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Scuola Dottorale Internazionale “Tullio Ascarelli” XXV Ciclo Sezione Diritto europeo su base Storico-Comparatistica Le riforme al sistema giudiziario nel “biennio costituzionale” dello Stato pontificio (1846-1848) 1

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Scuola Dottorale Internazionale “Tullio Ascarelli”

XXV Ciclo

Sezione Diritto europeo su base Storico-Comparatistica

Le riforme al sistema giudiziario nel “biennio costituzionale” dello Stato pontificio (1846-1848)

Dott. ssa Maria Gemma PintoTutor: Prof. Paolo Alvazzi Del Frate

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LE RIFORME AL SISTEMA GIUDIZIARIONEL “BIENNIO COSTITUZIONALE”

DELLO STATO PONTIFICIO

(1846-1848)

Premessa…………………………………………………………………... 4

1. Capitolo I: L’amministrazione della giustizia nello Stato pontificio nella prima metà del XIX secolo

1.1. Il ritorno di Pio VII a Roma e la seconda Restaurazione……………… 8

1.2. L’amministrazione della giustizia nel moto proprio del 1816………….. 13

1.3. Il codice di procedura civile del 1822…………………………………. 18

1.4. Ulteriori riforme al sistema giudiziario tra attuazione e inattuazione dei codici……………………………………………………………………………. 23

1.5. Leone XII e il moto proprio del 1824………………………………… 26

1.6. Il Pontificato di Gregorio XVI………………………………………… 28

1.7. Il Regolamento organico e di procedura criminale del 1831…………… 30

1.8. Il Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili del 1834…… 34

2. Capitolo II: Le riforme al sistema giudiziario nella prima fase del pontificato di Pio IX (1846-1847)

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2.1. Pio IX e la Commissione del 1846 per la riforma dei codici………….. 44

2.2. Le disposizioni sulla “punitiva giustizia e le nuove norme in tema di statistica criminale………………………………………………………………. 46

2.3. Il Consiglio dei ministri nei lavori preparatori………………………… 49

2.4. Il Ministero di Giustizia………………………………………………. 51

2.5. Il moto proprio del 12 giugno 1847sul Consiglio dei ministri…………. 57

2.6. Il Tribunale civile di Roma e il Tribunale criminale di Roma…………. 58

2.7. Il moto proprio del 29 dicembre 1847 sul Consiglio dei ministri……… 60

2.8. Il Regolamento organico dell’ordine giudiziario (1847)……………… 64

2.9. La Commissione per la riforma dei codici del 1847………………….. 76

3. Capitolo III: Il secondo periodo di riforme (1847-1848)

3.1. La Consulta di Stato………………………………………………… 78

3.2. Il Regolamento organico dell’ordine giudiziario all’esame della Consulta di Stato…………………………………………………………………… 81

3.3. Dalla Consulta di Stato al Consiglio di Stato……………………….. 85

3.4. Il Consiglio di Stato………………………………………………… 85

3.5. La discussione in seno al Consiglio di Stato sulle basi di un

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nuovo regolamento di giustizia…………………………………………… 87

3.5.1. Sulla pubblicità delle discussioni nei giudizi civili e penali…… 92

3.5.2. Sull’introduzione dei giudici conciliatori……………………. 96

3.5.3. Sull’istituzione del Tribunale di Cassazione e del Terzo

grado di giudizio………………………………………………… 100

3.5.4. Sull’istituzione di un Pubblico Ministero…………………… 109

3.5.5. Sull’ammissione dell’appello nelle cause penali……………... 112

3.5.6. Sui Tribunali speciali e sul contenzioso amministrativo…….. 118

3.6. Il Regolamento organico dell’ordine giudiziario nel Foro laico del 848

3.7. La fase successiva……………………………………………………. 120

3.8. Influenza del modello napoleonico sui progetti di legge……………… 126

4. Considerazioni conclusive………………………………………… 145

5. Appendice documentaria………………………………………… 149

6. Riproduzioni fotostatiche .……………………………………… 201

7. Bibliografia………………………………………………………… 202

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Premessa

Il nostro elaborato si pone l’obiettivo di analizzare i momenti e gli obiettivi delle riforme che interessarono l’amministrazione della giustizia durante il pontificato di Pio IX nel periodo che va dal 1846 al 1848 (cosiddetto periodo costituzionale)1.

L’intento che ci proponiamo è quello di offrire un quadro completo di come appariva l' ordinamento giudiziario civile e penale nell’ultimo capitolo della storia dello Stato pontificio, evidenziando il parallelismo tra il sistema della giustizia e i diversi indirizzi politico-amministrativi assunti dal Pontefice e dagli uomini di governo nella seconda metà del XIX secolo.

Le ricerche sono state condotte principalmente presso l’Archivio di Stato di Roma, dove è conservata la maggior parte della documentazione relativa alle magistrature pontificie nel periodo in considerazione. In particolare è risultato di grande interesse per lo studio delle tematiche dell’amministrazione della giustizia la consultazione dei fondi Miscellanea per la riforma dei codici, il fondo Consulta di Stato, il fondo Miscellanea del periodo costituzionale e il fondo Consiglio di stato (1848-1850). Quest' ultimi due, peraltro, in prevalenza inediti.

Presso l’Archivio Segreto Vaticano, invece, la consultazione

1Per l’elenco delle fonti bibliografiche su Pio IX e il suo pontificato si rimanda a F. BARTOCCINI, Lo Stato pontificio della Bibliografia dell’età del Risorgimento in onore di A. M. Ghisalberti, vol. II, Firenze, 1972, pp. 191 e ss., nonché all’aggiornamento di R. UGOLINI, Lo Stato Pontificio, della Bibliografia dell’età del Risorgimento 1970-2001, Firenze, 2003, vol. II, pp. 1077e ss. Fondamentali continuano ad essere inoltre l’opera di R. AUBERT, Il Pontificato di Pio IX(1846-1878), vol. XXI della Storia della Chiesa, Torino, 1964, e quella di G. MARTINA, Pio IX (1846-1850), Roma, 1974.

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ha riguardato per lo più il fondo Consiglio dei Ministri, verbali delle sedute. Si tratta di un fondo ancora fuori catalogazione, ma del quale ci è stata gentilmente concessa la consultazione, che si è rivelata utile soprattutto per la ricostruzione dei fatti e degli avvenimenti che, tenuto conto della frammentarietà della documentazione, non sempre è risultata agevole. Più volte infatti, è capitato di dover “rincorrere” i documenti da un fondo ad un altro, soprattutto a causa della celerità con cui venivano nominate, nel periodo in considerazione, ricco di fermento giuridico e legislativo, commissioni di studio prima, e veri e propri organi istituzionali poi. Ci riferiamo in particolare al Progetto di regolamento organico nel Foro laico, documento centrale della nostra ricerca. Lo scheletro del progetto nacque prima nel 1846, ad opera della Commissione per la riforma dei codici legislativi nominata da Gregorio XVI e confermata da Pio IX, che metterà a punto un Regolamento organico dell'ordine giudiziario, per poi passare nelle mani della Consulta di Stato, nel 1847, e da ultimo in quelle del Consiglio di Stato, nel 1848. Sarà proprio quest’ ultimo ad essere il padre del Regolamento organico dell’ordine giudiziario nel Foro laico. A differenza del primo Regolamento organico redatto dalla Commissione per la riforma dei codici, che si limitava a riunire e semplificare i Regolamenti gregoriani civili e penali, seppur operando una drastica riduzione del numero dei tribunali, il Regolamento organico dell'ordine giudiziario nel Foro laico era una legge d’avanguardia. Esso si proponeva l'obiettivo di ribaltare completamente il sistema della giustizia fin ad allora conosciuto dallo Stato pontificio, e per l’altezza degli ideali potrebbe addirittura considerarsi, sul terreno della giustizia, un manifesto di quell’esigenza di rinnovamento e di rifacimento dell’apparato giudiziario avvertito ormai come il primo ostacolo alla piena realizzazione di uno Stato moderno e italiano.

Lo studio di questi argomenti è risultato particolarmente interessante soprattutto se si considera come finora la

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storiografia abbia cercato di ridimensionare quello che i contemporanei avevano chiamato il biennio liberale di Pio IX, come già saggiamente evidenziato da Giuseppe Monsagrati alcuni anni fa2. «La complessiva valutazione degli elementi del riformismo di Pio IX - afferma l'Autore - si è finora basata su interpretazioni assai valide, ma che il più delle volte non hanno nascosto alcune note critiche negative. Si è giunti così ad un giudizio complessivo sul primo Pio IX abbastanza univoco nel riconoscere «la bontà delle intenzioni del Papa, ma anche nel sottolineare l’incauta impoliticità dei suoi atteggiamenti, stretti tra l’impulso a portare avanti l’idea di una Chiesa come baluardo contro la rivoluzione, e l’esigenza di riprendere, sulla base di un sincero sforzo di collaborazione e anzi di un vero e proprio sentimento di reciproco amore, il dialogo da lungo tempo interrotto con la comunità dei fedeli3.» E’ di questo parere Alberto Maria Ghisalberti quando afferma, a proposito della scarsa incisività delle riforme di Pio IX, che «qualche cosa, tuttavia, si faceva, a conferma delle buone intenzioni pontificie e a soddisfazione di quanti avrebbero voluto, come la maggior parte dei moderati e dei rappresentanti del Corpo diplomatico, che Pio IX si incamminasse da solo e decisamente per la via di un temperato ma convinto riformismo4».

L’immagine di un Pio IX molto cauto ed incerto, preoccupato soprattutto di tenere a bada il movimento nazionale, ci viene descritta anche da Scirocco e considerazioni non dissimili si rinvengono anche in opere meno recenti, come

2 G. MONSAGRATI, Pio IX, Lo Stato della Chiesa e l’avvio delle riforme, in Le riforme del 1847 negli Stati italiani, Atti del Convegno di studi, Firenze 20-21- marzo 1998, in «Rassegna storica toscana», Firenze, 1999, pp. 215-238.

3 Ibidem, p. 217.4 A. M. GHISALBERTI, Nuove ricerche sugli inizi del pontificato di Pio

IX e sulla Consulta di Stato, Roma, 1939, p. 31.7

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in quella del moderato Farini5, e nella cronaca degli avvenimenti romani del 1846-1847 fornitaci dal reazionario Giuseppe Spada6.

E' da chiedersi perciò se oggi vi sia ancora spazio per chi volesse riconsiderare la stagione delle riforme fiorita nel primo biennio del regno di Pio IX. L'interrogativo meriterebbe certamente una risposta affermativa, perché ad oggi, un tema sul quale avviare un’ulteriore riflessione sembra proprio quello del riformismo di Pio IX, a patto di inserirlo nella dialettica delle forze politiche con cui ebbe a confrontarsi e da cui fu in un modo o nell’altro condizionato. Non può infatti ignorarsi che ciò che per qualunque altro Stato si sarebbe potuto considerare un modesto lavoro di rifacimento di strutture ormai ossificate acquistava un significato sicuramente diverso se riferito allo Stato della Chiesa e al potere temporale, poiché entrambi da sempre considerati come i presupposti di una società naturalmente perfetta, non bisognosa di alcuna revisione di sorta né di apportare eventuali correzioni sotto le spinte provenienti dall’esterno7.

Bisogna poi tener presente che lo studio delle tematiche incentrate sull’amministrazione della giustizia nello Stato Pontificio ha da sempre comportato grosse difficoltà, soprattutto nel tracciare un quadro uniforme dell’esercizio della giustizia, dovute in particolare alla confusione dei poteri statali ed ecclesiastici e all’incertezza del diritto8.

A questo proposito, in un recente convegno sulla giustizia nello Stato Pontificio in età moderna, si è delineata l’evoluzione e lo stato degli studi su questi argomenti, evidenziando i

5 L. C. FARINI, Lo Stato romano dall’anno 1815 al 1850, Firenze, 1853, vol. I.

6 G. SPADA, Storia della rivoluzione di Roma e della Restaurazione del Governo dal primo giugno 1846 al 15 luglio 1849, Firenze 1868, vol. I.

7 G. MONSAGRATI, Pio IX, Lo Stato della Chiesa e l’avvio delle riforme, in Le riforme del 1847 negli Stati italiani...cit., p. 230.

8 F. BARTOCCINI, Lo Stato pontificio, in Amministrazione della giustizia e poteri di polizia dagli Stati preunitari alla caduta della destra: Atti del 52° Congresso di Storia del Risorgimento italiano (Pescara, 7-10 nov. 1984), Roma, 1986, pp. 373-403.

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progressi realizzati e le questioni rimaste aperte9. In particolare è stato proprio il pontificato di Pio IX, a risultare tra i più inesplorati, forse perché, il fatto stesso che lo Stato pontificio fosse prossimo alla caduta ha fatto sì che le sue istituzioni giudiziarie apparissero legate ormai ad una tradizione destinata ad essere cancellata10.

In realtà, nel corso della ricerca, l' analisi approfondita e la riscoperta di documenti già noti, ma per lungo tempo sottovalutati, ci ha permesso di confrontarci con una dimensione nuova dello Stato Pontificio che, per quanto riguarda il tema oggetto del nostro esame, vale a dire l’amministrazione della giustizia, ha condotto a risultati sorprendenti. Ci siamo trovati di fronte ad una realtà vivacissima, composta da un gran numero di giuristi desiderosi di rinnovare le arcaiche e ingarbugliate strutture del sistema giurisdizionale pontificio, protagonisti di un dibattito giuridico dal quale traspare tutto il fervore per i mutamenti culturali e politici che stavano interessando la maggior parte degli Stati italiani nella seconda metà del diciannovesimo secolo e che meritano di essere riportati alla luce.

Nel raggiungere il nostro intento abbiamo dedicato la prima parte del lavoro a fornire un quadro generale di come era organizzato il sistema giudiziario prima dell’avvento di Pio IX, a partire dalla seconda Restaurazione fino a tutto il pontificato di Gregorio XVI; la seconda parte è stata invece dedicata alla descrizione dei primi interventi di riforma al sistema della giustizia durante gli anni 1846 e 1847 del pontificato e ai lavori della Commissione per la riforma dei codici nominata da Gregorio XVI e confermata da Pio IX, che portò all’elaborazione di un Regolamento organico dell’ordine giudiziario. Nella terza e

9 Gli atti del convegno sono stati raccolti nel volume a cura di M. R. DI SIMONE, La giustizia nello Stato Pontificio in età moderna. Atti del Convegno di studi del Convegno di studi, Roma, 9-10 aprile 2010, Viella, 2011.

10 M.R. DI SIMONE, La giustizia nello Stato pontificio in età moderna, in «Archivio storico del Sannio», Atti del Convegno Taranto, 21-22 maggio 2010, a cura di F. Mastroberti, Napoli, 2011, pp. 37-58.

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ultima parte è stato invece dato ampio spazio alle ulteriori e successive riforme di Pio IX per quanto riguarda il sistema dell’amministrazione della giustizia seguendo l’iter del Regolamento organico, che in poco tempo passò dalle mani della Commissione per la riforma dei codici a quelle dei nuovi organi costituzionali, la Consulta di Stato e il Consiglio di Stato, che redigerà poi il Progetto di Regolamento organico nel Foro laico. Nell’analisi di questo Regolamento, oltre a dar libero spazio alla voce dei Consiglieri, attraverso l’esposizione dei dibattiti a cui parteciparono i membri del Consiglio di Stato, si è dato spazio alla ricostruzione dei temi principali che interessarono la discussione e non sono mancati riferimenti al sistema giudiziario degli atri Stati italiani ed europei, cercando di cogliere le affinità e le differenze nella disciplina giuridica dei vari istituti.

Nell’appendice documentaria, a completamento del lavoro di ricerca, sono infine stati inseriti documenti inediti contenenti le trascrizioni dei dibattiti interni al Consiglio di Stato e conservati nei fondi dell’Archivio di Stato di Roma.

1. Capitolo I – Cenni sull’amministrazione della giustizia nello stato pontificio nel xix secolo –

1.1. Il ritorno di Pio VII a Roma e la seconda Restaurazione

Nello Stato pontificio molti e vari erano i tribunali e le magistrature che con il tempo avevano sovrapposto le proprie competenze le une alle altre a causa soprattutto delle tendenze conservatrici dello Stato ecclesiastico che non riusciva ad intraprendere un’opera di trasformazione che comportasse l’abolizione di antiche magistrature. Conseguenza di questo atteggiamento era una vera e propria stratificazione dei tribunali.

Particolari differenze si avvertivano poi tra il territorio di Roma e Comarca e quello delle Province, dove la situazione di incertezza e confusione del sistema giudiziario era per certi

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aspetti anche peggiore. Quest’ intricata rete di autorità giudiziarie è stata recentemente definita un vero e proprio “groviglio giurisdizionale11”.

Senza addentrarci in un’indagine sull’origine di ciascun tribunale, ci limiteremo a fornire un quadro delle loro attribuzioni e sfere di competenza nel periodo immediatamente precedente a quello che sarà oggetto più approfondito del nostro studio12.

La dominazione francese cambiò radicalmente il quadro istituzionale dello Stato pontificio13. Il triennio repubblicano durato fino al 1799, e la successiva dominazione francese, a partire dal 1809 e fino al 1814, modificarono profondamente le istituzioni costituzionali dello Stato della Chiesa ed incisero in maniera concreta sul vecchio sistema giuridico e amministrativo14. Soprattutto in campo giudiziario,

11 G. SANTONCINI, Il groviglio giurisdizionale dello Stato ecclesiastico prima dell'occupazione francese in «Annali dell'Istituto storico italo germanico in Trento», XX, 1994, p. 63 ss. Della stessa autrice, sulla giustizia nella seconda Restaurazione pontificia si veda G. SANTONCINI, Sovranità e giustizia nella Restaurazione pontificia. La riforma della giustizia criminale nei lavori preparatori del Motu Proprio del 1816, Torino, 1996.

12 Per una letteratura classica sulla storia delle magistrature nello Stato pontificio si vedano le opere di R. MARCHETTI, Notizia delle giurisdizioni che sono in vigore nello Stato pontificio, Roma, 1853; N. DEL RE, La Curia Roma: cenni storico-giuridici, Roma, 1941; J. SPIZZICHINO, Magistrature dello Stato pontificio: 476-1870, Lanciano, 1930; VENTRONE, L’amministrazione dello Stato pontificio dal 1814 al 1870, Roma, 1942. Sui grandi tribunali di antico regime si veda il recente contributo di M. ASCHERI, I grandi tribunali, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti. Il contributo italiano alla storia del pensiero. Ottava appendice, Diritto, a cura di P. Cappellini, P. Costa, M. Fioravanti, B. Sordi, Roma, 2012, pp. 121-128. Sulla giustizia in età moderna nello Stato Pontificio si rimanda a I. FOSI, La giustizia del Papa. Sudditi e tribunali nello Stato pontificio in età moderna, Roma-Bari, 2007. Per un quadro generale sull’amministrazione della giustizia nel XIX secolo E. LODOLINI, L’ordinamento giudiziario civile e penale nello Stato pontificio (sec. XIX), Bologna, 1959; F. BARTOCCINI, Lo Stato pontificio, in Amministrazione della giustizia e poteri di polizia dagli Stati preunitari alla caduta della destra: Atti del 52° Congresso di Storia del Risorgimento italiano (Pescara, 7-10 nov. 1984), Roma, 1986; C. LODOLINI TUPPUTI, Repertorio delle magistrature periferiche dello Stato pontificio (1815, 1870), estratto da Rassegna storica del Risorgimento, Anno XCII, Fasc. III, Lug./Sett. 2005.

13 Per il periodo di dominazione napoleonica nello Stato pontificio si rimanda a P. ALVAZZI DEL FRATE, Le istituzioni giudiziarie negli “Stati romani” nel periodo napoleonico (1808-1814), Roma, 1990, e relativa bibliografia.

14 Sull’amministrazione dipartimentale dello Stato pontificio nel periodo francese si veda P. ALVAZZI DEL FRATE, Sistema amministrativo dipartimentale e Stato pontificio (1798-1816), in «Rivista di Storia del diritto

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l’ordinamento giuridico francese esercitò un’influenza fondamentale, e sia in materia civile che penale, si presentò fortemente innovatore rispetto a quello pontificio15.

Alla caduta del regime napoleonico, nel 1814, Pio VII riprese possesso del Lazio e dell’Umbria16; il 4 maggio di quell’anno, il Pontefice, prima ancora di iniziare il suo viaggio di rientro nella capitale, da Cesena, inviò a Roma come delegato apostolico, monsignor Agostino Rivarola, ben presto nominato presidente della Commissione di Stato, al quale affidò il compito di provvedere alla restaurazione della sovranità pontificia. Nel mentre, altri delegati dipendenti dal delegato in Roma e dalla Commissione prendevano possesso delle varie Province17.

L’ 11 maggio aveva luogo il cambio di governo e alle autorità amministrative e giudiziarie napoletane (Roma si trovava allora sotto l’occupazione militare delle truppe di Gioacchino Murat) subentrava la nuova Commissione18. L’opera restauratrice del governo ecclesiastico poteva finalmente avere inizio.

I primi atti posti in essere dal Rivarola, che apparteneva alla schiera di quei prelati cosiddetti «zelanti»19, rispecchiarono fedelmente le sue tendenze reazionarie e conservatrici; egli italiano», LXIV, 1991, pp. 217-232.

15 P. ALVAZZI DEL FRATE, Riforme giudiziarie e Restaurazione nello Stato pontificio (1814-1817), in Roma tra la restaurazione e l’elezione di Pio IX. Amministrazione, economia, società e cultura, a cura di A.L. BONELLA, A. POMPEO, M. I. VENZO, Roma, 1997, pp. 55-61.

16 Queste erano le cosiddette Province di «prima recupera»; le Marche, le Legazioni e Benevento, vennero restituite solamente nel 1815 e per questo motivo furono dette Province di «seconda recupera» le quali, però, all’atto conclusivo del congresso di Vienna non furono restituite, bensì “donate”, al Papa.

17 Pio VII aveva affidato la provincia di Pesaro Urbino a mons. Luigi Pandolfi, Perugia a mons. Cesare Nembrini, Spoleto a mons. Ludovico Gazzoli, e la provincia di Viterbo a mons. Tiberio Pacca, le Province di Marittima e Campagna vennero affidate a mons. Turozzi, quest’ultimo nominato però dal Rivarola. M. MOSCARINI, op. cit., p. 26

18 La commissione di Stato era composta dai prelati Rusconi, Sanseverino, Pedicini, Barberi, Cristaldi, da don Giacomo Giustiniani, dal Marchese Ercolani e dal conte Parisiani. Notizie sulla commissione in D. CECCHI, L’amministrazione pontificia nella seconda restaurazione (1814-1823), Macerata, 1978, p. 6.

19 Sull’opera del Rivarola si veda D. CECCHI, L’amministrazione pontificia nella 1° Restaurazione, in «Studi e testi della deputazione di storia patria per le Marche», Macerata, 1975, p. 95.

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infatti, con Editto pubblicato il 13 maggio 181420, abolì subito i codici napoleonici ed in generale tutta la legislazione francese, e richiamò in vita la legislazione civile e criminale previgente21, eccezion fatta solamente per il sistema ipotecario e la giurisdizione baronale. Con l’emanazione di questo editto vennero dunque meno, d’un colpo, quella chiarezza, quell’ordine, e quella certezza del diritto che erano stati introdotti dal sistema giuridico francese, e ripresero vigore le oltre 84.000 ordinanze all’interno delle quali anche i più esperti giuristi faticavano ad orientarsi22. Non sorprendono pertanto le critiche riservate dalla storiografia contemporanea a quest’atto, talvolta definito «monumento di cecità e di infamia23», talaltra come un «focoso bando24». Solo recentemente, una spiegazione alla drasticità delle riforme contenute in questo documento, è stata riconosciuta nella brevità delle dominazione napoleonica, le cui innovazioni non avevano trovato il tempo di sedimentarsi negli animi della gente, che per questo motivo aveva guardato con favore al ritorno del Pontefice e al precedente stato di cose25.

D’altra parte il Rivarola aveva eseguito alla perfezione, pur condividendole, le istruzioni che il Pontefice gli aveva impartito, il quale sperava in un ritorno pieno e incondizionato all’antico

20 L’editto è riportato in I. RANIERI, Il Congresso di Vienna e la Santa Sede (1813-1815). Della diplomazia pontificia nel secolo XIX, vol. IV, Roma, 1904, p.659 e in M. MOSCARINI, La Restaurazione pontificia nelle Province di prima recupera, Roma, 1933, App., p. 130.

21 Art. 1, Editto 13 maggio 1814: «Il codice Napoleone civile e di commercio, il codice penale, e di procedura rimangono da questo momento perpetuamente aboliti in tutti i domini della santa sede, senza derogare intanto all’attuale sistema ipotecario che corrisponde all’antica intavolazione. E’ similmente da questo momento richiamata in osservanza l’antica legislazione civile e criminale e l’antica pratica vigente all’epoca della cessazione del Governo pontificio...» in I. RANIERI, op., cit., p. 660.

22A. AQUARONE, La Restaurazione pontificia nello Stato Pontificio ed i suoi indirizzi legislativi, in, «Archivio della Società romana di storia patria», vol. LXXVII, Roma, 1955, p.125.

23 D. SILVAGNI, La Corte e la società romana nei sec. XVIII e XIX, Roma, 1885, vol. II, p. 669.

24 SPADONI, Sette, cospirazioni e cospiratori nello Stato pontificio all’indomani della Restaurazione, p-52

25A. AQUARONE, op., cit., p. 126.13

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regime26. Pio VII era stato lontano troppo a lungo per poter conoscere e comprendere i nuovi bisogni della popolazione; egli desiderava soltanto restituire, forse con eccessiva dose di cecità, tranquillità ai suoi sudditi27.

Sul terreno dell’amministrazione della giustizia, il giorno 14 maggio venne pubblicato un nuovo Editto di disciplina per le cause civili. Con esso venne stabilito che tutte le cause che fino a quel momento erano state di competenza dei giudici di pace, dei tribunali di commercio e dei giudici di prima istanza sarebbero state sottoposte, a Roma, all’esame di uno dei tre giudici ordinari, mentre nel resto dello Stato, ai giusdicenti locali; nuove norme furono emanate anche per quanto riguarda le cause di appello, per le quali sarebbero stati competenti i giudici commissari qualora il valore fosse stato inferiore ai 500 scudi, mentre sarebbe stato competente il Consiglio rotale per quelle di valore superiore ai 500 scudi28.

Con lo stesso Editto vennero ripristinati anche il Tribunale del Vicariato e i tribunali civili delle presidenze camerali, gli antichi uffici della Reverenda Camera Apostolica, il Tribunale di Segnatura e quello dei mercenari29.

Intanto, il 24 maggio Pio VII faceva finalmente rientro nella capitale; la Commissione di Stato non veniva sciolta e presidente di essa rimaneva il Rivarola, mentre, assente il Consalvi, veniva nominato pro-Segretario di Stato il cardinal Bartolomeo Pacca che ripristinò la giurisdizione civile del Tribunale del Camerlengato. Con l’estate del 1814, a poco a poco, venivano ripristinati anche gli antichi tribunali del Buon Governo, del Campidoglio, della Camera Apostolica e della Sacra Consulta, nell’ottica di un ritorno al passato e di ricostruzione delle fondamenta dell’antico edificio giudiziario30.

26 Le istruzioni sono pubblicate in M. MOSCARINI, op. cit., pp. 114-117.27 M. MOSCARINI, op. cit., p. 36.28 D. CECCHI, op., cit., p. 8.29 M. MOSCARINI, op. cit., p. 25. Vedi anche D. CECCHI, op, cit., p. 8 e

note.30 Ibidem, p. 45.

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L’opera riformatrice subì ben presto un’interruzione, in quanto, neanche un anno dopo il suo rientro, Pio VII fu costretto di nuovo alla fuga verso Genova insieme con il cardinal Pacca, sotto la minaccia del Murat che aveva varcato con le sue truppe i confini dello Stato pontificio. Nelle Province erano rimasti a presiedere i rispettivi delegati, mentre a Roma il cardinal Pacca aveva nominato una Giunta di Stato con a capo il Rivarola quale Segretario con voto decisivo31.

Alcune settimane dopo la sconfitta di Murat nella battaglia di Tolentino del 2-3 maggio 1815, Pio VII rientrava in Roma e pochi giorni dopo veniva raggiunto anche dal cardinal Consalvi, il Segretario di Stato che era stato mandato presso le gradi potenze eruopee per sostenere gli interessi della Stato Pontificio.

Il ritorno a Roma del Consalvi dopo la fine del Congresso di Vienna segnò un punto di svolta per la politica legislativa dello Stato pontificio, che poteva finalmente incamminarsi sulla strada delle riforme senza cercare di tornare ad ogni costo all’antico eliminando ogni traccia lasciata dal periodo napoleonico32. Dopo una prima fase caratterizzata da un netto rifiuto per le strutture dell’ordinamento francese a Roma si diffuse la consapevolezza di voler per così dire “salvare” alcuni istituti introdotti nel periodo napoleonico33. Il cardinal Consalvi già durante il suo periodo di permanenza all’estero, e forse proprio in ragione di questo, aveva compreso che un ritorno allo status quo ante non era possibile, che i tempi erano cambiati e che una restaurazione più illuminata avrebbe giovato anche al recupero delle terre perdute34.

La concezione politica del Consalvi dunque, differiva molto dalle posizioni «zelanti» del Rivarola e del Pacca, gli uomini che fino a quel momento avevano tenuto le redini dello Stato

31 D. CECCHI, op., cit., p. 22.32 A. AQUARONE, op., cit., p. 136.33 P. ALVAZZI DEL FRATE, Riforme giudiziarie... cit., p. 57 e nota;34 M. MOSCARINI, op. cit., p. 109.

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pontificio. Per questi motivi, la Restaurazione nelle Province cosiddette di «seconda recupera» (le Marche e le Legazioni, Benevento e Pontecorvo) avvenne in maniera del tutto diversa. Vennero pubblicati due editti rivolti agli abitanti di quei territori, entrambi pubblicati il 5 luglio 1815; con il primo si garantiva ai sudditi l’effettività dell’acquisto di beni ecclesiastici e luoghi pii, e allo stesso tempo veniva garantito il riconoscimento del debito pubblico e si dichiarava la volontà di voler emanare alcuni provvedimenti di sgravio a favore delle popolazioni35; con il secondo editto, invece, si istitutiva un governo provvisorio in quelle Province e si stabiliva un nuovo ordinamento legislativo e amministrativo a cui esse sarebbero state sottoposte. Con quest’ ultimo editto vennero altresì aboliti i codici civile, criminale e di procedura, segnando così, anche nelle Legazioni e nelle Marche la fine del sistema giuridico francese sia pur con importanti eccezioni, quale quella del codice di commercio e dei tribunali commerciali che rimasero in vita; si mantenne inoltre l’abolizione del fedecommesso già sancita dalla legislazione napoleonica e si promise l’emanazione di nuove misure36. Le Province di seconda recupera erano quelle che avevano vissuto il periodo più lungo di dominazione napoleonica e per questo motivo l’influsso dell’esperienza francese era stato più penetrante tanto che a quel punto un ritorno incondizionato allo status quo ante non era possibile, e fu per questo che esse divennero, per forza di cose, quella fucina nella quale sperimentare nuove forme di amministrazione e di riorganizzazione dello Stato.

Questa tendenza trovò la sua conferma legislativa nel moto proprio del 16 luglio 1816 che rappresentò il primo importate tentativo di riformare tutta la struttura interna dello Stato pontificio al fine di raggiungere l’unificazione legislativa e amministrativa dello Stato37. Con esso ebbe inizio il generale

35 D. CECCHI, op., cit., p. 26.36 Ibidem, p. 28.37 A. AQUARONE, op., cit., p. 141.

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processo di codificazione del diritto e di riforma dell’ordinamento giudiziario attraverso la previsione dell’istituzione di apposite commissioni per la redazione dei codici38.

Una delle figure più importanti del periodo consalviano per quanto riguarda la redazione dei codici fu senza dubbio il giurista Vincenzo Bartolucci. Nel 1811 aveva fatto parte del Consiglio di Stato di Parigi e, ancor prima, del Collegio degli avvocati concistoriali, e fu proprio in ragione della sua conoscenza del diritto francese che venne ritenuto il più idoneo a coordinare la codificazione nelle terre della Chiesa39. Chiamato a Roma dallo stesso Consalvi, infatti, fu invitato a collaborare alla stesura prima del moto proprio del 1817 e venne poi nominato presidente della Commissione per la compilazione del codice civile e di procedura civile40.

1.2. L’amministrazione della giustizia nel moto proprio del 1816

Il moto proprio del 1816 trattava dell’organizzazione della giustizia al Titolo II (Organizzazione dei tribunali civili) e al Titolo III (Organizzazione dei tribunali criminali)41.

L’art. 24 del Titolo II stabiliva che il potere giudiziario non era tra le attribuzioni dei deleganti ma dei governatori locali (art. 25) che, nelle materie di loro competenza, giudicavano come giudici di primo grado42.

38 Art. 75 del Moto proprio 6 luglio 1816.39 M. MOMBELLI CASTRACANE, La codificazione civile nello Stato

pontificio : Il Progetto Bartolucci del 1818, Napoli, 1987, p. XXII.40Notizie bibliografiche su Vincenzo Bartolucci in G. FORCHIELLI, Un

progetto di codice civile nello stato pontificio visto da un canonista, in «Scritti della facoltà giuridica di Bologna in onore di Umberto Borsi», Padova, 1955, pp. 13-14; M. MOMBELLI CASTRACANE, La codificazione civile nello Stato pontificio I…cit., pp. XX-XXI. Cfr. anche S. NOTARI, Il Codice Bartolucci del 1817. Tribunali, procedura civile e codificazione del diritto nella Seconda Restaurazione pontificia, in La giustizia nello Stato pontificio…cit., pp. 203 e ss.

41 Moto proprio di Pio VII sull’organizzazione dell’amministrazione pubblica, Roma, 1816, Poggioli Stampatore della RCA.

42 Moto proprio di Pio VII... cit., Governatori, artt. 24-29-17

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L’appello contro i decreti dei governatori doveva essere portato innanzi ai Tribunali di prima Istanza di ogni Delegazione (art. 27); questi tribunali erano composti da cinque giudici più due aggiunti nelle Delegazioni di prima classe, e da tre giudici più un solo aggiunto nelle Delegazioni di seconda e terza classe. Essi giudicavano collegialmente in numero non inferiore a tre e le funzioni di presidente erano svolte dal giudice più anziano mentre quelle di relatore venivano esercitate a turno (artt. 30-31). In tutti quei casi in cui i suddetti tribunali non giudicavano in sede di appello, giudicavano quali giudici di prima istanza, eccezion fatta per le cause riservate alla giurisdizione speciale (art. 33)43.

I Tribunali di Appello veri e propri erano in tutto quattro, eretti uno in Bologna, per le cause riguardanti le Delegazioni di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì; uno in Macerata, per le Delegazioni di Macerata Urbino e Pesaro, Ancona, Fermo, Ascoli e Camerino; due in Roma (Auditor Camerae e Rota), per il resto dello Stato (art. 35).

I Tribunali di Appello di Bologna e Macerata erano composti ciascuno di cinque giudici (il più anziano tra i quali assumeva la carica di presidente) e di due aggiunti, e non potevano giudicare in numero inferiore a cinque (art. 36)44.

Il Tribunale dell’Auditor Camerae era invece composto da tre giudici prelati, col titolo di luogotenenti, e da un quarto giudice che poteva essere anche un togato, con titolo di A. C. Met. (art. 40). Ognuno dei tre luogotenenti poteva giudicare, singolarmente, le cause di valore minore di 825 scudi (in prima istanza), le cause giudicate dai governatori della Comarca e le cause di valore inferiore ai 300 scudi giudicate in prima istanza da uno dei loro colleghi (in seconda istanza) (art.41). Il Tribunale dell’ A. C. giudicava invece collegialmente le cause della Comarca di Roma eccedenti il valore di 825 scudi o di

43 Ibidem, Tribunali di prima istanza, artt. 27-34.44 Ibidem, Tribunali di Appello, artt. 35-38.

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valore indeterminato (in prima istanza) e le cause di valore inferiore agli 825 scudi giudicate sia dai tribunali di prima istanza delle Delegazioni di Perugia, Spoleto, Viterbo, Civitavecchia, Rieti, Frosinone, e Benevento, sia dai singoli luogotenenti (in seconda istanza); infine si pronunciava sui giudicati difformi pronunciati dai governatori in prima istanza e dai singoli luogotenenti in appello e i giudicati difformi dei luogotenenti nelle cause di valore minore di 300 scudi (in terza istanza) (art. 42). Quando il Tribunale dell’A. C. giudicava in sede di appello o di ricorso avverso la sentenza emessa da uno dei luogotenenti era composto dagli altri due componenti e dall’ A.C. Met. (art. 44), quando invece giudicava in terza istanza le sentenze difformi dei luogotenenti era composto dal terzo luogotenente che non aveva prestato giudizio, dall’ A.C. Met. e dallo stesso monsignor Uditore della Camera, il quale però poteva farsi sostituire da un uditore privato o da un altro giudice (art. 45). Quando l’Uditore della Camera interveniva di persona a giudicare nelle cause deferite al tribunale collegiale, allora non interveniva l’A. C. Met., tranne nel caso in cui taluno dei luogotenenti fosse stato legittimamente impedito a presentarsi e fosse stata necessaria la presenza di tre giudici per emettere la sentenza (art. 45)45.

Il Tribunale della Rota era il giudice d’appello per tutte quelle cause di valore maggiore di 825 scudi giudicate dai Tribunali di prima istanza nelle Delegazioni non soggette ai tribunali di appello di Bologna e Macerata, nelle cause maggiori di 300 scudi in caso di difformità dei precedenti giudicati e nelle cause giudicate dagli altri tribunali d’appello, compreso l’A. C., i cui giudicati fossero difformi dai giudicati di prima istanza (art.46)46.

45 Ibidem, Tribunale dell’Auditor Camerae, artt. 39-45.46 Ibidem, Tribunale della Rota, artt. 46-47. Per le cause di valore

minore ai 300 scudi in cui i giudicati degli altri tribunali di prima istanza e quello dall’ A. C. (in veste di tribunale di appello) siano difformi si ricorreva al Cardinal Prefetto della Segnatura il quale deputava una Congregazione di tre Prelati per giudicare definitivamente (art. 46).

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In tutti i giudizi, due sentenze conformi rendevano definitiva la sentenza e formavano il giudicato mentre nel caso in cui le sentenze di primo e secondo grado fossero state difformi era possibile ricorrere in terza istanza ai tribunali di Roma (art. 48).

A Roma, poi, erano conservate la giurisdizione del Tribunale del Campidoglio, nelle forme e nei limiti in cui essa già esisteva (art. 49), e quella del Tribunale di Segnatura (art. 50). Quest’ultimo tribunale era diviso in due turni, ciascuno composto da sei uomini scelti dal cardinal Prefetto ed aveva funzione di annullare gli atti giudiziali, i decreti e le sentenze di tutti i tribunali dello Stato ma nei soli casi di nullità o difetto di citazione, giurisdizione o mandato. Era in facoltà del Tribunale della Segnatura il rimettere la causa o allo steso tribunale o al tribunale dell’A. C. o alla Rota (art.51), al Tribunale di Segnatura erano inoltre affidate anche le questioni di competenza (art. 52). Due giudicati conformi non consentivano in nessun caso il ricorso in Segnatura per la sospensione dell’esecuzione, ma era consentito ricorrere in via devolutiva e di restituzione “in intiero” per ottenere un secondo appello, eccezion fatta per i casi in cui il precedente giudizio di appello fosse avvenuto anch’esso in via devolutiva; in quest’ultimo caso, la possibilità di un secondo appello era accordata solamente nei casi in cui fossero stati scoperti nuovi fatti decisivi per la soluzione del caso o qualora si fosse palesemente contraddetto ad una legge (art. 53)47.

Nulla era innovato per quanto riguarda i Tribunali ecclesiastici, nelle materi di loro competenza (art. 55); tutte le altre giurisdizioni speciali, particolari o eccezionali non espressamente previste dal moto proprio venivano abolite (art. 64).

La nomina dei giudici era riservata direttamente al sovrano (art. 67). Per poter essere nominati giudici di prima istanza nelle

47 Ibidem, Tribunale della Segnatura, artt. 50-54.20

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Delegazioni bisognava aver compiuto venticinque anni, essere laureati e aver fatto pratica per almeno tre anni, bisognava inoltre esser di “onesti natali” e di condotta irreprensibile. Le stesse regole erano prescritte per i giudici supplenti, ad eccezione dei requisiti dell’età (era sufficiente aver compiuto ventun’ anni) e della laurea che, in questo caso, non era obbligatoria (art. 68). Nei tribunali di appello, invece, l’età prescritta per i giudici era di trent’anni, e oltre al possesso della laurea e degli altri requisiti bisognava aver compiuto la pratica per almeno cinque anni; agli aggiunti bastava aver compiuto venticinque anni e non occorreva la laurea (art. 69). Ai giudici, agli attuari, ai cursori, ai balivi e ai loro sostituti era assicurato un onorario fisso da parte del Governo ed era loro vietata la possibilità di ricevere emolumenti ulteriori; gli aggiunti non ricevevano onorario, tranne nei casi di sostituzione dei giudici; ai delegati era affidato il compito di prescrivere le regole necessarie per l’esercizio delle funzioni degli avvocati e dei procuratori (art. 60).

Per quanto riguarda il sistema di giustizia penale48 i governatori locali di primo e secondo ordine erano competenti, nei loro territori, per i delitti minori, vale a dire quelli punibili con pene pecuniarie e afflittive, considerate come equivalenti ad un anno di lavori forzati (art. 76)49.

In ogni Delegazione si erigeva un Tribunale criminale composto di cinque giudici cioè dal delegato, cui appartenevano le funzioni di presidente, due assessori, un giudice appartenente al tribunale civile di prima istanza e uno dei membri della commissione governativa, quest’ultimi due rinnovati ogni anno, in base all’anzianità (art. 77). I medesimi tribunali criminali fungevano anche da tribunali di appello per le cause giudicate dai governatori locali (art. 78); nelle medesime cause, nei capoluoghi di ciascuna Delegazione, la giurisdizione criminale

48 Ibidem, Titolo II, Organizzazione dei Tribunali criminali.49 Ibidem, Governatori, art. 76.

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era esercitata sotto la dipendenza e approvazione del delegato, dall’ assessore che non aveva l’esercizio della giurisdizione nelle cause minori civili (art. 79) mentre, nei delitti per i quali era prevista una pena maggiore di un anno di lavori forzati, la competenza era del tribunale criminale della Delegazione (art. 80).

Se la condanna pronunciata dal tribunale non eccedeva il carcere o i cinque anni di lavori forzati al reo non era concesso richiedere l’appello sospensivo, fuori dai casi in cui almeno uno dei giudici avesse votato per l’assoluzione o per una pena minore. Nel caso in cui la condanna fosse stata pronunciata a pieni voti l’appello era ammesso solamente in devolutivo (art. 81)50. L’appello relativo a queste cause veniva deferito per le Delegazioni di Bologna Ferrara, Ravenna e Forlì al Tribunale di Appello di Bologna; per le Delegazioni di Macerata, Urbino e Pesaro, Ancona, Fermo, Ascoli e Camerino, al Tribunale di Appello di Macerata; per le altre Delegazioni dello Stato alla Sacra Consulta (art. 82). Se la condanna era superiore ai cinque anni di galera o se questa era capitale, l’appello si deferiva ai rispettivi tre tribunali (art. 83)51.

In ogni capoluogo della Delegazione erano presenti due giudici processanti ed un cancelliere, e in ogni Governo di primo e secondo ordine un cancelliere che, insieme con il governatore locale, era obbligato della stesura di tutti i processi ancorché essi rientrassero nella giurisdizione del tribunale della Delegazione.

Il sistema delle sportule veniva vietato in quanto anche nel penale, i giudici, i governatori i cancellieri ecc., ricevevano uno stipendio mensile (art. 85).

Per i delitti commessi nei paesi che appartenevano al territorio della Comarca di Roma, il Tribunale del Governo era giudice di appello delle condanne pronunciate dai governatori

50 Ibidem, Tribunali criminali, artt.77-8151 Ibidem, Tribunali d’Appello, artt. 82-83.

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(art. 86), mentre per i delitti commessi nel territorio della città di Roma erano competenti il Tribunale del Governo, quello dell’A. C., quello del Vicariato e quello del Campidoglio (art. 88).

Nei delitti per contravvenzioni e frodi commesse a danno dell’Erario giudici competenti in prima istanza erano gli assessori del Tesorierato, nelle Province, mentre, a Roma, erano competenti i tribunali criminali del Camerlengato e del Tesorierato, dinanzi ai quali si poteva proporre appello per le condanne pronunciate dagli assessori, ma solamente quando la pena prevista non eccedesse la somma di 150 scudi e non prevedesse una pena afflittiva; nel caso di condanna a pena superiore ai 150 scudi, infatti, competeva l’appello solo in sospensivo (art. 89).

Nulla si innovava nella giurisdizione del Foro ecclesiastico e in quella della Sacra Inquisizione, della Congregazione dei Vescovi e Regolari, del Prefetto dei Sacri Palazzi apostolici, e del Tribunale militare, mentre tutte le altre giurisdizioni criminali di privilegio venivano abolite, con la remissione di tutte le cause pendenti ai tribunali ordinari (art. 91).

Presso ogni tribunale criminale vi era un difensore di ufficio nominato dal Sovrano, ma l’inquisito poteva farsi assistere da un altro difensore purché questi fosse iscritto nel catalogo approvato dal delegato di ciascun capoluogo col consenso della Congregazione governativa (art. 92); in ogni Delegazione vi era inoltre un procuratore fiscale scelto anche questo dal sovrano, mentre a Roma continuava ad esercitare la giurisdizione il procuratore fiscale generale (art. 93).

Ai cancellieri, alle forze armate e a tutti gli uomini deputati all’amministrazione della giustizia penale, le istruzioni erano fornite direttamente dai delegati (art. 94). Fino alla pubblicazione del nuovo codice di procedura criminale si sarebbero applicate in tutto lo Stato le leggi previgenti (art. 95); l’uso della tortura rimaneva abolito in tutto lo Stato, con applicazione, in sostituzione di questa, di un anno di lavori

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forzati (art. 96). Tutte le pene che erano rimesse all’arbitrio dei giudici e dei criminali venivano abolite, qualora riguardassero la possibilità di aggravare una pena già stabilita dalla legge; le altre pene rimesse al completo arbitrio dei giudici non potevano mai superare un anno di lavori forzati; queste norme avrebbero avuto vigenza solamente fino alla pubblicazione del nuovo codice criminale, nel quale sarebbe stata esclusa qualunque pena rimessa all’arbitrio del giudice (art. 98); inoltre era stabilito l’uso della lingua italiana nelle sentenze e l’obbligo di motivazione di quest’ultime (art. 100).

Il moto proprio del 6 luglio 1816 segnò un momento fondamentale nella riforma dell’apparato giudiziario dello Stato pontificio; esso mise in moto un meccanismo di generale semplificazione e chiarificazione delle giurisdizioni, anche attraverso l’affermazione dei principi di pubblicità delle udienze, della motivazione delle sentenze, l’uso della lingua italiana nei processi, l’abolizione della tortura e la soppressione della maggior parte delle giurisdizioni di privilegio, destinato ad avere ripercussioni per tutto il corso dell’Ottocento.52

1.3. Il codice di procedura civile del 1822Nel 1817, con moto proprio del 22 novembre, veniva

pubblicato uno degli atti più importanti del periodo consalviano: il codice di procedura civile53.

Il nuovo codice era composto di 8 libri e 1810 articoli; nel proemio esso richiamava il precedente moto del 1816, il quale veniva considerato il fondamento dell’ “Edificio” di pubblica amministrazione dello Stato, che necessitava, per essere

52 D. CECCHI, op., cit., p. 175.53 Moto proprio della Santità di Nostro Signore Papa Pio VII in data de’

22 novembre 1817 sul nuovo codice di procedura civile esibito negli atti del Nardi Segretario di Camera il dì, anno e mese suddetto, Roma, Presso Vincenzo Poggioli Stampatore della R.C.A.

D. CECCHI, op., cit., p. 206; A. AQUARONE, op., cit., p. 160; Sulla legislazione in questo periodo si vedano anche F. MENESTRINA, Il processo civile nello Stato pontificio, Torino, 1908, pp. 22 ss; V. LA MANTIA, Storia della legislazione italiana, vol. I, Roma e lo Stato Romano, Torino, 1884, pp. 583-585 e 600-601.

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un’opera compiuta, di due operazioni ulteriori: la prima riguardava la redazione di un codice civile che riunisse la frastagliata legislazione, l’altra consisteva nella formazione di un codice diretto a fissare i “metodi di procedura.” A questo scopo pertanto veniva nominata nello stesso moto proprio una Commissione incaricata di formare i progetti di entrambi i codici dando però precedenza al codice di procedura civile.

Il codice di procedura civile dopo l’esame della Congregazione economica veniva sanzionato dal pontefice, che lo emanava con moto proprio del 22 novembre.

Il nuovo codice era improntato in gran parte a quello francese, ma si differenziava dalla legislazione napoleonica soprattutto per il gran numero di tribunali e magistrature che erano stati richiamati in vita dal potere restaurato54.

Della procedura dei tribunali si occupava il Libro IV (artt.780-950). Il primo tribunale ad essere nominato era il Tribunale della Rota (art. 780) al quale si applicavano tutte le norme dettate dal codice di procedura civile che non fossero state in contrasto con quelle contenute nell’art. 47 del moto proprio del 6 luglio 1816. Accanto al Tribunale della Rota vi era il Tribunale dell’A. C., composto dall’uditore della Camera, da tre luogotenenti e da tre assessori; presidente del tribunale era l’uditore della Camera, che poteva farsi sostituire, in caso di assenza da uno dei luogotenenti (art. 783). Tra i compiti dell’uditore vi era quello di regolare con opportuna notificazione il buon andamento del tribunale e la condotta che avrebbero dovuto osservare i cancellieri e i procuratori (art. 784). All’uditore della Camera era inoltre concesso di giudicare nei giudizi economici le cause non superiori ai cinque scudi, sentite in via stragiudiziale le parti (artt. 685-686). Tutti gli atti e le spedizioni, comprese quelle del tribunale collegiale erano firmate a nome dell’Uditore della Camera (art. 788). I prelati luogotenenti giudicavano sempre collegialmente e in prima

54 Supra.25

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istanza le cause superiori agli 825 scudi, ed in appello quelle giudicate singolarmente il cui valore non eccedesse i 300 scudi; agli assessori competeva il giudizio, singolarmente, in primo grado, di tutte le cause di volare non maggiore di 825 scudi e in appello, in quelle giudicate in prima istanza da uno dei loro colleghi fino al valore di 300 scudi e quelle giudicate dai governatori della Comarca (art. 789). Da ultimo, agli assessori competeva di giudicare tutte le cause che nelle Delegazioni erano di competenza di governatori e assessori (art. 790)55.

Anche la giurisdizione del Tribunale del Campidoglio veniva conservata per i cittadini abitanti di Roma e laici (art. 815); questo tribunale era composto, in prima istanza, da tre giudici, cioè, dal Senatore, e dal primo e secondo collaterale (art. 817). I giudici in prima istanza giudicavano singolarmente le cause di volare non superiori agli 825 scudi, collegialmente le altre; essi erano altresì competenti a giudicare le cause, cumulativamente con i luogotenenti dell’A.C. che nelle Delegazioni erano di competenza dei governatori ed assessori (art. 818). In seconda istanza i giudici del Tribunale del Campidoglio giudicavano singolarmente le cause non eccedenti la somma di 200 scudi, e collegialmente le cause superiori a detta somma (artt. 819-820); essi giudicavano collegialmente anche le cause eccedenti la somma di 300 scudi e quelle di valore non superiore alla somma di 825 scudi (art. 821). In terza istanza essi giudicavano collegialmente nel caso di difformità dei giudicati pronunciati singolarmente nelle cause non eccedenti il valore di 300 scudi (art. 822). Il tribunale del Campidoglio giudicava anche “in figura di Segnatura”, nelle cause di appello, e di restituito in integrum, in base a quanto stabilito dall’art. 53 del moto proprio del 6 luglio 1816 (art. 823).

Le cause superiori alla somma di 825 scudi venivano deferite in grado di appello al Tribunale della Rota, come pure

55 Moto proprio della Santità di Nostro Signore Papa Pio VII in data dè 22 novembre 1817... cit., Tribunale dell’Auditor Camerae, artt.

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quelle maggiori di 300 scudi e non superiori agli 825 scudi (artt. 828-829). In caso di difformità di due giudizi quelle inferiori ai 300 scudi erano deferite in appello al tribunale collegiale composto dall’altro giudice che non aveva prestato giudizio e da due aggiunti indicati dal Senatore; nei restanti giudizi, sia quelli singoli che collegiali, e sia in primo grado che in appello dovevano essere osservate le stesse regola valide per il tribunale dell’A. C. (artt.830-831)56.

Il Tribunale della Camera aveva invece giurisdizione in tutte le cause in cui la Camera stessa poteva avere un interesse (art. 834). Nelle Delegazioni queste cause erano giudicate dagli assessori camerali quando il loro valore non superava i 200 scudi (art. 835). A Roma il Tribunale della Camera era formato da due giudici singoli (monsignor uditore del Camerlengato e l’uditore di monsignor Tesoriere), da un tribunale collegiale e dalla piena Camera (artt. 386-387). I due giudici singoli giudicavano in prima istanza tutte le cause di Roma e della Comarca non eccedenti il valore di 825 scudi (art.838); essi appartenevano anche al tribunale collegiale camerale, di cui faceva parte anche monsignor presidente della Camera (art. 839). Quest’ultimo tribunale giudicava in prima istanza tutte le cause di Roma e della Comarca superiori agli 825 scudi (art. 840) e giudicava tutte le cause, in tutte le Delegazioni dello Stato, eccedenti la somma di duecento scudi (art. 841). In appello questo tribunale giudicava le cause giudicate in prima istanza dagli assessori camerali (art. 842), e le cause giudicate in prima istanza da monsignor uditore del camerlengato o dall’Uditore di monsignor tesoriere, purché non eccedessero il valore di 300 scudi; esso era formato da dodici chierici di camera e dal Presidente (il quale però non aveva voto decisivo) ed era diviso in due turni (art. 845). Esso giudicava sia in appello, nel merito, che come tribunale di Segnatura, in quest’ultimo caso giudicava in sede di appello, sia in sospensivo

56 Ibidem, Tribunale del Campidoglio, artt. 27

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che in devolutivo, tutte le cause sommarie ed esecutive superiori ai duecento scudi e le questioni di competenza; in sede di appello giudicava anche le cause giudicate in prima istanza da monsignor uditore del Camerlengato (o dall’uditore di monsignor tesoriere) superiori ai 200 scudi; giudicava, infine, sempre in appello, tutte le cause giudicate in prima istanza dal tribunale collegiale e giudicava in sede di “ulteriore appellazione” tutte le cause in cui il giudizio del tribunale collegiale fosse diverso da quello dell’assessore o dei due giudici singoli (artt. 846-850)57.

Il tribunale dell’Annona di Roma esercitava la giurisdizione nelle cause civili di Roma e provincia (art. 865), nelle materie di sua competenza, concernenti prevalentemente le contrattazioni sul grano e gli altri cereali e i loro mezzi di trasporto e di vendita. Monsignor prefetto dell’annona giudicava in prima istanza le questioni che insorgevano a Roma, nella Comarca e nelle Province annonarie, nei soli casi in cui le suddette questioni avessero oltrepassato il valore di cento scudi, queste venivano giudicate in prima istanza dai governatori e dagli assessori come delegati del tribunale dell’annona (art. 866). L’appello nei confronti delle sentenze pronunciate da monsignor prefetto si deferiva o al tribunale collegiale camerale o a quello della Camera, secondo le rispettive competenze; per i giudicati dei governatori e degli assessori si ricorreva in appello a monsignor prefetto. In caso di difformità tra due giudizi nelle cause definite in prima istanza dai governatori ed assessori, l’ulteriore appello si deferiva al tribunale collegiale camerale. Norme particolari erano poi dettate per quanto riguarda la citazione del convenuto al fine di procedere con la massima celerità nelle cause riguardanti materie annonarie (artt.870-873).

Il Tribunale del Buon Governo, nelle materie contenziose era formato da monsignor Segretario, dall’eminentissimo

57 Ibidem, Tribunale della Camera, artt.28

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cardinal prefetto e dalla piena generale congregazione; a questo tribunale apparteneva, secondo le rispettive attribuzioni, la definizione di tutte quelle cause enunciate nella Costituzione Gravissimarum di Benedetto XIV, e la cognizione di tutte le cause, e tutte le cause che riguardavano le amministrazioni aggiunte a patto che non intervenisse in giudizio l’amministrazione stessa bensì gli esattori, appaltatori ecc.; il Tribunale del Buon Governo aveva inoltre giurisdizione nelle cause ai beni ex-comunitativi (artt. 910-911). Governatori e assessori, come delegati della congregazione, potevano giudicare in prima istanza tutte le cause rientranti nei limiti della propria competenza (art. 912), le loro sentenze potevano essere appellate dinanzi al Segretario della Congregazione, e in caso di difformità di giudicati poteva proporsi ulteriore appello alla piena Congregazione (artt. 913-914). Le cause che non erano di competenza dei governatori e degli assessori, perché esorbitanti la loro giurisdizione, in prima istanza venivano giudicate dal Segretario di Consulta, e in appello dalla piena congregazione. Nel caso in cui eccedessero il valore di 200 scudi, venivano giudicate in appello da uno dei prelati ponenti e in caso di difformità di giudicati, la causa veniva portata innanzi la piena Congregazione (artt. 915-917)58.

Il Tribunale dell’Agricoltura era composto da quattro consoli e dall’assessore, con voto decisivo. Questo tribunale giudicava su tutte le questioni riguardanti le materie agrarie, le questioni relative agli animali addetti alla coltivazione dei campi, le persone impiegate nei fondi (salve le attribuzioni del giudice dei mercenari), i danni dati, le questioni riguardanti i tagli delle macchie e quelle riguardanti il trasporto dei raccolti (artt. 931-932). La procedura seguita era la stessa valida per il Tribunale dell’A. C., in caso di parità dei voti dovuta a mancanza di uno dei membri del tribunale, o nel caso di discordanza di opinioni, i consoli potevano nominare nuovi membri scelti tra

58 Ibidem, Tribunale del Buon Governo.29

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persone aventi requisiti necessari per ricevere la nomina a console (artt. 933-934). I decreti provvisionali non comportanti una condanna potevano essere appellati anche in devolutivo, qualora invece essi fossero stati di condanna, la sospensione dell’esecuzione poteva domandarsi solamente attraverso una citazione in urgenza dinanzi all’uditore della Segnatura (artt. 935-936). Nelle cause di danno dato doveva procedersi in via sommaria, mentre, per i giudicati dei consoli, l’appello veniva proposto dinanzi al Tribunale dell’A. C. o della Rota, in base a quanto previsto dall’art. 64 del moto proprio 6 luglio 1816 (artt. 937-938)59.

Il Giudice dei mercenari giudicava in prima istanza tutte le cause di Roma e Comarca riguardanti le merci campestri, le caparre, i prestiti concessi per lavori di campagna tanto tra agricoltori e caporali, quanto tra caporali e loro subalterni (art. 939). Nelle cause non superiori ai 10 scudi si procedeva senza bisogno di citazione formale, ma attraverso un biglietto firmato dall’attore e presentato al reo indicante l’udienza di comparizione. Nelle cause superiori a detta somma ma non eccedenti il valore di 100 scudi si procedeva con le regole stabiliti per i giudizi innanzi ai governatori e assessori ai sensi degli artt. 162 e 168 del moto proprio. Nelle cause che superavano il valore di 100 scudi si procedeva con le regole stabilite nei giudizi sommari ed esecutivi dinnanzi ai giudici singoli dell’A.C., ma senza la necessità della costituzione dei procuratori e dell’iscrizione della causa a ruolo (artt. 944-945). Le cause di valore non superiore ai dieci scudi non potevano essere appellate, quelle fino a 50 scudi potevano essere appellate solo in devolutivo, mentre le cause superiori a detta somma potevano essere appellati attraverso le regole stabilite per i giudizi sommari ed esecutivi (artt. 947-948)60.

59 Ibidem, Tribunale dell’Agricoltura.60 Ibidem, Giudice dei mercenari.

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Il Supremo Tribunale della Segnatura era formato dal cardinal prefetto, dall’uditore e da dodici prelati ponenti che venivano scelti dalle parti in causa oppure dal giudice; il prefetto giudicava in grado di ricorso per mezzo di un suo particolare uditore le sentenze del tribunale (artt. 1025-1027). Il tribunale era diviso in due turni, e nel caso in cui uno dei due turni fosse stato impossibilitato ad emettere la sentenza sarebbe stato il cardinal prefetto a dare il suo voto, altrimenti la questione veniva portata dinanzi al tribunale a turni riuniti (artt. 1117 e 1119)61.

Questo codice è stato giudicato positivamente dalla storiografia, che ha sottolineato come mentre gli altri Stati di quel periodo credevano di poter continuare a governare con i vecchi sistemi da Roma partiva un messaggio nuovo, e la giurisprudenza trovava la saggezza necessaria per «non insistere su ciò che doveva tramontare62»

1.4. Ulteriori riforme al sistema giudiziario tra attuazione e inattuazione dei codici

Il 27 gennaio 1818 venne pubblicato un Regolamento di disciplina per i tribunali civili suddiviso in cinque paragrafi riguardanti la disciplina dei giudici, procuratori ed avvocati, cancellieri, registri di cancelleria e cursori.

Per quanto riguarda la restante parte della preannunciata codificazione, l’intero programma di riforme non poté vedere la luce, e la maggior parte dei codici promessi si arrestò allo stadio di “progetto”.

Di particolare importanza fu il codice civile del 1818 messo a punto dalla commissione Bartolucci63; esso era quasi ultimato e i primi cinque libri furono anche inviati alla Congregazione

61 Ibidem, Tribunale della Segnatura.62«... una legge che portava il nome di Napoleone, ebbe in Pio VII –

vecchio nemico e prigioniero del Bonaparte – un giudice sereno che ne riconobbe i pregi indiscutibili.» F. MENESTRINA, Il processo civile nello Stato pontificio, in Regolamento giudiziario per gli affari civili di Gregorio Papa XVI, Testi e documenti per la storia del processo, X, a cura di N. PICARDI, A. GIULIANI, Milano, 2004, p. 28.

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Economica per l’esame64, ma in quella sede il progetto di codice venne ampiamente contestato, soprattutto dalla corrente dei cosiddetti “zelanti” generalmente ostili a qualsiasi riforma che potesse compromettere la stabilità della Chiesa, per i quali, per la riforma della legislazione civile nello Stato pontificio sarebbe stato opportuno far ricorso, seguendo la tradizione, alle Costituzioni Apostoliche65.

La prima accusa mossa dalla Congregazione economica al Codice fu quella di essere un plagio del codice civile francese in quanto redatto da un giurista (il Bartolucci, per l’appunto) che aveva collaborato con Napoleone nella legislazione civile66. Ma il nodo centrale della questione era, in realtà quello di voler riconoscere al diritto civile totale autonomia rispetto alla giurisdizione ecclesiastica67. Il progetto fu ugualmente portato a compimento tra il novembre del 1819 e il marzo del 1820 e regolarmente consegnato alla Congregazione cardinalizia, ma

63 Il progetto di codice civile è in M. MOMBELLI CASTRACANE, La codificazione civile nello Stato pontificio I...cit., in Appendice; copia del progetto anche in ASR, Commissione per la riforma dei codici legislativi, b. 1., fasc. 6. Il codice risulta così suddiviso: Disposizioni generali (artt. 1-32); Libro I, Dello Stato civile delle persone e dei diritti ed obbligazioni delle medesime nei rapporti di famiglia (artt. 33-249); Libro II, Delle persone costituite sotto la tutela e cura (artt. 250-243); Libro III, Della distinzione delle cose e del dominio e possesso delle medesime (artt. 436-553); Libro IV, Dei testamenti (artt. 554-794); Libro V, Delle successioni legittime (artt. 795-875).

64 Membri della Congregazione economica erano i cardinali Lorenzo Litta Visconti Arese, Bartolomeo Pacca, Luigi Ercolani, Cesare Guerrieri Gonzaga, Giulio Maria della Somaglia, Ruffo, Giuseppe Albani e lo stesso Consalvi. Cfr. M. MOMBELLI CASTRACANE, La codificazione civile nello Stato pontificio I...cit., p. XXIV.

65 Ibidem, p. XXV.66 G. FORCHIELLI, op. cit., pp. 17-18.67 «La Chiesa era stata la madre del diritto canonico. Ora essa avrebbe

dovuto generare un nuovo diritto, un diritto diverso dal canonico, e cioè un diritto cosiddetto civile. Chi avrebbe dovuto fecondare questa madre in una sua seconda gestazione? La prima gestazione aveva dato un prodotto endogeno dopo molti secoli di vita; solo influenze esterne, quasi sempre di forme, psicologiche e logiche, avevano potuto essere valide. Ora invece la fecondazione poteva soltanto venire dal di fuori; sarebbe stata esogena. Il parto dunque poteva nascere mostruoso; inoltre, come da un diritto sostanzialmente universalistico sarebbe potuto germinare un diritto particolaristico?» G. FORCHIELLI, op. cit., pp. 18-28.

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non riuscì mai, a causa dei continui ostacoli, ad entrare in vigore68.

Neanche il codice penale, nonostante fosse giunto fino alla discussione in seno alla Congregazione economica entrò mai in vigore.

Il sistema penale era rimasto a lungo immobile e solamente nel 1800, con l’avvento della prima Restaurazione, si ebbero i primi interventi riformatori in questa materia con la costituzione detta Post Diurnitas69.

Nel 1816 vi fu un progetto di codice penale «combinato col già codice italiano e francese», comprendente le «Disposizioni preliminari» ed un Libro I70. Il progetto venne elaborato dalla Commissione del 1816 deputata alla materia penalistica71, esso era costituito da un complesso nozioni preliminari e da un Libro I, suddiviso in dieci titoli; l’esiguità del materiale rinvenuto non ha consentito agli studiosi un’analisi approfondita, ma va per certo che né questo progetto né gli altri che seguirono riuscirono ad ottenere l’approvazione sovrana e ad entrare in vigore72.

68 La vicenda è chiarita in M. MOMBELLI CASTRACANE, La codificazione civile nello Stato pontificio I...cit., p. XXIV.

69 Su questa costituzione si vedano M. MOMBELLI CASTRACANE, Dalla Post Diurnitas del 30 ottobre 1800 al Moto Proprio del 6 luglio 1816:percorsi legislativi tra la prima e la seconda Restaurazione, in «Le carte e la storia», III, 1997, p. 148 e ss.; M. DA PASSANO, I tentativi di codificazione penale nello Stato pontificio (1800-1823), in “I regolamenti penali di Papa Gregorio XVI per lo Stato pontificio (1832)”, Casi, Fonti e Studi per il Diritto penale, serie II, vol. XVI, Padova, 2000, pp. CXLIV-CLXXXIII.

70 M. MOMBELLI CASTRACANE in Fonti e metodologia per uno studio sulle riforme del sistema penale pontificio nel XIX secolo, in «Nuovi annali della scuola speciale per archivisti e bibliotecari», VII, Firenze, 1993, pp. 198-200.

71 Membri di questa commissione erano Monsignor Giovanni Barbieri (presidente), Vincenzo Amici, Belisario Cristaldi, Carlo Mauri, Vincenzo Trambusti e Vincenzo Bartolucci e Pietro Mitterpoch (Segretario)Cfr. M. DA PASSANO, op. cit., p. CLI.

72 Un altro “Progetto di codice criminale” è stato rinvenuto nel fondo Commissioni. Si tratta di un progetto che sebbene parziale, fu comunque abbastanza consistente composto di577 articoli e suddiviso in due parti, la prima titolata «Dei delitti e delle pene in genere», la seconda «Dei delitti in specie e delle loro punizioni» privo di data ma il cui contenuto e sistematica ha indotto gli studiosi a ritenere che esso possa essere ricondotto ai lavori della Commissione del 1816. Si sono occupati di questo progetto M. MOMBELLI CASTRACANE, Fonti e metodologia...cit. pp. 200.201; M. DA PASSANO, op. cit., pp. CLII-CLXI.

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Per quanto riguarda il codice di commercio, abbiamo detto che l’editto del Consalvi del 5 luglio 1815 aveva mantenuto in vita, nelle Province di seconda recupera il codice e i tribunali commerciali del Regno italico, ma le differenze legislative tra le Province rischiava di compromettere la regolarità dei traffici commerciali. Per queste ragioni iniziarono i lavori per la preparazione di un codice di commercio, che ebbe tra i suoi principali compilatori, oltre al Bartolucci, Giuseppe Baraglia e Francesco Brancadori73. Nel 1821 si giunse alla pubblicazione di un Editto del Segretario di Stato e di un Regolamento provvisorio di commercio74. L’Editto si limitava ad estendere, alle Province di prima recupera, quanto stabilito nelle Province di seconda recupera con Editto del 5 luglio 1815, in attesa della pubblicazione di un nuovo codice di commercio; il regolamento provvisorio invece conteneva norme di carattere tecnico e norme di carattere generale.

Per la parte commerciale non si andò oltre l’Editto e il Regolamento provvisorio di commercio, che tuttavia riuscirono nell’intento di unificare la legislazione commerciale. Degli altri codici promessi da Pio VII nel moto proprio del 1816 soltanto quello di procedura civile vide la luce sicché, anche se una certa unità amministrativa venne raggiunta, sostanzialmente immutate rimasero le strutture politiche e giuridiche.

D’altra parte le riforme poste in essere da Pio VII non costituirono nemmeno un punto di partenza, in quanto anche se l’intelaiatura giuridico - amministrativa costruita da Pio VII e dal Consalvi rimase fondamentalmente immutata nel corso dei decenni successivi, con l’ascesa al soglio pontificio di Leone XII si apriva una fase nuova, contraddistinta dall’arresto di qualsivoglia azione riformatrice e dall’inizio di un processo involutivo rispetto ai risultati raggiunti.75

73 Riferimenti archivistici sul codice di commercio in D. CECCHI, op. cit., pp. 255 e ss.

74 Ibidem.75 A. AQUARONE, op., cit., pp. 187-188.

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1.5. Leone XII e il moto proprio del 24 ottobre 1824Con la morte di Pio VII anche il Consalvi usciva di scena e si

apriva per lo Stato pontificio una fase nuova, caratterizzata da una forte reazione alla politica moderata che era stata protratta fino a quel momento con il conseguente ritorno a pratiche e costumi propri dell’antico regime76. Il 10 ottobre 1823 venne consacrato papa il marchigiano Annibale Della Genga, con il nome di Leone XII77.

Leone XII apparteneva alla schiera dei cardinali zelanti ed era fortemente convinto di poter rafforzare le basi temporali e spirituali della Chiesa attraverso la condanna delle innovazioni introdotte nello Stato dai suoi predecessori.

La legislazione di questo periodo fu rivolta soprattutto ad annullare le conseguenze di quella consalviana. Espressione di questo spirito conservatore fu soprattutto il moto proprio del 24 ottobre 182, contenente norme sull’amministrazione della giustizia e sulle tasse giudiziarie78. Il moto proprio interveniva anche sull’assetto territoriale dello Stato, in particolare riducendo le Delegazioni da diciassette a tredici (attraverso la loro riunione), e modificando la composizione dei consigli comunali79.

La riforma più importante introdotta dal moto proprio fu comunque quella giudiziaria. Leone XII aveva infatti nominato una nuova commissione con il compito di riformare il codice di procedura civile del 181780. Con il moto proprio del 5 ottobre

76 A. AQUARONE, op., cit., p. 164.77 Su Leone XII si veda A. F. DE MONTOR, Storia del Pontefice Leone

XII, ed. it.. Milano, 1843.78 Moto proprio della Santità di N.S. Leone XII in data 5 ottobre 1824

sulla riforma dell’amministrazione pubblica della procedura civile e delle tasse dei giudizi, Roma, Poggioli stampatore, 1824.

79 Sulle riforme al sistema amministrativo si veda A. AQUARONE, op., cit., pp. 173-174.

80 Componenti della nuova commissione erano il card. Fabrizio Turriozzi, in qualità di presidente, i monsignori Vincenzo Tiberi e Giovanni Marco y Catalan Uditori di Rota, Antonio Domenico, Segretario del concilio, Teodoro Fusconi, avvocato concistoriale, Francesco Isola, Primo collaterale di Campidoglio, Filippo Baffi, Carlo Serafini e Francesco Franci procuratori di Collegio, Fabrizio Gasparri, Uditore civile del Tesorierato. Cfr. M.

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1824, dunque, si aggiornarono le disposizioni del codice di procedura civile del 1817 e si dettarono nuove norme per la riorganizzazione della pubblica amministrazione e per la disciplina delle spese di giustizia, in particolare e delle tasse sui giudizi.

La disciplina dei tribunali civili era stabilita dal Titolo II del moto proprio, mentre quella dei tribunali penali nel Titolo III.

Le differenze più importanti con il moto proprio del 6 luglio 1816 riguardavano la parte civile; in generale, come per la parte amministrativa, anche per la parte giudiziaria le riforme furono di tipo restrittivo81; l’art. 25 stabilì l’abolizione di tutti i tribunali collegiali di prima istanza, con la sostituzione, in ogni capoluogo di un giudice singolare, detto Pretore, incaricato di risolvere le controversie civili in tutte le cause di valore superiore ai trecento scudi. Nelle Delegazioni riunite, oltre il pretore del capoluogo vi era anche un altro pretore nelle città o capoluogo in cui risiedeva il Luogotenente, con la giurisdizione estesa a tutto la Delegazione riunita.

L’art. 37 restringeva il numero dei tribunali di appello da tre a due (la Sacra Consulta e il Tribunale di Bologna) abolendo definitivamente il Tribunale di Appello di Macerata. Veniva sottratto un giudice al Tribunale di Bologna, che risultava così composto da sei giudici, ed era stabilito che i giudici di quel tribunale giudicassero singolarmente, in seconda o ulteriore istanza, le cause fino a 825 scudi giudicate in prima istanza da pretori, dagli ordinari e vicari generali nelle materie laiche e tra laici delle quattro Delegazioni. In tutte le altre cause di valore

MOMBELLI CASTRACANE, La codificazione civile nello Stato pontificio I...cit., p. XXVII.

81 A questo proposito, ad esempio, il numero delle Congregazioni governative. L’art. 8 stabiliva che «Presso ogni Legato o Delegato vi sarà una Congregazione governativa composta dal Gonfaloniere e di due anziani del capoluogo.

Nelle Delegazioni riunite la Congregazione sarà una sola e risiederà ove risiede il delegato.

Questa Congregazione si adunerà presso il Legato o Delegato ordinariamente due volte la settimana, nei giorni che dai medesimi verranno stabiliti, e straordinariamente tutte le volte che ve ne sarà il bisogno».

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superiore agli 825 scudi, invece, i giudici giudicavano collegialmente e in numero non inferiore a cinque82. Il presidente del tribunale, vale a dire il più anziano tra i giudici, votava soltanto nei casi di infermità o legittimo impedimento o ricusazione di uno dei giudici, ma interveniva sempre all’udienza per vigilare sul buon ordine del tribunale.

Alcune modifiche interessarono anche il sistema dei tribunali penali, l’art. 81 sottraeva ai tribunali di prima istanza il giudice della congregazione governativa, la quale era stata a sua volta ridotta di numero; veniva inoltre stabilito che nelle Delegazioni riunite il Tribunale criminale fosse uno solo per ambedue le Delegazioni e risiedesse ove risiedeva il delegato.

Un’altra importante novità riguardava le curie ecclesiastiche; venne ampliata la loro sfera di competenze, in quanto l’art. 26 stabilì che queste, insieme con i loro vicari generali, potessero giudicare, con il consenso delle parti, nelle loro Diocesi, le cause civili tra meri laici83.

Da ultimo, nelle cause civili, venne ristabilito l’uso della lingua latina (art. 102). Venivano in compenso aboliti il tribunale dell’Annona e quello dell’Agricoltura, e le cause di loro competenza trasferite ai giudici ordinari84.

Oltre a ciò la critica storica sull’operato d Leone XII è stata influenzata negativamente anche per i provvedimenti restrittivi intrapresi nei confronti degli ebrei e per la dura repressione intrapresa nei confronti dei moti liberali, soprattutto a seguito dei comportamenti adottati dal cardinal Rivarola, che inviato nelle Legazione in qualità di legato a latere instaurò in quelle terre un regime di polizia ed attuò lo stato di assedio85.

