Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea

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...Non c’è opera della rappresentazione letteraria del secondo Novecento che non tenda, in qualche modo, al verosimile e, al contempo, non additi la propria maschera. La poesia e il romanzo dello sperimentalismo, rispetto alla poesia del post-ermetismo e dell’ermetismo, ha una sofisticata coscienza del carattere di “finzione” dell’opera letteraria, ha coscienza della propria maschera, anzi, c’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”»...

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Dopo il Novecento

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€ 14,00

«“Andiamo verso la catastrofe senza parole. Già le rivoluzioni di domani si faran-no in marsina e con tutte le comodità. I Re avranno da temere soprattutto dai

loro segretari”. Era l’aprile del 1919 quando Vincenzo Cardarelli scriveva queste parole. Era iniziata la rivoluzione della società di massa, la rivoluzione industriale era ancora di là da venire, e l’epoca delle avanguardie era già alle spalle, il ritorno all’ordine era una strada in discesa, segnato da un annunzio che sembrava indiscutibile.Oggi, a distanza di quasi un secolo dalle parole di Cardarelli, è avvenuto esattamente il contrario di quanto preconizzato dal poeta de “La Ronda”: oggi andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole. Le rivoluzioni di domani non si faranno né in marsina né in canottiera, né con tutte le comodità né con tutti gli incomodi: non si fa-ranno affatto. Una poesia come questa del Dopo il Novecento non può che nascere in un’epoca in cui parlare di “rivoluzione” è come parlare di ircocervi in scatola. Non c’è opera della rappresentazione letteraria del secondo Novecento che non tenda, in qual-che modo, al verosimile e, al contempo, non additi la propria maschera. La poesia e il romanzo dello sperimentalismo, rispetto alla poesia del post-ermetismo e dell’ermeti-smo, ha una sofisticata coscienza del carattere di “finzione” dell’opera letteraria, ha co-scienza della propria maschera, anzi, c’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”». In questo appassionato monitoraggio della poesia italiana dell’epoca della stagnazione Linguaglossa ci dà il meglio delle sue capacità critiche.

Giorgio Linguaglossaè nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. È autore di tre libri di poesia: Uccelli (1992), Paradiso (2000) e La Belligeranza del Tramonto (2006). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, con Dante Maffìa, Giuseppe Pedota e Maria Rosaria Madonna il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicandolo nel n. 7 della ri-vista. Nel 2001, pubblica il racconto lungo Storia di Omero nel volume Via Pincherle – Modelli narrativi a confronto e, nel 2005, il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. È del 2003 il libro di saggi, Appunti Critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte, Roma, Libreria Croce. Come saggista è presente in Linee odierne della poesia italiana, a cura di Roberto Bertoldo (2001), ha curato la sezione critica dell’antolo-gia La poesia degli anni Novanta (2002); nel 2007 pubblica il saggio Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia, Firenze, Passigli e, nel 2010, La nuova poesia modernista italiana (1980-2010), Roma, EdiLet. Nel 2010 esce il romanzo storico Ponzio Pilato, Milano, Mimesis. Nel 2011 esce per EdiLet Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010).

Giorgio Linguaglossa

Monitoraggio della poesia italiana contemporanea

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Giorgio Linguaglossa

Dopo il Novecento Monitoraggio della poesia italiana contemporanea

Editrice FiorentinaSocietà

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© 2013 Società Editrice Fiorentinavia Aretina 298 - 50136 Firenze

tel. 055 [email protected]

isbn 978-88-6032-235-7issn: 2035-4363

Proprietà letteraria riservataRiproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata

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Indice

la partenza degli argonauti

9 Andrea Zanzotto, Angelo Maria Ripellino, Roberto Mussapi, Giampiero Neri, Antonio Riccardi, Gian Mario Villalta, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Valerio Magrelli, Patrizia Cavalli, Antonella Anedda, Patrizia Valduga, Giuseppe Conte, Isabella Vincentini, Rosita Copioli, Anna Ventura, Lidia Gargiulo, Lidia Are Caverni, Daniela Raimondi, Maria Teresa Ciammaruconi, Francesca Diano, Laura Canciani, Sauro Albisani, Mario Specchio, Mario Marchisio, Massimo Giannotta, Salvatore Martino, Claudio Damiani, Ennio Cavalli, Flavio Almerighi, Nicola Vitale, Mario Benedetti, Fabio Pusterla, Umberto Fiori, Umberto Simone, Francesco Giuntini, Fornaretto Vieri, Aldo Nove, Tiziano Salari, Gilberto Isella, Alfredo Rienzi, Marco Onofrio, Jolanda Insana, Giuliana Lucchini, Maria Marchesi, Fortuna Della Porta, Serena Maffìa, Adriano Accattino

14 Retrospettiva del contemporaneo

il post-contemporaneo

37 Lo spartiacque del 1950

50 L’atonalismo e la dissonanza semantica: Camillo Pennati

57 Il «discorso poetico» senza interlocutore: Alberto Bevilacqua

63 La poesia della irriconoscibilità: Cesare Viviani

69 Il linguaggio poetico magmatico e detritico: Dante Maffìa

77 L’arcaicità della poesia a-norganica, a-temporale: Luigi Manzi

81 La poetica del post-contemporaneo: il tonosimbolismo. Roberto Bertoldo

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89 Il problema dell’identità: Ennio Abate

94 Paolo Ruffilli

dopo il novecento. le questioni aperte

101 Non c’è modello né secondarietà del discorso poetico. Fabrizio Dall’Aglio, Francesco De Girolamo, Gianni Iasimone, Valentino

Campo, Sandro Montalto, Daniele Santoro, Aldo Nove, Leopoldo Attolico, Marco Onofrio, Giuseppina Amodei, Chiara Moimas

120 Bentornata Realtà. Dopo il Novecento: il ritardo storico della poesia italiana Aldo Onorati, Paolo Lezziero, Sauro Albisani, Ennio Cavalli, Tomaso

Kemeny, Fausta Squatriti

129 Dopo il Novecento: alcune voci della recente poesia. Bruno Galluccio, Luciano Nota, Erri De Luca, Daniela Marcheschi,

Rossella Seller, Raffaele Gabbia, Umberto Simone, Gianmario Lucini, Gianni Iasimone, Paolo Ottaviani, Ivan Pozzoni, Lorenzo Pezzato, Giusi Maria Reale, Luca Benassi, Letizia Leone, Antonella Catini Lucente, Laura Sagliocco, Serena Maffìa, Massimo Pacetti, Maria Benedetta Cerro, Cristina Sparagana, Paolo Carlucci, Faraòn Meteosès, Francesco Tarantino, Nicoletta Di Gregorio, Matteo Veronesi, Mariangela Gualtieri, Maurizio Soldini, Vincenzo Mascolo, Donato Salzarulo, Giorgio Mannacio, Alberto Pellegatta, Giuseppina Di Leo

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La partenza degli Argonauti

«Ci sono degli uomini sulla spiaggia».«Sì, ci sono degli uomini».«Ma che ci fanno quegli uomini sulla spiaggia? giocano a palla? giocano a tennis?»«No, non giocano né a palla né a tennis».«E allora, che ci fanno quegli uomini sulla spiaggiaaccanto alla nave dalla snella chiglia?»«Oh, non fanno nulla. Sono e non sono».«E che ci fa quel tizio che li accompagna con la tunica bianca mentre suona la lira?»«Ma quel signore è il poeta Orfeo che suona la lira!».«Canta anche il signor Orfeo mentre che suona?»«Sì, il signor Orfeo canta anche».«E che cosa dice il signor Orfeo nel suo canto?»«Dice che gli uomini stanno partendo».«Stanno partendo?»«Sì».«E per dove?»«Chissà chi lo sa».«E lui lo sa?»«No, lui non lo sa, ma canta».«Canta ciò che non sa?»«Sì».«Ma è un bugiardo il signor Orfeose non sa quel che dice… dovremmo mandarloin esilio il signor Orfeo, bandirlo per sempredalla città! non credi?»«Oh no, non credo, il signor Orfeo ha soltanto un compitoche deve limitarsi ad eseguire. Tutto qui».«E quegli uomini lo sanno che Orfeo è un mentitore?»«No, gli uomini non lo sanno… e non lo devono neanche sapere!»«E adesso, è pronta la nave?»«Sì, adesso è pronta».

