna rileggere

tutto, comprese la creazione e la «colpa», alla luce di quanto è rivelato dell’uomo e di Dio in Gesù Cristo.

Perciò allo schema di lettura lineare il cristiano preferirà un’altra rappresentazione della salvezza, in cui un Dio Amore crea l’essere umano nell’ardente desiderio di vivere con lui un’autentica comunione, e non per mantenerlo a distanza e in suo potere attraverso un divieto arbitrario, la cui trasgressione porta alla morte, e facendo della vita null’altro che la ricompensa dell’obbedienza e della sottomissione.

Rileggere la Genesi Ciò che ci viene detto è legato alla riflessione teologica di Israele; ma

la proiezione nelle origini è una dinamica essenzialmente mitica. Racconta la complessità della vita e delle relazioni in cui ognuno, ad ogni epoca, si scopre implicato.

Primo racconto della creazione (Gen 1,1-2,4a) Dio compie la sua opera al settimo giorno quando pone un limite alla

propria potenza creatrice e si riposa. Così, egli si mostra più forte della propria forza, il che sarebbe la

definizione della mitezza di Dio. La creazione culmina quindi in un’immagine di mitezza. Fissando un termine al proprio intervento creatore, Dio apre per

l’umanità, per l’uomo e per la donna, uno spazio di libertà nel quale agire in modo responsabile, uno spazio in cui essi possono a loro volta essere creatori, esercitando un dominio effettivo.

Nello spazio d’autonomia che Dio gli apre tirandosi indietro, l’uomo deve assumere la propria responsabilità di fronte al creato ed

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essere egli stesso creatore di un mondo veramente umano tramite la mite potenza della sua parola.

È in questo modo che l’essere umano diventa ciò che è: l’immagine di Dio.

Secondo racconto della creazione (Gen 2,4- 3,1-5)

Non si dice mai nel racconto che Dio è superiore e che la conoscenza è un suo vantaggio esclusivo.

Solo il serpente lo lascia credere, insinuando che tra Dio e l’uomo c’è concorrenza, che Dio è geloso della propria superiorità e dei propri privilegi e che intende mantenere l’essere umano a distanza.

Ma se invece di lasciarci convincere dal serpente e di concentrarsi sul limite fissato dalla legge, si considerano tutti i doni che il Signore Dio fa all’uomo per il suo benessere allora siamo portati a leggere in modo diverso l’ordine divino, questa «parola che mette ordine».

Il divieto segna infatti un limite e definisce in questo modo uno spazio per l’altro.

Infatti fare spazio per l’altro e rispettare il mistero della sua differenza è una condizione essenziale per il pieno sviluppo di una felicità condivisa. Questo è proprio quanto Dio fa quando crea.

Il dono non viene gelosamente posseduto, ma ci fa aprire a rapporti di scambio con gli altri, nella condivisione , e con Dio , nella riconoscenza.

La colpa consiste nel credere al serpente che ci descrive un Dio geloso che vuol possedere tutto. Da qui la scelta di accaparrare tutto per sé, simboleggiate dal prendere e dal mangiare. Questa colpa è fatale poiché uccide la relazione, quando questa è vitale.

Riceviamo l’invito a non tenere il dono tutto per sé, ma di condividerlo.

Questa è la gioia segreta di Dio: lo scambio del dono nell’alleanza, la reciprocità tra l’essere umano e Lui.

Caino e Abele (Gen 4,1-16) Caino è il primogenito, e Abele è il secondogenito e, come diverse

culture antiche, il secondogenito non ha molta importanza. La duplice vocazione assegnata da Dio all’uomo di lavorare la terra

(Caino) e dominare gli animali (Abele). Dio gradisce l’offerta di Abele , colui che non conta è il preferito. La reazione di Caino è anche la nostra che sempre troviamo qualcuno

che suscita le nostre invidie e gelosie. Il Signore comincia con l’indicare a Caino un modo positivo per

gestire la propria gelosia: agire bene e lascia a lui la libertà di inventare le modalità, dominando e sottomettendo questa gelosia e invidia .