82 Si ampliavano in questo modo i casi di giudizio singolare in appello. Cfr. A. AQUARONE, op., cit., p. 174.

83 Vedi L. GALEOTTI, Della Sovranità e del Governo temporale dei papi, Capalgo - Losanna, 1847, pp. 104-107.

84 «Si attuava così una prima, necessaria semplificazione nell’intricata selva delle numerose giurisdizioni speciali che erano state conservate in vita anche dal codice di procedura del 1817». A. AQUARONE, op., cit.

85 Su questo argomento si veda M. PERLINI, I processi penali del Rivarola, Mantova,1910.

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1.6. Il pontificato di Gregorio XIVDopo il breve pontificato di Pio VIII nel 1831 fu fatto papa

Bartolomeo Alberto Cappellari (Gregorio XVI86). Il nuovo Papa assunse la guida della Chiesa in un momento

in cui la rivoluzione francese del 1830 aveva provocato in Europa un’esplosione di liberalismo che rischiava di mettere in crisi ovunque i regimi politici e le concezioni tradizionali87. Anche le Province della Santa Sede si stavano sollevando contro il governo: già durante il periodo di sede vacante era stato sventato nella Capitale un colpo di stato ad opera di un gruppo di cospiratori e a febbraio i moti si erano già estesi a Bologna e alle Legazioni88.

Il nuovo sovrano, di nobilissime doti, le quali da sole erano però insufficienti a reggere uno Stato come quello Papale, in un primo momento tentò di domare la situazione con i suoi soli mezzi, ma poi fu costretto ad invocare il soccorso straniero. Fu solamente grazie all’intervento dell’esercito austriaco che si riuscì a ristabilire l’ordine nelle Province dello Stato89, ma il prezzo da pagare sarebbe stato quello di accettare l’ingerenza austriaca negli affari interni dello Stato pontificio. I recenti avvenimenti avevano infatti mostrato l’ostilità di vasti strati della popolazione e la necessità di provvedimenti che eliminassero il malcontento dell’opinione pubblica; era inoltre necessaria l’adozione di misure che rendessero più efficienti nella loro azione gli organi di governo e che ponessero un freno

86 Su Gregorio XIV si vedano, tra gli altri, F. FABI-MONTANARI, Notizie istoriche di Gregorio XVI P.M. di santa memoria, Roma, 1846; B. GAMBERALE, Gli inizi del pontificato di Gregorio XVI. La conferenza diplomatica e Roma, in Rassegna storica del Risorgimento, 1927; E. VERCESI, Tre pontificati, Leone XII, Pio VIII, Gregorio XVI, Torino, 1936; Gregorio XVI - Miscellanea Commemorativa, in Miscellanea Historiae Pontificiae, voll. XIII-XIV. Roma, 1948.

87 Per una ricostruzione storica degli eventi Cfr. L’elezione di Gregorio XVI e la crisi dello Stato pontificio, in Storia della Chiesa, vol. XX/2, Torino, 1975.

88 A. M. GHISALBERTI, Uomini e cose del Risorgimento, Roma, 1936.89 A. M. GHISALBERTI, Gregorio XVI e il Risorgimento italiano, in

Gregorio XVI. Miscellanea commemorativa, Roma, 1946 pp. 123-134.38

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efficace al diffondersi della propaganda rivoluzionaria90 L’ ingerenza austriaca suscitò ben presto gelosie diplomatiche soprattutto da parte della Francia; fu proprio dal governo francese allora che partì un’iniziativa diplomatica consistente nel raduno di una conferenza che avesse come oggetto la normalizzazione politica nei domini pontifici e le riforme da introdurre nell’amministrazione. A Roma il 13 aprile 1831 fu convocata una conferenza con la quale le potenze europee cercarono di suggerire al governo della Chiesa le riforme necessarie per rendere più solido il governo e per evitare nuove sommosse. La conferenza si concluse con un Memorandum attraverso il quale Austria, Prussia, Francia, Sardegna e Inghilterra, dettarono allo Stato pontificio le nuove regole alle quali l’azione di governo si sarebbe dovuto attenere91.

Il Memorandum costituiva insomma un vero e proprio atto di sfiducia nei confronti del governo romano e di affermazione di una sorta di protettorato su di esso92, esso conteneva importanti indicazioni riguardanti il sistema amministrativo, giudiziario e finanziario93. L’art. III del Memorandum richiamava esplicitamente il moto proprio del 1816, sottolineando che il metodo più sicuro per migliorare il sistema giudiziario era quello di attenersi alle premesse e ai principi indicati nello stesso moto proprio.

Tuttavia lo Stato e le autorità pontificie non riuscivano ad attuare le riforme richieste, e questo spinse il Metternich a presentare un nuovo piano di riforme per lo Stato pontificio, inviando per lo scopo a Roma, in forma riservata, un funzionario austriaco competente nel settore amministrativo, il Sebregondi, con il compito di coadiuvare l’attività del governo pontificio nella realizzazione delle riforme.

90 N. NADA, Metternich e le riforme dello Stato pontificio. La missione Sebregondi a Roma, Torino, 1957, p. 6.

91 M. R. DI SIMONE, Istituzioni e fonti normative in Italia dall’antico regime all’unità, Torino, 1995.

92 CARAVALE CARACCIOLO, op. cit., p. 633.93 Il testo del Memorandum è in L. C. FARINI, Lo Stato romano

dall’anno 1815 al 1850...cit., p. 51 e ss.39

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Nonostante Gregorio XVI non fosse animato da una volontà riformatrice paragonabile a quella di Pio VII, egli riuscì dove il suo predecessore aveva fallito; il neo eletto Pontefice era ormai «costretto» ad imboccare la strada delle riforme sotto la pressione degli eventi politici del tempo; egli si rese conto che se non avesse provveduto al più presto con opportune riforme normative, gli effetti della crisi politico istituzionale sarebbero stati irreparabili. In quest’ottica si può affermare che la codificazione fu dunque «imposta» al Pontefice, come unica arma per garantire nuova stabilità al governo94.

La legislazione promossa da Gregorio XVI fu dunque molto intensa e si concretò in provvedimenti multiformi e di grande importanza per lo Stato, i quali ebbero ad oggetto i più svariati campi del diritto95.

Nell’ambito della legislazione civile e penale si arrivò così nel giro di pochi anni alla promulgazione prima di un Regolamento di procedura nei giudizi civili del 31 ottobre 1831 (in gran parte confluito nel Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili del 10 novembre 1834), poco dopo ad un Regolamento organico e di procedura criminale del 5 novembre 1831 e l’anno successivo ad un Regolamento sui delitti e sulle pene del 20 settembre 183296.

Noi ci soffermeremo in particolare sul Regolamento organico e di procedura criminale e il Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili, nei quali è più ampiamente trattata l’amministrazione della giustizia.

94 L. FIORAVANTI, Il Regolamento penale Gregoriano, in I codici preunitari e il codice Zanardelli, Studi coordinati da S. VINCIGUERRA, Padova, 1999, vol. 7, serie III, pp. 273-296.

95 P. CIPRIOTTI, Cenni sulla legislazione di Gregorio XVI, in Gregorio XVI, Miscellanea commemorativa... cit., vol. I, pp. 114-121; In ead. P. DALLA TORRE, L’opera riformatrice ed amministrativa di Gregorio XVI, pp. 29-121.

96 Sul perché vennero definiti “Regolamenti” e non “Codici” si veda S. VINCIGUERRA, Un esperienza di codificazione fra emergenza politica e suggestioni del passato: i Regolamenti penali gregoriani, in I Regolamenti penali di Papa Gregorio XVI per lo Stato pontificio (1832), raccolti da S. VINCIGUERRA, vol. 16, serie III, Padova, 2000, pp. IX-XXIII.

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1.7. Il Regolamento organico e di procedura criminale del 1831

Compilato fra il maggio e l’ottobre del 1831, il regolamento di procedura venne emanato il 5 novembre dello stesso dal cardinal Bernetti nel nome di papa Gregorio XVI, ed entrò in vigore il primo gennaio 183297.

Esso si componeva di 749 articoli e il Libro I era dedicato alla disciplina dei giudici e dei tribunali criminali e alla loro competenza e giurisdizione.

Per quanto riguarda il riparto di competenze queste differivano a seconda che la giurisdizione fosse esercitata a nelle Province oppure a Roma e nella Comarca.

Nelle Province la giustizia penale, in primo grado e per i delitti minori, era amministrata dai governatori e dagli assessori, mentre nei capoluoghi di Delegazione dai giusdicenti criminali destinati a farne le veci. Per i delitti maggiori invece, il giudizio (inappellabile, tranne che nei casi di condanna a pena capitale) era affidato ai tribunali residenti nei capo-luoghi; questi stessi tribunali erano competenti in secondo grado per tutte le cause giudicate in prima istanza dai governatori, assessori o giusdicenti, erano inoltre competenti a giudicare come tribunali di revisione i conflitti di competenza nascenti tra due o più governatori della stessa provincia, compresi gli assessori o i giusdicenti del capoluogo (artt. 26-30)98.

I Tribunali di appello criminali erano i medesimi tribunali di Bologna e Macerata competenti per le cause civili. In sede penale essi erano competenti come giudici di seconda istanza solamente nelle sentenze di condanna alla pena capitale pronunciate dai tribunali dei capo-luoghi. Nella maggior parte

97 Per un commento a questo regolamento si veda P. PITTARO, La struttura del processo criminale gregoriano, in I Regolamenti penali gregoriani, in I Regolamenti penali di Papa Gregorio XVI...cit., pp. LXXII-LXXXIX, il quale evidenzia che: «se i commenti organici al codice penale sono ben scarsi, affatto sparuti sono quelli relativi al Regolamento processuale, potendo anzi ridursi al secondo volume dell’opera di Giuseppe Giuliani.»

98 Regolamento organico e di procedura criminale...cit., Titolo I, Dei Giudici e Tribunali Criminali e la loro competenza o giurisdizione, artt. 26-30.

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dei casi quindi si aveva un solo grado di giurisdizione e senza possibilità di appello. I tribunali di appello agivano anche in veste di tribunali di revisione nelle questioni di competenza fra due o più governatori, assessori o giusdicenti dipendenti da diversi tribunali delle Province; nelle questioni di competenza tra due o più tribunali di provincia dipendenti dallo stesso tribunale d’appello; nelle questioni di competenza tra giudici o tribunali civili, e giudici o tribunali criminali, nelle domande di remissione dal criminale al civile o viceversa, quelle di sospensione del giudizio civile o criminale fino all’esito dell’uno o dell’altro qualora i giudici o i tribunali civili o criminali siano soggetti alla giurisdizione del medesimo tribunale di appello; sulle istanze del condannato per l’annullamento delle sentenze proferite dai tribunali di provincia per violazione di forme sostanziali o per falsa applicazione della legge penale o per eccesso di potere (art. 31).

A Roma e nella Comarca i governatori avevano la stessa giurisdizione dei governatori e degli assessori nelle Province99.

Per il resto, nella città di Roma vi erano i tre grandi tribunali penali dell’Auditor Camerae, del Senatore di Roma (o del Campidoglio) e del Governo.

Il Tribunale del Governatore di Roma giudicava, in secondo grado, tutte la cause di competenza dei governatori ed assessori, ed era competente, come tribunale di revisione, per tutte le controversie e le istanze che ai sensi dell’art. 30 dovevano conoscersi e giudicarsi dai Tribunali residenti nei capo-luoghi delle Province.

Nelle cause concernenti i delitti di qualunque specie, sia maggiori che minori commessi nella città di Roma, era competente lo stesso Tribunale del Governo cumulativamente con il Tribunale dell’A. C. e con quello del Senatore, ossia del Campidoglio. I capi o i presidenti di questi tribunali delegavano

99 Ibidem, Titolo II, Dei Giudici e Tribunali Criminali in Roma e sua Comarca, artt. 33-45.

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uno dei loro luogotenenti quando si trattava di giudicare cause minori.

L’appello e la revisione per le cause decise dai luogotenenti delegati era domandato alla Congregazione del rispettivo tribunale, vale a dire al tribunale in sede collegiale (art. 36).

La Congregazione del Tribunale del Governo era composta da monsignor Governatore di Roma, che ne era capo e presidente, da due prelati assessori e da uno tra i tre luogotenenti che non aveva avuto parte nella formazione del processo (art. 38).

La Congregazione dell’A. C. era composta da monsignor Uditore della Camera apostolica, in qualità di capo e presidente, due prelati assessori criminali e dal luogotenente criminale (art. 39).

La Congregazione criminale del Tribunale del Senatore era composta dal Senatore di Roma, capo e presidente del tribunale, da due togati collaterali e dal luogotenente criminale (art. 40).

Nel Regolamento erano contemplati poi alcuni tribunali cosiddetti “privilegiati” presenti nella capitale. Vi era infatti il Tribunale dei Sacri Palazzi apostolici, che esercitava la sua giurisdizione nei delitti commessi da tutti gli addetti ai Palazzi del Papa, ecclesiastici o secolari, commessi all’interno dei palazzi o al di fuori della città di Roma; la giurisdizione si estendeva inoltre a tutti gli abitanti di Castel Gandolfo, il cui Governatore, nelle cause minori, aveva le stesse facoltà dei Governatori delle Province. Monsignor Maggiordomo, presidente del tribunale delegava le funzioni all’Uditore criminale nelle cause minori. Le cause riguardanti delitti maggiori, commessi dagli abitanti di Castel Gandolfo o dagli addetti ai palazzi di Roma erano giudicate dalla Congregazione del Prefetto dei Sacri Palazzi apostolici, che si componeva di monsignor Maggiordomo, del suo Uditore civile, del suo Uditore criminale e di un avvocato della curia romana (artt. 37 e 41).

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Tribunale Supremo della Sacra Consulta per il ramo criminale era composto da monsignor Segretario della Sacra Consulta, cui spettava la presidenza, e da dodici prelati ponenti. Si divideva in due turni il primo, presieduto da monsignor Segretario, il secondo dal prelato più anziano con il titolo di Decano e ciascuno dei due turni era competente a giudicare in seconda istanza tutte le cause giudicate dai tribunali di Roma e dai tribunali delle Province o Delegazioni di Perugia, Rieti, Viterbo, Orvieto, Civitavecchia, Frosinone, Benevento, con sentenze che condannavano alla pena capitale.

In sede di revisione, il suddetto tribunale era competente a giudicare le questioni di competenza, di remissione, o di sospensione relative ai giudici a ai tribunali di Roma e delle Province, salvo quanto disposto dall’art. 19 relativamente ai Giudici e ai Tribunali ecclesiastici, per i quali era competente il Tribunale della Segnatura apostolica

Come tribunale Supremo esso era altresì competente a giudicare tutte le cause relative a delitti contemplati dal titolo X del libro VII del Regolamento, ossia i reati di lesa maestà, cospirazione, sedizione e attentati alla pubblica sicurezza e le questioni di competenza tra due o più tribunali criminali residenti nelle Province di tutto lo Stato che non dipendevano da un medesimo tribunale di appello. Inoltre aveva giurisdizione in tutte le questioni di competenza tra due o più tribunali di appello; nelle questioni di competenza tra giudici o tribunali civili, e giudici o tribunali criminali; nelle domande di remissione o di sospensione contemplate all’art. 32 n. 3, quando i giudici o i tribunali erano soggetti a diversi tribunali di appello; nelle istanze del condannato proferite in secondo grado dai tribunali di appello e dall’altro dei due turni della sacra Consulta che riguardavano le condanne a pene capitali (artt.42-45).

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Da ultimo, per i delitti per contravvenzioni di frodi a danno dell’erario vigeva una disciplina differente per le cause di Roma e quelle delle Province100.

Nelle Province, per questo tipo di cause, se la pena non oltrepassava la somma di duecento scudi, compreso il valore delle cose cadute in commissum e la multa, oppure un anno di carcere, erano competenti i governatori, assessori e giusdicenti nei capoluoghi di Legazione.

A Roma invece le medesime cause venivano giudicate cumulativamente dai luogotenenti del cardinal Camerlengo e dal Tesoriere generale.

Se la pena pecuniaria o afflittiva era maggiore le cause erano decise dalla Congregazione criminale del cardinale Camerlengo cumulativamente con quella del Tesoriere generale. La congregazione del Tribunale del Camerlengo era composta dal cardinal Camerlengo presidente, di un prelato chierico di Camera di nomina sovrana, dal prelato uditore del Camerlengato e dal luogotenente criminale; la congregazione del Tribunale del Tesorierato generale era composta dal tesoriere generale presidente, da un prelato chierico di Camera, da monsignor commissario generale della Camera e dal luogotenente criminale (art. 50).

Le sentenze dei governatori, assessori o giusdicenti, nei capoluoghi di Legazione, e quelle dei luogotenenti del cardinale camerlengo e del tesoriere generale potevano appellarsi in sospensivo all’una o all’atra congregazione (artt. 46-48).

1.8. Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili del 1834

Il Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili era composto di 1806 paragrafi ed era diviso in tre parti, la prima dedicata, seppur in modo frammentario, alla legislazione

100 Ibidem, Titolo III, Dei Giudici e Tribunali nelle cause di Contravvenzioni o di Frodi, artt. 46-50.

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civile sostanziale, la seconda riguardante la disciplina dell’ordinamento giudiziario e la terza relativa alla disciplina della procedura civile101.

Il programma di Pio VII traspariva in maniera evidente dal preambolo, contenente la massima, di matrice illuminista e già presente nel moto proprio del 1817 secondo la quale «ottime quelle leggi le quali attribuiscono ai giudici il minimo arbitrio senza violentare la loro coscienza; ed ottimi i giudici i quali attribuiscono il minimo possibile arbitrio a loro stessi102».

La lettura del Regolamento gregoriano offre molti spunti di riflessione, soprattutto per quanto riguarda la parte generale, del tutto assente nei precedenti “codici” e per il processo di semplificazione delle strutture giudiziarie che sembra timidamente intraprendere103.

In linea con la nostra ricerca ci soffermeremo in particolare sul Titolo II del Regolamento relativo alla distribuzione dei tribunali (paragrafi 267-394), tralasciando l’analisi della parte sostanziale e procedurale104.

Il Regolamento legislativo e giudiziario al Titolo II distingueva l’amministrazione della giustizia a seconda che questa fosse esercitata nel Foro laico ovvero nel Foro ecclesiastico.

La giustizia civile nel Foro laico era amministrata dai governatori, dai Tribunali civili, dai Tribunali di commercio, dai Tribunali di appello, dal Tribunale del Senatore di Roma, dal Tribunale dell’A. C., dal Tribunale della Sacra Rota, dal

101 Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili del 10 novembre 1834, in Raccolta di leggi e disposizioni di pubblica amministrazione... cit.

102 Ibidem, Proemio.103 Cfr. Regolamento giudiziario per gli affari civili di Gregorio Papa XVI

1834, Testi e documenti per la Storia del processo, a cura di N. PICARDI, A. GIULIANI, II sez.: Codici degli Stati preunitari, Milano 2004, Prefazione, pp. IX-XXX.

104 Uno degli studi più importanti del Regolamento gregoriano del 1834 resta quello di F. MENESTRINA, Il processo civile nello Stato pontificio, pub. In Riv. It. Per le scienze giuridiche, 1907, pp. 147-210, e ristampato in il Regolamento giudiziario per gli affari civili di Gregorio Papa XVI... cit. pp. 2-94.

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Tribunale della piena Camera, dal Tribunale supremo di Segnatura. Nelle cause di competenza del Foro ecclesiastico, la giustizia veniva amministrata dai Tribunali Vescovili, Arcivescovili, e Metropolitani, dal Tribunale del Vicariato di Roma, dal Tribunale dell’A. C. e dalla rispettiva Congregazione prelatizia; dai Tribunali di “misto foro”, ossia di nuovo il Tribunale della Sacra Rota e il Tribunale supremo di Segnatura. Per questi tribunali valevano le medesime leggi di procedura proprie dei tribunali laici.

Tutte le altre magistrature venivano espressamente abolite dal Regolamento (artt.274-275). Allo stesso modo venivano dichiarati aboliti tutti i giudici particolari o privativi e veniva ripristinato l’uso della lingua italiana negli atti giudiziali e nelle sentenze, ad eccezione dei Tribunali della Segnatura, della Rota e della Piena Camera, nei quali si conservava l’uso della lingua latina. Si richiamava inoltre l’obbligo di motivazione delle sentenze e la nomina sovrana di tutti i giudici, ufficiali, impiegati e addetti all’ordine giudiziario (artt. 281-283)105.

Giudici e tribunali nel Foro laico

Nei capoluoghi delle Legazioni di Ravenna, Forlì, Bologna e Ferrara colui che esercitava le funzioni giudiziarie singolarmente veniva detto giusdicente, nelle Delegazioni assessore legale, nei Governi governatore (artt. 283-284)106.

I governatori, gli assessori e i giusdicenti decidevano in prima istanza le cause di valore non superiore ai duecento scudi purché queste non fossero state di natura ipotecaria e non riguardassero divisioni, rendimento dei conti, cittadini stranieri, assenti o materie commerciali e ad alcune questioni relative agli affari del pubblico erario. Erano inoltre competenti, a prescindere dal valore, per le cause relative a provvigioni

105 Regolamento legislativo e giudiziario... cit., Titolo I, Disposizioni preliminari, artt. 267- 283.

106 Ibidem, Tiolo II, sez. I, Dei governatori, artt. 284-288.47

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alimentari, stipendi dovuti ad operai giornalieri, ai domestici e alle persone di servizio, per le cause di “danno dato” nei rispettivi territori e per le cause di “momentaneo e sommarissimo possessorio” (artt. 285-287)107.

Nei comune dove non vi erano tribunali di commercio i giudici singoli giudicavano tutte le controversie nascenti dalla esecuzione dei contratti “in tempo di fiera o mercato” osservando le leggi e le consuetudini mercantili. La stessa giurisdizione era esercitata dai governatori, assessori o giusdicenti, anche nei comuni ove risiedevano tribunali civili che facevano le veci dei tribunali di commercio (art. 288).

I Tribunali civili erano istituiti uno in ogni capoluogo di provincia. Nei capoluoghi delle quattro Legazioni di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna erano composti di un presidente, un vice presidente, quattro giudici e quattro supplenti ed erano divisi in due turni, ciascuno composto di tre giudici, compresi il presidente e il vicepresidente; i tribunali che risiedevano negli altri luoghi erano composti di un presidente e due giudici (artt. 289-290).

Questi tribunali decidevano in prima istanza le cause maggiori di duecento scudi, o di valore indeterminato, le cause di qualunque somma che riguardavano l’interesse dei comuni e delle Province, le cause che riguardavano l’interesse dell’Erario, le cause di qualunque somma relative alla liberazione dei fondi dai vincoli e dalle ipoteche, le cause di azioni ipotecarie di graduatoria o di concorso universale e particolare, le cause riguardanti giudizi di divisioni e di rendimento dei conti, le cause concernenti le successioni (nei casi determinati dalle leggi di procedura, le cause riguardanti i giudizi contro stranieri o assenti dello Stato pontificio (art. 293).

107 Quando la competenza dei governatori o degli altri giusdicenti non fosse stata certa, sia per ragioni di materia che di valore, era competente il tribunale civile Ibidem, § 431.

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Come giudici di secondo grado i Tribunali civili giudicavano tutte le cause decise in primo grado dai giudici singoli108.

I Tribunali di commercio erano sette tribunali in tutto lo Stato, situati nelle città di Bologna, Ferrara, Rimini, Pesaro, Ancona, Foligno, e Civitavecchia; a questi si aggiungeva il Tribunale di Commercio di Roma che continua ad essere disciplinato dall’ Editto dell’8 luglio 1831. I Tribunali di commercio erano tribunali eccezionali, la loro giurisdizione si estendeva a tutte le cause ad essi esplicitamente attribuite dall’art. 601 del Libro IV del Regolamento commerciale, ancorché la competenza non eccedesse il valore di duecento scudi, ed erano competenti per tutte le obbligazioni e contrattazioni nascenti tra negozianti, mercanti e banchieri nonché per ogni altra controversia relativa agli atti di commercio stipulati tra le altre persone109.

108 Regolamento legislativo e giudiziario... cit., Tit. II, Sez. II, Dei tribunali civili, artt. 289-293.

109 Regolamento di commercio del primo giugno 1821 già in vigore nelle Province delle Romagne, delle Marche e dell’Umbria, rist., Bologna, 1864. Al successivo § 602 si stabilisce che per “atti di commercio” debbano intendersi : «...qualunque compra di derrate e mercanzie per rivenderle, sia in natura, sia dopo averle lavorate e poste in opera, ed anche per locarne semplicemente l’uso; ogni impresa di manifattura di commissione, di trasporto per terra o per acqua; ogni impresa di somministrazioni, di agenzie istituite a comodo pubblico, di stabilimenti, di vendite all’incanto, di spettacoli pubblici; ogni operazione di cambio, di banca e senseria: ogni operazione di banche pubbliche; tutte le obbligazioni tra negozianti, mercadanti e banchieri; le lettere di cambio, o rimesse di denaro fatte di piazza in piazza tra ogni sorta di persone. La legge reputa parimenti atti di commercio ogni impresa di costruzione, ogni compra, vendita o rivendita di bastimenti per la navigazione interna ed esterna; ogni spedizione marittima ogni compra e vendita di attrezzi, arredi e vettovaglie; ogni noleggio e imprestito a cambio marittimo; ogni associazione o altro controllo riguardante il commercio di mare; ogni accordi e convenzione, o altro contratto riguardante il commercio di mare; ogni accordo o convenzione per salari e stipendi di equipaggio. Ogni arrolamento di gente e di mare pel servigio dei bastimenti di commercio.»

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Ai Tribunali di commercio era inoltre attribuita la competenza relativa alle azioni contro agenti, commessi dei mercanti o loro subalterni per i traffici effettuati dal mercante dal quale essi dipendevano; oggetto della loro giurisdizione erano inoltre i biglietti emessi da ricevitori, pagatori, percettori, e da coloro che maneggiavano denaro pubblico, i depositi, il bilancio e i registri del commerciante dichiarato in stato di fallimento, il riconoscimento e alla verifica dei crediti, le opposizioni al concordato, quando le ragioni dell’opponente fossero fondate su atti ed operazioni la cui cognizione era attribuita dalla legge ai giudici dei tribunali di commercio, l’omologazione del trattato tra il fallito e i suoi creditori.

Le cause pendenti innanzi ai tribunali di commercio che non riguardavano espressamente le persone e gli oggetti contemplati dalla legge dovevano essere rimesse, anche d’ufficio, al giudice o tribunale competente.

Nel caso in cui la competenza del tribunale fosse stata dubbia, per ragioni di materia o di valore, anche in questo caso, come per i giudici singoli, doveva ritenersi competente il tribunale civile.

I Tribunali di commercio erano composti da un presidente giureconsulto e quattro giudici commercianti, che in caso di impedimento erano sostituiti da i commercianti più anziani dell’albo della camera di commercio eccezion fatta per il tribunale di Senigallia (operante solamente in tempo di fiera) che era presieduto dal governatore della città, e per il Tribunale di Roma composto (in base a quanto stabilito dall’editto dell’8 luglio 1831) da un giureconsulto e da due commercianti che lo presiedevano a vicenda anno per anno.

La giurisdizione dei tribunali di commercio si estendeva a tutta la provincia o distretto dipendente dalla città in cui essi erano stabiliti. Nelle Province o distretti in cui non erano presenti tribunali di commercio le loro funzioni erano rimesse ai tribunali civili i quali, nell’esercizio delle loro funzioni, si

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attenevano alle leggi e ai regolamenti vigenti in materia commerciale110.

I Tribunali di Appello erano due in tutto lo Stato, uno a Bologna, comprendente le Province di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna, e l’altro a Macerata, comprendente le Province di Macerata, Urbino, Pesaro, Ancona, Fermo, Ascoli e Camerino. Entrambi erano composti da un presidente, un vice-presidente, sei giudici e quattro supplenti. Questi tribunali, generalmente, erano giudici di secondo grado per tutte le controversie giudicate in prima istanza dai tribunali civili, ma potevano anche essere giudici di terzo grado per le cause giudicate, con sentenze difformi, in primo grado dai governatori, assessori e altri giusdicenti, e in secondo grado dai tribunali civili.

Il Tribunale di Bologna era anche competente per tutte le cause, di qualunque valore, giudicate in prima istanza dai tribunali di commercio delle quattro Province che gli erano soggette mentre, le cause commerciali rientrati nella giurisdizione del Tribunale di Appello di Macerata, venivano giudicate da quell’unico Tribunale di Appello per le cause commerciali istituito ad Ancona nel 1830 dal Pontefice Pio VIII.

Da ultimo i tribunali di appello erano competenti per le cause giudicate con sentenze difformi in primo grado dai governatori, assessori e altri giusdicenti e in secondo grado dai tribunali civili111.

Il Tribunale del Senatore, detto anche del Campidoglio, esercitava la propria giurisdizione cumulativamente con il Tribunale dell’A. C. nelle cause tra o contro meri laici della città di Roma e dell’agro romano. Questo tribunale era composto dal Senatore di Roma, che aveva il titolo di presidente, dai due collaterali, dall’Uditore pro-tempore del Senatore, dal giudice dei mercenari e da un giudice aggiunto. I due collaterali e l’uditore del Senatore esercitavano la stessa giurisdizione

110 Regolamento legislativo e giudiziario... cit., Tit. II, sez. III, artt. 294-300.

111 Ibidem, Sez. IV, Dei tribunali di appello, artt. 301-304.51

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attribuita ai governatori; il giudice dei mercenari era competente per le cause di Roma e dell’agro romano non maggiori di duecento scudi concernenti i prodotti agricoli, le caparre, le anticipazioni o prestazioni date per cause di lavori di campagna. I due collaterali e l’uditore del Senatore formavano un tribunale collegiale per conoscere e giudicare in primo grado le cause maggiori di duecento scudi e quelle attribuite ai tribunali civili dal § 291, n. 3, e in grado di appello le cause giudicate da ciascuno di essi e dal giudice dei mercenari112.

Il Tribunale della Sacra Rota era composto da dodici prelati con il nome di Uditori di Rota, questi dovevano necessariamente appartenere a diverse Province dello Stato e ad altri Regni. Ogni membro estero veniva nominato dal Papa, chiamato a scegliere tra tre persone abili indicate dai rispettivi sovrani o senati e ciascun Uditore di Rota era assistito, nell’esercizio delle sue funzioni, da un avvocato e da due o più segretari.

Il Tribunale della Sacra Rota aveva competenza in secondo e in terzo grado di giurisdizione. Le cause ad esso affidate si distinguevano in cause maggiori e cause minori. Le prime erano quelle che oltrepassano il valore di cinquecento scudi romani o che non avevano un valore determinato, le seconde erano tutte le altre.

Come giudice di secondo grado la Sacra Rota decideva tutte le cause pronunciate in prima istanza da un tribunale civile o commerciale di Roma, Perugia, Foligno, Spoleto, Rieti, Viterbo, Orvieto, Civitavecchia, Velletri, Frosinone, e Benevento. Come giudice di terzo ed ultimo grado, decideva invece le cause giudicate in secondo grado dal turno rotale con sentenza difforme da quella pronunciata in prima istanza e le cause, sia maggiori che minori, giudicate con sentenze difformi in primo grado dai tribunali civili e commerciali delle Province comprese nella giurisdizione dei Tribunali di appello di Bologna e di Macerata e in secondo grado dagli stessi tribunali di appello di

112 Ibidem, Sez. V, Del tribunale del Senatore di Roma, artt. 305-311.52

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Bologna e Macerata. Sempre in secondo grado di giurisdizione la Sacra Rota giudicava le cause minori decise con sentenze difformi, in prima istanza, da uno dei due turni del Tribunale civile di Roma e in seconda istanza dall’altro turno; e le cause decise con sentenze difformi in primo grado dai tribunali civili di tutto lo Stato e in secondo grado dal Tribunale della Piena Camera.

Infine Il Tribunale della Sacra Rota, giudicava, in qualità di Tribunale Supremo in prima ed ultima istanza, le cause sul valore dei rescritti o chirografi pontifici rimesse con la clausola de operatione oris e in grado di “restituzione in intiero” le cause decise con sentenza passata in giudicato dai giudici e tribunali di Roma e delle Province, sia singolarmente che collegialmente.

Tutte le cause sia le maggiori che le minori erano decise in base a turni composti sempre da cinque giudici, ossia dal prelato ponente, che era il relatore, e dai quattro Uditori che sedevano alla sua sinistra. L’attore aveva la possibilità di scegliere il prelato ponente (coram quo) e di conseguenza il turno che avrebbe deciso la causa.

In un primo momento il prelato era semplicemente il giudice che riferiva la causa e non gli erano concesse facoltà di voto. Ciò comportava a volte dei problemi, quando i quattro giudici votanti si trovavano in situazione di parità. In questa ipotesi era infatti necessario proporre nuovamente la causa dinanzi ai giudici (iterum proponatur) e nel caso di ulteriore parità si aggiungeva un quinto ed un sesto prelato, procedendo verso sinistra. Qualora neanche questo fosse bastato a raggiungere una maggioranza di voti, attraverso il rescritto videant omnes, l’intero uditorio era chiamato a decidere113.

Il Tribunale della Sacra Rota poteva anche operare in qualità di organo di giurisdizione straordinaria, in base a una delega sovrana, nelle cause sul valore dei rescritti pontifici, e

113 R. MARCHETTI, Notizia delle giurisdizioni... cit., p. 2653

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nelle cause dei paesi esteri, quando erano portate innanzi alla suddetta corte114.

Il Tribunale Supremo di Segnatura era composto da un cardinale Prefetto, sette prelati votanti, un prelato uditore del tribunale e da un togato uditore della prefettura, nonché da prelati referendari, i quali riferivano le petizioni e le istanze dei ricorrenti ed esprimevano il loro voto per fini meramente consultivi. Tutti i giudici e i tribunali dello Stato, compresi quello della Sacra Rota e della Piena Camera, erano soggetti a questo tribunale. Esso giudicava le cause in nome e in vece del Sommo Pontefice e le sue competenze si estendevano alle domande di annullamento e circoscrizione degli atti giudiziali e delle sentenze; alle questioni di competenza tra giudici e tribunali; alle questioni sulla unione e sulla avocazione delle cause; le questioni relative alla ricusazione dei giudici per legittimo sospetto; alle domande di nuovo appello, pienamente devolutivo, in grado di restituzione in intiero.

Anche le cause che si proponevano dinanzi a questo tribunale si distinguevano in maggiori e minori. Erano maggiori quelle che oltrepassano il valore di duecento scudi, o di valore indeterminato, erano minori tutte le altre.

Le cause maggiori erano decise dall’ Adunanza plenaria del tribunale; la medesima procedura era prescritta anche per le cause minori qualora si fossero riferite a domande relative alla ricusazione dei giudici o ad una richiesta di nuovo appello, ad affari del pubblico Erario, ad affari dei comuni e delle Province.

Il prelato Uditore della Segnatura esercitava le funzioni di Segretario e dunque interveniva alle adunanze e teneva il registro dei rescritti, cioè delle risoluzioni. Egli era competente ad esercitare anche funzioni giurisdizionali nel decidere le cause minori non ricomprese tra quelle che per legge dovevano essere decise dall’intero tribunale, nel destinare la proposizione delle cause dinanzi al tribunale, nel rendere esecutivi i rescritti, nel

114 Ibidem, Sez. VII, Della Sacra Rota, artt. 321-327.54

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tassare e liquidare le spese, danni ed interessi in sequela dei rescritti resi esecutivi, nel conoscere e giudicare le controversie circa la liquidazione, qualora la somma liquidata non superasse i duecento scudi115.

Giudici e tribunali del foro ecclesiastico

Tribunali Vescovili, Arcivescovili e Metropolitani. I Vescovi, gli Arcivescovi e per essi i loro Vicari generali erano, in ciascuna Diocesi, giudici ordinari di prima istanza sia per ragioni di materia che di persona, e la loro competenza non era limitata a nessuna somma o valore. Essi giudicavano anche le altre cause fra laici, qualora fosse stata loro volontariamente rimessa la vertenza.

Gli Arcivescovi e i giudici metropolitani erano anche giudici di seconda istanza in tutte le cause giudicate in primo grado dai Vescovi suffraganei della loro provincia, tuttavia la parte soccombente poteva anche decidere di appellarsi direttamente alla Santa Sede, ossia ai tribunali di Roma116.

Il Tribunale del Vicariato di Roma era composto dal cardinale vicario di Roma e del suo distretto, da un prelato vice-gerente, da un prelato luogotenente civile. Ciascuno dei due prelati giudicava, anche per mezzo del suo privato uditore, in prima istanza le cause di Roma e del suo distretto che nelle diocesi erano di competenza dei vescovi e dei vicari generali e le cause tra meri laici, o promosse da ecclesiastici contro meri laici, che non eccedevano il valore di 25 scudi. Al cardinal vicario di Roma era invece riservata una giurisdizione di secondo grado (che egli esercitava per mezzo del suo uditore privato) per tutte le cause non maggiori di cinquecento scudi giudicate in primo grado dai due prelati vice-gerente e luogotenente. Inoltre il cardinal Vicario giudicava, sempre in

115 Ibidem, Sez. IX, Del tribunale supremo di Segnatura, artt. 335-345.116 Ibidem, Tit. III, Dei giudici e tribunali per le cause appartenenti al

foro ecclesiastico, Sez. I, Degli ordinarii e dei Metropolitani, artt. 358-363.55

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seconda istanza, tutte le cause che non oltrepassavano il valore di cinquecento scudi e che in prima istanza erano state giudicate dal giudice deputato per le cause ecclesiastiche.

Gli uditori privati del cardinal Vicario e dei prelati vice-gerente e luogotenente erano competenti per tutte le cause fino alla sentenza che decideva nel merito. Questa doveva però essere sottoscritta dal cardinal Vicario o da uno dei due prelati, previo il visto dell’Uditore che aveva esaminato la causa.

Il Tribunale del Vicariato aveva inoltre giurisdizione per le cause che riguardavano gli alimenti, per le cause non commerciali degli ebrei e dei neofiti e per le altre cause al medesimo riservate dalle Costituzioni Apostoliche117.

Il Tribunale dell’Auditor Camerae per le cause ecclesiastiche era composto dal prelato Uditore della Camera, da due assessori togati e un giudice uditore (che ne facevano le veci), e dalla Congregazione civile formata dai soli prelati luogotenenti.

Il prelato Uditore della Camera era competente a giudicare, in primo grado, le cause attribuite ai prelati luogotenente e vice-gerente del Vicariato, cumulativamente con essi e le controversie sulla esecuzione delle bolle o lettere apostoliche, con particolar riguardo a quelle in cui mancava l’espressa nomina di un esecutore.

In seconda istanza era invece competente a conoscere tutte le cause non maggiori di cinquecento scudi decise in prima istanza dai prelati vice-gerente e luogotenente civile del cardinal vicario e dai tribunali vescovili dello Stato.

In secondo grado di giurisdizione era competente a giudicare tutte le cause non maggiori di cinquecento scudi decise in prima istanza dai prelati vice gerente e luogotenente civile del cardinal vicario e dagli ordinari diocesani dello Stato.

La Congregazione civile prelatizia era composta da due Luogotenenti che presiedevano i due turni del tribunale civile di

117 Ibidem, Sez. II, Del tribunale del Vicariato di Roma, artt. 364- 368.56

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Roma e dall’altro prelato con il nome di giudice aggiunto. In caso di impedimento dei due Luogotenenti essi erano sostituiti da due prelati, con il titolo di aggiunti.

Questa Congregazione derivava dalla Congregazione civile dell’A. C., ed era soggetta alla medesima disciplina. Essa giudicava, in terzo grado di giudizio le cause non maggiori di cinquecento scudi decise con sentenze difformi in primo grado dai vescovi suffraganei, ed in secondo grado dai metropolitani; le cause non maggiori di cinquecento scudi decise, con sentenze difformi, in primo grado dai tribunali vescovili, o dai prelati vice-gerente e luogotenente civile del Vicariato, ed in secondo grado dal cardinal vicario, o dal giudice deputato per le cause ecclesiastiche; le cause non maggiori di cinquecento scudi decise, con sentenze difformi, in primo grado dal giudice deputato per le cause ecclesiastiche, ed in secondo grado dal cardinal vicario118.

Il Tribunale della sacra Rota, come tribunale ecclesiastico, giudicava in secondo grado le cause maggiori di cinquecento scudi o di valore indeterminato, e quelle qualificate come più gravi in materia ecclesiastica decise in prima istanza dai tribunali vescovili, (o dai prelati vice-gerente e luogotenente del Vicariato), e dal giudice civile deputato per le cause ecclesiastiche.

In terza ed ultima istanza le cause maggiori di cinquecento scudi, giudicate con sentenze difformi in primo grado dai vescovi suffraganei ed in secondo grado da quelli metropolitani; le cause maggiori di cinquecento scudi decise con sentenze difformi in primo grado dai Vescovi, dal Vicariato e dal giudice deputato per le cause ecclesiastiche ed in secondo grado dal turno rotale.

Il Tribunale della Sacra Rota era altresì competente, in appello e cumulativamente con la Sacra Congregazione del Concilio, per le cause concernenti la nullità dei matrimoni e

118 Ibidem, Sez. III, Del tribunale dell’A.C., artt. 369- 379.57

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delle confessioni religiose. In questo caso si osservava il disposto delle Costituzioni di Benedetto XVI che incominciavano con «Si datam», «Dei miseratione» e «Justiae et pacis»119.

Tribunale Supremo di Segnatura. Le sacre Congregazioni ecclesiastiche non erano soggette a questo tribunale, tuttavia i conflitti di competenza nascenti tra le diverse Congregazioni, ovvero tra una Congregazione e un altro tribunale venivano risolti attraverso semplici memorie redatte dal cardinal prefetto della Segnatura, con il voto consultivo del decano e sotto-decano del tribunale, previa la presentazione di una relazione da parte del medesimo cardinal prefetto all’udienza sovrana.

Con le stesse modalità venivano esaminate e decise anche le altre controversie relative alle decisioni emanate in seguito delle risoluzioni fatte dalle suddette sacre Congregazioni120.

L’ ultima parte della Seconda parte del Regolamento civile era dedicata alla Giurisdizione Volontaria, ossia la giurisdizione non contenziosa che nelle Province era attribuita a governatori, assessori, ai vicari generali e ai vescovi, ai presidenti e vicepresidenti dei tribunali civili, ai presidenti dei tribunali di appello, mentre nella città di Roma apparteneva ai giudici dei tribunali del vicariato e ai loro uditori, agli assessori e vicepresidenti dell’ A. C., al giudice deputato per le cause ecclesiastiche e all’ Uditore della Prefettura del Tribunale Supremo di Segnatura.

Ciascuno dei giudici ai quali era attribuita la giurisdizione volontaria poteva esercitarla solamente nei limiti del comune in cui egli risiedeva; gli ordinari e i vicari generali potevano esercitarla entro i limiti delle rispettive diocesi. I modi di esercizio erano prescritti nelle leggi di procedura121.

119 Ibidem, Sez. IV, Della Sacra Rota, artt. 377-381.120 Ibdiem, Sez. VI, Del tribunale supremo di Segnatura, artt. 384-386.121 Ibidem, Tit. IV, Della giurisdizione volontaria, artt. 387-390.

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2. Capitolo II - Riforme al sistema giudiziario nella prima fase del pontificato di Pio IX (1846 - 1847) -

2.1. Pio IX e la commissione del 1846 per la riforma dei codici

Dopo soli cinque mesi dalla salita al soglio pontificio, Pio IX iniziava i lavori necessari ad apportare quelle modifiche al sistema giudiziario ormai avvertite dalla maggioranza dei sudditi come non più procrastinabili.

Anche Pio IX decise di lavorare attraverso commissioni legislative. L’idea di nominare commissioni legislative nello Stato pontificio era già presente nel moto proprio del 1816 che all’art. 75, come detto, istituiva tre commissioni che si occupassero rispettivamente della materia civile, penale e commerciale, e anche Leone XII aveva istituito una commissione temporanea in sostituzione delle precedenti e con l’incarico di riformare i titoli II, III, IV e V del codice di procedura civile del 2 novembre 1817 e il Regolamento delle tasse sui giudizi122.

Il 6 novembre 1846 il nuovo pontefice confermò la commissione nominata da Gregorio XVI il 20 luglio 1841123

deputata alla revisione del Regolamento penale e di procedura penale rispettivamente del 1831 e 1832.

122 M. MOMBELLI CASTRACANE, Istituzioni e Archivio. Problemi di applicazione del metodo storico: il caso del fondo commissione dei codici legislativi, in Nuovi annali della scuola superiore speciale per archivisti e bibliotecari, Anno II, 1988, pp. 103-120.

123 Dispaccio della Segreteria di Stato è in ASR, Commissione per la compilazione di codici, b. 4, fasc. 68.

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La commissione, nella sua formulazione originaria, era composta dall’Antonelli, all’epoca Tesoriere generale della Reverenda Camera Apostolica, e in qualità di presidente, da monsignor Di Pietro, Uditore della Sacra Rota, dall’ avvocato Benvenuti, assessore generale di polizia, e dall’avvocato Alessandri, sotto-Segretario della Sacra Consulta, in qualità di presidente.

Pio IX aggiunse monsignor Ignazio Alberghini, Uditore della Sacra Rota, monsignor Giuseppe Luigi Bartoli, avvocato concistoriale e avvocato generale del Fisco e della Reverenda Camera Apostolica, Felice Ciccognani, avvocato concistoriale, gli avvocati Antonio Silvani di Bologna, Pietro Pagani di Imola, Giuseppe Giuliani di Macerata, Filippo Leoncilli di Sopleto, il Professor Olimpiade Dionisi, docente di istituzioni criminali nell’ Archiginnasio romano; si stabilì inoltre che Antonio Pagnoncelli, curiale di collegio e Francesco Saverio Borghi, Procuratore generale del Fisco e della R.C.A, dovessero prender parte alle sedute della commissione qualora si discutessero argomenti di procedura. Poco dopo vennero aggiunti anche i monsignor Giovanni Ianni, Uditore del Pontefice e Ildebrando Rufini, Procuratore generale del Fisco124.

124 Si riporta il biglietto di nomina inviato dalla Segreteria di Stato a ciascuno dei nuovi membri componenti la Commissione: «Con dispaccio della segreteria per gli affari di Stato interni del 20 di Luglio 1841, la San. Mem. Di Gregorio XVI si degnò di nominare una commissione di valenti ed accreditati giureconsulti incaricata di promuovere gli occorrenti miglioramenti per il Regolamento penale, quello di procedura criminale pubblicati dallo stesso Pontefice. Commissione che si compone di: Monsignor Roberti, uditore generale dalla R.C.A., Monsignor Di Pietro, uditore della sacra Rota romana, il signor avv. cav. Benvenuti Commissario generale di Polizia e il signor avv. Alessandri, sottosegretario della S. Consulta e segretario della Commissione segretario e con voto al pari degli altri membri della Commissione suddetta. Essendosi degnata la Santità di Papa Pio IX di confermare la Commissione medesima ne ha eziando esteso gli incombenti agli esami dei regolamenti legislativi e giudiziari per gli affari civili perché proponga quei miglioramenti che si ravvisassero anche per questa parte opportuni. Sebbene l’importante lavoro criminale per l’impegno postovi dai lodati giureconsulti sia quasi al termine, posto la S.tà Sua che un argomento così rilevante venga più ampiamente esaminato e discusso si è degnata di esporre che alla suddetta commissione sieno aggiunti altri esperti e dotti giuristi dello Stato.

Cioe ____Essendo ____ compreso tra gli aggiunti alla Commissione, se ne porge al

medesimo la partecipazione, ed egli al certo ravviserà in tale atto di 60

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Alla nuova commissione venne affidato il compito di revisionare il Regolamento legislativo e giudiziario del 1834 che, a sua volta, sarebbe stato completato da un Regolamento organico dell’ordine giudiziario, considerato quale presupposto fondamentale di ogni riforma; contemporaneamente iniziava l’elaborazione di un nuovo codice civile in riforma al progetto Bartolucci125.

La notizia della riconferma della commissione del ’41 venne pubblicata sulla prima pagina del primo numero de L’Astrea, un periodico contemporaneo attento alla giurisprudenza nazionale ed internazionale; la notizia accolse il plauso generale della popolazione, ma nonostante le dichiarate intenzioni, la stampa non avrebbe potuto tenere informati periodicamente i lettori sui lavori della commissione, in quanto era fatto divieto a chiunque di conoscerli126. Ad ogni modo si era già detto che la commissione aveva iniziato i lavori e che era stata suddivisa in sezioni e questo sembrava potesse bastare, almeno per il momento.

Nei seguenti numeri dell’Astrea troviamo alcune informazioni circa la composizione delle sezioni: ne erano state create tre, quella per l’organizzazione dei tribunali, che teneva le sue sessioni presso monsignor Antonelli presidente, quella della legislazione civile, che si riuniva presso monsignor Alberghini e quella di diritto e procedura penale, che si sarebbe riunita presso monsignor Di Pietro. Inoltre veniva scritto che la considerazione Sovrana una aperta dimostrazione di quella fiducia con che degna onorarlo Sua Santità ed a cui a cui sarà lo stesso Sign... per corrispondere col maggior zelo ed impegno». ASR, Commissione per la compilazione dei codici legislativi, b. 4, fasc. 33. Altre notizie sulla commissione in: LODOLINI TUPPUTI C., La commissione governativa di Stato nella restaurazione pontificia, Milano, 1970, pp. 105-107; MOMBELLI CASTRACANE M., La codificazione civile nello Stato pontificio II: dal progetto del 1846 ai lavori del 1859-63, Ed. sc. It., 1988, pp. XV ss. Della stessa autrice si veda anche: Le fonti archivistiche per la storia delle codificazioni pontificie (1816-1870) in «Società e storia», n. 6, 1979, pp. 857 ss.; Fonti e metodologia per uno studio sulle riforme del sistema penale pontificio nel XIX secolo, Firenze, 1993, pp. 192 ss.; MORONI, Dizionario di erudizione storico ecclesiastico, vol. 80, p. 158.

125 Sul progetto di codice civile del 1818 cfr. MOMBELLI CASTRACANE M., La codificazione civile nello Stato pontificio I...cit.

126 «L’Astrea», 1847, n. 1.61

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commissione, all’unanimità, aveva votato di non volersi limitare a riforme parziali, ma di voler procedere verso la totale ricompilazione dei codici127.

Tralasciando quelli che furono i lavori relativi alla materia codicistica, in quanto esulano dal nostro lavoro, oltre ad essere già stati oggetto di importanti studi, ci limiteremo ad esaminare quali furono i correttivi al sistema giudiziario messi a punto da quei giuristi.

La commissione in breve tempo diede vita ad un Regolamento organico dell’ordine giudiziario che apportò importanti modifiche al sistema precedente; occorre però da subito precisare che probabilmente questo Regolamento non soddisfò pienamente le aspettative del Pontefice, se già qualche mese dopo la sua formulazione, Pio IX nominava una nuova commissione deputata alla sua revisione. E’ proprio per questo motivo, forse, che la storiografia ha finora mancato di analizzarne il contenuto, un’operazione che sembra invece opportuno intraprendere in questa sede, in quanto fu proprio da quel Regolamento che partì un programma di moderne riforme al sistema giudiziario che si andò progressivamente attuando nel corso della prima fase del pontificato di Pio IX.

Prima di procedere con l’analisi del Regolamento organico occorre però individuare quali altri modifiche stavano per essere apportate al sistema giudiziario nel mentre che la commissione si apprestava ad iniziare i propri lavori.

2.2. Disposizioni sull’amministrazione della “punitiva giustizia” e nuove norme sulla statistica criminale

Il primo gennaio 1847 la Segreteria di Stato emanò le disposizioni riguardanti l’amministrazione della punitiva giustizia128 nelle quali, oltre a darsi notizia ufficiale dell’avvenuta

127 Ibidem.128 Disposizioni risguardanti l’amministrazione della punitiva giustizia

del 1° gennaio 1847, in, Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio emanate nella Santità di Nostro Signore Papa Pio IX felicemente regnante, Vol. I, atti pubblicati dal 6 giugno

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riconferma della commissione per la revisione dei codici nominata da Gregorio XVI si diceva, a chiare lettere, che tra le principali preoccupazioni di Pio IX vi era soprattutto quella di concorrere ad una più retta e sicura amministrazione della giustizia penale.

Le norme contenute in quelle disposizioni furono emanate poiché vi erano state delle variazioni riguardanti il personale di alcuni tribunali della Capitale e quindi bisognava intervenire affinché non restasse impedito il normale corso della giustizia. Le nuove disposizioni stabilivano la concentrazione dei due tribunali criminali, quello dell’Uditorato della Camera e quello del Campidoglio, nel Tribunale del Governo, presieduto da monsignor Governatore di Roma. Quest’ultimo tribunale, fino a quando non fossero intervenute modifiche organiche anche al sistema di procedura criminale (quelle a cui stava lavorando la commissione), sarebbe stato suddiviso in due turni: il primo turno competente per le cause di Roma e della Comarca da proporsi in via ordinaria, il secondo turno competente per le cause che dovevano essere giudicate in via sommaria.

Entrambi i turni erano presieduti da un assessore prelato, con il titolo di vice-presidente, dello stesso rango dei ponenti della sacra Consulta, tra i quali, per l’appunto, veniva scelto e ai quali era stato equiparato anche con riguardo all’onorario mensile. A ciascun assessore legale, inoltre, erano stati rimessi tutti quei poteri che fino a quel momento erano appartenuti ai luogotenenti del Tribunale del Governo; restavano fermi i poteri di monsignor Governatore di Roma che era capo e presidente del tribunale.

Nuove norme furono stabilite anche in tema di reclutamento dei magistrati.

Per quanto riguarda gli alunni, ne venne tassativamente vietata l’ammissione in soprannumero, per qualunque classe di

1846 al 31 dicembre 1847, Roma, nella stamperia della R.C.A., 1849, pp. 95-100.

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impiego; i secolari che desideravano intraprendere il cammino in questa magistratura dovevano presentarsi dinanzi alla Congregazione di monsignor Governatore di Roma, composta dai due vice presidenti e da monsignor Procuratore generale del Fisco. In quella sede avrebbero dovuto dimostrare la “civiltà dei natali”, di aver seguito un regolare percorso di studi scolastici, compresi quelli in filosofia, di aver frequentato con assiduità e con merito gli studi legali presso una delle università dello Stato e di aver conseguito il grado di magistrato o la laurea in utroque iure, in diritto civile e canonico. Una volta constatata l’esistenza dei requisiti prescritti, coloro che erano stati ritenuti validi venivano ammessi a frequentare lo studio di monsignor Procuratore generale del Fisco e trascorso un biennio, dopo aver dimostrato la propria idoneità, potevano essere presi in considerazione per all’ammissione ad un impiego stabile, in base ad una precisa gradazione: coloro che avevano ottenuto il solo grado di magistero potevano essere ammessi unicamente come “attuarj” e la loro qualifica non poteva andare oltre il grado di cancelliere; coloro che, invece, erano in possesso della laurea partivano dal grado di giudice processante e qualora il Tribunale della Sacra Rota avesse loro rilasciato il titolo di avvocato avrebbero potuto accedere sia alla professione di aiutante di studio dei ponenti di Consulta sia a quella di sostituti fiscali; da questi due gradi veniva scelto il supplente del secondo turno il quale, in caso di assenza del supplente del primo turno, poteva aspirare a ricoprire quel ruolo. Da questa carica potevano, infine, essere nominati giudici effettivi prima nel secondo e poi nel primo turno.

Altra novità importante fu che ai fini delle progressioni di carriera non si sarebbe tenuto conto dell’anzianità di servizio ma unicamente dell’abilità e onestà degli impiegati, costantemente dimostrata e mantenuta nei gradi percorsi.

La seconda parte delle “Disposizioni” era dedicata al sistema di formazione della statistica criminale. Venne stabilito

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che il Tribunale del Governo e tutti quelli delle Province avrebbero trasmesso mensilmente al Supremo Tribunale della Sacra Consulta, e non più alla Segreteria di Stato, gli stati delle visite carcerarie e delle cause decise e semestralmente quello delle cause introdotte.

I tribunali delle province, inoltre, venivano posti sotto la diretta vigilanza del Tribunale della Sacra Consulta.

Ulteriori istruzioni circa la formazione della statistica giudiziaria vennero fornite dalla circolare della Segreteria di Stato del 30 gennaio 1847129.

Essa stabilì che ogni tribunale di prima istanza, assessorato, giusdicenza o governo doveva, non più tardi del giorno cinque di ogni mese, inviare al preside della propria provincia lo stato delle cause introdotte, pendenti e giudicate relative a tutto il mese precedente; le cause non definite dovevano riportarsi anche nello stato dei mesi successivi fino a quando non fossero state decise. Questo metodo mirava a sveltire la procedura, eliminando l’invio semestrale delle cause introdotte.

Anche le modalità d’invio furono semplificate, sarebbe infatti stato trasmesso il solo processo verbale delle visite, non disgiunto dall’elenco nominativo dei detenuti, con l’indicazione della patria, dell’età, del reato di cui erano chiamati a rispondere, del tribunale o giusdicenza cui appartenevano, in aggiunta allo stato materiale del carcere (art. I).

Lo stato delle cause introdotte e pendenti doveva essere firmato nei tribunali di prima istanza dal presidente del tribunale e nelle altre curie dall’assessore, dal giusdicente o dai cancellieri; quello delle cause decise doveva essere firmato anche dal Procuratore fiscale e tutti erano responsabili di un’eventuale inesattezza delle proprie dichiarazioni (artt. II-III).

129 Ordine circolare della segreteria di Stato col quale si prescrive ai tribunali il metodo da tenersi in avvenire per la trasmissione degli stati delle cause pendenti e delle visite carcerarie, 30 gennaio 1847, in, Raccolta delle leggi e disposizioni... cit., vol. I, p. 109.

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I presidi delle province, quando ricevevano i suddetti stati, effettuavano su di essi le osservazioni che ritenevano opportune in base a quanto disposto dalla circolare della Segreteria di Stato del 10 luglio 1841, che rimaneva in vigore. Dovevano poi trasmettere i medesimi stati a monsignor Segretario della Sacra Consulta non più tardi del giorno dieci di ogni mese (art. IV).

Anche i presidenti dei tribunali di appello dovevano inviare ogni mese e negli stessi termini gli stati delle cause introdotte, pendenti e decise nei rispettivi tribunali. Per ogni causa dovevano indicare il numero del querelario del tribunale, dell’assessorato, della giusdicenza o curia cui apparteneva la causa (art. V).

Ogni bimestre gli stessi presidenti dovevano trasmettere, per mezzo dei presidi delle province, l’indicazione dell’ammontare preciso delle spese di giustizia, in base a quanto previsto dalle regole sulle tasse dei giudizi criminali del 18 febbraio 1832 e successive disposizioni.

I presidenti erano infine chiamati a vigilare affinché i governatori e gli altri impiegati loro dipendenti, i giudici processanti e i loro attuari, eseguissero con assiduità, diligenza e zelo i propri compiti e, in caso di negligenza, erano tenuti a presentar rapporto sulla base del quale sarebbero stati presi gli opportuni provvedimenti.

Affinché la Sacra Consulta potesse adeguarsi alle norme contenute nella circolare, vigilando sul regolare andamento dei tribunali delle province, monsignor Segretario e gli altri ponenti sarebbero stati assistiti da un Uditore al soldo del governo e di nomina sovrana.

2.3. Il Consiglio dei ministri nei lavori preparatoriCon moto proprio del 12 giugno 1847 Pio IX riuniva i capi

dei dicasteri più importanti dello Stato pontificio e istituiva un Consiglio dei ministri. Ma il processo che avrebbe portato alla nascita di questo importante organo era iniziato già nel

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settembre del 1846, quando la Segreteria di Stato, nella persona del Cardinal Gizzi Segretario, informava il Sovrano della necessità di formare un Consiglio o Congregazione dei ministri affinché si procedesse ad un ragionato riparto di materie tra le amministrazioni dello Stato allo scopo di eliminare la confusione, i conflitti e le divergenze da sempre fonte di grave pregiudizio per la cosa pubblica.

Il 30 settembre 1846 il cardinal Gizzi faceva rapporto al Pontefice chiedendo la formale istituzione di una commissione a cui affidare il compito di predisporre un progetto contenente il riparto delle competenze e la divisione della materie tra i diversi dicasteri.

Membri della commissione sarebbero stati l’Uditore della Camera, monsignor Governatore di Roma, il Tesoriere delle Armi, il Segretario di Consulta, e monsignor Giovanni Rusconi, con funzioni di Segretario della commissione, oltre a due sostituti della Segreteria di Stato130.

130 Si trascrive il rapporto del Cardinal Gizzi a Sua Santità per l’udienza del 30 settembre 1846: «Uno dei provvedimenti più necessari e più utili al buon andamento degli affari dello Stato è quello di formare un Consiglio o Congregazione dei Ministri facendo tra di essi un ragionato riparto di materie e di attribuzioni atte ad eliminare la confusione, i conflitti e le divergenze che sono sempre di grave pregiudizio alla cosa pubblica.

In questo Consiglio di cui sarà presidente il Cardinal Segretario di Stato pro tempore si dovranno proporre e discutere tutti gli affari di qualche importanza per sottoporre quindi alla sovrana decisione di Nostra santità l’opinamento o deliberazione del Consiglio stesso.

Da questa situazione, che trovasi in ogni ben regolato governo, qualunque ne sia la forma deriveranno importanti vantaggi: 1° per ciascun Ministro in particolare, 2° per gli affari da trattarsi, 3° per lo Stato e pei sudditi, 4° infine per la stessa Santità Vostra.

Per ciascun ministro in particolare vi sarà il grande vantaggio di non essere solo a portare la responsabilità degli affari del suo dicastero delle risoluzioni che prendesse da se e delle relazioni che da se solo facesse al Sovrano. Sarà inoltre coadiuvato dai lumi dei suoi colleghi riuniti in Consiglio e profitterà della luce che sortirà dalla discussione delle materie.

Per gli affari ancora vi sarà vantaggio poiché verranno discussi e ponderati in Consiglio con più di maturità e di imparzialità di quello che con la maggior volontà del mondo possa farsi da un solo Ministro che per la molteplicità delle sue incombenze può facilmente cadere in errore e più facilmente ancora essere ingannato da subalterni ed estranei maneggi.

Vi guadagnerà lo Stato perché i sudditi compiranno quella fiducia che nasce spontanea dal sapersi che gli affari pubblici non vengano trattati da un solo Ministro, o decisi in seguito di un individuale rapporto di lui, ma sebbene in forza di un serio e ponderato esame di tutto il Consiglio e dietro la ragionata relazione che in nome del Consiglio stesso deve farsene al Sovrano. E questa certezza dissiperà quella ingiuriosa diffidenza che è purtroppo

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Pio IX approvava la nomina della commissione confermando tutti i membri proposti dal cardinal Gizzi. Essi avrebbe dovuto occuparsi in particolar modo di migliorare il riparto delle materie fra i diversi uffici della Pubblica Amministrazione e predisporre la pianta organica del nuovo Consiglio dei Ministri; oltre a ciò la commissione avrebbe dovuto disciplinare il metodo con il quale si sarebbero tenute le periodiche riunioni del Consiglio medesimo131. Iniziavano

invalsa presso di molti, cioè che in alcuni dicasteri si agisca talvolta per prevenzione, per impegni e per fini meno lodevoli con discapito della giustizia.

Finalmente la santità Vostra vi troverebbe maggior quiete di animo, perché baserebbe le sovrane sue decisioni sul ragionato parere che sarebbe frutto di matura ed imparziale disanima. Di più si allontanerebbe il pericolo di aver risoluzioni che non fossero in perfetta consonanza fra loro.

Onde raggiungere questo scopo, ho l’onore di proporre alla Santità Vostra di una Commissione la quale si occupasse di preparare un ben inteso progetto da sottoporre alla sanzione di Vostra Santità intorno alla divisione delle materie e delle attribuzioni fra i diversi dicasteri all’impianto di un Consiglio di Ministri o altra denominazione che voglia adottarsi e al metodo da tenersi nelle regolari periodiche riunioni del medesimo e a tutt’altro che fosse relativo all’oggetto di cui si tratta.

Proporrei inoltre di chiamare a far parte di tale commissione, se così piacesse a vostra santità, i Monsignori Uditore della Camera, Governatore di Roma, Tesoriere delle Armi, Segretario di Consulta, Monsignor Giovanni Rusconi che avrebbe anche le attribuzioni di segretario della Commissione e i due sostituti della Segreteria di Stato.

Sarebbe poi opportuno di riunire la Commissione suddetta più presto che fosse possibile e di porre mano al lavoro onde condurlo sollecitamente al suo termine.

Firmato, Cardinal Gizzi, il 30 settembre 1846.» ASR, Miscellanea del periodo costituzionale, b. 1, fasc. 3.

131 Si trascrive il biglietto di nomina a membro della Commissione inviato dalla Segreteria di Stato a monsignor Matteucci, presidente della S. Consulta. «La Santità di Nostro Signore, persuasa che uno dei provvedimenti più necessari ed utili al buon andamento degli affari dello Stato sia quelli che essi si trattino e compino con maturità d’esame , consonanza di sistemi ed uniformità delle leggi, e che fra le diverse pubbliche amministrazioni vi sia un ragionato riparto di materie e di attribuzioni atto ad eliminare confusione e divergenze sempre pregiudizievoli alla cosa pubblica si è degnata di stabilire una commissione presieduta dal sottoscritto Cardinale segretario di Stato coll’incarico di preparare un progetto da rassegnarsi alla sovrana sua sanzione. Primo- per una migliore divisione delle materie e delle attribuzioni fra i doversi uffici di pubblica amministrazione, secondo- per l’impianto di un Consiglio dei Ministri nel quale si propongono e discutano tutte le materie che in ogni ramo governativo rassegnandone l’opinamento o la deliberazione alla sovrana decisione. Inoltre per il metodo da tenersi nelle regolari periodiche riunioni del Consiglio medesimo e per tutt’altro tendente a raggiungere la provvida mente del Santo Padre. I componenti di detta Commissione sono stati dalla Santità sua nominati i Monsignori Uditore della R.C.A., Governatore di Roma, Tesoriere generale, Presidente delle armi, e Segretario della S. Consulta, nonché, due sostituti della Segreteria di Stato e Monsignor Giovanni Rusconi colle attribuzioni anche di Segretario della Commissione

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dunque i lavori della Commissione che avrebbero portato già nel marzo del 1847 ad un Regolamento provvisorio per il Consiglio dei Ministri132.

2.4. Il Ministero di GiustiziaIl giorno 3 febbraio 1847 il cardinale Camillo Ormini,

Massimo Prefetto generale delle Acque e delle Strade rimetteva a Pio IX il foglio contenente gli argomenti che sarebbero stati discussi nella prossima adunanza del Consiglio dei ministri (in nuce) che si sarebbe tenuta il sabato seguente alla presenza dello stesso Pontefice133. La materia era di particolare interesse poiché riguardava l’istituzione del Ministero di Giustizia, nella stessa seduta, inoltre, si sarebbe deciso se creare un solo dipartimento o Ministero della Giustizia, riunendo la soprintendenza dei due rami giudiziali, il civile e il criminale, e a quale prelato affidare il prestigioso incarico. Nel caso in cui si fosse stabilito che uno solo avesse ricoperto la carica di ministro della Giustizia occorreva stabilire da chi sarebbero dipese le carceri, i luoghi di pena nonché le darsene e i rispettivi impiegati134.

Al termine della seduta del 6 febbraio venne stabilito che uno solo dovesse essere il dipartimento di Giustizia e che le carceri, i bagni e i luoghi di pena andassero riuniti e posti alle dipendenze del Ministero della Giustizia135.

La decisione su chi proporre come ministro venne invece sospesa per ordine di Sua Santità che ordinò che una speciale

Trovandosi Monsignore Segretario della S. Consulta annoverato tra i componenti la enunciata Commissione si partecipa al medesimo la sovrana disposizione per di lui intelligenza e regola prevenandolo che quanto prima riceverà avviso del giorno in cui avrà luogo la prima riunione.» ASR, Miscellanea del periodo costituzionale, b. 1, fasc. 3.

132 Il progetto di questo Regolamento è presente nelle tre copie inviate dalla Segreteria di Stato a monsignor Matteucci, in ASR, Miscellanea del periodo costituzionale, b. 1, fasc. 3.

133 ASR, Miscellanea del periodo costituzionale, Sull’istituzione di un Ministero di Giustizia, b. 1, fasc. 3.

134 ASR, Miscellanea del periodo costituzionale, b. 1, fasc. 3. 135 Sul Ministero di Grazie e Giustizia e il suo Archivio si veda C.

LODOLINI TUPPUTI, L'archivio riservato del Ministero di Grazie e Giustizia dello Stato Pontificio (1849-1868), Roma, 2012.

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commissione venisse incaricata di esprimere un rapporto sulla persona alla quale affidare l’incarico e sulle modalità e sui tempi di attivazione di quel Ministero. Membri della commissione furono nominati il cardinal Gizzi, Segretario di Stato e presidente della commissione, monsignor Grassellini, Governatore di Roma, Antonelli, Tesoriere generale della R.C.A., Santucci, sostituto della Segreteria di Stato per la seconda sezione e monsignor Matteucci, Segretario di Consulta e Segretario della commissione.

La commissione anzidetta si riunì la sera del 10 febbraio e i componenti della stessa, dopo una discussione sull’argomento, votarono nel seguente ordine: due in favore della creazione del Ministero di Giustizia presso l’Uditore della Camera, uno per affidare l’incarico al Segretario della Consulta, e due per conservarlo, almeno per il momento, presso la Segreteria di Stato. Il cardinal Gizzi, che propendeva per quest’ultima soluzione, non prese parte alla discussione, mentre partecipò all’adunanza monsignor Fiscale Bartoli.

Seguiamo il dibattito che interessò i membri della commissione.

«...I due rispettabili membri che inclinavano per l’Uditore della Camera, giovandosi delle solite riflessibili ragioni, cioè che essendo quel prelato il primo in grado e dignità era poi il solo cui non appartenga alcun Ministero o dipartimento proprio, ed il solo ancora al quale o si riguardi la primiera sua istituzione o si badi al suo officio, meglio converrebbe che l’importantissima sopraintendenza della civile e criminale giustizia venisse affidata.

Chi stava per il Segretario della Consulta istituiva un paragone ben dettagliato delle spese ed impiegati bisognevoli tra questi e l’Uditore della Camera. E indicato che il Segretario della Consulta ha già un ufficio ed un Ministero suo proprio diceva che all’Uditore della Camera doveva farsi tutto nuovo e tutto con grandi spese mentre coll’altro, fornito come si trova d’impiegati di segreteria e fin d’uditori, poco o nulla doveva spendersi di più per unirgli alla giustizia criminale, cui già sopraintende, anche l’altra civile.

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Chi finalmente pensava di lasciare il Ministero della Giustizia almeno per ora presso la Segreteria di Stato protestava che tale opinamento si induceva in lui non dall’escludere per massima da la tal Ministero sia l’Uditore della Camera sia il Segretario della Consulta ma dal vederli oggi cogli attuali regolamenti e colle attribuzioni giuridiche che godevano incompatibili entrambi. Incompatibile il Segretario della Consulta perché presiede e giudica un tribunale criminale. Incompatibile l’Uditore della Camera perché se non realmente, virtualmente anche esso è capo di un tribunale, e quel che più osta di un tribunale di prima istanza a cui se non da il giudizio presta certo il suo nome, intitolandogli tutti gli altri e da lui segnando lui le sentenze, lasciando lui i mandati, essendo lui il superiore immediato di quegli impiegati e prendendo fino da lui il nome il Luogotenenti, i Consiglieri, gli Assessori, l’Uditore, i Cancellieri, e pure i Cursori, i quali, dicendosi tutti dell’ A. C., indicano assai chiaramente esser propri e appartenere effettivamente al Tribunale Auditor Camerae.

Uguale dunque anomalia diceva venire in diritto se si scegliesse il Segretario (come sta) della Consulta ed uguale se andasse preferito l’Uditore della Camera perché giudici ambedue.

Né per secondo gioverebbe riflettere che non giudica di per se stesso né prende parte ai giudizi imperocché se questa circostanza potesse valere a crearlo ministro della Giustizia verrebbe nella circostanza medesima vinto dal Cardinal Prefetto della Segnatura il quale né meno esso giudica né meno esso prende parte alle contestazioni litigiose mentre poi d’altronde trovassi a capo di un tribunale superiore a quel dell’A. C., di un tribunale infine il quale, tenendo giurisdizione per facoltà di attribuzioni tutti gli altri tribunali dello Stato, non esclusa la sua stessa Rota e la Camera, a se soggetti, darebbe molto più diritto a divenire Ministro della Giustizia quante le volte tal Ministro potesse affidarsi ad un capo di tribunale, il che per altro sarebbe mostruosità giuridica da non trovarsene esempio.

Né da tali riflessioni dissentiranno in genere gli altri membri i quali, sebbene in specie restassero l’uno per il Segretario della Consulta e gli altri due per l’Uditore della Camera, pure vennero anch’essi d’accordo in questa massima cioè che eletto l’uno o l’altro che fosse al Ministero della Giustizia dovesse innanzitutto spogliarsi di quella qualunque siasi ingerenza o vera o finta che abbia sul tribunale cui oggi appartiene dovendo il ministro, chiunque esso sia, divenire il capo e superiore di tutti quanti sono i Tribunali dello Stato e non l’uguale molto meno l’inferiore a qualcuno.

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Come poi mandare ad effetto la cosa sia coll’Uditore della Camera sia col Segretario di Consulta, sia con l’altro prelato aggiunto alla Segreteria di Stato, la Commissione credette non fosse tra le sue attribuzioni discuterlo, molto meno determinarlo. Difettando ciò primamente della volontà sovrana della Santità nostra, quindi al sistema legislativo giudiziale che oggi discutesi presso apposita commissione. Solamente si avvertì che essendo la nomina di un ministro della Giustizia troppo legata col sistema organico dei tribunali si dovesse o risolverla fin d’ora, e allora parteciperanno alla Commissione legislativa perché gli servisse di nomina al lavoro, o vero differirla, e in tal caso farla dipendere dal sistema che la detta Commissione andrà a proporre.

Ad ogni modo per agevolare unicamente una miglior cognizione dell’affare si vollero istituite tre diverse ipotesi sopra la spesa che ciascuna delle tre sopraindicate opinioni avrebbe importato.

E qui si vide che accogliendo tutta l’amministrazione della giustizia civile e criminale presso la Segreteria di Stato poteva la cosa condursi non solo senza variare il sistema organico del Governo pontificio, ma ancora con poca, anzi con minima spesa maggiore dell’attuale se pure non si eccettui la paga ad un terzo sostituto quante volte si ritenga necessario.

Che se viceversa ministro della Giustizia si creasse l’Uditore della Camera, togliendogli però e dando ad altri le attribuzioni giuridiche anche nominali che oggi gli spettano come capo del Tribunale dell’A. C., allora fu ritenuto che soltanto l’appannagio al ministro, la paga agli impiegati necessari per il nuovo Ministero potesse la spesa ascendere dai quattro ai cinquemila scudi all’anno senza calcolare quella d’impianto.

Che se finalmente in luogo del Prelato Uditore della Camera si desse il Ministero al Segretario di Consulta tutto il risparmio che tra questo e quello potrebbe ottenere volgerebbe in su i trenta o quaranta scudi al mese, somma che per la sua piccolezza non trasse li sguardi della maggioranza della Commissione la quale ritenne che delle tre ipotesi questa fosse la meno ammissibile.»

Coloro che erano a favore dell’Uditore della Camera sostenevano dunque che egli fosse l’unico prelato al quale non appartenesse alcun Ministero e ne ricordavano l’antica istituzione ed il prestigio; chi invece propendeva per il Segretario della Consulta argomentava la propria scelta

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evidenziando soprattutto il risparmio che si sarebbe ottenuto in considerazione del fatto che il Segretario della Consulta aveva già un proprio Ministero fornito di impiegati e di uditori136; coloro che infine propendevano per il Segretario di Stato, ragionavano per esclusione, ritenendo incompatibili sia l’Uditore della Camera che il Segretario della Consulta, il primo perché anche se soltanto “virtualmente”, comunque a capo di un

136 «Se ha a farsi il confronto sulla dignità della carica dell’Uditore della Camera con quella del Segretario della Consulta è certo che quella è molto superiore a questa ma, se deve vedersi a quale degli anzidetti prelati più convenga il Ministero di Giustizia, io sono di avviso che debba preferirsi il segretario di Consulta e così rispondo al primo e secondo quesito.

