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Arnaldo Cervesato Contro corrente www.liberliber.it

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Arnaldo Cervesato

Contro corrente

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Contro correnteAUTORE: Cervesato, ArnaldoTRADUTTORE: CURATORE: NOTE:

CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D’AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Contro corrente : saggi di critica idea-tiva / Arnaldo Cervesato. - Bari : G. Laterza, 1905.- 298 p. ; 21 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 18 giugno 20152a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 3 ottobre 2019

INDICE DI AFFIDABILITA’: 1 0: affidabilità bassa

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1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

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IMPAGINAZIONE:Paolo Alberti, [email protected]

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Indice generale

PREFAZIONE................................................................8IL PRIMO UOMO DELLA NUOVA ITALIA.............11

Il "Giorno" poema nazionale....................................12I.............................................................................12II...........................................................................18III..........................................................................33IV..........................................................................38V............................................................................44

Ripano Eupilino........................................................51I.............................................................................51II...........................................................................54III..........................................................................58

Il Parini e gli Enciclopedisti.....................................65IL PRIMO UOMODELLA NUOVA EUROPA..........................................76

L'«indifferenza» del Goethe.....................................77I.............................................................................77II...........................................................................81III..........................................................................90IV........................................................................106

Il Goethe spiritualista..............................................114IL LEOPARDIE LA NOSTRA CIVILTÀ INDUSTRIALE...............123

G. Leopardi e il progresso......................................124

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I...........................................................................124II.........................................................................129

Recanati e il suo poeta............................................138I...........................................................................138II.........................................................................145

Il Zibaldone.............................................................151Monaldo Leopardi e i «diritti della guerra»............168

FRA LE ANIME D'ECCEZIONE..............................173Edgardo Poë poeta..................................................174Gli ultimi giorni di P. B. Shelley.............................182Il pensiero di E. Ibsen nel «Borkman»...................186

I...........................................................................187II.........................................................................200III........................................................................206

PROFILI D'IDEALISTI.............................................212Edgardo Quinet.......................................................213Giovanni De Castro................................................222

I...........................................................................223II.........................................................................231

Malvida di Meysenbug...........................................240Alfredo Loisy..........................................................253Per Herbert Spencer................................................284Edoardo Schuré.......................................................291

INDICE.......................................................................302

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ARNALDO CERVESATO

CONTRO CORRENTESAGGI DI CRITICA IDEATIVA.

Il primo uomo della nuova ItaliaIl primo uomo della nuova Europa

Il Leopardi e la nostra civiltà industrialeFra le anime d'eccezione

Profili d'idealisti

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A TE, MAMMA, presento la prima copia di questo li-bro; esso è composto dei saggi che sono le pietre miliaridel cammino di mia giovinezza nutrita di fede, di studioe di lavoro. E tu lo accogli, se in esso sia qualcuno deimoti generosi cui curasti sempre, sempre fossero le for-ze del mio animo tutte converse. Se il tuo santo nome èluce sulla via dei miei ricordi, così splenda sul sentierodelle opere future e irraggi sull'ardua meta con la virtù ela bontà di tua parola e del tuo esempio.

Benedici il tuo Arnaldo.

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PREFAZIONE

Contro Corrente è il titolo di questo libro: il suo sot-totitolo è «Saggi di critica ideativa».

Attraverso figure d'uomini e momenti di tempi diversi– ma successivi, ma cronologicamente e sostanzialmen-te legati da vincoli essenziali pur se non al tutto appari-scenti – l'idea dominatrice di questo libro di enunziargiudizio (sia sugli scrittori meno moderni di cui vi sitratta, che dei più recenti) non anco manifestato, anzi,spesso in opposizione con quello abituale e di conven-zionale accettazione – quest'idea dominatrice credo simanifesti e affermi con indubbia evidenza: da ciò il suotitolo.

Contro Corrente è la storia di un secolo del nostropensiero, dalla Rivoluzione francese ad oggi; esposto inscene forse frammentarie, ma, spero, non insufficienti,perchè sintetiche e personali.

L'origine del nuovo pensiero italiano vi è studiata inGiuseppe Parini, il «primo uomo della nuova Italia»; l'o-rigine del nuovo pensiero europeo, in Volfango Goethe,il «primo uomo della nuova Europa», il pioniere nobilee sereno dei cosmopoliti; Giacomo Leopardi è veduto intutta la modernità del suo pensiero di precursore, nel suogiudizio sulla nostra civiltà industriale. Le «anime d'ec-

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cezione», che studio nel volume, sono pur dei tempi no-stri; sovrana fra esse quella di Enrico Ibsen; e animed'eccezione non lo sono del pari – gli «idealisti» – daEdgardo Quinet ad Edoardo Schurè – di cui sbozzo iprofili?

Questi saggi ho intitolati di «critica ideativa».I lettori di Primavera d'Idee, di cui il successo inter-

nazionale sempre dura, sanno che la parola è di miacreazione.

Nel mio ultimo libro ho infatti dimostrata la necessitàdi surrogare il metodo «positivo» col metodo «ideativo»e in esso ho promesso di svolger presto, con maggioreampiezza, la mia tesi.

Questo farò fra breve nel mio prossimo volume: Peril nuovo idealismo.

Intanto è bene, perciò, che il lettore non cerchi in que-sto libro, frutto del lavoro di diversi momenti della miavita letteraria, quello che non c'è.

«Saggi di critica ideativa» chiamo questi miei, e losono, non perchè funzionino quale completo modello diuna nuova ed esatta via critica, ma perchè molti fra essi,da quello sul Goethe a quello sull'Ibsen, attestano conevidenza che i consueti metodi della critica (esterioreperchè storica e positiva nella disamina, e quindi mai in-trospettiva) sono insufficienti a risolvere i problemi es-senziali della critica stessa e che perciò essa abbisognadi più larga zona d'orizzonte e di maggiore profondità di

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sguardo se voglia ben comprendere l'essenza dell'arte edell'anima dell'artista.

Non meno della storia d'ambiente e di ogni documen-tazione sono adunque necessarie ad essa – proclamia-molo – l'intuizione, l'introspezione, lo studio e la cono-scenza dell'anima e delle sue crisi, delle sue sconfitte edelle sue vittorie.

Su questo studio e su questa conoscenza, dalla criticadetta «positiva» non mai abbastanza negletti e dichiaratiarbitrarii, poserà principalmente la critica «ideativa» cheproclamerà invece arbitraria – perchè personale e insuf-ficiente – ogni limitazione a quell'indagine veramentemoderna che, per essere completa e realmente oggettiva,non può accogliere o ammettere limitazioni di sorta alsuo compito illuminatore.

Pasqua, 23 aprile 1905.ARNALDO CERVESATO.

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IL PRIMO UOMO DELLA NUOVA ITALIA

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Il "Giorno" poema nazionale.

A Raffaello Barbiera.

I.

Se interrogassimo oggi quanti ammirano i Caratteridi Giovanni di La Bruyère intorno alle ragioni per lequali l'opera del pensatore francese ha già sfidato l'obliodi due secoli e s'accinge a trionfare sulle età future, qualrisposta potrebbero dare, se non che essa deve l'immor-talità al fatto «che della vita, della natura umana cogliecerti lati, certi aspetti veramente immutabili, perchè es-senziali, perchè profondamente congiunti dalle radicialle radici dell'essere nostro»?

Quei Caratteri, infatti, non son forse – per quanto at-tinenti a certi tempi e a luoghi ed a categorie di personeparimenti determinate – eternamente veri, tali insommache l'umanità intera, oggi come fra cento anni, possa ri-specchiarvisi e riconoscervisi sempre? Ebbene, perquanto oggi a noi medesimi possa parer strano, non fu aquesti meriti intrinseci (non possiamo affermarlo con si-curezza?) che il La Bruyère dovette la improvvisa rino-manza sua, ma a ben altro motivo, del quale la storiadella letteratura francese è chiara testimone.... Poichè le

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riflessioni filosofiche dell'autore erano illustrate da sim-bolici ritratti di persone designate con nomi chiesti al-l'antichità romana e greca, subito gazzettieri e cortigianis'accinsero ad indagini davvero curiose intorno alla na-tura dei Caratteri stessi1: vollero decifrarli quasi fosseroaltrettante sciarade, e «dopo averli spiegati a loro modoe creduto trovarne gli originali, diedero al pubblico dellelunghe liste di nomi, o, come essi le chiamavano, le«chiavi,» recando così noia tanto a coloro che vi leggo-no il loro nome, quanto all'autore che ne è la cagione in-nocente!»2.

L'arte, la ragione, il buon senso si trovavano davveroschierati in suo favore: i suoi critici davano troppo evi-dente prova di ingenuità o di mala fede, discordi com'e-rano persin nell'applicar le pretese allusioni ad una anziche ad altra persona: onde lo scrittore aggiungeva argu-tamente: «Devono pur le mie pitture indicar assai bene

1 Caractères de LA BRUYÈRE. Paris, librairie de Firmin Didot,1841. Avvertissement, par M. L. S. Auger, p. 3. «Aussitôt que pa-rut le livre de La Bruyère, la malignité s'en empara. On crut quechaque caractère était le portrait de quelque personnage connu, etl'on voulut savoir le noms des originaux. On osa s'adresser à l'au-teur lui-même pour en avoir la liste. Il eut beau s'indigner, secourroucer, nier avec serment que son intention eût été de peindretelle ou telle personne en particulier; on s'obstina, et ce qu'il nevoulait ni pouvait faire, on le fit à son défaut. Des listes coururentet La Bruyère, qu'elles dèsolaient, eut, en outre le chagrin de seles voir attribuer».

2 La stessa opera. Preface au discours prononcé dans l'Accadé-mie Française le lundì 15 juin 1693.

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l'uomo com'è generalmente, se in esse tanti particolariindividui vengono ravvisati e ciascuno crede di scorgerquelli della sua città o della sua provincia!».

Ma il La Bruyère aveva contro di sè il più formidabiledegli avversari: il tempo stesso in cui visse. La societàche lo circondava (e di cui tanta parte è nell'opera sua)era forse capace di gustar degnamente un lavoro d'arte,di riconoscere nel poeta l'elevatezza dei sentimenti, larettitudine nelle opere, quell'amore disinteressato delbello e del giusto che.... a lei mancavano?

Osservando come a chi copriva alla Corte di Franciaragguardevole carica e, unitamente al favore del monar-ca e d'una Corte onnipotente, godeva quello dei grandi edei dotti che lo vollero del loro consesso, osservandodunque come all'autore dei Caratteri così potente, cosìuniversalmente stimato e forse anche temuto, non siariuscito di far tacere la voce posta attorno da pochi mali-gni che riduceva il suo capolavoro alle proporzioni d'unlibello; qual meraviglia – convien dirlo – che in una so-cietà la quale sulle mode, sui gusti, sui costumi dellafrancese veniva foggiando i suoi, un povero istitutore astento da essa «tollerato», venisse accusato – non appe-na espose la pittura dei costumi d'una classe – di averscritto una satira personale, e nient'altro che una satirapersonale?

L'alta società milanese giudicando il Giorno nè più nèmeno come l'alta società parigina aveva giudicato i Ca-ratteri, porgeva involontariamente assai severo giudizio

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di sè; dava la misura del suo valore.... E non si riconob-be forse, così, inetta a gustar le pure armonie della bel-lezza, a comprendere la superiorità dello scrittore sugliodî meschini, sulle rivalità, sui puntigli?

Essa nel «Giovine Signore» non vide che unpatrizio... l'artista dunque aveva osservato, lavorato, sof-ferto, prodigati tanti tesori di studio e di arte, unicamen-te perchè eleganti disoccupati e dame prese dalla noiapassassero qualche oretta piacevole discorrendo e mali-gnando: «Chi sarà questo giovine signore?»

L'idea che una satira così insistente dovesse per forzaessere personale trovò – è vero – terreno ben propizionei salotti di quel «bel mondo» che fra gli scandali pro-pri ed altrui viveva e si deliziava....

La ricerca del presunto eroe del Mattino non dovettein tal frangente essere nè lunga, nè penosa.

«Non fuvvi un solo milanese – scrive infatti il Fosco-lo – il quale non abbia riconosciuto nell'eroe del poetadel Giorno il principe di Belgioioso, un individuo dellaregnante famiglia Estense e fratello maggiore del feld-maresciallo dello stesso nome».

L'asserzione foscoliana trovò contraddittori da princi-pio e in seguito.

Già l'avvocato Rejna, l'editore delle opere del Parini,aveva scritto intorno al suo poeta: «Alieno dalla mali-gnità non prese di mira i difetti di persona veruna ne'suoi poemetti, ma servì alla Storia dei costumi e delleabitudini de' tempi suoi, ne scelse i tratti più singolari e

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li dipinse al vivo colorandoli con la verità e la naturalez-za che sono proprie di tutti i tempi e di tutti i luoghi pos-sibili».

Ed il Giusti con tale calore che intoppa ne l'acrimo-nia, «dell'accusa data al Parini d'aver scritto il poema adpersonam non credo doverlo difendere, perchè questeaccuse sono miserie solite di cervellini stroppiati nelcranio, che misurano tutte le teste al giro del propriocappello, e che incarogniti nel puntiglio, nel ripicco enel pettegolume letterario e domestico non credono, chepossa essere al mondo uomo, che quando piglia la pennain mano si scordi le punture, i fastidi, le invidiole e lepersecuzioncelle che una mano di poveri cuori e di po-vere teste possono avergli create. Già il poeta vero sache prendendo di mira il tale o tal altro piuttosto che unadata forma di vizio in generale, verrebbe a restringere ilcerchio dell'arte e farebbe danno e ingiuria a se stesso: epoi lo spendere quattro righe sole per vendicarsi di cose-relle quali sono novantanove per cento quelle che ri-guardano il nostro misero noi non mi pare metta conto».

Anche il Cantù intese difendere il Parini dalla vagaaccusa che il Foscolo aveva concretata ed espressa.«Mal si pretese – scrive egli in nota al primo verso delMattino – che il Parini mirasse a descrivere piuttostouno che un altro di Sardanapali lombardi. Singolarmentesi accennava al principe di Belgioioso, che siccome perricchezza così per isquisitezza di lusso trapassava ognialtro in Milano e che si racconta ogni mese facesse venir

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da Parigi un parrucchiere pagandogli il viaggio, per farsiacconciare tre o quattro volte secondo il suo ultimo gu-sto. Però il poeta toglieva a bersagliare non un peccatorema il peccato: aveva per fine non la satira ma la corre-zione: poteva rispondere con l'Anelli: Io pungo il vizio echi sen duol s'accusa».

E contro la tradizionale accusa volle spezzare un'altralancia: «Alcuno intese che il Parini togliesse di mira unapersona particolare; e si accennò singolarmente al prin-cipe di Belgioioso, tipo degli eleganti d'allora. Il fissareun individuo repugnava non meno alle condizioni del-l'arte che alla natura di quel severo lombardo; il qualeflagellando il peccato non il peccatore discerneva i vizîdella classe dalle persone e continuò tutta la vita ad usa-re famiglie signorili». Così il Cantù, forte specialmentedelle testimonianze di persone che furono intime del Pa-rini e del vecchio poeta raccolsero le confidenze – testi-monianze e confidenze favorevoli al suo asserto – riuscìcoll'autorità del suo nome a far considerare come risoltauna questione in realtà a pena sfiorata e discussa – quan-tunque da letterati di grido – con argomenti a fatto per-sonali: – e la frase: «il fissare un individuo repugnavanon meno alle condizioni dell'arte che alla natura delParini» divenne, dirò così, l'interpretazione officiale de-gli intendimenti della satira del Giorno e stette, durantenon brevi anni, quale vero e proprio suggello posto sullaquestione stessa.

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II.

L'asserzione del Foscolo – già sepolta sotto tal cumu-lo di risposte – fu dissotterrata da Adolfo Borgognoni,ora son parecchi anni, e dichiarata, sia come documentodei tempi che qual testimonianza di illustre scrittore,non solo degna di maggior fede, ma la sola attendibile.«Fanno pensare al Belgioioso, egli scrive, molte espres-sioni, in molti luoghi del poema, che a lui ricchissimoed elegantissimo tra i ricchi ed eleganti patrizi milanesidi quei giorni, s'attagliano a meraviglia, come, per tacerdi tante altre:

Fregio ed onor de l'amoroso regno. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pupillaDel più nobile mondo.

«E a lui fa pensare l'avvertimento che il poeta dà alparrucchiere indigeno e ordinario del Giovin Signore, di

....prender legge da colui che giunsePur ier di Francia;

che parrebbe assai chiara allusione al parrucchiere cheogni mese si faceva venire il Belgioioso da Parigi.

«Non mancano altri indizi ed argomenti, in frasi edallusioni sparse pel poema, frasi ed allusioni che il letto-re messo sull'avvertita trova facilmente da sè; e nel loroinsieme hanno certo molta importanza e significazione.

«Il Pinelli dice che quando il Parini scriveva e pubbli-cava la prima parte del poema, il Belgioioso era presi-

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dente dell'Accademia di belle arti in Milano; tutto queltratto del Mattino dove è introdotto il Giovin Signore agiudicare di pittura ricordarlo e disegnarlo in chiarissi-mo modo:

È ver che tu del grande di CotroneNon conosci la scuola, e mai tua manoNon abbassossi a la volgar matita.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .Ma che non puote quel d'ogni precettoGusto trionfator che all'ordin vostroIn vece di maestro il ciel concesse...?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .Per ciò qual più ti par loda, riprendiNon men fermo d'allor che a scranna siedi,Raffaël giudicando o l'altro egualeChe del gran nome suo l'Adige onora,E a le tavole ignote i noti nomiGrave comparti di color che primiFur tra pittori.

«E a tutti gli altri argomenti e riscontri in propositoaddotti, voglio aggiungere un altro che a me pare nondispregevole. La figura del Belgioioso da alcune pennel-late del Mezzogiorno, parmi esca molto bene contornatae spiccata.

Or tu, Signore,Che feltrato per mille invitte reniSangue racchiudi, poichè in altra etadeArte, forza e fortuna i padri tuoiGrandi rendette, poichè il tempo alfineLor divisi tesori in te raccolse,

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Del tuo senso gioisci, a te dai numiConcessa parte; e l'umil volgo intantoDell'industria donato, ora ministriA te i piaceri tuoi, nato a recarliSu la mensa real, non a gioirne.

«Ho sottolineato il gioioso e il gioirne, perchè – comeil lettore perspicace ha di già inteso – io penso che il Pa-rini, con artificio non sdegnato da altri grandi artisti, vo-lesse appunto con quelle parole far sentire come un ri-chiamo, come una specie d'eco del nome di Belgioioso.Si noti bene che, più tardi, il Parini propose, nelle suevarianti manoscritte, di cambiar quelle parole coll'altreche in realtà sarebbero state sin da principio così piùproprie, come più facili da trovare, godi e godere. Ma lalezione da serbare è, per me, la prima: la proprietà quideve cedere alla storia e alla prima intenzione delpoeta».

Fin qui il Borgognoni. Ora se il Giovin Signore è real-mente il principe di Belgioioso, il Parini scelse l'indivi-duo che doveva essere bersaglio ai suoi colpi fra i ram-polli di quella che tra le famiglie di quel tempo era lapiù famosa per ininterrotte tradizioni belligere.

«È questa dei Barbiano di Belgioioso – scrive FeliceCalvi, il diligente e minuzioso storico del patriziatolombardo – una di quelle forti schiatte che dispiegaronouna persistenza prodigiosa in un ideale belligero, qualenon si riscontra nelle casate di sangue più anticamentemilanese. Scevra di opinioni radicate e libera di scrupo-li, era fatta per la vita del campo, per menar le mani, per

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comandare, mettendosi con cinica indifferenza ora congli uni, ora con gli altri alla ventura. Nel concerto dellefamiglie di Milano ha quindi quella dei Barbiano un po-sto, un significato tutto proprio che la stacca con rilievodalle altre, rappresenta, a così dire il soldato di ventura,l'instancabile irrequieto condottiero del Medio Evo, ilBajardo dopo la Rinascenza».

Ai sostenitori della tesi foscoliana (già ammiranti for-se l'opportunità della scelta per le magnifiche contrap-posizioni cui si presta) convien però far notare che l'iro-nico precettore s'affretta invece a rammentar all'alunno:

. . . . . gli ozj illustriChe insino a lui per secoli cotantiMisti scesero al chiaro altero sangue.

Gli avi del principe Alberico avevano invece sempretrovato un gran gusto nello sfidar i disagi delle guerre e,poichè questa preferenza era nelle tradizioni della fami-glia, pare che gli ozj illustri non fossero dunque il loromiglior divertimento...

Però, con un po' di buona volontà, si può anche supe-rare questo ostacolo preliminare e prendere ad esamina-re da vicino gli argomenti così magistralmente ordinatidal compianto Borgognoni, senza turbarne neppur l'or-dine.

E convien anzitutto dire che queste espressioni «fre-gio ed onor de l'amoroso regno» «pupilla del più nobilemondo» possono aver valore nel senso voluto dal Bor-gognoni solo quando risulti in realtà che il «giovine si-

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gnore» è davvero il Belgioioso. Isolatamente però, an-che se ponderate colle migliori intenzioni del mondo,non palesano alcun significato personale: l'eroe del poe-ma, per l'effetto artistico del lavoro stesso, non deve for-se essere necessariamente il più elegante, il più raffinatodei patrizi evocati?

E questa osservazione non si «attaglia» fors'anche aiversi:

Or tu, Signore,Che feltrato per mille invitte reniSangue racchiudi, poichè in altra etadeArte, forza e fortuna i padri tuoiGrandi rendette, poichè il tempo alfineLor divisi tesori in te raccolse,Del tuo senso gioisci, a te dai numiConcessa parte; e l'umil volgo intantoDall'industria domato, ora ministriA te i piaceri tuoi, nato a recarliSu la mensa real, non a gioirne.

Intorno all'allusione al gioisci ed al gioirne sia con-cessa una domanda: l'avrebbe notata o cercata il Borgo-gnoni qualora il Foscolo del Belgioioso non avesse fattoparola? È per lo meno lecito dubitarne. Troppo sottilequest'indagine fu ad ogni modo e troppo pericolosa! Echi non vede che esaminando le parole d'un lavoro qual-siasi con l'intenzione di scoprirne solo i significati ambi-gui si durerebbe poca fatica a tramutar tutti gli scrittorinostri in altrettanti autori di sciarade?

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Nè quel tratto del Mattino dove è introdotto il «signo-re» a ragionar di pittura può designar in modo alcuno ilBelgioioso, che nel 1763 – in cui uscì il Mattino – nonpoteva esser presidente d'un'Accademia di belle arti....fondata nel 1773, così che i versi

Non men fermo d'allor che a scranna siedi,Raffael giudicando....

posson riferirsi a persona che «siederà a scranna» solodieci anni dopo... unicamente essendo disposti ad am-mettere nel Parini una speciale virtù divinatrice....

Ma vi sono nel Giorno altri luoghi di maggiore, anzicapitale importanza.

Il precettore d'amabil rito ed il suo scolaro ostentanolo stesso disprezzo verso le imprese guerresche, vanto dipiù antiche e barbare età. L'ironico disprezzo del poetas'appalesa chiaramente:

....In vano MarteA sè t'invita....Oh! se te in sì gentile atto mirasseIl duro capitan, qualor tra l'armi...Su dunque, o voi del primo ordine serviChe degli altri Signor ministri al fiancoSiete incontaminati, or dunque voiAl mio divino Achille, al mio RinaldoL'armi apprestate.

Ma il Belgioioso, sappiamo, nel 1757 passava in Ger-mania a prender parte alla guerra «dei sette anni», dovefu presente ad un fatto d'armi, alla battaglia di Rosbach,

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e venne promosso generale, e fra i soldati si trovava tan-to bene che il governo austriaco gli affidò il comandodel presidio di Milano – comando che teneva ancoraquando il Mattino uscì – e, se non fu un eroe, sapeva,pare, però vestir qualcosa di più pesante e meno sofficeche non fossero «seriche zimarre» e «tiepide pelli».

Nè è a dire che manchino nel Giorno i luoghi dove lepossibili allusioni al principe di Belgioioso avrebberoavuto agio d'apparir evidenti e sicure per chiarezza eprecisione.

Quel tratto della Sera dove il «Signore» manda all'a-mico malato la carta da visita – così minutamente de-scritta – non avrebbe potuto rivelar, se ci fossero stati,gl'intendimenti personali del poeta e in modo indiscuti-bile? Leggiamo:

L'eleganteTuo dipintor può con lavoro egregioTutti dell'amicizia onde ti vantiCompendïar gli uffici in breve carta;O se tu vuoi che semplice vi splendaDi nuda maestade il tuo gran nome;O se in antica lapide imitataInciso il brami; o se in trofeo sublimeAccumulate a te mirar vi piaceLe domestiche insegne, indi un lioneRampicar furibondo, e quindi l'aleSpiegar l'augel che i fulmini ministra;Qua timpani e vessilli e lance e spadeE là scettri e collane e manti e velliCascanti argutamente.

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Essendo della Sera questi versi (vale a dire d'una par-te del poemetto la quale non vide la luce sin che l'autorevisse) si può affermare con sicurezza che non furonodettati da tardi rimorsi o da prematuri timori: possonoquindi rispecchiar limpidamente quelle «prime intenzio-ni» dello scrittore di cui appare tanto e giustamente ge-loso il Borgognoni.

Ma, lo stemma ideale dipinto dall'artista (e, notiamo-lo, così bene descritto e con tale sovrabbondanza di par-ticolari da prestarsi alla più esigente rappresentazionegrafica) non offre alcun riscontro, nemmeno parziale,con quello della famiglia Belgioioso, nel quale si cer-cherebbero inutilmente le «aquile» e mancano comple-tamente «e timpani e lance e spade» – poichè risultavaai tempi del Parini, come tutt'ora, d'uno scaccato rossosu fondo argenteo ovale, che sale nella parte superiorein una gran croce rossa e lateralmente è retto da due leo-ni rampanti e coronati, i quali posano su candide pellid'ermellino orlate da drappeggiature rosse che s'adunanoal sommo a regger una corona.

Anzi – e mi par questo particolare non disprezzabile –non solo lo stemma dei Belgioioso non offre riscontricon quello descritto nella Sera; ma esso è fra tutti glistemmi delle famiglie patrizie di quel tempo uno dei po-chissimi che mancassero e manchino di parecchi fraquei caratteristici simboli decorativi che il poeta ricordònella concezione del suo stemma ideale; così si vedeva

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…..l'aleSpiegar l'augel che i fulmini ministra

nelle «domestiche insegne» dei Villani, dei Visconti, deiBorromeo, dei Landriani, dei Casati; le aquile e i leoniad un tempo si scorgevano in quelle degli Aldifredi, deiMarinoni e dei Brambilla, mentre a quelle degli Sfon-drati, dei Trotti, dei Mandelli erano comuni

…..spadeScettri e collane e manti e velliCascanti argutamente.

Tanto era evidente nel Parini l'intenzione di prender dimira il Belgioioso! Il quale, fra le altre cose, non ebbel'occasione, neppure se ne avesse sentita voglia, di visi-tar «in Albione»

....l'aere a Venere sacre e al giocatorMercurio....

pel semplicissimo motivo, che, se viaggiò la Francia e laGermania, neppur pose piede in Inghilterra.

Notevole d'assai fra gli altri è poi quel luogo del Mat-tino assai bello ed efficace (che – noto di passata – ilManzoni ebbe certo in mente scrivendo la scena de' ri-tratti degli antenati di Don Rodrigo) dove il precettoreaddita al nobile alunno gli eminenti fra gli avi suoi.

Dice il maestro ironico:

…..alza i bei lumiA le pendenti tavole vetusteChe a te degli avi tuoi serbano ancoraGli atti e le forme. Quei che in duro dante

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Stringe le membra, a cui sì grande ingombraTraforato collar le grandi spalle,Fu di macchine autor; cinse d'invitteMura i Penati; e da le nere torriSignoreggiando il mar, verso le adusteSpiaggie la predatrice Africa spinse.Vedi quel magro a cui canuto e raroPende il crin da la nuca, e l'altro cuiSu la guancia pienotta e sopra il mentoSerpe triplice pelo? Ambo s'adornanoDi toga magistral cadente a i piedi:L'uno a Temi fu sacro: entro a' LiceiLa gioventù pellegrinando ei trasseA gli oracoli suoi; indi sedetteNel senato de' padri, e le disperseLeggi raccolte, ne fè parte al mondo.L'altro sacro ad Igea. Non odi ancora,Presso a un secol di vita, il buon vegliardoDi lui narrar quel che da' padri suoiNonagenari udì, com'ei spargesseSu la plebe infelice oro e salute,Pari a Febo suo nume? Ecco quel grandeA cui sì fosco parruccon s'innalzaSopra la fronte spaziosa, e scendeDi minuti botton serie infinitaLungo la veste. Ridi? Ei novi aperseStudj a la patria; ei di perenne aitaI miseri dotò; portici e vieStese per la cittade, e da gli ombrosiLor lontani recessi a lei dedusseLe pure onde salubri, e nei quadrivjE in mezzo agli ampli fori alto le fece

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Salir scherzando a rinfrescar la stateMadre di morbi popolari...

L'ironico maestro addita dunque all'alunno un guer-riero, un legislatore, un medico e un benefattore pubbli-co; quattro antenati che, per diverse vie, giunsero ad il-lustrare la famiglia e la patria.

Se fra gli avi del Belgioioso altrettanti potessimo tro-varne, chiari per gesta simili a quelle che il poeta ricor-da, non senza motivo si avrebbe ragione di credere cheil Parini ne avesse presenti, scrivendo quei versi, le effi-gie e le azioni ed anche di trovar nelle troppo evidentirassomiglianze fra i ritratti ideali e quelli reali la causadella negata pubblicazione a quel tratto del Mattino –che apparve, devo notarlo, primamente nell'edizione po-stuma nelle Opere del poeta – se non che.... un breveesame basta a rassicurarci che, anche se pubblicato, ilBelgioioso non avrebbe avuto motivo alcuno d'inquie-tarsene.

Poichè, quantunque egli contasse fra gli avi (comin-ciando da quell'Alidosio conte di Cunio e di Barbianomorto nel 1385 – che è il primo del quale il Calvi, cuidevonsi così ragguagliate notizie, dia cenni biografici)ben ventitrè guerrieri, e quasi tutti, ai tempi loro, di gri-do, non ne poteva, invece, fra tanti trovar uno solo che

…..da le nere torriSignoreggiando il mar, verso le adusteSpiagge la predatrice Africa

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«spingesse». Nemmeno fra i cinque suoi antenati che davarie Corti ricevettero missioni diplomatiche e comeveri ambasciatori o ministri di governi possono essereconsiderati, è noverato alcuno che le «disperse leggiraccolte» ne facesse «parte al mondo»; e il Calvi, accu-rato registratore di ben minori vanti, non avrebbe trala-sciato di notar fatto così importante per quella, come perogni famiglia. Quel grande poi

A cui sì fosco parruccon s'innalzaSopra la fronte spaziosa, e scendeDi minuti botton serie infinitaLungo la veste

è figura moralmente e fisicamente disegnata con contor-ni troppo vaghi ed ampj perchè in essa un determinatoindividuo sia, da noi almeno, facilmente riconoscibile.

Quanti patrizi milanesi non «aprirono nuovi studj allapatria» o furono deputati dell'Ospedale Maggiore, o dialtre opere pie o si trovarono fra gli eletti per stabilire iprovvedimenti sanitari richiesti dai contagi di frequenteminaccianti.... Erano le cariche ad essi soli riservate!

Ed ognuno di loro avrà avuto certo pietose iniziative,e varii certo avran beneficato gli aviti feudi; la figura,voluta, come ci sembra, dal Parini così vagamente inde-terminata, rispecchia una categoria di nobili, che, essen-do privi della passione delle armi o poco vaghi di altistudj, a mansioni pubbliche ed onorifiche dedicarono illoro tempo. E in fine, dove trovarlo quel medico che

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…..spargevaSu la plebe infelice oro e salutePari a Febo suo nume?

Fra gli antenati del principe Alberico non di certo, ilcaso avendo disposto che nessuno d'essi esercitassel'«arte salutare».

Evidentemente il Parini aveva, per una volta, sbaglia-to palazzo a dirittura!

E a tutti questi riscontri ed argomenti val la pena diaggiungerne uno ancora – l'ultimo.

Che il «Giovin Signore» non solo rifugga dall'ideadel matrimonio, anzi dall'olimpica sua altezza veda ca-duti molto in basso coloro i quali «non sdegnano dichiamarsi mariti», è cosa nota ai lettori del Giorno e leprove abbondano.

Il marito, ahi, quanto spiace,E lo stomaco move ai delicatiDel vostr'Orbe leggiadro abitatori,Qualor de' semplicetti avoli nostriPortar osa in ridicolo trionfoLa rimbambita Fè, la Pudicizia.Severi nomi! E qual non suole a forzaIn que' melati seni eccitar bile;Quando i calcoli vili del castaldo,Le vendemmie, i ricolti, i pedagoghiDi que' sì dolci suoi bambini, altruiGongolando ricorda; e non vergognaDi mischiar cotai fole a' peregriniSubbietti, a nuove del dir forme, a scioltiDa volgar fren concetti onde s'avviva

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Da' begli spirti il vostro amabil Globo.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .Il marito gentil queto sorrideA le lor celie; o s'ei si cruccia alquanto,Del tuo lungo tardar solo si cruccia.Nulla però di lui cura te prendaOggi, o Signore; s'egli a par del volgoSente la fame esercitargli in pettoLo stimol fiero degli ozïosi sughiAvidi d'esca, o s'a un marito alcunaD'anima generosa orma rimane,Ad altra mensa il piè volga e d'altraDama al fianco s'assida il cui maritoPranzi altrove lontan d'un'altra a latoCh'abbia lungi lo sposo: e così nuoveAnella intrecci a la catena immensaOnde, alternando, Amor l'anime annoda.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .Il tranquillo marito immoto siede:E nulla impression l'agita e scuoteDi brama, o di timor; però che ImeneDa capo a piè fatollo. Imene or portaNon più serti di rose avvolti al crine,Ma stupido papavero, grondanteDi crassa onda Letea: Imene e il SonnoOggi han pari le insegne.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .Un sempiterno indissolubil nodoÀguri a i vostri cor volgar cantore;Nostra nobile Musa a voi desiaSol fin che piace a voi durevol nodo.

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Ma... se il Belgioioso aveva sin dal 1757 sposataAnna Riccarda marchesa d'Este?! Questo noi sappiamoe, quel che più importa, sapeva anche il Parini, che,anzi, in occasione della nascita del loro primo figlio, nel1760 scrisse un sonetto. Via, dunque... a un patrizio, aun «uomo ammogliato con prole», come dire?

Sai che compagnaCon cui divider possa il lungo pesoDi quest'inerte vita il ciel destinaAl giovin Signore. Impallidisci?No, non parlo di nozze; antiquo e vietoDottor sarei se così folle io dessiA te consiglio. Di tant'alte dotiTu non orni così lo spirto e i membri,Perchè in mezzo a la tua nobil carrieraSospender debbi 'l corso, o fuora uscendoDi cotesto a ragion detto Bel Mondo,In tra i severi di famiglia padriRelegato ti giacci, a un nodo avvintoDi giorno in giorno più penoso, e fattoStallone ignobil de la razza umana.

E non è tempo ora che io concluda, affermando che,se nel «Signore» del Giorno il Belgioioso scorse sè me-desimo – come fu scritto che voce pubblica affermasse –mai forse artista vide tanto completamente fraintese lesue intenzioni come il Parini, allorchè dopo la pubblica-zione del «Mattino» dallo stesso principe venne fattoammonire – come tradizione vorrebbe – di non dar fuoriil «Meriggio» se pur aveva caro di veder la «sera»?

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III.

«Ma, rivolta o no contro il principe di Belgioioso,perchè non potrebbe la satira del Giorno rivestir caratte-re esclusivamente personale?».

La domanda è possibile, ed infatti la rivolse a sè me-desimo, meditando l'opera del poeta, il dottore GiuseppeAgnelli3, e vi rispose favorevolmente, affermando e ten-tando dimostrare, non senza una tal quale balda vivacità,«essere il Giorno un poema ad personam, cioè una sati-ra vera la quale ferisce direttamente uno solo».

«Sono convinto (continua l'autore) che il Parini nelmeditare il Giorno desse forma al proprio concetto pen-sando un sol giovin Signore. Che questo fosse il princi-pe Belgioioso, tipo degli eleganti d'allora, come lo chia-ma Cantù, non posso provarlo con argomenti di fatto,ma posso crederlo per la tendenza naturale della satiraalla personalità, e per le argomentazioni di analogiaonde accertai nell'animo del Parini la propensione alleallusioni personali». Veramente è peccato che l'autore,così tenero di questo suo credo, non si sia accinto a me-glio trasfondere la sua convinzione nella mente del let-tore... un'ipotesi tanto precisa lo meritava davvero –peccato dunque ripeterò, deplorando che, quantunqueparecchi episodî del poema gli sembrino «chiaramenteriferiti a persone, a luoghi, a circostanze ben note adognuno»! non ne citi, sarebbe pur stato leggero lo sfor-

3 GIUSEPPE AGNELLI, Precursori ed imitatori del «Giorno» diGiuseppe Parini, Bologna, ed. Zanichelli.

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zo, nemmeno uno solo, limitandosi a rammentar i trattipersonali della figura del Cluvieno e di altri personaggidelle Odi. Di questi episodj, cui l'Agnelli non accenna, èfacilmente possibile rammentarne parecchi; in esse veree proprie allusioni individuali (che anzi permisero aicontemporanei del Parini di ravvisarle dirette a noti per-sonaggi) non mancano: nel «preclaro mangiatore», nel«filosofo che declama contro l'ammazzar delle bestie»,nel «patrizio che si diverte solo a sfilar drappi di seta»gli iniziati alle abitudini d'una certa classe, al modo dipensare e d'agire degli eleganti più famosi, avranno cer-to con pari probabilità riconosciute determinate perso-ne.....

Anzi, come dimostrò già Domenico Gnoli, nel convi-tato che con «fanatica voce» gridava: «Commercio,Commercio!», il Parini aveva con brevità maestra desi-gnato Pietro Verri.

Ma gli episodj sono forse la parte essenziale, il tessu-to vero del poema? O non piuttosto la sua frangia deco-rativa?

Ricca e superba decorazione, è vero, ma pur sempredecorazione; cornice, elegantissima, ma non quadro, chèla tela è occupata interamente da una sola figura: il«Giovine Signore»..... Le altre figure del Poema nonavendo che lo scopo più modesto di contribuire a renderpiù efficacemente varie e caratteristiche le diverse scenein cui il protagonista appare.

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Solo adunque se in lui, nel «Signore», e non in tipi af-fatto secondarj e complementari (e spesso mute compar-se), ravviseremo chiaramente una data persona, la satiradel Giorno sarà personale; se no, no.

Ma se il Belgioioso non fu, nè potè essere – è possibi-le che sia stato qualche altro patrizio milanese il bersa-glio dell'implacabile derisore? Il Parini, che passò,com'è noto, grandissima parte della sua vita a Milano,nè mai nelle rare volte in cui se ne allontanò si spinseoltre Lodi da una parte e Como dall'altra, non ebbe oc-casione di studiar altra nobiltà fuor della milanese: nelGiorno adunque, se fosse (dato e non concesso) quellasatira ad personam, che l'Agnelli vuole, pel desideratosuccesso «di scandalo» che è scopo di simili lavori, do-vrebbero essere allusioni nette e precise a qualcuno deipiù famosi patrizi del tempo.

Nel Poema dunque queste allusioni determinate do-vrebbero trasparir limpidamente, come «festuca in ve-tro»: le principali, brevi e non frequenti se si vuole, macosì evidenti da non lasciare ambiguità sulla direzionedei colpi (e questa fu norma costante – mi pare – a tuttele satire personali di ogni tempo e d'ogni popolo): poi,se il momento sociale lo richiede, si lascieranno vagaraltre, a bella posta sfumate a contorni meno precisi, cosìche da cento diversi luoghi escano diversamente foggia-te ad alimentar colla varietà delle supposizioni lo scan-dalo discreto....

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Queste possibili allusioni non dovrebbero a dir il veroessere cercate da chi si sforza invece di provare l'impos-sibilità dell'esistenza loro.... pure, poichè «partiti presi»non esistono nella mia mente, darò volentieri un'altraocchiata al Giorno. Fra i tanti accenni a persone ed a co-stumanze che si possono riferire, e si riferiscono al pas-sato dell'intera nobiltà più che a quello d'una particolarefamiglia, la descrizione dello stemma nobiliare del Gio-vin Signore mi pare ancora un buon «punto di partenza».– Se il Parini intese colpire un patrizio milanese (e con-fido che questo l'Agnelli lo voglia concedere) in queltratto della «Sera» doveva pur scorgere il momento piùpropizio per svelar questo famoso personaggio.

La voluminosa opera: Famiglie notabili milanesi, incui di tutte queste famiglie i diligenti compilatori ripro-ducono gli stemmi gentilizi4, già l'abbiamo – non èvero? – esaminata e già ho mostrato come niuno d'essistemmi sia, nè completamente e nè pur in gran parte si-mile allo stemma del «lombardo Sardanapalo», macome molti, per non dir tutti, abbiamo con lui comunequalcuna fra le decorazioni simboliche di cui risultano.

Il desiderato «punto di partenza» sparisce inesorabil-mente... ed ora, non mi sarà permesso fare, a mia volta,la supposizione che, il Parini preoccupato dall'idea dipossibili equivoci se toglieva a copiar, così com'era, unodegli «stemmi gentilizî più noti» abbia preferito invece,

4 In Lombardia e nel secolo scorso – ripeterò col Calvi – «dirfamiglia notabile era dir sinonimo di famiglia patrizia».

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egli, che, pur senza aver loro dedicati speciali studj, nedoveva conoscer parecchi, servirsi delle più comuni fi-gure ond'erano fregiati, per foggiarne uno affatto irreale,nel quale ogni nobile e nessuno d'essi a un tempo vedes-se il proprio?

Di più, mi par tempo omai di notare un tratto del«Mattino», d'esaminar i versi del proemio stesso dell'o-pera – furono posti dal poeta pei primi, giova credere,non senza scopo; essi illuminano molto chiaramentegl'intendimenti suoi.

Rileggiamo:

Giovin Signore, o a te scenda per lungoDi magnanimi lombi ordine il sanguePurissimo, celeste; o in te del sangueEmendino il difetto i compri onori,E le adunate in terra o in mar ricchezzeDal genitor frugale in pochi lustri,Me, Precettor d'amabil Rito, ascolta.

Non sono dunque le due nobiltà, quella antica delsangue e la più recente del censo, che l'artista vuole an-zitutto fuse e confuse nell'opera sua? in questi versi nonsolo pel Belgioioso, ma bensì per qualunque altra perso-na ce n'è di troppo: la vostra nobiltà o vanta remote ori-gini, o è di data recente – aut, aut, di qui non s'esce.

E rievocando a questo punto quelle figure degli aviche il precettore addita all'alunno disegnate sulle

....pendenti tavole vetuste

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non è ora lecita e naturale l'ipotesi ch'esse rappresentinoqualcosa di più importante che non quattro persone, còl-te a caso fra i ritratti d'una galleria di famiglia?

Il guerriero difensore della patria e sterminatore deipirati di Barbaria, il giurista innovatore, il medico dottoe pietoso, il benefattore della città e degli «aviti fondi»,che l'artista tratteggia con tocchi così felici e sicuri, nonrappresentano forse – in breve, efficacissima sintesi – lanobiltà come doveva essere e come forse era stata untempo: forte, istruita, pietosa e zelante del pubblicobene; rievocata a chi essendo pusillanime e spregiava laforza che è premio ai coraggiosi – l'istruzione cui solo ivolenterosi possono aspirare – la pietà che non può tro-varsi in petti incapaci di umani propositi?

IV.

Ad Adolfo Borgognoni parve che il Giorno «fosse nèpiù nè meno che un assalto contro la nobiltà, una batta-glia contro il diritto del sangue, combattuta da un equa-litario d'ingegno e di studj elegantissimi»; «il concettoprimo – egli prosegue – intimo, il concetto madre delGiorno è, nella sua sostanziale unità, bicipite: 1. La no-biltà è in se stessa, nella sua origine e nella sua storia,una ingiustizia e una prepotenza. 2. La nobiltà contem-poranea (nella sostanza non meno ingiusta e prepotentedell'antica) nella sua forma degenerata sino al ridicolo,sino alla caricatura, manca non solo d'ogni fondamento,ma persino d'ogni pretesto storico».

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Ho voluto citare queste frasi del Borgognoni, nonperchè mi punga desiderio particolare di confutare le as-serzioni di così eletto e fine scrittore e caro e compiantomio maestro, ma solo perchè in esse si rispecchiano coneleganza e precisione insuperate, oltre a quelle dell'auto-re, le idee di un nucleo di studiosi.

E, prima d'esaminar da vicino queste asserzioni, chel'autore illustra con moltissima abilità, mi si consentaanzi di convenire con lui, e col Gnoli, che cito, che ilpoeta «spesso non flagella i costumi, ma la nobiltà, laricchezza in se stesse come contrarie alla uguaglianzadegli uomini».

È il caso di sottolinearlo quello spesso che il Gnolicosì opportunamente ha posto: da «spesso» a «sempre»non può correre buon tratto? E nel Giorno corre in real-tà, poichè, se in esso evidentissimi sono sempre i segnidi parecchie frecciate (per parlare all'antica) drizzatecontro la nobiltà in se stessa, altre pure non mancanoper avvisare che non è quello il principale bersaglio chelo sdegnoso saettatore prende di mira.

Basta considerare: il nobile laborioso e benevole –com'era ad esempio nel secolo scorso rappresentato cosìdegnamente dal gentiluomo inglese – non avrebbe, col-l'uso sapiente che dei suoi diritti e dei suoi privilegi fa-ceva, annichilito l'effetto d'una satira come quella delGiorno, che la facoltà d'essere e la ragione di diffondersilegittimamente doveva pur chiedere all'universale con-senso?

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Il Giovine Signore, adunque, piuttosto che il «cam-pione della nobiltà, di tutta la nobiltà» non sarebbe peravventura il rappresentante fedele (e come!) «d'una par-te sola» di essa, anzi d'una nuova nobiltà sorta in senoalla nobiltà stessa del secolo passato e costituitasi a sè,appunto per esser distinta non solo dal «volgo», ma dalrestante patriziato? Il campione insomma di quell'ele-gante congrega che, con parola impropria, ma espressi-va, si chiamò del Bel Mondo, per essere ascritti alla qua-le la nobiltà e la ricchezza eran requisiti necessari manon sufficienti....

Non è contro questa fortezza di carta pesta, controquest'acropoli sorta a torreggiar sulla medesima città pa-trizia, che l'artista vibra le sue punte più micidiali?

Ascoltiamolo:

....Di tant'alte dotiTu non orni così lo spirto e i membriPerchè in mezzo a la tua nobil carrieraSospender debba il corso e fuora uscendoDi cotesto a ragion detto Bel MondoIn tra i severi di famiglia padriRelegato ti giacci....

Il marito ahi quanto spiaceE lo stomaco move ai delicatiDel vostr'orbe leggiadro abitatori

quando non si vergogna di mischiar le sue «melensaggi-ni» coi peregrini soggetti

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.... onde s'avvivaDa' begli spirti il vostro amabil globo.

Però, o «Signore», ti sceglierai una compagna

Che fia giovin dama, e d'altrui sposa,Poichè sì vuole inviolabil ritoDel Bel Mondo onde tu sei cittadino5.

Agli sposi saranno concesse le tenebre e (menomale!)

....de le sposeLe caste membra; e a voi beata genteDi più nobile mondo il cor di questeE il dominio del dì,. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Tu sai infatti che non più Amore presiede ad Imene.Così che si unì

....al freddo sposoDi lui, non già ma delle nozze amante.La freddissima vergine che in core

Già volge i riti del Bel Mondo e lietaL'indifferenza maritale affronta6.

5 Che il Parini avesse cominciato per tempo a porre gli occhisul «Bel Mondo» ed a pungerlo col ridicolo, possiamo agevol-mente rilevare da un lungo, di certo, discorso da lui recitato al-l'Accademia dei Trasformati: l'autore narra certe sue fantasticheavventure (scrive il Borgognoni che lo riprodusse) in una cittàdell'India Pastinaca e più particolarmente in una villa poco distan-te dalla città, ch'è poi – e questo s'intende subito – Milano.

6 Questi versi, assieme ai precedenti, mostrano molto chiara-

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Ma l'ora del corso s'avvicina intanto – è là che il BelMondo s'è dato convegno, lo dice il poeta additandoci

....le graviMatrone che gran tempo arser di zeloContro al Bel Mondo, e dell'ignoto corsoLa scellerata polvere dannaro;Ma poi che la vivace amabil proleCrebbe e invitar sembrò con gli occhi Imene,Cessero alfine, e le tornite braccia,E del sorgente petto i rugïadosiFrutti prudentemente al guardo apriroDe i nipoti di Giano.

La «Notte» colla sua ricchissima copia d'episodj, ha ilcarattere, l'importanza d'un vero e proprio quadro di co-stumi: il Giovine Signore e la Dama si eclissano, spari-scono quasi fra quella folla di figure e di macchiette chel'artista evoca e cui dà vita e movimento per render lascena che descrive più varia, e più completa al possibile.

Quanta folla d'eroi! Tu che, modelloD'ogni nobil virtù, d'ogni atto egregioEsser deï fra tuoi pari, i pari tuoiA conoscer apprendi; e in te raccogli

mente che il poeta non intendeva confondere nè permetteva siconfondesse col «Bel Mondo» la nobiltà tutta. Se alcuno allorafra l'uno e l'altra non faceva distinzioni, se noi particolarmente(che vediamo già quei tempi così lontani) incliniamo a non farle,il poeta, testimone e giudice, volle e seppe distinguere. Daglisquarci che ho citati le intenzioni sue appaiono ben limpide: il pa-trizio che s'ammoglia, per questo solo atto contrario al primo fra iriti del «Bel Mondo», è indegno di appartenervi ancora.

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Quanto di bello e glorioso e grandeSparse in cento di lor arte e natura.Altri di lor ne la carriera illustreStampa i primi vestigi, altri gran parteDi via già corse; altri a la meta è giunto.In vano il volgo temerario a gli uniDi fanciulli di nome, e quelli adulti,Questi omai vegli di chiamar ardisce.Tutti son pari. Ognun folleggia e scherza,Ognun giudica e libra: ognun del pariL'altro abbraccia e vezzeggia: in ciò soltantoNon simili tra lor che ognun sua curaHa fra l'altre diletta onde più brilli...

«Tutti son pari». Ma pur fra tanti uno deve essereeletto ad adunare in sè «quanto di bello e glorioso egrande sparse in certo di lor arte e natura».

E il precettore non tarderà a por gli occhi su «inclitorampollo» di cui già presagì gli alti destini; a lui rivolge-rà le sue cure, lui solo inizierà nei segreti di quell'«ama-bil rito» che altro non può essere dunque considerato senon il complesso degli «inviolabili riti» tante volteomai, qui ricordati, sui quali poggiano l'esistenza e laprosperità del Bel Mondo.

