Due ondate di globalizzazione: somiglianze superficiali ... La Rivoluzione industriale L’ondata di...

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1 Due ondate di globalizzazione: somiglianze superficiali, differenze fondamentali * di Richard E. Baldwin e Philippe Martin 1. Introduzione La globalizzazione sta creando un “nuovo mondo coraggioso”, secondo il titolo del best-seller di William Greider “One World, Ready or Not”. Pagina dopo pagina questo libro rivela le novità sorprendenti della nuova era, ma il primo capitolo esemplifica al meglio il tono e la prospettiva del volume: «La logica del commercio e del capitale ha sopraffatto l’inerzia della politica e ha iniziato un’epoca di grandi trasformazioni sociali; infatti, commercio e finanza internazionale hanno superato ogni ordine e consapevolezza esistente di popoli e società». Questa è chiaramente una esagerazione. Il mondo ha visto due ondate di globalizzazione negli ultimi 150 anni e, per alcuni aspetti, il mondo del 1914 era integrato più strettamente di quanto non sia quello odierno. Nel 1919 Keynes scriveva infatti: «Che straordinaria stagione nel progresso dell’uomo fu quella che terminò bruscamente nell’agosto del 1914! (…) L’abitante di Londra poteva ordinare per telefono, mentre sorseggiava il suo tè del mattino a letto, una quantità di prodotti provenienti dall’intero globo e nello stesso modo poteva investire la sua ricchezza nelle risorse naturali e nelle nuove imprese di ogni angolo del globo (…) poteva inoltre utilizzare mezzi di trasporto rapidi e a buon mercato per recarsi in ogni nazione e clima senza bisogno di passaporto o di altre formalità.» (Keynes, 1919, p.6, citato in Sachs e Warner, 1995). La globalizzazione dunque, a differenza di quanto sostengono alcuni, non appare come un fenomeno completamente nuovo. Effettivamente, molti studi recenti sulla globalizzazione sono tanto poco originali quanto i fatti che esaminano, dato che le loro analisi riecheggiano quelle condotte negli anni * Questo saggio si basa su una traduzione parziale del saggio “Two Waves of Globalisation: Superficial Similarities, Fundamental Differences” e sulla relazione tenuta da R. E. Baldwin alla XXI Conferenza AISRe di Palermo. La redazione del presente testo è stata curata da Mario A. Maggioni.

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Due ondate di globalizzazione: somiglianze superficiali, differenze fondamentali*

di Richard E. Baldwin e Philippe Martin

1. Introduzione

La globalizzazione sta creando un “nuovo mondo coraggioso”, secondo il titolo del best-seller di William Greider “One World, Ready or Not”. Pagina dopo pagina questo libro rivela le novità sorprendenti della nuova era, ma il primo capitolo esemplifica al meglio il tono e la prospettiva del volume: «La logica del commercio e del capitale ha sopraffatto l’inerzia della politica e ha iniziato un’epoca di grandi trasformazioni sociali; infatti, commercio e finanza internazionale hanno superato ogni ordine e consapevolezza esistente di popoli e società».

Questa è chiaramente una esagerazione. Il mondo ha visto due ondate di globalizzazione negli ultimi 150 anni e, per alcuni aspetti, il mondo del 1914 era integrato più strettamente di quanto non sia quello odierno. Nel 1919 Keynes scriveva infatti:

«Che straordinaria stagione nel progresso dell’uomo fu quella che terminò bruscamente nell’agosto del 1914! (…) L’abitante di Londra poteva ordinare per telefono, mentre sorseggiava il suo tè del mattino a letto, una quantità di prodotti provenienti dall’intero globo e nello stesso modo poteva investire la sua ricchezza nelle risorse naturali e nelle nuove imprese di ogni angolo del globo (…) poteva inoltre utilizzare mezzi di trasporto rapidi e a buon mercato per recarsi in ogni nazione e clima senza bisogno di passaporto o di altre formalità.» (Keynes, 1919, p.6, citato in Sachs e Warner, 1995).

La globalizzazione dunque, a differenza di quanto sostengono alcuni, non appare come un fenomeno completamente nuovo. Effettivamente, molti studi recenti sulla globalizzazione sono tanto poco originali quanto i fatti che esaminano, dato che le loro analisi riecheggiano quelle condotte negli anni

* Questo saggio si basa su una traduzione parziale del saggio “Two Waves of Globalisation:

Superficial Similarities, Fundamental Differences” e sulla relazione tenuta da R. E. Baldwin alla XXI Conferenza AISRe di Palermo. La redazione del presente testo è stata curata da Mario A. Maggioni.

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Sessanta sotto il titolo di “analisi del processo di interdipendenza e internazionalizzazione”1.

Tuttavia, l’affermazione che non ci sia nulla di nuovo è altrettanto sbagliata quanto quella che sostiene che il processo di globalizzazione sia senza precedenti. La prima ondata di globalizzazione (dal 1870 al 1914) e la seconda (dal 1960 fino ad ora) sono infatti superficialmente simili ma tuttavia differiscono per alcuni aspetti molto importanti. Questo lavoro raccoglie alcune evidenze empiriche sulle due ondate concentrandosi in particolare su due2 aspetti chiave del processo di globalizzazione:

1) industrializzazione e convergenza/divergenza del reddito; 2) commercio internazionale, investimenti, migrazioni e prezzo dei

fattori. La conclusione principale che deriviamo da questo esercizio è che le due

ondate di globalizzazione, pur avendo molte somiglianze superficiali, sono fondamentalmente due fenomeni diversi. Le somiglianze principali riguardano l’aumento del rapporto commercio internazionale/PIL e flussi di capitale/PIL. Questi due rapporti registrano oggi un livello simile a quello che avevano già raggiunto alla fine del XIX secolo. Inoltre, entrambe le ondate di globalizzazione furono generate da forti riduzioni delle barriere “sia tecnologiche che politiche” alle transazioni internazionali3. Ad un livello molto alto di astrazione, e facendo un po’ di violenza sulla realtà, noi crediamo che una differenza fondamentale consista nell’impatto che queste riduzioni hanno avuto sul commercio di beni rispetto al commercio di idee. Mentre entrambe le ondate videro riduzioni di entrambi i costi, l’ondata più recente è determinata pesantemente dalla drammatica riduzione nei costi di comunicazione, talvolta definita anche come “morte della distanza”. Una seconda differenza fondamentale riguarda le condizioni iniziali. All’inizio della prima ondata il mondo era equamente ed omogeneamente povero ed agrario. All’inizio della seconda ondata, il mondo era diviso radicalmente in due gruppi: nazioni industriali ricche e paesi poveri produttori di materie prime.

1 Si veda Cooper (1968) e Lindbeck (1973, 1975 e 1978); un tema importante di questa

letteratura è la gestione dei cambi fissi in presenza di una crescita del commercio internazionale e della mobilità dei capitali. Da notare che Cooper negli anni Sessanta così come Greider negli anni Novanta sostennero che l’internazionalizzazione superò le capacità di tenuta del sistema. Inoltre Cooper (1968, p. 273), così come Rodrick (1996, p. 63 e 1997, p. 78) e Goldsmith (1994), raccomanda il protezionismo come estremo rimedio, in alcuni casi.

2 Per ragioni di spazio e di coerenza tematica, la sezione dedicata all’analisi dei flussi e dei mercati dei capitali, presente nel paper originale, è stata omessa.

3 Le ondate furono separate da periodi caratterizzati dalla ricostruzione di barriere protezionistiche al commercio internazionale e dall’imposizione di vincoli e controlli sui movimenti di capitale e sull’ emigrazione.

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2. Industrializzazione e diseguaglianze di reddito

2.1 Industrializzazione e de-industrializzazione 2.1.1 La Rivoluzione industriale

L’ondata di globalizzazione della fine del XX secolo ebbe inizio quando la

divergenza di reddito Nord-Sud era molto grande e de-industrializzò il Nord mentre industrializzò il Sud (o almeno una buona parte di esso). L’ondata di globalizzazione della fine del XIX secolo industrializzò il Nord, de-industrializzò il Sud, e produsse un’enorme divergenza di reddito tra gruppi di nazioni che inizialmente non erano molto dissimili.

Questa sezione documenta questi fatti, analizzando dapprima la Rivoluzione industriale (che guidò la prima ondata della globalizzazione), studiando poi la de-industrializzazione del Terzo Mondo e soffermandosi infine sul problema della convergenza/divergenza del reddito. Il paragrafo si conclude con un accenno ad una struttura analitica che suggerisce una possibile spiegazione di questi curiosi contrasti empirici.

La conseguenza della Rivoluzione industriale fu rivoluzionaria ma il processo fu evolutivo. Quella che cominciò in Gran Bretagna fu una sequenza di cento anni di cambiamenti incrementali di tipo organizzativo, sociale ed istituzionale. Questi cambiamenti gradualmente si amalgamarono in una grandiosa trasformazione dell’intera economia britannica. La data iniziale di questo processo può essere fissata nel decennio intorno al 1720 ma raggiunse la massima velocità mentre il XVIII secolo stava per finire ed il XIX secolo stava per iniziare. Fissare un anno preciso per la Rivoluzione industriale è fuorviante; l’accelerazione della crescita fu il frutto di molte piccole trasformazioni, non il risultato di una politica economica decisa o di un singolo cambiamento tecnologico. Ciò nonostante il 1776 sembra essere una buona data di demarcazione dato che Crafts (1995) trova un cambiamento strutturale nella crescita della produzione industriale britannica in quell’anno che, convenientemente, coincide anche con la data di pubblicazione de “La Ricchezza delle Nazioni” di Adam Smith.

I settori tessile e siderurgico ebbero ruoli decisivi nella Rivoluzione industriale, con invenzioni fondamentali nel tessile che vennero introdotte nel periodo 1730-1780. Gli anni successivi al 1780 videro anche avanzamenti notevoli nella tecnologia della macchina a vapore. Avanzamenti importanti nella siderurgia divennero molto estesi nel periodo 1760-1780. Tra il 1770 ed il 1840, vi furono anche progressi significativi nell’industria britannica delle macchine utensili, che migliorarono di molto la precisione e abbassarono il

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costo di trasformazione del ferro in beni strumentali come macchine a vapore, binari e telai.

Il miglioramento del sistema di trasporti fu importante per la Rivoluzione industriale. Miglioramenti memorabili nelle reti di trasporto fluviale e stradale apparvero negli ultimi decenni del XVIII secolo. Questi espansero il mercato interno per i beni manufatti ed abbassarono il costo di reperimento delle materie prime. Per esempio, il viaggio Londra-Birmingham, che durava due giorni nel 1740, sarebbe durato “solamente” diciannove ore negli anni successivi al 1780.

Gli avanzamenti chiave nei mezzi di trasporto generarono la prima ondata di globalizzazione intorno al 1820. Le innovazioni più importanti furono l’espansione rapida delle reti ferroviarie nel periodo 1820-1860, e l’uso esteso di navi a vapore sia sulla rete fluviale interna che nei percorsi oceanici nel periodo 1840-1880, secondo quanto riportato da Hugill (1993). Le ferrovie rinnovarono radicalmente il trasporto via terra esponendo al commercio mondiale numerose aree geografiche, prima isolate (le prime forme di trasporto via terra erano così costose da essere economiche soltanto per beni con un rapporto valore/peso molto elevato). Allo stesso modo, l’uso del piroscafo rinnovò radicalmente il viaggio trans-oceanico. Sul finire degli anni Trenta del XIX secolo, una nave a vela di prima classe impiegava 48 giorni per giungere a New York da Liverpool e 36 giorni per ritornarvi. Dieci anni più tardi, i piroscafi avevano ridotto il viaggio normale a 14 giorni in entrambe le direzioni. Gli anni Settanta del XIX secolo videro ulteriori miglioramenti della navigazione con l’intro-duzione di scafi in acciaio che erano più leggeri, più resistenti e richiedevano meno combustibile.