Di fatti l’uditore della Camera ha esercitato fin d’ora la sua giurisdizione sui tribunali soltanto di Roma. La Sacra Consulta fino dalla sua istituzione di Sisto V l’ha esercitata, specialmente per il criminale su tutti i Governatori e su tutti i tribunali dello Stato e questa è stata anche aumentata con la circolare del gennaio 1847 la quale attribuisce alla medesima una speciale sorveglianza sui giudici sulle cause e sui carcerati. L’Uditore della Camera non ha tenuto mai il Ministro di Grazia lo ha bensì tenuto sempre il Segretario di Consulta il quale appositamente ha l’udienza ogni martedì dell’anno presso il Sovrano. D’altronde se l’Uditore della Camera deve avere il Ministero di Giustizia e riunire per conseguenza quello di Grazie, è di necessità che siagli impiantato un Ministero che importerebbe certamente un aggravio all’Erario di annui scudi ottomila circa.

Questo aggravio non lo muoverebbe certamente la Consulta perché ha già con se un sufficiente Ministero aumentato ancora colla menzionata circolare del primo gennaio. Credo poi che non debbasi attribuire nello stato attuale delle finanza maggiori aggravi al Governo anzi, sostengo che la prossima operazione del Governo dovrebbe essere quella di dar riparo al suo dissesto economico lo che non può ottenersi se non si cerca anche una diminuzione nella passività. Oggi dunque sul ramo di Giustizia tiene più la Consulta che l’Uditore della Camera, per cui poco si resterebbe a dare alla Consulta coll’unirle l’attribuzione civile e molto meno col darla all’Uditore della Camera, mentre gli si dovrebbe concedere tante attribuzioni che non tiene e tutto ciò con dispendio dell’Erario e con lo spoglio di quasi tutti gli attributi del Segretario della Sacra Consulta a cui non resterebbe che la facoltà di giudicare nel primo turno del Supremo Tribunale.

Ritengo pertanto che in riguardo dell’economia e della specialità della circostanza il Ministero di Giustizia debba darsi interamente al Segretario della Consulta dovendosi inoltre riflettere che nel mio assunto monsignor Uditore della Camera non verrebbe pregiudicato in nessuna delle attuali sue attribuzioni, resterebbe con la sua piena dignità e primazia e non si darebbe luogo a innovazioni delle quali non è bene far uso laddove non sono utili o urgenti.

Qualora poi non piaccia di preferire al Ministero di Giustizia il Segretario di Consulta io sono di avviso che un tal Ministero debba darsi all’Emo. Segretario di Stato piuttosto che a monsignor Uditore della Camera e così rispondendo al terzo quesito.

Imperocché l’amministrazione della giustizia è l’oggetto più interessante di un Governo. Dunque il relativo Ministero ha molta importanza, molta dignità, dunque può stare assai bene nelle mani dell’Eminentissimo Segretario di Stato.

Le tante brighe del Ministero interno ed esterno che occupano il sullodato Eminentissimo non possono essere di ostacolo. Di fatti come per gli

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tribunale di prima istanza, il secondo perché senza dubbio a capo di un tribunale criminale137.

Nonostante i forti contrasti la scelta ricadde sull’ Uditore della Camera, l’unico a non avere alcuna interferenza con i tribunali dello Stato. Sui modi e sui tempi di attivazione di questo Ministero si decise di discuterne di concerto con i compilatori del codice, essendo la nomina del ministro troppo legata col sistema di ripartizione dei tribunali.

affari esteri o interni è coadiuvato da due sostituti così nel Ministero di Giustizia potrà essere coadiuvato e rappresentato dal Segretario della Consulta anche per i rapporti di sua istituzione tosto che ne è Prefetto. Quindi resterebbe paralizzato ancora un ostacolo allo spedito corso di giustizia e che certamente si avrebbe nei superiori tribunali di Roma, cioè la Rota, la Segnatura, la Camera, i quali coadiuvati dai rispettivi loro presidenti non vorranno certamente dipendere da un Ministero presieduto esclusivamente da un prelato. D’altronde col farne una eccezione non si avria quella unità che pur tanto si predica mentre poi, se dipendono dall’Eminentissimo Segretario di Stato, non possono dogliarsi, prosiegue il consueto e la giustizia procede con l’occorrente speditezza.

A ciò si aggiunge anche l’economia dell’Erario, mentre non abbisognansi l’Eminentissimo Segretario di Stato di nuovi impiegati, ei può ben servirsi di quei della Consulta che di già sono suoi dipendenti.

Cosicché se il Ministero di Giustizia non è a darsi al Segretario di Consulta io concludo che debba unirsi all’Eminentissimo Segretario di Stato per al dignità, per l’occorrenza, per l’economia.»

137 «Fermo il principio stabilito che il Ministero di Giustizia e di Grazia debba essere unico, io sono di avviso che tal Ministero debba riunirsi nell’ Eminentissimo Segretario di Stato.

Né ciò sarebbe una singolarità sull’esempio degli altri Stati, dopodiché vediamo frequentemente riunirvi in un solo Ministero più portafogli:

Il cardinal segretario di Stato è prefetto della Consulta costituita da più Eminentissimi. Dunque la Consulta anche nel personale è più distinta dall’Uditore della Camera. Ma non potendo un Ministero esercitarsi da un congresso di più individui, si è ben ragionevolmente detto che uno solo sia in servizio e questi sia il Prefetto. Con ciò non si diparte dalle istituzioni di Sisto V che pure in qualche modo per la natura del nostro Governo conviene rispettare. La Consulta infatti fu istituita per sorvegliare all’amministrazione della giustizia, per essere interprete della legge. D’altronde l’istituzione dell’Uditore della Camera è molto più recente, ha un diverso scopo, il suo servizio fino ad oggi è stato di esecuzione della legge. Alla Consulta oggi si è data la sorveglianza dei tribunali, delle persone, delle cose (circ. i gennaio e 4 febb. 1847). A quest’oggetto si è attribuito a ciascun ponente un uditore con l’assegno mensile di 45 scudi al mese a carico del Governo. La Consulta è già in possesso di tal sorveglianza. Non converrebbe alla dignità del governo oggi il toglierlo, tanto più che si è sempre declamato e si declama contro la sua instabilità poiché nel gennaio non esisteva un Consiglio dei Ministri, questo però nacque nell’ottobre 1846. In ogni modo la convenienza del governo sarebbe sempre salva quando il Ministero di Giustizia restasse al suo cardinal prefetto. I tribunali di Roma, e taluni sono distintissimi, difficilmente piegherebbero il capo ad un ministro prelato. Ma non potrebbero fare alcuna opposizione se fosse il prelato della Consulta, che è un cardinale.»

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«Per la tanto necessaria unità voluta possibilmente in ogni cosa come uno deve essere il Ministro di Giustizia così a raggiungere il fine avuto in vista nell’impianto sarà che debba avere un Ministero a se con la sola ed immediata dipendenza dalla Segreteria di Stato, cui fanno centro tutti gli altri dicasteri.

La persona da rivestirsi della qualifica di ministro vuol essere tale che non abbia a fare minimamente coi tribunali sia civili che criminali dovendone essere invece superiore a capo di cui tutti hanno a dipendere.

Nel sistema attuale fra i prelati di primo rango è l’Uditore della Camera, anzi il primo, e non ha, come hanno gli altri un Ministero un dipartimento reale, difatti non è esso che realmente giudica, ma virtualmente, essendo in suo nome le sentenze, perciò è che non appartenendo nel vero senso di giudicare ad alcun tribunale torna facile il poterne allontanare anche la apparenze prescrivendosi che i giudicati siano da qui innanzi colla firma dei giudicanti a norma di Sua Santità come si pratica in ogni altro tribunale. Altrettanto non può dirsi del Segretario della Consulta che oltre a non essere tra i Prelati di primo grado giudica in realtà facendo parte del tribunale che pronuncia nella causa portatevi ora in grado di appello, ora in via di revisione, di ricorso, etc.

Sembra ugualmente che non convenga alla Segreteria di Stato assumere a se e ritenere nel suo grembo il Ministero di Giustizia perché verrebbe in tal maniera quasi che a perdere di convenienza parificandosi ad altri dicasteri, mentre dev’essere di tutti il supremo a cui si ricorra ultimamente, né tampoco converrebbe all’importanza del Ministero di Giustizia il formare sezione della Segreteria di Stato.

In quanto al modo di procedere alla erezione di Ministero non che alla norma ed al tempo, standosi ora organizzandosi un codice parrebbe possa d’uopo di concerto con i compilatori del medesimo. La spesa poi non può essere tale da sgomentarsene, giova anzi sperare che con i risparmi che potranno farsi vigilanza dal nuovo Ministero su tutti e sul personale dè medesimi si avrà tanto a sostenerla se non senza, certo col minor aggravio possibile dell’Erario pontificio, sempre con sommo pubblico vantaggio.

Il partito più espediente sembrerebbe quello di affidare un tal importante incarico a persona che non abbia attualmente rappresentanza o che non sia nel caso incompatibile con le funzioni di ministro di Giustizia.

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E’ stato deciso che l’Uditore della Camera debba assumere l’incarico di ministro della Giustizia138.»

L’Uditore della Camera venne dunque ritenuto il più adatto a ricoprire l’incarico di ministri della Giustizia, tuttavia, come vedremo, anche al Segretario di Stato e al Segretario della Consulta saranno affidati incarichi importanti all’interno del Consiglio dei ministri. Il Segretario di Stato sarà infatti già nel primo moto proprio sul Consiglio dei ministri designato come presidente e nel secondo moto proprio ricoprirà anche la carica di ministro degli Esteri.

Per quanto riguarda il Segretario di Consulta nonostante all’adunanza del 6 febbraio 1847 si fosse deciso che le carceri, i bagni e i luoghi di pena sarebbero stati affidati all’Uditore della Camera, il giorno 3 marzo dello stesso anno per ordine di Sua Santità si riunì una nuova commissione composta dal cardinal Gizzi, monsignor Roberti, monsignor Grassellini e monsignor Matteucci, con il compito di ridiscutere l’assunto in questione. Al termine di quella seduta venne stabilito che il Segretario della Consulta avrebbe diretto il Ministero di Grazia e la disciplina e direzione di tutte le carceri e darsene dello Stato139.

2.5. Il moto proprio del 12 giugno 1847 sul Consiglio dei Ministri

Finalmente il 12 giugno 1847 Pio IX, con moto proprio, dava veste ufficiale di Consiglio dei Ministri a quel consesso di ecclesiastici già designato nel 1846140. Esso risultava composto dal cardinal Segretario di Stato, dal cardinal Camerlengo, dal cardinal Prefetto delle Acque e delle Strade, da monsignor

138 ASR, Miscellanea del periodo costituzionale, b. 1, fasc. 3.139 Nel moto proprio del 12 giugno 1847 venne poi stabilito al paragrafo

XIII che: «La direzione, la disciplina e la gestione amministrativa delle carceri, luoghi di pena e case di condanna saranno affidate a monsignor segretario di Stato, sotto la dipendenza del cardinal Segretario di Stato nella qualità di ministro dell’Interno.»

140 Moto proprio della santità di Nostro Signore concernente l’instituzione di un consiglio de’ ministri del 12 giugno 1847, in Raccolta delle leggi e disposizioni... cit., vol. I, pp. 169-188.

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Uditore della Camera, da monsignor Governatore di Roma, da monsignor Tesoriere Generale e da monsignor Presidente delle Armi (§ I).

Il cardinal Segretario di Stato era il presidente del Consiglio, le sessioni si tenevano innanzi a lui quando non erano presiedute dal sovrano (§ II); nel Ministero del cardinal Segretario di Stato erano nuovamente riunite le attribuzioni delle due Segreterie create da Gregorio XVI quella di Stato e quella per gli Affari interni; rimanevano escluse soltanto alcune funzioni trasferite al nuovo Ministero degli Affari di Giustizia (§ VII). La Segreteria di Stato diveniva così il centro di tutti gli affari che si trattavano nei diversi ministeri, e l’organo di pubblicazione delle leggi e di comunicazione degli ordini emanati dal sovrano (§ VIII).

Le funzioni principali del Consiglio dei ministri erano quelle di discutere le nuove leggi, i regolamenti generali, le istruzioni di massima, l’interpretazione delle leggi e dei regolamenti in vigore, nonché tutto ciò che riguardava il sistema economico, la finanza e l’interesse generale dello Stato e delle Province, oltre a tutti gli altri affari che il Pontefice avrebbe ritenuto opportuno rimettere all’esame e decisione del Consiglio (§ XVII).

Le deliberazioni del Consiglio erano in ogni caso meramente consultive fintanto che il sovrano non le avesse approvate.

Per quanto riguarda l’Uditore della Camera il moto proprio gli affidò tutte le funzioni in materia di giustizia un tempo proprie del ministro per gli Affari di Stato interni. Per la direzione e la compilazione delle statistiche giudiziarie in materia criminale avrebbe ricevuto le comunicazione direttamente dal Tribunale della Sacra Consulta, altre informazioni gli sarebbero state comunicati direttamente dalla Sacra Rota anche se quest’ultimo tribunale, e tutti quelli con a capo un cardinale, avrebbe continuato a corrispondere con la Segreteria di Stato (§ XI). A monsignor Uditore della Camera

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spettavano poi le nomine dei presidenti e dei giudici dei tribunali civili e criminali, dei presidenti e dei giudici dei tribunali di commercio nelle province, degli assessori legali o giusdicenti, dei fiscali, dei giudici processanti, dei difensori dei rei, dei cancellieri, dei due primari impiegati nel suo Ministero e del direttore delle statistiche giudiziarie (§ XXIII).

Nonostante all’Uditore della Camera fosse stata affidata la direzione della giustizia sia civile che criminale importanti funzioni, soprattutto in materia di polizia, spettavano a monsignor Governatore di Roma; egli, infatti, oltre a mantenere il governo della capitale, conservò anche la direzione generale di polizia in tutto lo Stato e la direzione di tutte le carceri politiche e correzionali di Roma. Egli manteneva anche il comando superiore delle armi politiche e dei vigili in rappresentanza del cardinal Segretario di Stato e proponeva le nomine dei presidenti, dei vice-presidenti e dei segretari di polizia nei Rioni di Roma, dell’assessore generale, dei direttori e segretari nelle province, dei capi sezione nel suo Ministero, dei comandanti ed ufficiali superiori delle armi politiche e dei vigili e dei capitani dei corpi di polizia (§ XII e § XXIV).

Sia l’Uditore della Camera che il Governatore di Roma cessavano però da ogni funzione giudiziaria sia civile che criminale sarebbe stato perciò necessario provvedere con ulteriori disposizioni a ristabilire la presidenza nel Tribunale del Governo di Roma e nel Tribunale dell’Auditor Camerae. Oltre a ciò era necessario porre nuove norme riguardo all’esercizio della giurisdizione ecclesiastica nel Tribunale dell’A. C. e ripristinare la presidenza della Congregazione camerale per il contenzioso amministrativo e la presidenza del Tribunale criminale della Camera apostolica (§ XIV e § XLI).

2.6. Il Tribunale civile di Roma e il Tribunale criminale di Roma

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Con le “disposizioni aggiunte” della Segreteria di Stato del 26 giugno 1847141 venne così disposto che la presidenza del Tribunale del Governo di Roma passasse da monsignor Governatore di Roma al prelato vicepresidente del primo turno; egli avrebbe esercitato la giurisdizione economica per decidere sui ricorsi sui decreti dei presidenti di polizia dei rioni di Roma142. Anche l’antica denominazione di Tribunale del Governo di Roma venne sostituita con quella più moderna di Tribunale Criminale di Roma (§ I).

La presidenza dell’Auditor Camerae venne invece trasferita al prelato presidente del primo turno. Anche questo tribunale cambiò denominazione, e fu così che lo storico tribunale dell’Auditor Camerae scomparve e nacque il nuovo Tribunale Civile di Roma (§ II).

Per quanto riguardava la giurisdizione ecclesiastica esercitata in nome e vece di monsignor Uditore della Camera da un giudice uditore e dai due assessori togati, questa sarebbe stata esercitata, momentaneamente, dal prelato terzo luogotenente che sedeva come giudice nel primo turno. Egli avrebbe giudicato personalmente e in nome proprio le cause enunciate agli articoli 370, 371, 372 del Regolamento legislativo e giudiziario del 1834143, e nei casi di impedimento sarebbe stato sostituito da uno dei prelati giudici aggiunti della Congregazione prelatizia.

141 Disposizioni aggiunte in via provvisoria al pontificio moto-proprio sul consiglio dei ministri del 26 giugno 1847, in, Raccolta delle leggi... cit., vol. I, pp. 189-195.

142 Regolamento legislativo e giudiziario... cit., art. 1735: «Se trattasi di un decreto proferito da un presidente dè Rioni di Roma si ricorrerà al prelato governatore, direttore generale di polizia. »

143 Art. 370: «Il prelato Uditore della Camera conosce e giudica in prima istanza 1° le cause enunciate nel §358 n. I, cumulativamente col tribunale del cardinal Vicario, 2° le controversie della esecuzione delle bolle o lettere apostoliche e specialmente di quelle ove manchi la espressa nomina di un esecutore.»; art. 371:«Conosce e giudica , in secondo grado di giurisdizione, tutte le cause decise in prima istanza dai prelati vice gerente e luogotenente civile del cardinal Vicario e dagli ordinari diocesani dello Stato»; art. 372: «La esecuzione dei rescritti delle sacre congregazioni ecclesiastiche, le quali non hanno giurisdizione contenziosa, viene ordinata privatamente dal prelato uditore della Camera.»

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Nel primo turno e in sua vece avrebbe preso posto un giudice uditore, ai termini del par. 316 del Regolamento gregoriano144 e nella Congregazione prelatizia sarebbe stato nominato come terzo giudice un prelato giudice aggiunto (§ III).

La giurisdizione economica sarebbe stata esercitata dal giudice uditore addetto a monsignor Uditore della Camera e il ricorso, nel caso in cui avesse avuto luogo, si sarebbe proposto dinanzi al prelato presidente del tribunale (§ IV).

La presidenza della Congregazione camerale per il contenzioso amministrativo attribuita a monsignor tesoriere dal par. 25 dell’Editto 25 luglio 1835 sarebbe stata esercitata da monsignor Uditore del Camerlengato. Per giungere al numero di cinque votanti avrebbe fatto parte della Congregazione il togato giudice relatore nella sezione degli appelli del Tribunale criminale della Camera Apostolica (§ V)

Il Tribunale criminale camerale sarebbe stato composto di una sola sezione composta da un chierico di Camera presidente, monsignor Uditore del Camerlengato e dei due togati giudici relatori nelle due sezioni attuali di prima istanza e di appello (§ VI). Allo stesso tribunale sarebbe toccato un giudice processante alle dirette dipendenze di monsignor commissario della Camera che esercitava o faceva esercitare dal meno anziano di nomina tra i suoi sostituti le funzioni di fiscale (§ VII).

In conformità con quanto disposto dal par. 54 dell’Editto 18 agosto 1835 uno dei cancellieri e segretari di camera avrebbe esercitato l’ufficio di cancelliere e Segretario di Camera presso il Tribunale criminale (§ VIII).

144 Art. 316: «I giudici uditori sono addetti alla congregazione civile: i primi due, secondo l’ordine delle nomine, siederanno nel primo turno: gli altri due siederanno nel secondo.

Assisteranno a tutte le udienze: potranno essere incaricati di estendere gli opina menti e le sentenze, di far gli esami de' testimoni, gli accessi e tutte le altre operazioni che possono essere delegate ad uno dei giudici titolari, ne faranno le veci ed avranno il voto deliberativo: negli altri casi lo avranno solo consultivo.

Se il bisogno lo chiegga, potranno essere trasferiti all’uno o all’altro turno.»

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Il Tribunale camerale residente in Roma e i tribunali criminali delle Province avrebbero giudicato in prima istanza le cause indicate nell’Editto 18 agosto 1835 e quelle contemplate nel successivo Editto del 7 novembre 1839 benché commesse al giudizio inappellabile della Corte di appello (§ IX). Il Tribunale Camerale di Roma, inoltre, avrebbe giudicato in seconda istanza tutte le cause giudicate in primo grado dai tribunali delle Province (§ XI).

Le sentenze del Tribunale camerale di Roma per essere appellate dovevano essere portate davanti al Tribunale della Sacra Consulta e allo stesso tribunale potevano essere proposti i ricorsi in via di revisione nei casi previsti dagli articoli 13 e 16 del Regolamento organico di procedura criminale145.

Tutte le cause sarebbero state decise in base ai risultati del processo scritto e in nessun caso vi sarebbe stato il dibattimento o il processo orale in udienza (§ XII).

2.7. Il moto proprio del 29 dicembre 1847 sul Consiglio dei ministri

Il 29 dicembre 1847 Pio IX emanò un nuovo moto proprio sul Consiglio dei ministri146 in quanto a seguito della istituzione della Consulta di Stato e del Comune di Roma147 era necessario fissare nuove disposizioni per il Consiglio dei ministri, in modo tale da coordinare la sua attività con quella dei nuovi organi.

Venne pertanto stabilito che le funzioni di ogni dicastero fossero nuovamente disciplinate e chiaramente individuate in modo tale da stabilire la responsabilità di ogni ministro e di ogni altro impiegato subalterno, la quale, si diceva, «desse al

145 Art. 13 «Nei giudizi criminali vi sono due gradi ordinai di giurisdizione pei delitti minori e pei delitti capitali: per tutti gli altri delitti vi è un solo grado.»; art. 16 «Il rimedio della revisione consiste nella facoltà di implorare dai Tribunali superiori l’annullamento della sentenza sia per violate forme sostanziali, sia per falsa applicazione di legge penale, sia per eccesso di potere.»

146 Moto proprio della Santità di nostro Signore Papa Pio IX sul Consiglio dei ministri del 29 dicembre 1847, in Raccolta di leggi e di disposizioni... cit., vol. I, pp. 335-369.

147 Moto proprio del 1 e 15 ottobre 1847, vedi: infra.81

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Governo quella generale guarentigia cui debbono sottostare tutti coloro nelle mani dei quali resta affidata l’amministrazione della cosa pubblica».

Inoltre si instituì un corpo di uditori al Consiglio dei ministri con l’intento di far sì che gli incarichi ed uffici di governo fossero affidati a persone di competenza. Il problema dell’affidamento degli incarichi era infatti molto sentito nello Stato pontificio e ogni anno si dispensavano ingenti somme in incarichi statali che spesso risultavano mal distribuiti148. Nel prologo del moto proprio si annunciava a tal proposito la necessità di regolare con leggi certe tutto ciò che era riferito a questo aspetto essenziale della pubblica amministrazione. Scopo dichiarato era quello di iniziare a porre le basi per un Regolamento disciplinare in materia di pubblico impiego.

Il capo primo del moto proprio trattava dell’organizzazione dei ministeri, specificando che tutte le amministrazioni dello Stato erano ripartite nei seguenti ministeri: Estero, Interno, Istruzione pubblica, Grazia e Giustizia, Finanza, Commercio- Belle arti - Industria - Agricoltura, Lavori pubblici, Armi, Polizia (art. 1).

La ripartizione ministeriale non poteva essere modificata nel senso dell’ampliamento, la tendenza da seguire doveva essere quella della graduale riduzione dei ministeri, ove possibile, anche attraverso la loro concentrazione (art. 3).

Il Segretario di Stato oltre a mantenere la carica di presidente del Consiglio dei ministri aggiungeva anche la carica di ministro degli Esteri. Egli doveva sempre essere un cardinale e nella sua azione era coadiuvato da un prelato con il titolo di sostituto (artt.5-6). Le attribuzioni dei ministri erano in parte generali e comuni a tutti i ministri, in parte speciali, ossia proprie di ciascuno di essi (art. 8). Tra le attribuzioni generali vi erano innanzitutto quelle di

148 Sulla questione degli impieghi pubblici nello Stato pontificio si veda G. FRIZ, Burocrati e soldati dello Stato pontificio, 1800-1870, Roma, 1974.

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proporre progetti di legge e redigere regolamenti relativi ai propri ministeri, sorvegliandone l’esecuzione. Ai ministri era poi affidato il compito di provvedere alla nomina, promozione, e destinazione degli impiegati149; oltre a ciò essi dovevano preparare ogni anno i conti preventivi e consuntivi e rimetterli al Ministero delle Finanze affinché egli potesse redigere un unico conto consuntivo annuale valido per tutto lo Stato; ciascun ministro doveva inoltre sopraintendere all’amministrazione del proprio dicastero e renderne conto, ordinariamente, ogni anno per mezzo di consuntivi, e straordinariamente, tutte le volte che il Pontefice o il Consiglio dei ministri lo avessero richiesto; i ministri dovevano infine riformare e all’occasione revocare gli atti delle autorità subalterne e organizzare i propri dicasteri promuovendo nuovi sistemi quanto più utili e spediti, vigilando attivamente sui diversi rami delle amministrazioni mantenendo l’ordine e la disciplina tra gli impiegati (art 9).

Nel proporre e trattare gli affari i ministri dovevano uniformarsi a quanto disposto dagli articoli 23 e 25 del moto proprio sulla Consulta di Stato, che elencavano tutte le materie in cui era necessario prima della discussione in Consiglio che la Consulta esprimesse il proprio voto150 (art. 10).

Ogni ministro era responsabile per tutto ciò che riguardava la direzione, l’andamento, l’amministrazione del

149 Al Ministero di Grazia e Giustizia spettava la nomina dei presidenti e dei giudici dei tribunali, degli assessori legali e dei giusdicenti nelle Legazioni (art. 59 n. 4).

150 Art. 23: «Quindi la Consulta di Stato sarà intesa 1. Negli affari governativi che tocchino l’interesse o generale dello Stato o speciale di una o più province; 2. Nel compilare, riformare e modificare leggi, come pure redigere ed esaminare regolamenti amministrativi; 3. Nel creare ed ammortizzare debiti imporre togliere e diminuire dazi, alienare beni e diritti propri dello Stato; 4. Nel concedere nuovi appalti e confermare quelli esistenti; 5. Nel determinare le tariffe doganali e stabilire trattati di commercio; 6. Nell’esaminare i preventivi e rivedere i consuntivi tanto generali quanto delle singole amministrazioni dello Stato pronunciando sui medesimi le relative sentenze sindacatorie; 7. Nel rivedere, e riformare le attuali organizzazioni dei consigli comunali e provinciali.». Art. 25: «L’esame o deliberazioni degli altri affari non contenuti nell’art. 25 spettano alle singole sezioni; inoltre è nelle facoltà di ciascun ministro rimettere al parere della Consulta di Stato per mezzo del cardinale presidente della medesima qualunque affare proprio del suo dicastero, sebbene di interesse particolare e locale.»

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proprio Ministero, restando però a carico dei singoli impiegati subalterni la responsabilità personale relativa alla gestione dei compiti loro affidata (art. 12).

Le attribuzioni speciali, quelle proprie di ciascun Ministero, erano indicate ciascuna in un diverso titolo del moto proprio. Al Ministero di Grazia e Giustizia era riservato il Titolo IV. Esso aveva il compito sopraintendere all’amministrazione della giustizia civile e criminale dello Stato, dipendevano da lui tutti i tribunali e i giudici civili e criminali, i governatori (relativamente alle loro competenze giudiziarie) le curie, le cancellerie, e gli ufficiali ministeriali con i relativi uffici. Il ministro della Giustizia aveva il compito di proporre le domande di grazia al Sovrano per la condonazione, la diminuzione, o la commutazione di pena, e le inchieste relative all’estradizione dei rei che necessitavano della partecipazione del ministro dell’Estero, oltre alle domande di abilitazione (artt. 25-27).

Le sedute del Consiglio dei ministri quando non erano convocate dinanzi al Sovrano erano presiedute dal Segretario di Stato ed in assenza di quest’ultimo dal ministro che tra quelli presenti “precedeva gli altri in dignità”. Le sedute ordinarie si tenevano di regola una volta alla settimana e ad esse potevano partecipare solamente i ministri, le sedute straordinarie invece si tenevano ogni qual volta ve ne fosse stato bisogno o lo stabilisse il sovrano (artt. 65-68).

Il presidente dirigeva la discussione, dopo che un ministro aveva esposto le propria relazione si procedeva con la votazione e in caso di parità il voto del presidente sarebbe stato determinante (artt. 69-70). Il Segretario del Consiglio dei ministri assisteva alla sedute e ne redigeva processo verbale. In esso erano riportati i nomi dei ministri presenti, il novero degli affari posti in discussione, i pareri emessi in consiglio, i termini precisi della deliberazione; copia del processo verbale veniva umiliata al sovrano dal Segretario del Consiglio, il quale effettuava pure la relazione su quegli affari che erano

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direttamente rimessi al Consiglio dei ministri mentre la relazione relativa agli affari propria di ciascun Ministero apparteneva ai singoli ministri (artt.71-74).

Le discussioni e le deliberazioni del Consiglio erano segrete e per diventare definitive necessitavano della sovrana sanzione (art. 75). Il sovrano qualora si trattasse di affari di gravissimo interesse, si riservava, prima di emettere la sua sanzione, di interpellare l’intero sacro Collegio dei cardinali.

Una volta intervenuta la decisione sovrana, nessun affare, e per qualsivoglia motivo sarebbe potuto riproporsi in Consiglio a meno che il Sovrano non lo avesse permesso attraverso un suo speciale rescritto diretto al cardinale presidente (artt. 76-78).

I soli a poter godere del privilegio dell’udienza sovrana erano i ministri mentre così non era più per tutti gli altri capi dei dicasteri subalterni. L’udienza era prevista una volta alla settimana per ciascun ministro salva diversa disposizione sovrana. Ogni ministro aveva il compito di presentare al Consiglio dei ministri entro il mese di marzo un progetto di Regolamento interno; questi progetti venivano poi esaminati da una apposita commissione la quale aveva il compito di formare un unico Regolamento generale per tutti i ministeri (artt. 89-91)151.

Da ultimo, ogni ministro doveva passare al ministro dell’Interno copia di tutte le leggi, regolamenti, ed ordinanze di volta in volta emanate, in modo tale da permettergli ogni anno la pubblicazione di una raccolta di leggi (art. 95).

Era evidente il processo di accentramento avviato dal nuovo Governo, le antiche magistrature avevano ormai ceduto il passo alle nuove istituzioni e non sarebbero state mai più ripristinate152.

151 Entro lo stesso termine doveva essere presentato, prima in Consulta di Stato e poi al Consiglio dei ministri, un secondo progetto di Regolamento contenente la disciplina relativa alle nomine, onorari, promozioni, premi e sospensioni degli impiegati (art. 93).

152 M. CALZOLARI- E. GRANTALIANO, Lo Stato pontificio tra Rivoluzione e Restaurazione: istituzioni e archivi (1798-1870), Roma, 2003, pp. 205 e ss.

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2.8. Il Regolamento organico dell’ordine giudiziarioIntanto la Commissione confermata da Pio IX portava a

termine i lavori sul sistema giudiziario redigendo un Regolamento organico dell’ordine giudiziario. Bisogna innanzitutto precisare che questo Regolamento, probabilmente a causa del fatto che non entrò mai in vigore, ebbe una scarsissima circolazione; le uniche copie a stampa presenti sono state da noi ritrovate in due fondi conservati presso l’Archivio di Stato di Roma, quello della Commissione per la compilazione dei codici e quello del Consiglio di Stato (1848-49)153.

Non è possibile stabilire una data certa di emanazione di questo Regolamento anche se questa non può in ogni caso essere successiva al 1847 se già nel settembre di quell’anno il papa nominava una nuova commissione deputata proprio alla revisione di quel Regolamento. Nonostante ciò risulta comunque opportuno uno studio e un’analisi e soprattutto una comparazione con il sistema precedente.

Esso si componeva di 167 articoli suddivisi in undici titoli e trattava contemporaneamente la materia civile e quella penale.

Il Titolo I si apriva con la distinzione dei giudici e i tribunali in due categorie, quelli deputati all’amministrazione della giustizia nel foro ecclesiastico e quelli deputati all’amministrazione della giustizia nel foro laico, dopo di che procedeva ad una loro elencazione dando precedenza a quelli appartenenti al foro ecclesiastico a differenza di quanto avveniva nel Regolamento gregoriano.

Giudici e tribunali del foro ecclesiastico erano gli Ordinari e i Metropolitani, i giudici e i Tribunali criminali vescovili, i Tribunali di Appello dei Metropolitani, il Tribunale di Appello per le cause civili del foro ecclesiastico in Roma e la sacra Congregazione dei vescovi e regolari.

153 ASR, Commissione per la compilazione dei codici, b. 4; ASR, Consiglio di Stato (1848-1849), b. 2.

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Nel foro laico la giustizia era amministrata dai giusdicenti e dai governatori, dai Tribunali di prima istanza, dai Tribunali di commercio, dai Tribunali di appello, dal Supremo Tribunale di Giustizia per le cause nei giudizi penali e dai Tribunali militari.

Tra i tribunali cosiddetti di “misto foro” vi erano il Tribunale della Sacra Rota e il Supremo Tribunale di Giustizia per le cause civili.

Rimaneva invariata la giurisdizione della Congregazione del Prefetto dei Sacri Palazzo Apostolici e quella della Camera dei Tributi e nulla era innovato circa le Sacre Congregazioni ecclesiastiche. Venivano di contro aboliti il Tribunale criminale camerale, la giurisdizione del contenzioso amministrativo e tutte le altre magistrature, anche di privilegio, non espressamente richiamate dal Regolamento154.

Giurisdizione in materia civileNel foro ecclesiasticoL’assetto del nuovo Regolamento prevedeva, come giudici

di primo grado del foro ecclesiastico, gli Ordinari e i Metropolitani, insieme con i Vicari generali, nelle rispettive diocesi, e il Tribunale del Vicariato, a Roma; giudici di secondo grado erano invece il nuovo Tribunale di Appello del Metropolitano, composto dal presidente e due giudici, competente per le sentenze emanate dai vicari e dai loro vescovi suffraganei, e il Tribunale di Appello di Roma, composto da un prelato presidente e due giudici, competente per le sentenze emanate dal tribunale del Vicariato, dai Vicari dei Metropolitani e dai Vicari degli ordinari non soggetti a un Metropolitano155.

Le differenze con il Regolamento gregoriano erano dunque evidenti.: esso prevedeva che i vescovi e gli arcivescovi, e per essi i vicari generali, nelle rispettive diocesi, insieme con gli ordinari e con il Tribunale del Vicariato, fossero giudici di primo

154 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, artt. 1-11.155 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, artt. 27- 32.

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grado; gli arcivescovi, come metropolitani, erano invece giudici di appello nelle cause di qualunque somma o valore giudicate in prima istanza dai vescovi suffraganei della loro provincia, mentre il Tribunale del Vicariato, per mezzo del suo privato Uditore, era il giudice di seconda istanza, cumulativamente con il prelato Uditore della Camera per tutte le cause non maggiori di cinquecento scudi romani giudicate in prima istanza dallo stesso Tribunale del Vicariato156.

Il Regolamento organico individuava invece due specifici tribunali di appello con competenze distinte in base alla provenienza della sentenza di primo grado, e con facoltà, per coloro che appellavano una sentenza pronunciata dal vicario di un suffraganeo, di ricorrere direttamente al Tribunale di Appello di Roma, omesso il Tribunale di Appello del Metropolitano157.

Nel foro laicoPer quanto riguarda l’amministrazione della giustizia nel

foro laico, nel Titolo I del Regolamento organico era stabilito che essa fosse ripartita tra i giusdicenti ed i governatori, i Tribunali di prima istanza, i Tribunali di Commercio, i Tribunali di Appello, il Supremo Tribunale di Giustizia per le cause nei giudizi penali e i Tribunali Militari158.

Nelle cause civili vi era un unico giudice in ogni capoluogo di provincia che esercitava la sua giurisdizione in tutto il circondario da esso dipendente mentre a Roma ve ne erano tre; i governatori erano invece stabiliti in ogni circondario amministrativo. Questi giudici singolari erano competenti solo per le cause minori, vale a dire quelle di valore non superiore ai duecento scudi159.

156 Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili... cit., artt. 358-364. Il tribunale del Vicariato decideva anche, come giudice di seconda istanza, tutte le cause non superiori ai cinquecento scudi decise in prima istanza dal prelato Uditore della Camera.

157 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, art. 33.158 Ibidem, art. 1.159 Ibidem, artt. 39-44.

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Il nuovo Regolamento organico parlava anche di giurisdizione economica con riferimento a tutte quelle cause, meramente pecuniarie, il cui valore non eccedesse i venti scudi. A Roma questo particolare tipo di giurisdizione era affidato ai Presidenti dei Rioni, per le cause che non oltrepassavano il valore di cinque scudi, mentre le altre, fino al valore di venti scudi, erano di competenza dei giusdicenti, i quali erano anche giudici di secondo grado per le cause decise in primo grado dai Presidenti dei Rioni. Nelle Province e nella Comarca di Roma la competenza per questo particolare tipo di giurisdizione era sempre dei giusdicenti e dei governatori160.

Un’ulteriore differenza rispetto alla precedente legislazione riguardava le cause di provvisioni alimentarie, già di competenza dei giudici singoli nel Regolamento gregoriano; il nuovo Regolamento, pur riconfermando questa competenza in capo ai giusdicenti e ai governatori, stabiliva che essa dovesse essere esclusa per quelle cause sorte in esecuzione di una convenzione o di un atto di ultima volontà161.

I Tribunali di prima istanza nel Regolamento del ’47 erano stabiliti uno a Roma, per la città e la Comarca, composto da due prelati e da cinque giudici togati; uno per ogni capoluogo di provincia, composto da un presidente e quattro giudici; uno per ogni capoluogo di Legazione (Ferrara, Bologna, Forlì, Ravenna e Macerata) composto da un presidente e sei giudici162. I tribunali delle Province giudicavano le cause collegialmente e con il concorso di tre giudici mentre i tribunali sedenti nelle Legazioni

160 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, artt. 45-48.161 Ibidem, art. 50 §1.162 Ibidem, artt. 51-53. All’art. 52 era inoltre stabilito che il tribunale di

prima istanza di Viterbo estendeva la sua giurisdizione anche a tutta la Delegazione di Orvieto e che il tribunale di Macerata, che estendeva la sua giurisdizione a tutta la delegazione di Camerino, comprendesse anche tutto il territorio del Commissariato della Santa Casa di Loreto. Inoltre, nella giurisdizione del tribunale di prima istanza di Perugia era ricompreso anche il distretto di Foligno come parte della Delegazione. Diversa dunque la composizione dei tribunali di prima istanza rispetto al Regolamento gregoriano che prevedeva la presenza di un presidente, un vice presidente e quattro giudici nei tribunali delle Legazioni e di un presidente e due giudici nei tribunali delle altre Province. Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili... cit., art. 289.

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e il tribunale di Roma erano divisi in due turni; a Roma ciascuno dei due turni era presieduto da un prelato163. Le competenze rimesse a questi tribunali erano le medesime previste dal Regolamento giudiziario del ’34 e ricomprendevano le cause di valore indeterminato e quelle di valore superiore ai 200 scudi, le cause di qualunque somma concernenti le azioni ipotecarie o relative al sistema ipotecario e le cause di avocazione o remissione dei comuni e delle province.

Nelle cause in cui era coinvolto l’interesse del pubblico Erario la giurisdizione dei tribunali di prima istanza si estendeva anche alle persone e ai fondi ecclesiastici. In quest’ultima ipotesi era però era stabilito che non si sarebbe mai potuto emanare atti esecutori se non in forza di un ordine del giudice ecclesiastico164.

I tribunali di prima istanza continuavano ad esercitare le funzioni di giudici di secondo grado nei confronti delle sentenze emesse dai giusdicenti e dai governatori, ma con alcuni limiti di valore: era infatti stabilito che le cause minori di venti scudi decise in via economica dovevano appellarsi direttamente innanzi al presidente del tribunale di prima istanza165.

Alcune modifiche riguardavano i tribunali di commercio, relativamente alla loro composizione. Era infatti previsto che questi tribunali, pur continuando a giudicare con il concorso di tre giudici, dovessero essere composti da un presidente togato, da un giudice scelto dal presidente del tribunale di prima istanza e da un commerciante, eccezione fatta solamente per i tribunali di Foligno e Rimini, nei quali al posto del giudice del tribunale di prima istanza sedeva il Governatore locale166.

Nella sezione relativa ai tribunali d’appello una delle novità più importanti era quella relativa alla creazione di un nuovo

163 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, artt. 54-55.164 Ibidem, artt. 56-57.165 Ibidem, art. 59.166 Ibidem, artt. 61-62. Nel Regolamento gregoriano, i tribunali di

commercio erano invece composti di un presidente giureconsulto e di quattro giudici. Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili... cit., art. 294.

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tribunale di seconda istanza a Roma, in aggiunta a quelli già esistenti di Bologna e Macerata167.La giurisdizione del nuovo tribunale di appello si estendeva alla Comarca e alle province di Perugia, Spoleto, Viterbo, Orvieto, Rieti, Civitavecchia, Velletri, Frosinone e Benevento; esso era composto da due prelati e da dodici giudici togati, si divideva in due sezioni di sei giudici, ciascuna delle quali presieduta da un prelato, una deputata alle cause civili e commerciali, l’altra alle cause penali168.

La competenza dei tribunali di appello, oltre alle ipotesi già indicate dal Regolamento gregoriano169, si estendeva anche alle domande di avocazione e remissione di cause pendenti innanzi ai giusdicenti e ai governatori soggetti alla loro giurisdizione ma non compresi nel territorio giurisdizionale di un medesimo tribunale di prima istanza e alle domande di avocazione o remissione di cause pendenti avanti due tribunali di prima istanza sottoposti alla loro giurisdizione170.

Tribunali comuni al foro laico ed ecclesiastico in materia civile

Proseguendo nella lettura il Titolo VI trattava dei tribunali comuni al foro ecclesiastico e al foro laico in materia civile. Questi, come già preannunciato nel Titolo I, erano il Tribunale della Sacra Rota Romana e il Supremo Tribunale di Giustizia per le cause civili.

Il Tribunale della Sacra Rota continuava a giudicare in terza istanza nelle materie civili del foro ecclesiastico e del foro laico nella parte in cui il giudicato di secondo grado dei tribunali di appello fosse stato difforme dal giudicato di primo grado e senza alcun limite di valore; giudicava, inoltre, in grado di “restituzione in intiero”, le cause pronunciate da qualunque

167 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, art. 67.168 Ibidem, art. 71.169 Le cause decise in prima istanza dai tribunali civili e commerciali, le

cause dei giudici singolari decise in secondo grado dai tribunali di primo grado, con sentenze difformi. Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili... cit., art. 303.

170 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, art. 74.91

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tribunale dello Stato, infine giudicava, in prima e ultima istanza, le cause sul valore dei rescritti e chirografi pontifici rimessi con la clausola de aperitione oris171.

Per quanto riguarda la composizione veniva aggiunto un giudice ai cinque previsti dal Regolamento del ’34 ed era stabilito che qualsiasi causa dovesse essere portata al turno composto da sei giudici, di cui uno ponente senza voto, gli altri cinque votanti172.

Il Tribunale Supremo di Giustizia prendeva il posto del Tribunale Supremo di Segnatura, seppur con alcune differenze. Nel Regolamento organico venne stabilito che esso sarebbe stato composto da un cardinal Prefetto, due presidenti e quattordici giudici prelati, il doppio di quelli previsti dal Regolamento gregoriano per il Tribunale di Segnatura. Era suddiviso in due sezioni, una competente per il civile e l’altra per il penale e nelle materie civili giudicava con il concorso di sette giudici, compreso il presidente.

La competenza di questo tribunale riguardava le domande di nullità del processo e delle sentenze pronunciate in ultima istanza per difetti non sanati di citazione, giurisdizione e mandato; le domande di nullità delle sentenze definitive proferite in ultimo grado di giurisdizione, qualora il tribunale avesse omesso le forme prescritte dalla legge per procedere al giudizio definitivo; le domande di cassazione di un giudicato in ultima istanza per manifesta violazione di legge; le domande di riunione o di avocazione di cause fra due giudici o tribunali non soggetti alla giurisdizione del medesimo tribunale di appello o fra due tribunali di appello173.

Quando il Tribunale Supremo annullava la sentenza per difetto di citazione, giurisdizione o mandato rimetteva alla parti la facoltà di far valere i propri diritti avanti i tribunali competenti, mentre, qualora avesse annullato per omissione di

171 Ibidem, art. 76.172 Ibidem, art. 77.173 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, artt. 78-81.

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forme previste dalla legge o per manifesta violazione di legge, rimetteva la causa per un nuovo giudizio ad un tribunale diverso rispetto a quello che aveva pronunciato la sentenza annullata. Nel caso di sentenza pronunciata dalla Sacra Rota la causa veniva rimessa a quei giudici della medesima che non avevano preso parte alle votazioni.

Qualora poi la sentenza annullata per manifesta violazione di legge fosse stata nuovamente attaccata per i medesimi motivi per i quale era stata cassata, il Tribunale Supremo doveva farne rapporto al Pontefice affinché dirimesse il dubbio insorto sull’applicazione della legge.

Giustizia penaleCon il Titolo VII si apriva la seconda parte del Regolamento

organico dedicata alla giustizia criminale. Subito erano indicati i gradi di giustizia in materia penale, che erano d’ordinario due e talvolta tre174. Anche in materia penale veniva così ad ammettersi un terzo grado di giudizio, con grande novità rispetto al Regolamento gregoriano che prevedeva due gradi di giurisdizione per i delitti minori e per i delitti capitali e un solo grado di giurisdizione per tutti gli altri delitti175.

Il Regolamento di Pio IX escludeva però che potessero esservi tre gradi di giustizia nel foro ecclesiastico, che conosceva solamente l’appello contro la sentenza emessa in primo grado per motivi di nullità o di mera ingiustizia176.

Anche nel foro laico potevano esservi casi di esclusione del terzo grado di giudizio, come per le sentenze emesse in secondo grado e relative a contravvenzioni di polizia177 e per le sentenze pronunciate in secondo grado nelle cause pretoriali e in materia correzionale178.

174Regolamento organico dell’ordine giudiziario, art. 87.175 Regolamento organico e di procedura criminale, art. 13.176 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, art. 88.177 Ibidem, art.89 e art. 90: «I titoli di competenza del magistrato di

polizia non possono eccedere la condanna a tre mesi di prigionia e a scudi novanta di multa, e sono determinati nell’apposito codice di polizia.»

178 Ibidem, art. 92: «Sono delitti di competenza pretoriale quelli che sono puniti dal codice penale e con una pena non eccedente un anno di prigionia o

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Nei giudizi cosiddetti criminali, invece, quelli cioè che comportavano una condanna eccedente la competenza correzionale, era ammessa la revisione nel merito delle sentenze di primo grado di condanna alla pena capitale179; sempre nei giudizi criminali era ammessa la revisione qualora la condanna non fosse stata pronunciata ad unanimità di voti ovvero quando fosse stata sospesa sulla base di uno o più voti favorevoli all’ innocenza dell’imputato.

La sentenza pronunciata nel giudizio di revisione confermativo della condanna alla pena capitale poteva essere cassata tanto per motivi di fatto quanto per motivi di diritto. Lo stesso rimedio era ammesso nei confronti delle sentenze pronunciate dai tribunali di prima istanza in materia criminale nei casi in cui non fosse stato possibile esperire la revisione e contro le sentenze pronunciate in sede di revisione in merito con le quali fosse stata revocata o moderata la sentenza di condanna alla pena capitale ma solo nei casi in cui la sentenza stessa non contenesse la dichiarazione di innocenza180.

Nessun riferimento alla cassazione della sentenza compariva nel Regolamento gregoriano; il rimedio della revisione era invece ammesso avverso le sentenze inappellabili per indole della causa o perché proferite in secondo grado di giudizio, con istanza rivolta ai tribunali superi, al fine di richiedere l’annullamento della sentenza per violazione delle forme di legge, falsa applicazione della legge penale o eccesso di potere181. Il tribunale competente in sede di revisione era il Tribunale della Sacra Consulta al quale erano rimesse tutte le questioni di competenza, remissione, sospensione, concernenti i

di restituzione e colla multa fino a scudi trecento sessanta, quand’anche la multa sia cumulata alla pena direttamente afflittiva.»; art. 95:«Appartiene al tribunale correzionale la cognizione dei delitti che secondo le leggi penali sono puniti con una pena superiore ad un anno di prigionia o di restrizione, ma che non accede l’opera pubblica o gli anni cinque di reclusione, o con una multa superiore agli scudi trecentosessanta, qualunque ne sia la quantità e quand’anche venga inflitta in unione ad una pena direttamente afflittiva.»

179 Ibidem, artt., 96-97.180 Ibidem, artt., 98-100.181 Regolamento organico e di procedura criminale, artt. 15-17.

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giudici dei tribunali di Roma, delle Province e delle Delegazioni salvo i casi in cui i conflitti di competenza riguardassero il foro ecclesiastico, nel qual caso era competente il Tribunale di Segnatura.

Sempre il Regolamento del ’34 prevedeva che il rimedio della revisione fosse affidato ai tribunali inferiori, vale a dire i tribunali residenti nei capoluoghi, competenti a giudicare, come tribunali di revisione, le controversie sulla competenza tra due o più governatori della stessa provincia, assessori o giusdicenti; uguale competenza era prevista anche in capo al tribunale del Governo di Roma per i conflitti di competenza nascenti tra i governatori della Comarca di Roma.

Nel Regolamento del ’47 era accordato il rimedio della restituzione in intiero contro le sentenze passate in giudicato o eseguite qualora con un’altra sentenza passata in giudicato o a seguito della scoperta di nuove prove o nuovi documenti fosse provata la manifesta ingiustizia della sentenza pronunciata182.

Il Titolo IX trattava la materia relativa alla distribuzione delle competenze nei tribunali penali del foro laico. Giudici di primo grado erano i giusdicenti e i governatori che giudicavano in veste di magistrati di polizia; in secondo grado invece giudicavano i presidenti della sezione correzionale dei tribunali di prima istanza.

A Roma erano previsti due giudici singolari competenti per le cause minori mentre nelle Province la giustizia penale era esercitata dai giusdicenti e dai governatori all’interno delle rispettive aree di competenza territoriale.

Per le cause a titolo correzionale e criminale, a Roma, era competente un tribunale composto di un presidente e di otto giudici, suddiviso in due turni, uno per le cause correzionali, l’atro per le criminali, ciascuno composto di quattro votanti, compreso il presidente. Nelle province, invece, la competenza in materia di giustizia correzionale e criminale era affidata ai

182 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, art. 101.95

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tribunali di prima istanza, composti di quattro votanti, compreso il presidente; il turno correzionale di questi tribunali era anche competente per l’appello avverso le sentenze pronunciate in primo grado dai giusdicenti e dai governatori nelle cause minori e per i conflitti di giurisdizione tra due giudici singolari sottoposti allo stesso tribunale di prima istanza.

Le sentenze pronunciate nelle cause a titolo correzionale andavano invece appellate al superiore tribunale di appello. A quest’ultimo tribunale spettava anche la competenza per le domande di revisione in merito o per la cassazione per motivi di fatto. A Roma una sezione del tribunale di appello giudicava, in grado di revisione nel merito o di cassazione per motivi di fatto mentre nelle Province erano i medesimi tribunali competenti nelle cause civili a conoscere delle sentenze criminali in via di revisione in merito o cassazione per motivi di fatto.

I tribunali di appello, in prima e ultima istanza, giudicavano anche sulle domande di remissione da un giudice o tribunale in materia penale ad altro giudice o tribunale in materia civile, e così pure sulla sospensione del giudicato criminale fino all’esito del giudizio civile e viceversa, sempre però con riferimento a giudici e tribunali risiedenti nel territorio della loro giurisdizione.

I tribunali di appello giudicavano con il concorso di sei giudici, compreso il presidente o chi ne faceva le veci; quando il tribunale di appello annullava la sentenza di prima istanza contestualmente si pronunciava anche sul merito183.

Nel Regolamento gregoriano il Tribunale del Governo di Roma era giudice di secondo grado delle cause giudicate dai Governatori della Comarca in primo grado184. Il Tribunale della Sacra. Consulta era invece competente a giudicare, come tribunale di appello, tutte le cause giudicate dai tribunali di Roma, compreso quello del Prefetto dei Sacri Palazzi apostolici e

183 Ibidem, artt. 102-124.184 Regolamento organico e di procedura criminale, art. 34.

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dei tribunali delle Province o Delegazioni di Perugia, Rieti, Viterbo, Orvieto, Civitavecchia, Frosinone, Benevento, per sentenze di condanna alla pena capitale185.

Il Supremo Tribunale di Giustizia che aveva una sezione competente per le cause in materia penale era composto di otto giudici votanti, compreso il presidente o chi ne faceva le veci.

Rientravano nella competenza di questo tribunale le domande di cassazione di una sentenza per motivi di diritto; le domande di cassazione anche per titoli di fatto contro le sentenze proferite dai tribunali criminali, quando nel ricorso erano cumulati i motivi di diritto a quelli di fatto; le domande di cassazione anche per i soli motivi di fatto contro le sentenze proferite dai tribunali di appello. Inoltre esso conservava tutte quelle competenze proprie del Tribunale della Sacra Consulta, ossia le questioni di competenza, il conflitto di giurisdizione tra due giudici singoli o fra un giudice singolo e un tribunale collegiale o tra due tribunali collegiali quando i giudici o i tribunali fra i quali insorgeva il conflitto non dipendevano dallo stesso tribunale di appello; le questioni di conflitto di giurisdizione tra due tribunali di appello; le questioni di prevenzione tra giudici o tribunali civili e giudici o tribunali in materia penale non dipendenti dallo stesso tribunale di appello; le questioni di remissione dal criminale al civile o di sospensione del giudizio criminale sino all’esito del giudizio civile e viceversa, quando avevano relazione a giudici e tribunali non sottoposti alla giurisdizione dello stesso tribunale di appello 186.

Quando il Supremo Tribunale di Giustizia cassava una sentenza sottoposta al suo giudizio rimetteva la causa per una nuova decisione in merito al competente tribunale di appello se in precedenza questo non si era già pronunciato su quella causa, altrimenti il Supremo Tribunale di Giustizia procedeva direttamente a giudicare nel merito187.

185 Ibidem, art. 43.186 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, art. 126.187 Ibidem, art. 127.

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La disciplina dei tribunali militari in materia penale contenuta nel Titolo X dei Regolamento del ’47 risulta molto differente e molto più scarna rispetto al Regolamento di giustizia criminale e militare del 1842188. Il Regolamento di Pio IX, predisposto al fine di regolare la parte relativa all’amministrazione della giustizia, si occupava solamente del ministero dei tribunali e della loro composizione e competenza, tralasciando del tutto la parte relativa ai delitti, alle contravvenzioni e alla discussione della causa, viceversa ampiamente trattata nel Regolamento di giustizia militare.

Il Regolamento del ’47 prevedeva tre tribunali militari di prima istanza in materia penale, a Roma, Bologna e Ancona, ciascuno composto da un assessore legale divisionario con voto decisivo e con grado di militare e da tre giudici. Ai tribunali di prima istanza si aggiungeva un tribunale di appello militare sedente in Roma, composto da un assessore legale generale con voto decisivo e con grado militare e da cinque giudici. Inoltre presso ogni tribunale militare vi era un fiscale legale con il grado di militare189.

La competenza dei tribunali militari si estendeva a tutti i corpi di milizia dello Stato, compresi i civici ed i corpi regolari dei vigili pompieri e finanzieri, e riguardava tutti i delitti commessi dai militari in azione e i delitti prettamente militari commessi dai militari in stazione.

I tribunali di prima istanza erano competenti a giudicare i delitti maggiori in via ordinaria e i delitti minori in via disciplinare190.

188Regolamento di giustizia criminale e militare del 1° aprile 1842, in, Raccolta delle leggi... cit., vol. u., 1842, pp.77 e ss.

189 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, artt. 128-133.190 La lettera dell’articolo su questo punto non è molto chiara. Si riporta

per un confronto il testo dell’art. 8 del Regolamento di giustizia criminale e disciplina militare: «Per gli effetti del presente Regolamento si intitola

§1. Delitto maggiore quello che la legge punisce con una pena superiore ai tre anni di detenzione;

§2. Delitto minore quello che la legge punisce colla detenzione;§3. Contravvenzione disciplinare quella che la legge corregge con

punizione inferiore alla pena della detenzione.»98

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Le sentenze dei tribunali di prima istanza potevano essere appellate di fronte al competente tribunale e il giudizio di secondo grado non poteva essere soggetto alla revisione o approvazione di qualunque altra autorità giudiziaria, compresa quella della Presidenza delle Armi191.

L’ultima parte del Regolamento si apriva con il Titolo XI e trattava della disciplina dei magistrati e degli ufficiali addetti all’ordine giudiziario. Tra questi il primo articolo del titolo in esame ricomprendeva gli avvocati dell’ordine pubblico, i procuratori fiscali, i difensori dei rei per ufficio, i cancellieri e i sostituti192.

La disciplina dei giudici, invece, si trovava nella prima parte del Regolamento e occupava tutto il Titolo II, anche se rimaneva molto scarna rispetto a quella contenuta nell’Editto disciplinare del 17 dicembre 1834 che, nella sezione prima, relativa alle disposizioni comuni a tutti i giusdicenti e criminali, conteneva disposizioni dettagliate per quel che riguardava il potere disciplinare, le assenze, le sostituzioni, fino ai modi di diposizione in aula dei giudici193.

Nel Regolamento di Pio IX erano invece dettate poche regole relative all’ufficio del giudice. Per poter esercitare la professione di giudice occorreva, come regola generale, aver compiuto il venticinquesimo anno di età; nei tribunali collegiali, invece, l’età prescritta era di trent’anni, era inoltre necessario aver conseguito la laurea dottorale in legge sia civile che canonica. L’ufficio di giudice era incompatibile con l’esercizio del notariato, del patrocinato e dell’avvocatura, inoltre, era proibito ai giudici esercitare qualunque impiego nei rami dell’amministrazione civile, governativa, provinciale o comunale e il prendere parte attiva negli appalti, nelle esattorie e nelle

191 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, artt. 134-138.192 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, art. 139.193 Editto del 17 dicembre 1834 contenente particolari disposizioni

indicate nei §§ 257 e 244 del Sovrano motu proprio in data 10 novembre 1834, Bologna, Tipografia Vitali, sez. I “Disposizioni comuni a tutti i giusdicenti e tribunali”.

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amministrazioni che potessero avere interessi relativamente ai beni o ai redditi delle comunità e dei pubblici stabilimenti. Non era poi concesso ai giudici di rivestire ruoli di compromissario o di arbitro.

Queste regole valevano per tutti i giudici, eccetto solamente i giudici commercianti194.

Una disciplina più dettagliata era invece prevista per gli altri addetti all’ordine giudiziario. Tra questi la figura che maggiormente risaltava era quella dell’avvocato dell’ordine pubblico. La funzione principale dell’avvocato dell’ordine pubblico era quella di vigilare affinché le leggi e i regolamenti riguardanti l’amministrazione della giustizia fossero esattamente osservati. Essi sedevano presso ogni tribunale di appello (gli unici tribunali in cui potevano essere esercitate le funzioni di avvocato) e dovevano avere un’età non inferiore ai quarant’anni; il loro ufficio era inoltre incompatibile con quello di avvocato patrocinante, notaio, compromissario o arbitro.

I presidenti dei tribunali ed i procuratori fiscali erano posto a un livello inferiore rispetto agli avvocati dell’ordine pubblico, in quanto oltre a prestarsi alle loro richieste dovevano anche affiancarli nell’esercizio delle loro incombenze; i presidenti, inoltre, dovevano comunicare agli avvocati dell’ordine pubblico l’ordine di discussione delle udienze e delle riunioni dei giudici, insieme ad ogni misura disciplinare che venisse emanata dai presidenti nei confronti dei giudici.

L’avvocato dell’ordine pubblico era anche l’organo attraverso il quale i giudici, i tribunali, e i procuratori fiscali comunicavano con il governo superiore e attraverso il quale trasmettevano ogni mese lo stato delle cause introdotte e decise.

I giudici singolari e i presidenti dei tribunali collegiali dovevano alla fine di ogni anno rimettere all’avvocato dell’ordine pubblico lo stato di tutti gli impiegati da loro dipendenti accompagnato da una informativa sulla loro condotta in ufficio e

194 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, artt. 12-18.100

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sulle competenze di ciascuno. Chiunque poi avesse voluto lamentarsi contro qualsiasi impiegato dell’ordine giudiziario ne avrebbe dovuto dar conoscenza all’avvocato dell’ordine pubblico.

Era inoltre stabilito che almeno una volta all’anno l’avvocato dell’ordine pubblico avesse dovuto percorrere le province e visitare i tribunali sottoposti alla giurisdizione del tribunale di appello al quale apparteneva.

La sorveglianza dell’avvocato dell’ordine pubblico si estendeva anche alle carceri, agli impiegati nelle medesime, e all’esatto adempimento dei regolamenti carcerari.

La parte che doveva prendere l’avvocato dell’ordine pubblico nella verifica delle cause di sospetto allegate contro un giudice era determinata dalle leggi di procedura195.

A differenza dell’Editto del ’34 nel Regolamento di Pio IX era disciplinata anche la figura dell’Procuratore Fiscale196, cui era affidata la funzione di esercitare l’azione penale e di sorvegliare sul regolare svolgersi dei processi.

Questa figura esisteva già da molto tempo nello Stato Pontificio, il Moroni infatti dice che a Roma la parola Fisco equivaleva in gran parte a ciò che negli altri Stati si chiamava Pubblico Ministero197. Esso inizialmente era affidato a tre ufficiali di nomina sovrana, vale a dire l’avvocato generale del Fisco e della Camera apostolica, il Procuratore generale del Fisco e un Commissario generale della Camera. Il procuratore generale del Fisco era addetto alla parte criminale ed esercitava l’azione pubblica.

Nel Regolamento del ’47 il Procuratore fiscale doveva aver compiuto l’età di 30 anni ed aver conseguito la laurea dottorale in entrambe le leggi.

195 Regolamento organico dell’ordine giudiziario, artt. 140-152.196 Ibidem, artt. 153-156.197 G. MORONI, Dizionario di erudizione storico ecclesiastica, vol. XXV,

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A Roma, l’ufficio di monsignor Procuratore generale del Fisco e dei suoi sostituti era mantenuto, seppur con alcune modificazioni. Monsignor Fiscale avrebbe esercitato il suo ufficio presso la sezione criminale del supremo tribunale di giustizia, e un sostituto avrebbe esercitato stabilmente il suo ufficio presso la sezione criminale del tribunale di giustizia, un secondo sostituto l’avrebbe esercitata presso il tribunale di prima istanza e il terzo sostituto l’avrebbe esercitata presso la sezione correzionale del medesimo tribunale e presso i giusdicenti in materia penale.

Nelle province il procuratore fiscale presso il tribunale di prima istanza esercitava il suo ufficio anche presso il giusdicente locale.

2.9. La commissione per la riforma dei codici del 1847La commissione istituita da Pio IX nel 1846, autrice del

Regolamento organico dell’ordine giudiziario, non completò del tutto i lavori, soprattutto per quanto riguarda la parte codicistica.

L’11 settembre 1847, il progetto di Regolamento organico dell’ordine giudiziario veniva inviato dalla Segreteria di Stato a monsignor Matteucci, Segretario della Consulta, insieme con il biglietto di nomina a membro della nuova commissione istituita da Pio IX al fine di rivedere e di apportare le opportune modifiche al Regolamento organico del ’47198.

198 Dalla Segreteria di Stato, 11 settembre 1847. «La Santità di Nostro Signore, dopo di aver nell’udienza del di sei del corrente mese sanzionate le deliberazioni prese dal Consiglio dei ministri nell’adunanza del 13 di agosto scorso relativamente alla revisione e pubblicazione dè nuovi codici civili e criminali si è degnata poi di nominare una commissione per l’esame del Regolamento organico dell’ordine giudiziario componendo la di Monsignori Morichini Arcivescovo di Nisibi e pro-teosirere generale della R.C.A. Muzzarelli Uditore Decano della S. Rota romana, Matteucci Segretario della S. Consulta, Amici segretario del Consiglio dei ministri, e del sign. Avvocato Giuseppe Lunati.

Il sottoscritto segretario di Stato rende consapevole Mons. Matteucci Segretario della S. Consulta di quest’atto di graziosa sovrana considerazione in cui egli ravviserà una nuova dimostrazione di quella fiducia con che degna onorarlo Sua Santità ed a cui sarà per corrispondere con lo esperimentato zelo ed impegno.

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Gli altri membri della commissione sarebbero stati monsignori Morichini, Arcivescovo di Nisibi e pro-teosirere generale della R.C.A., Muzzarelli Uditore Decano della Sacra Rota romana, Matteucci, Segretario della S. Consulta, Amici, segretario del Consiglio dei ministri, e l’avvocato Giuseppe Lunati.

La commissione così nominata non giunse a completare i lavori in quanto il nuovo assetto costituzionale che si stava delineando prevedeva l’introduzione di nuovi organi che avrebbero dovuto sovraintendere alle riforme legislative, e che per questo motivo subentrarono alla commissione. Primo fra tutti la Consulta di Stato.

Intanto il sottoscritto medesimo trasmette al lodato Mons. Matteucci la copia in stampa del progetto del citato Regolamento compilato dalla Commissione nominata con dispaccio del 6 novembre dello scorso anno sul quale progetto gli egregi componenti la nuova commissione saranno per portare il loro esame giusta la surriferita disposizione di sua maestà del sei corrente mese.» ASR, Commissioni...cit., b. 4, fasc. 34.

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3. Capitolo III – Il secondo periodo di riforme (1847-1848) –

3.1. La Consulta di Stato Una delle principali proposte del Memorandum del 1831

riguardava l’ammissione dei laici alle funzioni amministrative e giudiziarie e la creazione di una Consulta composta di persone scelte dai Consigli municipali e di Consiglieri del governo199.

Gregorio XVI non era riuscito a realizzare l’impresa ma la proposta era rimasta sempre viva e Pio IX, prima ancora di nominare ufficialmente la Consulta di Stato, aveva nominato un consiglio di rappresentanti di tutte le province con sede a Roma200. La via intrapresa era quella della creazione di un organo laico a carattere consultivo a cui affidare l’incarico di preparare leggi e regolamenti.

Già con la circolare del cardinal Gizzi del 19 aprile 1847 si era preannunciata la creazione di un organo i cui membri sarebbero stati scelti dai legati e dai delegati tra due o tre persone per provincia201. La circolare lasciava indeterminato il modo di agire dei membri del nuovo consesso, un chiaro segnale di come le idee al riguardo fossero ancora poco chiare e che alimentava la curiosità del popolo e degli altri osservatori.

Solamente con il moto proprio del 14 ottobre 1847, si diede veste ufficiale alla Consulta di Stato, istituita a Roma con il compito di principale di “coadiuvare alla pubblica amministrazione”. Essa era composta da un cardinale

199 A. M. GHISALBERTI, Nuove ricerche... cit., p. 39; C. FARINI, Lo Stato Romano, cit., p. 38.

200 F. A. GUALTIERO, Gli ultimi rivolgimenti italiani, Napoli, 1862, p. 432.

201 La scelta dei consultori è ampiamente illustrata da M. A GHISALBERTI, Nuove ricerche... cit., pp. 42-50.

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presidente, un prelato vicepresidente, ventiquattro consultori di Stato, quattro per Roma e per la Comarca, due per la provincia di Bologna e uno per ciascuna delle altre province202; vi erano anche un corpo di uditori, un segretario generale e un capo-contabile con i rispettivi uffici.

La nomina del cardinale presidente e quella del prelato vice-presidente spettava al sovrano, e così anche la nomina dei consultori di Stato; le nomine si effettuavano su terne di candidati che i consigli provinciali inviano attraverso i presidi delle province alla Segreteria di Stato203.

La Consulta di Stato operava in sezioni e le riunioni tenevano sia in sedute generali che in sedute particolari, per ciascuna sezione. Queste erano quattro, composte ciascuna di sei consultori, ed erano: la sezione legale e legislativa, la sezione finanza, la sezione amministrazione interna, commercio, industria, agricoltura, e la sezione militare, lavori pubblici, carceri, case di correzione e di condanna.

La Consulta di Stato diede un segale di liberalismo all’attività amministrativa di cui volle essere espressione. «La perfezione e il progresso degli organi amministrativi sono certo fra le caratteristiche dello Stato moderno, e quindi possono essere citati a prova che le finalità democratiche presiedevano orami allo svolgimento del diritto. La composizione democratica della Consulta metteva in rilievo il primo parlamento laico dello Stato ecclesiastico della cui presenza non era affatto da stupirsi perché la vita comunale dal Cinque all’Ottocento ha una base elettorale e la Consulta pontificia si innesta su una pianta indigena nazionale204.»

202 Moto proprio della Santità di Nostro Signore sulla Consulta di Stato, del 14 ottobre 1847, in, Raccolta delle leggi... cit., vol. I, p. 309.

203 «Si trattò dunque di un minuscolo parlamento, con elezione di terzo grado, tra i cui candidati dovevano necessariamente figurare tutti i migliori e più produttivi ceti sociali, il vero popolo grasso dello Stato: compresi però espressamente gli scienziati e i docenti di istituti governativi. A. LODOLINI, Il Parlamentino liberale della Consulta di Stato pontificia (1847), in «Atti del XXXI congresso di storia del risorgimento italiano: Mantova, 21-25 settembre 1952», Roma, 1956, pp. 165-172.

204 Ibidem.105

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Le competenze della Consulta riguardavano gli affari interessanti lo Stato o una o più province, la redazione e la riforma di leggi e regolamenti amministrativi, l'esame dei debiti dello Stato, dazi, appalti, tariffe doganali, trattati di commercio e l'esame del bilancio consultivo e preventivo205.

La Consulta cercò di affrontare da subito la soluzione dei problemi propri di uno Stato che aspirava a divenire costituzionale; tra questi la legge elettorale prevista dall’art. 64 dello Statuto, la revisione dell'ordinamento dei comuni e delle province, la riforma del sistema ipotecario e anche la creazione dell’organo che sarebbe stato il suo successore, il Consiglio di Stato.

Ma la Consulta cercò soprattutto di vedere a fondo nei bilanci, la cui chiarezza era alla base d’ogni sistema democratico, per individuare le cause del deficit e le colpe e gli errori della pubblica amministrazione. La sezione Finanza fu la prima ad essere costituita con l’obiettivo di ridurre le spese per le forze armate e studiare il massimo rendimento della lega doganale dei potenti italiani.

Alla sezione legislativa, fu invece affidato, tra gli altri, l’importante incarico di riesaminare il progetto del regolamento organico dell’ordine giudiziario già compilato dalla commissione legislativa del 1846206.

Membri della sezione legislativa furono nominati il professor Pasquale De Rossi, l’avvocato Giuseppe Lunati, l’avvocato Luigi Santucci, l’avvocato Giuseppe Piacentini,

205 A. ARA, Lo Statuto fondamentale della Chiesa de 14 marzo 1848, Milano, 1966, p. 42.

206 Estratto dal verbale della seduta del 10 febbraio 1848: «Si è adunata la sez. prima nel solito locale a Montecitorio alle ore 9.30 antimeridiane…Il presidente De Rossi dà comunicazione di un dispaccio del ministro di grazia e giustizia all’eminentissimo presidente della Consulta in data 6 febbraio corrente n. 6407, rimesso alla sezione con rescritto dello stesso presidente del 7 febbraio corrente, col quale dispaccio, comunicandosi il progetto del regolamento organico dell’ordine giudiziario già compilato dalla commissione legislativa, si dispone che venga sottoposto all’esame e deliberazione della Consulta di Stato» ASR, Consulta di Stato, Verbali sezione legislativa, Seduta del 10 febbraio 1848, b. 1, fasc. 1.

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l’avvocato Francesco Benedetti, l’avvocato Luigi Ciofi, con funzioni di segretario.

Alcune notizie biografiche sui membri della sezione legislativa207.

Pasquale De Rossi nacque a Vallcerosa (Frosinone) nel 1794. Dal 1833 fu professore di diritto romano alla Sapienza di Roma, città dove esercitava la professione di avvocato. Fu membro della Consulta di Stato per la provincia di Roma e nel 1848 venne nominato ministro di grazia e giustizia, carica che comporterà anche la sua presidenza al successivo Consiglio di Stato. Tra le fila dei moderati, venne eletto al Consiglio dei deputati, e durante la Repubblica romana anche all'Assemblea costituente, ma si dimise quando l'Assembela dichiarò decaduto il potere temporale del papa. Il suo atteggiamento non fu però del tutto privo di conseguenze; rientrato Pio IX a Roma, non gli verrà riconfermato l'incarico di professore alla Sapienza208.

Giuseppe Lunati, nato a Frascati nel 1800, fu nominato da Pio IX consultore di Stato per la Comarca di Roma; nel maggio 1848 accettò il portafoglio delle Finanze nel governo Mamiani e alle elezioni del 20 maggio al Consiglio dei Deputati fu una delle colonne del partito costituzionale: infatti fu uno dei quattro a raccogliere il maggior numero di suffragi, insieme con il Mamiani, il Minghetti e lo Zanolini. Dopo l’ assassinio del Rossi, accettò la nomina a ministro delle Finanze, ma non appena si convinse che il papa, profugo a Gaeta, protestava contro il nuovo governo, si dimise.Durante il periodo repubblicano venne eletto alle elezioni del 20 aprile 1849 con un tal numero di suffragi da risultare il secondo

207 Per le notizie bibliografiche sui membri della commissione si vedano C. LODOLINI TUPPUTI, Ricerche sul Consiglio di Stato pontificio (1848-1849), estratto da «Archivio della società romana di storia patria», vol. XXVI - Annata XCV - Fasc. I-IV; F. GENTILI, Il Consiglio di Stato romano del 1848 e il suo vice presidente Carlo Luigi Morchini, in «Rassegna storica del Risorgimento» vol. VI, 1919, pp. 477-496.

208 Sulla vita e l'attività giuridica e professionale di Pasquale di Rossi si veda M. COLAGIOVANNI, Pasquale de Rossi. Un liberale nella Repubblica romana del '49, Roma, 2002.

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dei cento eletti, ed accettò l'ufficio di conservatore; caduta la Repubblica, il generale Oudinot gli affidò il ministero delle Finanze con il titolo di commissario straordinario, ma dovette ritirarsi dopo soli sette giorni poiché Pio IX da Gaeta dichiarò di non volere al governo ministri nominati dal comandante francese del corpo di occupazione.Fu chiamato dal generale Cadorna nella giunta provvisoria di governo il 21 settembre 1870; eletto consigliere comunale il 29 novembre fu nominato senatore il dicembre dello stesso anno209.

Luigi Ciofi da Viterbo era nato nel 1810; nel 1847 era diventato membro della Congregazione governativa di Viterbo ed era il rappresentate di quella provincia alla Consulta di Stato. Dopo il 1849 continuò a far parte della Congregazione governativa di Viterbo e divenne anche gonfaloniere della città. Nel 1861 venne nominato membro della Consulta di Stato per le finanze sempre come rappresentate di Viterbo e vi rimase fino alla fine dello Stato pontificio210.

Luigi Santucci, nato a Velletri nel 1810, fu uditore dal 1843 del Tribunale del Senatore di Roma e supplente nel Tribunale Criminale del Senatore e direttore generale di polizia. Presso la Consulta di Stato fu eletto come rappresentante della provincia di Velletri. Non ricoprì altre cariche dopo quella di consigliere di Stato e morì a Roma nel 1864211.

Giuseppe Piacentini da Collvecchio (Rieti) nacque il 24 giugno 1803; era stato rappresentante di Rieti nella Consulta di Stato e nel 1848 fu eletto deputato per Poggio Mirteto al Consiglio dei deputati. Durante il periodo repubblicano fu tra i conservatori del municipio romano. Alla caduta della Repubblica romana fu nominato commissario straordinario del Ministero di grazia e giustizia dal generale francese Oudinot con decreto del 9 luglio 18949 e vi rimase per circa un mese. Nel 1870 entrò a

209 F. GENTILI, Il Consiglio di Stato romano del 1848...cit., pp. 484-484.210 C. LODOLINI TUPPUTI, Ricerche sul Consiglio di Stato pontificio...

cit. p. 249.211 Ibidem, p. 263.