E del Bel Mondo egli sarà presto il campione più elet-to, simbolo ideale e perciò tipo artistico – non indivi-duo, ma complessa ed omogenea sintesi d'una categoriad'individui, le qualità caratteristiche dei quali possiedatutte in sommo grado – sintesi perfetta ed umana.

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V.

Intorno a parecchi fra i riti del Bel Mondo si trovanoaccenni nel Giorno, più o meno evidenti. Quello invio-labile che prescrive al «Signore» una compagna

Che sia giovane dama e d'altrui sposa

già ho notato, in un coll'insistenza con cui su di esso tor-na volentieri il poeta: ma altro canone e non meno ine-sorabile del primo era pur quello che bandiva quanto sa-peva di nazionale nel linguaggio, nei costumi, nell'abbi-gliamento.

Solo nell'esotico si potevano trovare le cose pregevolie rare di cui si giovava la eletta Società.

Il «Signore» lo sa molto bene:

....Oh depravati ingegniDegli artefici nostri! In van si speraDall'incerta lor man lavoro industre,Felice invenzion d'uom nobil degna:Chi sa intrecciar, chi sa pulir fermaglioA nobile calzare? chi tesser drappoSoffribil tanto, che d'ornar presumaLe membra di signor che un lustro a penaDi feudo conti? Invano s'adopra e stancaChi 'l genio lor bituminoso e crassoOsa destar. Di là dell'Alpi è forzaRicercar l'eleganza: e chi giammaiFuor che il Genio di Francia osato avrebbeSu i menomi lavori i Grechi ornatiRecar felicemente? Andò romitoIl Buongusto finora spaziando

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Su le auguste cornici, e su gli eccelsiTimpani de le moli al Nume sacre,E agli uomini scettrati; oggi ne scendaVago alfìn di condurre i gravi fregiIntra le man di cavalieri e dame:Tosto forse il vedrem trascinar ancoSu molli veli e nuziali doniLe Greche travi, e docile trastulloFien de la moda le colonne e gli archiOve sedeano i secoli canuti.

E da ciò, natural prima cura lo studio della linguafrancese. Come potrà altrimenti l'«inclito» alunno gustartutte le bellezze delle opere di quegli autori «dal gallicoidioma» che la Moda rese celebri e dei

....mill'altri che guidaro in FranciaA novellar con le vezzose schiave,I bendati Sultani, i regi Persi,E le peregrinanti Arabe dame;O che con penna liberale ai caniRagion donaro e ai barbari sedili,E dier feste e conviti e liete sceneAi polli od a le gru, d'amor maestre?

Il libro non ardisca capitar fra le mani del «Signore»prima che con «liscia, purpurea pelle» l'abbia reso de-gno d'apparir al suo cospetto

O Mauritano conciatore, o Siro,E d'oro fregi delicati, e vagoMutabile color che il collo imitiDe la colomba v'abbia posto intornoSquisito legator Batavo o Franco.

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Ma, sorseggiati gli aromi di «indiche droghe» in tazzeparimente indiche, oppur in quelle

....che d'oro e di color diversiFregiò il Sassone industre

è tempo che anch'egli levi

La serica zimarra ove disegnoDiramasi Chinese........e che i suoi valetti al dorsoCon lieve man gli adattino le vestiCui la moda e 'l buon gusto in su la SennaGli abbian tessute a gara, e qui cuciteAbbia ricco sartor che in su lo scudoMostri intrecciato a forbici elegantiIl titol di Monsieur,

La natura e l'arte hanno schierati i prodotti del mondointero al servizio del «Signore», ma inutilmente – fraquelli di tante nazioni e di popoli così lontani – tentanofarsi strada anche i negletti della sua patria.

I profumi saranno arabi, il parrucchiere o francese oligio in tutto ai precetti di colui «che giunse pur jer diFrancia», a render più soave «l'etereo fiato» di lui siscomoderanno il Giapponese ed il Caramano, «anglica»sarà persino la lente.

I tempi intanto erano pur propizi a generosi tentativi:alla redenzione della plebe, che il secolare abbrutimentoaveva reso supinamente servile e completamente privadi quel senso di dignità che distingue i popoli liberi, adun nobile apostolato che tra menti e cuori fatti capaci

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d'intendere e sentire diffondesse l'idea che i pensatori epoeti nostri, da Dante al Filicaia, dal Petrarca all'Alfieri,si trasmisero come sacro retaggio, simili ai cursori ate-niesi i quali nelle sacre feste alternavansi correndo nelregger la fiaccola che, accesa, nella vertiginosa corsadovevan recar all'altare del Nume.

Il sacro fuoco, di cui traverso i secoli furono solitariicustodi i nostri grandi, era per divampare con nobileveemenza, mille segni stavano a presagire l'imminenzadell'incendio – l'idea di patria stava per avventurar l'u-scita fuori dei limiti dell'utopia... Non ancora per tuttoun popolo era giunto il momento dell'azione suprema, èvero, ma già d'un rumore cupo – fra le armonie leziosedei minuetti – si udiva il rombo lontano...

Ma l'elegante congrega del Bel Mondo aveva da ba-dar a ben altre cose, ed il Giorno ce ne fa palese.

Il Parini vide e sentì per tempo che erano essi, quei«Giovani Signori», col loro amabile scetticismo, conquelle leggiadre teorie epicuree, mascheranti l'inettezzae l'egoismo, il vero, l'unico ostacolo alla concezione d'o-gni elevato disegno.

Spazzata via la folla di questi eroi da boudoir, nonavrebbero tardato a sorgere in seno allo stesso patriziatogiovani lieti di sacrificare agi, libertà, vita al divino so-gno, alla grande idea d'una patria che sarà, si sarebbefatto più arditamente quel lavoro di preparazione di cuigli iniziatori – dico i Porro, i Confalonieri, i Casati –seppero, con la palma del martirio, additar nella via del-

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l'eroismo e del sacrifizio la sola strada capace di rendera libertà un popolo oppresso.

Oh, i sentimenti patriottici del Poeta, l'insistente suacura di ferir colle armi della più amara rampogna, dellaironia più atroce, lo spirito e le tendenze antinazionalidel Bel Mondo, lo sdegno con cui inesorabilmente colpi-sce gli inutili e gli abbietti, per cui non v'era redenzionepossibile, ed assale tutta l'elegante congrega così privile-giata e così impotente ad usar in modo nobile dei suoiprivilegi, non sono forse di questi patriottici sensi la ga-ranzia più efficace?

E così il Giorno inizia gagliardamente quella serie dinostre battaglie della penna e della spada che forza uma-na non riuscirà più ad interrompere prima che la vittoriacoroni i secolari sforzi....

Fu specialmente durante gli anni di quella vecchiaia,che la povertà e tante sofferenze resero così triste, che ilParini spesso, volentieri si compiaceva di vagheggiarecol pensiero una nuova êra per la patria futura...

«Se saremo liberi, diceva ai pochi intimi, avremo unalingua la quale, se non sarà affatto la primiera, sarà pro-pria, espressiva, robusta, dignitosa, perchè i popoli liberisogliono aver il tutto proprio e segnalato».

Così, vate nel senso profetico della parola, vedeva,oltre la restaurazione politica, altre mète da raggiungere,altri doveri da compiere, perchè le coscienze degli indi-vidui tutti, dalla comune favella fatta «robusta e dignito-

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sa», attingessero il sentimento profondo di nuovi altissi-mi còmpiti: «nè cessava mai d'inculcare lo studio dell'i-taliana favella, che mostrava, con finissime investiga-zioni, essere la più ricca di modi, la più armoniosa e pie-ghevole delle viventi». Caro e suggestivo questo quasiignoto episodio, non è vero?

Francesco de Sanctis, in uno stupendo saggio, alla pe-renne freschezza del quale invano insidiano trent'annid'indagini ininterrotte, dipinse con maestria la figura delpoeta che non paventò

....seguir con lunga beffaE la superbia prepotente e il lussoStolto ed ingiusto e il mal costume e l'ozioE la turpe mollezza.

«Bisognava rinnovare l'uomo, egli scrive, dargli unacoscienza ed un carattere: così poteva nascere una nuo-va letteratura. Un nuovo contenuto c'era già nelle classicolte, voglio dir un complesso più o meno chiaro e cor-rente d'idee religiose, morali e politiche in perfetta con-traddizione cogli ordini e le istituzioni sociali, che nonavevano più radice nella coscienza.

«Chi pensi che restaurare nella coscienza italiana ilmondo interiore, libertà, umanità, era ed è ancora labase della nostra rigenerazione, comprenderà GiuseppeParini.

«Più io la guardo e più mi par bella quest'armonicaimmagine d'uomo così semplice e sincera nella sua

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grandezza morale, e m'inchino reverente innanzi a que-sto primo uomo della nuova Italia».

Nell'efficace sintesi non rivive tutta la figura del poe-ta che, vagheggiando migliori tempi alla patria, dedicòl'opera sua ad una società più degna di comprenderlache non fosse quella con cui visse?

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Ripano Eupilino.

A Giulio Natali.

I.

All'Accademia dei Trasformati di Milano incontravain una delle solenni sedute del 1754 vera opposizione lacandidatura del giovane abate Giuseppe Parini.... Ad al-cuni dei rimatori che la componevano avevan dato ainervi e la «rusticità» (tanto il fare rustico, quanto l'origi-ne campagnuola) e la «causticità» del novello poeta....

Finalmente, dopo molto adoperarsi di Gian Carlo Pas-seroni, la nomina fu approvata: costretto a «trasformar-si» il «Parino» (come leggo in carte del tempo) si tramu-tò anagrammaticamente in «Ripano» e ricordando d'es-ser nato in riva all'azzurra conca del breve lago di Pusia-no, tra le colline luminose dell'Eupili, si cognominò«Eupilino». Dunque Ripano Eupilino è il Parini princi-piante, un accademico nell'esercizio delle sue funzioni,e del suo lavoro di questo periodo rimane il libro chem'accingo a esaminare7.

7 Alcune poesie di RIPANO EUPILINO. Londra, presso G. Tom-son.

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E dall'esame di questo prezioso volumetto, come daquello di tutte le opere minori di qualsiasi genio, non ri-caveremo immediati ed importanti risultati? Cioè: conuna più adeguata conoscenza dell'autore, il grado dellasua evoluzione mentale in quel momento giovanile, e,vantaggio capitale, la manifestazione delle fonti cui at-tinse negli anni primi di sua preparazione artistica. Piùinteressante da questo punto di vista l'esame del volu-metto che ho sottocchio, in edizione rarissima, che nonquello del Giorno medesimo.

Lo studio delle fonti di un'opera «geniale» serve assaipoco per un'indagine psicologica.... Il capolavoro, inquanto è capolavoro, non è necessariamente «originale»e l'indole sua caratteristica spesso in perfetta opposizio-ne con quella degli autori, qua e là incidentalmente imi-tati?

Invece, se nell'artista che si sta formando, l'idea gran-de, potente c'è, per essere apprezzata e, prima di tutto,conosciuta, ha bisogno d'una forma che le corrispondaperfettamente. Or bene, è questa forma, è quest'abitoche essa idea non è quasi mai in grado di foggiarselocosì come desidera; si trova perciò in obbligo di pigliar-ne intanto un altro.... a prestito, e questo è spesso di talnatura da sfigurarla in modo che di rado è riconosciutaper quel che è, apprezzata per quel che vale....

Perciò non inutile sarà – non è vero? – questa parcaindagine per stabilire quali autori abbiano sul Parini

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principiante esercitata tale influenza da indurlo a spec-chiarsi in essi, ad esprimere le sue idee colla loro forma.

Le poesie di Ripano Eupilino – cataloghiamole –sono novantatre, parte di esse serie (cinquantatre sonettie tre egloghe), parte scherzevoli (trentatre sonetti, tre ca-pitoli in terza rima ed una epistola in endecasillabisdruccioli).

Curiosa la prefazione, una delle ultime del genere,ove l'autore per non aver seccature – e prima di tutte unallegro auto-da-fè della sua opera... – è costretto a que-sta dichiarazione:

«Tutte le espressioni che a qualunque orecchio piùdelicato possano suonar male si attribuiscano alla libertàdella poesia sì amorosa, satirica, bernesca, o di qual'altraspecie ella sia e non già ai sentimenti dell'animo delloscrittore, che crede da buon cattolico e in ogni tempo eluogo vuol esser figliuol obbediente della SantaChiesa».

La forma della prefazione appare, anche se osservatadi sfuggita, infiorata e constellata dei soliti vezzi arcadi-ci; quindi vi sfilano – sotto un cielo alla Watteau, il Sa-cro giogo, le Fronde di lauro in Parnaso e via via. Ilpoeta annunzia però d'aver fatto una disamina rigorosadei suoi componimenti, e d'averne scelti solo pochi«non volendo colla moltitudine de' suoi pessimi versi ilsecolo nostro incomodare».

E termina:

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«Senonchè io non sento così bassamente di me mede-simo che non confidi poterci esser in questo libro parec-chi lavori, che, qual colla limatezza, alcuno colla novità,tale coll'evidenza e tal altro col particolare e nuovo suogusto, invece di noia, diletto vi porgeranno.

«Il che quantunque sia per negarmisi da certi mattiabbaiatori che, o per astio o per altra cotal loro passione,vorranno ch'io non ci abbia nulla di buono, spero chevoi, onesti e discreti lettori, confesserete esser vero, sic-come colla prova potete conoscer leggendo».

Sdegnosa quest'alterezza ed indizio buono a mostrarcome presto dalla crisalide accademica sia per balzarfuori l'indole personale del poeta alto, civile, che, super-bamente cantando.

Me, non nato a percotereLe dure illustri porte,Nudo accorrà, ma libero,Il regno della morte,

si ammanterà nella sua sdegnosa povertà come in porpo-ra di dominio.

II.

Le poesie serie (per conservar la divisione stessa delParini) si presentan subito nettamente disposte in treclassi: amorose, pastorali, traduzioni; senza alcun ac-cenno di collegamento fra loro; e su tre altri tipi d'imita-

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zione precisamente si modellano. Comincerò dalle amo-rose8.

Esse risentono tutto il fascino della lirica petrarche-sca, quel fascino che ha tiranneggiato sì a lungo ed hacondotto poi alla parodia del sentimento nella falangedegli imitatori.

Ma il Parini principiante, degli «imitatori che s'ispira-rono al cantore di Valchiusa» non è dei più volgari: latecnica del verso rivela un artefice già buon signore del-la rima. Un saggio non lo porge subito il primo sonettodella raccolta?

Voi che sparsi ascoltate in rozzi accentiI pregi eccelsi della donna miaNon istupite se fra questi siaCosa ch'attacchi il creder delle genti.Poichè, sebbene per laudarla e' tentiLe penne alzar per ogni alpestre viaQuel che meglio però dir si dovriaRiman coperto alle terrene menti.Nè sia chi dall'estremo mio doloreOnde in pianti mi struggo a poco a pocoMisuri la pietà dentro al suo cuore!

8 Nell'edizione delle Opere del Parini pubblicata da F. Rejnamancano varii sonetti amorosi dell'edizione delle Poesie di Ripa-no Eupilino, corrispondenti alle pagine:

Dalla prima alla quattordicesima, dalla diciannovesima allaventunesima, e dalla trentaseesima sino alla cinquantaduesima (latrentanovesima omessa). Gli altri sonetti e le restanti poesie furo-no ripubblicate nell'edizione del Rejna. Alcune poi di quelleomesse in essa si leggon nel volume XII delle Rime degli Arcadi.

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Perchè, quantunque in ogni tempo e locoFar mostra ì' soglia del mio grande ardoreAssai maggior ch'i' non dispiego è il foco.

Artifizio di forma, soggetto convenzionale certamen-te, ma anche plasticità di strofa e spontaneità melodicatutt'altro che mediocri per un esordiente e per di più pe-trarchista.

E così, nel seguente, come non ammirare una plasticafluidità di immagini, per quanto vetustissime ormai?

Candido in cielo e di be' raggi adornoSplendeva il sole oltre l'usato stileE vestivasi il colle e il prato umileD'ogni fior più leggiadro intorno intorno.Qual sui rami d'un faggio e qual d'un ornoOgni augel più canoro e più gentileS'udìa cantar, sicchè il più oscuro e vileFacea col canto a Filomela scorno.Per le fronde degli alberi batteaZefiro l'ali, e ogni ruscel più môndoSaltellando tra' sassi al mar correa,E con più dolce volto e più giocondoRidea Cupido e l'amorosa DeaIl dì che nacque la mia donna al mondo.

Le versioni di Catullo, Orazio, Anacreonte non porta-no alcuna indicazione speciale, però trattando alcunedelle loro più note poesie, chi ha famigliarità cogli anti-chi le riconosce subito.

Nel secolo scorso (chi lo ignora?) i traduttori s'arre-stavano alla corteccia dell'albero poetico cui volevan

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mutar terreno – cominciavan dall'epidermide e sovr'essafinivano.

La «forma!» e veniva resa colla leggerezza caratteri-stica. Qual meraviglia che così i classici venissero al tut-to svisati, e il loro pensiero umano solo, quindi, parodia-to in quelle volatine che avevano la pretesa d'esserne l'e-spressione?

Di Anacreonte gaudente e filosofo e sempre profon-damente greco, di Catullo, figura la più scapigliata dellamultiforme vita romana, di Orazio, che contempla l'esi-stenza, sempre ansioso di rimaner quasi solamente spet-tatore, allo svolgersi delle fila del destino, che fecero gliAccademici?

E che potevan farne se non trasformarli in tre cicisbeiincipriati?

Il Parini principiante non sa resistere all'andazzo e iltraduttore di Anacreonte sente vergogna degli amori delsuo poeta, e vi pon riparo, mutando sesso a Batillo chediventa la mia bella!

Rondinella garrulettaSe non taci, un giorno, affè,Io vo' far sopra di teUn'asprissima vendetta.Vo' pigliarti stretta strettaE legarti per un piè,Poi far quel che Tereo fèCon cotesta tua linguetta.L'alba in ciel non anco appareChe con querula favella

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Tu ne vieni a risvegliare.Or che dorme la mia bella,Guarda ben, non la destareGarruletta rondinella!

ANACREONTE, Ode XII.

Ed ecco l'odicina di Catullo in morte del suo cane:

Per molte genti e molti acciar condottoO mio germano, finalmente io sonoA quest'esequie miseranda addottoPer far l'ultimo a te funebre dono;E poi che te medesmo a me non buonoDestino, ahi, tolse e il tuo bel stame ha rottoIndegnamente, ohimè, vo' dir qui pronoSu la tacita polve un vano motto.Questi doni però tu accogli intantoChe ne' funêbri sacrifici offrioDe' maggiori il costume antico e santo.Questi accogli pur tu ch'assai del mioSono grondanti ancor paterno pianto,E addio per sempre, o mio germano, addio.

CATULLO, Carm. XCIX.

III.

Le poesie scherzevoli forman la seconda parte del vo-lumetto. Sono trentasette e furon tutte riprodotte nell'e-dizione «solenne» del Rejna. Esse non hanno colle esa-minate rapporto alcuno; anzi colle prime in perfetta op-

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posizione, tanto son mordaci e salate, quanto quelle in-zuccherate ed incipriate.

Così anche l'imitazione sgorga da fonti tutt'affatto di-verse, e principalmente, anzi essenzialmente: 1.° dallasatira bernesca, 2.° dalla satira popolare ambrosiana.

L'imitazione bernesca appare evidentissima.Scelgo a caso:

Voi avete a saper, buone personeCome il nostro ser Cecco è innamorato,Io dico il nostro ser Cecco Ceccone,Deh! pover'uomo ch'egli è un peccato.Egli è venuto maghero e spolpatoChe gli traluce il fegato e 'l polmoneE se gli vede andar per ogni latoTututto il budellame a processione.E caccia fuor quegli occhi e fa una ceraCh'e' par ch'egli abbia visto Satanasso,E l'orco, e la befana e la versieraE va gridando in strada; oimè lasso!Come fece Petrarca quella seraO mattina ch'e' fu tratto in conquasso:Però che giunto al passoU' quel furbo d'amor tendeva il laccioFu preso come un merlo il cristanaccio.Io dico: avaccio avaccioPerò che amor gli ha fatto una feritaCh'è larga almeno quattro o cinque dita,Onde d'aver più vitaNon ci sperare più, ser Cecco mio,Se non per un miracolo di Dio.

E quest'altra:

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Su, signor correttore, in sul nasaccioMettetevi l'occhial del GalileoE guardate un po' qui questo libraccioSe vi par ch'e' sia buono o che sia reo.L'avete visto questo scartafaccio?Egli è, se nol sapete, il galateoChe può giovar al vostro cervellaccioQuanto ad un ammalato un buon cristeo.Su via studiate, ed imparate a mente,Studiatelo, vi dico, alla maloraSe voi bramate d'imparare niente.Orsù avete imparato? Oh ditemi oraSe un asino d'Arcadia onnipotentePuò giudicar di voce alta e canora.E poi mi dite ancora,Se un correttor pedante come vuiÈ incivile, ignorante, od ambidui.

E in molte, molte altre poesie (in una s'invoca anchel'anima bizzarra del Burchiello) questo studio, questaimitazione dei rimatori satirici toscani appare evidente.

Su quest'influenza, così poco conosciuta e notata, sipotrebbero condur a termine utilissime indagini, e, giàche non posso soffermarmivi a posta, m'accontenterò dinotare anche una certa comunanza di scurrilità coi poetifiorentini; e di segnalare – sia pur di passata solo – unacuriosa novella giovanile del Parini, avente questo tito-lo:

«Baccio, pittore, dipinge sotto al bellico dell'Agnolet-ta, sua moglie, un agnellino: indi la lascia e va in Fran-cia. Ella si gode con Massimo, pittore anch'egli. Baccio

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ritorna e trova al suo agnellino cresciute le corna. S'ac-corge d'esser stato beffato e per lo meglio si tace».

Essa mostra in modo inconfutabile – sono il primo anotarlo? – che, oltre ai rimatori, anche i novellieri fio-rentini furono oggetto di studio appassionato e profondodurante un certo periodo della preparazione pariniana.

Certo, l'autore, quale noi lo conosciamo dopo averloosservato quasi unicamente attraverso la lente del Gior-no, appare in queste poesie profondamente alterato: unbrianzuolo che non s'è mai spinto più in su di Como, nèpiù a mezzogiorno di Lodi, non è, non può esser felice,secondo il più benigno degli apprezzamenti, profonden-do in riboboli, usando il linguaggio dei beceri e dei bar-bieri fiorentini....

Un altro degli elementi della satira pariniana, a parermio, fra i più importanti, è l'ispirazione della tradizioneambrosiana, di quella finissima ironia tutta locale, ond'ècaratteristica la letteratura dialettale lombarda.

Il carattere locale dell'arte del Parini fu già notato dalCarducci con quella sua frase fortunata, in cui dice delpoeta: «Mai, o quasi, allungò lo sguardo oltre i tigli diPorta Orientale...», ma pure merita studio assai profon-do, come quello di cui tutta l'opera del poeta, e per lanascita lombarda e per la continua e quasi esclusiva di-mora sua in Milano, è veramente imbevuta.

Quest'ironia ambrosiana balza poi in tanti punti fuori,con tale e tanta precisa loquela, dalle locali scaturigini,

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che il pensiero va subito al suo massimo interprete e sin-tetizzatore: Carlo Porta.

E davvero fra il Parini ed il Porta un «parallelo» nonancora tentato, potrebbe esser condotto a termine e confortuna; troppe essendo le analogie fra i due poeti cosìnel carattere della vita come nella materia e nella formadell'arte loro.

E così, per trattar solo delle principali: comune è inloro l'avversione alla nobiltà – basta ricordare la donnaFabia e la marchesa Travasa del Porta, tanto che persi-no nei particolari la vergine Cuccia trova un riscontronella Lilla – così, in arte, il Parini e il Porta son combat-titori della falsa unità di stile, e per i diritti del dialettosostengono entrambi due fiere polemiche, il primo colBranda, col Giordani il secondo.

Amanti della grossa facezia troviam pure i due artisti,anzi dello stesso tipo di facezia... E al disopra poi deiparticolari non stanno forse tuttavia le loro opere, le loroazioni, le loro attitudini a segnare un'unione, un'armoniaancor più intima di quella che dalle sole apparenze sipossa giudicare?

E, fra le poesie vernacole del Parini, questo sonettonon è veramente stupendo per quella che si potrebbechiamare «fattura portiana» e tale che il gran meneghinoavrebbe noverato fra i suoi migliori e più caratteristici?

El magon dij damm de Milan per i baronad de Franza.

Madamm, g'hala quaj noeva de Lion?Massacren anch'adezz i pret e i fraa

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Quìj soeu birboni de Franzes che han traaLa legg, la fed, e tutt cosa a monton?Cossa n'è de colù de quel Petton9

Che 'l pretend con sta bella libertàaDe mett in semma de nun nobiltàaE de nun Damm tutt quanti i mascalzon?A proposit: che la lassa vedèQuel capell là, che 'l g'ha dintorna on vell;El sta inventaa dopo che han mazzà el Re?Ell el prim ch'è rivaa? Oh bell! Oh bell!Oh i gran franzes! Bisogna dill, no ghèPopol, che sappia fa i mei coss de quell!10.

Così, ampia e diffusa, mal celata dalle imitazioni ar-cadica, accademica e bernesca, circola anche nelle Poe-sie di Ripano Eupilino la vena salubre della gagliardaironia popolare e fa accennar quelle velate arguzie,eromper quegli sfoghi di sdegno che troveranno poi l'a-pogeo geniale e perfetto nel Giorno.

9 Era il Pethion, il presidente della Convenzione Nazionale.10 Le furfanterie dei Francesi e il rammarico delle dame di

Milano. «Signora, ha notizie da Lione? Continuano sempre amassacrar preti e frati quei suoi birbanti di Francesi che han rove-sciato la legalità, la fede e ogni cosa? Che n'è di quel tipaccio diPethion che, colla sua pretesa libertà, vorrebbe di noi nobili edame far un fascio coi mascalzoni d'ogni sorta?

«A proposito, mi lasci un po' vedere quel suo cappello che haun velo in giro! Dopo l'uccisione del Re fu introdotto, non è vero?È il primo giunto qui? Oh quant'è bello! Oh i gran Francesi! Con-vien pur confessarlo, che non v'è popolo che sappia far meglio diquello!».

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E se nelle poesie satiriche che al capolavoro serviran-no di prefazione si può trovare, e l'affermazione, pur senuova, ben so, non è avventata, un riscontro preciso atutti i periodi della satira italiana che si succedettero,sino a quella del Giorno stesso, nel poemetto immortale,sacro alla Moda, noto con sicurezza una completa tra-sformazione degli elementi arcadici, rivolti contro lorostessi.

Così il verso sciolto diventa bello in quanto «è satiradel verso sciolto stesso» onde, considerato in tal guisa,di lezioso e gonfio si fa incomparabilmente sottile esquisito – così quella mitologia decorativa, veramenteda sipario, che infiora il poema, è arma ritorta contro l'a-buso della mitologia stessa....

E come il capolavoro della maturità pariniana è unasplendida affermazione, anche il volumetto che ho esa-minato, traendone conclusioni non so di quanto peso,certo mie e nuove in gran parte, questo volumetto è unapromessa che sarà presto mantenuta.

Poichè presto ogni artificiosa e grossolana imitazionesgombrerà dalle poesie satiriche del Parini e la Musa,assurta a volo valido ed alto, all'ellenica venustà delle li-riche amorose, darà, severa compagna, la grandezza ci-vile delle Odi, altorilievi della base, degno sostegno almonumento del Poema perfetto.

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Il Parini e gli Enciclopedisti.

A Giorgio Sinigaglia.

Quando, nell'incalzarsi di avvenimenti che commove-vano l'Europa tutta, il Primo Console, fra le acclamazio-ni di due popoli, scese in Italia coi suoi sansculottes, iquali venivano apportatori di libertà e di fratellanza, innome delle dottrine stesse degli Enciclopedisti – non fuallora un generale entusiasmo in tutti i liberali, i qualiplaudivano ai coraggiosi militi della causa dei popoli?

La benevola famigliarità dei Francesi contrappostaalla burbera baldanza degli Austriaci; quegli editti chepromettevano la ripristinazione della giustizia e seminatidal Condottiero persin nei più umili borghi, non poteva-no che sollevare sino al delirio gli animi degl'Italiani....

Allora il Foscolo scriveva l'ode «a Bonaparte libera-tore»; allora l'Alfieri, quantunque odiatore dei Francesie sempre aristocratico nei costumi, era in fama pei suoiversi rudi e gagliardi; ed il Monti, a scusare la servile af-fezione portata alla casa d'Absburgo, si ingegnava a mo-strar ai nuovi affezione ancor più servile; ed al solito pa-trioti e scrittori li seguivano, e parve che allora si ride-stasse improvvisa la fiamma patriottica nei petti italia-ni....

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** *

In Milano stessa una nobile schiera di giuristi e dipoeti assecondò questi moti, e il Parini e Pietro Verri fu-ron chiamati all'amministrazione della città, degna ri-compensa agli illustri che dignitosamente avevano affer-mate idee che potevano solamente arrecar dispiaceri, equalche cosa di più, specialmente al Parini, povero nonsolo per metafora.

Degno premio al Parini!Non aveva egli attinto il materiale del suo lavoro a

quelle medesime fonti di carità e di giustizia su cui sibasa la filosofia degli Enciclopedisti, ed in ispecialmodo del più disprezzato – diciamolo, la storia del pas-sato non è una opinione – di essi, G. G. Rousseau?

Non a caso ho scritto il più disprezzato.Il Voltaire era ricco, godeva dell'amicizia del grande

Federico, era uno dei «tre uomini più insigni del suotempo». Il Diderot anch'esso era ricco, acclamato da pri-vati, da accademie, da sovrani, mentre il Rousseau eraconosciuto soltanto... in quanto era fatto segno all'invi-dia generale, ed in particolare a quella dei filosofi con-temporanei, i quali, non appena s'accorsero che il gine-vrino si poneva in lizza con loro e forse stava per supe-rarli, lo perseguitarono con una guerra indegna di tantiuomini.

E, poi, le crociate che tutti gli Stati bandivano contro«l'eretico» Rousseau?

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Il Parini, disgraziato ugualmente, volle più degna-mente inclinarsi a colui che scontò con inaudite soffe-renze materiali e morali l'avere osato scrivere che gliuomini dovrebbero essere liberi, e sono in ceppi; che laviolenza e il furto si chiamano diritti.

Il Rousseau aveva scorta in tutta la Francia una corru-zione che partiva dalla reggia – una corruzione fomenta-ta dall'aristocrazia e che costava enormi spese.... – e fi-losoficamente demolì questa società colla Nuova Eloisa,ad essa contrapponendo la storia d'un amore altissimo,ideale, quale soltanto gli uomini grandi possono sentireed ideare.

Coll'Emilio studiò poi l'origine d'alcune piaghe socia-li, e biasimò vivacemente quegli usi suggeriti dalla cor-ruzione alle ricche che non curavano, nè infondevano aifigli l'affetto, lasciandoli in braccio prima delle balie epoi dei pedagoghi: indi, dopo aver abbattuto e politica-mente e socialmente, ricostruì col Contratto sociale unnuovo sistema di governo pratico insieme ed ideale,come la ragione – in sua veduta – richiedeva.

Il Parini invece attese soltanto a demolire, e rifuse tut-te le sue più grandi idee nel Giorno, che volle specchiofedele di quella vita frivola, la quale non abbisognavache d'esser ritratta per esser giudicata.

Scrissero gli Enciclopedisti in genere, e il Rousseauin ispecie, essere gli uomini uguali (idea che, quantun-

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que antica, lo è meno del privilegio che la sostituisce...)e il Parini insegna al giovin signore:

Ma guardati, o signor, guardati, oh dio!Dal tossico mortal che fuora esalaDai volumi famosi; e occulto poiSa, per le luci penetrato all'alma,Gir serpendo nei cori; e con fallaceLusinghevole stil, corromper tentaIl generoso de le stirpi orgoglioChe ti scevra dal volgo. Udrai da quelliChe ciascun de' mortali all'altro è pari;Che caro alla Natura e caro al CieloÈ non meno di te colui che reggeI tuoi destrieri, e quei ch'ara i tuoi campi,E che la tua pietade, il tuo rispettoDovrien fino a costor scender vilmente.Folli sogni d'infermo! Intatti lasciaCosì strani consigli; e sol ne apprendiQuel che la dolce voluttà rinfrancaQuel che scioglie i desiri, e quel che nutreLa libertà magnanima. Tu questoReca solo a la mente; e sol da questoCerca plausi ed onor...

Ed altrove:

....Odi, o signore.Sonar già intorno la ferrata zampaDe' superbi corsier che irrequïetiNe' grandi antri sospigne, arretra e volgeLa disciplina dell'ardito auriga.Sorgi e t'appresta a render baldi e lietiDel tuo nobile incarco i bruti ancora.

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Ma a possente signor scender non liceDa le stanze superne infin che al geloO al meriggio non abbia il cocchier stancoDurato un pezzo, onde l'uom servo intendaPer quanto immensa via natura il partaDal suo signore....

Il Rousseau nelle sue Confessioni, il libro – non vipare? – più sincero che uomo abbia mai osato comporre,narrando della miseria dei contadini, scrisse parole chesi ponno fedelmente riassumere nel seguente ammae-stramento che il Parini dà al suo alunno:

....Qual anima è volgar la sua pietade,All'uom riserbi e facile ribrezzoDèstino in lei del suo simile i danniI bisogni e le piaghe....

E il Parini rincara la dose, esclamando a coloro chestanno elemosinando alla porta dei ricchi:

....Egri mortaliCui la miseria e la fidanza un giornoSul meriggio guidaro a queste porte;Tumultuosa, ignuda, atroce follaDi tronche membra e di squallide faccie,E di bare e di gruccie, ora da lungiVi confortate, e per le aperte nariDel divin pranzo il nettare beateChe favorevol aura a voi conduce;Ma non osate i limitari illustriAssediar, fastidïoso offrendoSpettacolo di mali a chi ci regna.

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In fine, biasimando il filosofo ginevrino, l'uso invalsodi far allattare i figli dalle balie, così il Parini esorta ilgiovine alunno, parlandogli della dama:

....Serbala, oh dio,Serbala ai cari figli. Essi dal giornoChe le alleviaro il delicato fiancoNon la rivider più; di ignobil pettoEsauriro i vasi, e la ricolmaNitidezza serbaro al sen materno.

Bàstimi l'aver citato questi pochi esempi, e il ricorda-re come i due grandi alla causa, della quale volli prece-dentemente narrare gli effetti, consacrarono le forze dilor vita e di lor arte.

Tuttavia, se al nome del Parini ora s'accompagna ge-nerale venerazione, mentre quello del Rousseau è anco-ra, sia pur nei ritrovi intellettualmente «borghesi» («fili-stei» direbbe l'Hume) discusso e offeso.

Sono le ingiustizie della storia....

** *

Vediamo ora il Parini e il Voltaire.Il Voltaire è scrittore che basta da solo a dar un'esatta

idea di tutto il secolo XVIII, dell'età, dunque, in cui allearti rispecchianti fasto e frivolezze sottentrò la letteratu-ra degli Enciclopedisti, diffonditrice di dottrine da secoliaspettanti il loro svolgimento. In lui, pur considerandola sua molteplice figura di artista, di filosofo, di critico e

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di storico, furono ben presto studiati due uomini: il cor-tigiano ed il pensatore.

«Profonda – scrive il Bovio – si manifesta la differen-za tra il primo ed il secondo Voltaire, quanta tra una ge-nerazione che chiude un periodo risoluto, ed un'altra cheprepara un periodo nuovo».

Accennare al momento in cui il filosofo spregiudicatoprese il posto del letterato ossequiente a tutte le scuole,è forse cosa impossibile; facilmente però si può intrave-dere nelle opere del pensatore di Ferney, l'artista che conarditezza, per un'evoluzione lenta, ma incessante dellasua mente, si fa strada, prima ribellandosi ad un'idea,poi ad una scuola, di guisa che già «in quel primo Vol-taire, in quel cortigiano campato fra le massime di Féné-lon ed i precetti di Baldassare Castiglione, più che spes-so tra verso e verso scoppiano il motto dell'enciclopedi-sta e l'impertinenza del tribuno».

«Ebbene quell'impertinenza è ciò che trascende, ciòche interrompe la volgarità antica e comincia a scuotereed a far pensare e ad accusare nel festeggiatore delle fa-vorite del re il filosofo ed il critico futuro».

E la Francia acclamò continuamente colui che fu«l'intelletto del secolo XVIII» poichè egli, per mirabilecoincidenza, si trovò sempre a corrispondere al senti-mento dei tempi che continuamente si modificavanocome il suo pensiero irrequieto. Il quale a tutte le formedell'arte volle piegarsi; ma riuscì grande e mordacissimo(è noto) eopratutto nella satira, in una satira fine, ineso-

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rabile che accenna ovunque, ora aperta, ora celata: la sa-tira dell'uomo che atteggiava le labbra ad un sorriso cheil Bovio felicemente chiama caustico e derivava dalla«celia di Boccaccio trasformatasi nell'ironia sottile de'poeti cavallereschi e nel ghigno, che vuol parer festevo-le ed è amaro, di Tassoni» in quella stessa guisa che lasua filosofia non era se non la conseguenza degli sdegnidi Arnaldo da Brescia, di Dante e del Savonarola, delleriforme di Martin Lutero e di Calvino e del panteismo diGiordano Bruno, che avevano successivamente colpitola religione sino ad annientare completamente il dogma.

** *

Di natura affatto contraria fu – è noto – la satira delParini.

Essa fu la satira veramente classica del poeta che,contemplava lo sfacelo d'una società corrotta e ne affret-tava la morte, fu il verbo di una di quelle grandi animeantiche cui sorrideva una grandiosa mèta, alla quale sisacrificavano, pur scorgendola lontana e foriera intantosolo d'amarezze e di patimenti.

Il Parini, che pur fu dei primi che in Italia facesseroproprie le nuove idee affermandole solennemente nelGiorno, se accettò e seguì alcune massime di G. G.Rousseau, non volle ammirare le dottrine del Voltaireforse perchè troppo in contrasto colla comoda vita, cheglielo fece chiamare:

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....il morbido AristippoDel secol nostro....

Perciò l'indole della satira pariniana, dove il poeta ci-vile talora abbandona le armi della satira per prenderequelle dello sdegno, è assai dissimile dalla volteriana, incui domina sempre più o meno acuto il sogghigno me-desimo; non derivano esse da due fonti troppo lontane,che ebbero differente corso?....

Gli stessi caratteri dei due scrittori servono a mante-nere più vive le dissimiglianze che regnano nelle loroopere; ed alcuni esempi, che verrò citando, serviranno aprovare come il Parini non si trovasse mai d'accordo nècol Voltaire cortigiano, nè col Voltaire pensatore.

Allorquando al Parini fu annunziato averlo indicato ilgoverno austriaco a commemorare Maria Teresa, egli sidichiarò incapace a trovar idee per quel panegirico:

«Io non trovo veruna idea soddisfacente su cui tesserel'elogio dell'Imperatrice: ella non fu che generosa e do-nare l'altrui non è virtù».

E vi son altre differenze. Così, se un Voltaire colla suaHenriade scriveva il poema della cortigianeria, l'altroVoltaire chiamava infame il Cristo....., mentre il Parini,sedendo a consiglio in Municipio e vedendo alcuno le-vare un Gesù affisso alla parete, «ebbene, gridò, ovenon c'entra il cittadino Cristo, neppure io ho a chefare»...

«Non la perdonava – copio il Cantù – a quegli eccle-siastici che deponevano i segni della loro dignità e spes-

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so coi segni la dignità, e negli ultimi anni, già cieco,quando l'abate Carpani andava a visitarlo, gli palpava ilcollo per sentire se portasse ancora il collare».

Non sia meraviglia dunque se il Parini, che chiamavail Rousseau:

....Il novoDiogene dell'auro sprezzatoreE della opinione dei mortali

apostrofi invece il Voltaire in questo modo:

O de la Francia Proteo multiforme,Scrittor troppo biasmato e troppo a tortoLodato ancor, che sai con novi modiImbandir ne' tuoi scritti eterno ciboAi semplici palati, e se' maestroDi color che a sè fingon di sapere;Tu appresta al mio signor leggiadri studiCon quella tua fanciulla, all'Anglo infesta,Onde l'Enrico tuo vinto è d'assai,L'Enrico tuo che invano abbatter tentaL'italïan Goffredo, ardito scoglioContro a la Senna d'ogni vanto altera.

Concludendo questo breve raffronto, dirò; lodato ebiasimato fu ai suoi tempi il Voltaire; ai nostri sia lodatosolamente, e nel secolo che è trascorso si sia appreso aobliare quanto ancora potrebbe offuscare la memoria delfilosofo, come si lasciarono fra i ciarpami del passatovarie poesie del Parini che sapevan certamente più dellamaniera del... Frugoni che di quella di Marziale. E cosìla dimenticanza in cui i posteri hanno lasciato i primi

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saggi di Ripano Eupilino e le opere giovanili del corti-giano di Luigi XIV, serva oggi a far spiccare più mae-stosamente i nomi di Giuseppe Parini e di Arouet deVoltaire.

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IL PRIMO UOMODELLA NUOVA EUROPA

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L'«indifferenza» del Goethe.

Ad Arturo Graf.

I.

Al cospetto della «consolatrice suprema» quegli uo-mini di genio – che la sorte volle incompresi dai con-temporanei – si rallegrano:

Morte sol darà lor fama e riposo.

D'altra parte, i vincitori superbi, i trionfatori indiscus-si, pensando alla seconda e secolar esistenza che dalgiorno stesso della lor morte avrà principio per l'operacui affidarono il nome, non possono non riflettere: qualefisonomia assumerà essa, quando l'atmosfera intellettua-le, che fu propizia alla sua nascita e ne protesse lo svi-luppo, si troverà ad essere dileguata completamente, elodi e censure, manifestazioni d'odio e d'affetto, saranobliate del tutto; mentre intorno alla lor vita ed al mo-mento storico che fecondarono di loro attività, forse nontutte le notizie potran dirsi chiare e sicure? Devon purriflettere anch'essi a questo momento e.... non senza ap-prensione: la posterità, si può ben affermarlo, vuole ilgiudizio breve, ama la frase sommaria che degli uomini

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celebri esprima con una sola parola – come nelle classi-ficazioni scientifiche – la qualità dominante...

Non si può negare che queste frasi fatte (le quali sor-ton spesso singolar fortuna, diffondendosi assai più va-stamente che lor virtù non consenta) siano spesso in ri-spondenza – approssimativa – colla verità storica; ma adogni modo esse riescon soltanto l'espressione di una fa-coltà d'una qualità la quale si può chiamar dominante èvero, ma che pur non è la sola.

Una delle caratteristiche più sicure del genio non èforse appunto il contrasto incessante che passioni e ten-denze molteplici e diverse in lui si combattono – contra-sto che gli consente di individuarsi nei più svariati, anzinegli «opposti» tipi dell'umanità – e non è una tradizio-ne, troppo spesso affatto indipendente dal valore e dalcarattere dell'opera loro, quella che si arroga il vanto diconservare e tramandare attraverso i tempi la fama degliartisti?

Ma a questa tradizione fantasticatrice dei molti, lagloria stessa dei grandi esige che dai capaci sia contrap-posta la verità storica, quale traluce dalle sicure testimo-nianze, dalle deduzioni rigorose, dalle induzioni logi-che. Forse non meno splendide delle convenzionali au-reole popolari sono quelle che rifulgono di luce sicura epropria?

Il Goethe previde colla sua nitida chiaroveggenza che«popolare» – nel vero senso della parola – egli non sa-rebbe mai stato; ma, se popolare non fu mai e chiamar

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tale neppur oggi si può davvero la colossale e moltepli-ce e anco armoniosa opera sua – pur l'autore è universal-mente noto ed ammirato... è dunque necessario afferma-re che la maggior parte dei suoi ammiratori conoscesolo per riflesso, per nozioni altrimenti avute, l'opera ela figura dell'artista? E, volendo ampliar la questione, sipuò chiedere: Fra gli stessi attenti lettori d'un poema od'un romanzo, come fra gli spettatori d'un dramma ed ivisitatori di una Galleria, quanti posson dir di trovarsinelle condizioni di cultura, nelle disposizioni d'animoche consentano di avvicinarsi all'artista con quel pensie-ro «simpatico» solo al contatto del quale egli si svelacompletamente?

Non meravigliamoci adunque che intorno a questa fi-gura – la quale pur appartiene alla storia contemporanea– leggende siano sorte e che, non ostante la ricchissimabiblioteca di studj e di comenti a essa dedicati (studj ecomenti spesso troppo eruditi e minutamente, e qualchevolta, mediocremente analitici per poter aspirare allacomprensione di alte sintesi), varii anni or sono MicheleKerbaker abbia dovuto intervenire da pari suo, con unostudio dei più magistrali che vanti la nostra letteratura, achiarir quel famoso «eterno femminino» (das Ewigwei-bliche) che simboleggia pur tanta e così singolar partedel pensiero goethiano...

Quale stupore dunque che – simile alle accuse infamicon cui si tentò perseguitar il Byron in vita e la sua me-moria dopo morte – intorno al poeta tedesco, tuttor vi-

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vente, siasi formata quella leggenda dell'«indifferenzagoethiana», ignobile leggenda che lo rappresentava in-sensibile e senza fede, senza cuore e crudelmente egoi-sta, sempre superbamente avvolto nel manto dell'impas-sibilità più costante?

La superiorità del genio non può, è vero, essere facil-mente perdonata; troppo alto dono è, e troppo bello pareperchè non susciti l'invidia e l'odio dei mediocri impo-tenti e inattivi: che, se il fascino delle creazioni artisti-che sa render vani non pochi sforzi ostili, non per questoplaca la malevolenza dei pochi che si sanno sorretti dalgusto iconoclasta delle moltitudini, e, studiando il carat-tere d'una persona o d'un'opera, giungono a scoprir queitratti – immaginarj, se volete, ma pur aventi verisimileapparenza di realtà, che possono cooperare a renderlapoco simpatica....

Nella figura del Goethe tali linee ingannatrici nonmancano: anzi sono così marcate, a dir vero, da consen-tire anche a osservatori leali di affermare come quest'in-differenza – che gli vien tuttora rimproverata – fosse purparte tangibile dell'indole sua: la volubilità dei suoiamori, i suoi scarsi entusiasmi per rivoluzionari e belli-geranti d'ogni sorta, la sua esistenza così metodica – da«geheimrat» assai più che da poeta – l'arte, la medesimasua poesia non sempre abbastanza «inevitabile» congiu-rano a far credere ai molti che questa maschera dell'im-passibilità, di cui ricopersero il viso del poeta accuse, di

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cui è quasi impossibile seguire il sotterraneo corso, siafedele imagine del suo volto medesimo.

** *

Ma del Goethe rimangon pure le opere, ed a queste fi-glie della «meditazione rivelatrice» egli confidò quantonon volle dire alle persone che lo circondavano o ad im-portuni visitatori. «Ciò che non molesta – egli ha scritto– (Dichtung und Wahrheit) che di passata gli uomini or-dinari, i quali non usano osservarsi, i migliori lo notanoe lo affidano con cura ai loro scritti». E gli scritti suoirestano a testimoniare come l'anima dell'artista fosserealmente – al pari di tutte le grandi anime – superioreall'ingiuria, all'ingiustizia, al dolore, allo scherno e «sa-rebbe parsa veramente invulnerabile se non fosse stataaccessibile alla compassione».

II.

La tarda età cui il Goethe pervenne, il carattere delleoccupazioni della sua virilità e della sua vecchiaia coo-perano, è vero, a darci l'illusione che tutta la vita delpoeta sia pressochè simile a tale lungo periodo di suaesistenza, periodo tranquillo e sereno in cui pare chesull'artista il consigliere granducale ed il naturalistaesercitino irresistibilmente una duplice pressione: l'uo-mo maturo fatto serio e grave, sembra specialmente pre-occupato di mostrar nei ricordi – quali va evocando e af-

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fidando alla carta – quanto il ritratto di sua giovinezzafosse poco dissimile da quello che la virilità e la vec-chiaia presentavano.

Ma la sua giovinezza noi la conosciamo meglio diquel che egli non l'abbia narrata: le sue avventure e lesue creazioni, le sue lettere e le sue stesse memorie re-stano a testimoniare quanto tumultuosa essa fosse; ecome intensamente il poeta – vera sensitiva dell'amore edel dolore – abbia conosciuto le ipocondrie più cupe e lecrisi più snervanti accanto alle gioie dell'amore ed alleestasi dell'arte.

Tanto che, se il Goethe fosse morto prima di compie-re i trent'anni; non forse a noi – a traverso il Goetz ed ilWerther – il suo nome, oggi simbolo di olimpica sereni-tà, parrebbe degno di trovar posto accanto a quello di unByron, d'un Shelley, di Giacomo Leopardi?

Son le opere sue impagabile e inconfutabile docu-mento (e tanto sacro da potersi e dover contrapporre vit-toriosamente anche alle tarde resipiscenze dell'artista),sono i lavori della sua giovinezza che restano a consen-tirci di giudicare i sentimenti del poeta, tanto più esatta-mente quanto maggiore, ampio e favorevole cementoessi trovano nei minori documenti illustrativi di quel pe-riodo della sua vita.

Due eroi restano a simboleggiare due ben distinti pe-riodi di quella giovinezza: Goetz von Berlichingen eWerther.

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Goetz von Berlichingen, nobile figura di cavaliereche non conosce bassi compromessi ed azioni sleali, ilquale sfida arditamente ogni ostacolo per compiere undovere che la coscienza gl'impone, è, e non può essereche un ribelle.

Egli è l'uomo «che i principi odiano ed a cui si rivol-gono gli oppressi. Chiedon pace e riposo questi principi(esclama), lo credo bene: è quanto chiede ogni uccellocarnivoro per divorar comodamente la sua preda». Ealla vigilia di una lotta micidiale, mentre i suoi militigridano: Viva la libertà! «Se essa ci sopravvive – sog-giunge – possiamo morire in pace, poichè collo spiritovediamo felici i nostri discendenti». E muore invocandola Dea cui ha sacrata la spada; ma l'ultima parola svela ilpensiero amareggiato da nequizie e tradimenti. «Chiu-dete i vostri cuori con maggior cura delle vostre porte, itempi volgono propizj alla frode....».

Non forse il giovane Goethe compiacendosi di descri-vere «i cavalieri di ferro, i vecchi castelli, la lealtà, laprobità, la cordialità e sopratutto l'indipendenza dei per-sonaggi» pare senta che da quel mondo ideale dovrà al-lontanarsi fra breve? Il grido doloroso del suo eroe ce neavverte: «i tempi son propizj all'inganno», il ribelle me-dievale avrà presto un compagno nel ribelle moderno.

In quel grido dell'eroe morente forse è da scorgere l'a-nello di congiunzione fra due opere così diverse, qualisono il Goetz ed il Werther. I tempi sono malvagi – forse

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è «la vita» di ogni tempo che è triste – ma il poeta devealfine farsene persuaso....

