E-book campione Liber Liber · Bombay-Lucknow e dopo un viaggio di circa trenta ore, attraversando...

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Carlo FormichiIl Nepal

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il NepalAUTORE: Formichi, Carlo <1871-1943>TRADUTTORE: CURATORE: NOTE: Il testo è tratto da una copia in formato im-magine presente sul sito Opal libri antichi di Tori-no <http://www.opal.unito.it/psixsite/default.aspx>.CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: Il Nepal : conferenza tenuta all'Augusteodi Roma il 26 febbraio 1934 / Carlo Formichi. - Roma: Reale Accademia d'Italia, 1934. - 31 p. : ill. ;26 cm. - (Conferenze / Reale Accademia d'Italia ;1).

CODICE ISBN FONTE: n. d.

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TITOLO: Il NepalAUTORE: Formichi, Carlo <1871-1943>TRADUTTORE: CURATORE: NOTE: Il testo è tratto da una copia in formato im-magine presente sul sito Opal libri antichi di Tori-no <http://www.opal.unito.it/psixsite/default.aspx>.CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

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1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 23 ottobre 2019

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:TRV003040 VIAGGI / Asia / India e Asia Meridionale

DIGITALIZZAZIONE:Paolo Oliva, [email protected]

REVISIONE:Catia Righi, [email protected]

IMPAGINAZIONE:Catia Righi, [email protected]

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 23 ottobre 2019

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

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CARLO FORMICHI

IL NEPALCONFERENZA

TENUTA ALL’«AUGUSTEO» DI ROMAIL 26 FEBBRAIO 1934-XII

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CARLO FORMICHI

IL NEPALCONFERENZA

TENUTA ALL’«AUGUSTEO» DI ROMAIL 26 FEBBRAIO 1934-XII

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Un viaggio nel Nepal è tra i più affascinanti e prodi-ghi d’impressioni nuovissime e varie e di preziosi risul-tati scientifici.

Il frutto proibito appare sempre il più gustoso ed èquello che a preferenza d’altri si desidera. Il Nepal è unfrutto proibito, perchè i suoi governanti ne tengonochiuse le porte agli stranieri e solo s’inducono ad am-mettere qualche persona di riguardo, quando questacomprovi che elevate ragioni di studio, e non altro, laspingono umilmente a chiedere il grazioso lasciapassaredi Sua Altezza il Mahârâja.

Il rigore è giustificato. I Nepalesi nella loro beata val-le ai piedi del divino Himâlaya, come già in tristi giorniprima della indipendenza e della unità d’Italia i figli delPiemonte alle falde delle Alpi, vedono l’India intera piùo meno assoggettata con un triste passato d’incursioni dipopoli barbari e civili, greci, sciti, unni, maomettani, eu-ropei, e, invece, sè stessi, cospicua felicissima unica ec-cezione, liberi e indipendenti, gelosi custodi d’un ma-gnifico millenario patrimonio di cultura, rimasto intattopurissimo immacolato per i non mai avvenuti contatticon popoli esotici seguenti costumanze, ubbidenti a leg-gi, professanti credenze diverse. Fossi nepalese, chiude-rei anch’io a doppio catenaccio le porte della mia patria.

Altra ragione che rende il Nepal restío ad accogliere

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Un viaggio nel Nepal è tra i più affascinanti e prodi-ghi d’impressioni nuovissime e varie e di preziosi risul-tati scientifici.

Il frutto proibito appare sempre il più gustoso ed èquello che a preferenza d’altri si desidera. Il Nepal è unfrutto proibito, perchè i suoi governanti ne tengonochiuse le porte agli stranieri e solo s’inducono ad am-mettere qualche persona di riguardo, quando questacomprovi che elevate ragioni di studio, e non altro, laspingono umilmente a chiedere il grazioso lasciapassaredi Sua Altezza il Mahârâja.

Il rigore è giustificato. I Nepalesi nella loro beata val-le ai piedi del divino Himâlaya, come già in tristi giorniprima della indipendenza e della unità d’Italia i figli delPiemonte alle falde delle Alpi, vedono l’India intera piùo meno assoggettata con un triste passato d’incursioni dipopoli barbari e civili, greci, sciti, unni, maomettani, eu-ropei, e, invece, sè stessi, cospicua felicissima unica ec-cezione, liberi e indipendenti, gelosi custodi d’un ma-gnifico millenario patrimonio di cultura, rimasto intattopurissimo immacolato per i non mai avvenuti contatticon popoli esotici seguenti costumanze, ubbidenti a leg-gi, professanti credenze diverse. Fossi nepalese, chiude-rei anch’io a doppio catenaccio le porte della mia patria.

Altra ragione che rende il Nepal restío ad accogliere

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forestieri è il timore della contaminazione. Mentrenell’India britannica i brahmani vanno abituandosi astringere la mano agli europei, a mangiare magari allastessa mensa, a mandare, per ragioni di studio e di car-riera, i figli in Europa, radicata, invece, è ancora nel Ne-pal l’idea che il contatto con lo straniero sia origined’impurità, possa far decadere dalla casta, imponga pe-nitenze espiatorie ed abluzioni.

Tanto rigore si converte in generosa liberalità dinanzialla maestà della religione e della scienza, vale a dire,dinanzi a ciò che di più venerando abbiamo al mondo.

Ai tibetani, in massima parte pastori, che, in devotopellegrinaggio, dalle loro impervie montagne accorrononel Nepal per visitare i sacri templi buddhisti, libero èl’accesso, ospitale e redditizia l’accoglienza. Trovanofacilmente a vendere la lana delle loro pecore, le pecoree il sale di cui abbonda il loro paese. Il migliore assag-gio che si possa avere del Tibet, senza andare nel Tibet,è appunto nel Nepal percorso continuamente da pastoritibetani che si spingono innanzi le greggi, e da monaci elama avvolti nei mantelli gialli o rossi e devotamente se-guentisi in fila indiana, su per le erte che conducono aisantuari, in un silenzio e in un raccoglimento davveroedificanti.

Altro efficace passaporto è la scienza, non già, benin-teso, la nostra, ma quella indologica che presuppone laconoscenza del Sanscrito e dei testi filosofico-religiosi eletterari dell’India. Essa valse a Sylvain Lévi del Collè-ge de France, a F. W. Thomas dell’Università di Oxford

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forestieri è il timore della contaminazione. Mentrenell’India britannica i brahmani vanno abituandosi astringere la mano agli europei, a mangiare magari allastessa mensa, a mandare, per ragioni di studio e di car-riera, i figli in Europa, radicata, invece, è ancora nel Ne-pal l’idea che il contatto con lo straniero sia origined’impurità, possa far decadere dalla casta, imponga pe-nitenze espiatorie ed abluzioni.

Tanto rigore si converte in generosa liberalità dinanzialla maestà della religione e della scienza, vale a dire,dinanzi a ciò che di più venerando abbiamo al mondo.

Ai tibetani, in massima parte pastori, che, in devotopellegrinaggio, dalle loro impervie montagne accorrononel Nepal per visitare i sacri templi buddhisti, libero èl’accesso, ospitale e redditizia l’accoglienza. Trovanofacilmente a vendere la lana delle loro pecore, le pecoree il sale di cui abbonda il loro paese. Il migliore assag-gio che si possa avere del Tibet, senza andare nel Tibet,è appunto nel Nepal percorso continuamente da pastoritibetani che si spingono innanzi le greggi, e da monaci elama avvolti nei mantelli gialli o rossi e devotamente se-guentisi in fila indiana, su per le erte che conducono aisantuari, in un silenzio e in un raccoglimento davveroedificanti.

Altro efficace passaporto è la scienza, non già, benin-teso, la nostra, ma quella indologica che presuppone laconoscenza del Sanscrito e dei testi filosofico-religiosi eletterari dell’India. Essa valse a Sylvain Lévi del Collè-ge de France, a F. W. Thomas dell’Università di Oxford

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e a Giuseppe Tucci, Accademico d’Italia, di penetrare edimorare più o meno a lungo nel Nepal per esaminare eraccogliere manoscritti nella famosa Libreria del Dur-bar, vera miniera di rari e preziosi codici antichi e mo-derni contenenti tutto quello che l’India in tre millenniha prodotto in ogni ramo della scienza sacra e profana.

Non la qualità d’indologo, bensì quella d’inviato o re-sidente britannico, consentì a Brian Houghton Hodgsonnel terzo decennio del secolo scorso di mandare a Lon-dra la raccolta di manoscritti buddhisti che si conservanella Biblioteca dell’India Office. Le relazioni diploma-tiche fra l’Inghilterra e il Nepal sono ottime, la sola le-gazione che esiste a Kathmandu è quella britannica, ipochi europei che vi dimorano sono tutti inglesi chiama-ti dalla fiducia del Mahârâja a prestare servizio quali sa-nitari, ingegneri, periti militari.

Frutto proibito, rocca della più pura civiltà indiana, ilNepal merita d’essere la meta ambita d’un viaggio, an-che per le sue bellezze naturali e la varietà delle stirpiche lo popolano. Quando è sereno, lo spettacolo delloHimâlaya, nelle cime candido di ghiaccio e neve, delloHimâlaya che da oriente ad occidente si estende in linearetta a perdita d’occhio sublimandosi nell’azzurro delcielo con le sue due fantasticamente lunghe e poderosebraccia del Gaurî-Çankar nel mezzo e dell’Everestall’estremo confine ovest, è quanto di più grandioso estupendo sia dato di vedere su questa terra. All’alba e altramonto il riflesso di quelle enormi masse di ghiaccio eneve diffonde nell’atmosfera un biancore, tinge il cielo

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e a Giuseppe Tucci, Accademico d’Italia, di penetrare edimorare più o meno a lungo nel Nepal per esaminare eraccogliere manoscritti nella famosa Libreria del Dur-bar, vera miniera di rari e preziosi codici antichi e mo-derni contenenti tutto quello che l’India in tre millenniha prodotto in ogni ramo della scienza sacra e profana.

Non la qualità d’indologo, bensì quella d’inviato o re-sidente britannico, consentì a Brian Houghton Hodgsonnel terzo decennio del secolo scorso di mandare a Lon-dra la raccolta di manoscritti buddhisti che si conservanella Biblioteca dell’India Office. Le relazioni diploma-tiche fra l’Inghilterra e il Nepal sono ottime, la sola le-gazione che esiste a Kathmandu è quella britannica, ipochi europei che vi dimorano sono tutti inglesi chiama-ti dalla fiducia del Mahârâja a prestare servizio quali sa-nitari, ingegneri, periti militari.

Frutto proibito, rocca della più pura civiltà indiana, ilNepal merita d’essere la meta ambita d’un viaggio, an-che per le sue bellezze naturali e la varietà delle stirpiche lo popolano. Quando è sereno, lo spettacolo delloHimâlaya, nelle cime candido di ghiaccio e neve, delloHimâlaya che da oriente ad occidente si estende in linearetta a perdita d’occhio sublimandosi nell’azzurro delcielo con le sue due fantasticamente lunghe e poderosebraccia del Gaurî-Çankar nel mezzo e dell’Everestall’estremo confine ovest, è quanto di più grandioso estupendo sia dato di vedere su questa terra. All’alba e altramonto il riflesso di quelle enormi masse di ghiaccio eneve diffonde nell’atmosfera un biancore, tinge il cielo

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d’un colore perlaceo tale che l’anima si sente rapita nelpiù bello dei sogni e in una visione di terra promessa.