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far parte di una commissione di giureconsulti incaricata di preparare l'introduzione ai cinque codici italiani nelle province romane. Successivamente, con regio decreto del 10 ottobre 1870 fu nominato consigliere della Luogotenenza del re per Roma e le province romane, con competenza sull'amministrazione di grazia e giustizia. Venne nominato senatore del Regno, e nell'atto di nomina venne definito "una illustrazione del foro italiano212.

Mancano notizie bibliografiche su Francesco Benedetti.

3.2. Il Regolamento organico dell’ordine giudiziario all’esame della Consulta di Stato Il progetto di regolamento organico del 1846, compilato dalla cessata commissione per la compilazione dei codici, venne comunicato alla Consulta con dispaccio del ministro di grazia e giustizia in data 6 febbraio 1847213.

Cominciava quindi l’esame in Consulta del progetto di regolamento.

Il Lunati venne nominato deputato relatore; preoccupazione principale dei membri della sezione legislativa era quella di discutere in via preliminare l’impianto del nuovo progetto.

Nella seduta del 10 febbraio si discussero solamente le questioni fondamentali, che potevano riassumersi nei seguenti punti: se nei giudizi civili bisognava garantire un terzo grado di giudizio, se si doveva creare un tribunale supremo di cassazione e in caso affermativo indicandone le norme di disciplina e le attribuzioni, se dovevano conservarsi o meno i tribunali speciali, (cioè i commerciali, i contenziosi amministrativi e gli ecclesiastici), se doveva stabilirsi il Pubblico Ministero e in caso affermativo in quali tribunali, se doveva ammettersi o meno nei giudizi penali una camera d’accusa, se il processo doveva

212 Ibidem, pp. 261-262.213 ASR, Consulta di Stato, Verbali sezione legislativa, Seduta del 10

febbraio 1848…cit.109

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basarsi su prove scritte ovvero doveva essere orale e se doveva concedersi o meno l’appello214.

La discussione riprese in Consulta il giorno 14 febbraio 1848 e si aprì la discussione sul primo quesito relativo all’ammissione, nei giudizi civili, di un terzo grado di giudizio215.

Il Lunati sosteneva che era necessario, oltre che più semplice, adottare un impianto di due soli gradi di giurisdizione. Quando le parti contendenti non si accordavano su un fatto o sull’interpretazione di una legge, doveva esservi un tribunale composto da dotte ed oneste persone, nel quale riposasse la fiducia pubblica, e che decidesse senza che vi fosse ulteriore revisione. Egli faceva l’esempio delle altre nazioni “civilizzate” che limitavano la giurisdizione a due soli gradi essendo quel metodo il più spedito e il più sicuro. L’inconveniente del sistema dei tre gradi era che in nessuno dei tre gradi riposava la fiducia pubblica.

Il Piacentini argomentava allora che se era un tribunale di secondo grado a decidere la controversia era inutile che vi fosse il primo, lamentando l’incongruenza di far prevalere la sentenza di secondo grado su quella di primo.

Il Lunati riconosceva l’utilità del primo grado nella formazione del processo e attribuiva la prevalenza del secondo grado alla maggior fiducia nella ricerca della verità che dava un tribunale superiore composto da maggior numero di persone.

Il De Rossi riteneva che la maggior affidabilità del tribunale di secondo grado derivava dalla discussione e dalla cognizione di causa con cui esso giudicava.

Un inconveniente del sistema dei due gradi veniva rilevato dal Benedetti e consisteva nel fatto che spesso le parti i causa non si curavano di completare gli atti nel giudizio di primo grado, riservando tutta la difesa al secondo, ove in concreto veniva decisa la controversia.

214 Ibidem.215 Ibidem.

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Il Lunati e il De Rossi credevano che poteva ovviarsi in parte a tale inconveniente con l’obbligare i giudici di secondo grado ad esprimere il loro giudizio sulla base del solo processo compilato in prima istanza, rimanendo loro vietata la possibilità di prendere cognizione, anche stragiudiziale, di qualunque altro documento; inoltre sarebbe dovuto essere a carico della parte che li produceva, la spesa per i documenti nuovi non esibiti in prima istanza.

Dopo la discussione tutti convenivano nel mantenere il sistema dei due gradi.

Il secondo quesito riguardava la creazione e le eventuali norme di disciplina del Tribunale di Cassazione. I membri all’unanimità ritenevano necessaria l’esistenza di questo tribunale supremo, soprattutto in conseguenza dell’adozione del sistema dei due gradi di giudizio. Per quanto riguardava le attribuzioni, queste dovevano essere quella di cassare i giudicati per violazione di legge e di pronunciarsi sulle altre questioni che esulavano dalla competenza dei tribunali ordinari.

Il terzo quesito riguardava la conservazione dei tribunali speciali, vale a dire i commerciali, gli ecclesiastici e quelli del contenzioso amministrativo.

Il Lunati era del parere che dovessero abolirsi i tribunali commerciali trovando fuori luogo che negozianti, ai era per lo più sconosciuto il diritto, dovessero giudicare cause che richiedevano una conoscenze approfondita della materia giuridica; inoltre, se ai giudici fosse mancata qualche particolare conoscenza, essi potevano farsi assistere da esperti in materia, come era praticato anche presso i giudici ordinari.

Tutti i membri della sezione concordarono col parere del Lunati sempre ad unanimità si ritenne prioritaria l’abolizione dei tribunali ecclesiastici per quanto riguardava le persone, conservando la loro giurisdizione solamente ragione materia.

Molto discussa dalla sezione fu la questione se abolire o conservare i tribunali del contenzioso amministrativo.

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Il Lunati, convinto sostenitore della necessaria abolizione di ogni forma di eccezione, suggeriva di deferire tutte le cause alla cognizione dei tribunali ordinari, ove le parti trovavano sempre maggiori garanzie.

Il Benedetti, di contro, credeva che dovessero conservarsi soprattutto perché le procedure dei tribunali ordinari avrebbero ritardato di troppo l’azione del potere amministrativo.

Il Lunati controbatteva ritenendo che il ministero potesse agire liberamente nell’esecuzione dei suoi disegni, salva facoltà concessa al privato di ricorrere contro il “pubblico Erario” in via devolutiva dinanzi ai tribunali ordinari.

Il De Rossi e il Benedetti, facevano notare che in quel modo si apriva la strada agli arbitrii del ministero e che il privato non avrebbe potuto facilmente difendersi da tali abusi una volta verificatisi, nonostante il Lunati evidenziasse che posta la vera responsabilità del ministero verso l’Erario e dell’Erario verso i privati sarebbe stato assai difficile il verificarsi di suddetti abusi.

Dopo la discussione il Benedetti rimaneva fermo sulle proprie ragioni mentre tutti gli altri convenivano con il Lunati.

Sul quarto quesito, che concerneva l’istituzione del Ministero Pubblico, destinato “a contenere i giudici nei limiti della legge”, tutti concordavano con la sua istituzione nei tribunali collegiali.

L’unanimità si ebbe anche sull’istituzione di una camera di accusa, con la quale si sarebbe meglio garantita la libertà individuale dei cittadini, e posto un freno a quanto accadeva nel sistema vigente, ove bastava un solo giudice processante per mettere il cittadino in stato di accusa.

Contrasto di opinioni si ebbe sul sesto quesito, sul processo orale o scritto e sulla possibilità di appellare le cause penali

Il Piacentini considerava indispensabile il processo orale nel tribunali di prima istanza, ma riteneva utile adottare in appello le forme del processo scritto e con tale opinione concordavano il Benedetti e il Santucci.

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Di contro, gli avvocati Lunati, De Rossi e Ciofi credevano che sarebbe stato impensabile ammettere una forma di processo in primo grado e un'altra in appello. Le cause maggiori potevano essere definite senza ulteriore revisione dai tribunali di appello dello Stato, ponendo i tribunali di prima istanza come camere di accusa, ovvero accordando la revisione a tutte le cause maggiori; doveva però mantenersi il processo orale sia in prima e che in seconda istanza con il trasporto dei testimoni e dei rei. Il Tribunale di cassazione non doveva mai assumere le funzioni di tribunale di appello ma giudicare soltanto le violazioni della legge.

Si discusse infine se i medesimi giudici dovevano occuparsi delle questioni sia civili che penali ma ad unanimità si concluse per la negativa.

Sempre ad unanimità si decise infine l’introduzione dei giudici di pace, per i grandi vantaggi che tale istituzioni avrebbe comportato in seno alla magistratura municipale.

3.3. Dalla Consulta di Stato al Consiglio di StatoL’istituzione della Consulta era stato un esempio della

volontà di trasformare e di avvio lungo il cammino delle riforme. Ma tutte le buone intenzioni cadevano con lo scioglimento dell’istituto il 16 maggio 1848.

Il Ghisalberti sottolinea al riguardo come “il lungo periodo di gestazione che aveva percorso quest’istituzione aveva fatto sì che nel momento in cui era nata fosse già vecchia e superata dagli eventi; essa era stata accolta con particolare entusiasmo dall’opinione pubblica ma il Papa, pur apprezzando diversi consultori, aveva finito per diffidare dall’istituto al punto che una volta proclamato lo Statuto non lo lasciò confluire nel Consiglio di Stato ma creò un organo del tutto nuovo216.”

216 A. M. GHISALBERTI, Nuove ricerche... cit., p.59. Sul Consiglio di Stato si veda anche C. GHISALBERTI, Il Consiglio di Stato di Pio IX nel 1848, in Contributo alla Storia delle amministrazioni preunitarie, Milano, 1963, pp. 166 e ss.

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Il Consiglio di Stato non aveva il carattere politico della Consulta e fu un organo meramente amministrativo, con funzioni prevalentemente consultive e non più elettivo, bensì di nomina sovrana.

L'aspetto parlamentare era finito, ma il lavoro della Consulta non andò perduto. Dopo la cessazione, la gran parte delle pratiche in attivo della Consulta di Stato venne inviata al Ministero di Grazie e Giustizia e i membri della Consulta furono chiamati ad altri incarichi dividendosi tra l’Alto Consiglio, il Consiglio dei deputati e il Consiglio dei ministri. L’Adriani, il Ciofi, il Pentini, il Piacentini e il Santucci furono invece chiamati al Consiglio di Stato217.

2.4. Il Consiglio di StatoL’art. 62 dello Statuto fondamentale del governo temporale

degli Stati di Santa Chiesa promulgato il 14 marzo 1848218

stabiliva che vi sarebbe stato un Consiglio di Stato composto di dieci consiglieri e di un corpo di uditori non superiori a ventiquattro, tutti di nomina sovrana; l’art. 63 specificava che il Consiglio di Stato era incaricato, sotto la direzione del governo, di redigere i progetti di legge, i regolamenti di amministrazione pubblica e di dar parere alle sue difficoltà in materia governativa, e qualora vi fosse stata una specifica legge, anche di occuparsi del contenzioso amministrativo.

L’istituzione del Consiglio avvenne circa due mesi dopo, dall’entrata in vigore dello Statuto con circolare del 10 maggio 1848219. Al Titolo I essa stabiliva che il Consiglio di Stato era composto da dieci consiglieri ordinari e cinque straordinari, di un presidente, per regola il ministro di grazia e giustizia, di un vicepresidente scelto tra i consiglieri e di ventiquattro uditori

217 Ibidem, p.76. In ead. si confrontino i documenti nn. 23 e 24 dell’Appendice nei quali si annuncia l’insediamento del Consiglio di Stato.

218 Statuto fondamentale pel governo degli Stati di S. Chiesa, in Raccolta delle leggi… cit., vol. II, Roma, 1849, pp. 29 e ss.

219 Circolare...in Ibidem, pp. 139-144.114

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tutti di nomina sovrana (art. 1); al Consiglio di Stato era inoltre addetto un segretario generale (art. 5).

Il Titolo II disciplinava le funzioni del Consiglio e il modo di esercizio stabilendo che ad esso poteva essere richiesto il parere sui progetti di legge e su tutte le questioni che gli venivano sottoposte dai ministri. Poteva essere incaricato di compilare progetti di legge e doveva esprimerne parere obbligatorio sui regolamenti di pubblica amministrazione (art. 6).

Il Consiglio di Stato era suddiviso in tre sezioni, ciascuna composta da cinque consiglieri; la prima aveva competenze sulle materie proprie dei ministeri della finanza, commercio, belle arti, industria, agricoltura e dei lavori pubblici, la seconda sulle materie proprie dei ministeri di grazia e giustizia e di pubblica istruzione, la terza sulle materie di competenza dei ministeri dell’interno e di polizia (art. 8). Le sezioni si riunivano separatamente oppure congiuntamente, in adunanza generale, queste ultime per essere legittime necessitavano della presenza di almeno dieci consiglieri (art. 11); anche i ministri potevano partecipare alle riunioni del Consiglio, ma senza diritto di voto (art. 12).

Il Consiglio di Stato si riuniva in adunanza generale almeno una volta alla settimana, mentre le riunioni si ciascuna sezione erano convocate dai rispettivi presidenti; il presidente dirigeva le discussioni e le decisioni venivano assunte a maggioranza di voti (artt. 14-15).

Il Titolo III conteneva la disciplina degli uditori, ripartiti in egual numero per ciascuna sezione; spettava ai consiglieri stabilire i compiti degli uditori, ognuno di loro partecipava alle adunanze generali con diritto di parola ma non di votazione (artt. 18-21).

Il Titolo VI era dedicato ai compiti del segretario generale e del segretario di sezione. Il segretario generale assisteva alle adunanze generali e a quelle di sezioni riunite, distribuendo tra le sezioni le materie che gli venivano rimesse dai ministeri;

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segretario di sezione era invece un uditore che assumeva la carica per tre mesi e aveva come compito principale quello di redigere gli atti delle adunanze della sezione (artt. 22-23).

L’ultimo Titolo, il V, stabiliva l’incompatibilità della carica di consigliere con qualunque altro impiego pubblico e in generale con qualunque altro impiego che obbligasse a dimorare lontano da Roma (art. 25); era inoltre vietata la rimozione di un consigliere se non a seguito di un regolare giudizio (art. 27).

3.5. La discussione in seno al Consiglio di Stato sulle basi di un nuovo regolamento di giustizia

Il Consiglio di Stato, come abbiamo visto poc’anzi, si riuniva in adunanza generale, con la presenza di almeno dieci consiglieri, oppure separatamente, per ciascuna sezione.

In adunanza generale il Consiglio di Stato si riunì sessantacinque volte, nel periodo compreso tra il giugno 1848 e il febbraio 1849 discutendo varie materie, tra cui anche il progetto di regolamento organico giudiziario che in questo modo migrava dalla Consulta di Stato al Consiglio di Stato.

La prima discussione su questo argomento si ebbe durante la seduta del 20 luglio 1848, che si aprì con l’invito del Presidente, che in base a quanto previsto dello Statuto era il ministro di grazia e giustizia, carica era ricoperta a quel tempo da Pasquale De Rossi, a discutere sui dieci quesiti proposti dal Consiglio dei Ministri come base fondamentale per il nuovo sistema di giustizia.

Anche il Consiglio di Stato procedette, infatti, prima della stesura del testo, ad una discussione generale sulle principali questioni giuridiche che stavano interessando la maggior parte degli Stati italiani ed esteri, e che stavano suscitando grande interesse non solo nei giuristi ma anche nell’ opinione pubblica e negli uomini di governo.

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La discussione generale intorno alle basi del regolamento organico occupò soltanto due sedute (20 luglio e 25 luglio) alle quali furono presenti tutti e quindici i membri del Consiglio più gli uditori, e che furono caratterizzate da un dibattito piuttosto acceso trai consiglieri.

I membri del Consiglio che si riunirono in adunanza generale a discutere l’impianto del Regolamento organico furono: Salvatore Betti, Filippo Bonacci, Pietro Carpi, Luigi Ciofi, Giuseppe Giuliani, monsignor Carlo Luigi Morchini, Francesco Orioli, monsignor Giovanni Battista Palma, Pietro Pagani, monsignor Francesco Pentini Giuseppe Piacentini, Ludovico Potenziani, monsignor Ildebrando Rufini, Francesco Sturbinetti e Luigi Santucci più il presidente Pasquale de Rossi. Oltre ad essi assistettero alle discussioni anche i quindici uditori che lo ricordiamo, in base a quanto stabilito dallo Statuto avevano diritto di parola ma non di voto. Tra di essi coloro che presero parte attiva al dibattito furono l' Aldibrandi e

Per quanto riguarda le informazioni bibliografiche sui membri del Consiglio di Stato, di Pasquale de Rossi, Giuseppe Piacentini e Luigi Ciofi abbiamo già parlato quando ci siamo occupati della composizione della Consulta di Stato. Per quanto riguarda gli altri membri, raccogliamo di seguito le informazioni forniteci da chi ha già raccolto i dati essenziali sulla vita e l'attività dei componenti il Consiglio di Stato.

Salvatore Betti era nato a Orciano in provincia di Pesaro nel 1792; fu un famoso letterato, la sua opera più celebre è l’Illustre Italia. Dialoghi, pubblicato a Roma tra il 1841 e il 1843, considerato un preludio al Primato del Gioberti. Collaborò con diversi giornali e fu segretario perpetuo e professore di storia e mitologia nell’ Accademia di san Luca. Fu anche codirettore, fino al 1848, della Gazzetta di Roma. Nel 1847 fu membro del Collegio filologico dell’università di Roma e nello stesso anno fu anche censore per la stampa, ma in seguito venne sospeso dall’incarico. Dopo la Restaurazione del 1849 continuò la sua

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attività di docente alla Sapienza e nell’Accademia di san Luca senza prendere ulteriormente parte alla vita dello Stato220.

Filippo Bonacci, era nato a Recanati nel 1809 e fu professore di giurisprudenza nel liceo e seminario di Jesi, città dove ricopriva anche la carica di giudice. Nel 1848 fu eletto al Consiglio dei deputati e successivamente nominato al Consiglio di Stato. Dopo la Restaurazione del 1849 chiese di tornare alla Presidenza del Tribunale di Ferrara, ma dovette aspettare il giudizio del Comitato di Censura, al quale venne sottoposto in aveva ricoperto la carica di giudice del Tribunale d'Appello di Roma durante la Repubblica. Venne prosciolto dal Comitato di Censura e continuò la sua attività di giudice fino a raggiungere il grado di presidente di sezione della Corte di Cassazione221

Pietro Carpi nacque a Roma nel 1792 e fu professore di mineralogia e storia naturale, oltre che direttore del gabinetto di mineralogia nell'Università di Roma, nonché membro del collegio medico chirurgico della stessa Università ed archiatra pontificio. Fu membro della commissione incaricata di studiare il corso dell'Aniene a Tivoli e analizzò le acque potabili a Roma. Dopo la Restaurazione fu membro della Commissione provvisoria municipale di Roma nominata dal generale Oudinot e continuò ad essere archiatra di Pio IX; fu inoltre uno dei membri della Direzione generale di sanità, carceri, case di condanna e luoghi di pena, deputato della Commissione ospedali di Roma e accademico ordinario dell'Accademia pontificia delle scienze detta de' nuovi Lincei222 (248-249).

Giuseppe Giuliani, nato a Bereguardo (Milano) nel 1794, dal 1826 ricopriva la cattedra di diritto criminale nella Pontificia università di Macerata. Nel 1833 fu autore delle Istituzioni criminali nelle quali si commentano le sanzioni della nuova legislazione criminale gregoriana e nel 1846 anch'egli aveva

220 C. LODOLINI TUPPUTI, Ricerche sul Consiglio di Stato pontificio (1848-1849) …cit., pp. 17-18.

221 Ibidem pp. 246-248.222 Ibidem, pp. 248-249.

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fatto parte della commissione di giureconsulti incaricata di studiare la riforma dei codici. Ebbe alcune incertezze nell'accettare l'incarico di consultore al Consiglio di Stato, tant'è che nel novembre 1848 già faceva ritorno a Macerata come giudice del tribunale di appello. Nel 1854 venne nominato membro di una nuova commissione per la redazione di un codice penale e vi lavorò fino al 1858. In seguito si trasferì nella Repubblica di San Marino ove compì la revisione del codice penale, collaborando anche alla redazione del codice di commercio e del Regolamento di procedura criminale223.

Monsignor Carlo Luigi Morchini nacque a Roma nel 1805 e si laureò alla Sapienza prima in Giurisprudenza poi in Teologia, prendendo in seguito gli ordini religiosi. Nel 1833 fu nominato prelato referendario del Tribunale di Segnatura e fu ponente della Sacra Congregazione del Buon Governo. Fu presidente dell’Ospizio di S. Michele, della Commissione per i sussidi in Trastevere durante l’epidemia colerica del 1834, primo segretario della Cassa di Risparmio di Roma, membro della Congregazione di Revisione dei conti e degli affari di pubblica amministrazione e giudice d’appello del Tribunale criminale della Reverenda Camera apostolica. Prelato domestico di sua Santità. Nel 1854 fu creato arcivescovo di Nisibi in partibus infidelium e mandato a Monaco in qualità di nunzio apostolico in Baviera. Pio IX lo nominò pro tesoriere generale e nel 1848 divenne ministro delle finanze. Nel 1848 fu inviato a Vienna e lì si trovava quando venne nominato membro del Consiglio di Stato. Dopo la Restaurazione fu tesoriere generale della Reverenda Camera Apostolica, in seguito divenne vescovo di Jesi, città in cui rimase anche dopo l’unità d’Italia. Partecipò attivamente alla preparazione del Concilio Vaticano I e l’ultimo incarico ricevuto fu quello di vescovo di Albano224.

223 Ibidem, pp. 249-250. Su Giuseppe Giuliani si veda anche M. SBRICCOLI, Giuseppe Giuliani, criminalista. Elementi per una biografia, in I Regolamenti penali di Papa Gregorio XVI per lo Stato pontificio (1832)...cit, pp. CCLIX e ss.

224 Ibidem, pp. 250-252.119

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Francesco Orioli nato a Vallerano (Viterbo) nel 1785, fu professore di fisica all’Università di Bologna; durante la rivoluzione del 1831 fu nominato ministro della Pubblica istruzione nel governo delle province unite in Bologna, ma fu fatto prigioniero dagli Austriaci e scontò la pena nel carcere di Venezia

Fu tra gli amnistiati da Pio IX nel 1846 e fece ritorno all’Università di Bologna dove ottenne la cattedra di Storia e Archeologia. Nei primi due anni del pontificato di Pio IX fu un esponente di punta dell’ala moderata e collaborò con diversi giornali tra cui La Bilancia (del quale fu tra i fondatori), e successivamente, l’Epoca. Nel 1848 fu deputato per la sua città al Consiglio dei deputati pontificio e contemporaneamente Consigliere di Stato. Dopo il 1849 fu chiamato nel 1851 da Pio IX a far parte del secondo Consiglio di Stato pontificio, nel quale rimase fino alla morte avvenuta nel 1856225.

Pietro Pagani nato a Imola il 21 settembre 1785, era già stato membri del potere legislativo nel governo delle province unite in Bologna nel 1831in rappresentanza della provincia di Ravenna. Fu un acceso liberale ma moderò gradualmente le sue posizioni fino a divenire un conservatore fedelissimo al pontefice. Anche egli aveva fatto parte nel 1846 della Commissione della riforma dei codici e una volta divenuto consigliere di Stato conservò questa carica anche dopo l’annessione dello Stato pontificio al Regno essendo stato dichiarato consigliere emerito226

Ludovico Potenziani nato a Rieti nel 1784 era stato tra i compromessi romani del 1830. Dal 1841 era presidente della Camera di Commercio di Roma, e nel 1846 fu tra i fondatori del Contemporaneo e in seguito collaborò con altri giornali. Nel 1848 fu eletto deputato nel collegio di Rieti. Ricoprì l’incarico di questore del Consiglio di Stato e del Consiglio dei deputati.

225 Ibidem, pp.253-255.226 Ibidem, pp. 256-257.

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Dopo la Restaurazione rimase alla presidenza della Camera di Commercio di Roma e venne nominato membro della Commissione per l’ammortizzazione della Commissione incaricata di sopraintendere al ritiro e al deposito dei biglietti della Banca Romana. Morì a Roma nel 1854227.

Giovan Battista Palma nacque a Roma nel 1791 e fu consultore della Congregazione dell’indice, segretario del collegio teologico dell’Università di Roma e professore di storia ecclesiastica. Nel 1848 fu anche nominato segretario delle lettere latine. Mori tragicamente nel novembre del 1848 e il suo posto in seno al Consiglio di Stato rimase vacante.

Monsignor Francesco Pentini era stato chiamato a far parte del Consiglio di Stato in sostituzione del dimissionario monsignor Alberghini; nacque a Roma, nel 1979, in gioventù, aveva partecipato alla battaglia di Lipsia nel 1813 e una volta rientrato a Roma, l’anno successivo, aveva intrapreso la carriera ecclesiastica divenendo poco dopo prelato referendario dell’una e dell’altra Segnatura

Monsignor Ildebrando Rufini era chierico di Camera, membro del Tribunale del Governo, fiscale onorario della Sacra Congregazione degli studi, dal 1845 procuratore generale del Fisco e della Reverenda Camera apostolica, ponente della Sacra Consulta e dal 1847 anche prelato referendario in Segnatura. Aveva già fatto parte della Commissione per la riforma dei codici e dopo la Restaurazione fu riconfermato. Nel 1850, mentre era presidente del secondo turno del Tribunale della Sacra Consulta fu nominato direttore generale di polizia. Fu inoltre prelato domestico del Papa e prelato votante nella Congregazione lauretana.

Francesco Sturbinetti nato a Roma nel 1807, fu un abile e stimato avvocato; nel 1847 era stato nominato capitano della guardia civica e, sempre nello stesso anno fu prima nominato consigliere e poi conservatore del comune di Roma. Nel 1848

227 Ibidem, p. 262.121

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durante il primo ministero misto, ricoprì la carica di ministro dei lavori pubblici, poco dopo lasciò questo ministero per assumere la carica di ministro di grazia e giustizia. Prese parte attivamente alla vita giuridica della Repubblica romana, ricoprendo varie cariche tra cui prima quella di deputato nell'Assemblea costituente, poi di membro della Commissione per gli impieghi, poi di giudice del Tribunale Supremo e infine di consigliere e senatore di Roma. Dopo la Restaurazione fu costretto a ritirarsi dalla scena politica e vagò esule per varie città in quanto non gli venne accordata l'amnistia. Quando gli venne concesso di far rientro nei territori Pontifici riprese l'attività di avvocato.

Ilario Aldibrandi, nato a Roma nel 1823, laureato in filosofia e legge e praticane avvocato presso l’avv. Sturbinetti, era già stato uditore nella sezione amministrativa del Consiglio di Stato e poi nella prima sezione del Consiglio di Stato.

Dopo la Restaurazione divenne titolare della cattedra di giurisprudenza alla Sapienza; durante il periodo della Luogotenenza fu anche nominato preside della facoltà di giurisprudenza, ma dopo il 1871 si rifiutò di giurare come professore e si dimise dall’insegnamento, continuando però la docenza presso l’Università Pontificia228.

Panfilio Ballanti, nato ad Ascoli Piceno nel 1818, studiò giurisprudenza a Roma e e fu Procuratore della Segnatura; nel Consiglio di Stato fu uditore per la seconda sezione, in seguito, nel 1849 fu deputato all’Assemblea Costituente per la provincia di Camerino e fu per questo motivo escluso dall’amnistia concessa durante la Restaurazione e si rifugiò in Francia. Tornato in Italia nel 1861 fu eletto deputato del Parlamento italiano e fu tra i collaboratori della rivista romana il Foro Italiano229.

228 Ibidem, pp. 265-266.229 Ibidem, p. 267.

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Si trattava, come abbiamo potuto constatare, di membri in prevalenza laici, giuristi qualificati e impegnati nella vita politica, e poco propensi a nascondere le proprie simpatie liberali.

Entriamo così nell'animo del dibattito consiliare e vediamo quali furono i quesiti sui quali il Consiglio dei ministri propose la discussione al Consiglio di Stato, che rappresentano anche i grandi temi giuridici del dibattito europeo di quegli anni. Nella ricostruzione cercheremo di offrire prima un breve accenno sugli istituti per poi lasciare la parola ai consiglieri seguendo fedelmente la discussione ed evidenziando come si divisero le varie opinioni e considerazioni introno a questi argomenti.

3.5.1. Sulla pubblicità delle discussioni nei giudizi civili e penali

La nozione di pubblicità nei giudizi è storicamente riconducibile a due componenti, come forma di controllo dall’esterno dell’amministrazione della giustizia, ovvero come uno dei modi per poter assicurare la partecipazione dei membri della comunità all’esercizio del potere giurisdizionale: due momenti che non si escludono reciprocamente, ma possono integrare un processo circolare che mostra ora il prevalere dell’una ora dell’altra230.

In materica civile, il processo che si delinea a partire dal XIII secolo è essenzialmente un processo scritto, basato sull'aumento della formalità e la sostituzione della scrittura all'oralità, caratterizzato da una serie di atti metodici e consecutivi, di modo tale da rendere costante la verifica del loro adempimento231.

230 V. VIGORITI, La pubblicità delle procedure giudiziarie, (prolegomeni storico-comparativi), in La formazione storica del diritto moderno in Europa. Atti del III Congresso internazionale della Soc. ital. di Storia del diritto, Firenze, Olsichki, 1977, II, p. 638.

231 G. SALVIOLI, Storia della procedura civile e criminale, in Storia del diritto italiano, pubblicata a cura di V. DEL GIUDICE, vol. III, Milano, 1927, p. 222.

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Per quanto riguarda il sistema delle procedure, in Italia, in campo civile, le legislazioni processuali dei vari Stati italiani alla fine del XVIII secolo prevedevano in genere un procedimento ordinario, per le cause di maggior importanza, e uno sommario, per le liti meno complicate. Nel primo prevalevano i principi del formalismo e della segretezza, nel secondo invece avrebbero dovuto prevalere i principi dell’oralità e della concentrazione; tuttavia anche nel procedimento sommario rimaneva costante l’influenza del processo romano-canonico, cosicché entrambe le tipologie di processi non riuscivano a liberarsi del formalismo e della scrittura232.

In un processo ispirato a questi principi, dunque, il problema della pubblicità neanche poteva porsi, data l’impossibilità pratica dei terzi di comprendere un processo basato sulla scrittura, le citazioni e l’abuso di formule latine e in generale di un linguaggio alquanto involuto e poco comprensibile233.

Per quanto riguarda la pubblicità nel processo penale, già alla fine del XVIII secolo il processo penale degli Stati italiani non si differenziava da quello francese prerivoluzionario. Tutto il processo penale si ispirava al più rigoroso principio inquisitorio, alla scrittura, alla regola della prova legale e alla tortura. Il giudice riceveva le accuse degli offesi o procedeva d'ufficio, e il processo inquisitorio, sviluppatosi sulle leggi canoniche e sulla pratica dei tribunali ecclesiastici, divenne il procedimento ordinario italiano234.

232 V. VIGORITI, La pubblicità delle procedure giudiziarie... cit., p. 687.233 Ibidem, p. 688; G. SALVIOLI, Storia della procedura civile e

criminale... cit., pp. 24-25. Sulla pubblicità nel processo civile cfr. P. AIMERITO, La codificazione della procedura civile nel Regno di Sardegna, Giuffrè, 2008, p. 24 e nota 83. Sulla pubblicità nel processo penale si veda F. CARNELUTTI, La pubblicità nel processo penale, in Rivista di diritto processuale penale, X, 1955.

234 G. SALVIOLI, Storia della procedura... cit., pp. 347 e ss. Sul processo inquisitorio esiste una vasta bibliografia. In questa sede il richiamo è ai classici di PADOA SCHIOPPA, M. ASCEHRI, Tribunali, giuristi e istituzioni dal medioevo all’età moderna, Bologna, 1989. E. DEZZA, Accusa e inquisizione: dal diritto comune ai codici moderni, Milano, 1989.

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Nel tempo, nonostante le denunce della dottrina penalistica, la maggior parte dei sovrani italiani si mostrava indifferente alle istanze di riforma. L’esigenza di pubblicità delle procedure venne avvertita, per la prima volta in termini moderni, alla fine dell’ancien régim, quando giunsero a maturazione quei fermenti e si fecero più pressanti le esigenze che troveranno poi nella Rivoluzione l’ambiente adatto per manifestarsi ed imporsi235.

Nell’esperienza francese la codificazione cristallizzò a livello di legislazione ordinaria la nozione di pubblicità elaborata dalla costituente e accolta poi nelle prime costituzioni; il concetto di pubblicità scomparve però nelle successive costituzioni e già nel 1848, nei testi fondamentali francesi, non vi era alcun riferimento alla garanzia della pubblicità e non vi erano disposizioni normative che prevedevano apertamente la pubblicità delle procedure, questo perché, il problema del controllo dell’amministrazione della giustizia attraverso la pubblicità delle discussioni veniva ormai considerato risolto in maniera sufficiente dalle norme dei codici236.

Durante l’occupazione francese l’Italia conobbe il fenomeno del costituzionalismo e della codificazione e il modello francese post-rivoluzionario si impose in tutti i campi dell’esperienza giuridica; in particolare, nel procedimento penale era prevista la netta distinzione tra l'attività istruttoria, coperta dal segreto, e l'attività dibattimentale, caratterizzata dall'introduzione del contraddittorio237. Si tratta del cosiddetto “modello misto per eccellenza" mirante a fondere in un'unica struttura processuale i caratteri del sistema inquisitorio con quello accusatorio, in

235 V. VIGORITI, La pubblicità delle procedure giudiziarie... cit., pp. 635-698.

236 Ibidem, p. 680. Cfr. anche I. SUFFIETTI, Sulla storia dei principi dell'oralità, del contraddittorio e della pubblicità nel procedimento penale. Il Periodo della Restaurazione del Regno di Sardegna, estratto da «Rivista di Storia del diritto italiano», vol. XLIII-XLIV (1971-72).

237 In generale per il sistema procedurale francese si rimanda a A. ESMEIN, Histoire de la procédure criminelle en France et spécialement de la procédure criminelle despuis le XIII siècle jusqu'à nos jour, Paris, 1882.

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quanto la fase della raccolta delle prove (istruzione) era prevalentemente segreta, mentre la fase del dibattimento era prevalentemente accusatoria238.

Dopo la Restaurazione, in un primo momento i sovrani dei vari stati italiani rifiutarono le leggi di Napoleone, ma già intorno alla metà del secolo XIX, tutte le leggi processuali italiane provvidero a garantire la pubblicità delle udienze di discussione delle cause civili, anche se i codici italiani, in generale, mantennero in misura più limitata del codice francese l’oralità dei procedimenti239.

Nello Stato pontificio, in materia civile, il Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili stabiliva, al paragrafo 572 che nel giorno indicato dall'atto di intimazione la causa sarebbe stata proposta e discussa in contraddittorio in pubblica udienza. Diversa era invece il principio per quanto riguarda il ramo penale.

Se ci riferiamo al Regolamento organico e di procedura criminale del 1831 allora vigente nello Stato pontificio, la storiografia è sostanzialmente concorde nel riconoscere il rito inquisitorio di quel Regolamento. Si tratta infatti di un processo minuziosamente delineato dal legislatore, nel quale assumono particolare importanza il ruolo del giudice processante, cui spetta l'obbligatorietà dell'azione penale e che forma il processo (rigorosamente scritto) e istruisce la causa, e la raccolta delle prove. La fase dibattimentale è presente, ma è incentrata sulla verifica del materiale probatorio raccolto dal giudice processante.

Nel processo gregoriano l'udienza era essenzialmente la fase del confronto e dell'escussione dei testimoni; i testi non sentiti in istruttoria non erano ammessi e nonostante il

238 P. TONINI, Lineamenti di diritto processuale penale, Milano, 2011.239 Ibidem, pp. 690-691.

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dibattimento fosse improntato al principio dell'oralità, il pubblico di regola non veniva ammesso240.

Il primo quesito sul quale si interrogava l'Assemblea era perciò “se nei giudizi criminali, come nei civili, convenga adottare per modo di regola l’assoluta pubblicità delle discussioni241”.

Il presidente esprimeva il proprio parere favorevole verso il principio in questione eccettuati solamente i casi in cui la pubblicità delle sedute avrebbe potuto offendere il pubblico pudore o compromettere l’ordine pubblico.

Il Piacentini riteneva conveniente non lasciare all’arbitrio dei giudici la decisione sulla pubblicità o segretezza delle sedute, per non creare disordini o parzialità, mentre il Giuliani riteneva fosse più opportuno ammettere come regola generale la pubblicità delle udienze ed escludere dalla regola solamente i delitti contro l’ordine pubblico e quelli contro l’ordine delle famiglie.

L’Orioli, invece, considerava preferibile rimettere la decisione sempre alla discrezionalità dei singoli tribunali, in considerazione dei diversi luoghi, periodi di tempo e circostanze, che alcune volte rendevano opportuna (anche nei casi di eccezione), altre volte inappropriata, la pubblicità delle udienze.

Il Giuliani riteneva che ogni qualvolta ci si trovasse di fronte a delitti quali lo stupro, l’adulterio, l’incesto, il ratto, non sarebbe stato opportuno lasciare al tribunale la decisione se condurre l’udienza in forma pubblica o privata; lo Sturbinetti notava inoltre che poiché nei tribunali si sarebbe insediato un Pubblico Ministero, dovesse essere affidata a quest’ultimo la decisione sulla possibilità di ammettere o meno la

240 E. DEZZA, Il modello nascosto. Tradizione inquisitoria e riferimenti napoleonici nel Regolamento organico...cit. p. CI.

241 Quesito discusso nella seduta del 20 luglio 1848. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. b.1.

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partecipazione del popolo alle cause riguardanti i delitti contro l’ordine pubblico o le famiglie.

Il Morchini non condivideva l’idea di affidare al Pubblico Ministero la decisione sulla pubblicità o segretezza delle udienze in quanto i magistrati, che godevano della fiducia del governo erano “i soli capaci a bilanciare l’importanza intrinseca degli atti compilati sotto la loro direzione ed autorità e la possibile impressione di un pubblico contraddittorio sugli animi d’interessati spettatori.”

Il Palma suggeriva di ammettere come regola generale la pubblicità delle udienze e di lasciare all’arbitrio dei giudici i casi particolari relativi all’ordine pubblico e alle famiglie.

Monsignor Pentini concordava con lo Sturbinetti sul punto di lasciare al Pubblico Ministero la decisione sulla pubblicità o segretezza dell’udienza, ma vi si opponeva monsignor Ruffini, il quale riteneva che i casi di eccezione dovessero essere chiaramente indicati nel testo di procedura, anche perché solamente nella fase del dibattimento era possibile constatare se ci si trovasse davanti ad un caso di eccezione, e solamente a quel punto era possibile giudicare se il caso in esame poteva dar luogo a scandali o tumulti. Egli aggiungeva inoltre che “troppa sarebbe la latitudine dell’arbitrio nel Ministero se nell’esso si rendesse facoltativo di dichiarare o no la sufficienza del titolo per applicare l’eccezione, mentre raro è che una passione, anche turpe, non abbia dato causa incidentale alla partecipazione del delitto e potrebbe giustificare colla incidente di poco conto l’arbitrio dell’ingiunto segreto.”

Il presidente, preso atto della discussione, moderava perciò la proposta nei seguenti termini “se debba assumersi per modo di regola l’assoluta pubblicità delle discussioni tanto nei giudizi civili che criminali salvi i casi di eccezione nei quali rimanesse compromesso il pudore o l’ordine pubblico.”

Alla proposta seguì la votazione per alzata o seduta e si ottenne come esito l’unanimità dei voti favorevoli.

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La pubblicità delle discussioni sarebbe stata introdotta come regola generale nello Stato pontificio.

3.5.2. Sull’introduzione dei giudici conciliatoriIl giudice conciliatore, quale magistrato popolare istituito

per comporre le controversie, in particolare quelle di modico valore, è un istituto di origine antica, presente già nelle prime legislazioni romane e rimasto sempre presente, sotto varie forme, durante tutto il corso del medioevo242.

In Italia, meglio che altrove, la conciliazione venne eretta a grado di istituzione giudiziaria nel codice di procedura civile del 1865, ma Stati come l’Inghilterra e la Francia avevano da sempre mostrato un interesse particolare verso questa figura. In Inghilterra, in particolare, i giudici conciliatori avevano poteri amplissimi ed erano dotati di grande autorità; erano figure di grande prestigio, scelte tra i proprietari della contea la cui rendita fondiaria superasse le 100 sterline, a garanzia dell’indipendenza di persone investite di una carica puramente onorifica. Essi non necessitavano della laurea in legge e la loro carica durava a vita; rappresentavano il self government della nazione, la responsabilità lasciata al popolo stesso e riposta in coloro che per i propri averi erano garanzia materiale di indipendenza, costituendo una parte eletta della Nazione che gratuitamente si occupava dell’amministrazione pubblica.

Anche nell’antica Francia vi furono giudici conciliatori per le cause di minimo valore ma senza unità di organizzazione e sotto dominazioni diverse. La prima assemblea costituente abbracciò con entusiasmo l’idea di una magistratura capace di giudicare i piccoli affari senza formalità e lungaggini e in questa prima formulazione i giudici di pace, i quali venivano assistiti da due assessori, avevano una competenza limitata per valore e

242 Per una storia del giudice conciliatore si vedano L. SCAMUZZI, Conciliatore e conciliazione giudiziaria, in Dig. It., Torino, 1896, pp. 32-209; G. RAFFAGLIO, Conciliatori - conciliazione, in Enc. Giur. Milano, 1936, vol. XV, pp. 1-57.

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materia ed erano istituiti principalmente come “ministri di conciliazione” in quanto nessuna causa poteva essere portata innanzi a un tribunale se prima non fosse stata tentata innanzi a loro la conciliazione.

Le differenze principali tra il judge of the peace inglese e il juge de pax francese riguardavano soprattutto le reciproche attribuzioni: ad entrambi erano assegnati i ruoli di conciliare e giudicare, ma mentre il primo aveva una competenza molto estesa soprattutto in materia penale, il secondo aveva competenze nel penale limitate per valore e per materia. Tuttavia anche i giudici di pace francesi avevano poteri piuttosto ampi se si pensa che le loro sentenze (quelle di valore non superiore alle 50 lire) erano inappellabili e soggette soltanto al ricorso in cassazione e solo per vizi di incompetenza o eccesso di potere243.

L’ istituzione dei giudici di pace venne conservata in tutte le costituzioni che si succedettero in Francia, seppur con alcune modifiche tese a semplificarne l’operato. Iniziarono a diminuire i casi di conciliazione obbligatoria (ne furono sottratte le cause di appello), il giudice di pace divenne autonomo e singolo, in quanto i due assessori vennero considerati dei supplenti e la nomina veniva fatta non più dal popolo ma dal capo dello Stato. Questi interventi non riuscirono comunque a evitare tentativi di abuso da parte dei giudici di pace che non erano ben penetrati nella loro missione di conciliatori, al punto tale che durante la discussione nel 1807 sul codice di procedura civile, molti ne chiedevano esplicitamente la soppressione. Ma il principio di pace e concordia tra i cittadini venne conservato e tutta la materia venne raccolta nel titolo primo del libro secondo di quel codice di procedura civile.

La giustizia di pace venne importata con le armi e con le leggi francesi in Italia ma soprattutto le province napoletane,

243 N. PICARDI, I giudici di pace fra Storia e comparazione, in I giudici di pace. Storia, comparazione, riforma, Atti del Convegno Macerata 17 giugno 1955, a cura di L. Moccia, Milano, 1996, pp. 3-42.

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abituate ad affidare le piccole cause ai cosiddetti Bajuli, non si ritenevano soddisfatte della giurisdizione dei giudici di pace. Caduta la dominazione francese, nel Regno delle Due Sicilie venne introdotto un sistema di conciliazione più omogeneo rispetto a quello forzoso importato dalle leggi francesi, sistema che sarà adottato nella sostanza dal successivo legislatore italiano e l'ufficio del giudice conciliatore venne ampiamente disciplinato dal Codice per le leggi di procedura civile del 1819244.

Negli Stati sardi invece non era prevista alcuna forma di conciliazione obbligatoria, infatti il codice del 1854 non prevedeva la figura dei conciliatori, anche se una conciliazione poteva intervenire tra le parti ad opera del giudice procedente245.

In Lombardia e nel Veneto, territori soggetti alla dominazione austriaca, non erano previsti giudici conciliatori, e quest'ufficio era affidato al Pretore e la conciliazione aveva carattere obbligatorio, in quanto non potevano adirsi i tribunali provinciali senza l'esibizione del certificato di mancata conciliazione, eccettuati solo i casi urgenti e le cause riguardanti la materia commerciale o tributaria246.

Anche il Codice estense del 1852 conosceva i conciliatori, il cui intervento era anche in questo caso obbligatorio prima del giudizio di merito247.

Nel Codice di Maria Luigia del 1829 per il Ducato di Parma invece, una procedura di conciliazione era prevista solamente nelle azioni contro gli ascendenti paterni, le quali non potevano

244 Codice per lo Regno delle due Sicilie, parte terza, Leggi della procedura nei giudizi civili, Napoli, Stamperia reale, 1837, Libro I, "De' conciliatori". Una disciplina dei conciliatori era già presente nella Legge organica dell'ordine giudiziario, in Collezione delle Leggi e de' Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie Napoli, Stamperia reale, 1817, pp. 569 ss.

245 G. RAFFAGLIO, Conciliatori - conciliazione... cit., p. 9.246 Ibidem.247 Codice di procedura civile per gli Stati estensi (1852), in Testi e

documenti... cit., Titolo II, "Dei Conciliatori", p. 4.131

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essere promosse senza il consenso del presidente del tribunale che doveva prima effettuare un tentativo di conciliazione248.

I consiglieri passavano allora all’esame del secondo quesito: “Se nelle questioni civili fosse conveniente alla retta amministrazione della giustizia lo istituire giudici conciliatori portando a cognizione dei medesimi le controversie prima di contestarne lite propriamente detta249”.

Il presidente notava come vi fossero due importanti motivi per ammettere i giudici conciliatori: l’abbreviazione dei tempi processuali, qualora si giungesse alla composizione della lite, in caso contrario sarebbero comunque state conservate nel verbale le ragioni dei contendenti.

Lo Sturbinetti riteneva utile solo in astratto la presenza di quei giudici, data la difficoltà di trovare persone qualificate e stimate da poter riscuotere la fiducia di entrambe le parti contendenti, difficoltà che rappresentava un problema ancora maggiore nelle Province, la cui soluzione avrebbe sicuramente comportato una spesa di non poco conto per l’Erario. Egli suggeriva pertanto di creare dei giudici economici competenti a decidere le cause riguardanti le piccole somme e lasciare la possibilità alle parti di scegliersi “mediatori” del luogo in alternativa al ricorso in tribunale.

Il presidente riteneva che in questo modo una delle parti in causa poteva ritrovarsi vittima ignara di individui che potevano favorire una parte a discapito dell’altra e che per questo motivo l’imparzialità nelle decisioni sarebbe stata meglio garantita se i giudici conciliatori fossero stati nominati dal governo.

Il Pagani, che era stato testimone dell’esperienza avutasi durante il Regno d’Italia, parlava dell’inutilità di quei giudici di pace, poiché il più delle volte accadeva che le parti si comportassero proprio come ad un processo, facendosi

248 Codice di processura civile di Maria Luigia (1828), in Ibidem, art. 978, p. 252.

249 Quesito discusso nella seduta del 20 luglio 1848, ASR, Consiglio di Stato (1848-1849), b. 1.

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sostituire da legali e cogliendo di sorpresa la parte opposta, senza considerare poi a che quasi mai le parti si ritenevano soddisfatte della decisione del conciliatore così che egli “non aveva mai tale influenza sull’animo delle parti da vincere la franca assicurazione dei loro confidenti sul rispettivo buon diritto.” E prevedendo che gli stessi disordini si sarebbero potuti verificare anche nello Stato pontificio, propendeva per la non ammissione di quei funzionari.

Il Potenziani riportava l’esempio della Francia, dove egli aveva personalmente verificato che i giudici conciliatori non riuscivano a comporre mai le questioni di “nuovo fatto” essendo troppo discorde l’affidamento delle parti sul valore delle reciproche prove.

Monsignor Pentini concordava con i suoi colleghi sulla difficoltà di trovare soggetti abili e tali da non comportare una spesa eccessiva per il pubblico erario; egli aggiungeva anche l’ inutilità, a suo parere, di incaricare i giudici ordinari di esperire un tentativo obbligatorio di conciliazione in quanto “il timore di vedere escluse in giudizio le sue pretensioni, determina il renitente, infine, a transigere senza che l’opinione de magistrati sia in caso contrario pregiudicata per decidere iuris ordine, perché altro è il consigliare un reciproco sacrificio per amore di pace, altro il rendere col rigor di giustizia a chiunque spetta il suo diritto.”

Monsignor Ruffini riteneva assi utile istituire dei giudici conciliatori, poiché, diceva, pagandoli bene, i soggetti idonei si sarebbero facilmente trovati; egli, d’altro canto, riteneva pericoloso affidare il tentativo di conciliazione ai giudici ordinari, i quali avrebbero potuto compromettere il loro parere sul merito della causa, in quanto la resistenza di una delle parti a non voler comporre la questione avrebbe potuto indispettirli, ritenendo inoltre che “è assai difficile la docilità dei contendenti dopo i primi passi di guerra o per lo meno è ingiurioso e ledente

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la libertà del consenso l’ingerito timore di una soccombenza sicura.”

Anche il Piacentini riteneva che dovesse escludersi la possibilità per i giudici di primo grado di esperire il tentativo di conciliazione suggerendo che l’incarico avrebbe potuto essere affidato al “capo del municipio” evitando così qualunque aggravio per il Tesoro.

L’Orioli credeva utile il rimedio proposto dal Piacentini soprattutto nei piccoli paesi, dove sarebbe stato più che mai difficile trovare dei legali cui affidare l’incarico di giudici pacificatori né tanto meno reputava conveniente inviare in quei luoghi un soggetto estraneo. Al progetto si associava anche il Bonacci, il quale proponeva di stabilire delle norme nelle leggi municipali individuando nel “capo del municipio” l’esecutore.

Il presidente notava però che nel nuovo ordinamento dei comuni i gonfalonieri o i priori avrebbero avuto già abbastanza compiti da non potersi far carico anche di questo ulteriore incombente; inoltre egli riteneva necessario verificare nei mediatori il possesso almeno degli elementi base di giurisprudenza.

Il Ciofi, sentite le opposte ragioni, propendeva per lasciare al libero arbitrio delle parti rivolgersi o meno ai giudici conciliatori, come avveniva nei territori napoletani, così che anche “i poveri o meno agiati, che mal cercherebbero chi si prestasse gratuito e non obbligato a tentar di comporre le loro questioni, avrebbero nella benefica concessione del Governo un provvido mezzo a sfuggir i pericoli di dispendio e il disgusto di una dubbia lotta giudiziale.”

La questione veniva allora messa ai voti e il risultato che si ebbe fu di dieci voti a favore dell’istituzione dei giudici conciliatori e sette contrari.

3.5.3. Sull’ istituzione del Tribunale di Cassazione e di un terzo grado di giudizio

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«La Cassazione è l’estremo fra i rimedi straordinari che la nostra procedura civile accorda contro le sentenze: per esso chiedesi l’annullamento per violazione di legge delle decisioni giudiziarie pronunciate in grado di appello. Conosce di tale rimedio la Corte di Cassazione che è la Magistratura Suprema del Regno, istituita per mantenere l’esatta osservanza delle leggi.250» Secondo l’autore di questa classica definizione della suprema tra le magistrature, quando si avvertì il bisogno di unità nella legislazione, si sentì anche quello di avere un tribunale superiore che si occupasse di applicarla.

Una della questioni che da sempre si è dibattuta è stata quella tra Cassazione e terza istanza. Culla del Tribunale di Cassazione è pacificamente ritenuta la Francia, e così come in Francia ebbe origine la Cassazione, così in Italia sorse l’altro istituto ad essa contrapposto, vale a dire quello della terza istanza. La terza è istanza è un istituto comune in Italia fin dai tempi del Medioevo, da Venezia, alla Sicilia, passando per la Sacra Rota romana251 e la Segnatura. Il principio della terza istanza, andava così di pari passo con la creazione, nei vari Stati, di tribunali supremi. Ma, come sottolinea il Calamandrei, sarebbe fuorviante ricercare l’origine delle Corti di Cassazione nei Tribunali supremi degli Stati italiani dell’età intermedia. Questi ultimi, infatti, pur essendo posti al vertice delle rispettive gerarchie giudiziarie, come emanazione della sovranità giurisdizionale del principe, erano in realtà organi di terza istanza o suprema istanza, che estendevano il loro riesame a tutti gli errori, di diritto o di fatto, al solo scopo di garantire il buon funzionamento della giustizia nel caso singolo, senza il bisogno, dunque, di garantire la difesa dell’unità del diritto attraverso l’uniformità della giurisprudenza252. Non esisteva

250 F. BENEVOLO, Cassazione e Corte di Cassazione (ord. Giu. E Proc. Civ.), in Dig. It., vol. VII, Torino, 1887-1896, pp. 32-488.

251 Ibidem, pp. 36-37.252 P. CALAMANDREI, Cassazione civile, in Nuov. Dig. It. vol. II, 1937, p.

987. «Ogni tentativo di trovare l’archetipo della Corte di Cassazione in questi tribunali supremi, e specialmente, Consiglio del Regno di Napoli o del Supremo, Tribunale della Segnatura dello Stato pontificio è destinato a

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dunque un’idea di separazione tra i due istituti. Con il tempo, questo concetto cominciò ad affermarsi, soprattutto la Francia, indicava una prospettiva abbastanza chiara in tal senso, vale a dire quella di trasformare il potere di cassation in strumento di difesa della legge e farne l’elemento di differenziazione tra il vertice della giurisdizione e la magistratura ordinaria253; il terzo grado di giudizio veniva così ripensato come strumento processuale destinato ad occuparsi della violazione di legge come di un elemento giuridico diverso dall’ingiustizia254. Si trattava di un’operazione essenziale, concepita per l’attivazione di meccanismi di segno antigiurisprudenziale e con finalità ultima di costruire il nuovo baricentro del sistema intorno alla legge e il nuovo assetto costituzionale intorno al potere legislativo.

Le linee generali per la messa in opera della nuova giurisdizione vennero recepite in Italia rapidamente durante la dominazione napoleonica, e mantenute, seppur in forme differenti, in diverse regioni della penisola durante la Restaurazione. La Cassazione veniva così accolta nei diversi Stati italiani. Nel Regno delle Due Sicilie veniva confermato il modello francese del 1807, nel quale la soluzione del contrasto tra Corte suprema e giudice di merito era affidata all’istituto del référé legislatif previsto dopo il terzo ricorso contro la stessa sentenza per gli stessi motivi. Nel Regno di Sardegna la Cassazione venne introdotta piuttosto tardi, facendo riferimento al modello francese del 1837, accogliendo il sistema delle sezioni unite dopo il secondo ricorso per gli stessi motivi. Nel

fallire, perché, se in questi tribunali supremi si può riscontrare qualche somiglianza di forme esteriori, manca in essi del tutto quello scopo politico, eccedente lo scopo strettamente giurisdizionale, che è la novità della Corte di Cassazione nello Stato moderno. »

253 J. - L. HALPAPERIN, Le Tribunal de Cassation et la naissance de la jurisprudence moderne, in Une autre justice, p. 227 «In Francia, la necessità di uniformare la giurisprudenza e di far applicare la legge in maniera letterale e uniforme da tutti i tribunali aveva spinto la Costituente a istituire il Tribunale di Cassazione.»

254 E. SALA, Osservazioni sulla istituzione del tribunale di Cassazione, in La legge, I, 1861, p. 149.

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Granducato di Toscana la recezione della cassazione avvenne con motu proprio del 2 agosto 1838. Nel Ducato di Modena, il Codice di procedura civile per gli Stati estensi del 1852 prevedeva un Tribunale supremo di revisione; nel Lombardo Veneto il Regolamento generale giudiziario del 1815 avrebbe previsto, secondo il sistema austriaco, una corte suprema di revisione. Nello Stato pontificio il sistema di riferimento è quello dei Regolamenti gregoriani, che indicavano, quali tribunali supremi, il Tribunale Supremo della Sacra Consulta, per il ramo penale e il Tribunale della Sacra Rota e quello della Segnatura apostolica255.

La discussione dei consiglieri su questo punto si apriva sul quesito “se nei giudizi civili debba ammettersi o no un terzo grado di giurisdizione256.”

Il Giuliani proponeva un paradosso. O le parti in causa sottostavano al giudizio del primo collegio di giudici o, se decidevano di ricorre ad un consesso più autorevole, perché la maggioranza di persone o la loro competenza ispirava maggiore fiducia nelle parti, allora tanto valeva rivolgersi direttamente al secondo collegio, con un evidente risparmio di tempo e di spesa. Egli inoltre aggiungeva che tribunali di secondo grado così distinti se ne sarebbero potuti creare al massimo tre, uno in ogni dipartimento dello Stato, dei quali due sarebbero perciò stati necessariamente eretti nei confini estremi dello Stato pontificio. Le enormi distanze massime dai luoghi montuosi al centro, sarebbero state causa di fatale ritardo alla conclusione dei giudizi per le necessarie dilazioni a raccogliere mezzi di prova, e ad eseguire le inquisizioni e le difese. Il ritardo sarebbe stato accresciuto dal gran numero di cause rimesse alla decisione del consesso che, sebben numeroso, non avrebbe potuto occuparsi

255 M. MECCARELLI, Le Corti di Cassazione nell’Italia Unita. Profili sistematici e costituzionali della giurisdizione in una prospettiva comparata (1865-1923), Milano, 2005, pp. 9-13. Sui tribunali supremi dello Stato pontificio v. infra, cap. II.

256 Quesito discusso nella seduta del 20 luglio 1848. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit., nn. 6 e 7.

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di tutte quelle cause, e se anche si fosse diviso in turni, non sarebbe stato più quel collegio imponente, anche per numero, da guadagnarsi “la morale persuasione di quasi infallibilità di giudizio.” L’ economia dello Stato avrebbe subito il pregiudizio del trasporto degli imputati e delle indennità da elargire ai testimoni nei giudizi penali, e anche l’economia dei privati sarebbe stata compromessa a causa dei dispendiosi viaggi e dalla lontananza dalle famiglie. Da ultimo egli aggiungeva che “la venerazione all’autorità dei decidenti si otterrebbe forse quando o l’unanimità o una maggioranza che vi si approssima facesse fede del reso giudizio, non già se, come di frequente accade, un solo voto supera la metà dei decidenti, poiché allora, non è un collegio, ma un giudice singolo che decide a danno del soccombente e soverchia e contraddice efficacemente il parere di molti.” Considerato pertanto che “l’unanimità costituisca la morale certezza della rettitudine del giudicato, la parità il dubbio, la maggioranza una probabilità più o meno grave, rimarcava anche alcuni inconvenienti derivanti dal costituire due gradi di giurisdizione, avanti di esporre un suo progetto tendente a rimuovere o diminuire, per quanto la combinazione delle cose umane vi si presta, tutti i possibili disordini.”

In più egli diceva, a parte la materiale fabbricazione degli atti, “nulla di reale e di valido” veniva eseguito dai giudici di primo grado, gli avvocati, ad esempio, non avevano interesse a sviluppare le difese in prima istanza e nel Regime italico, che diede vita ad un sistema simile, quasi sempre i documenti di maggior rilievo si esibivano dinanzi al tribunale superiore. Il sistema austriaco, continuava, vietava in appello la produzione di documenti non esibiti in primo grado se non si provava che la mancata esibizione non era avvenuta per dolo o colpa. Il progetto avrebbe dovuto essere quello di creare un tribunale di primo grado con un numero pari di giudici, e un altro di appello, di numero sempre pari ma maggiore quanto a numero di persone. La sentenza resa ad unanimità in primo grado si

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sarebbe dichiarata inappellabile, mentre l’unanimità nel tribunale superiore, sia per la conferma, sia per la revoca, avrebbe costituito la cosa giudicata, e la parità sulle due opinioni di primo grado, o la maggioranza, per la revoca, avrebbe dato luogo al terzo grado di giudizio innanzi ad un tribunale supremo composto da un maggior numero di magistrati ma in numero dispari, per definire con il criterio della maggioranza la disputa a favore di un parte. “La legge non sospetterebbe della fallibilità dei primi giudici, quando per l’unanimità è tolto di mezzo il dissenso, solo titolo di dubbio sulla rettitudine del giudicato, e si estinguerebbero in questo caso con una sola sentenza inappellabile le diciture discordie fra i cittadini, e le cause di rovina economica delle famiglie. Questa unanimità sarebbe immancabile nelle liti meramente pecuniarie, o altre affidate ad uno scritto incontrovertibile, ed in quelle evidentemente calunniose o definite da una massima assentata e pacifica, tal che non vedrebbesi un fraudolento debitore o un ricco prepotente stancare per mala fede o capriccio, col dispendio di due giudizi, il suo avversario assistito da indiscusso diritto.”

Presa la parola, lo Sturbinetti, ricordava come il sistema di un solo grado di giudizio fu salutare solo quando, “nella severa semplicità de’ costumi”, gli antichi romani non avevano possibilità di appello avverso le sentenze del pretore, “allorché per i costumi ingentilendosi si corruppero ancora”, si palesò la necessità di inserire un terzo giudizio fra due difformi, e nel tempo questo metodo era stato conservato. L’inappellabilità del primo grado, conseguente all’unanime voto dei giudici, poteva essere causa di una condanna ingiusta. Riteneva pertanto di mantenere i tre gradi di giudizio “per distruggere il temuto disordine della minorità vincente contro la collettiva maggioranza dei suffragi verificata nel cumulo dei gradi”, proponendo di comporre di un numero pari di giudici ciascuno

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dei tre tribunali, con l’intervento di un relatore che dava il proprio voto in caso di parità di giudizio.

Alle riflessioni dei due colleghi il presidente opponeva il parere contrario che la Sezione legale della Consulta di Stato aveva manifestato nel suo rapporto e riepilogandone le principali ragioni, osservava come “l’impianto di tre magistrature, l’una correttiva della sentenza dell’altra, fosse una manifestazione di diffidenza su di ciascuna di esse da parte del potere centrale. Che, se un tal principio condurrebbe all’unicità del grado di giurisdizione, due ragioni consigliano d’instituire tribunali inferiori e supplementari oltre i veri grandi tribunali, una per la impossibilità di stabilire in ogni cantone dello Stato un magnifico consesso di giudici in numero di ventuno perlomeno, l’altra avere gli istruttori del processo, onde i tribunali di merito non giudichino con idee preconcepite durante la formazione di quello e non siano occupati da un criterio men retto difficile ad abbandonarsi a processo compiuto. Dovrebbe tuttavia ingiungersi a codesti magistrati inferiori impropriamente chiamati tribunali, di emanare una sentenza che sebbene di nessun conto, servirebbe per obbligarli a costruire regolarmente la procedura. Ma la sentenza piena, ragionata e definitiva sarebbe quella del secondo grado e così si eviterebbe il pericolo che nei tre gradi la maggioranza soccomba alla minorità.”

Lo Sturbinetti contraddiceva i motivi addotti dalla Consulta. “La fiducia del Governo e dei contendenti era presente in tutti e tre i gradi di giudizio; la revisione che si accordava al giudizio di primo grado non serviva a distogliere la fiducia del popolo nei confronti della giustizia, ma ad accrescerla attraverso una conferma, ed ove ciò non avveniva, a procurare tra due diversi giudizi un terzo criterio di verità che ad uno dei due si avvicini, ed induca, nella fallibilità degli umani giudizi, una morale certezza di amministrata giustizia. L’inconveniente del maggior numero dei giudici dal lato di chi perde è più facile è più forte

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nel sistema dei due gradi ed un inconveniente inevitabile non legittima la falsità di un principio. Infine l’obbligo ingiunto al tribunale inferiore di pronunziare un giudizio per meglio creare il processo non obbliga la probabilità di raggiungere lo scopo perché la sicurezza che quello riesca sterile, monco e che la sentenza non nasce dal calore del contraddittorio o della difesa delle parti e perciò deve necessariamente rigettarsi, non impegna l’amor proprio e la coscienza de’ giudici ad un accurato lavoro e forse ridotto a quasi mera formalità va a divenire l’opera privativa di un meccanico cancelliere.”

Monsignor Ruffini, appoggiando le conclusioni dello Sturbinetti, aggiungeva che quando una prima sentenza veniva revocata da una seconda, la prima sentenza non esisteva più perché una collideva con l’altra. Dunque un terzo grado era necessario perché la lite terminasse con una sentenza “viva e irretrattabile”. I motivi che avevano spinto la Consulta di Stato ad ammettere due gradi di giudizio e non uno solo, venivano resi inefficaci, attraverso l’impianto del primo grado. Se si riconosceva la necessità di istituire un tribunale in ogni cantone dello Stato, “perché un solenne areopago di almeno 21 membri non si sarebbe potuto creare che in due o tre punti dello Stato medesimo”, doveva riconoscersi anche la necessità di procedere con quei tribunali di cantone ai bisogni delle popolazioni soggette, ed impedire possibilmente i mali rappresentati dal Giuliani con l’esistenza di un grado solo di giurisdizione. Ma si domandava se un tribunale composto da un solo giudice processante, che rendesse una sentenza inutile da non persuadere del buon diritto né il vincitore né il soccombente, sentenza che inevitabilmente si appellerebbe a quel tribunale superiore, ove si traducono le difese e le prove, allontanerà i danni dall’economia privata e pubblica e dal ritardo della giustizia.

Anche il Pagani sosteneva l’utilità dei tre gradi. Non è vero, egli diceva, che la prima sentenza non riscuoteva la fiducia del

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potere esecutivo e dei litiganti, talvolta questa era implicitamente dichiarata la migliore dal terzo grado che la confermava, revocando la seconda. La legislazione francese in Italia aveva dimostrato come i due soli gradi di giurisdizione fossero fonte di perenne pregiudizio per l’interesse dello Stato e dei cittadini sotto ogni rapporto di bene materiale civile e politico.

Monsignor Pentini non concordava sul fatto che la fiducia nei giudici dipendesse dal grado più alto al quale essi appartenevano. “Ogni magistrato eletto dal governo esser dovrebbe fornito di un patrimonio di integrità e di sapere uguale a qualunque altro superiore, perché pari è il mandato santissimo di rendere a ciascuno suo diritto in ciò che riguarda la fortuna, l’esistenza civile, la libertà, la vita dall’ultimo al primo dei cittadini.” Il governo doveva curare che la prima sentenza avesse un peso tale sull’animo delle parti da riscuotere la reciproca fiducia ad estinguere ogni causa di lite, cosicché l’appello divenisse un beneficio, non una necessità. Quindi appoggiava il progetto del Giuliani di rendere inappellabile la sentenza pronunciate ad unanimità e dar luogo alla revisione solamente in caso di maggioranza di voti, escludendo attraverso il numero dispari dei giudici, il caso di parità. “Così – proseguiva - senza il concentramento di enorme quantità di giureconsulti giudicanti in un punto solo, ove prestando opera contemporanea su tutta la disputa non potrebbero con retta sollecitudine definirne l’esorbitante moltitudine, sarebbe a proporsi che si dividano in discreto numero e non gravi distanze, onde ottener che il comodo dell’istituzione dei tribunali sia sparso in più luoghi, e lungi dal divenire un privilegio di poche fortunate città serva al suo vero fine di prestamente restituire a chi si debba il possesso delle reali e personali proprietà o di vendicare l’offesa coll’edificante prontezza della pena irrogata.

Monsigor Morchini, all’opposto, era fermo sul punto dell’utilità di due soli gradi di giudizio in ossequio alle ragioni

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esposte dalla Consulta di Stato. Uno era il principio. Il secondo grado, per numero e qualità dei magistrati che dovevano comporlo, dava la presunzione di infallibilità del giudizio il quale sarebbe stato indebolito dalla concessione dell’appello. La Francia a seguito delle frequenti crisi politiche e delle continue riforme amministrative e giudiziarie aveva sempre ritenuto inalterabile il sistema dei due gradi di giudizio e così anche gli Stati italiani napoletani e toscani, ai quali era opportuno uniformarsi.

Lo Sturbinetti evidenziava a tal proposito l’incertezza della giurisprudenza francese perché appunto il difetto di una grado supremo, che ne fissi le basi principali a norma delle inferiori giudicature, fa ondeggiare l’arbitrio delle opinioni e provoca le continue declaratorie del Ministero, che costituendo volumi di nuova legislazione, contraddicenti la preesistente, ed accrescevano la difficoltà dell’applicazione ai casi speciali. “Laddove poi una ragione irresistibile non persuada l’imitazione dell’esempio altrui, saranno troppe inconseguenti e degeneri dai nostri maggiori se noi copiar volessimo dallo straniero perfino il disordine, che tale sarebbe almeno per noi, per il nostro costume, e condizione sociale, il difetto di un terzo grado. Napoli e la Toscana conservarono il sistema che il Regno d’Italia aveva introdotto e non è certo ancora se intendono persistere in quelle o aspettano da altri l’esempio di una riforma che le consigli a cambiarlo.”

Il Potenziani raccontava la sua personale esperienza e sull’inconveniente dei due soli gradi di giudizio mentre monsignor Morchini diceva che i tre gradi di giudizio non davano uniformità alla giurisprudenza e solo il rispetto per la Rota aveva spesso e neanche sempre piegato le menti dei tribunali inferiori a venerar le sue massime

Lo Sturbinetti contrastava le parole di monsignor Morchini, replicando che sulla manifesta violazione di una legge chiara e precisa, la Cassazione avrebbe dovuto pronunciarsi, e in questo

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caso “non vi è e non vi può essere ondeggiamento di teorie, ma solo falsità di applicazione. Il vizio risiedeva nelle materie opinabili, nelle quali, appunto, pel difetto di metodo, di divider la Rota in due turni, si verificava il continuo conflitto di decisioni diverse sull’identico articolo. Dato un solo tribunale supremo di terzo grado che definisca in unico consesso e con una sentenza inappellabile la controversia, i tribunali inferiori necessariamente professeranno la giurisprudenza medesima nella sicurezza che deviandone la loro sentenza all’ultimo grado sarà revocata.”

Anche gli uditori furono invitati ad emettere il loro parere sull’argomento, e l’ Alibrandi riteneva che la legge non accordava maggior fiducia di presunta infallibilità al secondo o terzo grado ma a due gradi che vengono nel medesimo giudizio e facciano nascere due sentenze conformi, era dunque necessario che se la causa giudicata o meno dal primo e secondo grado a questi da l’impronta d’infallibilità, col denegare l’appello, e se emerga dal terzo, la concede a quest’ultimo ed al grado di cui si conferma il giudizio. Senza l’efficacia dunque della prima sentenza non poteva mancare la cosa giudicata in secondo grado e nella difformità delle due sentenze la cosa giudicata può senza il benefizio del terzo grado.

Riflettendosi dai congregati che quando si adottava il sistema del terzo grado di giudizio il miglior partito era quello di non proporre innovazioni circa il numero dei giudici e il diritto di appello, e si subordinava alla votazione il quesito nei termini della interpellazione ministeriale con avvertenza che chi si alza ammette i due gradi, chi rimane seduto conviene nel terzo grado. Quattro si levarono, dodici restarono al posto. Per dubbio di accorso equivoco si è ordinata la controprova. Chi si alza ammette il terzo grado, chi si siede lo nega.

Dodici si alzarono quattro non si mossero e la proposta per la conservazione del terzo grado fu vinta a pluralità.

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La seduta si sciolse a causa dell’ora tarda, annunciando che nell’ adunanza successiva si sarebbe proseguita la discussione sugli altri quesiti.

Il giorno seguente, dopo la lettura e l’approvazione del verbale del giorno precedente, il Presidente ordinava la prosecuzione della disamina sui quesiti proposti dal Consiglio dei ministri come base al sistema organico giudiziario257.

Il quesito successivo riguardava la creazione di un Tribunale supremo di Cassazione, e le eventuali attribuzioni e norme di disciplina.

Monsignor Ruffini riteneva più logico discutere prima sull’opportunità o meno di stabilire il tribunale di Cassazione competente sia per il ramo civile che per quello penale e riservare la discussione sulle norme di disciplina allorché si fosse trattato della del codice di procedura.

Il Giuliani riteneva però necessario individuare contestualmente almeno le attribuzioni minime del tribunale.

Monsignor Pentini riteneva che le attribuzioni di quel tribunale potessero riassumersi nelle parole “vindice e custode supremo della legge”.

Il Pagani riteneva opportuno restringere la competenza del tribunale di Cassazione ai ricorsi per manifesta violazione di legge o di ordine giudiziario e proponeva di istituire un grande tribunale supremo diviso in due sezioni, una competente a riesaminare la causa nel merito, l’altra competente a cassare le sentenze affette da vizi di nullità o di legalità.

Monsignor Pentini e monsignor Morchini ribadivano come fosse meglio concentrarsi solamente sull’ istituzione o meno del tribunale di Cassazione rinviando ad altra sede la discussione sui modi di decisione.

Il Presidente riformulava allora la proposta nei seguenti termini: “Deve o no erigersi un Tribunale Supremo di Cassazione nei giudizi civili e criminali limitato solo a conoscere

257ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit.145

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dei ricorsi per manifesta violazione di legge, di merito, o di ordine giudiziario?”. Alla proposte seguiva la votazione per alzata e seduta al termine della quale si ottenne l’unanimità dei consensi.

3.5.4. Sull’ istituzione del Pubblico MinisteroL’origine storica del Pubblico Ministero resta alquanto

controversa e trova i suoi antecedenti già nel diritto romano, anche se l’istituto inizia ad assumere la forma a noi nota solamente nella Francia del XIV secolo258. Secondo la prevalente opinione «è nell’ingerenza prima e più diretta del monarcato francese nella vita della Nazione che si dee ricercare l’origine del Ministero pubblico259», anche se vi è chi sostiene che «l’origine del M. P. non deve rintracciarsi né in questo né in quello Stato. Questa istituzione è un prodotto dell’esperienza storica: è l’effetto di un bisogno che, in date condizioni di civiltà sentì ogni Stato: è il portato di quella evoluzione sociale, che nel mondo moderno produsse nuove potenze ed organi nuovi260».

L’istituto del Pubblico Ministero in Italia, è stato modellato su quello Francese. La Francia conosceva già tale figura prima della Rivoluzione, quando era ancora un’emanazione del potere regio e da questi completamente dipendente. L’assemblea costituente votò per la conservazione di questo istituto, e ne conservò la nomina regia, ma lo rese indipendente accordandogli l’inamovibilità. Le funzioni del Pubblico Ministero vennero divise tra quelle sue proprie e quelle del Pubblico Ministero accusatore; mentre quest’ultimo era eletto dal popolo e aveva la missione di sostenere innanzi alla giuria le e accuse e

258 Una ricostruzione delle tesi avanzate dai vari studiosi circa l’origine del Pubblico Ministero è offerta da A. CASSIANI, Il potere di avocazione. Profili ordinamentali dell’ufficio di Pubblico Ministero, Padova, 2008, pp. 1-19.

259 G. BORTOLOTTO, Ministero pubblico (materia penale), in Dig. It., vol. XV, 2, Torino, 1904-1911, pp. 524-604.

260 F. SCARLATA, Ministero pubblico, (ordinamento giudiziario, procedura penale e civile), in Enc. Giur. It., vol. X, Milano, pp. 999- 1109.

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di esercitare la vigilanza su tutti gli uffici di polizia giudiziaria del suo dipartimento, al primo era riservato solamente il compito di chiedere, dopo la pronuncia del verdetto, la pena, e di curare l’esecuzione delle condanne. Dopo non poco tempo il Pubblico Ministero di nomina regia venne abolito e rimase solo il Pubblico Ministero accusatore. Napoleone soppresse la figura dell’accusatore pubblico trasferendo le sue funzioni ai commissari di governo261. Solamente col Code d’instruction criminelle vennero cristallizzati i principi inerenti al Pubblico Ministero riassunti nella dipendenza di questo dall’esecutivo, e stabilendo che tale ufficio fosse comprensivo di due funzioni, quella di polizia giudiziaria e quella di titolare dell’azione penale. Il sistema francese era basato comunque su una struttura piramidale, al vertice della quale stava il ministero di giustizia, vi erano poi i procuratori generali e i loro sostituti, gli avvocati generali e i loro sostituti che dipendevano a loro volta dai procuratori generali, sistema che ispirò anche i codificatori italiani nel ridisegnare il sistema della pubblica accusa262.