Perchè lo obbligate ad abbandonare il bel castello dinobili propositi ove abita la sua mente? Egli andrà er-rando, errando senza posa, vedrà tutti i mali che non co-nobbe – o pur voleva ignorare – li vedrà più brutti ancodi quel che siano (era tanto bello, tanto ameno, tantoconforme all'indole sua il soggiorno eletto dove non lolasciaste tranquillo!) e piangerà sugli incanti svaniti esulle nequizie apparse, s'adirerà dovendo assistere agliinutili livori ed alle basse passioni di quell'umanità cheegli si compiaceva vagheggiar alta e pura al pari di sèmedesimo.

Werther è un ingenuo, un illuso: e la sua lacrimevolestoria è quindi alla sua volta qualcosa di più che la storiad'una semplice passione infelice. Egli, che ha l'animoschiuso ad ogni generoso sentimento, non vuole rasse-gnarsi ad adoperar le medesime armi di cui si serve lamaggior parte degli uomini; – non sa e non vuole com-prendere che, poichè la vita è crudele, chi s'accinge alottar con essa deve pur far sua questa qualità della ne-mica, e.... resta saldo alla sua chimera come il naufragoallo scoglio.

Così «la irrequieta tempra del suo carattere che nonsa tenersi celata, nè rimettere», sta per essere spezzata inun combattimento disuguale.

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È noto (devo ricordarlo per necessità di esame) comead ogni anima sensibile l'alba della giovinezza giungaapportatrice di una luce novella, così radiosamentesplendida da trasformar completamente il quotidianospettacolo dell'esistenza.... Non forse, in tale istante, tut-te le inclinazioni d'un cuore puro prendono una direzio-ne affatto ideale, e l'adolescente nella donna scorge solol'immagine sensibile della bellezza, negli uomini altret-tanti fratelli ed amici, e nell'armonioso spettacolo checontempla, solo un preludio a quelli che gli si offrirannoin seguito, tutti soavi, armoniosi, ridenti?

Ed egli ignora che oltre la ubertosa pianura stan ampjdeserti inospitali a pena celati dalle feraci colline; neiboschi, nei prati stessi, fra l'erbe rigogliose ed a' piedidegli alberi occhieggiano serpi e vampiri....

Solo più tardi l'esperienza fa noto anche ai visionaripiù ostinati l'esistenza di umani cui non fragranze pri-maverili, nè magnificenza di luci inattese, nè purezza dicieli od infinito di mari riusciron mai a distrarre un solomomento, dal sospettar sempre e ovunque insidie o ag-guati, dallo studio di tenderne....

Quale meraviglia che essi, scorgendo la sottil schieragiovanile, estasiata della vita che è gaudio, della giovi-nezza che è rapimento; si chiedano in preda a livido at-tonimento:

«Perchè ad essi tanta effusione di gaudio interno tra-spare dai volti sereni, perchè tanta beatitudine scevra di

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cure ad essi soltanto?» e s'appiattino a tender insidie allaestatica schiera lungo il cammino fiorito.

L'albero dei sogni copra pur interamente dell'ombrasua orizzonte e sentiero; l'arido deserto delle passionibasse ed ignobili, che si stende sconfinato innanzi agliocchi degli ingenui sognatori, paia pur loro simile ad ungiardino; insidie, pericoli li obbligheranno ben tosto aguardarsi attorno, a chinarsi, a scrutar finalmente quelterreno, a scorger raccapricciando una moltitudine diignobili figure....

Oh questi nemici d'ogni bontà il povero Wertherquanto bene li conosce! Quante volte essi lo hanno cru-delmente strappato ai suoi sogni! Con quale strazio egliesclama: «Ah purchè gli altri viventi mi lasciasserocamminar in pace pel mio sentiero! Io non mi curo certod'investigare le loro vie».

Anch'egli un tempo appartenne alla sacra schiera deisognatori e «non anelava che a correre, nella sua feliceignoranza, pei campi, cercando aria e luce al suo petto,giovenilmente palpitante d'allegrezza, ignaro dei lunghi,cupi, inesorabili dolori dell'esistenza»; anch'egli ha cre-duto nella bontà, nella sincerità, nella virtù, anch'egli haesclamato esultante: «Non v'è gioia al mondo più schiet-ta e più soave dello spettacolo d'una bell'anima che sen-za sospetto si versa nel cuore altrui».

Ma poichè la biscia lo ha morso: «Quante speranzeannientate, quante care illusioni sfrondate, inaridite persempre!». «Sa Iddio, egli esclama, s'io non mi corico

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spesso col desiderio, anzi talvolta, colla speranza di nonpiù ridestarmi; e viene il mattino, apro gli occhi, riveggoil sole – e mi sento infelicissimo. Vorrei poter pigliarme-la col tempo, con una persona qualunque, rovesciar lacolpa del mio stato su d'una impresa andata a vuoto;parmi che allora questo increscioso fardello che mi gra-va insoffribilmente le spalle, mi si allieverebbe in parte.Ma non so essere bisbetico; pur troppo la colpa è mia,mia tutta! Colpa? forse fatalità. Insomma, la fonte dellamia miseria è dentro me, com'era una volta la fonte del-la mia felicità, della mia gioia. E non sono io, per av-ventura, quel medesimo ancora a cui un giorno sorride-va, ad ogni passo, un paradiso? a cui, nella pienezza del-le sue facoltà, batteva in petto un cuore capace d'abbrac-ciare tutto l'universo in un amplesso d'amore? E questocuore è agghiadato oggi dai geli della morte, non ha piùgioia nelle care estasi del pensiero, che solevano ralle-grare quest'aurora avvizzita innanzi tempo. Le mie pu-pille inaridiscono, prive del dolce sfogo delle lagrime....

«Guardo dalla mia finestra il lontano colle, veggo ilsole del mattino romper le nebbie e dardeggiarlo de'suoi raggi, e spandersi sul tacito smalto dei prati, e ilmansueto fiume serpeggiare fin sotto a' miei occhi, at-traverso gli sfrondati salici della riva. E tutta questa im-ponente maestà di cose mi giace irrigidita innanzi, nonaltrimenti che le mute immagini dipinte sur un vassoio!I colori, le armonie, le fragranze della natura, non invia-no più all'anima mia un solo alito di letizia: io mi sto al

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cospetto del Creatore come un pozzo essiccato, come ilsecchio che versa profusamente l'acqua dalle sconnessedoghe. Quante volte non mi sono io prosteso sul suolo, eho pregato Iddio che m'accordasse il refrigerio del pian-to, siccome l'agricoltore invoca la pioggia, allorchè ilcielo gli sta sopra ferreamente immoto e la terra inaridi-ta par che protenda, fendendosi, le labbra! Ma, ohimè!Iddio non manda la pioggia e il sole secondo le nostreimportune preghiere: e quei tempi, ch'io lamento perdu-ti, non mi facevano beato d'illusioni, se non perchè ioaspettava, riposato e paziente, i suoi beneficî e il miocuore gli era riconoscentissimo della gioia ch'ei mi stil-lava in seno».

È da una vera e propria crisi che è disperatamente tra-versato l'animo di Werther: alle illusioni sconfinate, alleestasi sovrumane improvvisamente sottentrarono glisconforti più cupi, le più atroci delusioni: lo opprimonosopratutto il mistero della natura e la malvagità umanatanto discorde dalla sua bontà espansiva.

Egli è malcontento di sè e della società: di sè a causadella troppa sensibilità che gli rende solo famigliari ec-celse ebbrezze11 o supremi sconforti12, ed ignora, o qua-

11 «Io vivo giorni così felici come Dio li concede ai suoi santi,e ora avvenga che più non mi lagnerò d'aver godute le più puregioie, le emozioni più care della vita».

12 «Talora io vo dicendomi: Il tuo destino non ha eguale tra gliuomini; essi son tutti felici nel paragone, da che nessuno di essiha mai durato le tue torture. – E do mano a qualche antico poeta –e mi par di leggere nel mio cuore.

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si, quelle ore di calma serena che allietan l'esistenza del-la comune dei mortali – della società, perchè essa turba isuoi sogni, non vuole riconoscere la rettitudine delle no-velle aspirazioni (il Rousseau aveva fatto scuola anchein Germania) di cui è appassionato sostenitore. Wertherinoltre è artista e non può soffrire pedanti e «filistei», hasentimenti troppo nobili per viver d'accordo cogli ipo-criti, per non detestar pregiudizî e privilegi; non vuol in-fine privarsi a nessun costo di quell'indipendenza che loautorizza ad esprimere francamente dinanzi a tutti la suaopinione, qualunque essa sia.

Le sue desolanti grida, i suoi rimpianti tradiscon l'in-terna veemente crisi e son così acuti e sinceri, ne sentia-mo l'eco vibrar a traverso le nostre fibre con tal terribileforza da obbligarci a chiedere se da una simile crisi nonsia stato contemporaneamente scosso l'animo del Goe-the medesimo.

Questo si può affermare, poichè l'autore stesso lo af-ferma in modo esplicito. Che, se certamente il ritrattodel giovane Werther non è in tutto conforme a quello delgiovane Wolfango, non bisogna dimenticare che «quan-do un uomo ritrae sè stesso è sempre restìo a fare unaconfessione completa»; noi ricusiamo di identificarcicolle nostre creazioni «e poche cose c'irritano maggior-mente della pretesa altrui di capirci interamente».

«Soffro orridamente. – No, così è impossibile che altri abbianosofferto mai!».

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III.

Il libro della passione del giovane Werther fu scrittocon molta lentezza e l'autore dovette (come appare benchiaramente dal contesto) servirsi spesso di materiali giàpreparati, dico sentenze e osservazioni già scritte, sottol'impressione di una determinata e forte – per quantofuggevole – sensazione ed affidate concisamente allacarta.

Era sua abitudine di notare quanti fenomeni, ancheintimi, gli paressero importanti. «Ciò che non molestache di passata gli uomini ordinarî (la preziosa confessio-ne non merita d'esser ricordata nuovamente?) i quali nonusano osservarsi, i migliori lo notano e lo affidano concura ai loro scritti». La storia della lacrimevole passionedi Werther non è sostanzialmente che la storia «d'unavera e propria crisi giovanile», studiata nel suo momen-to culminante e resa con troppa fedeltà perchè sia solopossibile concepire un diverso processo costruttivo a unlavoro che rappresenta con rara efficacia ondeggiamentidel pensiero proprii di diversissimi, anzi, opposti mo-menti dell'animo.

E certi stati dell'animo non son forse anormali tantoda renderne impossibile l'esatta rievocazione allorchènon si è più da essi dominati, giungendo essi appuntoapportatori di idee e sentimenti, che sembrano affatto in-verosimili e per nulla conformi alla nostra indole, quan-do siano passati allo stadio di ricordo vago e confuso?

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Si stupisce davvero pensando alle crisi sentimentaliche il Goethe dovette traversare scrivendo queste lettereche «han per materia uno stato d'animo così indefinito epasseggiero da confinare colla pazzia.

«Si ha un bel dire che si tratta d'un semplice lavorod'immaginazione: per conto mio ricuso assolutamente dicredere che la sensibilità intellettuale possa funzionareda una parte, la sensibilità reale dall'altra».

Son parole d'un romanziere, queste, di persona cuipossiamo credere, perchè scrive fondandosi anche sullasua esperienza13.

13 Sono di P. BOURGET, Etudes et Portraits, Reflexions sur lethéâtre. Edoardo Rod, invece, nel suo Essai sur Goethe è di oppo-sto parere.

Il Goetz ed il Werther riuscirono, secondo il Rod, lavori cosìdifformi dall'indole del loro creatore, che questi dovette lasciartrascorrere ben dieci anni prima di poter dare l'opera (l'Ifigenia)che del suo carattere fosse specchio veramente terso.

E qui mi si consenta di non comprendere: forse che il ritrattodell'uomo giovane – perchè conserva tratti che gli anni poi altera-no – cessa d'esser fedele riproduzione della sua fisonomia in undato momento, anche se in nulla somiglia a quelli che lo raffigu-rano quand'è omai maturo o vecchio?

A formare il carattere di un uomo cooperano parecchie età – edognuna di esse in modo tanto più particolare, quanto maggior-mente essa è dalle altre distinta: dovremo dunque stupirci che laserenità coroni la vecchiaia di uomo che ebbe tumultuosa la gio-vinezza?

La figura del Goethe è sommamente complessa e gli estremisentimenti sono pur faccie del poliedro di questa figura: poichè ildiscepolo dello Spinoza fu sommamente superstizioso ed il paga-

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La vera opera d'arte non è, non può essere che il co-mento d'un'esistenza, o d'un periodo di essa.... E le piùalte creazioni umane che sono altro se non l'armonica ri-sultanza dell'accordo di certi stati dell'animo, di certi at-teggiamenti del pensiero col mondo ambiente e colla na-tura?

Fu una crisi violenta ed acuta che scompigliò nell'ani-mo del poeta tutti i suoi sogni più giovanili; ed egli me-desimo ce ne fa partecipi. «Si parlò spesso di «un'epocadi Werther»; quest'epoca non è affatto un momento sto-rico determinato bensì un momento della vita d'ogni in-dividuo: – felicità ostacolata, attività, desiderii inesauditinon sono malattie d'un tempo speciale, bensì d'ogniuomo; disgraziato, anzi, l'uomo che non conobbe nella

no impenitente attinse alle più alte idealità cristiane (A. ZARDO,Goethe ed il cattolicismo, in Nuova Antologia, 1893) perchè ilclassico non potè essere in buona fede romantico e sentimentale:e l'uomo «indifferente» alla sua volta un giovane pieno di fuoco?

Ed il più sereno poeta inglese – quel troppo mite laghista delWordsvorth – non conobbe anch'egli una crisi terribile nella suagiovinezza? (ÉMILE LEGOUIS, La jeunesse de Wordsvorth). Chivorrà dir per ciò che in tal periodo di sua vita egli agisse o scri-vesse in modo non conforme al suo carattere?

Fa parte del suo carattere quella crisi e in quale importantissi-ma maniera! Essa spiega la susseguente esistenza del poeta e re-sta anzi (al par di tutte le crisi giovanili) il periodo più notevole esincero di sua vita, lanciando luce vivissima tanto sull'oscura basedi sua preparazione, quanto sulle serene conseguenze che la se-guirono.

Non è così?.....

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sua vita il momento in cui gli parve che Werther sia sta-to scritto per lui». «Io conobbi da me questi turbamentie non li devo affatto all'influenza generale del mio tem-po: furon piuttosto certi tormenti assolutamente perso-nali che posero la mia mente nello stato descritto daWerther (Conversazioni con Echermann).

«Sono alcuni – scrive ancora nell'Autobiografia – cheper mancanza di attività, nella condizione più cheta delmondo prendono la vita in disgusto.... Io stesso conobbiquesto stato e so quali pene mi fece soffrire e quali sfor-zi mi costò per liberarmene». «Amleto e i suoi monolo-ghi eran come fantasmi che non cessavano d'apparirealla mia immaginazione».

«Dio mi guardi dal trovarmi nuovamente in caso dipoter scrivere simili opere».

Lo aveva colto – è noto – una vera mania suicida, sìche si pose seriamente ad esaminar fra le varie forme dimorte la più, diciamo così, convenevole....

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Questa crisi doveva pur avere le sue conseguenze.Quali furono?Le malattie dell'animo, non meno di quelle del corpo,

trasformano e rinnovellano gli individui.«Alcuni uomini nel corso di lor vita – è il La Bruyére

che lo scrive – si trovano ad avere idee e sentimenti cosìdiversi da quelli che possedevano, che si è sicuri di sba-

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gliare giudicandoli dalle apparenze della loro prima gio-vinezza». E perchè? possiamo chiedere. Per «natural»svolgimento di facoltà forse? No: semplicemente pelmotivo contrario.... io direi.

Convien riconoscere in quanti scorgono l'impossibili-tà di rendere l'esistenza conforme al loro sogno, e nonrisolvono il problema colla morte, la necessità, se vo-glion uscir vittoriosi dalla lotta, di ordinare alla loro vo-lontà una determinata via.

Così il Goethe, allorchè sulla soglia tuttora della pri-ma giovinezza fu chiamato a essere consigliere del gran-duca di Weimar, si trovò tosto, quantunque protetto edamato dal suo signore, circondato da fortissimeostilità..... la turba degli scribi «d'ordine» e di«concetto» aveva già unanime protestato contro la no-mina di questo poeta che «ledeva» tanti privilegi gerar-chici; un ministro si era persino dimesso in segno di so-lidarietà coi protestanti.... Fu necessaria tutta la fermez-za del Granduca perchè e il Goethe potesse rimanere alsuo posto e quei livori si placassero. Ma il poeta dovettemostrar sul serio come sapesse coprir la carica conferi-tagli; le «pratiche» ci guadagnarono un tanto, è vero, male concezioni artistiche rimasero.... allo stato di conce-zioni. «Tutti i lavori che portai a Weimar – son sue paro-le – non li potei continuare; il poeta si crea un mondo aparte, ma la società vile (è lui che parla) imponendosi alui lo importuna e lo turba».

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E, poi, i bei momenti di Strasburgo e di Wetzlar, delledispute col Lavater e coll'Herder eran passati per sem-pre: e con l'allegra e sincera e tumultuosa turba deglistudenti d'Università, le persone della Corte ducale, ave-van ben poca somiglianza di carattere e di contegno....

«Quelque profonds que soient les grands de la cour –il La Bruyére mi soccorre di nuovo – et quelque artqu'ils aient pour paraître ce qu'ils ne sont pas, et pour nepoint paraître ce qu'ils sont, ils ne peuvent cacher leurmalignité, leur extrême pente à rire aux dépens d'autrui,et à jeter un ridicule souvent où il n'y en peut avoir; cesbeaux talents se découvrent en eux du premier coupd'œil: admirables sans doute pour envelopper un dupe etrendre sot celui qui l'est déjà, mais encore plus propre àleur ôter tout le plaisir qu'ils pourraient tirer d'un hom-me d'esprit qui saurait se tourner et se plier en mille ma-niéres agréables et réjouissantes, si le caractère dange-reux du courtisan ne l'engageait pas à une fort grande re-tenue. Il lui oppose un caractère serieux, dans lequel ilse retranche, et il fait si bien ques les railleurs, avec desintentions si mauvaises, manquent d'occasions de sejouire de lui».

Circondato da persone quasi tutte incapaci di sentiraltamente e pensar senza malvagità, pronte a gittar l'ac-qua gelata del ridicolo sulle fiamme degli entusiasmi,che altro rimaneva al giovane poeta se non celare i suoisentimenti ai piccoli, ai tristi i suoi dolori?

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Non è tempo omai che egli ordini alla volontà la suastrada e «chiuda con cura le porte del suo cuore, poichèil momento è propizio alla frode» e si celi sdegnosa-mente dietro un'apparente indifferenza, come al copertodi trincea, ove attender con qualche sicurezza l'avanzardei nemici?....

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Ma da un'indifferenza apparente alla insensibilità dicui lo accusano alcuni contemporanei e la posterità in-conscia, troppa differenza è perchè si possa consentirealla fusione fra due sentimenti di cui uno è naturale epienamente spiegabile, mentre l'altro rimane assoluta-mente indegno di qualsiasi ingegno superiore.

I tratti del suo cuore, «di quel cuore, – son parole diJung Stilling – che pochi conobbero, ma era grande alpari dell'ingegno, noto a tutti» furono molti. Delle gene-rosità del poeta il Riemer addusse parecchi esempi: èabbastanza noto fra gli altri l'aneddoto che narra come,mentre scriveva l'Ifigenia, gli giungessero le notizie del-la miseria e della fame che affliggevano i tessitori del-l'Apolda, e come il Goethe, divenutone commosso comedi propria sciagura, scrivesse alla signora di Stein: «Latragedia non avanzerà d'un passo: è maledetta, il re diTauride deve parlare come se nessun tessitore dell'Apol-da sentisse gli stimoli della fame»; nè pago dei provve-

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dimenti dati d'urgenza, si recasse subito sul teatro diquelle misere scene.

Pur troppo, delle opere buone compiute dal poetamolte (e proprio per opera di lui – fattosi involontariocomplice dei suoi detrattori –) rimarranno per sempreignorate; era troppo sincera la compassione che l'infeli-cità gli inspirava perchè egli potesse solo pensar adesporre le sue buone azioni alla teatrale ammirazionedegli ipocriti.

Pure, un esempio, fortunatamente, ci è rimasto dellasua sensibilità nel partecipar ai mali altrui, della sua de-licatezza nell'alleviarli.

Uno sconosciuto – e sconosciuto è rimasto semprequest'uomo che le carte designano col pseudonimo diKraft – scrive al Goethe cercando interessarlo ai mise-randi casi che lo ridussero alla miseria assoluta; narran-dogli il suo stato: non è un volgare accattone costui, mala sua indigenza è così decorosa ed altèra da imporre ri-spetto; si rivela senza amici, senza parenti, senza protet-tori, è malcontento di sè e del mondo, e pur è così fieroe quasi insolente in questa sua dignità che qualunque al-tro potente – che non si fosse chiamato il consigliereGoethe – sarebbe rimasto non solo affatto commossoma grandemente irritato leggendo la strana supplica del-l'originale postulante.... Ma è un vinto e il Goethe gli siaffeziona: questo ammiratore dei vincitori superbi, –questo vincitore indiscusso egli stesso – ama i vinti, haper essi una speciale tenerezza e pare che osservando le

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lor disgrazie senta come spesso la sorte influisca irrepa-rabilmente sulle nostre azioni e senza nostra colpa; paresi rammenti quante volte anch'egli discese sino a scorgeril fondo dell'abisso, e lieve, assai lieve segno sia quelloche separa la propizia fortuna dall'avversa.... E gli man-da subito un po' di danaro e gli offre oggetti di vestiarioda prima ed altri poi: sono «un pastrano, degli stivali,delle calze e un po' di danaro» che gl'invia alcuni giornidopo14. Nè dai doni e dalle elargizioni vanno disgiuntele buone, le consolanti parole. «Ed ora proseguite dinuovo arditamente sul cammino della vita. Noi non vi-viamo che una sola volta.... Sì, io so perfettamente checosa sia assumer sulla propria la sorte di un altro; mavoi non perirete».

E la sua stessa beneficenza com'era estremamente de-licata! «non vi ho mandato – scrive al protetto – uno deimiei vestiti, perchè a Jena potrebbe esserericonosciuto....».

Ma, quell'uomo esacerbato dai dolori e dalle privazio-ni, avvilito, incerto, diffidente di sè e degli altri, è stra-namente ombroso; così il Goethe intende mandarlo mu-nito di sue commendatizie a Jena ed egli si rifiuta d'an-darvi, così altra volta fraintende il senso di qualche let-tera del poeta e si risente amaramente.... ma il beneficoprotettore conosce troppo bene il suo povero sofferentee lo compatisce e lo conforta e soccorre senza posa edurante sette anni spende la sesta parte della sua entrata

14 Epistolario, lettera 2 novembre 1778.

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(modesta – non ostante l'importanza del suo posto aCorte –) a toglier quell'estraneo dal bisogno, e solo incambio di sue munificenze gli chiede la sua benedizio-ne; «la preziosa benedizione del povero» com'egli escla-ma, nè pago, allorquando il suo protetto muore, presiedealla sua sepoltura, senza voler neppur allora, secondo lapromessa fatta, rivelar il nome della misteriosa persona,nome che tuttora ignoriamo.

Quante sono le azioni di «apostoli della fratellanzauniversale», di «filantropi» che si possano vittoriosa-mente contrapporre alla delicata e sublime carità di que-sto «poeta aristocratico», di questo «pagano», di questo«sprezzatore di moti popolari?»

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Osserviamo ora il Goethe nei suoi sentimenti affetti-vi, nelle sue opinioni politiche.

Quest'uomo, cui si rimproverò negli amori quell'inco-stanza – che spesso non è se non la prova dell'inconten-tabilità delle anime superiori, continuamente anelanti aun ideale di perfezione assoluta – non dà forse esempiod'una sensibilità e d'una delicatezza senza pari nellascelta dell'affetto più alto e duraturo, dell'amore da cuitrasse la maggiore, la migliore ispirazione sua? È la con-templazione d'una miniatura che lo condurrà a quelladecennale nobilissima passione verso Carlotta di Stein,passione la quale resta pur l'episodio sovrano del suo

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lunghissimo poema amoroso. «Quale spettacolo dev'es-sere – esclama il poeta ammirando quel ritratto – osser-var come il mondo si rifletta in quest'anima! Essa vedeil mondo a traverso il medium della bontà. La dolcezzadà a questo viso l'espressione sua dominante».

Ha pur un fascino ben grande questa «espressione do-minante» della signora di Stein sull'animo del Goethe segli impedisce «di dormir per tre notti consecutive», tan-to la sua mente è occupata dall'impressione che il soloritratto vi lasciò; se fra tante fresche bellezze di cui s'in-fiora la corte di Weimar egli trova poi solo degna delsuo affetto e d'una bilustre fedeltà, una donna, non bel-lissima per assentimento di contemporanei e testimo-nianza di ritratti ed a lui anche assai superiore d'età!....

L'«indifferenza» politica del Goethe fu e rimane sem-pre bersaglio agli strali dei «militanti» d'ogni partito: os-serviamola qual'essa sia, pur alla sfuggita, un po' da vi-cino. E pure di questa «indifferenza» le parole del poetadan ragionevole spiegazione: «La facoltà di comprende-re le alte idee è rarissima»; «in conseguenza bisognanella vita ordinaria tenerle per sè e non mostrarne se nonquanto necessita per affermare la propria superiorità su-gli altri».

«Non speriamo – son sempre sue parole – che la ra-gione sia mai popolare,.... essa resterà sempre proprietàesclusiva di pochi eletti.... Vi è un mistero nella filosofiacome nella religione e il grado medio dell'intelligenzaumana non è abbastanza elevato perchè gli si possa sot-

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toporre così alto problema e perchè possa essere sceltoquale giudice estremo in tale materia».

Non è naturale ora che questo filosofo il quale osser-va in modo così elevato e sempre da un medesimo pie-distallo avvenimenti umani e fenomeni naturali, nonpiaccia ai molti politicanti d'ogni colore, che, purchèessa sia tratta a seguirli, non si peritano di prodigar allafolla incosciente degl'incapaci d'ogni classe gli elogi piùindegni?....

Sapete – ad esempio – com'egli giudica sia la rivolu-zione francese che coloro i quali la provocarono? Ecco:«Della rivoluzione francese non potevo esser amico,troppo m'impressionarono i suoi orrori;.... ma ero ancheassai poco amico d'una sovranità arbitraria. Odio coloroche compiono le rivoluzioni al par di coloro che le ren-dono inevitabili.... negli scompigli violenti si distruggequanto si guadagna, tutto ciò che è precipitato e violentonon mi va perchè non conforme alla natura; per la politi-ca come per la natura tutto sta nel saper attendere».

Il «consigliere privato» aveva saputo, a quanto pare,conservar intatta la sua intima libertà e in omaggio adessa gli era parso indifferente sfidar a un tempo e le irecortigiane e l'impopolarità demagogica.... Onde, se evo-luzione avvenne nelle opinioni politiche del Goethe, nonessa fu spontanea sempre, frutto solo di studî, d'osserva-zione e di accresciuta esperienza? Il giovane Wolfangofu sempre assai democratico nei modi e nei costumi e(mi si consenta di immedesimarlo col giovane Werther)

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tanto amante delle semplici e patriarcali abitudini popo-lari15 quanto cordiale sprezzator di superflui convenevo-li: tale simpatia non solo non fu menomamente affievo-lita dal soggiorno a Weimar, ma si accrebbe anzi coglianni e coll'esperienza. «Com'è tornato forte in me – scri-veva dall'Hartz alla signora di Stein – l'amore per questeclassi inferiori! Che si chiamano «inferiori» ma che cer-tamente agli occhi di Dio sono più alte... Qui voi trovatetutte le virtù unite insieme: contentezza, moderazione,verità, rettitudine, gioia nel giuoco, innocenza,costanza»!

Ma i sentimenti veementi di sua giovinezza, gli sde-gni contro la stupidaggine e la cattiveria degli uomini, lasua ira contro le classi «reggitrici» che non sapevanneppur regger se medesime, l'odio che gli inspiravano ipedanti tutti, cederanno il posto a sentimenti conformialla mente dell'uomo fatto più esperto giudice di feno-meni e di passioni.... E tarderà l'uomo maturo forse a ri-conoscere che l'unica lotta, implacabile ed eterna, la soladegna d'esser combattuta è quella leggendaria invero esoggetto anche di favole dei buoni e dei cattivi, e che leopinioni degli onesti, quali esse sieno, son sempre ri-spettabili?....

15 Questo amore, questa fedeltà, questa passione non sonodunque un'invenzione de' poeti, ma è cosa vera e reale, e vive intutta la sua energia, frammezzo a quella classe di uomini che noichiamiamo incolta e rozza. Noi, gente colta! oh, la bella colturain verità! (Werther).

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Onde, divenuto profondo e sicuro conoscitore di uo-mini, il tenor di sua vita non parve forse tracciar confor-me alle strofe del nostro poeta che sopratutti amò edammirò e volle tradurre?

Niuna tregua coi vili: il santo veroMai non tradir, nè proferir mai verboChe plauda al vizio o la virtù derida.

Confessione di fede davvero un po' troppo ampia edalta per quanti, abituati a osservar solo le pareti dellastretta valle delle gare partigiane in cui si vollero rac-chiudere, ignorano quanto l'occhio umano sia capace dicontemplare di vastità infinite!

** *

Gli avvenimenti umani son dal Goethe osservati allastessa stregua dei fenomeni naturali; per giudicare eglisi pone nel giusto mezzo (e un po' in alto se occorre) –per scorgere quanto v'è di intrinseco in un fatto, in unaquestione. È necessario aggiungere che questo uomo ilquale ha la rara abilità di saper vedere contemporanea-mente le «sei facce del dado» e nel giudizio vuole con-servar completamente intatta la sua intima libertà, avràvirtù di conciliar gli adepti delle opposte parti nel biasi-mare la sua equanimità e con acrimonia tanto maggiorequanto più egli pone a nudo le incongruenze e le picci-nerie dello spirito di parte?

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«Quando intendo parlar di «idee liberali» – son sueconfidenze – devo pur stupirmi che gli uomini tanto fa-cilmente si appaghino di sole parole. Un'«idea dev'esse-re liberale»; ciò non ha senso – deve essere precisa, for-te, feconda sopratutto, poichè tale è la sua missione di-vina. È nel sentimento che si deve cercare il vero libera-lismo, ma i sentimenti sono assai raramente liberali;poichè sono l'espressione immediata delle persone, deiloro rapporti, dei loro bisogni e dei loro interessi».

Retrivi e giacobini non devono ora pur dimenticare –sia anche per un istante – le loro ire per unirsi a combat-tere chi ha questo coraggio di rifiutar di schierarsi in unadelle due file nemiche, e dantescamente si costituisce«parte di sè stesso» porgendo un ideale saluto a tutti gliindipendenti di tutte le nazioni? E, poichè ognuna delledue parti s'arroga il monopolio del patriottismo, bisognapur convenire che questo pensatore (il quale di apparte-nere tanto all'una come all'altra si rifiuta così risoluta-mente) manca affatto di senso patriottico....

Il patriottismo del Goethe! Ma non era forse di tantosuperiore – dovremmo vederlo ora almeno – a queglientusiasmi settari di quanto il vero amor patrio sovrastaalle passioni di campanile, di quanto l'amore per l'uma-nità eccelle sullo spirito patriottico (che inevitabilmentenon si nutre meno d'odio che di amore) dei singoli popo-li? «Che s'intende dicendo «amar la patria», «far operapatriottica»?

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«Se un poeta durante l'intera vita ha lavorato a di-strugger funesti pregiudizî, vedute strette ed egoistiche,a dar alle opinioni maggior rettitudine, maggior nobiltàalle idee, che poteva far di meglio»?

«Il mondo è assurdo, non sa quel che si vuole, biso-gna lasciarlo parlare e agir come gli piace. Come avreipotuto prender l'armi senza odio?.... E, sia detto, i Fran-cesi io non li odiavo.... Come avrei potuto odiar una na-zione che è fra le più civili della terra ed alla quale devosì gran parte del mio sviluppo intellettuale? L'odio na-zionale è un odio particolare: è tanto più nelle regioniinferiori che si manifesta più energico ed ardente, ma aduna data altezza svanisce, là si sta, per per così dire, aldi sopra delle nazionalità e si risente la fortuna o la di-sgrazia d'un popolo vicino come la propria».

Così egli al suo Eckermann.Ecco: se l'elevatezza di mente si può chiamar indiffe-

renza, certo raramente si trovan uomini indifferenti tan-to tal modo di concepir la patria e l'umanità è ancor oggicosì superiore alla media intelligenza delle masse, cheproprio non c'è da stupire, se un secolo fa....

Ma quanti pensatori attivissimi da Lucrezio a Newtonnon furono giudicati, alla medesima stregua, indifferentidi gran lunga più ostinati! Come definire adunque que-sta apparente indifferenza del poeta, tanto simile a quel-la di Leonardo «se non – col nostro illustre GabrieleSeailles – come la sottile miscela del suo sdegno per lastupidaggine degli uomini che solo lavorano a nuocersi,

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dell'amore che portò loro e delle più alte passioni chetraverso la scienza e l'arte lo elevarono verso la contem-plazione e la creazione delle cose divine?

«Egli osservò i fenomeni della politica al modo diSpinoza, sub specie aeternitatis, dal punto di vista del-l'eternità, e s'occupò meno del male che fanno gli altriche non del bene che potè far egli stesso».

IV.

Così giunto e avanzato sulla soglia della età virile, li-beratosi non senza duri sforzi dalle preoccupazioni chesono prerogative della mediocrità, il poeta accintosi adopera solenne «mira omai ad innalzar la piramide dellasua esistenza alta quanto praticabile nell'aria», pensa adintrecciare il ritmico accordo fra le sue opere e la suavita così intimamente, da poter ben presto esclamare:«Io avanzo sempre senza mai indietreggiare, le mieazioni ogni giorno si fan più armoniche, ogni giorno tro-vo più facile compiere quanto credo giusto e buono; nèdi questo potere e di questa forza sarò mai in pericolo diinorgoglire, io, che vidi chiaramente qual mostro puònascere e svilupparsi nel cuore dell'uomo, qualora unapossanza superiore non ci protegga».

Ma pure egli deve cominciare dalle fondamenta; e, sealcuni anni della sua esistenza, se i primi anni del suosoggiorno a Weimar sembrano vuoti, le opere di cui isusseguenti furono testimoni, non consentono forse diparagonarli alla stagione dell'anno in cui non fronda o

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frutto sono a palesar l'attività della natura, ma il semecelato nel terreno aspetta e passa inosservato a quel pri-mo sviluppo che è la fase più importante della vita d'o-gni essere?

Opere artistiche quali l'Ifigenia ed il Tasso: operescientifiche quali L'introduzione all'anatomia compara-ta, gli studj sulle Metamorfosi delle piante e sulla Teo-ria dei colori verranno a scoprire in un coi nuovi idealidel poeta e dello scienziato quali crisi abbiano superato iprimi, quante pazienti osservazioni e quali induzioni ar-dite immedesimati i secondi.

Dovran passare degli anni, è vero, sarà necessario unlungo viaggio in Italia, perchè quest'evoluzione possadirsi veramente compiuta; ma l'uomo cui sono omai fa-miliari le più alte gioie dell'osservazione e della specula-zione e sa limpidamente tradurre in immagini armoniosee diafane le aspirazioni più oscure e le più alte idee, tro-verà che alle gioie ed alle glorie del lavoro ogni altrogodimento è da posporsi.

Esse generano salute e letizia ed han virtù anzi diconsolar l'animo di tutti quei turbamenti che esso trovònella ricerca di altri godimenti meno sicuri.

Epperò potrà scrivere: «in ogni tempo ciò che il poe-ta, il filosofo han preferito è lavorare in silenzio intornoalle creazioni del loro spirito», e rivolto ai cultori delbello, del vero, esclamare: «Questa sarà la vostra parte,la più invidiabile di tutte, gioirete pei primi dei senti-menti di cui un giorno saran piene le più nobili anime».

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Tale misura che a molti può parere egoistica, non rap-presenta il più alto grado di disinteresse per chi sappia evoglia comprenderla? «Ce que la conscience timoréedes âmes tendres et vertueuses appelle l'égoisme dugénie n'est d'ordinaire que le détachemant desjouissances personelles et oubli de soi pour l'idéal», valla pena di ripetere col Renan.

L'uomo conscio dei dolori e delle gioie della vita hatrovato l'unico calice a cui possa bere liberamente senzache feccia s'agiti al fondo; non l'abbandonerà più, e, sed'accostarsi ad altre coppe ha già rifiutato da tempo (saquel che contengono o possono contenere), se non hatroppa fiducia nell'amicizia, se nei rapporti con cono-scenti od estranei è sempre e soltanto freddamente cor-tese, non fategli rimprovero.... vi son caratteri che devo-no di necessità comportarsi a questo modo.

Non esistono forse alcuni – rari quanto nobili – carat-teri che, se stanchi di rimanere in un'attitudine fredda eriservata, tanto più necessaria quanto meno conforme al-l'indole loro, non riescono a dominare i loro sentimentigenerosi e dalla forzata inanità destando ad attività fe-conda i loro nobili impulsi, non «conoscono limiti» nel-l'amicizia o nella compassione? Solo che essi si pieghi-no al bene, non possono arrestare la loro benevolenza;son così inesauribili nel prodigare con bontà, che il lorostesso disinteresse e la loro lealtà eccitano basse passio-ni in quanti non possono gareggiare in tal nobile lotta, inmolti che si sentirebbero meno umiliati dal benefizio

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qualora non fosse così spontaneo e nobile, ma privo del-l'assenza di quelle mire interessate cui la comune degliuomini tende troppo spesso anche nel porgere sollievoaltrui....

È sovente necessario che le anime buone rinuncino acompiere in special modo quelle fra le pietose, corag-giose, sublimi azioni, che la mediocrità non può assolu-tamente comprendere, essendovi – pur troppo – un gra-do di disinteresse e di eroismo che essa non è capacenon solo di apprezzare, anche nelle più propizie disposi-zioni, ma neppur di capire....

** *

Nè è a credere che tale apparente indifferenza di alcu-ni eletti sia datrice di felicità, come volgarmente si cre-de, al solo pensiero delle noie che può evitare. No, è unadolorosa necessità, ecco tutto; come anelerebbero essi astrapparsi dal volto la maschera che tanto li sfigura e purdevono conservare per non porre in balìa d'ognuno laloro stessa esistenza, poi che tanta parte del loro pensie-ro e dei loro intimi sentimenti sparsa pel mondo è in po-ter di chiunque voglia scrutar nei recessi di quelle loroanime, di cui le più segrete passioni con sincera effusio-ne affidarono alla carta, alla tela, al marmo!

Così, a quanti nell'esistenza del Goethe si compiac-ciono veder l'immagine d'una vita così felice quale ap-pena è dato all'uomo di vagheggiare, mi si consenta –

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concludendo questo audace Saggio – d'osservare chealla bellezza delle sue forme, alla sua robusta costituzio-ne, al suo bell'ingegno, all'agiatezza di cui godette edagli onori che gli furon tributati fino al giorno della suadolce morte, come a tutti questi fattori, congiunti allasoddisfazione d'aver terminata l'opera cui affidò il suonome, uno si debba contrapporre, uno che basta a con-trobilanciarli tutti.

Quale? Il suo genio.È dato all'uomo di genio, sia il più venturato, di cono-

scer la felicità? Lungo i sentieri della vita crescono – e ildetto è vieto, anzi – più spine che rose, più dolori chegioie: se così è, l'artista – che è l'esser sensibile per ec-cellenza – sentirà maggiormente le gioie, ma anche i do-lori....

Se interroghiamo il Goethe, omai maturo ed apparen-temente soddisfatto nei desiderî più difficili ad appagar-si come nella più sfrenata ambizione e nelle aspirazionipiù alte, è con un fremito strano che egli risponde perbocca del vecchio Faust, il quale al par di lui, nella sualunga e venturosa vita, conseguì, insieme a tutte le vo-luttà della terra, ogni gioia dello spirito.... «O Natura,ch'io sia solo un uomo al tuo conspetto, nient'altro cheun uomo. Allora varrebbe la pena d'esser nato!»

Aspira alla mediocrità, dunque; i soli mediocri glipare abbian ragione di lodarsi della vita.... Poichè vi songioie belle e tranquille nella vita, gioie modeste facil-

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mente accessibili e durature anche per il cosiddettouomo «normale».

L'uomo normale non si osserva, non si scruta, noncerca negli abissi della coscienza problemi misteriosi....egli cammina libero e risoluto per la sua via, senza chelo zaino degli ideali gli gravi le spalle o le grida dellapassione laceratrice valgano a distrarlo: il suo carattereuniforme – simile a minerale dalla semplice cristallizza-zione, di cui tutte le faccie son nettamente delineate –non ha troppi misteri, non serba sorprese nè a lui nè adaltri; al dolore, alla compassione, agli affetti, all'amici-zia, all'odio ha provvisto da tempo a por determinati li-miti: nec ultra. Ma questa normalità così preziosa ed in-vidiabile, il genio la conosce appena, e solo perchè «latraversa», direi, senza arrestarsi, per scendere o per sali-re: per scendere ad essere o sentirsi meno uomo del piùmediocre ed umile rappresentante di nostra specie, o persalire ad inattinte plaghe, donde l'intera umanità gli pareben piccola e povera cosa.

V'è un privilegio di dolore come esiston privilegi divirtù e di bellezza, e questo privilegio al genio non è ne-gato, egli sente che deve far parte della sua corona unben triste fiore; ed in qual modo la sua breve vita morta-le debba scontar il gaudio glorioso del dominio secolarenei tempi e sugli uomini.... è una somma di sciagure chedeve incomber sulla sua vita per dare all'opera gli incor-ruttibili aromi vivificatori perenni.

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Ha goduto ed amato il genio, ha sofferto ed odiato....ma, son gioie inattinte, dolori non provati? Lo raggiun-geranno: egli li accoglierà, tale è il suo compito, tale è ilsuo destino, quanto più è grande, quanto maggiormentedestinato a più vasta gloria.

E così, non senza forse un fremito di amara gioiaquanti incisero il nome sulle bronzee porte della gloriasentirono l'appressarsi delle sventure che eran necessarieall'immortalità dell'opera loro; e ad essi, che tutti conob-bero gli insulti della sorte, la persecuzione fatta in nomedel lor privilegio annunziava l'esistenza del privilegiostesso; onde la «verità di lor vita» sta tutta nell'implaca-bile imperversar di passioni, di cui dovettero rivelar lasuprema essenza, preservandola coll'aroma purissimodell'arte.

«Dov'è più sentimento, è più martirio» scrisse Leo-nardo, l'uomo cui natura e sorte vollero affidare tuttequelle doti e quei pregi di cui uno solo è sufficiente adappagar un'altissima ambizione.... «Dov'è più sentimen-to è più martirio!» Grave sentenza che rimane a testimo-nianza e dei penosi momenti che indugiarono su quel-l'invidiato, e della fallace illusione della felicità del ge-nio, del genio che il mondo chiama fortunato....

E pur basta osservare la via che han percorso questiuomini per esser persuasi dell'ingiusta, invidiosa senten-za. Non è forse essa prodigiosamente lunga e non è lasua lunghezza che ci consente di chiamarli privilegiati?

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Guardiamo però al punto di lor partenza: escono dalpopolo essi, tutti o quasi: quanto di meglio ha dato l'u-manità nelle arti, nelle scienze, quanto di meglio essa haprodotto, non è uscito dalle mani di ricchi o di potenti,cui condizione sociale consentiva anticipato plauso epiù facile via.... Essi, che oltrepasseranno la intermina-bile schiera dei contemporanei, si trovano spesso nelleultime sue file: quale sforzo per attraversar le schierecompatte che precedon la loro, per oltrepassarle tutte!Alla tirannia del genio l'umanità non si assuefà se nondopo ripetute ribellioni....

Ecco, perchè il genio deve pur dolersi della sorte chegli volle schiudere un destino diverso da quello della so-cietà, qualunque essa sia, che lo circonda; ecco perchè,anche dopo un'esistenza cui terra e cielo prodigaronoinattesi e inauditi favori, è costretto a supplicar Coleiche volle farlo sensibile imagine di superne figure. «ONatura, che io sia solo un uomo al tuo conspetto, nien-t'altro che un uomo. Allora varrebbe la pena di essernato!»

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Il Goethe spiritualista

Ad Annie Besant.

La presente rifioritura di studî spiritualisti potrebbe edovrebbe, fra i suoi risultati, darne altresì uno storico;dico l'esame delle intuizioni che di una grande leggeevolutiva dominata da un senso affatto idealista dellavita, ebbero forse tutti gli scrittori, veramente grandi,dell'Evo moderno.

Dallo Schiller al Mazzini, dal Michelet a VictorHugo, nel Leopardi stesso, e persino in quelli qualificatitroppo frettolosamente come precursori del materiali-smo, è ricca, è stupefacente tal somma di idee da racco-gliere e rievocare nell'attuale momento opportuno.

Dirò di più: la concezione spiritualista di questi scrit-tori, una volta dichiarata e riconosciuta, ci aiuta forte-mente nel lavoro della ricostruzione di lor figura menta-le; oso affermare che la determini a un tempo e la illu-mini. Essa ci dà inoltre un altro dato prezioso, la storiadella parte più ignorata delle indagini che formarono laloro preparazione «esterna».

Correnti ben lunghe e ben larghe di dottrina, pur senon ufficiale, pur se, specialmente oggi, trascurate con

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manifesto danno della serietà stessa degli studî, trascor-rono e penetrano tutti i campi del sapere. Non rigorose,forse, non sempre provate da quella che la scienza uffi-ciale chiama sola arbitra di verità, la logica dei sensi,pure esse, malgrado ciò e forse anche un poco per ciò,furono sempre ampiamente accolte da tante menti supe-riori, da menti specialmente di poeti o di artisti ai qualiil mondo non può presentarsi solo come una realtà sen-sibilmente logica, ma appare e si presenta invece, sem-pre o quasi, quale ben più vasta verità, complessa e inmodo multiforme immanente.

Lasciando anche da parte gli scrittori e i pensatoridell'antichità sui quali la nostra ignoranza è pronuba aduna cospicua varietà di opinioni personali, come non ve-dere che, se togliamo la fonte di questi studî speciali eanzi occulti, come li chiamava, la stessa figura del divi-no Leonardo, cessa di esserci persino comprensibile?

Nel Goethe stesso, che a taluno piacque onorar dell'e-piteto vezzosamente biblico di patriarca del positivismo,non v'ha più dubbio omai che, grazie agli studî del Caro,del Heinnel, di Paolo Carus e sopratutto di una più at-tenta lettura di tutta la sua opera, siano invece da scorge-re adunate e chiaramente dichiarate, le idee madri delpiù limpido spiritualismo moderno. È quanto dimostraaltresì in un suo saggio notevole sull'«Idealità spiritualenel Goethe» un critico di valore: Pietro Raveggi.

L'idea di un mondo più vasto e più profondo di ognimondo sensibile, dichiarata a lui ancora studente dalla

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mistica e ambigua signorina De Clettenberg, iniziatricedel giovane a sedute e ricerche d'occultismo, non perva-de forse – a traverso a ogni ricerca di carattere stretta-mente sperimentale – l'intera sua opera di scrittore perculminare nella sintesi d'ogni arte, d'ogni scienza e diogni aspirazione, nella sintesi di sua vita e di quella del-l'umanità del poema del Faust?

Questa concezione di una più vasta opera, di una piùvasta trama creatrice di quella che i nostri occhi mortalipossono e sogliono scorgere, lo fa scrivere nell'elogio diuno scienziato, G. B. Porta, queste parole testuali: «Lamagia naturale spera, coll'impiego dei mezzi attivi, dieccedere i limiti del potere ordinario e raggiungere deglieffetti che sorpassino la realtà, E perchè disperare delsuccesso di una tale impresa? I cambiamenti e le meta-morfosi che si succedono davanti ai nostri occhi, senzache noi possiamo comprenderli, avvengono lo stesso perun'altra folla di fenomeni, che noi discopriamo ed osser-viamo ogni giorno, fino al punto che potremo preveder-li. Pensiamo adunque alla potenza della verità, dell'in-tenzione, del desiderio, della preghiera; e come s'incro-cino all'infinito le simpatie, le antipatie e le idiosincra-sie; tanto è vero che, presso tutti i popoli e in tutti i tem-pi, riscontrasi la medesima inclinazione universale versola magia».

Mi pare straordinariamente notevole e degno di esserveramente esaminato da un punto di vista, che mi per-metto di chiamare scientifico, il momento psicologico in

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cui la bell'anima, nel libro che ne raccoglie le confessio-ni, ha la coscienza di una nuova luce, che non è quelladella ragione, in atto di traversarla e dominarla ad affer-mare resistenza e il dominio d'una forza dieci volte piùsicura e più rapida della ragione: l'intuizione. Eccocome lo scienziato sperimentalista, fondendosi in lui colpoeta, con l'uomo intuitivo, dia il risultato mirabile d'unequilibrio talmente ideale da sembrare, come tutte lecose perfette, forse freddo perchè in realtà esprime un'e-spressione di calma e non un anelito, già un appagamen-to e non solo un'aspirazione.

Così la figura del Goethe mistico, del Goethe intuiti-vo, che scorge e suffraga la divina gerarchia dell'univer-so, può ben dirsi precorritrice di quelle del Carlyle, delMazzini, dell'Emerson e spiega come all'angoloso equasi settario Carlyle, mistico e pur chiaro, nella lucecruda del fanatismo, egli fosse così completamente caroe quasi sacro.

È perchè egli ne fu quasi un precursore e la «divinaidea del mondo» del Fichte era già immedesimata nellasua mente.

Da questo punto di vista si comprende come egli rite-nesse giusto, «che le religioni siano l'opera di uominisuperiori (sono sue parole testuali) e come tali propor-zionate ai bisogni e alle facoltà di una grande massa deiloro simili, poichè se esse fossero l'opera di Dio, nessu-no le comprenderebbe».

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Ciò perchè l'autore del Faust fu un poeta nel verosenso della parola; e come tale un inspirato, che deveaver avuto cognizione, sia pure incoscientemente, delmondo dell'anima, il qual mondo, sebbene invisibile ainostri occhi terreni, è quello da cui veramente scaturiscel'influsso della grande poesia.

Dante, Eschilo, Milton, Shakespeare, Victor Hugo, èin quel mondo che hanno tolto le loro immagini, allastessa guisa di Goethe, perchè il poeta, secondo il giudi-zio che ne dà la signora De-Staël, che di poesia di certodoveva intendersene, è l'interprete dell'Idea Divina, chetrovasi al fondo di ogni apparenza; ed è come il rinno-vellatore dell'infinito.

