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D ON L ORENZO M ILANI DALLA PARTE DELLULTIMO Appunti per conoscere il maestro e il priore di Barbiana Generato dalla Parola ha generato uomini alla Parola. Nella padronanza delle parole ha posto la sua azione di riscatto dei poveri Itinerario per la Quaresima 2017

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DON LORENZO MILANI

DALLA PARTE DELL’ULTIMO

Appunti per conoscere il maestro e il priore di Barbiana

Generato dalla Parola

ha generato uomini alla Parola.

Nella padronanza delle parole

ha posto la sua azione di riscatto dei poveri

Itinerario per la Quaresima 2017

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Quest’anno ricorre il 50.mo della morte di don Lorenzo Milani. E' morto a Firenze a 44 anni, dopo sette anni di malattia. Ebbe due malattie consecutive e probabilmente conseguenti. La prima si manifestò con un dolore alla gamba destra nel 1960, era un linfogranuloma mentre nell'ultimo anno di vita si manifestò la leucemia. Fu proprio questa che alle ore 15 del 26 giugno 1967 lo vinse. Aveva lasciato detto all'Eda che voleva essere seppellito con i paramenti sacri, non a lutto, ma a festa di colore bianco.

Il titolo di questo semplice lavoro – Dalla parte dell’ultimo – è un omaggio alla grande biografia di Neera FALLACI uscita nel 1974 proprio con questo titolo. A ciascuno di noi l’interpretazione di chi fosse l’ultimo per don Lorenzo, di chi lo sia oggi per noi: il povero, Cristo…

Don Lorenzo generato dalla Parola come profeta ha generato da prete molti figli alla Parola e da insegnante nella padronanza delle parole ha posto la sua azione di riscatto dei poveri sforzandosi di colmare il dislivello culturale dei suoi alunni, radice della disuguaglianza e esclusione sociale. «Faccio scuola ai contadini e agli operai e ho lasciato ormai quasi tutte le altre materie. Non faccio più che lingua e lingue. Mi richiamo dieci venti volte per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, gliele seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi» (Lettere, pp.57/58).

«I care». «Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l'avarizia». La lettera alla professoressa è una lezione di umanità e di amore alla scuola che incarnava la sua visione di insegnante e di pastore: il problema fondamentale per un insegnante non è che cosa si deve fare per fare scuola, ma come bisogna essere per poter far scuola. «Don Lorenzo Milani ha scelto la via della rottura per aggredire il mondo degli altri e far nascere nella coscienza di tutti noi, prelati, preti, professori, comunisti, radicali e giornalisti, il piccolo amaro germoglio della vergogna» (Ernesto Balducci).

«Don Milani non è solo un ricordo: spietatamente sincero, assolutamente povero, intelligentemente innamorato dello studio, non tirò a dritto dinanzi alla gente, non rimase in superficie dinanzi ai problemi, ma si coinvolse completamente, vi mise testa, carne e sangue». «Oggi, caro don Lorenzo, ti ascoltiamo senza che ci sia, a dividerci, un muro di fogli e di incenso» (Card. Silvano Piovanelli).

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Sommario

«HO VOLUTO PIÙ BENE A VOI CHE A DIO…» 4

BIOGRAFIA ESSENZIALE

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PREMESSA. «IL PRIORE DEL NIENTE» 9

1. LA CONVERSIONE E LA VOCAZIONE 17

2. LA SCUOLA, LA CULTURA E IL SAPERE DEI POVERI 37

3. L’OPZIONE PREFERENZIALE E IL RISCATTO DEI POVERI 71

4. LA PATERNITÀ DEL MAESTRO DIVENTATO DISCEPOLO 81

5. LE INCOMPRENSIONI DELLA «MADRE» CHIESA 85

BIBLIOGRAFIA MINIMA 105

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«Ho voluto più bene a voi che a Dio…»

Dal testamento1

Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non ho punti debiti verso di voi, ma solo crediti. Verso l’Eda invece ho solo debiti e nessun credito. Traetene le conseguenze sia sul piano affettivo che su quello economico. Un abbraccio affettuoso, vostro Lorenzo

Cari gli altri, non vi offendete se non vi ho rammentato. Questo non è un documento importante, è solo un regolamento di conti di casa (le cose che avevo da dire le ho dette da vivo fino ad annoiarvi). Un abbraccio affettuoso, vostro Lorenzo

Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. L’ho scritto per dare forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un altro abbraccio, vostro Lorenzo

Dalla lettera a Nadia Neri2

«Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio».

Dalla lettera a Giorgio Pecorini3

«Quando si vive a lungo tra i disgraziati è più facile amarli troppo che troppo poco e l’apostolato si riduce più facilmente a una lotta contro il sesto comandamento (eccesso di amore) che contro il quinto (difetto di amore)».

Dalla lettera a Giorgio Pecorini4

1 Firenze, 1.3.1966 in Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana (d’ora in poi LPB), a

cura di Michele GESUALDI (uno dei primi ragazzi della scuola di Barbiana, oggi

sindacalista), Mondadori 1970, p. 324. Don Lorenzo morì nella casa dei suoi a Firenze il 26

giugno 1967. Nasce sempre a Firenze il 27 maggio 1923. Eda Pelagatti è stata la perpetua di

Lorenzo fin dai tempi di San Donato di Calenzano, prima destinazione, dopo la parentesi

di S. Pietro di Montespertoli, dal 1947 anno di ordinazione.

2 Barbiana, 7.1.1966, in LPB p. 278

3 Barbiana, 8.10.1959, in LPB p. 138

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«E io come potevo spiegare a loro così pii e così puliti che io i miei figlioli li amo, che ho perso la testa per loro, che non vivo che per farli crescere, per farli aprire, per farli sbocciare, per farli fruttare? Come facevo a spiegare che amo i miei parrocchiani molto più che la Chiesa e che il Papa? E che se un rischio corro per l’anima mia non è certo di aver poco amato, ma piuttosto d’amare troppo».

Da Lettera a una professoressa5

«Fai strada ai poveri senza farti strada».

Da Esperienze pastorali6

«Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me, son io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto ad esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere. […] Son loro che han fatto di me quel prete dal quale vanno volentieri ... del quale si fidano... per il quale fanno qualsiasi sacrificio, dal quale si confessano a ogni peccato... Io non ero così e perciò non potrò mai dimenticare quel che ho avuto da loro. […] Essi riempiono la mia vita tanto che se non mi ci avesse mandato Dio temerei per la salvezza della mia anima. […] Eppure io non splendo di santità. E neanche sono un prete simpatico. Ho anzi tutto quello che occorre per allontanare la gente. Sono stato solo furbo. Ho saputo toccare il tasto che ha fatto scattare i loro intimi doni. Io ricchezze non ne avevo. Erano loro che ne traboccavano e nessuno lo sapeva».

«Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà con i pedoni,

deve piuttosto insegnare a tutti il volo»7.

«La scuola mi è sacra come un ottavo Sacramento. Da lei mi attendo (e forse ho già in mano) la chiave, non della conversione, perché questa è

segreto di Dio, ma certo dell’evangelizzazione di questo popolo»8.

4 Barbiana, 10.11.1959, in LPB p. 140

5 SCUOLA DI BARBIANA, Lettera a una professoressa, LEF 1988, p. 97 (in seguito abbreviato in

LP)

6 Lorenzo MILANI, Esperienze Pastorali, LEF 1974, pp. 235-236; 242 (in seguito abbreviato in

EP)

7 EP p. 192

8 EP p. 203

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Da una lettera alla mamma9:

«Quando uno liberamente regala la sua libertà è più libero di uno che è costretto a tenersela. Chi regala la sua libertà si libera del peso di portarla».

Da una lettera alla mamma10:

«La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui s’è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di far del bene si misurano sul numero dei parrocchiani».

9 Lorenzo MILANI, Alla mamma. Lettere 1943-1967. A cura di Giuseppe BATTELLI, Marietti

1990, [15] 14 marzo 44 Firenze, p. 30. (in seguito abbreviato in Alla mamma…)

10 Alla mamma… [119] 28.12.54, Firenze, p. 172

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Biografia essenziale *

Don Lorenzo nasce a Firenze il 27 maggio 1923 in una colta famiglia borghese. È figlio di Albano Milani e di Alice Weiss, quest’ultima di origine israelita.

Nel 1930 da Firenze la famiglia si trasferì a Milano dove don Lorenzo fece gli studi fino alla maturità classica. Dall’estate del 1941 Lorenzo si dedicò alla pittura iscrivendosi dopo qualche mese di studio privato all’Accademia di Brera.

Nell’ottobre del 1942, causa la guerra, la famiglia Milani ritornò a Firenze. Sembra che anche l’interesse per la pittura sacra abbia contribuito a far approfondire a Lorenzo la conoscenza del Vangelo.

In questo periodo incontra don Raffaele Bensi, un autorevole sacerdote fiorentino che fu da allora fino alla morte il suo direttore spirituale.

Nel novembre del 1943 entrò in Seminario Maggiore di Firenze. Il 13 luglio 1947 fu ordinato prete e mandato in modo provvisorio a Montespertoli ad aiutare per un breve periodo il proposto don Bonanni e poi, nell’ottobre 1947 a San Donato di Calenzano (FI), cappellano del vecchio proposto don Pugi.

A San Donato fondò una scuola popolare serale per i giovani operai e contadini della sua parrocchia.

Il 14 novembre 1954 don Pugi moriva e don Lorenzo fu nominato priore di Barbiana, una piccola parrocchia di montagna. Arrivò a Barbiana il 7 dicembre 1954. Dopo pochi giorni cominciò a radunare i giovani della nuova parrocchia in canonica con una scuola popolare simile a quella di San Donato. Il pomeriggio faceva invece doposcuola in canonica ai ragazzi della scuola elementare statale.

Nel 1956 rinunciò alla scuola serale per i giovani del popolo e organizzò per i primi sei ragazzi che avevano finito le elementari una scuola di avviamento industriale.

Nel maggio del 1958 dette alle stampe Esperienze pastorali iniziato otto anni prima a San Donato.

Nel dicembre dello stesso anno il libro fu ritirato dal commercio per disposizione del Sant’Uffizio, perché ritenuta «inopportuna» la lettura.

Nel dicembre del 1960 fu colpito dai primi sintomi del male (linfogranuloma) che sette anni dopo lo portò alla morte.

Il primo ottobre 1964 insieme a don Borghi scrisse una lettera a tutti i

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sacerdoti della Diocesi di Firenze a seguito della rimozione da parte del Cardinale Ermenegildo Florit del Rettore del Seminario monsignor Bonanni.

Nel febbraio del 1965 scrisse una lettera aperta ad un gruppo di cappellani militari toscani, che in un loro comunicato avevano definito l’obiezione di coscienza “estranea al Comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà”. La lettera fu incriminata e don Lorenzo rinviato a giudizio per apologia di reato.

Al processo, che si svolse a Roma, non poté essere presente a causa della sua grave malattia. Inviò allora ai giudici un’autodifesa scritta. Il 15 febbraio 1966, il processo in prima istanza si concluse con l’assoluzione, ma su ricorso del pubblico ministero, la Corte d’Appello quando don Lorenzo era già morto modificava la sentenza di primo grado e condannava lo scritto. Nel luglio 1966 insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana iniziò la stesura di Lettera a una professoressa.

Don Lorenzo moriva a Firenze il 26 giugno 1967 a 44 anni.

* La biografia è tratta dal sito ufficiale della Fondazione Don Lorenzo Milani (donlorenzomilani.it).

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«Il Priore del niente»

La «verità» di Michele dopo 50 anni

Ho ripreso in mano un vecchio lavoro da educatore. Sono passati diversi anni dalla sua stesura originaria. Forse – mi sono detto – vale la pena riproporlo nel cinquantesimo anniversario della morte (26 giugno 1967). Nel frattempo si è scritto ancora moltissimo su don Lorenzo Milani. All’inizio di questo nostro itinerario comunitario di Quaresima, che in questi anni è accompagnato da grandi testimoni del nostro tempo, lasciamo la parola a Michele Gesualdi, uno dei primissimi ragazzi di Barbiana. La sua testimonianza ha il pregio di restituire verità alla figura del priore come di un credente che in coscienza ha sempre agito in obbedienza al vangelo facendo proprio del vangelo «la guida» del suo ministero e della sua esperienza pastorale, sia a San Donato di Calenzano (’47 – ’54) sia a Barbiana (’54 – ’67). Gesualdi con il suo Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana intende rendere giustizia a un uomo che è stato tutto di un pezzo cristiano, prete, maestro, padre. Soprattutto «figlio» dei figli di Barbiana.

Così scrive: «Don Lorenzo Milani è prete scomodo. Ha una grande fame di verità e una grande sete di giustizia. Il suo linguaggio forte e tagliente urta i potenti e incoraggia i deboli. Spende il suo sacerdozio per armare la povera gente di dignità e di parola perché si ribellino contro le ingiustizie sociali che offendono Dio e l’umanità. La sua guida è il Vangelo. Gli ultimi lo seguono e lo amano. I forti, dentro e fuori la Chiesa, lo temono e lo perseguitano. Lui non si arrende e pagherà duramente la propria coerenza al Vangelo. Sarà cacciato in esilio per essere messo a tacere. Il popolo cristiano giudica severamente chi spenge la voce dei purificati dalla parola di Dio ed è attratto da chi è sacrificato per aver posto la verità di coscienza al di sopra della

convenienza»11. Gesualdi non esita a definire Barbiana l’«esilio» del priore, il metodo migliore per «far pagare con l’emarginazione la sua [di Lorenzo]

fedeltà alla parola di Dio e alla chiesa dei poveri»12. Ma l’esilio è anche il riscatto di don Milani, «migliora la comprensione del prossimo. […] Barbiana doveva essere, per don Lorenzo Milani, un duro esilio. La realtà è stata molto diversa, lo ha trasformato e fatto divenire un uomo nuovo. È impossibile oggi pensare a lui separato da Barbiana e dobbiamo arrenderci di fronte al mistero di una vita religiosa singolarmente ricca, dove gli aspetti più dolorosi sono

11 M. GESUALDI, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, ed. San Paolo 2016, p. 25.(in

seguito abbreviato in EB)

12 EB pp. 26

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divenuti straordinariamente fecondi»13.

La consapevolezza dell’esilio l’aveva lo stesso don Lorenzo. Quella del fallimento pure. Alla mamma confidava: «Se non lo si sapesse in partenza che il nostro è il mestiere dei fiaschi ci sarebbe da scoraggiarsi. Tutto casca, tutto muore tutto si arena e ci vuole fede per pigliare iniziative nuove e far finta di non sapere che tra sei mesi saranno morte anche quelle. Mi consolo all’idea che è questo l’ordine naturale a cominciare dall’erba che non cresce che per

morire, che non muore che per seminare…»14.

Pagina su pagina, Gesualdi ricostruisce la tormentata vicenda dell’esilio, il forzato sradicamento da una parrocchia all’altra, la presa di posizione dei preti vicini, l’insensibilità e l’incomprensione del suo cardinale – arcivescovo

di Firenze monsignor Ermenegildo Florit15 – il senso di isolamento, la solitudine e l’amarezza di non riuscire a far comprendere che il suo obiettivo era servire la sua Chiesa. Gesualdi restituisce l’interezza pastorale di un uomo che si è sempre sentito prete, interpretando – attraverso la parola, cioè la scuola – il suo ministero come servizio agli ultimi. E, parlando ancora dell’esperienza di Barbiana, afferma: «Don Lorenzo si radica in modo sempre più profondo in quel mondo povero di parola, di futuro e di speranza, divenendo insieme prete, padre, maestro e figlio dei suoi montanari. Con la scuola, dona e riceve. Dona ai figli dei contadini di Barbiana gli strumenti culturali che possiede, soprattutto il dominio della parola, per non essere più ingannati e camminare nella vita da persone libere. In cambio riceve la cultura nuova dei poveri che lo trasforma dandogli occhi, orecchi, bocca e cuore nuovo che ne fanno un uomo diverso. Da ultimo è povero tra i poveri, vibra come loro del desiderio di un mondo più giusto ed equilibrato. […] Quel pretino, dall’esilio di Barbiana con la sua scuola, ha trasformato l’utopia in realtà, dando voce al silenzio degli ultimi e fatto parlare molto lontano sia

come tempo che come luogo»16. «In una delle ultime notti che ero con lui – è sempre Gesualdi a parlare, aveva all’epoca circa 23 o 24 anni – ad un tratto mi disse: “Quando sarò morto gli intellettuali e i borghesi si vanteranno di aver avuto anche don Milani, ma voi non lo permettete, io non sono più dei loro.

13 EB p. 27

14 La lettera alla mamma è citata in EB p. 63

15 Gesualdi nel suo libro accenna a un particolare molto importante. Quando il cardinale

salì a Barbiana per pregare sulla tomba di don Lorenzo (aveva tra le mani Lettere di don

Lorenzo Milani priore di Barbiana curato dallo stesso Gesualdi) il giovane Michele intercettò

questo giudizio del cardinale: «Ma quanto mi avete male informato su questo sacerdote»

(in EB p. 197)

16 EB pp. 175-177

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Sono un barbianese e i barbianesi valgono molto di più”. […] Dopo un po’ proseguì: “Non c’è da parlare della ‘eroica’ storia di don Lorenzo Milani, ma della eroica storia dei poveri. Della nobiltà della classe operaia e contadina che mi ha accolto e aperto gli occhi. In questi anni vi ho educato a sentirvi classe, a non dimenticarvi della umanità bisognosa e a tenere a bada il vostro egoismo, perché non si tratta di produrre una nuova classe dirigente, ma una

massa cosciente”»17. Per queste ragioni Gesualdi chiude la sua sincera testimonianza resa al priore come atto di verità affermando che «come atto di amore lo abbiamo fatto rimanere per sempre Priore del niente di Barbiana. Quel niente che lui ha fatto fiorire e fruttificare, prendendosi cura degli altri. Ed è questo il vero segreto di Barbiana. La forza dell’AMORE che muove il mondo, prende tutto, ma per far rispuntare una nuova alba che ridona tutto. Quando la bara fu calata nella fossa diversi suoi ragazzi lo salutarono spargendo sopra pugnelli di terra, quasi a voler ricoprire di terra feconda un seme di speranza che da quella terra dura di Barbiana doveva continuare a

rifiorire»18. Don Lorenzo, infatti, venne sepolto nel piccolo cimitero del priorato in obbedienza alla sua precisa volontà. Milani era Barbiana. Barbiana è stata Milani. Barbiana è Milani.

In principio era la Parola

La pedagogia del maestro Milani, in questi cinquant’anni, ha affascinato il mondo della scuola, non solo italiana. Uno dei suoi massimi studiosi è lo

spagnolo José Luis Corzo19. «Se dovessi concentrare in un solo vocabolo la scelta personale più significativa, se non la più profonda, della vita di don Milani, non avrei dubbi: la Parola! Così, con la maiuscola, come lui stesso la scrive molte volte, non solo per riferirsi alla Parola di Dio che si fece carne in Gesù di Nazareth, ma anche per riferirsi all’indicatore più caratteristico della specialità umana: il possesso o il dominio della “Parola, dono sacro di Dio per

l’espressione del pensiero”20». Don Milani si dedicò interamente a «una scuola che doni la parola, e nient’altro che la parola, ai montanari, agli ultimi. […] La sua scelta a favore dei poveri resterebbe mero paternalismo senza l’ingrediente di “dar loro la parola” nel senso di fornire la possibilità di esprimersi a loro modo (“che siano loro a dirlo”)» perché questa è la

17 EB pp. 207-208

18 EB p. 238

19 J.L. CORZO, Don Milani. La parola agli ultimi, ed. La Scuola, pp. 63-64 (in seguito

abbreviato in La parola…)

20 EP p. 84

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denuncia del priore di Barbiana: « Il linguaggio dei potenti è capace di avvolgere la realtà di ideologia e di soggiogare i poveri. […] Chissà se don Milani era o non era cosciente del fatto che il linguaggio è “la questione” della filosofia contemporanea».

Le mille Barbiane (multiculturali)

Anche oggi non mancano professori e uomini di cultura che si rifanno al metodo scolastico del priore. Tra i tanti maestri c’è Eraldo Affinati. Affinati è uno scrittore ma prima ancora un professore. Scrivendo il suo personale omaggio al priore fiorentino (e riconoscendone il debito), con il titolo L’uomo del futuro, lo scrittore romano non ripercorre soltanto la biografia di don Lorenzo ma cerca di ravvisare le tracce della sua eredità spirituale, come se Barbiana si fosse evangelicamente moltiplicata nel mondo, come nel miracolo gesuano del pane e dei pesci. L’uomo del futuro oggi è nel presente delle mille Barbiane che vivono della sapienza e della profezia pedagogica di don Lorenzo. Per Affinati il priore era un «profeta». Dà voce all’intuizione di un altro grande prete fiorentino, Ernesto Balducci, che nel 1992 scrisse: «Barbiana non è più in Mugello: Barbiana è in Africa, è nel Medio Oriente, Barbiana è una comunità musulmana, Barbiana è nell’America Latina. Le Barbiane del

mondo dicono che noi ci comportiamo come se il mondo fossimo noi»21. E allora la scuola di Barbiana, nell’attualizzazione di Affinati, apre oggi in Gambia, Marocco, a Berlino, New York, Pechino, Benares, Città del Messico, Volvograd, Hiroshima, cioè in ogni angolo di mondo (da lui visitato e documentato) dove l’attenzione agli ultimi passa dalla pedagogia della scuola. «Oggi i ragazzi di Barbiana vengono dall’Afghanistan, dalla Nigeria, dal mondo slavo. Hanno alle spalle detriti, macerie e relitti, eppure quando ridono sembrano aver dimenticato tutto. L’esempio di Barbiana torna ad imporsi in chiave multiculturale per favorire una vera integrazione, che dovrebbe combattere anche la fragilità degli adolescenti italiani spesso inebriati dai miti del successo, della bellezza e della sanità. Del resto la presenza dei giovani migranti rende ancora più incandescente la grande questione sollevata dal priore con radicalità ben superiore alla semplice promessa politica: l’uguaglianza delle posizioni di partenza. Soltanto se non smetteremo di sentire come una spina dolorosa questo problema irrisolto

potremo dire a noi stessi di non aver tradito lo spirito di don Milani»22.

21 Eraldo AFFINATI, L’uomo del futuro, ed. Mondadori 2016, p. 166 (in seguito abbreviato in

L’uomo… )

22 Dalla prefazione di Eraldo Affinati al libro di Aldo BOZZOLINI Barbiana o dell’inclusione.

Un allievo racconta (Emi 2011) riportata in L’uomo… p. 109

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Affinati coglie «la matrice dell’insegnamento [di Milani, ndr], il suo senso più compiuto e profondo: consegnare il testimone. Rinnovare la tradizione.

Accendere il fuoco. Baciare il futuro. Accettare la morte»23. Don Milani «non ci ha lasciato trattati teologici (gli bastavano i dieci comandamenti, insieme all’eucarestia e alla confessione), ma una sapienza del fare scuola, qui e ora, cogliendo nella passione pedagogica del maestro l’essenza più autentica del cristianesimo, inteso quale racconto di sguardi che, incrociandosi, si

prendono cura l’uno dell’altro»24.

Lo scrittore e maestro romano interpreta l’azione pastorale del priore come «la necessità di insegnare la lingua ai montanari per consentirgli di trasmetterci ciò che Dio ha nascosto nel cuore dei più deboli, dei più fragili, dei più indifesi. Noi abbiamo gli strumenti; loro, i poveri di spirito, hanno i veri contenuti. Potrebbero raccontare molto di più di quel che crediamo, ma non sanno esprimersi. La cosa fondamentale comunque è un’altra: se stappi la loro bottiglia, bevi anche tu. E stai davvero meglio. Se invece, dopo avergliela rubata, la tieni chiusa, per timore di vederla esaurire, non credere

di potertela scolare da solo: se lo facessi, ti strozzeresti – e sarebbe giusto»25.

Sia detto solo per inciso – ma sarà un ritornello di questo racconto – che anche i preti incontrati da Affinati nella sua Roma impallidiscono di fronte all’eredità-testimonianza di don Lorenzo perché – afferma – non hanno il coraggio di raccoglierla.

Perché tornare a don Milani

Parlare di don Lorenzo Milani è come affrontare un saggio letterario sulla passione: non solo dell’uomo per l’uomo, o in favore dell’uomo; ma dell’uomo con l’uomo. Non per niente su una parete della sua scuola di Barbiana

troneggiava il motto intraducibile dei ragazzi americani del dissenso I care26, cioè «Me ne importa, mi sta a cuore». È la passione di un uomo che è diventato credente. È la passione di un credente per la sua Chiesa nonostante tutto, nonostante egli l’abbia sentita spesso ostile. È la passione per la stessa scelta preferenziale di Gesù nei confronti dei poveri, senza la retorica borghese e semplicistica a spese dei poveri. È la passione di chi crede nella

23 L’uomo…p. 24

24 L’uomo… p. 27

25 L’uomo… p. 130

26 Lorenzo Milani, Lettera ai Giudici, in L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del

processo di don Milani, LEF 1991, p. 34: «È il contrario esatto del motto fascista “Me ne

frego”» (in seguito abbreviato in LG)

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«vocazione storica del povero»27, nella cultura dell’ultimo, nel fatto che anche il più miserabile può avere e fare cultura e perciò vivere umanamente… Questo ha dimostrato Milani con la scuola (cfr. Lettera a una professoressa, la prova più schietta e sincera dei poveri che fanno cultura, e che perciò hanno voce).

Dire di don Lorenzo Milani è come parlare di un’immensa passione civica, immensa passione per la creazione e le creature, di un’estenuante fiducia e pazienza per la possibile fraternità tra gli uomini.

Ci interessa ancora don Lorenzo – cinquant’anni dopo – per aprire l’orizzonte su figure di credenti genuini e altamente provocanti. Perché don Milani è un prete pungente, un uomo che ha affrontato la vita a muso duro. Ha insegnato a lottare; ha insegnato la passione per la lotta con coloro che non avevano gli strumenti sufficienti e necessari per farsi ascoltare, per essere. Ha sposato, fatta propria, la causa dell’ultimo (e lui ha conosciuto non tutti gli ultimi in modo vago o vagamente universale, ma le ultime anime di un paesino sperduto del Mugello, Barbiana; e prima di San Donato di Calenzano). Don Lorenzo ha amato in modo particolare, settoriale. Ha speso tutto di sé per poche vite, così apparentemente insignificanti, senza preoccupazioni carrieristiche:

«Nessuno può accusarmi […] d’aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono

parroco di 42 anime!»28

27 In EP, il saggio di antropologia religiosa nel quale don Lorenzo raccoglie gli sforzi di

interpretazione sulla situazione religiosa e sul fallimento di certi strumenti pastorali e che

egli inizierà a scrivere a San Donato e terminerà solo a Barbiana nel ’57 (verrà pubblicato

nel maggio ’58), il priore denuncia: «Abbiamo dunque speso 12 anni della nostra vita per

farci il linguaggio di coloro che oggi sono meno lontani dalla Chiesa, ma che son anche i

meno cari al Signore e numericamente una parte insignificante del nostro popolo. E

intanto ci siamo persi la capacità di parlare un linguaggio comprensibile e utile ai

prediletti di Dio (prediletti perché poveri e perché lontani) 81,3% del nostro gregge. Chi

crede nella vocazione storica dei poveri a diventare classe dirigente (senza perdere la

propria personalità e i propri doni) vorrà offrir loro una cultura entitativamente diversa da

questa che usa. O, meglio ancora, non vorrà offrir loro nessuna cultura, ma solo il

materiale tecnico (linguistico, lessicale e logico) che occorre per fabbricarsi una cultura

nuova che con quell’altra non abbia nulla a che vedere» (EP p. 210). E ancora: «La povertà

dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo – dice Lorenzo ricordando il Seminario –.

Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale» (EP p. 209). Questa è la passione

politica che ha condotto Milani a sentirsi un tutt’uno con la classe inferiore e a fare della

scuola la grande arma del riscatto.

28 LG p. 39. Arrivò a Barbiana a 31 anni («in quel niente veniva esiliato», EB p. 137). Alla

madre scrive «La grandezza d’una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è

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42 anime per cui nessuno sarebbe mai stato disposto a scommettere qualcosa.

Ci interessa ancora don Lorenzo per la sfida che ha lanciato alla sua contemporaneità, alla polis dei cittadini, allo Stato e alla Chiesa con la sua scuola di educazione alla passione civile ed ecclesiale.

Ci interessa ancora per l’educazione al dialogo e alla critica secca, ma sincera, per il dibattito su tutto ciò che è valore e può umanizzare l’uomo (questa è la vera opera di santificazione da compiersi), per la scommessa di riconsegnare al povero la sua identità non come concessione magnanima verso qualcuno, ma perché questa gli appartiene per diritto di creazione e umanità.

Ci interessa don Lorenzo per il suo continuo sommuovere la coscienza, per il rispetto della coscienza altrui, per l’insegnamento a farsi idee e a combattere le falsità delle opinioni e dei luoghi comuni.