In Italia, le legislazioni preunitarie furono in buona parte influenzate dal modello codicistico romagnosiano del 1807, che aveva recepito uno schema processuale tendenzialmente misto e caratterizzato da una fase istruttoria rigorosamente segreta e un dibattimento orale; il modello del Romagnosi riecheggiava nel codice di procedura criminale del Regno di Sardegna del 1847 e in quelli di procedura criminale del ducato di Parma del 1820 e di procedura penale del ducato di Modena del 1855 ed anche nella legislazione leopoldina, nelle leggi di procedura ne’ giudizi penali del Regno delle due Sicilie, mentre il regolamento di procedura gregoriano del 1832 era scevro di riferimenti alla cessata esperienza napoleonica in Italia263.

261 F. SCARLATA, Ministero pubblico, (ordinamento giudiziario, procedura penale e civile), in Enc. Giur. It., vol. X, Milano, pp. 999- 1109.

262 A. CASSIANI, Il potere di avocazione… cit., pp. 15-18.263 M. NATALE, Una riflessione sul Pubblico Ministero nei principali

sistemi processuali italiani dell’Ottocento. Ruolo, funzioni e problematiche della pubblica accusa nel primo quarantennio di unità nazionale, in M. FIORAVANTI, Culture e modelli costituzionali dell’Italia repubblicana,

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La legislazione dello Stato pontificio era infatti, quella che forse aveva recepito meno di tutte l’istituto del Pubblico Ministero. Nel Regolamento gregoriano del 1831 si trovano confuse le funzioni di Pubblico Ministero con quelle dell’istruttore per le caratteristiche del sistema inquisitoriale allora vigente nei territori pontifici. La figura che più si avvicinava a quella del Pubblico Ministero era quella del procuratore fiscale, residente in ogni capoluogo di provincia e corrispondete col procuratore generale del Fisco residente a Roma; il Regolamento gregoriano prevedeva anche un avvocato del Fisco, con funzioni relative all’attività patrimoniale del papato, ma nemmeno questa figura poteva paragonarsi completamente a quella del Pubblico Ministero.

La discussione proseguiva allora sul quinto quesito: “Se debba o no stabilirsi il Ministero pubblico, ed in caso affermativo in quali tribunali264.”

Monsigor Morchini, presa la parola, obiettava che non vi erano motivi per ritenere che il Pubblico Ministero avrebbe riscosso più fiducia dei giudici, che erano sempre scelti dal governo tra i migliori quanto a preparazione e onestà; egli sosteneva che “il popolo lo vuole, perché mai l’ebbe, ed inclina a vagheggiar cose nuove. Ma deve guardarsi alla convenienza e all’economia”; aggiungeva poi come la sua istituzione avrebbe certamente compromesso il prestigio dei magistrati che in quel modo sarebbero stati posti sotto sorveglianza.

Il Pagani riteneva che il potere giudiziario influiva sui beni, sull’onore e sulla vita dei cittadini, per queste ragioni era necessario impedirne il più possibile l’abuso e garantire dei metodi di sorveglianza.

Monsignor Morchini osservava come nel Regno d’Italia, al tempo in cui si discuteva sull’ introduzione dei codici, si fosse proposto di istituire il Ministero solamente nei tribunali

Cosenza, 2008, pp. 193-222.264 Quesito discusso nella seduta del 25 luglio 1848. ASR, Consiglio di

Stato (1848-1849)…cit.148

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d’appello, con l’obbligo di sopraintendere anche ai tribunali subalterni, eliminando così l’impiego dei giudici fiscali e dei presidenti, con una conseguente contrazione della spesa. Le attribuzioni del Pubblico Ministero consistevano nell’esercizio della “polizia giudiziaria”, nel condonare le cause dei comuni, dello Stato e delle persone privilegiate, nel dirigere le procedure compilate in camera di istruzione, con il relativo risparmio dell’utilizzo dei fiscali anche in cause riguardanti il “regio demanio”.

Notava però monsignor Morchini che mentre i fiscali, che erano di regola persone del luogo si accontentavano di un piccolo assegno mensile, il Pubblico Ministero ne avrebbe richiesto uno di certo superiore, nonostante il suo ruolo si limitasse solamente ad osservare il corretto svolgimento delle udienze.

Il Bonacci riconosceva al Pubblico Ministero l’utilità di sopraintendere all’esatta applicazione della legge nel Foro, “perché se le parti si acquietano, o per ignoranza o per interesse, all’applicazione di non ricevuta dottrina, egli reclamava al supremo ordine l’osservanza dei retti principi.”

Il Pagani aggiungeva il fatto che in caso di contrasto tra poteri era compito del Pubblico Ministero ricondurre ciascuno di essi nell’ambito dei propri confini e quanto al problema economico monsignor Ruffini riteneva che si sarebbe verificato un compenso di spesa con il risparmio di due funzionari (il fiscale l’assessore camerale) in quanto i loro uffici si sarebbero concentrati nel Pubblico Ministero.

Si passava perciò alla votazione sulla massima: “deve o no stabilirsi il ministero pubblico nei tribunali collegiali?” alla votazione seguiva l’unanimità dei voti favorevoli.

Il sesto quesito era “se nei giudizi criminali debba ammettersi o no una Camera d’accusa265.”

265 Ibidem.149

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Il Giuliani ne mostrava l’evidente utilità dovuta soprattutto ai continui lamenti contro l’ arbitrio dei giudici processanti, dai quali dipendeva la buona o cattiva sorte del reo. Egli però rendeva noto ai propri colleghi che in realtà l’istituzione della Camera d’accusa era già prevista nel progetto del codice di procedura penale che si stava redigendo contemporaneamente.

Senza ulteriori discussioni il quesito venne sottoposto ai voti che furono unanimemente concordi nell’ammissione.

3.5.5. Sull’ammissione dei giuratiIl giurì storicamente costituisce la partecipazione del

popolo all’esercizio del potere giudiziario. Sotto il nome di giurati si intende un numero determinato di cittadini temporaneamente chiamato all’esercizio di funzioni giudiziarie ed esclusivamente incaricato di esprimere, sull’accusa di un reato, una dichiarazione di fatto in conformità alla quale deve poi il magistrato applicare la legge. L’ interesse del popolo alla partecipazione del potere giudiziario non si verifica in ogni evenienza, ma quando si tratta di fatti che turbano l’ordine pubblico o, in genere, che diminuiscono il sentimento della sicurezza sociale. In epoca moderna, il concetto di giurì, che funzionava già nel procedimento inglese ed era stato recepito nell’ordinamento degli Stati Uniti, non poteva rimanere estraneo ai rinnovamenti giudiziari portati dalla rivoluzione francese266. Era chiaro che, al pari degli altri principi, anche il principio di giurì dovesse diffondersi nel continente europeo come prodotto finito del movimento di riforma cui diede vita la rivoluzione francese e che aveva suscitato già grande interesse nei maggiori esponenti dell'illuminismo giuridico, da Montesquieu a Voltaire, da Beccaria a Filangeri.

Il dibattito in seno all'Assemblea Costituente svoltosi tra il 1790 e il 1791 e che portò all'introduzione della giuria anche nel

266 Per un esame de ruolo della giuria nei diversi stati europei si veda A. PADOA SCHIOPPA, The trial jury in England, France, Germany, Berlin, Duncker & Humblot, 1987.

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Continente europeo è stato saggiamente analizzato da Antonio Padoa Schioppa; l'autore definisce l'istituzione del jury nel continente europeo un vero e proprio trapianto di un istituto di common law e definisce il dibattito tenutosi in seno all'Assemblea, di "impressionante attualità", per l 'esame lucido e attento sui i temi concernenti i vantaggi ed i rischi connessi a questo istituto, e sui temi fondamentali del processo penale, quali il libero convincimento del giudice, le regole legali sulle prove, la raccolta e la valutazione delle deposizioni testimoniali, l'oralità del dibattimento, la distinzione tra questioni di fatto e questioni di diritto, le rispettive funzioni dei giurati e dei giudici nell'ambito del dibattimento267. La giuria agli occhi dei philosophes francesi era uno dei rimedi più validi alla crisi del sistema penale di ancien régime.

Originariamente, accanto al giurì di giudizio, era previsto il giurì d'accusa (Jury d'accusation): proprio come nel sistema inglese, nessun cittadino poteva essere sottoposto ad un giudizio senza che l'accusa fosse stata ammessa da giurati. Precisamente, il giurì d'accusa operava quando l'imputato era stato accusato di un delitto che comportava una pena afflittiva o infamante. I giurati, dopo aver prestato giuramento, dovevano esaminare l'atto di accusa e i documenti concernenti la causa in esame e dovevano ascoltare i testimoni. Al termine dell'esame i giurati si ritiravano per deliberare e la decisione veniva adottata a maggioranza. Se l'accusa veniva ritenuta fondata, il giurì dichiarava “oui, il y a lieu”; se invece i giurati ritenevano non vi fossero gli elementi per instaurare un processo, dichiaravano “non, il n'y a pas lieu”. Se infine l'accusa era fondata, ma mal motivata, la formula era la seguente: “il n'y a pas lieu à la presente accusation268”.

L'istituto della giuria venne recepito dal Code d' instruction criminelle del 1808, che soppresse la giuria d'accusa,

267 A. PADOA SCHIOPPA, La giuria penale in Francia. Dai «philosophes» alla Costituente, Rozzano, 1994.

268 E. AIGNAN, L’histoire du jury, Paris, 1822, p. 257.151

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mantenendo solamente quella giudicante nella Corte d'assise, presieduta da un magistrato della Corte di appello. Il codice venne applicato in Francia e nei territori ad essa direttamente annessi, ma non fu esteso al Regno di Italia nè al Regno di Napoli, proprio in ragione della giuria. Napoleone infatti riteneva gli italiani "non pronti" per questo istituto.

Assente nei territori occupati da Napoleone (anche se nella Costituzione della Repoubblica Cispadana del 1797 molteplici articoli si occupavano già dell'istituzione dei giurati, così come la Costituzione della Repubblica Cisalpina Costituzione della Repubblica italiana del 1802269 la Costituzione siciliana del 1812 prevedeva l’utilizzo dei giurati. Anche nel Lombardo Veneto si discusse se introdurre o meno i giurati nell’ordinamento giudiziario, ma il ministro di giustizia Schmerling aveva dichiarato in suo rapporto di non ritenere il giurì un’istituzione che si confacesse all’indole dei lombardo veneti o alle condizioni del regno270.

In Piemonte invece le cose andarono diversamente, almeno in parte, perché in seguito alla promulgazione dello Statuto albertino (4 marzo 1848), venne emanato il 26 marzo 1848 il Regio Editto sulla stampa numero 695 che prevedeva, unicamente per i reati di stampa, l'istituto della giuria. Se in un primo momento quindi l'istituzione della giuria venne adottata unicamente per i reati di stampa (anzi la cognizione dei giurati, come detto sopra, venne ulteriormente ridimensionata nel 1852), questo non impedì che negli anni successivi venissero formulati e presentati progetti di legge per l'estensione dell'istituto ai reati comuni.

Anche nello Stato pontificio, nonostante fino all’elezione di Pio IX si discutesse sull’ammissione di questa carica nel sistema costituzionale non si era mai riusciti a procedere alla loro ammissione271.

269 A. AQUARONE, Le Costituzioni italiane, Milano, 1958, pp. 67 e 107.270 G. SALVIOLI, Storia della procedura civile…cit.271 P. VICO, Giurati, in, Dig. It., Torino, 1900-1904, pp. 561-768.

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Ma la discussione sul Regolamento organico poteva essere la sede appropriata per riesaminare la questione. Si passava allora all’esame del settimo quesito: “se l’uso dei giurati deve ammettersi nei soli delitti per contravvenzioni alle leggi intorno alla libertà di stampa272.”

L’Orioli riportava l’esempio delle Nazione straniere, ove egli era vissuto per sei anni. Egli riteneva che o per errore, o per ignoranza oppure forse a causa di un eccesso di impeto, quei giudici avevano protratto in quei luoghi lunghe ingiustizie; riportava anche l’esempio della Grecia, che non aveva introdotto l’uso dei giurati perché diffidava dal loro giudizio e allo stesso modo non aveva adottato il principio dell’amovibilità dei giudici, perché credeva di imporre loro un freno attraverso il pericolo della rimozione. Per queste ragioni terminava il suo intervento auspicando che l’uso dei giurati venisse adottato solamente nei reati contro le leggi sulla stampa.

All’obietto di monsignor Morchini, secondo cui se i giurati erano utili per quella categoria di delitti non vi era ragione perché non potessero esserlo anche per tutti gli altri, il Betti rispondeva che nel primo caso aveva luogo una sorta di intimidazione, e che inoltre il corpo del delitto racchiudeva in sé la prova decisiva per ammettere o escludere la censura.

Il Giuliani, rispondendo allo stesso obietto, rilevava le difficoltà di valutare le prove negli altri delitti. Citava il Romagnosi273, che distingueva tra il giudizio sul merito delle persone e quello sui fatti, dove il primo dipendeva dall’ opinione pubblica, che era facilmente individuabile, mentre il secondo richiedeva una critica logica sull’entità della prove, che variava per variar di circostanza, di luogo, di tempo, di qualità dei deponenti. Egli osservava come nei delitti sulla stampa, la

272 Quesito discusso nella seduta del 25 luglio 1848. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit.

273 Il giurista Giandomenico Romagnosi era stato incaricato dal governo italico di redigere un codice di procedura penale per il Regno d'Italia. Per questo codice si veda E. DEZZA, Il codice di procedura penale del regno Italico (1807). Storia di un decennio elaborazione legislativa, Padova, 1983; ID., Le fonti del codice di procedura penale del Regno Italico, Milano, 1985.

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stampa stessa costituisse l’oggetto e, attraverso l’autore, anche la persona imputata. Bisognava solo stabilire se fosse stata violata la legge limitativa della libertà, affidando al buon senso del giudice il criterio per decidere.

Monsignor Morchini osservava come gli antichi romani avevano mantenuto per secoli l’utilizzo dei giurati, riconoscendone i grandi vantaggi; anche la Francia, e soprattutto l’Inghilterra, ne riconosceva l’utilità. Per evitare disordini era necessario, secondo quanto già sostenuto dal Romagnosi, scegliere i giurati tra le classi più abbienti di cittadini e non tra la massa del popolo. Al reo doveva concedersi la possibilità di escludere una parte dei giurati chiamati a giudicarlo.

L’Orioli non attribuiva la brevità del processo alla presenza dei giurati, perché in ogni caso l’ordinatoria degli atti era affidata ad ufficiali stipendiati e fissi e dipendeva anche da un sistema semplice e veloce di procedura.

Anche il Pagani era di avviso di circoscrivere la giurisdizione dei giurati ai delitti contro la libertà di stampa, perché il fatto su cui ricadeva l’accusa era sempre certo. Per quanto riguardava gli altri delitti, un esempio per escludere la presenza dei giudici popolari lo offrivano le Romagne. In quei luoghi, diceva, l’impunità dei delitti era all’ordine del giorno, in quanto spesso i giurati erano vittima di minacce; il magistrato ordinario, viceversa, godeva di maggiori garanzie per la sua sicurezza personale, in quanto era libero dall’aver contatti col popolo e poteva condurre una vita riservata e porsi in una posizione che sarebbe stata impossibile al commerciante o artista “che dal tribunale ove segnò la sentenza fatale all’inquisito è costretto discendere alle piazze, alle officine, ove incalza la plebe chiamata dai vari interessi di pubblica negoziazione.”

Monsignor Pentini, inoltre, ricordava la mancanza di istruzione del popolo riguardo agli affari amministrativi e legali,

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soprattutto rispetto agli altri Stati, nei quali, al contrario, ogni classe di cittadini aveva dimestichezza con gli affari pubblici. Convenendo poi con l’ammissione dei giurati nelle cause riguardanti i reati di stampa, credeva di poter estendere il loro “giudizio di fatto” anche ad una parte di reati politici.

Il Santucci aggiungeva a quelli i reati di contravvenzioni alle leggi fiscali, che riguardavano anch’essi la conoscenza di fatti semplici e di leggi facili.

Monisgnor Ruffini riteneva invece che quel tipo di contravvenzioni costituisse una materia meramente civile sul pagamento del danno, e perciò fosse fuori da ogni competenza dei giurati.

Il Giuliani rilevava che quando la contravvenzione non era semplice, ma qualificata, aveva luogo anche l’azione penale la quale coinvolgeva questioni di diritto superiori alla capacità di quella classe di giudici, come ad esempio avveniva nella “conventicola ed in altre specie ignote forse anche di nome alla più parte del volgo”.

Lo stesso inconveniente il Ciofi considerava potesse aversi nei delitti politici, per la facile commistione con altri delitti comuni, confermando così il sentimento degli altri suoi colleghi sulla necessità di limitare il giudizio dei giurati alla violazione delle leggi sulla stampa.

A questo punto il presidente riteneva più conveniente dividere la proposta in tre parti, la prima delle quali era: “l’uso de giurati deve specialmente ammettersi per contravvenzioni alle leggi intorno alle stampe? ”

L’alzata di tutti i presentì comportò l’unanimità dei voti favorevoli.

Si riapriva perciò la discussione intorno ai delitti politici, e il Bonacci riaffermava la sua idea secondo la quale la libertà di stampa era il fondamento della vita costituzionale ed era protetta dalle cure gelose del popolo. Così come i giurati erano utili nelle materie penali, così lo erano nei reati politici. I giudici,

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stipendiati ed eletti dal potere esecutivo, erano sospettati dal popolo di eccessivo rigore, erano ritenuti un freno alla sua libertà ed era per questo che il popolo prediligeva i giudici gratuiti, scelti fra gli stessi cittadini. Di certo in quei casi occorrevano dei giurati speciali, scelti tra una schiera di cittadini di “fama superlativa e non contraddetta per onestà e per retto sentire” ed avrebbero dovuto prestare il loro servizio gratuito.

Il Betti rilevava che per quanto si potesse ridurre il numero dei giudici popolari, era troppo variabile l’opinione pubblica nel determinare cosa costituisse reato e cosa no e alla sua riflessione si associava il Pagani, che premeva affinché il giudizio dei giurati fosse escluso più che mai sui delitti politici, ricordando che “la stessa Francia che vide legittimare per azioni virtuose i vili attentati degli assassini, fu costretta a chiedere al Consiglio dei Pari la cognizione dei delitti di Stato”.

L’Orioli credeva che si sarebbe potuto porre rimedio a questo inconveniente attraverso la scelte di “persone amanti dell’ordine e delle quiete interna” qualunque fossero state le loro tendenze politiche, sempre però tenendo fermo il principio della possibilità data all’imputato di escludere parte dei giurati anche in considerazione dell’inappellabilità del loro giudizio.

Oltre alle difficoltà di scelta dei giurati, il Giuliani notava come tra 50 individui, essendo l’imputato in diritto di escluderne solamente dodici, poteva egli trovare nella parte restante “un partigiano della sua opinione”. Il procuratore del reo aveva diritto alla ricusa solamente dando ragione del suo rifiuto, e quando questa ragione non poteva giustificarsi, il rifiuto non era ammesso e il giudizio poteva essere inevitabilmente parziale.

Né poteva essere una soluzione restringere ulteriormente il numero dei giudici proponendo solamente i migliori, come proponeva il Bonacci, perché in una società dove le passioni agitavano l’intera massa del popolo, non poteva sapersi con certezza ove si nascondevano menti razionali tali da rendere un

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giudizio freddo ed imparziale; Ragion per cui bisognava affidare l’incarico a giudici ordinari, chiamati a giudicare quel popolo a cui non appartenevano, in quanto provenienti da luoghi diversi, posti sotto la sorveglianza del Ministero e sottoposti a responsabilità personale.

Si votò così sulla seconda parte del quesito, se “l’uso de’ giurati deve ammettersi nei delitti politici”.

Undici votarono contro e rimasero seduti solamente tre si alzarono e la proposta venne esclusa a maggioranza di voti.

Si passò poi a votare il terzo assunto: “l’uso de’ giurati deve o no ammettersi negli altri delitti”. Temendo lo stesso risultato nelle votazioni, la proposta fu rigettata con tredici voti contro uno.

Cominciava allora la trattazione dell’ottavo quesito: “se l’uso dei giurati fosse limitato ai giudizi relativi a talune classi di delitti, negli altri sarà preferibile il processo di prove legali, ossia scritto, o piuttosto il processo orale?”

Il Giuliani riteneva logico, come diretta conseguenza della pubblicità dei giudizi, adottare il sistema del processo orale. L’interesse del pubblico, quando si trattava dell’onore, della libertà, della vita di una cittadino, nel processo orale trovava l’originale del processo medesimo, nello scritto la copia. Egli inoltre sosteneva che “la fede dei testimoni è incerta quando è raccomandata all’arbitrio di un processante è sicura quando è dichiarata alla presenza dei magistrati giudicanti e di una moltitudine spettatrice”.

Il Piacentini osservava che il processo orale non era necessariamente conseguenza della pubblicità, perché il processo civile era pubblico o scritto e non se ne metteva in discussione l’utilità.

Il Bonacci contestava il paragone in quanto mentre nel processo civile si aveva, ad esempio, quasi sempre la prova scritta, come nel caso del contratto, e le parti contendenti ed i rispettivi patrocinatori avevano libero accesso alla fabbricazione

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degli atti, e potevano contraddirli, nel processo penale la prova era orale e la nuova escussione di alcuni testimoni in udienza riparava ai danni e ai pericoli del processo scritto.

Il quesito veniva sottoposto ai voti nella sua formulazione originale ed approvato ad unanimità.

3.5.6. Sull’ammissione dell’appello nelle cause penaliLa disciplina dell'appello nelle cause penali, in quasi tutte le

legislazioni degli stati preunitari, trasse ispirazione dalla legislazione francese.

Le grandi novità introdotte dalla Rivoluzione nel sistema penale, quali l'oralità del dibattimento, la pubblicità dei giudizio, la giuria e il principio del libero convincimento del giudice ebbero dei riflessi importanti anche nei riguardi dell'appello.

In generale si diffuse un sentimento di sfavore nei confronti di questo gravame, soprattutto quando doveva essere accordato a cause di minore entità.

L’istituto della giuria in particolare aveva fatto credere nell'impossibilità degli errori giudiziari e la stessa oralità del giudizio in aggiunta al contraddittorio, fecero pensare che fosse impossibile e inattuabile la riproduzione delle prove e dei loro risultati, ragion per cui le sentenze pronunciate dai tribunali nei quali erano presenti i giurati furono dichiarate inappellabili.

Nonostante anche i giudizi correzionali fossero improntati al principio dell'oralità e del contraddittorio, nei confronti di questi ultimi rimase la possibilità per le parti di proporre appello, questo perché la giustizia pronunciata dai giudici togati non riscosse quella simpatia che invece riscosse subito nei confronti dei giudici popolari274. L'appello avverso le sentenze dei tribunali correzionali venne accolto dal Code d'isntruction criminelle ma non ebbe vita semplice nella Francia di metà

274 L. CASORATI, Appello penale (procedura), in Did. It., IV 1, Torino. 1896, p. 77.

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Ottocento e la disciplina legislativa fu oggetto più volte di interventi correttivi.

Volgendo uno sguardo agli Stati italiani si trovavano discipline non dissimili da quelle francesi.

Nell'Italia meridionale, le sentenze penali erano inappellabili, mentre le sentenze pronunciate in materia correzionale potevano essere impugnate con l’appello innanzi la Gran Corte criminale (artt. 305, 380, 418 del Codice per lo Regno delle Due Sicilie del 1919). Nel Granducato di Toscana le sentenze penali dei tribunali di prima istanza e delle corti regie erano inappellabili, mentre le sentenze dei pretori erano suscettibili di appello nel solo caso in cui fosse stata pronunciata la condanna al carcere o comminata una multa superiore a trenta lire, così come figurava nel motu proprio del 1838 e nel Regolamento d'istruzioni criminali del 1849.

Negli Stati Estensi l'appello era consentito avverso le sentenze di primo grado e quelle pronunciate dai giudici singoli (Codice di procedura criminale del 1855, artt. 29,39 e 342).

A Parma erano appellabili le sentenze dei pretori e quelle dei tribunali correzionali, mentre contro le sentenze pronunciate dai tribunali criminali, competenti a giudicare nei casi più gravi, non era ammesso appello e ma solamente la revisione che equivaleva ad un ricorso in cassazione. (Codice di procedura penale del 1820).

Nel Lombardo Veneto le sentenze dei pretori e dei tribunali provinciali potevano essere impugnate con l'appello, ma il codice austriaco, vigente in quei territori, prevedeva il sistema della doppia conforme, perciò solamente le sentenze che erano state riformate in secondo grado potevano essere portate innanzi alla Suprema Corte di Giustizia (Regolamento generale di procedura penale del 1853)

In Piemonte l'appello penale era già ammesso nel codice procedurale del 1847, ma l'appellabilità era subordinata alla

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qualità dell'appellante, a seconda che si trattasse dell'imputato, del Pubblico Ministero o della parte civile275.

Nello Stato pontificio l'appello era ammesso solo nei delitti minori e nei delitti puniti con la pena capitale (art. 13 Regolamento organico e di procedura criminale del 1831), nel primo caso perché a decidere era un giudice singolo, nel secondo caso in considerazione della gravità della pena.

Per i delitti maggiori per i quali non era previsto l'appello e per gli altri già giudicati in secondo grado era previsto il rimedio della revisione, con effetto sospensivo, e consistente nella facoltà di implorare i Tribunali Superiori per chiedere l'annullamento della sentenza nei casi di violazioni di forme sostanziali, falsa applicazione della legge penale, eccesso di potere (art. 17 del Regolamento organico e di procedura criminale del 1831)276.

Si passava alla discussione del nono quesito: “nei giudizi criminali dovrà ammettersi o no l’appellazione277?”

Una volta ammesso il processo orale, diceva il Giuliani, la stessa ripetizione delle prove poteva essere pericolosa e fuorviante, perché i testimoni, trascorso un periodo di tempo potevano contraddirsi per dimenticanza. Egli ammetteva che “l’umanità d’altronde reclama di ricorrer all’appello per la possibilità di commesso errore”, ma il miglior rimedio egli riteneva fosse quello di concedere la revisione in merito, attraverso l’esame del processo scritto in prima istanza oltre a tutto ciò che era risultato dalla discussione orale.

Anche monsignor Morchini e monsignor Ruffini appoggiavano la posizione del collega Giuliani e si passava alla votazione sul quesito se “nei giudizi criminali deve o no ammettersi l’appellazione principalmente detta?”, il cui esito escluse ad unanimità l'appello delle sentenze.

275 Ibidem, pp. 88 ss.276 Cfr. anche P. PITTARO, La struttura del processo criminale

gregoriano...cit., p. LXXVII.277 Quesito discusso nella seduta del 25 luglio 1848. ASR, Consiglio di

Stato (1848-1849)…cit..160

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Subito dopo il Bonacci formulava la seguente proposta: “esclusa nei giudizi criminali l’appellazione propriamente detta piace o no di accordare al condannato il beneficio della revisione in merito, giusta la proposta fattane dal consigliere Giuliani?”

La proposta veniva ammessa ad unanimità.Sostanzialmente dunque, la disciplina di questo gravame

nel sistema penale rimaneva immutata.

3.5.7. Sui tribunali speciali e sul contenzioso amministrativo

Sui tribunali speciali e sul contenzioso amministrativo il dibattito fu piuttosto breve.

Il Consiglio di Stato aveva già, sempre su invito dei Consigli deliberanti, intrapreso una discussione sull’eventuale abrogazione dei tribunali e delle commissioni eccezionali278. Il dubbio era stato mosso dall’entrata in vigore dello Statuto in quanto l’art. 4 di questo prevedeva l’uguaglianza di tutti i sudditi al cospetto della legge279, e l’art. 69 che dichiarava abolita ogni legge anche indirettamente contrastante con lo Statuto280.

In quell’occasione si era deciso di abolire le leggi concernenti i servi di pena, le rapine notturne, e i delitti politici contenuti negli artt. 555 e seguenti del Regolamento di procedura criminale del 5 novembre 1831 (quelli attinenti ai delitti di Lesa Maestà, per i quali si procedeva sempre in via

278 ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. Tornata del 7 luglio 1848 proferita dal signor professor Pasquale De Rossi, Ministro di grazia e giustizia, sull’abolizione dei tribunali eccezionali.

279 Art. 4: «Non saranno istituiti tribunali o commissioni straordinarie. Ognuno in materia tanto civile quanto criminale sarà giudicato dal tribunale espressamente determinato dalla legge: innanzi alla quale tutti sono eguali.» Statuto fondamentale pel governo degli Stati di S. Chiesa, in Raccolta delle leggi… cit., pp. 22 e ss.

280 Art. 69: «Rimangono in vigore tutte le disposizioni legislative, che non sono contrarie al presente Statuto. E similmente vogliamo e decretiamo che nessuna legge o consuetudine preesistente, o diritto quesito o diritto dei terzi, o vizio di correzione o surrezione possa allegarsi contro le disposizioni del presente Statuto; il quale intendiamo che debba essere quanto prima inserito in una Bolla Concistoriale, secondo l'antica forma, a perpetua memoria» Ibidem.

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sommaria a mezzo di ministri nominati dalla Segreteria di Stato). Si era però deciso di non metter mano alla materia ecclesiastica.

Adesso il Consiglio tornava a discutere sulla conservazione dei tribunali eccezionali e di privilegio, in particolare l’attenzione dei consiglieri era rivolta proprio ai tribunali ecclesiastici, le cui eventuali riforme incontravano l’opposizione degli ecclesiastici. In particolare Monsignor Palma, citando l’articolo 36 dello Statuto ai numeri 1 2 3281, difendeva il privilegio del Foro ecclesiastico, come materia immune da ogni possibile riforma da parte del corpo rappresentativo laico.

Per quanto riguardava i cosiddetti “affari misti” monsignor Morchini avvertiva che lo Statuto se ne occupava all’art. 37 sia attraverso la preventiva richiesta di un parere consultivo dei Consigli deliberanti, e sia, successivamente, attraverso la decisione dell’autorità suprema282.

Neanche in questa occasione dunque si riuscì ad intaccare il privilegio del Foro ecclesiastico, che costituiva ormai uno dei maggiori ostacoli alla piena realizzazione di un sistema moderno di amministrazione della giustizia, e dopo che già la Consulta di Stato si era pronunciata per una sua completa abolizione.

Il sistema dei tribunali commerciali e militari venne discusso brevemente. Per quanto riguarda i primi il Bonacci ne suggeriva l’abolizione, in quanto poiché in questi casi il giudizio era rimesso ai commercianti, che spesso erano a digiuno degli elementi di diritto, conoscendo solamente la materia commerciale, spesso ciò era causa di decisioni arbitrarie e poco garantiste. Il Pagani era invece il maggior sostenitore della abolizione dei tribunali militari. In sede di votazione, tuttavia si decise per la conservazione dei questi ultimi, mentre i tribunali commerciali vennero dichiarati aboliti.

281 Art. 36 «I Consigli non possono mai proporre alcuna legge: 1. Che riguardi affari ecclesiastici o misti, 2. Che sia contraria ai canoni o discipline della Chiesa, 3.che tenda a variare o modificare il presente statuto.» Ibidem.

282 Art. 37 «Negli affari misti possono in via consultiva essere interpellati i Consigli.» Ibidem.

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Un’attenzione maggiore bisogna riservare al sistema del contenzioso amministrativo in quanto, come vedremo, le decisioni sulla sua conservazione o meno furono piuttosto altalenanti.

Anche in questo caso la Francia viene generalmente considerata la patria del contenzioso amministrativo A differenze della Gran Bretagna infatti, che incarna l’idea di un’amministrazione senza giudici speciali, la Francia costituisce l’alternativa opposta, quella in cui è presente un giudice speciale, ma non separato dall’esecutivo283.

E’ opinione comune che il modello del contenzioso amministrativo che si sviluppò nel corso dell’Ottocento anche negli altri Stati europei ricalchi quello delineato da Napoleone all’inizio del secolo. Egli creò all’interno del potere esecutivo un complesso di istanze giurisdizionali che rimanevano però separate dalla macchina esecutiva, a garanzia di una certa terzietà tra Stato e privati284. Figli di questa nuova concezione, che prevedeva organi collegiali distinti rispetto alla catena degli amministratori attivi, furono i due organi più importanti dello Stato amministrativo ottocentesco, il Consiglio di Stato e i Consigli di Prefettura285. L’istituzione di questi organi rappresentò la presa d’atto che l’attività amministrativa includeva in se anche il momento giudiziale, che richiedeva l’impianto di organismi specifici per poter esplicare al meglio questa ulteriore funzione286.

Con l’avvento dei Francesi in Italia il sistema amministrativo napoleonico si diffuse e si innestò nella penisola,

283 P. AIMO, La giustizia nell’amministrazione dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari, 2000, pp. 6-10.

284 L. MANNORI-B. SORDI, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, 2000, p. 264.

285 Sul funzionamento di questi organi, per tutti C. GADOBLE, C. PIERNET, Pluviose an VIII : les débuts du Conseil de Préfecture, in «Revue internazionale d’histoire politique et constitutionnelle», XIV, 1950, pp. 110 ss; F. PONTEIL, Le Régime autoritarie et les grandes lois organiques de l’an VIII, in «Revue internazionale d’histoire politique et constitutionnelle», XV,1959, pp. 226 ss.

286 L. MANNORI - B. SORDI, Storia del diritto amministrativo...cit., p. 258.

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in particolare nel Regno Italico e nel Regno di Napoli, dove si ebbe l’adesione al modello napoleonico incentrato sul Consiglio di Stato insediato nella capitale, e un insieme di tribunali di primo grado operanti nelle province.287 La caduta di Napoleone non trascinò dietro di se l’impianto del modello amministrativo, che riuscì a stare in piedi proprio in ragione della sua proclamata efficienza. Il modello organizzativo francese infatti poteva agevolmente adattarsi alla nuova strategia di controllo adottata dai sovrani restaurati288.

Nel panorama italiano successivo al 1815 troviamo così da una parte il Ducato di Parma, lo Stato pontificio, il Regno delle due Sicilie, il Piemonte e la Toscana, nei quali il sistema amministravo venne perlopiù conservato; dall’altra il Lombardo-Veneto e il Ducato di Modena, che rappresentavano invece un’eccezione al principio di conservazione di questi giudici speciali289.

Nel Ducato di Parma, aveva operato un Consiglio di Stato come giudice amministrativo nel periodo di dominazione francese. Con il ritorno all’assolutismo dinastico, il Consiglio di Stato fu mantenuto in funzione, anche con compiti di natura contenziosa, e venne riorganizzato a partire dal 1814290. Esso successivamente fu diviso in tre sezioni, delle quali la seconda giudicava in seconda istanza, mentre in terza istanza giudicavano le sezioni unite.

Nel Regno delle Due Sicilie, in un primo momento, dopo la Restaurazione, il Consiglio di Stato venne soppresso e le sue competenze vennero trasferite alla Gran Corte dei Conti. Gradualmente poi il modello francese venne ripristinato e perfezionato; la legge del 21 marzo 1817 prevedeva un sistema basato su due livelli, uno centrale presieduto dalla Corte dei

287 Sull’amministrazione della giustizia nell’Italia napoleonica si rimanda a G. ASTUTI, L’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, Napoli, 1966.

288 P. AIMO, La giustizia nell’amministrazione dall’Ottocento a oggi... cit., p. 30.

289 Ibidem, p. 44.290 Ibidem.

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Conti, e uno periferico, composto dai consigli di intendenza, in qualità di tribunali di prima istanza. Venivano così rispettati i principi cardini del dell’ideologia francese, nella quale la giustizia ordinaria era rigidamente separata dal potere esecutivo e la giurisdizione amministrativa affidata ad organi speciali e distaccati dall’amministrazione attiva291; Si trattava, come può immaginarsi, di un sistema molto avanzato, in quanto il criterio di riparto prevedeva la simultanea presenza di due elementi: uno oggettivo, cioè che la questione toccasse una delle materie di pubblica amministrazione tra quelle elencate, l’altro soggettivo, vale a dire che uno dei contendenti doveva comunque essere un organo della pubblica amministrazione292.

Nel Regno di Sardegna, con l’editto Roccheggiani Carlo Alberto aveva dato vita a un Consiglio di Stato che aveva solo il compito di esprimere pareri. Esso doveva diventare il principale strumento di attuazione di quel progetto di monarchia consultiva con cui si intendeva raggiungere un compromesso con la borghesia sul terreno della partecipazione alle decisioni politiche293. L’organo quindi, nato in un primo momento come semplice alto collegio amministrativo, col tempo acquisì attribuzioni secondo una tradizione risalente all’epoca napoleonica, fino a quando, con le leggi dell’ottobre 1847, vennero istituiti tribunali amministrativi di stampo francese, che prendevano il posto dell’autorità esercitata dagli intendenti di decidere le controversie tra amministrazione e privati294.

In Toscana la giurisdizione spettava ai magistrati ordinari, seppur con due limitazioni, la prima riguardava le liti per i contratti di appalto e di strade pubbliche, conferite ai Consigli di

291 A. DE MARTINO, La nascita delle intendenze. Problemi dell’amministrazione periferica nel Regno di Napoli (1806-1815), Napoli, 1984, p. 114.

292 G. S. PENE VIDARI, La giustizia nell’amministrazione dall’Ottocento a oggi… cit., p. 47.

293 A. DE MARTINO, La nascita delle intendenze…cit., p. 114.294 F. SHUPPER, I precedenti storici del diritto amministrativo vigente in

Italia, in, Primo Trattato completo di diritto amministrativo italiano, Milano, 1897, p. 1089 e ss.

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Prefettura di acqua e strade, con diritto di appello innanzi al Consiglio di Stato; la seconda riguardava le liti relative alle pensioni, che erano decise dalla Corte dei Conti con l’appello di una Commissione speciale del Consiglio di Stato295.

Per quanto riguarda invece gli altri due Paesi nei quali non si riuscì a conservare il sistema di giustizia amministrativa, nel Ducato di Modena, il regime instaurato da Francesco IV d’Austria-Este si connotava in modo apertamente assolutistico e si contrapponeva a quello dell’immediato passato. In assenza di tribunali specifici il contenzioso era rimesso alla stessa pubblica amministrazione e in particolare ai ministri competenti296. Nel Lombardo-Veneto invece, inizialmente la macchia amministrativa napoleonica sopravvisse quasi intatta per almeno due anni, e così anche le prefetture e i consigli di prefettura. Tuttavia ben presto il sistema di contenzioso alla francese venne soppresso e si tornò al periodo del riformismo Settecentesco. Scartata l’ipotesi di creare appositi tribunali amministrativi ci si orientò verso un dualismo istituzionale potenzialmente meno garantista per i privati297.

Nello Stato pontificio le attribuzioni della Autorità amministrativa avevano sorgenti infinite diverse e spesso contraddittorie. Ancora si faceva riferimento alla Bolla Boni regiminis e talvolta alle disposizioni, ai decreti della Sacra Consulta e anche a Bartolo e alla Glossa298. Vi erano inoltre innumerevoli disposizioni che si intralciavano a vicenda, tra cui leggi, motu propri e circolari e non era stabilita alcuna procedura299.

295 M. S. GIANNINI, A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. Dir., XIX, Milano 1970, pp. 568 e ss.

296 P. AIMO, La giustizia nell’amministrazione dall’Ottocento a oggi... cit., p. 44.

297 Ibidem.298 V.E. ORLANDO, Il Contenzioso amministrativo, in Dig. It., VIII, p.881.299 L. MANNORI, I contenziosi amministrativi degli Stati preunitari e il

modello francese. Riflessioni e spunti per un possibile studio comparato, in Jaharbuch fur europaische verwaltungsgeschichte, II, 1990, p. 139.

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Solamente con l’Editto Gamberini del 25 luglio 1835 si inizia a porre in termini moderni la questione del contenzioso amministrativo anche nello Stato pontificio300. Questo editto riordinò completamente la materia del contenzioso amministrativo stabilendo come regola la competenza delle autorità amministrative, collegialmente ordinate. Esso fissava il quadro organizzativo dei tribunali del contenzioso, stabilendo che la risoluzione delle liti di interesse locale fosse affidata alla Congregazione governativa, con possibilità di appello al Legato pontificio, mentre quelle di rilievo più generale rientravano nella Competenza della Congregazione camerale e, in secondo grado, della Congregazione di revisione. Era previsto anche un Consiglio Supremo competente a giudicare in terzo grado. Si trattava di organi che non si distinguevano né si svincolavano dal potere esecutivo.

Veniva inoltre data una definizione di atto amministrativo, indicando come tali gli atti dei dicasteri o delle magistrature a cui era affidata la cura degli interessi pubblici e attribuendo perciò la risoluzione delle controversie relative a tali atti alla giurisdizione contenziosa del potere amministrativo stesso.

Si trattava, in parte, una risposta politica a soddisfare la richiesta sempre più crescente di un migliore funzionamento della pubblica amministrazione, ed in seguito a quest’atto il potere dei giudici del contenzioso fu ampliato da successivi provvedimenti.

300 Sul contenzioso amministrativo nello Stato pontificio così come disciplinato dall’Editto Gamberini si vedano M. S GIANNINI, A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della Pubblica amministrazione, in Enc. Dir., XIX, Milano, 1970, pp. 232 ss; E. ESPOSITO, Il contenzioso amministrativo nello Stato pontificio, in Studi in occasione del Centenario, Scritti sull’amministrazione del territorio romano prima dell’Unità, vol. I, Amministrazione provinciale di Roma, Milano, 1970, pp. 217 e ss.; L. MANNORI, Giustizia e amministrazione tra antico e nuovo regime, in Magistrati e potere nella storia europea, a cura di R. ROMANELLI, Bologna, 1997, pp. 39-65; G. SANTONICI, Il contenzioso amministrativo nello Stato pontificio tra riordino del potere amministrativo, organizzazione dei codici, revisione dell’ordinamento giudiziario, e riforme costituzionali, Macerata, 2006.

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Dunque nello Stato pontificio a metà Ottocento esisteva un sistema di giustizia amministrativa separato da quella ordinaria, ma questo impianto stava per essere messo in discussione dai membri del Consiglio di Stato.

Monsignor Morchini riteneva dovesse mantenersi il sistema del contenzioso amministrativo, poiché reputava conveniente il dare una forma spedita ed economica ai giudizi di tal natura

La molteplicità degli atti amministrativi avrebbe formato oggetto di grave imbarazzo e ritardo per i tribunali ed arresto e dispendio agli interessi amministrativi. Non era a dirsi però che nelle cose comuni l’Erario pubblico dovesse fuggir dalla via ordinaria dai Tribunali ma solo nelle cose speciali e distinte dall’azienda per le quali era necessario un Codice specifico, regolatore degli appalti e de contratti di utilità statistica sotto l’azione del Ministero, siccome si pratica in Francia ed in Inghilterra, tranne il Belgio che già lamenta la sua riforma.

Il Betti proponeva di ritenere che il Consiglio di Stato, venisse dichiarato idoneo dallo Stato a definire simili materie.

Dubitava il Ciofi che mal conveniva il proporre se stessi, sebbene si tratti di sottomettersi spontaneamente ad un altro gravissimo peso. Si formulava dunque la proposta: “salvo il disposto dell’articolo 36 dello Statuto, si proponeva di escludere i tribunali eccezionali e di privilegio meno il militare e quello che riguarda il contenzioso amministrativo301.”

Il Piacentini protestava che il Consiglio di Stato aveva la volontà abituale di discutere tutto quello che non era vietato dalla legge statutaria e per conseguenza non doveva proporsi una limitazione che non si era in facoltà di disciplinare.

Proponeva pertanto di togliere quella riserva. E la proposta votata fu esclusa con undici voti contrari contro tre favorevoli.

Sottoposta al partito la proposta, munita della riserva e colla sola eccezione del tribunale militare, per poi aggiungere

301 Quesiti discussi nella seduta del 25 luglio 1848. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit.

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l’altra del contenzioso amministrativo, fu approvata ad unanimità.

Votata la seconda eccezione nove votarono a favore, cinque la rigettarono, onde fu approvata a maggioranza.

3.6. Il Progetto di Regolamento organico dell’ordine giudiziario nel Foro laico

La seduta del 28 agosto 1842 si aprì con la lettura del progetto di Regolamento organico giudiziario redatto dal Piacentini su incarico della seconda sezione legislativa302.

Il progetto si componeva di 127 articoli ed era suddiviso in undici Titoli303.

La prima parte del Regolamento contenente le “Disposizioni generali” stabiliva che la giustizia nello Stato pontificio era amministrata in nome del Sommo pontefice (art. 1). Nelle cause civili vi erano tre gradi di giudizio e la giustizia veniva amministrata dai giudici municipali, detti giudici conciliatori, dai pretori, dai tribunali di prima istanza, dai tribunali di appello, e dal Tribunale di Cassazione (art. 2).

Due sentenze conformi costituivano la cosa giudicata, e in materia civile di regola competeva l’appello nei confronti di una sentenza di primo grado, eccezion fatta per le sentenze che la legge dichiarava inappellabili. Quando nasceva una disputa sull’appellabilità di una sentenza, il tribunale a cui si devolveva per diritto la cognizione della causa nel merito la decideva inappellabilmente (art. 3).

Nelle cause penali la giustizia era amministrata dai giudici municipali e dai pretori, dai tribunali di prima istanza, dai tribunali di appello, dai tribunali militari e dal tribunale di Cassazione (art. 4).

302 Seduta del 28 agosto 1848. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit.303 Il Progetto di Regolamento organico nel Foro laico si trova in ASR,

Consiglio di Stato (1848-1849) “Progetto di Regolamento organico nel Foro laico”, b. 2.

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Le sentenze in materia penale non potevano essere appellate ma poteva essere accordato il rimedio della revisione in merito (art. 5).

Al Tribunale di Cassazione spettava il giudizio, sia in materia civile che penale, sui ricorsi per manifesta violazione di legge, tanto nel merito, quanto nell’ordine dei giudizi (art. 6).

Presso ciascun tribunale collegiale vi era un Pubblico Ministero, con il compito di vigilare sull’osservanza delle leggi e dei regolamenti pubblici (art. 7).

I giurati erano ammessi solamente nei reati di stampa (art. 8), e presso i tribunali di prima istanza era istituita una camera d’accusa che confermava o revocava gli arresti ed ordinava la prosecuzione o la sospensione del processo (art. 9).

Tanto nei giudizi civili, quanto in quelli penali, la discussione era sempre pubblica, eccezion fatta per i casi nei quali poteva essere compromesso il pubblico pudore o l’ordine pubblico (art. 10).

Nei giudizi penali dopo una sommaria istruzione scritta, il processo sarebbe stato orale (art. 11) e tutti gli atti, le difese e le sentenze dovevano essere redatti in lingua italiana (art. 12).

Era obbligatorio il tentativo di conciliazione presso i giudici conciliatori prima di procedere con il giudizio ordinario, ad eccezione dei casi in cui la legge permetteva di citare d’urgenza, come nelle questioni commerciali (artt. 13-14).

I giudici municipali dovevano avere compiuto i venticinque anni di età, mentre i pretori e i giudici dei tribunali collegiali dovevano aver compiuto l’età di trent’anni (art. 15)304. Per poter ricoprire il ruolo di giudice bisognava aver conseguito la laurea dottorale in Giurisprudenza e i giudici municipali dovevano

304 Sulla norma che prescriveva che i trent’anni di età per i pretori si aprì una nuova votazione in quanto l’avv. Sturbinetti proponeva di estendere il requisito del venticinquesimo anno di età anche ai pretori, qualora fosse stata provata la loro “maturità di ingegno, di sapere e prudenza.” A maggioranza venne approvata tale modifica al testo in tal senso.

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inoltre aver svolto la pratica per due anni, mentre i pretori e i giudici dei tribunali collegiali per cinque anni (art. 16)305.

L’ufficio del giudice, compresi i giudici municipali e i pretori, era incompatibile con l’esercizio di qualunque altro impiego tranne con l’insegnamento (art. 17). Era inoltre fatto divieto ai giudici di “immischiarsi” nelle amministrazioni sia pubbliche che private, e per questa ragione essi non potevano essere amministratori, economisti o tutori, ad eccezione soltanto della tutela legittima. Allo stesso modo era fatto loro divieto di partecipare ad appalti esattorie ed amministrazioni cointeressate (art. 18)306 né essi potevano ricoprire la carica di compromissario o di arbitro (art. 19) né tantomeno potevano “compromettere” un intero tribunale, tranne quello di ultima istanza (art. 20).

I giudici municipali erano nominati dal Consiglio dei rispettivi municipi, e la loro nomina veniva approvata dal Sovrano, mentre i pretori, e gli altri giudici erano tutti di nomina sovrana (art. 20).

Il Titolo II, trattava “Dei giudici municipali e conciliatori”. L’art. 22 stabiliva che in ogni municipio vi fosse un giudice col titolo di giudice conciliatore, non era però vietato che più municipi avessero il medesimo giudice conciliatore, qualora fosse stato sufficiente, avuto riguardo ai luoghi e alle distanze.

Nei grandi comuni potevano esservi più giudici conciliatori in ragione del numero elevato della popolazione e in base a decisione del Consiglio (art. 25). I giudici municipali agivano come giudici conciliatori nelle cause minori di competenza dei

305 La discussione che intervenne su questo articolo riguardò il criterio cronologico in base al quale si sarebbe dovuto in primo luogo conseguire la laurea e in solo successivamente dedicarsi alla pratica. A maggioranza perciò si decise di aggiungere all’articolo in esame l’inciso “dopo compiuto il corso teorico”.

306 L’avv. Sturbinetti premeva per l’addizione di una pena e la declaratoria di nullità degli atti compiuti in violazione dell’articolo in esame, ma l’avv. Bonacci ritenne che un eventuale pena da comminare al giudice trasgressore sarebbe dovuta esser contenuta nel regolamento disciplinare. Ad ogni modo la votazione sull’emendamento per introdurre nell’articolo l’inciso “è vietato, sotto le pene che verranno stabilite dal regolamento disciplinare, lo immischiarsi…” venne respinta a maggioranza.

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pretori, mentre nelle cause maggiori, il ruolo di giudice conciliatore veniva svolto dai pretori (art. 24). Le conciliazioni che si concludevano dinanzi al giudice conciliatore avevano la clausola esecutiva, ma potevano essere ugualmente rescissi o annullati nel giudizio ordinario per gli stessi motivi con i quali potevano rescindersi o annullarsi le transazioni (art. 25).

I giudici municipali, oltre ad occuparsi delle conciliazioni, erano anche competenti in via economica: in tutte quelle cause che non eccedevano il valore di venti scudi, nelle cause relative a provvisioni alimentari307 per un periodo di tempo non maggiore ai tre mesi purché l’assegno mensile non fosse superiore a tre scudi. Erano inoltre competenti ad ordinare i sequestri di urgenza di cose mobili o di altri effetti che potessero essere nascosti o sottratti in frode degli aventi interesse, nell’apporre, riconoscere e togliere i sigilli nei casi determinati dalla legge e nei luoghi nei quali non risiedeva il pretore esclusa la cognizione delle vertenze che potevano insorgere dopo l’apposizione, o all’atto di ricognizione, in quanto tali vertenze dovevano discutersi innanzi al giudice o tribunale competente in ragione del valore della lite, nei provvedimenti da adottarsi nei luoghi ove non vi fosse il pretore nei casi di “deposito miserabile occasionato da incendio, rovina, naufragio o altro infortunio”, e da ultimo nelle questioni che insorgevano nell’esecuzione dei contratti in tempo di fiera o mercato nel territorio del comune o comuni nei quali erano addetti (nei luoghi però dove erano residenti i pretori spettava a questi ultimi il giudicare le relative questioni, salvo le disposizioni speciali per la fiera di Senigallia).

307 L’inciso provvisioni alimentarie è interlineato e sostituito con “somministrazioni alimentarie per diritto di sangue ed in via provvisoria (riservato il giudizio sull’azione in genere al giudice e tribunale competente)”. Il Consiglio ritenne infatti di non voler estendere la giurisdizione dei giudici municipali alle provvisioni alimentari dipendenti da atto tra vivi o di ultima volontà e fu per questo che la competenza venne limitata alla questioni riguardanti le sovvenzioni alimentari dovute per legge e per un periodo di tempo non superiore a un trimestre. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. Adunanza del 9 settembre 1848.

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Sia i giudici municipali che i pretori, quando giudicavano le suddette questioni, assumevano due “probe” persone308, con voto consultivo, nella stessa fiera o mercato, e il giudizio aveva luogo purché l’istanza fosse stata proposta durante la fiera o il mercato e fossero presenti le parti contendenti. Avverso tali giudizi competeva l’appello solamente in devolutivo (art. 27). Inoltre, sempre i giudici municipali, nei cosiddetti “danni dati campestri” eccedenti la somma di venti sudi, erano incaricati di istruire il processo e di trasmetterlo al giudice o tribunale competente (art. 28)309.

I giudici municipali erano competenti anche in materia penale, relativamente alle contravvenzioni e agli ordini emanati dal Consiglio o dal magistrato locale, e nel caso di furto (quando il valore della refurtiva non fosse superiore ai due scudi310), e nei casi di ingiuria semplice (art. 29).

Le sentenze dei giudici municipali, in materia civile, potevano essere appellate dinanzi ai pretori per l’annullamento, la revoca o la riforma, in materia penale invece si rimandava a quanto stabilito dal codice di procedura penale (art. 30).

Nei luoghi dove non risiedevano i pretori, i giudici municipali erano altresì incaricati di ricevere le denunce e le querele per qualunque delitto commesso entro i limiti del proprio circondario e di rilevare, attraverso un processo verbale, le tracce dei delitti assicurando il corpo del delitto e le ulteriori prove, di raccogliere gli indizi e le prove che esistevano contro gli imputati, di procedere all’arresto dei colpevoli colti in flagranza o “inseguiti dalle grida come autori del delitto”, e di

308 Si decise di specificare meglio i requisiti propri delle persone indicate, affiancando all’aggettivo “probe” quello di “esperte”. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. Adunanza del 9 settembre 1848.

309 Al fine di migliorare l’istituzione dei giudici municipali sia nel ramo civile che in quello penale, l’avv. Bonacci dava lettura di alcuni articoli del “Codice italico” di procedura civile, e il Consiglio incaricava l’avvocato Piacentini di giovarsene per riformare il titolo relativo ai giudici conciliatori.

310 Sostituito con “cinque” scudi, per sgravare le magistrature superiori dalla conoscenza di cause di lieve entità. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit.. Adunanza del 9 settembre 1848.

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inviare gli imputati, insieme alla copia del processo verbale (art. 31)311.

Da ultimo i giudici municipali esercitavano la giurisdizione volontaria negli atti e nei contratti che non eccedevano il valore di 300 scudi e nei modi che venivano determinati dalla legge (art. 32). Presso ciascun giudice municipale vi era un attuario nominato dal Consiglio e che faceva le veci di cancelliere (art. 33). I giudici municipali e i pretori oltre all’onorario ricevevano un premio determinato per legge e pagato dalle parti in causa, per ogni controversia che fossero riusciti a conciliare (art. 34).

Il Titolo II conteneva la disciplina “Dei Pretori”. In ogni comune capoluogo di un circondario e nei luoghi dove risiedeva un tribunale di prima istanza vi era un pretore. (art. 35). A Roma c’erano quattro pretori e uno di essi esercitava le funzioni di giudice dei mercenari, giudicando le cause sulle merci, le opere e le caparre relative a lavori campestri svolti nell’Agro romano. A Bologna c’ erano due pretori (art. 36).

Ogni pretore aveva un supplente che ne faceva le veci in casi di assenza o di altro impedimento (art. 37); i pretori decidevano inappellabilmente sui reclami contro le sentenze dei giudici municipali, salva la possibilità di ricorrere in Cassazione per incompetenza o per eccesso di potere. Erano inoltre competenti a giudicare in prima istanza le cause di valore superiore ai 20 scudi e fino ai 300 scudi e le cause riguardanti le provvisioni alimentari di qualunque titolo purché non eccedenti l’assegno mensile di quindici scudi312, le cause di momentaneo e

311 Il sig. Presidente, riteneva troppo delicati questi incarichi per essere affidati ai giudici municipali, nonostante il risparmio di spesa che si sarebbe ottenuto, come sostenuto dagli altri consiglieri. L’avv. Piacentini replicava ricordando che anche quei giudici dovevano possedere i medesimi requisiti previsti dall’art. 16 del progetto (previsti per i giudici ordinari). ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. Adunanza del 9 settembre 1848.

312 Su questo punto, l’uditore Ballanti proponeva di estendere la competenza dei pretori a giudicare le cause relative a prestazioni alimentari qualunque fosse la somma o il titolo con sentenze interlocutorie “non ledente il merito” anche in conformità a quanto previsto negli artt. 513 e ss. del codice di procedura civile. L’articolo venne modificato su indicazione della commissione nel senso di ricomprendere le “cause di alimenti qualunque ne sia il titolo e la somma in via provvisoria, salvo ai tribunali competenti il giudizio definitivo sul merito dell’azione”. ASR, Consiglio di Stato (1848-

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sommarissimo possessorio con riguardo al solo possesso e qualunque fosse stato il valore del fondo, le cause di possesso pieno quando il valore del fondo non fosse stato superiore ai 300 scudi, le questioni che insorgevano in tempo di fiera o mercato nel luogo di residenza, in base a quanto stabilito dagli artt. 26 e 27 del Regolamento in questione (art. 38).

I pretori erano anche competenti nel ramo penale per tutti quei delitti che la legge dichiarava di competenza pretoriale, eccetto quelli riservati ai giudici municipali come all’art. 29 (art. 39). I pretori inoltre esercitavano la giurisdizione volontaria entro i limiti del loro circondario relativamente agli atti e ai contratti di valore superiore ai trecento scudi (art. 40).

Il Titolo III trattava la disciplina “Dei Tribunali di prima istanza”, siti in ogni capoluogo di Provincia, competenti a giudicare le cause sia civili che penali (art. 41).

A Roma il Tribunale di prima istanza era composto da quattordici giudici313 compreso il presidente e il vice presidente ed aveva quattro giudici supplenti; era diviso in quattro sezioni, le due sezioni civili erano composte dal presidente o vice presidente, e due giudici, le altre due penali erano composte dal presidente o vice presidente e tre giudici (art. 4).

A Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna, il tribunale di prima istanza era composto da un presidente, un vice presidente e cinque giudici, aveva due giudici supplenti e si divideva in due sezioni; negli altri luoghi invece si componeva di un presidente e tre giudici più un supplente (art. 43).

I tribunali di prima istanza nelle cause civili giudicavano con il concorso di tre giudici, mentre nelle penali con il concorso di quattro giudici (art. 44). Nei tribunali divisi in sezioni ogni giudice entrava a far parte a turno di ciascuna sezione, negli altri tribunali ogni giudice si asteneva per un turno dal giudicare le cause civili (art. 45).

1849)…cit. Adunanza del 9 settembre 1848.313 Inizialmente il numero di giudici previsto per il Tribunale di Roma era

pari a dieci.175

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In materia civile erano di competenza di detti tribunali le cause che non avevano valore certo314, e quelle di valore superiore ai 300 scudi (art. 46); in materia penale erano di loro competenza i delitti maggiori eccedenti la giurisdizione dei pretori (art. 47), e le azioni di avocazione e remissione di cause tra pretori della stessa provincia (art. 48). Se la questione di competenza verteva fra pretori di province diverse comprese nella giurisdizione di uno stesso tribunale di appello, il giudizio spettava a quest’ultimo, altrimenti era competente il tribunale di ultima istanza (art. 49).

Le sentenze in materia di avocazione e remissione erano inappellabili (art. 50). Da ultimo, i tribunali di prima istanza giudicavano in grado di appello le cause civili e in via di revisione nel merito le cause penali giudicate dai pretori (art. 51).

Il Titolo IV trattava la disciplina “Dei Tribunali di Appello”, che nello Stato pontificio erano eretti uno a Roma, un altro a Bologna e un terzo a Macerata315 (art. 52) L’art. 53 apriva con una riserva nella quale era stabilito che fino a quando non fosse stata emanata una nuova legge di riparto territoriale, la competenza del tribunale di Roma si sarebbe estesa alla Comarca e alla province di Velletri, Spoleto, Viterbo, Rieti, Civitavecchia, Orvieto, Frosinone e Benevento. La giurisdizione del tribunale di appello di Bologna si estendeva alle Legazioni di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna (art. 54), mentre la giurisdizione del tribunale di appello di Macerata

314 L’inciso “cause che non hanno valore certo” venne moderato con “cause che hanno valore non determinato”. La modifica accolta era stata proposta dal Presidente, il quale riteneva che la nuova definizione avrebbe ricompreso anche quelle cause che sunt praetio insetimabilis, come ad esempio i diritti di servitù attiva.

315 Monsignor Morchini avanzava la proposta di abolire il tribunale di appello di Macerata, perché troppo “povero di cause” e di lasciare solamente i tribunali di Roma e Bologna che secondo lui ben potevano soddisfare ai bisogni di tre milioni di abitanti. I professori Betti e Orioli e il sig. Presidente si opponevano alla soppressione del tribunale di Macerata ricordandone l’antica istituzione e rilevando come l’esigenza di economia dell’Erario non potesse realizzarsi a discapito della retta amministrazione della giustizia.

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ricomprendeva le province di Macerata, Urbino, Fermo, Ascoli, Camerino e il Commissariato di Loreto (art. 55).

I tribunali di appello erano composti da undici giudici, compresi il presidente e il vice presidente e due supplenti, e si dividevano in due sezioni, una composta dal presidente o dal vice presidente e da quattro giudici (per le cause civili), l’altra composta dal presidente e dal vicepresidente e cinque giudici, (per le cause penali) (art. 56).

L’art. 57 richiamava espressamente l’art. 45, sulla rotazione delle sezioni. I tribunali d’appello giudicavano in secondo grado le cause giudicate in primo grado dai tribunali di prima istanza ed in terzo grado quelle decise dai tribunali di primo grado con sentenze difformi rispetto a quelle pronunciate dai pretori (art. 58); da ultimo, i tribunali d’appello erano competenti, in grado di revisione nel merito, nelle cause penali giudicate dai tribunali di prima istanza e nelle questioni di avocazione e remissione di cause tra i tribunali di prima istanza compresi nella loro giurisdizione (artt. 59-60). Infine se le questioni di avocazione e remissione vertevano tra tribunali appartenenti a giurisdizioni diverse il giudizio spettava al tribunale di ultima istanza (art. 61).

Il Titolo V conteneva la materia propria “Del Tribunale di ultima istanza”, eretto a Roma e composto da un Presidente, un vice presidente, dodici giudici e due supplenti e diviso in due sezioni (art. 62). Questo tribunale giudicava in terzo grado le cause decise con sentenze difformi dai tribunali di prima istanza e dai Tribunali di appello (art. 63), e sulle avocazioni e remissioni di cause fra i tribunali di prima istanza soggetti a giurisdizioni diverse e i tribunali di appello (art. 64)316.

316 Lo Sturbinetti, in considerazione del copioso numero di giudici che avrebbe composto il tribunale di ultima istanza, in relazione alla discreta quantità di cause che esso sarebbe stato chiamato a decidere, proponeva la riunione di quest’ultimo tribunale con quello di Cassazione. Il Presidente proponeva anch’egli la creazione di un unico tribunale, suddiviso in tre sezioni, ciascuna di esse composta da quindici giudici, una operante come tribunale di ultima istanza, l’altra in sede di cassazione e l’ultima in sede di revisione. Monsignor Morchini rilevava però l’ingente spesa che tale

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Con il Titolo VI si apriva la parte relativa al “Tribunale di Cassazione”. Era stabilito a Roma e si componeva di un presidente, sei giudici e un giudice supplente (art. 63)317. Apparteneva a questo tribunale il giudizio sui ricorsi per manifesta violazione di legge, sial nel merito che nell’ordine giudiziario (art. 66). Nei casi di violazione di legge in merito, poteva ricorrersi al tribunale di Cassazione solo contro le sentenze inappellabili (art. 66), mentre le sentenze preparatorie o interlocutorie non erano suscettibili del rimedio della cassazione, eccezion fatta per le sentenze riguardanti la competenza, contro le quali poteva aver luogo il ricorso immediato prima della sentenza sul merito (art. 68)318.

Quando il tribunale di Cassazione annullava una sentenza per violazione di legge dell’ordine giudiziario rinviava la causa allo stesso giudice o tribunale che l’aveva pronunciata (art. 69) mentre, se l’annullava per violazione di legge nel merito, rinviava la causa ad un altro tribunale dello stesso grado (art. 70).

La sentenza del tribunale di ultima istanza, annullata per violazione di legge in merito, veniva inviata all’altra sezione del tribunale (art. 71).

Le sentenze venivano annullate per violazione di legge nell’ordine giudiziario qualora vi fosse stato difetto di citazione,

soluzione avrebbe comportato per l’Erario pubblico. Al termine della discussione sulla questione controversa venne deciso di conservare distinto dal Tribunale di Cassazione il Tribunale di ultima istanza, così come veniva praticato anche nelle altre Nazioni.

317 Monsignor Ruffini propose di aumentare il numero dei giudici a dodici compresi il presidente e il vicepresidente e la proposta venne accettata dal Consiglio. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. Adunanza del 9 settembre 1848.

Nel testo vi è un’aggiunta relativa alle sezioni del tribunale: ne furono create due, con l’indicazione che nelle cause civile un giudice si sarebbe astenuto a turno dal giudicare le cause.

318 Per quanto riguarda le sentenze preparatorie e interlocutorie il Presidente propose (e la proposta venne accettata) di distinguere le sentenze preparatorie da quelle interlocutorie. Per le prime non sarebbe stato consentito il ricorso in Cassazione poiché esse riguardavano la semplice “attivazione” della causa, mentre le seconde dovevano essere impugnate congiuntamente al merito. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. Adunanza del 9 settembre 1848.

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giurisdizione o mandato, se il giudice o il tribunale avesse violato le forme sostanziali previste dalla legge per la definizione dei giudizi (art. 72).

Il ricorso in nullità per difetto di citazione non poteva essere esperito qualora vi fosse stata la comparsa della parte, allo stesso modo non poteva lamentarsi il difetto di mandato qualora si fosse provato che la parte aveva avuto conoscenza dell’instaurato giudizio (art. 73).

Allo stesso modo non poteva aver luogo il ricorso in nullità per difetto di giurisdizione qualora il ricorrente si fosse difeso senza rilevare l’incompetenza prima che fosse stata pronunciata la sentenza definitiva (art. 74).

Una volta cassata la sentenza per violazione di legge nel merito, se il tribunale al quale era stata rinviata tornava a giudicare in conformità della stessa sentenza, e se ne richiedeva nuovamente l’annullamento per gli stessi motivi, il tribunale di Cassazione faceva rapporto al ministro di Grazia e Giustizia, e la legge veniva dichiarata “dal potere legislativo”, dopo di che, sempre il tribunale di Cassazione, giudicava la causa in conformità a quanto prescritto nella dichiarazione del Ministero (art. 75)319.

L’annullamento d’ufficio ad opera del Pubblico Ministero, nell’interesse della legge, non alterava gli effetti del giudicato nei confronti delle parti (art. 76).

319 Su questo articolo nacque un interessante dibattito in quanto parte dei consiglieri aveva sollevato il dubbio che la declaratoria di una legge non potesse intervenire su questioni pendenti o definite senza che il potere legislativo si sostituisse in questo modo al giudiziario. Monsignor Pentini spiegava perciò la differenza tra legge e declaratoria: quest’ultima, a differenza della prima, non creava un nuovo diritto, in quanto la declaratoria supponeva l’esistenza di una legge precedente erroneamente interpretata, “non si fa pertanto ingiuria ad alcuno de’ litiganti se la suprema autorità legislativa restituisce alla disposizione di diritto il senso germano che gli appartiene”. A seguito alla votazione, il cui esito fu favorevole alla declaratoria del Ministero, il presiedente propose di specificare che la Cassazione avrebbe votato anche nel merito la causa dopo la declaratoria dei Consigli deliberanti, in modo tale da accordare un corso più spedito alla giustizia. Al testo venne aggiunto l’inciso “anche nel merito” riferito al giudizio del tribunale che doveva avvenire in conformità alla dichiarazione presentata dal ministro di grazia e giustizia. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. Sedute dell’11 e 12 settembre 1848.

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Spettava al tribunale di Cassazione giudicare sulla ricusazione dei giudici, sull’avocazione e sulla remissione delle cause all’una o all’altra sezione del tribunale di ultima istanza (art. 77).320

Se due sentenze inappellabili, fra le stesse parti e per lo stesso oggetto, erano fra di esse contraddittorie aveva luogo il ricorso al tribunale di Cassazione (art. 78).

Qualora non vi fossero stati motivi per annullare l’una o l’altra delle due sentenze, il Tribunale di Cassazione rimetteva le parti ad un giudice o tribunale uguale a quello che aveva giudicato perché decidesse quale dei due giudicati inconciliabili avrebbe dovuto eseguirsi (art. 79).

I documenti decisivi scoperti dopo la formazione del giudicato non davano titolo a ricorrere al Tribunale di Cassazione, e si tornava dinanzi al giudice o tribunale che aveva emanato la sentenza. Se questo giudice o tribunale avesse valutato i nuovi documenti come non decisivi, confermava il suo precedente giudicato e non sarebbe stato lecito proseguire ulteriormente con il giudizio (art. 80).

Da ultimo, per l’annullamento delle sentenze in materia penale si osservavano le disposizioni del codice di procedura penale (art. 81).

La disciplina “Dei tribunali militari” era contenuta nel Titolo VII. Nello Stato pontificio c’erano tre Tribunali militari di prima istanza, siti a Roma, Bologna e Ancona e uno di appello, sito a Roma (art. 82). I tribunali di prima istanza erano composti da un assessore legale e tre giudici militari, il tribunale di appello era invece composto da un assessore legale e da cinque giudici militari (artt. 83-84); presso ciascun tribunale militare vi era un procuratore della legge (art. 85). I tribunali militari

320 A seguito della discussione si decise di affidare al tribunale di Cassazione, anziché ai tribunali chiamati a decidere sulle rispettive azioni, anche le questioni di competenza fra il ramo civile e quello penale e la sospensione dei relativi giudizi fino all’esito del giudizio dell’uno o dell’atro. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. Sedute dell’11 e 12 settembre 1848.

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estendevano la loro giurisdizione a tutte le truppe dello Stato (art. 86) e la loro competenza riguardava tutti i delitti commessi dai militari sia in azione che in stazione e tutti i delitti commessi nelle caserme (art. 87).

I tribunali militari di prima istanza giudicavano i delitti maggiori in base a quanto stabilito dal codice militare (in via ordinaria), i delitti minori erano invece puniti in via disciplinare (art. 88).

Le sentenze pronunciate in primo grado potevano essere appellate, ma la sentenza di secondo grado non poteva in alcun caso essere soggetta a revisione (artt. 89-90)321.

Il Titolo VII riguardava il “Ministero pubblico”. Esso era l’agente del governo presso i tribunali ed era colui che vigilava sull’osservanza delle leggi e sull’ esecuzione dei giudicati (art. 91); nei tribunali di primo grado corrispondeva alla figura del Procuratore della legge, nei tribunali di appello e in quello di ultima istanza a quella dell’Avvocato della legge, e nel tribunale di Cassazione a quella dell’Avvocato generale dell’ordine pubblico (art. 92). Quest’ultimo era al vertice dell’istituzione e con esso corrispondevano i procuratori e gli avvocati della legge (art. 93). Compito del Pubblico Ministero era quello di assistere alle udienze e rassegnare le proprie conclusioni quando lo ritenesse opportuno, oltre a vigilare sulla disciplina dei tribunali e della curia ad essi addetta (art. 94)322.

Il Pubblico Ministero prendeva parte nella cause civili, a pena di nullità, che riguardavano l’interesse dello Stato, delle

321 Le modifiche apportate alla disciplina dei tribunali militari vennero ammesse senza particolari contrasti e furono annotate nella copia conservata in atti: la dicitura “delitti commessi dai militari in azione” venne corretta con i delitti commessi “in attualità di servizio”; per quanto riguarda la possibilità di appello venne introdotta un’eccezione che impediva il ricorso in appello “in tempo di azioni militari, ossia quando la truppa esercita straordinariamente la forza delle armi.” ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. Sedute dell’11 e 12 settembre 1848.

322 Venne proposto di estendere il potere di sorveglianza del Pubblico Ministero oltre ai tribunali e alla curia ad essa addetta anche “ai giudici inferiori ed ai causidici avanti ad essi esercenti” e la riforma venne accordata. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. Sedute dell’11 e 12 settembre 1848.

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Province e dei Comuni, lo stato delle persone, le questioni di ricusa dei giudici e quelle di avocazione e di remissione di cause, le questioni di nullità per difetto di giurisdizione, le opere pie, gli stabilimenti pubblici, i minori, gli interdetti e coloro che erano rappresentati da un curatore, e in caso di contumacia delle parti. Spettava al Pubblico Ministero chiedere, nei casi stabiliti dall’art. 10, al Tribunale, con decreto, di decidere se la discussione della causa dovesse essere segreta. In materia penale promuoveva “l’istanza” nei delitti di azione pubblica, la prosegue nei delitti di azione privata e svolgeva le opportune requisitorie sulla regolarità dei processi ed esternava le proprie conclusioni (art. 97).

Nei casi in cui le parti non avessero proposto opposizione, d’ufficio, e nell’interesse della legge, si rivolgeva al tribunale di Cassazione per l’annullamento delle sentenze contrarie alla legge. L’annullamento d’ufficio in materia penale non poteva mai aggravare la condizione del reo (art. 98)323.

Il Pubblico Ministero poteva denunciare d’ufficio al Ministero di Grazia e Giustizia gli atti con i quali i giudici eccedevano i loro poteri e le mancanze da essi commesse nell’esercizio delle loro funzioni (art. 99).

Per quanto riguardava le esecuzioni dei giudicati324, il Pubblico Ministero agiva sempre d’ufficio325 quando detti giudicati riguardavano l’ordine pubblico, mentre per tutti gli altri procedeva solamente ad istanza di parte (art. 100).

Da ultimo il Pubblico Ministero era incaricato di tenere il conto delle sentenze annullate dal Tribunale di Cassazione per violazione di legge nel merito (art. 101).

323 Nonostante l’affermazione fatta dall’avv. Piacentini che non riteneva ragionevole impedire al tribunale di revisione di non poter aggravare la condizione del reo, e replicatosi dal sig. presidente che l’enunciato valeva soprattutto a correggere l’errore per i casi futuri, venne mantenuta la sostanza dell’articolo apportando solamente la rettifica che “in materia penale l’annullamento non può mai aggravare la condizione del reo”. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. Sedute dell’11 e 12 settembre 1848.

324 Aggiunto nel testo “in materia criminale”.325 Aggiunto nel testo “in materia civile agisce sempre d’ufficio”.

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Al Pubblico Ministero erano affiancati un sostituto ed un numero sufficiente di impiegati con gli stessi requisiti previsti per i giudici (artt. 102-103).

Il Titolo IX trattava la disciplina “Della Camera di accusa”. Questa si componeva di un presidente e di due giudici del tribunale di prima istanza (104). Alla camera di accusa apparteneva il giudizio sulla conferma o sulla revoca dell’arresto e sull’ammissione o sul rigetto dell’accusa (art. 105); esprimeva il suo giudizio a maggioranza di voti, sentito il procuratore della legge a seconda che ritenesse o meno fondati gli elementi per proseguire o sospendere “l’inquisizione” (art. 106).

Nel Titolo X, sui “Giurati”, era previsto che questi fossero cittadini che non avevano rappresentanza governativa o giudiziaria, i quali venivano riuniti per dichiarare se “esistesse il delitto” e se l’imputato fosse colpevole, dopo di che il tribunale applicava la legge in conformità alla loro dichiarazione (art. 107).

La composizione della giuria e la procedura da essa seguita era contenuta in un apposito regolamento e il giudizio si riteneva sempre assolutorio quando non vi fossero stati almeno due terzi dei voti favorevoli all’accusa (art. 108). Per poter rivestire il ruolo di giurati bisognava aver compiuto l’età di trent’anni e godere del pieno esercizio dei diritti civili e politici, inoltre i settantenni potevano essere dispensati dall’essere giurati (artt. 109-110)326.

Il Titolo XI conteneva l’importante disciplina “Del contenzioso amministrativo”. Questo era riservato agli atti e alle

326 Il marchese Potenziani riteneva che già l’esigere i due terzi dei voti per stabilire la colpevolezza dell’imputato fosse un ammettere come regola sempre l’assoluzione del reo, l’unanimità sarebbe stata di certo una regola impraticabile. Egli sosteneva inoltre che il definire “giudizio” la dichiarazione dei giurati avrebbe potuto lasciar intendere che i giurati avessero conoscenza del merito dell’azione. Il consiglio decise di mantener fermo il numero dei giurati necessari a considerar valida, anche in considerazione del fatto che il loro impiego era limitato solamente ai reati sulla stampa dove la prova del fatto era il più delle volte evidente. La modifica si ebbe nel modo seguente: “la dichiarazione dei giurati che l’accusato è colpevole non può essere resa che dal concorso di due terzi di voti.” ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. Sedute dell’11 e 12 settembre 1848.