Perciò non deve stupire, nota P. Raveggi, se nei pen-sieri dei grandi poeti nuota sempre qualcosa di vago,d'infinito, di misterioso, quale il sorriso di una fata, chene confermi la loro origine ispirativa e profetica; e chece li fa sentire usciti di getto dal loro cervello, alla stessasomiglianza di Minerva armata. Ed allora comprendia-mo perchè in essi debba esistere tanta lucidità di perce-zione, tanta potenza d'inventiva e tanta naturalezza diforma, come se le loro strofe fossero modellate avanti disgorgare dalla loro penna per volontà di una qualcheforza sconosciuta, che quasi le suggerisca al loro pensie-ro.

La loro ispirazione è dunque il colloquio incoscientecol mondo delle anime; e quindi non ci stupisce perniente affatto la serenità con cui questi animi eletti ri-

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guardarono il fenomeno della morte, ritenendolo un fe-nomeno transitorio, che prelude la metamorfosi dellacrisalide umana, dalla quale deve sbocciare l'angelicafarfalla più eterea e radiosa di una libellula terrestre....

I genii poetici sentono innegabilmente la presenza diquesto mondo sconosciuto, onde per essi la morte ha unche di fascino, il quale lascia adito nella loro mente allepiù ardimentose fantasie: così e non altrimenti ci espli-chiamo l'indifferenza, anzi il senso di simpatia, con cuine parlano!

Perciò poteva con tranquilla indifferenza esclamare ilGoethe al suo fido Eckermann, che ne contemplava lafigura come adagiantesi in una infinita pace d'espressio-ne: «Quando si ha settantacinque anni non si può man-care di pensare qualche volta alla morte.

«Questo pensiero mi lascia in una calma perfetta, per-chè io ho la ferma convinzione che il nostro spirito è diun'essenza assolutamente indistruttibile, e che continuaad agire d'eternità in eternità. Esso è come il sole, chenon dispare che all'occhio nostro mortale; giacchè, inrealtà, nel suo cammino non si occulta che in apparenza,da noi, seguitando a rischiarare senza posa altri occhi,che lo attendono desiosi».

Nessun filosofo platonico potrebbe aver avuto dellamorte una concezione più serena e tranquilla! E a luinon appartengono ancora queste parole, che ben palesa-no l'autore di quelle riportate più sopra? «Tutti questitempi son passati, quelli che li seguiranno passeranno

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alla loro volta, il corpo mio sarà lacerato e ridotto inbrandelli, come un vestimento disusato, ma io, che miconosco così bene, io sono e sarò!».

Onde ben a ragione, e con esattezza invero scientifi-ca, il Caro potè sintetizzare in breve e felice frase laconcezione cosmica goethiana:

«La creazione è per Goethe l'Eterna evoluzione dellasostanza, sempre in azione, che dal fondo dell'eternitàrealizza un'infinità di tipi.

«La natura è la serie delle forze e delle forme, infinitenel tempo e nello spazio: e le forme e le forze compon-gono una catena immensa, che anella il più umile e piùscuro fenomeno alle più gloriose manifestazioni dell'e-terna sostanza; e senza che vi abbia in nessun punto unasoluzione dell'illimitata e vivente catena dell'essere. EDio è il nome di questa potenza di vita, che mantiene laperpetuità dell'essere nella perpetuità del tempo. Pro-priamente parlando per Goethe, Dio non è un essere, maè l'Essere.

«Due grandi cose manifestano la sua presenza: nel-l'Anima Umana è l'amore, il quale non è altro che il sen-timento del nostro essere accresciuto, e nel Mondo Fisi-co, che non è distinto da quest'altro che in apparenza, èil sole, potenza fecondatrice.

«L'amore e la luce, diceva il celebre Poeta, ecco i dueagenti della presenza di Dio e nel mondo».

Onde, facendo confluire a un tempo il fiume delleevocate immagini e delle sensazioni profonde che stan-

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no negli oscuri abissi della nostra coscienza, con la visi-bile e aperta corrente in cui sono e vengono trasportate atraverso i tempi, a traverso i luoghi, le esperienze visibi-li dei sensi, egli potè alla foce di questi due fiumi, navi-gando sul mare tranquillo e chiuso all'orizzonte da pla-ghe serene, contemplare specchiata l'armonia supremain cui il suo pensiero, la sua anima, potevano omai dired'aver trovato il porto luminoso. E questa armonia vibrasolenne e limpida come in un dialogo di Platone ed è lavera, la totale sintesi del suo pensiero e della sua opera.

«Voi sapete da lungo tempo, che le idee le quali nontrovano nel mondo dei sensi un appoggio solido, qua-lunque sia il valore che conservano in sè, se non sononel mio spirito delle certezze, vengono da me rigettate,perchè io in faccia della natura non voglio supporre ocredere, ma sapere. Così io ho agito, per ciò che si rife-risce all'esistenza personale della nostra anima dopo lamorte. Essa non è naturalmente in contradizione con leosservazioni prolungate per anni, che io ho fatte sullanostra costituzione e sulla costituzione di tutti quanti gliesseri della natura, invece, da tutte queste osservazioniscaturiscono nuove dimostrazioni in favore di essa. Maquante parti del nostro essere meritano di persistere e divivere dopo la morte? È questa una questione affattonuova, anzi, invero, è un punto, che dobbiamo abbando-nare a Dio solo. Gli ultimi elementi primitivi, e per cosìdire i punti iniziali di tutto ciò che apparisce nella natu-ra, si dividono, secondo me, in differenti classi e forma-

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no quindi una gerarchia. Questi elementi si possonochiamare anime, poichè essi animano tutto; ma chiamia-moli piuttosto monadi, procurando di conservare questavecchia espressione leibniziana per significare la sem-plicità dell'essenza più semplice, tanto più che non sa-prei trovarne una migliore. Ebbene di queste monadi, opunti iniziali, l'esperienza ci dimostra che ve ne ha dellesì piccole e delle sì deboli, che non sono atte se non adun'esistenza o a un servizio subordinato, mentre altresono possenti ed energiche.

«La monade di un mondo può dal senso oscuro deisuoi ricordi far scaturire molte idee, che assumono l'ap-parenza di idee profetiche, e che tuttavia nel loro fondonon sono forse che i ricordi confusi di una vita anterioretrascorsa, e per conseguenza un atto della memoria.

«È per questo mezzo, che il genio dell'uomo ha mes-so a nudo le tavole sulle quali sono iscritte le leggi, chehanno presieduto alla nascita dell'Universo, una fortetensione dello spirito non sarebbe stata sufficiente, ed èabbisognato che un ricordo, come un lampo, sia venutoa brillare nelle nostre tenebre, ricordo della Creazionealla quale la nostra anima stessa assisteva».

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IL LEOPARDIE LA NOSTRA CIVILTÀ INDUSTRIALE

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G. Leopardi e il progresso.

A Ulisse Ortensi.

I.

«L'Accademia dei Sillografi attendendo di continuo,secondo il suo principale instituto, a procurare con ognisuo sforzo l'utilità comune, e stimando niuna cosa esserepiù conforme a questo proposito che aiutare e promuo-vere gli andamenti e le inclinazioni

Del fortunato secolo in cui siamo,

come dice un poeta illustre, ha tolto a considerare dili-gentemente le qualità e l'indole del nostro tempo, e dopolungo e maturo esame si è risoluta di poterlo chiamarel'età delle macchine, non solo perchè gli uomini di oggi-dì procedono e vivono forse più meccanicamente di tuttii passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo nume-ro delle macchine inventate di fresco ed accomodate oche si vanno tutto giorno trovando ed accomodando atanti e così varii esercizi, che oramai non gli uomini male macchine, si può dire, trattano le cose umane e fannole opere della vita».

Così – colla sicura antiveggenza del suo genio – l'uo-mo, che, quantunque non avesse potuto chiamarsi al pari

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di Enrico Heine il primo del secolo (nè cronologicamen-te lo poteva proprio) fu – più che del tempo in cui visse– dell'era che vaticinò il poeta e il profeta a un tempo;così Giacomo Leopardi di questo secolo, appena inizia-to, vide passar sotto il suo sguardo formidabile tutta lavita futura, quale si sarebbe svolta fino a settantannidopo la sua morte – e di tal vita le caratteristiche essen-ziali. Ed ora l'affermazione del poeta, anche il più umiledegli eruditi è in grado di valutarla esattamente alla stre-gua dei fatti compiuti.

** *

Simile all'impeto dell'alluvione presso la foce di ungran fiume, sembra ora che pur alla foce di questa no-stra età fervano in piena confusa e superba tutte le aspi-razioni, le sensazioni, i sentimenti svariati che la caratte-rizzarono....

A noi, di questa corrente gigantesca e procellosa –che batte la riva con fragore insolito presso a mari di si-lenzio e d'oblio – è ben concesso omai risalire il corsointero; rappresentarcela nella reale figurazione sua, os-servarla nel cammino, nei suoi meandri, nelle sue pienee nelle sue normalità – e descriverla, infine, esprimen-done le prerogative essenziali e più appariscenti.

Come fu variamente giudicato questo nostro momen-to, e quante di tutte le definizioni onde si volle caratte-rizzarlo interesseranno la curiosità soltanto nei posteri,

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che con maggior copia di argomenti potranno (meglioassai di quel che ora a noi sia dato) sceverare ciò che dicaduco in esso vi fu, da quel tanto di duraturo che l'atti-vità nostra avrà prodotto!

Definizioni che non val la pena certo d'esaminar tutte;e nemmeno tutte quelle serie: e come dubitare che i cul-tori di date discipline, osservando i progressi grandi etuttavia recenti da esse compiuti, non sostengano (e af-fatto in buona fede!) che la nostra età deve prendernome da quella scienza ch'essi coltivano e tanto avanzòsulla sua via? Chiedete – ad esempio – al Berthelot, alsuperbo chimico che scrisse or son quarantanni «il n'y aplus des mistères» come definirebbe il secolo XIX; eglicerto, dopo avervi dimostrato che a lui spetta il vanto diaver elevata l'alchimia a dignità di scienza, troverà nulladi più naturale che ad essa s'intitoli.

Immaginiamo ora questa domanda e questa rispostacome pôrte e date in seno a un'assemblea di dotti.... nonvi par già di scorgere lo scompiglio che ne nascerebbe, el'astronomo, il fisico, il meccanico e magari anche il fi-lologo sorgere protestando in nome delle loro discipline;rivendicando a ciascuna d'esse l'onore di caratterizzarecol suo nome l'attività del secolo morente?

Fra le definizioni più autorevoli dell'età in cui vivia-mo, resta sempre quella di Guglielmo Gladstone che lachiamò il «secolo degli operai».

Certamente, mai come ora – e specialmente nei paesianglo-sassoni – la classe operaia si trovò organizzata

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così poderosamente. Si direbbe che la comunità dei la-vori e dei bisogni abbia avuto virtù di stringere e ribadi-re fra i lavoratori tutti i vincoli d'una fratellanza, d'unasolidarietà che s'elevano oltre ai confini delle singolepatrie e, sorvolando la vastità degli Oceani, tendono al-l'universalità completa!

In verità però, che ad ogni modo questo dominio dellaclasse popolare non sia che un'aspirazione soltanto, tuttilo vedono; e la realtà d'oggi si è che questo dominio nel-le nazioni più forti e più colte e più ricche del mondospetta alla borghesia; onde la così detta «lotta di classe»,con cui la parte socialista volle affermar la sua esistenzae i suoi metodi di battaglia, ebbe fra i suoi risultati – e ilprincipale forse – quello di far vieppiù e viemmeglioconscia la plutocrazia di sua attuale enorme potenza estrapotenza.

** *

Nessuna definizione adunque – anche di gran lungaposteriore – credo possa entrar in gara coll'ironico su-perbo vaticinio del poeta di Recanati.

Il «secolo delle macchine» è qualche cosa in realtàche possiamo dir nostro senza dubbii e senza eccezioni,che niuna età conobbe finora. Nostra è (e solamente no-stra tuttora) tutta questa congerie multiforme di macchi-ne, di ordigni, di meccanismi d'ogni misura e forma –adoperati per ogni uso – che ci sta attorno ed a canto da

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ogni parte, e sembra destinato a semplificare ogni attodella vita e realizzar, colla maggior rapidità, ogni desi-derio di moto e di lavoro.

Si direbbe impresa cui il secolo abbia lavorato e lavo-ri tuttora con febbrile ardore, il suo scopo, il suo sognoincessante, la sua gloria. Sorgeva appena esso e sorgeva-no anche quei primi e felici tentativi dei fratelli Steven-son cui dobbiamo il rudimentale tipo dellalocomotiva....

Da quelli anni chi può noverare i progressi, i perfe-zionamenti conseguiti dalla meccanica, dall'elettricità,dalle scienze che convertirono il ferro e il carbone instrumenti di luce, di moto, di calore, di vita e di morte?Chi può descrivere le infinite applicazioni susseguitesicon vertiginosa celerità; così che niuna minima legge dinatura rimase senza esperimenti e parecchie ne vantaro-no molti e svariati e ingegnosissimi?

Ancora oggi, da noi, assuefatti omai da continua abi-tudine a non meravigliarci più d'una quantità di ritrovatimirabili pur sempre, ogni giorno nuove macchine mera-vigliose impongono, più che l'ammirazione, uno sbigot-timento quasi sacro al cospetto delle nostre medesimefacoltà, di ciò che mente umana può concepire e crearein un campo in cui pare che l'attività nostra voglia nonsolo emular la natura, ma superarla nella rivelazione enell'uso metodico delle sue stesse forze....

Dopo le grandi leggi, le leggi universali – che Leo-nardo divinò e Galileo e il Newton e il Volta formularo-

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no – eccoci alle applicazioni loro e alla soluzione di pro-blemi del tutto secondarii, e di adattamenti ancor piùminuti e varii. È uno sforzo, una ricerca continua nelrealizzar coll'aiuto dei ritrovati, anche più insignificanti,la più grande economia di forze, il maggior comfort pos-sibile. Nel mare della piccola industria si nuota fra i bre-vetti infiniti in cui i perfezionamenti continui, e spessoappena percettibili, trovan la loro sanzione – e i loro in-ventori spesso la ricchezza.

Edison è il prototipo dell'uomo moderno; quale que-sto scorcio di età l'ha concepito e l'intende. Coi suoiquattrocento brevetti, colla réclame sapiente di cui li haillustrati, coll'abilità onde colpisce i sensi e le immagi-nazioni dei non competenti, egli può passare e passa pelmago di nostr'epoca; così che intitolando a lui il mo-mento attuale se ne caratterizzerebbero forse le tenden-ze, i gusti ed il valore con non piccola esattezza.

II.

Ma questo secolo di così meraviglioso apparente pro-gresso, meraviglioso e nella rivoluzione delle industrie enello studio delle scienze economiche ad esse attinenti,come lo giudica il Leopardi? Come lo giudica?... A chiconsideri l'indole dell'uomo, la forza di penetrazione delsuo intelletto per naturale virtù sorvolante alle cime piùalte e serene della speculazione, la sincerità della suaparola, non deve riescir difficile l'argomentarlo.

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A quanti altri avrebbe potuto esser soggetto di illusio-ni belle e scientifiche il momento storico che dell'attivitàdel poeta fu partecipe e testimonio, momento curiosissi-mo e ricco talmente di vicende appassionanti, da turbare distrarre dalla contemplazione delle leggi assolute eimmutabili che governano il mondo altri spiriti (e neturbò non pochi....) e non meno indipendenti e solitarii!Chiuso fra due rivoluzioni, una da poco frenata e un'al-tra già matura e lì per scoppiare, quel periodo fu caratte-ristico, oltre che pei primi formidabili ritrovati meccani-ci, i quali dovevano trasformar tanta parte di vita e d'a-bitudini nel mondo, altresì per la singolare attività che lescienze tutte, e le economiche in ispecie, suscitarono neiloro cultori, per talune nuove orientazioni designate aglistudii sociali, pei nuovi orizzonti che agli occhi di tuttiparvero schiudere, per una notevole serie di indagini in-torno alle società stesse ed ai progressi loro: un periododi tempo in cui a qualche diligente osservatore non sa-rebbe difficile scoprir forti analogie con quello in cuitrascorre l'attuale parte di nostra vita.

Ma il Leopardi guarda tacitamente intorno a sè.... edoltre, e vede ed osserva e scrive.... la «Palinodia» a GinoCapponi. – Versi così garbatamente ironici, da secolinon erano usciti da penna di poeta:

Errai, candido Gino: assai gran tempo,E di gran lunga errai. Misera e vanaStimai la vita, e sovra l'altre insulsaLa stagione ch'or volge. IntollerandaParve, e fu, la mia lingua alla beata

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Prole mortal, se dir si dee mortaleL'uomo, o si può.

Ma l'alta progenie degli umani, fra stupita e sdegnata,ride dall'«Olimpo dorato» in cui soggiorna, alle afferma-zioni del poeta, che per ricredersi va nei caffè, in socie-tà, nei ritrovi dell'umana letizia ove non tarda «a rifulge-re viva ai suoi occhi.... la giornaliera luce dellegazzette».

Indugia il poeta a sconfessarsi completamente? No,certo;

....Riconobbi e vidiLa pubblica letizia, e le dolcezzeDel destino mortal. Vidi l'eccelsoStato e il valor delle terrene cose,E tutto fiori il corso umano, e vidiCome nulla quaggiù dispiace e dura.Nè men conobbi ancor gli studii e l'opreStupende, e il senno, e le virtudi e l'altoSaver del secol mio. Nè vidi menoDa Marocco al Catai, dall'Orse al Nilo,E da Boston a Goa, correr dell'almaFelicità su l'arme a gara ansandoRegni, imperi e ducati; e già tenerlaO per le chiome fluttuanti, o certoPer l'estremo del boa. Così vedendo,E meditando sovra i larghi fogliProfondamente, del mio grave, anticoErrore, e di me stesso, ebbi vergogna.Aureo secolo ormai volgono, o Gino,I fusi delle Parche. Ogni giornale,Gener vario di lingue e di colonne,

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Da tutti i lidi lo promette al mondoConcordemente. Universale amore,Ferrate vie, molteplici commerci,Vapor, tipi e cholera i più divisiPopoli e climi stringeranno insieme.Nè meraviglia fia se pino e querciaSuderà latte e miele, o s'anco al suonoD'un walzer danzerà. Tanto la possaInfin qui de' lambicchi e delle storteE le macchine al cielo emulatriciCrebbero, e tanto cresceranno al tempoChe seguirà: poichè di meglio in meglioSenza fin volerà così mai sempreDi Sem, di Cam e di Giapeto il seme.

È l'ironia suprema, è il supremo dolore dell'uomo percui l'umanità e il mondo non offrono allettamenti, nè in-coraggiano a un'illusione sola, che d'illusioni non è piùcapace (nè pur se vane) a popolar di liete parvenze l'or-renda solitudine del carcere del suo spirito, dell'uomoche ha già bevuto sino alla feccia l'amaro calice dellagrande miseria nostra e d'ogni cosa creata, dell'infinitavanità del tutto.

** *

Ma al sorriso amaro non tarderanno a subentrare isensi di più amaro corruccio e di più aspra indignazione:all'ironia sottentra il linguaggio preciso, rivelatore delleverità angosciosamente scôrte. E

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dagli aridi fianchiDel formidabil monteSterminator Vesèvo,

al cospetto d'uno dei più tragici naturali spettacoli di ro-vine senza cessa rinnovantisi, egli lancia l'apostrofe vee-mente e famosa al secolo in cui vive, a tutti i secoli chefurono e saranno:

....A queste piaggeVenga colui che d'esaltar con lodeIl secol nostro ha in uso, e vegga quantoÈ il gener nostro in curaAll'amante natura. E la possanzaQui con giusta misuraAnco estimar potrà dell'uman seme;Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,Con lieve moto in un momento annullaIn parte, e può con motiPoco men lievi ancor subitamenteAnnichilare in tutto.Dipinte in queste riveSon dell'umana genteLe magnifiche sorti e progressive.Qui mira e qui ti specchiaSecol superbo e sciocco,Che il calle insino alloraDal risorto pensier segnato innantiAbbandonasti e vôlti addietro i passiDel ritornar ti vantiE procedere il chiami.

Non lo vedete – prosegue il poeta – quanto natura siacieca, sorda, per nulla preoccupata di ciò che accade a

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ogni essere da lei creato, tanto che la furia immane dellalava, seppellitrice di città intere, è così importante aisuoi sguardi quanto la rovina che può produrre in unformicaio la caduta d'una mela dall'albero da cui pende-va? Certo, l'illusione del progresso continuerà ad esserpôrta da non poche forme esteriori della vita:

....Più molliDi giorno in giorno diverran le vestiO di lana o di seta. I rozzi panniLasciando a prova agricoltori e fabbri,Chiuderanno in coton la scabra pelle,E di castoro copriran le schiene.Meglio fatti al bisogno, o più leggiadriCertamente a veder, tappeti e coltri,Seggiole, canapè, sgabelli e mense,Letti, ed ogni altro arnese, adornerannoDi lor menstrua beltà gli appartamenti,E nuove forme di paiuoli, e nuovePentole ammirerà l'arsa cucina.Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,Da Londra a Liverpool, rapido tantoSarà, quant'altri immaginar non osa,Il cammino, anzi il volo; e sotto l'ampieVie del Tamigi fia dischiuso il varco,Opra ardita immortal, ch'esser dischiusoDovea, già son molt'anni. IlluminateMeglio ch'or son, benchè sicure al pariNottetempo saran le vie men triteDelle città sovrane, e talor forseDi suddite città le vie maggiori,Tali dolcezze e sì beata sorteAlla prole vegnente il ciel destina.

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Ma son veri e proprii fattori di felicità questi cui ac-cenna il poeta, o non piuttosto forme unicamente este-riori della vita, e di soddisfazioni e felicità simulacri piùche immagini, cornice al quadro dell'esistenza, adorna-mento e complemento e non essenza e realtà?

«Ben altre sono le leggi che han governato sin ora egovernano il mondo, ben più vaste e tenaci delle effime-re speranze cui alimentano meraviglie di ritrovati indu-striali e concezioni novelle della scienza e della filoso-fia» è la risposta dell'uomo che pose in opera tutte lemagnificenze e le potenze dell'arte sua per svolgere inogni parte con rigore di filosofo, con insuperata mae-stria di artefice la sua dottrina del dolore universale, ine-vitabile e irrimediabile. Il Leopardi diede a questa dot-trina tanta parte dello scheletro onde il suo organismoartistico è sorretto, da render inutile ogni altra illustra-zione....

** *

Tanto mi bastò aver mostrato il senso di divinazioneveramente straordinario con cui il grande Giacomo dagliavvenimenti in corso a' suoi tempi, seppe elevarsi almentale spettacolo e al giudizio di êre future – e il parersuo medesimo sui momenti storici così luminosamentevaticinati.

E su quest'epoca – che di nostra attività stiamo fecon-dando – egli portò opinione che non potrà non essere

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utile a quanti la considerino con serenità; non foss'altropei contrasti che evoca, per gli inesplorati orizzonti cheschiude al pensiero....

Ovunque, ovunque, dove la ricchezza pone in alto,sempre più, coloro che sostiene, e si trovano come sovracima ogni dì più elevantesi, voi vedete altresì diritti,profondi, incommensurabili, alla base delle vette su cuiè posto per pochi, gli abissi neri, immani, spalancati,senza fondo ad accogliere e richiedere senza posa chinon può tentar la salita, chi lungh'essa indugia... E queipochi – così chiamandoli – fortunati, che lor sorte propi-zia fondan necessariamente su sventure innumerevoli,son felici essi almeno?, lo sono davvero?

Interrogateli, non quelli precipitati al momento di toc-car la vetta, non quelli caduti sfiniti appena raggiuntala;no, chiediamone ai più soddisfatti; ai più gaudenti: ohno! neppur essi hanno bisogno di cercar dolori, nè penea prestito, anche per loro «a ogni giorno basta la suapena».

** *

Eppure non è ignota la presenza di beni migliori, epiù sicuri di quelli cui dan la caccia così faticosamente igiovani (in special modo dell'oggi), e spesso non valgo-no davvero quel che costano, vi son gioie più alte e piùpure delle ambizioni appagate, dei guadagni realizzati....il denaro, creando appetiti insaziabili, il suo desiderio

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non fa spesso sciupar la vita, o almeno i più belli anni diessa, nella ricerca di bisogni da creare e di mezzi ondeappagarli?

Ciò che il Leopardi pensasse del progresso, della ric-chezza, del comfort della vita, e di altre cose belle, è op-portuno forse rammentare ora.... La sua parola non puòanche oggi, e forse oggi più che mai, suonar, una voltaancora, a chi sa e vuole udirla, nunzia solenne di idealisalvatori ed eternamente e fedelmente consolatori, cuivolgere non invano lo sguardo nelle ore tristi della vita enelle liete?...

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Recanati e il suo poeta.

A Guido Chialvo.

I.

Il tronco di colle su cui si adagia Recanati appare bendi lontano a chi giunge dalla via maestra del Porto diRecanati che si trova a poca distanza da Ancona ed è lastazione ferroviaria più vicina.

Una strada per gran tratto in salita continua e tale daobbligar i cavalli della diligenza a procedere al passo,dando così agio al viaggiatore di contemplar più como-damente il naturale spettacolo pittoresco.

Intorno intorno son campi di grano cui i rosolacciscreziano col loro cupo scarlatto: son vigne, slanciatequali festoni lungo i filari di pioppi; son boschetti d'olivie querceti e canneti, son ontani dal verde metallico sucui l'occhio riposa oltre le siepi polverose e l'arida viacontorta ove passano sui carri gaiamente dipinti a fiori ea frutta, i contadini della Marca.

Salendo, si scopre al termine della ubertosa campa-gna, lene digradante sino al mare, la linea turchina del-l'Adriatico, dolce del refrigerante alitar della brezza. ERecanati intanto si fa sempre più vicino e distinte vie-

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meglio le forti mura che tuttora cingono il fiero paese,anche oggi orgoglioso di sua passata grandezza comuna-le.

La piccola città occupa in sua lunghezza un paio dichilometri – la stretta piattaforma su cui si adagia – co-sicchè consiste tutta, a propriamente parlare, in una lun-ghissima strada che ne è come la spina dorsale, cui met-tono capo, vertebre minori, talune brevi vie laterali.

La piazza centrale, dov'è «la torre del borgo» cantatadal Poeta, s'intitola a Giacomo Leopardi e s'orna anched'un monumento del poeta, raffigurato in piedi, tutto in-ferraiuolato e colle braccia al sen conserte, meditabon-do.

Nel Municipio, prospiciente, è la biblioteca ove sonaltresì adunati preziosi documenti e autografi dei Leo-pardi.

Dai balconi del palazzo, che dan sui campi dalla partedella marina, la vista è incantevole. Tutt'intorno, quasi aincorniciare il pianoro feracissimo, che scende alla ma-rina, che palpita e scintilla sotto il sole, sono colli dalpendìo lene, ben coltivati, qua e là cosparsi da gruppi dicasette gittate sui loro dorsi come dadi su un mucchio disabbia, mentre, oltre a due magnifiche vallate circostantiall'orizzonte, i monti, dalle cime più vicine, alle lontanevette della Majella, del Catria, del Gran Sasso, si profi-lano in catena irregolare, ardendo le loro cuspidi aguzzecome accese dalla vampa del sole meridiano.

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Tutto qui parla del Poeta. E non forse tutte a lui parla-rono le armonie della natura e della vita – quali si svelanin questi luoghi al non disattento uditore – quelle armo-nie di cui raccolse l'eco, concedendole il privilegio d'u-niversali vibrazioni nel verso signorile pittore di localicostumanze?

A Recanati tutta la realtà dell'arte del grande apparein sua meravigliosa evidenza.

La vita per queste rustiche e solitarie vie è ancor qua-le il poeta ricordò nelle strofe memorande; ed ogni ru-mor di voci, ogni gioco di fanciulli, ogni opera di donneod artigiani noi sentiamo che meglio non potremmo de-finire se non coi versi che affollano la mente:

Risorge il romorìo,Torna il lavoro usato.L'artigiano a mirar l'umido cielo,Con l'opra in man, cantando,Fassi in su l'uscio; a provaVien fuor la femminetta a còr dell'acquaDella novella piova;E l'erbaiuol rinnovaDi sentiero in sentieroIl grido giornaliero.Ecco il sol che ritorna, ecco sorridePer li poggi e le ville. Apre i balconi,Apre terrazzi e logge la famiglia:E, dalla via corrente, odi lontanoTintinnìo di sonagli; il carro strideDel passegger che il suo cammin ripiglia.

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Val la pena davvero di indugiar lungo quei viottoli,dinanzi a quelle stanze terrene – donde esce fumo e ru-mor di telai – per sentir tutta la verità ineffabile di queiversi in cui la donzelletta è descritta in atto di tornar dal-la campagna col fascio dell'erba e il mazzolino di rose eviole, mentre la vecchierella seduta nella scala a filareva novellando del suo buon tempo quando

.......ancor sana e snellaSolea danzar la sera intra di queiCh'ebbe compagni dell'età più bella.

E i fanciulli

…...gridandoSu la piazzuola in frotta,E qua e là saltandoFanno un lieto romore:E intanto riede alla sua parca mensa,Fischiando, il zappatore.

Certo queste descrizioni, episodii che l'arte con facili-tà potè far universali, son di carattere così comune che,pur non osservandoli, con lieve illusione la poesia li mo-stra presenti ovunque voglia. Ma in questi luoghi, al co-spetto di queste genti e degli atti loro, l'evocazione dellenote strofe si fa spontanea, s'impone. La realtà del qua-dro, vero anche nei particolari più minuti, la schiettezzadel tòcco, così signorilmente semplice, appaiono in tuttaevidenza e, fra questa rude progenie di aratori, il poetasi rivela sotto l'aspetto novissimo di lor cantore, di inter-prete degli istinti, delle tendenze, dei sentimenti fonda-

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mentali della propria stirpe; ci si mostra artista autocto-no, nel più verace senso della parola, quale riuscì ad es-sere, trasportando in un ordine superiore i tipi e le operee i costumi e la natura della sua terra natale.

Qui tutto parla di lui. Ed è fra tanta abbondanza di ri-velazioni che attendono il visitatore che s'inizia il piopellegrinaggio ai luoghi ch'egli maggiormente dilesse,ripagando coll'immortalità le gioie che gli concedettero.

Il colle «dell'injflnito» che Paul Heyse cita anche nelsuo bellissimo racconto: Nerina! è l'«ermo colle» cosìcaro allo sconsolato giovane e sul quale indugiava lelunghe ore della giornata e donde – raccontano i vecchidel luogo – il giorno in cui scrisse i versi memorabili incui è eternato, scese senza berretto, traversando il paesea capo nudo!

È assai poco discosto dal palazzo Leopardi, e il poetavi giungeva passando rasente ai muri del «paterno giar-dino» per una via campestre sempre deserta.

Ora è però affatto irriconoscibile da quello che era,occupato come si trova tutto intorno dal muro quadran-golare d'un convento che ai tempi di Giacomo non esi-steva, e quasi completamente franato nella parte inferio-re per sopperire al brecciamento della strada sottoposta,anch'essa d'età posteriore, essendo stata gittata nel 1846.Sussistono però sempre al basso le conifere formanti lasiepe

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…..che da tanta parteDell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Amplissima e davvero latrice della visione dell'infini-to è la vista che si gode di lassù.

Mentre a destra, sul poggio tronco, dal terreno bian-chiccio seminato d'arbusti su cui è adagiata, si scorge lacittà in tutta la sua lunghezza, a sinistra son sterminatipiani leggermente ondulati e solcati da simmetrici filaridi piante. A traverso la pianura, bianche vie si snodanoserpeggiando e mettendo capo alla prima fila di colli,dietro ai quali son le catene parallele dei monti dalle altecime avvolte sovente nei candidi fluttuanti vapori dell'o-rizzonte: mari di nebbia ove il naufragar è dolce al pen-siero.

Un altro poggio che, quantunque assai meno noto, fuamato dal poeta quanto e più forse dell'infinito, è MonteTabor, che l'Heyse parimenti ricordò anch'esso in vici-nanza della casa Leopardi, ma situato però dalla parteopposta.

Giacomo vi giungeva per un sentiero di cui sono trac-cie ancora. Disagevole cammino, specialmente nelle oredi sera ch'erano le sue predilette per recarsi a questo col-le, ma per lui preferibili alla curiosità degli abitanti....

Monte Tabor è il colle che inspirò i versi alla luna:

O graziosa luna io mi rammentoChe, or volge l'anno, sovra questo colle,Io venìa pien d'angoscia a rimirarti:

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E tu pendevi allor su quella selvaSiccome or fai, che tutta la rischiari.

La selva, cui accenna, è un boschetto d'acacie postoproprio a valle.

Altre memorie sono prossime e tutte notevoli.La «Torre del passero solitario» si scorge assai bene

dal colle dell'infinito. Per udire però il canto d'una cop-pia di passerotti esigliatisi per davvero – come gli abita-tori tradizionalmente ricordano – su quei ruderi, dalconsorzio degli altri pennuti, occorreva avvicinarsi dipiù alla città e alla torre verso un luogo ombroso ove ilpoeta avrebbe concetta la lirica sconsolata:

D'in su la vetta della torre antica.

Luoghi questi che per le idee e i sentimenti che si as-sociano non si possono scorgere senza emozione vivissi-ma e che al visitatore qualunque persona, anche indotta,addita e commenta. Poichè la caratteristica più simpati-ca di Recanati e dei suoi abitanti si è appunto il cultostraordinario pel grande che non fu – lui neppure – pro-feta in patria, ma di cui la memoria sembra ora più chemai il nume tutelare della città: tutti l'hanno letto e san-no a memoria, nè è chi ignori le storie di lui e di sua fa-miglia in questo luogo, di cui la postuma riconoscenzafece un immenso altare eretto alla memoria del Sommo.

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II.

Il palazzo dei Leopardi è all'estremità del paese espicca in fondo alla stretta via che ai Leopardi altresìs'intitola, è alto, a tre piani; il colore cupo di mattonedella facciata gli dà un aspetto più che severo, triste.Sotto l'arco d'ingresso, tutto in marmo bianco, sono, en-tro nicchie laterali, i busti di illustri personaggi della fa-miglia.

È per uno scalone, pure esso di marmo bianco, che sigiunge all'anticamera, dove chi accoglie di solito i visi-tatori è il vecchio Benedetto, il nonagenario servo dicasa Leopardi, che conobbe il poeta e se lo rammentabenissimo tuttora, anzi non chiede che di parlarne, men-tre fa vedere le sale terrene e quelle del primo piano, lepiù interessanti per il visitatore.

È una straordinaria ed indimenticabile impressioneche produce la visita di quelle vaste antiche sale ovepare che ancora aleggi il dolente spirito di Lui: una folladi pensieri assale ed occupa la mente; si direbbe, pervirtù di singolare incanto, di conoscere più intimamenteil poeta che abitò queste mura; sembra che esse dicanotante cose che egli non confidò alle carte; di vedere illu-minata da nuovissima luce l'opera sua; quanto egli scris-se, quanto noi ricordiamo acquista forza speciale ed en-tra fatalmente in un circolo armonioso dove tutto sicomprende, tutto si connette, tutto si ama di ciò che feceo disse l'artista.

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Non è una, sembrano mille lacune che la mente colmain quell'istante di fervida esaltazione: certo, se non erro,uno dei fenomeni più curiosi che a molti appaiono nelvisitar luoghi dove uomini illustri stettero, è appunto lasingolare visione che fa percepire con inusitata prontez-za tempi e figure, sgombra la nebbia che avvolge i pri-mi, e delle seconde delinea nettamente i contorni la-sciando rivivere per un istante quell'ambiente scompar-so, di cui solo rimangono traccie, simili a sassi sfuggitialla rovina del monte inabissato....

Il vecchio Benedetto mi precede nella visita delle salesuperiori, da cui cominciamo: la prima è un salone stileLuigi XIV. Fra i divani e gli alti specchi dorati sono tro-fei d'armi antiche.

In un salotto attiguo cominciano le memorie del poetache vi fece i primissimi studi e dal balcone prospiciente:

Mirava il ciel serenoLe vie dorate e gli orti,E quinci il mar da lunge e quindi il monte.

Ammiro, rievocandola, l'esattezza delle descrizioni atraverso altre «sale antiche», proprio quelle dove

Rimbombaro i sollazzi e le festose

voci di lui e dei suoi fratelli e dove ancor si vedono deifigurati armenti e, dipinto a tempera, il sol che nasce suromita campagna.

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Poco discosto, dalla parte del giardino è il famoso ap-partamentino, ove vissero assieme sì lunghi anni Giaco-mo e i suoi fratelli.

L'appartamento è detto tuttora «delle breccie» dal pa-vimento che è di tessere di marmo alla veneziana.

I tre fratelli, oltre ad una saletta in comune, avevanouna stanza per ciascuno. A quella di Luigino, il minore,era aggiunto un camerino ove egli, dilettandosi di mec-canica, aveva posto il suo laboratorio e dove riceveva difrequente le visite di Giacomo, curioso d'osservar il fra-tello al lavoro.

L'ultima, in fondo, è la stanza di Giacomo. Si conser-va tuttora intatta – assicura il servo – tanto che le tendi-ne di quando egli ci dimorava si tengon riposte affinchènon le sciupi la polvere. Modesta stanzetta, anzi umile,proprio da studente povero! Osservo il letticciuolo e levecchie e semplici sedie, il tappeto verde che ricopre unpiccolo tavolo su cui è un calamaio di terracotta: il suocalamaio!

Proseguendo il giro, mi trovo in un'altra piccola stan-za che tiene appeso alla parete un grande albero genea-logico della famiglia e disseminati sul pavimento unaquantità di proiettili, fatti raccogliere dal conte Monal-do, quale ricordo dei san-coulottes e di loro passata.

Da quelle stanze superiori si scorge nella sua conside-revole ampiezza il «paterno giardino» assai bene tenutoe ricco di bellissime piante. Si vede anche – un po' di-scosto – un gruppo di povere casette.

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Quale fra esse sarà la casa di Silvia, della umile, soa-ve figura muliebre, che con questo nome signoreggia lalirica leopardiana? Ne chiedo al vecchio servo che mi ri-sponde la casa di Silvia non essere più. «Era lì – dice –davanti a quel laboratorio dove ora è quel doppio filared'alberi novelli – era proprio una vecchia catapecchia dinessun valore, e fu demolita una trentina d'anni orsono».

Scendiamo alla biblioteca, e traversato un vestiboloeccoci innanzi a una bella fuga di sale, colme di libri.

La prima di esse, e per la descrizione mi rimetto peruna volta tanto a quel che ne lasciò scritto il vecchioMonaldo Leopardi nelle sue memorie: «sta nel mezzodella facciata della casa, nel primo piano superiore allecantine. V'erano un'alcova e alcuni camerini i quali iodemolii, riducendo tutto ad un solo vano come sta ora.Ciò fu nell'anno 1795, essendo io nell'età di 18 anni. Inprincipio feci collocarvi alcune scansie, poi, cresciuto ilnumero dei volumi, le scansie si dilatarono a tutto il girodelle pareti. Finalmente feci aggiungere due ordini soprala cornice, e la camera si empì di libri da cielo a terracome si trova presentemente. Contiene un poco più disei mila volumi. Così in essa ebbe principio la nostra bi-blioteca attuale, e perciò la chiamiamo negli indici laprima camera.

In essa faceva regolarmente i suoi studi il mio dilet-tissimo figlio Giacomo, tenendo il tavolino presso la fi-nestra, con le spalle volte a levante».

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A quel medesimo posto ov'era solito di studiare ora èil busto di marmo del poeta – opera dello scultore roma-no Luigi Guglielmi.

Qui è la raccolta delle edizioni del poeta e di quantiscritti lo concernono, qui sono i suoi manoscritti – dallagrafia nitida e regolare – chiusi entro un armadio fog-giato a piramide e coperto di cristalli. Sugli scaffali chegirano attorno alla camera e ne ricoprono totalmente lepareti sono i titoli dei gruppi d'opere – in latino secondola classificazione del conte Monaldo. Leggo: «Jurispru-dentia» «Historia Sanctorum» «Litterae humaniores» –e via via. Gli scaffali son venti e l'ultimo è quello delle«Miscellanee».

La seconda è uguale alla prima; contiene molte operesacre: i cartellini portano scritto: «Concilia» «Patres»«Dogmatica» «Ascetica».

Fra tanta letteratura liturgica è la scansia dei libriproibiti – «Prohibiti» – dalla sacra romana inquisizione.Questa scansia è custodita da una ben robusta rete di fildi ferro.

Vedo fra le altre le opere di Galileo, il Poema tartarodel Casti – e non vi trovo le Prose di.... Giacomo Leo-pardi, che pure vi stettero sino a venti anni or sono!....

Proseguo il giro. La terza camera contiene (leggo isoliti cartellini) «Poemata» «Opera varia» «Medicina».Poi in un'altra stanzetta è una raccolta numismatica, ric-ca di oltre duemila monete.

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Nella camera seguente – che è l'ultima della bibliote-ca – sono notevoli undici volumi manoscritti, cui Paoli-na Leopardi, la sorella del poeta, confidò pensieri ed im-pressioni ed ampj sunti delle sue letture assidue.

Uscendo dalla biblioteca, e proprio davanti ad essa, acapo d'una breve scaletta è un'altra stanzetta, sacra an-ch'essa alla memoria del poeta: la stanza dov'egli dormìnegli ultimi anni dell'adolescenza. È quella medesima dicui parla nel Primo amore e donde, nella terribile nottedi veglia e smanie e deliri che fu per lui quella della par-tenza della cugina Geltrude Lazzari, per cui s'era accesod'amore forsennato, egli udì

....i destrier che dovean farlo deserto

battere

....la zampa sotto il patrio ostello,

mentre egli, come racconta,

....timido e cheto ed inesperto,Ver lo balcone al buio protendeaL'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,La voce ad ascoltar, se ne doveaDi quelle labbra uscir, ch'ultima fosse.

Povero e grande sventurato – e povero e sventuratotanto perchè così grande!

Sarebbe egli meno infelice se potesse rivivere ora franoi, che ne onoriamo con tanto zelo la memoria?

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Il Zibaldone

Ad Alessandro Chiappelli.

Il Zibaldone di G. Leopardi non ci dice omai che frapoco dovrà essere universalmente celebrata la più vastagloria di colui che già celebrammo sommo nell'arte so-vrana della prosa e del verso, e che dev'essere alfine ri-conosciuto come la mente divinatrice e sicuramente do-minatrice del multiforme evo moderno?...

E in questo giornale rimasto inedito e in mano di duevecchie serve per oltre cinquant'anni, e di cui la pubbli-cazione iniziatasi nella ricorrenza del centenario, fucompiuta or non è molto; nelle quattromila pagine delloZibaldone (come tale noto – ma ancor troppo poco noto– al pubblico) la figura del Leopardi ci appare in piùnuovo e vasto e grandissimo aspetto.

Veramente – si dirà – non v'era bisogno rigoroso dellastampa dello Zibaldone per rivelare la grandezza dell'in-tuizione del Recanatese: già dalle opere sue, da tempoedite e molto diffuse, il Leopardi non appare, a chi vo-glia leggerlo, la mente più vasta e acuta e moderna cheil nostro tempo conosca, quella che rivendica al genioitaliano la più chiara e mirabile intuizione del suo esattocarattere e di sue risorse?

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Tutto il progresso industriale e sociale dell'età nostranon vediamo e vedemmo forse vaticinato con sbalorditi-va esattezza sulla Palinodia a Gino Capponi, ed ironica-mente contrapposto all'unico vero eterno progresso dellacoscienza umana; tutto il carattere fittizio di nostra civil-tà non è forse lumeggiato a pieno in quel vero testamen-to di un'anima che è la Ginestra?

Ma ecco: da questo nuovo materiale che forma settefitti volumi di stampa16, ciò che conoscevamo indicatoappare svolto a pieno, che era accennato s'illumina di di-mostrazioni; e tutta l'immensa congerie degl'immensimateriali adunata da quella mente immensa appare do-cumento straordinario della grandezza di tale genio, chein realtà nessuno di noi aveva sospettato grande e pro-fonda e straordinaria tanto....

L'intelligenza sovrana, che dettò tali note, appare ve-ramente assisa alla fonte del gran fiume di tutto il saperecontemporaneo, quale attraverso il secolo scisse poi ilsuo corso nelle arterie e nei rivoli minori delle speciali-tà; essa domina tutta la scienza moderna con la più chia-roveggente intuizione, con la critica più rigorosa.

«Sono – come si legge nella concisa relazione di Gio-suè Carducci – pensieri, appunti, ricordi, conversazionie discussioni, per così dire, del giovine illustre con sèstesso, su l'animo suo, la sua vita, le circostanze, a pro-posito delle sue letture e cognizioni (di filosofia, di let-

16 Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, di GIACOMO

LEOPARDI, volumi 7. Firenze, Successori Lemonnier, 1898-1902.

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teratura, di politica, su l'uomo, su le nazioni, su l'univer-so); materia di considerazioni più larga e variata che nonsia la solenne tristezza delle operette morali; considera-zioni poi liberissime e senza preoccupazioni, come ditale che scriveva di giorno in giorno per sè stesso e nonper gli altri, intento, se non a perfezionarsi, ad ammae-strarsi, a compiangersi, a istoriarsi. Per sè stesso notavae ricordava il Leopardi, non per il pubblico; ciò non per-tanto gran conto egli doveva fare di questo suo pondero-so manoscritto, se vi lavorò attorno un indice minutissi-mo e amplissimo, anzi, più indici a simiglianza di quelliche i commentatori olandesi e tedeschi apponevano aiclassici. Quasi ogni articolo di quella organica enciclo-pedia è segnato e dell'anno e del mese e del giorno incui fu scritto, e tutta insieme va dal luglio del 1817 al 4dicembre del 1832; ma il più è fra il '17 e il '27, cioè deidieci anni della gioventù più feconda e operosa, se an-che trista e dolente».

Il Leopardi in queste pagine si mostra realmente unadelle anime – direbbe l'Emerson – più rappresentativeche mai siano comparse al mondo. Anima singolare chesi svela sotto gli aspetti più varii e impreveduti, animaprofondamente osservatrice dei caratteri e delle vicendeumane; anima semplicemente divinatrice di tutti i nuovieventi morali e sociali.

Studiare le divinazioni del Leopardi come filosofo,mitografo, antropologo, astronomo (voglio dire: cultored'astronomia, poichè anche in questo fu grandissimo e

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uno specialista, il prof. Millosewich, lo ha già dimostra-to), etnografo, naturalista, economista, la sua sagaciaprofonda di critico della civiltà antica e moderna, del-l'arte e delle lettere di tutti i tempi, è lavoro che richiedel'opera concorde ed assidua di tutto un vero e vario col-legio di specialisti, è quello che – a quanto mi risulta –un gruppo di scienziati e di filologi si è accinto a fare.

Conviene quindi lasciare alla critica speciale delle va-rie discipline questo dovere e questo diritto di affermare,dal particolare esame d'ogni suo vario atteggiamento,tutta la grandezza di una mente precorritrice limpida esuperba di tempi e scienze e indagini nuovissime.

Poichè il Leopardi, in queste pagine memorande, ap-pare di tutte le più vicine anime grandi, cui la nostra avi-da coscienza chiese luce di verità e chiara dottrina, ilprecursore, anzi il padre; onde, come già le conosciamo,le massime e le verità in cui c'imbattemmo nei saggi deipiù varii e alti interpreti della coscienza e della sapienzamoderna dall'Ascoli al Renan, al Taine, al Rosmini, alDarwin, allo Spencer, dal Mommsen ad Augusto Comte,ad Antonio Schopenhauer, al Ruskin, al Carducci, alBrunetière, tutta la somma di queste dottrine, dico, ap-pare negli appunti d'ottant'anni fa, come nella più limpi-da fra le profetiche visioni.

La teoria dell'evoluzione (che nelle pagine di CarloDarwin prese infine figura e abito esatto) appare ben so-vente chiaramente espressa in talune sue leggi fonda-mentali, come quella della selezione, già illustrata nel

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dialogo: Della natura e di un Islandese; quella dei rap-porti fra l'indole degli esseri e l'ambiente in cui si trova-no e si trasferiscono; quella della lotta per l'esistenzanella società animale e nella umana....

E la teoria positiva di Ippolito Taine coi suoi celebritre fattori: la race, le milieu, le moment, non si trova giàesposta (senza soverchio apparato, è vero, ma pur sem-pre più che sostanzialmente) nelle molteplici copiosissi-me osservazioni, di cui è abbondante l'opera, sui caratte-ri delle civiltà antiche e sull'influenza che ebbe la naturafisica sul tipo degli abitanti?

E riappare altresì negli studj sulla civiltà moderna,sulle differenze fra settentrionali e meridionali, sulle ca-ratteristiche di lontani popoli esotici.

Poichè di tutti e di tutto s'è veramente occupato ilLeopardi, ed a chi venga desiderio di cercare, ad esem-pio, sotto la rubrica Chinesi, è dato leggere copiose notesulla loro lingua, sui loro costumi, sulla lor musica e let-teratura. E altresì, mentre dedica pagine delle più curio-se alle vetuste prime civiltà d'America, il precoce e soli-tario osservatore mostra di aver lucidissima la visionedella nuova funzione e del valore politico degli StatiUniti, appena sorti: l'antico e il moderno s'illuminanonella sua mente a vicenda, onde egli passa dagli Ebrei edai Greci ai Tedeschi, ai Francesi, agli Inglesi modernis-simi con osservazioni sulle essenziali e più intime quali-tà di lor carattere etnico da farci stupire una volta ancoradi tanta divinatrice penetrazione in chi, fuori da ogni

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contatto geniale, scriveva le sue note nella nativa borga-ta che egli qualificò di «selvaggia» e, in realtà, è più pit-toresca che intellettuale.

E le osservazioni sull'indole dei varii popoli lo porta-no a notare i vantaggi dell'applicazione (non ancora ten-tata, egli segnala) della psicologia alla politica, e quellesulle situazioni economiche delle nazioni a più vaste ri-flessioni intorno alla moneta e alle sue funzioni, e aicambiamenti presenti e futuri e alle forme di Governo eloro possibili trasformazioni.

In questo campo dell'osservazione di fenomeni attua-li, e con ogni probabilità futuri, il Leopardi appare veroe grande sociologo, quanto al metodo giornalista, nelvero (e un po' decaduto) senso della parola.

Non poche sue note sono veri e propri articoli di fon-do, che, del resto, fece assai bene a non pubblicare, per-chè la censura ne avrebbe sequestrati con ogni probabi-lità manoscritto e autore, e anche a non pochi parrebbe-ro oggi sovversivi.... Ecco due esempi circa quanto ilgiovane Leopardi, pochi anni dopo il congresso di Vien-na, scriveva a proposito di guerre e di eserciti perma-nenti e della loro futura crescente importanza... Sembrauna pagina di Leone Tolstoy!

Nei tempi che verranno, le armate non solo non iscemerannopiù, ma cresceranno sempre, cercando naturalmente ciascuno disuperare l'altro con tutte le sue forze e le sue forze stendendosiquanto quelle della nazione; quindi le nazioni intere, come fra gliantichi, si scanneranno scambievolmente, ma non, come fra gli

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antichi, spontaneamente e di piena volonterosità, anzi vi sarannocacciate per marcia forza, non odiandosi l'una e l'altra, ma essen-do in piena indifferenza....