Infine, l’intero processo fu supportato dal rapido sviluppo del settore dell’intermediazione finanziaria (concentrata a Londra) durante l’ultima metà del XVIII secolo.

Questi cambiamenti trasformarono radicalmente l’economia britannica. La quota della forza lavoro occupata nel manifatturiero crebbe dal 19% (1700) al 24% (1760) e successivamente al 30% (1800) e al 47% (1840), per raggiungere un massimo del 49% nel 1870 (Crafts, 1989, p. 417). L’Inghilterra si trasformò da una società prevalentemente rurale ad una urbana, con circa due terzi della popolazione residente in aree urbane. Anche se la crescita della produttività totale dei fattori non fu straordinaria, secondo Nick Crafts, la produttività del lavoro crebbe rapidamente in alcuni settori. Dal 1830 al 1860, la produzione oraria crebbe del 270% nella filature e del 708% nella tessitura del cotone (Crafts, 1989, p. 426). Durante lo stesso periodo, la Gran Bretagna divenne un paese grande importatore di beni alimentari e grande esportatore di beni industriali.

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Gli effetti della Rivoluzione industriale in termini di tassi di crescita sembrano modesti rispetto ai tassi a due cifre che possono essere osservati oggi in paesi che attraversano un periodo di rapida industrializzazione. Il tasso di crescita del reddito pro-capite crebbe dalla cifra vicina allo zero della prima metà del XVIII secolo a qualcosa meno del 2-3% all’anno negli anni centrali del XIX secolo. Nondimeno queste basse percentuali erano rivoluzionarie per l’epoca.

La crescita continua aprì la porta a miglioramenti stabili nelle condizioni di benessere materiali dell’umanità. In misura ancor più rilevante, l’industrializza-zione alterò il carattere fondamentale dei rapporti internazionali. Dall’inizio della storia fino alla Rivoluzione industriale, il reddito fu derivato principalmente dalla terra. La ricchezza basata sulla terra è un gioco a somma zero. Perciò, violenti conflitti territoriali erano inevitabili. La ricchezza basata sull’industria, è invece un gioco a somma positiva, nonostante il fatto che le nozioni mercantiliste e marxiste sulla concorrenza di mercato abbiano offuscato questo messaggio per oltre un secolo. Furono necessarie due guerre mondiali per insegnare la lezione ma il concetto che “più territorio uguale più potere” è stato fermamente demandato alla storia intellettuale, almeno nelle nazioni industrializzate.

2.1.2 La diffusione e la penetrazione dell’industrializzazione

La Rivoluzione francese (1789) e le Guerre Napoleoniche (1805-1815)

dominarono gli eventi sul continente europeo durante il ventennio a cavallo della fine del XVIII secolo. Questi due eventi rimandarono anche l’espansione dell’industrializzazione a causa della «distruzione di capitale e perdite di manodopera; dell’instabilità politica e di una diffusa ansia sociale; della decimazione dei gruppi imprenditoriali più ricchi, della presenza di ogni tipo di interruzione al commercio; di inflazioni violente e di crisi valutarie» (trad. da Landes 1969, p. 142).

Il Belgio fu il primo a seguire la Gran Bretagna nella nuova era, sviluppandosi rapidamente tra il 1820 ed il 1870. Francia, Svizzera, Prussia e Stati Uniti seguirono negli anni 1830 e 1840. L’industrializzazione si estese fino alla Russia, all’Impero Austro-ungarico, all’Italia, alla Svezia, al Canada e a gran parte dell’Europa prima della fine del 1800. Rostow (1960), coraggiosamente, e controversamente, osa fissare alcune date per i “decolli” dei vari paesi (Tab. 1).

Verso la seconda metà del XIX secolo, nuove industrie e nuovi metodi di produzione cominciarono ad emergere. In questo modo si originò quella che fu poi definita la seconda rivoluzione industriale. In settori come il siderurgico, il

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chimico, le macchine elettriche ed i mezzi di trasporto, la Germania e gli Stati Uniti scavalcarono il Regno Unito.

Tab. 1 – Periodi dei “decolli” secondo Rostow

Il costo del trasporto via mare e via terra continuò a precipitare con ulteriori

avanzamenti nelle costruzioni navali e nelle ferrovie. Entro il 1860 la maggior parte delle grandi città era connessa dalla rete telegrafica. Il primo cavo telegrafico transatlantico (1866) ed il susseguente cablaggio di tutti gli oceani rinnovò radicalmente le comunicazioni, abbassando il tempo della comunicazione intercontinentale da alcune settimane a pochi minuti. Comunicazioni più veloci e più affidabili spronarono commercio ed investimenti. Tali mutamenti furono anche fondamentali per lo sviluppo delle imprese multinazionali (Dunning 1983). 2.1.3 La de-industrializazione del Terzo Mondo nel XIX secolo

È spesso dimenticato che le ricchezze dell’Oriente comprendevano molto più delle spezie. «Prima del XIX secolo, e forse non molto prima, alcuni paesi attualmente sottosviluppati, come la Cina ed alcuni parti dell’India, erano ritenuti dagli europei estremamente più sviluppati dell’Europa» (trad. da Kuznets 1965, p. 20). Braudel (1984) e Chaudhuri (1966) mostrano che,

Periodi dei decolli

Regno Unito 1783-1802 Francia 1830-60 Belgio 1833-60 Stati Uniti 1843-60 Germania 1850-73 Svezia 1868-90 Giappone 1878-1900 Russia 1890-1914 Canada 1896-1914 Fonte: Rostow (1960)

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durante il XVIII secolo, l’industria tessile cotoniera indiana era leader globale in termini di qualità, produzione ed esportazioni. L’India e la Cina del XVIII secolo producevano anche la seta e la porcellana di qualità più elevata del mondo. Prima del XVIII secolo, questi beni manufatti venivano esportati in Europa in cambio di argento perché i prodotti europei non erano considerati all’altezza del mercato orientale (Barraclough, 1978). Appare evidente, dunque, che le civiltà che hanno inventato la polvere da sparo, la carta e gli strumenti di navigazione oceanici non erano, sotto nessun punto di vista, società primitive che aspettavano l’Europa per potersi sviluppare.

Alla fine del XIX secolo, invece, più del 70% del consumo tessile indiano viene importato (principalmente dalla Gran Bretagna) mentre l’India era diventata, invece, un paese esportatore netto di cotone (Braudel, 1984). Una storia simile, anche se meno drammatica, può essere raccontata per il settore della cantieristica navale e della siderurgia indiana. Altri casi simili possono essere ritrovati in tutta l’America Latina ed il Medio Oriente (Batou, 1990).

Alcuni autori, come Bairoch (1993), Braudel (1984) e Bairoch e Kozul-Wright (1996) mostrano che l’industrializzazione settentrionale causò la de-industrializzazione meridionale e questo amplificò la divergenza di reddito. «Sembrano esserci pochi dubbi circa il fatto che la deindustrializzazione del Sud è stata il risultato di un afflusso massiccio di importazioni manifatturiere europee. Questo fu particolarmente vero nei settore tessile e abbigliamento, dove il libero scambio internazionale espose gli artigiani ed i piccoli produttori locali al forte vento competitivo e distruttivo dei produttori settentrionali che possedevano una più elevata intensità di capitale e produttività» (trad. da Kozul-Wright e Bairoch, 1996, p. 16).

La tab. 2 mostra l’evoluzione dei livelli di industrializzazione e deindu-strializzazione pro-capite. Si noti che tutte le nazioni ed aree sovranazionali hanno livelli iniziali molto simili. Nel 1750, tutte le nazioni europee possedevano un livello di industrializzazione compreso tra 6 ed 10 (fatto pari a 100 il livello del Regno Unito nel 1900); tutte le nazioni non-europee registravano un livello di industrializzazione compreso tra 7 e 8, fatta eccezione per gli Stati Uniti, che registravano soltanto 4. Cina e India, le principali nazioni del Terzo Mondo, seguono percorsi molto simili con una riduzione da un livello di 8 ad uno di circa 3. In tab. 2 è anche facile seguire la spettacolare performance del Regno Unito e la successiva “rincorsa” degli Stati Uniti. L’industrializzazione del Giappone segue invece l’andamento della media mondiale.

Chiaramente, l’uguaglianza iniziale del livello di industrializzazione pro-capite unito alla ridotta popolazione dell’Europa significa che l’“industria” del Terzo Mondo dominò la produzione mondiale nel XVIII secolo (Bairoch, 1982, Tavola 10). Nel 1750 il Terzo Mondo deteneva il 73% della produzione

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manifatturiera mondiale e continuò a detenere una percentuale superiore al 50% fino al 1830. Entro il 1913, tuttavia, la quota del Terzo Mondo era crollata ad un mero 7,5%.

Tab. 2 – Livelli di industrializzazione pro-capite (1759 – 1813) (valore del Regno Unito nel 1900 = 100)

Questa deindustrializzazione dell’era coloniale aiuta a spiegare perché molti paesi del Terzo Mondo sono stati molto diffidenti riguardo al libero commercio internazionale fino ad un periodo recente.

1750 1800 1830 1860 1880 1900 1913 Paesi industrializzati 8 8 11 16 24 35 55 Europa 8 8 11 17 23 33 45 Europa (senza il Regno Unito)

7 8 9 14 21 36 57

Austria-Ungheria 7 7 8 11 15 23 32 Belgio 9 10 14 28 43 56 88 Francia 9 9 12 20 28 39 59 Germania 8 8 9 15 25 52 85 Italia 8 8 8 10 12 17 26 Russia 6 6 7 8 10 15 20 Spagna 7 7 8 11 14 19 22 Svezia 7 8 9 15 24 41 67 Svizzera 7 10 16 26 39 67 87 Regno Unito 10 16 25 64 87 100 115 Paesi extraeuropei 7 7 11 17 33 63 116 Canada 5 6 7 10 24 46 Stati Uniti 4 9 14 21 38 69 126 Giappone 7 7 8 7 9 12 20 Paesi del Terzo Mondo 7 6 6 4 3 2 2 Cina 8 6 6 4 4 3 3 India-Pakistan 7 6 6 3 2 1 2 Brasile 4 4 5 7 Messico 5 4 5 7 Media mondiale 7 6 7 7 9 14 21 Fonte: Table 9, Bairoch (1982).

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2.1.4 L’industrializzazione/deindustrializzazione del XX secolo

Mentre la crescita del reddito dei precursori nella prima ondata di globalizzazione fu chiaramente basata sull’industrializzazione, l’opposto sembra invece succedere per la seconda ondata. Effettivamente, se si esclude una manciata di nazioni di recente industrializzazione (NICs), la convergenza fra i paesi ad alto reddito è stata accompagnata da una marcata de-industrializzazione. La tab. 3 presenta, su questo tema, alcuni dati. Come si può notare, la quota di forza lavoro occupata nell’industria si è ridotta per la maggior parte delle nazioni OCSE tra il 1950 ed il 1990. Infatti, il tasso annuo di de-industrializzazione si è accresciuto bruscamente mentre la globalizzazione è aumentata negli anni Ottanta.