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ordinanze ministeriali e dei Presidi delle province relativi all’amministrazione dello Stato (art. 111). Tali ordinanze erano giudicate esclusivamente da una commissione di tre membri del Consiglio di Stato, ma la parte soccombente aveva la facoltà di ricorrere in via devolutiva all’intero Consiglio (artt. 112-113)327.

Il penultimo Titolo, il XII, trattava la disciplina “Dei magistrati ed officiali addetti all’ordine giudiziario”. L’art. 111

327 Il Titolo relativo al contenzioso amministrativo venne completamente depennato. La discussione su questo argomento occupò tutta la seduta del 7 settembre; in quella occasione il marchese Potenziani distribuì ai suoi colleghi dei fogli a stampa nei quali era contenuto un progetto di riforma che prevedeva la devoluzione ai tribunali ordinari delle controversie amministrative. Monsignor Morchini replicava alla proposta con un suo scritto nel quale evidenziava la necessità di creare una magistratura economica che con maggior speditezza si occupasse delle questioni che riguardavano gli affari pubblici, un compito che ben poteva essere esercitato dal Consiglio di Stato, come dal progetto di regolamento. Lo Sturbinetti appoggiava la proposta del marchese Potenziani, rilevando come in questo caso si sarebbe anche evitata “l’odiosità dei giudici di eccezione”, egli, inoltre, riteneva superfluo concentrare nella capitale le questioni amministrative e per di più in un unico tribunale quando piuttosto doveva permettersi di adire il tribunale della provincia se voleva contestarsi, ad esempio, l’operato del preside di una Provincia.

Il presidente Pagani aggiungeva che il potere amministrativo doveva rimanere ben distinto da quello giudiziario, costituendo quei due poteri “due parallele che non si incontrano mai” egli concordava inoltre sul fatto che una volta istituita un’apposita magistratura per il contenzioso amministrativo il Consiglio di Stato fosse l’organo più idoneo a cui affidare l’incarico.

Lo Sturbinetti discordava con il principio che il potere amministrativo dovesse essere indipendente dal giudiziario. Il primo, infatti, doveva esser subordinato senza casi di eccezione al secondo, non sarebbe stato quindi opportuno creare un tribunale speciale a tutela esclusiva del potere amministrativo. Monsignor Morchini contraddiceva l’assunto argomentando come anche la Francia, che in poco tempo aveva sperimentato tutte le forme governative, era stata però sempre costante nel separare il sistema giudiziario da quello amministrativo, riconoscendone i vantaggi; lo stesso monsignor Morchini faceva notare inoltre che nella discussione dei quesiti proposti dal Ministro di Grazie e Giustizia come base fondamentale del regolamento organico si era stabilito a maggioranza che i tribunali ordinari non avrebbero ricompreso nella loro giurisdizione le questioni amministrative; essendo quelle decisioni state sanzionate dal potere esecutivo, che aveva conferito l’incarico, non si poteva contraddire ad esse. Dopo una prima votazione sulla magistratura a cui affidare le questioni amministrative si ebbe la parità dei voti e la questione venne rimandata all’adunanza successiva.

Nella seduta successiva monsignor Ruffini notò come sarebbe stato contraddittorio ammettere solamente due gradi di giudizio nelle questioni amministrative e tre in tutte le altre, inoltre, a suo parere, troppo era il contatto tra i membri del Consiglio di Stato per non eliminare del tutto il pericolo di una reciproca influenza nelle decisioni in primo e secondo grado.

Il Piacentini riteneva comunque troppo dispendioso per le parti il dover raggiungere ogni volta la capitale e proponeva di erigere un tribunale economico in ciascuna provincia o di devolvere le questioni ai tribunali ordinari. Monsignor Morchini proponeva di affidare alle Congregazioni

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stabiliva che dovevano considerarsi magistrati oltre i giudici anche l’avvocato generale dell’ordine pubblico, gli avvocati, i procuratori della legge, i difensori d’ufficio, i processanti, i cancellieri, i sostituti e i cursori (art. 111). Presso ciascun tribunale di prima istanza c’erano uno o più giudici processanti, in base all’estensione del circondario; questi dovevano aver compiuto i venticinque anni di età ed essere in possesso di tutti i requisiti propri dei giudici municipali ed essere nominati dal ministro di grazia e giustizia e i loro compiti erano stabiliti dal codice di procedura penale (artt. 112-113).

Le cancellerie dei tribunali collegiali erano divise in due sezioni, una per le cause civili e l’altra per le cause penali, e il numero dei processanti, dei sostituti e degli altri impiegati di cancelleria presso ciascun tribunale era determinato da un regolamento speciale (artt. 114-115).

Presso ciascun giudice o tribunale aventi giurisdizione in materia penale doveva esser presente un difensore di ufficio per gli inquisiti, questi ultimi potevano anche avvalersi di un altro difensore, purché questi fosse iscritto nell’apposito “catalogo” (artt. 116-117).

Presso i procuratori c’era un sostituto procuratore della legge (art. 118)328.

I cursori, presso i tribunali collegiali e presso i pretori, erano nominati dal Ministro di Grazia e Giustizia e quelli presso i giudici municipali erano nominati dal consiglio comunale (art. 119); per esser nominati cursori bisognava aver compiuto i vent’un anni di età e godere dei diritti civili e politici oltre a non aver riportato condanne (art. 120); i cursori non potevano esercitare il loro ufficio al di fuori della giurisdizione dei giudici

governativa il primo grado di giudizio, e affidare gli altri due gradi al Consiglio di Stato come da progetto.

328 La modifica apportata dal Consiglio a questo articolo fu nel senso di ammettere presso i pretori e i giudici municipali un sostituto procuratore della legge “nelle sole cause criminali, il di cui ufficio è gratuito”. ASR, Consiglio di Stato (1848-1849)…cit. Sedute dell’11 e 12 settembre 1848.

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e dei tribunali senza un’espressa autorizzazione del Pubblico Ministero (art. 121).

3.7. La fase successivaCon la discussione sull'ultimo articolo del Progetto di

Regolamento organico presentato dal Piacentini si perdono le tracce di questo provvedimento che, per divenir legge, secondo le disposizioni contenute nello Statuto, sarebbe dovuto essere inviato ai Consigli deliberanti, cui di fatto era affidata la funzione legislativa e poi al Sovrano per la sanzione definitiva.

Riteniamo plausibile l'ipotesi che il progetto si rimasto insabbiato in Consiglio di Stato e che non sia mai stato rimesso all'approvazione dei Consigli deliberanti.

Il motivo di questa renitenza è probabilmente legato alla crisi politica che stava in cui versava lo Stato pontificio, che si aggravò ulteriormente a partire dal 24 novembre 1848, giorno in cui Pio IX fuggiva da Roma per rifugiarsi a Gaeta.

Il giorno seguente l'Alto Consiglio comunicava alla popolazione che il Ministero, insieme con la Camera dei rappresentanti del popolo e con il Senatore di Roma avrebbero assunto la congiunta responsabilità del governo e predisposto gli opportuni provvedimenti per tutelare l'ordine pubblico e il normale svolgimento delle attività civiche329.

Da Gaeta nel frattempo il Pontefice nominava una Commissione governativa per la temporanea direzione degli affari pubblici, non riconoscendo altre autorità al governo provvisorio instauratosi in qual frangente, ma il 12 dicembre 1848 l'Alto Consiglio dichiarava incostituzionale la Commissione di Governo e istitutiva una Suprema provvisoria Giunta di Stato, il cui primo atto fu quello di convocare un' Assemblea nazionale con pienezza di poteri, procedendo nel contempo allo scioglimento degli organi rappresentativi istituiti da Pio IX. Con

329 MOMBELLI CASTRACANE M., La codificazione civile nello Stato pontificio II...cit., pp. XLIV; V. LA MANTIA, Storia della legislazione italiana... cit. pp. 619 e ss.

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le dimissioni del presidente della Giunta Suprema venne creata una provvisoria Commissione di governo dello Stato romano che avrebbe funzionato da esecutivo in attesa di una definitiva sistemazione dell'assetto istituzionale.

Si giunse così al 5 febbraio 1848, quando venne eletta, a suffragio universale, l'Assemblea costituente romana, la quale quattro giorni dopo dichiarava la decadenza del potere temporale pontificio e l'istituzione della Repubblica.

Il 17 febbraio l'Assemblea procedeva allo scioglimento del Consiglio di Stato pontificio e incaricava il Comitato esecutivo di eleggere una commissione temporanea in sostituzione del Consiglio ma intanto, i dibattiti sui progetti di legge continuavano.

Sul finire del mese di marzo si andavano delineando le sorti della Repubblica. Gli alleati francesi, austriaco e napoletano spingevano per il ripristino degli antichi poteri nello Stato pontificio. Agli inizi di giugno il generale Oudinot era accampato alle porte della città e chiedeva la resa di Roma. Il 30 giugno l'Assemblea costituente dichiarava l'impossibilità della difesa della città ma il giorno dopo promulgava la Costituzione della Repubblica romana330.

La Restaurazione che seguì la caduta della Repubblica fu molto dura331, nonostante la nota alle potenze cattoliche del 7 maggio avesse denunciato l'assurda pretesa del pontefice, sostenuta da tutti gli Stati europei, di ripristinare il dominio temporale ormai incongruo e inaccettabile da parte del popolo libero.

330 La Bibliografia sulle vicende della Repubblica romana è molto nota e vasta, per limitarci alla Carta costituzionale frutto di quel periodo segnaliamo C. SELVAGGI, La Costituzione della Repubblica romana, in Amministrazione provinciale di Roma, Studi in occasione del Centenario, vol.1...cit.; B. GATTA (a cura di), La costituzione della repubblica romana del 1849, Firenze, 1947; S. FURLANI, La Costituzione della Repubblica romana del 1849: note di natura tipologica, in «Pensiero mazziniano», n. 3, 1990; I. MANZI, La costituzione della Repubblica romana del 1849, Ancona 2003.

331 Sulla restaurazione di Pio IX si vedano M. MINGHETTI, Della restaurazione pontificia, Firenze, 1849; A. M. GHISALBERTI, Una restaurazione «reazionaria e imperita», in Roma da Mazzini a Pio IX, Milano, 1858.

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Il 17 luglio il Pontefice da Gaeta dava disposizioni per la istituzione di una Commissione governativa di Stato con pieni poteri per il riordino della cosa pubblica. Il primo provvedimento politico della Commissione fu quello di annullare tutti gli atti emanati dopo il 16 novembre 1848 ed il ripristino di tutti i tribunali antecedenti a quella data332.

Lo Statuto non venne dichiarato formalmente abrogato ma non venne mai riattivato; allo stesso modo si considerarono soppressi l'Alto Consiglio, il Consiglio dei Deputati e il Consiglio di Stato, la cui condanna era già stata pronunciata dal Pontefice sin dal 20 aprile 1849 con una Allocuzione contro le libere istituzioni espressa nel Concistoro segreto di Gaeta.

Non si cancellavano solo le tracce della Repubblica, ma anche le riforme, ormai considerate causa della crisi che aveva portato alla caduta del potere temporale e all'avvento del nuovo regime.

Con il moto di Portici del 12 settembre 1849 si ponevano le basi per il nuovo assetto dello Stato, per il cui funzionamento era prevista l'istituzione di un Consiglio di Stato, di un ordinamento dei ministeri e di una Consulta di Stato per le finanze. In ottemperanza al moto proprio del 12 settembre che all'art. 5 disponeva la nomina di una commissione incaricata per le riforme e i miglioramenti dell'ordine giudiziario e della legislazione civile, criminale amministrativa, il pontefice richiamava in carica i giureconsulti che avevano partecipato ai lavori della commissione già istituita nel 1846333. Compito della commissione sarebbe stato quello di recuperare i lavori già svolti in tema di codificazione sia nel periodo di Gregorio XVI sia nel primo periodo del pontificato di Pio IX allo scopo di riprendere il tema della codificazione del diritto. La commissione non produsse risultati significativi; non solo il tema

332 C. LODOLINI TUPPUTI, La commissione governativa di Stato nella Restaurazione pontificia (17 luglio 1849- 12 aprile 1850), Milano, 1970.

333 Motu proprio di Portici del 12 settembre 1849, in Raccolta delle leggi... cit., 1849, pp. 63-69.

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della codificazione ma anche quello dell'amministrazione della giustizia sembrava ormai non coinvolgere più gli interessi di Pontefice e popolazione. Un'atmosfera di reazione incombeva su Roma, e Pio IX cominciava la sua nuova fase di governo chiuso in un che lo avrebbe accompagnato fino alla fine dello Stato pontificio.

3.8. Influenza del modello napoleonico sui progetti di legge

Se volessimo fermarci ad analizzare l’ampiezza dei progetti di legge in riforma all’ordinamento giudiziario, con particolare riferimento al Regolamento organico dell’ordine giudiziario nel Foro laico, senza dubbio questa risulterebbe enorme, ed è ipotizzabile che se questo fosse diventato legge si sarebbe aperta un'epoca nuova per lo Stato pontificio.

L'influenza del modello francese è evidente e traspare già nel Regolamento organico dell'ordine giudiziario del 1847, e poi, appunto, nel successivo Regolamento organico dell'ordine giudiziario nel foro laico; entrambi, infatti, sembrano ispirarsi al Regolamento organico della giustizia civile e punitiva del 1806, entrato in vigore in tutto il Regno italico a partire dal primo gennaio 1807334. Quest' ultimo era la legge organica che il Consiglio di Stato francese aveva deciso di promulgare con precedenza rispetto alla redazione degli stessi codici processuali civili e penali, nei territori italiani occupati.

Fulcro del sistema introdotto erano le corti di prima istanza di giustizia civile e penale, che svolgevano funzioni sia di tribunale civile che di tribunale correzionale e di Corte di giustizia criminale. Ad essi si affiancavano i giudici di pace e, per le istanze superiori, le corti di appello e le corti di cassazione.

334 Regolamento organico della giustizia civile e punitiva del 13 giugno 1806, in Bollettino delle leggi del Regno d'Italia, parte II, dal 1 maggio al 31 agosto 1806, Milano, Stamperia reale, pp. 625-654. Su questo Regolamento si veda E. DEZZA, Il codice di procedura penale del regno Italico (1807) ...cit., pp. 231-246.

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L' art. 70 del Regolamento organico garantiva poi i principi di oralità e pubblicità del contraddittorio durante la fase del dibattimento.

Volgendo lo sguardo, nello specifico, al Regolamento organico giudiziario nel Foro laico, anche relativamente alla struttura, esso sembra ricalcare il Regolamento organico per il Regno d’Italia.

Cosi come il primo articolo del Regolamento di Napoleone recitava che la giustizia civile e la giustizia punitiva erano amministrate in nome del re dai magistrati che egli nominava, il Regolamento dello Stato pontificio, sempre all'art. 1, più prudentemente, si limitava ad affermare che la giustizia era amministrata in nome del Sovrano.

Il Titolo I del Regolamento del 1806 offriva una introduzione degli organi deputati ad amministrare la giustizia nel Regno. Essi erano i giudici di pace, i tribunali di commercio, le corti di prima istanza, le corti di appello e la Corte di Cassazione, e in aggiunta a questi i tribunali militari. Anche in questo caso la distribuzione dei tribunali narrata nel Regolamento giudiziario del Foro laico risultava pressoché identica, comprendente, come abbiamo visto, i giudici municipali, i giudici conciliatori, i tribunali di prima istanza, i tribunali d’appello e il tribunale di Cassazione, in aggiunta ai tribunali militari ma con l'esclusione, in questo caso, dei tribunali di commercio.

La disciplina delle magistrature superiori risultava differente per il fatto che nello Stato pontificio era previsto, oltre al tribunale di Cassazione, anche il Tribunale di ultima istanza, competente a giudicare in terzo grado di giudizio le sentenze difformi dei tribunali di prima istanza e dei tribunali d’appello.

La Francia invece, che non conosceva la distinzione tra terzo grado di giudizio e tribunale di Cassazione, aveva disciplinato solo quest’ultimo nel Regolamento organico di

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giustizia, stabilendo che questo tribunale supremo fosse quello deputato a mantenere l’esatta osservazione delle leggi, giudicando, quindi, nel nome della legge e non dei litiganti. La Corte qui si pronunciava solo sulla conformità della sentenza alla legge (e in alcuni casi sulle questioni di incompetenza ed eccesso di potere) e non entrava nel merito, come invece era consentito al medesimo tribunale nel Regolamento dello Stato pontificio. In entrambi i regolamenti era però stabilita la remissione della causa ai tribunali inferiori per una nuova decisione335.

Anche la disciplina del Pubblico Ministero delineata nel Regolamento organico dell'ordine giudiziario nel Foro laico è pressoché identica a quella descritta nel Regolamento organico della giustizia civile e punitiva.

In entrambi gli ordinamenti troviamo infatti un Pubblico ministero agente del governo presso i tribunali dello Stato, cui è affidata la vigilanza sul rispetto della legge che interessa l'ordine pubblico, la cui presenza è obbligatoria ogni qualvolta si discuta di questioni riguardanti, tra le altre, l'ordine pubblico, lo stato delle persone, la ricusazione dei giudici, lo stato delle persone. Il Pubblico Ministero è inoltre competente a denunziare al Ministro della Giustizia ogni atto attraverso il quale i giudici travalicassero i loro potere336.

Nel Regolamento per il Regno italico poi non v'è traccia della giuria, in quanto, come detto, Napoleone preferì non estendere questo istituto all'Italia; la giuria, insieme con la Camera d'accusa, è invece disciplinata dal Regolamento dello Stato pontificio.

L'ultima parte di ambedue i regolamenti è dedicata alla disciplina dell'ordine giudiziario. In entrambi gli ordinamenti si dice che i giudici debbano essere nominati dal Sovrano. Nel

335 Regolamento organico della giustizia civile e punitiva del 13 giugno 1806, in Bollettino delle leggi del Regno d'Italia... cit., "Della Corte di cassazione", pp. 640-644.

336 Ibidem, "Del Pubblico Ministero", pp. 644-646.191

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Regolamento del 1806 si parla di nomina a vita dei giudici, e di possibilità di essere "traslocati"; nel Regolamento del 1848 non si affronta il tema dell'inamovibilità dei giudici e della nomina a vita, ma i requisiti riguardanti l’età e i casi di incompatibilità risultano disciplinati in modo pressoché identico.

Anche le regole che dettano la condotta e la nomina degli altri addetti all'ordine giudiziario, tra cui i cancellieri, i cursori e gli avvocati di ufficio, che in ambedue i Regolamenti si collocano al termine delle disposizioni di legge, non si differenziano di molto tra di loro337.

Così come il Regolamento organico della giustizia civile e punitiva in Francia doveva essere poi coordinato con i codici di rito che nel medesimo periodo si stavano redigendo per il Regno italico, in particolare il codice di procedura penale del 1806 e il codice di procedura civile per il Regno Italico, quest’ultimo recante infatti nell'introduzione l'indicazione che esso sarebbe stato applicato nei territori italici in conformità al Regolamento organico di giustizia, allo stesso modo nello Stato pontificio il Regolamento organico giudiziario nel Foro laico avrebbe dovuto coordinarsi con i codici di rito che nel medesimo periodo erano oggetto di studio da parte delle commissioni legislative incaricate proprio della riforma di quei codici.

Senza dubbio se la crisi politica non avesse fatto da ostacolo alla prosecuzione delle riforme in atto si sarebbe aperta una fase nuova per la giustizia nello Stato pontificio, talmente importante da poter mettere in discussione la stessa struttura dello Statuto e del sistema rappresentativo da esso delineato.

Ma non si giunse a nulla di simile. Anche dopo la Restaurazione del '49 il sistema dei tribunali tornava ad essere quello esistente prima del novembre 1848, con quelle poche modifiche che abbiamo visto interessare il Tribunale dell'Auditor Camerae e il sistema dei tribunali della città di Roma338.

337 Ibidem," Dei Cancellieri", "Dei Patrocinatori", "Degli Uscieri", pp. 647-650.

338 Cfr. Cap. II.192

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Anche per quanto riguarda i codici di diritto e quelli di rito, in campo penale, i lavori della commissione del '47 per la riforma della codificazione civile e penale erano approdati, nel 1848, in Consiglio di Stato, il quale aveva apportato delle osservazioni al progetto di legge di codice penale che tuttavia non era mai riuscito a divenir legge effettiva dello Stato. Anche quando si ripresero i lavori, un decennio più tardi, i lavori di studio e di revisione fallirono e la legislazione in vigore nel diritto penale rimase quella di Gregorio XVI339.

Per quanto riguarda invece l'amministrazione della giustizia e il diritto civile, la Commissione nominata in ottemperanza all'art. 5 del moto proprio del '49340 preparò nel 1850 un progetto organico per l'ordine giudiziario esaminato anche dal Mertel che però si limitò ad offrire alcune osservazioni, in quanto l'assunzione dell'incarico di ministro dell'interno contemporaneamente a quella di grazia e giustizia non gli consentirono di portare a compimento l'opera. Solo nel 1858 egli poté completare la revisione ed elaborare un Progetto di regolamento giudiziario per gli affari civili in riforma al regolamento giudiziario del 10 novembre 1834, diviso in tre parti, concernenti la legislazione civile, l'ordinamento giudiziario e le leggi di procedura. Ma anche questo ennesimo tentativo fallì e il Regolamento del 1834, per quel che riguarda la giustizia, il sistema dei tribunali e la procedura civile, sarebbe rimasto la legge dello Stato pontificio fino alla fine del potere temporale.

339 M. DI SIMONE, Progetti di codice penale nello Stato pontificio di Pio IX, in Per Satura. Studi per Severino Caprioli, Spoleto, 2008, pp. 321-351.

340 Motu proprio di Portici del 12 settembre 1849, in Raccolta delle leggi... cit.

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4. Considerazioni conclusiveIl 14 giugno 1846, Giovanni Maria Mastai Ferretti entrò in

conclave, l’ultimo riunitosi al Quirinale. Tre giorni dopo venne eletto papa, con il nome di Pio IX. Fu l’inizio di un lungo e controverso pontificato durato fino al 1878, secondo per durata, fino a quel momento, solo a quello di San Pietro.

Il regno di Pio IX iniziò nel pieno della rivolta, lo Stato pontificio attraversava infatti in quel periodo una grave crisi, destinata a produrre una vasta eco anche sul piano internazionale. Nonostante questo, l’ascesa di Pio IX fu accolta con grande soddisfazione ed entusiasmo sia a Roma che nelle Legazioni341; il nuovo Pontefice infatti appariva come l’uomo giusto per il rinnovamento dell’identità nazionale342.

Anche gli Stati esteri, la Francia, l’Austria, la Germania, apprezzarono l’elezione del nuovo Pontefice, sia perché confidavano nella personalità prudente e moderata del nuovo Papa, sia perché la rapidità dell’elezione aveva sventato possibili "torbidi politici" nelle Legazioni343.

341 Così scriveva il Ludolf, ambasciatore napoletano a Roma il 13 giugno 1846: «Una buona parte del volgo di questa capitale si è dichiarata con applausi e scritti sui muri di voler per Papa il cardinal Micara. Si vuole che anche a Bologna si sia manifestato lo stesso spirito.» E. CIPOLLETTA, Memorie politiche sui conclavi da Pio VII a Pio IX, Milano 1823, p. 233; In realtà quando la mattina del 17 venne annunziato il nome del nuovo Papa, la folla, rimase delusa e lo accolse piuttosto freddamente e questo «sia perché i più ritenessero ancora essere stato eletto il cardinale Gizzi, che chiamossi per quei pochi momenti che lo si credette eletto, il Papa d’Azeglio, sia che il suo nome non fosse abbastanza cognito per fatti amministrativi o governativi.» G. SPADA, Storia della rivoluzione di Roma e della Restaurazione del Governo dal Primo giugno 1846 al 15 luglio 1849, Firenze 1868, vol. I, p. 50.

342M. CARAVALE – A. CARACCIOLO, Lo Stato pontificio da Matino V a Pio IX, della Storia d’Italia diretta da G. GALASSO, Torino, 1978, vol. XIV, p. 641.

343 G. MARTINA, op. cit., p.194

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Fin dal Memorandum del 1831, infatti, le grandi potenze premevano sul governo pontificio per indurlo alle riforme, e questo non tanto per assicurargli l’amore dei sudditi, ma più che altro per scansare ogni motivo legittimo di reclamo344.

Pio IX appariva come il simbolo dell’innesto tra le istanze riformatrici tradizionali e quelle più moderne, spingenti verso un radicale rinnovamento dello Stato, e l’attenzione per le leggi e i proclami di Governo si univa a quella per le richieste, le sollecitazioni, e le pressioni che tutt’intorno si levavano345. A questo proposito il Farini ci ricorda un giovane Marco Minghetti che dalle colonne del giornale Il Felsineo discorreva di argomenti economici e morali, e forniva considerazioni intorno a riforme amministrative, e Massimo D’Azeglio, che pubblicava una lettera nella quale dava consigli prudenti e raccomandava la moderazione. Ma tanti altri erano coloro che scrivevano sulle finanze, i municipi e le riforme giudiziarie346.

La grande popolarità di Pio IX cominciò con le grandi manifestazioni di entusiasmo da parte delle popolazioni, e le risposte di Pio IX ai suoi sudditi non tardarono ad arrivare.

E' opinione che la politica riformatrice di Pio IX inizi con la concessione dell’amnistia ai detenuti; fu un provvedimento che le popolazioni dello Stato già da tempo aspettavano, ma fu un atto coraggioso, perché con esso si rimettevano in libertà decine di cospiratori in piena crisi dello Stato. Poco dopo il Pontefice nominò Segretario di Stato il cardinale Pasquale Gizzi, anche qui tanta fu la pubblica soddisfazione, perché ritenuto “amico delle riforme347”. Seguì l'Editto sulla censura, l'atto attraverso il quale si regolamentavano le pubblicazioni a mezzo stampa, e con il quale si ebbe un allargamento dei temi trattati nei fogli politici già esistenti e si diffusero nuovi giornali.

344 A. M. GHISALBERTI, Cospirazioni del Risorgimento, Palermo, 1938, pp. 8-10.

345M. CARAVALE – A. CARACCIOLO, op. cit., p. 642.346 L. C. FARINI, Lo Stato romano dall’anno 1815 al 1858...cit., p.100.347 Ibidem, p.91.

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Queste novità si inseriscono in quello che è stato definito il primo periodo della politica riformatrice di Pio IX, caratterizzato dall'assenza di provvedimenti tali da implicare soluzioni di tipo rappresentativo, alla quale seguirà poi quella delle riforme istituzionali con la creazione della Consulta di Stato e del Consiglio di Stato348.

In entrambe queste fasi, che si riferiscono al primo periodo del pontificato, è evidente e concreto l’impegno del pontefice a trovare soluzioni tali da condurre a un rinnovamento e a un rimodernamento dello Stato, in linea con le tendenze diffuse tra gli altri sovrani nel resto d’Europa.

Nonostante questi interventi e dimostrazioni di apertura verso nuove prospettive culturali, il successivo giudizio su Pio IX non terrà conto di questi primi momenti e finirà per configurarsi come complessivamente negativo.

Pio IX passerà infatti alla storia come colui che proclamò il dogma dell’Immacolata concezione e, aprendo il Concilio Vaticano Primo, quello dell’infallibilità papale; il papa dell’enciclica Quanta cura contenente il Sillabo, uno dei più gravi attacchi al pensiero laico e moderno; il papa che fino all’ultimo non si rassegnò alla perdita del potere temporale ordinando il non expedit ai fedeli.

Ma allora chi era in realtà Pio IX, fu davvero quel sovrano illuminato costretto a trasformarsi, sotto le spinte esterne, in un bieco conservatore pur di salvare quello Stato pensato come da sempre perfetto e non bisognoso di alcuna revisione di sorta? la risposta a questo interrogativo parte da una distinzione primaria: il sovrano e il pontefice, un corpo e due anime, come è stato definito349. Tutti conoscono il pontefice, ma se volessimo riferirci al sovrano, dovremmo pensare a colui che detiene il potere, ed il potere si identifica con la giustizia, perché

348 ARA A., Lo Statuto fondamentale della Chiesa…cit.349 P. PRODI, Il sovrano Pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia

papale nella prima età moderna, Bologna, 1982.196

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l’amministrazione della giustizia da sempre costituisce la funzione essenziale, la ragion d’essere del potere costituito350.

Se si guarda al sistema giudiziario dello Stato pontificio, così come appariva nel XIX secolo, ci si rende conto di come esso fosse uno dei più complessi tra gli Stati preunitari, nonché dei più arretrati. Con il tempo le magistrature e i tribunali avevano infatti sovrapposto le proprie competenze le une alle altre e la rete di autorità giudiziaria era così intricata da poter esser definita un vero e proprio “groviglio giurisdizionale”. Conseguenze di questo stato di cose erano ovviamente confusione, mancanza di garanzie e incertezza del diritto.

Con Pio IX parte un’opera di risistemazione delle ossificate strutture giudiziarie e costituzionali spesso sottovalutata, perché non del tutto compiuta, ma che non trova precedenti “moderni” nello Stato pontificio. Tutto ciò possibile soprattutto se si considera la realtà vivacissima che fa da sfondo alla Roma di metà Ottocento, composta da un gran numero di giuristi, avvocati, filosofi, scrittori, desiderosi di innovare radicalmente le fondamenta dell’apparato giurisdizionale dello Stato pontificio, protagonisti di un dibattito giuridico dal quale traspare tutto il fervore per i mutamenti culturali e politici che stavano interessando la maggior parte degli Stati italiani nel medesimo periodo.

E così subito, 1846, nomina della Commissione per la revisione dei codici, che darà vita in breve tempo ad un Regolamento organico sull’ordine giudiziario, che riuniva e semplificava i Regolamenti gregoriani in materia civile e penale; gennaio 1847, nuove norme in materia di “punitiva giustizia”, iniziava la riduzione dei tribunali romani, con la concentrazione del Tribunale del Campidoglio e quello dell’Uditorato della Camera nell’unico Tribunale del Governo; e ancora giugno 1847, i capi dei dicasteri più importanti venivano riuniti in un

350 P. ALVAZZI DEL FRATE, Appunti di Storia degli ordinamenti giudiziari. Dall’assolutismo francese all’Italia Repubblicana. Roma, 2009, p. 6.

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Consiglio dei ministri, nasceva il Ministero di Grazia e Giustizia, affidato all’Uditore della Camera, che cessava però da ogni funzione giurisdizionale, sancendo così per la prima volta anche nello Stato pontificio la distinzione tra funzioni esecutive e giudiziarie. E poi ancora nel 1847 la Consulta di Stato, quel “piccolo parlamentino” composto da ventiquattro consultori nominati dal sovrano su terne di candidati scelti dai consigli provinciali, che ebbe il compito di “coadiuvare alla pubblica amministrazione” e che diede un segnale di liberalismo all’attività amministrativa di cui volle essere espressione, cercando di vedere a fondo nei bilanci, nell’ordinamento di comuni e province e dando vita a quell’organo che di lì a poco sarebbe stato il suo successore: il Consiglio di Stato. Quest’ultimo sarebbe stato l’organo incaricato di redigere i progetti di legge, i regolamenti di pubblica amministrazione, di fornir pareri su particolari materie, e anche di occuparsi del contenzioso amministrativo. Le sue funzioni erano “costituzionalizzate”, in quanto previste dallo Statuto del 1848, la carta ottriata che Pio IX concesse ai suoi sudditi sull’esempio degli altri Stati italiani. Nell’ambito della sua funzione consultiva il Consiglio di Stato, composto di membri in prevalenza laici, elaborò il Progetto di regolamento organico nel Foro laico che avrebbe introdotto nell’ordinamento giuridico dello Stato pontificio grandi novità. Tra queste, abbiamo visto, il Tribunale di Cassazione, il Pubblico Ministero, la Giuria, il principio del contraddittorio e l’abolizione di ogni giurisdizione eccezionale. Concetti e istituti che, trasportati dall’ondata rivoluzionaria francese, stavano attecchendo e si stavano diffondendo in gran parte dei territori europei, ma che senza dubbio assumono un significato diverso se riferiti allo Stato pontificio.

Non vi fu il tempo di far germogliare i semi dell’innovazione. L’impegno del pontefice nella vita amministrativa dello Stato non coincise con quello nella vita

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politica. Il papa rifiutò il suo appoggio al re di Sardegna nella guerra contro l’Austria e di lì a poco fu solo l’incalzare degli eventi: l’uccisione del Rossi, la fuga a Gaeta, e l’imperdonabile Repubblica romana.

Con la Restaurazione altre commissioni furono nominate, altre riforme furono avviate, e altri moderati occuparono cariche di governo di rilievo. Ma l’immobilismo del papa, stretto in quella morsa del “non posso, non debbo non voglio”, unito a quell’ intimo sentimento di dovere di difesa dello Stato della Chiesa, segnarono per sempre la fine di quel sogno di modernità per un attimo intravisto dallo Stato pontificio.

5. Appendice documentaria

Biglietti di nomina inviati dalla Segreteria di Stato ai membri della Commissione per le riforma dei codici del

1846(ASR, Commissione per la compilazione dei codici

legislativi, b. 4)

6 novembre 1846Con dispaccio della segreteria per gli affari di Stato interni

del 20 di luglio 1841, la San. Mem. Di Gregorio XVI si degnò di nominare una commissione di valenti ed accreditati giureconsulti incaricata di promuovere gli occorrenti miglioramenti per il

Regolamento penale, quello di procedura criminale pubblicati dallo stesso Pontefice. Commissione che si compone di:

Mons. Antonelli Tesorirere generale della R.C.A. colla qualità di Presidente, di

Mons. Roberti Uditore gen.le dalla R.C.A., diMonsg. Di Pietro, Uditore della Sacra Rota romana, delSig. Avv.to Cav. Benvenuti Com. gen.le di Polizia e del Sign. Avvocato Alessandri, Sotto Seg.rio della S. Consulta,

con la qualità di segretario e con voto al pari degli altri membri della Commissione suddetta.

Essendosi degnata la Santità di Papa Pio IX di confermare la Commissione medesima ne ha eziando esteso gli incombenti agli esami dei regolamenti legislativi e giudiziari per gli affari

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civili perché proponga quei miglioramenti che si ravvisassero anche per questa parte opportuni.

Sebbene l’importante lavoro criminale per l’impegno postovi dai lodati giureconsulti sia quasi al termine, piaccia la S.tà Sua che un argomento così rilevante venga più ampiamente esaminato e discusso si è degnata di esporre che alla suesposta commissione sieno aggiunti altri esperti e dotti giuristi dello Stato.

Cioè____Essendo_____compreso tra gli aggiunti alla Commissione, se

ne porge al medesimo la partecipazione, ed egli al certo ravviserà in tale atto di considerazione Sovrana una aperta dimostrazione di quella fiducia con che degna onorarlo Sua Santità ed a cui a cui sarà lo stesso Sign____per corrispondere col maggior zelo ed impegno351.

6 novembre 1846La Santità di N. S. sebbene sia pienamente soddisfatta,

onde la Comm. deputata a proporre gli occorrenti miglioramenti al Regolamento penale e a quello di procedura criminale qui corrisposto all’onorevole incarico, ed in modo di aver condotto l’importante lavoro quasi al termine prima avendo effettuati gli incombenti della Commissione stessa all’esame de’ Regolamenti legislativi e giudiziari per gli affari civili. Perché proponesse qui miglioramenti che lì ravvisassero anche per questa più opportuni: ed avendo ritenuto che anche il criminale venga più ampliamente esaminato e discusso, si è degnata di disporre che alla suesposta Commissione sieno aggiunti altri esperti e dotti giuristi dello Stato Pontificio.

Quindi la Santità sua ha scelto a tali incarichi_____Il Sotto. Seg.rio di Stato mentre invia a tutti i nominati

distinti nominati il rispettivo biglietto di nomina, partecipa prima alla (...), come al benemerito Presidente della (...) Comm.ne, aggiungendo lesi che quanto ai Signori, Silvani Pagani e Giuliani, dovendo (...) a questa dominante, Sua Santità le è degna stabilire una rimunerazione di scudi cinquanta mensuali, incominciando dal futuro mese di dicembre e continuando durante l’esercizio dell’onorevole incarico, oltre al rimborso delle spese di viaggio per l’accesso e nel recesso da questa dominante.

E’ inoltre premura della Santità Sua che i signori procuratori Pagnoncelli e Borghi seino per intervenire alle sessioni della Comm.ne in cui si discutono argomenti di procedura; sarà pertanto compiacente la (...) di (...)

351 ASR, Commissione per la compilazione dei codici legislativi, b. 4, fasc. 33.

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l’adempimento delle disposizione sovrana nella parte che la riguarda352.

Ai Signori: Avv.ti Antonio Silvani, Bologna Pietro Pagani, Imola Giuseppe Giuliani, Macerata

(L’avv.to Pagani essendo in Roma non ha ricevuto questa lettera)

6 novembre 1846 In ossequio delle venerate disposizioni della Santità di

Nostro Signore ho il pregio di inviare a ___ il biglietto di ufficio nel quale ella è stata aggiunta ai componenti questa Comm.ne incaricata di promuovere i miglioramenti così al Regolamento penale e di procedura criminale come a quelli legislativi e giudiziari per gli affari civili.

E mentre mi congratulo con esso Lei per tale manifesta prova di considerazione della Santità Sua, sono a significarle il desiderio sovrano che la suddetta Comm.ne stia per condurre l’importante lavoro con la conciliabile sollecitudine, per cui, (...) come sono di tutto lo zelo di lei nel corrispondere all’onorevole incarico Ella vorrà compiacersi di affrettare il viaggio verso questa dominante.

Mi è questa tale circostanza per confermare alla (...) i sentimenti della mia difficile stima.

E con ciò mi osservo con profondo ossequio.

Segreteria di Stato, 11 settembre 1846La Santità di Nostro Signore, dopo di aver nell’udienza del

dì sei del corrente mese sanzionate le deliberazioni prese dal Consiglio dei ministri nell’adunanza del 13 di agosto scorso relativamente alla revisione e pubblicazione dè nuovi codici civili e criminali si è degnata poi di nominare una commissione per l’esame del Regolamento organico dell’ordine giudiziario componendola di Monsignor Morichini, arcivescovo di Nisibi e pro-teosirere generale della R.C.A., Muzzarelli, uditore decano della S. Rota romana, Matteucci segretario della S. Consulta, Amici segretario del Consiglio dei ministri, e del sig. avvocato Giuseppe Lunati.

Il sottoscritto segretario di Stato rende consapevole Mons. Matteucci Segretario della S. Consulta di quest’atto di graziosa sovrana considerazione in cui egli ravviserà una nuova dimostrazione di quella fiducia con che degna onorarlo Sua Santità ed a cui sarà per corrispondere con lo esperimentato zelo ed impegno.

352 ASR, Commissione per la compilazione dei codici legislativi, b. 4, fasc. 33.

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Intanto il sottoscritto medesimo trasmette al lodato Mons. Matteucci la copia in stampa del progetto del citato regolamento compilato dalla Commissione nominata con dispaccio del 6 novembre dello scorso anno sul quale progetto gli egregi componenti la nuova commissione saranno per portare il loro esame giusta la surriferita disposizione di sua maestà del sei corrente mese353.

Consulta di Stato, verbali della sezione legislativa(ASR, Consulta di Stato, b. 1, Verbali sezione legislativa)

Seduta del 10 febbraio 1848Si è adunata la sez. 1° nel solito locale a Montecitorio alle

ore 9.30 antimeridiane.Intervengono il professor Pasquale De Rossi, presidente,

l’avv. Giuseppe Lunati, l’avv. Luigi Santucci, l’avv. Giuseppe Piacentini, l’avv. Francesco Benedetti, l’avv. Luigi Ciofi, segretario.

Il presidente De Rossi dà comunicazione di un dispaccio del ministro di grazia e giustizia all’eminentissimo presidente della Consulta in data 6 febbraio corrente n. 6407, rimesso alla sezione con rescritto dello stesso presidente del 7 febbraio corrente, col quale dispaccio, comunicandosi il progetto del regolamento organico dell’ordine giudiziario già compilato dalla commissione legislativa, si dispone che venga sottoposto all’esame e deliberazione della Consulta di Stato.

L’avv. Lunati è deputato relatore. Intanto si conviene unanimemente che ad oggetto di evitare una fatica che forse potrebbe essere inutile e per procedere con certezza nel lavoro, la sezione debba per ora limitarsi a proporre soltanto le basi generali del regolamento organico acciò riconosciute, ed ammesse quelle della Consulta generale e poscia dal Consiglio dei ministri e dal sovrano, possa sulle basi dette occuparsi della compilazione del regolamento. E si conviene che le basi dipendano dalla soluzione dei quesiti seguenti:

1. Se nei giudizi civili debba o no ammettersi un terzo grado di giurisdizione ordinaria.

2. Se debba o no stabilirsi un tribunale supremo di Cassazione e in caso affermativo con quali norme e con quali attribuzioni.

3. Se debbano o no conservarsi i tribunali eccezionali, cioè i commerciali, i contenziosi amministrativi e gli ecclesiastici.

4. Se debba o no stabilirsi il ministero pubblico e in quali tribunali.

5. Se debba ammettersi o no nei giudizi criminali una camera d’accusa

353 ASR, Commissione per la compilazione dei codici, b. 4, fasc. 34202

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6. Se debba ritenersi migliore in tali giudizi il processo di prove legali, o scritto, o piuttosto il processo verbale, e se debba ammettersi o ne nelle medesime cause l’appello354.

14 febbraio 1848Si è adunata la sezione prima nel solito locale a

Montecitorio alle ore 9.30 antimeridiane.Vi intervennero il prof. Pasquale De Rossi presidente, l’avv.

Giuseppe Lunati, l’avv. Luigi Santucci, l’avv. Giuseppe Piacentini, l’avv. Francesco Benedetti, l’avv. Luigi Ciofi, segretario.

Si apre la discussione sulle basi del regolamento organico proposte come al verbale del 10 febbraio corrente.

Il quesito uno è se nei giudizi civili debba o no ammettersi un terzo grado di giurisdizione ordinaria.

L’avv. Lunati, relatore, è di parere che sia da adottarsi un impianto di due soli gradi di giurisdizione come più semplice e più ragionevole. Allorquando le parti contendenti non si accordano sopra un fatto, e sull’interpretazione di una legge, deve esservi un potere che decida la controversia. Questo consiste nel tribunale formato dall’aggregato di dotte ed oneste persone, nelle quali riposi la fiducia pubblica, e che decida senza ulteriore revisione. Ciò porterebbe a dovere stabilire un unico grado di giurisdizione, ma siccome sarebbe impossibile o troppo dispendioso lo stabilire in ciascun cantone dello Stato un gran tribunale che stabilisca, e siccome il solo grado di giurisdizione avrebbe l’inconveniente che il tribunale, dovendo occuparsi della formazione degli atti primitivi costituenti il processo giudicherebbe sotto l’influenza delle idee preconcepite nel primo, anziché degli atti che in processo sono soliti a ricevere un maggior sviluppo, cosi l’avv. Lunati vede necessario che vi debbano essere tribunali inferiori, che diffusi nelle province compiano il processo degli atti ed emanino la sentenza motivata. Adduce l’esempio delle altre nazioni civilizzate che limitano la giurisdizione a due soli gradi e dice che questo metodo è il più spedito e il più sicuro.

(…) l’inconveniente che si vegga nel sistema dei tre gradi ed è quello che in niuno dei tre gradi può riposare la fiducia pubblica, posto che la rigiudicata ora nata nel secondo, ora nel terzo grado. Talvolta accade che il terzo grado definisce una controversia non conosciuta dai gradi precedenti perché fu appellata da decreti (...)

L’avv. Piacentini osserva che quando il tribunale di secondo grado sia quello che decide la controversia è inutile che ci sia il primo e riconosce un’incongruenza nel far prevalere la sentenza del secondo grado a quello del primo che gli sia contraria.

L’avv. Lunati riconosce l’utilità del primo grado nella formazione del processo e pone la prevalenza del secondo grado nella presunzione di fiducia di verità che desta un tribunale

354 ASR, Consulta di Stato (Verbali sezione legislativa), b. 1, fasc. 1.203

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superiore composto di maggior numero di probe ed oneste persone.

Il professor De Rossi riflette che la maggior presunzione di verità risulta dalla discussione e cognizione di causa con cui giudica il tribunale nei gradi ulteriori.

Un altro inconveniente del sistema dei due gradi è accennato dall’avv. Benedetti e consiste nell’accader facilmente che le parti litiganti non si curino di completare gli atti nel primo grado e riserbino tutta la difesa nel secondo grado dal quale sanno esser decisa la sentenza.

L’avv. Lunati e il professor De Rossi credono che possa ovviarsi in parte a tale inconveniente con l’obbligare i giudici di secondo grado ad emanare il primo opinamento sul solo processo già compilato in prima istanza, rimanendo loro intanto vietato il prendere cognizione anche stragiudiziale di qualunque altro documento, e che potrebbe mettersi a carico della parte che produce, la spesa di documenti non esibiti in prima istanza.

Dopo la discussione, tutti della sezione convengono che debba abbracciarsi il sistema dei due gradi, sebbene vada soggetto a qualche inconveniente che è sempre minore dei vantaggi che ne risultano.

Si passa poi a discutere il secondo quesito che risguarda l’esistenza e le norme del tribunale di Cassazione. Tutti unanimemente convengono che debba esistere questo tribunale supremo reso tanto più necessario dall’adozione dei due soli gradi di giurisdizione e che le attribuzioni del medesimo siano di cassare i giudicati per violazione di legge e di pronunciare sopra altre questioni su cui non potranno interloquire i tribunali ordinari, come sulla competenza tra il tribunale di appello e altro che nei suoi particolari sarà specificato nell’organico da compilarsi.

Il terzo quesito è se debbono o no conservarsi i tribunali eccezionali cioè i commerciali, gli ecclesiastici i contenziosi amministrativi.

L’avv. Lunati pensa che debbano abolirsi i tribunali commerciali, trovando assai strano che negozianti affatto ignari di tal giurisprudenza debbano giudicare nelle cause che ne richiedono la piena cognizione, e posto un tribunale eccezionale per le cause di commercio, dovrebbero con egual ragione instituirsene degli altri per l’agricoltura, per l’annona, e per ogni altro ramo dello scibile.

Del resto, se qualche particolar cognizione mancasse ai giudici, essi poteranno procurarsela colla deputazione di esperti nella materia, come fanno tuttodì gli stessi giudici ordinari nel sistema attuale.

Col parere dell’avv. Lunati consentono tutti gli altri della sezione.

Anche ad unanimità si è ritenuto che debba abolirsi l’eccezione dei tribunali ecclesiastici in ragione di persone, conservandola soltanto in ragione di materia. Anche oggi accade

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che il chierico attore, ed in alcuni casi anche come reo convenuto, è sottoposto al giudice laico, ‘lo che persuade che niuna ragione intrinseca proibisca il giudizio del tribunale laico anche negli altri casi. A rispetto, per altro, dell’autorità ecclesiastica sarà richiesta la venia dell’ordinario prima che sia chiamato in giudizio il chierico e non potrà eseguirsi il giudicato senza l’ exequatur dello stesso ordinario, la quale venia ed exequatur non potranno negarsi, altrimenti si avranno per concesse.

Varia è stata l’opinione della sezione sul punto di abolire o conservare i tribunali contenziosi amministrativi.

L’avv. Lunati costante nella massima che debba abolirsi ogni eccezione e tutto deferirsi ai tribunali ordinari, ove le parti avranno sempre maggiori garanzia, opina per l’abolizione di siffatti tribunali.

L’avv. Benedetti, all’incontro, pensa che debbano conservarsi principalmente per la ragione che la procedura dei tribunali ordinari ritarderebbe di troppo l’azione del potere amministrativo, che deve essere rapidissima. Acciò risponde l’avv. Lunati potersi rimediare con lo stabilire che il ministero possa agire liberamente nell’esecuzione dei suoi disegni, salva al privato al facoltà di ricorrere contro il pubblico erario in via devolutiva innanzi ai tribunali ordinari. Il professor De Rossi, insieme all’avv.to Benedetti, fa considerare che con ciò si apre una via troppo lunga agli arbitrii del ministero e che lieve rimedio sarà al privato il potersi difendere da tali arbitri dopo che siano stati commessi, ma l’avv. Lunati avverte che posta la vera responsabilità del ministero verso l’erario e dell’erario verso i privati sarà ben difficile che accadano siffatti arbitri.

Dopo tale discussione l’avv. Benedetti persiste nella sua opinione e tutti gli altri convegno con l’avv. Lunati.

Sul quarto quesito che concerne l’istituzione del ministero pubblico, destinato a contenere i giudici nei limiti della legge sono tutti concordi ad ammetterlo in tutti i tribunali collegiali.

La stessa unanimità si è avuta sull’istituzione di una camera di accusa, la quale si ravvisa valevole a meglio garantire la libertà individuale dei cittadini, ‘lo che non accada col sistema odierno, in cui basta un solo giudice processante a porre il cittadino in stato di accusa.

Molta diversità di opinioni ha avuto luogo sul sesto quesito, concernete il processo orale o scritto e l’appello delle cause criminali.

L’avv. Piacentini ammetterebbe il processo orale nei tribunali di prima istanza, ma in appello vorrebbe che si portasse il risultato scritto del processo orale, e con tale opinione consentono l’avv. Benedetti e l’avv. Santucci. All’incontro gli avvocati Lunati, De Rossi e Ciofi pensano che sarebbe incosciente l’ammettere una forma di processo in primo grado e un'altra in appello e perciò dovrebbe essere o tutto orale o tutto scritto. E le cause maggiori potrebbero essere

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definite senza revisione dai tribunali di appello dello Stato, ponendo i tribunali di prima istanza come camere di accusa, ovvero occorrendosi la revisione a tutte le cause maggiori, dovrebbe mantenersi il processo orale in prima e in seconda istanza col trasporto dei testimoni e dei rei.

Il tribunale, peraltro, di Cassazione non dovrebbe mai assumere le funzioni di tribunale di appello ma giudicare soltanto sulle violazioni della legge la discussione che sorgerà nella adunanza generale della Consulta, allorché si dibatterà su questo punto, darà lumi ulteriori e potrà pronunziarsi sul miglior partito da adottarsi.

Si discute quindi se debba ammettersi promiscuità fra giudici civili e criminali e si risolse negativamente ad unanimità di voti.

Si conviene finalmente colla stessa unanimità che debbano adottarsi i giudici di pace, atteso il gran vantaggio di tali istituzioni e che possa aversi questa autorità nel seno della magistratura municipale.

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Quesiti inviati dalla Consulta di Stato al Consiglio di Stato

(ASR, Consiglio di Stato (1848-1849), “Progetto di Regolamento organico nel Foro laico”

b. 2)

Incaricata la sezione legislativa di presentare le sue considerazioni sull’organico civile e criminale già compilato e rimesso alla revisione della Consulta di Stato propone preliminarmente i seguenti quesiti da discutersi in tesi generali affinché dopo la risoluzione dei medesimi possa procedere con certezza nel lavoro.

(La sezione legislativa) sottopone poi alla Consulta la sua opinione in ciascun quesito e brevemente accenna le ragioni che le determinano.

Roma, 28 febbraio 1848.Firmati, P. De Rossi presidente, Avv. Lunati consultore

relatore, avv. Ciofi segretario.

17 luglio 1848,Segreteria generale del Consiglio di Stato, al signor

consigliere della sez. 2.Rimetto alla signoria vostra copia dei quesiti che il

Consiglio di Stato propone per istabilire la massima fondamentale di un nuovo sistema organico giudiziario affinché si occupi in concorso dei suoi colleghi dell’esame e soluzione di quelli onde riferire nella prossima adunanza generale del 20 corrente.

1) se nei giudizi criminali come nei civili convenga adottare a modo di regola un metodo di assoluta pubblicità?

-affermative, eccettuati i casi di offesa al pudore.2) se nelle questioni civili sia conveniente alla retta

amministrazione della giustizia lo istituire giudici conciliatori portando a cognizione dei medesimi le controversie pria di contestarne lite propriamente detta?

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-idem esentandone i giudizi di sommo la determinazione (…) e in 200 scudi nei quali il conciliatore giudicherà ex se rinviando gli atti al tribunale competente. Meglio però non istituire i giudici di pace perché dispersioni pel governo e perché in fatto nelle questioni di diritto quasi mai riescono a conciliare.

3) se nei giudizi civili debba ammettersi o no un terzo grado di giurisdizione?

Le due conformi costituiscono la regiudicata.4) se debba o no erigersi un tribunale supremo di

cassazione ed in caso affermativo con quali norme e con quali attribuzioni?

Affermativamente annullerà per violazione di forme sostanziali che la procedura casserebbe per manifesta falsa applicazione di legge e per manifesta ingiustizia.

5) se debba o no stabilirsi il ministro pubblico e in caso affermativo in quali tribunali?

Affermativamente, presso i tribunali di prima istanza d’appello e di cassazione e con poteri (...) disciplinari. Debbono (...) nelle cause delle donne, minori delle comuni province e di espropriazione per pubblica utilità.

6) nei giudizi criminali debba ammettersi o no una camera d’accusa?

Affermativamente giusta la replica all’art. 8.7) se l’uso dei giurati debba ammettersi nei soli delitti per

contravvenzione alla leggi intorno alla libertà di stampa?Affermativamente, soltanto nei delitti di stampa8) se l’uso dei giurati fosse limitato ai giudizi relativi a

talune classi di delitti negli altri sarà preferibile il processo di prove legali ossia scritto o piuttosto il processo orale?

Il processo sia orale, ma lo preceda un succinto informativo che dopo aver posto in essere l’ingenera nei modi legali e di procedura presenti gli elementi della parte specifica da servire di scorta al processo orale (...) dall’accusa, denuncia, rapporti politici e a ciò supplisca un giudice (...) che dirigerà altresì il pubblico dibattimento e non avrà voto. A questo (...) o a questi (...) si affidino le camere di accusa con obbligo di riferire ad una sezione del tribunale le (...) quelle di delitti minori.

8) nei giudizi criminali dovrà ammettersi o no l’appellazione?

Affermativa (sempre eccettuate le piccole condanne) estendendone il diritto anche al pubblico ministero355.

355 ASR, Consiglio di Stato, “Progetto di Regolamento organico nel Foro laico.”, b. 2.

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Verbali delle riunioni del Consiglio di Stato(ASR, Consiglio di Stato (1848-1849), b. 1)

Consiglio di Stato, tornata del 7 luglio 1848 proferita dal signor professor Pasquale De Rossi, ministro di Grazia e Giustizia (sull’abolizione dei tribunali eccezionali)

Fatto appello dei signori consiglieri presenti e risultatone l’intervento di tutti tranne sua eccellenza reverendissima monsignor Morchini, dimorante precariamente all’estero, il signor presidente ha dichiarato aperta la seduta alla quale hanno assistito i signori uditori segnati nel contemporaneo foglio di presenza.

Data lettura del verbale redatto nell’adunanza del 30 giugno è stato quello nella sua integrità approvato e munito della firma del signor presidente e segretario.

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Facendo il signor professore Orioli della benigna facoltà accordata dal S. Padre di che al presente verbale e confessandosi non versato in Giurisprudenza ha dimostrato di passare dalla seconda alla prima sezione, quante volte concorra la volontà di altro collega per il cambiamento. I signori avvocati Piacentini e Sturbinetti proposero quindi di abbandonar la prima e appartenere alla seconda suggerendo di riempire il vuoto di quella con destinarvi l’eminentissimo monsignor Morchini, che diede larghe prove di idoneità nelle materie finanziarie per l’esercitatone ministero. Il signor presidente, aderendo in modo definitivo alla richiesta dell’encomiato signor Orioli ha dichiarato di non poter ammettere la progettata traslazione di monsignor Morchini, inabilitato per la sua lontananza a proferire il suo assenso e che perciò a causa dell’urgenza implorerà sull’oggetto la sovrana sanzione onde far luogo all’indicato movimento di ambedue i signori avvocati presidenti.

Invitati i signori congregati a riferire il loro parere sul primo dubbio comunicato in iscritto, se le commissioni e i tribunali straordinari esistenti rimasero aboliti dall’odierno Statuto fondamentale, il consigliere sig. marchese Potenziani esibisce un foglio di osservazioni sul tema, che si legge, nel quale conchiude per la negativa.

Rileva il signor avvocato Sturbinetti che in tale ipotesi non sarebbe vietato al Consiglio di Stato di proporre, ed ai consigli deliberanti di ammettere, una legge provvisoria abolitiva delle straordinarie giurisdizioni in disputa e remissiva ai tribunali ordinari, fino a che una stabile legge generale non provveda altrimenti; che però, se non le parole, lo spirito almeno dello Statuto avverso a quella specie di giurisdizioni ed anzi, la dichiarata uguaglianza di tutti i sudditi in faccia alla legge come all’art. 4 ne include virtualmente ed implicitamente la deroga per la incompatibilità eziando di due diversi sistemi apposti nella massima, incompatibilità ricusata dal seguente articolo 69.

Il consigliere monsignor Ruffini convenendo nella utilità e necessità di abolire le commissioni e tribunali straordinari non ammette che l’abolizione sia già seguita pel disposto dello Statuto nel quale si pone per regola che in avvenire non saranno quegli istituti, ma non si fa molto per la cessazione degli attuali.

E simile parere è appoggiato dal signor professor Orioli che per riparare hoc interim all’inconveniente propone di staccare dal compilato progetto di nuovo codice penale la parte abolitiva delle straordinarie magistrature e la sostituita provvidenza per mandarla in provvisoria attività, al quale effetto potrebbe crearsi una commissione.

Oppone il signor avvocato Piacentini che la proposta di qualsiasi provvidenza è fuori dei termini del quesito in discussione, né il Consiglio può interloquirvi ed inoltre farebbe cadere nel vizio di eccezione che si vuole evitare; opina pertanto di dichiarare abolite le giurisdizioni straordinarie per implicita volontà dello Statuto dal che consegue il riattivato esercizio

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della podestà giudiziaria ordinaria nelle forme comuni per tutte le specie di delitti.

Difende questa conclusione affermativa monsignor Palma, specialmente per la intelligenza del citato articolo 69, che tassativamente volendo in vigore le leggi non opposte allo Statuto ha voluto anche, per la ragione dei contrari, cessate ad un tempo le leggi allo statuto nemiche, nella quale categoria è sicuramente il sistema delle commissioni e tribunali straordinari, impedienti a pro d’ ogni classe di giudicabili quella salutare eguaglianza che è precipuo scopo e benefizio della statutaria sanzione.

Procede più innanzi monsignor Pentini e sostiene che promettendosi nello Statuto la generale riforma, ossia nuovo ordinamento di ogni sorta di legge, sono per necessità riunite in provvisorio vigore quelle dell’articolo 69 conservate come non ostative allo Statuto medesimo. Dunque le ostative dal momento dell’attivazione dello Statuto perdono persino la vita provvisoria, dal che deriva l’assoluta perenzione ipso facto delle giurisdizioni speciali extra ordinem. Osserva tuttavia che come è giusto di rimettere alla procedura e giudizio dei tribunali comuni le cause di furto e violento e di lesa maestà, così sarebbe conveniente per i delitti commessi dai servi di pena di non esigere gli ordinari mezzi di prova per la difficoltà di averne nella ristretta famiglia dei rei staccata dalla società generale, e giova altresì di mantenere la celerità della procedura per impedire che la tardità della punizione sia nell’intervallo incentivo per altri a più facilmente delinquere.

Contrasta monsignor Ruffini la parziale misura sui mezzi di prova, stimando più che mai pericoloso il processo scritto nei delitti dei forzati per il metodo d’inquisizione e l’immoralità dei deponenti e dei prevenuti che proclama vie’ meglio il loro confronto e il pubblico dibattimento al quale parere allude il prelato monsignor Pentini, ma sta fermo non ostante nel credere necessario un sistema di celere special procedura.

Prende sull’argomento parola il signor avvocato Giuliani e, rimproverando le disposizioni dell’editto Lante, pieno degli assurdi propri del Medioevo, propone la formula di una nuova legge, facendo il progetto di codice penale in che ebbe parte. Condanna l’arbitraria procedura e la specialità delle persone inquirenti riguardo ai delitti politici ed opina di conservare per ora alla sagra Consulta la giurisdizione suprema ma nelle forme comuni e coll’opera degli ufficiali ordinari.

È pertanto di avviso esser cessato collo Statuto ogni diritto di giudicatura straordinaria e doversi invocare dal Ministero l’interpellazione dei consigli deliberanti per la declaratoria di seguitane abolizione per i tre discussi titoli colle aumentate modificazioni e avvertenze.

Ripetutosi dal signor avvocato Piacentini il riflesso sulla impreteribilità dei confini del dubbio, rilevata difficoltà medesima di separare una parte di un codice in un progetto

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formante un assieme complesso e collegato, si è dal signor Sturbinetti coltivata l’idea di limitare l’indagine alla mente implicita dello Statuto per dedurne la soppressione delle esistenti commissioni e tribunali straordinarie che le singole materie e persone si sottopongano ai tribunali comuni colla giurisdizione e procedura ordinaria fino a che una legge nuova ed universale non determini l’ordinamento dei giudizi e la qualità e gradi della pena, conservata solo a carico dei rapinanti la severità di questa per la permanenza , anzi aumento delle ragioni che la provocano.

A sostegno dell’estrema sentenza il signor Presidente aggiungeva che non versiamo nel caso di atto momentaneo o irretrattabile da giudicarsi colla legge vigente all’epoca della sua consumazione, ma di atti progressivi e reiterabili, quali sono le forme di procedura e le persone giudicanti, onde non è il difetto di retroazione in una legge, la quale mentre vieta una istituzione futura dannosa al benessere dei cittadini, arresta ad un tempo anche il corso e il progresso di una simile preesistenza per l’identità del motivo, altrimenti ne emergerebbe l’assurdo che la continuità dell’istituzione antica renderebbe infruttuoso il divieto di impianto di una nuova col conservare il disordine cui si voleva riparazione.

Applaudita da altri coadunati l’ultima opinione, ed in specie dai signor avvocato Bonacci e professor Betti, che interloquivano in senso affermativo con pressoché eguali riflessi, dal signor avvocato Sturbinetti si è formulata la seguente proposta con ammendamento di monsignor Ruffini.

L’art. 4 dello Statuto proibisce in avvenire il sistema delle commissioni e dei tribunali straordinari e stabilisce che la uguaglianza di tutti al cospetto della legge. Con questa uguaglianza è incompatibile la esistenza legale delle commissioni già istituite. Non possono esistere simultaneamente due sistemi diversi nella medesima.

L’art. 69 mantiene in vigore le leggi che non si oppongono allo Statuto. Dunque non può rimanere in vigore una legge incompatibile con lo Statuto stesso.

La combinazione di due articoli indice la implicita abrogazione delle commissioni e dei tribunali straordinari e perciò la legge riguardante i delitti commessi dai servi di pena, l’altra concernente le rapine notturne e la terza, per i delitti politici contenuta nel tit. X, art. 555 e seguenti del Regolamento di procedura criminale del 5 novembre 1831, si ritengono abrogate dalla procedura e dalla giurisdizione, dovendosi adottare anche riguardo ad essi il sistema ordinario di procedura.

Fattane lettura, e sottoposta a voti per levata e seduta di persona, è stata ammessa ad unanimità.

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Consiglio di Stato, tornata del 20 luglio 1848 presieduta dal S.C. il sig. De Rossi, Ministro di Grazia e Giustizia.

Consiglieri intervenuti: Avvocato Filippo Bonacci, Avv. Giuseppe Piacentini, Prof. Francesco Orioli, Prof. Salvatore Betti, Avv. Luigi Ciofi, Prof. Pietro Carpi, Avv. Luigi Santucci, (Marchese) Ludovico Potenziani, Monsignor Ildebrando Rufini, Avv. Pietro Pagani, Monsignor Giovanni Battista Palma. Monsignor, Carlo Luigi Morchini, Avv. Giuseppe Giuliani, Monsignor, Francesco Pentini.

Aperta la seduta per la legalità di numero dei signori congregati, si è letto il verbale della precedente sessione che venne interamente approvato.

Il sig. Presidente ha ordinato la discussione sui dieci quesiti proposti a risolversi per base fondamentale di un nuovo sistema organico giudiziario. In via di proemio ha osservato che i dubbi in argomento furono il tema di grandi dibattimenti fra i migliori giureconsulti delle più civili nazioni, i quali si divisero in diverse sentenze. Calcolata la ragione degli opposti partiti, la sezione legale della già Consulta di Stato esternò il suo giudizio in un dettagliato rapporto già esaminato dal Consiglio dei ministri e che ora comunica ai signori congregati per farne il creduto calcolo nell’emanare il libero loro parere.

E’ stato soggetto di esame e di consultiva opinione il primo quesito:

“Se nei giudizi criminali come nei civili, convenga adottare per modo di regola l’assoluta pubblicità delle discussioni.”

Il lodato sig. Presidente esprimeva il suo voto per l’affermativa, eccettuate le cause nelle quali con la pubblicità delle sedute sarebbe offeso il pudore, o compromesso l’ordine pubblico.

Si avverta che è ora sopraggiunto il Consigliere sig. avv. Francesco Sturbinetti.

Sul proposito dell’eccezione alla regola generale stima conveniente il sig. avv. Piacentini di dettagliare i singoli casi per non lasciare incertezza o latitudine soverchia di arbitrio ai giudicanti, nell’ammettere o negare il segreto delle sedute, il che potrebbe produrre il disordine o la parzialità, o di pubbliche e private avverse dimostrazioni.

Credeva il sig. avv. Giuliani bene vincolata la libertà de’ giudici e sollevata ad un tempo la loro responsabilità coll’escludere la pubblicità dei dibattimenti nei delitti contrari alla continenza pubblica ed all’ordine delle famiglie, e redigeva, invitato, la seguente proposta: “se piaccia di adottare il sistema della pubblicità di discussione nei giudizi tanto civili che criminali, eccettuando rispetto a questi ultimi il dibattimento riguardante i delitti che si oppongono alla continenza pubblica e all’ordine delle famiglie.”

Opinava all’incontro il sig. prof. Orioli essere meglio il tutto rimettere alla prudente discrezione dei tribunali per la grande

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difficoltà di discendere ad un dettaglio completo, attese le immense variazioni di luogo, di tempo, di circostanza che ora persuadono, anche nei casi stessi di eccezione il bisogno delle udienze private, ora l’escludono. L’agitazione prodotta in un paese dal calore di una causa criminale, e fors’ anco civile, per l’interesse ispirato a più potenti famiglie o ad una parte di popolo, reclamar potrebbe la necessità di eseguire il giudiziale conflitto a porte chiuse, per impedire probabili o minacciati disordini. In questo caso entrar deve l’arbitrio del magistrato giudiziario, perché nei fatti speciali e variabili non può darsi norma di eccezione. L’interesse di una famiglia sulla domanda di una parte non è criterio infallibile o proporzionato di verità per concedere la discussione segreta, dacché quest’interesse apparentemente potrebbe colorirsi di pretesti legittimati da prove apparentemente gravi e combinate con artificio prima di inoltrare la petizione, ovvero essere di sì poco momento da non doversi anteporre alla pubblica solennità dell’amministrata giustizia.

Rendeva conto il sig. Giuliani della scritta proposta allegando la eccezione accettata dai più lodati criminalisti filosofi sui due distinti casi. Imperocché l’attesa della continenza pubblica apparisce con caratteri certi da non lasciare dubbiezza o arbitrio e la lesione dell’ordine delle famiglie, a contestar la quale assumono solo gli attinenti la veste di accusatori. è circoscritta ai delitti di adulterio, d’incesto, di ratto, di stupro, del pari di una indole determinata e sicura. Conchiudeva pertanto essere disdicevole che in questi casi possa il tribunale avere la libertà di preferire la pubblica o la privata seduta, questa libertà dovrebbe restringersi solo al pericolo di popolare perturbamento per suscitate fazioni siccome rilevava il preopinante sig. Orioli.

Ritenuto peraltro dal sig. Sturbinetti che andrà a stabilirsi nei tribunali il pubblico Ministero, reputava a questo, meglio che ad altri, mai spettare il diritto di esigere dalle sorvegliate magistrature il divieto di accesso al popolo nelle udienze per delitti contro la pubblica onestà in che si confondono la continenza e l’ordine delle famiglie, come per quelli che comprometter potessero la pubblica quiete.

Ammettendo la regola generale della pubblicità, non conveniva monsignor Morchini di affidare all’arbitrio del Ministero il richiedere all’opportunità l’uso delle eccezioni. L’inviolabilità del pubblico costume reclama per se l’eccezione permanente ed impreteribile del segreto. Questa eccezione è comprensiva di ogni titolo che offende il pudore o la buona morale sull’altra, che dipendono dal concorso o no degli estremi di pubblico allarme; per ammettersi o rifiutarsi la privata udienza, dovrebbe lasciarsi integro il potere dei magistrati che hanno pure la fiducia del governo e sono i soli capaci a bilanciare l’importanza intrinseca degli atti compilati sotto la

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loro direzione ed autorità e la possibile impressione di un pubblico contraddittorio sugli animi d’interessati spettatori.

Applaudiva monsignor Palma al sentimento del preopinante collega, per la invariabilità della prima eccezione, qualunque fosse il grado di pregiudizio all’onestà pubblica, come di rimettere all’arbitrio dei giudici chi negava o no la pubblicità della discussione negli altri casi, secondo la maggior o minore gravezza, sempre però sotto il riguardo di giusti motivi politici, su di che consentendo, il sig. avv. Piacentini proponeva di esperire “nei casi nei quali può essere compromesso l’ordine pubblico”, e monsignor Ruffini “nei casi di ragionato timore di popolari perturbazioni”.

Ad esclusione dei premessi pareri monsignor Pentini riproduceva il principio del sig. avvocato Sturbinetti sulla convenienza di comprendere nella giurisdizione del Ministero la facoltà di proferire o no la privata udienza per riguardi di decenza e di ordine pubblico, come quello che ha la disciplina del tribunale e cura l’andamento pacifico dei giudizi, tanto più che il titolo dell’accusa sovente può includere uno dei riservati delitti ed il progresso smentirlo, o farne emergere un altro.

Ma virilmente contraddiceva il progetto monsignor Ruffini osservando che il titolo della procedura fissar deve il caso di eccezione, bene inteso, sempre che si prestino gli atti a confermarlo, il che si conosce a processo ultimato, quando è appunto, che si porta la causa al dibattimento e si giudica se il caso di eccezione entra nell’imputabilità del prevenuto da formar soggetto di scandalo o di tumulto. D’altronde, troppa sarebbe la latitudine dell’arbitrio nel Ministero se nell’esso si rendesse facoltativo di dichiarare o no la sufficienza del titolo per applicare l’eccezione, mentre raro è che una passione, anche turpe, non abbia dato causa incidentale alla partecipazione del delitto e potrebbe giustificare coll’ incidente di poco conto l’arbitrio dell’ingiunto segreto.

Concludendo dai premossi motivi di dubitare una proposta espressiva il giudizio della maggioranza il sig. presidente l’ha moderata nei termini.

“Se debba assumersi per modo di regola l’assoluta pubblicità delle discussioni tanto nei giudizi civili che criminali salvi i casi di eccezione nei quali rimanesse compromesso il pudore o l’ordine pubblico.”

Fatta la votazione per alzata o seduta ne è conseguita l’unanimità.

Si è passato a trattare del secondo quesito, “se nelle questioni civili sia conveniente alla retta amministrazione della giustizia lo istituire giudici conciliatori, portando a cognizione dei medesimi le controversie prima di contestarne lite propriamente detta”.

Il sig. Presidente rilevava due cardinali articoli di utilità nell’uso dei conciliatori: abbreviamento di liti se la trattativa ha l’effetto della concordia: quando che no, rimangono preparate e

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sviluppate forse nel verbale negativo le ragioni dei contendenti da sottoporsi ai magistrati giudiziari.

Il sig. avv. Sturbinetti meglio in astratto che in pratica stimava vera l’utilità di tali conciliatori, per la difficoltà immensa di rinvenire soggetti di tal prescritta fama in onestà ed in sapere da riscuotere l’acquiescenza di ambo le parti nell’emesso parere, difficoltà accresciuta nelle Province od almeno non superabile se non a grave dispendio dell’Erario per il congruo emolumento. Suggeriva pertanto d’istituire giudici economici per decidere questioni di piccole somme e lasciare che le parti, amando di preferire per gravi cause i pacificatori ai tribunali, se li procurino fra i savi del luogo spontaneamente, anzi che la coazione offenda il loro amor proprio e l’indisponga ad accettarne la mediazione e il giudizio.

Diluiva il sig. Presidente gli obbietti col replicare che l’aspetto morale della persuasione, giusta i gradi di stima accreditata al mediatore, è proporzionata alle diverse intelligenze dei ricorrenti ed ai termini di confronto fra i più illuminati dei luoghi, onde nelle Province eziando si trovano di loggiarsi soggetti dalla maggior comune fiducia; ed è più sicura l’imparzialità di chi sieda per ufficio a terminar colla pace le liti nascenti da quello, sia dagli individui richiesti all’opportunità, che nasconder potrebbero interessi indiretti per favorire una parte e far dell’altra una vittima incauta.

Proferendo il testimonio della sua esperienza nell’intervallo dell’italico regime il sig. Pagani fa (...) dell’inutilità di quei giudici di pace. Imperocché l’attore, cui si inibiva il sussidio del cons(...) nell’aringo giudiziale, vi veniva però istruito dal medesimo e superava la capacità del reo competitore non preparato all’attacco, ovvero spediva un legale sotto nome di semplice mandatario o un mandatario qualunque col divieto di concordare. Ad ogni modo il giudice conciliatore non aveva mai tale influenza sull’animo delle parti da vincere la franca assicurazione dei loro confidenti sul rispettivo buon diritto, onde null’altro di affermativo risultava dalla formalità di quei congressi che il dispendio del tempo e dell’interesse pecuniario. Le sole cause che finivano con una imposizione erano quelle del medio dare, o di avere, ove alla confessione della parte debitrice il giudice aggiungeva solo il benefizio della decisione, per la qual cosa occorreva uguale spesa e consumo di tempo avanti ai giudici dell’ordine contenzioso, senza bisogno di moltiplicare gli impieghi e gli emolumenti.

Ritenendo per indubitato che gli stessi disordini si rinnoverebbero ora colla ripetizione della medesima causa, conchiudeva per la non ammissione di questa (...) specie di pubblici funzionari.

Agli antichi esempi desunti dal cessato governo d‘Italia il sig. Potenziani aggiungeva i moderni negli Stati di Francia, nei quali ha egli personalmente verificato che i giudici conciliatori neppure riusciti sono a comporre le questioni di nuovo fatto,

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tanto essendo discorde l’interessato giudizio dei contraddicenti sul valore delle reciproche prove.

In materia di concordia confidava monsignor Pentini che conciliare pur’ anco le divergenti opinioni dei suoi colleghi sulla difficoltà di rinvenire soggetti abili al delicato ufficio da evitare il grave danno del pubblico Tesoro, e la inutilità dei tentativi di pace, coll’incaricare i giudici ordinari nell’esordio della lite ad iniziare una transazione in difetto di che progredire il corso della giustizia. Non si moltiplicano così i magistrati aggiungeva: la fiducia delle parti facilmente concorre in soggetti nominati dal principe, ed il timore di vedere escluse in giudizio le su pretensioni determina il renitente infine a transigere senza che l’opinione de magistrati sia in caso contrario pregiudicata per decidere iuris ordine, perché altro è il consigliare un reciproco sacrificio per amore di pace, altro il rendere col rigor di giustizia a chiunque spetta il suo diritto.

Monsignor Ruffini osservava doversi primamente risolvere il dubbio se convenga o no di ammettere giudici conciliatori, non discendere ai modi di conciliare. Nei confini dunque del quesito, essere impossibile il negare l’utilità di istituzione di simili giudicature dopodiché, col pagarli convenientemente i soggetti idonei si ritrovano; a meglio non potersi spendere i denari che a reprimere le liti ed ora non riesca l’autorità dei tribunali rimaner del pari accessibile per l’esperimento delle rispettive ragioni.