Ci interessa per quel suo essere uomo granitico, in cui non si danno differenze tra l’essere credenti e la cura per l’ultimo fratello, dove fede e umanità non sono su un unico binario, ma sono la stessa rotaia. Una sorta d’identificazione, dove non esiste la domanda circa la priorità del credere prima a Dio e poi agli uomini, dove Dio o emerge dal di dentro della passione per l’uomo o, altrimenti, non è:

[a Barbiana] «vengono i poveri abbondantemente, son quelli che hanno fatto dimenticare tutti voi e il suicidio. Sono stati i miei confessori, i miei direttori spirituali, i miei maestri, il mio Dio (l’altro Dio mi perdoni). Del resto non li ho cercati io. (Poi c’è una pagina del Vangelo che perdona anche me, l’ho scoperto solo ora, quella dell’ultimo giudizio là dove le pecorelle dicono: “Quando mai ti abbiamo visto affamato ecc.?” Vuol dire che servivano Dio anche senza volgergli espressamente questa

intenzione e questa offerta?)»29.

Ci interessa don Milani per l’obbedienza, instancabilmente polemica nei confronti della sua Chiesa di Firenze, di cui si sente orgogliosamente figlio, in toto, a cui vuole caparbiamente rimanere legato, perché senza Chiesa e Sacramenti ogni sua azione si presenta inutile. La Chiesa per lui è certezza di salvezza.

Ci interessa per la volontà di essere annunciatore, per la cura certosina della

svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di far del bene si misurano sul

numero dei parrocchiani» (Alla mamma… [119] 28.12.54, Firenze, p. 172)

29 Lettera a don Raffaele Bensi, Barbiana 9.1.64 in L. MILANI, «Perché mi hai chiamato?».

Lettere ai sacerdoti, appunti giovanili e ultime parole (a cura di M. GESUALDI, ed. San Paolo

2013, p. 56. In seguito abbreviato in «Perché…»)

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parola e il rispetto della Parola che ha un unico scopo: portare a salvezza il manipolo di ragazzi affidatigli, consapevole che la salvezza non si può appiccicare su un uomo che non ha umanità, consapevole che liberare l’umano dell’uomo è già servizio di salvezza e annuncio del Regno. Per questo annuncio don Lorenzo desidera che ogni ministro della Chiesa prenda sul serio, magari piangendo e soffrendo incomprensioni, l’annuncio del Vangelo. La salvezza è questione delicata. Anzi, per il priore, in definitiva è la questione ultima, princeps. Non ci si dà da fare per fare azione di beneficenza sociale o, peggio, per filantropia: è già un imbroglio oltre che all’uomo a Dio.

Si tratta invece di incarnarsi e assumere la legge della «carne dei poveri»30, perché non c’è casa se non dove sono le persone che si ama portare a compimento. È proprio questo il tipo di educazione di don Lorenzo.

La categoria teologica dell’incarnazione spetta di diritto a don Lorenzo. L’assunzione del suo piccolo popolo e della sua piccola chiesa di periferia («alla fine del mondo» direbbe oggi Francesco) lo assimila alla terra, cioè all’umanità che il Verbo ha scelto di abitare. Diciamo Verbo proprio perché il tentativo milaniano sarà quello di far emergere la parola sommersa e soffocata dei senza voce (montanari e operai). La condivisione del soffio di vita di questa gente ci testimonia che don Lorenzo ha fatto sul serio. Non si è schierato qualche volta e non ha semplicemente guardato la scena dall’alto, ma è rimasto protagonista con i senza parte e i senza parola. Dare la parola: far sì che la parola del popolo risorga orgogliosamente. Questo è l’alto progetto di salvezza di don Milani. E senza scandalizzarsi: quand’è così non si è mai in competizione con Dio. Educare la/alla parola è condurre alla Parola, rendere comprensibile quella Parola di salvezza attuata nei sacramenti, nei quali egli ha sempre creduto.

Questi appunti sparsi non intendono ripercorrere la biografia del priore; cerca piuttosto di comprendere attraverso le lettere, i suoi scritti – in specie Esperienze pastorali – alcuni cardini dell’esperienza umano-sacerdotale di don Lorenzo. Non vengono qui affrontati tutti i capitoli del pensiero del priore di Barbiana. La Lettera a una professoressa e L’obbedienza non è più una virtù saranno solo sfiorati. Ci accostiamo alla figura del priore con la stessa sua convinzione:

«La più grande infedeltà nei confronti di un morto è restargli fedele»31. 30

L’espressione è cara a papa FRANCESCO che non esita ad affermare come la carne dei

poveri sia la carne di Cristo. La ritroviamo sia negli scritti sia nelle omelie di Bergoglio. In

questo senso Milani e Francesco sono in sintonia, come tende a mostrare Giuseppe

BRIENZA in Don Milani e Papa Francesco (Cantagalli 2014).

31 La parola… p. 14

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1. La conversione e la vocazione

Un «figliolo pieno di grazia»

Nell’esistenza di ogni uomo s’inseriscono sempre incontri con persone tali da segnare in modo unico e irripetibile la libertà dell’individuo. Ci sono tracce nelle relazioni tra gli umani che si stampano nella carne: decifrarne le impronte aiuta a capire, in questo caso, don Milani stesso. Quali sono,

dunque, le tracce che segnano la vicenda del signorino fiorentino32?

Cominciamo dallo studio. Lorenzo non ha mai manifestato troppa voglia e costanza nello studio. Giorgio Pasquali amico di famiglia s’incaricò di condurre il figlio dei Milani nei passaggi delicati del ginnasio e del liceo che il rampollo fiorentino frequentò al Berchet di Milano (erano gli anni della

guerra33). Pasquali seppe comunque credere in questo «figliolo pieno di

grazia»34. Gli anni di Milano come stagione del disimpegno totale. Lorenzo, contro ogni attesa dei suoi, decide di non fare assolutamente l’Università. Ci fu sempre in Lorenzo una sorta di avversione verso ogni forma d’intellettualismo sterile e contro ogni forma di scuola istituzionalizzata. Quando negli ultimi anni di vita i suoi ragazzi scriveranno Lettera a una

professoressa35, feroci saranno le considerazioni circa la scuola di statura borghese, così come quando don Lorenzo racconterà la storia pietosa del

contadino Adolfo36 e dei suoi padri e figli che hanno vissuto e vivono solo per

32 Curiosa la testimonianza della professoressa amica di don Lorenzo: «Aveva cambiato

vita e abitudini (e forse anche gusti) ma il palato gli era rimasto borghese» (A. CORRADI,

Non so se don Lorenzo, ed Feltrinelli, p. 32. In seguito abbreviato in Non so se…)

33 È importante soffermarsi sulla relazione tra il giovane Milani che entra in Seminario e

diventa prete negli anni della guerra e il priore che affronta il tema dell’obiezione di

coscienza in L’obbedienza non è più una virtù.

34 Così egli lo definiva (in Neera FALLACI, Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo

Milani, Milano 1977, p. 42. In seguito abbreviato in Dalla parte…). 35

Gli stessi ragazzi di Barbiana sono i primi a sostenere che al di là dell’esperimento

geniale della scrittura collettiva, la famosa Lettera fu scritta dal priore. Lo stile era della

Scuola ma la scrittura del priore. 36

Conosciamo la storia grazie alla lettera di don Lorenzo all’amico magistrato di Firenze

Giampaolo MEUCCI (Barbiana, 30.3.1956): «[…] Un contadino parte perché trova un podere

migliore. Ha lavorato dieci, venti, talvolta duecento, trecento anni su quella terra e ha

vissuto lui e suoi magrissimamente perché in tutti quegli anni ha fatto vivere, non solo

vivere ma studiare, il nonno del padrone e poi il padrone e poi il signorino. Loro hanno

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far studiare all’università i loro padroni. L’università, come tutta la scuola in genere (sempre secondo don Milani), non fa che causare discriminazioni, subite da chi non ha parole e dialettica sufficienti per farsi rispettare. Dunque, la scuola, fondamentale per il futuro di don Lorenzo (sarà l’anima e lo scopo del suo ministero presbiterale, il modo con cui egli interpreterà il ruolo del prete; la scuola e il ministero pastorale saranno tutt’uno: non ci sarà differenza tra fare il prete ed essere maestro), agli inizi non venne apprezzata, forse proprio per l’assurdità di dover studiare nozioni che non servono, e che – dirà un domani – servono solo a separarsi dalla gente povera.

A Firenze, però, Lorenzo vivrà l’incontro che segnerà la sua prima svolta spirituale. Disse testardamente che voleva fare il pittore. Il padre Albano, pur non essendo d’accordo, gli trovò una bottega e un maestro tedesco: Hans Joachim Staude. Fu per Lorenzo la prima educazione al senso profondo del religioso. Staude non era cristiano, ma conosceva l’Oriente e anche la mistica di un grande maestro tedesco del Trecento, Meister Eckhart, e alcune delle

sue più belle espressioni: «Non pregare. Ascoltare»37. Staude capì immediatamente quel giovane che sembrava non voler fare niente nella vita: «Mi resi subito conto che era un giovane dotato di grande intelligenza. Così invece di limitarmi a correggere i suoi disegni, gli spiegai da che cosa doveva partire; gli parlai della scelta di tutto ciò che è essenziale; gli parlai della semplificazione; gli parlai dell’unità che deve regnare in ogni lavoro, disegno

frequentato tutte le scuole e si son riempiti la casa di libri e la mente di potenza dialettica e

pratica enorme senza aver mai bisogno di guadagnarsi il pane perché il pane lo

guadagnava Adolfo e i suoi bambini. Adolfo che non ha fatto neanche la prima perché il

signorino ha passione per le pecore e non permette che si vendano. Il signorino dice che le

pecore rendono molto tanto a lui che al contadino (ed è vero) e così non permette che si

vendano. E così Adolfo ha passato la sua infanzia colle pecore e ora è grande e lavora

invece il podere e colle pecore manda Adriano. E Adriano ha già 10 anni ma è analfabeta

come il suo babbo solo perché non può andare a scuola perché ha da badare le pecore che

hanno da fare la lana e gli agnelli e il cacio. E poi si vende la lana e gli agnelli e il cacio e la

metà d’Adolfo basta solo per campare mentre la metà del signorino messa insieme a altre

metà di altri poderi basta bene per andare a scuola fino a 35 anni e far l’assistente

universitario volontario cioè non pagato e vivere nei laboratori e nelle biblioteche là dove

l’uomo somiglia davvero a colui che l’ha creato che è sola mente e solo piacere. Sono

trecent’anni precisi che la famiglia secolarmente analfabeta di Adolfo mantiene agli studi

la famiglia secolarmente universitaria del signorino. C’è nell’archivio parrocchiale

documenti ingialliti e ammuffiti che lo attestano. Il fatto è già di una tragicità che non

richiede commento [...]» (in LPB pp. 61-62). Di questa lettera don Lorenzo voleva farne un

articolo per qualche rivista. Lo avrebbe intitolato emblematicamente Università e pecore. Di

fatto non venne pubblicato da nessuna parte.

37 Neera Fallaci fece un’intervista a STAUDE (in Dalla parte… p. 49).

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o pittura che sia. E lui capì al volo queste cose. […] Era un ragazzo capace di avvertire un godimento sensuale per il colore. […] Con Lorenzo parlavo del senso sacrale della vita. Perché il mio scopo di pittore è di far diventare sacra la realtà che mi circonda, è di esprimere il “santo” che è nel profondo di tutti

noi… È la prima volta che dico queste cose. Le dimentichi»38. Religiosità ancora vaga e autocentrata, ma sufficiente per iniziare a sommuovere le corde dell’apertura a Dio propria di ogni uomo. Staude, quasi involontariamente, infiammò il desiderio di ricerca che nelle figure spesso più inquiete non riesce a sopirsi. La frequentazione scolastica del pittore aprì in Milani una sete, rispondendo a molte domande. Fu più importante questo che non la pittura in sé. Infatti, non è fuorviante dire che Lorenzo «nella pittura non cercava solo un mezzo d’espressione, ma una realizzazione esistenziale. Questa scuola, infatti, non solo favorì in Milani la ricerca di un assoluto spirituale a cui fare riferimento nella propria attività, ma gli fornì una chiave di lettura della realtà che lo circondava, gli formò un modo del tutto particolare di

guardare cose e fatti e se stesso in relazione ad essi»39. Staude aveva intuito già che la pittura non era il futuro del giovane Milani.

La famiglia di Lorenzo non era religiosa: la madre Alice Weiss40, pur essendo di origine ebrea, non coltivò mai nel figlio la passione per la Torah e le feste ebraiche. Non era credente. Il padre Albano era una persona importante, colta, dai molti interessi (come il bisnonno), ma lontana dal cristianesimo. Non fecero battezzare i figli (Lorenzo aveva anche un fratello Adriano, maggiore di due anni, e una sorella Elena, più piccola di quattro anni) se non per convenienza politica e per paura di ripercussioni in epoca fascista (il «battesimo fascista» dirà don Milani). Lorenzo si accostò perciò all’esperienza del credente per altre vie. Ma la profondità spirituale di un uomo non nasce dal niente. Nessuno può compiere una conversione dal nulla al tutto. Il mondo borghese dal quale egli stesso, però, cercò sempre di liberarsi, gli comunicò gusto e raffinatezza: uno stile. In più, Lorenzo portò con sé l’ampiezza delle relazioni cui la famiglia lo aveva abituato: larghezza della

38 Dalla parte… p. 48-49

39 Francesco MILANESI, Don Milani. Quel priore seppellito a Barbiana, LEF 1987, p. 27. (in

seguito abbreviato in Don Milani…)

40 Alice Weiss era figlia di Emilio, il quale era legato al mondo culturale di Sigmund

Freud; ella era stata allieva di James Joyce quando era a Trieste. Del padre – Albano –

sappiano della sua borghesia agiata, ma fortemente e orgogliosamente laica. Il bisnonno

era Domenico Comparetti, «grecista e latinista, epigrafista e papirologo e folklorista, tra i

filologi nostri e stranieri quello di più larghi interessi e di più estese ricerche». La

testimonianza è del maestro di Lorenzo, Giorgio Pasquali, in Dalla parte… p. 16.

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mente per i discorsi scientifici che circolavano in casa, frequentazione di persone colte che aprivano l’intelligenza, esercizio dell’autonomia di pensiero. Certo non si può fondare la grandezza spirituale di un singolo solo su questo; non si può, però, non affermare che si cresce spiritualmente grazie a uno spirito che umanamente si qualifica e si raffina. La battaglia che don Lorenzo farà per/con i suoi poveri è proprio la restituzione al povero dello spessore spirituale-culturale della propria umanità, senza della quale qualsiasi discorso di e su Dio è impraticabile. Rischia addirittura di essere falso. La famiglia di Lorenzo non era appunto religiosamente praticante, nel senso che non aveva abbracciato alcuna fede, ma questo non significa che non gli comunicasse quei valori alti che, anche se da prete Lorenzo tenne a distanza, mai ripudiò totalmente: per esempio, il valore del sapere. Lorenzo imparò l’eleganza di uno stile proprio da quell’ambiente cittadino per bene della sua famiglia.

Dall’arte alla liturgia: il vero disegno è dell’Altro

La svolta spirituale di Lorenzo fu grazie all’appassionante mondo evocativo

della pittura41. È per questa via che va ritrovato il secondo passaggio spirituale: dall’arte alla liturgia. Ciò che appassionò il rampollo di casa Milani fu proprio l’unità liturgica per lui assolutamente sconosciuta. Fu

determinante la lettura del Messale Romano42 e l’incontro con la composizione simbolica della celebrazione eucaristica: evocazione del mistero e rimando ad un’alterità soprannaturale. «Il profondo fascino che Milani provò per la Messa, dopo la scoperta del vecchio messale nella cappella sconsacrata di

41 Quando Staude andò a trovare Lorenzo al Seminario Teologico di Cestello a Firenze si

sentì dire: «È tutta colpa tua – racconta Staude –. Perché tu mi ha parlato della necessità di

cercare di capire l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose

come in un’unità dove ogni parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su

un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra

la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada» (Dalla parte… pp. 51-52).

42 A Gigliola Lorenzo pensava di affrescare la vecchia chiesina sconsacrata della sua

tenuta che serviva ormai da magazzino. Là c’erano anche arredi sacri e la Via crucis che

egli si portò a San Donato. «Lorenzo trovò tra quegli arredi un vecchio messale. Si mise a

sfogliarlo: stampa e decorazioni erano belle. Poi cominciò a leggere la Messa, e il suo

interesse si fece sempre più appassionato. Scrisse all’amico – degli anni di Liceo a Milano

presso il Berchet – Del Buono: “Ho trovato un vecchio messale qui a Gigliola, in una

cappellina di proprietà della famiglia. Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei

Sei personaggi in cerca di autore?”» (in Dalla parte… p. 65. Fu proprio la Messa l’oggetto dei

cartoni per gli affreschi della chiesina).

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Gigliola43, e che lo spinse ad approfondirne i significati, consiste in questo salto qualitativo che c’è tra il linguaggio pittorico e quello liturgico-sacramentale. Mentre il primo “rappresenta” o permette di intuire una generica componente di mistero presente nella realtà, il secondo “realizza” la

presenza salvifica di Dio»44. La differenza è sostanziale, perché il giovane Milani fu sempre colpito della potenzialità del Sacramento, che allaccia e fa da ponte tra l’umano e il divino, unendo due entità così fortemente diverse. Egli rimarrà sempre nella Chiesa proprio perché la Chiesa gli garantiva di potersi accostare al mistero fascinoso e salvifico di Dio. La seguente affermazione, se non fosse perché è don Milani a pronunciarla, potrebbe essere un po’ paradossale:

«Non mi ribellerò mai alla Chiesa, perché ho bisogno più volte alla

settimana del perdono dei miei peccati45 e non saprei da chi altri andare

a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa»46.

Lorenzo vedeva concretarsi, quasi materializzarsi, nell’azione liturgica della Chiesa – e attraverso di essa, del prete – il mistero, cioè il volto dell’essenzialità, il senso dell’unità delle cose, la salvezza portata da Dio. Don Milani avrà sempre un enorme rispetto per tutto ciò che la Chiesa compie liturgicamente (anche per questo egli battaglierà a San Donato di Calenzano e sulle pagine del suo libro Esperienze Pastorali per non dare il sacro in pasto a

chi non è capace di recepirlo. È come dare perle ai porci47. «Porci» solo perché non ancora educati a cogliere la bellezza del mistero che viene celebrato). «La pittura, che lui aveva scelto come linguaggio espressivo del patrimonio spirituale che sentiva di avere in sé, divenne il linguaggio con cui riuscì a percepire una realtà profonda, sacra: fu la strada attraverso cui la sua anima

43

A Gigliola di Montespertoli (FI) i Milani avevano una delle due residenze estive; l’altra

era a Castiglioncello in provincia di Pisa.

44 Don Milani… p. 28

45 Don Lorenzo chiedeva a ogni prete che saliva a Barbiana di essere confessato. Quando,

poi, scendeva a Firenze la prima cosa che faceva era andare dal padre spirituale don

Raffaele Bensi. Nel già citato libro «Perché…», Gesualdi riporta in merito la testimonianza

di don Renzo Rossi, amico di don Lorenzo: «Lorenzo si confessava continuamente, anche

più volte la settimana. Bastava, quando era a Barbiana, che scendesse giù a Vicchio per

venirmi subito a trovare e chiedermi di confessarlo. La sua delicatezza d’animo era

stupenda. Era così rigido con se stesso che non si perdonava neppure il più piccolo difetto!

A volte perfino mi scocciava… quando lui mi chiedeva di confessarlo!!» (p. 97).

46 Lettera a padre Reginaldo Santilli (Barbiana, 10.10.1958), domenicano, giornalista e

revisore di Esperienze Pastorali. Diede il nulla osta (in LPB p. 89). 47

MATTEO 7,6

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giunse a contemplare il mistero salvifico di Dio. In tal senso, si può dire che la pittura rappresenta quella soglia tra il dentro (coscienza) e il fuori (realtà) che

lui dirà essere, per i poveri, la parola»48.

La sua conversione passò dalla bellezza del mistero. Lorenzo non ha mai cercato una professione, ma una vocazione totale e totalizzante. Non avrebbe mai concepito di fare il prete semplicemente per riempire qualche ora della sua vita. E il fascino del mistero, che non aveva ancora un nome, avrebbe dovuto coinvolgerlo in modo pieno e appagante. Altrimenti si sarebbe accontentato di fare il pittore. Ma il pittore non poteva farlo, così come nessun altro mestiere, proprio perché solo mestiere. E a lui non serviva un mestiere. La sua conversione ha una portata esclusiva (quasi totalitaristica). Scegliere uno stile di vita, una vita secondo uno stile. Il suo stile di vita può essere descritto in modo duplice: primo, la fedeltà all’altezza del mistero della salvezza che diventa vita spezzata, eucaristica, culto spirituale, liturgia continua, offerta perenne, quotidiana; secondo, lo stile di incarnazione nei poveri, come celebrazione della potenza di Dio nell’impotenza degli uomini: cioè farsi popolo per salvare il popolo e consegnarlo come tale – orgogliosamente tale – a Dio, a cui tutto va offerto e al quale tutto ritorna.

Alcuni anni fa, Adele Corradi pubblicò la testimonianza del suo incontro speciale con don Lorenzo a Barbiana. Lei fu l’unica professoressa alla quale il priore concesse il permesso (privilegio) di rimanere lassù per aiutarlo nella scuola, soprattutto nel tempo della malattia (e per ricevere in eredità la scuola dopo la sua morte). Fu sempre lei a seguire la gestazione della Lettera a una

professoressa49. Il suo scritto – Non so se Lorenzo – mette in luce la saldatura tra conversione e vocazione al sacerdozio. Da un suo colloquio con Carla Sborgi, la «fidanzata» che Lorenzo lasciò per entrare in Seminario, emerge che «parlando appunto di quella “conversione”, disse una volta, e [Carla] era serena e pensosa: “Cercava l’Assoluto. Sempre. Ha sempre cercato

l’Assoluto”»50.

Ma don Lorenzo deve la sua conversione al rimprovero di una donna che durante il tempo di guerra aveva stigmatizzato l’ostentazione di Lorenzo a

48 Don Milani… p. 28 49

Il riconoscimento ad Adele arrivò il giorno in cui lo stesso don Lorenzo, regalandole una

copia fresca di stampa, scrisse come dedica: «Parte quarta: poi finalmente trovammo una

professoressa diversa da tutte le altre che ci ha fatto tanto del bene» (in A. CORRADI, Non so

se Lorenzo, ed Feltrinelli 2012, p. 146) 50

Ididem, p. 124

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mangiare pane bianco nelle strade dei poveri di Firenze51. Fu quella donna che gli fece imparare a «dimenticarsi di sé». Le strade vocazionali in uomo prendono sentieri impensabili e, a volte, misteriosi.

Non limitiamoci a considerare don Lorenzo semplicemente come un prete d’assalto, di «sinistra» (come lo titolò anni dopo la morte il settimanale Lo

Specchio52), un prete che piace ai comunisti, contro la Chiesa. Purtroppo è accaduto così nella molteplice produzione letteraria e critica su di lui. Non facciamo diventare Lorenzo un personaggio o un’immaginetta. Oltre tutto, lo offenderemmo. La sua battaglia critica, culturale, certamente aspra e indisponente – ne sa qualcosa il suo padre spirituale don Raffaele Bensi – non sempre condivisibile nei toni, va correttamente inserita dentro il quadro sacramentale sopra accennato: ciò che importerà a don Lorenzo non sarà il povero in sé e per sé, ma l’umanità: che ogni suo ragazzo, grazie alla scuola

(strumento principe, ottavo Sacramento53), giunga all’apertura necessaria per conoscere Dio e fare esperienza della sua salvezza (anche per questo continuava a stimolare i suoi ragazzi alla riconciliazione), senza della quale l’uomo non è.

La lotta dei poveri è lotta solo se la promozione umana che ne scaturisce rende giustizia all’uomo che essendo creatura di Dio ha una profonda dignità ed è chiamato a un futuro di redenzione. È importante non assolutizzare un aspetto di don Lorenzo rispetto a un altro, proprio per non rischiare di essere

parziali54.

Così Lorenzo non si accontentò più di dipingere su tela, «fece di sé il

pennello, della sua vita la tela e dei sacramenti i suoi colori»55. Di questa sua ricerca, che attraverso la pittura lo condusse alla liturgia, e da questa alla 51

Ibidem, pp. 134-135. L’episodio è raccolto anche da Michele Gesualdi dalla viva voce del

priore: «Quando facevo il pittorello, un giorno camminavo per il quartiere più povero di

Firenze con indosso i pantaloni di velluto alla zuava, i pennelli e la tela sotto braccio in

cerca di uno scorcio di strada da dipingere. Firenze era sotto i bombardamenti e la fame si

tagliava col coltello. Io camminavo spilluzzicando un pezzo di pane bianco.

Improvvisamente si spalancò una finestra e una donna col bambino in collo mi gridò:

“Disgraziato! Non si viene a mangiare pane bianco nelle strade dei poveri”. Fu una ferita

nella carne viva. Solo allora mi accorsi degli altri e decisi di servirli» (in EB pp. 234-235). 52

n. 12 – domenica 21 marzo 1965 53

«E perciò la scuola mi è sacra come un ottavo Sacramento. Da lei mi attendo […] la

chiave, non della conversione, perché questa è segreto di Dio, ma certo

dell’evangelizzazione di questo popolo» (EP p. 203)

54 Su questo punto particolare la biografia della Fallaci è mancante.

55 Don Milani… p. 28

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domanda esistenziale sulla ricerca di senso, don Milani aveva parlato negli anni di Liceo con Carla Sborgi. Si ricordò di lei anche in fin di vita quando la mandò a chiamare perché riteneva fosse l’unica persona a cui egli aveva fatto

del male56.

Il signorino borghese era approdato a una certezza: disegnare non gli sarebbe bastato. Aveva compreso che il vero disegno era quello della storia ed era nelle mani di un Altro. Essere «intonato» a questo disegno (e al suo autore) era ciò che più avrebbe desiderato.

«La storia la disegna Dio e non noi, e l’unica cosa cui ambisco è di capire il suo disegno man mano che egli lo svolge, non ambisco a levargli il

lapis di mano e pretendere di diventare un autore della storia»57.

«L’apprendistato come pittore gli fece comprendere che il vero Artista che disegna e progetta è un Altro e che lui stesso stava dentro quel disegno. Da pittore che era, ora si vedeva “pitturato” e temeva di rovinare quel dipinto e

fare una figuraccia»58. Il merito di don Milani «consiste nell’aver unito la propria responsabilità con quella di Dio mediante la coerenza con gli avvenimenti della storia: lui vuole essere sempre “intonato” con ogni evenienza […], comparire nel disegno di Dio realizzato attraverso gli uomini, nel suo posto, senza stonare. E per ottenere ciò voleva essere intonato con gli eventi e le situazioni degli altri uomini, che diventano per lui sfida esistenziale e voce di Dio». Ecco perché «la sua sfida principale furono i poveri, i preferiti dal Dio incarnato in Gesù».

«Io prenderò il suo posto»

Ma i passaggi della conversione non sono finiti. Entra nella vita del giovane Lorenzo don Raffaele Bensi al quale confiderà dall’inizio alla fine tutte le sue pene. Sarà suo padre spirituale fino alla morte. Il primo incontro è casuale, davanti alla prefettura di Firenze, come ricorda lo stesso don Bensi: «Un mio ex-scolaro […] mi fermò per salutarmi. Era in compagnia di un amico e me lo

presentò: “Lorenzo Milani”»59. Passa un anno. È lo stesso Lorenzo che va in

56 Don Auro Giubbolini, compagno di Seminario, testimonia che «piano piano lui

[Lorenzo] arrivava a dire alla ragazza [Carla Sborgi] che si sarebbe fatto prete»; era inoltre

convinto di «quanto la ragazza avesse sofferto per causa sua» (in Dalla parte… p. 64-65)

57 Lettera ad Antonio Arfanotti, sacerdote di La Spezia (Barbiana 20.5.1959) riportata in La

parola… p. 103

58 La parola… pp. 36-37

59 Si può leggere tutta la testimonianza di don Bensi in Dalla parte… p. 69

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cerca di lui. Siamo ai primi di giugno del 1943. Lorenzo ha vent’anni appena. I dubbi e le domande sono tante. Come per tutti i giovani abituati alla libertà e al pensiero (abituati a città ricche di cultura e interessi come Firenze e Milano: il contadino non avrebbe mai potuto permettersi il lusso del pensiero). Possiamo solo immaginare ciò a cui Lorenzo rifletteva e di cosa si crucciava. E non sono certamente riflessioni di natura estetica. Non sono le domande del pittore, ma di un giovane che non sa ancora che fare della vita. Vivacchiare e trascinarsi da una bottega all’altra, da una mostra all’altra, oppure dare una svolta definitiva e risoluta? Lorenzo raggiunge don Bensi nella sacrestia di San Michele a Visdomini, dopo la Messa. Non voleva confessarsi, come pensava don Bensi, ma parlare. Don Bensi però, che non riconobbe subito Lorenzo, doveva andare di corsa a San Quirichino a Marignolle fuori città perché nella notte era morto un prete. Giovane. Lorenzo volle accompagnarlo: «Strada facendo, mi spalancò la sua anima. Mi disse del suo bisogno di verità, di dedizione totale. Anche se stava ancora

cercandola la verità, era già pieno di Spirito Santo»60. Secondo don Bensi in casa della salma alla vista del prete morto Lorenzo avrebbe detto «Io prenderò il suo posto». Così nel giro di poco tempo egli incontra il prete cui confidarsi e il giovane cappellano che, morto prematuramente, non aveva avuto tempo di offrire la vita. Forse tutto questo avrà inciso nella coscienza tormentata di Lorenzo, ma anche disponibile come una tabula rasa. Lorenzo continuò sistematicamente a intrattenersi con don Bensi al punto – dice il suo

nuovo padre spirituale – da «pigliarsi un’indigestione di Gesù Cristo»61. S’informò di tutta la dottrina cristiana, della novità del cattolicesimo, della Chiesa. Lesse molto la Bibbia e i Vangeli in particolare. Aveva una religione essenziale – quasi solo da catechismo – e senza fronzoli:

«Se non faccio mai discorsi spirituali ed elevati è perché non li penso e non li credo. La religione per me consiste solo nell’osservare i 10 comandamenti e confessarsi presto quando non si sono osservati. Tutto il resto o son balle o appartiene a un livello che non è per me e che certo

non serve ai poveri»62.