L’intera valle del Nepal, che si vuole sia stata in origi-ne un lago, rallegra l’occhio per la feracità, annunzial’onesto assiduo lavoro dell’uomo, il benessere, la ric-chezza. Abbondano cotone, riso, frumento, orzo, avena,zenzero, patate, canne da zucchero; i nostri ortaggi nonfanno difetto; i nostri frutti sono stati in gran parte im-portati e maturano accanto agli ananassi e alle banane.Palme, bambù e cactus crescono rigogliosi. Nella zonamontana si coltiva il tabacco, il thè, l’oppio, si trovanofiloni di argento e di oro, ottimo marmo e pietre prezio-se. Nella enorme giungla del terai e in quelle numerosis-sime che rivestono di verde i colli e il Prehimâlaya sitrova il paradiso del cacciatore: elefanti, tigri, leopardi,pantere, rinoceronti, orsi, lupi, sciacalli, cervi, daini, ca-mosci, gazzelle, muschi, lepri, e una varietà sbalorditivadi uccelli di tutte le grandezze e di tutti i colori.

Questo magnifico paese è stata mia buona ventura po-ter visitare nel novembre e dicembre scorsi.

Fra il Nepal e la nostra Italia intercedono rapporti diviva simpatia dal giorno che Giuseppe Tucci, già miodiscepolo, oggi meritamente mio collega all’Universitàe all’Accademia, conquistatasi l’ammirazione dei sa-pienti del paese per la perfetta padronanza che ha delSanscrito e per la vastità e profondità della sua culturaindologica, divenne caro alla Corte nepalese. I servigiche può rendere la scienza non sono ancora tutti notiagli uomini, e forse perciò i veri dotti sono ancora po-

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d’un colore perlaceo tale che l’anima si sente rapita nelpiù bello dei sogni e in una visione di terra promessa.

L’intera valle del Nepal, che si vuole sia stata in origi-ne un lago, rallegra l’occhio per la feracità, annunzial’onesto assiduo lavoro dell’uomo, il benessere, la ric-chezza. Abbondano cotone, riso, frumento, orzo, avena,zenzero, patate, canne da zucchero; i nostri ortaggi nonfanno difetto; i nostri frutti sono stati in gran parte im-portati e maturano accanto agli ananassi e alle banane.Palme, bambù e cactus crescono rigogliosi. Nella zonamontana si coltiva il tabacco, il thè, l’oppio, si trovanofiloni di argento e di oro, ottimo marmo e pietre prezio-se. Nella enorme giungla del terai e in quelle numerosis-sime che rivestono di verde i colli e il Prehimâlaya sitrova il paradiso del cacciatore: elefanti, tigri, leopardi,pantere, rinoceronti, orsi, lupi, sciacalli, cervi, daini, ca-mosci, gazzelle, muschi, lepri, e una varietà sbalorditivadi uccelli di tutte le grandezze e di tutti i colori.

Questo magnifico paese è stata mia buona ventura po-ter visitare nel novembre e dicembre scorsi.

Fra il Nepal e la nostra Italia intercedono rapporti diviva simpatia dal giorno che Giuseppe Tucci, già miodiscepolo, oggi meritamente mio collega all’Universitàe all’Accademia, conquistatasi l’ammirazione dei sa-pienti del paese per la perfetta padronanza che ha delSanscrito e per la vastità e profondità della sua culturaindologica, divenne caro alla Corte nepalese. I servigiche può rendere la scienza non sono ancora tutti notiagli uomini, e forse perciò i veri dotti sono ancora po-

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chi! Il sapere è un conquistatore più grande di Alessan-dro Magno. Quel che Marco Polo compì già nella Cinasarebbe stato impossibile alla diplomazia e agli eserciti.Chi ama il proprio paese e vuole renderglisi utile si co-razzi, dunque, di sapere.

Appena il Mahârâja seppe della mia intenzione diporgergli il ringraziamento della R. Accademia d’Italiaper il liberale prestito fattole di preziosi manoscritti san-scriti, e di frugare nei tesori della Libreria del Durbarnella speranza di rinvenire qualche testo letterario clas-sico ancora inedito, un invito cortesissimo mi pervennea ciò che mi recassi, senz’altro, nel Nepal.

Imbarcatomi a Brindisi sul «Conte Rosso» l’11 no-vembre, arrivai, dopo una felicissima traversata, a Bom-bay la mattina del 22. Ripartii la sera col direttissimoBombay-Lucknow e dopo un viaggio di circa trenta ore,attraversando zone fieramente colpite dal flagello dellapeste bubbonica e del colera, raggiunsi Lucknow per ab-bandonare le grandi linee di rapida comunicazione epassare due altri giorni e due altre notti in lento viaggio,mangiando male, dormendo peggio, e vigilando a tener-mi pronto col bagaglio per i frequenti cambiamenti ditreno. Infine, la mattina del 25 novembre valicavo la li-nea di confine dell’India britannica e scendevo alla sta-zione di Raxaul per unirmi al collega Tucci e al dottorGhersi che m’aspettavano nel bengalow del Mahârâja.M’accorsi subito di essere non più nell’India ma nel Ne-pal, perchè gli uomini che incontravo mi lasciavano per-plesso se crederli tartari, cinesi o giapponesi. E, difatti, i

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chi! Il sapere è un conquistatore più grande di Alessan-dro Magno. Quel che Marco Polo compì già nella Cinasarebbe stato impossibile alla diplomazia e agli eserciti.Chi ama il proprio paese e vuole renderglisi utile si co-razzi, dunque, di sapere.

Appena il Mahârâja seppe della mia intenzione diporgergli il ringraziamento della R. Accademia d’Italiaper il liberale prestito fattole di preziosi manoscritti san-scriti, e di frugare nei tesori della Libreria del Durbarnella speranza di rinvenire qualche testo letterario clas-sico ancora inedito, un invito cortesissimo mi pervennea ciò che mi recassi, senz’altro, nel Nepal.

Imbarcatomi a Brindisi sul «Conte Rosso» l’11 no-vembre, arrivai, dopo una felicissima traversata, a Bom-bay la mattina del 22. Ripartii la sera col direttissimoBombay-Lucknow e dopo un viaggio di circa trenta ore,attraversando zone fieramente colpite dal flagello dellapeste bubbonica e del colera, raggiunsi Lucknow per ab-bandonare le grandi linee di rapida comunicazione epassare due altri giorni e due altre notti in lento viaggio,mangiando male, dormendo peggio, e vigilando a tener-mi pronto col bagaglio per i frequenti cambiamenti ditreno. Infine, la mattina del 25 novembre valicavo la li-nea di confine dell’India britannica e scendevo alla sta-zione di Raxaul per unirmi al collega Tucci e al dottorGhersi che m’aspettavano nel bengalow del Mahârâja.M’accorsi subito di essere non più nell’India ma nel Ne-pal, perchè gli uomini che incontravo mi lasciavano per-plesso se crederli tartari, cinesi o giapponesi. E, difatti, i

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nepalesi sono un miscuglio di stirpi tibeto-indiane chesogliono chiamarsi impropriamente mongoliche.

Da Raxaul a Kathmandu ci sono 75 miglia inglesi. Leprime 25 miglia obbligano a percorrere attraverso unagiungla ricca di belve una pianura alluvionale esalante,segnatamente dopo la stagione delle pioggie, un miasmache ammazza senza rimedio in poche ore, e al qualedanno il nome di aoul. In un simile ambiente mortiferoriescono a mantenersi in vita soltanto le popolazioni deiKumha, dei Tharu e dei Mangi, le quali decimate dalterribile morbo per parecchie generazioni, hanno acqui-stato infine la immunità contro di esso, restando, però,pericolosi portatori di bacilli: non muoiono essi dellapestilenziale malaria ma la attaccano agli altri. Soglionodesignarsi coll’appellativo generico di aoulia dal nomeaoul che, come s’è già detto, è stato dato al miasma.Sono abilissimi cacciatori e ottimi mahut o guidatorid’elefanti.

Fin dal 1927 una piccola ferrovia allaccia Raxaul adAmlekhganj che dista appunto 25 miglia dal confineindo-britannico. Partiti la mattina del 27 novembre daRaxaul smontammo dal trenino nepalese ad Amlekhganjdopo circa quattro ore. Quattro ore per 25 miglia appe-na! La locomotiva si chiamava Paçupati, uno dei nomidi Çiva e il dio patrono del Nepal, e ricordava quella mi-nuscola che per curiosità è esposta nella grande stazionedi New York, stante che fu la prima a correre sul suolodegli Stati Uniti d’America. Tenni il capo sempre fuoridel finestrino nella speranza di scorgere qualche tigre o

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nepalesi sono un miscuglio di stirpi tibeto-indiane chesogliono chiamarsi impropriamente mongoliche.

Da Raxaul a Kathmandu ci sono 75 miglia inglesi. Leprime 25 miglia obbligano a percorrere attraverso unagiungla ricca di belve una pianura alluvionale esalante,segnatamente dopo la stagione delle pioggie, un miasmache ammazza senza rimedio in poche ore, e al qualedanno il nome di aoul. In un simile ambiente mortiferoriescono a mantenersi in vita soltanto le popolazioni deiKumha, dei Tharu e dei Mangi, le quali decimate dalterribile morbo per parecchie generazioni, hanno acqui-stato infine la immunità contro di esso, restando, però,pericolosi portatori di bacilli: non muoiono essi dellapestilenziale malaria ma la attaccano agli altri. Soglionodesignarsi coll’appellativo generico di aoulia dal nomeaoul che, come s’è già detto, è stato dato al miasma.Sono abilissimi cacciatori e ottimi mahut o guidatorid’elefanti.

Fin dal 1927 una piccola ferrovia allaccia Raxaul adAmlekhganj che dista appunto 25 miglia dal confineindo-britannico. Partiti la mattina del 27 novembre daRaxaul smontammo dal trenino nepalese ad Amlekhganjdopo circa quattro ore. Quattro ore per 25 miglia appe-na! La locomotiva si chiamava Paçupati, uno dei nomidi Çiva e il dio patrono del Nepal, e ricordava quella mi-nuscola che per curiosità è esposta nella grande stazionedi New York, stante che fu la prima a correre sul suolodegli Stati Uniti d’America. Tenni il capo sempre fuoridel finestrino nella speranza di scorgere qualche tigre o

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altra belva, ma rimasi deluso: il rumore del treno incammino attraverso la giungla teneva lontane le bestie.

Ad Amlekhganj si cambiò mezzo di trasporto: il ba-gaglio fu caricato sopra un camion, mentre noi tre sa-limmo in una automobile che, in poco più di due ore, at-traverso boschi di alberi di çâla e sopra numerosi pontiformati di assicelle di legno, fragorose al passaggiodell’automobile come una scarica di mitragliatrice, ciportò a Bhimphedi. Nella stagione delle pioggie i tor-renti e i fiumi gonfi fanno crollare i ponti, allagano lastrada, e rendono impossibile il traffico.

Eravamo a Bhimphedi giunti al punto in cui per vali-care i monti soccorrono o il cavallo, o le proprie gambe,o le spalle e le gambe degli altri, intendo dire, il palan-chino, ossia una sedia ricoperta d’un mantice, fissa sudue pali sporgenti avanti e indietro, che otto portatori,quattro in fronte e quattro in coda, sollevano, poggianosulle spalle e trasportano a mo’ di somari o di muli ag-giogati al timone. I miei due giovani baldi compagni, re-duci dal Tibet, alpinisti consumati, sdegnarono di valersidel palanchino, d’un mezzo di trasporto da signora; maio, mediocrissimo scavalcatore di montagne e con capel-li bianchi più numerosi dei neri, mi rassegnai a entrarenel palanchino che, per mio conforto, mi si rivelò affattoprivo delle comodità e delicatezze prescritte per le si-gnore, tanto in esso fui sbattuto e costretto a tenere la te-sta in giù e i piedi in su le moltissime volte che la salitadiventava ripidissima. A vedere i portatori sudare, sfor-zarsi, ansimare, far la parte di bestie, benedissi in cuor

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altra belva, ma rimasi deluso: il rumore del treno incammino attraverso la giungla teneva lontane le bestie.