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Caino rifiuta di entrare in questa logica – di imparare a rallegrarsi del bene e della felicità dell’altro – ed elimina Abele.

Il frutto è la maledizione del Signore, è la constatazione che Caino uccidendo suo fratello ha maledetto se stesso. È portatore di morte, segno di morte. Fugge ed erra alla ricerca di se stesso, ha paura perché ormai sa che un uomo è capace di ucciderne un altro.

Ma Dio non vuole la morte, neppure quella di un assassino. La torre di Babele (Gen 11,1-9) Dopo l’uccisione di Abele la violenza si moltiplica a tal punto che Dio

ritiene di dover intervenire cancellando tutto per ricominciare da Noè.

Ma distruggere la vita in questo modo non piace al Creatore. Perciò egli si pente e si impegna a non ricorrere più a soluzioni così radicali. A partire da Noè l’umanità si moltiplica e si diversifica a poco a poco sulla terra. È in questo contesto che si colloca l’episodio della torre di Babele, che in un’interpretazione classica che rientra nella logica del serpente mette gli uomini in concorrenza con Dio.

Il progetto comune degli abitanti di Babele è quello di costruire un unico punto di convergenza, farsi un nome per evitare la diversità, di resistere alla differenziazione, di costruire la loro unità a mo’ di uniformità. Nella città di Babele non c’è posto per una reale alterità: nessun incontro, quindi nessuna sorpresa e nessun rischio. Un’impresa del genere si oppone alla creazione.

Il Signore verrà a intralciare questo progetto di morte e di de-creazione.

Dio desidera che gli uomini siano uniti, ma non in qualsiasi modo, perchè l’alleanza può stringersi solo nel riconoscimento dell’altro nella sua diversità.

Dio concepisce l’unità degli umani non come un’uniformità in cui le diversità vengono cancellate, ma come una comunione, nutrita ed arricchita dalle differenze di ognuno.

Dio e l’uomo, partner dell’alleanza Se Dio fa dei doni e poi pone una legge lo fa per tracciare un

cammino verso la comunione nell’alleanza. Affinché possa realizzarsi la comunione dell’amore compimento della

creazione. Dio è talmente amore da lasciare il posto e farsi discreto indicando

un cammino lungo, con la segreta speranza che un uomo lo renderà felice riconoscendolo. Gesù è questa felicità di Dio e insieme felicità dell’uomo.

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In lui la menzogna del serpente viene smascherata in modo radicale e decisivo.

Riconsiderare la storia della salvezza: l’esperienza d’Israele:

un’alleanza in divenire A ben guardare ciò che viene raccontato in Gen 2-3 è l’esperienza

stessa che Israele ha fatto nell’alleanza. Vi ha scoperto un Dio che cerca comunione.

Costituisce l’uomo nella sua libertà perché solo la libertà rende capaci d’alleanza.

La Bibbia racconta la storia di un’alleanza sempre ricominciata. Il Signore e il suo popolo non smettono mai di aggiustarsi l’un l’altro per condividere la difficile felicità della comunione, lottando contro la logica totalizzante del serpente.

La verità di Dio svelata in un uomo: Gesù Gesù è immagine perfetta di Dio, Maestro e Signore, nel suo farsi

servo. È il guerriero che combatte la potenza del male con le sole armi

dell’amore e rinunciando a qualsiasi violenza. È il giudice che si fa carico delle colpe, il re il cui trono è una croce, il pastore che diventa agnello immolato. In lui, da padre e madre che era, Dio diventa fratello, e lo sposo si spoglia per rivestire la sposa di splendore.

Tutte le immagini veterotestamentarie sembravano parlare di una superiorità di Dio. La croce dissipa questo miraggio. Gesù svela la sapienza di Dio misteriosa e nascosta. Dio, fonte di vita, precede l’uomo sul cammino in attesa del faccia a faccia nella comunione, nella quale l’uomo sarà come lui.