A prima vista queste affermazioni sfiorano il semplicismo banale (a tal punto che uno di fronte alla conversione di Lorenzo potrebbe giustamente stupirsi nel più classico: tutto qui?). Eppure, questa secchezza della fede permetterà a don Lorenzo nella vita di non pasticciare. Egli pur essendo ministro della Chiesa era consapevole della portata di Grazia che non poteva darsi da sé.

60 Testimonianza raccolta in Dalla parte… p. 70

61 L’espressione di don Bensi in Dalla parte… p. 71

62 Lettera a Elena Brambilla, Barbiana 20.6.1961, in LPB p. 156

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Tutto ciò che fa parte della promozione della creazione è già essa stessa dimostrazione di fede. La sua scuola sarà l’atto più profondo di fede. E don Milani sapeva che non poteva arrogarsi diritti su azioni che solo la Grazia sacramentale poteva concedere. C’era nel suo modo di credere un senso altissimo dell’alterità, una quasi-separazione tra l’atto divino e quello umano. Quello umano va sempre perdonato, perché rischia costantemente l’infedeltà del peccato. Quello divino è sempre assolutamente altro, ma proprio per questo salvifico. Comunica un senso di mistero a cui l’uomo deve il timore. Inoltre, la fede di don Lorenzo era di un rigore e fermezza al limite del radicalismo. È proprio di chi si converte con una certa repentinità l’essere portato all’assolutizzazione. Soprattutto aborre ogni compromesso. Come la sua fede, Lorenzo fu tutto di un pezzo.

Far parte della Chiesa: a questo teneva più di ogni altra cosa. La Chiesa che sentì ostile e che amò come sua madre, dalla quale cercò sicurezza e stima, affetto e appoggio. Non per niente sua madre Alice (il padre morì poco tempo prima dell’ordinazione presbiterale) fu il fulcro assoluto delle relazioni del suo sacerdozio. La madre era rifugio, casa, consolazione, conforto… il punto sicuro di appoggio, anche quando si sentirà ferito dalla Chiesa, che egli riteneva sua vera madre e sua unica sposa. Aveva una fede da profeta, senza mezzi termini, tagliente e provocatoria. Assolutamente non incline all’omertà o all’inchino borbonico, ma con un disarmante senso dell’obbedienza alla Chiesa. Non la ripudierà mai. La Chiesa e i poveri di Barbiana saranno la sua vita. Più di Dio. Persino.

L’incontro con don Bensi fu assolutamente importante per chiarire dubbi e ottenere quelle risposte sicure e certe di cui aveva estremo bisogno. Il rapporto con il suo padre spirituale, durato quasi ventiquattro anni, era di paternità-filialità spirituale. Nessun altro come don Bensi capì il giovane fiorentino: «Don Lorenzo mi apparve trasparente e duro, come un diamante.

Doveva subito ferirsi e ferire»63.

«Liberalissima mamma»

Oltre don Bensi, don Lorenzo informava di tutto ciò che faceva anche la madre Alice Weiss. Squisitissimo il carteggio a cura di Giuseppe Battelli dove emergono le numerose attenzioni di Lorenzo nei confronti della madre. Lorenzo aveva una specie di adorazione indicibile nei confronti della mamma (intestava spesso le lettere con la «M»).

In una lettera del 1948 Lorenzo manifesta il desiderio che la madre vada a

63 Intervista concessa a padre Nazareno Fabretti nel 1970 (in L’uomo… p. 90)

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stare con lui. Il padre era già morto. Sappiamo che la madre pur non condividendo la scelta del figlio rispettò fino all’ultimo istante la sua volontà e non mancò mai di essergli vicino, anche se non andava di frequente a trovarlo (Alice subì anche un infarto che non le permise di salire spesso a Barbiana; la strada era sempre un cantiere aperto per la sistemazione e, poi, non c’erano tutte le comodità). Don Lorenzo scherzosamente le scriveva:

«Mi piacerebbe tanto averti sempre accanto e farmi consigliare e moderare e incoraggiare da te che capisci tutte le mie cose… Te farai da parroco e io ti farò da serva. Io l’ho sempre pensato e son sicuro che saresti fantastica te per educare un popolo e un prete. Se vieni te rinuncio anche ad essere povero e metto l’ascensore lo sciacquone l’acqua corrente e poi trovo una figliola per cucinare e le giovani dell’Azione

cattolica per spazzare e spolverare e fare il bucato. Vedrai che ditta»64.

«[…] e vedrai che ti troverai in pace e mi farai da direttrice spirituale e da padrona di casa e avrai l’alta direzione dell’asilo e della scuola popolare

mista»65.

Lorenzo confidava tutto alla madre, a lei scriveva più volte in settimana, copiandole persino i documenti che redigeva e riceveva. Quando la mamma saliva a Barbiana tutto era pronto per lei: luce di candela in più, cambio del piatto a tavola, stanza solo per lei. Nei confronti della «liberalissima mamma» don Lorenzo non pensava proprio di convertirla. Tra i due, pur avendo fatto scelte diverse, c’era enorme rispetto:

«Come puoi pensare che io sia ancora tanto chiuso da avere bisogno che la mamma del prete vada in Chiesa? Se tu mi farai l’onore di venire a stare con me non avrai mai da venire in Chiesa e nessuno avrà nulla da ridire perché tutti sanno come la penso e che non invito mai gli adulti a

venire anzi molto più spesso li invito a non venire»66.

Il «babbo» don Bensi

Con don Bensi, Lorenzo litigava di frequente. Ma guai a chi si permetteva di

64 Alla mamma… [56] 22-7-48, Firenze, p. 93

65 Alla mamma… [72] [S. Donato] 5 agosto 1950, Firenze, p. 116

66 Ibidem. L’atteggiamento di libertà assoluta don Lorenzo lo tenne nei confronti di tutti i

suoi parrocchiani. Vedeva, infatti, proprio nell’imposizione e obbligatorietà degli adulti

alla partecipazione nelle processioni, nelle feste, nelle pratiche sacramentali una delle

radici della fuga dal cristianesimo e dalla Chiesa ormai in atto in quei paesi. Scrisse

Esperienze Pastorali per condividere con i suoi fratelli nel sacerdozio proprio questa

preoccupazione.

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toccare il «babbo», come lo chiamava don Milani67. Il padre spirituale doveva fare spesso da mediatore tra il prete testardo e la curia di Firenze, tra il priore di Barbiana e il cardinale (prima Elia Dalla Costa e poi Ermenegildo Florit). Don Bensi si sentì spesso trattato male dal «figlio» Lorenzo, ma portava pazienza con quel figlio ribelle della Chiesa che sembrava non avere mai pace, incontentabile nelle risposte, feroce nella critica, dialetticamente vivace e intelligente, provocatore di natura, così bisognoso di comprensione e di risposte. Don Bensi cercò di capire il non facile don Lorenzo. Senza dubbio lo stimò e lo amò: stimò in lui la franchezza tagliente, fiorentina, la passione e la visceralità, la sete della verità, la dignità dell’uomo libero, la sfrontatezza di sfidare chiunque, la sua «incorreggibile parzialità» verso i suoi poveri, la volontà di far chiarezza e smascherare soprusi e franchi tiratori sia intellettuali sia borghesi che giocavano a confondere il povero. Soprattutto lo ascoltò ogni volta che scendeva a Firenze e attraverso le lettere, la maggior parte rimaste a tutt’oggi segrete per volontà dello stesso Bensi: «Ha gioito, ha sofferto, è stato in ansia per i suoi ragazzi come solo un genitore può fare. Con gli altri era senza sfumature: bianco o nero. Con loro si comportava come

le mamme: “Sei un assassino! Però ti voglio bene”»68 e «chiedeva tutto, esigeva il massimo, la perfezione. E in questo, se si vuole, era anche un po’ disumano. Ma io so che pagava per primo, che non si concedeva indulgenze,

e ciò che chiedeva alla Chiesa e al vescovo, lo chiedeva per amore»69.

Per capire il rapporto non immediatamente facile tra don Lorenzo e il suo padre spirituale leggiamo la seguente struggente lettera. Lorenzo è provato dalla polemica circa la ormai non più recente uscita della sua pubblicazione

Esperienze Pastorali70 e soprattutto perché in questi anni di priorato a Barbiana presso la curia fiorentina si erano accumulate una serie di voci contrarie e di pettegolezzi gratuiti su di lui e la scuola. La sofferenza più forte era, come vedremo, quella del suo cardinale che non l’ha mai veramente e

67 «Un giorno che don Bensi venne a Barbiana e di fronte ai ragazzi si scontrò con lui, con

parole forti, i ragazzi accennarono a qualche reazione verbale: don Lorenzo li bloccò con

questa frase: “Fermi ragazzi, questo è il vostro nonno”» (in «Perché…», p. 6).

68 Testimonianza di don Bensi raccolta in Dalla parte… p. 324. Una parte della

corrispondenza tra don Bensi e don Milani è stata solo di recente resa pubblica in «Perché

mi hai chiamato?» Lettere ai sacerdoti, appunti giovanili e ultime parole (a cura di M. GESUALDI,

ed. San Paolo 2013).

69 Ibidem p. 288 s.

70 Esperienze Pastorali uscì nel maggio 1958 ma il libro, iniziato otto anni prima a San

Donato, venne ritirato dal commercio per disposizione del Sant’Uffizio nel dicembre dello

stesso anno. Ritorneremo sulla vicenda di EP.

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pubblicamente sostenuto.

Leggiamo lo scritto tenendo presente la passione e senz’altro la rabbia (Lorenzo fa una rilettura della sua vicenda presbiterale e del dolorosissimo spostamento da San Donato a Barbiana) per non essere capito nel suo ministero di prete e maestro forse nemmeno dal suo padre spirituale, che invece dovrebbe – perché padre – comprendere. Il genere letterario è quello dello sfogo e lungi dall’essere cattiva nei confronti di don Bensi, la lettera rivela la profonda stima di Lorenzo per il suo direttore spirituale, altrimenti non avrebbe perso tempo a scrivergli (in questo caso c’era una precisa richiesta dello stesso padre spirituale).

Nella lettera percepiamo anche quanto la malattia di Lorenzo, che lo condurrà alla morte il 26 giugno del 1967, non lo lasci riposare:

«Caro don Bensi, quando l’ultima volta che ero da lei mi disse di scriverle un’importante lettera indovinava un desiderio che portavo da diversi mesi. E cioè di farle sapere qualcosa di me per il debito che ho con lei e anche per la rabbia che ogni tanto mi ribolle di tutto quel che lei non sa e che l’avrebbe fatta agire diversamente 9 anni fa e quest’anno. 9 anni fa ero un prete innocente e religioso lei invece chissà cosa pensava se racconta che io stesso chiesi per chi sa quale masochistica autopunizione l’infamia, il confino in un deserto e praticamente lo spretamento. Ridotto allo stato laicale d’un maestro lei ha ignorato perfino questa mia povera arte travisandola chissà per quale superficialissima informazione in ipnosi e dittatura appiattitrice d’anime. Questi due suoi granchi son le cose che faccio fatica ad ingollare. Lei poi sa bene che il comportamento della curia verso di me (come anche verso altri preti) è semplicemente criminale perché oltre allo scandalo verso i poveri è anche un esporre a gravissimo rischio la mia anima. Eppure crede ancora di poter trattare un uomo di 40 anni a eufemismi e rimproverarlo perché dà ormai alle cose i loro nomi. Se sbaglio è colpa vostra che avete seppellito nel danno dell’isolamento un uomo che mancava di esperienza e allora vi occorreva l’obbligo di venirlo a trovare per spiegargli che il vescovo e il vicario non sono atei ma solo pazzi, non son venduti ma solo deficienti. Se non sbaglio, non ho ormai 40 anni invecchiato nel lavoro, nel peccato e nella malattia, il diritto di sentirmi dire un po’ di verità (come un bambino che ha fatto gli sviluppi) da un vecchio prete che più volte mi ha fatto da padre (ma non in questo)? Voglio sapere come funziona la gerarchia a Firenze. Qual è la meccanica dei suoi errori e dei suoi delitti. E quando sapessi questo, vorrei sapere (non per me per i ragazzi) qual è l’atteggiamento più santo: l’accettazione (che spesso è comoda) o il reagire (che spesso costa caro). Il

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Vescovo non s’è visto, il Rettore non s’è visto, don Lupori non s’è visto. Vengono solo i preti scemi (come dice lei). Forse invece vengono solo i preti umili che hanno pietà. Poi vengono i poveri abbondantemente, son quelli che mi hanno fatto dimenticare tutti voi e il suicidio. Sono stati i miei confessori i miei direttori spirituali i miei maestri il mio Dio (l’altro Dio mi perdoni. Del resto non li ho cercati io. Poi c’è una pagina del Vangelo che perdona anche me quella dell’ultimo giudizio là dove le pecorelle dicono “Quando mai ti abbiamo visto affamato ecc. ?” Vuol forse dire che servivano Gesù anche senza volgergli espressamente questa intenzione e questa offerta?). E i poveri dopo avermi usato questa pietà d’accogliermi come uno di loro, dopo aver fatto per me quella carità che mi rifiutava il resto della Chiesa, non hanno anch’essi il diritto di sapere queste cose? Tante volte ho pensato di scriverle più o meno in questi termini poi non ne ho mai avuto il tempo perché avevo p. es. da insegnare grammatica a un contadinello duro di testa e morbido di carne cioè al mio Dio e allora mandavo al diavolo tutti voi borghesi che non mi conoscete più e che non conosco più. Così ho fatto di tutti e senza rimorso, ma mi restava ancora un debito verso di lei che mi ha fatto del bene e allora pensando che io non perdonerei a un mio figliolo che mi tenesse degli anni senza raccontarmi nulla, comprese le cose dolorose a dirsi, ho pensato di cogliere un’ora di ozio (ho un collaboratore inglese che mi dà qualche ora di riposo) per sforzarmi ad adempiere questo dovere verso di lei sperando che ella non stia così male da non poter

nemmen leggere o sopportare. Un abbraccio affettuoso suo Lorenzo»71.

Don Bensi comunque non abbandonerà mai il figlio ribelle ubbidientissimo. Lo sa Dio quel che passa nel colloquio tra due coscienze libere. Lo sa Dio cosa significava per don Bensi essere in qualche modo intermediario tra Dio e don Lorenzo. Essere padre spirituale di un prete come don Lorenzo non era cosa semplicissima: da una parte Lorenzo non era il tipo da farsi imbambolare da congetture spirituali; dall’altra discernere la volontà del Padre e i movimenti dello Spirito in quel cuore era impresa ardua. Don Lorenzo non si lasciava facilmente domare. Ciò che contava era comunque la ricerca del confronto con un’«oggettività» esterna che fungesse da specchio critico, che non scusasse né coprisse la verità. Don Lorenzo non ebbe paura di questo confronto, fino alla fine della sua vita. È un’arte, il discernimento, soprattutto quando si deve tentare di individuare la prospettiva circa il futuro. Don Milani si sottopose a quest’arte, non per sottomissione, ma perché credeva

71 La lettera è del 9 gennaio 1964 (in Alla mamma… pp. 406-407; oggi anche in «Perché…»,

pp. 55-57)

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ostinatamente nella parola che la Chiesa gli offriva. Il futuro non poteva affacciarsi con chiarezza che dentro l’abbraccio del confronto. Tenere e tenersi per sé non aveva senso per il priore. Consegnarsi e lasciarsi guardare e giudicare (poi magari rispondere!). Don Bensi conosceva don Lorenzo e sapeva che lo spirito libero e autonomo della sua coscienza non si sarebbe facilmente piegato. Era un uomo ostinato. Altrimenti, non avrebbe potuto fare quello che ha fatto. Non avrebbe potuto nemmeno tirarsi le ire e le simpatie di mezza Italia laica e religiosa. Ma c’è senz’altro un atteggiamento da apprezzare in lui: il suo cercare disperatamente di essere confermato da questa oggettività che è più importante di quello che il soggetto può riuscire a capire. Don Bensi era questa oggettività alla quale sottoporre il proprio operato, dalla quale lasciarsi giudicare. Aggiungiamo pure che don Lorenzo sembra aver fatto di tutto affinché le sue azioni e i suoi scritti non avessero l’imprimatur e il nulla osta dell’oggettività: cioè, la Chiesa istituzionale, la curia, don Bensi stesso. Anche quando pare egli abbia agito per proprio conto contro tutti (vedi la vicenda giudiziaria della lettera ai cappellani militari) egli lo ha fatto sempre in retta coscienza pensando che la Causa del povero-popolo fosse un Bene oggettivo, in sé e per sé, e che nessuna oggettività terrena autorevole e autorizzata avrebbe potuto sconvolgere e fermare. Don Lorenzo continuerà da solo anche quando don Bensi non capirà o non approverà le sue scelte o i suoi scritti. Il non riconoscimento della Chiesa sarebbe stato, però, per don Milani un segno di chiara sconfessione del suo stesso ministero.

Passione per la Chiesa e i Sacramenti

Torniamo al tema della conversione che per Lorenzo coincide con la vocazione. Da una lettera (4.6.63) a una signora di Milano molto amica di Lorenzo, Elena Brambilla, sappiamo la data precisa della conversione:

«Mia moglie [la Chiesa, ndr] ed io le mandiamo i nostri affettuosi ringraziamenti. Non c’eravamo accorti delle nostre nozze d’argento. Comunque proprio in questi giorni il 27 maggio ho compiuto 40 di vita “civile”, proprio oggi 20 anni di vita cristiana e in questo mese compirò i

16 anni di sacerdozio»72.

Ma su cosa si basava la sua conversione? La risposta fa parte del mistero che si consuma nella coscienza libera del singolo, tra l’uomo e Dio, di cui si può dire sempre molto poco. È oggettivamente difficile rispondere a questa domanda. Forse è una domanda che non andrebbe posta a nessuno. In particolare per chi pensiamo abbia vissuto con uno stacco netto il passaggio. A

72 LPB riporta la lettera ma non questo passaggio. È invece citato in Dalla parte… p. 70

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giudicare da alcuni cardini a cui don Lorenzo rimarrà fedele in tutti i suoi quasi vent’anni di sacerdozio pare di poter dire che la sua conversione si sia mossa almeno su questi due elementi:

1. la passione per la Chiesa, come qualcosa di sacro nei suoi elementi istituzionali (a questa Chiesa chiederà che si sporchi le mani e la faccia per difenderlo, per sostenerlo nei momenti tragici della propria esistenza, in particolare ai tempi delle calunnie sul libro Esperienze Pastorali e del processo per l’imputazione di apologia di reato circa la Risposta ai cappellani militari), l’obbedienza nei confronti del vescovo fino ad accettare lo spostamento premeditato da San Donato di Calenzano a Barbiana, e con il quale ha sempre faticosamente cercato il dialogo e il confronto, e il senso profondo, rispettoso della Legge della Chiesa, del Dogma, del Credo.

«[…] Siamo nella Chiesa apposta per sentirci serrare dalle sue rotaie che ci impediscano di deviare tanto in fuori che in dentro. […] Cattolico è dunque chi si ricorda che i cardinali e i vescovi son creature fallibili. Eretico chi mostra per loro un rispetto che travalica i confini del nostro Credo. [...] Noi la Chiesa non la lasceremo perché non possiamo vivere senza i Sacramenti e senza il suo Insegnamento. Accetteremo da lei ogni umiliazione […] criticheremo vescovi e cardinali serenamente visto che nelle leggi della Chiesa non c’è scritto che non lo si possa fare. […] La critica ai cardinali e ai vescovi è lecita, diciamo ora addirittura che è doverosa: un preciso dovere di pietà filiale. E un nobile dovere anche, proprio perché adempirlo costa caro. Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo il loro bene, cioè che diventino

migliori, più informati, più seri, più umili»73.

Questo testo di don Milani – come gli altri che citeremo – possono essere accettati e capiti solo se si pensa che chi li ha scritti ha vissuto l’obbedienza alla Chiesa e al proprio vescovo fino all’invito di quest’ultimo di lasciare la diocesi e di farsi incardinare altrove. Solo dentro l’obbedienza è possibile la critica appassionata. Don Milani non lancia accuse anche se incide in profondità le «piaghe delle Chiesa»; ma lo scopo – doveroso non dimenticarlo – è il desiderio di una Chiesa a immagine dell’amore di Dio e della sua paternità. Ha il permesso di critica chi si sente figlio.

Don Lorenzo non ha pugnalato, ma ha guardato in faccia sua «madre» e

73 È uno stralcio di una lunga lettera sul dovere di informare correttamente i vescovi che

don Lorenzo scrisse (Barbiana, 8.8.1959) a Nicola Pistelli direttore di Politica – settimanale

della sinistra cattolica fiorentina – perché venisse pubblicata. L’aveva intitolata Un muro di

foglio e di incenso. Non venne pubblicata (in LPB pp. 122-137). Più avanti citeremo il testo

nella sua quasi totalità.

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sapendola a volte piagata da colpe non l’ha ripudiata, ma amata. Sapeva che senza di lei il suo sacerdozio, e perciò il suo essere prete, maestro, uomo, tutto insomma, non contava nulla. Essere prete e maestro fuori dalla Chiesa non aveva senso. La Chiesa ha la forza della conferma divina. È quello che don Lorenzo ha sempre cercato.

2. I sacramenti: in specie la Confessione e l’Eucarestia, punto focale del suo sacerdozio. I due sacramenti sono la garanzia di essere parte di..., di star dentro nonostante il senso del peccato e della colpa, che in Milani era forte. Sembra che don Lorenzo sentisse costantemente il bisogno di essere riabilitato. Sembra che il priore sentisse violento il senso del peccato da cui doversi liberare al più presto e proprio sul Sacramento si gioca il ruolo del prete, la sua peculiarità, la sua attività pastorale di maestro:

«Per me che l’ho accettata, questa Chiesa è quella che possiede i Sacramenti. L’assoluzione dei peccati non me la dà mica l’Espresso. L’assoluzione dei peccati me la dà un prete. Se uno vuole il perdono dei suoi peccati si rivolge al più stupido, arretrato dei preti pur di averla. […] E in questa religione c’è fra le tante cose, importantissimo, fondamentale, il Sacramento della confessione dei peccati. Per il quale, quasi solo per quello, sono cattolico. Per avere continuamente il perdono dei peccati. Averlo e darlo. Il più piccolo litigio che io avessi con la Chiesa, io perdo questo potere: di togliere i peccati agli altri e di farli togliere a me. E chi me lo rende questo potere? Arrigo Benedetti? Oppure… come si chiama quello là dell’Espresso… Falconi? Me lo rende Falconi il potere di togliere i peccati agli altri e di farmeli togliere? O la comunione e la Messa me la danno loro? Sicché devono rendersi conto che non sono… che loro non sono nella condizione di poter giudicare e criticare queste cose. Non sono qualificati per dare il giudizio su una cosa in cui il fondamentale è credere o no nel potere di questa Chiesa di

togliere i peccati, di salvare l’anima o insegnare la Verità»74.

«Non si riuscirà mai a trovare in me la più piccola disobbedienza proprio perché, prima di ogni altra cosa, mi premono i Sacramenti. E nessuno riuscirà a farmi disubbidire. Il primo ordine che il vescovo mi dà, se lui mi sospendesse eccetera, io mi arrendo immediatamente. Rinuncio alle mie idee. Delle mie idee non m’importa nulla. Perché io nella Chiesa ci

sto per i Sacramenti, non per le mie idee»75.

Il brano citato è un’intervista registrata su nastro ed è importante per cogliere

74 Dalla parte… pp. 73-74

75 Dalla parte… p. 291

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quale enorme valore don Lorenzo consegnasse al Sacramento e al potere della Chiesa di legare e sciogliere. Le frasi possono avere il tono massimalista, ma fanno capire che Milani era entrato in religione. Si era letteralmente convertito al cattolicesimo, convinto che la novità risiedesse proprio nella comunità dei credenti – la Chiesa – nella potenza di Dio di cui poteva disporre con umiltà e servizio, nella possibilità di dare e ricevere quasi-materialmente quella salvezza che nessun uomo può darsi da sé. Il senso della potenza della Chiesa finalizzata alla salvezza del singolo, per cui urge la liberazione dal peccato, era la risposta alla sete di certezza che don Lorenzo non trovò in tutto il suo giovane peregrinare. Il resto erano fronzoli. Perciò si dovevano prendere con uno spirito relativo (ma non accomodante) anche gli interventi ruggenti di don Milani. In realtà tutto ciò che il priore può dire e fare, le sue battaglie, le energie che investe, i polveroni di polemica che solleva, le lotte per gli ultimi, le arroventate arrabbiature con la Chiesa e i suoi fratelli di ministero, non sono nulla se non hanno alla base la certezza di essere sostenute dalla potenza dello Spirito di Dio di dare e ricevere la salvezza, l’unica cosa che conta in definitiva. A Dio e alla sua causa, che è la salvezza dell’uomo, solo a Lui si deve dare tutto. Anche lo scoprire l’altro, il fratello, darsi da fare per lui, dargli la libertà, rendergli la dignità di creatura, la passione civile, la formazione della coscienza, l’acquisizione del senso alto della parola: tutto è e deve essere finalizzato al compimento della Causa di Dio. Ai ragazzi di San Donato di Calenzano e di Barbiana insegnò che

«non si può dare la vita per qualcosa di meno di Dio»76.

Insistiamo: per comprendere Milani non ci si può ridurre a guardarlo dal lato della sua lotta per i poveri, non si può guardarlo solo dalla parte dell’ultimo, a meno che si consideri Dio – allora, sì, è corretto anzi doveroso – l’ultimo in senso assoluto, per cui ogni ultimo che Milani ha incontrato e per il quale ha consumato la sua vita fatta di gesti, parole, sguardi, affetti e abbracci, critiche e disanime, è ultimo solo in Dio e perché Dio – Dio soltanto – è l’ultimo degli ultimi.

Conoscendo l’orgoglio di Milani e il desiderio di puntare lo sguardo sempre in alto non si può non avere il sospetto che egli vedesse la scelta religiosa e poi, soprattutto, il sacerdozio come qualcosa di aristocratico:

«Mi godo il mio Dio che m’ha dato finalmente un mestiere col quale

posso divertirmi tanto senza mai declassarmi neanche un attimo»77.

Ed è ancora il prediletto scolaro Michele Gesualdi, che più di altri si è fatto

76 LG p. 43

77 Lettera alla mamma in Dalla parte… p. 74

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interprete del cuore del priore, a lasciarci intuire il rapporto di don Lorenzo con Dio – a volte conflittuale, come nella lotta di Giacobbe con l’angelo sul

fiume Iabbok78: «Nei momenti di delusione, oltre che rifugiarsi nel cuore della mamma, si rifugia nel colloquio con il suo Dio. Lui conosce malinconie, rimorsi e peccati. Da Lui attinge grazia, pace, serenità, consolazione e comprensione. Nel silenzio della notte quando sono soli, l’uno di fronte all’altro, gli chiede: “Perché mi hai chiamato?” e la voce della sua coscienza gli risponde: “Torna sereno, vedrai che tutto passa. Questa non è la vita è un solo momento. Guai a chi lo scambia per l’essenza. Tu non devi più, tu non puoi sbagliare questa prospettiva. Sennò ci trascini anche gli altri. Non è per questo che ti ho mandato a loro”. “Lo so – risponde – io pago per ieri e anche per oggi, ma fai che i nostri peccati non ci separino da te. Lo so, questa inquietudine non è grazia, ma non è neanche disgrazia, dunque è grazia. È grazia anche lei se le giornate vanno senza fede e senza preghiera e senza azione seria e fruttuosa portata a termine. Non ci badare capirò piano piano. Domani mattina ricomincerò come una macchina caricata. Offrirò per loro il mio fiasco. Anche questa è una preghiera, forse vale più delle più brillanti mie parole. Non sono degno di te. Pigliami così come sono e abbi pazienza. Don Bensi dice che mi vuoi bene lo stesso, dice che a te di quello che siamo non importa. Non ci ami per quello che siamo, ma ci ami perché tu sei

l’amore”»79.

Don Lorenzo non ha lasciato scritto molte preghiere. Oltre a quella dedicata a Santo Scolaro – invenzione milaniana per riscattare la classe degli studenti fino agli onori dell’altare – la seguente struggente preghiera dal titolo

drammatico Gesù ti odio80:

«Gesù ti odio tu non mi dovevi chiamare. Senti come bolle questa indefinibile voglia? Non vedi che dove passo infetto le tue creature? Gesù ti odio tu non mi dovevi chiamare.