Ad Amlekhganj si cambiò mezzo di trasporto: il ba-gaglio fu caricato sopra un camion, mentre noi tre sa-limmo in una automobile che, in poco più di due ore, at-traverso boschi di alberi di çâla e sopra numerosi pontiformati di assicelle di legno, fragorose al passaggiodell’automobile come una scarica di mitragliatrice, ciportò a Bhimphedi. Nella stagione delle pioggie i tor-renti e i fiumi gonfi fanno crollare i ponti, allagano lastrada, e rendono impossibile il traffico.

Eravamo a Bhimphedi giunti al punto in cui per vali-care i monti soccorrono o il cavallo, o le proprie gambe,o le spalle e le gambe degli altri, intendo dire, il palan-chino, ossia una sedia ricoperta d’un mantice, fissa sudue pali sporgenti avanti e indietro, che otto portatori,quattro in fronte e quattro in coda, sollevano, poggianosulle spalle e trasportano a mo’ di somari o di muli ag-giogati al timone. I miei due giovani baldi compagni, re-duci dal Tibet, alpinisti consumati, sdegnarono di valersidel palanchino, d’un mezzo di trasporto da signora; maio, mediocrissimo scavalcatore di montagne e con capel-li bianchi più numerosi dei neri, mi rassegnai a entrarenel palanchino che, per mio conforto, mi si rivelò affattoprivo delle comodità e delicatezze prescritte per le si-gnore, tanto in esso fui sbattuto e costretto a tenere la te-sta in giù e i piedi in su le moltissime volte che la salitadiventava ripidissima. A vedere i portatori sudare, sfor-zarsi, ansimare, far la parte di bestie, benedissi in cuor

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mio la nostra civiltà che non consente più all’uomod’avvilirsi fino al punto di sobbarcarsi a una fatica dabruto. Discoprenti di sotto ai turbanti volti di cinesi,giapponesi e turchi, i poveri portatori si fermavanoquando il sentiero scabro imponeva loro lo sforzo mas-simo, i primi quattro invocavano a voce alta il nome deldio della grazia, Nârâyaṇa, ossia Viṣṇu, che veniva ripe-tuto a voce meno alta ma più solennemente dai quattroindietro, ed ecco la mia portantina sollevata come perincanto e trasportata al punto voluto, aspramente rag-giungibile.

Benchè scarso sia il mio peso, ebbi vergogna anche diquel poco che peso, tanto più che i portatori, parlandotra loro, accompagnavano la fine d’ogni frase con unaspecie di tenue gemito che interpretai come il più nonposso dantesco dei peccatori che più o meno eran con-tratti, secondo ch’avean più e meno addosso e dei qualiè parola nel Canto decimo del Purgatorio. Seppi, a sca-rico fortunato della mia coscienza, che quel lamento nondipendeva dalla intollerabile fatica di sopportare sullespalle il mio peso, ma è abituale fra quella gente, perchèle ultime parole d’una frase sogliono pronunziarle sem-pre a voce più bassa e con un piccolo gemito finale.

Dopo quattro ore di dura ascesa si giunse a Sisagarhi,una specie di piazza forte a più di 800 metri sul livellodel mare, e cioè, tra monti e valli. Pernottammo in unbengalow, e le cose viste e le impressioni provate duran-te la giornata furono tante e tali che mi fecero scriverenel mio diario queste parole: «tutto pare nuovo qui, an-

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mio la nostra civiltà che non consente più all’uomod’avvilirsi fino al punto di sobbarcarsi a una fatica dabruto. Discoprenti di sotto ai turbanti volti di cinesi,giapponesi e turchi, i poveri portatori si fermavanoquando il sentiero scabro imponeva loro lo sforzo mas-simo, i primi quattro invocavano a voce alta il nome deldio della grazia, Nârâyaṇa, ossia Viṣṇu, che veniva ripe-tuto a voce meno alta ma più solennemente dai quattroindietro, ed ecco la mia portantina sollevata come perincanto e trasportata al punto voluto, aspramente rag-giungibile.

Benchè scarso sia il mio peso, ebbi vergogna anche diquel poco che peso, tanto più che i portatori, parlandotra loro, accompagnavano la fine d’ogni frase con unaspecie di tenue gemito che interpretai come il più nonposso dantesco dei peccatori che più o meno eran con-tratti, secondo ch’avean più e meno addosso e dei qualiè parola nel Canto decimo del Purgatorio. Seppi, a sca-rico fortunato della mia coscienza, che quel lamento nondipendeva dalla intollerabile fatica di sopportare sullespalle il mio peso, ma è abituale fra quella gente, perchèle ultime parole d’una frase sogliono pronunziarle sem-pre a voce più bassa e con un piccolo gemito finale.

Dopo quattro ore di dura ascesa si giunse a Sisagarhi,una specie di piazza forte a più di 800 metri sul livellodel mare, e cioè, tra monti e valli. Pernottammo in unbengalow, e le cose viste e le impressioni provate duran-te la giornata furono tante e tali che mi fecero scriverenel mio diario queste parole: «tutto pare nuovo qui, an-

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che il sole e la luna, anche la terra e il cielo».Il giorno seguente la nostra carovana, che ammontava

a settanta uomini ed era scortata da due guardie di poli-zia cinte dell’arma nazionale, cioè, d’una enorme lamad’acciaio ricurva, chiamata kukkurî, capace di recidered’un sol colpo la testa d’un bufalo, riprese il suo fatico-so cammino e per dieci ore alternò la salita alla discesa,attraversò i villaggi di Kulikhanî, Palampur, Citlang,Candragiri, e giunse a Thanakot che il sole era già tra-montato. In meno d’un’ora una automobile ci condussea Kathmandu, la capitale.

Non sto a riferire le svariate impressioni ricevute dalsuggestivo paesaggio montano in queste dieci ore diviaggio, ma non posso passar sotto silenzio lo stuporeda cui si è presi quando, valicato il passo di Candragiri,usciti fuori dalla cerchia dei monti e delle valli, la cate-na dell’Himâlaya, col Nepal giù alle falde, d’un tratto sidisvela agli occhi ammirati in tutta la sua immensità.Ghiacciai e nevi perpetue inaccessibili su picchi chesembrano appartenere al cielo più che alla terra, comin-ciare non si sa dove e perdersi nell’infinito spazio; smi-surate giungle rivestenti di verde le chine; colori dellavolta celeste succedentisi l’uno all’altro quasi a voler farconoscere l’azzurro più puro e più intenso, il rosso piùacceso, il roseo più soave, il bianco così vivace ed ete-reo che diventa fonte di luce più amabile di quella delsole; silenzio abissale proporzionato alla grandiosità delpaesaggio; commuovono fino alle lagrime, inebriano,sopraffanno.

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che il sole e la luna, anche la terra e il cielo».Il giorno seguente la nostra carovana, che ammontava

a settanta uomini ed era scortata da due guardie di poli-zia cinte dell’arma nazionale, cioè, d’una enorme lamad’acciaio ricurva, chiamata kukkurî, capace di recidered’un sol colpo la testa d’un bufalo, riprese il suo fatico-so cammino e per dieci ore alternò la salita alla discesa,attraversò i villaggi di Kulikhanî, Palampur, Citlang,Candragiri, e giunse a Thanakot che il sole era già tra-montato. In meno d’un’ora una automobile ci condussea Kathmandu, la capitale.

Non sto a riferire le svariate impressioni ricevute dalsuggestivo paesaggio montano in queste dieci ore diviaggio, ma non posso passar sotto silenzio lo stuporeda cui si è presi quando, valicato il passo di Candragiri,usciti fuori dalla cerchia dei monti e delle valli, la cate-na dell’Himâlaya, col Nepal giù alle falde, d’un tratto sidisvela agli occhi ammirati in tutta la sua immensità.Ghiacciai e nevi perpetue inaccessibili su picchi chesembrano appartenere al cielo più che alla terra, comin-ciare non si sa dove e perdersi nell’infinito spazio; smi-surate giungle rivestenti di verde le chine; colori dellavolta celeste succedentisi l’uno all’altro quasi a voler farconoscere l’azzurro più puro e più intenso, il rosso piùacceso, il roseo più soave, il bianco così vivace ed ete-reo che diventa fonte di luce più amabile di quella delsole; silenzio abissale proporzionato alla grandiosità delpaesaggio; commuovono fino alle lagrime, inebriano,sopraffanno.

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Il Nepal ha cinque milioni e mezzo di abitanti ai qualinon manca davvero lo spazio in un’area che è di 54,000miglia quadrate inglesi. I prodotti della civiltà occiden-tale sono accolti con favore e larghezza purchè non co-stituiscano una minaccia all’integrità delle credenze edei costumi aviti del paese. Così, oltre alla ferrovia, dicui già si è fatto cenno, e alle automobili che corrononumerose per le vie di Kathmandu, si adopera altresìuna teleferica. Viene questa messa in moto da una po-tente stazione elettrica della valle e trasporta merci, ba-gagli ed altro materiale da Bhimphedi a Kathmandu. Lastessa stazione fornisce la luce elettrica alla città. Inve-ce, non esiste nemmeno un solo albergo, perchè gli al-berghi presuppongono i forestieri, e di forestieri i gover-nanti del Nepal non vogliono saperne. Ci toccò quindidimorare in quell’unico bengalow nel quale trovanostanza le rare persone straniere ammesse di quando inquando nel regno, per un periodo più o meno lungo, dal-la condiscendenza del Mahârâja.

Tre sono le città principali del Nepal: Kathmandu,corruzione di Kâṣṭhamaṇḍapa, o tempio di legno che an-cora esiste, ricca di novantamila abitanti; Patan, abbre-viazione di Lalitapaṭṭana, e Bhaṭgaon, ossia Bhaṭṭagrâ-ma, entrambe abitate da circa trentamila abitanti.

Ampie sono le strade di Kathmandu nella parte ovesorgono i palazzi sontuosi del re o adhirâja, del primoministro e insieme comandante supremo dell’esercito omâharâja, dei generali e dei magnati. Il quartiere popo-lare, invece, è affatto privo di larghe strade, e consiste di

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Il Nepal ha cinque milioni e mezzo di abitanti ai qualinon manca davvero lo spazio in un’area che è di 54,000miglia quadrate inglesi. I prodotti della civiltà occiden-tale sono accolti con favore e larghezza purchè non co-stituiscano una minaccia all’integrità delle credenze edei costumi aviti del paese. Così, oltre alla ferrovia, dicui già si è fatto cenno, e alle automobili che corrononumerose per le vie di Kathmandu, si adopera altresìuna teleferica. Viene questa messa in moto da una po-tente stazione elettrica della valle e trasporta merci, ba-gagli ed altro materiale da Bhimphedi a Kathmandu. Lastessa stazione fornisce la luce elettrica alla città. Inve-ce, non esiste nemmeno un solo albergo, perchè gli al-berghi presuppongono i forestieri, e di forestieri i gover-nanti del Nepal non vogliono saperne. Ci toccò quindidimorare in quell’unico bengalow nel quale trovanostanza le rare persone straniere ammesse di quando inquando nel regno, per un periodo più o meno lungo, dal-la condiscendenza del Mahârâja.

Tre sono le città principali del Nepal: Kathmandu,corruzione di Kâṣṭhamaṇḍapa, o tempio di legno che an-cora esiste, ricca di novantamila abitanti; Patan, abbre-viazione di Lalitapaṭṭana, e Bhaṭgaon, ossia Bhaṭṭagrâ-ma, entrambe abitate da circa trentamila abitanti.