Onde i popoli, sì per causa delle proprie e delle altrui armate,sì astraendo da ciò, saranno smunti, impoveriti, dissanguati, pri-vati delle loro comodità, impedita o illanguidita l'agricoltura collostrapparle i coltivatori e collo spogliarla del prodotto delle sue fa-tiche, inceppato e scoraggiato il commercio e l'industria coll'im-padronirsi che farà del loro frutto il sempre crescente fiscalismo.Insomma le nazioni, senza odiarsi come anticamente, sarannoperò come anticamente desolate, benchè senza tumulto e senzaviolenza straordinaria; lo saranno dall'interno più che dall'estero eda questo ancora, secondo le circostanze.

E dopo la profezia di terribile antiveggenza, ecco l'a-maro sarcasmo del giudice esatto di nostra civiltà e disue pretese:

Ecco i vantaggi dell'incivilimento dello spirito filosofico e diumanità, del diritto delle genti creato, dell'amore universale im-maginato, dell'odio scambievole delle nazioni distrutto, delle anti-che barbarie abolite.

Egli – in rapporto a più vasto sistema di vedute, cuiqui posso solo accennare – fa una calda apologia dell'a-mor patrio e vede con nitida chiarezza i pericoli e i dan-ni di un futuro cosmopolitismo più o meno imminente.

Non solamente le virtù pubbliche, ma anche le private e la mo-rale e i costumi delle nazioni sono distrutti dal loro stato presente(di mancanza di amor patrio e di coscienza cittadina). Dovunqueha esistito vero e caldo amor di patria, e massime dove più, cioè

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nei popoli liberi, i costumi sono sempre stati quanto fieri, altret-tanto gravi, fermi, nobili, virtuosi, onesti e pieni d'integrità. Que-st'è una conseguenza naturale dell'amor patrio, del sentimento chele nazioni e quindi gl'individui hanno di sè stessi, della libertà, delvalore, della forza delle nazioni, della rivalità che hanno collestraniere e di quelle illusioni grandi e costanti e persuasive chenascono da tutto ciò e che vicendevolmente le producono; ed ècosa evidente che la virtù non ha fondamenta se non nelle illusio-ni; dove manca la virtù, regna il vizio nello stesso modo che ladappocaggine e la viltà. Queste sono cose evidenti nelle storie edosservate da tutti i filosofi «e politici».

E altrove:

Quanto sia vero che l'amore universale, distruggendo l'amorpatrio, non gli sostituisce verun'altra passione attiva, e che quantopiù l'amor di corpo guadagna in estensione tanto perde in intensi-tà ed efficacia, si può considerare anche da questo che i primi sin-tomi della malattia mortale che distrusse la libertà e quindi lagrandezza di Roma risalgono alla cittadinanza data all'Italia dopola guerra sociale....

Onde, quando pur tutto il mondo fu cittadino romano, Romanon ebbe più cittadini, o quando cittadino romano fu lo stesso checosmopolita, non si amò nè Roma nè il mondo... e quando Romafu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadi-ni romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patriae lo mostrarono col fatto.

Così si esprimeva pei posteri tutti, e per noi special-mente, l'uomo che, oltre ai moti generosi che lui purepercossero di giovanili fremiti, oltre alla gloriosa epopeadi martirî e audacie senza paragoni onde la storia del ri-

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sorgimento italiano appare cinta di aureola imperitura,oltre tanto fervore di eroiche lotte, aveva scorta la posi-zione esatta, nella civiltà, del momento nuovissimo diquesta nuova terza Italia. E con la necessità della patriae dell'amore patriottico, un altro sentimento lo urgeva,un'altra questione lo inquietava, quella della lingua no-stra:

Un francese – egli osserva – un inglese, un tedesco che ha atti-vo il suo ingegno e che si trova in istato di pensare, non ha che ascrivere. Egli trova una lingua nazionale moderna già formata,stabilita e perfetta, imparata la quale non ha che a servirsene. Bendiverso è oggidì il caso dell'Italia. Un italiano, ancorchè perfetta-mente istruito in tutto ciò che si richiede oggidì in qualsivoglialuogo a un perfetto uomo di lettere...., volendo perfettamente scri-vere in italiano, ed essendo, per ogni altro riguardo, capacissimodi perfettamente scrivere, si trova mancare affatto della lingua incui possa farlo non solo perfettamente, ma pur medocrissimamen-te.

Idea questa che con le stesse parole trovo espressa daAlessandro Manzoni nel primo volume di Scritti postu-mi, uscito nel '99:

Quando un francese cerca di rendere come egli può le sue idee,vedete che abbondanza e che varietà di modi trova in questa lin-gua che egli ha sempre parlato.... Immaginate, al contrario, un ita-liano che scrive, se non è toscano, in una lingua che non ha quasimai parlato.... Manca interamente a questo povero scrittore il sen-timento, per così dire, di comunione col suo lettore, la certezza dimaneggiare uno strumento famigliare ad entrambi....

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E nel Leopardi le osservazioni sulla lingua e sulla let-teratura nazionale traevano valore di più ampia autoritàdai confronti continui che egli faceva con le letteratureantiche e con le moderne straniere, dai giudizi sullefrancesi, inglesi, tedesche, di cui penetra le caratteristi-che essenziali.

Rivolgendosi alle belle arti, la sua attenzione è spe-cialmente attratta dai problemi che noi crediamo ultra-modernissimi e sono invece di ogni età, e come tali sia-no (con stupefazione grandissima di non pochi che «mo-dernità» chiamano appunto la limitazione del loro sape-re), egli dichiara e spiega nel campo specialmente dellapittura e della scultura.... E intorno alla musica ha paroleda far maravigliare (come fu già dichiarato) i suoi stessicultori intorno alla sua conoscenza di loro arte, dellastoria e della tecnica musicale!

Lamentando la povertà espressiva dell'opera, il Leo-pardi sembra un precursore di Riccardo Wagner:

Questo della somma povertà d'espressione e calore (egli scri-ve) è pur troppo il generale difetto di tutta l'opera e massime dellascena, e nasce dal far totalmente servire le parole allo spettacolo ealla musica, e dalla confessata nullità d'esse parole, dalla qualenecessariamente deriva la nullità dei personaggi e così del coro, equindi la mancanza di effetto morale, ossia di passione....

Le citazioni potrebbero seguirsi senza posa. Su ogniarte, su ogni scienza egli impresse il suggello originaledelle sue indagini, delle sue riflessioni.

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Leggete le note sui caratteri precipui del genio, legge-te quelle sulla necessità di disciplinare a scienza la poli-tica e gli studii sulla società, tutta l'esatta diagnosi deimali onde l'età nostra è sofferente e vedrete una voltaancora, nel solitario pensatore di un secolo fa, un inten-so ed acuto veggente.

Così (per uscire con un'ultima citazione da questocampo che, dato il carattere dell'opera, può dar solomèsse in vero insufficiente) egli annota pensieri sull'usodella moneta, che, se da un lato sono simili, sino all'ab-baglio, alla dottrina di Carlo Marx, dall'altro le sono ditanto superiori di quanto la concezione serena e totaledell'ideale umano supera la visione e lo spirito di parte.

L'uso della moneta – egli scriveva – quanto è necessario aquella che oggi si chiama perfezione dello stato sociale, tantonuoce a quella perfezione che io vo predicando; giacchè il dettouso è uno dei principalissimi ostacoli alla conservazione dell'u-guaglianza fra gli uomini e quindi degli stati liberi, alla preponde-ranza del merito vero e della virtù, e l'una delle principalissimecagioni che introducono e a poco a poco costringono la societànella oppressione, al dispotismo, alla servitù, alla gravitazionedelle une classi sulle altre, insomma estinguono la vita morale edintima delle nazioni.

C'è di tutto, insomma, e per tutti.E per avere, adunque, adeguata idea delle infinite fac-

cie del poliedro di quell'intelligenza, non basta scorrere– nei minutissimi indici dal Leopardi stesso con ogni

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cura compilati – la rubrica contenuta sotto una dellequalsiasi lettere dell'alfabeto?

Scegliamone una qualunque: la lettera D; ecco quantosommariamente vi si comprende:

Dante (e seguono i numeri delle pagine in cui si discorre delpoeta), benefizio da lui fatto all'Europa e allo spirito umano conl'applicare il volgare alla letteratura.

Debolezza, amabile, Debolezza corporale prodotta dall'incivi-limento. Vedi Malattie. Delicatezza delle forme, Demetrio, dettoFalereo, e il suo libretto: Della educazione. Demoni, Angeli. Ani-me umane d'origine divina. Semidei, Apoteosi. Desiderio. L'uo-mo desidera sempre ciò che pensa. Desiderio della vita. Desiderîsoddisfatti. Despotismo. Dialetti greci. Dialetti latini. Dialetti ita-liani. Difettose (persone) non son chiamate per lo più che colnome del loro difetto: e perchè: Difficoltà moderata nelle scrittu-re, piacevole. Diffidenza di sè stesso. Digamma eolico. Vedi Con-corso delle vocali. Diminutivi usati come positivi. Diritto dellegenti, pubblico universale. Diritti dei principi al trono. Legittimi-tà: Disinvoltura nella società, impossibile a chi rifletta. Dispera-zione. Necessaria a goder della vita. Disperazione vera non si dàin natura. Disperazione tranquilla e benevolente. Vedi Rassegna-zione. Disposizioni naturali. Vedi Assuefazione. Disprezzo versoaltrui, negli uomini in genere, nei letterati, ancorchè giusto, suolessere segno di piccolo valore. Dittonghi latini e greci. Vedi Sini-zesi. Diversità, grande, anche fisica, che è da uomini e uomini.Divinità antiche. Gli antichi non abbassarono la divinità, ma in-nalzarono l'umanità, perchè stimarono le cose umane assai piùche il cristianesimo non le stima. Dolore. Vedi Piacere e Dolore.Dolore antico. Dolore naturale dei contadini, degli occupati. Sfor-zi estrinseci del dolore usati dagli antichi, dai selvaggi, villani,ecc., quanto utili, quanto provvidamente voluti dalla natura, stret-

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tamente interdetti dalla civiltà e dalla filosofia. Dolore delle sven-ture è maggiore nei corpi vigorosi. Dolori dell'animo. Dolori delcorpo. Molti affrontano i pericoli della morte; un dolore fisicocerto, senza necessità, ben pochi. Donna, cioè signora, galanteriadi questo nome. Donne. Maltrattate dai Greci e dai Romani anti-chi, sotto gl'imperatori erano già oggetto di galanteria. Doverimorali. Drammatica. Vedi Commedia, Comici, Coro, Tragedia,Teatri, Dubbio. Scetticismo. Du Cange. Avvertenza circa il suoglossario latino, necessaria da vedersi quando occorra il citarlo.Due poeti o scrittori sommi in uno stesso genere, difficilmente sitroveranno in una stessa letteratura.

Tanto per la lettera D. Un vero emporio, come vedete,di ricerche e note e osservazioni le più disparate che sipossano immaginare. Che, se volessimo passare a un'al-tra qualsiasi lettera vi troveremmo non minore copiosa,meravigliosa varietà... Così, sotto la rubrica E (per sce-glierne una a caso) vediamo come attraverso a una lan-terna magica, accanto alle numerose citazioni sugli«ebrei e la loro lingua e le loro leggi», una notasull'«eco» e osservazioni le più varie sulle edizioni, sul-l'educazione, sull'egoismo, sulla eleganza nelle scritture,sull'eloquenza, sull'emulazione militare antica e moder-na, poi sull'entusiasmo, sugli epiteti in Omero, sull'epo-pea, sugli eroi, sull'eroismo del delitto, sugli errori, suglieserciti, sugli esercizi del corpo, sull'esilio, sull'espe-rienza, sulle etimologie e sulla lingua estranea!...

Ordine questo, o meglio disordine costante e ugualesempre (se vogliamo prescindere dai legami finissimid'armonia e d'unità onde erano strette tutte le manifesta-

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zioni di quel sovrano intelletto), che si seguono attraver-so i sette volumi del «giornale» leopardiano, a dichiarar-ne ancora una volta il carattere di libro di varie impres-sioni, a giustificare nell'autore una sua massima in essocontenuta: che è necessario essere enciclopedico per riu-scire perfetto in una qualunque disciplina.

Ed egli enciclopedico lo fu e qualcosa di più ancora.Nota dominante di questi pensieri è il confronto con-

tinuo, e già accennato, fra la civiltà antica e la moderna,le conclusioni che dal paragone e dallo studio delle duederivano serrate.

Lo studio dell'antichità, delle arti e delle lettere paga-ne fu rimproverato al Leopardi da un critico recente.Questi, che al poeta nostro di rimproveri e censure nonfu avaro, notò, adunque, come «quel barlume che gli ri-maneva di luce obbiettava» fosse oscurato dagli studjclassici, i quali, suscitandogli i ricordi di tempi ed avve-nimenti lontani, lo distrassero viemaggiormente dalmondo presente, favorendo quindi sempre più la sua«involuzione mentale».

Lasciando al nostro critico tutta la responsabilità ditale opinione e solo per chiarire, invece, se vi fosse biso-gno, con quale animo e con quali criterii il Leopardi stu-diasse gli antichi e come odiasse con tutte le sue forze lapedanteria accademica e il feticismo dell'imitazione eogni sciatteria di vedute convenzionali, come egli fossemoderno – non per quella estrema limitazione di cono-scenza che molti chiamano modernità ed è invece sem-

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plicemente ignoranza, ma per ampia e illuminata visionedelle prerogative e dei bisogni del suo tempo – stanno aprovarlo principalmente, fra i moltissimi, due squarcidel suo giornale. In uno egli nota, con visibile sarcasmo,la sorte che i pedanti e i gretti eruditi amano far subirealle massime concezioni dell'ingegno umano:

È un curioso andamento degli studi umani – scrive – che i genîpiù sublimi, liberi e irregolari, quando hanno acquistato fama sta-bile e universale, diventino classici, cioè i loro scritti entrino nelnumero dei libri elementari e si mettano in uso dei fanciulli, comei trattati più vecchi e regolari delle cognizioni esatte.

Omero, che scriveva innanzi ad ogni regola, non si sognavacerto di essere gravido delle regole come Giove di Minerva o diBacco, nè che la sua irregolarità sarebbe stata misurata, analizza-ta, definita e ridotta in capi ordinati per servire di regola agli altrie impedirli di essere liberi, irregolari, grandi e originali come lui.Io compatisco tutti, ma in ispecie i poveri grammatici, i quali, do-vendo formare la prosodia greca sopra Omero, hanno dovuto po-polare il Parnaso greco di eccezioni e di sillabe comuni, o almenoavvertire che molti esempi di Omero ripugnavano ai loro insegna-menti; perchè Omero, innocentemente, non sapendo il gran fetodelle regole, del quale erano pregni i suoi poemi, adoperava le sil-labe a suo talento e fino nello stesso piede adoperava la stessa sil-laba una volta lunga e un'altra breve!

Così scriveva l'uomo cui lo studio dei classici avreb-be «ostacolato l'evoluzione delle facoltà mentali!». E inaltro brano, proprio a proposito della imitazione serviledegli antichi, chiedeva a sè e intorno a sè:

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Che smania è questa di voler fare quello stesso che facevano inostri avi, quando noi siamo così mutati? Un Omero, un Ariostonon sono per i nostri tempi, nè credo per gli avvenire. Questi,molto giudiziosamente e naturalmente, hanno recato nell'arte ilcangiamento necessario e derivante per sè stesso dal cangiamentodell'uomo. Vogliamo proprio essere nuovi Omeri in tanta diversitàdi tempi? Facciamo dunque quello che si faceva ai tempi di Ome-ro, viviamo in quello stesso modo, ignoriamo quello che allora siignorava, proviamoci a quelle fatiche, a quegli esercizi corporaliche si usavano a quei tempi. E se tutto questo ci è impossibile,impariamo adunque che insieme colla vita e col corpo è cambiatoanche l'animo e che la mutazione di questo è un effetto necessa-rio, perpetuo e immancabile della mutazione di quelli.

Con simili parole – qualora pure non ne avesse scrittealtre – Giacomo Leopardi ci porge la misura del suo ca-rattere e del suo ingegno, del modo come l'uno s'integra-va nell'altro a dargli la chiara e completa visione dell'etàin cui visse e di sue caratteristiche e dei suoi bisognimorali ed intellettuali.

Certo, egli non ne fu entusiasta: ma, se ebbe ragioni emolteplici e valide, a quanto pare (dappoichè non furo-no ancora confutate), per opporre a tante straordinarieapologie, che ancora oggi non smettono, il baluardo sot-tile della più fine ironia, di chi la colpa se non di questanostra appellata civiltà, vedova di ogni ideale, figlia del-la presunzione, madre e sanzionatrice di ogni volgaredesiderio, d'ogni bramosia mercantile? Di chi la colpa,se il giovane studioso nell'antica biblioteca di Recanati,traendo dalla indagine e dall'istruzione possente il qua-

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dro della civiltà antica, di molteplici civiltà antiche, loscorgeva infinitamente più ricco e bello di quello dell'e-tà grigia in cui egli visse e noi viviamo tuttora, dove ilfumo delle macchine e degli opifici ha surrogata la nubearmoniosa dell'opera disinteressata e dei sentimentiideali che altre età conobbero?...

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Monaldo Leopardi e i «diritti della guerra».

A E. T. Moneta.

Nella famiglia Leopardi alcune persone attendono an-cora la luce schietta che delinei la loro figura morale inmodo più conforme a realtà.

Monaldo Leopardi è una di queste: e, nonostante gliaccurati e coscienziosi studj che sul padre di Giacomo sivennero compiendo in questi ultimi anni, non tutte lefacce di questa figura veramente poliedrica furono ancorstudiate in modo da porre in giusta evidenza la grandis-sima singolarità di quel tipo, curioso e altresì assai piùgeniale e retto di quel che la mediocrità di sue normaliattitudini possa far credere.

Nato di nobile famiglia infeudata al Papa da tempiantichissimi: guelfo e legittimista oltre che – direi – pernascita, per educazione, per principj e per necessità tan-to morale che materiale – quest'uomo, che derivava lasua autorità dall'autorità morale e materiale ecclesiasti-ca, e, protetto dalla forza e coll'aiuto della religione po-teva benissimo agir in barba ad ogni legge morale chenon gli tornasse comoda, è invece una vittima delle ideeassolute, degli scrupoli di coscienza.

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Quindi egli crede nell'onestà e prende sul serio le ca-riche pubbliche, tanto che nel 1830 è costretto a dimet-tersi da una lucrosa sinecura, affidatagli dal pontefice,appunto perchè egli non vuol considerarla come tale, enegli affari che gli hanno affidati vuol fare e verificar dipersona, come crede suo dovere....

È una figura singolare, ripeto, questo Monaldo Leo-pardi, e chi lo porrà sul giusto piedistallo farà cosa chemolto probabilmente gioverà anche a far comprenderemeglio le varie affinità che lo legano al figlio.

Ma una delle manifestazioni più caratteristiche del-l'uomo è data dal documento che citerò fra breve, e por-ge, dirò così, misura dell'ampiezza delle oscillazioni delpensiero di quell'arrabbiato e curioso legittimista.

A Monaldo, nella sua qualità di primo fra i maggio-renti di Recanati, fu offerta nel '31 la più insigne dellecariche municipali, quella di Podestà, una buona occa-sione per trionfar degli avversarii, non è vero? ma egli,quantunque, si noti, vanitosissimo e pieno d'ambizione einfervorato oltremodo nelle lotte comunali – contro ognipressione d'amici e parenti, rifiuta; anzitutto perchè,dice, l'amministrazione della cosa pubblica gli farebbetroppo trascurare gli affari suoi privati; ma altresì perben più grave e forte motivo. Quale? lo spiega egli stes-so:

«Ogni anno dal nostro paese partono 30 coscritti. Ècerto che la guerra e le sue conseguenze tolgono la vitaalmeno alla metà di questi uomini.

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«Ditemi dunque: Se vi si offrisse un impiego, da cuivi venisse imposto di condannare ogni mese un malfat-tore alla morte, e se questo dovere si estendesse al per-seguitare questi rei, all'acuire l'ingegno per rinvenirli,allo strapparli alle braccia dei loro padri eccetera, lo ac-cettereste? Eppure sariano rei. Il Podestà di Recanatiogni anno cerca, e spinge a morte almeno quindici suoiinnocenti cittadini. Li deve allettare colla sua voce, per-suadere colle ragioni, atterrirli colle minaccie, ingannar-li cogli artifizi; deve perseguitarli nei loro rifugi, strap-parli dalle famiglie desolate, e spingerli finalmente aduna morte certa, crudele e non meritata. Amico, qualisiano i diritti della guerra e le ragioni di Stato, lo cono-sceremo nella gran valle, ma non mi proverete mai chesia prudente il rendersi volontario attore di questa gran-de, periodica, tragica scena.

«Direte che dovendosi pure eseguire questa micidialeoperazione, è meglio che sia fatta da chi sa renderlameno dannosa; ma fareste il boia per il minor male deicondannati, se vedeste colui strozzarli con poca mae-stria?».

E dire che queste righe – che a un secolo di distanzaciascuno di noi posteri... illuminati, non potrebbe tutta-via attribuire che a quell'asceta del pensiero che si chia-ma Leone Tolstoy, queste affermazioni, le quali si direb-bero tolte dalla più terribile opera del filosofo russo(quella intitolata: Le salut est en vous) – sono d'un codi-no.... d'un adoratore della legalità, del nobile guelfo che

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sino alla morte portò la parrucca e gli stivaloni e godevarimaner fra tante rivoluzioni del pensiero e della moda,vivente e appariscente rappresentante della feudalitàinabissatasi e chiamarsi con ostentato orgoglio «l'ultimospadifero» d'Italia!

Mirabile documento resta questo a sostegno di noninutili riflessioni che sul carattere di Monaldo Leopardipossono esser fatte e specialmente sulla singolar sua in-dipendenza di giudizio, e tanto più ammirevole inquan-tochè resa più difficile dagli attriti quotidiani delle lottepolitiche e sociali in genere, attriti che troppo spesso rie-scono a sottrarre anche agli occhi dei più imparziali lavisione delle finalità assolute della vita ed a radicar nel-le lor menti l'inutilità di quelle azioni disinteressate chemolti raffigurano quale zaino gravoso sulle spalle di chicorre il pallio dell'esistenza.

Così, che a Monaldo, conservatore e «legittimo»com'egli si proclamava, e strenuo paladino del trono edell'altare, i maggiori guai siano stati recati da coloroche per consorteria politica dovevan essergli amici, nonstupirà gran che; – solo che si pensi che quest'uomo osa-va tratto tratto ricordarsi di sfidar ogni legge e ogni con-suetudine.

Eppoi egli, così convinto della causa che propugnava,aveva fra l'altre l'ingenuità di difenderla con tutta serie-tà, senza esitare ad entrar in lizza cogli scrittori e pensa-tori rivoluzionarj... Onde i «legittimi» lo abbandonava-no spesso nella lotta ed egli se ne lamentava allora cogli

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intimi e ne scriveva anche al figlio Giacomo – tanto chequesti una volta gli rispose, profondendo il suo terribilespirito caustico nelle poche righe che seguono: «Napoli,19 febbraio 1836 – Mi è stato molto doloroso di sentireche la legittimità si mostri così poco grata alla sua pennadi tanto che essa ha combattuto per la causa di quella.Dico doloroso, non però strano; perchè tale è il costumedegli uomini di tutti i partiti, e perchè i legittimi (mi per-metterà di dirlo) non amano troppo che la loro causa sidifenda con parole, atteso che il solo confessare che nelglobo terrestre vi sia qualcuno che volga in dubbio laplenitudine dei loro diritti, è cosa che eccede di granlunga la libertà conceduta alle penne dei mortali; oltreche essi molto saviamente preferiscono alle ragioni, acui, bene o male, si può sempre replicare, gli argomentidel cannone e del carcere duro, ai quali i loro avversariper ora non hanno che rispondere».

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FRA LE ANIME D'ECCEZIONE

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Edgardo Poë poeta.

«Per me la poesia non è stata un proposito, ma unapassione» suona la frase che il grande poeta americanodell'amore e del dolore e di ogni nostalgia del pensiero edel sentimento volle posta come epigrafe a quel suo li-bro dei poemi, che oggi più che mai ne appare comeurna in cui siano adunati i più tenui e preziosi fastigidella mente e dell'anima sua.

È ancora in esse strofe, e forse vi rimarrà a lungo vival'eco di tutte le astiose controversie con cui si volle farespiare a lui in vita il privilegio onde avrebbe preservatoe conservato, come in aroma purissimo, il suo nome e lagloria di sue parole. Poichè «mai breve e sventurata vitadi sommo ed infelice genio» – come scrive veracementepresentando l'edizione completa dei suoi versi al pubbli-co italiano, Ulisse Ortensi – «accese tanta disputa fra ibiografi quanto quella di Edgard Allan Poë. Di fronte avili calunniatori – adoratori ardenti, amici devoti finoalla morte ed oltre la tomba, pertinacemente hanno com-battuto per salvare lo scrittore da ingiuste accuse, per re-dimere una vita di dolori, di sventure e di malinconiedalla macchia di un vizio che avrebbe gettato per l'eter-

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nità la sua fredda ombra sullo splendore di un astro chefu, a giudizio dei più, unico al mondo».

Il dottor Rufus Griswold, l'esecutore testamentariodel poeta, il finto amico di Maria Clemm, la suora di ca-rità e l'angelo custode di Eddy (come era appellativo fa-migliare di Edgardo), colui che entrò nel tempio dome-stico del poeta quando la morte lo liberò dal malinconi-co peso della vita e dell'odio del mondo, Rufus Gri-swold nella sua Memoria alla prima edizione delle operedel Poë pose la pietra fondamentale di quelle calunnie,che gli fruttarono il disprezzo degli onesti e dei buoni edil titolo di villano da parte della suocera del poeta. Cosìquell'obbrobrio e quell'oltraggio che avrebbero dovutoriposare sulla tomba dello scrittore diffamato, coprironoquella del suo esecutore testamentario. Quando questimorì, la vittoria aveva arriso ai difensori di Poë e la lottaera finita. Niuno avrebbe quindi pensato che dopo moltianni un erede di Rufus avrebbe osato riprendere le armiper tentar di purificare la memoria del padre con unosforzo supremo diretto a puntellare la Biografia da luiscritta per la prima edizione delle opere del Poë. Questoerede, William Griswold, pubblicò nel 1894, per mezzodell'editore George E. Woodberry, un volume di corri-spondenza del poeta, da cui, secondo egli, si sarebbe do-vuto desumere la prova migliore e decisiva della verità,dell'onestà e della felicità dei propositi di suo padre.Ora, se può perdonarsi al figlio di Rufus il tentativo diriabilitazione della memoria del suo infelice genitore,

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non si possono parimenti perdonare quegli eredi dei ca-lunniatori del Poë che, affamati dal disonore del grandeamericano, morsero voracemente coi loro denti guasti aquesto nuovo pane messo alla loro triste mensa dall'au-dace erede di Griswold. Se veramente tutte queste lette-re fossero state buone ed efficaci a discolparlo, non sicomprende come e perchè Rufus non le avrebbe pubbli-cate durante la sua vita per chiudere la bocca ai suoiacerbi critici. Ma in esse, per fortuna, non vi ha ombradi quella prova invocata dal figlio in difesa almeno dellabuona fede di suo padre, e la critica constatò ancora unavolta che, mentre erano assolutamente innocue, non solonon danneggiavano in alcun modo il carattere del poeta,ma invece riprovavano una volta di più che quelle diRufus furono solo maligne invenzioni....

Perciò, quanto più la figura del poeta di ogni nobiletristezza spiccherà vieppiù appariscente dallo sfondo delquadro del tempo che fu suo, tanto maggiormente appa-riranno lontane, indistinte, larvate e nebbiose le personee le voci che si levarono contro di lui o gli furono dap-presso continuamente insidiose, come i tàfani ronzantialle orecchie e pungenti ai fianchi del cavallo buon mar-ciatore lungo le vie di salita.

Onde, di tutto quel momento e di quante noiose opeggio vicissitudini si tentò ingombrare la via di quelgrande, è per rimanere solo l'immortalità del canto checonsacra il poeta all'ammirazione devota di quanti consimpatia gli si accostano e dove il dolore assurge alla

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più alta sua funzione di purificatore e ispiratore solennedell'arte stessa.

E tutta l'anima del poeta si rivela e si afferma nellasuperba consapevolezza del proprio destino e della forzacon cui la sua anima lo fronteggia e lo domina.

Ascoltiamolo:

A....

«Dovesse la mia prima vita sembrare – (come ben lopuò) un sogno – tuttavia io non pongo alcuna fede – nelre Napoleone – io non cerco là in alto – in una stella ilmio destino. – Partendo da voi ora – queste cose io vo-glio confessare: – Vi sono esseri e vi sono stati che ilmio spirito non ha visto: – io li ho lasciati passare pres-so di me – con occhio sognante: – se il mio riposo è sva-nito – in una notte, in un giorno – in una visione od innessuna – è esso perciò meno svanito? – Io sto in mezzoal muggito – d'una spiaggia battuta dal tempo, – e tengonella mia mano alcuni granelli di sabbia. – Quanto pochie come essi scivolano – attraverso le mie dita nell'abis-so! Le mie prime speranze? no, esse – passarono glorio-samente, – come chiarore del cielo – d'un tratto, e cosìpasserò io – Così giovane? Ah! no, non ora – tu non haivisto la mia fronte: – ma dicono ch'io sono orgoglioso –mentiscono, mentiscono ad alta voce – il petto batte perla vergogna – alla viltà del nome – che si osa combinare– con un sentimento come il mio – nè stoico? Io non losono: – nel terrore del mio destino, – io rido nel pensare

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quanto è povero – questo piacere di «soffrire» – Chè,ombra di Giove! Io – soffrire! no, no. Io sfido –».

** *

Eppure, per quanto egli lo neghi, l'orgoglio è il suonobile peccato, un peccato però che non so chi di noipotrà condannare, quando si pensi a tutte le privazionicui l'ostinazione in esso costrinse il poeta, quando sipensi alle lotte che gli procurò la sua irriducibile avver-sione a starsi con la turba dei mediocri, che lo volevanoimbrancato e umiliato nella loro schiera convenzionale einvidiosa e ai quali egli gittò sul viso (poichè è proprioper essi che «dell'arte fanno un proposito») la superbaaffermazione che «la poesia è una passione» e cometale dev'essere rispettata, poichè le passioni non devononè possono essere eccitate a volontà, nel pensiero dimeschine ricompense o di più meschine lodi negli uomi-ni.

Ad essa l'anima dell'artista aveva affidato tutti i suoisogni e tutti i suoi dolori, tutte le sue speranze e tutte lesue simpatie, e, col profumo d'ogni delicatezza, tutta sestessa.

Ed, è simile a murmure che giunga dalle vagheggiatepiù lontane e superne plaghe, che accarezzano il nostropensiero i versi musicanti una tristezza ben soave:

A F....

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«Amata in mezzo agli ardenti dolori che si affollanointorno al mio umano sentiero, – (triste sentiero, ahimè!dove non cresce neppure – una sola rosa solitaria) – l'a-nima mia ha almeno – un sollievo – nel sognare di te, edin ciò scopre – un Eden di blando riposo. – E così la tuamemoria è per me come un'incantata isola lontana –dentro un mare tempestoso – in qualunque oceano palpi-tante lontano e libero per – burrasche ma dove tuttavia –i più sereni cieli continuamente e proprio su questa –sola brillante isola sorridono».

A Frances S. Osgood.

«Vorresti esser amata? allora fa che il tuo cuore – dalsuo attuale sentiero non si diparta; – essendo tutto ciòche ora tu sei – non esser nulla di ciò che non sei. – Cosìnel mondo le tue gentili maniere, – la tua grazia, la tuapiù che beltà, – saranno un infinito tema di elogio, – edamore sarà un semplice dovere –».

A A....

«Io non mi curo che la mia terrena sorte – abbia pocodi Terra in sè – che anni d'amore siano stati obliati – nel-l'odio di un minuto: – io non piango perchè i desolati –sono più felici di me, o cara; – ma solo perchè voi v'af-fliggete pel mio destino – mentre io sono un passante –».

Non par di assistere alle mistiche nozze del Bello edella Bontà?

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Nell'onda dei versi fluenti tutta l'appassionata lirica diquesto sensibilissimo fra i poeti moderni ben fortementeriecheggia e rivibra....

Ed è con senso di dolce soddisfazione altresì che illettore italiano nelle forti strofe ove la visione dellagrandezza latina risorge, trova i versi suonanti, a untempo monito, incoraggiamento e presagio con cui nellerovine della «città dell'anima» egli, il veggente, dall'albadel secolo XIX scorgeva e sentiva la sempre vigile forzadominatrice dell'Idea:

«Queste mura, questi archi rivestiti d'edera, – questiplinti che si riducono in polvere, queste colonne triste enere, – questi vaghi cornicioni, questo fregio sgretolato,– queste cornici frantumate, questo naufragio, questa ro-vina, – queste pietre – ahimè! queste grigie pietre – sonotutto – tutto del famoso e colossale lasciato – dalle rodi-trici ore al fato ed a me? – «Non tutto». Gli echi mi ri-spondono: «Non tutto» – Profetici suoni e forti si levanosempre, – da noi e da ogni rovina, verso il saggio, –come melodia di Memnone al sole. – Noi dominiamo icuori degli uomini più potenti, noi dominiamo – con undispotico impero ogni gigantesco spirito. – Noi non sia-mo impotenti – noi pallide pietre – non ogni nostro po-tere è spento, non ogni nostra gloria, – non tutta la ma-gìa della nostra alta rinomanza, – non tutta la meravigliache ci circonda, – non tutti i misteri che giacciono in noi– non tutte le memorie che pendono – e s'aggrappano in-

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torno a noi come un vestimento, – abbigliandoci di unaveste che val più della stessa gloria!».

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Gli ultimi giorni di P. B. Shelley.

«Sull'oscura catastrofe onde la vita di P. B. Shelleychiudesi tragicamente come un dramma antico», GuidoBiagi, tempra eletta e severa di studioso e d'artista, havoluto far indagini accurate e risolutive.

Il poeta morì, com'è noto, sul Tirreno fra la Spezia eViareggio.

** *

L'acqua ebbe sempre sull'autore di Adonais un fasci-no, un'attrazione irresistibile, che si confermò – e s'ac-crebbe anzi – nelle varie occasioni che egli ebbe di ve-der dappresso la morte.

Il suo divertimento preferito era di dar la via ad unaflottiglia di barchettine di carta e di fissarle con acutodiletto fin che reggevano; una volta, seguendole coll'oc-chio: «Quanto mi piacerebbe – disse sorridendo – di po-ter entrare in uno di questi navicelli e di naufragare; do-vrebbe essere un genere di morte più desiderabile deglialtri»!

Così, essendo sul lago di Ginevra e la barca che con-teneva lui e il Byron stando per affondare «nel veder la

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morte così da presso (scrisse poi) provai un miscuglio disensazioni, tra le quali la paura non aveva il primo po-sto. Se fossi stato solo, i miei sentimenti sarebbero statimeno penosi; ma sapevo che il mio compagno avrebbetentato di salvarmi, e fui umiliato pensando che la vitadi lui avrebbe potuto esser messa a repentaglio per sal-vare la mia».

Stabilitosi in Italia, questa passione dell'acqua diven-ne addirittura morbosa.

La sua fissazione era causa d'angoscie continue neifamigliari, che, turbati, presentivano imminente una ca-tastrofe; presago del suo destino, vi si abbandonò eglicosciente omai di non poterlo fuggire nè affrettare?...

Già dal maggio del '22 lo Shelley s'era stabilito a S.Terenzio di Spezia abitando la casa Magni – poetica di-mora vicinissima al mare, che spesso fin entro le sue so-glie vi portava il salso saluto.

E con lui: la diletta Mary, ideale figura che tutta lavita dedicò al culto dell'unico amor suo – poi l'amicoWilliams e la moglie sua Jane.

Lo Shelley, trovatosi padrone d'un battello, l'Ariel in-traprese l'8 luglio una gita con Williams ed un marinaio.

Partirono – ma intanto, proprio in quegl'istanti, unatempesta terribile stava per troncare un lungo periodod'intenso sereno.... e nubi nerissime copriron presto l'az-zurro implacabile del cielo.... Il battello, guidato da gen-te mal pratica, fu avvolto nelle spire della burrasca – il

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mare spaventevole, il cielo buio, lo tolsero alla vista de-gli amici trepidanti.

** *

Seguirono giorni eterni, orribili d'incertezza, di dolo-rosa ansietà; le ricerche fatte non diedero alcun indizio.

Poi, qualche tempo dopo, giunse notizia di tre cada-veri rotolati dai marosi sulla spiaggia di Viareggio; eranquelli dei tre naufraghi, che, secondo le disposizioni sa-nitarie d'allora, dovevano essere cremati.

Gli amici del poeta (e tra essi il Byron) giunsero sulluogo fissato pel rogo.

Gli informi cadaveri a stento furon riconosciuti, e ilByron si pose a esclamare: «È questo un corpoumano?... o perchè somiglia più alla carcassa d'una pe-cora che a un uomo? Questa è la satira della nostra su-perbia e della nostra follia!».

Poi, mentre la pira del Williams ardeva, eccolo a pro-porre:

«Sperimentiamo la forza di questi flutti che annegaro-no i nostri compagni».

E si slanciò nelle onde agitatissime....Il giorno appresso (15 agosto) si bruciarono gli avanzi

dello Shelley.Questa volta al Byron non resse il cuore d'esser pre-

sente alla scena; si tirò indietro verso la spiaggia....

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«Il fuoco era così violento – narra il Trelawny – che ilferro era diventato bianco e il contenuto del fornello ri-dotto in ceneri grigie. Le sole parti non consumate eranoalcuni pezzi d'ossa, le mascelle, il teschio, ma ci sorpre-se tutti il vedere che il cuore era rimasto intero... Dopoaver fatto freddare il fornello, immergendolo in mare,raccolsi le ceneri umane e le misi in una cassetta».

** *

Ma la località precisa del bruciamento qual'è?Il Biagi riuscì pel primo a stabilirla in modo esatto

coll'aiuto di documenti del Governo toscano e delle te-stimonianze di vecchi pescatori che furono presenti alfatto.

Quest'indagine è la parte originale del suo lavoro, unrecente libro veramente organico, una vera opera artisti-ca, geniale e moderna.

Così resta accertato che un vasto arenile presso Via-reggio, a circa 250 metri dal mare, è il luogo ove fu arsoil «poeta filantropo, di cui il nobile cuore fu aperto adogni più alta aspirazione... l'uomo di cui lo strano carat-tere spirituale sembrava averlo preparato ad esser cosìstrappato dal mondo in circostanze belle insieme e terri-bili; mentre le sue facoltà erano ancor nella loro più fio-rente freschezza; nè la vecchiezza era sopraggiunta arender decrepito quel corpo etereo o a disseccare quelcuore che non potè essere consumato dal fuoco».

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Il pensiero di E. Ibsen nel «Borkman».

Ad Andrea Lo Forte Randi.

Volfango Goethe si compiaceva di paragonare i per-sonaggi dello Shakespeare a «quegli orologi di vetro cheper la loro trasparenza non celano uno solo dei minutiordigni onde son composti». Frase felice che val più didieci volumi di commenti!

Gli eroi – uomini o donne – dei drammi shakespearia-ni, a chi li osserva, non nascondono uno solo dei motidell'animo loro unicamente perchè sono «completamen-te sinceri». Tutti sinceri, sì, anche quelli d'essi che per larettitudine e la lealtà hanno un particolar disprezzo, an-che quelli che trattano la sincerità stessa nè più nè menoche da nemico personale.... Sinceri, non ostanti il lorocarattere e le loro tendenze individuali, solamente per-chè in essi la ragione ha perduto il suo controllo sullacoscienza, perchè la parola svela il segreto doloroso opietoso o nefando dell'anima, allorchè si presentano da-vanti a noi.

Sono dominati da una passione: ecco tutto, e quel cheil Tommaseo diceva dell'ira «che annebbia la mente esnebbia il cuore» si può affermare non meno a propositodella passione: annebbi o no la mente, essa certo pone a

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nudo quei sentimenti che tutti amiamo ordinariamentetener celati: i buoni per non essere lo zimbello dei tristi,costoro per ordir meglio la rete dei loro inganni....

E mentre dominano le passioni – buone o cattive –non siamo forse schiavi d'una misteriosa forza impulsi-va che ha le sue radici nelle radici stesse dell'essere no-stro; quella forza che, erompendo libera da freni, rivelal'essenza vera d'ogni sentimento, il principio unico edindistruttibile cui – spesso inconsciamente – sottomet-tiamo gli atti ed i pensieri, il segreto della forza e delladebolezza nostra, dei nostri ideali, della coscienza d'o-gni uomo insomma?

I.

Nel penultimo dramma di Enrico Ibsen Giovanni Ga-briele Borkman, quello che colpisce maggiormente, èche appunto tutti i suoi personaggi sono così «sinceri»(alcuni critici preferiscono dir «veri»), sono talmentedominati dall'unica passione «rivelatrice» del loro carat-tere, pongon con tanta prontezza nelle nostre mani la«chiave dell'animo» loro, che si deve riconoscer d'essereal cospetto di un'opera d'arte così grande e così potenteda meritare – dopo l'ammirazione – un esame minuto edattento quanto mai.

Chi legge Giovanni G. Borkman non si preoccupagran che di sapere se nel dramma esistano o meno «sim-boli». I simboli si cercano volentieri e con pertinacia,specialmente quando dal dialogo i caratteri dei perso-

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naggi non balzan con sufficiente chiarezza; è buona im-presa quindi indagarli nell'Architetto Solness, ed in unmeno noto dramma dello stesso Ibsen: Peer Gynt; maqui si vedono persone che hanno amato e sofferto, cheamano e soffrono intensamente; lo spettatore si interessasubito ai loro casi profondamente ed altamente umani: ilmagistero dell'arte lo domina, lo commuove, lo esalta atal punto da non concedergli tempo di cercar altri signi-ficati là dove vede tutto chiaro, tutto simile alla vita d'o-gni giorno....

** *

In una casetta dei dintorni di Cristiania abitano Gio-vanni Gabriele Borkman, sua moglie Gunilde ed il figlioloro Eraldo; abitano sotto lo stesso tetto è vero, ma nonsi può dire per ciò che facciano vita comune, anzi sonotto anni che la moglie non vede il marito rinchiusosivolontariamente al piano superiore della casa. Dal gior-no in cui vi si stabilì – reduce dalla prigione – si è nuo-vamente carcerato in una stanza ove nessuno viene a vi-sitarlo, se si eccettui un vecchio amico ed una sua nipo-te, alla quale il Borkman dà lezioni di piano.

Egli fu condannato per «appropriazione indebita», machi credesse quest'uomo – che a sessant'anni conserva

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un aspetto di nobile distinzione17 – un volgare ladro,s'inganna; egli è un poeta, ecco tutto.

Non tutti ammettono che esistan poeti fuori dellaschiera dei tessitori di strofe; eppure i romanzieri, glioratori, i generali, i finanzieri, gli scienziati veramentegrandi che altro sono se non poeti sommi che han saputopercepire distintamente armonie segrete di leggi supe-riori, non anco intraviste?

I grandi genî – in qualsiasi campo abbian esercitata lameravigliosa attività loro – non han forse tratti comuni iquali non possono sfuggire all'osservatore attento: co-muni i casi di lor vita ed uguali le battaglie che dovette-ro superare per giungere alla mèta?...

Poichè occorre del genio anche là dove molti si osti-nano a non crederlo necessario, e ben a ragione unoscrittore americano (il signor Chancey Depew) parla del«genio smisurato» del primo dei Vanderbilt, il famosocommodoro; evidentemente quell'uomo sognò dai primisuoi anni una ricchezza sterminata, così come altri va-gheggia il potere o la gloria: a quest'idea superiore sacri-ficò l'intera esistenza ed agi e riposo, poichè a lui, appe-na uscito dalla miseria, non bastarono le prime migliaiadi lire che avrebbero saziato ogni mediocre appetito,come non gli bastarono, poi, i primi milioni....

17 Tolgo questi e i seguenti ragguagli dalle note illustrativecon cui l'Ibsen ha creduto di sbozzarci il tratto fisico dei suoi per-sonaggi.

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Non forse così visse Napoleone, non curante di onoripresenti, sempre aspirando a più alti poteri, a dignitàmaggiori?

Come non osservare da questa tendenza a realizzarun'idea straordinaria con tanta persistenza e con tanto ri-schio, quanto grande sia la distanza che separa questiuomini dalla restante umanità? Giovanni G. Borkman èun poeta; si presenta ed agisce come tale, e non ci dob-biamo stupire se dopo la triste esperienza di parecchianni di carcere egli continui a vagheggiare i sogni che lotrassero alla rovina... Questo direttore di Banca che haposte le mani sui «depositi» dei suoi clienti per iniziarcerte sue gigantesche imprese commerciali e ferroviarie,ora se la fa passeggiando nervosamente per la stanzaaspettando il giorno in cui gli azionisti verranno, torne-ranno a lui per pregarlo di riassumere la direzione di unaazienda «che essi non sanno condurre....». Quel giornoverrà, oh se deve venire, ne è certo.... se egli non ne fos-se certo, si sarebbe già ucciso da un pezzo....

È la fiducia cieca in sè che gli dà vita, e «la fiduciabasta – lo sapete – egli dice alla povera giovinetta cui dàlezione di piano – non fate mai la follia di dubitar di voistessa». E altrove: «Se tu dubiti di te stesso, sei perdutoanticipatamente», soggiunge al buono e fedele amicosuo Guglielmo Foldal, un povero «vecchio dall'andaturastanca, dagli occhi azzurri, dalla capigliatura grigia erara, cadente sul colletto dell'abito, che gli va a far visita

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più che per consolarlo (l'indomabile Borkman non ha bi-sogno di conforti) per essere a sua volta consolato.

Questo Foldal è un povero illuso: non ha saputo arric-chirsi come tanti meno onesti di lui, e noi sappiamo dal-la sua stessa bocca che quando parla del successo e dellagloria che si ripromette da un suo vecchio dramma ine-dito, la famiglia, il suo sangue medesimo lo schernisce elo deride... «Ecco il nostro male, la maledizione chepesa su noi, gli isolati, gli eletti: la massa, la folla deimediocri non ci comprende!». Ed anche il Borkmanprova questo sentimento, – egli che si sente come un«Napoleone reso invalido alla sua prima battaglia, comeun'aquila ferita» – egli che deve «veder ancora gli altriimpadronirsi delle sue idee – ad una ad una....».

In questa massa dei mediocri che non comprendonogli eletti solitarj, l'Ibsen pone anche la moglie del Bork-man, la donna che dal momento in cui egli ritornò acasa, si rifiutò sempre di vederlo e di parlargli, e, dopoaver diviso con lui l'allegria dei giorni d'abbondanza e diprosperità, ora non vuol partecipare alle sue tristezze,alla sua onta.

Gunilde Borkman – così essa si chiama – è una «don-na d'età avanzata, dall'espressione immobile, dall'aspettonobile ma freddo; la sua capigliatura è folta e bianca, lemani trasparenti e fini».

Essa ha una sorella gemella – Ella Rentheim – che leassomiglia è vero, ma a cui dal «viso (ove son evidenti

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ancora le tracce d'una beltà espressiva) è sofferenzapiuttosto che durezza quella che traspare».

Là, la durezza e l'immobilità; qua la sofferenza e l'e-spressione: le due sorelle non sono nate per intendersi;la prima scena del dramma ce ne fa consapevoli. Poichèappunto il lavoro s'inizia con una scena fra le due sorelleche non si rivedono da otto anni – anch'esse – dal giornoin cui Giovanni Borkman fu rimesso in libertà.

Qual motivo spinse Ella Rentheim a far questa visitadopo una così lunga assenza?

Essa viene per riprendersi Erardo, il figlio dei Bork-man, ch'è suo figlio adottivo, e fu da lei allevato e tenu-to per lunghissimo tempo: essa lo rivuole, perchè loama, perchè sul suo volto le par di scorgere il ritrattodell'uomo cui era promessa, dell'unico uomo che essaamò in sua vita: di Giovanni Borkman. Ma GunildeBorkman non ha nessuna intenzione di cederle il suoErardo: egli deve far la felicità di sua madre restandopresso di lei, poichè essa sente che è destinato ad «unagrande missione» e – dice – «spargerà tanta luce intornoal loro nome da far sparire completamente le ombre si-nistre che lo circondano».

Il figlio Erardo, a dir vero, pare che pel momento alla«grande missione» cui è destinato non pensi gran che;egli, quando non è alla vicina Cristiania pe' suoi studj, èmolto occupato con una bella signora Wilson, venuta astabilirsi in paese, la quale lo porta di qua e di là a festee divertimenti; anzi, nella sera stessa in cui è giunta la

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zia Ella Rentheim, essa dovrebbe accompagnarlo ad unafesta da ballo presso la famiglia d'un avvocato Hinkel....

Ma poichè la zia è arrivata, egli è disposto a rinun-ciarvi, benchè a malincuore – e non senza risponder allamadre, la quale non cessa di ricordargli la «grande mis-sione» cui è chiamato, che egli «non vuol saperne difare il missionario». E questo sa anche la signora Wilsonche, prima di congedarsi per andar sola alla festa dov'èattesa, si arresta sulla soglia e gli dice scherzando:

— Però state in guardia, signor studente, non vi dicoaltro!

ERARDO. – Perchè devo star in guardia?Sig.a WILSON (allegramente). – Lo volete sapere? Io,

per istrada, mentre camminerò sola e abbandonata, spe-rimenterò su voi il mio potere magnetico.

ERARDO (ridendo). – Ancora?Sig.a WILSON. – Sicuro! Discendendo la costa, con-

centrerò tutta la mia volontà nel dir fra me: ErardoBorkman, prendete il vostro cappello!

Sig.a BORKMAN. – E credete voi che lo prenderà?Sig.a WILSON. – Certo, lo prenderà immediatamente.

Dirò poi: Erardo Borkman, mettete il vostro soprabito ele vostre caloches, e poi seguitemi; su, su, obbedite. —

Questa signora Wilson ha ragione di contare sul suopotere magnetico: è a pena uscita si può dir che, addu-cendo un vano pretesto, anche il giovane Erardo è inistrada e volge le spalle alla triste dimora ove abita.

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** *

Ella Rentheim è la padrona della casa ove abitano iBorkman: quella casa è sua – tutto in quella casa è suo,poichè gli averi dei Borkman furono sequestrati ed essinon hanno e non possono posseder cosa alcuna, chè icreditori tosto la sequestrerebbero.

Nella stessa sera del suo arrivo, ancor vibrante dellascena avuta colla sorella, sale a far visita a GiovanniBorkman....

Con quale emozione si rivedono essi, che avrebberopotuto esser tanto felici assieme e che il destino fece sa-cri – separandoli – a un'angoscia senza nome!

Poichè anche Giovanni Borkman ha amato Ella, l'haprofondamente amata: ed anzi a lei (solo a lei) ebbe ri-guardo nel concepir i colossali disegni che dovevanocondurlo alla rovina!