Gesù ti adoro

78 EB pp. 142-143

79 EB pp. 64-65.

80 La preghiera riporta la data del 14.10.50, quindi don Lorenzo è ancora a San Donato (in

«Perché…» pp. 208-209)

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mi sei restato tu solo Gesù m’aggrappo alla tua unica mano Gesù m’aggrappo perché non voglio sparire Ahi!

la tua mano è cosparsa di spine Accidenti alle spine della tua corona Gesù ti odio maledetta la tua croce Gesù ti odio ma non mi lasciare solo Gesù ti odio ma tu sai se è amore».

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2. La scuola e la cultura. Il sapere dei poveri

Come ha vissuto Lorenzo il suo essere prete, come ha interpretato questo ruolo, quale idea aveva di prete e della vocazione, del tempo di formazione in Seminario: sono le domande di questo capitolo.

La cultura del Seminario

Lorenzo entrò in Seminario il 9 novembre 1943 a Cestello in Oltrarno, a Firenze. Fedele alla regola (il disobbedientissimo Lorenzo ci teneva moltissimo alla regola e alle leggi. Il senso della legge poi accompagnò Lorenzo lungo tutti gli anni del suo ministero, tant’è vero che anche nell’ultima polemica circa la risposta ai cappellani militari egli fece riferimento alla Costituzione. La legge della Chiesa era qualcosa di assolutamente intangibile e sacro), fin dal primo momento Lorenzo intese la propria vocazione come una chiamata del vescovo:

la vocazione «non è come erroneamente si pensa un sentimento

sentimentale, ma è la chiamata del Vescovo»81.

È il vescovo a dare certezza della personale vocazione. È la Chiesa che chiama. Alla mamma, che probabilmente sollevava le sue obiezioni, anche se aveva accettato che il figlio entrasse in Seminario (del resto Alice sapeva benissimo che era impossibile far tornare sui suoi passi il figlio) così spiega, cercando di mettere a tacere opinioni fuorvianti che probabilmente circolavano in casa:

«Te vuoi dire che è troppo presto per me sapere se seguiterò tutta la vita a volere così. Io ti rispondo che è di fede (Concilio Tridentino) che nessuno può essere sicuro della propria perseveranza […]. Ma ciò che non possiamo sperare dalle nostre forze lo possiamo sperare dal Signore che in fondo vuole così. Ma chi ti dice che voglia così? Me lo dice la chiamata del mio Vescovo e il permesso del Direttore Spirituale di risponderle. E se non ti basta, me lo dice anche questa vita e la mia convinzione la quale invece di raffreddarsi al contatto di questa vita si riscalda ogni giorno. Qui si vive di Messa dal vestito che portiamo a tutti gli studi che facciamo dal lavoro di sacrestia alle canzoni che cantiamo. Non avevo mai sperato che si potesse viverle così vicino da una mattina

81 Alla mamma… [14] 6 marzo 44 Firenze, p. 28

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all’altra senza interruzione. E quando s’è vissuto così non mi pare possibile che si possa rinunciare a celebrarla noi. Sarebbe come uno che ha visto il cielo e gli tocca stare in terra. Rimarremmo degli uomini falliti

per tutta la vita»82.

Milani ritornerà sulla vocazione, nascosto tra le firme dei suoi ragazzi di Barbiana che sono stati gli autori, nella Lettera a una professoressa:

«Mi han detto che perfino in Seminario ci sono dei ragazzi che si tormentano per trovare la loro vocazione. Se gli aveste detto fin dalle elementari che la vocazione l’abbiamo tutti eguale: fare il bene là dove siamo, non sciuperebbero gli anni migliori della loro vita a pensare a se

stessi»83.

È un passaggio importante – con una sottile vena d’ironia per la formazione dei seminaristi – per capire che la vocazione non è la realizzazione né la ricerca di sé, né l’eccessiva preoccupazione di sé, pena il rischio di un deleterio ripiegamento sull’io e gratuito autocompiacimento. È, semmai, la risposta a una chiamata che non s’inventa e ci interpella e che ognuno ha doverosamente il compito di onorare. L’osservazione è pertinente.

«Il ragazzo in seminario va educato alla coscienza della propria dignità di uomo, di cittadino, alla responsabilità di uomo che pensa con la sua

testa e non aspetta gli ordini del superiore»84.

In don Milani soffiava un vento di freschezza e libertà perché era stato formato a una coscienza cristallina, trasparente, che aborrisce la maschera e i giochi di nascosto. In fondo questa è la lezione milaniana di antropologia teologica: la consapevolezza della dignità della propria coscienza di uomo cammina insieme alla consapevolezza della propria somiglianza di creatura con il Creatore.

Non si sentì mai costretto e vincolato dentro il Seminario proprio per la profonda libertà della sua coscienza. Libertà di coscienza indipendente e obbedienza al Vescovo e alla Chiesa: all’inizio in Lorenzo s’incastonarono senza travagli interiori. Il tema della libertà era ovviamente questione sempre aperta. La libertà con cui si muoveva tra le regole, senza scavalcarle, ma con

82 Alla mamma… [15] 14 marzo 44 Firenze, p. 31. Racconta la professoressa Adele Corradi

dell’avversione del priore nei confronti di certa spiritualità del Seminario: «“A furia di

esami di coscienza,” borbottò poi, “trasformano in cura di sé perfino il Cristianesimo!”»

(Non so se Lorenzo, p. 35)

83 LP p. 112

84 Da un’intervista registrata a Barbiana, in Dalla parte… p. 102

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padronanza e signoria, sconcertava i compagni di Lorenzo. Egli ha una bellissima lettera alla mamma preoccupata che il figlio non si senta libero in Seminario:

«Cara mamma, mi dispiace che tu senta il peso della mancanza di libertà. Ma non ci pensare perché io non ne sento punto. Quando uno liberamente regala la sua libertà è più libero di uno che è costretto a tenersela. Magari potessi regalarla davvero, ma la tonsura non è che un bigliettino d’avviso in cui si dice al Signore: “Spero fra due anni di poterle fare un regalo”. Il “passo” si fa col Suddiaconato, ma anche lì è ben poco e poi senti uno che vuole tenersi la libertà di andare a prendere il sole e sul mare si leva la libertà di poter dir Messa. Dunque non è

libero. Io p. es. mi son preso tutte le libertà possibili immaginabili85 e poi mi sono accorto che c’era una grande cosa (la più grande) che non potevo fare. Prima di morire mi voglio prendere anche questa di dir Messa. Se ti dicono “Oh il suo povero figliolo non può neanche andare al cinematografo, o prender moglie o prendere il sole e deve avere delle buffissime gambe bianche”. Gli devi dire: “No non è che non può, non vuole. Non è libero di non volere?”. Glie l’ho anche dovuto dichiarare per scritto e firmare al Cardinale che è con “volontà affatto libera e spontanea” che desidero consacrarmi al Culto divino e al servizio della Chiesa. […] quelli che se ne vanno da soli sono spiegabili perché sono nati chiusi in seminario e hanno sentito una tromba sola e allora gli nasce una curiosità morbosa di sentir l’altra tromba e di conoscere il frutto non solo perché è proebito, ma anche e specialmente perché è sconosciuto. Ma io, non faccio per vantarmi, ma dell’altra tromba ne ho già sentita

anche troppa e non ci trovo niente di rimpiangibile»86.

Il tema del tenersi per sé è di squisita modernità. Il problema della libertà sta nel superamento di ciò che invece di essere sentito come frattura –

l’evangelico perdersi e il ritrovarsi87 – si percepisce come fondamento e fonte

85 L’allusione è circa la sua vita giovanile di cui però sappiamo ben poco, anche per la

stessa riservatezza di Milani. Del resto per don Lorenzo farsi prete doveva segnare un

evidente salto di qualità. Qualcosa che lo allontanasse dalla mediocrità: tutta la vita fu

impostata come una grande lotta alla mediocritas, cioè a quell’atteggiamento dell’uomo che

non osa molto e s’accontenta. Anche nella lotta per i poveri ciò che conta è la conquista di

qualcosa che merita la lotta stessa: la cultura, cioè idee, coscienza, intelligenza, apertura,

grandezza d’animo, altezza della vita, etc.

86 Alla mamma… [15] 14 marzo 44 Firenze, pp. 30-31

87 «Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso,

prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi

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del proprio agire. Non è schiavo chi decide di essere per l’altro e all’altro si consegna. La libertà è la disponibilità a dedicarsi per un grande Bene. Se non c’è un grande Bene non c’è nemmeno una libertà disposta a spendersi. E per don Milani non c’è altro grande Bene se non Dio, e tutti coloro che hanno il suo volto, o meglio tutti coloro ai quali va restituita – per giustizia – l’immagine di Dio: la dignità dell’umano.

Da prete Lorenzo rivedrà molte sue posizioni ottimistiche circa il Seminario88. Intanto però il Seminario è stata la sua grande possibilità di accostarsi con assiduità e metodicità alla Parola di Dio (don Lorenzo a San Donato di Calenzano redigerà alcune lezioni di catechismo incentrate sulla Parola, in particolare sui Vangeli; la sua predicazione domenicale era praticamente il racconto della vita di Gesù, come una lectio continua; ce lo testimonia una

lettera all’amico prete don Ezio Palombo che incontreremo ancora89). Ed è proprio in Seminario che Lorenzo si accostò alla questione sociale: un fulmine a ciel sereno che lo avvicinò al mondo dei poveri, gli operai, grazie a conferenze organizzate da don Enrico Bartoletti, rettore e insegnante di Sacra Scrittura, con la partecipazione del padre domenicano Reginaldo Santilli. Don

perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se

guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare

in cambio della propria vita?”» (MATTEO 16,24-26)

88 Dalla lettera a don Bruno Brandani del 9.3.50 circa la sua assenza al ritrovo annuale tra

compagni al quale Lorenzo non partecipava per non riaprire vecchie polemiche.

Interessante il giudizio non certo positivo circa la formazione del Seminario: «Vorrei che

non si parlasse di cose spirituali. Mi farebbero tornare a gola lo sdegno per l’immensa

frode del seminario. Non credere, da che ne sono sortito non ci penso mai. Se mi casca il

pensiero, faccio come per quelli impuri. Ma ora che ci penso, quanto male ci ha fatto quella

frode e almeno a me quanti stupidi errori e peccati. […] ho provato a riesaminare

l’istintiva repulsione che sento oggi per ogni discorsino ben fatto, per gli argomenti

spirituali e “formativi” per quel mondo in cui le porcherie si chiamano finemente:

mancanza contro la SS. Purità, la vigliaccheria Tiepidezza, l’odio Poca Carità, la

bestemmia pratica Un attimo di Aridità spirituale. […] Tu lo sai che a Dio ci credo e che

credo anche a tutto il resto compreso la SS. Purità e la S. Carità e la S. Umiltà ecc. Ma ora

che questi nomi non sono più olezzanti fiorellini nell’orticello immacolato di Dio, ma

sofferenti cicatrici, ora io non sopporto più di sentirne parlare». E più oltre auspica di

potersi ritrovare intorno a un tavolo «senza preoccuparci di dover spiritualizzare e

soprannaturalizzare discorsi che son già soprannaturali da sé perché fatti da pretini

giovani che ogni ora e ogni sera e ogni confessione badano da sé a battersi il petto ogni

volta che s’accorgessero d’aver agito per divertir se stessi più che per divertir gli angeli»

(Dalla parte… pp. 86-87)

89 Tracce della sua predicazione e degli schemi catechistici si possono ravvisare in

«Perché…» (pp. 179-206)

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Lorenzo era fortemente interessato al tipo di cultura che passava per i banchi

del Seminario ed era preoccupato della missione cui si preparava90. Chiedeva di superare «il problema dell’imborghesimento sacerdotale e dell’arresto, su

schemi prefrabbricati, della mentalità dei ministri di Dio»91.

Sul tipo di cultura nei Seminari c’è addirittura un paragrafo di Esperienze Pastorali. Il problema della cultura (della lingua) era per Milani la causa di tanta discriminazione tra le classi sociali. Se ne accorse ben presto a San Donato quando subito volle aprire la Scuola Popolare con le conferenze del venerdì sera. Da una parte la mancanza della parola del povero e dall’altra la cultura intellettuale di pochi: ecco le due piaghe che si abbattono sui più deboli e indifesi. Il guaio è che perfino il prete era connivente. Don Lorenzo non stenterà a denunciare che il prete fa parte della classe di quelli che avendo una certa cultura contribuiscono ad allontanare quel gregge che i pastori dovrebbero tenersi vicino.

«L’altro motivo di preoccupazione di fronte alla miseria intellettuale dei poveri è la strada ben diversa imboccata dal prete. I programmi scolastici dei seminari fanno decisamente entrare il prete nella categoria degli intellettuali. È evidente che anche in futuro i seminari non faranno che elevare il loro livello culturale in una puerile e pericolosissima gara col livello del farmacista e del dottore. Corriamo dunque ciecamente su una strada che va sempre più allontanandosi da quella su cui arranca il nostro popolo. In concorrenza con i suoi nemici, ma sulla loro stessa strada e nel loro mondo e col loro vocabolario e coi loro libri (perfino coi loro libri di storia!). Con questo non intendiamo dire che sia la troppa cultura che danneggia il prete nel suo apostolato tra i poveri. Tutt’altro. È caso mai il tipo di cultura. I seminari non hanno né libri, né programmi, né impostazione culturale propria. Seguono quelli del mondo. Ma i libri, i programmi, l’impostazione culturale del mondo sono espressione di un’unica classe sociale e non certo di quella dei poveri. Ne rispecchiano le ideologie, le esigenze, l’ambiente, il classismo e spesso anche gli interessi.[…] Cosa c’è di più proletario di un seminario? Si pensa subito a ragazzi denutriti e sofferenti. E il concetto corrisponde al vero (almeno per il periodo in cui stetti in seminario io). Eppure un giorno che s’era intasato un gabinetto del seminario e c’era due servitori a rimediare, sentii per caso il discorso del più giovane di

90 Da una lettera alla mamma [18] del 3 aprile 1944 Firenze: «Si discuteva del posto che il

prete deve dare allo studio e se è proprio necessario che il prete sia un intellettuale e se

non è questo che ci ha perso al completo la classe operaia» (Alla mamma… p. 37)

91 Testimonianza di padre Santilli in Dalla parte… p. 100

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loro: “I signori bisogna servirli tutti: da cima… fino in fondo”. Un mio compagno che è nato ricco ed era entrato in seminario tutto gonfio di pio orgoglio di starsi facendo povero coi poveri, restò come pugnalato da questa frase. E sì che a quei giorni in seminario si pativa letteralmente la fame né v’era riscaldamento di sorta. Ma la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale. Noi nelle nostre camerette, con le mani paonazze dai geloni, i piedi tutto un ghiacciolo e lo stomaco contratto dalla fame, noi eravamo davanti a un libro. Lui il giovane servitore era davanti a un

gabinetto intasato»92.

Don Lorenzo aveva lasciato una famiglia agiata e benestante proprio per una scelta di totale povertà. Lo sforzo per liberarsi dalle sue caratteristiche originarie fu enorme:

«E pensare che mi son fatto cristiano e prete solo per spogliarmi d’ogni

privilegio»93.

«Caro Francuccio, profitto del fatto che stasera sto meglio per scriverti io. Stasera ho provato a mettere un disco di Beethoven per vedere se posso ritornare al mio mondo e alla mia razza e sabato far dire a Rino: “Il priore non riceve perché sta ascoltando un disco”. Vedo invece che non me ne importa nulla. Volevo anche scrivere sulla porta “I don’t care più”,

ma invece me ne care ancora molto…»94.

«Ci ho messo ventidue anni, per uscire dalla classe sociale che scrive e legge l’”Espresso” e il “Mondo”. Non devo farmene ricattare neanche per un giorno solo. Devono snobbarmi, dire che sono ingenuo e demagogo, non onorarmi come uno di loro. Perché di loro non sono. Da diciotto anni in qua non ho più letto un libro né un giornale se non a alta voce con dei piccoli uditori. Nella chiesuola dell’élite intellettuale tutti

hanno letto tutto e quel che non han letto fingono d’averlo letto»95.

Ma il cammino sarà lungo, perché dovrà imparare dai poveri a essere povero, e non semplicemente a fare il povero. Lasciarsi educare dal povero, liberandosi dalla tentazione (borghese) di credere di avere qualcosa da dare, solo perché si ha o si crede di avere. Ma cosa si può avere in più da dare rispetto al povero, che per eccellenza è colui che non ha e deve ricevere tutto

92 EP pp. 205-210

93 Lettera a Gian Paolo Meucci, Francoforte 4.5.1951 in Dalla parte… p. 543

94 Lettera a Francuccio Gesualdi, Barbiana, 4.4.1967 in LPB pp. 320-321

95 Lettera all’avv. Adolfo Gatti, Barbiana, 20.10.1965 in LPB p. 244

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dagli altri? E come è possibile prendere dal povero se egli non ha nulla da dare? Si può dare al povero solo ciò che il povero è. O, meglio, ci si deve impegnare affinché il povero abbia ciò che è senza mai essere riuscito a diventare: un uomo libero, capace di parlare. Si tratta di ridare o restituire al povero la lingua che gli è stata tolta o che non ha mai potuto avere. A queste domande bisogna rispondere se ci vuol accostare al povero senza offenderlo con la tracotanza del proprio possedere. Don Milani lo sapeva bene perché proveniva da una famiglia che aveva molto.

L’attenzione al sociale e la lotta pastorale

Don Lorenzo pensava alla formazione del prete in chiave teologica e pastorale: accanto alla già citata attenzione alla Parola e alla riflessione dogmatica sull’Eucarestia che entusiasmò don Lorenzo come poche altre materie dei corsi di Seminario (assieme a un piccolo lavoro sulla coscienza morale), egli si concentrò sulle questioni sociali degli operai e sulle azioni sindacali. Era il clima di quell’immediato dopoguerra (don Lorenzo venne ordinato prete 13 luglio 1947 e inizia il suo ministero di cappellano, dopo una brevissima pausa a San Pietro in Montespertoli a Gigliola dove aveva la villa di famiglia, a San Donato di Calenzano il 20 agosto 1947. Il padre Albano non fece in tempo a vedere il figlio alla sua prima messa perché morì il 2 marzo 1947), in cui c’erano già esperienze di preti che si occupavano in prima linea degli operai. È il caso di un grande amico di Lorenzo, don Bruno Borghi, che a San Donato iniziò i ragazzi di don Lorenzo all’attività sindacale.

L’esperienza di San Donato aprì gli occhi al giovane cappellano facendogli capire che la piaga della sua gente era la bassa cultura degli operai, per di più sviati e imbruttiti dalle Case del popolo e dai ricreatori parrocchiali (contro i

quali avrà pagine di fuoco in Esperienze Pastorali96): gli operai non possiedono la parola (lingua) per esprimersi e farsi ascoltare, rimangono confinati in una condizione di inferiorità che offende la loro dignità davanti a Dio. La riflessione sul ruolo del prete andò in due direzioni: la prima sulla funzione della religiosità rispetto alla proposta pastorale. I suoi ragazzi e gli adulti venivano in chiesa forzatamente e la religiosità della massa era legata ad estrinseche pratiche di devozione che non incidevano perché non erano sostenute dalla scelta libera e personale. Come avrebbero potuto scegliere – si chiedeva il cappellano – se non avevano nemmeno i termini del problema della fede e della religione? Il guaio, secondo don Lorenzo, era proprio la religione che continuava a parlare a persone impossibilitate a comprendere.

96 EP pp. 125-161

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Non si trattava di non voler ascoltare ma di non poter capire. Inoltre, i preti acculturati si ponevano a distanza dalla gente, il loro linguaggio e le loro azioni invece di avvicinarli al popolo li allontanavano.

La seconda riflessione era sulla situazione penosa in cui versavano i suoi parrocchiani – di estrazione operaia – in balìa di pochi signori arricchiti, i padroni. Don Lorenzo assistette ai licenziamenti umilianti di alcuni suoi parrocchiani che non potevano che subire. Restituire la dignità all’uomo, al povero, al popolo affinché non sia più calpestato e offeso era la battaglia che don Lorenzo volle sostenere a San Donato, con tutti i mezzi a disposizione… anche politicamente. Lui era un prete e – argomentava l’opinione ecclesiastica corrente – non avrebbe dovuto impegolarsi in questo campo. Ma la sua lotta, prima che operaia e politica, era culturale.

O meglio: lotta pastorale. Sì, perché si trattava anche di difendere la credibilità dei pastori chiamati a scendere in campo dalla parte degli offesi, degli ultimi che non avendo la forza di difendersi erano costretti a soccombere miseramente. Lotta pastorale: sì, perché la credibilità dei preti, dei pastori era la credibilità della fede cristiana stessa e perciò di Dio. Se Dio – la Chiesa – non era là dov’erano gli ultimi schiacciati nella loro dignità di uomini; se Dio non era là a riscattare attraverso i suoi preti l’uomo, credere non solo era un’impresa impossibile, ma assurda, senza scopo, insensata:

«La gente non crede a chi non ama»97.

Lotta pastorale perché lotta civile, politica. Il prete che non si assume il compito di restituire l’umanità all’uomo tradisce il suo stesso ministero. Dio non raggiunge l’uomo se l’uomo non è uomo. Era la profonda convinzione di Lorenzo: inutile ogni discorso cristiano che, senza la difesa dell’umano, avrebbe avuto il sapore di un atroce inganno. Un po’ grossolanamente possiamo esprimere il pensiero di don Lorenzo in questo modo: non si può cristianizzare l’uomo là dove l’uomo è trattato da bestia. Non si può rendere santo un uomo se non ha nemmeno la forza di risollevarsi dalla sua condizione di oltraggiato e se non percepisce nemmeno la dignità di essere persona come un valore inestimabile, irrinunciabile. Bisogna credere all’uomo, al povero: Credere soprattutto che il povero potrà risollevarsi se gli verranno offerti gli strumenti necessari. E questo per don Milani era possibile solo grazie alla scuola, al sindacato, al voto. Allora, solo allora, acquisiti gli strumenti politici idonei si potrà accendere nel cuore del povero la fede e la pratica religiosa.

Don Lorenzo decise di avviare la Scuola popolare rimanendo a distanza dalla

97 Lettera a Giorgio Pecorini, Barbiana 10.11.1959 in LPB p. 142

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tentazione di lasciarsi «infinocchiare» politicamente dai comunisti ma anche da un certo modo di essere Chiesa, di predicare, di parlare di Dio. L’accusa a don Milani di essere prete di sinistra, connivente con i comunisti, è assolutamente infondata perché egli non amava far parte di questa forza sociale. Secondo lui anche i comunisti avevano una certa responsabilità nell’aver tenuto il popolo nell’ignoranza e nell’aver offerto solamente palliativi e illusioni. Don Lorenzo, invece, era a favore dei sindacati. Va inoltre detto che nelle elezioni del ’48 don Lorenzo a Calenzano si batté per la Democrazia Cristiana, anche se è vero che non tollerava l’Azione Cattolica troppo serva della gerarchia.

Il problema di coscienza che egli sentì vivissimo fu di non scandalizzare il popolo (che è sempre popolo di Dio) ma di essergli accanto nella sua povertà. Lorenzo distingueva tra la Chiesa come strumento di salvezza e perciò come entità santa e Chiesa come popolo di Dio: è la Chiesa dei poveri e degli ultimi. Da evangelizzare. (Don Lorenzo non faceva mai troppi discorsi religiosi nella sua scuola, pur facendo una predicazione serrata a base di Vangelo e Catechismo). C’era anche la Chiesa gerarchica, che lo aveva scelto ed elevato alla santità del ministero presbiterale, della quale aveva profondo rispetto e dalla quale, pur amandola follemente, ricevette spesso incomprensione, ma anche stima.

Il compito del prete è quello di essere non semplicemente in favore della gente a cui è inviato per missione, o per il popolo di cui si è guida e pastore, ma con. Il che significa scendere al livello dell’ultimo per non rischiare di guardare la realtà dall’alto. La realtà va sposata e amata dal basso. Chi tende la mano dall’alto fa solo un po’ di elemosina o carità nel senso deleterio del termine e offende il povero, perché continua a ricacciarlo negli anfratti della sua miseria, continua a mantenerlo nella sua indigenza culturale senza mai aiutarlo a prendere coscienza di essere un soggetto pensante e libero, protagonista del proprio riscatto sociale. Va vinta la sua timidezza e la vergogna (due piaghe che insieme all’isolamento secondo don Milani hanno costretto il montanaro a rimanere sui monti e l’operaio a scendere in città per farsi sfruttare).

Il prete che sta con il povero impara a guardare la vita e la realtà con gli stessi occhi del povero che ha accanto. Ed è tutt’altra prospettiva e visione. Solo da

questa altezza98, cioè paradossalmente l’ultimo posto, il prete può permettersi

98 Per don Lorenzo si tratta da una parte di puntare alto, tendere a ideali alti, perché esiste

una cultura alta, rispettabile e necessaria… ma non si tratta mai di guardare dall’alto al

basso. Dall’altra parte, però, paradossalmente l’unica altezza da cui guardare le cose è

quella della cattedra dei poveri.

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di parlare alla sua gente sicuro di non dire stupidaggini, sicuro di non ingannare. Ogni parola che scende dall’alto e che non nasce dal basso per il povero avrà sempre il sapore di qualcosa dato in prestito. Non si sposa la causa del povero rimanendo ricchi dei propri mezzi, della propria cultura.

Rovesciamento di valori e spoliazione totale: questo è ciò che chiede la causa dei poveri. Tutto il resto è una menzogna, o tutt’al più un metodo ambiguo di liberare la coscienza dal senso di colpa. Del resto è Dio stesso che nell’incarnazione ha imposto questo rovesciamento radicale, e il prete se vuol

essere pastore credibile non può tirarsi indietro99.

«Maestro e profeta». L’arte di educare

«La scuola siede fra il passato e il futuro e deve averli entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità […], dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico […] E allora il maestro deve essere per quanto può

profeta, scrutare “i segni dei tempi”100, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in

confuso»101.

Sposare la causa del povero per il prete Milani ha significato iniziare il grande lavoro di educazione maieutica che lo ha condotto prima a fare la Scuola Popolare e le conferenze settimanali a San Donato e, poi, a Barbiana ad abbracciare in modo totalizzante la scuola. Educare è azione pastorale. O così almeno egli ha inteso e interpretato il proprio ruolo di prete. Educare alla passione critica e dialettica, alla verità e al sapere, alla discussione e alla ricerca, al dubbio e alla domanda… Educare all’arte della parola (la conoscenza della Parola verrà da sé, come esigenza intrinseca) per giungere alla libertà e all’autonomia… Educare alla lettura della realtà attraverso tutti i mezzi necessari (soprattutto il giornale, la statistica e la storia)… Educare all’arte della scrittura collettiva (Lettera a una professoressa)… Educare alla libertà della coscienza e alla disobbedienza civile (la Lettera ai Giudici)… Educare a saper aspettare l’ultimo, a partire dall’ultimo, a far sì che l’ultimo

99 In Esperienze pastorali (pp. 265-274) don Lorenzo inserirà come prima appendice

un’accalorata Lettera aperta a un predicatore, dove rimprovera al predicatore esterno di

parlare senza conoscere da vicino gli uditori. Inconcepibile per il futuro priore.

100 Chiaro riferimento alla fortunata categoria del Concilio Vaticano II (e prima ancora al

vangelo di Matteo 16,2-3) che si era concluso un anno e mezzo prima della morte del

priore.

101 Lettera ai Giudici in L’obbedienza non è più una virtù, LEF, pp. 36-37

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detti il punto di partenza per tutti102… Educare a promuovere l’altro sempre (è tutto il problema della Lettera a una professoressa) e perciò educare alla differenza e all’accoglienza del diverso, dell’ostile… Educare ad impegnarsi solo per ciò per cui vale la pena… Educare a rinunciare a tutto ciò che impedisce all’uomo di elevarsi (cfr. Esperienze Pastorali), educare a puntare sempre in alto e a far imparare all’altro a volare alto:

«Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà coi pedoni, deve

piuttosto insegnare a tutti il volo»103.

Educare al non conformismo, a tenersi a distanza dalle comode etichette, dalle mode… Educare al viaggio, alla conoscenza delle lingue degli uomini e delle culture diverse… Educare a ribellarsi e al dovere di non tacere mai di fronte al sopruso… Educare alla politica e al cosmopolitismo… Educarsi all’I

care… Questa è la Scuola di don Lorenzo Milani104.