Giorgio Linguaglossaispirato da La partenza degli Argonauti (1909) di Giorgio De Chirico

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La partenza degli Argonauti

Andrea Zanzotto, Angelo Maria Ripellino, Roberto Mussapi, Giam-piero Neri, Antonio Riccardi, Gian Mario Villalta, Maurizio Cuc-chi, Milo De Angelis, Valerio Magrelli, Patrizia Cavalli, Antonella Anedda, Patrizia Valduga, Giuseppe Conte, Isabella Vincentini, Ro-sita Copioli, Anna Ventura, Lidia Gargiulo, Lidia Are Caverni, Da-niela Raimondi, Maria Teresa Ciammaruconi, Francesca Diano, Laura Canciani, Sauro Albisani, Mario Specchio, Mario Marchisio, Massimo Giannotta, Salvatore Martino, Claudio Damiani, Ennio Cavalli, Fla-vio Almerighi, Nicola Vitale, Mario Benedetti, Fabio Pusterla, Um-berto Fiori, Umberto Simone, Francesco Giuntini, Fornaretto Vieri, Aldo Nove, Tiziano Salari, Gilberto Isella, Alfredo Rienzi, Marco Onofrio, Jolanda Insana, Giuliana Lucchini, Maria Marchesi, Fortu-na Della Porta, Serena Maffìa, Adriano Accattino

In un certo senso il viaggio della poesia moderna è analogo al viaggio degli argonauti, è un viaggio alla ricerca del vello d’oro. Un viaggio misterioso, pie-no di insidie. È un mito, anzi, il duplicato di un mito. Orfeo assiste sulla spiaggia con il canto e il suono della lira gli argonauti che stanno per partire. Ma è davvero così? Noi sappiamo degli argonauti per merito di Orfeo. Ma oggi, Orfeo dov’è? Perché sta sulla spiaggia, in disparte, con la sua lira? E il vello d’oro? E i prodi argonauti? Nulla. Tutto è scomparso. Davanti a chi oggi tenti l’impresa c’è il mare dell’ignoto, e dietro di essi non c’è neanche più il conforto della tradizione, non c’è nessun Orfeo che attende con la sua lira, c’è l’oblio che si estende come una tenebra fitta. Dopo il Novecento si estende la pista di pattinaggio del post-contemporaneo. Nel tentativo di inseguire il «reale» la poesia del Novecento è diventata verosimile, pragmatica, prevedibile. Una procedura di montaggio esemplata sulla tecnica del cinematografo. Nel mi-

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gliore dei casi un «io» ammobiliato, con gli «oggetti» stipati e costipati, nel peggiore un «io» che ha messo in liquidazione il proprio mobilio. Da una parte è stato rottamato il principio logico-sperimentale del rispondere, dall’al-tro, è invalsa una procedura proposizionalistica della versificazione che non risponde più ad alcun principio di verificazione sintattica e referenziale.