Gesù non è conseguenza di una colpa a cui bisognerebbe rimediare ma segno decisivo di un amore che non si accontenta di mezze misure. Gesù l’uomo che ha acconsentito senza riserve all’invito di Dio, che si è donato a lui interamente nell’alleanza, entrando così nella reciprocità con lui, in comunione.

Conclusione Per colui che accetta di rompere con una lettura storico-lineare della

storia della salvezza, si apre un’altra via. Questa non è più dominata dal peccato, modo per l’uomo di sfigurare

l’opera divina, che obbliga il Creatore a diventare salvatore e a tentare di restaurare l’ordine turbato. Questa via, invece ha come asse l’amore di un

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Dio il cui desiderio e la cui gioia sono la felicità degli esseri, e che inventa, in dialogo con loro, una storia d’alleanza in vista di una felicità pienamente condivisa nella comunione. La Scrittura testimonia di questo, in termini e con immagini in cui si manifesta la struttura eminentemente simbolica del rapporto tra Dio e gli umani.

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L. Mazzinghi, «In principio dio creò il cielo e la terra». Il racconto della creazione come profezia, Parola, Spirito e Vita, 41, 1, 2000.

Il libro della Genesi è storia o leggenda, è fantasia o realtà? In che modo dobbiamo porci di fronte al testo Gen 1-11? Non è una cronaca di fatti realmente accaduti, ma il tentativo di

spiegare l’attuale situazione del mondo e dell’uomo a partire dalle loro «origini».

I racconti della creazione non sono «storici» nel senso che noi diamo a questo termine, come ciò che è realmente accaduto, ma lo sono nel senso che fondano e spiegano la realtà stessa della storia.

C’è una profonda riflessione sul presente dell’uomo, usando però un linguaggio in gran parte ripreso dal mito, che è un modo diverso di spiegare la storia.

La finalità di Gen. 1-11 non è spiegare come il mondo si sia formato ma piuttosto perché si è formato.

Qual è il senso e il fine del mondo e della storia, verso il quale sono orientati?

Può sembrare strano pensare alla storie di Adamo e Eva, del giardino dell’Eden, di Caino e Abele, del diluvio e della torre di Babele, come a testi che riguardino anche il futuro, abituati come siamo di pensarli al passato tanto remoto.

Per i maestri d’Israele il racconto della creazione è da leggersi come profezia dell’intera storia d’Israele, dalle sue origini sino all’avvento del Messia, che porterà il popolo alla salvezza.

Nel Nuovo Testamento questa lettura è in vista di Cristo. «Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui. Egli è il primo di tutte le cose e tutte sussistono in Lui» (Col 1,16-17).

Non soltanto, dunque, Cristo precede e preesiste alla creazione, ma egli è il fine stesso per cui tutte le cose sono state create.

Gen 1-11 non può essere letto come nostalgia d’un paradiso perduto, ma come speranza in un futuro di cui le origini sono già inizio e profezia di compimento.

Il testo di Gen 1,1-2,4 è strettamente collegato a quello di Gen 9,1-17, la storia di Noè uscito dall’arca. Al termine del diluvio, Dio stabilisce con Noè e con l’intero creato un patto (una «alleanza») con il quale egli s’impegna a non distruggere mai più il mondo; tuttavia, nel creato, rinato dopo il diluvio, sono ormai entrati la violenza e la morte (Gen 9,1-6). Non si tratta però di un rovesciamento della situazione descritta in Gen 1, come se Gen 9 constatasse nel mondo una perdita d’armonia ormai irrimediabile.

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L’ impegno divino a non più distruggere il creato è un esplicito richiamo al progetto originario di Dio, al suo progetto di salvezza che non potrà che realizzarsi.

Gen 1,1-2,4 è ritmato dall’invito a considerare la realtà creata con la stessa visuale del Creatore: «E Dio vide che era †ov », il termine †ov, indica allo stesso tempo ciò che è buono e ciò che è bello.