Don Lorenzo non separò mai il suo essere prete dall’essere maestro educatore. Ci teneva troppo a essere prete e maestro. Così come non aveva senso separare il suo essere cristiano dal suo essere prete. Questione di stile. L’uomo è caratterizzato dall’unicità. In lui si fonde senza confusione il prete e l’uomo, il credente e il maestro, il pedagogo e il padre. Se scindessimo questi elementi rischieremmo di non capire don Lorenzo. Fare il prete per don Lorenzo non fu altro, e sempre di più coll’avvicinarsi della morte, che essere

102 «L’occhio vi correrebbe sempre su Gianni. Cerchereste nel suo sguardo distratto

l’intelligenza che Dio ci ha messo certo eguale agli altri. Lottereste per il bambino che ha

più bisogno, trascurando il più fortunato, come si fa in tutte le famiglie. Vi svegliereste la

notte col pensiero fisso su di lui a cercare un modo nuovo di far scuola, tagliato su misura

sua. Andreste a cercarlo a casa se non torna. Non vi dareste pace, perché la scuola che

perde Gianni non è degna di essere chiamata scuola» (LP p. 82)

103 EP p. 192

104 Come pochi altri Michele Gesualdi coglie il cuore della figura di don Milani: «Pur

essendo don Lorenzo figlio della chiesa dell’epoca è però un prete diverso, che sa parlare

di lavoro, di scuola, di ingiustizie sociali. È un uomo di chiesa che ha al suo centro la

società. Parla con la gente, si guarda intorno, condivide le loro ansie sociali, economiche e

culturali: riflette sulla loro povertà religiosa, di parole e di futuro, e dà risposte

interpretando al presente la forza innovativa del Vangelo. Sta sempre coi piedi ben

piantati nel particolare della sua realtà parrocchiale. Legge in quel particolare l’universale

e nell’universale il dramma di tanti particolari in carne ed ossa. Lui è l’uomo dei

sacramenti, è l’uomo del vangelo, ma anche l’uomo dei poveri, schierato con loro e con le

loro ragioni. È difficile capire le prese di posizione di don Lorenzo senza tenere sempre

insieme che il suo classismo e la scelta dei poveri è tensione religiosa verso i valori indicati

dal Vangelo» (in «Perché…» p. 8)

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maestro. Egli sentiva che non poteva nella vita che fare il maestro da prete, essere prete da maestro. Ma in quel piccolo nucleo di case abbarbicate su una collina del Mugello, il priore era tutto per la sua gente. Si era fatto letteralmente popolo, terra di quella terra, fino alla morte. Tant’è vero che il giorno dopo l’arrivo a Barbiana (giunse il 7 dicembre 1954) don Lorenzo scese a Vicchio di Mugello per comprare il terreno della sua tomba. Volle farsi tumulare a Barbiana: «La tomba lo avrebbe fatto sentire totalmente legato alla

sua nuova gente nella vita e nella morte»105. Ma c’è anche un’altra ragione: lo strappo dalla parrocchia di San Donato fu violento e dolorosissimo (anche perché sapeva che chi lo aveva fatto mandar via non era la gente di San Donato che per tutto il resto della sua vita continuò ad andare a trovarlo a Barbiana, ma proprio i preti confinanti a causa del rumoreggiare politico della sua scuola, del «plagio» dei ragazzi, e della sua totale astensione dal fare il prete secondo lo stile del servo delle pratiche religiose):

«Cara mamma, ho avuto la tua lettera in cui mi chiedi di non impegnarmi a star qui. Se parli di un impegno esterno certo che non lo prendo perché non c’è neanche il modo o l’occasione. Non posso però credere che tu desideri che io mi metta nello stato d’animo del passante o del villeggiante. […] Don Bensi e Meucci mi hanno scritto lettere molto simili alla tua. Si vede proprio che non vi siete resi conto di quel che è stato S. Donato per me. Se no non avreste la crudeltà di parlarmi della prossima amputazione proprio nei giorni in cui sono convalescente di quella che m’ha lasciato vivo proprio per un miracolo di grazia. Non c’è motivo di parlare del domani. Non ti basta la pena di ogni giorno? E neanche c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza d’una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui s’è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di fare del bene si

misurano sul numero dei parrocchiani»106.

105 Dalla parte… p. 204. La testimonianza di don Renzo Rossi, suo amico dai tempi del

Seminario a Cestello. I ricordi di don Rossi ora sono in «Perché…» (pp. 91-113). E, ancora a

proposito della tomba, ricorda che «il giorno dopo il suo arrivo a Barbiana, Lorenzo venne

a trovarmi nella canonica di Vicchio e mi chiese di accompagnarlo in Comune perché

voleva comprarsi subito la tomba nel piccolo cimitero di Barbiana. Io gli feci in faccia una

bella risata! “Quanto sei bischero!” Ma lui mi disse che con quel segno (la tomba) voleva

sentirsi legato totalmente, nella vita e nella morte, alla sua nuova gente! La sua scelta “per

tutta la vita” fu immediata!» (p. 94)

106 [119] Barbiana, 28.12.54 (in Alla mamma… p. 172)

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«Perdere la testa»

Fare il prete significava in qualche modo lasciarsi «plagiare» dalla gente a cui si era mandati, significava «perdere la testa», «amare fino all’osso», come diceva lo stesso don Lorenzo. E questo non poteva essere certo un mestiere. Inoltre non si poteva fare il prete a tempo, proprio perché egli non aveva la mentalità «del passante o del villeggiante», ma occorreva dare tutto di sé. Quindi: accettare di essere mangiati dagli altri. Il tempo era dei ragazzi, della gente, delle famiglie, delle persone che confessava, che chiedevano consigli; era di tutti coloro che si avvicinavano per «imparare a parlare». Era un loro diritto averlo tutto per sé. Si sta così con i poveri: la propria privatezza e i propri spazi non sono un qualcosa da dare secondo un dovere, ma sono qualcosa da cui essi possono attingere come loro diritto. A San Donato i ragazzi più grandi si fermavano con lui fino a tarda notte, lui li confessava anche per strada se quello era il tempo più opportuno, ed era sempre circondato da ragazzi nella visita delle case (tra l’altro ne approfittava per prendere quei dati dei nuclei familiari che visitava, che egli per il fatto di essere prete non poteva verificare e che gli saranno utili per redigere le statistiche del suo libro Esperienze pastorali).

A Barbiana, basta leggere le lettere alla mamma, la scuola era la vita della parrocchia, era l’azione pastorale in modo totalizzante. Spesso non riusciva a rispondere alle lettere (soprattutto nei tempi movimentati quali quelli dopo l’uscita di EP nel ’58) perché la canonica era una sorta di albergo. Non mangiava mai da solo perché la scuola continuava sempre e i ragazzi venivano da lontano. C’era sempre gente che saliva a trovarlo, da San Donato, processioni di giornalisti o conferenzieri che invitava, preti e seminaristi, ragazzi di altre scuole. Ospitò anche bambini africani e stabilmente aveva in casa a dormire anche alcuni ragazzi (fra tutti Michele e Francuccio Gesualdi, due ragazzini di origine pugliese trasferiti nel Mugello). Una vita spesa e persa dietro a pochi ragazzi, perché così esigeva la scuola e il maestro, anche se l’orizzonte della sua vita era mondiale: aveva aperto all’universale la scuola di Barbiana, grazie alla lettura attenta e dialogata dei giornali, alle visite interessate e tempestate di domande di professori e amici. Il destino di quella scuola così provinciale fu quello di diventare un osservatorio particolare sull’universale situazione geo-politica, storica, religiosa, ecclesiale. Sappiamo che a Barbiana la scuola era lettura di giornali e della posta (anche quella personale del priore), discussioni e domande ai numerosi invitati, studio di tutte le materie (ginnastica esclusa), interdisciplinarietà, laboratori. La scuola durava tutto il giorno per tutti i giorni dell’anno, senza vacanze, perché andarci è un «privilegio» e non un

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«martirio»!107

L’«anticamera della parola»

Prete per dare la parola ai muti, per educare a parlare. Don Lorenzo fa sottilissime analisi sulla situazione della fede del suo popolo. La fede non può passare se non c’è l’«anticamera della parola»: il retaggio culturale millenario che pesa sulle teste dei montanari è impastato di silenzio, isolamento, maschere, tirar a campare, impossibilità di pensiero e riflessione; è fatto di utilizzo di parole simili a dei suoni inarticolati, di desideri scesi a livello dei bisogni istintuali.

Prima condizione per poter fare il prete non è quella di ostinarsi a offrire iniziative che non attecchiscono, e che semmai servono a confondere ulteriormente le idee; prima condizione è conoscere e studiare la situazione in cui ci si è buttati, nella quale la Chiesa ci ha inviati. Conoscere il destinatario nei meandri delle sue abitudini, dei suoi pensieri e non-pensieri, del linguaggio e della moralità-immoralità. Non si tratta di studiare un corpo estraneo, ma si tratta di conoscere il corpo nel quale ci si incarna. Quindi è conoscenza del proprio corpo. Non con distacco, ma con incarnazione. Questo è il metodo di lettura e la condizione: amare il corpo malato che è ormai inscindibilmente tuo. Amarlo: cioè elevarlo. Perché altrimenti coloro che sono

il mio corpo rimarranno sempre degli «infelici!»108

La lunga citazione di Esperienze pastorali che ora proponiamo è la testimonianza dell’acuta analisi del cristianesimo popolare: la vuotezza dell’educazione clericale della fede, l’assoluta differenza e distanza tra il prete e la sua gente, il clima di sospetto che il prete ingenera nel popolo, l’impotenza dei mezzi pastorali. E, di contro, emerge con forza il compito unico del prete come colui che è chiamato (a questo punto bisogna dire per

107 LP p. 15. E poco prima a p. 13: «Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse: “La

scuola sarà sempre meglio della merda”». Vedi anche la lettera a don Bensi che lo

rimproverava di essere «feroce» coi suoi piccoli barbianesi: «Il poter studiare non è un

sacrificio, è una grazia e va pagata cara, più cara del costo del lavoro nei campi. Se no la

scuola è corruttrice e sforna bellimbusti pretenziosi e viziati. […] Non sono io che ho

portato l’austerità a Barbiana. Io tento solo di tenere l’austerità di vita dei miei studentelli

all’altezza di quella dei contadini tra i quali vivono e della cui fatica godono i frutti. E con

tutta la mia ferocia non riesco nemmeno lontanamente allo scopo. I miei martirizzati

studentelli sono oggetto dell’invidia e della gelosia di tutto il popolo dei ragazzini» (in

«Perché…», p. 39)

108 EP p. 194; 197

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missione) a far penetrare la parola negli anfratti della coscienza dell’individuo, a risvegliare l’apertura del soggetto elevandolo alle altezze cui l’uomo è naturalmente destinato. La scuola è la condizione anticamerale dell’approccio favorevole al cristianesimo. Istruire ed educare la coscienza significa aiutare il singolo ad aggrapparsi alla fede non come a una sterile ritualità appiccicata addosso, ma come scelta libera. Abituarsi alla scuola (nel senso che la scuola, la parola, è un habitus, nel senso pieno della virtù) è scegliere con coerenza e fedeltà, autonomamente e deliberatamente. Ecco la tagliente analisi di don

Lorenzo109:

«A vivere nella solitudine, senza il contrappeso della cultura o del pensiero o di un’intensa spiritualità, sono diventati davvero animali inferiori. E se anche questa parola pare una bestemmia al nostro esser tutti figlioli di uno stesso Padre, la dico per esprimere quanto l’immagine divina sia seppellita in loro sotto un cumulo di sovrastrutture che non sono né divine né umane. Io non te li posso descrivere perché sono indescrivibili e perché li amo troppo. […] I volti gelidi mi dicono che le mie parole non passano neanche la soglia delle orecchie. C’è di mezzo un rifiuto preconcetto all’ascolto, al ragionamento, alle decisioni. Non sono uomini e non vogliono esserlo. In montagna il muro. […] E non bisogna insaccare il capo e tacere, bisogna rincantucciarsi nella preghiera, nell’esame di coscienza nostro, ripetere al Signore la nostra fede nella libertà dell’uomo, nella libertà della Grazia di Dio, nella nostra incapacità a comprendere il mistero di salvezza individuale in cui Dio solo legge. […] Ma fosse tutto qui il male, fossero chiusi solo al pensiero e avessero un cuore traboccante d’amore. Ma non hanno neanche questo. Sono chiusi in se stessi, nell’egoismo più elementare. L’egoismo dell’infante e della belva. L’egoismo che giunge all’amore per i figlioli. Ci giunge per istinto come nel bruto. Ma non conosce amore per altri. Neanche per i genitori. […] Questo egoismo da giungla è tutto ciò che si può trovare in un uomo quando non l’ha raggiunto l’influsso vivificatore della parola, cioè del mezzo per ricevere l’apporto dei suoi simili e soprattutto quelli dei suoi simili migliori di lui e più ancora quello di Un suo Simile che è Parola e che s’è fatto Carne cioè Parola Incarnata per essere Parola più convincente. E che poi ha posto un Libro come fondamento della nostra elevazione e un Magistero per l’interpretazione di quel Libro e poi dei Sacramenti che sono in se stessi più che quel Libro e più che quel Magistero, ma che pure non si possono affrontare neanche loro senza l’anticamera della Parola (il catechismo). Da tutto questo son tagliati

109 EP pp. 192-201

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fuori questi infelici e non solo per il loro non possedere la parola abbastanza […], ma soprattutto per non volerla possedere, per non volerle dar luogo nella vita, per non aver conosciuto la sua dignità vivificatrice, la sua capacità di piegare, di trasformare, di costruire. […] Forse ha già capito che se le aprisse l’anima [alla parola, ndr] –, se la lasciasse penetrare fino a quel recondito regno dell’io dove si prendono le decisioni di vita, allora dal primo giorno in poi gli toccherebbe differenziarsi dai suoi vicini, per esempio mutare atteggiamento di fronte ai Sacramenti, oppure di fronte ai divertimenti o alla politica, fare, dire, pensare qualcosa che gli altri nel popolo non pensano, non dicono, non fanno. E questo gli fa paura. Perché sa che per differenziarsi occorre poi posseder la parola in modo da potersi difendere. Non sarà più come ora che fa come tutti e quindi vive proprio bene anche muto e bendato».

Si fa fatica ad assumere la parola-lingua perché impone una conversione totale, unica, copernicana, soprattutto per il montanaro, l’uomo cioè che per eccellenza non ha cultura (e non vuole averla – non la vuole perché non la conosce). Occorre vincere le paure e le vergogne che emarginano; occorre assumersi il peso della propria persona di fronte all’altro che ci guarda, che mi è simile: esporsi al suo giudizio. Due persone che hanno egualmente la parola (perciò si capiscono) possono giudicarsi, ma di più: progettare, pensare, costruire insieme. E questa è politica. Invece il montanaro preferisce rimanere allo scuro – sapere costa caro! –, trascinare la sua vita banale senza niente che lo elevi alla statura di uomo. Gli pesano sulle spalle secoli di ingobbimento mentale, di pregiudizi sulla sua vita che anch’egli ha contribuito a lasciar correre come opinione, di eterni “si è sempre fatto così” da cui difficilmente potrà guarire. Eppure è proprio su di loro che bisogna chinarsi.

Questa è la scelta che il prete Milani deve prendere in considerazione, evitando di lasciar coltivare in loro l’immagine del prete-padrone, dell’uomo arrivato, di colui che è su di grado, di colui che comunque sta dall’altra parte… Egli, il prete, non può non sentirsi responsabile. Soprattutto di fronte a Dio…

«Vorrebbero ridurti a funzionario. Non sopportano che tu sia uomo, non sopportano che tu voglia intervenire nel tran tran della vita, che tu voglia smuovere le cose ferme, sovvertire un ordine che si son dati e che di cristiano non ha più nulla. Sì, insisto. Nulla. Perché cosa ci può essere di cristiano là dove si rifiuta al prete questo diritto di avvertire, di parlare, di scuotere? Ma che dico al prete. Là dove si rifiuta alla Parola di penetrare. E al pensiero e alla ragione. Dove si rifiuta alla Religione stessa d’entrare nei fatti della vita. Cos’ha di cristiano una fede che

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osserva il rito (e non tutto) e poi fuori di quello non vuole esser turbata in nulla? Non è questa la fede degli egiziani e dei romani? Fede in Dio senza addentellati in nessun comandamento di vita, ma solo comandamenti di rito. […] Ma quando parroci, cioè corresponsabili terreni di questo groviglio di irrazionalità ci presenteremo a Dio a chiedergli il miracolo della conversione dei contadini, non ci sentiremo forse rispondere che il miracolo verrà per i contadini innocenti perché bestioni, perché incapaci a rendersi conto di qualcosa, ma non verrà per il prete che ha avuto inestimabili doni di intelligenza e di parola e di cultura e non li ha usati per farne parte ai bestioni né per correggere il proprio agire pastorale? […] Fai conto che io qui mi trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti. Che ne diresti se pretendessi di evangelizzarli senza aver dato loro la parola? I missionari dei sordomuti non fanno così. Fanno scuola della parola per anni e poi dottrina poche ore. E il loro agire è logico, obbligato, perfettamente sacerdotale. Domani poi, tra questi sordomuti ritornati alla luce della parola, ci saranno santi e dannati. E quel giorno la responsabilità della salvezza ricadrà su ognuno di loro come è nell’economia normale della Salvezza. Ma se invece mi rifiuto di creare questo ponte, allora per loro non ci sarebbe che il Limbo dei bambini e per me il castigo di chi non ha fatto il suo dovere. Lo stesso avviene quassù in montagna: con la scuola non li potrò far cristiani, ma li potrò far uomini; a uomini potrò spiegare la dottrina e su 100 potranno rifiutare in 100 la Grazia o aprirsi tutti e 100, oppure alcuni rifiutarsi e altri aprirsi. Dio non mi chiederà ragione del numero dei salvati nel mio popolo, ma del numero degli evangelizzati. Mi ha affidato un Libro, una Parola, mi ha mandato a predicare ed io non me la sento di dirgli che ho predicato quando so con certezza che per ora non ho predicato, ma ho solo lanciato parole indecifrabili contro muri impenetrabili, parole di cui sapevo che non sarebbero arrivate e che non potevano arrivare. […] Non mi contenterò io, dinanzi a lui – Dio –, ormai che ho inteso, di un gioco di parole e di legalità osservate di cui la mia coscienza d’uomo, di cristiano e di sacerdote non si appaga. Dopo queste premesse, mi pare di poter dire che la scuola, in questo popolo e in questo momento, non è uno dei tanti metodi possibili, ma mezzo necessario e passaggio obbligato né più

né meno di quel che non sia la parola per i missionari […] in Cina110. Domani invece, quando la scuola avrà riportato alla luce quel volto umano e quella immagine divina che oggi è seppellita sotto secoli di chiusura ermetica, quando saranno miei fratelli non per un retorico

110 EP si chiude – non senza ironia – con una Lettera dall’oltretomba riservata e segretissima ai

missionari cinesi (p. 437).

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senso di solidarietà umana, ma per una reale comunanza d’interessi e di linguaggio, allora smetterò di far scuola e darò loro solo Dottrina e Sacramenti. Per ora questa attività direttamente sacerdotale mi è preclusa dall’abisso di dislivello umano e perciò non mi sento parroco che nel far scuola».

Don Lorenzo è consapevole del compito: il prete è responsabile di fronte a Dio del popolo che Dio stesso gli ha affidato. Non può far finta di fare il prete, o accontentarsi di fare alcune cosette da prete. La questione della salvezza del popolo non è legata alla bravura del prete. È però un dato di fatto che se il prete rinuncia all’annuncio dovrà vedersela con Dio. Don Milani ha interiorizzato il senso del dovere pastorale. Il ministero del prete dà il diritto a Dio di chiedere a lui il resoconto del popolo che attraverso la mediazione della Chiesa Dio gli ha affidato. Don Lorenzo è consapevole del giudizio eterno nel momento in cui rinunciasse a prendersi a cuore la salvezza delle sue anime. E per lui c’è solo un modo di curare le anime: fare scuola. Dio chiederà conto al prete anche di tutte quelle parole e discorsi (inutili) che non sono penetrati nella coscienza dei singoli, ma non per incapacità questa volta del popolo, quanto per negligenza del prete nel trovare parole adeguate a dire la Parola e aprire il cuore a Dio. Don Lorenzo non fuggirà da questa responsabilità. Quando il grande compito della scuola sarà compiuto allora il prete potrà occuparsi dell’unica cosa che conta: insegnare la Parola e celebrare i Sacramenti.

Non dimentichiamoci che il modello di prete di don Milani è ancora tridentino. Egli non ha avuto il tempo sufficiente di conoscere e approfondire

la riforma del Concilio Vaticano II (1962 – 1965)111.

111 Non possiamo esprimerci sul rapporto tra don Milani e il Concilio Vaticano II: il priore

nei suoi scritti non ne parla. Quando nel giugno del 1967 don Lorenzo muore il Concilio

era da poco concluso. Ci pare improbabile che il Vaticano II – proprio per la qualità della

sua Riforma della Chiesa – non sia stato oggetto di analisi e riflessione di don Milani, che

leggeva i giornali. I mass media dell’epoca, infatti, ne parlarono molto. La tesi è

corroborata da Corzo che sostiene che l’assenza del Concilio in don Milani sia dovuta al

senso di pronunciata laicità del priore: «Benché le sue risposte siano sempre illuminate e

orientate dalla luce del Vangelo, i suoi temi lo mostro perfettamente intonato con la

mentalità comune» (in La parola… p. 61). Nella tesi di licenza di Paolo Carrara si dimostra

invece che la fonte della riflessione pastorale di don Milani sia stato il grande pamphlet

francese di La France pays de mission? scritto nel 1943 da Henri GODIN e Yvan DANIEL. In

«Perché…» veniamo a conoscenza di un brevissimo carteggio tra don Milani e l’allora

segretario di papa Giovanni XXIII, monsignor Loris Capovilla. Non c’è, però, accenno

alcuno all’evento conciliare (pp. 157-170)

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«Credi, non è più solo un progetto o una speranza. Ho già visto qualcosa. […] Con loro parlo ormai davvero come a miei pari. E non c’è cosa ch’io voglia dir loro o bella o nuova e ch’io non riesca a far giungere alle loro menti. E non c’è cosa che abbiano in mente e che non riescano a spiegarmi. Ora vibrano a tutto quel che pare a me, alla cultura, al pensiero, alla fede. E già guardano i loro genitori con una pietà accorata di giudici e superiori. Si sono affacciati ormai al mio mondo, sono ormai di quelli che la tua ispettrice chiama “spostati”. Sì, spostati ormai per

tutta la vita, non torneranno indietro»112.

Ma ecco quello che ancora racconta don Lorenzo in EP dopo la visita ad un anziano pastore moribondo:

«Ecco la sua lingua, il suo elemento: il soliloquio con le pecore, l’unico uso che ha fatto del Dono della Parola in 84 anni di vita. Ha imparato la loro lingua e non la mia. È più fratello loro che mio. E io vesto lana e mangio cacio senza rimorso. Nessuno più deve fare quel mestiere. O almeno: nessuno che non sappia già pregare, pensare, leggere. Nessuno cioè per cui la solitudine e la compagnia delle bestie non possa rappresentare fonte di Grazia e di elevazione e non invece, com’è per i pecorai d’oggi, occasione di trasformarsi in bestie, meditare le più abominevoli cose e ritrovarsi uomini con atrofizzato l’intelletto e il

cuore»113.

Prete per aprire alla parola, educare all’apertura contro ogni isolamento e silenzio muto che non genera, ma spegne e fa morire. Arrivare a consegnare a ciascuno il «dominio della parola» in cui risiede la parità tra uomo e uomo. Era forse un’utopia? A questo voleva giungere don Lorenzo, perché il non avere la parola significa essere inferiori, e l’uomo è uomo proprio perché è padrone della lingua.

«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua»114.

Essere e fare il prete significa preoccuparsi di fornire tutte le condizioni perché un uomo sia tale. Dare identità a un popolo che, da più di cento o duecento anni, non sa chi è. Dare un volto umano. Essere prete non per appiattire ma per elevare:

«Non m’ammalo io per lui della sua malattia, ma risano lui alla mia salute, alla mia normalità di homo sapiens. So che nel sapere e nel

112 EP pp. 201-202

113 EP p. 314

114 Lettera a Ettore Bernabei direttore del Giornale del Mattino (in Dalla parte… p. 126).

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ragionare ritroverà tutto quel che avrà lasciato e molto di più»115.

Essere prete per umanizzare: far imparare a parlare i piccoli montanari di Barbiana e gli operai di San Donato grazie all’«ottavo Sacramento» della scuola. Dove mancano la lingua e gli ideali necessari perché l’uomo sia umano, ci vuole la scuola:

«E perciò la scuola mi è sacra come un ottavo Sacramento. Da lei mi attendo (e forse ho già in mano) la chiave, non della conversione, perché questa è segreto di Dio, ma certo dell’evangelizzazione di questo

popolo»116.

A questo punto la scuola è l’unica azione che conta per il prete Milani. Nel senso che non si disturba la Grazia né Dio là dove Dio non può starci, perché non c’è un uomo! Essere prete per eliminare la differenza culturale, da cui dipende quella sociale.

A don Lorenzo importava non tanto «colmare l’abisso dell’ignoranza,

quanto quello di differenza»117.

La scuola (lingua-parola) per Lorenzo è appunto la premessa alla fede. Insistiamo su questo legame tra l’apertura antropologica condizione della fede (e perciò di ogni relazione con Dio), e la possibilità della stessa fede. Dalla parola poi si passa alla lotta sociale: così si guadagna il riscatto sociale. La scuola è capace di risvegliare la coscienza alla conoscenza. È capace di risvegliare la sete sopita che rischia di rattrappirsi, di morire...

«La scuola, qualunque scuola, eleva gli interessi. Risveglia dal fondo dell’anima quella naturale sete di sapere che è spesso seppellita negli infelici e che è la premessa più necessaria per il loro ritorno alla fede. È tanto difficile che uno cerchi Dio se non ha sete di conoscere. Quando con la scuola avremo risvegliato nei nostri giovani operai e contadini quella sete sopra ogni altra sete o passione umana, portarli a porsi il problema religioso sarà un giochetto. Saranno simili a noi, potranno

vibrare di tutto ciò che noi fa vibrare»118.

Il problema dell’elevare l’altro con la scuola è proporzionale a quanto il prete in prima persona riesce egli stesso a «far vibrare» per cose alte. Non deve essere perciò banale o sciatto. Deve avere la statura di uomo per proporre umanità. Non si può banalizzare e non si può prendere in giro chi sta per

115 EP p. 204

116 EP p. 203

117 EP p. 220

118 EP p. 237

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chiedere molto alla sua vita, chi intuisce che la Vita può avere un senso più alto rispetto a quello di accontentarsi di una semplicistica soluzione, un surrogato di vita fatto di pane e casa (comunque già cosa piuttosto seria).

Peggio sarebbe quando il prete alla domanda di senso del giovane risponde con scadente ricreazione e divertimento. Don Milani si è scatenato contro tutto ciò che egli ha sempre guardato con sospetto come una pericolosa truffa del povero. Appunto: il povero non può essere dileggiato. È questione di livelli, e il prete non può farsi incontro al povero mancante e assetato abbassandosi ad un livello che offende la dignità del povero e la sua domanda-sete.

È ciò che – secondo don Lorenzo – fa la maggior parte dei preti che credono di potersela cavare scendendo a un livello inferiore, illudendosi di incontrare il povero e di tirarselo all’ovile (in chiesa!), invece di innalzare il povero a un livello superiore, là dove il suo sguardo chiede di arrivare. Don Lorenzo contrappone il livello alto ed elevante della Parola a quello infimo e ambiguo del gioco.

«Ed ecco il tasto dolente: vibrare noi per cose alte. Tutto il problema si riduce qui, perché non si può dare quel che non si ha. Ma quando si ha, il dare vien da sé, senza neanche cercarlo, purché non si perda tempo. Purché si avvicini la gente su un livello da uomo, cioè a dir poco un livello di Parola e non di gioco. E non parola qualsiasi di conversazione banale, di quella che non impegna nulla di chi la dice e non serve a nulla in chi l’ascolta. Non parola come riempitivo di tempo, ma Parola scuola, parola che arricchisce. Quando si ha idee chiare e un progetto preciso di costruire uomini capaci di affrontare vittoriosamente la lotta sociale, allora ha questa dignità perfino la parola che spiega un po’ di aritmetica. Allora la scuola è, a differenza del gioco e anche nelle materie più umili, un ininterrotto comunicare pensiero. […] Il prete che fa scuola popolare sa tutto quel che ha in cuore il suo popolo e il popolo cui il prete fa scuola popolare sa tutto quel che ha in cuore il suo prete. Nudi e veri, l’uno dinanzi agli occhi dell’altro. E se in cuore al prete c’erano cose alte avrà dato cose alte e se c’erano cose mediocri le avrà date mediocri. E se c’era fede avrà dato fede. In sette anni di scuola popolare non ho mai giudicato che ci fosse bisogno di farci anche dottrina. E neanche mi son preoccupato di far discorsi particolarmente pii o edificanti. Ho badato solo a non dir stupidaggini, a non lasciar dire e a non perder tempo. Poi ho badato a edificare me stesso, a essere io come avrei voluto diventassero loro. Ad aver io un pensiero impregnato di religione. Quando ci si affanna a cercare apposta l’occasione di infilar la fede nei discorsi, si mostra di averne poca, di pensare che la fede sia qualcosa di

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artificiale aggiunto alla vita e non invece un modo di vivere e pensare119. Ma quando questa occasione non si cerca, purché si faccia scuola e scuola severa, si presenterà da sé, sarà anzi sempre presente e nei modi più impensati e meno coscienti. Lungo l’anno i giovani ci vedranno agire, reagire, pensare, rispondere in mille occasioni diverse, sempre eguali a noi stessi, sempre e senza sforzo presenti alla nostra visione della

vita»120.