È noto che l’industria culturale ha bisogno di una critica agnostica, neutrale, giornalistica, che assevera in pubblico ciò che schernisce in privato. Sorge una nuova figura: il contemporaneista che si occupa del «contemporaneo»; ma che cos’è il «contemporaneo»? Chi è che dà questa etichetta a qualcosa? E perché? Ed ecco che il contemporaneista vive nell’ansia che gli venga sottratta la realtà: i libri sono merci che portano una etichetta e il contemporaneista deve soltanto comporre un comunicato stampa; è un eclettico che può scrivere di tutto senza ritenersi in colpa per non saper esprimere una idea di indirizzo, di visione com-plessiva del «contemporaneo». Così come nei bilanci commerciali dei prodotti dell’industria è prevista una quota per il finanziamento della pubblicizzazione dei prodotti dell’industria, oggi non v’è quasi più differenza tra il lessico e lo stile degli articoli pubblicitari ed il lessico e lo stile del contemporaneista: i ri-svolti di copertina e le recensioni sui quotidiani e sulle riviste sono impeccabili quanto a impersonalità e ad ipocrisia esornativa. Già nel 1960 Franco Fortini rilevava che «le differenze più appariscenti fra critica accademica, critica di pri-mo intervento e pubblicistica militante sono di molto diminuite»1. Diremo di più, oggi non v’è più alcun bisogno di una critica militante, sia perché non c’è più nulla ormai contro cui militare, sia per il molto prosaico motto: chi fa per sé fa per tre. Come rilevò Adorno, l’industria culturale non ha più neanche in-teresse ad umiliare i barbari da essa prodotti, li lascia benevolmente in vita, li coccola e li protegge. Lo snobismo, privato della sua matrice dandystica, è di-ventato un costume di massa perfettamente innocuo e consumabile dalla classe snob; il bric à brac post-arbasinesco è indispensabile a dare una patina letteraria alle pagine post-culturali dei quotidiani e degli almanacchi patinati. Il principio di confusione ha talmente bisogno di una avanguardia e di una retroguardia, vere o false che siano, che, se non ci sono, è in grado di crearle in 48 ore dall’e-quilibrio instabile del conformismo mediatico. Ma le crea nel suo più proprio terreno: la moda e il bric à brac mediale. È proprio della media-sfera la convi-venza contemporanea di entrambe le dimensioni, di coloro che guardano in avanti, della cosiddetta «avanguardia», e di coloro che guardano indietro, della «retroguardia». Il principio di confusione si nutre di innumerevoli palcoscenici, moltiplica i palcoscenici e i gettoni di presenza: i libri diventano gettoni di pre-senza. In tal senso gli ultimi libri di Franco Buffoni ne sono un esempio inegua-gliato: superficie x superficie = stile da superficie. È proprio della media sfera stilare le classifiche dei libri più gettonati. Compito del giornalista culturale e del poeta ufficiale è diventato registrare i gettoni di presenza.

1 F. Fortini, Verifica dei poteri, Milano, Il Saggiatore, 1975, p. 102.

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Come erano belli gli anni ’60 quando la motorizzazione della società lette-raria lasciava ancora spazio per il pessimismo! Oggi è financo sordido esprime-re pessimismo e ottimismo, siamo tutti diventati pragmatici e scettici, tutto riconduciamo ad una questione di dare e avere. Il trionfo del romanzo omile-tico, dalla Tamaro a Moccia, sigilla il successo e il trionfo della cultura dell’evo mediatico.

Il 1 gennaio 2000 siamo entrati nel Dopo il Moderno. Che significa questa formula che prendo in prestito da Giuseppe Pedota?2 Che dopo il Moderno non c’è nient’altro che il Moderno che si estende e si prolunga all’infinito. Dopo il Novecento c’è il seguito, il post del Novecento, un duplicato del Nove-cento, in versione minimale e minimalista, un duplicato del tardo Novecento nella sua versione acritica. Si ha l’impressione che la poesia delle generazioni nate dopo gli anni Cinquanta voglia ripristinare un discorso poetico che miri al «senso» ma senza possedere una visione critica complessiva dell’oggetto «senso». L’ultima generazione ancora in possesso di una visione critica, quella nata, diciamo, prima degli anni Cinquanta è rimasta senza eredi. Le genera-zioni che seguono sembrano avere smarrito un concetto forte di cultura critica del discorso poetico, del quale hanno una visione sensuosa, seduttiva e molto spesso magica.