I beni che Ella gli aveva affidati furono i soli che dal-l'autorità fossero trovati intatti, perchè egli, pur confi-dando nella sua impresa, non aveva mai avuto il corag-gio di toccarli!

Ma questo amore non gli impedì di sacrificarla; il cu-pido desiderio «d'arrivare» dominava tanto tutte le altresue passioni, le dominava tanto tuttora, che egli alladonna, cui rese vuota l'esistenza, non si perita di narrarecome, pur essendo innamorato di lei, rinunciasse allasua mano per quella della sorella, affinchè un amico,che era in grado di farlo salire a più alte cariche, potesse

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esser libero di chieder in isposa Ella di cui era a sua vol-ta innamorato....

Ella, udendo la stupefacente rivelazione, essa che sinallora aveva creduto che il Borkman l'avesse abbando-nata solo per un capriccio, non può padroneggiarsi eproferisce la parola che esprime tutto il suo orrore: –Scellerato!

BORKMAN (trasalendo, ma dominandosi). – Non è laprima volta che odo questa parola.

ELLA. – Non alludo a ciò che potesti fare contro leleggi della nazione! Che importa a me dell'uso che tu fa-cesti delle azioni, delle obbligazioni, di quante carte era-no in tua mano? Oh, ma se io ti fossi stata vicina al mo-mento della catastrofe....

BORKMAN. – Che avresti fatto, Ella?ELLA. – Oh credimi: tutto avrei sopportato con gioia.

Avrei diviso tutto, la tua onta, la tua rovina.... tutto....tutto; ti avrei aiutato a portar il fardello....

BORKMAN. – Tu avresti fatto ciò? Ne avresti avuta laforza?

ELLA. – Forza e volontà non mi sarebbero mancate. Siè che allora ignoravo il tuo orribile misfatto.

BORKMAN. – Di qual misfatto tu parli?ELLA. – D'un delitto per cui non v'è remissione.BORKMAN (osservandola). – Tu perdi i sentimenti....ELLA (avvicinandosi a lui). – Tu sei un malfattore, tu

hai commesso il gran peccato della morte.BORKMAN (indietreggiando). – Sei tu pazza, Ella?

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ELLA. – Tu hai ucciso in me la vita dell'amore. Capi-sci quello che dico? La scrittura parla d'un misteriosopeccato per cui non v'è remissione. Sinora non avevomai compreso qual potesse essere questo peccato, ora locapisco. Il gran peccato che non ottiene grazia lo com-mette colui che uccide la vita dell'amore in una perso-na.... tu hai ucciso in me ogni gioia umana.

BORKMAN (con forza), – Non dirlo, Ella!ELLA. – Sì, tutte le gioie cui una donna può aspirare.

La tua imagine, dal momento in cui m'apparve, eclissòogni altra luce.... Durante questi lunghi anni crebbe inme l'impossibilità d'amare creatura vivente, fossero uo-mini, animali o piante.... dopo che tu mi tradisti ho per-duto ogni sentimento caritatevole. Non potevo più esser-lo.... Se qualche povero ragazzo lacero e affamato entra-va in casa per chieder qualche cibo, lo mandava in cuci-na. Mai una volta provai il bisogno di accoglierlo collemie mani, farlo sedere a un canto del fuoco e contem-plarlo mentre mangiava e si riscaldava. Eppure nellamia giovinezza sentivo ben diversamente; mi ricordocome se fosse oggi stesso....

** *

Però Ella non può obliare lo scopo principale di suavenuta, dopo che la sorella le ha rifiutato il figlio, e contenacia materna è disposta a contenderglielo sino all'e-

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stremo.... Essa è salita ad ottenere da Giovanni Borkmanil consenso a questa novella adozione di Erardo.

Borkman non gliela nega; tanto che egli è omai quasiuno straniero pel figlio suo. Ma i propositi di Ella non sifermano all'adozione, essa intende lasciar ad Erardo, ol-tre ai beni, anche il nome suo.

— Comprendo, – risponde il Borkman, – tu vuoi cheErardo non abbia più ad arrossire del mio! Io però sonouomo da saperlo portar anche solo.

— Grazie, – risponde Ella, afferrandogli le mani, –grazie; tu hai fatto il possibile con quest'atto per farmidimenticare i tuoi torti. Io sarei stata fiera, felice di por-tar il nome di Giovanni Borkman, morrò senza aver co-nosciuto questa gioia, però Erardo Rentheim vivrà dopodi me.

Ma una porta si spalanca, Gunilde appare:— Erardo, questo nome non lo porterà mai!

** *

Omai spetta ad Erardo di pronunciarsi, di sceglierefra la madre e la zia che si contendono il suo affetto.

La signora Borkman lo manda subito a cercare; maErardo non è alla festa dei signori Hinkel come avevafatto credere, si trova invece assieme alla signora Wil-son colla quale ha progettato di fuggire lontano, nelleplaghe luminose del Mezzogiorno.

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Egli giunge però, e credendosi sorpreso, svela il suointendimento; invano la madre lo scongiura, la zia Ellagli rivolge calde preghiere di rimanere con lei, di assi-sterla poichè è malata di male che non perdona, e il pa-dre (disceso anch'esso con Ella nella sala terrena) lo in-vita parimenti a restare....

Erardo resiste, resiste sempre. Egli ama tutti: la zia, lamadre, il padre, ma non può sopportar il giogo che essivogliono imporgli; egli è giovine, il fuoco della giovi-nezza gli arde nelle vene; egli vuole «vivere, vivere, vi-vere». Egli ha trovato la vita, la felicità, perchè ha trova-to l'amore, e se ne andrà subito, come aveva promessoalla signora Wilson.

Nella scena d'addio il contrasto fra i caratteri delledue donne che si contendono il suo affetto, si fa semprepiù acuto:

— Addio madre, – dice Erardo, e vuol tenderle lamano.

— Non toccarmi, – risponde essa; ed alla richiesta delfiglio: – è la tua ultima parola?

— Sì, – risponde duramente.Ma la zia Ella lo saluta con tutto l'affetto di cui è ca-

pace; essa sa sacrificare la sua felicità a quella dell'esse-re amato!

— Addio Erardo, – gli dice, – vivi dunque la tua vitae sii felice, tanto felice, quanto puoi esserlo!

Egli parte e tre anime si sentono schiantate per sem-pre.

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Ma ecco che Giovanni Borkman sembra preso da unarisoluzione improvvisa: egli vuol uscire, vuol slanciarsisolo, di quell'ora, nella tormenta della vita.... e dellaneve – in quella della neve intanto, per forza, giacchèinfuria in quel momento.

Ella Rentheim tenta invano di persuaderlo, poi, ve-dendolo così risoluto, lo accompagna: ha l'aspetto tantocadaverico il povero Giovanni, certo si sente male!

E salendo un poggio, in mezzo al turbinar della neve,in quella cupa notte, il Borkman ha la visione straordi-naria e sovrumana dell'opera sua, compiuta, quale egli lavagheggiò – la visione del suo «regno» – come egli lochiama «di vita e di lavoro»; vede il gran mare copertodi navi, ode il rumore continuo delle macchine dellefabbriche che egli ha creato a beneficio di migliaia e mi-gliaia di uomini. Ecco il mondo dei suoi sogni! Ed eglisaluta i suoi monti, le immense catene di montagne, nel-le viscere delle quali dormon le ricchezze enormi cheegli sarebbe sceso a liberare e profonder pel mondo!...quando, nel momento supremo della sua visione, una«mano di ferro» gli stringe il cuore: egli è morto, mortodi freddo; il freddo della notte lo ha ucciso, ma un altrogelo ben più terribile, il «gelo dell'anima», aveva già datempo «fatto un cadavere di lui, delle sorelle rivali, dueombre».

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II.

Tutto è umano in questo dramma, profondamente edolorosamente umano; le voci che vi si odono parlano alcuore e non alla mente, nè perciò è chi possa non com-prenderlo, non essere commosso nell'ascoltarlo.

Troppa parte, anzi, in esso della commozione che su-scita, dell'ammirazione che impone è dovuta al meravi-glioso magistero onde l'autore ha dato vita potente allesue creature, perchè a questo mirabile magistero d'artesia permesso solo un semplice accenno.

E il dramma, inoltre, colla squisita semplicità dellasua tecnica, colle armonie in cui il dialogo ondeggia,colle sue serrate unità ricorda – credo poterlo dimostrare– le creazioni che il genio greco fece, colle tragedie dio-nisiache, tipo insuperato d'equilibrio scenico.

Così non solo le famose unità vi sono osservate, macon tanto scrupolo che – per la prima volta, credo, sullascena moderna – l'azione si svolge «nel tempo stretta-mente necessario che si richiede dagli attori per ripro-durla sulla scena». Ma poi, altre relazioni di pensiero edi forma comuni alla tragedia greca ed a questo drammaibseniano meritano d'essere notate con attenzione.

Sarà curioso anche – non è vero? – di scorgere in qua-li rapporti si trovi coi Greci e coll'arte loro questo genioscandinavo, che parve sinora inspirarsi solo alla tecnicainsofferente di freni e di norme qual'è quella dello Sha-kespeare ed ai drammaturghi psicologi tedeschi (accen-no al Grabbe, all'Hebbel, al Ludwig), dai quali più parti-

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colarmente deriva; di questo genio che dei sogni nuovisembrò sinora il figuratore più espressivo e in tutte lesue produzioni (nelle ultime in ispecial modo) si è mo-strato così nordico per inspirazione, così moderno (nelsenso anti-classico della parola) per arte e percarattere....

Per toccare solo intanto di rapporti tecnici, noterò an-cora nel dialogo del Borkman un «artifizio», come lochiamò il Lemaître «che ricorda i monostici e i disticidei tragici greci. Se si eccettuino alcuni rari e brevi«couplets», le «battute» sono tutte di due o tre righe e sialternano con regolarità scrupolosa»18. Il critico france-se, cui dobbiamo questa pur fondatissima, per quantoevidente, osservazione, volle (peccato, davvero!) limi-tarsi a questa soltanto, mentre altri termini di rapporto sioffrono all'indagine dell'osservatore attento e si può diranzi che tutte, o quasi, le leggi che determinarono l'ela-borazione della tragedia greca si trovino qui osservate.

Alle unità meravigliose già accennai: e come non rie-vocar il deus ex machina, solo che consideriamo un po'attentamente l'episodio della morte di Gabriele Borkmanche tronca così inopinatamente l'azione scenica? Nèmanca al finale del dramma la catharsi: il riconosci-mento d'una possa suprema e la rassegnazione nel suo

18 Il Müller lo definisce un sintomo che l'azione drammaticaha perduto il principio del naturale svolgimento (Storia della lett.greca, vol. II, pag. 141), una soluzione quindi apparentemente il-logica e che in realtà non risolve nulla. Che più?

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reggimento.... e le due sorelle, mentre ai loro piedi giaceil Borkman, si porgono la mano... non han più forza or-mai di resistere a questo potere.

Ancora: l'idea della fatalità superiore ad ogni leggeumana, quest'idea (da cui il dramma ateniese è comple-tamente soggiogato) non domina anche i personaggi delnorvegese con terribile inesorabilità? Chi son essi senon povere marionette cui guida a suo talento il filo in-visibile del destino che stacca violentemente due animeche si amano e le costringe a vivere nel disinganno e nelrimpianto, che rende il giovine Erardo così involontaria-mente crudele verso i suoi cari e spinge il vecchio Bork-man a rigettar la facile via della felicità per quella aspradella rovina; mentre, non ancora pago, costringe l'ange-lica Ella Rentheim a subire durante l'intera vita le tre-mende conseguenze dei falli non suoi?

Definiamolo adunque questo rude dramma colle paro-le onde Aristotile caratterizzò la tragedia attica: «Unaperfetta e compiuta azione scenica che per mezzo del ti-more e della compassione, opera la purificazione dellepassioni», e non avremo nulla da aggiungere o levare.

** *

Ora, questo riavvicinamento di due tipi d'arte cheesprimono il carattere e le aspirazioni di due popoli cosìdiversi fra loro, e non solo per le diverse civiltà che diloro attività fecondarono, come dev'essere considerato?

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forse soltanto quale conseguenza degli studi e delle atti-tudini di un genio che vuol ora mostrare la sua abilitànel manifestarsi coi mezzi tecnici di quell'arte classicadella cui costante misura i drammaturghi settentrionalihan mostrato sinora di sprezzare, più che gustare, le de-licate armonie? L'affermarlo non manifesterebbe che laminor parte della verità.

Forse che sotto opposti cieli non possono manifestarsiidentici fenomeni?

Per conto mio dirò che ebbi occasione, durante unarecente gita in Grecia, di visitar l'oracolo di Delfo ed ilvicino torreggiante Parnaso, quei luoghi onde tanta epotente inspirazione venne ai tragici di Ellade dalla na-tura loro selvaggiamente maestosa. Osservando quelpaese che fu portato quale scena sul teatro al drammagreco, provai un'impressione stranamente complessa enon scevra di paura, che si può più agevolmente figurareche non descrivere.... Per giungere alle falde del Parnasodalla stazione più vicina non è piccolo tratto di via, e ilsentiero va tortuosamente incassato fra monti dalleschiene aride e nude; monti bassi però, considerando lamole del monte già caro alle Muse, che li domina conmaestosa fierezza, così come l'arte pura domina le ango-scie umane.... Proprio ai piedi di esso una valle a grandirocce, larga e profonda, scende giù giù e par più fosca eoscura, coperta com'è, al fondo e alle pareti, dalla fittis-sima verdura d'un bosco selvaggio.

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Armonica questa scena fu detta, e certo anche l'orridopuò simular armonie: quelle rocce, quei monti torreg-gianti intorno con selvaggia maestà, quelle schiene co-lossali senza un filo d'erba, quasi che un soffio malignofosse trascorso a inaridirle, da cui i massi sovrappostisembrano minacciosamente pronti a stritolare, precipi-tando, il viaggiatore; la maestà terribile dei luoghi suiquali pare pesi una millenaria maledizione, anche sull'a-nimo più avvezzo e meno impressionabile produconoun'impressione penosa, quel sentimento che grava nel-l'uomo allorquando è violentemente persuaso e, direi,costretto a riconoscere l'esistenza di una fatalità superio-re, invincibile e forse incomprensibile, e della meschinairrisoria capacità delle sue forze, ragguagliate a quelledell'invisibile Nume. Quelle solitarie rupi alpestri, al-l'ombra delle quali si compierono i crimini efferati che ilcarme dionisiaco immortalò negli epòdi angosciosi, per-cosse pur l'eco delle grida vendicatrici d'una Nemesiinesorabile, quali sembran tuttora risuonare fra loro fo-sche cavità!

Quelle grida e quell'eco – cui la tragedia sofocleaconcesse l'arduo privilegio di vibrazioni eterne – sonorimasti a rappresentarci il lato doloroso nell'esistenzaquale si manifesta anche nella più serena e gioconda let-teratura del mondo, anche fra gli eletti che più serena-mente sognarono il sogno della vita e d'ogni attività no-stra, videro e conseguirono la perfezione e le intravisteforme più pure dell'umana specie, tradussero nelle ar-

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moniose figure che l'arte crea a compimento e gloriadella natura!

** *

Ed in Scandinavia?Oh non è tanto difficile il supporre che in quel fanta-

stico e mostruoso mondo boreale, su cui le potenze terri-bili della natura incombono sempre come un tempo gra-varono misteriose su ogni luogo cui la mano dell'uomonon avesse ancora confortato di sue attività agresti, ilpensiero corra – non dirò con intensità superiore chenon sulla via di Delfo – ma con frequenza maggiore,ovunque fiordi giganteschi e ghiacciai e monti ed onde ebufere parlino della potenza irresistibile al cui cospettogli sforzi uniti di milioni d'uomini sono considerevoliquanto quelli del più debole insetto!

Le narrazioni dei viaggiatori in proposito sono con-cordi: ne scelgo una fra le più recenti ed autorevoli : «Inquella solitudine, al cospetto di quella natura fantasticae misteriosa e terrorizzante, come non pensare alla fata-lità, alla sovrumana potenza di forze superiori?»19.

E questa natura nell'opera ibseniana si riflette tuttacome in terso e nitido specchio: dai dialoghi della Fat-toria Rosmer, della Donna del Mare, del Borkman, tra-spare tutto l'horror ch'essa inspira: lo stesso horror che

19 V. Revue des deux Mondes (15 febbraio 1897), «Norvège»par Arvède Barine.

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si prova e scuote con strani fremiti al cospetto delle gio-gaie spaventose del Parnaso, e scosse quei tragici grecicui inspirò gli ammonimenti misteriosamente solenni eminacciosi, figli d'una sapiente rivelazione, non menoche di un sacro terrore.

Non così forse il dramma antico e questa tragedia delnorvegese si trovan vincolati, oltre che da legami lette-rari, da più misteriosi e robusti ceppi che indican supe-riore all'uomo ed ai suoi tempi, alla sua coltura ed alleabitudini della sua razza, la forza capace di più ampie emeno appariscenti armonie, cui l'ingegno solo intravidee non spiega e non comprende ancora?

III.

Difficilmente anche i più esigenti fra gli spettatorivorranno affaticarsi nella ricerca di alti simboli e diascosi intendimenti nel Borkman, dove tutto è semplice,tutto vissuto, dove l'amara esperienza della vita ed il ma-gistero mirabile dell'arte sono indissolubilmente uniti aformare il capolavoro: pure, poichè ogni lavoro dellamente umana non è che l'estrinsecazione e il comentod'una idea, non sarà oziosa la ricerca della legge, delprincipio superiore cui l'autore subordinò gli avveni-menti; poichè non occorre, parmi, che il dramma sia «atesi», perchè una tesi qualsiasi esista.... I lavori che sidicono «a tesi» son quelli – salvo errore – in cui il prin-cipio che li domina è completamente scoperto; ma ve nesono altri (a questa categoria non appartengono forse i

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veri capolavori?) in cui questo principio è così altamen-te – e spesso così semplicemente – umano, che l'autorenon sente il bisogno di rivelarlo a tutti....

** *

In Giovanni Borkman un critico tedesco volle giàscorgere nientemeno che l'apologia del famoso «supe-ruomo» (Uebermensch) di F. Nietzsche, l'apologia dellacrudeltà, della ferocia, dell'audacia, della mancanza discrupoli nella lotta per la vita.

Ma.... dove e quando quest'asserzione è giustificatadai fatti? Nessuna scena, nessuna frase nel dramma ib-seniano ci consente di dire in modo esplicito che l'autoreabbia voluto simboleggiare l'Uebermensch del Nie-tzsche.

Giovanni Borkman infatti, quantunque sia un «Napo-leone ferito alla prima battaglia» ed appartenga ad unarazza di vincitori, è (non dobbiamo dimenticarlo) unvinto, non solo, ma così poco «superuomo» (alla Nie-tzsche), ma un'anima tanto candida da confidar i suoipiani – arditamente semicriminali – a un.... amico chepoi lo tradisce denunziandolo.

Egli è un vinto; e come dovremmo stupire se qualcu-no volesse dimostrarci l'efficacia – ad esempio – del....siero Maragliano presentandoci tal individuo il quale,pur usando di quel rimedio, si fosse ridotto agli estremi,così non meno curioso è che si voglia scorgere l'apolo-

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gia d'una teoria colla presentazione d'un personaggio,che se pur avesse accennato seguirla, invece del trionfovi ha trovato il disonore e l'annichilimento assoluto.

Eppoi.... il carattere del protagonista è forse quellodell'uomo risolutamente e deliberatamente crudele qualelo vagheggiava l'inferma mente del filosofo tedesco?...Giovanni Borkman ha amato il dominio, il potere, èvero, ma quale? Lo dice egli stesso: «Il potere di crearee diffondere la felicità» intorno a sè.

** *

La tesi del dramma convien dunque cercarla in princi-pio diverso, anzi affatto contrario. A lettura finita nonpar forse che una voce s'alzi da quelle pagine a sussur-rarci: La felicità è vicina, perchè affaticarsi a cercarla at-traverso stenti e peripezie così lontano da noi? Chi lavuol conseguire non sacrifichi gli affetti suoi a passioni,a brame, ad onori che assolutamente non lo possonocompensare di ciò che ha lasciato e spesso scompongo-no la sua integrità morale; ricordi che solo l'uomo puropuò aspirare impunemente alle più alte conquiste, egliha sempre una linea di ritirata sicura, poichè non ha gio-cato i suoi affetti sul tappeto dell'ambizione, «perchènon è mai vinto un uomo cui resti un affetto».

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Il Borkman ha «errato fra le tenebre delle montagne,è disceso nello loro viscere con un lume per cercarvi laricchezza, la felicità»20.

E pure «vicino a lui, alla gran luce21 del giorno, uncuore umano caldo e ardente di vita batteva d'amore perlui». Quel cuore egli lo ha spezzato, peggio lo ha vendu-to, l'ha ceduto in cambio degli onori, del potere. Ed hacosì uccisa la vita dell'amore nella donna che lo amava eche egli pure amava con tutte le sue forze: «ecco perchènon trovò il premio del suo misfatto, perchè non potèentrare, nè entrerà mai nel suo regno di ghiaccio e tene-bre»22.

Se intenzione sua era di far la felicità dell'intera uma-nità, doveva prima cominciar col disporre le fila dellasua e di quella della donna che amava; e allora, anchequando non avesse vinto la lotta terribile cui s'apparec-chiava, gli sarebbe rimasta al fianco colei che era dispo-sta a dividere le amarezze della sconfitta, il disonorestesso: non è mai vinto l'uomo cui resti un affetto.

È lo stesso principio da cui è retto un dramma, diròmeglio un poema drammatico giovanile dell'autore:Peer Gynt.

Peer Gynt è il giovane che abbandona nella sua Nor-vegia la donna amata per cercar nel mondo, lontano da

20 Sono parole del dramma. – Atto IV, ultima scena.21 Sono parole del dramma, medesima scena. Sottolineo que-

ste parole; non è chi non veda la efficacia del voluto contrasto.22 Atto IV.

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Page 210: E-book campione Liber Liber...ARNALDO CERVESATO CONTRO CORRENTE SAGGI DI CRITICA IDEATIVA. Il primo uomo della nuova Italia Il primo uomo della nuova Europa Il Leopardi e la nostra

lei, ricchezze, potere, felicità. Egli viaggia, viaggia con-tinuamente dalla Norvegia al Marocco, dal Far-west al-l'Italia, e la stessa fortuna che lo aiutò a salire, lo tradi-sce replicatamente, cosicchè si riduce in patria vecchio epovero come ne era partito.... Nel villaggio natale trovaSolveig – la donna del suo cuore – che gli è rimasta fe-dele, ed a lui (poco prima che egli muoia) mormora: Ep-pure a canto a me stava la gioia, stava la felicità!

Ma Peer Gynt è poema dalle allegorie spesso troppooscure, e, pur essendo robustissimo lavoro, tradisce quae là difetti notevoli, cosicchè il pubblico d'un teatro bendifficilmente potrebbe comprenderne e gustarne a voloil valore e gli alti intendimenti....

Giovanni Borkman invece è accessibile a qualunqueplatea; esso parla, ripeto, un linguaggio che tutti com-prendono: il linguaggio del cuore.

Certo taluno, sedata la commozione, vorrà pur anchegustar l'eletta gioia di scoprir gli intendimenti dell'auto-re; vorrà veder l'autore stesso.

Dietro a quale dei suoi personaggi si cela egli?Dietro ad uno solo forse? È difficile, credo, stabilirlo,

poichè in questo dramma se vi sono personaggi antipati-ci, mancano i malvagi propriamente detti; ecco perchè aquasi tutti l'autore ha prestato alcuni dei suoi sentimenti,dei suoi pensieri....

La sovrana delicatezza della Rentheim, l'espansiva af-fezione del povero Foldal, le titaniche visioni di Gio-vanni Borkman non gli possono essere sconosciute; poi-

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chè anch'egli conobbe, e per lunghi anni, quel senso dipenosa umiliazione che provano gli eletti, i solitari iquali si sentono sacri a grandi cose, di veder incompresao derisa la loro grandezza, di dover obbedire a leggi as-surde, a menti piccole, a caratteri odiosi e prepotenti, didover lottare colla miseria....

Nell'opera dei grandi sta il segreto di lor vita; rispet-tiamolo pure quello dell'Ibsen finchè dura (e duri a lun-go!) l'esistenza sua gloriosa, ma a lui dai molti, in ognipaese, cui soggioga l'emozione solenne, che le sue pagi-ne fan scaturire veemente, giunga a lui un saluto consa-pevole di quanto dolore dev'essere nutrita un'opera d'ar-te perchè attinga all'eccellenza suprema: «Noi ti amiamoperchè hai molto sofferto».

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PROFILI D'IDEALISTI

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Edgardo Quinet.

La Francia e con essa tutta quella parte d'umanità chenon conosce confini per l'ammirazione di quanto è belloe grande, di quanto rappresenta uno sforzo dell'intelli-genza e del sentimento verso le più luminose plaghe incui queste due doti supreme armonizzano in supremoequilibrio – ha ben celebrato, nella ricorrenza del cente-nario di sua nascita, in Edgardo Quinet, uno dei piùgrandi evocatori e animatori delle grandi idee della sto-ria e della vita che l'età nostra abbia mai conosciuto.

Quest'uomo nato di povera famiglia, visse povera-mente e ammantandosi nella sua indigenza spesso connobile ostentazione, diede attraverso diversi, anzi oppo-sti, momenti della storia del suo paese l'esempio dellavera saggezza e del vero valore che, premj a sè stessi,non chiedono all'opinione del pubblico nemmeno il suf-fragio della lode che pur consola, e dà animo e forza....

Non è nelle note di un breve profilo che si può pre-tender di porgere tutta l'imagine della vita e dell'opera diquesto sublime che si adattò a ogni professione e, dallalibertà che gli veniva dalla sua fierezza, trasse le multi-ple aspirazioni onde il suo ingegno di poeta e di storico

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e di critico e di filosofo, appare così notevolmente va-rio....

Io mi appago di salutar ora, con gioia fiduciosa e conaspettazione sicura, il risorgere dei grandi ideali che alQuinet furono cari, e che, integrati dalle scoperte dellascienza, giungeranno fra breve all'indiscusso dominioche li attende appunto da oltre mezzo secolo.

Dopo quella giornata luminosa, troppo lunga fu lanotte, troppo livido l'eclissi d'ogni idealità perchè da tut-ti non si aneli, con aspirazione omai irrefrenabile, allanuova luce di un nuovo giorno di speranza e conforto....

Evocare Edgardo Quinet significa dunque celebrar lesue idee, significa celebrare gli sforzi suoi e della nobileschiera dei suoi commilitoni per un più alto ideale dipensiero e di fede, la schiera eletta dei grandi che gli fu-rono padri o fratelli intellettuali.

Dal Rousseau – trionfante ancora al principio del se-colo su tanti cuori e tante menti (comprese quelle sovra-ne del Goethe, del Foscolo e del Leopardi), dal Lessing,dal Novalis, dal Fichte per cui il Carlyle ebbe culto alCarlyle stesso, all'Emerson, al Mazzini, a Victor Hugo,al Michelet, al Ruskin, è tutta una serie (e non accennoche ai sommi) di nomi e di programmi che in lor ben ar-monica e varia unità dicono lo sforzo magnifico – qualemai forse la storia dell'umanità conobbe uguale – diun'eletta di apostoli che le magìe dell'arte vollero guidae sprone alla conquista d'ogni diritto, alla percezioned'ogni dovere, all'eccelsa finalità d'un'esistenza di uomi-

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ni e popoli, poggiante sull'osservanza e sulla pratica d'u-na moralità austera, di una giustizia confortatrice, d'unanobiltà spontaneamente diretta a un abbellimento e adun'elevazione sempre maggiori.

Victor Hugo dava ai personaggi della storia e allecreature di sua immaginazione possente le idee e le pa-role del suo pensiero, ed essi sorgevano e agivano gran-diosamente ribelli a ogni meschinità, a ogni ingiustizia,a ogni bassezza.

Idealista e moralista, il bel genio simpatico di CarloDickens sposava l'artistica concezione di una vita moltopiù vera di quella riflessa nei romanzi naturalisti, all'ele-vatezza di un animo che non sapeva adattarsi alle como-de finalità indeterminate, ma l'arte e le sue espressionivoleva consolatrici e maestre di rettitudine.

Ed è appunto il Dickens che al romanzo inglese delsecolo ha impressi quei precisi suoi caratteri di veritàpoetica e grandezza morale: i suoi scolari (e sono legio-ne) possono essere mediocri spesso, ma banali e volgarimai; poichè alla sua scuola appunto essi appresero chese bisogni ha l'uomo che apre un libro, questi sono di ri-spetto e di conforto....

E in così vasto movimento orientato a ogni direzionedell'attività umana, un altro grande, il Michelet non coo-perava, recando colla fervida ed entusiastica potenza delsuo genio, la sanzione della storia? di lui un giovine eben simpatico scrittore francese, Jacques Bardoux, trac-cia un ritratto di rara efficacia: «A questo triplice movi-

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mento economico, cristiano e filosofico, Michelet vollediretta, con la sanzione del genio, una corrente storica.

«Michelet somiglia a Ruskin; è impossibile avvicina-re una di queste anime senza amarla. Profondamente re-ligioso (l'immortalità dell'anima era ben per lui un biso-gno del pensiero), egli scrisse in principio della sua Sto-ria di Francia: «un'anima pesa infinitamente più che unregno, un impero, perfino più che il genere umano».Come Ruskin ancora, egli aveva una sensibilità vibrantealle grida di tutti gli esseri deboli ch'egli vedeva feriredagli uomini o soffrire nella natura: della donna, soc-combente sotto i dolori della maternità e sotto le me-schinità di un monotono ordine sociale, del bambino, dicui gli occhi cercano sempre su ogni labbro un sorriso ela luce nei cieli, dell'operaio dolorosamente cullato dalbattito regolare della macchina, e isolato nel suo tristesobborgo, dell'animale, di cui il triste sguardo non cono-sce che le lagrime.... Come Ruskin, aveva una immagi-nazione abbastanza vigorosa per prestare una vita allapianta timida, tremante sotto la sua veste verde e almare agitato dal suo flutto eterno – per far zampillarefuori dalla polvere dei manoscritti, in una visione, le fi-gure degli uomini spariti e la fisonomia delle età sparite;per afferrare, in uno slancio del suo pensiero, il sensodei miti religiosi e i segni persistenti delle razze...».

E intanto, dall'una e dall'altra sponda della Manica,non vibravano armonicamente le nobili anime di Ma-thew Arnold e del Lamennais, entrambe aspiranti ai più

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alti accordi di una religione in armonia con le sovraneleggi e la finalità dell'universo, con la scienza e con lamorale – e perciò amareggiate dalla duplice sorda perse-cuzione della Chiesa ufficiale e degli atei di professio-ne?

Ed è a noi italiani che devo ricordare la figura di Giu-seppe Mazzini per non nominare quella già circonfusadall'aureola di epica leggenda, di Giuseppe Garibaldi?...

E fu appunto in Francia che, mentre il Fourier indivi-duava il tipo dell'economista idealista, apostolo di unsocialismo, che non esonerando Dio dalle fatiche dellacreazione, aveva schiuso innanzi a sè più vasta zona d'i-deali affetti, Edgardo Quinet si accingeva a svolgere ilsuo programma di nuove e più alte armonie.

Anima essenzialmente religiosa, egli ci diede in unalingua incomparabile, tanto armoniosa quanto colorita,una nuova teologia dell'universo. Per Edgardo Quinet, ilsentimento religioso è tutta la storia; onde nel suo con-cetto non è lo stato sociale che si riflette nella religione,ma l'idea di Dio, che costituisce uno stato sociale, lo fer-ma nelle sue forme fisse e ne disegna la gerarchia rigo-rosa. Così, secondo lui, se la Rivoluzione francese nonha dato i risultati sperati, se una febbre strana ha insan-guinato i suoi giorni più belli e l'ha impedita di organiz-zare una società pacifica, è perchè essa non è stata inspi-rata e diretta dal desiderio di portare nel mondo una reli-gione nuova.

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Con lo stesso misticismo, questo grande idealista, in-terprete dei fenomeni della natura, vi scopre degli argo-menti per sostituire alla idea del progresso l'idea di evo-luzione, più morale e più equa, per giustificare la divi-sione del lavoro e mostrare che l'umanità «troverà la sualegge nella legge del mondo in fine ricondotta a sua uni-tà».

Una medesima legge, scorta nelle formazioni geolo-giche, riconosciuta nei movimenti dei cieli, scopertanella successione dei regni, si applica all'uomo: «Tuttogli risponde nell'infinito», ed «egli marcia in compagniadei mondi».

E questo ammirevole cantore del sentimento religio-so, questo poeta della metafisica, fu un uomo d'azione.

Altresì attaccato all'idea repubblicana, perchè vi ve-deva l'incoronazione dei suoi sogni mistici e l'applica-zione delle sue concezioni morali, Edgardo Quinet lottòe soffrì per essa.

Come pensatore Edgardo Quinet è veramente uno deimaggiori del tempo suo. Chè egli impersona la evolu-zione del libero pensiero europeo nella prima metà delXIX secolo. Egli si stacca dal pensiero filosofico del se-colo a lui precedente, si rende interprete delle tendenzeidealiste del nuovo, si manifesta, per mezzo – per cosìdire – di una filosofia razionalmente mistica, alla qualeaggiunge, nel corso di sua vita, gli elementi e i lumi chela storia, lo studio del pensiero umano attraverso le età,la filologia comparata, le scienze naturali, possono por-

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gergli per giungere a spiegare il vero problema d'ognimente: il problema umano. Ma ciò che lo rese grande fuil modo con cui tentò giungere alla soluzione di esso, fulo studio del fenomeno più complesso e più intricato chela storia dell'umanità mai presenti, intricato nei suoi mil-le aspetti, ma radicato in ogni popolo ed in tutti costan-te: il fenomeno religioso. Già quando studiava giuri-sprudenza in Parigi si era invaghito del famoso Idea sul-la filosofia della storia dell'umanità di Herder, tanto chelo tradusse e venne così in fama fra i letterati. Questo fuil motivo occasionale che lo fece addentrare negli studjdi filosofia e di storia religiosa del genere umano e checi diede più tardi Il genio delle religioni. Di questo feno-meno umano egli tentò scoprire la legge seguendo atten-tamente il modo di esplicazione di esso e il successivoperfezionamento. E ciò che lo rende meritevole di lodenei nostri giorni, nei quali simili studj si sono tanto dif-fusi e han dato principio ad un nuovo ramo della scienza– e che spiega pure l'isolamento in cui il grande pensato-re fu lasciato dai suoi contemporanei (caduti, verso lametà del secolo, nel positivismo e nel materialismo) – èquesto, che egli non volle cedere alla tendenza anti-scientifica, sebbene di scientifica avesse l'apparenza, diconsiderare già a priori il fenomeno religioso come unerrore dello spirito umano e a confonderlo con le istitu-zioni ecclesiastiche e gerarchiche e le dottrine dogmati-che e ristrette di una casta speciale.... vi scorse invece,dopo maturo studio, più profondo di quel che altri non

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avesse fatto, una «funzione necessaria nella storia dell'u-manità». Sicchè, le sue opere filosofiche su questo argo-mento che egli, precorrendo i tempi, predilesse, mostra-no una speciale cultura, un pensiero fecondo ed origina-le, una forza logica e spesso un'acutezza di giudizi allaquale i suoi contemporanei non erano abituati. Egli sentìnel suo animo di poeta la più grande attrazione per illato pittoresco che il cristianesimo assunse presso gli oc-cidentali, pur opponendosi con ogni energia, anzi com-battendole, alle restrizioni che sulle pure dottrine avevaimposto dovunque, e specialmente in paesi cristiani, undogmatismo malinteso, intento a limitare l'espressionedella volontà individuale....

Edgardo Quinet fu dunque anzitutto e sopratutto l'e-spressione armoniosa del rapporto che deve incessante-mente trascorrere, fra la simpatia che ciascuno di noideve all'idea che ha sposata, e il culto assiduo onde devealtresì onorarla di continuo. Egli fu un apostolo e non undilettante.

Egli mirò a comprendere e a sceverare l'essenza veradelle cose e non ad accarezzarne la forma ed a giuocare,come il bimbo con i trastulli, con le idee più varie che sisuccedono, rapide come i capricci della moda, nella in-stabile storia del pensiero.

Egli fu, ripeto, un apostolo e non un dilettante.È bene quindi che in questo momento, in cui i dilet-

tanti vacui tutti assorti in una artificiosa e puramenteformale adorazione delle cose, sembrano esser riusciti a

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diffondere ovunque la confusione in tutto ciò che invecedev'essere ben distinto, e ad ammantare di una medesi-ma apparenza le più opposte idee e i fenomeni più in-compatibili; è bene adunque che una rievocazione di co-desto austero apostolo del dovere suoni condanna di noitutti ed in ispecie di noi giovani, contro le sterili (pur seadorne di leziosa eleganza) accademie del dilettantismo,da un lato – e dall'altro contro le assurde limitazioni diun metodo che di scientifico non ha che il nome, suffra-gante dei suoi asserti, la vanità e la pomposa e leggiera«amoralità» di essi dilettanti....

Agli uni e agli altri l'opera di questo grande cittadinodella Francia e dell'umanità dica – rimproverando pri-ma, incitando poi – le sovrane, pur se ardue, armoniecui l'uomo sempre e ovunque deve e può tendere come aesatto dovere, come a gioia suprema – nell'arte, nellascienza, nella vita.

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Giovanni De Castro.

A Salvatore Farina.

Quest'uomo modesto e grande fu un educatore e unoscrittore. Del valore dell'opera sua di scrittore ragioneròin seguito.... È di lui, che intanto intendo principalmentefar ricordo – dell'uomo che fu più grande dei suoi libri,poichè appunto la maggiore opera sua fu la sua vita stes-sa, votata al culto della bontà e dell'abnegazione e tuttadedicata ad iniziar a questo culto quanti stimò degni difar tesoro della sua parola, e dell'esempio suo vivifican-te. Poichè (devo notarlo fin d'ora) tutte le energie dellavita conversero in lui ad un unico ideale fine: e la sua at-tività di storico delle nostre glorie più pure, il suo apo-stolato di giornalista e di scrittore, le sue lezioni e la me-desima sua conversazione furono le varie e moltepliciforme con cui questo mirabile suscitatore di giovanilienergie mirò a diffondere quelle idee di bontà, di bellez-za e di rettitudine che aveva la sua mente in armonicoconnubio disposate. Di quella mente, non piccola parterivive, è vero, nell'opera sua: ma pur quanta con lui èscomparsa per sempre, lasciando vivissimo solco diluce!

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I.

Giovanni De Castro – quantunque nato a Padova nel1837 – fu milanese oltre che per elezione, per la dimoralunghissima.

Egli aveva nove anni quando il padre suo, il professo-re Vincenzo De Castro, privato della cattedra di lettera-tura greca, che teneva all'Università di Padova, per averfatto della sua casa luogo di ritrovo agli studenti più an-siosi di abbattere il dominio austriaco, venne a Milanodove la sua attività fu subito assorbita in numerosi lavo-ri di compilazione.

Fu nei giornali letterarii diretti dal padre, che Giovan-ni De Castro fece le «prime armi» letterarie; segnalan-dosi, a quattordici anni, per rara precocità e maturitàd'ingegno. I moti patriottici si facevano intanto semprepiù tumultuosi: venuto il cinquantanove – scrive E. T.Moneta in un saggio affettuoso – non potendo abbando-nare egli, figlio unico, i suoi genitori, e pur sentendo ildovere di cooperare alla liberazione della patria, si ado-però, non senza affrontare gravi pericoli, a facilitare lapartenza clandestina dei giovani che andavano in Pie-monte ad arruolarsi.

Dopo la liberazione di Milano entrò nella redazionedel Pungolo, invitatovi da Leone Fortis, antico amico disuo padre. Scrisse più tardi nella Gente Latina, direttada Ezio Castoldi, e nel Momento di Benedetto Castiglia.

Ma, alieno com'egli era dalle lotte partigiane, e nonsentendosi adatto a dettar pronostici, che gli avvenimen-

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ti s'incaricano sovente di smentire, lasciò dopo brevetempo la stampa politica, per darsi allo studio e alla di-vulgazione delle cose più memorabili della storia patria,passata e recente, quale egli credeva utile non solo allacultura, ma all'educazione politica del nostro paese.

Nel 1862 il De Castro entrava a far parte – quale se-gretario – della redazione del Politecnico di Carlo Catta-neo, e della pienissima fiducia, dell'affetto e della stimache per lui ebbe il Cattaneo fa prova tuttora una corri-spondenza epistolare assai affettuosa che io vidi e meri-terebbe di essere pubblicata.

E che il De Castro amasse singolarmente il suo mae-stro e ne studiasse l'opera e quasi vi si immedesimasse,lo testimonia l'episodio curiosissimo, che egli stesso miraccontò, dell'attribuzione di parecchi scritti suoi (stam-pati senza firma sul Politecnico) al Cattaneo medesimoe la conseguitane pubblicazione loro fra le opere delpensatore lombardo nella grande edizione Lemonnier,curata da Agostino Bertani.

Però, se il giornalismo letterario sempre coltivò sinoall'ultimo, le risorse che dà – singolarmente in Italia –non erano nè potevano essergli sufficienti: si diede quin-di all'insegnamento, attrattovi anche da una necessitàimperiosa e non passeggera ad entrare e rimaner in co-munione con quella gioventù di cui l'anima agevolmentesi adatta, come il metallo in tempera, ad assumer quegliatteggiamenti cui sa piegarla coscienza di amoroso edu-catore. L'insegnamento secondario lo ebbe ben presto

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fra i docenti più attivi e sapienti nel suscitar giovanilienergie: le sue conferenze (che tali erano in realtà le le-zioni che tenne a Brera da quella cattedra, inaugurata daGiuseppe Parini) di storia letteraria erano magnificheper la fulgida vena di cui animava la sua originale erudi-zione. Se ne compiaceva singolarmente egli, e conside-rava l'attenzione riverente e proficua di quei giovani ar-tisti il migliore e più ambito premio alle sue fatiche!

La memoria di lui e di sue lezioni resterà a lungo,poichè ad altezze veramente ideali egli seppe (a dettadei suoi scolari stessi) elevar sè e loro: e i suoi insegna-menti rimangono parte dell'eredità intellettuale di questoeducatore, che seminò sino all'ultimo giorno germi su-scettibili di gagliardo sviluppo.

Rimangono parte – ho detto – e infatti la moltepliceattività sua di docente (che sarebbe bastata a riempir dasola un'intera esistenza) non fu che una parte – perquanto precipua di quella di Giovanni De Castro.

Ed il lavoro da lui compiuto quale scrittore, rimanecome saggio di straordinaria fecondità, tanto più mera-vigliosa quando si consideri che la vera biblioteca diopere uscite dalla sua penna, non era che il frutto del la-voro della minor parte di sua giornata....

E nei suoi «ritagli di tempo» il De Castro non pubbli-cò meno di quaranta volumi fra opere scolastiche, libridi erudizione, di critica storica e letteraria, di geografia,d'arte, di educazione.

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La fisionomia di lui quale scrittore è adunque abba-stanza complessa e non può essere considerata alla stre-gua di più recenti criterii sorti a stabilire nuove classifi-cazioni di lavoro....

Ora siamo in pieno momento di specialisti e non èraro trovar chi dedichi l'intera esistenza allo studio diuna sola letteratura o d'un sol periodo di storia: lavoropaziente e sagace in cui lo studioso porta certo eccellen-ti frutti dal breve campicello che gli è dato vangar e ri-vangare a sazietà: quarantanni fa, quando il De Castrostudiava e cominciò a lavorare, eravamo ancora nel pe-riodo eroico delle enciclopedie e delle storie universali,delle sintesi ampie ed erudite.

La generazione che ci precedette rispecchiò anchenelle arti e nelle scienze quel carattere straordinario chela distingue, fu «gigantesca» nel fare e nello scrivere enella mancanza di confini all'attività posò appunto le suecaratteristiche – e gli scrittori (segnatamente gli storici)che le appartennero furono poligrafi addirittura così aigiovani che la osservano l'opera del Cantù, dello Stop-pani, del De Castro, dello Strafforello, scrittori tutti chein ogni campo del lavoro umano lasciaron traccie di lorpresenza, pare – non a torto – simile a quei giganteschisaggi di fauna preistorica che si ammirano nei museicon stupefazione e quasi con sbigottimento....

Non tutti fra i volumi che uscirono dalla feconda pen-na di questo scrittore son collegati fra loro soltanto daquel nesso ideale che stringe in un solo vincolo le opere

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figlie della stessa mente. Parecchi di essi son saldamen-te uniti a formar più vasta ed unica opera, di cui ciascu-no è parte ed anello d'un'armoniosa catena che l'amoro-so artefice non ebbe la gioia di veder compiuta: son queivolumi che il De Castro dedicò allo studio della vita po-polare passata dell'«ambiente» di Milano «giusta le poe-sie, le caricature ed altre testimonianze del tempo».

Fu non comune ardimento questo di ritrarre importan-ti momenti storici, attingendo quasi esclusivamente aquella fonte popolare conosciuta – o meglio discono-sciuta sin allora – quasi solo pel tramite di un ingiustifi-cato disprezzo: ed il De Castro riuscì con una serie dipoderosi lavori a far notare tutta l'importanza del docu-mento popolare per la ricostruzione di un momento sto-rico scomparso ed egli seppe dimostrar la satira plebea ela grottesca caricatura documento spesso non meno pre-zioso – più sincero sempre – di memoriali e carteggi di-plomatici.

Fu così che dopo aver notato in un saggio di capitaleimportanza («La storia nella poesia popolare milanese»)quale ricca messe si potesse trarre da campo quasi sco-nosciuto, avvalorò le sue asserzioni con quella serie divolumi, in cui studiò Milano nei suoi più notevoli mo-menti storici e che ha determinata stabilmente – di fron-te alla posterità – la sua figura di storico.

A questo ciclo di opere storiche appartengono: Mila-no nel settecento, Milano e la Repubblica Cisalpina,

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Milano durante la dominazione napoleonica, La cadutadel Regno Italico, Milano e le cospirazioni lombarde.

Opere tutte queste, cui le miscellanee della bibliotecaAmbrosiana e della Braidense, i manoscritti dell'Archi-vio di Stato fornirono copiosissimo materiale a far notele sincere ed originali manifestazioni d'una popolazionecui – ultima e pur terribile – era rimasta un'arma, l'armadel ridicolo che nessun dispotismo di governo riuscì an-cora a sequestrare.

Così in Milano nel settecento son vividamente lumeg-giate le tristi condizioni d'una popolazione in perpetuotumulto perchè sempre affamata, che di ogni pubblicoavvenimento doveva far le spese, e sfogava in satire fe-roci il suo odio contro la fastosa nullità e l'alterigia degliSpagnuoli governanti.

Ed in Milano durante la dominazione napoleonica,non meno che in Milano e le cospirazioni lombardesono dipinte in modo vivo ed efficacissimo le condizio-ni dei tempi: la Musa popolare diventa caustica contro iFrancesi apportatori di libertà e di licenza, sarcastica emordente nel colpire la tracotanza austriaca diffidente eferoce.

Nè con questi sei volumi intendeva il De Castro chiu-so il suo ciclo storico su Milano: rammento come a medicesse un giorno esser sua intenzione dedicare un inte-ro volume allo studio di «Milano nel seicento» ed un al-tro – e forse non uno solo – per condurre a termine l'o-

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pera coll'esame delle ultime e gloriose insurrezioni lom-barde.

Fra i numerosi scritti ed appunti che la famiglia deldefunto mi avvisa esser incompiuti, certo ve ne saran ri-masti di sufficienti da consentire che al ciclo storico delDe Castro su Milano si aggiunga – ultimo anello – unvolume che riunisca gli ultimi lavori suoi – sia editi cheinediti – svolgentisi intorno allo stesso argomento dellerivoluzioni milanesi.

** *

Accanto a questo poderoso e felice tentativo di far ri-vivere con degna esattezza l'esistenza d'un popolo confonti e documenti forniti dal popolo stesso, accanto aquesta serie di opere magistrali che più sicuramente affi-da alla posterità il nome di Giovanni De Castro, altre ealtre restano a testimoniare della versatilità di questoscrittore, cui gli studj e l'ingegno consentivano di di-scorrere con ugual competenza dei Popoli dell'anticoOriente e della congiura di Arnaldo da Brescia, della ri-voluzione francese (Ghigliottina) e dell'italiana a più ri-prese e singolarmente in quello stupendo libro: I proces-si di Mantova e il 6 febbraio 1853.

Lavoro rigorosamente basato – come tutti gli altriscritti del De Castro – su ben discussi documenti e per-ciò imparziale, superiore ad ogni passione, scritto conquella elegante semplicità che è comune ai migliori in-

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gegni per nulla bisognosi di coprir la mancanza di ideecon fatue fosforescenze di forma, quindi potentissimoper naturale segreto d'arte e ricco di pagine indimentica-bili per la vivezza con cui sono lumeggiate le narrazioniterribili delle stragi che preludiarono la morte degli eroidi quel moto, per la potenza suggestiva con cui quelleserenissime e nobili figure sono evocate dall'amorosostorico che le pose in altare ben degno di loro eroicagrandezza.

«Non ho compiuto che un dovere» – rispondeva a chigli accennava un giorno un lungo articolo che veniva adaggiungersi alla serie delle numerose recensioni entusia-sticamente plaudenti al lavoro magistrale – «la vita pub-blica va perdendo ogni idealità: quando i partiti si for-mano sull'interesse e sul raggiro piuttosto che coi senti-menti e colle convinzioni, mentre la nube dell'affarismoingombra il cielo ed impedisce ai giovani di scorgerquelle alte idealità che sono unico scopo alla vita degliindividui e delle nazioni, che altro rimane allo scrittorese non di rievocarle e tentare porle così come argine allacorrente che trabocca?».

Così egli parlava e pensava, nè poteva altrimenti; edin omaggio al sacro dovere impostosi, continuò in questiultimi anni (così ricchi pur troppo di amare delusioniper tanti vecchi patriotti e per tanti giovani entusiasti) arievocar fatti eroici ed eroiche figure inspiratrici di piùnobili sensi, conforto ed esempio a quanti – pur ignoti –combattono e soffrono per una causa, per una idea.

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II.

Così intendeva la storia Giovanni De Castro, così lavoleva, inspiratrice ed educatrice anzitutto: poichè – ètempo omai di notarlo – egli fu anzitutto e sopratutto uneducatore in quanto più ha di grande e sublime il signifi-cato della parola, di cui l'ideale valore è disconosciutoda non pochi.

Quanti non lo conoscono, quanti non lo conoscerannoche dall'opera (e sono e saranno necessariamente i più)«storico» chiameranno il De Castro e sarà di storico lasua figura quale rivivrà nelle menti di studiosi futuri equale apparirà loro dall'opera sua: ma per noi che loamammo e venerammo, egli fu sovratutto un educatore.