Il prete è invitato a tenere elevato il livello dei suoi discorsi121 se vuole essere creduto anche nella sua predicazione. Il prete non può essere mediocre,

119 «Quelli che si danno pensiero di immettere nei loro discorsi a ogni piè sospinto le

verità della Fede sono anime che reggono la Fede disperatamente attaccata alla mente con

la volontà e la reggono con le unghie e coi denti per paura di perderla perché sono

interiormente rosi dal terrore che non sia poi proprio tutto vero ciò che insegnano»

(Lettera a Giorgio Pecorini, Barbiana 10.11.59 in LPB p. 139). «Il cristianesimo di don

Milani s’identifica con la sua missione pedagogica» (in L’uomo… p. 117). Don Lorenzo ha

sempre avuto un certo pudore di parlare direttamente delle cosiddette «verità della Fede»,

come le chiama lui, e ha sempre pensato che non fosse il primo compito da svolgere. Era

fermamente convinto che la scuola vi avrebbe portato i ragazzi per un movimento

naturale. Sì, certo: il prete per Milani è colui che celebrando i Sacramenti della Grazia

«distribuisce» la salvezza all’uomo. E far santo l’uomo è l’opera prima. Ma questo è

possibile solo quando l’uomo è uomo, cioè solo quando è padrone della parola, solo

quando è liberato dalla schiavitù dell’isolamento, dalla paura di esprimersi, dalla

convinzione di non essere nessuno. In definitiva: solo quando il povero si accorge delle

ricchezze che ha nella propria coscienza. Il prete che non si accorge di questa dinamica

rischia fortemente di rendere vana la qualità della Grazia stessa, e la missione della Chiesa.

Non si può per questi motivi rimpinzare di Fede quell’uomo che non ha la recettività

necessaria. Non potrà che o non capire o peggio disprezzare. Allora il danno sarebbe

davvero irreparabile. La missione del prete è in questo senso delicatissima. Mantenere la

propria identità di annunciatore attento alla disponibilità umana di aprirsi a Dio.

Mantenere alto nell’uomo l’interesse per ciò che è essenzialmente elevato. Il guadagno è

proprio questo: più il prete è capace di elevarsi sopra la mediocrità più chi lo ascolta si

accorgerà dell’altezza dell’assoluta Verità annunciata dalla Fede. Non si può portare

nessuno a Dio se non lo si eleva. Ciò che può il prete è una pedagogia della Fede. Far

imparare all’uomo i passi per poter ricevere il grande dono della Grazia. Solo per questo

occorre far scuola. La scuola non è strumentale a Dio. È certo, però, che se la scuola è

riuscita a far nascere l’uomo alla coscienza della propria dignità, questo servizio è già un

servizio reso alla Fede, e perciò a Dio. Diremmo, con un linguaggio più vicino a noi, al

Vangelo.

120 EP pp. 237-238

121 «A noi conviene seguire la via più normale. Cioè tenere il livello sempre alto e allora è

facile ogni tanto fare un’incursione a livello altissimo» (in EP p. 147)

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proprio per il servizio e la testimonianza che rende a qualcosa di elevato; testimonianza al mistero di Dio, all’Eucarestia, alla tenerezza del perdono: sono «cose» tremendamente alte, che fanno trepidare il prete Milani. Ne va del messaggio e della sua credibilità. Non tanto quella sua personale, ma molto di più quella del mistero a cui è legato nel ministero, nell’obbedienza alla Chiesa e nel sacramento dell’Ordine. È per la mediocrità che la gente si allontana dai suoi preti. I ragazzi si accorgono quando un prete è banale. In base ai discorsi si può giungere a conoscere la qualità dei valori nei quali il prete crede e la causa per cui si spende. Così il prete non fa sfigurare la «ditta» (come Milani chiama la Chiesa) presso la quale egli lavora. Il prete che comunica una ricchezza umana è in grado di comunicare Dio senza fatica. Non ha bisogno di strategie artificiose. Il prete a sua volta si preoccuperà di essere imbevuto di «religione», se vorrà fare discorsi di una certa qualità. Al prete i ragazzi chiedono coerenza. La coerenza dei discorsi e degli atteggiamenti susciterà negli animi dei ragazzi la convinzione che il loro prete è unificato da qualcosa di importante, che lo motiva, gli dà la forza di

essere sempre se stesso, lo rende testimone al di là dei discorsi dottrinali122.

Don Lorenzo chiede assolutamente di superare la frattura tra la fede e la vita. Da una parte, il vaghismo dei preti che si accontentano di vedere le chiese piene per il loro «irrazionale» e «inefficace» catechismo o per le loro celebrazioni rituali (processioni, feste annuali di patroni, tridui, etc.). I cappellani s’illudono che i ragazzi e giovani abbiano fatto la scelta di fede solo perché vengono al cinema parrocchiale o al ricreatorio per il pallone (don Lorenzo lo chiama così quello che per la tradizione lombarda è l’oratorio); non s’accorgono del basso opportunismo con cui vengono sfruttati, loro malgrado. Dall’altra, i ragazzi e i giovani non capiscono i discorsi del prete. La fede per don Milani è una questione seria e non è certo un fenomeno di massa. La serietà della fede è pari alla serietà delle cose intelligenti per le quali occorre pensare in modo intelligente. Fare la scelta di fede è questione che implica un rovesciamento dei valori e della vita. Significa scacciare la tentazione imperante alla mediocrità, già ricordata,

122 Don Milani all’amico magistrato Giampaolo Meucci: «Vuoi tu che i poveri regnino

presto? Vuoi che regnino bene? Scrivi dunque o un libro per loro o un giornale per loro

oppure fatti apostolo fra i tuoi compagni laureati cattolici per dare vita a una grandiosa

scuola popolare a Firenze. Non come un dono da fare ai poveri, ma come un debito da

pagare e un dono da ricevere. Non per insegnare, ma solo per dare i mezzi tecnici

necessari (cioè la lingua) ai poveri per poter insegnare essi a voi le inesauribili ricchezze di

equilibrio, di saggezza, di concretezza, di religiosità potenziale che Dio ha nascosto nel

loro cuore quasi per compensarli della sperequazione culturale di cui sono vittime» (in

LPB p. 34)

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leggere la storia e la vita, accorgersi delle ingiustizie. Occorre il coraggio di lasciare il gioco e le cose che fanno moda, abbandonare le comodità e schierarsi dalla parte dell’ultimo, educarsi a una mentalità di lotta e di critica sociale, imparare l’arte del discernimento e dell’ascolto delle voci degli

schiacciati. Significa, non da ultimo, convertirsi123. E conversione è cambiamento di mentalità su ogni cosa, cioè di tutta la vita, dato che la vita e la fede non vanno più distinte, perché la fede – afferma Milani nel brano sopra citato – è il «modo» di vivere la vita e la vita è la fede che si fa storia. Dono di sé per altri.

Cercare la via più umana possibile perché la Grazia non strida a contatto con l’umanità e non sia paradossalmente costretta a non riversarsi sul non-uomo:

«[...] Se ci ha vestito – Dio – da preti secolari vien fatto di credere che abbia voluto affidare alla nostra mente umana il compito di cercare la via umanamente più efficace di spianar la strada alla Grazia. Perché dunque

ce la dovrebbe poi negare e abbondante?»124.

La ricreazione e il gioco

Al suo padre spirituale don Bensi, don Lorenzo scrive:

«Voglio scrivere un libro contro la ricreazione. Lo intitolerò: L’eresia del secolo. E sarà diretto in parti uguali contro i preti e i comunisti. La gioventù non chiederebbe che di sacrificarsi e di istruirsi e i preti e i comunisti seguitano a giurare che senza ricreazione non si avvicina nessuno. In seminario ci facevano la meditazione sullo Chautard e specialmente su quel capitolo che sfotte le “stampelle” (cioè la ricreazione), ma poi ci presentavano come esemplari i preti che avevano

costruito ricreatori campi sportivi e cinema»125.

Si pone il problema della ricreazione, e più ampiamente dei divertimenti, che Milani interpreta sempre in modo abbastanza negativo perché impedisce all’uomo di pensare. In Esperienze Pastorali la polemica è accesissima, ma trattenuta all’interno della Chiesa. Don Milani si prefiggeva attraversa EP di invitare alla riflessione proprio i preti. I destinatari primi del libro erano

123 «Convertirsi significa trasferire se stessi in un’altra dimensione» (in L’uomo… p. 79)

124 EP p. 238

125 «Perché…» p. 20. Adele Corradi ricorda che don Lorenzo avrebbe cestinato volentieri il

suo Catechismo (che oggi abbiamo solo perché la stessa professoressa disobbedì al priore)

mentre di EP «giudicava salvabile solo il capitolo sulla ricreazione» (in Non so se Lorenzo, p.

82)

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proprio i preti e i vescovi che, però, non coglieranno l’«autentica meditazione

teologica sull’attualità»126. Non pensava di raggiungere e interessare le altre forze cattoliche o laiche: loro sì leggeranno il saggio con molto interesse. Al priore premeva far pensare, scuotere le coscienze, superare la tentazione alla pigrizia mentale. Anche don Lorenzo subì la tentazione di accattivarsi i giovani con il pallone, ma fu per lui un’esperienza «umiliante»:

«Io, sacerdote di Cristo, dovevo stare in concorrenza sullo stesso piano

coi ministri del mondo? Già troppo umiliante»127.

La polemica di natura squisitamente pastorale avviata da don Lorenzo non è pregiudiziale, nel senso che egli non ha un odio assoluto nei confronti del gioco o del divertimento. A Barbiana, per esempio i ragazzi sciano,

costruiranno una piccola piscina, oggi ancora visibile128. Comunque, anche questa forma di gioco è considerata scuola. Il problema è quando il divertimento non è finalizzato a nulla, o meglio è soltanto perdita di tempo. Divertimento etimologicamente viene dal latino de-vertere, allontanare. Di fronte all’urgenza della scuola della parola il prete non può attardarsi al divertimento. Non è compito del prete occuparsi del gioco, quando ci sono

ben altre agenzie che se ne occupano già (e con risultati migliori)129. E poi – si chiedeva don Milani – perché mettersi in antagonismo con le agenzie laiche (i comunisti per intenderci)? Il prete è prete per ben altre cose. Il gioco non eleva, abbrutisce e soprattutto atrofizza gli interessi. E chi l’ha detto che con il gioco si possono attirare più ragazzi che con la scuola? E chi l’ha detto che un operaio per riposarsi dal lavoro deve necessariamente svagarsi, cioè vagabondare senza meta? Don Lorenzo sostiene strenuamente – dati alla mano – che con la sua scuola egli ha raggiunto più ragazzi che non con il

pallone130. E soprattutto quelli che è riuscito a conquistarsi non li ha più persi

126 in La parola… p. 11

127 EP p. 133

128 Lassù a Barbiana, per volere della Fondazione dedicata al priore, è rimasto tutto

intatto come cinquant’anni fa.

129 È una riflessione che meriterebbe di essere presa in considerazione anche oggi: cosa

sono diventati i nostri oratori, per esempio? Quali cammini le nostre comunità riescono ad

attrezzare per gli adolescenti o per i giovani? Se pensiamo al Sinodo indetto da Francesco

per i giovani nel 2018 ci si chiede se l’argomentare milaniano di EP non possa ancora oggi

costituire un buon punto di partenza per la futura pastorale giovanile.

130 Nella sua accalorata autodifesa al cardinale di Firenze, probabilmente mai recapitata,

don Milani argomenta: «Il numero dei giovani che frequentano i sacramenti e il loro

venirci da sé senza organizzazione né invito né occasione festiva o periodica, prova che

l’influenza della scuola è stata profondamente religiosa anche senza quel contorno

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(i ragazzi di San Donato, come già ricordavamo, salivano spesso a Barbiana). Evidentemente non tutti i preti sono d’accordo con lui. La maggior parte, anche suoi compagni di messa, avevano fatto propria la causa del pallone. Ma con quali risultati si chiedeva Lorenzo?

«Il gioco non si tesaurizza mentre lo studio sì. Di ciò che il ragazzo ha imparato resterà traccia e frutto per tutta la vita. Ma di ciò che ha giocato

non resterà nulla»131.

«Io so che con la scuola oggi non perdo nessuno. Ma anche se non credessi questo io non potrei stare attorno al gioco finché sapessi che c’è nel mio popolo anche un ragazzo solo che sarebbe capace di chiedermi qualcosa in più. Piegarsi sulla piaga della ricreazione, studiarla, capirla, averne pietà, comprensione. Sì, questo è ancora sacerdotale. E di questo potrete dire di me che non l’ho saputo fare. Ma di organizzare noi la

piaga! Questo non sarà sacerdotale mai»132.

Il gioco e la scuola sono due impostazioni pastorali completamente opposte. Don Lorenzo è per la scuola ed è convintissimo che se il gioco può valere per lo studente dopo ore di lavoro intellettuale non è la stessa cosa per l’operaio perché

«dopo ore di esercizio fisico egli ha bisogno di ricrearsi con un po’ di lavoro intellettuale. Di ritornare un po’ uomo con lo studio e non di conservarsi con una sterile ricreazione quella bestia che è diventato con il

lavoro fisico»133.

Questo è ciò che non hanno capito gli altri preti. E nemmeno i comunisti di San Donato. Anche per loro parole durissime. Si tratta, infatti, di discernere quali sono i bisogni reali di un ragazzo. Don Milani si è accorto che i suoi ragazzi e giovani non avevano bisogno di divertimento. In realtà questo era solo un bisogno apparente che nascondeva un’esigenza più profonda. E in questa bisognava a fondo scavare e interpretare. Scavare dentro e oltre

l’infelicità del povero134 causata dall’assenza di parola e di cultura. Era inutile

esteriore. Non esiste in parrocchia nessuna attività ricreativa non un pingpong non un

pallone non un cine non conversazioni fatue o spiritose, eppure i giovani lasciano il

cinematografo, il gioco il riposo per frequentare la nostra pesantissima scuola. Da che

dipende???» (in EB p. 93)

131 EP p. 133

132 EP p. 148

133 EP p. 134

134 «Non si può essere parroci e non averle sempre presenti – le infelicità – e non voler

vivere ogni attimo, anche quando gli infelici non ci vedono, alla presenza e all’altezza

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e dannoso offrire ciò che li avrebbe appagati solo momentaneamente lasciandoli delusi e illusi per sempre. E il gioco non avrebbe mai acceso la sete e il desiderio dei ragazzi, montanari e operai. Occorreva parlare al livello delle loro più angoscianti domande ed esigenze, capire la vergogna che provavano quando non riuscivano a esprimersi sul lavoro, quando venivano rifiutati dalle ragazze di città, quando venivano denigrati dai loro stessi padroni, quando il loro nome era un numero solo perché non avevano la forza di imporsi all’arroganza dei compagni di lavoro, quando si chiudevano nei mutismi, quando non riuscivano a parlare dei loro problemi e non c’era nessuno che ascoltava.

Occorreva capire gli sguardi di coloro che avrebbero volentieri cercato il prete per raccontare tutta la loro vita, per scodellare una volta per tutte i disagi che sentivano nel cuore, e i pesi della coscienza. Ma a quanto pare questo tipo di presenza del prete, secondo don Milani, non era ritenuta importante da parte dei suoi confratelli nel ministero, o comunque veniva dopo, dopo il baccano e il vociare penoso dei bar delle Case del Popolo o dei ricreatori parrocchiali:

«Proviamoci a metterci nei panni di quell’infelice che ha lasciato il borgo ed è salito alla chiesa in cerca di qualcosa che il borgo non gli ha potuto dare. In cerca di un uomo diverso dagli altri, un uomo che valuta con un metro con cui nessuno valuta. Che stima ciò che disprezzano gli altri e

disprezza ciò che ognuno stima. L’uomo di Dio135. Qualcosa di “entitative” diverso dall’uomo del mondo. […] Dio voglia ora che il Priore sappia cogliere a volo negli occhi del nuovo venuto il motivo che l’ha portato. […] Dio voglia che lasci tutto in tronco e lo conduca in una stanza appartata e adatta. Ma in pochissime parrocchie c’è una stanza così e questo è un fatto grave e indicativo. […] Se ne risultasse che la maggioranza dei preti costruttori dei ricreatori non ha sentito la necessità

della loro infelicità e della nostra paternità». EP p. 153

135 Si percepisce, ancora una volta, il senso forte del ruolo sacro del prete che don Milani

aveva incarnato in sé, e che costituisce il senso della vocazione. Non poteva per questo

motivo vendersi a poco prezzo. Egli è un uomo di Dio. Non c’è azione bassa che possa

infangare questa dignità. La scelta di far scuola fu per Lorenzo come minimo il tentativo di

tenere alta la dignità del prete. Non per sé, o quanto meno non solo per orgoglio

personale, ma per la Chiesa e Dio stesso. Don Lorenzo non ha paura di sottolineare la

diversità del prete dagli altri proprio in anni (il Sessantotto era nell’aria) in cui si

cominciava a snobbare la distinzione. Se l’uomo voleva incontrare Dio avrebbe sentire lo

stacco tra l’umano e il divino nella figura del prete. Il prete – per il priore – doveva essere

consapevole di questa dignità e assumerne la missione. La cattiva testimonianza di un

prete non all’altezza dell’abito che portava non poteva che suscitare compassione o peggio

disprezzo. Da questi preti era meglio stare alla larga.

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di assicurarsi l’esistenza, l’indipendenza, il facile accesso, il silenzio, l’isolamento acustico e il decoro d’una stanza per ricevere gli uomini e confessarli, allora il mio assunto contro i ricreatori è già dimostrato abbondantemente. Se farete Scuola Popolare la stanzetta per confessare ve la dovrete procurare dopo pochi mesi. E dopo pochi anni di scuola,

sarà più il tempo che dovrete passare là che in classe»136.

Scriveva pressappoco così anche a un suo carissimo amico prete di Prato, don Ezio Palombo, che spesso gli scriveva per chiedergli consiglio. Chi era infatti il prete e cosa avrebbe dovuto privilegiare? Il gioco o altro? E come comportarsi con i ragazzi? Quali metodi scegliere? Come la gente vuole il prete?

«Caro Ezio, […] non so cosa dirti del ping-pong. Io sono sicuro che se lo spezzi nel mezzo e se in conseguenza di ciò non avrai più nessun ragazzo d’intorno non morrà nessuno. Avrai più tempo per pensare, più silenzio, e in più pian piano andrai costruendo quell’immagine di prete più vera e degna di te che coll’andare del tempo attirerà con il suo valore intrinseco molto più i ragazzi che il ping-pong. L’immagine di quel vero prete che sei già e che non devi mascherare da giocoliere né abbassare per avvicinare chi è in basso. Chi è in basso (cioè che cerca disperatamente dei sistemi per buttare via tempo) deve vederti in alto, magari per qualche anno odiarti e disprezzarti e fuggirti e poi se Dio gli dà grazia pian piano cominciare a invidiarti, imitarti, superarti. “Ponete in alto il vostro cuore e fate che sia come fiaccola che arda”. Io penso che su questo punto non bisogna avere pietà per nessuno. La mira altissima, addirittura disumana (perfetti come il Padre!) e la pietà, la mansuetudine, i compromessi paterni, la tolleranza illimitata solo per chi è caduto e se ne rende conto e chiede perdono e vuol riprovare da capo a porre la mira altissima. Ma un tavolo da ping-pong è un monumento sempre presente di mira modesta e squalifica la tua dignità di sacerdote del Dio Altissimo. Non mi pare che Gesù andasse a cercare i peccatori tanto quanto che erano loro a cercarlo. E se quest’ultima affermazione non fosse vera, diciamo almeno che se anche li ha cercati c’è riuscito poco dato che quando morì l’avevano abbandonato tutti. Eppure se li avesse voluti poteva far comparire ben altro che un ping-pong per attrarli! Quando fu morto e ben fallito i milioni di uomini che lo hanno cercato e trovato non lo hanno fatto perché lui e la sua croce e la sua legge fossero molto attraenti, ma perché erano loro che si sentivano vuoti e disperati e bisognosi di lui. Ecco dunque l’unica cosa decente che ci resta da fare:

136 EP pp. 152-153

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stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare in alto (per noi e per gli altri) e sfottere crudelmente non chi sta in basso, ma chi mira basso. Rinceffargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza. Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce. E splendenti e attraenti solo per quelli che hanno Grazia sufficiente da gustare altri valori che non siano quelli del mondo. La gente viene a Dio solo se Dio ce la chiama. E se invece che Dio la chiama il prete (cioè l’uomo, il simpatico, il ping-

pong) allora la gente viene all’uomo e non trova Dio»137.

«Caro Ezio, […] non è per lo scandalo che si dà che non si deve usare metodi indegni della veste che portiamo, non è per gli occhi del povero che giustamente ci giudicano e ci disprezzano, ma per gli occhi di Dio che vuol noi all’altezza della nostra vocazione sia che si sia sul pulpito davanti a diecimila persone che ci guardano sia che si sia soli di notte nel

nostro letto al buio coll’Angelo Custode che ci guarda»138.

Da qui si vede bene il suo doppio atteggiamento complementare: esigentissimi con se stessi e misericordiosi, appunto paterni, con gli altri. Essere esigentissimi fino alla non comprensione degli altri. Il prete non è chiamato all’applauso facile. La sua vocazione non è quella di farsi voler bene da tutti.

La presenza del prete deve essere come quella di un fuoco sulla terra, senza pretendere di portare aria di pace, mentre è il conflitto che semina. Crea scandalo se necessario, sia nei confronti dei benpensanti sia dei poveracci che non capiscono la novità del suo stile. Don Lorenzo non cerca a tutti i costi la croce in sé e per sé, né desidera la palma del martirio per l’antipatia che suscita. È invece decisamente consapevole che il prete è un segno di contraddizione come Cristo. Non c’è altra via per l’Uomo di Dio. Il segno va posto contro tutti coloro che credono di vedere ma sono ciechi. La croce è segno di quell’impotenza che travolge la logica del mondo e dà fiato a chi spera di poter risorgere dalle macerie della non-umanità e della non-dignità. Da questo punto di vista al prete è richiesta esplicita promessa di schieramento, se vuol essere credibile e limpido nel suo messaggio.

«Io al mio popolo gli ho tolto la pace gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza

137 Lettera a don Ezio Palombo, Barbiana, 25.3.1955 in LPB p. 35-36

138 Lettera a don Ezio Palombo, Barbiana, 12.5.1955 in LPB p. 41

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che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione, né riguardo, né tatto. Mi sono attirato contro un mucchio d’odio, ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti di conversazione e di passione del popolo. Nel popolo di quel mio amico (escluso il periodo strettamente elettorale) si battaglia accanitamente solo per Coppi o per Bartali. Nel mio si battaglia pro o contro un metodo di apostolato, un

modo di fare il prete o di affrontare una questione morale o sindacale»139.

L’amore non è mai universale

È poi falsa, secondo don Milani, anche molta retorica circa l’ascetica dell’amore universale: non ha saputo amare che un pugno di ragazzi, e non ha amato, né voluto amare nessun altro. Impossibile per un uomo:

«È impossibile amare tutti»140.

Il prete è, sì, un padre, ma non padre universale:

«Se fosse così mi spreterei subito. […] V’ho commosso e convinto solo perché vi siete accorti che amavo alcune centinaia di creature, ma che le

amavo con cuore particolare e non universale»141.

Il solo pensiero dell’amore universale lo spaventava. Egli sente tutta la particolarità del suo modo di amare, contro tutti i canoni di formazione seminaristica e gli adagi pietistici circa l’amore per tutti. Il suo è un cuore passionale – lo sentiremo (vedi il Testamento). Piangerà per i suoi ragazzi, quando non riuscirà a capirli, non vorranno più studiare, non gli scriveranno dall’estero, non riusciranno a imparare la lingua, gli sbatteranno perfino in faccia la porta, lo terranno a distanza, impareranno a diventare grandi e vorranno l’autonomia dal padre… Un cuore così non può che essere viscerale. Non può permettersi il lusso di giudicare tutti allo stesso modo, in modo neutrale. Non può amare tutti allo stesso modo, perché ognuno respira della propria singolarità. Occorre crederci. Il suo è un amore disinteressato di sé e interessato per i suoi pochi. I poveri non sanno che farsene di una persona, e ancor più di un prete, che li ama tutti disinteressatamente alla stessa maniera: essi vogliono interessatamente essere amati per ciò che sono, con le loro differenze e non con le qualità che hanno in comune con tutti. Così fu l’esperienza per i ragazzi di Barbiana. Anche il male che egli ha sentito su di sé nei tanti momenti di sofferenza dovuti alle grandi polemiche (il

139 Ep p. 146

140 «Perché…» p. 93

141 Lettera a Luciano Ichino, Barbiana 11.5.1959 (in LPB p. 108)

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«penitenziario ecclesiastico»142 quale fu percepito inizialmente la nomina a Barbiana, al tempo della sua cacciata da San Donato; l’uscita di Esperienze Pastorali nel 1958 e poi il quasi immediato invito-imposizione a ritirarlo dal mercato da parte del Vaticano; l’impedimento da parte della curia fiorentina ad alcune partecipazioni pubbliche per conferenze o altro; la vicenda dei cappellani militari con la relativa risposta e l’intentato processo ai suoi danni…) era un male che egli sentiva gettato sui suoi ragazzi. E poi solo gli intellettuali borghesi sanno amare in modo universale, cioè in modo non autentico, perché l’amore universale è di chi non si schiera mai, di chi non rischia mai nulla dalla parte dell’ultimo, di chi non ha mai provato a sentire come propria carne l’altro. L’accusa che alcuni preti gli fecero, all’uscita di Esperienze Pastorali, fu proprio in riferimento al fatto che il prete ha il comando dell’amore verso tutti; ma Lorenzo evidentemente non la pensava allo stesso modo, e così si comportava nei confronti delle persone che salivano spesso a Barbiana e magari si aspettavano qualcosa da lui: un’attenzione particolare, un po’ del suo tempo e della sua privatezza, una gratificazione solo per loro. Ma egli non poteva che trattarli interessatamente, strumentalizzarli per la scuola, usarli, per l’unica cosa che gli interessava davvero: l’amore per i suoi ragazzi:

«Se credessi al comandamento che essi continuamente mi rinfacciano e cioè che bisogna amare tutti, mi ridurrei in pochi giorni un prete da salotto cioè da cenacolo mistico-intellettual-ascetico e smetterei d’essere quello che sono, cioè un parroco di montagna che non vede al di là dei suoi parrocchiani. […] Perché se offrissi anche un amore disinteressato e universale, di quelli di cui si sente parlare sui libri d’ascetica, smetterei d’essere parte vivente di questo popolo di montanari: e questo privilegio non lo cederei per tutto l’oro del mondo, e al diavolo il mio libro e quei

cretini di cittadini che han creduto che l’avessi scritto per loro»143.

Non poteva che amare solo i suoi parrocchiani e quelli che pur venendo da fuori facevano ormai parte della grande famiglia di Barbiana. Si può perdere la testa soltanto per qualcuno. Chi crede di poterla perdere per tutti non sa proprio cosa significhi perdere la testa e non ha mai provato quanto costi in termini di struggente amore e dolore amare l’altro. Don Lorenzo non aveva scelto né San Donato né Barbiana, ma fu un tutt’uno con quella gente, con quel popolo affidatogli. Almeno di questo non potrà essere incolpato. E di questo egli si vanterà: dell’amore folle, unico, estenuante, crocifiggente…

142 L’espressione è di don Milani.

143 Lettera a Elena Brambilla, Barbiana, 20.6.1961 in LPB pp.156-157

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Credere nel riscatto del povero

Ci tiene occupati ancora la scelta del povero. Occorreva amare e capire la diversità che li schiacciava in un angolo, non li faceva volare in alto, li umiliava costantemente e li tagliava fuori dal gioco sociale, costretti a subire i soprusi di coloro che invece la cultura ce l’hanno e, per il fatto di aver studiato, possono occupare posti di prestigio, cariche che contano. C’è sempre chi dall’alto della cultura crede di voler bene ai poveri, ma non sposa mai la loro povertà. Don Milani si stizziva contro gli intellettuali che ostentavano qualche velleità caritativa. Soprattutto a Barbiana verso i suoi bambini.

Occorreva sposare la causa del povero totalmente, dal di dentro, e non per sfizio o solo per hobby, o per compassione pietistica. Se la compassione non è patire-con il povero è, allora, ancora solo aristocrazia. La differenza sta tra il darsi da fare per il povero e lo stare dalla parte del povero: imparare a guardare e sentire le cose e la vita, i drammi e le gioie, i peccati e le resurrezioni, per come le vede e le sente lui. Accorgersi che è molto diverso il mondo visto dalla sua prospettiva, che i discorsi sulla povertà sono aria fritta e lasciano il tempo che trovano; che si è sostanzialmente insinceri se non si vive dalla loro parte. O si è dalla parte del povero, e allora si fa a meno delle comodità, intellettuali e non, oppure non si è mai stati con lui. Il povero non ha bisogno di sentire che c’è qualcuno per lui, ma che qualcuno è con lui. I poveri non sono oggetti di studio, come lo furono per molte persone illustri e socialmente importanti che andavano a trovare il priore e i suoi ragazzi solo per potersi rivestire del lusso di aver conosciuto un prete alternativo. Don Lorenzo li smascherava sempre e li trattava malissimo; anzi li cacciava via. Guai a coloro che facevano del loro interesse per il povero una sorta di medaglia decorativa da esibire sul petto per nascondere il proprio senso di colpa di essere comunque sempre altro e altrove da lui, senza mai riscattare l’altro dalla sua inferiorità culturale. Don Milani non avrebbe mai permesso questo. La sua scuola, il suo allenamento critico ventiquattrore su ventiquattro, il suo amore visceralmente incarnato non lo permise mai. Ai poveri, alla classe dei poveri bisognava crederci, perché innanzitutto il povero o è una classe o non è niente. Avere allora una cultura che non libera il povero dalla sua povertà e non lo rende autonomo di pensare e perfino di sputarti in faccia se necessario o di criticarti, non serve a nessuno. Bisogna esporsi con il povero. Ed esporsi anche contro tutti coloro che ostacolano il processo di rinnovamento del povero. Anche se tra questi ci fosse la Chiesa. Perché il povero ha il sacrosanto diritto di non essere tradito e tanto meno umiliato. La giustizia deve essere difesa, innanzitutto, dagli uomini di Chiesa. Il prete non può sottrarsi a questo compito storico.