Ampie sono le strade di Kathmandu nella parte ovesorgono i palazzi sontuosi del re o adhirâja, del primoministro e insieme comandante supremo dell’esercito omâharâja, dei generali e dei magnati. Il quartiere popo-lare, invece, è affatto privo di larghe strade, e consiste di

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due lunghe parallele linee di abitazioni addossate l’unaall’altra, di uno, al massimo, due piani. La strada angu-sta che si stende fra le due linee di case offre spazio altransito di una sola automobile. Sotto alle abitazioni,che sono al primo piano, e cioè, lungo la stretta via,stanno i negozi. A un certo punto la strada sbocca nellapiazza nella quale s’ergono templi e tempietti. Come nelresto dell’India, grande è l’agglomerazione del popolo,ma, a differenza del resto dell’India, il popolo lascia in-travvedere pulizia, sanità e robustezza. Peculiarità sin-golarissima, che documenta lo spiccato senso artisticodei nepalesi, è che l’abitazione magari più umile si fre-gia d’una finestra o d’un balcone di legno nel quale sicontemplano intarsi e sculture maravigliose raffigurantidivinità, demoni, mostri, simboli religiosi. Alcune fine-stre antiche sono opere d’arte inestimabili e stanno adornare le case di povera gente. Nel Nepal l’intaglio èstata ed è la passione, il genio del popolo.

Due fiumi, dei quali l’acqua è reputata purificatrice esanta, bagnano Kathmandu: la Bhâgmatî e la Viṣṇumatîche graziosamente serpeggiano nella valle a giocondarel’occhio di chi la ammiri da un’altura.

Per le strade di Kathmandu e sui ponti si ha agio diosservare un traffico intensissimo: tutti camminanosvelti, seri, composti; pare che non esista la genía deifannulloni e dei vagabondi ma che anzi tutti sieno incal-zati dalla fretta, dal dover fare qualche cosa che non am-metta indugio. Magnifici soldati, in uniformi di colorekaki, col cappello floscio a larghe falde e con al fianco

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due lunghe parallele linee di abitazioni addossate l’unaall’altra, di uno, al massimo, due piani. La strada angu-sta che si stende fra le due linee di case offre spazio altransito di una sola automobile. Sotto alle abitazioni,che sono al primo piano, e cioè, lungo la stretta via,stanno i negozi. A un certo punto la strada sbocca nellapiazza nella quale s’ergono templi e tempietti. Come nelresto dell’India, grande è l’agglomerazione del popolo,ma, a differenza del resto dell’India, il popolo lascia in-travvedere pulizia, sanità e robustezza. Peculiarità sin-golarissima, che documenta lo spiccato senso artisticodei nepalesi, è che l’abitazione magari più umile si fre-gia d’una finestra o d’un balcone di legno nel quale sicontemplano intarsi e sculture maravigliose raffigurantidivinità, demoni, mostri, simboli religiosi. Alcune fine-stre antiche sono opere d’arte inestimabili e stanno adornare le case di povera gente. Nel Nepal l’intaglio èstata ed è la passione, il genio del popolo.

Due fiumi, dei quali l’acqua è reputata purificatrice esanta, bagnano Kathmandu: la Bhâgmatî e la Viṣṇumatîche graziosamente serpeggiano nella valle a giocondarel’occhio di chi la ammiri da un’altura.

Per le strade di Kathmandu e sui ponti si ha agio diosservare un traffico intensissimo: tutti camminanosvelti, seri, composti; pare che non esista la genía deifannulloni e dei vagabondi ma che anzi tutti sieno incal-zati dalla fretta, dal dover fare qualche cosa che non am-metta indugio. Magnifici soldati, in uniformi di colorekaki, col cappello floscio a larghe falde e con al fianco

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la kukkurî, s’incontrano dovunque. Sono giovani alti ro-busti fieri, insuperabili tiratori, usi a tutte le fatiche; nonignorano un solo segreto dell’arte militare, perchè i ma-hârâja hanno invitato nel passato e ancora oggi invitanoufficiali dell’esercito inglese ad istruire militarmente leloro truppe. L’esercito stanziale risulta di 45,000 uominiche in caso di guerra possono comodamente salire a100,000. Oltre alla fanteria c’è una artiglieria da monta-gna, e una cavalleria che, se non si segnala per il nume-ro, dev’essere ammirata per la qualità dei cavalieri e deimagnifici cavalli.

Gran parte delle armi viene fabbricata nello stessoNepal, paese tradizionalmente marziale, secondo vieneattestato dal suo Museo contenente una superba colle-zione d’armi antiche: archi, scimitarre, lancie, spadoni,corazze e via dicendo. Sono i nepalesi soldati così sceltiche l’Inghilterra, in base ad una convenzione col Mahâ-râja, offre alla gioventù del Nepal d’arruolarsi nell’eser-cito indo-britannico. Numerose reclute di continuo sonoautorizzate a lasciare il paese per recarsi a prestar servi-zio sotto il vessillo britannico. I battaglioni dei Gurkha,ossia dei nepalesi, sono quanto di meglio l’Inghilterrapuò mandare contro i nemici esterni ed interni che mi-nacciano il suo dominio indiano.

Tutto ciò sta a provare la leggerezza e la fallacia dicerti giudizi che si sentono ripetere sulla natura imbelledegl’Indù, sulla loro assoluta incapacità politica, sul fatoche incombe loro di piegar la testa al giogo straniero. Sidimentica sempre che l’India non è una nazione ma un

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la kukkurî, s’incontrano dovunque. Sono giovani alti ro-busti fieri, insuperabili tiratori, usi a tutte le fatiche; nonignorano un solo segreto dell’arte militare, perchè i ma-hârâja hanno invitato nel passato e ancora oggi invitanoufficiali dell’esercito inglese ad istruire militarmente leloro truppe. L’esercito stanziale risulta di 45,000 uominiche in caso di guerra possono comodamente salire a100,000. Oltre alla fanteria c’è una artiglieria da monta-gna, e una cavalleria che, se non si segnala per il nume-ro, dev’essere ammirata per la qualità dei cavalieri e deimagnifici cavalli.

Gran parte delle armi viene fabbricata nello stessoNepal, paese tradizionalmente marziale, secondo vieneattestato dal suo Museo contenente una superba colle-zione d’armi antiche: archi, scimitarre, lancie, spadoni,corazze e via dicendo. Sono i nepalesi soldati così sceltiche l’Inghilterra, in base ad una convenzione col Mahâ-râja, offre alla gioventù del Nepal d’arruolarsi nell’eser-cito indo-britannico. Numerose reclute di continuo sonoautorizzate a lasciare il paese per recarsi a prestar servi-zio sotto il vessillo britannico. I battaglioni dei Gurkha,ossia dei nepalesi, sono quanto di meglio l’Inghilterrapuò mandare contro i nemici esterni ed interni che mi-nacciano il suo dominio indiano.

Tutto ciò sta a provare la leggerezza e la fallacia dicerti giudizi che si sentono ripetere sulla natura imbelledegl’Indù, sulla loro assoluta incapacità politica, sul fatoche incombe loro di piegar la testa al giogo straniero. Sidimentica sempre che l’India non è una nazione ma un

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continente abitato da 350 milioni di uomini differenti gliuni dagli altri per stirpe, costumi, religione, lingua, eche quel che è vero per certi aggruppamenti di popola-zione è falso per certi altri. Ammesso pure che i benga-lesi non brillino per spirito marziale, robustezza fisica, eamore di disciplina, resta pur sempre vero che i nepale-si, i rajput e i sikh sono popoli agguerriti, forti, teneridella loro dignità e indipendenza. E può negarsi la capa-cità di organizzazione e il senso politico a un paese cheebbe tre secoli prima di Cristo un impero come quello diAçoka e soltanto pochi secoli fa gl’imperi dei Gran Mo-ghol, la stupefacente magnificenza dei quali, può revo-carsi in dubbio solo da chi non ne ha visto i superbiavanzi a Delhi, ad Agra, a Fateh-pur Sikri? Certa gentecrede che il mondo abbia a restare eternamente tale qua-le essa lo vede, che il mondo, in altri termini, sia statico,e ne ignora il terribile dinamismo. Per questa gentel’India prepara o prima o poi sorprese sbalorditive.

Ma torniamo al Nepal. Per quanto i suoi aspetti fisicisociali e politici meritino la più viva e devota attenzio-ne, non v’ha dubbio che la religione, la quale di sè in-forma ogni pensiero, ogni parola, ogni atto del popolo esi riflette in migliaia d’opere d’arte imperiture, costitui-sca la maraviglia centrale e l’argomento di studio predi-letto del fortunato visitatore.

I templi nel Nepal, fra grandi e piccoli, ammontano a2733. Tre sono soprattutto le divinità che si adorano:Çiva, detto anche Paçupati; Vishṇu, che di solito chia-mano Nârâyaṇa; e finalmente il Buddha.

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continente abitato da 350 milioni di uomini differenti gliuni dagli altri per stirpe, costumi, religione, lingua, eche quel che è vero per certi aggruppamenti di popola-zione è falso per certi altri. Ammesso pure che i benga-lesi non brillino per spirito marziale, robustezza fisica, eamore di disciplina, resta pur sempre vero che i nepale-si, i rajput e i sikh sono popoli agguerriti, forti, teneridella loro dignità e indipendenza. E può negarsi la capa-cità di organizzazione e il senso politico a un paese cheebbe tre secoli prima di Cristo un impero come quello diAçoka e soltanto pochi secoli fa gl’imperi dei Gran Mo-ghol, la stupefacente magnificenza dei quali, può revo-carsi in dubbio solo da chi non ne ha visto i superbiavanzi a Delhi, ad Agra, a Fateh-pur Sikri? Certa gentecrede che il mondo abbia a restare eternamente tale qua-le essa lo vede, che il mondo, in altri termini, sia statico,e ne ignora il terribile dinamismo. Per questa gentel’India prepara o prima o poi sorprese sbalorditive.

Ma torniamo al Nepal. Per quanto i suoi aspetti fisicisociali e politici meritino la più viva e devota attenzio-ne, non v’ha dubbio che la religione, la quale di sè in-forma ogni pensiero, ogni parola, ogni atto del popolo esi riflette in migliaia d’opere d’arte imperiture, costitui-sca la maraviglia centrale e l’argomento di studio predi-letto del fortunato visitatore.

I templi nel Nepal, fra grandi e piccoli, ammontano a2733. Tre sono soprattutto le divinità che si adorano:Çiva, detto anche Paçupati; Vishṇu, che di solito chia-mano Nârâyaṇa; e finalmente il Buddha.

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Nell’universo prevalgono a volte forze distruttrici, avolte forze conservatrici e benefiche; di qui la necessitàdi considerare nel trascendente ed immanente unico dio,cioè nel Paramâtman o Spirito supremo, due aspetti: ilterrifico e il benigno. Çiva personifica appunto il potereche a comun danno impera, il potere, non già il bruttopotere, perchè l’universo, la realtà è quella che è, unaunità, e non è quindi lecito chiamarla brutta o cattiva,bella o buona; è brutta e bella, cattiva e buona al tempostesso. Tutto dipende dal punto di vista da cui la si con-templa. Çiva, dunque, è la personificazione non già delmale, ma delle forze che ineluttabilmente infliggonosofferenze, martirii, perdite, distruzioni; Çiva non è undiavolo, ma un dio che bisogna placare con sacrifici eadorare. La divinità nell’India suole generalmente sdop-piarsi nel principio maschile e nel femminile, o, per me-glio dire, suole completarsi nella consorte. La moglie diÇiva è Pârvatî che porta pure i nomi di Gaurî, Durgâ,Kâlî, e personifica la çakti, ossia la potenza del marito.A lei, quindi, più che a Çiva s’offrono gli olocausti, è leiche soprattutto atterrisce, percuote, fulmina e dev’essereinvocata, placata, propiziata coi sacrifici magari più ar-dui, duri, crudeli.