L'aspirazione educatrice, questa necessità di sentire lavita come un apostolato e di agire e far agire a spander ilmaggior bene possibile, a terger lagrime, a ben guidaregiovanili energie non per teatrale vanità, ma per intimobisogno, ma per sacrosanto dovere, era già nelle tradi-zioni famigliari, e Vincenzo De Castro, padre al com-pianto che effigio, la illustrò degnamente colle parole ecoll'esempio.

Giovanni De Castro considerò la vita come una mis-sione ben determinata, missione alta e severa che non èconsentito di eludere, ma si deve compiere sino all'estre-mo a traverso qualunque ostacolo, ed a quell'animo au-stero e delicato, conservatosi buono, nè mai di sua bontàdisperando, all'animo suo credo mai forse si affacciò il

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dubbio che diverso potesse essere lo scopo dell'esisten-za, rivolto a cure men alte e men degne e certo io pensoda niun labbro meglio che dal suo avrebbero potutouscire – santificate da quarant'anni di quotidiana appli-cazione – queste parole del Villari: «L'uomo è nato a vi-vere per gli altri e solo in ciò può ritrovare la sua felici-tà; esso è fatto dalla natura in maniera che tutto quelloche nella sua vita intellettuale non riesce a santificar coldovere resta profanato e decade».

Della sua attività di educatore restano scritti e non po-chi: parecchi manuali d'istruzione popolare, di quelli chefan tanto bene all'artigiano, all'operaio, e cui, un tempo,i migliori scrittori non sdegnavano por mano, taluni libriad uso delle scuole e fra questi notevole Forza, podero-so e geniale volume cui la modestia dell'autore (e soloessa, bisogna confessarlo, sia pur con rammarico) nonconsentì che il successo grande subitamente ottenuto,non divenisse clamoroso ed universale a dirittura.

Nella patria degli Stuart-Mill e degli Smiles ed in tuttii paesi abitati dagli anglo-sassoni, quel libro avrebbeavuto clamoroso successo; l'enorme esito che ebbero la-vori di tal genere (e men belli e meno perfetti) consentedi affermarlo con sicurezza: troppa importanza dà all'e-ducazione ed ai suoi problemi la razza che tiene ora idestini del mondo per non approfittare di opere di cui èincalcolabile l'influenza che esercitano sulle giovani ge-nerazioni!

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Da noi invece del libro che destò entusiasmi, si ven-dettero a pena tre o quattromila esemplari e parveromolti!

Innumerevoli scritti sempre di educazione, egli diffu-se su giornali e riviste, specialmente in riviste per giova-ni.

Scritti brevi per lo più, schietti, semplici, di vero sa-pore frankliniano, notevoli per le massime che vi eranoprofuse: chi potrà misurar il bene che incessantementeessi diffusero, sparsi su tante riviste d'Italia e dati dalsuo autore a chiunque glieli chiedesse, per dovere, permetodo, non potendo egli rifiutarsi dal partecipare a faropera buona e stimandola tale quella che gli si chiedeva,quella che egli poteva fare porgendo brevi righe conso-latrici di nascosti dolori, eccitatrici ad alte e nobili ope-re?

Fra gli scritti del De Castro uno degli ultimi, da luidato all'amico E. T. Moneta pel suo almanacco Giù learmi, contiene parole che sono – nota il Moneta giusta-mente – «la sintesi di tutta la sua vita di pensiero e d'af-fetto», e sembrano in realtà il testamento morale dell'uo-mo che sente prossima la fine di sua vita e vuole che l'a-postolato cui essa è dedicata si manifesti tutto nelle li-nee che, forse per l'ultima volta, sta per scrivere:

«Nella vita, tutti lo riconoscono e lo ripetono, il van-taggio spetterà sempre all'azione. Ma quale azione? Di-sordinata, violenta, capricciosa, ovvero ordinata, pacifi-ca, razionale? Vano il rispondere; ma il problema morale

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e sociale è tutto qui. Rendere proficua la vita, è il mododi associare al progresso generale il benessere particola-re.

«Tutti utili, tutti laboriosi, tutti amanti e tutti felici –se è possibile.

«Tranne i mali inevitabili, ogni altro male si dovrebbepoter sbandire e levar via.

«Questa è la missione, la febbre, la gloria dell'umani-tà adulta.

«Moltiplicarsi tanto colla vita da poter dare il mag-gior quoziente: non perdere mai nè il tempo, nè la fede,nè la speranza: credere nell'ideale e volerlo; mirare inalto e arrivare lontano, ecco la grandezza dell'uomo.

«Gioire, ha detto il poeta tedesco, è la sapienza; fargioire è la virtù.

«Gioire è il godimento in ciò che vi ha di più delicatoe spirituale: non è, per ora, da tutti: è la morte dell'egoi-smo; o, se vi par meglio, la sua riabilitazione. Costringe-re l'egoismo stesso a disdirsi, a ricredersi; costringerlo aconfidarsi, a compiangere, a dare, a ricevere, a sentire,ad agire, in una parola, nella più larga e fraterna cerchia,è senza dubbio la più bella vittoria della famiglia e dellascuola, della letteratura e dell'arte, della parola e dell'e-sempio».

In realtà, poche perdite può far la patria gravi quantoquelle di codesti illuminatori di coscienze, di questi pre-dicatori e fattori di virtù, che colla parola e coll'esempioindicano la mèta ideale cui ogni giovanile energia, ogni

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attività ben diretta deve tendere per sorpassare sè mede-sima in uno sforzo di perfezione ideale!

Molto ha, convien affermarlo, perduto la patria conGiovanni De Castro. I ministri e i più alti funzionari del-lo Stato si surrogano con una facilità che può talvolta farsorridere gli scettici sulla importanza di lor mansioni;gli scienziati, gli artisti più insigni (cui natura non negòprivilegio di più alte gioie e di più acuti dolori) lascianospesso, morendo, coll'opera, scolari che percorrerannolor via, forse sino al punto ove essi giunsero – forse ol-tre: ma chi sostituisce l'educatore quando egliscompare?

L'educazione non è ancor un'arte, tanto meno un me-stiere e per farne lo scopo di propria vita non sempre labuona volontà è sufficiente, occorre molto ingegno emolto carattere e particolari attitudini: occorre una som-ma di energie che contribuiscano a fare dell'educatoreun apostolo e spiegano perchè nella vita egli sia più raroa trovarsi dell'artista e dello scienziato stesso.

L'educatore, morendo, lascia – è vero – una eredità dibene di cui nessuno può misurar il valore.... lascia apiangerlo persone ch'egli fece migliori e delle quali sco-prì attitudini a loro stessi ignote, innalzando le attività dilor vita a lor integra finalità: ma quanti o quali di costo-ro sono in grado di continuar l'opera del Maestro?

Nessuno forse, poichè la sola buona volontà non puòbastare a crear gli apostoli del bene, a scoprir giovanilitendenze e dirizzarle a lor mèta naturale, a suscitar cela-

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te energie convergendole a innalzarsi, purificandosi nel-l'atto magnifico di superar sè medesime!

Quando si pensi agli onori sovraumani tributati aglieducatori dalla razza che è oggi sovrana del mondo:quando si pensi alla cosciente ammirazione ed al sinceroprofitto con cui in Inghilterra e nell'America del Nord siseguita e si segue l'opera degli Smiles, dei Stuart-Mill,dei Thaler, dei Blackie, dei Channing, dei Holland e ditanti, cui bastò a render celebri e ricchi un semplice li-bretto d'educazione – che da noi forse non avrebbe tro-vato neppur editore – vien fatto di pensar anche, e nonsenza rammarico, alla ben diversa sorte che avrebbe at-teso su quelle terre – se vi fosse nato Giovanni De Ca-stro – lui, precursore di molti fra i più arditi di queglieducatori, lui, per larghezza di vedute e natural ingegnoa non pochi di loro superiore!

Certo nè più cospicui agi, nè maggiori onori «ufficia-li» gli sarebbero mancati, senza parlar della fama, che,malgrado la sua modestia, altri avrebbe avuto interesse adiffondere assai lontano...

Invece egli nacque e visse in Italia e dell'improbo la-voro cui spesso dovette sacrificarsi e dei crucci che l'in-sipienza burocratica seppe procurargli negli ultimi annidi sua vita, questa sua patria è responsabile – la patriache dovrebbe stimar quale primo e più alto dovere loscoprir le singolari attitudini dei suoi cittadini più insi-gni, l'aiutarli a svilupparle liberamente nella totalitàloro, così che nulla si perda dell'opera bella o buona di

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cui sono capaci e del decoro e del lustro a un tempo, checon quella, essi possono recare alla Madre comune.

Pur, se può parere men che benevolo il destino chefece nascere e morire in Italia Giovanni De Castro – nonsia tuttavia senza conforto il ricordare che questa vita sisvolse quasi interamente in terra lombarda.

Le regioni d'Italia si onorano, in lor pittoresca disso-nanza, di svariate caratteristiche: quale è la migliore?....Tutte forse son belle a un modo: certo però che singolarvanto della mite terra lombarda si è appunto l'onoratatradizione educatrice di cui tanti effetti tralucono dalleopere dei suoi figli: tradizione educatrice che, neppur al-l'artista, mai consentì di trattar l'arte con indeterminatefinalità, ma la volle maestra di rettitudine; cosicchè puòdirsi suo primo educatore il suo primo poeta: GiuseppeParini, ed educatrice fu sovra ogni cosa l'arte del Man-zoni, del Grossi, del Cantù, dei suoi poeti e prosatori piùinsigni. La tradizione continua a traverso tempi nuovi enuove vicende, così che fra gli artisti ora più cari all'in-gegno lombardo si noverano Tullo Massarani e Salvato-re Farina e Raffaello Barbiera ed Emilio De Marchi;educatori tutti forti e veri, anche se indossino l'eleganteveste del poeta o del romanziere.

E Giovanni De Castro, giunto fanciullo da quel Vene-to, che anch'esso vantò nelle albe medievali un Vittorinoda Feltre, e pianse nell'ultimo ventennio Nicolò Tomma-seo e Carlo Combi ed Aristide e Federico Gabelli suoifigli – Giovanni De Castro trovò a Milano la finalità

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educatrice preposta ai più eccelsi atti della vita e dell'ar-te: l'alta moralità della Musa pariniana e dei PromessiSposi ausiliatrice agli sforzi degli Aporti, dei Ravizza,dei Cattaneo, che alla patria futura preparavano dei cit-tadini e per un'altra patria più lontana ancora – l'umanità– stavan formando degli uomini.

Egli vide che fra le migliori tendenze, quali si svolge-vano intorno a lui, e le aspirazioni sue non era contrasto:e la gloria calma e serena che coronava l'opera di quegliillustri e, più ancora, dell'opera i risultati, lo convinseronon esservi missione più alta e giovevole, meglio ri-spondente all'indole sua ed ai doveri dell'uomo, di quelsacerdozio fecondo che la parola «educare» rappresenta.

Ed egli sino all'ultimo suo momento fu – come scrissecon eletta parola Raffaello Barbiera – soldato del bene:ad amarlo, a farlo amare dedicò la sua vita e fu dei primia rivelarci tutta l'ineffabile poesia dei più pertinaci, adaffermare che «l'eroismo più sublime è spesso quello dicui meno si parla e che si svolge nei luoghi più oscuri enelle più umili condizioni sociali»23.

Così il De Castro precorse anche nuovi e miglioritempi e ne affrettò l'avvento....

Ben onori dunque la patria questo educatore, e il se-colo che vide la marmorea apoteosi di tanti mediocri ar-roganti e di tanti ciarlatani, assista pure all'erezione diun ricordo a quest'apostolo del bene, che dica esservi unpremio anche per la virtù, affinchè non sian troppo disa-

23 JOHN STUART BLACKIE, Self-education.

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nimati i buoni a inoltrarsi sulla via che percorrono, edove, se possono, è vero, andar soli, vanno più celeri efidenti, e lieti qualora li accompagni (approvazione al-l'opera loro) l'elogio ai degni che li precedettero.

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Malvida di Meysenbug.

A Gabriele Monod.

Nel giorno natalizio di Roma, in una casa soleggiatache prospetta il Colosseo e lo scheletro riarso di Romapagana, alla presenza di Gabriele Monod, lo storico illu-stre, della sua famiglia e di pochi intimi, una figura ve-neranda di donna, già sacra al Destino, aveva voluto so-lennizzare la nascita di Roma e la sua rinascita. Così, lagrande figura di Malvida di Meysenbug, giunta al termi-ne della sua lunga e intimamente luminosissima vita,con la serenità degli antichi propinava alla sua prossimafine, annunciata da un'incurabile malattia e da essa chia-mata «sua rinascita».

In questo tratto non si rivelano interamente tutta unafigura e tutta un'esistenza?

Troppo inadeguata cosa è oggi per essa, dopo la suarecente scomparsa – e ben lo sentono quanti conobberol'alta virtù consolatrice della sua parola – la frase cherammemora con gli epiteti abituali di elogio...

Troppo inadeguata cosa a dichiarare tutta la bellezzadi un'anima grande di una grandezza quasi inconscia eper la quale ogni alto proposito era prima e natural con-seguenza di così rara perfezione.

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Pure, per l'esempio che lasciò, sarebbe necessarioparlar di essa e molto a lungo... Il cómpito del narratoreè per fortuna reso agevole dagli scritti in cui questa bellafigura di donna e di pensatrice ricostruì le – soventi agi-tate – trame della sua vita, e adunò la somma dei suoipensieri.

Ed è principalmente in quei Ricordi di un'idealistache sono il vero testamento di quella bell'anima che ap-pare nei pensieri e nei propositi tutta la elevatezza diquesta rara figura.

Nei suoi Pensieri Giacomo Leopardi scrive che gliautori non mai riescono così efficaci come quando par-lano di sè medesimi...

Invero: pochi fra i più intrecciati romanzi possono inrealtà, a parer mio, reggere al paragone di questa auto-biografia, pur così semplice, pur così piana, pur così na-turalmente (e quasi modestamente) dettata.

Ma un tal libro ha ben di che vincere i racconti più fa-stosamente immaginarii.... esso è la vita di una donna, diuna rara donna, nel mondo sociale e in quello – ad essoopposto – dell'animo suo, è a un tempo la storia dellelotte e delle crisi che un'anima può incontrare lungo lavia di una ideale evoluzione e altresì la storia straordina-riamente impressionante (lo vediamo ogni dì, omai piùchiaramente) di un periodo storico eccezionalmenteeroico e grande dal quale uscirono trasfigurate tutte leconcezioni del diritto e del dovere, e in cui si affermaro-no e dichiararono sacre non una sola, ma tutte le libertà

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cui la coscienza dell'uomo deve realizzar in se stessa eintorno a sè.

I Ricordi di una Idealista sono la narrazione di questomomento – solenne nella storia dei tempi nostri.

Per una singolare sequela di casi (dovrei, forse, direper una speciale predestinazione) la Meysenbug assistèalle grandi battaglie che la metà del secolo scorso di-chiarò per ogni libertà: la politica, la morale, la religio-sa, la economica, successivamente, e dai rispettivi gran-di teatri su cui s'ingaggiarono. Dal '48 al '70 essa, primain Germania, poi in Inghilterra e in Italia, è spettatrice ditre grandi, straordinarie lotte. E spettatrice non perdutanella folla, ma spesso cooperante agli avvenimenti stes-si, certo depositaria di lor file men note, amica comeessa fu dei maggiori agitatori di idee di quella epica età.

E per la storia morale di tale eccezional periodo forsesolo una persona del carattere e delle sue condizioni po-teva essere chiamata....

Agli occhi nostri – e, più chiaramente forse ancora, aquelli dei posteri – non appare essa il giudice e il parte-cipe perfetto di quei moti, la vera, ideale cosmopolita,che, oltre le barriere delle singole nazioni, già vede e va-gheggia solo un campo di lavoro comune agli uominitutti, sacro solo alla conquista dei diritti e al compimen-to dei doveri – e in quanti chiedon giustizia e per essalottano ravvisa ed ama i concittadini dell'anima sua?

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Poichè, essa nacque tedesca, ma, come afferma il Mo-nod:

«Nel suo stile, nelle sue aspirazioni, nel suo modo dicomportarsi rispetto alle tradizioni nobiliari infiltratesinella sua famiglia oriunda francese, si riscontra qualchecosa dello spirito democratico e d'indipendenza caratte-ristico della nazione della quale essa aveva nelle vene ilsangue». Cresciuta in una famiglia luterana e conserva-trice, ella riuscì a liberarsi dalla costrizione che l'atmo-sfera delle tradizioni politiche e religiose locali esercita-va sopra di lei, e ciò specialmente per l'influenza di co-loro che in quel tempo formavano il partito della giova-ne Germania – tra i quali primo Teodoro Althaus. Un ro-manzo sentimentale s'intrecciò a queste nobili aspirazio-ni: ma gli avvenimenti del 1849 fecero svanire ogni spe-ranza di libertà democratica e di unione nazionale, e ap-portarono nello stesso tempo una grande delusione alcuore di Malvida di Meysenbug. Virilmente ella soppor-tò il duplice disinganno, perseverò nelle sue idee e,dopo breve soggiorno ad Amburgo, esulò in Inghilterra,dove sostentò la vita dando lezioni e traducendo. Londraallora era come un orbis refugium, il luogo di ritrovo de-gli esuli e dei proscritti d'ogni paese: Herzen e Kossut,Pulsky e Mazzini, Orsini, Ogareff, Ledru-Rollin e LuigiBlanc; in questo ambiente la giovane fuoruscita fece leprime conoscenze, e il suo carattere franco, intrepido epuro le valse l'amicizia della società inglese, di Stan-sfleld, di Cobden, di Schwabe. Ella s'incaricò dell'edu-

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cazione delle figlie dell'illustre proscritto russo, Ales-sandro Herzen, e si affezionò tanto alla piccola Olga chela condusse nel 1862 seco in Italia, che da allora fu sem-pre suo soggiorno. Fu presso di noi che ella sentì, sottol'influenza della bellezza della natura, manifestarsi lesue attitudini letterarie rese da lei azione, e azione uma-nitaria e moralizzatrice. La sua vita era stata ricca di av-venimenti svariati e di peripezie; perchè non darne lanarrazione come un insegnamento utile ad alleviare lavacuità dell'esistenza delle giovani viventi nell'attesa delmatrimonio e in una compressione di ogni attività spon-tanea; perchè non darla come un esempio ed un'esorta-zione? E le memorie (tradotte ora e pubblicate in italia-no, grazie alle cure di un nostro illustre uomo politico edella sua colta signora) furono in parte pubblicate, ma,nelle condizioni che in quei tempi agitavano ogni paese,esse non destarono grande attenzione. Nel 1884 scrivevaun volume di pensieri, nel 1885 più racconti e un ro-manzo, Fedra, nel quale tratta con utile audacia dei piùardui problemi morali. Nel frattempo la traduzione tede-sca, da lei stessa compilata, delle proprie memorie, usci-ta nel 1876, aveva avuto in Germania un successo com-pleto e un'ammirazione grande, così che d'un subito ellavide il modesto appartamento, che occupava in Romanon lontano dal Colosseo, mèta a molti e molti suoi con-nazionali.

L'idealismo che aveva informato la sua giovinezzaaveva subìto una trasformazione progressiva, fino a

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identificarsi con una concezione dell'universo, superiorea tutte le limitazioni delle religioni positive.... Questocambiamento è ben rispecchiato nel libro suo pubblicatonel 1897 in età di 80 anni, La sera della vita d'una Idea-lista, che porta sulla scena parecchi nuovi personaggi,come Nietzsche, Minghetti, Listz, Wagner. L'amiciziadel Wagner ha avuto gran parte nella vita di lei e a luidovette ella l'impulso allo studio di Schopenhauer, chela impressionò tanto. Nè in sì tarda età volle ancora ces-sare dal lavoro: restan tuttora ad attestarlo un articoloper il Göthes Jahrbuck e un lavoro a proposito dell'af-faire Dreyfus....

Grande fu la sua ammirazione per Mazzini, ch'ellaconobbe a Londra in casa Stansfleld; tutto un capitolodelle sue Memorie gli è dedicato.

«Era lui che dirigeva la conversazione, senza saperloe senza volerlo, come ogni uomo superiore domina ungruppo di persone che lo ammirano. Quando egli co-minciava a parlare, i suoi occhi cupi lanciavamo lampi,ci si sentiva davanti ad un uomo straordinario. Colà im-parai ad apprezzare la bella, seria e dolce natura di Maz-zini: il suo profilo ricordava quello di un suo compatrio-ta, di Dante; e in lui come in questo le concezioni filoso-fiche avevano una tinta di misticismo dove tutto diveni-va simbolo. Come uomo politico si avvicinava a Cola diRienzo: del «tribuno» aveva la tenace fede in un idealepolitico che credeva destinato a divenire realtà a dispet-to d'ogni ostacolo. Dal punto di vista pratico aveva an-

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che qualche cosa del Macchiavelli. La sua vita era d'unasemplicità estrema non per ascetismo, chè egli amava labellezza, ma per patriottismo e spirito di sacrificio; abi-tava una piccola camera modesta, ma non uno dei suoiconnazionali bisognosi lo lasciava senza aver ricevutoun aiuto; quando non aveva che dieci scellini ne davacinque. Non c'è stato santo nè eroe che più di Mazziniabbia fatto della vita l'espressione della propria fede;egli ha vuotato fino alla feccia l'amaro calice: fu un mar-tire della fede, più d'ogni altro; portava la corona di spi-ne e la croce nel suo sacrificio di tutta la vita per unaidea. Era sbagliata questa idea? Che importa, se per luiera la verità?».

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Pur in mezzo a tanto variar di conoscenze e a così ra-pido succedersi di scuole e di tendenze diverse, anzi op-poste fra loro, la Meysenbug mantenne costante unequilibrio che è la prova più forte della sua originale in-dividualità e che le permise di essere moderna sempre emodernissima poi negli ultimi anni di sua vita.

Così essa riassume in brevi linee l'alta sua concezionedella vita e del problema delle cause finali:

«Per i cristiani credenti – specialmente per i cattoliciche in tutto hanno idee più precise e fede più profonda –la risposta è molto facile! Essi si sono costruiti un cosìbell'edificio di speranze che possono aspettare tranquilli

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la soluzione del grande problema oltre la tomba. Il so-gno è bello, ma le scienze naturali lo han fatto svanire eil pensiero logico, freddo ed inesorabile ha dettato lasentenza all'io che sperava. La filosofia però ha lasciatoqua e là aperto qualche spiraglio sul trascendente cuipoteva rifuggire la vaga speranza, sì da scorgere allaluce della fiaccola lontana l'ultima ora oscura.

«Ed anche Schopenhauer, cui non rimaneva dubbiosull'annichilamento della personalità, ci fa presentirenelle profondità dell'essere la possibilità di una condi-zione inconcepibile dalla nostra limitazione, ma che nonè il nirvana dell'annientamento, ma la gioia di Dionisotornato a ricomporsi dalla sua divisione. Che cosa con-duca a manifestazione la volontà di vivere da questaunità, è un enigma; la volontà, come fenomeno, è cieca,chè se tale non fosse sarebbe assurdo e terribile insiemeil suo manifestarsi, quale sarebbe la cosciente creazionedi un mondo pieno di colpa, di dolore, di pena. C'è unmezzo di liberarsi da questa sequela di male conseguen-ze: la negazione appunto di questa volontà di vivere, ne-gazione che alcuni falsamente hanno interpretata comeun rivolgersi passivamente dalla vita, anzi come una vo-lenterosa separazione. Piuttosto essa indica la massimaattività che eleva la cecità dell'atto volitivo, la penosabrama di ciò che di brama non è degno, e già qui ricosti-tuisce il distrutto sentimento dell'unità nella calma delsaggio che nell'intellettuale facoltà conoscente e creativagode del vero nirvana.

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«Un materialismo affinato è venuto a porsi fra il bru-tale dominio della forza e della materia e la filosofia cheha ancora lasciato uno sfondo metafisico: la filosofiarealistica di Dühring. Questo severo pensatore, tenendo-si saldo sul terreno della scienza moderna, nega assolu-tamente ogni metafisica, ma solleva, sulla base di unarealtà che abbraccia ogni esistenza, la bandiera di unidealismo reale che spiritualizza la vita. Nel suo sistemadella unità reale di ogni essere, al di là della quale nonpiù si cela un secondo mondo metafisico, si evolve, peril principio inerente all'essere, la molteplicità del mon-do. L'esistenza personale s'innalza come onda sullaquieta superficie dell'oceano, s'innalza fino al massimoe ricade poi fino a perdersi nella immensa massa.

«Il principio dell'unità è saldo nel pensiero dei due fi-losofi come quello della molteplicità in essa; la grandedifferenza fra essi è modo di apprezzare la vita, cheSchopenhauer ritiene errore e colpa, mentre per Dühringè una realtà capace della perfettibilità massima. Il primoprotesta contro un mondo che egli concepisce come ri-sultato di condizioni cieche coscientemente, che l'intel-letto e la morale devon repudiare. L'altro pure protestacontro l'attuale ordinamento del mondo: in ambo i casiv'è la negazione della vita come esistenza puramenteanimale, come puro desiderio di essere, come pura bra-ma di piacere, in ambo i casi la negazione porta già inquesta vita ad un risultato: per lo Schopenhauer questo ènella felicità del saggio che si è liberato dal desiderio,

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per il Dühring nel mondo rigenerato dalla ragione e dal-l'umanità. Il còmpito che i due grandi pensatori ci pro-pongono si può esprimere in una parola: Liberati, fa dite un'opera d'arte, un essere divinizzato, completo; ilvelo di Maja è squarciato, non c'è più inganno alcuno nèillusione. Questo sia per noi la morte, la grande ammo-nitrice che ricorda il còmpito di riempir la vita con i piùnobili elementi, che annichilerà i dolori della fine, chèlo spirito è eterno come la Luce».

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E la sua mente, avida sempre di maggiori e più diretteconferme alle intuizioni di un sentimento che essa sape-va, quando si manifesta, infallibile, perchè riflesso deldivino, cercava avidamente e apertamente si compiace-va di tutte quelle scoperte della scienza che suffragasse-ro di un alto dato indiscutibile la sua convinzione dell'u-nità primordiale e della finale armonia dell'universo.

Perciò fu a lei di sovrana gioia la scoperta recentissi-ma del Bose sulla sensibilità dei minerali che le porse ladolcissima occasione di scrivere il testamento morale diqueste sue ultime parole:

«Chi rifletta al processo di genesi del mondo non puònon vedere che la più alta sommità dell'eterno nella ma-nifestazione, della quale siamo venuti a conoscenza, è lospirito pensante, e che possiamo dedurne che questaenergia unica, in tutte le cose attiva, anche qui si mani-

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festa come spinto risplendente in noi, come un raggioindividuato e riconoscibile in tutta la sua maestà soloper ciò che ne possiamo intuire. Naturalmente questaonnipotente conoscenza poteva manifestarsi presso i po-poli giovani solo in forme limitate; ma come avvieneche lo spirito che ancora non si è completamente libera-to scambî ciò che è transitorio – costituito dai mutevolifenomeni del divenire – con ciò che è permanente, cosìle rappresentazioni che solo designavano lo stadio tem-poraneo della conoscenza, furono stimate verità eterne evennero fissate in dogmi più o meno limitati. Questa lot-ta dello spirito liberantesi con la indolenza e col timoredella ragione di fronte alle possibili conseguenze, andòtant'oltre che il soprasensibile fu foggiato secondo il piùcompleto materialismo, se non altro per assicurarci delmondo che cade sotto i sensi, visto che l'altro svaniva innebbie sempre più fitte. D'altro canto è per fortuna risor-to l'idealismo vittorioso che pone chiaramente come l'e-terno, il primo, appare, obbedendo alla sete del divenire,in polimorfi aspetti ed in forme sempre più elevate finoa raggiungere il sommo che, come fu detto, è lo spiritopensante. Ma poichè questo, sottoposto alle leggi dellamanifestazione, si vede solo come isolato, come raggioindividuato dell'eterna luce, la conoscenza di sè stessoresta di conseguenza incompleta. Forme religiose limi-tate han sempre tentato di comprendere in forma terre-na, individuata, l'incomprensibile, primordiale, e perciòsono sempre cadute o, se conservatesi, non han più avu-

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to alcun'influenza nobilitante. Riconoscere la nostra li-mitazione è la sola cosa che ci resta. E in questo mi hacolpito come una conferma la notizia della scoperta del-lo scienziato indiano J. C. Bose, professore all'Universi-tà di Calcutta, scoperta meravigliosa che ci dà l'assicura-zione che anche i metalli, fin qui creduti materia morta,hanno sensitività, che essi rispondono allo stimolo, cheanche in essi è attiva la grande universale energia chepenetra ogni cosa vivente. È una scoperta d'importanzasomma non solo per quel che riguarda la scienza, maanche per la filosofia. Questa unità di un principio che simanifesta in ogni cosa e tutto foggia, davanti alla certez-za del quale cadono nella polvere tutti gli dei e gl'idolicreati dalla nostra inquieta umanità, vive anche in noi, enostro compito è di farlo manifestare in noi stessi inmodo sempre più sovrano».

Non è una pagina degna di Goethe? Oh, se fosse fatti-bile, io vorrei poterla narrare la serie delle evoluzioni o,meglio, delle ascensioni continue di questa rara creaturache consacrò la vita a suffragar le sue idee e consacrògli studj a dar loro – per gioia sua ed altrui – una basesempre più inoppugnabilmente scientifica!....

Onde essa seguì e accompagnò il sapere moderno intutte le sue vie, spesso tortuose ed anfrattose, a questo,unico scopo.

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Ora, essa dorme in quel cimitero di S. Paolo, che aogni mente di poeta sembra certo – coi suoi alti cipressipensosi fra lo sbocciar e l'aulire dei fiori – un'immaginedella verde soglia di quell'Eliso dove nella calma serenadella natura le ombre dei grandi si adunano a conversardi cose calme, serene ed alte.

Vicina alla tomba del figlio di Goethe, non lontana daquella dello Shelley, la sua cenere è già mèta al peregri-nar reverente di quanti la conobbero in vita – e così staper esserlo di quanti le vorran dir: «grazie» pel bene cheavrà loro recata l'opera sua e in cui la sua vita e il suopensiero si continuano senza fine.

Su questa città, che il Byron ha chiamato «città dell'a-nima» forse perchè in niun'altra come in essa l'anima«vede» – e l'uomo chiaramente distingue l'eterno dal ca-duco, il reale dall'illusorio, in questa città su cui semprespazia in sensi di amore il pensiero del Goethe, delloShelley, del Byron, dello Sthendal, del Keats, e con essi,quello recente del Myers, grande e umano e dolce comeuno scolaro di Platone – su questa città, mèta di tantoamore, sacra nel vaticinio dei grandi a sempre nuovemissioni – da un'urna di purezza, vibra dolcemente e sidiffonde pur la voce di Malvida di Meysenbug e, in que-sto coro alto e grande, essa dichiara la bellezza dellosforzo, infaticabilmente diretto a un ideale di armonia –all'ideale supremo.

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Alfredo Loisy.

Un edificio eterno non si può costruirecogli elementi del pensiero umano. Solaimmutabile è la verità, non l'idea che lanostra mente si fa di essa.

A. Loisy, L'Évangile et l'Église, p. 166.

La simbolica nave di San Pietro non ha omai più alottare solo contro la furia delle onde che si agitano in-torno a lei da ogni parte e contro la forza dei venti trop-po spesso contrari, ma è anche provata nelle persone deisuoi capi dalle nuove esigenze e dalle nuove idee deisuoi gregari.

Non voglio dire che costoro attentino al buon cammi-no della veneranda nave come, senza dubbio, fanno coiventi e con le onde tante correnti più o meno... sottoma-rine della società moderna....

Anzi è francamente dubbio quali delle due forze (chetali omai si manifestano) dei capi e dei gregari, sia mag-giormente ansiosa della buona rotta del vascello.

E i gregari, anzi, sembrano dire ai capi, mentre il tem-porale imperversa: Vedete, siete voi che ci avete condot-ti a queste male venture da cui ogni momento è semprepiù difficile uscire....

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Ed essi, i gregari, si preparano a far da sè, a salvaread ogni costo il venerabile naviglio che amano per lamaestà nobilmente dominatrice cui sperano possa esserericondotto e continuano omai nella loro via con una si-curezza degna spesso di cause meno dubbie e con unaforza che ha loro conciliate (non giova nasconderlo) in-dubbie simpatie fra le intelligenze di ogni paese.

Essi hanno veduto qual tesoro di forze avesse lasciatoalle fedi tutte l'incauto procedere del materialismo stori-co che giunse con troppo celere pretensione a proclama-re la scienza «la sola superstite nel deserto dei cieli» edhanno altresì scorto facilmente come «l'educazione posi-tiva», solo preoccupata di guidare le intelligenze, si fos-se fatta dimentica in tutto dell'esistenza e del reggimentodei cuori.

Onde a essi fu facile còmpito di rievocare la parola diGesù e di ripresentarla scevra il più possibile delle in-giurie e delle contaminazioni di tanti suoi ministri.

Fu così che si venne sviluppando in tanti paesi quelmovimento democratico cristiano che potè sembrar amolti compimento di più vasta promessa che non fosseappunto quella pôrta dal materialismo....

Ma poichè, quando la carrozza deve ribaltare a ognicosto, Dio accieca o inebria il cocchiere, così accaddeche questo movimento della democrazia cristiana, pro-prio quando e mentre stava iniziando le sue prime note-voli vittorie, venne fermato dall'ordine imperioso delVaticano, e reso così inutile, persino anche là dove

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(provvida ironia delle cose) di esso e di sue larghe vedu-te avevano già cominciato a servirsi gli affaristi del po-tere temporale, per fascinare le moltitudini....

Fra le giovani forze di cui dispone oggi il mondo cat-tolico, se ne trovano altre che fanno opera in apparenzameno forte e temibile, ma in realtà (come i fatti dimo-strano) assai più dannosa agli interessi che, nel nome diGesù, si vogliono continuare a rivestire di religioso am-manto. Sono queste le forze degli studiosi che vigilanosull'evoluzione del dogma e dei suoi rapporti con lenuove vedute e le nuove scoperte e interpretazioni dellascienza.

Essi, pur se fanno opera di cui il pubblico tiene peròancora poco conto, perchè, specialmente fra noi, assaipoco la comprende, sono tuttavia temuti formidabilmen-te dal Vaticano, che, con questi suoi timori e con le mi-sure di repressione onde li soddisfa, mostra una voltaancora – persino alle menti più ingenue – che cosa vo-glia dal mondo e che cosa chieda, pure ai suoi seguacipiù ortodossi, nel nome della religione cristiana-cattoli-ca.

E il caso dell'abate Loisy giunge propizio a conferma(se ne fosse bisogno) dei miei asserti....

L'abate Alfredo Loisy è uno dei sacerdoti più illumi-nati e pii e colti che la Chiesa conti nel suo seno.

Solitario, studioso, egli non si occupa che di cose reli-giose e di studj ad esse attinenti. Intelligente e finequanto erudito, egli appartiene a quella schiera di grandi

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pensatori di cui la Chiesa, molti secoli or sono, onoravae benediva l'esistenza, glorificando San Clemente, San-t'Agostino e San Tommaso.

Egli è, ripeto, un solitario, un pio, un erudito, e i librida lui scritti non sono opere di reboante dottrinarismo odi rumorosa propaganda, bensì saggi profondi sulla Sto-ria del Canone del Vecchio e Nuovo Testamento, sul Li-bro di Giobbe, sugli Evangeli sinottici, sui Miti babilo-nesi in rapporto ai primi capitoli della Genesi, sulla Re-ligione d'Israele, sull'Evangelo e la Chiesa.

Egli, in tutti questi suoi lavori, non ha mai tralasciatodi ribattere, ogniqualvolta lo poteva, le opinioni dellacritica che il clero chiama razionalista; è insomma unodi quegli uomini che si invidiano al partito o all'idea cuihanno dedicata la loro attività.

Orbene! quest'uomo e il lavoro di questa intelligenzasono stati sconfessati dal Vaticano.

Per quale causa? A causa del recente libro dell'abateLoisy: Il Vangelo e la Chiesa.

Che c'è in questo libro? si chiederà il lettore, abituatoalle sfrenate intemperanze della stampa politica; è un li-bello, un'opera sovvertitrice, qualcosa che arieggi agliscritti di Giordano Bruno o alle apostrofi del Savonaro-la?

Niente di tutto questo; questo libro, di cui tutta l'edi-zione è scomparsa improvvisamente dal mercato libra-rio, questo libro, già condannato dalla Congregazionedell'Indice e per cui l'autore fu chiamato innanzi al Tri-

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bunale dell'Inquisizione, è (davvero c'è da far trasecola-re!) soltanto e niente altro che la difesa che un prete cat-tolico – veramente ortodosso – fa del cattolicismo con-tro gli attacchi di un critico protestante, il celebre Har-nack.

Edificante, non è vero?Eppure è così. Il libro del Loisy non è, per così dire,

che un lungo articolo polemico interamente dedicatoalla confutazione del libro del prof. Harnack: L'essenzadel cristianesimo.

Naturalmente non è a credere che le intelligenze chegovernano il Vaticano siano così sciocche da condanna-re un libro che difende la fede ortodossa.... esse lo han-no condannato invece semplicemente perchè con la fedenon difende altresì i tanti interessi che ad essa si voglio-no» in Vaticano, inseparabilmente connessi; perchè,anzi, mostra che questi interessi non li vuole (e non sipossono tampoco) difendere....

Il libro del Loisy si compone, oltre che di una intro-duzione, di cinque capitoli: Il regno dei Cieli; Il figlio diDio; La Chiesa; Il dogma cristiano; Il culto cattolico.

Occupa duecentoquaranta pagine di formato ordinariodedicate, ripeto, completamente alla confutazione del-l'Essenza del cristianesimo di A. Harnack.

L'autore vi si mostra stilista perfetto, logico ed erudi-to fortissimo. E il libro è un vero capolavoro di finezzapolemica e dialettica.

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È opera poi di così profondo acume e non facile lettu-ra, che lo stesso cardinale Richard dovette leggerlo trevolte prima di giungere alla conclusione su cui basò lasua accusa invero interessante che il libro minava lefondamenta pietrine della Chiesa.

Il libro mina le fondamenta «pietrine» della Chiesa. –Invano si cercherebbe, per vero, frase più scultoria incui sintetizzare un'accusa e caratterizzare la quintessen-za di un libro e di un metodo di vedute.

Ed è proprio così: mina nel campo dei dogmi ogni li-mitazione e ogni superstizione, nel campo dell'azioneogni rivendicazione temporale, ogni tendenza anticri-stiana, nel senso più nobile della parola.

Vediamolo da vicino.Ho detto che l'autore difende ciò e solo ciò che nella

Chiesa è possibile difendere.Vediamo quindi con quale straordinaria finezza egli

risponda all'Harnack a proposito del potere temporale edel carattere politico della Chiesa.

(Ripeto: tutto il libro è opera tale che conosce le insi-die e sa su quali punti del suo cammino possano special-mente essergli tese; quindi non chiediamogli volgari fra-si reboanti, non aspettiamo da lui dichiarazioni troppoingenuamente aperte....).

Leggiamolo invece con grande attenzione e rileggia-molo noi pure, come il cardinale Richard!... solo a que-sto prezzo scopriremo tutto il valore delle frasi a mez-

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z'aria e delle idee espresse a metà che hanno fatto susci-tare i segni di furore della Curia e condannare il libro.

«Se la Chiesa fosse, come la concepisce e la rappre-senta l'Harnack, una istituzione affatto politica, nonavrebbe certo nulla di comune col Vangelo e succede-rebbe immediatamente all'Impero romano.

«La tradizione e i ricordi di questo hanno, per cosìdire, condizionato l'azione della Chiesa, ma senza cam-biarne il carattere essenziale. Checchè se ne possa dire,ci corre da Leone XIII a Traiano, dai vescovi ai procon-soli, dai monaci alle legioni, dai gesuiti alla guardia pre-toriana. Il papa non è re come papa, e qui si tratta diChiesa universale, non d'Impero. I cattolici non conside-rano il papa come sovrano, ma come guida spirituale.Pur ricevendo l'investitura dal papa, i vescovi non sononè in diritto nè in fatto semplici delegati; se il papa èsuccessore di Pietro, i vescovi succedono agli apostoli eil loro ministero non è d'ordine politico o puramenteamministrativo. Solo con una metafora si possono para-gonare i religiosi ad un esercito; quel che predicano ipreti secolari ed i monaci non è la politica del papa,neanche quando questi ne ha una, ma il Vangelo conl'interpretazione chiesastica tradizionale, e il regno cheessi cercano propagare è quello del Vangelo, non quellodel papa come differente dal regno del Cristo. Anche igesuiti, istituiti per difendere la Chiesa romana contro lariforma protestante ed antipapale, non sono agenti poli-tici, ma predicatori di religione ed educatori, malgrado

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tutto ciò che si possa pensare dei loro metodi e tendenzeparticolari. Il lato politico di codesta grande istituzionedel cattolicismo è naturalmente quello che più colpiscechi l'osserva dall'esterno, ma è esteriore e si potrebbedire esterno. Benchè lo sviluppo cattolico, osservato allasuperficie, sembri tener solo ad accrescere l'autorità del-la gerarchia o, piuttosto, del papa, il principio fonda-mentale del cattolicismo non ha cessato di esser quellostesso del Vangelo. I fedeli non esistono per il serviziodella gerarchia, ma questa per il servizio loro; così nonla Chiesa per il servizio del papa, ma viceversa.

«Certo la Chiesa ha rivestito, per molti riguardi, laforma di un governo umano ed è divenuta, e lo è ancora,una potenza politica. Tuttavia ha sempre voluto e oravuole essere altra cosa. Che abbia un punto di vista poli-tico e con la politica sia in contatto, è una condizioneinevitabile della sua esistenza, da quando la dottrinaprese nell'Impero romano una certa diffusione. Che essastessa si eriga a potenza politica, trattando i governi dal-l'alto in basso o da pari a pari, negoziando affari religio-si come affari internazionali, è questa una forma transi-toria dei suoi rapporti con i poteri umani. In questo sen-so essa non è sempre stata una potenza politica e potreb-be cessare di esserlo. Lo stato attuale è un lascito delpassato, che si può liquidare con precauzione. Ma si puòprevedere nell'avvenire uno stato generale delle nazionicivili in cui la Chiesa, potenza spirituale e non politicanel senso accennato, nulla perderebbe del proprio presti-

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gio, indipendenza, influenza morale. La politica cadesempre più, e non cadrà infine dalle mani dei reggitoriin quelle degli affaristi? Che guadagnerebbe la Chiesa atrattare con questi ciò che la riguarda, e che interesseavrebbero essi ad occuparsi di queste cose?

«Si può andare ancora oltre, e congetturare che laChiesa, nel suo modo di trattare con le persone che rico-noscono la sua autorità, troverà dei procedimenti piùconsoni con la eguaglianza fondamentale e la personaledignità di tutti i cristiani. Nel livellamento universaleche si prepara, i membri della gerarchia ecclesiasticapotranno esser men grandi secondo il mondo, senza nul-la perdere dei diritti del loro ministero, che diventeran-no, in modo più visibile, doveri. Non è del resto veroche l'autorità ecclesiastica sia mai stata e sia una speciedi costrizione esteriore su ogni moto della coscienza.Essa è, prima di esser dominatrice, educatrice, istruisceprima di dirigere, e colui che le obbedisce lo fa secondola propria coscienza e per obbedire a Dio. In principio ilcattolicismo tende, come il protestantismo, alla forma-zione di personalità religiose, di anime padrone di sè, dicoscienze pure e libere. Invero non si può negare cheper esso lo scoglio è appunto voler troppo governare uo-mini invece di elevare solo delle anime, nè che la suatendenza è stata, per reazione contro il protestantesimo,di annullare l'individuo, di tutelare l'uomo, di controllarela sua attività: il che non provoca davvero iniziativa al-cuna. Ma è stata solo una tendenza, che difficilmente si

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potrebbe dire che nella Chiesa c'è una legione il cuiideale politico e religioso è una società regolata da unasorta di consegna militare in tutti gli ordini del pensieroe dell'azione; ideale, il cui difetto principale è non d'es-sere contrario al Vangelo, ma di essere pericoloso ed ir-realizzabile.

«Il Vangelo di Gesù non era del tutto individualistanel senso protestante, nè del tutto ecclesiastico nel sensocattolico. Si rivolgeva alla massa per costituire la socie-tà libera degli eletti; ci si può fare un'idea della persona-lità, della forma di governo nel regno dei Cieli? La vitae la durata del Vangelo ne han fatto un principio perma-nente di educazione religiosa e morale, una società spi-rituale in cui vige il principio. Nè questo regge senzaquella, nè quella senza il principio, che, unico il prote-stantesimo e l'Harnack, vogliono tener fermo, con unaconcezione inconsistente e irreale.

«Le circostanze storiche han fatto sembrare che l'or-ganismo sociale abbia compromesso il principio, e cheancora lo minacci. Ma tutto ciò che è nel mondo non èperfetto....».

Quale sottilissima finezza, non è vero? È tutto un altoe nobile programma veramente rigeneratore che egli ad-dita – con quanta efficacia sappiamo – all'azione dellaChiesa, sotto l'aspetto di non importanti constatazioni edi polemiche necessità.

Ed ecco con quali sapienti reticenze egli constati, conl'assoluta bancarotta d'ogni pretesa temporale, e con una

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ironica difesa delle colpe del passato, l'urgente necessitàdella Chiesa di spiritualizzarsi o di perire:

«Dal XVI secolo in poi le condizioni generali dellasocietà cattolica si sono modificate. Non c'è più vera re-pubblica cristiana, ma Stati cristiani, sufficientementeconsolidati, che il sentimento di una fede o d'un pericolocomune non riunirà più in un'azione concorde com'eraaccaduto per le Crociate. Infatti l'autorità del papa siesercita con sempre maggior difficoltà nell'ordine pub-blico; la Chiesa, ricca e potente in ogni Stato, è minatada una crescente corruzione; e una grande riforma sirende necessaria per liberarla dal mondo e restituirla aisuoi fini. Ma Chiesa e Stato si trovano sì intimamentelegati che l'organizzazione indipendente dei poteri reli-gioso e politico non poteva avvenire senza torsioni,scosse, lacerazioni. Osservando in distanza i fatti, dopoaver constatato che il Papato dei secoli XV e XVI fu incontinue preoccupazioni per i suoi interessi particolari enon abbastanza per la riforma sempre più urgente, sivede che, se per la forza delle cose l'influenza politicadella Chiesa è andata sempre scemando, il potere spiri-tuale del papa è sempre più cresciuto ed è divenuto ciòche aveva bisogno d'essere per assicurare la conserva-zione della Chiesa cattolica nelle rivoluzioni e nei tu-multi dell'età moderna. Il papa resta il padre dei fedeli eil capo delle Chiese, e si può prevedere che la sua azio-ne non si eserciterà più nelle forme in cui si esercitò nelmedio evo.

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«Non v'è istituzione sulla terra o nella storia umana dicui non si possa contestare la legittimità e il valore, qua-lora si ponga a fondamento che nulla ha diritto di esserefuori del suo stato originale. È un principio contrarioalla legge della vita, movimento e sforzo continuo d'a-dattamento a condizioni sempre variabili e nuove. Il cri-stianesimo non si è sottratto a questa legge e non biso-gna biasimarlo perchè vi si è sottoposto, chè non potevafare altrimenti.

«La conservazione del suo stato primo era impossibi-le, come lo è la restaurazione di quello stato, perchè lecondizioni in cui il Vangelo è sorto sono scomparse persempre. La storia mostra l'evoluzione degli elementi chelo costituivano, i quali hanno subìto, e di necessità, mol-te trasformazioni, pur restando sempre riconoscibili, sìche è facile vedere ciò che adesso rappresenta, nellaChiesa cattolica, l'idea del regno dei Cieli, del Messiasuo annunciatore, dell'apostolato o della predicazionedel regno, ossia dei tre elementi essenziali del Vangelovivente, che hanno subìto cambiamenti necessari allaloro esistenza. La teoria del regno puramente interno lisopprime e fa astrazione dal reale Vangelo. La tradizio-ne della Chiesa li conserva interpretandoli e adattandolialle mutevoli condizioni dell'umanità.

«Sarebbe assurdo volere che il Cristo avesse a priorideterminato le interpretazioni e gli adattamenti che itempi dovevano esigere, poichè questi non avevano ra-gione d'essere prima dell'epoca che li rese necessari.

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Non era nè possibile nè utile che Gesù rivelasse ai di-scepoli l'avvenire della Chiesa; il pensiero che egli tra-smetteva ad essi era la necessità di continuare a volere,a preparare, a realizzare il regno di Dio. La prospettivadi questo si è allargata e modificata, quella del suo av-vento definitivo si è allontanata, ma il fine del Vangelo èrestato il fine della Chiesa.

«È invero degno di attenzione che la Chiesa, perquanto così antica, per quanto già così sicura del giudi-zio finale imminente, per quanto lungo possa esserel'avvenire che si promette, riguarda sè stessa come isti-tuzione provvisoria, come organismo di transizione. LaChiesa della terra, o Chiesa militante, è come il vestibo-lo della trionfante, che è il regno dei Cieli realizzato nel-l'eternità, ritenuto realizzabile ancora all'estremo limitedei tempi. Se son cambiate le dimensioni dell'orizzonteevangelico, il punto di vista è sempre quello. La Chiesaha ritenuto l'idea fondamentale della predicazione diCristo: nessuna istituzione terrestre realizza definitiva-mente il regno, e il Vangelo ne prepara solo il compi-mento».

Da queste constatazioni e da questo augurio di unanuova êra pel papato, il Loisy assurge alla concezionedella fede e del culto nelle sue manifestazioni.

Ed egli, qui, con alta sicurezza, scrive:«La vita d'una religione non è nelle idee, non nelle

formule, non nei riti come tali, ma nel principio segreto

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che ha dato in prima un'attrattiva potente, una sovranna-turale efficacia alle idee, ai riti, alle formule».

Onde trova ben meschini i dettami della superstizio-ne, e grande e ben accolta la preghiera sincera dell'uo-mo, chiunque egli sia, sincero a sua volta:

«Sarebbe certo prudente moderar questo culto in talu-ne manifestazioni e soppratutto chiarirlo nella sua verafunzione. Le considerazioni generali che legittimano,dal punto di vista cristiano, la preghiera d'intercessionecome mezzo per fissare in Dio l'anima, pel tramite dellecreature nelle quali egli si riconosce e si è particolar-mente rivelato, esigono che codesta preghiera differisca,per lo spirito, dalla superstizione pagana, e non si nutradi chimere.

«E le puerilità apparenti della devozione sono lontanedalla religione meno di quel che paia. L'aspetto dellecose è duplice. L'uomo è come messo fra la natura ovetutto par fatale e la coscienza dove sembra libero tutto.L'universo è per lui un gigantesco meccanismo che loattornia d'ogni lato e ove se ne presenti l'occasione lourterà spietatamente, è lo spettacolo che un essere onni-potente e buono offre a sè stesso. La contraddizione chesi rileva nella condotta dell'uomo che chiede di essereesonerato dalla fatalità esiste anche nel mondo, ove ve-diamo la necessità e la libertà. Nessuna preghiera è perl'uomo di fede insignificante o ridicola, purchè essa nonmisconosca Dio nella sua bontà e ne rispetti la sovrani-tà; nessuna è giustificata come atto di ragion pura e di

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perfetta pietà se non è la rettitudine d'intenzioni, l'appli-cazione al dovere, la sommissione alla volontà divina».