Tab. 3 – Quota di occupazione nel settore industriale (Nazioni OCSE, 1950 -1990

2.2 Divergenza del reddito mondiale nella prima e nella seconda ondata

% di forza lavoro 1950 1980 1990 Australia 36 32 26 Stati Uniti 36 31 28 Canada 33 33 25 Austria 35 41 37 Belgio 47 35 28 Danimarca 33 31 28 Finlandia 28 35 31 Francia 35 35 29 Germania 43 45 38 Italia 29 38 32 Olanda 40 31 26 Norvegia 33 29 25 Svezia 41 32 n.d. Svizzera 46 39 35 Regno Unito 47 38 29 Giappone 23 35 34

Fonte: Maddison (1989), Tabella C-10; World Bank (1997).

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2.2.1 La globalizzazione del XX secolo Nel contesto dell’intera storia dell’umanità, l’attuale vasta disparità di

reddito tra Paesi ricchi e poveri è un fenomeno abbastanza recente. Fino alla Rivoluzione industriale, il mondo intero era povero e la logica di Malthus lo tenne in quello stato. Le globalizzazioni dei secoli XIX e XX produssero divergenza di reddito a livello del mondo intero così come convergenza fra un piccolo gruppo di nazioni ricche. In altre parole, l’andamento “twin peaks” della convergenza che molto è stato discusso negli anni recenti (si veda Quah, 1996), si verificò anche durante la prima ondata di globalizzazione.

La letteratura sulla convergenza di club e sugli andamenti “twin peaks”, è talmente sviluppata e nota che noi possiamo solo riprendere alcuni fatti di base ed offrire alcune referenze bibliografiche. Secondo Jones (1997) e Pritchett (1997), il livello del reddito delle nazioni capitaliste ed avanzate converge sostanzialmente verso quello degli Stati Uniti mentre il reddito degli Stati Uniti avanza ad un tasso annuo di circa il 2%. Inoltre, il reddito di alcuni paesi di nuova industrializzazione (NIC) è cresciuto ad un ritmo veramente straordinario, permettendo loro di raggiungere le nazioni più ricche del mondo. Al contrario, il reddito di molte nazioni africane, latino-americane e asiatiche - tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta - è cresciuto ad un tasso molto più basso di quello degli Stati Uniti. Fig. 1 – Distribuzione dei Paesi secondo il PIL per occupato

La fig. 1 illustra questa storia di convergenza e divergenza. La distribuzione

approssimativamente campanulare del 1960 diventa una distribuzione bimodale (“twin peaks”), con le nazioni ricche che diventano più ricche (relativamente

Densità di paesi

1993

1960

PIL per occupato in rapporto agli Stati Uniti (Scala logaritmica)0.01 0.04 0.16 0.64 1

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agli Stati Uniti) e le nazioni povere che diventano più povere (sempre rela-tivamente agli Stati Uniti). Jones (1997) mostra che le cose sembrano leggermente più rosee quando i redditi nazionali vengono ponderati per la popolazione (principalmente perché India e Cina sono cresciute più velocemente degli Stati Uniti).

2.2.2 La globalizzazione del XIX secolo

L’insufficienza di dati rende più difficile documentare i cambiamenti nella distribuzione del reddito mondiale durante la prima ondata di globalizzazione. Ciononostante, molti autori - Braudel, Kuznets, Baumol, Pritchett e Maddison fra gli altri - sostengono che una grande divergenza di reddito Nord-Sud è apparsa con la prima Rivoluzione industriale.

La tab. 4, sulla base dei dati sul reddito pro-capite, presenta alcune informazioni sull’allargamento della distribuzione del reddito in Europa durante la prima ondata di globalizzazione. Le prime due colonne mostrano, per ogni nazione, il reddito pro-capite a confronto con quello della Gran Bretagna, rispettivamente nel 1860 e 1910. Poco meno della metà dei paesi ridusse le distanze con il Regno Unito. Per alcune nazioni - Canada, Germania, Belgio, Danimarca, Francia, Svezia, Svizzera, e Argentina - questa ondata marcò una fase di rincorsa veramente straordinaria e addirittura gli Stati Uniti superarono la propria precedente dominatrice coloniale. Ma undici delle venti nazioni europee, nel campione di Bairoch, e tutte le nazioni asiatiche, nel campione di Maddison, persero terreno. Per alcuni paesi, come il Portogallo, la caduta fu drammatica. Le ultime due colonne mostrano calcoli simili effettuati utilizzando i dati di Maddison (1995).

Se la tab. 4 venisse rappresentata graficamente si potrebbe notare che la distribuzione del reddito nel 1910 è qualcosa di simile ad una espansione che preserva la media della distribuzione del 1850. Lo spostamento verso sinistra dei paesi con redditi più bassi è particolarmente marcato. I dati di Maddison producono conclusioni simili4. In breve, le due ondate di globalizzazione diedero luogo, nello stesso momento, ad una divergenza di reddito complessiva con una convergenza tra paesi più ricchi.

Le forze della storia aiutano a plasmare questi sviluppi dei redditi pro-capite, e noi ora accenneremo ad una semplice struttura analitica che permette lo studio di queste forze. Tuttavia, è importante riconoscere che questi cambiamenti furono anche pesantemente influenzati dalle scelte dei policymakers.

4 Il declino relativo della Russia e delle nazioni popolose dell’Asia, insieme con la rincorsa di Stati Uniti, Germania, Benelux e delle nazioni scandinave, assicura un andamento bi-modale.

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Tab. 4 – Convergenza/divergenza del reddito (1850-1910) - numeri indice del PIL pro-capite, Regno Unito = 100

Dati di Bairoch Dati di Maddison

1860 1910 1850 1913 Danimarca 56 78 Canada 54 84 Germania 61 77 Stati Uniti 77 105 Svizzera 72 85 Argentina (b) 56 75 Svezia 52 64 Irlanda (b) 40 54 Belgio 70 80 Germania 62 76 Finlandia 43 47 Finlandia (a) 32 41 Francia 66 69 Svezia 55 62 Olanda 71 72 Belgio 77 82 Regno Unito 100 100 Italia (a) 46 50 Norvegia 57 56 Danimarca 72 75 Romania 37 35 Messico 28 29 Russia 35 31 Regno Unito 100 100 Italia 49 44 Norvegia 46 45 Austro-Ungheria 51 46 Austria 70 69 Bulgaria 37 31 Olanda 80 78 Grecia 41 35 Francia 71 69 Spagna 49 41 Russia (a) 32 30 Serbia 39 29 Giappone (a) 30 27 Portogallo 50 33 Cecoslovacchia 45 42 Spagna 49 45 Pakistan (a) 22 14 Svizzera 92 84 Cina (a) 22 14 Indonesia 28 18 India 23 13 Bangladesh (a) 22 12 Ungheria (b) 54 42 Brasile 30 17 Thailandia (b) 30 17 Portogallo 47 27 Australia 130 109

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Nota: (a) dato del 1820; (b) dato del 1870 Fonte: Maddison (1995), Tabella C16 e D1, Bairoch (1989), Tabelle 1 e 4.

2.2.3 Una formulazione analitica

Le evidenze empiriche sulla convergenza/divergenza e quelle sull’industria-lizzazione/deindustrializzazione sono di interpretazione difficile5. Riassumendo, si è visto in precedenza che la prima ondata di globalizzazione industrializzò il Nord e de-industrializzò il Sud. Questo, a sua volta, generò una vasta divergenza di reddito tra gruppi di paesi che, inizialmente, non erano molto distanti. La seconda ondata cominciò da una differenza di reddito molto grande e de-industrializzò il Nord mentre industrializzò il Sud (o almeno una buona parte di esso). Perché mai dunque la globalizzazione dovrebbe prima aumentare e poi ridurre le differenze di reddito? E perché mai questa convergenza “ad U” dovrebbe essere associata con le de-industrializzazione delle nazioni ricche?

Sembrerebbe che le intuizioni della teoria della crescita endogena di Romer e quelle della nuova geografia economica di Krugman possano fornire un rigoroso, anche se estremamente astratto, contesto per organizzare le nostre riflessioni circa le spiegazioni economiche di questi eventi6. La struttura è quella di un modello di “stadi di crescita” con quattro fasi e due regioni (Nord e Sud) che sono inizialmente identiche.

Nel primo stadio, quello della pre-globalizzazione, i costi di trasporto sono alti. C’è poco commercio internazionale e l’industria è primitiva, poco diffusa e stagnante. A causa degli alti costi di trasporto, l’industria è dispersa tra il Nord e il Sud. Questa stessa dispersione geografica contribuisce alla stagnazione industriale nel modo seguente. La dispersione impedisce le interazioni fra imprenditori. Ciò ostacola la diffusione dell’innovazione che potrebbe sorgere dal cambiamento tecnologico generato in un luogo o in un altro. La riduzione degli spillover ostacola l’innovazione e il progresso tecnologico ed, in questo modo, la crescita dell’economia mondiale viene ritardata.

5 I primi contributi accademici su questo argomento, come quello di Barro e Sala-i-Martin

(1995) suggerivano che la convergenza del reddito fosse dimostrazione delle validità dei modelli neo-classici di crescita e la divergenza dei modelli di crescita endogena. La nitidezza di questa predizione è diventata molto più sfumata più recentemente con esempi di modelli di nuova teoria della crescita che producono convergenza (Leung e Quah, 1996) e di modelli neo-classici che producono divergenza (Baldwin, 1998). Questa letteratura, tuttavia, è di poca utilità nello spiegare l’inversione della convergenza che si osserva nei dati storici.

6 Si veda Baldwin, Martin e Ottaviano (1997) per una rigorosa presentazione analitica.

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Nel secondo stadio, quando i costi di trasporto sono sufficientemente diminuiti, le forze agglomerative (del tipo accennato in Krugman, 1991) rendono la distribuzione equanime dell’industria un equilibrio instabile. In questo mondo estremamente stilizzato, le regioni sono inizialmente identiche, così sono le circostanze a determinare la regione che si sviluppa. Qualsiasi regione (ad esempio il Nord) che abbia un vantaggio pur piccolo, viene a trovarsi in un circolo virtuoso. Il reddito più elevato produce un più vasto mercato locale nel Nord e questo a sua volta attira relativamente più investimento al Nord. Chiaramente, i tassi di investimento più elevati conducono ad una crescente divergenza nelle dimensioni del mercato ed il ciclo ricomincia. La spirale è anche favorita dalla natura localizzata degli spillovers tecnologici. In altre parole, l’industria e gli innovatori settentrionali beneficiano proporzionalmente più di quelli del Sud della crescente industrializzazione del Nord. Mentre il Nord sperimenta questa stilizzata Rivoluzione industriale, l’industria meridionale scompare rapidamente di fronte alla concorrenza delle esportazioni settentrionali. In un processo che si autosostiene, il Nord si specializza nei beni manufatti ed il Sud in beni primari.

In breve, la prima ondata di globalizzazione, che è provocata da costi più bassi di trasporto dei beni, genera un processo di netta specializzazione che nello stesso tempo promuove ed è promosso dal crescente commercio internazionale. La divergenza di reddito Nord-Sud, l’industrializzazione settentrionale e la de-industrializzazione del Sud appaiono tutti come risultati spontanei del modello.