Accanto a Çiva c’è Vishṇu, il dio della grazia, amabi-le, benigno, soccorrevole, tutto dolcezza, del quale laleggenda racconta che colpito d’una pedata da Brahmadormente, gli chiese ansioso al suo destarsi se s’era fattomale al piede nello sferrare il furioso calcio. E la con-sorte di Vishṇu è la dea Çrî, invocata anche coi nomi di

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Nell’universo prevalgono a volte forze distruttrici, avolte forze conservatrici e benefiche; di qui la necessitàdi considerare nel trascendente ed immanente unico dio,cioè nel Paramâtman o Spirito supremo, due aspetti: ilterrifico e il benigno. Çiva personifica appunto il potereche a comun danno impera, il potere, non già il bruttopotere, perchè l’universo, la realtà è quella che è, unaunità, e non è quindi lecito chiamarla brutta o cattiva,bella o buona; è brutta e bella, cattiva e buona al tempostesso. Tutto dipende dal punto di vista da cui la si con-templa. Çiva, dunque, è la personificazione non già delmale, ma delle forze che ineluttabilmente infliggonosofferenze, martirii, perdite, distruzioni; Çiva non è undiavolo, ma un dio che bisogna placare con sacrifici eadorare. La divinità nell’India suole generalmente sdop-piarsi nel principio maschile e nel femminile, o, per me-glio dire, suole completarsi nella consorte. La moglie diÇiva è Pârvatî che porta pure i nomi di Gaurî, Durgâ,Kâlî, e personifica la çakti, ossia la potenza del marito.A lei, quindi, più che a Çiva s’offrono gli olocausti, è leiche soprattutto atterrisce, percuote, fulmina e dev’essereinvocata, placata, propiziata coi sacrifici magari più ar-dui, duri, crudeli.

Accanto a Çiva c’è Vishṇu, il dio della grazia, amabi-le, benigno, soccorrevole, tutto dolcezza, del quale laleggenda racconta che colpito d’una pedata da Brahmadormente, gli chiese ansioso al suo destarsi se s’era fattomale al piede nello sferrare il furioso calcio. E la con-sorte di Vishṇu è la dea Çrî, invocata anche coi nomi di

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Lakshmî e Padmâvatî, pur essa largitrice di ricchezza, dipotere, di gloria, e di felicità.

Terzo adorato nume è il Buddha, il superuomo chepredicò agli umani la suprema legge del bene, ossial’ahiṃsâ, l’astenersi dall’uccidere qualunque vivente edal fargli alcun male, insegnò loro a sentirsi solidali ma-gari col verme e la formica partecipi anch’essi di vita eper ciò stesso di patimento e di dolore, rivelò l’ardua,lunga, affannosa ma sicura via che conduce al porto del-la pace eterna, del nirvâṇa, nel quale non c’è più nè lucenè tenebra, nè fuoco nè aria, nè acqua nè terra, nè ieri nèdomani.

Si vuole che i tre quinti della popolazione nepalesesieno buddhisti, ma non bisogna per ciò credere chequesti buddhisti guardino in cagnesco gli çivaiti e i vi-shṇuiti e questi alla loro volta odino i buddhisti. Nel Ne-pal si ha agio di osservare, sebbene assai più attenuato,lo strano fenomeno che tanto colpisce nella Cina, vale adire che la stessa persona si professa taoista, confucianae buddhista, indossa, a seconda degli eventi, i segniesterni propri ai tre culti, porta al mattino il berrettotaoista, a mezzogiorno quello confuciano e la sera ilmanto buddhista, invita a casa per una conversazione ilsacerdote taoista, per una nascita e un matrimonio il pre-te confuciano e per una morte il monaco buddhista. NelNepal l’appartenente a una setta religiosa non s’irrigidi-sce in questa fino alla intolleranza, ma l’adoratore diÇiva ha pure il massimo rispetto per Vishṇu e per ilBuddha, il vishṇuita non disdegna d’andare a volte a

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Lakshmî e Padmâvatî, pur essa largitrice di ricchezza, dipotere, di gloria, e di felicità.

Terzo adorato nume è il Buddha, il superuomo chepredicò agli umani la suprema legge del bene, ossial’ahiṃsâ, l’astenersi dall’uccidere qualunque vivente edal fargli alcun male, insegnò loro a sentirsi solidali ma-gari col verme e la formica partecipi anch’essi di vita eper ciò stesso di patimento e di dolore, rivelò l’ardua,lunga, affannosa ma sicura via che conduce al porto del-la pace eterna, del nirvâṇa, nel quale non c’è più nè lucenè tenebra, nè fuoco nè aria, nè acqua nè terra, nè ieri nèdomani.

Si vuole che i tre quinti della popolazione nepalesesieno buddhisti, ma non bisogna per ciò credere chequesti buddhisti guardino in cagnesco gli çivaiti e i vi-shṇuiti e questi alla loro volta odino i buddhisti. Nel Ne-pal si ha agio di osservare, sebbene assai più attenuato,lo strano fenomeno che tanto colpisce nella Cina, vale adire che la stessa persona si professa taoista, confucianae buddhista, indossa, a seconda degli eventi, i segniesterni propri ai tre culti, porta al mattino il berrettotaoista, a mezzogiorno quello confuciano e la sera ilmanto buddhista, invita a casa per una conversazione ilsacerdote taoista, per una nascita e un matrimonio il pre-te confuciano e per una morte il monaco buddhista. NelNepal l’appartenente a una setta religiosa non s’irrigidi-sce in questa fino alla intolleranza, ma l’adoratore diÇiva ha pure il massimo rispetto per Vishṇu e per ilBuddha, il vishṇuita non disdegna d’andare a volte a

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pregare nel tempio di Paçupati e di rendere omaggioall’effigie di Çâkyamuni, il buddhista non rifugge dalpartecipare a una solennità religiosa çivaita o vishṇuita.I confini delle varie confessioni religiose non sono micasegnati con un taglio netto, ma facilmente valicabili ingrazia ad una, più che tolleranza, comprensione che nes-suna fede può arrogarsi di possedere tutta la verità e tut-to il bene. In cotesto sistema di larghezza d’idee c’è tut-tavia un pericolo, che, cioè, qualche setta resti assorbitadalle altre. È ciò che è accaduto al Buddhismonell’India. Lo sparire del Buddhismo dalla sua patriad’origine è stato argomento di lunghe discussioni. Lacausa, invece, del fenomeno non può essere dubbia e civiene rivelata con evidenza da quanto vediamo accaderesotto i nostri occhi ancora oggi nel Nepal. Come ogginel Nepal, il Buddhismo nei secoli passati vivevanell’India accanto al Vishṇuismo in rapporti, dirò, perfi-no troppo amichevoli: gli amici che stanno troppo insie-me, sentenzia Shakespeare, finiscono col fondere i san-gui (to mingle friendship far, is mingling bloods).

Il Vishṇuismo, avente in comune col Buddhismo,s’intende, mahâyânico, tanti atteggiamenti spirituali,poco per volta se lo incorporò, perchè dei due era il Vi-shṇuismo che aveva nel paese più salde e profonde leradici e che non s’ergeva a religione universale in con-trapposizione al Brahmanesimo. Il poeta Jayadeva chenel suo Gîtagovinda annovera il Buddha come la nonaincarnazione di Vishṇu proclama nel miglior modol’avvenuta fusione dei due culti. E nello stesso Nepal,

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pregare nel tempio di Paçupati e di rendere omaggioall’effigie di Çâkyamuni, il buddhista non rifugge dalpartecipare a una solennità religiosa çivaita o vishṇuita.I confini delle varie confessioni religiose non sono micasegnati con un taglio netto, ma facilmente valicabili ingrazia ad una, più che tolleranza, comprensione che nes-suna fede può arrogarsi di possedere tutta la verità e tut-to il bene. In cotesto sistema di larghezza d’idee c’è tut-tavia un pericolo, che, cioè, qualche setta resti assorbitadalle altre. È ciò che è accaduto al Buddhismonell’India. Lo sparire del Buddhismo dalla sua patriad’origine è stato argomento di lunghe discussioni. Lacausa, invece, del fenomeno non può essere dubbia e civiene rivelata con evidenza da quanto vediamo accaderesotto i nostri occhi ancora oggi nel Nepal. Come ogginel Nepal, il Buddhismo nei secoli passati vivevanell’India accanto al Vishṇuismo in rapporti, dirò, perfi-no troppo amichevoli: gli amici che stanno troppo insie-me, sentenzia Shakespeare, finiscono col fondere i san-gui (to mingle friendship far, is mingling bloods).

Il Vishṇuismo, avente in comune col Buddhismo,s’intende, mahâyânico, tanti atteggiamenti spirituali,poco per volta se lo incorporò, perchè dei due era il Vi-shṇuismo che aveva nel paese più salde e profonde leradici e che non s’ergeva a religione universale in con-trapposizione al Brahmanesimo. Il poeta Jayadeva chenel suo Gîtagovinda annovera il Buddha come la nonaincarnazione di Vishṇu proclama nel miglior modol’avvenuta fusione dei due culti. E nello stesso Nepal,

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con l’andare del tempo, i due culti si fonderebbero, se asalvare l’individualità del Buddhismo e a mantenerlosempre vivo, non scendessero fedelmente e continua-mente dalle loro montagne numerosi i tibetani in devotopellegrinaggio ai santuari eretti in onore del Buddha.

Dei templi çivaiti che visitammo a Kathmandu e nelleadiacenze menzionerò quelli aggruppati in un’area repu-tata sacra che porta il nome di Paçupati ed è attraversatanel bel mezzo dalla Bhâgmatî (fig. I).

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Fig. I. – I templi di Paçupati.

con l’andare del tempo, i due culti si fonderebbero, se asalvare l’individualità del Buddhismo e a mantenerlosempre vivo, non scendessero fedelmente e continua-mente dalle loro montagne numerosi i tibetani in devotopellegrinaggio ai santuari eretti in onore del Buddha.

Dei templi çivaiti che visitammo a Kathmandu e nelleadiacenze menzionerò quelli aggruppati in un’area repu-tata sacra che porta il nome di Paçupati ed è attraversatanel bel mezzo dalla Bhâgmatî (fig. I).

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Fig. I. – I templi di Paçupati.

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Una larga scalea fiancheggiata a destra e a sinistra dimandira o tempietti su cui saltano libere le scimmie,conduce a una collina dove si vuole sieno ancora a me-ditare invisibili gli asceti del passato (fig. II). Da talecollina si domina l’insieme d’una folla di santuari più omeno grandi e le due rive della Bhâgmatî sulle quali sicremano i cadaveri. In vicinanza d’una delle sponde delfiume v’è un ricovero per malati gravi e per i congiuntiche li assistono. Quando l’infermo sta per morire lo siporta fuori del ricovero e lo si adagia sopra un lastronemetallico inclinato, arieggiante una lunga spalliera inpendio, sulla quale disteso il moribondo tocca coi piedi

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Fig. II. – La collina che domina i templi di Paçupati.

Una larga scalea fiancheggiata a destra e a sinistra dimandira o tempietti su cui saltano libere le scimmie,conduce a una collina dove si vuole sieno ancora a me-ditare invisibili gli asceti del passato (fig. II). Da talecollina si domina l’insieme d’una folla di santuari più omeno grandi e le due rive della Bhâgmatî sulle quali sicremano i cadaveri. In vicinanza d’una delle sponde delfiume v’è un ricovero per malati gravi e per i congiuntiche li assistono. Quando l’infermo sta per morire lo siporta fuori del ricovero e lo si adagia sopra un lastronemetallico inclinato, arieggiante una lunga spalliera inpendio, sulla quale disteso il moribondo tocca coi piedi

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Fig. II. – La collina che domina i templi di Paçupati.