Pericoloso, d’altronde, reputava, e più che mai inefficace, il commettere ai giudici ordinari il tentativo della concordia nel proemio della lite, perché si rende quasi impossibile ai giudici di non compromettere il loro parere sul merito della causa nel (…) le ragioni hinc hinde per misura di una retta concordia di non esser suscettibile di qualche indignazione all’indiscreta resistenza di una parte e non restarne indisposti nel decidere la questione non voluta comporre, come è assai difficile la docilità dei contendenti dopo i primi passi di guerra o per lo meno è ingiurioso e ledente la libertà del consenso l’ingerito timore di una soccombenza sicura.

Lungi dall’attribuire ai giudici comuni la podestà di procurare le concordie, avvisava il sig. avv. Piacentini esser piuttosto lo incarico un attributo municipale come che il capo della magistratura chiamato a rappresentare eminentemente il popolo e promosso all’onorevole ufficio dalla pubblica estimazione è il più acconcio ad ispirare una fiducia fra due o più cittadini venuti a controversia per essere in mezzo a loro l’arbitro e il compositore delle diverse pretese. Così, senza la destinazione di individui stipendiati, e forse mal rispondenti per un onorario alla ricevuta missione, si otterrebbe la maggiore delle probabilità che il magistrato economico raggiungesse lo scopo senza aggravio del Tesoro e dei privati avversari.

Il professor Orioli credeva più che mai indispensabile il proposto rimedio nei piccoli paesi, ove sarebbe impossibile di

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rinvenire legali per affidargli l’esclusivo impiego di giudici pacificatori o diverrebbe oltremodo costoso, o non proporzionato all’ordinario numero, a tenuità dell’insorta disputa, lo inviarvi da estraneo lontano luogo un soggetto conveniente.

Si associava al progetto il sig. avv. Bonacci nella veduta, eziando, di congiungere all’utilità finanziaria lo effetto morale di restituire l’armonia fra le famiglie, esacerbate dalla minaccia di un vicino litigio, su di che potrebbero prescriversi delle norme nelle leggi municipali e stabilirsi il capo del Municipio l’esecutore.

Ma il signor Presidente sussumeva che nel nuovo ordinamento dei municipi avranno i gonfalonieri, o priori, abbastanza d’impegni e di cura da non poter discendere a quell’ufficio addizionale che può occupar grandemente; esser inoltre necessario per trattare con efficacia conciliazione il possedere almeno alcuni elementi cardinali di giurisprudenza desiderati come spesso nei magistrati comunali che non hanno dato migliori esempi di criterio legale nell’esercizio di una giudicatura economica per le piccole somme. A rimuovere l’inconveniente della coazione e far godere ai richiedenti lo spontaneo possibile frutto di una pace conclusa, il sig. avv. Ciofi progetterebbe l’istituzione dei conciliatori con libero arbitrio ai privati di adirlo o no, prima di cimentarsi in una lite, siccome è costume nei domini napoletani. Così i poveri o meno agiati, che mal cercherebbero chi si prestasse gratuito e non obbligato a tentar di comporre le loro questioni, avrebbero nella benefica concessione del Governo un provvido mezzo a sfuggir i pericoli di dispendio e il disgusto di una dubbia lotta giudiziale. Sottoposto quindi il quesito nei suoi precisi termini ai suffragi per levata e seduta si ottennero dieci voti per l’affermativa a fronte di sei contrari.

Succede alla disanima e soluzione il terzo quesito: “se nei giudizi civili debba ammettersi o no un terzo grado di giurisdizione”

Il sig. avv. Giuliani aprendo la discussione compendia i motivi addotti da taluni (…) per ritenere utile un solo grado di giurisdizione, i quali motivi riduconsi ad un dilemma: o dovrebbero i litiganti acquietarsi al giudizio del primo collegio de’ giudici, se questi ispirano fiducia di aver basata la loro sentenza su di un criterio di verità o, se d’uopo a ricorrere in revisione a consesso più venerando per maggioranza di numero e di sapere, meglio è rivolgersi a questo sull’ingresso della lite, a discapito per tempo e per spesa. Contro un simile dilemma insorge l’opinante, allegando la difficoltà gravissima di costituire areopaghi così distinti, ricche di supreme numerose capacità acquistate poi con larghissimi onorari per renderle inaccessibili ad ogni seduzione d’interesse. Di tribunali cotanto splendidi appena tre crearsene potrebbero nei tre grandi ripartimenti dello Stato. Ma tre soli, due di questi nei confini estremi dei domini pontifici soddisfar potrebbero al bisogno di una rapida

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retta e possibilmente economica amministrazione di giustizia? Le enormi distanze massime dai luoghi montuosi al centro, e residenza dell’unica magistratura sarebbero causa di fatale ritardo al termine dei giudizi per le necessarie dilazioni a raccogliere mezzi di prova, od ad eseguire le inquisizioni e le difese. Il ritardo si aumenterebbe per l’immensità delle cause proposte alla decisione del grave consesso che, sebben numeroso (...), occupandosi in tutte, partir non potrebbe tempo e fatica o, dividendosi in turni, cesserebbe di essere quel collegio imponente anche per numero da guadagnarsi la morale persuasione di quasi infallibilità di giudizio.

E la presunzione di questa infallibilità sarebbe compromessa in contrario dal modo precipitoso con che di necessità proceder dovrebbe per l’affluenza perenne di tanta disputa indispensabilmente appellata da informe ed inetta sentenza. L’economia dello Stato sarebbe alterata dai trasporti de’ rei ed indennità ai testimoni nei criminali giudizi, dalla più lunga dimora dei primi nei luoghi di detenzione: l’economia dei privati dai disagiati dispendiosi viaggi ed assenze con abbandono e sagrifizio degli interessi familiari, dell’aumento delle spese di (…) bene spesi nell’interesse della città, se di ogni specie portarsi dovessero alla delibera dell’amplissimo uditorio.

Né tutto ancora. La venerazione all’autorità dei decidenti si otterrebbe forse quando o l’unanimità o una maggioranza che vi si approssima facesse fede del reso giudizio, non già se, come di frequente accade, un solo voto supera la metà dei dispensiati poiché allora, paralizzata la forza dagli opposti numeri uguali, riferiti a giureconsulti di reputazione indistinta, non è un collegio, ma un giudice singolare che decide a danno del soccombente e soverchia e contraddice efficacemente il parere di molti. Non è il voto collettivo ma quello di ognuno che si rispetta dalle parti perché sono gli individui, e non il corpo in astratto, che ha fame di verità e di dottrina siccome avvertono il (…).

Ritenuto pertanto che l’unanimità costituisca la morale certezza della rettitudine del giudicato, la parità, il dubbio, la maggioranza, una probabilità più o meno grave in ragione diretta della sua estensione, viene a rimarcare alcuni inconvenienti derivanti anche dal costituire due gradi di giurisdizione avanti di esporre un suo progetto tendente a rimuovere o diminuire, per quanto la combinazione delle cose umane vi si presta, tutti i possibili disordini.

Il far precedere al secondo grado inappellabile la discussione della causa avanti a un primo tribunale inferiore incaricato dell’istruzione del processo e di emettere la sentenza è lo stesso che accordare un grado solo di giurisdizione. Imperocché, tranne la materiale fabbricazione degli atti, nulla di reale e di valido si eseguisce dai primi giudici quando la conferma o la revoca del loro giudicato in appello diviene una cosa di pari efficacia per togliere il benefizio della revisione. I

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patrocinatori non hanno interesse di sviluppare la difesa in prima istanza e come una fatale esperienza ha provato, sotto il Regime italico, che diede vita ad una tal sistema, quasi sempre i documenti di maggior rilievo si esibiranno avanti il tribunale superiore per carpire quasi (...) un’istantanea vittoria. Non vi sarebbe il savio inconveniente che il progettato divieto di produzione delle prove in appello pria dell’opinamento. Lasciato correre anche questo, in via di formalità, senza preventiva difesa di esibita di documenti, né giudici superiori affezionati si sarebbero all’esternato parere creato sopra uno scheletro di immaturo processo, né la parte pregiudicata temer dovrebbe perciò l’irremovibilità di una sinistra impressione per (...) dall’incominciar dopo i dubbi il (...) conflitto giudiziale.

Al proposito dell’accantonata inefficace provvidenza, allegava l’esempio del ferreo austriaco sistema nel vietare in appello la produzione di documenti non esibiti in primo grado se non giustificavasi l’ammissione non avvenuta per dolo o colpa, prova negativa, impossibile bene spesso nel dal qual difetto si deplorano mali maggiori dei sopra considerati.

Ora il progetto riparatore dei sindacati disordini consisterebbe nell’ordinare un tribunale di primo grado con un numero pari di giudici, altro di appello, di numero similmente pari ma superiore in quantità di individui. La sentenza resa ad unanimità in primo grado si dichiarasse inappellabile nel caso di parità di giudizi per l’ammissione o reiezione dell’istanza, avesse luogo la dichiarazione delle diverse opinioni di magistrati per farne soggetto di reclamo al tribunale superiore in grado di appello, come appellabile fosse la sentenza emanata a maggioranza dei voti. L’unanimità nel tribunale superiore, sia per la conferma, sia per la revoca, costituisse la cosa giudicata, la parità sulle due opinioni di primo grado, o la maggioranza, per la revoca, dessero luogo al terzo esperimento avanti un tribunale supremo composto di maggior quantità di magistrati ma in numero dispari, per definire colla maggioranza la disputa a favore di un parte. La legge non sospetterebbe della fallibilità dei primi giudici, quando per l’unanimità è tolto di mezzo il dissenso, solo titolo di dubbio sulla rettitudine del giudicato, e si estinguerebbero in questo caso con una sola sentenza inappellabile le diciture discordie fra i cittadini, e le cause di rovina economica delle famiglie. Questa unanimità sarebbe immancabile nelle liti meramente pecuniarie, o altre affidate ad uno scritto incontrovertibile, ed in quelle evidentemente calunniose o definite da una massima assentata e pacifica, tal che non vedrebbesi un fraudolento debitore o un ricco prepotente stancare per mala fede o capriccio, col dispendio di due giudizi, il suo avversario assistito da inconcusso diritto.

La somma collettiva di più voti, nei diversi stadi d’arringo giudiziario, rarissimamente tornerebbe inferiore a chi vinca, se si riguardi all’unanimità che (...) il progresso della lite, alla parità che equilibra i voti in ambo le parti, ed all’estremo

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sbilancio a pro della vincitrice. Da ultimo, i difensori avrebbero il massimo interesse di esaminare in prima istanza tutti i mezzi di prova e di difesa per tentare una vittoria irretrattabile o il conseguimento di una sentenza che faccia strada alla cosa giudicata.

Prende la parola il sig. avv. Sturbinetti e per l’esclusiva di un sol grado di giurisdizione rammenta come questo sistema fu unicamente salutare quando, nella severa semplicità de’ costumi, gli antichi romani piegavano riverenti il capo al supremo inappellabile giudizio di un venerando Pretore, allorché per i costumi ingentilendosi, si corruppero ancora, forse la necessità di un terzo giudizio fra due primi difformi, e questo metodo sanzionato dall’autorità di più secoli ha documentato l’utilità di conservarlo. L’inappellabilità da un primo grado per l’unanime voto dei giudici può essere causa di indebita condanna od esclusione, perché un documento non sufficiente ad (...) la restituzione in intiero, potrebbe ben esserlo a far declinare quei giudicanti dalla pronunziata decisione, e discendere ad un opposta (...); talvolta, un prevalente tra loro, o per facondia o per dottrina, produr potrebbe lo effetto della unanimità che nella libertà dei singoli voti non fosse risultata. Opina pertanto di mantenere i tre gradi di giurisdizione e per distruggere il temuto disordine della minorità vincente contro la collettiva maggioranza dei suffragi, verificata nel cumulo dei gradi, proporrebbe di adottare il numero paro dei giudici in ciascuno dei tre tribunali, ma coll’ intervento di un relatore che rendesse soltanto il voto nel caso di verificata parità di giudizio.

Ai riflessi dei due preopinanti il sig. Presidente opponeva il contrario parere che la Sezione legale della già Consulta di Stato esponeva il suo rapporto, del quale si è data lettura, e riepilogandone le principali ragioni, osservava essere lo impianto di tre magistrature, l’una correttiva della sentenza dell’altra, una manifestazione di diffidenza su di ciascuna, per parte del potere esecutivo costituente, onde non potrebbe esigersi che i cittadini riponessero all’opposto in quella la loro fiducia per farle decidere della libertà, della vita, delle sostanze. Che, se un tal principio condurrebbe all’unicità del grado di giurisdizione, due ragioni consigliano d’instituire tribunali inferiori e supplementari oltre i veri grandi tribunali, ma per la impossibilità di stabilire in ogni cantone dello Stato un magnifico consesso di giudici in numero di ventuno perlomeno, l’altra avere gli istruttori del processo, onde i tribunali di merito non giudichino con idee preconcepite durante la formazione di quello e non siano occupati da un criterio men retto difficile ad abbandonarsi a processo compiuto. Dovrebbe tuttavia ingiungersi a codesti magistrati inferiori, impropriamente chiamati tribunali, di emanare una sentenza che, sebbene di niun conto, servirebbe per obbligarli a costruire regolarmente la procedura della quale renderebbero così ragione. Ma la sentenza piena, ragionata e definitiva sarebbe quella del

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secondo grado e così eviterebbesi il pericolo che nei tre gradi la maggioranza soccombesse alla minorità.

L’avv. Sturbinetti sussume confutando i motivi della Consulta. La fiducia del Governo e dei contendenti è in tutti e tre i gradi di giurisdizione. La revisione che si accora dopo il primo grado non tende a distrarre la fiducia ma ad accrescerla con una conferma, ed ove non si ottenga, a procurare tra due disparati un terzo criterio di verità che ad uno dei due si avvicini, ed induca nella fallibilità degli umani giudizi una morale certezza di amministrata giustizia. L’inconveniente del maggior numero dei giudici dal lato di chi perde è più facile è più forte nel sistema dei due gradi ed un inconveniente inevitabile non legittima la falsità di un principio. Infine, l’obbligo ingiunto al tribunale inferiore di pronunziare un giudizio per meglio creare il processo, non obbliga la probabilità di raggiungere lo scopo, perché la sicurezza che quello riesca sterile, monco, e che la sentenza non nasce dal calore del contraddittorio o della difesa delle parti, e perciò deve necessariamente rigettarsi, non impegna l’amor proprio e la coscienza de’ giudici ad un accurato lavoro e forse, ridotto a quasi mera formalità, va a divenire l’opera privativa di un meccanico cancelliere.

Appoggiando monsignor Ruffini la conclusione del sig. Sturbinetti, aggiungeva che quando una prima sentenza è revocata da una seconda, la sentenza più non esiste, perché una collide la forza dell’altra. Dunque, un terzo grado è necessario perché la lite sia terminata con una sentenza vivente ed irretrattabile. I motivi che persuadevano la Consulta di Stato ad ammettere due gradi di giurisdizione e non uno solo, sono resi inefficaci, anzi fatali, dal modo d’impianto del primo grado. Se ricononoscevasi la necessità di istituire un tribunale in ogni cantone dello Stato, perché il solenne areopago di 21 membri almeno non sarebbesi potuto ordinare che in due o tre punti al più dello Stato medesimo, dovea conoscersi ancora l’altra necessità di procedere con quei tribunali di cantone ai bisogni delle popolazioni soggette, ed impedire possibilmente i mali rappresentati dal collega sig. Giuliani nell’esistenza di un grado solo di giurisdizione. Ma un tribunale che appena può dirsi un giudice processante, che rende una sentenza inutile da non persuadere del buon diritto né il vincitore né il soccombente, sentenza che inevitabilmente si appella a quel tribunale superiore, ove si traducono le difese e le prove, allontanerà i danni dall’economia privata e pubblica e dal ritardo della giustizia? L’istruzione poi del processo, come è che preoccupa la mente dei primi magistrati da alterarne la rettitudine del giudizio se delle prove scritte prendono cognizione soltanto quando la causa è proposta a discutersi, e le orali preventivamente conosce il solo giudice delegato a ricevere le disposizioni dei testimoni? Come questa cognizione preventiva della fede testimoniale è nociva ai primi giudici e non ai secondi

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che per mera richiesta o per l’ingiusto rifiuto in primo grado propone ordinare ed eseguire l’esame istesso? Dunque o il pregiudizio è comune o mai si verifica. Concorre il sig. avv. Pagani a sostenere l’utilità dei tre gradi. Non è vero, egli dice, che la prima sentenza non riscuote la fiducia del potere esecutivo e dei litiganti, mentre talvolta è dichiarata la migliore dal terzo grado che la conferma, revocando la revoca dal secondo, e talaltra si fa inappellabile coll’accettazione del perditore. La mostruosità della maggioranza collettiva dei voti per la parte del soccombente emerge più della forza di una materiale aritmetica che dall’energia di un argomento morale e filosofico. Il calcolo graduale del maggior credito accordato alla sentenza del superiore consesso e massimo a quella del supremo dipende dalla presunta dottrina, crescente secondo l’altezza del magistrato, e non della somma confusa o mista dei voti dal primo all’ultimo tribunale. Alla ragione unisce la pratica, che ammaestrò la Curia ed i privati contendenti durante la legislazione francese in Italia essere i due soli gradi di giurisdizione fonte perenne di pregiudizio all’interesse dello Stato, e de cittadini sotto ogni rapporto di bene materiale civile e politico.

Disconviene monsignor Pentini che la fiducia nei giudici dipenda dal grado più o meno elevato a cui appartengono. Ogni magistrato eletto dal Governo presumesi, ed esser dovrebbe, fornito di un patrimonio di integrità e di sapere uguale a qualunque altro superiore, perché pari è il mandato santissimo di rendere a ciascuno suo diritto in ciò che riguarda la fortuna, l’esistenza civile, la libertà, la vita dall’ultimo al primo dei cittadini.

Il supremo governo deve possibilmente curare che la prima sentenza abbia tal peso, e tal rispett (…) sull’animo de contraddittori da riportare la reciproca acquiescenza per estinguere ogni germe di lite, e l’appello divenga un benefizio, non una lagrimevole necessità. Quindi loda il progetto del sig. avv. Giuliani di ritenere inappellabile la sentenza ad unanimità pronunziata e doversi dar luogo alla revisione nella maggioranza dè suffragi, escludendo col numero dispari dei giudici il caso di parità che non includerebbe sentenze.

Così, senza il concentramento di enorme quantità di giureconsulti giudicanti in un punto solo, ove prestando opera contemporanea su tutta la disputa non potrebbero con retta sollecitudine definirne l’esorbitante moltitudine, sarebbe a proporsi che si dividano in discreto numero e non gravi distanze, onde ottener che il comodo dell’istituzione dei tribunali sia sparso in più luoghi, e lungi dal divenire un privilegio di poche fortunate città distribuito cons(...) serva al suo vero fine di prestamente restituire a chi si debba il possesso delle reali e personali proprietà o di vendicare l’offesa coll’edificante prontezza della pena irrogata.

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Monsigor Morchini, all’opposto, è fermo nell’opinione dell’utilità di due soli gradi per le ragioni già esposte dalla Consulta di Stato e che egli pure manifestato aveva quando fece parte della Commissione legislativa. Uno è il principio. Il secondo grado, pel numero e qualità dei magistrati che devono comporlo, costituisce la presunzione di infallibilità di giudizio da non doversi indebolire colla diffidenza e discredito dell’appello. Il primo grado prepara e digerisce la materia di discussione affinché vergine e completo possa esser il giudizio del magistrato di merito. La Francia, ad onta delle frequenti sue crisi politiche e delle continue riforme amministrative e giudiziarie, ha sempre ritenuto inalterabile il sistema dei due gradi di giurisdizione, e l’hanno seguita gli Stati italiani di Napoli e di Toscana, ai quali i nostri interessi raccomandano di uniformarci.

Dal sistema allegato ripete l’avv. Sturbinetti l’incertezza della francese giurisprudenza, perché appunto il difetto di una grado supremo, che ne fissi le basi principali a norma delle inferiori giudicature, fa ondeggiare l’arbitrio delle opinioni e provoca le continue declaratorie del Ministero, che costituendo volumi di nuova legislazione, contraddicono la preesistente, ed accrescono la difficoltà dell’applicazione ai casi speciali. Laddove poi una ragione irresistibile non persuada l’imitazione dell’esempio altrui, saranno troppe inconseguenti e degeneri dai nostri maggiori se mentre essi (...) le leggi le resero modello e norma di tutto il mondo, noi copiar volessimo dallo straniero perfino il disordine, che tale sarebbe almeno per noi, per il nostro costume, e condizione sociale, il difetto di un terzo grado. Napoli e la Toscana conservarono il sistema che il Regno d’Italia aveva introdotto e non è certo ancora se intendono persistere in quelle o aspettano da altri l’esempio di una riforma che le consigli a cambiarlo.

Adduceva il sig. marchese Potenziani la personale esperienza e le dichiarazioni dai nazionali francesi sull’inconveniente di due soli gradi di giurisdizione, poiché riconoscendosi da tutti l’inutilità del primo grado, non s’insista nelle spese e nel favore della vittoria, ma pel solo interesse della sollecitudine si chieda con indifferenza la propria condanna.

Sussumeva monsignor Morchini che i tre gradi di giurisdizione non sono causa di uniformità di giurisprudenza ed il solo rispetto pel supremo ordine della Rota ha spesso e non sempre piegato le menti dei tribunali inferiori a venerar le sue massime. Il solo tribunale della Cassazione, vindice e custode della legge, richiama ed obbliga all’informità dei principi.

Contraddicevano il sig. avvocato Sturbinetti la regola insinuata dalla lodata eminenza sua replicando che sulla manifesta violazione di una legge chiara e precisa, la Cassazione interloquisce, ed in questo caso non vi è e non vi può essere ondeggiamento di teorie, ma solo falsità di applicazione. Il vizio risiede nelle materie opinabili, nelle quali, appunto, pel difetto

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di metodo, di divider la Rota in due turni, si verifica il continuo conflitto di decisioni diverse sull’identico articolo. Dato un sol tribunale supremo di terzo grado che definisca in unico consesso e con una sentenza inappellabile la controversia, i tribunali inferiori necessariamente professeranno la giurisprudenza medesima nella sicurezza che deviandone la loro sentenza all’ultimo grado sarà revocata.

Ed in sussidio di simile ragionamento monsignor Ruffini rilevava infine che un errore di fatto in appello, non potendosi emendare dalla Cassazione, marcherebbe d’enorme ingiustizia un giudicato senza mezzo di riparazione se il terzo grado non soccorresse con salutare verifica.

Interpellati i sig. uditori ad emettere sulla tesi il loro parere, è forte il sig. Alibrandi ed ha riflettuto che la legge non accorda maggior fiducia di presunta infallibilità al secondo o terzo grado ma a due gradi che vengono nel medesimo giudizio e faccian nascere due sentenze conformi; ond’ è che se la causa giudicata o meno dal primo e secondo grado a questi dà l’impronta d’infallibilità col denegare l’appello, e se emerga dal terzo, la concede a quest’ultimo ed al grado di cui si conferma il giudizio. Senza l’efficacia adunque della prima sentenza non può mancare la cosa giudicata in secondo grado e nella difformità delle due sentenze la cosa giudicata può senza il benefizio del terzo grado.

Riflettendosi dai congregati che quando si adottasse il sistema del terzo grado di giurisdizioni sarebbe miglior partito di non proporre innovazioni circa il numero dei giudici e il diritto di appello, si è subordinata alla votazione il quesito nei termini della interpellazione ministeriale con avvertenza che chi si alza ammette i due gradi, chi rimane seduto conviene nel terzo grado. Quattro si levarono, dodici restarono al posto. Per dubbio di accorso equivoco si è ordinata la controprova. Chi si alza ammette il terzo grado, chi si siede lo nega.

Dodici si alzarono quattro non si mossero e la proposta per la conservazione del terzo grado fu vinta a pluralità.

Essendo l’ora avanzata si è disciolta la seduta, nella prossima adunanza si proseguirà al discussione sui rimanenti quesiti. Il verbale viene sottoscritto dal sig. Presidente e dal Segretario generale.

Adunanza del 25 luglio 1848 presieduta dal S.C. il Sig. De Rossi Ministro di grazia e giustizia

Consiglieri intervenuti: Avvocato Filippo Bonacci, Avv. Giuseppe Piacentini, Prof. Francesco Orioli, Prof. Salvatore Betti, Avv. Luigi Ciofi, Prof. Pietro Carpi, Avv. Luigi Santucci, (Marchese) Ludovico Potenziani, Monsignor Ildebrando Rufini, Avv. Pietro Pagani, Monsignor Giovanni Battista Palma.

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Monsignor, Carlo Luigi Morchini, Avv. Giuseppe Giuliani, Monsignor, Francesco Pentini.

Letto ed approvato il verbale precedente ed aperta la seduta il sig. Presidente ha ordinato la prosecuzione della disanima dei quesiti proposti dal Consiglio dei Ministri per base di un sistema organico giudiziario.

Per ordine progressivo si offre il quarto quesito “se debba o no erigersi un tribunale supremo di Cassazione, ed in caso affermativo con quali norme e con quali attribuzioni”.

Sarebbe di parere monsignor Ruffini che il quesito si limitasse ora alla prima parte in termini così espressi, se debba o no erigersi un tribunale supremo di Cassazione nelle cause civili e criminali, e riservare la seconda allorché trattasi della redazione del Codice di procedura.

L’avv. Giuliani opina per altro che le attribuzioni, le quali definiscono il tribunale da erigersi debbono ora individuarsi.

Monsignor Presidente crede esattamente comprese le attribuzioni di quel tribunale nelle brevi parole “vindice e custode supremo della legge”.

Riflette però il sig. avvocato Piacentini che queste stesse attribuzioni di vendicare e custodire la legge si sarebbero dovute (...) latitudine dichiarare in atto nel caso di due gradi di giurisdizione di quello esser deve nel sistema di tre gradi.

Per il che l’avv. Pagani crede ristringerle alla facoltà di giudicare sui ricorsi per manifesta violazione di legge o di ordine giudiziario. Propone inoltre d’istituire un grande tribunale supremo diviso in due sezioni l’una per rivedere la causa in merito, l’altra per cassare le sentenze affette da vizi come sopra, di giustizia o di nullità.

Ma obbietta Monsignor Pentini sulla proposta che, per quanto il tribunale si dividesse in sezioni, sarebbe sempre quell’unico in cui resterebbero compenetrati appello e cassazione. Rasenta dunque miglior partito il non discender oggi alla norma di impianto del tribunale suddetto, dovendo questa più o meno (…) ordinarsi giusta il concetto del nuovo sistema giudiziario.

Alla quale opinione aderendo, monsignor Morchini ritiene doversi mantenere strettamente il confine del quesito, e regolare secondo il medesimo la secca risposta o affermativa o negativa, rimettendo nel primo caso a tempo opportuno il decidere sul modo.

In sequela dei premessi rilievi il sig. Presidente formula la seguente proposta:

“Deve o no erigersi un Tribunale Supremo di Cassazione nei giudizi civili e criminali limitato solo a conoscere dei ricorsi per manifesta violazione di legge di merito o di ordine giudiziario?”

Fatto esperimento dei voti per alzata e seduta si ottenne l’unanimità affermativa.

Si dirige la discussione al quinto quesito.

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“Se debba o no stabilirsi il Ministero pubblico, ed in caso affermativo in quali tribunali.”

Prende la parola monsignor Morchini, ed in via obiettiva alimenta la discussione con questi riflessi. Non si conosce il perché riscuoter debba il Ministero più fiducia dei giudici, che sono scelti dal supremo Governo e che credersi fra i migliori giureconsulti eminenti per dottrina e probità. Il popolo lo vuole, perché mai l’ebbe, ed inclina a vagheggiar cose nuove. Ma deve guardarsi alla convenienza e all’economia. Questa fiducia superiore degrada la nobiltà dell’ufficio de Magistrati sottoposti ad una sorveglianza. Il duplicare gli impiegati è un dispendio, e per l’aumento del numero si accresce la difficoltà di rinvenirli quali esser dovrebbero.

Il piano è bello in astratto ma ha nella pratica le spine di quello sui giudici conciliatori.

Risponde il sig. avv. Pagani che il potere giudiziario si esercita sui beni, sull’onore, sulla vita dei cittadini, e reclama la maggiore indipendenza, deve perciò sorvegliarsi per impedire il possibile abuso. Sotto il Governo italico, nel discutere dell’ammissione dei Codici, si opponeva il danno di economia, rifletteva S. E. monsignor Morchini. A moderare l’importanza si propose di attivare il Ministero nei soli tribunali d’Appello, con l’obbligo di sopraintendere eziando ai tribunali subalterni (...) il sussidio de fiscali e di presidenti. Le attribuzioni del Ministero consistevano nell’esercizio della polizia giudiziaria, in emettere (...) condoni alle cause de municipi, dello Stato e di persone privilegiate. Nel dirigere le criminali procedure compilata nella camera di istruzione, col risparmio così dei fiscali anche in cause riguardanti il regio demanio.

Notava monsignor Morchini il risparmio de’ fiscali (che essendo causidici del luogo si adattano a tenue mensile assegno) corrispondente a quello amplissimo da darsi al pubblico Ministero, il qual poi riduce la sua polizia a sorvegliare la periodica e regolare esecuzione delle udienze.

Essendo per altro i giudici inamovibili, riconosce il sig. Orioli, grande necessità al contrario di (...) sulla loro condotta ufficiale, onde non degeneri in qualche abuso; e questo è debito del Ministero che per essere amovibile offre una maggior guarentigia sull’adempimento imparziale dei sui incombenti.

Procede poi innanzi il sig. Bonacci, e ritenuto l’impianto del tribunale di Cassazione, riconosce nel Ministero l’obbligo di intendere all’esatta uniformità della giurisprudenza da professarsi nel foro, perché se le parti si acquietano, o per ignoranza o per interesse, all’applicazione di non ricevuta dottrina, egli reclama al supremo ordine l’osservanza dei retti principi.

Aggiunge l’avvocato Pagani che nel contrasto de’ poteri, il Ministero bilancia l’estensione e riconduce ciascuno ai suoi giusti confini. E’ quanto all’economia monsignor Ruffini rinviene

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il compenso nel risparmio di due funzionari, fiscale ed assessore camerale, uffici da concentrarsi nel Ministero.

Ritenuto quindi che in ogni tribunale collegiale convenga istituire la carica in discussione, proponesi: “deve o no stabilirsi il Ministero pubblico nei tribunali collegiali?”. Dichiarata l’affermativa nell’alzata, nella seduta la negativa, si ebbe l’unanimità della prima.

Segue il sesto quesito: “se nei giudizi criminali debba ammettersi o no una Camera d’accusa”.

Il sig. avv. Giuliani, ripete l’evidenza della utilità dagli attuali continui lamenti contro il pericoloso arbitrio di un processante nella cui può stare la sorte o buona o rea dell’inquisito. Per tal verità di pratica assicura essersi inclusa l’istituzione della predetta Camera nel progetto di criminal procedura redatto per antico incarico e commesso alla stampa.

Senza ulterior discussione, sottoposto ai voti il quesito, la risposta affermativa fu interamente concorde.

Si progredisce all’esame del settimo quesito: “Se l’uso dei giurati deve ammettersi nei soli delitti per contravvenzioni alle leggi intorno alla libertà di stampa.”

Il sig. Orioli rende ragione della storia contemporanea di estere Nazioni di che fu testimonio per sei anni. Egli crede, per erroneità di coscienza, per ignoranza, e bene spesso per l’impeto di sregolate posizioni, commettere quei giudici popolari le più solenni ingiustizie. Colla identità delle prove sull’istesso titolo di accusa condannasi l’uno o assolversi l’altro. D’ordinario non si sceglieranno le probità, ma le fortune, che servirono a mille interessi indiretti. La Grecia non ha introdotto nelle sue leggi l’uso dei giurati perché diffidava dai loro giudizi, e ricusò l’inamovibilità de giudici, perché dubitava della loro virtù e volle imporgli un freno col pericolo della rimozione. Conchiude perciò doversi adottare i giurati nella cognizione dei soli delitti contro le leggi sulla stampa.

All’obbietto di monsignor Morchini, che se i giurati sono utili per quella specie di delitti, non vi è ragione perché non debbono esserlo per tutti gli altri, risponde il prof. Betti che quanto alla prima ha luogo l’intimidazione, e sull’indagine del fatto non occorre criterio di censura, perché il corpo di preteso delitto racchiude in se la prova portante per ammetterlo o per escluderlo.

Il sig. avv. Giuliani, progredendo nella confutazione dello stesso obbietto, rileva la difficoltà suprema di estimare la prova negli altri delitti. Distingue con Romagnosi tra il giudizio sul merito delle persone e l’altro sui fatti. Il primo dipende dalla pubblica opinione che è facile a raccogliersi, il secondo richiede una critica logica legale sull’entità della prove, che varia per variar di circostanza, di luogo, di tempo, di qualità dei deponenti. Talvolta un sol testimonio supera il valore di (...), la sfera della congettura è lata, complicatissima, quanto lo sono le presunzioni che ne derivano: lo scevrare il fatto dal diritto è

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cosa ardua e non di rado quasi impossibile. Viceversa nei delitti sulla stampa; la stampa stessa costruisce l’ingenere, e determina quasi sempre la persona imputata. È solo a risolvere se è violata la legge restrittiva della libertà, ed il solo buon senso formula il criterio di decidere. Nelle altre specie di delitti mai si combinano così semplici estremi.

Sebbene non dalla odierna indole assoluta, osserva monsignor Morchini aver gli antichi romani mantenuto per secoli il costume dei giurati, ed averne riportato sommi vantaggi. La Francia e più che mai l’Inghilterra ne riconosce l’utilità, ed è una prova il conservarli. La cautela per evitare i proclamati disordini consiste, al dir di Romagnosi, nello scegliere i giurati tra le classi migliori dei cittadini, non indistintamente e comunque dalla massa del popolo. I vantaggi poi sono l’azione al reo di escludere una parte dei giurati proposti a giudicarli, benefizio non conceduto avanti i tribunali: la brevità dei giudizi, onde sul reo condannato diviene esemplare la pena per l’innocente meno grave l’inquisizione. In Francia l’estremo termine è di un semestre, quando forse fra noi è il più discreto.

Il sig. Orioli non attribuisce la brevità al merito de giurati, perché l’ordinatoria degli atti è commessa ad ufficiali stipendiati e permanenti, e dipende anche dal sistema semplice e spedito di procedura. E così non vi sono giurati e la rapidità dei giudizi è mirabile.

Anche il sig. avvocato Pagani è di avviso di circoscrivere la giurisdizione dei giurati sui delitti per contravvenzione alle leggi riguardanti la libertà della stampa, perché il fatto su cui cade l’accusa è sempre certo ed è a giudicare dell’influenza buona o rea di quel fatto sulla pubblica opinione. Circa gli altri delitti, un quadro doloroso di avvenimenti offrono le Romagne da persuadere il prudente partito di escludere i giudici popolari. L’impunità dei delitti è all’ordine del giorno, in quanto che grave e ragionato timore di rendersi vittima per l’(...) alla verità trattiene i testimoni dal far fede di quel che videro e, nel caso di prove, un timore più forte ritrarrebbe il giurato dal dichiarare l’imputabilità del prevenuto che per se stesso e de suoi complici saria per mantenere facilmente la segreta promessa di un incomodo (...). Il magistrato ordinario ha tanto maggiori garanzie per la sua personale sicurezza in quanto che libero dai minuti contatti del popolo può menare una vita riservata e porsi in una circospezione la quale è impossibile al commerciante o artista che dal tribunale ove segnò la sentenza fatale all’inquisito è costretto discendere alle piazze, ai (...), alle officine, ove incalza la plebe chiamata dai vari interessi di pubblica negoziazione.

Monsignor Pentini allega anche per la stessa esclusiva l’immaturità della popolare istruzione negli affari amministrativi e legali, mentre in altri Stati ogni classe di cittadini è resa familiare nei pubblici affari. Convenendo poi nell’ammissione dei

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giurati pei delitti di stampa, crederebbe anche di poter estendere il loro giudizio di fatto in quella parte di delitti politici che si oppone alla giusta opinione pubblica. Il sig. avv. Santucci aggiungeva i delitti per contravvenzioni ai Regolamenti fiscali, che pure involvono la conoscenza di un fatto semplice e di una legge adottata all’intelligenza popolare.

Opponeva monsignor Ruffini che queste contravvenzioni costituiscono una materia meramente civile sul pagamento della pena ed emenda del danno, e perciò fuori di ogni competenza de’ giurati, giusta lo spirito della loro istituzione.

Il sig. avv. Giuliani rilevava di più, che quando la contravvenzione non è semplice, ma qualificata, dà luogo all’azione anche criminale ma include questioni inseparabili di diritto superiori alla capacità di quella classe di giudici, come a cagion di esempio avviene nella conventicola ed in altre specie ignote fors’anco di nome alla più parte del volgo.

Il medesimo inconveniente considera il sig. avv. Ciofi poter avvenire nei delitti politici, per la facile complicazione con altri comuni da non potersi superare nell’ordinatoria degli atti e nel giudizio da rendesi, onde conferma il sentimento degli altri suoi colleghi sulla necessità di limitare il giudizio de giudicati sulla violazione delle leggi concernenti la stampa senza impegnarsi ad esporre ragioni anche più gravi per escludere principalmente i delitti di Stato.

Mentre tuttavia il signore avv. Bonacci ed altri congregati entravano a discutere della materia politica, il sig. Presidente ha stimato bene, per la chiarezza delle risoluzioni, di dividere la proposta in tre parti della quali è la prima: “l’uso de giurati deve specialmente ammettersi per contravvenzioni alle leggi intorno alle stampe?”

Chi conviene si alzi, stia seduto chi disapprova. La levata di tutti ha importato la pienezza dei voti.

Discutendosi quindi distintamente sui delitti politici, il sig. Bonacci riafferma il suo ragionamento. La libertà della stampa è il fondamento della vita costituzionale, e forma la gelosa cura del popolo. Come dunque i giurati sono utili nelle criminali vertenze, per simil titolo, così sono ad esser lo danno in quelle per titolo politico, che è quasi sempre una sequela sulla contraddizione e resistenza ai divulgati principii. I giudici, stipendiati, ed eletti dal potere esecutivo, sono sospetti al popolo di rigore e di freno alla sua libertà, e quindi predilige i giudici gratuiti, scelti fra gli stessi cittadini non dipendenti per pubblico ufficio conferito dal supremo Governo. Non è a dirsi che quei si vogliono giurati tolti dalla massa popolare comunque ma giurati speciali per questa classe delicatissima i delitti desunti in piccolo numero da un’aletta di cittadini di fama superlativa e non contraddetta per onestà e per retto sentire, gratuiti però, e coll’ (…) del prevenuto fra i vari destinati.

Contraddice il sig. prof. Betti e rileva che per quanto si restringesse il numero dei giudici popolari, è così variabile

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l’opinione pubblica sul determinare quello fra delitto e quello non fra, come dell’intimidazione succede da non potere assicurarsi che nello stabilire uno anche il fatto criminoso soltanto si professino principi costanti e criteri di verità subordinati ad una legge generale di giustizia. Imperocchè non persuadersi che un’azione in genere sia delittuosa, non valuta il mero fatto nella sua realtà assoluta e naturale; viceversa chi pensa qualunque atto in una tal materia essere un alto crimine tutto combina, tutto addebita per coartarlo.

Si associa alla sentenza l’avv. Pagani e stringe perché il giudizio de’ giurati sia più che sugli altri delitti, sui politici, escluso. In mezzo a tante definizioni di partiti e di idee havvi chi tiene per buono quanto altri stima riprovevole. La stessa moralità dell’azione non è costata, e nell’opinione di onesto può essere occulto complice il correo, il connivente (...) a giudice del supposto reo (...).

La stessa Francia che vide legittimare per azioni virtuose i vili attentati degli assassini, fu costata di demandare al Consiglio dei pari la cognizione dei delitti di Stato.

Il prof. Orioli crede per questo temuto inconveniente potersi riparare colle scelte di persone amanti dell’ordine e delle quiete interna, qualunque siano i loro principi politici, e così giudicheranno sempre contro i perturbatori dell’ordine stesso. Per altro sta sempre fermo, per le esposte ragioni, nell’esclusiva dei giurati anche per danno grave che può derivare dall’inappellabilità del loro giudizio. Nella difficoltà di avere bene scelto il numero complessivo dei giurati nota l’avv. Giuliani l’altra più grave che da 50 individui, essendo diritto di escludere dodici soltanto, può il reo nel numero rimanente trovare un partigiano della sua opinione. Il procuratore del reo non ha il diritto della ricusa perentoria ma per causa, ossia rendendo ragione del suo rifiuto, e quando questa ragione non può giustificarsi, il rifiuto non è ammesso e il giudizio può essere inevitabilmente parziale.

Né rimarrebbe il pericolo delle rimarcate conseguenze fatali il circoscrivere ad angusto numero o tra i migliori desti giudici del popolo come propone il sig. Bonacci perché nel corso morale di una società le passioni agitano ad investono l’intera massa, né sapresti ove si nasconde una tranquilla mentalità da rendere un giudizio freddo ed indifferente come la legge che dessi eseguire. I giudici ordinari, non chiamati a giudicare quel popolo cui appartengono ma da luoghi diversi convenuti in paesi non proprio sotto la sorveglianza del Ministero e col freno di una grave responsabilità personale da non potersi sottrarre l’avvenimento dei stessi disordini possibili nei giurati.

Diluita la tesi, nel contrasto dei vari pareri, si è votata la seconda parte del quesito: “l’uso de’ giurati deve omettersi nei delitti politici?”

L’alzata include l’affermativa, la seduta la negativa.

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Undici seduti e tre levati importarono l’esclusione della proposta a pluralità.

Successe la parte terza divisa dalla precedente per il miglior pronunziamento dei voti: “l’uso de’ giurati deve o no ammettersi negli altri delitti”. Temuto l’istesso ordine di votazione la proposta fu rigettata con tredici voti contro uno.

Si tratta dell’ottavo quesito: “se l’uso dei giurati fosse limitato ai giudizi relativi a talune classe di delitti negli altri sarà preferibile il processo di prove legali ossia scritto o piuttosto il processo orale.”

L’avv. Giuliani ritiene come conseguenza irrevocabile dell’ammessa pubblicità dei giudizi l’adottare il sistema del processo orale.

Il pubblico grande interesse, ove si stratta dell’onore, della libertà, della vita di una cittadino. Nel processo orale trova l’originale del processo medesimo, nello scritto la copia. La fede dei testimoni è incerta quando è raccomandata all’arbitrio di un processante, è sicura quando è dichiarata alla presenza dei magistrati giudicanti e di una moltitudine spettatrice.

L’avv. Piacentini osserva che il processo orale non è conseguenza necessaria della pubblicità, perché il processo civile è pubblico oppure scritto e non se ne controverte l’utilità.

Contesta l’obbietto l’avv. Bonacci, negando la parità del confronto. Il processo civile ha, per esempio, la prova scritta quasi sempre, qual è il contratto, da cui parte l’azione. Le parti contendenti ed i rispettivi patrocinatori hanno libero accesso a conoscere la fabbricazione degli atti, a contraddire, a far la riprova in qualunque periodo antecedente il compimento di quelli. Nel criminale è tutta orale la prova, né la ripetizione di taluni testimoni, nel momento della seduta, ripara a tutti i danni e pericoli dello scritto processo.

Il quesito è sottoposto ai voti nella sua formula primitiva ed è risoluto affermativamente ad unanimità.

Il nono quesito è discusso: “Nei giudizi criminali dovrà ammettersi o no l’appellazione?”

Ammesso il processo orale dice il sig. Giuliani il criterio di verità si desume dall’attesa drammatica che offre l’aspetto del reo e dei testimoni. Questo effetto non si ottiene in appello se non si ripetono gli stessi mezzi di prove. Ma lo effetto della ripetizione può esser ancor più fallace del primo esperimento per il pericolo che i testimoni, dopo un intervallo, contraddicono per dimenticanza in buona fede il primo esame: il pallore del reo, la confusione dei stessi deponenti, ponno esser segni equivoci in ambo i confronti per dedurne il convincimento morale. L’umanità, d’altronde, reclama l’appellazione, per la possibilità di commesso errore. A conciliare le difficoltà opposte, miglior partito si è di concedere la revisione in merito coll’esame del processo scritto in seduta nella prima istanza, aggiunto tutto ciò che dall’orale discussione risulta.

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Monsignor Morchini riflette che non essendo la nuova proposta assicurata dall’efficienza, potrebbero insorgere delle difficoltà che ora non si conoscono e rendere malagevole l’esecuzione.

Contraddice la massima monsignor Ruffini come che ostativa al miglioramento di qualsiasi istruzione, mentre la novità manca sempre di esperienza e converrebbe così giurare sull’ottimismo dell’antico, perché provato. Ripudiando quindi il principio nemico del civile progresso, appoggia la proposizione del collega sig. Giuliani.

Valutate perciò dai congregati le ragioni di quella posposizione per non sottrarla ad una sperimento di voti si è prima votato il dubbio così concepito: “nei giudizi criminali deve o no ammettersi l’appellazione principalmente detta?”

Chi si alza nega, afferma chi sta seduto. Ad unanimità fu negata l’appellazione.

In sequela dell’esclusiva il sig. Bonacci ha fatto la seguente proposta: “esclusa nei giudizi criminali l’appellazione propriamente detta piace o no di accordare al condannato il beneficio della revisione in merito, giusta la proposta fattane dal consigliere sig. avv. Giuliani?”

La levata contiene il consenso, la seduta il rifiuto. La proposta è ammessa a pieni voti.

Si è infine esaminato il decimo quesito: “Se debbano o no conservarsi i tribunali eccezionali di privilegio?”

Crede monsignor Pentini che non possa conoscersi delle eccezioni se prima non si ha ben sott’occhio il progetto generale di sistema organico. Non ostante potrebbe in via di massima stabilirsi che esser non vi debbano tribunali di quella sorta, astenendosi dall’interloquire sul foro ecclesiastico, come che inibito dallo Statuto, e dispensare in seguito a limitar la regola ai casi che il sistema offrirà conveniente. La menzione di astenersi dal pronunziare in merito al foro ecclesiastico è indispensabile perché l’attuale esistenza di questo, ritenuto lo stato naturale di fatto, e non di diritto farebbe sì che in una generale negativa di tribunali eccezionali materialmente lo includerebbe.

Il sig. avv. Ciofi premette che il Consiglio di Stato non ha iniziativa, quindi interroga il sig. Presidente se il quesito estendesi ai tribunali ecclesiastici, e rispostosi dal sig. interpellato che nella generalità del quesito, è nella saviezza del Consiglio il giudicarne la comprensione o l’esclusiva.

Monsignor Morchini opina che non può discutersi dal Consiglio di Stato, quello non può dai Consigli deliberanti decidersi, e perciò il sig. Ministro Presidente non ha sulle cose vietate richiesto del parere il nostro consesso.

Stima tuttavia doversi citare l’articolo dello Statuto portante il divieto, perché la questione sulla materia ecclesiastica è stata introdotta, ed una preterizione saprebbe di tacita esclusiva.

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L’avv. Piacentini oppone esser una necessità di entrare a discutere del Foro ecclesiastico, posto che si abbia a compilare un organico ed una procedura generale sulla (...) del codice vigente che pure interloquisce in quella materia. Se le comuni vengono a questione con persone ecclesiastiche, non può evitarsi di stabilire presso qual tribunale abbiano i diritti di competenza della stessa persona, ora attrice ora convenuta.

Monsignor Palma, citando lo stesso articolo dello Statuto, che è il 36, ai numeri 1 2 3, difende il privilegio del Foro ecclesiastico, ossia del canone immune da ogni controversia provvidenza e proposta di legge per parte del corpo rappresentativo laico.

E quanto agli affari misti, nella contraddizione di laici ad ecclesiastici, monsignor Morchini avverte che lo Statuto vi provvede all’art. 37 coll’ interpellazione meramente consultiva dei Consigli, per poi prendersi della podestà suprema una misura deliberativa.

Dopo di che monsignor Ruffini progetta di discendere alla specie, ad incominciare dal risolvere se i tribunali di commercio abbiano o no a sussistere.

L’avv. Bonacci sta per la negativa, poiché il giureconsulto, giudice ordinario, è obbligato a conoscere l’universa giurisprudenza ad informarsi delle consuetudini che sanzionarono coll’uso qualche pratica passata in autorità di legge, d’ altronde il commerciante, digiuno degli elementi di diritto comune, conoscitore di qualche articolo di commercio ad (...) di tanti altri, riesce il peggior dei giudici che nella sua sentenza introduce una (...) arbitraria legislazione esorbitante dalla inconcesse massime generali.

L’avv. Pagani propone di eccettuare dalla giurisdizione dei tribunali ordinari il militare sia perché la procedura da tenersi e le pene da applicarsi denno avere un che di privativo, non comune agli altri, sia perché necessità che il tribunale, o si alzi negli accampamenti, o in stazioni, sempre però in dipendenza dal supremo comando per la indispensabilità della disciplina.

Oltre il militare pensa monsignor, Morchini essere eccettuabile il contenzioso amministrativo, perché il dare una forma spedita ed economica ai giudizi di tal natura torna al bene della cosa pubblica. La molteplicità degli atti e delle diverse specie formerebbe grave imbarazzo ai tribunali ed arresto e dispendio agli interessi amministrativi. Non è a dirsi però che nelle cose comuni l’erario pubblico fuggir dovesse dalla via ordinaria dei Tribunali, ma solo nelle cose speciali e distinte dall’azienda per le quali (...) un Codice proprio regolatore degli appalti e de contratti di utilità statistica sotto l’azione del Ministero, siccome si pratica in Francia ed in Inghilterra, tranne il Belgio, che già lamenta la sua riforma.

Il cav. Betti proporrebbe di ritenere che il Consiglio di Stato, legge e perciò non agente del governo, dichiarato

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opportuno dallo Stato a definire simili materie, dovesse essere il tribunale di eccezione.

Dubita l’avv. Ciofi che mal convenga il proporre se stesso, sebbene si tratti di sottomettersi spontaneamente ad un altro gravissimo peso; per il che si formula la proposta: “salvo il disposto dell’articolo 36 dello Statuto, si propone di escludere i tribunali eccezionali e di privilegio meno il (…) e quello che riguarda il contenzioso amministrativo.”

Il sig. avv. Piacentini protesta che il Consiglio di Stato ha la volontà abituale di discutere tutto quello che non è vietato dalla legge statutaria e per conseguenza non deve proporsi una limitazione che non si è in facoltà di disciplinare.

Propone pertanto di togliere quella riserva. E la proposta votata fu esclusa con undici seduti contro tre levati.

Sottoposta al partito, la proposta munita della riserva, e colla sola eccezione del tribunale militare per poi aggiungere l’altra del contenzioso amministrativo, ad unanimità fu approvata.

Votata la seconda eccezione, nove l’ammisero col levarsi, cinque la ricusarono collo star seduti, onde fu vinta a pluralità.

La seduta è stata sciolta, e (…) il verbale colla firma del presidente e del segretario generale.

Consiglio di Stato, seduta del 28 agosto 1848 presieduta dal sig. avv. Pietro Pagani

Consiglieri intervenuti: Avvocato Filippo Bonacci, Avv. Giuseppe Piacentini, Prof. Francesco Orioli, Prof. Salvatore Betti, Avv. Luigi Ciofi, Prof. Pietro Carpi, Avv. Luigi Santucci, (Marchese) Ludovico Potenziani, Monsignor Ildebrando Rufini, Avv. Pietro Pagani, Monsignor Giovanni Battista Palma. Monsignor, Carlo Luigi Morchini, Avv. Giuseppe Giuliani, Monsignor, Francesco Pentini.

La seduta è aperta colla lettura del progetto di Regolamento organico giudiziario redatto dal sig. avv. Piacentini per incarico avutone dalla sezione seconda, cui appartiene, e distribuito ai sig.ri consiglieri colle stampe.

E’ nata disputa all’art. 3, quale tribunale decider debba dell’appellabilità di una sentenza, se cade in controversia l’eccezione contemplata nell’istesso articolo.

L’avv. Piacentini trova conveniente di devolvere la decisione del dubbio al tribunale di revisione del merito, il quale preliminarmente si occupi dell’incidentale questione e, questa in modo irretrattabile risoluta, nel caso di conceduto appello, passi a discutere la causa principale.

Monsignor Piacentini incontra difficoltà in questo caso affermativo nell’autorizzare il tribunale di secondo grado a conoscere dell’appellabilità devolutiva, o sospensiva di una sentenza, per il che deve quello di necessità preoccupare il merito della causa, e sbilanciare alquanto innanzi tempo il

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giudizio, mentre nell’accordare il sospensivo viene ad ammettere implicitamente la giustizia della stessa sentenza appellata.

Supera l’obbietto il sig. Presidente col riflettere che la procedura distinguerà chiaramente i casi della competenza rispettiva dell’uno e l’altro appello, come a cagion d’esempio per il titolo scritto, che sia base non impugnata di una sentenza, concederà il solo sospensivo, e così il tribunale, chiamato a decidere dell’appellabilità e della specie dell’appello che compete, applicherà la legge alla natura del giudizio e non alla giustizia o ingiustizia del giudicato.

Penetrato il Consiglio della convenienza di affidare al tribunale di ulteriore istanza la risoluzione del dubbio sull’appellabilità controversa, rimette all’avv. estensore del progetto la relativa modificazione dell’articolo.

Passate senza contrasto alcune piccole ammende a vari articoli successivi, sull’art. 13 il sig. Piacentini propone una riforma col limitare ai soli congiunti l’obbligo di adire i giudici conciliatori per tentare la concordia avanti d’introdurre la lite, poiché l’obbligo, esteso a chiunque, esser potrebbe di grande dispendio di tempo e di economia, per le forti distanze de’ luoghi, se i contendenti fossero in ispecie di provincie diverse.

Oppone il sig. presidente la risoluzione presa già dal Consiglio in senso avverso alla limitazione proposta, e molto più lo scopo dell’adottato principio di procurare la diminuzione delle liti, e la possibile armonia fra i cittadini di qualunque famiglia e di qualsiasi paese, e se questo è un benefizio, come indubitatamente lo è, deve rendersi a tutti comune.

Monsignor Pentini, convenendo sulla utilità d’istituire giudici conciliatori, non ammette però che sia proficuo il costringere le parti ad adirli per qualunque sorta di disputa. Egli opina che il quesito proposto dal ministero non induca la necessità di tale estensione, e ritiene che la trafila da percorrersi nell’esperimento conciliativo sarebbe più lunga della via contenziosa, perché l’invitato a comporre la differenza, non negando in genere di volersi prestare, potrebbe divertire anche ad un mese la trattativa col pretesto dell’esibita di un documento.

Nega il sig. presidente la possibilità del supposto disordine, attesa la celerità della procedura nel tentativo della conciliazione, e l’esclusiva di ogni accezione, e di ogni prova. In un termine brevissimo l’attore chiama il reo dinanzi il giudice conciliatore. Se il reo comparisce, e dichiara la sua adesione alla concordia esibita dall’attore, si estende il verbale affermativo; se è contumace, o ricusa, si dà atto dell’esito contrario e si abilita il comparente a valersi delle sue ragioni in giudizio formale.

In seguito dell’enunciata discussione l’articolo è conservato per l’unanime volere dei congregati.

Il Prof. Betti non approva che i giudici municipali aver possano l’età di anni 25, ma vorrebbe che tutti i giudici

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indifferentemente dovessero aver compiuto l’età di 30, come quella che d’ordinario assicura della pacatezza e maturità del giudizio, requisito ben necessario in chiunque decida della fortuna (sia pur tenue) e della libertà individuale degli uomini.

Il suo parere è appoggiato da monsignor Pentini che riconosce maggior necessità del requisito stesso in quei giudici singolari, isolati da qualunque corrispondenza con persone sagge ed illuminate da poter consultare al bisogno. Opina in voce l’avv. Sturbinetti che converrebbe contentarsi di simile età anche nei pretori, come che questa prima carica è principio di una carriera che denno percorrere, e solo attendere alla scelta d’individui maturi d’ingegno, di sapere, e di prudenza, quantunque nel fiore dell’età giovanile.

Muovesi contemporanea questione se nel magistrato da eleggersi si richieda il documento della pratica forense successiva all’ottenuto diploma di laurea legale.

Monsignor Ruffini sarebbe indulgente ad ammetterla anche preventiva, potendo avvenire che, consumati gli studi teorici, il giovane si abbandoni alla pratica e soprassieda nell’esperimento di laurea, fino a che la sicurezza, o la fondata speranza di un prossimo impiego, che lo compensi dell’importo di spesa per conseguirla, non lo ecciti a subire il pericolo e la formalità.

Il presidente osserva che la legge considera il metodo ordinario e non la specialità dei casi, ed una volta che sia prescritto un sistema di studi ben regolato, tutti quelli che aspirano ad impieghi avranno interesse di rispettarlo. Quindi propone di esprimere nell’art. 16 “dopo compiuto il corso teoretico.”. Non vi consente il prof. Orioli che stima indifferente un ordine cronologico nella collezione della laurea e nella pratica quando costi che all’uno e l’altro debito soddisface il candidato, ed i suoi studi furono regolari.

L’uditore sig. Polidori cumulando le due questioni emette il suo avviso, che né l’ordine degli studi teoretici e pratici dovrebbe prescriversi né esigersi un’età determinata quando provata fosse la capacità dello eligendo che (...) avesse onorevolmente (...) di difensore.

Tre distinte proposizioni, pertanto, assoggetta il sig. presidente ai voti del Consiglio.

1) Chi ammette che nei giusdicenti municipali basti l’età di 25 anni compiti si alzi, chi non lo ammetta stia seduto.

Colla levata di tutti si ebbe l’affermativa ad unanimità.2) Chi vuole che i pretori abbiano 25 anni si alzi, chi ne

esige 30 rimanga seduto.Tre si levarono, 10 restarono seduti, a pluralità si accolse la

seconda parte.3) Chi vuole il proposto emendamento all’art. 16 “dopo

compito il corso teoretico” si alzi, chi l’articolo come è attualmente stia seduto. Sette si alzarono sei restarono seduti. L’emendamento è vinto a pluralità.

Mons. Pentini si è assentato.

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Dal sig. avv. Sturbinetti si desidererebbe l’addizione di una pena e la declaratoria di nullità degli atti nel caso dell’art. 18, se i giudici si immischiassero nelle amministrazioni pubbliche e dei privati. Il sig. presidente trova risolta la comminatoria di nullità degli atti che può nuocere all’interesse dell’amministrazione, e solo crede doversi applicare una pena al giudice trasgressore della legge col sopprimerlo a tempo o rimuoverlo dal suo ufficio.

L’avv. Bonacci giudica inopportuno il luogo per stabilire le pene a chi vede il divieto, ma dover essere ciò materia di un regolamento disciplinare. Convenendo, l’avv. Piacentini ritiene che il sistema organico limiti il rispetto dei giudici a dichiararne la (...) oltre la quale non sia lecito il progredire. In diversità dei pareri l’avv. Sturbinetti formula il seguente emendamento: “è vietato, sotto le pene che verranno stabilite dal regolamento disciplinare, lo immischiarsi...”. Il sig. Presidente lo sottopone a votazione per alzata e seduta, dichiarata l’affermativa nella prima, nella seconda la negativa, cinque si alzarono sette restarono seduti. L’emendamento fu escluso a pluralità e l’articolo fu conservato come giace.

Si osservava da talun consigliere al primo comma dell’art. 27 che il determinare la competenza dei giudici municipali alle cause meramente pecuniarie di 20 scudi sarebbe un escludere le altre per debito di generi o di effetti di un valore non eccedente la cifra, e così, per titoli, egualmente tennesi obbligatorio le parti a fruire del comodo di quei giudici minori e locali ed a sostenere avanti i pretori una spesa superiore all’interesse della lite.

Calcolato il riflesso l’avv. Piacentini progettava la riforma nelle cause che non eccedono il valore di 20 scudi, qual riforma venne ammessa dall’intero Consiglio.

Altro emendamento proponevasi all’art. 2 col qualificare campestri i danni dati semplici, onde non avessero a confondersi con altra specie di danni, i quali non sono sottoposti al modo dell’articolo alla giurisdizione dei giudici municipali. Di tale correzione, come di un diverso ordine dei numeri subalterni al citato art. 2 incaricavasi il redattore del progetto sig. avv. Piacentini.

Sorgeva disputa sull’attribuire una facoltà più o meno lata ai (...) detti giudici municipali nel conoscere delle questioni in tempo di fiera, o mercato, come sulle basi del giudizio da rendersi. Considerato che in questa materia era utile di consultare persone pratiche, per avere migliori criteri di verità e stabilire una provvidenza efficace, la discussione sull’oggetto è rimessa all’adunanza prossima e la presente seduta si è sciolta firmandosi il verbale dal sig. presidente e segretario.

Consiglio di Stato, seduta del 29 agosto 1848Consiglieri intervenuti: Avvocato Filippo Bonacci, Avv.

Giuseppe Piacentini, Prof. Francesco Orioli, Prof. Salvatore

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Betti, Avv. Luigi Ciofi, Prof. Pietro Carpi, Avv. Luigi Santucci, (Marchese) Ludovico Potenziani, Monsignor Ildebrando Rufini, Avv. Pietro Pagani, Monsignor Giovanni Battista Palma. Monsignor, Carlo Luigi Morchini, Avv. Giuseppe Giuliani, Monsignor, Francesco Pentini.

Si apre la seduta colla nuova discussione sull’art. 27 ai numeri subalterni riservati per l’adunanza di oggi.

L’avv. Piacentini legge gli emendamenti riportati in margine all’articolo stesso. Il sig. Presidente li accetta ma stima troppo estesa la giurisdizione dei giudici municipali nel decidere le questioni in tempo di fiera o mercati sull’esecuzione di qualunque contratto, poiché l’interesse dedotto in giudizio può essere gravissimo, e le dispute sugli effetti involute e frequenti, mentre è poi raro il caso che il contratto s’impegni nella sua esistenza o validità in genere.

Propone quindi di autorizzare quei giudici a prendere solo delle misure assicurative e provvisionali.

Difende il sig. Sturbinetti l’osservazione anche per l’attuabilità di una circostanza speciale sul corso forzoso della carta moneta, che può dar luogo, riguardo al pagamento dei prezzi convenzionali, a molte giudiziali contestazioni.

Oppone l’avv. Piacentini la necessità di definire sul luogo, in via speditissima, controversie di tal genere, tanto per non intralciare la celerità del commercio ed evitare un dispendio gravissimo ai contraenti, quanto perché non vadano perduti alcuni mezzi legittimi di prova. Intende però che (...) esistono i pretori, tali facoltà siano ed essi esclusivamente domandate.

Ad accrescersi lumi e riflessi di miglioramenti sulla istituzione de’ giudicanti municipali, sia per la materia contenziosa in discussione, come per le attribuzioni nei tentativi di pene, l’avv. Bonacci dà lettura di alcuni articoli del Codice italico di procedura civile. Il Consiglio, portata attenzione a diverse utili particolarità in quelli contemplate, incarica il sig. avv. Piacentini di giovarsene per riformare il titolo primo de’ giudici conciliatori.

Sul Titolo secondo, che tratta dei pretori, occorrono piccole modificazioni conferite dall’assemblea senza discussioni. Passandosi al Titolo terzo, dei tribunali di prima istanza, il sig. presidente propone per prima base di eliminare l’ufficio dei processanti nella formazione degli atti criminali, e queste affidare ai giudici titolari dei tribunali stessi col sussidio dei commessi, sempre sotto la sua vigilanza e direzione. Tanto più la misura è adottabile in riguardo ai processanti di oggi, che saliti a quel posto per la breve trafila da scrittori a sostituti di una cancelleria, senza studi teorici e senza pratica legale (resa impossibile dal prematuro ingresso nella carriera degli impieghi) sono per lo meno ignoranti ed in istato di alterare in modo l’ordinamento di una procedura da derivarne niente più che l’assoluzione di un reo, o la condanna di un innocente. Negli altri Stati italiani, coi quali è debito più che si possa di

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armonizzare, i giudici unicamente processanti sono aboliti, o convertiti in semplici commessi dipendenti dai giudici istruttori. Niun danno è a tenersi dalla nuova misura sotto il Regno italico se ciascun giudice dall’unico tribunale per le cause civili e commerciali aveva una separata camera d’istruzione del processo ove eseguiva la compilazione per i titoli inviati dal Presidente, dappresso le requisitorie del regio, che ora si nominerebbe pubblico Ministero, e nelle cause delle quali avea fabbricato il processo si asteneva dal giudicare.

L’avv. Piacentini non vede in avvenire possibile la ripetizione del male rilevato dal propinante per l’opera de’ processanti, poiché essendosi adottato nei criminali giudizi il processo orale, in questo non concorre il lavoro di quei funzionari, e il poco scritto preliminare non è di tale entità da seguirne il disordine che oggi ha purtroppo deplorato. Inoltre, tolto il riprovevole sistema della meta segnata per aspirare a detto ufficio, sarà rimosso anche il pericolo di avere impiegati di una specie cotanto informe.

È di pari sentimento l’avv. Sturbinetti, che allega l’infelicissimo effetto nel Regno Lombardo-Veneto, derivato dalla struttura dei processi per parte dei giudici di merito, ossia l’impunità alla massima parte dei delinquenti. È vero che l’istruttore si astiene dal decidere nelle cause delle quali ha eseguito l’incarto, ma è vero pure che, affezionato al suo lavoro, può avere interesse d’influire nell’animo dei suoi colleghi, sia per l’assoluzione, come per la condanna dell’imputato, secondo il preconcepito giudizio. Sarebbe poi impossibile, od almeno difficilissimo, ai giudici titolari di Roma, l’impegnarsi anche in tale fatica senza venirne danno alla pronta amministrazione della giustizia, sia pure abbreviata in appresso la procedura dei giudizi. Oggi però, ad onta che 26 processanti contemporaneamente travaglino, si trovano arretrati cinquemila processi. Come dunque il ristretto numero di giudici, occupandosi anche per turno della decisione del merito nelle cause criminali e civili potrebbe stare in corrente sulla composizione dei processi criminali? E nel bisogno di accedere fuori di residenza per assumere il corpo del delitto, raccogliere talune prove, e ricevere delle incolpazioni, nella simultanea assenza di tutti i giudici per oggetti diversi, dovrebbe chiudersi il tribunale?

Non valuta il sig. propinante l’esempio delle austriache istituzioni nello Stato Lombardo Veneto, e quanto alla difficoltà di rendere compatibile nei giudici il doppio impegno di istruire i processi e di pronunziare le sentenze, come non si rinviene in Francia, con giurisdizioni tanto più estese, né sotto il Governo italico s’incontrava fra noi, così senza che la difficoltà stessa non si verificherebbe al presente.

Tuttevolte, poiché la maggior parte di consiglieri era di manifesto avviso di non escludere l’ufficio de’ processanti nella compilazione dell’incarto preliminare, senza esperimento dei

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voti si è ammessa ogni riforma nel titolo de’ tribunali di prima istanza in ordine al discusso articolo.

Sul numero dei giudici da comporre il tribunale di prima azione si avvertiva non essere sufficiente in Roma il numero di dieci, ma esser necessario di 14, perché dovrebbero dividersi in quattro turni due dei quali per decidere le cause criminali in numero di quattro giudici per ciascuno, altri due per le civili in numero di tre.

L’avv. Sturbinetti propone di alternare i quattro nella cognizione delle cause or civili or criminali, senza destinare permanenti sezioni alle diverse provincie, il che pregiudica la gravità de criminali giudizi ne’ quali, d’ordinario, suole impegnarsi i magistrati di minor conto. A riparare un tanto abuso, dunque, sarebbe incominciare dalla riforma degli studi che ora si esigono (...) in chi si dedica al foro criminale, quando invece l’importanza della materie che cadono nell’amministrazione della punitiva giustizia è tanto maggiore della civile, se è vero che la libertà e la vita degli uomini sono più pregevoli delle fortune. Inoltre, il conversar sempre e soltanto coi delitti e i presunti colpevoli rende l’animo affranto e (...), nemico degli uomini, per incrudelire contro di essi nella valutazione di qualunque minima prova, quasi nel desiderio di trovare in ogni imputato un delinquente, onde gustar l’inumano piacere di applicargli una pena.

Applaude il sig. Presidente alla considerazione dell’onorando collega. Teme però che le abitudini contratte dai romani giudici nell’occuparsi di una delle due sfere di giurisprudenza siano nella Capitale di ostacolo ad ottenere bravi giureconsulti nel doppio diritto, quindi diasi luogo alle minori capacità che d’ordinario le più audaci a non rimuovere il peso di un’intera magistratura giudiziaria con discapito della giustizia punitiva e civile.

Tuttavia la massima diligenza ed accortezza del Governo nella scelta di giudici potranno riparare al sospettato inconveniente.

Le due proposizioni sull’aumento del numero dei giudici e sulla vicendevole destinazione a decidere le cause di ambo le specie sono dal Consiglio accettate, ed il sig. avv. Piacentini redige sul senso della delibera gli emendamenti.

Sulla competenza dei tribunali per ragione del valore della lite non approva il sig. presidente la dizione di valore indeterminato, ma surrogherebbe l’altra “di valore non determinato” onde comprendervi tanto le cose che sunt praetio inestimabilis, come i diritti di servitù attiva ed altre cose incorporali, quanto quelle per le quali la parte attrice non ha dichiarato il valore. In tal modo, quando la parte stessa creda che l’interesse della lite non superi la giurisdizione del Pretore, sarà abilitata ad adirlo, mercé l’emessa dichiarazione. Se il reo la contraddice, la dichiarazione più non si attende per essere nei termini di semplice (...) se tace o esperimenta l’ammette, il

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valore è legalmente determinato dal rispettivo consenso delle parti o tacito o espresso.

Più inconvenienti rileva l’avv. Sturbinetti dalla dichiarazione proposta. Può entrare l’affezione ad alterare il valore delle cose nel giudizio del dichiarante, o del contraddittore, e dar luogo a materie di lite. Può l’incidente pregiudicare il merito, se ad esempio si trattasse di titoli di lesione. La dichiarazione del valore include od esclude la lesione stessa secondo il rispettivo interesse de contendenti. Una stima e la decisione dell’incidente assorbirebbero il merito principale.

Il sig. avv. Santucci sostituirebbe all’indeterminato gli aggettivi incarto e non determinato, per includere il difetto di espresso valore, tanto per legge e per fatto dell’uomo.

Ma l’avv. Piacentini non vede con questa parola intero il riparo al temuto disordine. Se rimane in libertà delle parti di dichiarare il valore della lite, l’attore, nell’azione vindicatoria, potrebbe avere interesse di esprimere un valore minimo per non salire al tribunale, né sortirebbe danno, perché reclama la cosa in natura e non il prezzo. Viceversa il reo convenuto, per più stancare il suo avversario, asserir potrebbe una valore massimo, ed ecco nella pratica la quasi impossibilità di un accordo e l’inutilità, almeno, se non il pregiudizio, della progettata riforma.

Il Consiglio rimette al sano criterio dell’estensore del progetto il moderare la frase nel modo più acconcio a conseguire lo scopo di render semplice ed economica la procedura degli atti senza lesione della giustizia.

Non consente l’avv. Sturbinetti che i tribunali superiori decidano colla solennità di un giudizio sulla ricusa degli inferiori a querela di parte. La nobiltà della carica può essere compromessa da ogni maniera d’ingiuria vomitata contro il giudice allegato in sospetto, per il che è disdicevole il tradurre un magistrato colla veste foria di reo ora inibito di accusare avanti quelli di ulteriore grado. Nelle antiche leggi romane era inibito di accusare il pretore durante l’esercizio delle sua carica. Crede pertanto esser questa materia di regolamento disciplinare nel quale sarebbe a prescriversi che non l’accusa, ma la ricusa di un giudice debba presentarsi al Presidente del tribunale che la rimetta al Ministero pubblico e questo, informando sul merito della pregiudiziale domanda, la invii al Ministro di grazia e giustizia per la decisione. Così, mentre i tribunali giudicherebbero a rigor di legge, il Ministro giudicherà anche nei limiti della convenienza, ed ove rilevasse titoli gravi e criminosi provati, o deporrà il magistrato o, sospeso l’esercizio del suo ufficio, dirigerà ai tribunali competenti il reclamo perché procedano nell’ordine di giustizia.

L’avv. Bonacci non ammette il confronto tra l’antico Pretore, che durava in carica un anno, e gli odierni giudici, che hanno un impiego a vita, onde non può attendersi per accusarli la cessazione dell’affidatogli impiego. Ritiene poi che il ricorso

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economico al Ministro di grazia e giustizia possa essere con ingiustizia rigettato e d’altronde sarebbe intollerabile che talun litigante dovesse rendersi giustizia da un fiero nemico, da un congiunto di parentela e di familiare intimità col suo competitore. Conchiude pertanto che in caso di tanta delicatezza ed interesse, il ricorso debba inviarsi al Supremo Tribunale di Cassazione. Il sig. Presidente si associa al partito del preopinante sig. Bonacci e, ravvisando divisi i pareri degli altri colleghi, ordina l’esperimenti di voti sulle seguenti proposizioni.

1) Se le ricuse dei giudici debbano avanzarsi in via giudiziaria o disciplinare. Chi vuole la prima parte si alzi, chi la seconda stia seduto. Sei si alzarono, cinque rimasero seduti. Vinta la prima parte a pluralità.

2) Se le due ricuse debbano decidersi dai tribunali immediatamente superiori o da quello di Cassazione. Chi vuole i primi si levi, chi il secondo rimanga seduto.

È accettato il tribunale di Cassazione con sette seduti contro quattro alzati.

Quindi è tolto dal titolo de’ tribunali di prima istanza l’articolo sulla ricusa de giudici per trasferirlo in quello che tratta della Cassazione. Dopo la qual delibera la seduta è stata sciolta ed il processo verbale si è firmato dal sig. presidente e dal segretario.

Consiglio di Stato, adunanza del 31 agosto 1848 Consiglieri intervenuti: Avvocato Filippo Bonacci, Avv.

Giuseppe Piacentini, Prof. Francesco Orioli, Prof. Salvatore Betti, Avv. Luigi Ciofi, Prof. Pietro Carpi, Avv. Luigi Santucci, (Marchese) Ludovico Potenziani, Monsignor Ildebrando Rufini, Avv. Pietro Pagani, Monsignor Giovanni Battista Palma. Monsignor, Carlo Luigi Morchini, Avv. Giuseppe Giuliani, Monsignor, Francesco Pentini.

La discussione è aperta coll’esame del titolo VII, “Dei tribunali militari”, nel quale sieguono alcune ammende notate nella copia in stampa conservata in atti, quindi segue l’analisi del titolo VIII “ Del Ministero pubblico”.

Fra le attribuzioni del pubblico Ministero, stima incompatibile l’avv. Sturbinetti d’includere la direzione dei processi, essendo pur egli che nella sue conclusioni ritiene per l’applicazione della pena all’imputato, mentre difende le parti del Fisco attore.

All’opposto sostiene il sig. Presidente che il Ministero pubblico esiger deve il tributo alla verità ed alla giustizia. Come è tenuto insistere per la condanna dell’inquisito, se lo crede reo, così per la dichiarazione dell’innocenza, se coscienziosamente ritenga emerger dagli atti. Il togliere pertanto al Ministero la direzione dei processi, sarebbe un far mancare il migliore dei

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mezzi e delle guarentigie per l’ispezione del vero, per la regolarità e fedeltà dell’incarto.

Ma l’avv. Sturbinetti crede appunto compromessa la imparzialità del Ministero col prender parte nell’ordinatoria del processo, il che gli impedisce di accedere vergine alla questione, siccome deve presentarsi al giudice e decider la cause senza pre concezione d’idea.

E mentre il sig. Presidente sussume che il Ministero pubblico non giudica, ma esterna il suo parere nella indifferenza di chi tutela l’osservanza della legge e perciò la divisione semplice degli atti non può preoccupare il suo voto, il sig. Bonacci confuta il principio col replicare che se il Ministero dirige il giudice istruttore degli atti, sarà vincolato nella sua azione dalla volontà del primo in guisa che quasi potrà dirsi autore di tutta la processura. Conseguentemente propone di limitare l’ingerenza del Ministero per questo titolo alle sole requisitori che stimi necessarie alla regolare struttura del processo, come veniva sancito nell’ ordine italico di pratica criminale, al qual proposito il sig. Betti rammenta che, sotto il regime di quel codice, il Ministero pubblico invigilava per l’esatta fabbricazione dell’incarto compilato dal giudice istruttore astenentesi dal decidere in quella causa, riceveva i reclami dei rei, e li partecipava al giudice suddetto per averne la debita ragione nel proferimento degli atti.