Chiediamoci: che cosa è rimasto Dopo il Novecento di un poeta come Sal-vatore Toma che fa una poesia della fine e la porta a termine con il suicidio? La risposta è semplice: niente. Le sue poesie edite nel 1999 da Einaudi (Can-zoniere della morte) per interessamento di Maria Corti mettono la parola «fi-ne» al Novecento. Della trilogia di Helle Busacca, I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974) e Niente poesia da Babele (1980), è rimasto il monu-mento funebre fatto per recare traccia e memoria del suicidio del fratello «al-do»; un monumento diroccato, irriconoscibile e inservibile; della poesia di Maria Rosaria Madonna, Stige (1992), ci resta una superficie con incisi dei se-gni simili a geroglifici che rimandano ad una traccia di qualcuno che è vissuto nel tempo, in un tempo irripetibile; così di Altre foto per album (1996) di Giorgia Stecher, di Giuseppe Pedota con Equazione dell’infinito (1996) e Ein-stein. I vincoli dello spazio (1999), di Maria Marchesi con L’occhio dell’ala (2003) e Evitare il contatto con la luce (2005), ciò che ci resta sono dei monumenti diroccati scritti in un tempo rottamato e irriconoscibile. È l’ultimo fuoco fa-tuo del Novecento che si spegne. Ciò che resta sono le ceneri. In questi autori è vivissimo il senso della Fine. Ma fine di che? Fine del Novecento, fine del post-moderno, fine dell’utopia dell’uscita dal Moderno, fine del Progresso, della credenza in un miglioramento economico indefinito della società, fine del progetto Italia. Fine dell’angoscia della Fine. Nella loro poesia non c’è un Dopo, c’è la percezione di una «pianura» che si annuncia, una superficie piatta che si prolunga in tutte le direzioni. Per questi autori mettere «la vita in versi»

2 G. Pedota, Dopo il Moderno. Saggi sulla poesia contemporanea, Sondrio, CFR, 2012.

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è un velleitario proposito da museo. Dopo il Novecento nel museo immaginario della poesia italiana si potrà parlare soltanto in termini di micrologia. «La metafisica trapassa in micrologia» ha scritto un tempo Adorno. Errato: è tutto il mondo della media-sfera che trapassa in micrologia e autobiologia con ciò esaurendo il mandato mediatico di tradurre ogni linguaggio artistico nell’uni-ca lingua comune che accomuna l’Occidente: la micrologia, compreso l’auto-riferimento dell’arte a se stessa. È «l’età della Mutazione» che si annuncia, come ha scritto Berardinelli? Credo sia più esatto parlare di fine dell’ideologia del nuovo, in quanto il nuovo appare già invecchiato nel momento in cui si annuncia; l’avanguardia di inizio Novecento è diventata neoavanguardia e quest’ultima post-avanguardia. Dopo il Novecento non c’è un ritorno, né sem-bra possibile o verosimile alcuna partenza o ripartenza. Il bel proposito «c’è sempre qualcosa che verrà dopo il Dopo e anche dopo la fine del Dopo»3, è una credenza difficile da estirpare tanto questa idea sembra connaturata al modello culturale dell’Occidente; ma probabilmente è una idea errata. È alta-mente verosimile che Dopo il Novecento non ci sarà nulla di significativo, nul-la dico che sia degno di menzione.

«Andiamo verso la catastrofe senza parole. Già le rivoluzioni di domani si faranno in marsina e con tutte le comodità. I Re avranno da temere soprattut-to dai loro segretari». Era l’aprile del 1919 quando Vincenzo Cardarelli scriveva queste parole. Era iniziata la rivoluzione della società di massa, la rivoluzione industriale era ancora di là da venire, e l’epoca delle avanguardie era già alle spalle, il ritorno all’ordine era una strada in discesa, segnato da un annunzio che sembrava indiscutibile.

Oggi, a distanza di quasi un secolo dalle parole di Cardarelli, è avvenuto esattamente il contrario di quanto preconizzato dal poeta de «La Ronda»: oggi andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole. Le rivoluzioni di domani non si faranno né in marsina né in canottiera, né con tutte le comodità né con tutti gli incomodi: non si faranno affatto. Una poesia come questa del Dopo il Novecento non può che nascere in un’epoca in cui parlare di «rivoluzione» è come parlare di ircocervi in scatola.