Durante questa prima ondata di globalizzazione (secondo stadio del modello), il costo del commercio internazionale di beni cala più velocemente del costo del commercio di idee e di innovazioni. Dal 1910 a tutti gli anni ’60 la struttura Nord-ricco / Sud-povero rimase immutata. Durante questo stadio, che riflette alcuni importanti elementi della seconda ondata di globalizzazione, il costo di trasporto di beni raggiunse lentamente il limite naturale più basso possibile, mentre il costo di scambio delle idee continuò a crollare a causa del calo nel costo delle telecomunicazioni. Questo fatto stilizzato, che chiaramente è mostrato nella sezione 3.2.2, introduce il quarto stadio in cui si assistette al decollo di una serie di nazioni in via di sviluppo.

Quando il costo di “trasporto delle idee” si riduce sufficientemente, la configurazione alla “centro-periferia” diviene instabile, questa volta a causa delle forze centrifughe alla Krugman. Innovatori e industriali meridionali che ora hanno accesso facile alla tecnologia del Nord e costo del lavoro ridotto, cominciano a ridurre la divergenza del reddito. Quando gli investimenti industriali crescono nel Sud, cresce anche il reddito, stimolando l’investimento locale, l’industrializzazione meridionale e l’ulteriore crescita del reddito. Ora sono i paesi meridionali a porsi sulla spirale virtuosa crescita-

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industrializzazione-crescita. L’industria settentrionale soffre a causa della nuova concorrenza. Il Nord sperimenta la de-industrializzazione e tende a specializzarsi maggiormente nei servizi. In quest’ultimo stadio, le due regioni convergono verso livelli di reddito e di industrializzazione simili.

A prima vista, questa struttura analitica sembra sostenere le tesi strutturaliste del “commercio internazionale come creatore di diseguaglianze”. In questo mondo astratto, la grande divergenza tra paesi ricchi e poveri è invece un’implicazione necessaria della Rivoluzione industriale dell’Europa e l’espansione del commercio internazionale è la causa di entrambe le dinamiche. Il modello si differenzia dalle posizioni strutturaliste su un punto chiave. Mentre la globalizzazione genera dapprima la divergenza massiccia di redditi reali, esso diviene poi la forza trainante dell’industrializzazione e dello sviluppo del Sud, generando la convergenza del reddito.

3. Commercio internazionale, investimenti esteri, migrazione e prezzi dei fattori

3.1 Premessa Fino alle recenti crisi finanziarie asiatiche, la crescita rapida del commercio

internazionale e degli investimenti esteri era il sintomo di globalizzazione più citato e temuto. In molti ambienti (specialmente negli Stati Uniti) vi è ancora la convinzione che il livello attuale di apertura internazionale sia senza precedenti e che questa apertura conduca i policy-makers in acque sconosciute. È facile capire questo atteggiamento: il commercio estero degli Stati Uniti incideva meno del 5% del PIL nel 1960 ed ora tale livello è più che raddoppiato. La crescita del rapporto commercio/PIL per la media OCSE è di circa il 50%, ma anche questo dato è molto rilevante.

Per gli esperti, la convinzione popolare che questa ondata di globalizzazione sia senza precedenti ed abbia cambiato completamente la scena internazionale è del tutto sbagliata, o quantomeno esagerata. Come sostiene Krugman (1995, p.327) «l’economia americana odierna non è, e non potrà mai essere, dipendente dalle esportazioni come lo era quella della Gran Bretagna durante il regno della Regina Victoria». La citazione storica di Krugman è corretta ma non dice tutto. In termini di flussi commerciali, la prima e la seconda ondata di globalizzazione sono superficialmente simili ma fondamentalmente diverse.

Questa sezione confronta le due ondate in termini di commercio internazionale, investimenti diretti all’estero, migrazioni e movimenti dei prezzi dei fattori di produzione.

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3.2 Commercio internazionale

3.2.1 Evoluzione Il commercio internazionale su larga scala nacque nel XIX secolo. Tra la

sconfitta di Napoleone e la prima guerra mondiale, il commercio europeo era cresciuto di quasi quaranta volte, mentre nei cento anni precedenti era solamente raddoppiato (Bairoch, 1989). Dalla fine del XIX secolo, un complesso ma sbilanciato sistema di commercio internazionale aveva preso forma. Harley lo descrive in questi termini.

«Gli Stati Uniti esportavano in misura considerevole verso l’Europa ed importavano, dalle economie meno sviluppate della periferia, materie prime tropicali, come iuta, zucchero e caffè. Le nazioni europee continentali, considerate come gruppo, equilibravano le importazioni di generi alimentari dei climi temperati e tropicali e di materie prime esportando beni manufatti verso la Gran Bretagna. La Gran Bretagna, a sua volta, ricavava dei surplus vendendo beni manufatti alla periferia, gestendo servizi finanziari e di trasporto navale, e promuovendo vasti investimenti esteri» (Harley, 1996, p.xii).

Il Regno Unito esportava beni manufatti agli Stati Uniti ed all’Europa continentale, ma questi beni erano diversi dai beni industriali che la stessa nazione importava da quelle regioni. In parole povere, secondo Harley (1996), il Regno Unito esportò “vecchi” beni industriali (tessili, abbigliamento, ferro, materiale navale e ferroviario) mentre gli Stati Uniti e i paesi continentali si concentrarono sui “nuovi” beni industriali (chimica, acciaio e meccanica).

Il contrasto con l’odierna struttura del commercio internazionale è straordinario. Le nazioni in via di sviluppo sono molto meno importanti nel sistema di oggi e la composizione merceologica delle esportazioni fra le nazioni sviluppate è molto più simmetrica. In particolare, la maggior parte del commercio internazionale del mondo (circa i due terzi) si genera fra nazioni ricche, che hanno simili dotazioni di fattori. Inoltre, la maggior parte di questo commercio (circa i tre quarti) è commercio bilaterale di beni manufatti. Anche quando si scenda ad un livello più fine di disaggregazione settoriale e ci si concentri su nazioni molto simili, si può notare come il commercio mondiale sia dominato da commercio intra-industriale di prodotti simili.

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Diamo ora un’occhiata da vicino agli sviluppi sopra descritti. Iniziamo l’analisi dai costi di trasporto e dalle barriere commerciali, per poi soffermarci sul rapporto commercio internazionale-PIL, ed esaminare infine la direzione geografica e la composizione settoriale del commercio internazionale.

3.2.2 Barriere commerciali

3.2.2.1. I costi di trasporto nella prima ondata

L’innovazione tecnologica e gli investimenti in infrastrutture abbassarono radicalmente i costi di trasporto alla fine del XIX secolo. Trasporti oceanici più veloci e più convenienti facilitarono il commercio fra città costiere come Londra, Calcutta e New York. Per esempio, Harley (1980) stima che il costo di trasporto di uno staio di grano da New York a Liverpool si dimezzò (da 0,25 dollari) tra il 1870 ed il 1880, e si dimezzò di nuovo tra il 1880 ed il 1914. Ma ciò è solamente un aspetto del problema. Secondo le sue stime, trasportare grano da Chicago a New York nel 1880 costava tanto quanto trasportarlo da New York a Liverpool. Harley mostra anche che i costi di trasporto via terra si dimezzarono nei periodi tra il 1870 e il 1880 e tra il 1880 e il 1914. Siccome il grano era venduto a Chicago per circa un dollaro allo staio in tutto il periodo fra il 1870 e il 1914, la riduzione dei costi di trasporto ebbe un impatto enorme sul commercio mondiale di grano. Storie simili possono essere raccontate per altri prodotti di base come ferro e carbone. Treni e navi, evidentemente, fanno viaggi di andata e ritorno, così i miglioramenti nei trasporti facilitarono la globalizzazione espandendo mercati per i centri urbani industriali e per le località che producevano beni alimentari.

Tutto questo produsse dei cambiamenti quantitativi per le economie atlantiche, ma per nazioni con vasti territori interni - come il Nord America, l’America Latina, e l’Europa Centrale - i miglioramenti nel trasporto costituirono una vera e propria rivoluzione, aprendo nuove frontiere all’insediamento della popolazione. Questo, a sua volta, facilitò la migrazione massiccia di persone e capitale nel tardo XIX secolo7.

La tab. 5, basata su Bairoch (1989), illustra l’impatto radicale di queste innovazioni sui costi di trasporto. Essa mostra anche chiaramente come le riduzioni dei costi di trasporto furono sistematicamente più importanti per il commercio di materie prime e per le commodities.

7 A questo specifico argomento è dedicata la sezione 3.4.

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Tab. 5 – Costi di trasporto per un’ipotetica spedizione di km 1830-1910 (beni diversi, in % del costo di produzione)

1830 1850 1880 1910 Grano 79,0 76,0 41,0 27,5 Ferro (lingotti) 91,5 71,0 33,0 19,0 Prodotti in ferro 27,0 21,0 10,0 6,0 Cotone (in filiali) 11,0 8,5 3,5 2,5 Cotone (tessuti) 9,5 8,0 4,5 2,0 Fonte: Bairoch (1989)

Il primo cavo di telegrafo transatlantico fu posato nel 1866 e già all’inizio del XX secolo, il mondo intero era cablato. Questo fu un cambiamento radicale che ridusse il tempo di comunicazione da mesi a minuti.

3.2.2.2 I costi di trasporto e di comunicazione nella seconda ondata

Nel secondo dopoguerra, i costi di spedizione oceanici continuarono a

declinare notevolmente fino al 1960. Anche i costi del trasporto aereo si ridussero drammaticamente, ma l’andamento si appiattì negli anni Ottanta. Nello stesso periodo i costi di comunicazione continuarono invece a calare, come mostra la fig. 2.

Fig.2 – Costi di trasporto e di comunicazione (1920 –1950)

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Frances Cairncross documenta ulterioriormente il ribasso straordinario nel costo di commercio delle idee nel suo libro “La morte della distanza”. I costi di una telefonata di 3 minuti da New York a Londra calano approssimativamente da 250 dollari nel 1930 ad alcuni penny oggi. Tale riduzione è molto recente: anche nel 1960, questa chiamata sarebbe costata circa 50 dollari. L’espansione molto recente di capacità telefonica è ugualmente impressionante, come mostra la tab. 6. L’ultima colonna nella tabella presenta anche cifre sulla crescita esponenziale della più recente forma di comunicazione e cioè Internet.

Tab. 6 – Capacità telefonica e internet host Transatlantico Transpacifico Internet host 1986 100,0 41,0 5,1 1991 504,0 141,2 517,0 1996 2021,6 1098,6 12881,0 2000* 2048,3 1889,1 29670,0 Nota: *proiezione della capacità minima Fonte: Cairncross (1997)

Comunicazioni così convenienti hanno modificato la natura del commercio

internazionale e dell’investimento. Cairncross (1997) è ricco di aneddoti del tipo seguente. Usando Internet, una ditta di contabilità (Dyer Partnership) dell’Inghilterra meridionale gestisce il reparto contabilità, bilancio e finanza di un produttore ucraino di turbine. Dyer si occupa della redazione del bilancio e dello stato patrimoniale dell’impresa ucraina.

Oltre a cambiamenti nei costi di trasporto e di comunicazione, le due ondate hanno causato anche importanti modifiche nelle politiche commerciali.