Preso tali considerazioni il redattore del progetto, sig. avv. Piacentini formula l’emendamento all’art. 90 nel modo seguente. “In materia penale propone l’istanza nei delitti di azione pubblica, la prosiegue nei delitti di azione privata, insiste e da le opportune requisizioni per la regolarità de’ processi ed esterna le sue conclusioni.”

L’emendamento è accettato.(...) rimarchevole variazione proponevasi al Titolo 9 della

“Camera di accusa”. Nel Titolo X dubitavasi dal marchese Potenziani quando al

numero de’ voti necessario a render legalmente condannatoria la sentenza de’ giurati, esser soverchio quello di due (...) poiché nella difficoltà di combinarlo così forte, quasi sempre risulterebbe un giudicato d’indulgenza e non giustizia, siccome si verifica in Francia.

In quella Nazione però (…) monsignor Ruffini, si esige l’unanimità del giudizio, unanimità che se in principio non deriva dal convincimento de’ congregati, alla fine è persuasa da un bisogno di natura che costringe a sciogliere la seduta.

Riflettutosi tuttavia dall’avv. Bonacci che il giudizio dei giurati è circoscritto ai soli reati contro la legge sulla stampa e per ragione della facilità di stabilire il corpo del delitto e l’autore, non a temersi grande divergenza di opinioni, il Consiglio è rimasto fermo per la conservazione dell’articolo.

Sul titolo che tratta del contenzioso amministrativo il sig. marchese Potenziani ha affermato il suo desiderio di distribuire,

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per norma de’ colleghi, una stampa diretta a provare la necessità di devolvere anche questo ramo di amministrazione di giustizia ai tribunali ordinari, e ha chiesto che venga rimessa ad altra adunanza la decisione.

Il sig. presidente aderendo alla domanda, ha dichiarato che le osservazioni del sig. consigliere Potenziani saranno presa ad esame nella nuova lettura generale del progetto ed intanto si prosiegue nella revisione ed analisi del seguente titolo XII e delle disposizioni di transizione.

(...) lievi modificazioni consentite dall’intero Consiglio e mancate nella stampa che come sopra viene depositata in archivio per corredo e fede degli atti.

L’estensore del progetto di legge dichiara che sottoporrà all’esame del Consiglio le parziali riforme commessegli nelle precedenti sessioni alla prossima riunione definita per la intera lettura del progetto medesimo.

Prima di sciogliesi l’adunanza il sig. avv. Sturbinetti protesta di non voler, per sua parte, pubblicato a nome del Consiglio il presente piano di regolamento organico se non venga completato coll’inserzione dei titoli riguardanti il foro ecclesiastico.

La seduta per mancanza di materia discutibile è disciolta.Il verbale si sottoscrive dal sig. presidente e dal segretario

generale.

Consiglio di Stato, adunanza del 30 agosto 1848Consiglieri intervenuti: Avvocato Filippo Bonacci, Avv.

Giuseppe Piacentini, Prof. Francesco Orioli, Prof. Salvatore Betti, Avv. Luigi Ciofi, Prof. Pietro Carpi, Avv. Luigi Santucci, (Marchese) Ludovico Potenziani, Monsignor Ildebrando Rufini, Avv. Pietro Pagani, Monsignor Giovanni Battista Palma. Monsignor, Carlo Luigi Morchini, Avv. Giuseppe Giuliani, Monsignor, Francesco Pentini.

La seduta incomincia colla disposizione dei tribunali superiori. Riflettendo al forte numero dei giudici di che vuol comporsi il tribunale di ultima istanza e alla discreta quantità delle cause che sperimentano l’estremo grado di revisione, l’avv. Sturbinetti proporrebbe di riunire a questo la Cassazione. Nulla d’inconveniente può derivare dall’aggiunto incarico, quando si disponga che se la regiudicata nacque nei tribunali inferiori, un turno di terza istanza l’annulli se ne trova i motivi, e l’altro giudichi il merito, anche a pluralità: se venne colla sentenza di un turno di terza istanza si richiegga per l’efficacia del giudicato di Cassazione l’unanimità dei voti, ed abbia luogo il rinvio ad altro tribunale, che non ha interloquito in causa.

Il sig. Presidente osserva nel progetto del propinante l’inconvenienza di dover rimettere al giudizio di un tribunale inferiore la revisione della sentenza di un altro superiore. Quando avesse a cumularsi in un unico tribunale la duplice

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attribuzione, proporrebbe di comporlo di quindici giudici, cinque per terza istanza, altrettanti per la Cassazione, egual numero per il rinvio. Monsignor Morchini amerebbe che nel mirare alla rettitudine dell’amministrazione della giustizia si avesse anche un riguardo all’economia dell’esausto Tesoro pubblico. Pochissime cause si proporranno all’ultima istanza, come pochissime ascendono al S. ordine della Rota, di che fanno fede i registri dei notari rotali. Meno (...) recheranno alla Cassazione, siccome ora avviene in Segnatura, il Tribunale di Appello di Macerata è ancor povero di cause. Quindi potrebbero conservarsi i due soli tribunali di appello di Bologna e di Roma, che avanzano al bisogno di tre milioni di abitanti, e riunire nel terzo grado la duplice facoltà di cassare le sentenze e rivedere il merito delle cause.

Il prof. Betti non vede possibile, per interesse della giustizia e per antichi riguardi, il sopprimere nelle Marche un Tribunale di Appello intermedio a quello di Roma e Bologna, che sono ai confini dello Stato. Anche sotto il Regno italico, le Marche avevano questo Appello in Ancona in luogo di Macerata, né senza enorme danno potrebbero obbligarsi i litiganti di quella provincia di sperimentare a tanta distanza le loro ragioni in secondo grado.

Introduce il sig. Presidente una veduta anche politica fra i motivi persuadenti la conservazione del Tribunale di Appello in Macerata, che l’ebbe da remotissimi tempi. Certo che le numerose popolazioni, oggi soggette alla giurisdizione di quel tribunale, mal sentirebbero la soppressione del medesimo e la civile umanità de’ tempi che progredisce sul concedere, anzi che nel ritogliere il conceduto, non si accorderebbe al partito di esacerbare dei popoli quando una stretta giustizia irresistibilmente non lo imponesse. Non è poi che quel tribunale di appello rimanga ozioso per difetto di cause, se si eccettuino questi ultimi anni di universale.

Languore dei tribunali per il concorso di molte deplorate cagioni che si è nell’impegno di allontanare. L’economia del Tesoro deve seriamente curarsi in tanti altri articoli d’inutile dispendio non già in quello che inferva alla migliore e più sollecita amministrazione della giustizia.

Alle quali (...) un’altra ne aggiunge monsignor Ruffini per la necessità di mantenere l’appello maceratese, dedotta dalla fissata massima che per tutte le sentenze criminali di prima istanza competa il benefizio della revisione in merito attualmente non accordato, onde le cause di questo genere andranno sensibilmente ad ammettersi. Aderendo all’opinione dei tre ultimi preopinanti, il prof. Orioli considera che il Consiglio di Stato debba riguardare alla istituzione de’ tribunali alla retta amministrazione della giustizia secondo le attuali esigenze.

Se il progetto non verrà interamente consentito dalla finanze del pubblico erario avrà il Consiglio di Stato stesso

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soddisfatto al suo debito nel proporre quello (...) e la impotenza economica giustificherà poi la necessità di una moderata restrizione.

Quindi l’avv. Piacentini, riassumendo la tesi sulla convenienza o no di cumulare la Cassazione al tribunale di ultima istanza e di sopprimere o conservare l’Appello di Macerata, conchiude per la negativa quanto alla prima questione, perché il tribunale di suprema istanza esser deve distinto dall’altro di Cassazione così come si pratica presso le altre Nazioni, anche in vista della esclusiva giurisdizione nelle cause criminali di Stato. Quanto alla seconda, sostiene la conservazione per i motivi sviluppati dai suoi colleghi. Le quali conclusioni, a viva voce approvate dalla maggiorità dei congregati, si lasciano i relativi articoli come sono a stampa.

Ferma l’esistenza di un tribunale di Cassazione distinto e isolato, sorge il dubbio se il numero di sei giudici e di un presidente possa esser bastevole a soddisfare gli impieghi di quel tribunale supremo.

Mentre Ruffini lo riconosce insufficiente, perché nella materia civile alle ordinarie dispute per violazione di legge in merito si aggiungono le altre per nullità di ordine delle quali è dilatata la sfera. Nelle criminali, i ricorsi dei giudicati inappellabili saranno frequentissimi, perché non potendosi esasperare la pena i condannati, o guadambiano, o non rimettono nell’ottenuta revisione. E quando la revisione sia negata, se trattasi di pena capitale, il prolungamento della vita è un benefizio; se di altre pene, la sola speranza, anche lontanissima, di migliorar condizione è un conforto che determina al ricorso pel quale il reo non senta la perdita delle spese, quantunque gli sia rifiutato.

Fa fede il sig. presidente che nel Regno d’Italia discreto era il numero dei giudici di quel supremo tribunale che non ostante era in (...) nella definizione delle cause. Imperocché una commissione desunta dagli stessi giudici verificava i titoli di cassazione nel difetto de’ quali non facevasi luogo a discutere sul reclamo. Ora in Francia questa commissione chiamasi la Sezione dei ricorsi. Istituendosi un tale ufficio, verrebbe a diminuirsi il numero delle cause per l’economica esclusiva delle istanze sull’esordio della lite ed il numero eziando dei ricorsi per la sicurezza dell’inutilità del tentativo, quando manchino gli estremi della legge voluti. Quindi conchiude che mentre le cause civili di rado saranno tradotte al tribunale supremo, perché il ricorso non ha effetto sospensivo e perché la perdita della lite rovescia sul soccombente la grave emenda delle spese e dei danni, così, adottato il suggerito temperamento, le criminali ancora non saranno tanto frequenti, perché l’esenzione della condanna a pena non capitale non si arresta per il ricorso né questo, destituito di ogni fondamento, sarà così spesso avanzato nella scienza del pronto rifiuto.

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Della sentenza di morte, invece di appellare il condannato alla severa giustizia de tribunali, certo di nulla ottenere senza valido appoggio di ragione, ricorrerà piuttosto alla grazia sovrana, che più difficilmente otterrebbe dopo l’esito sfortunato di un altro giudizio. Opina pertanto di conservare il proposto numero di giudici.

Monsignor Morchini avverte che in Francia la sezione dei ricorsi di cui parlava il sig. presidente è di 15 giudici, l’intero tribunale di 45. Se a 34 in 35 milioni di abitanti è bastevole un collegio di 45 giureconsulti lo sarà bene a tre milioni quello di sette. E poiché la giustizia non soffra nel così limitare il numero dei magistrati, da altro l’economia sbilanciata del pubblico erario raccomanda di non profonder denaro sul lusso degli impieghi di ogni specie.

Sussume all’inverso monsignor Ruffini che invece di occupare una parte dei giudici all’esame dei ricorsi, potrebbe impegnarsi soltanto nel decidere le cause e colla speditezze di una regolare procedura verrebbe prolungato il dannoso prolungamento dei giudizi. E’ facile in pratica il persuadersi che chi vuole stancare colle spese e coll’agitazione della lite il suo competitore in materia civile trova mille mezzi per insinuare almeno il sospetto di vizio intrinseco od estrinseco della cosa giudicata od ottenere che la causa venga discussa. Nella sorte poi dei giudizi infinite risorse, e speranze si contano per (...) di una vittoria. Il preventivo esame degli atti pregiudica inoltre la mente dei magistrati per l’(...) del voto nel decidere, e perciò la sezione dei ricorsi dovrebbe astenersi dall’interloquire nella discussione formale dal che verrà minorato il numero dei decidenti. In materia criminale l’amore della libertà e della vita illude sempre il condannato a ritenere ingiusta la sentenza che lo colpisce, e a procurare con ogni mezzo il benefizio della revisione. Torna in conseguenza la necessità di più forte numero di giudici divisibile in due turni per definire con prontezza le dispute alla loro deliberazione subordinata. (...) e perché più grave e decoroso riesca il consesso che esser deve il primo di grado e di onore nell’ordine giudiziario.

I congregati rimanevano incerti sull’aumento in genere e molto più nell’ispecie, onde la definizione di questa tesi è rimessa ad altra seduta.

Un secondo dubbio pertanto si propone alla soluzione del Consiglio: se annullata dalla Cassazione una sentenza per violazione di legge in merito il rinvio debba farsi ad un tribunale di grado eguale a quello che rese la sentenza medesima, ovvero al tribunale di ultima istanza.

L’avv. Sturbinetti opina contro l’articolo redatto, ossia doversi (...) il rimedio all’ultima istanza, poiché è questa centro dei diversi tribunali dello Stato e se non vi fosse l’ostacolo della cosa giudicata, costituirebbe il terzo grado dell’appello ordinario. Viceversa, il tribunale di egual grado non è competente riguardo alla sentenza che dovrebbe rendersi e

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molto meno riguardo alle persone domiciliate fuori dalla sua giurisdizione.

Il sig. Presidente rimarca allo inverso gravi assurdi, ed irregolarità nello ammettere il sistema del preopinante. Se la sentenza cassata proviene dalla seconda istanza, la remissione alla terza farebbe sparire un grado di giurisdizione, mentre quando un atto è annullato si ha come non avesse mai avuto esistenza. Se poi l’annullamento cade nella sentenza del primo turno della terza istanza, il secondo turno trovasi in grado eguale, ma resta sempre il pericolo che essendo unico tribunale, per quanto distinto in sezioni, una sezione influisca sull’altra a non far eseguire la dispiacente revoca del suo giudicato, per convenienza dell’intero corpo morale, tanto più che alternandosi i turni l’offesa di quella revoca potrebbe a vicenda scambiarsi. Calcolate tutte le conseguenze sfavorevoli dei due diversi sistemi meglio è conservare quello adottato che possibilmente ripara agli inconvenienti maggiori.

L’ultima opinione prevale e l’articolo rimane inalterato. Ma forte si accalora una disputa sul tema della prorogabilità della giurisdizione de’ giudici per il consenso delle parti.

Il sig. Presidente sta fermo sulla negativa quanto al valore e materia della lite. Il consenso delle parti può essere efficace purché non si attenda il domicilio legale del reo a fissare la competenza del magistrato, mentre questi, coll’accettare la giurisdizione di un giudice che non sarebbe competente per cause di domicilio, rinunzia solo ad un suo diritto e scambia il domicilio vero con un domicilio convenzionale e temporaneo per quell’atto. Però il giudice non esce dai confini che gli ha segnato la legge per l’esercizio della sua carica. Il prorogare la giurisdizione per ragioni di materia e di valore è un compromettere colle forme giudiziarie, è un usurpare, anzi contraddire l’autorità del principe che per l’amministrazione della giustizia ha voluto circoscrivere le attribuzioni di quel giudice, ha limitato per quelle la sua fiducia ed ha punito l’eccesso del potere colla comminatoria di nullità. Le parti non possono, se non fuori dall’ordine giudiziario, creare ed estendere le giurisdizioni degli arbitri, perché sortendo dalla trafila de tribunali non troncano con unico parere di persone private le loro controversie. Il rendere alle parti facoltativo di preferire i limiti determinati dal sovrano per l’esercizio della magistratura giudiziaria è un comminare attraverso all’opinione ed al fatto di molti secoli decorsi e dell’odierno, pratica di tutte le colte Nazioni, è un (...) l’ordine dei gradi di revisione e dell’intero sistema organico. Dalla sentenza di un Pretore, che giudicò pel tacito ed indiretto consenso del convenuto una causa di più migliaia di scudi si appella al tribunale di prima istanza, che si converte in quello di seconda, e nella difformità de’ giudicati, il tribunale di secondo grado diventa di terzo ed il tribunale di ultima istanza, per fatto delle parti, si rende ozioso ed inutile. E quando dicesi tacito od indiretto consenso per la

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difesa in merito, senza allegare l’incompetenza, si ha veramente l’intenzione della parte di avventurare al giudizio di quel giudice singolare una causa di tanta entità, che potrebbe decidere della sussistenza di un intera famiglia? L’ignoranza potrebbe spesso non fare avvertire al citato l’incompetenza del giudice, avanti cui chiamasi a comparire ed obbligarlo così, senza volontà, a sentire il danno di una sentenza contraria. Ma il più delle volte la malizia, l’inganno de difensori, potrebbe concorrere a strappare dall’incauto litigante un consenso prestato sopra false assicurazioni e promesse che non potevano mantenersi. Anzi è indubitato che la curia dei luoghi, ove esista solo il Pretore, studierebbe sempre di tradurre con ogni artificio i clienti per qualunque gravissima causa avanti qual giudice singolare, nella sete di un guadagno superiore di leggieri alla debole entità della prestata opera, qual è da attendersi da causidici esercenti la professione nelle piccole città o terre senza patrimonio di lunghi e buoni studii e di pratica forense. Ma che si parla di pretori? Poiché a giustamente fissato che il ricorso alla Cassazione competa anche per le cause minori, decise in primo grado dai giusdicenti municipali, può bene avvenire che innanzi a questi, per malaintesa comodità (alla quale poi succede un inutile pentimento) si propongano cause di somma importanza per ogni riguardo e la cosa giudicata nasca colla sentenza confirmatoria del Pretore avanti di cui la lite neppure poteva incominciare.

L’avv. Sturbinetti distingue tra il divieto della legge di compromettere nei giudici colle forme prescritte per gli arbitri, ed inappellabilmente, ed il consentir nella giurisdizione di un giudice per legge incompetente, osservata la trafila giudiziaria e col diritto di appello.

In questo secondo caso non si offende la legge, né si usurpa o contraddice l’autorità del Sovrano. Il Sovrano ad utilità delle parti litiganti ha instituito i tribunali collegiali, onde la sentenza di più giureconsulti offrisse una di maggior rettitudine di giudizio e di amministrata giustizia. Ma se i litiganti medesimi rinunziano al benefizio di siffatta maggior guarentigia, se ripongono la loro fiducia in uno solo meglio che in tre giudici, se valutano una causa di più migliaia, come quella di 300 o 20 scudi, non fanno ingiuria ad alcuno ed è allora ben naturale che la cosa giudicata nasca come nata sarebbe per una lite di competenza di un Pretore o di un giusdicente municipale.

L’ignoranza non si presume a fronte poi di una nuova legge chiara ed intellegibile a tutti e molto meno la fede dei difensori di ambo le parti, che se pure talvolta la frode intervenisse, oltre all’esser punibile, scoperta che fosse, dopo una prima fatale esperienza, istruiti i litiganti, ben saprebbero guardarsene in avvenire.

I pareri de’ signor coadunati sono divisi, onde si formula la seguente proposizione. Chi vuole che il difetto di giurisdizione sia sanato colla difesa in merito, senza allegare l’incompetenza anche per ragione di materia e valore di lite, si alzi, chi vuole

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sanato lo stesso difetto in riguardo al solo domicilio della persona citata, come parla l’articolo, stia seduto.

Sei si alzarono, cinque rimasero seduti. Fu vinta a pluralità la prima parte. Monsignor Morchini dichiara di aver votato appellando solo all’ordinamento del foro laico.

Rileva un’incongruenza l’avv. Bonacci nel disposto regolamento. In discussione riguardo alla sanatoria del tribunale di rinvio, che non dà luogo ad ulteriore ricorso quando sia confirmatoria dell’altra cassata. Imperocché questo tribunale andrebbe ad avere maggiore autorità del supremo di Cassazione, potendo impunemente a quello contraddire senza timore di revoca. Nel sistema francese, in questo caso si dirige il ricorso al Grand Giudice Ministro di grazia e giustizia, il quale provoca la declaratoria della legge che ritienesi oscura per l’inferto dubbio della seguente o non seguita violazione.

Monsignor Ruffini è partito.L’avv. Piacentini non loda il sistema, poiché sebbene il

tribunale di Cassazione sia supremo pure la presunzione di più retto giudizio (...) vi sieda in due tribunali che in un solo.

Aggiunge l’avv. Sturbinetti che l’uso della declaratoria è di tal male intesa frequenza in Francia che se ne sono formati volumi maggiori dei Codici e la legislazione perciò divenuta oscillante ed incerta. Conchiude egli dunque per la conservazione dell’articolo, mentre il concorde giudizio di un tribunale esclude la presunzione d’immoralità o ignoranza supina quale si domanderebbe per una manifesta violazione di legge.

Le opinioni sono scisse ed il sig. presidente sottopone ai voti la seguente proposta.

Chi vuole che, cadendo il tribunale di rinvio nella violazione della legge dichiarata dalla Cassazione, questa, nel caso di reiterato ricorso, debba provocare dal potere legislativo l’interpretazione della legge e cessando di nuovo, ove occorra, giudichi anche il merito, si alzi, chi vuole che prevalga il giudizio concorde dei due tribunali senza ulteriore ricorso stia seduto.

Otto si alzarono, due restarono seduti. Ammessa la prima parte a pluralità. Essendo l’ora tarda la seduta si è sciolta ed il verbale firmato dal sig. Presidente e dal segretario generale.

Consiglio di Stato, adunanza del 7 settembre 1848 Consiglieri intervenuti: Avvocato Filippo Bonacci, Avv.

Giuseppe Piacentini, Prof. Francesco Orioli, Prof. Salvatore Betti, Avv. Luigi Ciofi, Prof. Pietro Carpi, Avv. Luigi Santucci, (Marchese) Ludovico Potenziani, Monsignor Ildebrando Rufini, Avv. Pietro Pagani, Monsignor Giovanni Battista Palma. Monsignor, Carlo Luigi Morchini, Avv. Giuseppe Giuliani, Monsignor, Francesco Pentini.

Unitamente come ai signori uditori come dal libro di presenza del 7 settembre 1848.

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Essendo il numero legale la seduta è aperta.La lodata Eminenza Sua propone al Consiglio di Stato il

dubbio se convenga prorogare ad altro semestre il termine utile per l’affrancazione dei canoni ...

Quindi è subentrato a presiedere il sig. avv. Pagani. Si riassume l’esame dell’organico giudiziario, aprendosi la discussione sul tiolo XI “Del contenzioso amministrativo”, ai fogli in stampa, distribuiti ai signori consiglieri dal marchese Potenziani, nei quali conchiudevasi per la devoluzione delle controversie in materia amministrativa ai tribunali ordinari, sua eminenza monsignor Morchini replicava con uno scritto diretto a provare invece la necessità di istituire per l’oggetto una magistratura economica che, con speditezza e senza forma e trafila di giudizio, decida questioni emergenti in merito ai pubblici affari. Data lettura dei due contrari ragionamenti monsignor Pentini è partito.

Appoggiando l’avv. Sturbinetti l’opinione del sig. Potenziani, esponeva che, riconosciuta la necessità della massima speditezza nella definizione della disputa spettante la cosa pubblica, e tolto l’inviluppo di tante formule ostative alla celerità della procedura, è bene indifferente il destinare per simili giudizi una magistratura piuttosto che un'altra: quindi esser sempre preferibile il tribunale ordinario, presumibilmente composto di legali versati nell’universa giurisprudenza, ossia nella cognizione del diritto privato e pubblico, venendosi così ad evitare eziando l’odiosità dei giudici di eccezione, che sapientemente il Consiglio, per qualunque altra materia, ebbe tanta volontà di sopprimere. Ripeteva il sig. marchese Potenziani che il Ministero (…) dell’interoloquire sulla controversia tra il Governo ed i privati rivestirebbe l’abborito carattere di giudice e parte, carattere che neppure potrebbesi legittimare coll’esplicito assenso degli aventi interesse in contrario: le questioni di competenza sarebbero come per il (…) infinite per numero e per durata e si aumenterebbero l’intralcio ed il ritardo in animo d’impedire.

Confutava monsignor Morchini il parere dei preopinanti, proponendo per l’avvenire il rimedio ai (...) disordini. Era di (...) in addietro giudice e parte talun ministro siccome a cagion di esempio il tesoriere in materia di finanza in quanto che contrattava e risolveva i dubbi emersi sui termini e sulle conseguenze del contratto. Il Fiscale, in rappresentanza della camera, stipulava e poscia rendeva il voto sugli effetti della stipulazione. I Presidi delle Province prendevano parte nella delibera, li munivano della sanzione tutoria e poi, sulla querela di un interessato, decidevano in via contenziosa della regolarità o nullità degli atti stessi, dei quali partecipato (...) coll’intervenuto e coll’approvazione.

Veruno di tali inconvenienti può riprodursi nella nuova legge che attribuisce al Consiglio di Stato la privativa giurisdizione del contenzioso amministrativo. I ministri

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compromessi nella questione non hanno alcun influenza nelle delibere del Consiglio indipendente per l’emanazione del giudizio ed estranee agli atti del potere eseguitore. Neppure si concede a questo la facoltà di dar corso alle proprie ordinanze col solo diritto al contraddittore di reclamare in devolutivo, perché il Consiglio decide dell’appello competente, ossia se la disposizione ministeriale aver debba l’esecuzione in pendenza del giudizio o si abbia a sospender fino alla decisione, secondo che l’urgenza esiga la prima misura o, la difficoltà di rimettere le cose in pristinum, obblighi alla seconda. Determinate le giurisdizioni delle singole magistrature, classificate, anzi individuate le materie da conoscersi tassativamente dai giudici del contenzioso amministrativo, le questioni di competenza svaniranno perché saranno note alle parti, siccome ai magistrati, i certi confini dei diversi ordini giudiziari (…)

Tornava sull’obbietto il marchese Potenziani, stimolando lo risoluto col dovere ai tribunali ordinari gli istessi incarichi che affidar si vorrebbero al Consiglio di Stato eretto in magistratura economica eccezionale. Egli non vede il perché si abbiano a moltiplicare enti senza il bisogno, crear si debbono due giustizie, quando una è la legge ed unico è il metodo d’applicarla, il perché sia necessario centralizzare nella capitale le questioni amministrative uno solo tribunale supremo, con dispendio gravissimo della parte che muova querela contro l’operato del Preside della provincia e ha diritto d’invocare l’autorità del tribunale del suo capoluogo per aver ragione dell’inoltrata domanda.

Non riconosce il sig. Presidente Pagani il supposto intralcio e collisione di una giustizia coll’altra se il potere amministrativo resta interamente diviso dal potere giudiziario, anche quando si tratti di decidere le questioni che insorgono in ordine al primo.

Questi due poteri costituiscono due linee parallele che non s’incontrano mai ed un muro di divisione è interposto fra l’uno e l’altro presso tutte le più civili Nazioni. Gli abusi passati, le dispute di competenza, non venivano per vizio di infamia, ma per difetto degli impiegati, sui quali non riposava la pubblica fiducia, e per interpretazione di leggi non chiare. Ammessa la convenienza di istituire un’apposita magistratura pel contenzioso amministrativo, il regolamento organico deve limitarsi, siccome si è praticato nel progetto, a designare il Collegio che deve comporlo. Opportunissimo per tale ufficio è il Consiglio di Stato che non ingerendosi nelle amministrazioni del Governo, deve necessariamente meritarsi la fede d’imparziale. Il regolamento giudiziario individuerà gli articoli di competenza per evitare la riproduzione della dispute antiche. Però sulla creduta indifferenza di prescegliere o i tribunali comuni o tribunale speciale economico, quando le norme sono eguali, il prelodato sig. Presidente non fa convenire. E’ cosa ben ardua egli dice che qualunque celere procedura colla trafila di un giudizio formale non arresti alquanto l’azione della macchina

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governativa in ciò che riguarda l’universale interesse dello Stato, come è difficile che sotto questo riguardo i tribunali ordinari temperino il rigore di giustizia col favore del pubblico bene. Se il Governo è in lite, per materie giudicabili colle norme del diritto comune, come nel caso di deferita eredità o legato di credito, è ben giusto che si assoggetti alla giurisdizione assegnata per i privati senza odiosità di privilegio. Ma allorché la controversia nasce sulla esecuzione, intelligenza e validità di contratti relativi all’utilità ed al sevizio del pubblico d’uopo è d’istantanee economiche (…) delibere sulle basi dei Regolamenti amministrativi e spesso di consuetudini sanzionate dall’uso come di un’equità che devia dall’apice del diritto.

Disapprova l’avvocato Sturbinetti il principio che i poteri amministrativo e giudiziario costituir debbano due linee parallele che non si incontrano mai. Il Governo, pel di cui organo sono pubblicate le leggi, deve esser il primo a riscuoterlo col subordinarsi senza eccezione di casi al potere giudiziario distaccati dal legislativo ed esecutivo, come quell’unico chiamato a decidere della ragione e del torto di qualunque classe di contendenti. Il Fisco, questo nome rappresentativo della giustizia in azione, suonava bene ai prosperi tempi della romana repubblica, perché lungi dal risultare applicato il rigore di diritto che nel dubbio veniva favorito in competenza del supremo Governo. Sotto il giogo dell’imperatore divenne un odioso privilegio che si chiamò “mano regia” quanto fu il dire meno di tirannide, che spogliava senza forma di procedura e senza difesa i poveri impotenti a resistere del tenue prodotto di lunghi sudori.

Un giudice privativo pronunziava sulle querele contro la rappresaglie fiscali ed è a rimarginarsi il tenore delle sentenze rese da un magistrato, almeno indirettamente devoto suddito del convenuto. Qualunque sia stata la maggior umanità e rettitudine de’ tempi superati, l’odio del privilegio del Fisco è rimasto, e non è dell’odierna imparziale civiltà il censurare con qualsiasi moderato sistema un tribunale di eccezione per il Governo. L’inconveniente rimarcato (…) de’ pubblici lavori nell’appello sospensivo o per l’impossibilità di tornare indietro dall’esecuzione nell’apposto caso del devolutivo è interamente rimosso colla costante misura in caso di apposizione di far precedere la speditissima decisione del tribunale (che non vi è difficoltà di ottenere) all’esecuzione dell’ordine ministeriale.

Coll’esempio appunto delle più civili nazioni contraddice monsignor Morchini l’assunto dell’onorevole preopinante. La Francia, che in breve intervallo ha gustato tutte le forme governative, è stata in ciò costantissima di separare dall’ordine giudiziario il contenzioso amministrativo. Nel regime costituzionale monarchico, nell’attuale costituzione democratica, ha mantenuto l’istesso sistema e nel rifondare le istituzioni tutte della Nazione, ha pur deputato una commissione speciale per un nuovo progetto di legge sul contenzioso

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amministrativo indipendente dai tribunali ordinari. Possibile che quei sommi oltremontani giureconsulti e dotti da tante politiche ed economiche vicende non vedessero il danno d’impiantare una giudicatura speciale per le controversie amministrative ed il vantaggio di comprenderle nella giurisdizione dei tribunali ordinari se questo danno si fosse verificato? Il tutelare l’azione del Governo non è accordare un privilegio al Fisco, subito che il corpo morale, invitato a giudicare le questioni fra le pubbliche rappresentanze ed i privati osserva l’eguaglianza dei contraddicenti in faccia alla stessa legge colla quale misura i rispettivi diritti senza influenza alcuna dei ministeri e con beneficio della difesa comune ad ambo le parti. Il Fisco pertanto va a rimanere nei limiti di semplice attore o reo convenuto e spoglio di privilegi e di autorità non può essere più causa di ingiustizia voluta col pubblico interesse né esposto per gli antichi deplorati effetti all’odio delle popolazioni.

Rilevando infine che l’impossibilità di raggiungere il predicato scopo col mezzo de’ tribunali ordinari fu dimostrata nell’esibito scritto, l’encomiato monsignor Morchini conchiude che il Consiglio di Stato, nel risolvere i quesiti proposti da S.E. il Minstro di grazia e giustizia per base fondamentale dell’organico giudiziario, statuì a grande pluralità di voti doversi escludere dalla competenza dei tribunali suddetti il contenzioso amministrativo e le risoluzioni del medesimo consesso, accettate dal ministero, donde venne l’incarico di tracciare colle fissate norme il relativo progetto di legge: non potersi quindi deviare da una delibera sanzionata dal potere esecutivo autore del mandato.

Il marchese Potenziani vorrebbe almeno che ai magistrati amministrativi si commettessero solo le interpretazioni di fatto e quelle di diritto si risolvessero ai tribunali comuni avanti la facoltà del jus dicere.

Preso la quale osservazione si rileggono gli articoli 111,112,113 del progetto e sistema del contenzioso che il tenore dei medesimi (...) quanto occorre al necessario limite per le questioni proponibili innanzi la giudicatura organica.

Reputando il sig. Presidente abbastanza discussa la tesi sottopone all’esperimento dei voti la seguente doppia proposta.

Se si vuole che il contenzioso amministrativo sia fuori dalla giurisdizione dei tribunali ordinari, ovvero ne sia dipendente.

Chi ammette la prima parte si alzi, chi la seconda resti seduto. Cinque si levarono, cinque rimasero seduti, onde si ebbe la parità dei voti.

Letto l’art. 15 dell’ordinanza ministeriale sull’istituzione del Consiglio di Stato si è osservato doversi nel caso riportare la votazione, e qualora persista la parità, essere il (…) in diritto di accedere col secondo voto.

Ritenevasi che il sig. presidente fosse il più provetto di età e conseguentemente egli facoltizzato a togliere la parità con l’altro voto, ma insorto il consigliere sig. marchese Potenziani,

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candidamente confessava i suoi anni 65, onde il sig. presidente ritirò la propria credulità di essere il più vecchio fra i congregati.

Volendosi tuttavia meglio riflettere sull’importante argomento, si differì la nuova votazione alla seduta prossima, ed intanto la presente si disciolse, firmatosi il verbale dall’istesso sig. Presidente avv. Pietro Pagani, nonché dal segretario generale.

Consiglio di Stato, adunanza del 9 settembre 1848 Consiglieri intervenuti: Avvocato Filippo Bonacci, Avv.

Giuseppe Piacentini, Prof. Francesco Orioli, Prof. Salvatore Betti, Avv. Luigi Ciofi, Prof. Pietro Carpi, Avv. Luigi Santucci, (Marchese) Ludovico Potenziani, Monsignor Ildebrando Rufini, Avv. Pietro Pagani, Monsignor Giovanni Battista Palma. Monsignor, Carlo Luigi Morchini, Avv. Giuseppe Giuliani, Monsignor, Francesco Pentini.

La seduta è aperta colla discussione sul rapporto della prima sezione in merito al capitolato per la costruzione della strada di ferro da Roma a Civitavecchia...

Si riassume il dibattito in tema di contenzioso amministrativo.

Monsignor Ruffini ravvisa un’incongruenza nell’accordar, per le questioni amministrative, due soli gradi di giurisdizione mediante appello del giudizio di una parte a quello dell’intero Consiglio, mentre per tutte le altre, in mezzo a lungo contrasto di opinioni, si confessò la necessità di ammetter tre gradi. Altronde è malo combinabile la divisione di questi tre gradi entro il numero dai consiglieri di Stato, perché è troppo il contatto tra loro per non ingerire il sospetto che i giudici deliberanti in prima sede influiscano nell’animo dei giudici di appello e così la prevalenza o degli uni o degli altri avvenir possa sul resto dell’intero collegio.

Anche a poter combinare la triplice magistratura nel Consiglio di Stato, l’avv. Piacentini non vede come questo potrebbe occuparsi di tutte le dispute provenienti dalla Capitale e dalle province; e quando lo potesse, non dovrebbe permettersi il dispendio delle parti nel sempre ricorrere alla Capitale per qualsiasi contestazione. Giusto dunque sarebbe d’innalzare un tribunale economico in ciascuna provincia, quando meglio non fosse d’inviare anche questa specie di controversia ai tribunali ordinari.

Facendosi carico, monsignor Morchini, delle considerazioni dei due sig. colleghi, si pone a ricordare che nell’attuale nostro sistema, l’ordine delle magistrature per l’interesse delle comuni è costituito dalle congregazioni governative del Buon Governo e Consiglio supremo di Stato; per l’interesse dell’erario camerale dal Consiglio di liquidazione del debito pubblico, dalla Congregazione di revisione e dal Consiglio misto. In Francia poi

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sono istituiti il Consiglio di prefettura, la Cassazione, il Consiglio di Stato. Propone dunque di conservare alle congregazioni governative il primo grado di giurisdizione pel contenzioso amministrativo ed attribuire due gradi al Consiglio di Stato colla divisione eseguita nel progetto dell’organico. In tale modo si ripara all’inconveniente rimarcato sugli interessi delle province, si rispetta la massima determinata nell’amministrazione della giustizia tre gradi di giurisdizione, ed il Consiglio, coerente alle precedenti delibere accettate dal ministro, manterrà la separazione del contenzioso amministrativo dall’ordine strettamente giudiziario, di conformità alle sovrane intenzioni espresse nello Statuto fondamentale ed al sistema osservato in tutti i ben ordinati governi.

Disconviene il sig. presidente nella proposta di conservare alla congregazione governativa il contenzioso amministrativo. Imperocché una fatale esperienza ha dimostrato che i consultori dei presidi non essendo d’organico giureconsulti o hanno professati principi eterogenei al diritto comune o sono stati diretti da un estraneo legale, che vedendo arbitrio in quel consesso, è divenuto giudice singolare in mezzo ad una collegiale magistratura. Infatti, anche sotto il Governo degli antecessori dell’attuale regnante sommo pontefice, si vide la necessità di venir tarpando, a forza di declaratorie, quella giurisdizione contenziosa, a segno che ora ne rimane appena un’immagine. Le questioni di competenza non cesserebbero dal riprodursi avanti le suddette congregazioni anche ad onta di leggi più chiare sulla demarcazione dei confini fra l’amministrativo e il giudiziario, perché a ben distinguere le materie sottoposte a discutersi occorre sempre l’occhio del giurisperito.

Portando ora seria attenzione ai nuovi metodi di dubitare allegati da taluni signori consiglieri ed agli inconvenienti verificabili eziando nei tre gradi della giurisdizione contenziosa amministrativa, il sig. presidente va persuadendosi che la detta giurisdizione esclusa e stabilita una procedura speciale speditissima per la definizione delle controversie di quel genere avanti i tribunali ordinari, i temuti intralci e ritardi potrebbero di leggieri evitarsi. Non sembra a monsignor Morchini argomento accettevole quello desunto dagli abusi e disordini precedenti. Una volta che siano destinati a consiglieri governativi soggetti capaci di disimpegnare l’ufficio, svanisce il pericolo di non bene amministrata giustizia. Una volta che la giurisdizione economica è limitata ai soli atti amministrativi non a quelli contemplati dal diritto comune in riguardo ai privati ed alle pubbliche rappresentanze giudicabili con le stesse leggi, non può esservi dubbio di equivoco, non occorre criterio legale ma il solo buon senso a distinguere gli uni dagli altri, e forse le persone versate nelle materie amministrative si distingueranno anche meglio dai consumati nelle forense pratiche.

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A quel proposito, chiesta ed ottenuta la parola, l’uditore sig. Ballanti sosteneva che gli atti amministrativi non appartengono alla giustizia civile e non denno perciò interloquire sulla validità o nullità di quelli i magistrati dell’ordine giudiziario. Speciali sono le leggi per l’andamento degli affari dell’amministrazione pubblica e per l’osservanza delle medesime sono incaricate le autorità politiche, tutrici ad un tempo dell’’economia de’ municipi delle province e dello Stato.

Negando la massima in genere il sig. Presidente distingue. O trattasi di esecuzione di leggi dirette all’ordine pubblico, all’interesse del Governo, e degli amministrati, e l’autorità politica non alza un tribunale in via contenziosa per giudicare colla contraddizione le parti, ma indipendentemente procede in nome della legge con forme tutte stragiudiziali, o trattasi di questioni per contratti od obbligazioni nate fra privati e comuni, tra privati e Governo sopra materia di pubblica utilità come in grazia di esempio sopra appalti di strada e di altri lavori pubblici, ed allora non avvi difficoltà che i tribunali, facendo ragione alle parti contendenti decidono a qual di essi esista il buon diritto, poiché la giurisprudenza non è solo composta dai digesti e dal Codice giustinianeo, ma di tutte le altre leggi sopra qualsiasi articolo emanate od autorizzate dalla suprema podestà, ed i magistrati sono in obbligo di tutte conoscerle e di applicarle con il criterio del filosofo giureconsulto. Il regolamento di procedura poi deve determinare con chiarezza il come ed il quando le dispute amministrative devono sottoporsi alla decisione di tribunali. Per il qual oggetto commesso e conseguente, monsignor Ruffini è di avviso non potersi il presente piano di sistema organico ridurre adatto se non gli va contemporaneamente l’altro di procedura.

Esaurita, sul proposito, la discussione, il sig. Presidente torna ad interrogare il Consiglio a norma dell’art. 15 citato nella precedente sessione. Se crede di conservare o di abolire il potere contenzioso amministrativo.

L’alzata risponde per la prima parte, la seduta per la seconda.

Uno levato, nove seduti. Ammessa l’abolizione. In sequela di tale risultato di voti il tit. XI del progetto è depennato.

Si procede alla lettura generale dello stesso progetto cogli emendamenti ed aggiunte eseguite dal redattore sig. avv. Piacentini.

Nel Tit. I “Dei giusdicenti municipali e conciliatori”, all’art. 26, che determina le attribuzioni di questi magistrati nell’amministrazione della giustizia civile, è insorto dubbio sul n. 2 riguardo alla provvisioni alimentarie. Sembra al Consiglio che sia eccedente la facoltà di un giudice municipale di pronunciare sugli alimenti che hanno per titolo un atto di ultima volontà o fra vivi, del quale è necessario prender cognizione, come anche di conceder ad esso il potere di decretarli in via definita, sebbene per un solo trimestre, quando provengano da diritto di sangue,

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perché il suo verrebbe in qualche modo a far stato per gli alimenti successivi. L’abilitazione pertanto si è limitata al trimestre delle sovvenzioni alimentarie dovute per legge nell’ordine di carità non eccedenti il quarto mensile di tre scudi, sempre in via provvisoria, salvo il giudizio sull’azione in genere al competente giudice o tribunale.

Il Consiglio ha approvato a viva voce le addizioni espresse nei 3, 4, 5 dello tesso articolo; 1) sui provvedimenti ad urgenza per impedire le sottoscrizioni di mobili ed effetti a garanzia degli aventi interesse. Perché qualunque ritardo per adire il superiore magistrato non residente nel luogo potrebbe rendere inutile la ingiunta misura; 2) sull’apposizione, ricognizione e rimozione soltanto dei suggelli nei casi di legge, senza entrare nel merito della vertenza perché l’associazione di quel fatto materiale non richiedente immagine di diritto in ragione della prontezza rende più efficace il mezzo assicurativo e favorisce l’economia degli interessati col risparmiare l’accesso di funzionari lontani; 3) sulle misure istantanee nei casi di deposito miserabile che meritano l’immediato percorso della giustizia, onde nel disordine prodotto dall’infortunio non sia poi impossibile la ricupera degli effetti depositati.

Nel numero 6, monsignor Pentini giudica inconveniente la riserva esplicita della disposizione sulla fiera di Senigallia, perché la legge generale non discende mai ai dettagli e alla specie. Potrebbe avvenire che in seguito si decretasse l’abolizione di quella fiera ed allora la legge, che esser deve permanentemente operativa, mancherebbe in una parte di scopo e resterebbe oziosa. Perlomeno dovrebbe dirsi “salve le disposizioni prese e da prendersi”, al fine di avvertire che sono variabili, possono anche appellare all’abolizione.

Monsignor Ruffini difende all’opposto la riserva come è notata. La fiera di Senigallia è l’unica dello Stato classica e famosa anche preso le più lontane nazioni. Tutti i regolamenti ne hanno fatto sempre menzione specifica. Vi si erige un tribunale apposito che decide le controversie sulle più gravi negoziazioni anche fra gli esteri ed i statisti. la riserve poi delle speciali disposizioni riferisce tanto al presente quanto al futuro per il che il numero sesto non sembra suscettibile di riforma.

I signori consiglieri convengono di lasciarlo inalterato, riconoscendosi provvida la misura dell’art. 27 di obbligare i giudici municipali ed i pretori a richiedere consiglio di due probe persone nel decidere le controversie in tempo di fiera o mercato ma si voleva designare anche meglio la qualità necessaria per servire allo scopo col dirle pratiche delle locali consuetudini sui patti e sugli effetti dei medesimi. Consulta perciò si ritenne l’aggiunta del sig. Presidente dell’aggettivo “esperta” bastante in subiecta materia ad indicare la sfera delle volute cognizioni. L’aggiunta venne accettata, la riforma portata all’articolo 28 nel qualificare campestri i danni dati sui quali per somme eccedenti i 20 scudi i giusdicenti municipali istruiscono

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solo il processo e lo trasmettono al competente magistrato dichiarandosi proficua per escludere il dubbio di ogni altra specie di danni similmente si conveniva di estendere ai detti giudici l’amministrazione della giustizia penale sui furti non qualificati fino a 5 scudi e quelle ingiurie anche reali semplici come ai numeri 2,3, dell’articolo 29 onde sollevare per una parte i funzionari della superiori magistrature dall’imbarazzo e dal dispendio di tempo nelle (…) inquisizioni e (…) terminare dall’ (…) luogo certe piccole cause delle quali la definizione pronta e non strepitosa frutta economia di spesa, maggior esempio a prevenire altri delitti e forse una più facile restituzione di armonia fra l’offensore e l’offeso.

Si reputava infine servire al medesimo scopo del sollievo e del risparmio di spesa l’aggiungere il ricevimento delle denunzie e querele per delitti commessi entro il circondario della rispettiva giurisdizione di qui giudici come esser più utile allo scoprimento dei delinquenti il far rilevare ai medesimi giudici le tracce del delitto. Assumerne il corpo e gli oggetti di convinzione, raccoglierne gli indizi e le prove e il procurare l’arresto dei colpevoli in flagrante o nella fuga perché ogni ritardo può disperdere gli individuati elementi ed impedire il fermo dell’imputato con danno grave della giustizia sia che questi poscia evada per sempre alla sua persecuzione, sia che distrugga i segni avuti indosso dal crimine (...)

Obbiettava in proposito il sig. Presidente che l’inquisizione delle tracce del delitto e sulle prove l’assunzione del corpo del delitto stesso e degli oggetti di convinzione sono lavori importantissimi esigenti non ordinaria capacità, perché non manchi la solida base del processo criminale e stimava perciò esser troppo azzardato e pericoloso lo affidare sì grave incarico ai giusdicenti municipali.

Ma l’autore della riforma sig. avv. Piacentini rispondeva che anche per questi giudici a senso dell’art. 16 del progetto si domandano i requisiti dei regolari studi compiti, dell’ottenuta laurea e di una pratica forense. Esser denno dunque capaci di tali affidatigli operazioni e poiché la giustizia ottiene un profitto coll’amministrarsi da loro nei contemplati casi non può prevalere motivo alcuno per cessarne lo incarico.

La riforma è mantenuta.Nel titolo II dei Pretori all’articolo 35 n. 2 chiesta ed

ottenuta la parola l’uditore sig. Ballanti proponeva di estendere la facoltà dei pretori a giudicare sulle prestazioni alimentarie qualunque sia la somma ed il titolo con sentenza interlocutoria non ledente il merito principale discutibile in via ordinaria avanti il competente tribunale, conforme in ordine agli alimenti dovuti per legge viene disposto nel titolo IV, sezione seconda, numero 513 e seguenti della vigente procedura. Egli crede che l’abilitare il pretore come nell’articolo del progetto e pronunziare con sentenza definitiva sugli alimenti che non eccedano la mensualità di scudi 15, sia un troppo allargare la

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sua giurisdizione perché si tratterebbe di una capitale di scudi 300 ragionato al (…), se poi la facoltà si riducesse ad ordinare una prestazione provvisoria, la giurisdizione sia di soverchio ristretta perché il limitandosi il giudizio al mero fatto dell’entità del patrimonio ed esistenza della parentela dell’alimentante coll’alimentario per proporzionare il conveniente quoto della sovvenzione nel caso di alimenti richiesti per ragione di sangue ed alla verifica del titolo in implicito stato di validità per le forme estrinseche nel caso di alimenti dovuti per atto scritto, non è l’indagine di maggior rilievo di quello sia nel sommarissimo possessorio od in altre consimili azioni nelle quali il pretore è competente somma indeterminata. Altronde non pregiudicandosi il merito che senza bisogno di appello della sentenza provvisionale può esser ventilato in primo grado e reclamando l’urgenza dell’individuale bisogno un provvedimento istantaneo è ben giusto che si adisca con procedura più semplice e spedita il giudice singolare del luogo, il quale non pregustando il diritto favorirà vie meglio la causa della parte privilegiata.

Rileva in contrario il sig. presidente che non essendo perpetua la prestazione, la competenza non si estenderebbe per 360 scudi perché cessa l’onore colla morte dell’alimentario e resta il capitale presso il sovventore. Il conoscere del nudo fatto dell’ossa patrimoniale e dell’esistente parentela non può bastare per deliberare con giustizia sull’ammettere o negare la richiesta provvisione alimentaria, ma devono calcolarsi molte circostanze per proporzionare la quantità e facilmente discutersi l’articolo sul diritto o no agli alimenti secondo il grado di cognizione e l’ordine di carità stabilito per questo debito. Similmente una qualche indagine dovuta per farsi dal giudice singolare sull’entità del titolo servito per non decretare inconsultamente prestazioni non dovute. Né il favore per l’istante d’ordinario povero può far diritto a largheggiare oltre i termini del dovere ed obbligare il convenuto ad un giudizio ex integro con avventurare frattanto la somma delle prestazioni provvisorie e delle spese senza probabilità di efficace ripetizione in caso di vittoria.

Facendosi carico monsignor Ruffini delle ragioni esposte per la riforma o conservazione del discusso articolo inclina ad uniformarsi al disposto dell’attuale procedura che in fatto non ha presentato per questo riguardo inconvenienti e reclami ad estendere altresì la facoltà di pronunciare in via provvisoria sulle prestazioni alimentarie reclamate in virtù di atto fra vivi o di ultima volontà.

Il giudice singolare deve potere nei limiti della sua giurisdizione ordinaria pesare i motivi concorrenti per la proposizione della quota alimentaria considerata la persona del debitore e del creditore ed entrare nella questione di articolo per l’ordine e per il grado del rapporto di sangue fra i contendenti come anche nel merito del titolo scritto, in seguito di che definitivamente decide. Ora, se altrettanto eseguita in via

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provvisoria per la somma che eccedere la sua competenza rispetto alla prestazione moltiplicata per gli anni determinati dalla procedura non si corre rischio che la sentenza incidentale arrechi un pregiudizio per interesse superiore alla somma o valore su cui può il giudice interloquire perché diurne o tuttalpiù mensile è la quota assegnata o da assegnarsi provvisoriamente in via di urgenza ed il soccombente può evitare il progresso del suo gravame col giudizio ex integro; onde raro sarà il caso che non siano arrestati gli effetti di un’incidentale sentenza prima del pagamento di 300 scudi. Ed egualmente raro sarà che l’alimentante non ripeta l’eccesso del suo debito nelle decurtate prestazioni avvenire, purché la domanda non sia interamente esclusa.

A fronte di un danno difficile a verificarsi e mai di gran conto, prevalgono le ragioni di urgenza e di umanità a prò dell’alimentario.

Ricevuta al Consiglio quest’ultima opinione l’articolo è stato modificato dal sig. avv. Piacentini nel senso della medesima.

Nella lettura del Titolo terzo “Dei tribunali di prima istanza” monsignor Morchini ha preso motivo di esibire uno scritto portante il confronto di spesa per l’articolo magistratura giudiziaria fra l’importo delle attuali istituzioni e delle proposte riforme, onde conciliare pubblicamente l’economia dell’erario colla retta amministrazione della giustizia. Ragionando sulla fatta dimostrazione, ripete lo sbilancio della nuova positività di fronte all’antico dell’impianto dei ministeri pubblici e dei giusdicenti municipali. Imperocché i procuratori della legge presso tutti i tribunali di prima istanza, gli avvocati della legge nei tribunali di appello e di ultimo grado e l’avv. dell’ordine pubblico in quello di Cassazione assorbirebbero coi loro convenienti onorari la cifra di (…) che 3mila scudi. Sia pure che gli emolumenti dei giudicanti municipali rimangano a carico dei rispettivi comuni. È sempre denaro che esce dalla borsa degli amministrati e il dispendio di particolari diviene un dispendio pubblico. La somma per tali onorari a 750 scudi giudici oltre due impiegati subalterni per cadauno in 852 municipi salirà all’importare cospicuo di scudi 301 mila circa. Il rimedio dunque sarebbe la istituzione del Ministero pubblico nei tribunali soltanto di appello e nei superiori e la esclusione dei giusdicenti municipali.

Monsignor Pentini è partito.Non conviene il sig. Presidente nei calcoli dell’esimio

collega. Vero è che sotto il Regno d’Italia nei tribunali di Appello e nella Corte suprema eravi un sostituto rappresentante il Ministero pubblico e nei tribunali di prima istanza il giudice più giovane ne faceva le veci. Ma è vero pure che immensa è l’utilità derivante dall’esistenza di un patrocinatore della legge in ogni tribunale siccome ora si pratica negli Stati più illuminati. Vada anche la cifra di 35 mila scudi per tale articolo di spesa. Una decurtazione ne verrà pel risparmio dei fiscali, non più necessari

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ove agisca il pubblico Ministero. Col progetto organico cessano vari tribunali della Capitale che costavano all’Erario una somma ingente. L’insieme dunque delle nuove ordinazioni porterà un compenso di equilibrio nel totale delle spese per il ramo giudiziario. Tutto lo sbilancio potrebbe verificarsi per l’impianto dei giudici municipali. Questa spesa peraltro riuscirà gravissima ai comunisti che avranno il comodo di veder definiti i loro piccoli interessi nel luogo del domicilio. Per il principio, appunto, che è pubblico danno il danno economico de’ privati, sarà valutabile ad indennità il risparmio ottenuto nel non eccedere alla residenza del pretore, nel fare a meno più facilmente dell’opera de’ considici cantoni del municipio nella sempre minore spesa per gli atti e nel sapere forse appena nata una lite coll’aiuto di onesto conciliatore. Circa gli impiegati subalterni il cursore è pagato dalle parti e le propine sono tantissime per le brevi distanze come lo saranno per la tassa da fissarsi in quantità più discreta di quella competente ai cursori delle superiori magistrature. Rimane un semplice attuario da contentarsi con modico soldo anche in ragione dell’economia offerta spesso dal luogo proprio pel proprio mantenimento. L’istituzione, da ultimo, oltre l’utilità pubblica contiene un benefizio per tanti mediocri ed onesti ingegni che cercano un pane, frutto de’ propri studi, e non lo trovano perché il numero degli impieghi è minore di quello de’ richiedenti meritevoli di provvista.

Applaude l’avvocato Sturbinetti alla considerazione del sig. Presidente e ripetendo che nell’articolo amministrazione di giustizia l’economia deve prendere l’ultimo posto, rileva un altro risparmio nella diminuzione della spesa carceraria per la più pronta abolizione o condanna dei prevenuti di piccoli delitti; dal qual risparmio pecuniario del Governo derivano eziando un risparmio di oppressione all’ inquisito coll’ abbreviato temine della sua detenzione.

In conseguenza degli estremi rilievi il Consiglio è restato fermo nell’avviso di mantenere le diverse classi delle magistrature giudiziarie individuate nel progetto.

Riguardo alla Cassazione però monsignor Ruffini ha di nuovo dichiarato che il numero di sette giudici, come all’art. 65 del Titolo VI, è sproporzionato all’esigenza di un tribunale supremo per le ragioni sviluppate in altra precedente seduta, nella quale fu sospesa sull’oggetto la definitiva delibera. Propone pertanto di comporre il collegio di 12 giudici compreso il Presidente ed il vice presidente.

È ordinata la votazione sull’emendamento del consigliere monsignor Ruffini dichiarandosi per l’affermativa l’alzata, per la negativa la seduta. Si levarono tutti e l’ emendamento è stato perciò approvato ad unanimità.

Previo il permesso della parola, l’uditore sig. Bellanti, sull’art. 68 dello stesso titolo, avverte che delle sentenze interlocutorie confermate in appello dovrebbe competere il

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ricorso alla Cassazione, potendo essere quelle pregiudiziali al merito della causa.

Il sig. Presidente distingue la preparatoria dall’interlocutoria. Per le prime non vi è il caso del ricorso perché riguardano la semplice attivazione. Delle seconde, che riferiscono alle prove, competa il ricorso congiuntamente con il merito. Ritenuto adunque che il regolamento di procedura definirà bene le une e le altre, dovrebbe emendarsi l’articolo col dichiarare che le preparatorie non sono suscettibili del rimedio straordinario di cassazione e le interlocutorie lo sono copulativamente alle rispettive sentenze sul merito principale.

Segue l’ammendamento consentaneo alla proposizione del sig. presidente.

Nel disposto dell’art. 75 il sig. avv. Sturbinetti scorge una contraddizione coi principi generali del diritto comune. La declaratoria del corpo legislativo sull’intelligenza di una legge che la Cassazione ritenne violata dovrebbe, a senso dello stesso articolo, dar norma per la decisione di una lite terminata con tre sentenze contrarie al giudizio di unico tribunale, sebbene supremo, mentre la declaratoria sopra legge controversa ed osserva la natura di legge nuova che non può aver forza retroattiva. Conchiude perciò che dopo la conferma della sentenza cassata debba negarsi il diritto del ricorso per la restituzione in intiero stando la presunzione di verità nel sentimento di tanti magistrati concordi.

Monsignor Ruffini, stimando grave il tema della discussione, domanda che la delibera si aggiorni per altra adunanza.

Il sig. Presidente aderendo alla richiesta ha sciolto la seduta.

Il presente verbale è firmato dal sig. presidente e dal segretario generale.

Consiglio di Stato, sedute dell’11 e 12 settembre 1848Consiglieri intervenuti: Avvocato Filippo Bonacci, Avv.

Giuseppe Piacentini, Prof. Francesco Orioli, Prof. Salvatore Betti, Avv. Luigi Ciofi, Prof. Pietro Carpi, Avv. Luigi Santucci, (Marchese) Ludovico Potenziani, Monsignor Ildebrando Rufini, Avv. Pietro Pagani, Monsignor Giovanni Battista Palma. Monsignor, Carlo Luigi Morchini, Avv. Giuseppe Giuliani, Monsignor, Francesco Pentini.

La seduta ha incominciamento colla discussione dell’art. 75 sospesa nella tornata del 9 corrente sul merito della declaratoria di una legge dopo la conferma della sentenza della Cassazione annullate per creduta violazione della legge stessa.

Pesando monsignor Pentini le ragioni da alcuni colleghi dedotte in difesa del principio che la declaratoria di una legge non può dar norma al giudizio su questioni pendenti o definite, marcava la differenza tra declaratoria e legge nuova. Questa

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senza dubbio esser deve operativa nei casi futuri, perché i privati sono colpiti dalla disposizione vigente all’avvenimento di essi nella qual epoca è quesito il diritto a chi ne è favorito, e nasce l’obbligo in chi ne sopporta l’applicazione passiva. I giudici riguardar non possono al giorno della loro sentenza, ma a quello del fatto da cui parta l’azione intentata. Viceversa, la declaratoria di una legge suppone di necessità la precedente esistenza della legge medesima ed è l’interpretazione legale per organo di chi avea il potere di crearla. Non si fa pertanto ingiuria ad alcuno de’ litiganti se la suprema autorità legislativa restituisce alla disposizione di diritto il senso germano che gli appartiene. Imperocché la legge aveva ricevuta da una consuetudine regolarmente introdotta una spiegazione diversa da quella né importava la lettera e lo spirito e sanno tutti che la consuetudine etiam contra legem est altera lex, né i tribunali riflettendo la consuetudine violano la legge, né deve implorarsi declaratoria contro l’implicita volontà della legislatura, che sciente dell’interpretazione infedele non la impediva. E questa consuetudine non si verifica e non si è indotto perciò in ius de novo e qualunque ambiguità ed oscurità della legge, essendo le parti veruna delle opposte intelligenze ha stabilito il diritto o almeno la buona fede dell’una contro dell’altra onde è pur giusto che il favore della declaratoria cada su quella la quale aveva realmente per se la vera intenzione della legge fin dal momento della sua originaria esistenza.

Si associa il sig. Presidente al voto dell’egregio preopinante ed avvalora la sua proposizione col riflesso che la declaratoria della quale nell’articolo è invocata sempre per causa pendente in quanto che la cassazione concedendo la restituzione in intiero interloquì su di un presente caso in cui ritiene male applicata la legge e fra la sua sentenza e quella del tribunale di rinvio entra il corpo legislativo a spiegar la sua mente. Inoltre il rimedio straordinario della restituzione in intiero si accorda per manifesta violazione di legge e l’obbietto perciò si fonderebbe nel dubbio da cui non potrebbe partire.

La proposta è così formulata.Se si vuole che nel caso dell’art. 75 il potere legislativo

dichiari la legge a senso della proposta riforma ovvero che non sia luogo a ricorso contro la sentenza del tribunale di rinvio confirmatoria di quella cassata?

L’alzata approva la prima parte, la seduta la seconda. Sei alzati, quattro seduti. La prima parte è vinta a pluralità.

In sequela del risultato della votazione il sig. Presidente esprime il suo pensiero esser convenevole ed opportuno per la spedita amministrazione della giustizia che la causa agitata e riprodotta le tante volte abbia pure un termine immediato dopo la dichiarazione dei consigli deliberanti e la Cassazione, nel decidere sulla restituzione in intiero, giudichi anche sul merito della lite con unica sentenza. La riforma è a viva voce consentita e siegue come è marginalmente notato sulla stampa.

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All’articolo 77, ove per i motivi espressi in altra seduta si attribuisce alla Cassazione esclusivamente il giudicare sulla ricusa de’ giudici, avocazione, e remissione della causa da una sezione all’altra dell’ultima istanza, si è dubitato se anche convenisse che quel tribunale supremo avesse a definire le frequenti e gravi dispute di competenza di azione civile o criminale e di sospensione o no di un giudizio di una specie fino all’esito di quello dell’altra, avvero tale materia riservar si dovesse al giudice o tribunale che primo è chiamato a decider sull’intentata azione. Considerandosi dall’intero consesso che gravi intralci e collisioni occorrerebbero fra i tribunali diversi, e preoccupazione di merito anche nella stessa unica magistratura, se di quelle primordiali controversi s’ingerissero i giudici chiamati a pronunziare sull’intrinseco della lite, si è risoluto di definire alla Cassazione la giurisdizione privativa per i titoli enunciati. L’appendice è redatta dall’estensore del progetto nei termini convenuti.

Aveva di già il Consiglio ritenuto che il reperimento di documenti decisivi dopo nata la cosa giudicata non facesse sorgere il bisogno di ricorrere al benefizio della restituzione in intiero, ma desse il diritto a riproporre le cause avanti la magistratura autrice della sentenza inappellabile, perché alterandosi il fondamento del giudizio, il giudizio doveva necessariamente cambiarsi.

A questo proposito obiettava l’avv. Santucci che se i documenti decisivi della lite si rinvenissero dopo la cosa giudicata avvenuta nell’ ultima istanza non vi sarebbe più cui ricorrere per avere due conformi fondate sui documenti medesimi, perché non vi è altro grado da consumare e veruna delle precedenti sentenze poté avere l’appoggio dei titoli ritrovati in appresso. E il detto tribunale riconosce documenti non influenti a revocare il reso giudicato e non deve dirsi che non è lecito proseguire ulteriormente il giudizio, ma piuttosto che l’istanza per la revoca sarà rigettata senza benefizio di appello.

Il sig. Presidente diluiva l’obbietto col fissare la regola generale che il tribunale autore della cosa giudicata interloquisce sui nuovi documenti e rigetta od ammette la domanda di revoca della sentenza inappellabile. Quindi si facciano pure gli altri casi. Se nel secondo grado ebbe luogo la giudicata questo istesso o sta in decisis, ed è terminato ogni rimedio di revisione, o il suo giudizio e l’appello è nel terzo grado che pur supponiamo sia l’ultima istanza. Se questa approva la fatta revoca nascono le due conformi nel secondo e terzo grado; se la esclude, la regiudicata viene costituita colle conformi sentenze di primo e di terzo grado. Qualora per strana ipotesi i documenti decisivi si esibissero in ultima istanza, il primo turno che fa sorgere la giudicata nella difformità delle due sentenze di prima, di seconda pronunciate sul merito di quelli o revocando il reso giudizio darebbe luogo all’appello al secondo

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turno che comunque decidesse, andrebbe a combinare le due conformi come si è sopra dimostrato. Caso che nel secondo turno si producono i documenti nuovi non si può avere perché senza l’esibita fattane nel primo turno la cosa giudicata che necessariamente si compone nel terzo grado non sarebbe pel discusso titolo alterata né entrerebbe la possibilità della revisione. Metafisico è da ultimo il caso che nel terzo grado si valutino i documenti nuovi e decisivi in modo diverso da quello in che furono valutate dal primo turno onde emerge una revoca difforme, subito che per essere appunto i documenti decisivi devono presentare una chiarezza di carattere e di peso da non ammettere probabilità d’interpretazioni discordi.

Apprezza monsignor Pentini lo stretto ragionamento del sig. Presidente quando si ammettesse giusto il principio che il medesimo giudice o tribunale possa tornare sul suo giudicato per il titolo espresso senza la censura del bis in idem. Ma egli non conviene o meglio nell’eccezione della regola generale contraria. Il documento nuovo e decisivo vizia la cosa giudicata per titolo di manifesta ingiustizia mentre fa cadere il cardinale elemento che gli diede esistenza. Si devono pertanto applicare nel caso le medesime norme stabilite per la Cassazione nel rinvio delle cause e percorsi tutti i ritardi dei giudizii non deve tornarsi indietro per non riprodurre i disordini ora lamentati di non vedere mai inappellabile una sentenza se non in ultimo grado. L’accordare allo stesso tribunale il diritto di rimandare il proprio giudicato è un ricopiare il poterit legi della Segnatura che tutti i popoli detestano, è un perpetuare l’incertezza delle proprietà e delle liti.

Ritenuta il confronto monsignor Ruffini per la intera diversità dei due casi. I nuovi documenti se sono decisivi, quanto è dire se ... l’intentata azione o l’eccezione proposta, come sarebbe un atto di quietanza, di rinunzia, alterano il giudicato in modo che è a credere che non avrebbe il magistrato deciso in quei termini qualora avesse prima conosciute le giustificazioni poscia esibite. Non avviene dunque il recesso dell’emanata sentenza per cambiamento di opinione ma di circostanze, laddove il poterit legis in Segnatura si concede etiam nebis in eadem stata ma (…) per tentare avanti il supremo tribunale in altro giudizio revocatorio del primo. E perché il ricorso all’istesso tribunale nasce dopo la cosa giudicata, si ottiene invece della parità, l’abbreviamento delle liti quando lungi d’implorare in Cassazione il rimedio straordinario delle restituzione in intiero col rinvio ad altro tribunale fuori del domicilio delle parti, si procura che l’errore di fatto avvenuto senza colpa di giudicati dai medesimi si corregga piuttosto che salire ad un tribunale supremo, passar quindi all’altro di rinvio e nel caso di revoca dalla giudicata subire un terzo esperimento per aggiungere le due conformi. L’ingiustizia manifesta si ha poi colla violazione della legge non colla nuova scoperta di fatti prima ignorati. In conseguenza non potendosi portare querela

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contro gli autori della cosa giudicata perché nello Stato degli atti era giustissima, è bene in regola che ad essi e non contro di essi si ricorra per la riforma.

(In mezzo al dibattimento sull’indicato articolo sopraggiunge il S. C. il sig. Ministro delle Finanza, il quale interessa il Consiglio a sospendere l’intera discussione).

Si prosiegue la lettura dell’esame dell’organico.Fermo il Consiglio il progetto di doversi rivedere la causa

avanti i giudici autori della cosa giudicata pel rinvenimento di nuovi documenti decisivi alla lite del sig. avv. Piacentini si propone l’ammenda di una parte dell’articolo 80 nei seguenti termini.

“Se questo giudice o tribunale ritiene che i nuovi documenti non sono decisivi, rigetta l’istanza e non è luogo a proseguire il giudizio. Se invece ritiene che detti documenti siano decisivi giudica di nuovo la causa nel rispettivo grado della sua giurisdizione.”

L’ammenda è unanimemente approvata.Nel titolo VII “Dei tribunali militari” sono proposte ed

ammesse senza contrasto piccole modificazioni agli articoli 87, 89, 90 trascritte in margine alla stampa che in qualità di originali si conserva negli atti di ufficio.

Nel titolo VIII “Del Ministero pubblico” all’art. 94 muovevasi dubbio 1) se fosse conveniente rimettere al solo arbitrio di quel rappresentante del Governo il fare o no le conclusioni in udienza presso i tribunali o meglio fosse di dichiarare alcuni casi da prevenirsi dalla legge di procedura, 2) se dovesse limitarsi la sua vigilanza sui tribunali e Curia rispetto ad estendersi anche sui giudici inferiori e causidici avanti di essi esercenti. Si è di concorde parere ammessa la seconda parte delle due proposizioni e nel senso della delibera è accaduta la riforma.

Nb. Monsignor Pentini si è allontanato. E’ sopravvenuto il sig. avv. Sturbinetti.

Nell’art. 98 l’avv. Piacentini non ravvisa ragionevole il disposto che cessata una sentenza per violazione di legge a richiesta del pubblico Ministero non possa il tribunale di revisione aggravare la condizione del reo, quando lo creda meritevole.

Ma replicatosi dal sig. Presidente che il ricorso per l’interesse della legge non da titolo ad alterare la forza del condannato, ma nel caso di violazione riconosciuta e autorizza a far correggere l’errore per i casi futuri. Si è mantenuta la sostanza dell’articolo con rettificazione di frase come alla stampa.

Sul titolo X “Dei giurati”, il sig. marchese Potenziani all’art. 108 rimarca che l’esigere due terzi di voti per stabilire la colpabilità dell’imputato è un ammettere per costante regola l’assoluzione. Tanto è difficile che in quel collegio di giudici non giudicati da uniformità di criteri e di sentire per determinare la

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verità di fatto si ottenga unicità di parer nella maggior parte di essi! Inoltre il definire col nome di giudizio in genere la dichiarazione da farsi dai giurati può far sorgere l’equivoco che siano abilitati ad interloquire sul merito dell’azione criminale, quantunque nel precedente articolo 107 si dia cenno della loro attribuzioni. Considerandosi dal Consiglio, che limitatosi l’ufficio dei giurati alla sola cognizione dei delitti di stampa, che offrono una prova evidente nell’ingenere e nella specie, difficilmente può avvenire la immaginata discrepanza di opinioni. Si è conservato lo stabilito numero di voti. Ad evitare peraltro qualunque incertezza sulle precise facoltà di quei giudici di fatto, si è dal sig. avv. Piacentini formulata la seguente correzione: “la dichiarazione dei giurati che l’accusato è colpevole, come pure la dichiarazione delle circostanze aggravanti del delitto non può esser resa che dal concorso di due terzi di voti.”

A viva voce la correzione è consentita.Soppresso il titolo XI “Del contenzioso amministrativo”,

come alle precedenti risoluzioni, il titolo XIII, “Dei magistrati o ufficiali addetti all’ordine giudiziario” passa ad essere undecimo. Eseguite alcune variazioni agli articoli 111, 115 e 117, sul 118 si eccitava la disputa, se presso i pretori impiantar si debbano i procuratori della legge. Confermatosi il riflesso che sarebbe troppo grave il dispendio di tanto moltiplicare i pubblici Ministeri, si è deliberato di ammettere presso ogni Pretore un Pretore sostituto della legge, il di cui ufficio esser debba gratuito, come è d’ordinario quello dei Fiscali dinnanzi gli attuali governatori. L’emendamento è operato nel modo della delibera.

Ultimata la lettura del progetto e portate tenui variazioni agli articoli 119, 120, 123, come alla stampa, la seduta è sciolta ed il presente verbale viene firmato dal sig. Presidente e dal Segretario generale.

6. Riproduzioni fotostaticheRegolamento organico giudiziario356

Progetto di Regolamento organico giudiziario nel Foro laico357

356 ASR, Commissione per la compilazione dei codici, b. 4 e ASR, Consiglio di Stato (1848-1849), b. 2.

357 ASR, Consiglio di Stato (1848-1849) “Progetto di Regolamento organico del Foro laico”, b. 2.

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7. Bibliografia

Fonti bibliografiche

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Moto proprio della Santità di Nostro Signore Papa Pio VII in data dè 22 novembre 1817 sul nuovo codice di procedura civile esibito negli atti del Nardi Segretario di Camera il dì, anno e mese suddetto, Roma, Presso Vincenzo Poggioli Stampatore della R.C.A.

Regolamento di commercio del primo giugno 1821 già in vigore nelle Province delle Romagne, delle Marche e dell’Umbria, rist., Bologna, 1864.

Moto proprio della Santità di N.S. Leone XII in data 5 ottobre 1824 sulla riforma dell’amministrazione pubblica della procedura civile e delle tasse dei giudizi, Roma, Poggioli stampatore, 1824.

I regolamenti penali di papa Gregorio 16 per lo Stato pontificio (1832), Ristampa anastatica, Cedam, 2000.

Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili emanato dalla santità di nostro Signore Gregorio XVI con moto proprio del 10 novembre 1834 esibito il 17 dello stesso mese negli atti dell'Apollonj segretario e cancelliere della R. C. A, Roma, 1834.

Editto del 17 dicembre 1834 contenente particolari disposizioni indicate nei §§ 257 e 244 del Sovrano motu proprio in data 10 novembre 1834, Bologna, Tipografia Vitali.

I regolamenti penali di papa Gregorio XVI Per lo Stato pontificio (1832), Ristampa anastatica, Cedam, 2000.

Regolamento di giustizia criminale e militare del 1° aprile 1842, in, Raccolta delle leggi e di disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio emanate nella Santità di Nostro Signore Papa Pio IX felicemente regnante, Vol. unico, Roma, nella stamperia della R.C.A., 1842.

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Disposizioni risguardanti l’amministrazione della punitiva giustizia del 1° gennaio 1847, in, Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio emanate nella Santità di Nostro Signore Papa Pio IX felicemente regnante, Vol. I, atti pubblicati dal 6 giugno 1846 al 31 dicembre 1847, Roma, nella stamperia della R.C.A., 1849.

Ordine circolare della Segreteria di Stato col quale si prescrive ai tribunali il metodo da tenersi in avvenire per la trasmissione degli stati delle cause pendenti e delle visite carcerarie, 30 gennaio 1847, in, Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio emanate nella Santità di Nostro Signore Papa Pio IX felicemente regnante, Vol. I, atti pubblicati dal 6 giugno 1846 al 31 dicembre 1847, Roma, nella stamperia della R.C.A., 1849.

Moto proprio della santità di Nostro Signore concernente l’instituzione di un consiglio de’ ministri del 12 giugno 1847, in Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio emanate nella Santità di Nostro Signore Papa Pio IX felicemente regnante, Vol. I, atti pubblicati dal 6 giugno 1846 al 31 dicembre 1847, Roma, nella stamperia della R.C.A., 1849.

Disposizioni risguardanti l’amministrazione della punitiva giustizia del 1° gennaio 1847, in, Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio emanate nella Santità di Nostro Signore Papa Pio IX felicemente regnante, Vol. I, atti pubblicati dal 6 giugno 1846 al 31 dicembre 1847, Roma, nella stamperia della R.C.A., 1849.

Ordine circolare della segreteria di Stato col quale si prescrive ai tribunali il metodo da tenersi in avvenire per la trasmissione degli stati delle cause pendenti e delle visite carcerarie, 30

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gennaio 1847, in, Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio emanate nella Santità di Nostro Signore Papa Pio IX felicemente regnante, Vol. I, atti pubblicati dal 6 giugno 1846 al 31 dicembre 1847, Roma, nella stamperia della R.C.A., 1849.

Moto proprio della santità di Nostro Signore concernente l’instituzione di un consiglio de’ ministri del 12 giugno 1847, in Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio emanate nella Santità di Nostro Signore Papa Pio IX felicemente regnante, Vol. I, atti pubblicati dal 6 giugno 1846 al 31 dicembre 1847, Roma, nella stamperia della R.C.A., 1849.

Disposizioni aggiunte in via provvisoria al pontificio moto-proprio sul consiglio dei ministri del 26 giugno 1847, in, Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio emanate nella Santità di Nostro Signore Papa Pio IX felicemente regnante, Vol. I, atti pubblicati dal 6 giugno 1846 al 31 dicembre 1847, Roma, nella stamperia della R.C.A., 1849.

Moto proprio della Santità di nostro Signore Papa Pio IX sul Consiglio dei ministri del 29 dicembre 1847, in Raccolta di leggi e di disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio emanate nella Santità di Nostro Signore Papa Pio IX felicemente regnante, Vol. I, atti pubblicati dal 6 giugno 1846 al 31 dicembre 1847, Roma, nella stamperia della R.C.A., 1849.

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