Ne viene quindi, di necessità, il razionale adattamentodell'Evangelo alle condizioni sempre mutantisi dell'u-manità:

«È vero che, in seguito all'evoluzione politica, intel-lettuale, economica del mondo odierno, e a ciò che sidice, in una parola, lo spirito moderno, una grande crisireligiosa si è prodotta un poco ovunque, la quale colpi-sce le chiese, le ortodossie, le forme del culto. Il migliormezzo di rimediarvi non sembra sia sopprimere ogni or-ganizzazione ecclesiastica, ogni ortodossia e il culto tra-dizionale, ciò che getterebbe il cristianesimo fuori dellavita e dell'umanità; ma far pro di ciò che è, in vista diciò che dovrà essere, non ripudiar nulla del retaggio tra-smesso dai secoli cristiani al nostro, apprezzare comeconviene la necessità e l'utilità dell'immenso sviluppoavvenuto nella Chiesa, raccoglierne i frutti, continuarlo,poichè oggi, più che mai, come sempre, si impone l'a-dattamento del Vangelo alle mutevoli condizioniumane».

Il capitolo che il Loisy dedica al dogma cristiano ègrande per la serenità e la vera e sincera simpatia a ciòche v'ha di essenzialmente sublime nell'essenza vera delcristianesimo.

E la Chiesa ha condannato anche questo!Scrive il Loisy:

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«Non è indispensabile all'autorità della fede l'immuta-bilità rigorosa nella sua rappresentazione intellettuale enella verbale espressione, e tale immutabilità sarebbe in-compatibile con la natura dello spirito umano. Le nostreconoscenze più certe nell'ordine della natura e dellascienza sono sempre in moto, relative, perfettibili sem-pre. Con elementi del pensiero umano non si può co-struire un edificio eterno. La verità sola è immutabile,non la sua imagine nel nostro spirito. La fede a quella sidirige a traverso la formula necessariamente inadeguata,suscettibile di miglioramento e, perciò, di mutazioni.

«Gli antichi dogmi han la loro radice nella predica-zione e nel ministero del Cristo, nelle esperienze dellaChiesa, nel pensiero teologico: non poteva essere altri-menti. E ciò che non è men naturale è che i simboli e ledefinizioni dogmatiche siano in rapporto con lo stato ge-nerale delle conoscenze umane nel tempo e nell'ambien-te dove si son costituite. Ne segue che un cambiamentoconsiderevole nello stato della scienza può render ne-cessaria una nuova interpretazione delle formule anti-che, che, concepite in un'altra atmosfera intellettuale,non dicono più tutto quel che bisognerebbe o non lo di-cono come andrebbe detto. Qui si distinguerà fra il sen-so materiale della formula, l'imagine sua esterna in rap-porto con le idee ricevute dall'antichità e il suo signifi-cato propriamente religioso e cristiano, l'idea fondamen-tale conciliabile con altre vedute sulla costituzione delmondo e la natura delle cose. La Chiesa ripete, nel sim-

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bolo degli apostoli, «discese all'inferno, risuscitò damorte», espressioni che per lunghi secoli sono state pre-se alla lettera. Le generazioni cristiane si son succedutecredendo all'inferno, dimora dei dannati, al disotto, e alcielo, dimora degli eletti, al disopra. Nè la teologia dot-ta, nè la predicazione popolare mantengono ancora que-sta localizzazione; e non si può nemmeno determinare illuogo del soggiorno dell'anima del Cristo nel tempo frala morte e l'ascensione, nè quello della sua umanità glo-rificata, dopo. Il senso propriamente dogmatico di questiarticoli resta lo stesso, perchè s'insegna sempre un rap-porto transitorio dell'anima del Cristo con i giusti del-l'antico patto e la glorificazione della sua umanità risu-scitata. Si può pertanto dire, davanti alla trasformazionesubìta dal senso apparente delle formule, che la teologiafutura non si farà un'idea ancora più spirituale del lorocontenuto? È vero, sì, che la Chiesa corregge le proprieformole dogmatiche con distinzioni talvolta sottili; maagendo così, continua a far ciò che sempre ha fatto, adadattare il Vangelo alle condizioni perpetuamente mute-voli dell'intelligenza e della vita umana».

E con che fiduciosa simpatia egli, il cristiano vera-mente devoto e illuminato, presenta una nuova êra per leidee che tanto ama poichè tanto le conosce e tanto pro-fondamente le sente!...

«Di fronte al protestantesimo che logicamente condu-ce la religione cristiana all'individualismo assoluto, ilcristianesimo cattolico ha preso una più chiara coscien-

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za di sè stesso, si è dichiarato istituzione divina in quan-to società esterna e visibile, con un solo capo che ha lapienezza dei poteri d'insegnamento, di giurisdizione, disantificazione, di tutti i poteri cioè che sono nella Chiesae che i secoli anteriori avevan dato all'episcopato uni-versale sotto l'egemonia del papa, senza specificare sequesti li possedesse tutti. Le definizioni del Vaticano sisono svolte, per così dire, dalla realtà; ma se il movi-mento accentratore sembra finito, la riflessione teologi-ca non ha ancor detto l'ultima parola. Si può credere chel'avvenire farà, circa la vera natura e l'oggetto dell'auto-rità ecclesiastica, osservazioni che certo reagiranno sulmodo e le condizioni del suo esercizio. Per chiunque haseguìto il movimento del pensiero cristiano fin dalle ori-gini, è evidente che nè il dogma cristologico nè quellodella grazia devono esser considerati come estremi didottrina al di là dei quali non si apre, nè mai si aprirà peril credente, la prospettiva abbacinante del pensiero infi-nito; che essi starebbero più fermi della roccia, inacces-sibili ad ogni cambiamento neanche causale e sarebberotuttavia intelligibili per tutte le generazioni; ugualmenteapplicabili, senza nuova traduzione od esplicazione, atutti gli stati, a tutti i progressi della scienza, della vita,della società. Le concezioni presentate dalla Chiesacome dogmi rivelati non sono verità cadute dal cielo econservate dalla tradizione religiosa nella forma stessaprimitiva; lo storico vi vede l'interpretazione di fatti reli-giosi, raggiunta con laborioso sforzo dal pensiero teolo-

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gico. I dogmi, benchè divini d'origine e di sostanza,sono umani di struttura e di composizione. Non si puòpensare che il loro avvenire non risponda al passato. Laragione muove delle domande alla fede e le formule tra-dizionali sono sottoposte ad un perpetuo lavoro d'inter-pretazione, dove la lettera che uccide è efficacementecontrollata dallo spirito che vivifica.

«Se mai una conclusione dogmatica è formulata sullosviluppo cristiano, si può presumere che sarà l'espressio-ne della legge evolutiva che governa la storia del cristia-nesimo dai suoi inizî. Finora i teologi cattolici sono statispecialmente preoccupati dal carattere assoluto che ildogma riceve dalla sua origine, la rivelazione divina, edi critici han veduto solo il suo carattere relativo che simanifesta nella sua storia. La sana teologia dovrebbetendere alla cessazione dell'antinomia esistente fra l'au-torità indiscutibile che reclama la fede per il dogma – ela variabilità, la relatività che la critica non può osserva-re nella storia dei dogmi e delle formule dogmatiche.

«La vita eterna, nella predicazione di Gesù, non è ilpossesso di Dio per mezzo della fede, ma del regno del-la vita futura, che non ha fine, che è garanzia per coloroche vedranno l'ora del grande avvento, che risorgerannoper goderne, che è un elemento del Vangelo, condizionenecessaria e molto chiaramente formulata, per prenderparte al regno di Dio. Il dono dell'immortalità non è an-cora concepito come un riscatto, una ristorazione della

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umanità, esso costituisce la ricompensa promessa al giu-sto».

L'Harnack chiama essenza del cristianesimo: l'ideadella remissione dei peccati e della riconciliazione conDio.

Essendo questi i due elementi in cui si afferma tutta lalimitazione del cristianesimo, è ben evidente che, accet-tandoli come essenziali, il cristianesimo, non solo cessadi armonizzare con la religione ebraica da cui deriva, econ la persiana e l'egizia che tanto influirono su di esso,ma si trova in aperta opposizione con queste religioni dacui invece pur scaturisce.

Ne viene quindi un'idea ben piccola di suo valore e disue funzioni nel mondo... E non è forse meschina l'idead'una religione che si fonda su quel che non ha di comu-ne con le altre proprio e perchè vuol stabilire con essedivergenze incompatibili e quindi il diritto ad oltranzadella conversione degli «infedeli» e loro conseguentepersecuzione?

Il Dio dell'Harnack non si riconcilia che con l'umanitàcristiana, e il cristianesimo non ha altra funzione, secon-do lui, che di mostrare che non ha nulla a fare con le al-tre religioni....

Siamo di fronte a un dio e a un cristianesimo moltomiseri! e il padre Loisy lo dimostra con formidabile dia-lettica....

Certo – egli scrive – non è possibile stabilire a prioriche l'essenza del cristianesimo sia ciò che esso ha di co-

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mune con le altre religioni, ma non è certo molto logicoconsiderare essenza totale di una religione ciò che la fadifferente da un'altra.

«La fede monoteista è comune al giudaismo, al cri-stianesimo, all'islamismo. Non se ne trarrà la conse-guenza che l'essenza di queste tre religioni dev'esserecercata fuori dell'idea monoteistica.... Nessun credentedi esse ammetterà che la fede in un solo Dio non sia ilprimo e principale articolo del loro simbolo. Ognunocriticherà la forma particolare che l'idea riceve nellafede del vicino, ma nessuno vorrà negare, sotto il prete-sto che il monoteismo appartiene anche alla religionedegli altri, che esso non sia un elemento della sua reli-gione. Le loro differenze stabiliscono la distinzione es-senziale fra queste tre religioni, ma l'elemento costituti-vo di esse non sta qui. È dunque sommamente arbitrariodecretare che il cristianesimo debba esser essenzialmen-te ciò che il Vangelo non ha tolto al giudaismo, come seciò che il Vangelo deve alla tradizione ebraica sia pernecessità di valore secondario. L'Harnack trova natura-lissimo metter l'essenza del cristianesimo nella fede alDio Padre, supponendo, molto gratuitamente, invero,che questo elemento del Vangelo sia estraneo al VecchioTestamento. Anche quando l'ipotesi fosse fondata, nonsarebbe legittima la conclusione. Questa può presentarsispontanea allo spirito d'un teologo protestante, per cui laparola tradizione è sinonimo di cattolicismo e di errore,e che è felice di pensare che il Vangelo è stato quasi un

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protestantesimo della Legge. Ma lo storico non può ve-dere in essa che un'asserzione della quale manchi ancorala prova. Gesù non ha preteso di distruggere la legge,ma di compierla. Bisogna dunque pensare a trovare, nelgiudaismo e nel cristianesimo, degli elementi comuni,essenziali ad ambidue, poichè la differenza delle due re-ligioni consiste in quel «compimento» proprio al Vange-lo, e che, unito agli elementi comuni, deve formare l'es-senza totale del cristianesimo. L'importanza di questielementi non dipende dall'antichità, nè dalla novità loro,ma dal posto che essi occupano nell'insegnamento diGesù e dell'importanza che questi ha loro dato....

«Per stabilire in che consista l'essenza del regno delVangelo e del cristianesimo, l'Harnack è partito da unprincipio evidentissimo per se stesso, che contradice al-l'attitudine generale di Gesù verso la religione mosaica ela tradizione israelita. «Certo, egli scrive, è compito dif-ficile e grave responsabilità quella dello storico che di-stingue ciò che è tradizionale da ciò che è personale, ilnocciolo dall'inviluppo, nella predicazione di Gesù sulregno di Dio». Così, ciò che è tradizionale è l'inviluppo,ciò che è personale è il nucleo. E siccome la nozioneescatologica del regno appartiene alla tradizione ebrai-ca, l'Harnack trova naturalissimo considerarla come l'in-viluppo del Vangelo; il nucleo sarebbe la fede nel Dio dimisericordia, quale elemento originale nell'insegnamen-to di Gesù.

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«Accettare una tal concezione dell'essenziale e del-l'accessorio, in materia di fede evangelica, è per lo stori-co e il filosofo, che non possono credersi in diritto di de-cidere se l'elemento tradizionale del Vangelo sia sospet-to o genuino pel solo fatto di esser tradizionale, ma chedevono solo esaminare l'importanza che Gesù stesso ac-corda ai differenti oggetti ed aspetti della sua dottrina,assolutamente impossibile. Ora, il Cristo mai ha detto oha fatto supporre che l'antica rivelazione avesse minoreautorità di quella di cui egli stesso era l'organo. Inveceegli non pretendeva che completare la legge ed i profeti,allargando, senza dubbio e perfezionando, ma egli inten-deva conservare; egli non si è presentato come il rivela-tore d'un principio nuovo: s'egli non dà mai del regno diDio una definizione sua, è perchè il regno di cui egli è ilmessaggero e l'agente, nel suo pensiero ed in quello deisuoi ascoltatori s'identifica con quello annunciato daiprofeti: egli annette alla speranza nel regno tanta impor-tanza quanta al precetto dell'amore e alla fede in Dio.Questi tre elementi sono nel Vangelo connessi, insepara-bili, essenziali, benchè, o meglio, perchè tradizionali;sono l'essenza del Vangelo, perchè lo sono della rivela-zione biblica. Per quanto il suo modo di sentire Dio, l'a-more e il regno sia più puro, più intimo e vivo di quellodel Testamento Vecchio, esso perfeziona questo, non lodistrugge. Cercare nel Vangelo un elemento del tuttonuovo circa la religione di Mosè e dei profeti, vuol dire

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cercarvi ciò che Gesù non ha voluto metterci, e che, asuo parere, non c'è».

Invece essenza del cristianesimo è pel Loisy (e, fran-camente, per ogni intelligente) «il messaggio dell'avven-to del regno di Dio»; messaggio non solo non oppostoalla tradizione giudaica, ma in stretta, inseparabile rela-zione con essa:

«Il Cristo non intende salvar gli uomini precisamentecon la conoscenza di Dio: parlando ad israeliti, egli sup-pone questa conoscenza e non pretende nemmeno pre-sentare un nuovo aspetto di essa. Il suo messaggio è nel-l'annuncio del regno prossimo e nell'esortazione alla pe-nitenza per prendervi parte. Tutto il resto, preoccupazio-ne comune dell'umanità, è come non avvenuto.

«Il Vangelo non è entrato nel mondo come un assolu-to incondizionato, somma di una verità unica, immuta-bile, ma come una fede viva, concreta e complessa, lacui evoluzione procede senza dubbio dalla forza intimache l'ha resa duratura, subendo nulladimeno l'influsso, eciò fin dagl'inizi, dell'ambiente dove si è prodotta e si èsvolta. Questa fede si definisce nell'idea del regno diDio. L'idea del Padre non è che un elemento, tradiziona-le per la sua origine come tutto il resto, e che come tuttoil resto ha la sua storia nello sviluppo del cristianesimo.

«Ad un'idea molto particolare del regno dei Cielideve corrisponderne una altrettanto particolare dellamissione del salvatore. Il Cristo dell'Harnack differiscenon solo dal Cristo della tradizione, ma dall'immagine

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che la sola critica dei Vangeli potrebbe fornire allo stori-co di Gesù. Questi, ci dicono, è, come rivelatore del Pa-dre, figlio di Dio; ma questi solamente appartiene alVangelo; Gesù si è creduto messia, ma questa concezio-ne giudaica non è altrimenti legata a quella della filia-zione divina; «era la condizione necessaria perchè coluich'era stato internamente chiamato potesse esser ricono-sciuto nella storia della religione ebraica»; la morteespiatrice di Gesù l'ha fatto Signore, e, checchè si pensidei racconti della risurrezione, la fede indistruttibile nel-la vittoria dell'uomo sulla morte e in una vita eterna ènata sulla tomba del Cristo».

Gesù stesso aveva coscienza di essere il messia, ilmessia dell'antichissima tradizione israelita...

E il Loisy porge qui un bel quadro dell'evoluzionepsicologica dell'idea messianica del Cristo:

«Egli aveva dunque coscienza di essere il messiaquando lasciò la Galilea, e la confessione di Pietro, dellaquale non si ha d'altronde alcun motivo per sospettare lastoricità, viene a chiarire la situazione. La convinzionedei discepoli non era certo di lunga data quando Simonela espresse; ma nulla vieta di ammettere che Gesù stes-so, quando cominciò a predicare il Vangelo, non consi-derava se stesso come il semplice messaggero e profetadel regno; egli pensava di esserne il capo predestinato.Qui è la chiave della singolarità che si nota nel suo at-teggiamento. Siccome il regno è futuro, l'ufficio delmessia è semplicemente escatologico. Il Cristo è il pre-

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sidente della Società degli eletti; il ministero di Gesù erapreliminare riguardo al regno e all'ufficio proprio delmessia. In un senso Gesù era il messia e in un altro sen-so non lo era ancora. Lo era, in quanto chiamato perso-nalmente a governare la nuova Gerusalemme; non loera, perchè questa non esisteva e il potere messianiconon poteva esplicarsi. Gesù aveva dunque davanti a sèla prospettiva del suo proprio avvento. La domanda diGiovanni Battista: Sei tu colui che viene? è così facil-mente comprensibile quanto la risposta di Gesù, il carat-tere indiretto della quale e la riserbatezza calcolata nonson dovuti alla modestia del Salvatore, ma imposti dallacondizione attuale del regno. Non dice Giovanni: «Seitu il Cristo?» perchè il regno non è realizzato, e Gesùnon è come messia; ma domanda se Gesù non sarà ilCristo, ed egli gli risponde in modo da fargli capire cheè colui che prepara effettivamente la venuta del regno echi con questo deve venire. Quando Pietro dice: «Tu seiil Cristo» non dice che il Salvatore sia già nell'eserciziodella sua funzione messianica, ma che egli è la personaper essa designata. Così lo intende Caifa e il discorsoche gli dirige Gesù non si può invero capire che in taleipotesi. Il Salvatore riconosce di essere il Cristo; ma perspiegare la sua affermazione soggiunge subito: «E voivedrete il Figliuolo dell'uomo seduto alla destra dellasua potenza, cioè di Dio, e veniente sulle nubi delcielo». È precisamente quel posto d'onore, questo giun-gere sulle nubi che caratterizza il messia. Gesù dichiara

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di essere il figlio dell'uomo che deve venire. Si com-prende facilmente perchè egli non abbia voluto confes-sar la sua qualità che il dì della sua morte, e si vede inqual senso l'abbia fatto. Nè v'era luogo di farlo prima,non solo perchè non l'avrebbero creduto o immediata-mente si sarebbe esposto alla vendetta dei poteri pubbli-ci, ma perchè non lo poteva, non essendo la sua predica-zione la funzione del Messia e dovendo il suo avventocome Cristo prodursi solo più tardi, al momento fissatodalla Provvidenza. Si comprende anche come la Chiesaapostolica abbia insegnato che Gesù era divenuto Cristoe Signore per la risurrezione, per il suo ingresso cioènella gloria celeste, e che essa abbia nello stesso tempoatteso la sua venuta, il suo avvento, cioè come Cristo, enon il suo ritorno, poichè il suo ministero terrestre nonera ancora considerato come avvenimento messianico».

Il Loisy confuta colle più irrefutabili prove della sto-ria la concezione dell'Harnack che dimostra stretta eunilaterale:

«In questa tesi assoluta dell'Harnack come nella suaconcezione del regno dei Cieli si riconosce la tendenza aconcentrare la religione in un sol punto, dove si dovreb-be veder la realizzazione del perfetto: la vita eterna ac-quistata presentemente nell'unione con Dio: Gesù sareb-be l'unico araldo di quest'unica rivelazione, che restaimmutabile in questa forma pura, senza che nulla la pre-pari e senza che avanzi con i secoli che la seguono. In-vece del sovrannaturale – ch'egli abbandona – e invece

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di chiarirne la nozione, il sapiente teologo introducequalche cosa d'assai inconsistente, una specie di rivela-zione umana ed assoluta, subitanea e immutabile che sa-rebbe prodotta nella coscienza di Gesù e che il Vangelonon conosce. Ora il cristianesimo non è entrato nel mon-do in questo modo. Se non è, e poco manca, il prodottofatale della combinazione di fedi diverse di Caldea,Egitto, India, Persia e Grecia; se è nato dalla parola edall'azione incomparabili di Gesù, non è men vero chequesti ha raccolto e vivificato il miglior capitale religio-so che Israele avesse accumulato, e che lo ha trasmessonon come un semplice deposito che i credenti d'ogniepoca debbano custodire, ma come una fede viva, sottoun insieme di credenze che, vissute e sviluppate primadi lui, dovevano dopo vivere e crescere per l'influenzapreponderante dello spirito che egli vi aveva immesso.Per esser isolato nella storia, il Cristo di Harnack non èpiù grande; è solo meno intelligibile e meno reale».

Non è quindi a stupire che con tanta larghezza di ve-dute Alfredo Loisy spinga lo sguardo tutto intorno oltrele viete barriere, e veda le armonie essenziali che tra-scorrono fra le religioni tutte.

Queste armonie esistono malgrado gl'interessi chevorrebbero soffocarle, malgrado i fantasmi di ogni sortae le limitazioni intellettuali d'ogni sorta altresì. Esse esi-stono e la scienza delle religioni le trova ogni giorno piùessenziali e profonde, sì da giustificare la vecchia felice

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frase di Cesare Cantù che le chiamò, con molta arguzia;I dialetti di una medesima lingua.

«C'è qualche esagerazione a metter da parte Platone,la religione persiana e le credenze del giudaismo poste-siliano come se non avesser giovato a nulla nel creare lacertezza della vita eterna e che tal certezza fosse venutasolo dalla fede nel Cristo risorto. L'evoluzione religiosadel giudaismo, nei tempi immediatamente precedenti al-l'èra cristiana, ha contribuito non poco nel preparare ilterreno per tale fede; Gesù stesso presso gli ebrei ha tro-vato la fede alla risurrezione dei morti e conforme adessa ha parlato. L'idea della risurrezione personale sup-pone quella della risurrezione comune. Che la fede aquella del Cristo abbia dato un impulso decisivo allacredenza ulteriore, non si può negare; ma lo storico nondeve contestare il legame di questa fede con quella chel'ha preceduta. Nè si può dire che la fede nel Cristo sem-pre vivente sia oggi quella che sola sostiene la credenzanell'immortalità. Altro è che l'umanità non abbia acqui-stato questa fede per mezzo di speculazioni filosofiche,altro che essa l'attinga unicamente nella vita e morte delCristo per sempre uniti a Dio.

«Quando il Salvatore mandò i suoi apostoli a predica-re, gli evangelisti dicono ch'egli sottintese la penitenza eil messaggio ch'egli confidò loro non contiene che lafrase: «Il regno dei Cieli è vicino», che senza dubbiopuò esser benissimo la cosa essenziale nel Vangelo, labuona novella annunziata dal Cristo. Quando qualcuno

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gli chiese un segno, Gesù rispose che egli non avrebbedato altro segno che quello di Giona, facendo intenderecosì ai suoi uditori che li rimandava al prossimo giudi-zio di Dio.... Egli assicura ai suoi discepoli che parecchidi loro vivranno ancora quando verrà il regno, e quandoessi osservano che Elia dovrà venire ancor prima, ri-sponde che è cosa fatta e che Elia è venuto nella personadi Giovanni Battista».

Quando si noti che in lunghe mirabili pagine il Loisydimostra le influenze che sul cristianesimo ebbero l'anti-ca religione egizia e la filosofia dei neo-platonici, quan-do si consideri che pur nell'accenno riguardante Elia, orora citato, è una chiara immagine dell'idea buddica dellarincarnazione, facilmente sarà dato concludere che ilLoisy sente e comprende la necessità dei tempi nuovi(da tante scoperte suffragata) di comprendere e interpre-tare la religione come fenomeno ben diverso da quel chela si voleva considerare nel passato.

Ma queste vedute e queste interpretazioni non posso-no essere accolte dalla Chiesa; dalla Chiesa che vuole lareligione cristiana non in armonia ma in costante e per-fetto antagonismo colle altre, non foss'altro per giustifi-care tutte le sue persecuzioni passate e presenti; chevuole il potere temporale strumento efficace di agitazio-ne e molto più pratico di un regno tanto di là da venireoggi quanto diciannove secoli fa – che di ogni limitazio-ne e di ogni superstizione ha bisogno, per la guida ditutte le sue pecore tosate e da tosare.

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Ecco perchè il libro di Alfredo Loisy è stato condan-nato proprio dall'Ente che sembrava difendere – e diamici e difensori come lui non sa proprio che farsene!

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Per Herbert Spencer24.

Pubblicando il volume di Fatti e Commenti ErbertoSpencer aveva, dichiarandolo l'ultimo suo libro, presocommiato dal pubblico e dal mondo.

Così, totalmente compiuta nella maggior e nella mi-nor linea, l'opera sua, egli poteva sulla soglia dell'ultimavecchiaia considerare – come il vecchio Goethe dopo ilsecondo Faust – quale dono del cielo ogni restante gior-no di vita; ogni giorno che gli rimanesse per scorgere –vie più da lontano – in sua complessa, armonica unità lasomma dell'opera sua.

Per poter dire degnamente di lui e di quest'opera con-verrebbe risalire anzitutto alle condizioni e alle causeche ne determinarono l'iniziale apparita e come essa,dopo di aver rappresentato a suo tempo una nuova paro-la di austero equilibrio intellettuale e morale, fosse poibase sicura – casellario quasi – in cui riunire a un tempo

24 Questo saggio su Herbert Spencer viene dall'autore postofra i Profili d'Idealisti per una sola ragione: mostra l'operadell'«evoluzionista» per eccellenza, da un angolo visuale poconoto. Devo aggiungere che da tale angolo visuale, anche la mentesovrana dell'Inglese scorse non tutta, è vero, ma pur una grandeparte del valore e della necessità dell'Idealismo!

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e suddividere tutti i nuovi sforzi e i nuovi risultati di di-scipline variamente sperimentali.

Ecco come e perchè la sua filosofia possiamo e dob-biamo considerarla (se comprenderla vogliamo ed ap-prezzarla al giusto) come «la grande armatura di tuttol'edificio del sapere contemporaneo».

Solo che la grandiosa opera sintetica non poteva(come non fu, e ogni giorno lo si vedrà più chiaramente)essere considerata con criteri larghi da quella vera folladi specialisti di cui dirigeva e incanalava le ricerche – eche, per natura di lor portata, non potevano e non sape-vano lavorar che sul piccolo – onde può ben dirsi che, alungo e tuttora, di questo gran fiume di sua logica dottri-na ognuno trasse l'acqua al proprio mulino....

Poichè non soltanto la schiera degli scolari di Augu-sto Comte – «arbitrari» scolari, sento il dovere di ag-giungere –, non soltanto quella che si chiamò «giovanescuola positiva» italiana (e di cui ora tutti vedono chedel bello e del nuovo onde si vantò proclamatrice, ilnuovo non era bello e il bello non era nuovo) ma anchetutte le innumerevoli fazioni dello sfasciantesi materiali-smo storico vollero essere ciascuna la più genuina e di-retta espressione del suo pensiero....

E non giova quindi ritenere che, quando lo Spencercon rassegnata mestizia scriveva nel suo ultimo libroche «in tre casi su quattro le sue pretese opinioni nonerano opinioni sue affatto» pensasse anche ai troppofrettolosi e non abbastanza onesti scolari, autori della

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materia su cui lo combattevano non meno frettolosi e.....ugualmente onesti avversari?

È per ciò che noi, che ci prepariamo alle ardue lottedell'avvenire, sentiamo di poterlo e dover onorare – purse egli appartenga al passato – nell'austerità dell'operanon meno che in quella della persona e ammirare in luiquella veramente sublime e difficilmente esprimibilesua superiore ininterrotta coerenza che lo fece del conti-nuo alleato con la forma della più alta verità che potèpercepire.

Fu così quindi, che, negli ultimi suoi anni avendo egliscorto come si esagerassero grandemente alcune sueconclusioni, per mire – sia pur di scuola – non del tutto«oggettive», egli, che aveva magnificate e anatomizzatetutte le virtù dell'intelligenza, non si peritò col saggiomeraviglioso sull'«intelligenza e il sentimento» ad insi-stere (anche a rischio di essere – come fu – mal compre-so) nel proclamare la sovranità del sentimento domina-tore e della intuizione rivelatrice.

Tale l'uomo, tale il filosofo.Certo egli lasciò fuori del quadro rigoroso delle sue

classificazioni molti dati e molti fatti: passò, assoluta-mente, o quasi, à coté di un mondo di fenomeni e di ri-sultati per cui il sapiente alveare della classificazioneevoluzionista non ha caselle sufficienti, anzi non ne haaffatto.

Ma ciò che egli non vide, non era, ai tempi in cui ilsuo ingegno tracciava il piano dell'attività futura, visibi-

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le che allo stato di personale intuizione.... E non fu daquesta parte – è noto – che gravò la bilancia di sue ricer-che....

La «relatività» di sua concezione è quindi fenomenoben «umano», fisiologicamente.

E pur in tale «relatività» – talora solo e sì angolosa-mente mentale – quale costante aspirazione a superioriarmonie che la coscienza sentiva vive e solo l'intelligen-za era costretta di lasciar «fuori quadro!».

Essa vibra in tante note del concerto di sua opera;essa vive e palpita con sensibile evidenza nel lavoro ma-gistrale e di rara esattezza con cui un nostro serio stu-dioso, il dottor Guglielmo Salvadori, ha saputo di recen-te riassumere e presentar l'opera del Maestro (L'eticaevoluzionista, studio sulla filosofia morale di ErbertoSpencer).

Onde il Salvadori può ben scrivere:«Come risultato della sua critica profonda e radicale

della ragione pratica, lo Spencer è condotto ad affermareche la felicità è il fondamento della morale: il piacere èuna forma d'intuizione morale, come lo spazio è una for-ma necessaria d'intuizione intellettuale.... E ricollegandoil fine della condotta umana alla legge universale dievoluzione, di cui quel fine diventa la conseguenza ne-cessaria, il filosofo inglese riesce a conciliare il princi-pio eudemonistico con la dottrina aristotelica della virtù,con la nozione astratta della perfezione, con la dottrinadell'intuizionismo, e con la dottrina spirituale del bene

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in sè: le quali teorie tutte non possono fare a meno diprender per ultimo fine etico uno stato piacevole di sen-timenti. Ma è erroneo il credere (e con ciò si travisacompletamente il pensiero dello Spencer) ch'egli deducale norme della condotta umana semplicemente dallecondizioni di esistenza. Certo la condotta umana ci rive-la un aspetto biologico, in quanto si presenta come uncoordinamento di funzione, ed avvi un rapporto neces-sario tra le sanzioni piacevoli e le azioni utili all'organi-smo; ma ciò non basta a determinare la moralità degliatti. Il valore morale delle azioni umane dipende dallacomplessità del motivo, a costituire il quale concorronoelementi affettivi ed elementi intellettivi; e anzi si puòaffermare che la coscienza morale non sorge, se non nel-l'ultima fase della evoluzione psicologica dei motivi, incui i sentimenti, fattisi infinitamente più complessi eideali, si sono allontanati dalle semplici sensazioni e daisemplici appetiti. È l'idealità del motivo psicologico checrea la moralità dell'azione esterna. E così, soddisfa-cendo alle esigenze di una morale scientifica, si mantie-ne intatto e anzi pieno di solennità e sacro un ideale dimoralità, a cui si rapportano continuamente le azioniumane. È l'Etica Assoluta che c'indica il modo ideale dicondotta che deve essere attuato dall'individuo in socie-tà, per assicurare la più grande felicità individuale e so-ciale. Così lo Spencer, come aveva saputo conciliare lamorale induttiva con la intuitiva, riesce a una nuovaconciliazione del criterio relativo di moralità col criterio

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assoluto. E così rimane possibile un giudizio sicuro efisso intorno alla moralità delle azioni umane, in base anorme universali e costanti di condotta: giudizio tantopiù certo, in quanto quell'ideale supremo di moralità èconforme alla legge cosmica di evoluzione, ed è sugge-rito e imposto alla coscienza umana dalla realtà stessatutta quanta. Ma esso è allo stesso tempo un prodottodello spirito, e l'attuarlo dipende da noi, dalla nostra co-scienza autonoma e creatrice dell'eterno ideale».

Pagina spenceriana di così perfetto equilibrio, di cosìrara commovente indipendenza da poter suscitar solo,come tutte le impressioni troppo forti e grandi, un reve-rente silenzio....

Ed è la sua onestà, il suo ingegno – diciamo il nomedel figlio di queste doti – il suo genio che fa concludere(pur nel sunto efficace del volgarizzatore) il filosofo in-glese:

«Quella forza superiore della coscienza che impone ildovere e che si attua nell'ideale, il cui contenuto lascienza concorre a rinnovare perpetuamente, non è forseuna manifestazione, anzi la più elevata manifestazione,di quel Potere infinito ed eterno, dal quale tutte le cosederivano, e nel quale è la ragione ultima della nostra esi-stenza, e quindi della moralità? E la coscienza, che si ri-sveglia in noi quando la scienza si arresta davanti ai li-miti inesorabili del nostro pensiero e ci pone così in re-lazione col mistero ultimo delle cose, non assume forseuna attitudine essenzialmente morale e religiosa? In

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questa armonia sublime tra lo spirito etico, lo spiritoscientifico e lo spirito religioso, la coscienza nostra siacqueta e, mossa dalla fede profonda nel bene, acquistala forza necessaria a proseguire costantemente vivendoper l'ideale supremo, in cui si riassume la moralità».

Tale l'uomo, tale il pensatore compreso solo in mini-ma parte, come Augusto Comte, da troppi che si chia-marono suoi scolari, mentre in realtà non erano che in-dotti corifei adoratori del vano orpello di cui essi stessidrappeggiarono la sua non vana figura di solitario.

Ora, l'orpello sbrandellatosi al primo soffio di vento,la figura rimane sulla soglia del Tempo nuda e sola,come fu nella vita, superiore alla piccola critica, allapiccola ciarla, al piccolo elogio, alla piccola scuola.

Rimane nuda e sola e a sè sufficiente, come l'Idea,come la Verità. E i pochi fedeli che accompagnarono – ildì delle esequie – il Maestro all'ultima dimora sono for-se simbolica espressione del numero dei cultori che l'I-dea e la Verità hanno nel mondo.....

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Edoardo Schuré.

La figura di Edoardo Schuré non è stata sempre arti-sticamente e moralmente troppo aristocratica per esserecompresa da altro pubblico che non sia quello – vastissi-mo... per dispersione – degli intellettuali e degli indi-pendenti d'ogni paese?

Poichè egli è anzitutto un solitario: i maggiori pensa-tori del nostro tempo sono dei solitarj. Nei tempi di de-cadenza morale e politica la solitudine è una forza e unaprotezione, è la prima e sola tutela dei liberi.

Ma la solitudine di Edoardo Schuré è più formale cheintima: è la solitudine di chi scorge prossimo l'avventodi nuovi ideali nell'arte e nella vita e si prepara ad affret-tarne l'apparita; è per ciò che, se accenno ad essa, lo fac-cio solo per indicare che in lui l'uomo, il filosofo, e l'ar-tista vanno studiati con criteri omai un po' diversi daquelli delle convenzionali, e omai viete, classificazioni.

Poche figure moderne sono per me belle come questadi vero e superiore uomo libero, di cui tutta l'attività èsempre stata, dai suoi inizj non recenti, come magneti-camente attirata e orientata del continuo – in ogni fasedel suo svolgimento – verso qualche ideale non ancora

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visibile alla folla dei contemporanei e quindi imponibilesolo colla lotta e col sacrifizio della persona.

Più che diffondermi a considerar tutta l'opera di E.Schuré, voglio qui fissarne alcune linee essenziali, qualisi rivelano da tre opere: il Riccardo Wagner, i GrandiIniziati, il Teatro dell'anima.

Tre opere, tre battaglie – per quanto, nella vita delpensatore, tre episodj dell'unica lotta filosofica da lui in-trapresa.

Qual'è questa lotta?È la lotta contro il materialismo insufficiente, dogma-

tico e omai superato dai fatti stessi. E di questa lotta loSchuré è a un tempo un precursore e l'apostolo maggio-re.

Leggiamo insieme questo brano di una lettera già edi-ta che l'illustre Maestro ed amico mi dirigeva or sonodue anni, e vedremo come in essa, e nel programma checon chiarezza insuperata disegna, sia ben adunata l'es-senza d'ogni sua aspirazione, il «primo mobile» d'ognisua attività:

«Alcuni pretesi sociologi, confondendo il microsco-pio con la coscienza, lo scalpello con la ragione, e chia-mando dottrina le limitazioni del loro intelletto, hannoproclamato la fine di ogni metafisica; ma non hannomostrato che la irrimediabile aridità della loro anima ela sterilità radicale del loro spirito. Al loro seguito unaletteratura che si è chiamata realista o naturalista ha cre-duto di rinnovare l'arte riducendola a dei brani di vita e

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confinandosi tra i bassi istinti dell'uomo; ma, dopo unsuccesso effimero e superficiale, essa provocò il disgu-sto a causa del suolo putrido su cui si aggirava e perchèi personaggi che ha creato non rappresentavano che unaumanità inferiore, avvilita e degenerata.

«Ora però la reazione è cominciata dappertutto. Unafilosofia più larga si prepara, una poesia più profonda siannuncia, un'arte cosciente e forte è per nascere. La dot-trina materialista che regna ancora col prestigio del po-tere ufficiale e la forza dell'abitudine, già non orientapiù la parte più eletta degli spiriti e non dirige il cuoredei popoli; gli sguardi si volgono da un'altra parte, per-chè la luce sparsa nell'aria viene d'altro luogo..., la gio-ventù ancòra incerta, ma seria e ricca d'aspirazioni, hasete di nobiltà e di bellezza, di sintesi e d'armonia.

«Se tento di immaginare ciò che avverrà nel ventesi-mo secolo, io vedo il rinnovamento idealista operarsi si-multaneamente nei tre dominj della scienza, della filoso-fia e dell'arte. La scienza contemporanea ha misurata epesata la materia. Essa ha penetrato l'infinitamente gran-de e l'infinitamente piccolo sino agli estremi limiti dellapercezione e dell'ipotesi che i sensi possono suggerire,sino al confine estremo dove la materia imponderabile eindefinibile s'identica colle idee di forza e di moto. Essaha esplorato e passato, per così dire, in rivista il mondovisibile; ciò era necessario; ciò può dirsi altresì grande –ma non è tutto.

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«Però, poichè la scienza ebbe percorso il mondo fisi-co e appreso il modo di adoperarne le forze, essa si pen-sò di aver la conoscenza dell'universo e di poter aspirareal governo dell'umanità....

«Questo fu un errore grave, poichè ben altra forza leresta a scoprire. Le resta a scoprire, a conoscere, a porrein azione la forza delle forze: l'anima umana e l'animadell'universo, di cui il nostro corpo e il mondo fisiconon sono che le manifestazioni visibili.

«La filosofia, fondata sui proprj stessi esperimenti,darà stabile esposizione alla gerarchia delle forze checostituiscono l'uomo e a un tempo segnano in via di pa-rallela più vasta analogia sull'universo.

«Da tale sistemazione saranno completamente tra-sformate le nostre attuali concezioni della vita indivi-duale e sociale».

Non è così? E non è questa la mira ideale cui tendeogni nobile fatica dell'età nostra?

E tutti coloro che operano per un ideale di pace e diarmonia futura non si sono pur anco avvisti che nelcampo delle idee il più grande ostacolo alla accettazionedi esso è venuto da alcune teoriche di sociologia chesembravano moderne e scientifiche – mentre in realtànon sono (come ora fortunatamente bene appare) chevedute affatto personali?

La dottrina della «lotta per la vita» portata dalle oscu-re e men note vicende della vita inferiore a espressionedi legge umana – questa dottrina è stata forse la più for-

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midabile, pur se inconsapevole, oppositrice d'ogni re-cente aspirazione di armonia.

Volontariamente o no, essa, come si presentava consua apparenza scientifica e moderna, non mandava forseproprio alle agresti fronde dei monti d'Arcadia ogniinerme che si presentasse a dir il canto della pace nell'u-niverso?....

Perciò, a pochi, io credo, come ai fautori sinceri econvinti della «legge dominatrice della forza», deve re-car gioia profonda e cordiale il risultato degli studj nuo-vissimi che suffragano il vaticinio di E. Schuré ed hangià dato il crollo a tutta una dottrina troppo arbitraria peresser veramente positiva come si chiamava.

Non l'egoismo della «lotta per l'esistenza», ma l'al-truismo – lo affermo per la gioia di ogni pensatore vera-mente libero – scaturisce dalle stesse forme più elemen-tari della vita.

Contro l'arbitraria critica del Nietzsche, lo dimostra ilGuyau nei suoi saggi, di cui solo ora si comincia a scor-gere il valore vero; e a lui, il sociologo, tende la manodai dominj della biologia il sommo Leukart.

La stessa vita della cellula sta, come il Leukart ha di-mostrato, agli inizj della esistenza a dimostrar questalegge d'armonia nel creato – in un con quella dell'«uni-tà». Ogni accrescimento, come ogni fecondità, è prodot-to e base dell'altruismo. E altresì nei regni della naturainferiore non è la lotta ma «la solidarietà e l'armonia perla vita» che si presenta agli occhi del non superficiale

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osservatore. Non sono io che lo dico in queste troppobrevi linee: è Alfredo Fouillée che lo ha affermato e di-mostrato in saggi recenti e già celebri e già classici.

Perciò tutti i successi della causa vera dell'umanità cirecheranno, credo, più gioia quando si sappia che nonson figli solo di generoso e più umano proposito, mascaturiscono in via affatto diretta – pur se lunga quantol'infinita catena delle evoluzioni del creato – dalle origi-ni, dalla base e dalla missione della vita tutta dell'uni-verso.

** *

Il vaticinio del poeta ha avuta la conferma nella paro-la della scienza.... Ma E. Schuré non fu solo in ciò pre-cursore. Non stupiamoci, dunque, che egli scrivesse illibro che rivelò Wagner, proprio nel momento più terri-bile dell'anti-wagnerismo, e i Grandi Iniziati – l'apolo-gia degli «eroi» e dell'idealismo – in pieno turbine mate-rialista, prepotente e assurdo – e che insorgesse, infine,in nobilissimi articoli contro Nietzsche proprio quandoNietzsche fanatizzava, e ora, essendo trionfante il cocot-tismo teatrale, tenti contrapporvi il suo Teatro dell'ani-ma.

Il fatto è che quanto più lo scrittore è intimamentegrande, tanto maggiore è il suo bisogno di lottare perun'alta idea non anco a tutti manifesta, di sprezzar ogni

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compromesso colla folla e ogni adulazione altresì, ognitransizione per asservirla ed averla facile e plaudente....

Il libro su Riccardo Wagner è il secondo volume del-l'opera Il Dramma musicale; secondo volume, ma in ve-rità piuttosto che essere l'appendice di tal vasta sintesi,ne appare talmente integrazione e svolgimento da farapparir quello piuttosto come prefazione alla nobile bat-taglia dell'apologia del musicista tedesco.

Quest'opera sul Wagner – che ha permesso ai pochi digiungere alla vittoria evidente ora a tutti – meriterebbein vero di essere con cura studiata nella sua genesi e nel-la manifestazione sua prima.

Essa è il prodotto di una somma di cause di cui divie-ne sempre più malagevole cercar la primitiva armonia;la quale si è spenta, in realtà, col cessare delle cause me-desime. Voglio dire che vi fu un momento nella storiadel pensiero moderno (momento che giunse al suo apo-geo fra il 1860 e il 1870) in cui parve che, auspici altresìalcune donne di raro intelletto, fra cui Malvida di Mey-senbug, si realizzasse una vera armonia fra le due aspi-razioni idealistiche, la francese e la tedesca, e apparisse-ro insieme strette a formar una specie di «pensiero del-l'Europa centrale». È a questo periodo che rimonta laprima attività letteraria di Edoardo Schuré – come quel-la di un altro suo conterraneo e storico illustre, GabrieleMonod – è ad esso che rimase del continuo legata, siapure inconsciamente, quasi ad augurio perenne dell'au-spicata letteratura europea.

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Lo Schuré, che nell'omai men difficile compito di cri-tico musicale avrebbe potuto benissimo adagiarsi a gu-star tutti i sorrisi d'una popolarità tanto più degna quantopiù meritata, non appena scorse vinta la battaglia cui siera accinto, sdegnando preda e successo, si accinse in-vece ad una lotta novella.

E fu quella dei Grandi Iniziati. Che cosa sono iGrandi Iniziati? Sono le guide dell'umanità. A traverso isecoli dei secoli, a traverso i vasti continenti, fra i milio-ni e i miliardi di umani che si succedono nel tempo enello spazio, di queste guide, di questi eroi non siamoriusciti a trovarne che sette od otto. E sono coloro che legrandi razze dell'umanità o assegnano al mito oppure al-l'adorazione, considerando ciascuno di esse come il piùperfetto degli esseri, come un Dio. Da Krisna, a Rama, aCristo noi li conosciamo.

Le scoperte moderne hanno omai – coll'aiuto dellostudio delle civiltà passate – mostrata questa grande ve-rità: che le religioni tutte dell'umanità hanno, oltrechèpunti di differenza a tutti noti, altresì punti di somiglian-za non a tutti noti ancòra; hanno dimostrato questo an-che, che i punti comuni riguardano l'essenza stessa delleidee, mentre le differenze concernono solo alcuni parti-colari.

Di qui una nuova visione dell'umanità rispetto allastoria del suo passato e specialmente ai suoi destini fu-turi; di qui la concezione, che per ora forse è un'aspira-

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zione soltanto, teosofica – nel senso platonico e cicero-niano della parola – della vita e dell'universo.

Tale il concetto dominatore e trionfante nei GrandiIniziati.

Ma a quel modo che già al momento del trionfo dell'i-dea wagneriana piacque allo Schuré lasciar il campodella vittoria per quello di una battaglia novella, così,pur dopo il compimento di questa opera magistrale –che legava il suo nome a tutto un nuovo orientamento divedute – egli non volle rimaner in attesa dei trionfi chele nuove idee, per quanto ancor poco chiare ed ambigua-mente comprese, gli avrebbero procacciato (non fossealtro col favor della moda) – ma, come ritemprato innuova energia egli, che aveva iniziato la sua carriera colsogno di un nuovo Teatro e l'aveva continuata afferman-do la bellezza e il culto del Mistero, parve, da questi duetipi salienti di sua attività, trarre in armonica deduzionela costruzione di un ultimo e sintetico e più coraggiosoideale di lotta.

E fu il Teatro dell'anima. Su questo Teatro dell'animache sentiamo, sarà la più bella battaglia dell'Arte Nuova,lo Schuré stesso nella lettera che ho già citata ha scrittouna pagina che mi è più che mai caro far noto e diffon-dere in questo momento:

«Il Teatro, che dell'arte è la forma più perfetta e viva,è destinato dalle sue stesse caratteristiche a farsi di que-sta vita novella l'interprete più efficace e il rivelatore piùprofondo.... E qual migliore specchio, atto a riflettere

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ogni luce d'ideale, quale specchio più bello di alta e co-sciente umanità, quale più nobile educatore del popolo,del teatro, trattato dai degni e dai capaci, s'esso torni adivenire ciò che fu e ciò che in ogni tempo dovrebbe es-sere? Poichè il sacerdote si tace, e lo scienziato nega, eil filosofo esita ancora, sia il poeta adunque che ci ap-presti con le sue libere creazioni la visione della divinaPsiche sempre intenta all'opera eterna. A lui ora il com-pito glorioso di dimostrare, alla luce dell'idea, colla for-za del verbo, colle magie della bellezza che l'anima, l'I-deale e Dio non vane parole, ma son vere potenze crea-trici che esistono e regnano sempre nel cuore dell'uomo.

«Egli, il poeta, deve mostrare a noi tutti, evocando lecupe tragedie del passato, le lotte ardenti del presente, iradiosi sogni dell'avvenire, che ogni trionfo di volontà èaccessibile ai nostri sforzi, e come l'umanità, per lungama sicura strada, sia avviata alla sua liberazione, al re-gno dell'armonia, retto dagli scettri dominatori della giu-stizia, dell'amore e della saggezza.

«Sta a lui sempre di farci presentir la realtà del mon-do invisibile e divino posto sopra questo nostro visibilee imperfetto, la presenza di un sole di gloria e di bellez-za onde l'eterna salvatrice, l'Arte, scompone e fa eviden-ti i raggi, passati attraverso il prisma dell'anima».

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E al compito, arduo quanto alto, egli si è accinto nonsolo con la penna del critico, ma pur con quella, di menagevole uso, del drammaturgo.

I tempi sono maturi all'evento?Nel momento in cui anche l'arte di altri sognatori

sembra lasciar le vie difficili del proposito per avviarsisu quelle men contrastate del plauso comune; in questomomento – in cui tutti chiedono, e nessuno sa o puòdare, e troppi indugiano nel banale e di esso si compiac-ciono – come non vedere povero lo spazio alle ali di unasperanza qualsiasi? Ma forse «a notte più scura, alba piùvicina», ed Edoardo Schuré è abituato a queste battaglieantelucane e buoni auspicî a questa sua decisiva attualenoi possiamo omai trarre – oltrechè dalle sue vittoriepassate – bene pure da troppi segni evidenti....

Come il nuovo idealismo, per cui anch'io, da anni,combatto, in Italia, giunga al contatto del gran pubblico,forse più maturo ad esso e di esso impaziente più di quelche non si possa supporre, si vedrà che è ben qualchecosa di più e di meglio di quel semplice entusiasmo nu-baceo e vanescente che taluno ama credere, pur tuttora...E, poichè è omai tempo che alla luce mattutina succeda,più forte e men dubbia, quella meridiana, così io auguro,con fervore di combattente, salutandolo a un tempo,prossimo il trionfo del pensiero idealista.

FINE.

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INDICE.

DEDICA

PREFAZIONE

IL PRIMO UOMO DELLA NUOVA ITALIA:Il Giorno poema nazionaleRipano EupilinoIl Parini e gli Enciclopedisti

IL PRIMO UOMO DELLA NUOVA EUROPA:L'indifferenza del GoetheIl Goethe spiritualista

IL LEOPARDI E LA NOSTRA CIVILTÀ INDUSTRIALE:G. Leopardi e il progressoRecanati e il suo poetaIl ZibaldoneMonaldo Leopardi e i diritti della guerra

FRA LE ANIME D'ECCEZIONE:Edgardo Poë poetaGli ultimi giorni di P. B. ShelleyIl pensiero di E. Ibsen nel Borkman

PROFILI D'IDEALISTI:Edgardo QuinetGiovanni De Castro

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Malvida di MeysenbugAlfredo LoisyPer Herbert SpencerEdoardo Schuré

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