L’ordine delle cose create viene espresso con il linguaggio della separazione e della distinzione degli elementi, che convergono verso la creazione dell’essere umano.

Tuttavia, non è questo il vertice del racconto, che si chiude sul ricordo del «settimo giorno», ma tutto ha lo scopo di mettere in rilievo la festa del sabato, verso il quale l’intera creazione converge.

Al termine della sezione relativa al settimo giorno manca la formula conclusiva: «e fu sera e fu mattina, settimo giorno», una tale assenza può essere dovuta alla volontà di distinguere il sabato dagli altri giorni.

Il settimo giorno rimane un giorno «aperto», senza «sera» e senza «mattina», come «il giorno del Signore» annunziato dal profeta Zaccaria (Zc 14,7); il settimo giorno introduce così a una storia della quale già s’inizia a intravedere la conclusione.

I primi tre giorni della creazione sono significativi: nel primo giorno (Gen. 1,3-5), dopo aver creato la luce, Dio la separa dalle tenebre. Nasce così il «tempo», lo spazio nel quale il mondo può iniziare la sua storia.

Nel secondo giorno, la creazione del firmamento (Gen 1,6-8), è un ulteriore atto di separazione. Il firmamento, infatti, era concepito in quel tempo come una volta solida che protegge il disco terrestre dalle acque che stanno appunto copra il cielo e, allo stesso tempo, separa tali acque da quelle dell’abisso, che stanno al di sotto della terra.

Il terzo giorno, (Gen 1,9), è una nuova separazione: quella della terra asciutta dalle acque, che d’ora in poi, saranno chiamate «mare»

Il mare simbolo della morte, del caos, di ogni realtà ostile a Dio e agli uomini, diviene così una frontiera il cui limite è custodito da Dio stesso.

Pertanto possiamo dire che la creazione biblica è il primo atto di liberazione della storia dell’universo. Dio ha «liberato» la terra dal mare che la ricopriva e le impediva di diventare spazio vitale per l’umanità.

La creazione, perciò, è anticipazione profetica della futura salvezza dell’uomo.

La creazione dell’essere umano (Gen 1,26-31), creato ad immagine e somiglianza di Dio, è sentita come una partecipazione all’essere divino, qualcosa che non può essere perduto neppure con il peccato.

L’essere «immagine di Dio», non va considerato un dono originario ormai perduto, ma costituisce il progetto originario di Dio sull’uomo. Per comprendere meglio il senso dell’essere «immagine e somiglianza», è importante cogliere la connessione con il «dominio» dell’uomo sul creato,

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non perché lo domini come un tiranno, ma perché lo governi a nome di Dio. È una missione che Dio ha affidato all’uomo.

Al v. 28 «siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra…», non è da intendere come un comando obbligatorio a procreare, quanto piuttosto una benedizione, una promessa, che lega l’inizio della storia con il suo futuro svolgimento.

Le profezie di Is 11,1-6 , Ger 4,23 , Is 40-55 , rileggono la prima pagina della Genesi in chiave escatologica, cioè descrivendo la creazione pacificata, annunzia la creazione come profezia di salvezza che il Signore offrirà agli uomini.

In Is 40-55, il profeta afferma che la creazione non è un fatto di natura cosmologica, bensì il primo prodigio storico compiuto dal Dio d’Israele. Come il Dio d’Israele, è il creatore del mondo, così lo è anche del popolo, è il «creatore d’Israele»

La terra è stata plasmata «per essere abitata», in vista cioè di un preciso progetto divino per l’uomo.

La creazione non è un fatto del passato: ogni evento della storia di salvezza è, per il «Secondo Isaia», una sorta di nuova creazione,

Parlare di «carattere profetico» della pagina iniziale della Genesi, significa scoprire una dimensione inattesa, il profeta permette di leggere gli eventi delle origini come il segno della destinazione finale verso il quale il mondo e la storia si muovono.