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l’acqua santa del fiume, e la beve a sorsi da una coppa,che un pietoso gli avvicina ai labbri, fatta di corno di ri-noceronte. Uno di questi letti è riservato ai Mahârâja. Iltempio çivaita mostra sempre traccie del sangue di caprie d’altre bestie immolate. I santuari hanno forma di pa-gode; i piccoli, corrispondenti alle nostre cappelle, supe-rano di gran lunga i grandi quanto a numero, e ricordanoi monumenti sepolcrali allineati nei nostri cimiteri. Imotivi che presentano i templi maggiori, vale a dire, ileoni stilizzati, i mostri, i guardiani e via dicendo, si ri-petono; ma la perfezione artistica dei lavori, la profusio-ne di oro, e la sincerità del sentimento religioso che tra-spare da ogni fregio e da ogni figura, sono compensolarghissimo alla uniformità.

Di Vishṇu si ammira nelle vicinanze di Kathmanduuna immagine colossale scolpita in un sol blocco di pie-tra. Il nume disteso sopra il serpente Çesha galleggia inatto di dormire sulle acque cosmiche raffigurate da unampio stagno. Mai artista è riuscito a trasfondere meglionella materia l’intenzione della sua arte: il volto di Vi-shṇu è tutto bontà e soavità e pare s’illumini del sognodel gran bene che al suo destarsi prodigherà sulle gentitraviate, afflitte, doloranti. Una delle gambe è piegata inatteggiamento così naturale che veramente par di vederein carne e in ossa un gigante che nel dormire abbia tiratoin su la gamba per star più comodo. Regna intorno allostagno il silenzio più religioso, i fedeli in raccoglimentos’avvicinano, depongono semplici fiori di pratonell’acqua stagnante di cui inumidiscono le mani pronte

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l’acqua santa del fiume, e la beve a sorsi da una coppa,che un pietoso gli avvicina ai labbri, fatta di corno di ri-noceronte. Uno di questi letti è riservato ai Mahârâja. Iltempio çivaita mostra sempre traccie del sangue di caprie d’altre bestie immolate. I santuari hanno forma di pa-gode; i piccoli, corrispondenti alle nostre cappelle, supe-rano di gran lunga i grandi quanto a numero, e ricordanoi monumenti sepolcrali allineati nei nostri cimiteri. Imotivi che presentano i templi maggiori, vale a dire, ileoni stilizzati, i mostri, i guardiani e via dicendo, si ri-petono; ma la perfezione artistica dei lavori, la profusio-ne di oro, e la sincerità del sentimento religioso che tra-spare da ogni fregio e da ogni figura, sono compensolarghissimo alla uniformità.

Di Vishṇu si ammira nelle vicinanze di Kathmanduuna immagine colossale scolpita in un sol blocco di pie-tra. Il nume disteso sopra il serpente Çesha galleggia inatto di dormire sulle acque cosmiche raffigurate da unampio stagno. Mai artista è riuscito a trasfondere meglionella materia l’intenzione della sua arte: il volto di Vi-shṇu è tutto bontà e soavità e pare s’illumini del sognodel gran bene che al suo destarsi prodigherà sulle gentitraviate, afflitte, doloranti. Una delle gambe è piegata inatteggiamento così naturale che veramente par di vederein carne e in ossa un gigante che nel dormire abbia tiratoin su la gamba per star più comodo. Regna intorno allostagno il silenzio più religioso, i fedeli in raccoglimentos’avvicinano, depongono semplici fiori di pratonell’acqua stagnante di cui inumidiscono le mani pronte

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a commettersi insieme e a sollevarsi fino alla fronte insegno di saluto e di venerazione. La statua porta il nomedi Budho Nîlakaṇṭha, ossia il vecchio Vishṇu, e fa ilpajo con l’altra chiamata Bâlaji, o giovane Vishṇu, di di-mensione più piccola, che sta in altra località, in unameno boschetto ombreggiato da bambù pieganti molle-mente i rami, e ornato di numerose pushkariṇî o laghet-ti, in uno dei quali vedemmo venire a galla una folla ditrote cui si gettava roba da mangiare, e d’una fontanaricca di 22 zampilli ciascuno sotto un makara (mostromarino).

Dei templi buddhisti che visitammo a Kathmandumenzionerò il Budhmaṇḍalavihâra, lo Svayaṃbhûnâth

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Fig. III. – La scalea del tempio di Svayaṃbhûnâth.

a commettersi insieme e a sollevarsi fino alla fronte insegno di saluto e di venerazione. La statua porta il nomedi Budho Nîlakaṇṭha, ossia il vecchio Vishṇu, e fa ilpajo con l’altra chiamata Bâlaji, o giovane Vishṇu, di di-mensione più piccola, che sta in altra località, in unameno boschetto ombreggiato da bambù pieganti molle-mente i rami, e ornato di numerose pushkariṇî o laghet-ti, in uno dei quali vedemmo venire a galla una folla ditrote cui si gettava roba da mangiare, e d’una fontanaricca di 22 zampilli ciascuno sotto un makara (mostromarino).

Dei templi buddhisti che visitammo a Kathmandumenzionerò il Budhmaṇḍalavihâra, lo Svayaṃbhûnâth

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Fig. III. – La scalea del tempio di Svayaṃbhûnâth.

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ed il Bodhnâth.Il Budhmaṇḍalavihâra sta in un recinto di abitazioni

popolari che formano un quadrato. Uomini, donne, fan-ciulli hanno così a portata di mano il tempio, vivono ac-canto al tempio che sembra appartenere tutto a loro, edè, infatti, loro.

Una vera maraviglia d’arte è il cosiddetto Svayaṃb-hûnàth ossia il Protettore nato di sè stesso, un epitetodato al Buddha. S’erge sopra un colle aprico e lo slan-ciato suo pinnacolo tutto d’oro scintilla ai raggi del solea gloria del nume di cui par simboleggiare l’inestimabilealato pensiero. Si accede a questo santuario per una sca-

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Fig. IV. – Una delle statue del Buddha in fondo alla scalea checonduce al tempio di Svayaṃbhûnâth.

ed il Bodhnâth.Il Budhmaṇḍalavihâra sta in un recinto di abitazioni

popolari che formano un quadrato. Uomini, donne, fan-ciulli hanno così a portata di mano il tempio, vivono ac-canto al tempio che sembra appartenere tutto a loro, edè, infatti, loro.

Una vera maraviglia d’arte è il cosiddetto Svayaṃb-hûnàth ossia il Protettore nato di sè stesso, un epitetodato al Buddha. S’erge sopra un colle aprico e lo slan-ciato suo pinnacolo tutto d’oro scintilla ai raggi del solea gloria del nume di cui par simboleggiare l’inestimabilealato pensiero. Si accede a questo santuario per una sca-

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Fig. IV. – Una delle statue del Buddha in fondo alla scalea checonduce al tempio di Svayaṃbhûnâth.

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lea (fig. III) che sembra, a chi salisce, non dover maiaver fine, chè più gradini si lascia indietro, più ne disco-pre in alto davanti a sè. Senza devozione, senza fede nelBuddha si rinunzia a raggiungere la cima, ma arrivati ametà si torna indietro. La faticosa ascesa, dicono, è stataideata a bella posta per creare un simbolo delle enormidifficoltà che ha da superare chi aspiri a toccar l’ambitamèta dell’eterna pace, del nirvâṇa. Alla base della scaleagrandi statue del Buddha (fig. IV) spirante dal volto laserenità che deriva dalla conquista del vero e seduto nel-la tradizionale ben nota postura del meditante, pare invi-tino il pellegrino a intraprendere con coraggio la salita.Giunti alla vetta, benchè ansanti e trafelati ci si sentelargamente compensati dello sforzo: il colossale vajra(diamante o folgore) raffigurante l’indefettibile essenzadivina, ossia, il nirvâṇa; il tempio centrale, maestoso edagile al tempo stesso, con il pinnacolo d’oro slanciantesinel cielo, e poggiante sopra una costruzione rotonda avòlta; i piccoli innumerevoli tempietti disseminati intor-no; le immagini del Buddha ovunque visibili (fig. V); idue grandi occhi disegnati alla base della guglia a ricor-dare la chiaroveggenza di Lui (fig. VI); i piccoli mulinidi bronzo che il pellegrino spingendo con una mano fagirare su sè stessi e innalza così innumerevoli preghiere(fig. VII); il pregevole lavoro artistico d’ogni particolaredelle figure e dei simboli fregianti il tempio e i tempiet-ti; il padiglione ove si svolge un rito inteso a rendere ifedeli immuni dal vajuolo; le scimmie scorrazzantiovunque; il magnifico panorama che di lassù si gode;

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lea (fig. III) che sembra, a chi salisce, non dover maiaver fine, chè più gradini si lascia indietro, più ne disco-pre in alto davanti a sè. Senza devozione, senza fede nelBuddha si rinunzia a raggiungere la cima, ma arrivati ametà si torna indietro. La faticosa ascesa, dicono, è stataideata a bella posta per creare un simbolo delle enormidifficoltà che ha da superare chi aspiri a toccar l’ambitamèta dell’eterna pace, del nirvâṇa. Alla base della scaleagrandi statue del Buddha (fig. IV) spirante dal volto laserenità che deriva dalla conquista del vero e seduto nel-la tradizionale ben nota postura del meditante, pare invi-tino il pellegrino a intraprendere con coraggio la salita.Giunti alla vetta, benchè ansanti e trafelati ci si sentelargamente compensati dello sforzo: il colossale vajra(diamante o folgore) raffigurante l’indefettibile essenzadivina, ossia, il nirvâṇa; il tempio centrale, maestoso edagile al tempo stesso, con il pinnacolo d’oro slanciantesinel cielo, e poggiante sopra una costruzione rotonda avòlta; i piccoli innumerevoli tempietti disseminati intor-no; le immagini del Buddha ovunque visibili (fig. V); idue grandi occhi disegnati alla base della guglia a ricor-dare la chiaroveggenza di Lui (fig. VI); i piccoli mulinidi bronzo che il pellegrino spingendo con una mano fagirare su sè stessi e innalza così innumerevoli preghiere(fig. VII); il pregevole lavoro artistico d’ogni particolaredelle figure e dei simboli fregianti il tempio e i tempiet-ti; il padiglione ove si svolge un rito inteso a rendere ifedeli immuni dal vajuolo; le scimmie scorrazzantiovunque; il magnifico panorama che di lassù si gode;

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costituiscono una tale folla d’impressioni nuove e pro-fonde che il visitatore sente la mente, l’anima, i sensi re-galmente colmati di doni.

Fig. V. – I tempietti e le immagini del Buddha intorno al santuariocentrale di Svayaṃbhûnâth.

Il santuario di Bodhnâth, risultante d’un grosso stûpa,non può competere con quello di Svayaṃbhûnâth quan-to a magnificenza, ricchezza e pregi d’arte, ma lo ugua-

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costituiscono una tale folla d’impressioni nuove e pro-fonde che il visitatore sente la mente, l’anima, i sensi re-galmente colmati di doni.

Fig. V. – I tempietti e le immagini del Buddha intorno al santuariocentrale di Svayaṃbhûnâth.

Il santuario di Bodhnâth, risultante d’un grosso stûpa,non può competere con quello di Svayaṃbhûnâth quan-to a magnificenza, ricchezza e pregi d’arte, ma lo ugua-

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glia e quasi lo supera in reputazione di luogo sacro e dimèta di pellegrinaggio. A Bodhnâth s’incontrano caro-vane di tibetani i quali trovano dimora in casupole checircondano lo stûpa. Ovunque, per le strade adiacenti,alle finestre, nelle botteghe, si scorgono caratteristicivolti d’uomini e donne, vecchi e giovani, tibetani.