Nonostante sia difficile da documentare, l’aumentata facilità ed affidabilità ed il più basso costo delle telecomunicazioni hanno promosso indubbiamente l’esplosione degli investimenti diretto all’estero (IDE). Questo è specialmente vero per gli IDE nel settore dei servizi nel quale filiali estere straniere vendono spesso informazioni o expertise.

3.2.2.3 – Le tariffe di allora e di adesso

Il XIX secolo vide sia la crescita della liberalizzazione del commercio

internazionale sia lo sviluppo del protezionismo moderno. Bairoch (1989) e Harley (1996) distinguono quattro periodi: l’ascesa del liberalismo britannico (1815-1846), la diffusione del libero scambio europeo (1846-1860), il periodo liberale (1860-1879), ed il ritorno del protezionismo nel continente mentre la Gran Bretagna rimaneva aperta (1879-1914). Nonostante alcuni brevi periodi di

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libero scambio, le nazioni avanzate non-europee, specialmente gli Stati Uniti, rimasero protezionisti fino a dopo la seconda guerra mondiale. Le nazioni coloniali, che non godevano di autonomia politica, avevano politiche liberali di scambio (almeno con le rispettive madri–patria) per la maggior parte di questo periodo (Bairoch, 1989).

Il periodo dal 1815 al 1846 vide l’affermazione della supremazia economica della Gran Bretagna ed il suo abbraccio con il libero scambio; la liberalizzazione delle importazioni di grano (abrogazione delle “Corn Laws”) fu l’evento principale nel 1846. Anche le altre potenze europee si mossero verso il libero scambio durante questo periodo. Questo tuttavia comportò uno spostamento da un rigido mercantilismo e da mercati interni frammentati al protezionismo moderno. La Germania stabilì il libero commercio al proprio interno nello Zollverein ma elevò le tariffe esterne. L’Austria-Ungheria, la Francia, la Russia ed altri paesi abbassarono i dazi doganali e le tasse dell’esportazione all’interno e passarono dalla proibizione all’importazione di beni manufatti esteri all’imposizione di tariffe molto alte.

Tab. 7 – Tariffe sui beni manufatti 1820, 1875 e 1913 (in percentuale)

circa 1820 1875 1913 Austria-Ungheria proibizione 15-20 13-20 Belgio (a) 9-10 9 Danimarca 30 15-20 14 Francia proibizione 12-15 20-21 Germania (b) n.d. 4-6 13 Italia n.d. 8-10 18-20 Portogallo n.d. 20-25 na Russia proibizione 15-20 84 Spagna proibizione 15-20 34-41 Svezia (Norvegia) proibizione 3-5 20-25 Svizzera 10 4-6 8-9 Paesi Bassi (a) 7 3-5 4 Regno Unito 50 0 0 USA 40-50 44 Argentina n.d. n.d. 28 Brasile n.d. n.d. 50-70 Colombia n.d. n.d. 40-60 Messico n.d. n.d. 40-50 Cina n.d. n.d. 4-5 Iran n.d. n.d. 3-4 Siam n.d. n.d. 2-3

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Turchia n.d. n.d. 5-10 Note: (a) il Belgio era parte dei Paesi Bassi nel 1820; (b) dati prussiani per al Germania nel 1820. Fonte: Bairoch (1989); Bairoch e Wright-Kozul (1996).

La tab. 7 mostra come anche se le barriere commerciali del tardo XIX

secolo erano più basse di quelle della prima parte del secolo, il periodo tra il 1875 e il 1914 fu segnato dappertutto – ad eccezione del Regno Unito e dei paesi del Benelux – da barriere doganali elevate o crescenti.

La più recente ondata di globalizzazione è contrassegnata anche dalla liberalizzazione delle tariffe. Fin dalla firma del GATT alla fine degli anni ’40, tutte le nazioni sviluppate hanno liberalizzato progressivamente le tariffe e le altre misure sull’importazione di beni industriali.

La tab. 8 mostra che, a parte il caso dell’abbigliamento e di altri pochi settori in cui vi sono importanti protezioni specifiche (principalmente misure anti-dumping su chimica ed acciaio), le nazioni ricche odierne sono tanto aperte oggi quanto lo erano le nazioni europee più liberali negli anni 1870. La tabella mostra anche che le protezioni al commercio nel mondo (almeno le forme più facilmente quantificabili di protezione) sono limitate a due categorie: beni industriali nelle nazioni in via di sviluppo e beni agricoli nelle nazioni sviluppate.

Tab. 8 – Protezione del commercio di beni dopo l’Uruguay Round (in percentuale di

equivalenti tariffari).

NAFTA EU15 GiapponeMediterraneo e Medio Oriente

Africa sub

sahariana

America del Sud Asia

granaglie 2 71 184 18 20 2 17 altri prodotti agricoli 38 52 39 6 6 3 20 cibo trasformato 5 13 73 6 5 2 17 legname 1 0 0 17 10 7 5 pesca 1 5 3 42 8 19 11 minerali 1 0 0 17 10 4 4 tesssile 8 7 5 35 16 15 29 abbigliamento 19 10 9 39 20 23 21 cellulosa, carta 1 0 1 24 12 9 9 beni petroliferi 1 1 1 17 5 12 12 chimica, plastica, gomma 7 12 2 20 8 13 12 acciaio 7 3 1 17 12 11 9 metalli non ferrosi 3 1 1 24 14 7 9 prodotti in metallo 6 2 1 30 13 16 19

22

mezzi di trasporto 3 5 0 25 10 19 23 macchine utensili 13 7 0 24 6 19 11 altri beni manufatti 5 3 6 28 14 18 17 Fonte: Global Trade Analysis Project dataset, versione 3,1996.

Le politiche di libero scambio si diffusero lentamente e sporadicamente

nelle economie continentali dal 1846 al 1860. Dopo il 1860, le politiche commerciali liberali si diffusero rapidamente in Europa attraverso un sistema di trattati bilaterali (i cosiddetti trattati di Cobden-Chevalier). Siccome questi trattati includevano generalmente la clausola della nazione più favorita, essi stabilirono di fatto il libero scambio multilaterale in Europa. Queste politiche liberali - che durarono fino alla fine del 1870 - furono amplificate dalla liberalizzazione “naturale”, cioè dalla forte riduzione dei costi di trasporto (vedi sopra).

Il protezionismo ritornò nell’Europa continentale dopo il 1878. Per gli agricoltori, la rinnovata protezione riuscì appena a compensare la brusca caduta del prezzo del grano dovuta alle riduzioni nei costi di trasporto (Bairoch, 1989). Per i beni manufatti, al contrario, le nuove tariffe ridussero bruscamente o prevennero aumenti nelle importazioni industriali, specialmente dalla Gran Bretagna.

La tab. 9 offre una prospettiva di lungo periodo sulle politiche tariffarie degli Stati Uniti. Essa mostra chiaramente come la posizione libero-scambista degli Stati Uniti sia un evento molto recente (se si eccettuano alcuni brevi episodi del liberalismo intorno al 1850 e negli anni Venti). Le cifre mostrano anche chiaramente l’aumento del protezionismo negli Stati Uniti nel periodo interbellico.

Tab 9 – Tariffe U.S.A. (1823 – 1988)

% delle importazioni

totali

% delle esportazioni

tassabili 1823 43,4 45,8 1829 50,8 54,4 1842 25,3 31,9 1857 16,3 20,6 1867 44,3 46,7 1891 22,9 48,9 1908 20,1 41,3

23

1914 14,9 37,6 1923 14,1 37,7 1931 19 55,3 1935 16,4 39,8 1944 9,5 28,3 1968 6,5 10,1 1978 3,5 5,8 1988 3,6 5,4

Fonte: Bairoch (1993) 3.2.3 Flussi commerciali

3.2.3.1 Il rapporto commercio internazionale-PIL

La tab. 10 mostra i rapporti fra commercio internazionale totale

(importazioni più esportazioni) e PIL per 11 nazioni sviluppate negli anni 1870, 1910, 1950 e 1995 (le date esatte per le prime tre colonne variano leggermente a seconda delle nazioni a causa della disponibilità di dati). Le prime due colonne mostrano che la maggior parte delle nazioni sperimentò un’aumentata apertura durante la prima ondata di globalizzazione. Gli aumenti di Giappone, Svezia e Danimarca furono piuttosto sostenuti, mentre quelli di altre nazioni furono più modesti. Il Regno Unito e la Germania, per esempio, avevano già sperimentato la maggior parte della loro apertura entro il 1860.

Le quote di Stati Uniti, Australia e Canada al contrario, si ridussero durante questo periodo. Una parte di questo andamento deriva dai cambiamenti nei prezzi relativi tra le esportazioni tipiche di questi paesi (principalmente beni agricoli, e specialmente grano) e la produzione interna; ma una gran parte è dovuta al fatto che essi non liberalizzarono interamente le loro tariffe. Queste nazioni furono cambiate profondamente dalla prima ondata di globalizzazione e per loro i flussi internazionali di persone, capitale e tecnologia furono di gran lunga più rilevanti del commercio internazionale.

Tab. 10 – Rapporto commercio internazionale/PIL in diversi anni (%)

1870 1910 1950 1995 Regno Unito 41 44 30 57 Francia 33 35 23 43 Germania 37 38 27 46 Italia 21 28 21 49 Danimarca 52 69 53 64

24

Norvegia 56 69 77 71 Svezia 28 40 30 77 U.S.A. 14 11 9 24 Canada 30 30 37 71 Australia 40 39 37 40 Giappone 10 30 19 17 Note: Le date esatte variano per ogni nazione, Fonte: Kuznets (1967), World Bank (1997).

Tutti i paesi tranne il Canada videro calare significativamente i propri tassi

di apertura tra il 1910 ed il 1950. Tutti inoltre, ad eccezione del Giappone, hanno oggi raggiunto o superato i precedenti livelli di apertura. A questo livello di disaggregazione e ad un livello superficiale vi è poco di nuovo nella seconda ondata di globalizzazione. Tuttavia, come ha notato Lindbeck (1973), i denominatori di questi rapporti nel XIX secolo consistevano principalmente di attività economica privata. Nelle moderne economie, invece, il settore pubblico incide per una quota che varia tra il 30% e il 50% del PIL. Per questo motivo, la quota dell’attività economica privata esposta alla concorrenza internazionale è ora molto più grande di quanto non lo fosse nell’ondata di globalizzazione dell’epoca vittoriana.

La fig. 3 presenta una serie temporale più dettagliata per Stati Uniti e Regno Unito. Essa mostra che gli Stati Uniti non sono ancora più aperti di quanto fosse il Regno Unito nel 1850; la figura mostra anche che il picco di apertura nel Regno Unito precedette la prima ondata di globalizzazione e che gli Stati Uniti contrastarono il trend di apertura divenendo progressivamente più chiusi durante il periodo 1870-1910. Dalla seconda guerra mondiale, tuttavia, gli Stati Uniti si sono aperti notevolmente. Questo può forse aiutare a spiegare perché la scuola di pensiero “la globalizzazione è senza precedenti” è così forte negli Stati Uniti.