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Le attese politico-sociali negli anni dell’immediato dopo-guerra erano forti. Don Milani parlerà di un preciso compito della classe dei poveri: riguadagnare la propria identità. I ricchi non possono e non devono dare nulla ai poveri, perché i poveri sono chiamati (biblicamente) al riscatto, a riprendersi la dignità attraverso i mezzi (Parola, voto, sindacato e sciopero) che i ricchi hanno da sempre loro sottratto.

Credere al povero e imparare dal povero. Tutt’al più vantarsi di poter insegnare dalla cattedra del povero, l’unica che conta, e

«considerare massimo bene il possedere quella cattedra ineccepibile che è la povertà. Unica cattedra da cui si potrebbe ancora dire al mondo sociale e politico qualche parola nostra in cui nessuno ci abbia preceduto

né ci potrebbe precedere»144.

La cattedra degli impotenti. La cattedra da cui anche Dio si era affacciato. Dio stesso, per primo, aveva creduto alla capacità di riscatto della classe sociale del povero. Lo cantava il Magnificat, lo urlavano le Beatitudini, ne erano ricolmi i Salmi e la grande tradizione ebraica da cui proveniva don Lorenzo.

144 EP p. 402

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3. L’«opzione preferenziale» e il riscatto dei poveri

Radicale incarnazione

La scelta dei poveri è scelta dettata almeno da queste due motivazioni: l’incarnazione totale e il rovesciamento dei valori. L’incarnazione è dettata da quell’atteggiamento di com-partecipazione, di com-passione, che obbliga il prete a vivere della stessa vita della gente alla quale è affidato. In un continuo gesto eucaristico il prete è pane spezzato e condiviso. Non c’è altra famiglia, altro padre o altra madre, non c’è altro pensiero o altra idea che non sia già da sempre quella della sua gente, del bambino che giunge il mattino presto dal buio per far scuola e rincasa tardi, delle donne che subiscono frodi e torti di nascosto... perché

«tutto naturalmente si riversa qui»145 [alla scuola di Barbiana, ndr].

Il prete deve essere un po’ come

«narcotizzato o meglio innamorato»146 della sua gente.

Don Lorenzo viveva il paradosso dell’assoluta incorporazione, quasi una simbiosi, con quella terra tanto da arrivare a dire

«Barbiana è me, e io sono Barbiana»147.

Ed è vero che la sua casa non era la sua casa, ma ormai della gente di Barbiana e della Scuola. Il clima a Barbiana era quello di una grande

famiglia148. L’incarnazione di Lorenzo era mettersi dentro il modo di pensare del suo popolo contadino e operaio: operazione decisamente difficile, per un uomo dalla mentalità aristocratica come era lui. Assumere come propria la loro prospettiva ristretta. Se si voleva cambiare storicamente la situazione del povero non era possibile rimanere neutrali.

La scelta dei poveri implicava anche l’assoluta disponibilità alla spoliazione di sé, all’espropriazione totale. A livello personale si trattava di una conversione a tutto campo: impegnò don Lorenzo per tutta la vita.

L’incarnazione e il rovesciamento mentale, che stanno a monte della scelta,

145 Alla mamma… [144] Barbiana 1 sett. 55, p. 204

146 Alla mamma… [337] Barbiana giovedì [18 o 25 aprile 1963], p. 391

147 cfr. nota 2 in Alla mamma… [360] p. 411. Dai suoi allievi – vedi la testimonianza di

Michele GESUALDI con il suo ultimo L’esilio di Barbiana – don Lorenzo venne considerato un

barbianese doc. Vedi ancora EB p. 207 (già citato)

148 Come testimonia anche Adele CORRADI nel suo Non so se Lorenzo

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devono allargare e coinvolgere il ruolo e la missione della Chiesa stessa. La scelta nei confronti del povero è una questione di giustizia. La Chiesa annunciatrice del Regno di Dio, di quel Regno che i canti del Magnificat e delle Beatitudini, canti di lotta e non di eterea spiritualità, si portano in seno, era anzitutto impegnata in prima linea a sporcarsi le mani per la giustizia dei poveri. È un atto di altissima Carità. La Carità che la Chiesa esercita deve passare dalla Giustizia. Attraverso la denuncia, la revisione dei propri metodi e mezzi pastorali, lasciandosi mettere in discussione. La scelta e la causa dei poveri imponevano una revisione del modello della Chiesa all’interno della società. È la storia di Mauro, l’operaio di cui Lorenzo parla nella cosiddetta

Lettera a don Piero pubblicata come un’appendice di Esperienze Pastorali.149 Ma in alcuni testi iniziali del suo ministero, forse non ancora sufficientemente educato alla questione sociale, e non avendo ancora vissuto l’esperienza dura del conflitto con la Chiesa che pagherà caro, don Milani parla del povero ancora in termini di anima da salvare, per cui egli si sente interessato appunto alla sua anima, come se fornire le condizioni per una oggettiva resurrezione fosse qualcosa di assolutamente marginale, per la quale non era il caso di scomodare la Grazia di Dio: «L’unica cosa che lo interessa, in quanto sacerdote, è di non possedere più pane di quanto il povero ne possa avere, per il resto la sua attività è tutta volta a portare la salvezza tra gli

uomini»150. Come prova riportiamo uno stralcio della Lettera a un giovane

comunista di San Donato, più comunemente nota come Lettera a Pipetta151:

«Pipetta, tutto passa. Per chi muore piagato sull’uscio dei ricchi, al di là c’è il pane di Dio. È solo questo che il mio Signore m’aveva detto di dirti.

È la storia che mi sé buttata contro, è il 18 aprile152 che ha guastato tutto, è stato vincere la mia grande sconfitta. Ora che il ricco t’ha vinto col mio aiuto mi tocca dirti che hai ragione, mi tocca scendere accanto a te a combattere il ricco. […] Hai ragione, sì, hai ragione tra te e i ricchi sarai sempre te povero ad aver ragione. Ma come è poca parola questa che tu m’hai fatto dire. Come è poco capace di aprirti il paradiso questa frase giusta che tu m’hai fatto dire. […] Ma il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco […] quel giorno io ti tradirò. Quel

149 EP pp. 441-471

150 Don Milani… p. 64

151 La lettera è datata 1950, in LPB pp. 3-5

152 Data delle elezioni politiche che diedero la maggioranza assoluta alla DC e che però

dopo don Milani interpreterà come sconfitta dei poveri, nonostante a San Donato avesse

lottato per questa causa, e per le quali elezioni dovette allontanarsi un poco dalla

parrocchia facendo un viaggetto in Germania: troppa era la sua esposizione.

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giorno io non resterò là con te. […] Quando tu non avrai più fame né sete ricordatene, Pipetta, quel giorno io ti tradirò quel giorno finalmente potrò cantare l’unico canto di vittoria degno di un sacerdote di Cristo “Beati i… Fame e sete”».

Anche la lettera al direttore di Adesso, il giornale fondato da un altro prete, don Primo Mazzolari, ha uno spunto interessante:

«Per es. atea è per la frase “noi non vogliamo cambiamenti se non avremo la sicurezza che i poveri ci guadagnino” (Adesso 1.7.52). A me invece non importa nulla che i poveri ci guadagnino (questo fatto non ha nessun peso sulla venuta del Regno), mi importa che gli uomini smettano di peccare. E l’ingiustizia sociale non è cattiva (per me prete) perché danneggia i poveri, ma perché è peccato cioè offende Dio e ritarda il

suo Regno. (È la ricchezza e non la povertà che è una offesa a Dio)»153.

L’interesse di don Milani per la giustizia del povero come uomo da salvare e per la giustizia come lotta sociale non vanno disgiunte. Don Lorenzo rimane fedele al principio della Chiesa di cui è figlio, per cui la condizione antropologica della salvezza per l’uomo è finalizzata unicamente alla salvezza della sua anima. Solo in seconda battuta ci s’interessa di regolare la giustizia tra gli uomini. Comunque i passi di don Lorenzo sono evidenti. Del resto la scuola, strumento efficace di salvezza umana, conferma la convinzione, accennata sopra, che dare all’uomo ciò che gli appartiene come uomo è già fargli assaporare la Salvezza.

«Te la farò pagare, in nome dei poveri». La storia di Mauro

Torniamo alla Lettera a don Piero. Don Milani la scrisse dal 7 novembre 1953 al giugno del 1954 (don Daniele Pugi proposto anziano di San Donato stava per morire e Lorenzo capiva di essere agli sgoccioli della sua presenza a San Donato: la morte dell’anziano prete sarebbe stata la scusa perfetta per forzare il cambio di destinazione), come egli stesso dice nella premessa alla lettera. Con estrema evidenza la lettera ci dice della conversione intellettuale e spirituale di don Lorenzo circa la questione sociale, che non è solo la questione degli operai e dei padroni, ma questione che tematizza la dignità e il futuro dei suoi poveri. È per i suoi che egli si muove, si converte. C’è in gioco la giustizia calpestata e offesa dei suoi, ed egli non può permettere che venga vilipesa l’onorabilità dei povero al quale egli crede con tutte le sue forze. La denuncia aperta è un atto obbligatorio da parte di un uomo di Chiesa, che deve salvaguardare anche la credibilità del Regno presso i poveri

153 San Donato a Calenzano, 25.7.1952, in LPB p. 15

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(«abbassa i superbi e innalza gli umili»), operai o altri che siano:

«Caro Piero, Cesare m’ha detto che quando ti raccontò dell’atteggiamento che ho preso di fronte a un industriale e agli industriali in genere, restasti un po’ turbato. M’ha detto che anche don Divo dice di me che […] un prete non deve occuparsi di queste cose. S. Paolo infatti non diceva agli schiavi di ribellarsi ai padroni, anzi nella lettera agli Efesini scrive: “Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni come al Cristo”. […] Nella prima parte ti farò toccare fino a che punto i poveri abbiano ragione. Nella seconda ti spiegherò che questo problema in sé (per quanto sacrosanto) esula dai miei interessi, che sono solo nel soprannaturale, ma per accidens invece e cioè per un contingente complesso di fatti storici, è venuto a incunearsi nel mio più normale apostolato sacramentale e catechistico e a ostacolarlo».

Don Milani attraverso la storia del suo Mauro «riesce a mettere in discussione

l’intero modello di presenza della Chiesa nella società»154. La storia di Mauro non è un esempio generalizzabile della condizione degli operai, ma «il caso su cui si gioca la credibilità dell’intera organizzazione ecclesiale e sua personale, in quanto autorevole rappresentante della Chiesa a livello locale. La Chiesa, che si è schierata dalla parte dei ricchi, che ha scelto la potenza come

linguaggio»155 e non invece quello dell’impotenza annunciato dal canto della Vergine e dalle beatitudini «non può parlare autorevolmente ai poveri» che subiscono un danno morale a cui è impossibile non ribellarsi.

Mauro è un ragazzo che entra a lavorare a 12 anni in un’azienda tessile di Prato, perché il padre è prima in cassa integrazione e poi disoccupato e quindi il figlio deve portare tutto il peso economico della famiglia: a casa sono in cinque ad aspettare la sua busta. A 13 anni lavorava perciò dodici ore, a turni: una settimana di notte e una di giorno. Lavorava a cottimo per portare a casa una busta bella gonfia, senza libretto e senza assicurazione; non ha nemmeno l’età per poterla avere, ma a Prato solo 10 su 100 sono assicurati e hanno il libretto. E il ragazzo più grande non ha 18 anni. Don Milani nella lettera descrive tutti i rischi del cottimo (infortunio…) e gli inconvenienti di chi lavora di notte ed è tagliato fuori dalla vita sociale del paese: niente Messa alla domenica, niente Scuola Popolare, niente relazioni… Il papà di Mauro si ammala e don Milani tenta una carta, mosso dalla disperazione per la situazione, che andava contro i suoi principi: la raccomandazione presso un certo Baffi, imprenditore che in quei giorni

154 Don Milani… p. 66. La Chiesa come «Macchina di Dio».

155 Ibidem, p. 67

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assumeva:

«È inutile Padre che s’affatichi a raccontarmi. La mia amministrazione non può interessarsi a nessun motivo umanitario. Lei mi capirà certo. Qui c’è una legge sola: il bene dell’Azienda. Che poi infine è il bene di tutti. Il ragazzo è in prova. Ma gli dica che non ammetto scioperi. Al primo sciopero vola… A me piace l’ordine e la disciplina. Son sicuro che anche lei, Padre, la pensa come me».

Il Baffi non dà nemmeno la certezza che terrà il ragazzo; dall’alto della sua sicurezza di padrone egli può permettersi di incastrare il giovanissimo Mauro impedendogli di scioperare, strumento assolutamente fondamentale, secondo don Milani, accanto alla parola e al voto elettorale, per il riscatto della dignità del povero.

«Io penso all’art. 40 della Costituzione: Diritto allo Sciopero. […] non è una legge qualsiasi. È quella che il Cristo attendeva da noi da secoli, perché è l’unica che ridia al povero un volto quasi d’uomo. Non gli si riconoscerà il potere sopra le cose. Ma almeno sul suo lavoro: di darlo o di non darlo quando gli pare. Ma no, Baffi, non ti meriti che queste cose io te le dica in faccia. Avresti troppa soddisfazione mettendomi per strada Mauro e ridendoti di me e dei miei sogni. Ti meriti piuttosto che io dica a Mauro che t’inganni quanto può. […] Te la farò pagare, te lo prometto in nome dei poveri che calpesti, in nome del mio sacerdozio che hai offeso, in nome della tua anima stessa che io vorrei salvare».

Ma don Lorenzo sa che non può dire a Mauro di ribellarsi perché perderebbe il posto e il ragazzo con la condizione familiare non può certo permetterselo. A casa cinque bocche aspettano imploranti la sua busta paga; e sono sicuri che don Lorenzo come prete farà di tutto per l’assunzione perché del prete hanno fiducia, e poi – pensano i poveri di Mauro – è una persona che conta presso i padroni. Non importa se il prezzo da pagare è la dignità del figlio e della famiglia: devono campare. E quando c’è solo da pensare a campare i diritti non riempiono la bocca. Ma Lorenzo ribolle in quella situazione che lo costringe al silenzio ebete, e prova una vergogna indicibile anche del suo sacerdozio, perché impotente a fermare quella violenza inaudita e soprattutto impotente di fronte al senso di scoramento e di non reazione della famiglia:

«Sono lì tutti e 5 a pregare per me. Perché io faccia loro questo bene. Il bene di mettere Mauro sotto i piedi del Baffi. Perché il Baffi possa ben calpestare la sua dignità di cristiano. Io dunque ho chinato il capo dinanzi al Baffi, non gli ho sputato in faccia, non gli ho tirato il calamaio. E a Mauro non dirò di lottare per i suoi fratelli. Gli dirò di essere vile ed egoista... Così fu che Mauro entrò a lavorare da Baffi. […] È evidente… che il Baffi è un

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pazzo… Il tragico non è che ci sia un pazzo. Il tragico è che un pazzo possa impunemente fare e disfare nella vita degli umili. Che la società sia organizzata in modo da proteggerlo. E non ho ancora detto quello che sta più a cuore a me. La Messa che il Baffi fa perdere ai miei figlioli ogni domenica. L’umiliazione che impone loro di essere bestia 7 giorni su 7 e non 6 come sarebbe scritto».

La lettera continua con un’analisi lucidissima delle condizioni assurde e bestiali dei ragazzi e delle prestazioni impossibili richieste ad ognuno. Pena il licenziamento. Mauro, infatti, conobbe il licenziamento:

«La formula breve e un po’ cruda. Devo annacquartela? Hai paura a guardare in faccia alle cose? Troppo comodo. Lui povero figliolo, più giovane e più indifeso di te ci ha vissuto ogni giorno. Gli ha detto solo: “Da domani non tornare”. “Non tornare? E a mangiare ’n do vo?”. “Tu ti fai … e mangi”. Il ragazzo l’ha fissato senza degnarlo d’un sorriso. Per un attimo anche il forte ha sentito su di sé il peso dello sguardo del debole… davanti a Dio il giudizio è belle e dato. Severo. Irrevocabile. Ma non è quell’uomo solo che Dio ha condannato. È un mondo intero che difende quell’uomo che lo tiene in piedi contro la storia e i poveri. I poveri che l’hanno giudicato anche loro e presto con un gesto breve e crudo leveranno il fantoccio dal piedistallo e rifaranno il mondo a modo loro».

È il riscatto della classe dei poveri: l’autorealizzazione. Per Milani in qualche modo è la rivincita. Egli ci crede. Intanto Mauro torna al paese e racconta subito a don Lorenzo del licenziamento perché non ha il coraggio di dirlo in casa. Insieme scendono in bicicletta a Prato per sentire le spiegazioni di quel licenziamento. Inutile. Il ritorno è fatto di pedalate silenziose con don Lorenzo che cova pensieri di ribellione e…

«don Enrico m’ha detto: “Tu dai tutta la colpa ai padroni. Il male lo vedi da una parte sola”. Provo a mettermi in quest’ordine di idee. Per scrupolo provo a pensar male anche di Mauro… Ma no; non regge! Son cose che si posson dire solo da un tavolino quando gli uomini non son che cifre su un foglio. Che si possono respirare solo nell’aria malsana dei giornali “indipendenti”. Che si dicono per essere “oggettivi”, per tenersi al di sopra delle parti. Senza ricordarsi che tra il forte e il debole le parti non sono eguali e non si può distribuire i torti con salomonica indifferenza».

Mauro pedala a capo basso e per Lorenzo si staglia l’immagine del Crocefisso in quel ragazzo:

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«Che rimuginerà in quel capo oggi? E da oggi in poi? … Per ora l’ho ancora qui accanto. E l’ho perfino in grazia di Dio perché venendo in giù stamani mi ha chiesto l’assoluzione. Lui vuole stare sempre in grazia di Dio. Ma stamani tanto più perché s’andava incontro alla croce. Ma ora che si risale verso casa, con la croce ben confitta sopra le spalle. Ora m’assale il terrore che domattina, se qualcosa fosse andato male, non verrà più a cercarmi come ha fatto fin ora. Che diserti la Chiesa. E poi la Scuola Popolare. E poi a furia di non vederlo mai, mi diventi come altri che ho in cuore e che non vedo che di lontano, e che non sanno nulla di me, né io di loro».

Nella seconda parte della lettera, che scrive per i preti e per la Chiesa istituzionale (dalla quale – proprio perché l’amava – esigeva non rimanesse spettatrice o peggio connivente nel silenzio) don Lorenzo avanza le sue riflessioni puntuali sulla questione sociale. La scelta di incarnazione e di rovesciamento di valori trovano in queste pagine la propria concertazione. Non accetta che non ci si occupi direttamente della questione sociale dei poveri, e affonda ogni motivazione di falso spiritualismo che non voglia sporcarsi le mani con la «materia» dei poveri:

«Piero, ho sentito preti e giornali dire che tutte le cose sindacali e sociali sono materia. Che non bisogna che il prete si faccia trascinare dal suo cuore di uomo, da motivi terreni. Che il pensiero del benessere è eresia. Che ai poveri Gesù parlava solo di croce e di cielo. Ci credo Piero. Lo credo con tutto il cuore, con tutto me stesso. Appunto. È al cielo che li voglio portare i miei figlioli. Son partito per questo e ancora non penso altro che a questo. Io non voglio farli signori. Non voglio che abbiano neanche un soldo di più… Morissero di fame tutti i poveri!. Che me ne importa? Andranno tutti in cielo. Non ho scordata la prima beatitudine. L’ho sempre dinanzi agli occhi. Sì, Beati, lo credo. Te lo giuro. […] Per ora Mauro è ancora qui, accanto a me. Me lo son potuto tenere sempre vicino, parlargli di Dio e di purezza, nutrirlo di assoluzioni e Comunioni. Ma tutto questo solo perché è giovane… Domani… odierà tutto e tutti e me suo prete, e il Papa e il Cristo nostro Signore. Per ora mi crede ancora se gli dico qualcosa. Ma se mi chiede ragione di quel che fa il Baffi, di quel fa il governo cattolico, che gli posso dire? Potrò ingannarlo? Potrò dirgli che attenda? Potrò dirgli che il Baffi ha diritto per diritto naturale? Che la Celere ha il dovere di difendere la legge pagana che fa forte il Baffi? Che questa legge è quella che Dio ha posta? Io non posso dirgli queste cose. Non mi crederebbe. E ha ragione. E io, Piero, non posso non essere creduto dal mio Mauro. Lui n’ha bisogno di me suo prete per mille altre cose troppo più grandi di questa stupida cosa del lavoro e del

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governo. N’ha bisogno per il perdono di Dio di cui ha avuto sete fino a oggi di cui avrà bisogno anche domani. N’ha bisogno per il Corpo di Cristo che l’aiuti ad affrontar la vita e il matrimonio e la vecchiaia e poi la morte e poi la Vita eterna. Parlargli d’altre cose? Tenere il discorso sempre su quello della fede?».

Com’è possibile parlare di fede e di Dio quando anche solo un ragazzo si può sentir tradito nella sua dignità di uomo? Finché egli non riavrà ciò che gli spetta non è più possibile fare certi discorsi. Si rischierebbe di fallire e di fingere. Di imbrogliare. Così la storia di Mauro fa crollare fragorosamente la «macchina» pastorale della Chiesa che pensa di poter rispondere ai problemi di Mauro con ciò che di più alto ha, ma che in quel momento è un pugno nello stomaco di Mauro, perché Mauro in quel preciso momento ha bisogno della comprensione del suo prete, di vedere il suo prete prendere posizione contro il sopruso subito. C’è forse qualcosa di più importante della salvezza dell’uomo? Ma se anche un solo ragazzo perde la fiducia nel suo prete che non reagisce di fronte alla violenza che egli ha subito e che lo rabbonisce con discorsi veri, ma distorti per le sue orecchie incapaci di recepire la grandezza del mistero della salvezza, allora anche la stessa preoccupazione del prete circa la salvezza è fasulla, pretestuosa: rischia di essere un modo elegante di non intervenire, o di intervenire superficialmente, senza incidere nelle radici del problema dove si è insediato il male. Così se il prete non interviene, agli occhi di Mauro risulta essere connivente e in lui crescerà la sfiducia verso tutta la Chiesa e non solo verso il suo cappellano. Dalla sfiducia nella Chiesa alla sfiducia in Dio, per don Milani, il passo è breve davvero. Ciò che è compromessa è la «capacità stessa della Chiesa di ridare al povero la dignità

che perde quotidianamente ad opera dei forti»156. La «macchina» della Chiesa si inceppa proprio sull’«incapacità di riconoscere al povero la sua dignità umana. Questo è dunque il termine di giudizio per tutta la struttura della

Chiesa»157.

Guai alla Chiesa che ha tenuto lontano da sé i poveri e che ha tarpato le ali alla fede dei poveri per la sua cattiva testimonianza di apportatrice visibile della salvezza. Se la salvezza della Chiesa ha il coraggio sfacciato di superare o dimenticare la dignità dell’uomo, allora si assisterà inevitabilmente alla fuga dalla fede, oltre che dalla Chiesa. E per le risposte che il prete, la Chiesa, non avrà saputo offrire a tutti poveri di nome Mauro, ci sarà sempre

«un altro uscio … dove c’è qualcuno che saprà dargli le risposte che

156 Don Milani… p. 68

157 ibidem, p. 68

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attende … qualcuno che per un po’ di lavoro, un po’ di casa, un po’ di giustizia umana, per queste quattro stupide piccole cose umane che io non ho saputo riconoscergli a tempo, gli ruberà la fede».

Don Milani questo non può permetterlo. E, poi, almeno

«se quel qualcuno avesse almeno una dottrina più bella della nostra, starei zitto. Ma la dottrina del comunismo non val nulla. Una dottrina senza amore. Una dottrina che non è degna di un cuore di giovane».

Don Milani si sente troppo compromesso; anche se accidentalmente, come sottolinea, egli è troppo compromesso con il governo che difende purtroppo il Baffi, con il governo che egli nel ’48 aveva strenuamente difeso per la causa dei poveri, impedendo si votasse altro. Ebbene quel governo ha tradito e se Lorenzo non si ribella Mauro finirà col pensare che è proprio vero che anche la Chiesa è complice del Baffi. Don Milani è compromesso e non può «andare incontro al povero e additargli la croce» (sarebbe una presa in giro gravissima). Il suo prete sarebbe credibile, solo se Mauro lo vedesse dalla parte stessa della vittima e non di colui che lascia le vittime sgozzarsi tra loro, e per di più con il favore del voto elettorale. L’autoaccusa di don Lorenzo è un atto di accusa rivolto alla Chiesa, un patetico e scandaloso autogol: «Ho taciuto», ammette don Milani. Proprio da questa consapevole (auto)accusa può nascere il rovesciamento richiesto dal povero stesso: guardare le cose dalla sua parte:

«Per un prete quale tragedia più grossa di questa potrà venire? Essere liberi, avere in mano Sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto d’essere derisi, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Avere la chiesa vuota. Vedersela vuotare ogni giorno di più. Saper che presto sarà finita per la fede dei poveri. Non ti vien fatto perfino di domandarti se la persecuzione potrà essere peggio di tutto questo? […] Parroci armati fino ai denti, sconfitti da un nemico senz’armi».

«Ecco perché anch’io ho diritto di gridare contro il Baffi e il Governo. Non per il pane che strappano al mio bambino. Ma perché strappano il mio bambino dalle mie braccia. E son sacerdote anche proprio per quest’atto. E non ho deviato dalla tradizione apostolica e pastorale. Perché ho in mano la Pisside sola. Non l’ho deposta sull’altare. Non ho deposto la tonaca per correre sulle barricate. Nelle mie mani consacrate ho solo i Sacramenti e coi piedi do una pedata a un ostacolo caduco che mi sbarra la strada».

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La lezione, e perciò la scuola, di don Lorenzo aveva questa potente finalità, di cui vantarsi e per cui assolutamente non demordere mai: vibrare per l’ingiustizia del povero. Ecco l’ideale alto cui orgogliosamente puntava e al quale voleva giungessero i suoi ragazzi. In questo ideale risiedeva l’autorealizzazione del povero e il riscatto del giusto:

«Non vedremo sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale. A qualcosa cioè che sia al centro del momento storico che attraversiamo, al di fuori dell’angustia dell’io, al di sopra delle stupidaggini che vanno di

moda»158.

158 EP p. 241

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4. La paternità del maestro diventato discepolo

«Murato lì»

Un ultimo aggancio per capire il rapporto del prete Milani con i suoi poveri, con i suoi ragazzi, lo possiamo intuire senz’altro dallo struggente rapporto di ferma e tenera paternità. Già la Lettera a don Piero ha mostrato quanto don Lorenzo fosse per sua natura visceralmente padre e di quale paternità egli avesse rivestito il suo ministero.

In Esperienze Pastorali scrive Lettera a un predicatore159 per far capire il tipo di atteggiamento scorretto che l’oratore speciale aveva avuto durante la predicazione nella parrocchia di San Donato. Il predicatore, esterno alla parrocchia come d’usanza, non può parlare in certi modi e in certi toni, né tanto meno confessare, perché non è come il cappellano di una parrocchia

«murato lì»160 tra la sua gente, della quale conosce tutto e alla quale dice tutto. Non esercita quella paternità necessaria che lo porta a parlare con autorevolezza. In questa lettera ci sono accenni di tenerezza squisita che lasciano intravvedere con quale profondità don Lorenzo vivesse il ministero: con l’intensità di un uomo che è totalmente del suo popolo. Lui lo conosce, il popolo ormai conosce lui. Il suo destino è legato inscindibilmente al popolo:

«Pei campagnoli il confessore se non è il parroco non è nessuno. Lui li ha ascoltati piccini per la prima volta, da lui sono tornati e torneranno nelle ore liete e gravi della loro vita, lui ha da confessarli nell’ora della loro morte. Lei passa e se ne va, ma il parroco resta. Murato lì. È come il padre di famiglia né più né meno. Fare per un giorno il babbo dei figlioli degli altri è qualcosa di molto delicato, Padre. Vorrei che i predicatori ci venissero tremanti di rispetto per lui. […] Anch’io ho un dono che lei non ha: quando siedo in confessionale posso anche chiuder gli occhi. Le voci che mi sfilano accanto, per me, non son mai voci e basta. Sono persone. Lei sente che si presenta “una sposa”. Io invece so che è “la Maria”. Della Maria so tante cose… casa, famiglia, vicini, vocabolario, testa… com’è disposta la cucina. Conosco il suo Giordano meglio di lei che è mamma. […] Comunque avviene che quella voce impersonale, sulla quale lei applica i testi e i decreti, per me è carne della mia carne.

159 EP pp. 265-274. La lettera fu precedentemente pubblicata sulla rivista Vita Cristiana nel

novembre-dicembre 1952.

160 EP p. 266

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Ciò che quell’anima chiede io chiedo, ciò che la tenta, me tenta più di lei… Se tagliassimo netto come fa lei, taglieremmo su noi stessi».