Nella città di Patan, ricca di monumenti, ci recammodue volte. Prima d’arrivarci si vedono quattro genuinistûpa eretti dall’imperatore Açoka in onore del Buddha.Rimontano, com’è noto, al terzo secolo av. Cr., e se dalpunto di vista religioso non commuovono chi non èbuddhista, non possono fare a meno d’entusiasmare chiper poco s’interessi di storia e d’archeologia. Splendiditempii di Patan sono quelli buddhisti di Matsyendranâth,di Mînanâth, di Mayûravarman, e il santuario dedicato aKṛshṇa con bassorilievi preziosi raffiguranti scene bennote del Mahâbhârata e del Râmâyana. Una vera mara-viglia d’arte è l’antica reggia che nel centro mostra unafinestra d’oro e balconi in legno superbamente intaglia-to.

Bhaṭgaon, la terza città principale del Nepal, ci diedeagio di ammirare, proprio all’entrata, un altro antico râ-japrasâda o palazzo reale, di faccia a cui sorge una co-lonna sostenente la figura di un re in atto di pregare.Quando ci appressammo al tempio di Dattatreya, porte efinestre chiassosamente sbattendo si chiusero. È chiaroche la nostra presenza minacciava di contaminare il san-tuario e perciò occorreva abbassare le saracineschecome si suol fare all’approssimarsi d’un nemico. Magni-

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glia e quasi lo supera in reputazione di luogo sacro e dimèta di pellegrinaggio. A Bodhnâth s’incontrano caro-vane di tibetani i quali trovano dimora in casupole checircondano lo stûpa. Ovunque, per le strade adiacenti,alle finestre, nelle botteghe, si scorgono caratteristicivolti d’uomini e donne, vecchi e giovani, tibetani.

Nella città di Patan, ricca di monumenti, ci recammodue volte. Prima d’arrivarci si vedono quattro genuinistûpa eretti dall’imperatore Açoka in onore del Buddha.Rimontano, com’è noto, al terzo secolo av. Cr., e se dalpunto di vista religioso non commuovono chi non èbuddhista, non possono fare a meno d’entusiasmare chiper poco s’interessi di storia e d’archeologia. Splendiditempii di Patan sono quelli buddhisti di Matsyendranâth,di Mînanâth, di Mayûravarman, e il santuario dedicato aKṛshṇa con bassorilievi preziosi raffiguranti scene bennote del Mahâbhârata e del Râmâyana. Una vera mara-viglia d’arte è l’antica reggia che nel centro mostra unafinestra d’oro e balconi in legno superbamente intaglia-to.

Bhaṭgaon, la terza città principale del Nepal, ci diedeagio di ammirare, proprio all’entrata, un altro antico râ-japrasâda o palazzo reale, di faccia a cui sorge una co-lonna sostenente la figura di un re in atto di pregare.Quando ci appressammo al tempio di Dattatreya, porte efinestre chiassosamente sbattendo si chiusero. È chiaroche la nostra presenza minacciava di contaminare il san-tuario e perciò occorreva abbassare le saracineschecome si suol fare all’approssimarsi d’un nemico. Magni-

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fico è pure il tempio dai cinque tetti sacro a Çiva; e lun-go sarebbe passare a rassegna tutti gli altri per i qualiBhaṭgaon è meritamente famoso. Una iscrizione che sileggeva sopra poveri abituri mi colpì più di qualunquealtra cosa veduta. In chiari caratteri devanâgarici stavascritto sulle porte: ahiṃsâ paramo dharmaḥ, ossia,l’astenersi dal nuocere qualunque vivente è la supremalegge. Dopo più di ventiquattro secoli che il Buddha, se-condo vuole la tradizione, sopra un’altura di Kathmanduesortò i nepalesi al rispetto della vita, le sue parole an-cora oggi sono rivelazione e norma per quella bravagente di Bhaṭgaon. Fuori della città s’indica al visitatoreuna pushkarinî o laghetto, sulle rive della quale si diceche molti asceti abbiano raggiunto la perfezione o sidd-hi, cioè, il più alto grado di mistico potere. Conseguen-temente il laghetto porta il nome di siddhapokarî. Unsantuario fuori mano, situato sopra un colle e degnissi-mo d’essere visto, è il Cangunârâyan, corruzione diCampakavananârâyana, che dal nome stesso diced’essere sacro a Vishṇu.

L’otto dicembre, sulla via che conduce a Godhâvâri,deliziosa residenza estiva del Mahârâja, vedemmo iltempio di Harasiddhi nel quale s’immolavano, in tempida noi non lontani, esseri umani, segnatamente bambini.Tantum religio potuit suadere malorum! A placare la ter-ribile dea Kâlî, consorte e personificazione della poten-za di Çiva, a quali eccessi non sono trascesi gl’Indù?Confesso che due sacerdoti, che mi venne fatto d’incon-trare, dell’infame tempio, alti, robusti, truci, vestiti di

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fico è pure il tempio dai cinque tetti sacro a Çiva; e lun-go sarebbe passare a rassegna tutti gli altri per i qualiBhaṭgaon è meritamente famoso. Una iscrizione che sileggeva sopra poveri abituri mi colpì più di qualunquealtra cosa veduta. In chiari caratteri devanâgarici stavascritto sulle porte: ahiṃsâ paramo dharmaḥ, ossia,l’astenersi dal nuocere qualunque vivente è la supremalegge. Dopo più di ventiquattro secoli che il Buddha, se-condo vuole la tradizione, sopra un’altura di Kathmanduesortò i nepalesi al rispetto della vita, le sue parole an-cora oggi sono rivelazione e norma per quella bravagente di Bhaṭgaon. Fuori della città s’indica al visitatoreuna pushkarinî o laghetto, sulle rive della quale si diceche molti asceti abbiano raggiunto la perfezione o sidd-hi, cioè, il più alto grado di mistico potere. Conseguen-temente il laghetto porta il nome di siddhapokarî. Unsantuario fuori mano, situato sopra un colle e degnissi-mo d’essere visto, è il Cangunârâyan, corruzione diCampakavananârâyana, che dal nome stesso diced’essere sacro a Vishṇu.

L’otto dicembre, sulla via che conduce a Godhâvâri,deliziosa residenza estiva del Mahârâja, vedemmo iltempio di Harasiddhi nel quale s’immolavano, in tempida noi non lontani, esseri umani, segnatamente bambini.Tantum religio potuit suadere malorum! A placare la ter-ribile dea Kâlî, consorte e personificazione della poten-za di Çiva, a quali eccessi non sono trascesi gl’Indù?Confesso che due sacerdoti, che mi venne fatto d’incon-trare, dell’infame tempio, alti, robusti, truci, vestiti di

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bianco e con treccie cadenti, mi fecero orrore e ribrezzo.Sebbene il sacrificio umano sia soltanto un brutto ricor-do oggi nel Nepal e verrebbe punito con la pena capita-le, le madri nepalesi, sol che da lontano scorgano unodei preti biancovestiti del tempio di Harasiddhi, atterrites’affrettano a chiamare i loro bambini, a rinchiuderli e aben custodirli in casa.

Le cortesie cui fummo fatti segno dal Mahârâja al no-

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Fig. VI. – Gli occhi del Buddha in cima alla cupola delloSvayaṃbhûnâth.

bianco e con treccie cadenti, mi fecero orrore e ribrezzo.Sebbene il sacrificio umano sia soltanto un brutto ricor-do oggi nel Nepal e verrebbe punito con la pena capita-le, le madri nepalesi, sol che da lontano scorgano unodei preti biancovestiti del tempio di Harasiddhi, atterrites’affrettano a chiamare i loro bambini, a rinchiuderli e aben custodirli in casa.

Le cortesie cui fummo fatti segno dal Mahârâja al no-

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Fig. VI. – Gli occhi del Buddha in cima alla cupola delloSvayaṃbhûnâth.

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stro arrivo, durante la nostra dimora, e alla nostra par-tenza, non conobbero nè misura nè limite. Così lontanicom’eravamo dalla patria ci sentimmo in mezzo ad ami-ci cordiali ed affettuosi. Durante l’udienza che Sua Al-tezza concede suona sempre in lontananza la banda nelparco adiacente, ed è poi uno spettacolo d’insuperabilemagnificenza il vedere in un ricevimento solenne, comequello a cui partecipammo il tre dicembre in onore diSir Frederic O’Connor ex-residente britannico nel Ne-pal, il vedere, dico, i trentadue generali dell’esercito tut-ti in gran tenuta circondare il Mahârâja in una sala sfar-zosa di marmo, in cui sul pavimento le più superbe pellidi tigri di questo mondo ricordano che a poca distanza cisono le sconfinate giungle del terai. Ciò che di più carat-teristico si ammira nell’uniforme di gala del Mahârâja edei suoi generali, è l’elmo tempestato di pietre preziosee tutto cinto in basso di maravigliosi smeraldi pendenti.L’elmo d’un generale vale molti, quello del Mahârâjamoltissimi milioni.

Tornammo alla reggia nel pomeriggio del giorno se-guente per assistere a giuochi acrobatici, ad esercizi discherma, a uno strano e buffo duello fra due uominitruccati da galli, a un tiro al bersaglio. Da tempo imme-morabile l’essere un buon tiratore è stata la virtù piùpregiata nella casta degli kṣatriya o guerrieri. Narrano leepopee che le più belle principesse furono sempre datein premio al migliore arciere in una gara; Draupadî èconquistata da Arjuna, Sîtâ da Râma per la loro miraco-losa forza e perizia nel tendere l’arco e cogliere nel se-

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stro arrivo, durante la nostra dimora, e alla nostra par-tenza, non conobbero nè misura nè limite. Così lontanicom’eravamo dalla patria ci sentimmo in mezzo ad ami-ci cordiali ed affettuosi. Durante l’udienza che Sua Al-tezza concede suona sempre in lontananza la banda nelparco adiacente, ed è poi uno spettacolo d’insuperabilemagnificenza il vedere in un ricevimento solenne, comequello a cui partecipammo il tre dicembre in onore diSir Frederic O’Connor ex-residente britannico nel Ne-pal, il vedere, dico, i trentadue generali dell’esercito tut-ti in gran tenuta circondare il Mahârâja in una sala sfar-zosa di marmo, in cui sul pavimento le più superbe pellidi tigri di questo mondo ricordano che a poca distanza cisono le sconfinate giungle del terai. Ciò che di più carat-teristico si ammira nell’uniforme di gala del Mahârâja edei suoi generali, è l’elmo tempestato di pietre preziosee tutto cinto in basso di maravigliosi smeraldi pendenti.L’elmo d’un generale vale molti, quello del Mahârâjamoltissimi milioni.