Fig. 3 – Rapporto tra commercio internazionale e reddito nazionale lordo

(Stati Uniti e Regno Unito, 1797 – 1985)

25

3.2.3.2 La direzione del commercio internazionale Come mostra la tab. 11, la direzione del commercio internazionale per i

paesi continentali è straordinariamente stabile da circa 150 anni. Nonostante l’integrazione profonda dell’Europa Occidentale, tra il 1910 ed il 1996, abbia aumentato la regionalizzazione del commercio in Europa, il suo impatto non è stato poi così rilevante. Le esportazioni dell’Europa verso l’Europa crebbero da circa due terzi nel 1860 a circa tre quarti nel 1996. Le esportazioni europee verso l’Asia si sono allontanate di poco dalla cifra del 10% e le esportazioni europee verso il Nord America sono rimaste immutate tra il 1910 ed il 19968. La regionalizzazione è cresciuta maggiormente dal lato delle importazioni tra il 1910 ed oggi, ma molto di questo ha a che fare con l’aumentata importanza dei prodotti manifatturieri nel paniere delle importazione europee.

Tab. 11 – Direzione del commercio internazionale, (Regno Unito ed Europa - 1860, 1910, 1996)

% del totale Europa

Nord America

Sud America Asia Africa Altri

Esportazioni

8 Si veda Anderson e Norheim (1933) per un’analisi di lungo periodo della regionalizzazione

del commercio mondiale.

26

1860 Regno Unito 46,7 25,5 11,5 12,8 2,5 1 Europa 67,5 9,1 7,7 10 3,2 2,5

1910 Regno Unito 35,2 11,6 12,6 24,5 7,4 8,6 Europa 67,9 7,6 4,2 9,8 4,8 2,4

1996 Regno Unito 59,7 13,3 1,8 11,2 2,6 11,4 Europa 76,2 7,2 2,1 10,7 2,5 1,3

Importazioni

1860 Regno Unito 31 26,7 10,1 23,2 4,5 4,5 Europa 61 14,3 7,8 12,1 3,2 1,7

1910 Regno Unito 45,1 23,8 9,1 10,3 4,8 6,9 Europa 60 14 8,2 10 4,5 3,4

1996 Regno Unito 57 14 1,9 16,9 1,9 8,1 Europa 70,7 8,5 2,9 10,5 2,7 4,7

Nota: L' Europa diventa UE 15 nel 1996 Fonte: Bairoch (1974); IMF (1997).

Il messaggio di fondo delle quote di commercio immutate non vale per il Regno Unito. Mentre si affermava la prima ondata di globalizzazione, le esportazioni del Regno Unito si dirigevano in modo crescente verso le proprie colonie (ed in particolare verso l’India). La quota di esportazioni britanniche verso il continente calò da metà a circa un terzo. Questo è dovuto, in parte, alle crescenti barriere tariffarie continentali, ma anche alla rapida industrializzazione dell’Europa occidentale. L’aumentata importanza dei mercati asiatici e africani è ben visibile: le esportazioni verso l’Asia raddoppiano e quelle verso l’Africa crescono di una volta e mezza.

3.2.3.3 La composizione del commercio internazionale

I beni manufatti dominano oggi il commercio mondiale. Nel 1996, per

esempio, tali prodotti contavano per il 73% del commercio mondiale (WTO, 1997). Sebbene i bassi prezzi di combustibile e beni alimentari abbiano accresciuto ulteriormente la quota dei beni manufatti negli anni recenti, l’importanza del settore manifatturiero è cresciuta stabilmente dal 1950. Inoltre, il dominio dei prodotti manifatturieri è confermato sia dalle importazioni che dalle esportazioni nelle nazioni sviluppate, che incidono per due terzi sul commercio mondiale. Per esempio, secondo il WTO (1997), i prodotti manufatti costituiscono il 77,6% delle esportazioni europee e il 72,7% delle importazioni europee. Per il Nord America, le cifre sono del 73,8% per le esportazioni e del 78,2% per le importazioni. Il Giappone, le cui cifre corrispondenti sono il 94,9% e il 54,3%, rappresenta una eccezione, ma questo paese incide appena il 10% sul commercio mondiale.

27

Nel tardo XIX secolo, i prodotti industriali erano molto importanti nelle esportazioni delle nazioni sviluppate ma non molto nelle loro importazioni. La tab. 12 presenta alcune cifre che illustrano questo fenomeno. Per le nazioni più industrializzate, come Regno Unito, Germania e Francia, i prodotti manifatturieri erano due o tre volte più importanti nelle esportazioni che nelle importazioni. Per gli Stati Uniti e l’Italia le cifre sono all’incirca bilanciate ma ad un livello molto basso secondo gli standard moderni. A quel tempo, le economie di Danimarca, Svezia e Canada erano ancora basate sui beni primari e questo è riflesso nello squilibrio dei prodotti manufatti tra le loro importazioni ed esportazioni.

Tab. 12 – Quota percentuale di beni manufatti sul totale di esportazioni e importazioni (1910 e 1993)

1910 1910 1993 1993 Regno Unito esportazioni importazioni esportazioni importazioni Francia 75,4 24,5 97 77,2 Germania 59,2 25,3 78 74,6 Italia 74,5 24,4 90 73,6 Danimarca 38,3 38,0 89 62,9 Svezia 9,10 28,1 66 n.d. USA 33,6 56,0 85 n.d. Canada 47,5 40,7 82 77,1 Giappone 19,9 62,5 66 81,9 80,8 38,3 97 46,3 Fonte: Kuznets (1967); World Bank (1997); WTO (1994).

3.2.4 Commercio con i paesi emergenti

Alcuni studiosi, ed in particolare Ed Leamer, vedono la globalizzazione del

secondo dopoguerra suddivisa in due fasi distinte. Durante la prima fase, che va dal 1950 al 1979 circa, l’espansione commerciale e rapida consistette primariamente nel commercio Nord-Nord in beni manifatturieri. Le nazioni in via di sviluppo svolsero solamente un ruolo minore (in termini di volume) nel commercio internazionale e molto di questo commercio era dominato dalle

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esportazioni di beni primari. Durante la seconda fase, invece, la liberalizzazione commerciale e la rapida industrializzazione cambiarono la natura della partecipazione del Terzo Mondo nel sistema del commercio mondiale. In breve, queste nazioni divennero esportatori di beni industriali, specialmente di quelli ad alta intensità di lavoro. Questo è molto importante, secondo Leamer e Wood, perché questi beni competono direttamente con quelli prodotti nelle economie sviluppate. Il collegamento tra questo fenomeno ed il mercato del lavoro è considerato più avanti. Qui ci concentriamo invece sul commercio internazionale.

Le importazioni dalle economie emergenti (il sottoinsieme di nazioni in via di sviluppo che sono cresciute rapidamente dal 1970 o 1980) ancora è una piccola quota del PIL: circa il 2% per gli Stati Uniti e l’ 1,5% per il totale OCSE (OCSE 1997). Questo dato è comunque più elevato dello 0,25% del 1970. Le esportazioni OCSE verso queste nazioni sono cresciute dello stesso ammontare, ma la rapida crescita delle importazioni dalle economie emergenti è stata concentrata in beni manufatti, specialmente ad alta intensità di lavoro. Per esempio, le importazioni di beni manufatti dalle economie emergenti incidono per il 22% sul totale delle importazioni degli Stati Uniti, mentre erano soltanto il 10% nel 1970. Le cifre corrispondenti per l’OCSE nel suo insieme sono rispettivamente 13% e 6%.

Tab. 13 – Composizione settoriale del commercio Nord-Sud (1955 - 1989) (% del totale)

1955 1970 1980 1989

Esportazioni dal Nord al Sud Beni manufatti 73 78 79 79

Esportazioni dal Sud al Nord Petrolio 20 33 66 25 Altre materie prime 75 51 19 22 Beni Manufatti 5 16 15 53 Fonte: Woods (1994)

La tab. 13 mostra l’evoluzione della composizione settoriale delle

esportazioni per le nazioni sviluppate e per quelle in via di sviluppo nel loro insieme. Le esportazioni del primo gruppo di paesi sono rimaste primariamente dominate dai beni manufatti e questo è vero sia per le loro esportazioni verso le nazioni in via di sviluppo come per le esportazioni verso le nazioni sviluppate. La composizione delle esportazioni dei paesi in via di sviluppo invece si è

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spostata rapidamente dai beni del settore primario a quelli del settore secondario. Mentre la caduta dei prezzi del petrolio (le cifre sono basate su dati a prezzi correnti) ha reso più evidente la svolta, vi è stato chiaramente uno spostamento significativo nel mix delle esportazioni del Terzo Mondo. Ciò è specialmente evidente dopo il 1980; ma i dati più recenti confermano questo trend.

3.3 Multinazionali ed investimento diretti all’estero

Le imprese multinazionali e l’investimento diretto all’estero (IDE) sono due

componenti essenziali della globalizzazione del XX secolo sia in termini di volume che di impatto. Da una prospettiva microeconomica, i flussi di IDE sono effettivamente l’unica cosa che è cambiata rapidamente negli ultimi venti anni. Come mostra la fig. 4, i flussi di IDE sono cresciuti esponenzialmente verso la metà degli anni ‘80. L’UNCTAD (1997), per esempio, stima che le vendite globali delle filiali estere delle multinazionali eccedono del 30% il volume del commercio mondiale. La caratteristica di non specificità territoriale della produzione è una componente essenziale del sentimento di vaga ma profonda paura dell’integrazione internazionale, che Bob Lawrence ha denominato “globafobia”.

Le multinazionali, come la Società delle Indie Orientali, e gli investimenti diretti all’estero (IDE) sono stati una parte essenziale della prima ondata della globalizzazione. Per molte ragioni gli IDE erano effettivamente più importanti nella prima ondata che nella seconda. Dunning (1983) scrive: «Non c’è dubbio che gli IDE giocarono un ruolo non meno importante, nel periodo 1870-1914, di quello svolto dagli anni ’50, dal punto di vista di alcune nazioni origine e destinazione degli IDE, sia come canale per il trasferimento di risorse tra paesi, sia come un mezzo per controllare l’uso di queste e di risorse locali e complementari».

Dunning stima che il 35% dei flussi netti di capitali in uscita nella prima ondata era formata da IDE. Le cifre corrispondenti della seconda ondata sono più difficili da calcolare (dato che la dimensione e la fonte dei flussi di capitali in uscita sono notevolmente variate nel periodo). Ciononostante, mentre è probabile che si trovino cifre simili al 35% per particolari nazioni in via di sviluppo, qualsiasi stima ragionevole della misura globale sarebbe probabilmente meno di un decimo del valore della prima ondata (cioè meno del 3,5%). Fig. 4 – Crescita dell’investimento interno ed estero

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Anche la direzione e le fonti degli IDE si sono spostate significativamente

tra le due ondate. Il periodo 1870-1914 vide gli IDE fluire principalmente dai paesi industrializzati ai paesi in via di sviluppo (PVS). Anche nella recente ondata, la maggior parte degli IDE ha origine nei paesi industrializzati ma essa è destinata principalmente verso altre nazioni sviluppate. La tab. 14 offre alcune cifre su questo fenomeno. Per esempio, nel 1996, quattro nazioni soltanto (Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia) danno origine a metà dello stock mondiale di IDE. Sorprendentemente, i quattro decimi dello stock mondiale di IDE sono localizzati in queste stesse quattro nazioni. In un studio più completo, Hummels e Stern (1994) mostrano che le nazioni ricche contano per il 97% dei flussi di investimento diretti in uscita e per il 75% dei flussi totali in entrata.