Non c’è opera della rappresentazione letteraria del secondo Novecento che non tenda, in qualche modo, al verosimile e, al contempo, non additi la pro-pria maschera. La poesia e il romanzo dello sperimentalismo, rispetto alla po-esia del post-ermetismo e dell’ermetismo, ha una sofisticata coscienza del ca-rattere di «finzione» dell’opera letteraria, ha coscienza della propria maschera, anzi, c’è in essa una vera e propria ossessione della «maschera». Laborintus (1956) di Edoardo Sanguineti è l’espressione di un modo di intendere la poesia come «maschera», «finzione». La narrativa del Calvino maturo invece mette in scena la «maschera», allude alla propria «maschera» raccontando l’inverosimi-

3 A. Berardinelli, Casi critici dal postmoderno alla mutazione, Macerata, Quodlibet, 2007, p. 31.

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le. È la «cattiva» coscienza dell’intellettuale post-moderno nei riguardi della poesia e del romanzo: che essi non servano che a se stessi, in un discorso auto-referenziale che ammicca alla citazione e al rimando testuale. Per lo sperimen-talismo la «poesia» è una convenzione e, in quanto tale, il poeta deve trasgre-dire tale convenzione, il patto formalistico tra l’autore e il lettore che legittima l’opera. Lo sperimentalismo impiega tutte le proprie forze nella sostituzione della prima persona del discorso poetico con la terza, lavora per lo svuotamen-to e la spersonalizzazione dell’«io» poetico. La convenzione borghese del ro-manzo e della poesia dell’Ottocento riserva alla terza persona un posto d’ono-re, essa fornisce la garanzia di qualità e la certificazione della sua verosimiglian-za al «reale».

Con il decadentismo diventa manifesto che la poesia è priva di una certifi-cazione di origine controllata. Tra la terza persona del discorso narrativo e la prima persona del discorso poetico si insinua una segreta e dissimulata concor-renza, il passato remoto del romanzo borghese si oppone al passato remoto della lirica del romanticismo per scalzarla del tutto agli occhi del pubblico borghese in quanto più rassicurante, più verosimile, e quindi verificabile, con-trollabile. Inoltre, il romanzo offre la garanzia di una narrazione verosimile per un pubblico di consumatori ai quali la borghesia (e nel Novecento la piccola borghesia) offre la certificazione di veridicità.

Alla ambiguità dell’«egli» del discorso narrativo dell’Ottocento si oppone la (presunta) autenticità dell’«io» del discorso poetico. Nella poesia di inizio Novecento, con I cavalli bianchi (1905) di Palazzeschi e Armonia in grigio et in silenzio (1907) di Corrado Govoni, si assiste al periclitare di un ordine, di un sistema di misurazione, di un sistema monetario dello stile (governato dalla categoria degli shifters tra valori equivalenti, tra significanti e significati equi-pollenti), di un sistema di segni significativi (orientati e orientabili). Marino Moretti, Corazzini, Govoni, Gozzano, Vallini, Palazzeschi, Lucini prendono cognizione che l’iconologia borghese deve essere profanata con robuste inie-zioni di «riduttori» scettici e carnevaleschi. Pascoli e D’Annunzio avevano an-cora un concetto della poesia come diletto pseudo sublime. Il clown, il saltim-banco, la buffoneria di Palazzeschi, i manichini di De Chirico rappresentano la presa di distanza dal liberty e dal crepuscolarismo; d’ora in avanti l’inflazio-ne vistosa dello stile trapasserà in stilizzazione. È il primo annuncio di una crisi interna al sistema dello stile. Di qui l’invasione del liberty e dello stile flo-reale che rappresentano l’ultimo stile omogeneo in Europa.

Nella poesia del Novecento si insinua, segretamente, osmoticamente e de-moticamente, la razionalità dell’etica e del mercato borghesi; e con essi la «cattiva» coscienza del poeta che diventa un salariato, un disoccupato, un buf-fone, un «saltimbanco». La poesia post-baudelairiana dovrà così aderire ad un cerimoniale simbolico ossessivo, al sistema di segni della razionalità dell’eco-nomia monetaria dello stile, oppure ribellarsi ad esso, dovrà minare la raziona-lità del linguaggio razionale-relazionale.