Tornammo alla reggia nel pomeriggio del giorno se-guente per assistere a giuochi acrobatici, ad esercizi discherma, a uno strano e buffo duello fra due uominitruccati da galli, a un tiro al bersaglio. Da tempo imme-morabile l’essere un buon tiratore è stata la virtù piùpregiata nella casta degli kṣatriya o guerrieri. Narrano leepopee che le più belle principesse furono sempre datein premio al migliore arciere in una gara; Draupadî èconquistata da Arjuna, Sîtâ da Râma per la loro miraco-losa forza e perizia nel tendere l’arco e cogliere nel se-

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gno. La tradizione, pur sotto diversa forma, perdura, ese non è più l’arco, ma la carabina che deve adoperarsi,resta sempre che il miglior tiratore riscuote applausi edonori grandissimi. Il Mahârâja aprì i tiri e colse nel ber-saglio costituito da un mobile bufalo di cartone. Segui-rono i generali, e chi colpì una tigre, chi un rinoceronte,chi un leopardo, chi un ghazi, o bandito afgano, s’inten-de, sempre rispettivamente di cartone. Fu la volta deglieuropei, e di noi tre italiani il solo Capitano Ghersi ac-cettò d’entrare in lizza. Gli toccò come bersaglio un pal-loncino dondolante a destra e a sinistra sulla testa di unfalco volante. Il nostro compagno, mentre il cuore, con-fesso, mi batteva, nonostante si trattasse d’una gara fattaper spasso (ma i giuochi certe volte sono più seri dellestesse cose serie), spianò l’arma, la puntò, fece partire ilcolpo, il palloncino scoppiò e il falco abbattuto cadde alsuolo. L’esclamazione «magnifico colpo!» fu unanimeed entusiastica. Anche nel giuoco l’Italia si faceva ono-re! Come ho già avuto occasione di accennare, il Nepalha un re o adhirâja che è come il capo della religione, eun mahârâja che in sè accentra tutto il potere politico einsieme il comando supremo dell’esercito. Il Governo èassoluto e può dirsi che il Mahârâja abbia pieni poteri.Prende egli, tuttavia, le più gravi deliberazioni dopoaver sentito il parere di un Gran Consiglio composto deiparenti del re, dei generali, d’altri pochi dignitari dettiKaji, Sirdar, Bhardar, e del Râj-Guru o maestro spiritua-le della Corte. Quest’ultimo è una figura quanto altramai caratteristica e si può dire veneranda, perchè il Veda

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gno. La tradizione, pur sotto diversa forma, perdura, ese non è più l’arco, ma la carabina che deve adoperarsi,resta sempre che il miglior tiratore riscuote applausi edonori grandissimi. Il Mahârâja aprì i tiri e colse nel ber-saglio costituito da un mobile bufalo di cartone. Segui-rono i generali, e chi colpì una tigre, chi un rinoceronte,chi un leopardo, chi un ghazi, o bandito afgano, s’inten-de, sempre rispettivamente di cartone. Fu la volta deglieuropei, e di noi tre italiani il solo Capitano Ghersi ac-cettò d’entrare in lizza. Gli toccò come bersaglio un pal-loncino dondolante a destra e a sinistra sulla testa di unfalco volante. Il nostro compagno, mentre il cuore, con-fesso, mi batteva, nonostante si trattasse d’una gara fattaper spasso (ma i giuochi certe volte sono più seri dellestesse cose serie), spianò l’arma, la puntò, fece partire ilcolpo, il palloncino scoppiò e il falco abbattuto cadde alsuolo. L’esclamazione «magnifico colpo!» fu unanimeed entusiastica. Anche nel giuoco l’Italia si faceva ono-re! Come ho già avuto occasione di accennare, il Nepalha un re o adhirâja che è come il capo della religione, eun mahârâja che in sè accentra tutto il potere politico einsieme il comando supremo dell’esercito. Il Governo èassoluto e può dirsi che il Mahârâja abbia pieni poteri.Prende egli, tuttavia, le più gravi deliberazioni dopoaver sentito il parere di un Gran Consiglio composto deiparenti del re, dei generali, d’altri pochi dignitari dettiKaji, Sirdar, Bhardar, e del Râj-Guru o maestro spiritua-le della Corte. Quest’ultimo è una figura quanto altramai caratteristica e si può dire veneranda, perchè il Veda

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stesso parla del purohita o cappellano di corte che non silimita a dare consigli spirituali al re ma soprattutto sug-gerimenti politici a volte d’una accortezza e scaltrezzamachiavelliche. Nel cielo d’Indra chi veramente gover-na non è Indra, ma Bṛhaspati, il suo guru. Oggi maestrospirituale e politico del Mahârâja del Nepal si trovad’essere l’illustre Hemrâj Çarma, cui vien dato il nomedi Sua Santità. Egli è al tempo stesso un santo, un savioe un erudito, conosce tutte le eleganze del Sanscrito, cheparla correntemente, e come direttore della Bibliotecagovernativa, è a giorno di tutte le pubblicazioni del pas-sato e del presente nel vasto campo della letteratura in-diana, di tutti i codici inediti che meritano o non merita-no di venire alla luce. Guidato da questo famoso saggio,tutto signorilità, dottrina e acume, riuscii a scovare cin-que manoscritti ancora inediti e a portarne copie con mein Italia. Solo il Nepal, cittadella dell’antica culturadell’India, può ancora riserbare al sanscritista la rarafortuna di spigolare qualche gemma nel campo ormaisfruttato della letteratura indiana classica. Anche il Col-lega Tucci scopri due codici preziosissimi: la Hetubin-duvyâkhyâ, o classico trattato di logica che si credevaperduto, di cui è autore il famoso Dharmâkara; e laMuktâvali di Saraha, che contiene la chiave di oscurimistici riti del tantrismo. Le opere contenute nei cinquemanoscritti, che feci parte copiare e parte fotografare,sono: il Gîtagovinda con varianti preziose rispetto al te-sto del poema qual’è generalmente dato dalle edizionipiù in voga; il Gorakṣanâṭaka, ossia una rappresentazio-

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stesso parla del purohita o cappellano di corte che non silimita a dare consigli spirituali al re ma soprattutto sug-gerimenti politici a volte d’una accortezza e scaltrezzamachiavelliche. Nel cielo d’Indra chi veramente gover-na non è Indra, ma Bṛhaspati, il suo guru. Oggi maestrospirituale e politico del Mahârâja del Nepal si trovad’essere l’illustre Hemrâj Çarma, cui vien dato il nomedi Sua Santità. Egli è al tempo stesso un santo, un savioe un erudito, conosce tutte le eleganze del Sanscrito, cheparla correntemente, e come direttore della Bibliotecagovernativa, è a giorno di tutte le pubblicazioni del pas-sato e del presente nel vasto campo della letteratura in-diana, di tutti i codici inediti che meritano o non merita-no di venire alla luce. Guidato da questo famoso saggio,tutto signorilità, dottrina e acume, riuscii a scovare cin-que manoscritti ancora inediti e a portarne copie con mein Italia. Solo il Nepal, cittadella dell’antica culturadell’India, può ancora riserbare al sanscritista la rarafortuna di spigolare qualche gemma nel campo ormaisfruttato della letteratura indiana classica. Anche il Col-lega Tucci scopri due codici preziosissimi: la Hetubin-duvyâkhyâ, o classico trattato di logica che si credevaperduto, di cui è autore il famoso Dharmâkara; e laMuktâvali di Saraha, che contiene la chiave di oscurimistici riti del tantrismo. Le opere contenute nei cinquemanoscritti, che feci parte copiare e parte fotografare,sono: il Gîtagovinda con varianti preziose rispetto al te-sto del poema qual’è generalmente dato dalle edizionipiù in voga; il Gorakṣanâṭaka, ossia una rappresentazio-

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Page 35: E-book campione Liber Liber · Bombay-Lucknow e dopo un viaggio di circa trenta ore, attraversando zone fieramente colpite dal flagello della peste bubbonica e del colera, raggiunsi

ne religiosa avente a protagonista un patrono del Nepaldetto Gorakṣa da cui è derivato il nome Gurkha; ilNâṭyâlocana, un trattato di arte drammatica; il Ratnaka-raṇḍaka o scrigno di gemme, una raccolta di biografie digrandi poeti, fra le altre, quella di Çûdraka, autore delfamoso dramma Mṛcchakaṭika; la Subhâṣitâvalî, o colla-

na di bei detti poetici, una antologia preziosissima pub-blicata solo per metà dall’illustre indologo di OxfordFrederic William Thomas nel 1912.

Carico di questo tesoro, di cui farò larga parte ai mieicolleghi indologi italiani ed ai miei studenti, lasciai ilNepal, visitai le città di Lucknow, Cawnpore, Delhi,

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Fig. VII. – I mulini di bronzo e altri particolari delloSvayaṃbhûnâth.

ne religiosa avente a protagonista un patrono del Nepaldetto Gorakṣa da cui è derivato il nome Gurkha; ilNâṭyâlocana, un trattato di arte drammatica; il Ratnaka-raṇḍaka o scrigno di gemme, una raccolta di biografie digrandi poeti, fra le altre, quella di Çûdraka, autore delfamoso dramma Mṛcchakaṭika; la Subhâṣitâvalî, o colla-

na di bei detti poetici, una antologia preziosissima pub-blicata solo per metà dall’illustre indologo di OxfordFrederic William Thomas nel 1912.

Carico di questo tesoro, di cui farò larga parte ai mieicolleghi indologi italiani ed ai miei studenti, lasciai ilNepal, visitai le città di Lucknow, Cawnpore, Delhi,

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Fig. VII. – I mulini di bronzo e altri particolari delloSvayaṃbhûnâth.

Page 36: E-book campione Liber Liber · Bombay-Lucknow e dopo un viaggio di circa trenta ore, attraversando zone fieramente colpite dal flagello della peste bubbonica e del colera, raggiunsi

Agra, mi spinsi coi miei compagni fino alle grotte diAjanta e di Ellora, mi provvidi a Poona, la Lipsiadell’India, di testi sanscriti che non si trovano in Euro-pa, e, infine, m’imbarcai sul «Conte Rosso», dov’ebbi lagioia di fare il viaggio di ritorno col mio Presidente Gu-glielmo Marconi reduce dal suo giro trionfale negli StatiUniti, nel Giappone e nella Cina.

Dopo poche settimane dalla nostra partenza ecco ilNepal crudelmente visitato dalla desolazione e dallamorte per un catastrofico terremoto. Il senso d’umanità,la doverosa e spontanea reciprocanza d’amicizia per unpaese che ama l’Italia e ne ammira sinceramente il suoDuce, il desiderio ardentissimo che non sieno irrepara-bilmente perduti inestimabili tesori d’arte, tutto concor-re a farci sperare che le notizie trasmesse dai giornalipecchino d’esagerazione e che la furia del flagello deva-statore abbia risparmiato i bei templi d’oro di Kathman-du, di Patan, e di Bhaṭgaon. Nella sua sfrenata danzaÇiva ha seminato il terrore e la distruzione nella fertileamena valle cui dal vertice del Kailâsa egli guarda e do-mina. Possa presto il misericordioso Vishṇu largire tuttele sue grazie al bello e forte paese e compensare concento esistenze una morte, con la prosperità più duraturala tristezza di quest’ora.

Tale è l’augurio dell’Italia amica all’amico Nepal.

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Agra, mi spinsi coi miei compagni fino alle grotte diAjanta e di Ellora, mi provvidi a Poona, la Lipsiadell’India, di testi sanscriti che non si trovano in Euro-pa, e, infine, m’imbarcai sul «Conte Rosso», dov’ebbi lagioia di fare il viaggio di ritorno col mio Presidente Gu-glielmo Marconi reduce dal suo giro trionfale negli StatiUniti, nel Giappone e nella Cina.

Dopo poche settimane dalla nostra partenza ecco ilNepal crudelmente visitato dalla desolazione e dallamorte per un catastrofico terremoto. Il senso d’umanità,la doverosa e spontanea reciprocanza d’amicizia per unpaese che ama l’Italia e ne ammira sinceramente il suoDuce, il desiderio ardentissimo che non sieno irrepara-bilmente perduti inestimabili tesori d’arte, tutto concor-re a farci sperare che le notizie trasmesse dai giornalipecchino d’esagerazione e che la furia del flagello deva-statore abbia risparmiato i bei templi d’oro di Kathman-du, di Patan, e di Bhaṭgaon. Nella sua sfrenata danzaÇiva ha seminato il terrore e la distruzione nella fertileamena valle cui dal vertice del Kailâsa egli guarda e do-mina. Possa presto il misericordioso Vishṇu largire tuttele sue grazie al bello e forte paese e compensare concento esistenze una morte, con la prosperità più duraturala tristezza di quest’ora.

Tale è l’augurio dell’Italia amica all’amico Nepal.

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