Anche la composizione degli IDE è cambiata significativamente. Nel 1914, il 55% dello stock di IDE era collocato nel settore primario, il 20% nelle ferrovie, il 15% nel settore manifatturiero, e solamente il 10% nei servizi (commercio e distribuzione, servizi pubblici, banche etc.) (Dunning, 1983, p. 89). Negli ultimi anni, le cifre appaiono alquanto differenti. Nell’Unione Europea, il 63% degli IDE riguarda il settore dei servizi, il 31% il settore manifatturiero e solamente il 6% il settore primario (Commissione Europea, 1996, p. 90). L’UNCTAD (1997, p. 35) mostra che solamente il 20% circa di attività delle prime 100 multinazionali è investito nel settore petrolifero ed estrattivo.

Tab. 14 – Distribuzione geografica degli IDE (1914 – 1996)

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Nota: I riquadri indicano che il dato è aggregato per il gruppo di paesi Fonte: Dunning (1983); UNCTAD (1997)

Molti degli IDE legati al settore dei servizi possono essere meglio

considerati come attività che facilitano il commercio dei servizi, dato che per molti tipi di servizi è necessario una presenza in loco. Il settore bancario rappresenta un esempio classico. La quota di IDE che va al settore manifatturiero, specialmente gli IDE che si dirigono verso nazioni a basso salario, è parte di un altro nuovo ed importante aspetto della globalizzazione, quello che Krugman (1995) chiama la “divisione della catena del valore”. Questo fenomeno è stato ben documentato nel libro del 1985 di Kenneth Flamm e Joseph Grunwald giustamente intitolato “La fabbrica globale”. Un ammontare enorme del commercio di prodotti, quali i mezzi di trasporto, consiste nel trasferimento di parti e componenti automobilistiche dalle fabbriche di proprietà di una società situate in una nazione ad altre fabbriche della stessa società localizzate in un’altra nazione. Krugman (1985) presenta l’esempio contrastante di un impianto automobilistico degli anni ’30 negli Stati Uniti che «era, effettivamente, una fabbrica che inghiottiva carbone coke e minerale ferroso da un capo ed faceva uscire automobili complete dall’altro capo».

Un’altra differenza impressionante è che ora la struttura globale degli IDE è completamente simile alla struttura del commercio internazionale. In particolare, nel momento in cui il commercio mondiale è dominato dallo scambio di beni simili fra nazioni simili, anche gli IDE fra le nazioni ricche comportano frequentemente IDE bidirezionali nello stesso settore. Questo

1914 1914 1960 1960 1996 % dello stock

mondiale %

di origine %

di destinazione%

di origine %

di destinazione%

di origine%

di destinazione USA 18,5 10,3 49,2 13,9 25,0 19,9 Canada 1,0 5,7 3,8 23,7 3,5 4,0 Regno Unito 45,5 1,4 16,2 9,2 11,2 10,7 Germania 10,5 1,2 9,1 5,3 Francia 12,2 6,1 6,5 5,2 Belgio 6,4 1,9 6,4 2,3 3,1 Italia 1,6 3,7 2,3 Paesi Bassi 8,7 10,5 5,8 3,7 Svezia 0,6 2,4 1,3 Svizzera 3,0 5,1 1,5

Russia 2,1 n.d. n.d. 0,0 0,2 PVS 0,0 62,8 1,0 32,3 8,9 28,4

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fenomeno è stato chiamato IDE intra-industriale (Rugman, 1985; Markusen, 1995). Inoltre, secondo Rugman (1985), i settori in cui c’è molto commercio internazionale sono gli stessi settori in cui frequentemente ci sono molti IDE intra-industriali fra nazioni simili. L’evidenza aneddotica può essere ritrovata in settori quali l’automobilistico, il chimico, il farmaceutico e l’alimentare.

3.4 Fenomeni migratori

I fenomeni migratori sono la differenza più evidente tra le due ondate di

globalizzazione. La massiccia migrazione di forza lavoro, spesso accompagnata da enormi afflussi di capitale, era una caratteristica saliente del periodo 1880-1914. Una versione stilizzata della spiegazione di questi flussi di tardo XIX secolo è la seguente. La caduta drammatica dei costi di trasporto - causata dalla costruzione di ferrovie e canali - aprì enormi aree di frontiera per la produzioni di materie prime. Questo generò a sua volta una rapida espansione della crescita di questi paesi, della durata di circa 20 anni, guidata da migrazione, flussi di capitale in entrata ed esportazione di materie prime. Questo modello è qualche volta chiamato “ciclo di Kuznets”.

Negli anni Novanta, gli Stati Uniti sono l’unica grande nazione ricca che registra alti tassi di immigrazione. Secondo Cline (1997, p. 85) se si sommano i flussi legali e quelli illegali si raggiunge una cifra di un milione di persone all’anno, il che implica un tasso di migrazione decennale di circa il 4% della popolazione iniziale. Tab. 15 - Migrazioni decennali in % della popolazione iniziale (1880-1910)

1880s 1890s 1900s Origine Regno Unito -3,05 -5,20 -2,04 Italia -1,65 -3,37 -4,87 Spagna -1,51 -6,01 -5,18 Svezia -2,90 -7,20 -3,51 Portogallo -3,52 -4,16 -5,94

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Destinazione USA 5,69 8,94 4,02 Canada 2,27 4,89 3,71 Australia 11,28 16,59 0,77 Argentina 4,50 25,60 9,5 Brasile 1,98 3,82 8,44 Nuova Zelanda 53,52 4,08 4,15

Fonte: Green e Urquhart (1976)

3.5 Prezzi dei fattori e globalizzazione 3.5.1 Premessa La globalizzazione ha prodotto la riduzione del salario reale ed un’alta

disoccupazione negli Stati Uniti ed in Europa, secondo populisti come Buchanan (1998) e Goldsmith (1994) e studiosi come Leamer (1996, 1998) e Wood (1994). Questi autori indicano come responsabile il commercio con le nazioni a basso salario, i fenomeni migratori e l’internazionalizzazione della produzione. Nonostante siano in disaccordo con la posizione accademica dominante (come si vedrà oltre), essi sono molto influenti. In Europa, James Goldsmith definisce il commercio internazionale “la trappola”, e sia l’estrema destra che l’estrema sinistra sono cresciute in questi ultimi anni facendo appello alle paure dei lavoratori non specializzati. Negli Stati Uniti, la paura delle importazioni dalle nazioni con basso costo del lavoro è stata importante nel determinare il rifiuto del Congresso di concedere all’amministrazione Clinton il potere di negoziare il commercio internazionale secondo il principio della “fast track”. Inoltre, si è assistito in quasi tutte le nazioni industrializzate alla nascita di richieste di protezionismo come mezzo per risolvere i problemi del mercato del lavoro. Appelli protezionistici sono stati effettuati anche da parte di studiosi del rango di Rodrik (1996 e 1997).

La prima ondata di globalizzazione fu associata anche con gli importanti cambiamenti nei prezzi dei fattori, e secondo alcuni, questa è stata la causa della legislazione anti-immigrazione e anti-commerciale nel XIX secolo. Prima di guardare al fatti del XIX secolo, proponiamo però una breve rassegna dei recenti sviluppi del mercato del lavoro.

3.5.2 Prezzi dei fattori nella seconda ondata di globalizzazione

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3.5.2.1 Alcune evidenze sul mercato del lavoro e sulla distribuzione del reddito

Dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni Settanta,

l’integrazione rapida delle nazioni industrializzate fu associata con una distribuzione del reddito stabile o convergente all’interno di ogni nazione OCSE. In aperto contrasto, gli ultimi due decenni sono stati un vero disastro per i lavoratori non specializzati nelle nazioni ricche del mondo. In tutte le nazioni OCSE, i tassi di disoccupazione sono molto più alti per i lavoratori non specializzati, ed in alcune nazioni - come Stati Uniti e Regno Unito - i redditi di questi lavoratori sono precipitati bruscamente relativamente a quelli dei lavoratori specializzati. Negli Stati Uniti l’allargamento del gap salariale è stato un gioco a somma zero tra lavoratori specializzati e non specializzati dato che la quota totale della remunerazione del fattore lavoro sul PIL non è variata.

La distribuzione del reddito familiare negli Stati Uniti è diventata molto più ineguale dal 1980, come mostra la tab. 16 (ripresa dall’eccellente libro del 1997 di Bill Cline “Trade and income distribution”).

La distribuzione del reddito familiare negli Stati Uniti variò poco tra il 1970 ed il 1980, ma divenne sostanzialmente più disuguale dal 1980 al 1992. La quota di PIL ricevuta dal 20% più povero delle famiglie diminuì di circa un sesto mentre la quota di PIL ricevuta dal 5% più ricco delle famiglie crebbe di un sesto. Il rapporto fra il reddito più alto e quello più basso crebbe da 5,3 nel 1980 a circa 10 nel 1992. Queste cifre certamente nascondono il progresso che è stato raggiunto da alcuni individui e in questo modo possono esagerare la situazione di singole famiglie (in altri termini, alcune famiglie potrebbero avere incrementato il proprio reddito mentre alcune famiglie più povere si sono aggiunte al livello più basso). Ciononostante, i numeri sono impressionanti.

La distribuzione del salario negli Stati Uniti, inoltre, si è allargata durante questi anni. Come mostra Cline (1997), il rapporto tra il 90° ed il 10° percentile per i lavoratori a tempo pieno crebbe da meno di 4 a più di 5 dal 1970. I salari reali per i lavoratori con istruzione inferiore alla scuola secondaria sono precipitati di oltre un quarto dal 1973 al 1993 mentre la disoccupazione complessiva negli Stati Uniti è bassa a livelli europei, secondo l’OCSE (1997), per gruppi scarsamente specializzati. A differenza degli Stati Uniti, il livello di salario reale nello stesso periodo crebbe in Europa (Cline 1997), ma nello stesso modo crebbero anche i tassi di disoccupazione europei, specialmente fra i lavoratori non qualificati (OCSE, 1997).

Tab. 16 - Distribuzione del reddito familiare negli Stati Uniti (1970, 1980 e 1992)

35

% PIL di ogni percentile Reddito più alto del percentile

(migl. di $ 1992) percentili di distribuzione del reddito 1970 1980 1992 1970 1980 1992

0-20 5 5 4 n.d. 18 17 20-40 12 12 11 n.d. 30 30 40-60 18 18 17 n.d. 42 44 60-80 24 24 24 n.d. 59 64 80-100 41 42 45 n.d. n.d. n.d. di cui: n.d. 80-95 25 26 27 n.d. 92 107 95-100 16 15 18 n.d. n.d. n.d.

Fonte: Cline (1997)

Chiaramente, l’impatto sul mercato del lavoro è stato globale. Come

esemplifica Krugman (1997), la crescente ineguaglianza salariale negli Stati Uniti è l’altro lato della medaglia della crescente disoccupazione europea.

3.5.2.2 Globalizzazione: sospetti e prove

I due ultimi decenni hanno visto quattro importanti cambiamenti che

possono aiutare a spiegare l’impatto sul mercato del lavoro. Primo, il commercio internazionale è cresciuto rapidamente, e sono cresciute specialmente le esportazioni di beni manufatti dalle economie emergenti. Secondo, la tecnologia labour-saving (specialmente l’automazione di fabbrica e l’informatica) è avanzata ad un ritmo possente, anche se la crescita di produttività totale è calata. Questo ha ridotto la domanda di lavoratori non qualificati negli uffici e nelle fabbriche facendo simultaneamente crescere la richiesta per lavoratori che possono manipolare, gestire, finanziare e sviluppare queste tecnologie. Terzo, le politiche economiche a favore del mercato hanno trionfato ovunque nel mondo, indebolendo il potere del sindacato e del lavoro organizzato. Quarto, gli investimenti diretti all’estero sono cresciuti rapidamente, e questo ha favorito l’outsourcing e la delocalizzazione di molte attività in regioni caratterizzate da bassi salari.

C’è già un gran numero di studi empirici sul rapporto commercio internazionale/salari (si veda, ad esempio, OCSE, 1997 e Cline, 1997). Quasi tutti gli studi rilevano un certo impatto del commercio internazionale sul mercato del lavoro negli Stati Uniti e in Europa. Alcuni tuttavia trovano che il commercio non ha inciso quasi per niente sulla differenziazione salariale, mentre altri attribuiscono la totalità di tale differenziazione al commercio. Il

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grado di consenso è forse di circa il 10-20%. Negli Stati Uniti, la migrazione ha inciso per un altro 30-40% sulla caduta del salario per i lavoratori non qualificati (Borjas, Freeman e Katz, 1997). Sebbene queste stime non possano essere semplicemente sommate, sembra evidente, però, che almeno la metà della differenziazione salariale negli Stati Uniti è causata dal commercio internazionale e dai fenomeni migratori. Il resto, secondo molti studiosi, è provocato dal cambiamento tecnologico.

3.5.3 Prezzi dei fattori nella prima ondata di globalizzazione

Jeffrey Williamson (1996) ed altri hanno mostrato che la prima ondata di

globalizzazione fu associata anche con importanti cambiamenti nei prezzi dei fattori di produzione. In quei giorni, la distinzione cruciale era tra ricchi possidenti terrieri e poveri lavoratori piuttosto che tra lavoratori specializzati e non specializzati come è oggi. All’inizio del secolo in Europa, la terra era poca ed il lavoro era abbondante; nel Nuovo Mondo, invece, la terra era abbondante e il lavoro era scarso. Non sorprendentemente, dunque, il lavoro (e il capitale) fluì dal Vecchio Mondo verso le cosiddette economie dei pionieri del Mondo Nuovo. Oltre alla migrazione, la forte caduta dei costi di trasporto ridusse le differenze di prezzo dei beni, come sopra ricordato.

Come si poteva facilmente prevedere (Williamson, 1996), la remunerazione dei fattori cambiò a causa di questo andamento. I salari del Vecchio Mondo crebbero relativamente alle rendite fondiarie spesso di due o tre volte. Ciò fu avvertito più fortemente nelle economie più aperte, come il Regno Unito e le nazioni nordiche. Nel Nuovo Mondo, il rapporto salario/rendita fondiaria si ridusse del 30-50% tra il 1870 ed il 1910. Siccome i proprietari terrieri erano inizialmente ricchi, i cambiamenti in questi rapporti fecero decrescere l’ine-guaglianza di reddito europea ma fecero probabilmente crescere quella del Nuovo Mondo (Williamson, 1996).

Dal punto di vista teorico, tre fattori possono essere considerati come e più importanti determinanti del rapporto salario/rendita fondiaria: la migrazione dei lavoratori ed il conseguente spostamento nell’offerta relativa dei fattori all’interno delle diverse nazioni, i cambiamenti di prezzo delle merci (attraverso l’effetto Stolper-Samuelson), e il progresso tecnologico non neutrale. O’Rourke, Taylor e Williamson (1996) stimano che il cambiamento nel rapporto terra-lavoro e il capital deepening (dovuto principalmente alla migrazione e alla mobilità di capitale) contarono per un quarto sui cambiamenti nel rapporto salario/rendita fondiaria del Nuovo Mondo, ma quasi per nulla nel Vecchio Mondo. La convergenza di prezzo delle merci fu responsabile per il 30% della caduta del sopracitato rapporto nel Nuovo Mondo e per un quarto dell’aumento nel Vecchio Mondo. A causa di pressioni di prezzo, la tecnologia

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tese ad essere risparmiatrice di lavoro nel Nuovo Mondo e forte utilizzatrice di lavoro nel Vecchio. Questi cambiamenti incisero per circa il 40% della caduta del rapporto nel Nuovo Mondo e per circa il 50% dell’aumento del rapporto nel Vecchio Mondo.

Williamson (1996) guarda anche al rapporto tra numero di lavoratori non specializzati e reddito pro-capite per identificare i cambiamenti nel reddito degli individui ricchi (proprietari terrieri, capitalisti così come lavoratori specializzati) relativamente a quello dei cittadini più poveri (lavoratori non specializzati). Egli trova che questa proxy per l’ineguaglianza del reddito nazionale crebbe drammaticamente per le economie pionieristiche (Australia, Canada e gli Stati Uniti), ma precipitò per le economie europee, che abbondavano di lavoro (specialmente per nazioni pre-industriali come Danimarca, Italia, Norvegia e Svezia).

Questi cambiamenti nei prezzi relativi dei fattori e nei redditi, secondo Williamson (1996), ebbero un importante impatto sulle politiche economiche. Negli Stati Uniti, l’aumento dell’ineguaglianza del reddito contribuì a sostenere la legislazione anti-immigrazione della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo. Esso rinfocolò anche i sentimenti contrari al commercio internazionale in Europa dando origine al progressivo ritiro dal liberalismo dopo il 1880.

4. Conclusioni: un riassunto e le lezioni della Storia

Un lavoro che copre un tema vasto come il nostro è difficile da riassumere in pochi paragrafi. Ad un livello particolareggiato emergono dunque una serie di differenze e di somiglianze tra le due ondate di globalizzazione che, essendo state trattate sopra, non ripeteremo qui. Questa sezione finale si concentra solamente su tre sfaccettature della nostra tesi principale che può essere riassunta così: le due ondate sono superficialmente simili ma fondamentalmente diverse.

Primo, abbiamo affermato che il commercio di idee è stato più importante nella seconda ondata che nella prima. Questo può essere dimostrato dai fatti seguenti:

1) la diversa natura dei flussi di capitale (enormi flussi di capitali a breve termine, guidati da un ritmo frenetico di scambio di informazioni ed avanzamenti nell’informatica invece dei flussi a lungo termine che hanno marcato la prima ondata);

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2) la diversa natura degli IDE e dell’attività delle multinazionali (IDE intra-industriali fra nazioni simili concentrati sui settori manifatturiero e dei servizi e sull’outsourcing nella seconda ondata; piuttosto che l’investimento da Nord a Sud nel settore primario e nelle ferrovie che erano stati caratteristici della prima ondata).

3) la diversa natura del commercio internazionale (enorme commercio intra-industriale fra nazioni simili guidato dalle economie di scala e dalla differenziazione di prodotto nella seconda ondata, piuttosto che commercio inter-industriale guidato da differenze nelle dotazioni di fattori produttivi e nei livelli tecnologici come nella prima ondata);

4) la diversa natura del processo di convergenza/divergenza del reddito e di industrializzazione/deindustrializzazione. La seconda ondata vede una rapida (per gli standard storici) convergenza di reddito fra le nazioni avanzate accompagnata da una loro deindustrializzazione e una industria-lizzazione estremamente rapida di alcune nazioni in via di sviluppo. La prima ondata fu marcata da una lenta rincorsa (nei confronti del Regno Unito) di alcune nazioni attualmente ricche accompagnata da una industrializzazione di paesi il cui reddito convergeva e da una deindustrializzazione di paesi il cui reddito divergeva;

5) le diverse velocità a cui cadono i costi di trasporto e di comunicazione. Ambedue cadono bruscamente nelle due ondate, ma la riduzione dei costi di comunicazione surclassa la caduta dei costi di trasporto nella seconda ondata, specialmente dopo il 1980. Questa differenza è strettamente connessa con la precedente come spiegato nel modello delineato nella sezione 2.2.3.

Secondo, le condizioni iniziali delle due ondate sono molto dissimili e questo ha una grande importanza. L’eredità del colonialismo e le enormi differenze di reddito che noi ora vediamo hanno un impatto profondo sui policy-makers, specialmente nel Terzo Mondo. Da un lato, il commercio del XIX secolo e la deindustrializzazione danneggiò nazioni come India e Cina e questo rende difficile per questi paesi abbracciare politiche commerciali improntate al laissez-faire e favorevoli alla libertà di investimento. Di contro, il vasto divario tra paesi ricchi e poveri - unito ad un più rapido trasferimento delle tecnologie - consente alle nazioni in via di sviluppo che riescono ad industrializzarsi tassi di sviluppo così elevati da surclassare completamente quelli del XIX secolo.

Terzo, il sistema economico ed internazionale è completamente diverso. Le richieste ai policy-maker nazionali sono ora più ambiziose di quelle che erano poste ai loro predecessori all’inizio del secolo. Gli elettori si aspettano ormai costosi programmi di benessere sociale e tasse ridotte, piena occupazione e

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inflazione bassa, ma soprattutto, si aspettano una stabile crescita del reddito. Queste richieste - unite all’accresciuta interdipendenza fra le nazioni - mettono i policy-makers di fronte a sfide che erano ignote durante la prima ondata. Il tri-lemma della politica monetaria9 è forse il migliore esempio di una nuova sfida. Un altro esempio è la tendenza dei negoziati commerciali internazionali di prendere in esame temi che un tempo erano sempre stati considerati questioni di interesse puramente nazionale.

Anche i sistemi internazionali differiscono in modo profondo. La maggior parte della globalizzazione nell’età vittoriana avvenne sotto la cosiddetta “pax britannica” e senza alcuna reale istituzione internazionale o regole formali. Una buona parte della seconda ondata ha avuto luogo anche sotto una potenza egemone, questa volta gli Stati Uniti, ma con un’importante differenza. Il sistema economico ed internazionale è ora sostenuto da un insieme solido di istituzioni internazionali e di regole (come il WTO/GATT e il FMI) e queste istituzioni sono sostenute da tutte le nazioni avanzate. Tali istituzioni aiutano il sistema a stabilizzarsi, anche nel momento in cui gli Stati Uniti dovessero perdere la propria preminenza economica.

Da ultimo, il cambiamento nelle concezioni dei policy-makers ha mutato radicalmente il sistema economico internazionale. La prima ondata di globalizzazione finì male. Due guerre mondiali provocarono decine di milioni di morti e danni materiali incalcolabili. La causa profonda di questo disastro era la fuorviata credenza che la prosperità nazionale comportasse necessariamente la concorrenza internazionale per il territorio e/o l’accesso esclusivo ai mercati. Nel tardo XX secolo, tali nozioni sono ormai dimenticate nelle nazioni industriali ed avanzate. Sfortunatamente va notato che queste fuorviate credenze del XIX secolo sono ancora vive in paesi come la Cina e la Russia. Sembrerebbe, perciò, che la sfida principale nel disegno di una governance globale sia quella di legare strettamente queste due nazioni nel sistema globale del commercio e dell’investimento.

Riferimenti bibliografici

Anderson K. e Norheim (1993), “History, geography and regional economic integra-tion”, in Anderson K. e Blackhurst R. (eds.) Regional integration and the global trading system, Harvester-Wheatsheaf, London.

9 Esso riguarda l’impossibilità di conciliare tassi di cambio fissi, perfetta mobilità dei capitali

e politica monetaria indipendente.

40

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