Il padre aveva confessato un ragazzo, Giordano, e non aveva potuto dargli l’assoluzione perché aveva la tessera d’iscrizione al Pci. Il Sant’Uffizio aveva emanato una nota in proposito. Don Lorenzo aveva violentemente discusso con il predicatore e una sera dopo la scuola (alla scuola di Milani ci andavano tutti i colori dei partiti, senza distinzione, ed egli la voleva rigorosamente aconfessionale e laica: non c’era bisogno di discorsi religiosi – diceva Milani – perché dopo due o tre anni di scuola i ragazzi sarebbero caduti tra le sue braccia come frutti maturi, senza che i frutti si accorgessero di essere così maturati. A don Lorenzo non sfiorava il dubbio che la religione cristiana era meglio del comunismo, ma aveva un sacro rispetto della libertà di coscienza dell’altro) aveva accolto la confessione di Giordano sotto le stelle:

«Bastò uno sguardo. Poi mi chiamò in disparte: “Il padre m’ha chiesto del partito. Io gli ho detto di sì. Lui dice che non mi può assolvere se non strappo la tessera; e allora?”. Quanto soffrii quella sera per quella mano maldestra che aveva devastato il mio lavoro paziente e delicato! Era quattro anni che lo tiravo su con la delicatezza con cui sono protetti i bambini nel corpo della mamma. Quella sera fui costretto a dirgli che … la Chiesa nel Decreto si riferiva alla tessera quella interiore: “… quella che pian piano mi pare che tu abbia cominciato a strappare da te senza che neanche te l’abbia chiesto”».

«Fratello prete babbo»

Il senso di paternità da priore sarà ancora più viscerale. E come ogni padre anche don Lorenzo sente la ferita di dover lasciar volare in libertà i suoi figli. I ragazzi che abitavano con lui (in particolare Michele e Francuccio Gesualdi) erano per Lorenzo più che semplici ragazzi d’altri. Erano più suoi che dei loro genitori. La scuola allacciava rapporti tra maestro e discepoli che definire socratici è ancora poco (uso questo aggettivo anche perché a Barbiana i ragazzi conoscevano benissimo l’Apologia di Platone. Il legame socratico diventerà un capo d’accusa con la Lettera ai Giudici: don Milani verrà accusato di plagio nei confronti delle generazioni più giovani. A Barbiana indistintamente erano tutti discepoli e maestri. Don Lorenzo era il maestro, dall’autorevolezza indiscussa (e indiscutibile! La scuola – sosteneva – non è democratica). Lorenzo per molti ragazzi fu padre e madre: fratello prete babbo. Egli pensava a farli studiare, mandarli all’estero, avviarli a esperienze nuove di lavoro, verso il sindacato, senza troppe interferenze familiari…

Da un suo «figlio» un giorno giunse una lettera colma di critiche verso la

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scuola. Per il priore fu l’occasione per ripensare il ruolo di padre possessivo e intransigente. Don Lorenzo è amareggiato da questa lettera in cui emerge che la colpa di cui è accusato è la scuola come inganno. A Barbiana poi non c’erano segreti per nessuno: si parlava apertamente di tutto e don Milani teneva relazioni strettissime con ciascuno dei ragazzi. Anche per questo voleva che dall’estero i ragazzi scrivessero spesso, raccontandosi e comunicando tutte le esperienze e le avventure, perché arricchivano tutti gli

altri. La lettera di Michele161, però, proprio perché giungeva da un prediletto, fu una pugnalata: il priore si sentì ferito non solo nell’orgoglio del maestro (la scuola aveva fallito?), ma soprattutto nella sua paternità. In questa lettera troviamo enunciata la finalità della scuola: la piena e totale libertà di ogni coscienza:

«Caro Michele, ringrazio Gosto di averti dato occasione di arrabbiarti e scrivere finalmente tante cose. […] Se la vita t’ha insegnato cose che io ignoro perché non me le insegni? Ma non in un momento di ira come se tu ti divertissi a farmi sapere che questi ultimi anni della mia vita li ho sprecati a preparare ragazzi non adatti alla vita, in un sogno tutto fantastico d’un mondo irreale, parto d’una povera fantasia malata d’un

povero borghese educato sotto terra e poi esiliato in un deserto162 a ripetere vecchi luoghi comuni che non significano più nulla o peggio che non hanno mai significato nulla perché la “vita” in quarant’anni non l’ha mai conosciuta. So bene che molto aspetti della vita moderna mi possono sfuggire, ma questo è anche colpa tua. Informami meglio. Parlami delle ore quando sei qui, raccontami esattamente come sono e come vivono le tue attiviste, in che rapporti siete, quali sono le mode di oggi alle quali ritieni giusto piegarti e che io troppo illuso non riesco a capire. […] In cosa ti avevo ingannato? O ti avevo illuso? […] Stanotte, non potendo dormire per la tosse, ho pensato tutt’a un tratto che era meraviglioso veder sgorgare dalla mia scuola un virgulto vigoroso e diverso, con tutti i suoi segreti gelosi, con un’infinità di ideali in comune con me e con un’infinità di segreti suoi che non spartisce con nessuno nemmeno col fratello prete babbo che io sono per lui. Che era meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo, perché è segno che quel figliolo è un uomo e non ha più bisogno della balia, e qui è il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano

161 Barbiana, 15.12.1963 in LPB pp. 198-203

162 Si riferisce al trasferimento forzato da San Donato alla parrocchia di Barbiana: egli lo

definiva senza troppi giri di parole deserto, esilio (come documentato in EB da M.

Gesualdi).

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deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso. Ti voglio tanto bene e penso sempre a te, quella sera stessa ho sputato un po’ di

sangue163 (poi è risultato che non era nulla di grave), ma sul momento mi ha fatto sorridere di gioia (sai che gli ebrei pensavano che il sangue fosse la vita?), mi divertiva l’idea di sputar la vita e di non svenire (io che son sempre svenuto alla vista del sangue) perché la sputavo nell’attimo in cui avevo finalmente capito quel che non avevo capito, cioè che la scuola deve tendere tutta nell’attesa di quel giorno glorioso in cui lo scolaro migliore le dice: “Povera vecchia, non ti intendi più di nulla!” e la scuola risponde colla rinuncia a conoscere i segreti del suo figliolo, felice soltanto che il suo figliolo sia vivo e ribelle. […] Io ho capito qualcosa, ma anche te devi capire qualcosa. Io son vecchio ormai e devo prepararmi solo a morire e lasciar vivere, ma non sono ancora morto. Te sei grande ormai e devi fare quasi tutto da te, ma forse non tutto ancora! E poi l’amicizia si deve conservare sempre e l’amicizia è fatta di comunione di interessi di conoscenze d’affetti (non d’idee)».

Il maestro non aveva vergogna di farsi discepolo dei suoi discepoli. I parti (e le partenze) sono sempre dolorosi, ma quando un figlio dell’uomo è dato generosamente e umilmente alla luce, ci si può ritirare dalla scena. Del resto il maestro nei confronti del suo discepolo è come l’evangelico amico dello sposo nei confronti della sposa. La sposa è il discepolo e lo sposo non può essere di meno della Vita. E per don Milani, certamente Dio. Già diceva ai suoi ragazzi che non si può spendere la vita per qualcosa di meno che non sia Dio. E se un figlio comincia a camminare con le sue gambe non è forse riuscita la scuola? Se un figlio comincia a fare obiezione alla scuola che lo ha generato non significa forse che si sta preparando a ben altre obiezioni di coscienza, o meglio... ad altre obbedienze alla Vita? Non dovrebbe essere orgogliosa una scuola che ha generato libertà e autonomia?

163 Sono gli evidenti segni della malattia di don Lorenzo che lo condurrà alla morte nel

giugno del ’67.

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5. Le incomprensioni della «madre» Chiesa

Esperienze Pastorali (o Esperienze Trappolari)

La Chiesa: il tasto più travagliato di don Lorenzo. Abbiamo già avuto modo di toccare con mano quanto fosse forte il senso di appartenenza di don Milani alla Chiesa, e quanta passione, senza enfatizzazione, per questa «madre dai

capelli bianchi»164, «matrigna», «ditta»165, che non ha sempre capito questo figlio poco incline a lasciarsi domare e pur sempre ostinatamente fedele: un ribelle ubbidientissimo. Don Lorenzo sapeva di essere un figlio che non voleva rinunciare ai suoi ideali, ed era ben consapevole che le sue impennate creavano sconcerto. Già dagli anni di Seminario si era mostrato agitato tant’è che il suo rettore monsignor Giulio Lorini paventava l’idea seria di lasciarlo a casa; e sappiamo della difficoltà della sua prima nomina, nella quale era dovuto intervenire come intercessore il suo padre spirituale don Bensi. A quanto pare la curia fiorentina era imbarazzata circa la destinazione di questa vocazione adulta: non si trovava una parrocchia adatta a lui.

Nei confronti della Chiesa convivono in don Lorenzo sostanzialmente due atteggiamenti: a) da una parte, e abbiamo già avuto modo di vederlo, l’idea di mistero della Chiesa, come realtà soprannaturale dispensatrice delle grazie di Dio (Parola, sacramenti, dottrina). La Chiesa è funzionale alla salvezza dell’uomo: da questo punto di vista per don Milani la Chiesa è intoccabile nonostante le sue rughe. Nella prospettiva del suo possedere in solido il dogma la Chiesa ha un’autorità somma: solo lei è garante unica. Da quest’ortodossia don Milani non vorrà mai uscire; anzi è orgoglioso di poter essere dentro senza mai aver avuto un avviso di garanzia dottrinale. Questa certezza lo rendeva autorevole anche all’interno della sua scuola, e superiore nei confronti di qualsiasi altra «dottrina» laicale, ritenuta inferiore. Con l’autorità della Chiesa non si scherza, perché la Chiesa è certezza di un volto Santo, di un Mistero, che supera l’uomo. Solo grazie alla Chiesa don Lorenzo è ciò che è. Da essa ha ricevuto tutto. Di fronte a questa Chiesa egli sa di essere responsabile. Anche e soprattutto della salvezza delle anime che gli vengono affidate. Sa che la sua povera parola di prete deve essere fedele interprete di una volontà che passa attraverso la Chiesa, e chi si accosta al

164 EP p. 274

165 EP p. 269 «Ragazzi vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio soltanto per

darvi l’istruzione e che vi dirò sempre la verità d’ogni cosa, sia che faccia comodo alla mia

ditta, sia che le faccia disonore». Cfr. il legame tra Scuola, Chiesa e Verità.

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prete deve rendersi conto subito della grandezza della «madre».

b) La Chiesa, dall’altra parte, è anche fallibile in tutti i suoi ministri, perché anch’essi sono uomini peccatori. Nella Chiesa, perciò, tutti sono sullo stesso piano, e come tutti possono sbagliare tutti possono essere nello stesso tempo corretti. Come non accetterà che la Chiesa venga osteggiata così non accetterà che non si possa indirizzarle qualche critica. È la Chiesa della gerarchia, non ha lo Spirito Santo che la informa in modo diretto. È la Chiesa verso la quale ogni figlio può esercitare, anzi deve, il suo dovere di correzione.

Della Chiesa in genere non vanno taciute le magagne e i limiti, perché la Chiesa o la si ama e la si serve in questo modo o non si è mai iniziata ad amarla, e non si è mai cominciato a servirla. Il cristiano è per definizione colui che ha il sommo dovere di dire alla gerarchia dove sta sbagliando, sempre con umiltà e nel rispetto, ma con altrettanta fermezza. Non mancano negli scritti di don Milani frasi colorite e che a prima vista sembrano irriverenti: come non vedere la patina di accoratezza con cui scrive. Per don Lorenzo era impossibile rimanere in un linguaggio e vocabolario da salotto bene, dove vige il vezzo di non offendere nessuno e lasciare lo status quo. Proprio perché – questo va sempre tenuto presente per don Lorenzo – si deve difendere a tutti i costi la Verità (che è in qualche modo della Chiesa ma che spesso dalle persone-guida, dai pastori, non è sempre trasmessa in modo corretto), la Verità non va nascosta o detta a metà; e proprio perché la Chiesa non rischi di imboccare tunnel di ambiguità occorre che qualcuno si prenda la responsabilità della denuncia aperta, a costo di pagare di persona.

Così su questo preciso compito e dovere di servire la Chiesa attraverso la critica e la corretta informazione don Milani scriverà un accesissimo articolo-lettera a Nicola Pistelli giovane direttore di Politica, settimanale della sinistra cattolica di Firenze, e che invece non venne pubblicata subito, ma solo postuma nel 1968 su l’Espresso. L’articolo-lettera è datata Barbiana, 8.8.1959

con questo suggestivo titolo: Un muro di foglio e di incenso166 da cui estrapoliamo i prossimi passaggi. L’articolo è anche un saggio sul giornalismo e l’informazione. Il muro di foglio è, appunto, l’informazione reticente e addomesticata dei giornali scritti e parlati. Il muro di incenso è il diaframma di vellutata cortigianeria e di appiccicoso ossequio che isola i vescovi relegandoli nella categorie dei «tagliati fuori». Il compito si fa serio. Occorre far aprire gli occhi se non si vuole che la Chiesa venga pilotata. E strumentalizzata. E, dunque, se non sono i cristiani – i pastori in primis – chi può aprire correttamente le menti e gli occhi a quei vescovi che rischiano la malattia di ottundimento mentale? Don Milani ha seriamente paura di questi

166 LPB pp. 122-137

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depistaggi anche perché aveva già provato in due precedenti occasioni cosa significava una cattiva informazione. Basti pensare, innanzitutto, alla vicenda elettorale del ’48, quando a San Donato don Milani si era esposto in modo esplicito indicando candidati al voto e proibendo altri. La Curia avendo raccolto il vociare del prete politicizzato, soprattutto quello dei vicini confratelli nel sacerdozio, aveva reagito contro il cappellano. In quell’occasione don Lorenzo aveva dovuto «emigrare» per qualche tempo in Germania. E poi, l’altro episodio, la vicenda pilotata che seguì la pubblicazione – nel ’58 – di Esperienze Pastorali. La vicenda fu così travagliata che Michele Gesualdi, ancora giovane ragazzo, aveva scherzosamente

ribattezzato il saggio del priore come Esperienze Trappolari167. Dopo la stroncatura pubblica di padre Angelo Perego sulle pagine di Civiltà Cattolica, quindicinale dei gesuiti, e di monsignor Fausto Vaillanc sulla Settimana del Clero, il Vaticano impose il ritiro dal commercio del libro. Don Milani era consapevole di aver fatto tutto nell’ortodossia. Il libro aveva passato il vaglio della censura, il revisore – il padre domenicano Reginaldo Santilli – aveva dato il suo nihil obstat e il cardinale di Firenze stesso Elia Dalla Costa il suo imprimatur (anche se qualcuno è propenso a dire che fu don Bensi a strappare all’anziano porporato il consenso). In più il libro aveva una lunga prefazione a cura di monsignor Giuseppe d’Avack, arcivescovo di Camerino. Non c’era nulla da temere. Don Milani stizzì di fronte al vespaio che la stampa creò intorno al libro e al fatto che molta dell’informazione aveva raggiunto le alte sfere gerarchiche sviando completamente la sua immagine e le intenzioni dello scritto.

Ci sono voluti cinquantasei anni per far cadere la condanna di Esperienze Pastorali e «l’arrivo di papa Francesco» nel 2013, testimonia Michele Gesualdi. «Infatti le richieste di revoca che abbiamo presentato puntualmente ai vari Pontefici che lo hanno preceduto, non erano mai state prese in considerazione. Finalmente nel 2013 papa Bergoglio, grazie anche al parere favorevole del Cardinale Betori (attuale arcivescovo di Firenze), ha considerato decaduta quella condanna e il libro oggi può essere letto da tutti i

cattolici senza senso di colpa»168.

Nel sua precisa critica e denuncia don Lorenzo non rinunciò alla sua arma fiorentina sanguigna e all’eccesso di schiettezza (sempre che possa esistere una sorta di eccesso in questo senso). Egli rivendica il diritto e il dovere di criticare le gerarchie ecclesiastiche. La lettera-articolo è motivato non solo dallo scandalo per le posizioni di qualche porporato e che Milani giudica

167 EB p. 155

168 EB p. 203

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inaccettabili perché simpatizzanti verso il governo di destra del dittatore Franco nella cattolicissima Spagna, ma anche dal tentativo di fare Verità, o meglio di far sì che la Verità non debba vestirsi di menzogna. Nello scritto don Lorenzo accenna al fatto che mentre il dittatore omaggiava la Chiesa, circondata dal «muro di foglio» dell’informazione scorretta e faziosa, venivano torturati su suo ordine i ribelli al regime. La notizia non era stata data nemmeno dai giornali cattolici italiani. Don Lorenzo la lesse su una rivista francese. Dunque, sull’amore per la Verità fonda il suo amore per la

Chiesa169: egli la desidera chiara e trasparente verso i suoi figli che sono tali nel momento in cui si inginocchiano per chiedere l’assoluzione del peccato e faticano a nudificarsi per ciò che sono. La lettera-articolo è anche un breve saggio di ecclesiologia.

«Caro Nicola, […] la via che conduce alla Verità è stretta ed ha ambo i lati precipizi. Esistono eresie di sinistra e eresie di destra. Il fatto che un cardinale penda verso le eresie di destra non dà ad esse patente di ortodossia. Siamo nella Chiesa apposta per sentirci serrare dalle sue rotaie che ci impediscono di deviare tanto in fuori che in dentro. […] Del resto se ti restasse qualche scrupolo hai nella Chiesa un altro motivo di serenità ed è che essa è viva ed è lì apposta per richiamarti coi suoi decreti ogni volta che ce ne fosse bisogno… Se questa tranquillità la Chiesa non ci potesse dare non meriterebbe davvero di star con lei. […] Cattolico è dunque chi si ricorda che i cardinali e i vescovi son creature infallibili. Eretico chi mostra per loro un rispetto che travalica i confini del nostro Credo. […] noi la Chiesa non la lasceremo perché non possiamo vivere senza i suoi sacramenti e senza il suo insegnamento. Accetteremo da lei ogni umiliazione, anche, se sarà necessario, di inginocchiarci davanti a Gedda caudillo d’Italia, ma ce lo dovrà dire il Papa con atto solenne che ci impegni nel dogma. Non il giornale della Fiat. E fino a quel giorno vivremo nella gioia della nostra libertà di cristiani. Criticheremo vescovi e cardinali serenamente visto che nelle leggi della Chiesa non c’è scritto che non lo si possa fare. […] La critica ai

169 Egli rivendica davanti a tutti e alla Chiesa stessa quell’«amore appassionato per una

Chiesa in cui viviamo, da cui non ci siamo mai staccati neanche in prove durissime, una

Chiesa che vogliamo migliore e non distrutta. E quale mai interesse se non di Paradiso, ci

può far star con lei dopo le figure che ci ha fatto fare?» (Lettera a Nicola Pistelli in LPB p.

130). La critica feroce di don Milani per la Chiesa se non va collocata dentro questo

orizzonte rischia di essere fraintesa. Questo non significa che non si debba prendere le

dovute distanze anche dalle stesse posizioni di don Milani; saremmo però frettolosi se

giudicassimo la polemica milaniana come altezzosa e superba, e non invece come moto di

carità.

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cardinali e ai vescovi è lecita ... doverosa: un preciso dovere di pietà filiale. E un nobile dovere anche, proprio perché adempirlo costa caro. Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo ‘il loro bene’ e cioè che diventino migliori, più informati, più seri, più umili. Nessun vescovo può vantarsi di non aver nulla da imparare. Ne ha bisogno come tutti noi. Forse più di noi per la responsabilità maggiore che porta e per l’isolamento in cui la carica stessa lo costringe. E non c’è superbia voler insegnare al vescovo, perché cercheremo di parlargli di quelle cose di cui noi abbiamo esperienza diretta e lui nessuna. […] Il vescovo ha un campo in cui può trattarci tutti come scolaretti. Ed è il Sacramento che porta e quelli che può dare. In questo campo non possiamo presentarci a lui che in ginocchi. In tutti gli altri ci

presenteremo in piedi. Talvolta seduti e su cattedre170 più alte della sua. Quelle in cui Dio ha posto noi e non lui. L’ultimo di noi ne ha almeno una di queste cattedre col vescovo davanti a lui come scolaretto. […] Nessuno di noi si è curato di educare il suo vescovo e se tanti vescovi, vengon su come li vediamo, sicuri di sé, saputelli, superbi, ignoranti, enfants gâtés come potremmo voler male a uno di loro, noi che non abbiamo fatto nulla per tender loro una mano e riportarli al mondo d’oggi e alla umiltà cristiana e alla giusta gerarchia di valori? […] Non vien voglia di dire al vescovo ciò che si pensa. È più comodo trattarlo coi soliti dorati guanti di menzogna che danno modo a lui e a noi di vivere senza seccature… Passa per il mondo senza toccarlo. Non abbastanza alto per essere illuminato dal Cielo. Non abbastanza basso per insozzarsi la veste e imparare qualcosa. […] E come è tragico e ingiusto che il pastore sia rimasto indietro alle pecore! E come potremo non reagire a questo fatto assurdo? Il rispetto? Tacere non è rispetto... Disinteressarsi del prossimo è egoismo. Disinteressarsi dell’educazione di fratelli che hanno in mano tanta parte del bene della Chiesa è disinteressarsi della Chiesa! Meglio essere irrispettosi che indifferenti davanti ad un fatto così serio. […] Dopo la critica la miglior forma di educazione che possiamo dar loro è di informarli. Le informazioni di un vescovo da dove credi che arrivino? Credi che abbia un apposito servizio di telescriventi che lo collega col Vaticano e in Vaticano a sua volta col mondo intero? Non l’ha. Oppure credi che abbia un filo di comunicazione diretta con lo Spirito Santo? Non l’ha neanche il Papa. Lo Spirito lo assiste, ma non lo informa. […] E che rispetto è mai quello di vedere il nostro padre ingannato ogni giorno, menato per il naso dai padroni della stampa e del mondo e star lì in umile silenzio e lasciar

170 cfr. la cattedra della povertà.

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fare? […] È colpa nostra se il cuore del nostro vescovo è guidato coi fili dai giornalisti. Dai giornalisti il cui cuore a sua volta è guidato coi fili da chi?... È una catena di responsabilità “irresponsabili” che aggroviglia tutto e disonora in conclusione noi, la nostra gerarchia, la nostra Chiesa. E poi c’è la figura patetica di quell’uomo prigioniero nell’informazione reticente e nell’ossequio vile. E fa pietà non solo per i cristiani e per i lontani che egli ha ingiustamente disorientato, ma anche per lui stesso. Un prigioniero bisogna aiutarlo a liberarlo e tanto più quando è prigioniero nostro padre. Se non gli sbraneremo il muro di carta e non gli dissolveremo il muro di incenso, Dio non ne chiederà conto a lui ma a noi. Ci toccherà rispondergli di sequestro di persona. Dopo tutto quel che abbiamo patito in questo mondo ci ritroveremo nell’Altro becchi e bastonati».

La cattiva informazione la subì il Sant’Uffizio che chiamò don Raffaele Bensi a testimoniare circa il libro Esperienze Pastorali. Alla mamma don Lorenzo scrive dell’eco delle stroncature delle due riviste che si erano accanite su di lui. È consapevole che «sia il principio della fine del benessere»; scherza ancora con la mamma su un possibile «trasferimento a una parrocchia più piccina»(!); ma nello stesso tempo è disponibile a lasciar distruggere il libro se questo significasse disobbedienza alla Chiesa, perché niente ha più valore, nemmeno il suo libro perciò, del rimanere dentro la Chiesa.

Al revisore Santilli don Lorenzo aveva espresso le sue paure circa le conseguenze possibili dell’uscita del libro che egli non aveva scritto per polemica, ma per amore a questa Chiesa e per far riflettere i preti su alcune sue intuizioni, e di cui voleva semplicemente far partecipe il suo clero. E, cercando di parare i colpi, con la sua solita ironia e analisi fredda fa l’elenco

dei possibili esiti del libro171:

«Il ritiro dal commercio. Io non ho ricevuto né avrò parte negli utili […]. Se il libro fosse messo all’Indice, chiederei al Cardinale il permesso di tenerne una copia per mio uso, per potermela rileggere quando sarò vecchio e sorridere bonariamente sui miei affetti giovanili […]. Sofferenza interiore per mancanza di sfogo... migliaia di preti e laici han sentito la mia voce e centinaia di persone mi hanno scritte lettere commoventi di affetto, di

solidarietà, di gratitudine172. Scrupolo interiore d’aver fatto immenso male

171 Lettera a padre Reginaldo Santilli, Barbiana 10.10.1958 in LPB pp. 86-89

172 Dopo l’uscita del libro – nel 1958 – moltissimi dell’area anche più laica si strinsero

attorno a don Lorenzo, in tutti i modi, pur non conoscendolo ancora. Il commento positivo

arrivò anche da don Primo Mazzolari sulle pagine di Adesso, anticipate da una lettera

entusiasta: «Caro don Lorenzo, sono arrivato all’ultimo capitolo delle Esperienze pastorali

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alle anime e alla Chiesa non riusciranno a infondermelo e non solo per le tante testimonianze contrarie che ho qui sott’occhio, ma soprattutto per un semplicissimo motivo che si legge nella Dottrina: quando accuso un peccato in confessione mi sento sempre domandare se l’ho fatto con piena avvertenza e deliberata volontà».

Don Lorenzo non aveva agito con la consapevolezza di fare del male; anzi: l’idea era quella di aiutare ad aprire gli occhi, come egli li aveva aperti sulla sua situazione a San Donato e Barbiana. Credeva di fare un servizio alla Chiesa…

«Scrupolo canonico non ho. Sono perfettamente in regola: ho consegnato un manoscritto al mio Padre Spirituale ed egli me l’ha reso con l’Imprimatur del mio Vescovo e con la Prefazione impegnatissima di un

e non so attendere la fine perché la voglia di buttarti le braccia al collo, è incontenibile. È

uno dei più vivi e completi documenti di sociologia religiosa. Il clero italiano ti deve essere

riconoscente» (Bozzolo 22.5.1958 in «Perché…» pp. 146-147). In realtà don Milani, che

s’aspettava «una discussione di più alto livello», non apprezzò per nulla la recensione

scarna di don Mazzolari (Adesso 1.7.1958). Comunque, EP impose sulla scena della Chiesa

italiana il «personaggio» scomodo del priore «montanaro». Barbiana era un porto di mare

per le numerosissime e autorevoli persone che salivano a conoscere il priore autore di quel

libro ritenuto saccente e presuntuoso perché voleva impartire lezioni alla Chiesa,

inopportuno per la formazione dei giovani sacerdoti, dannoso anche per i laici che

avrebbero avuto un’immagine distorta della Chiesa, della sua azione pastorale e del

cristianesimo in genere, deleterio per la scelta «rigidamente classista» del problema

sociale. Un libro che prestava il fianco a forze non certo in linea con la Chiesa, e soprattutto

si ribellava alla saggezza millenaria della Chiesa. Il provvedimento del Sant’Uffizio –

L’Osservatore romano, 20 dicembre 1958 – toglieva dal mercato il libro e ne vietava la

ristampa; inoltre metteva in guardia i sacerdoti da «ardite pericolose novità, che

minacciava di insinuarsi nell’anima di certi soggetti meno preparati al grave e arduo

compito dell’apostolato in campo sociale» (in Dalla parte… p. 264). Bisogna attendere il 21

novembre 1970 perché un altro illustre gesuita, Giuseppe De Rosa, risarcisse post mortem

don Milani con un encomio solenne nei confronti di EP. Affinati definisce EP

l’«enciclopedia antropologica di San Donato (L’uomo… p. 115 e 111). La vicenda del libro

merita l’accenno a papa Giovanni XXIII che per don Milani fu «un lampo di luce passato

per sbaglio là dove ci deve essere solo il buio»; in una lettera il priore scrive, alludendo a

papa Roncalli, che «il libro fece molto rumore quando uscì nel ’58. Poi è stato sorpassato a

sinistra da un Papa! Quale umiliazione per un “profeta”! Lo considero perciò

superatissimo» (in Don Milani. Ideario [a cura di M.L. OGNIBENE e C. GALEOTTI, ed. Stampa

alternativa 2007, p. 33]). «Giovanni XXIII, per primissima cosa, dette autonomia ai vescovi

e il cardinale Ottaviani approfittò immediatamente per condannare il mio libro. Però

Giovanni XXIII non permise che fosse messo all’indice, intervenne perché non fosse messo

all’indice, perché a lui gli andava tutto bene» (in Ideario, p. 38)

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altro Vescovo. Non sono irreligioso e superbo come quel tale che si

permette di ignorare due Vescovi173 e disprezzare il loro sacramento. Additarmi all’infamia non possono perché io mi piegherò subito a qualsiasi provvedimento e dunque infame non sono […]. Di farmi perdere l’affetto dei miei vecchi scolari non hanno potere. Dicono che la scuola sia il mio feticcio. Non è vero. Ma creda che la gratitudine di quei ragazzi e delle loro famiglie è a prova di bomba. Somiglia davvero a quella che si ha per i genitori e non cadrebbe neanche se, per ipotesi, mi vedessero sbagliare. E allora mi colpiranno con un provvedimento? Se mi togliessero

Barbiana mi toglierebbero poco. C’è sei anime174 sole (gli altri novanta son contadini). Un’altra Parrocchia adatta per me non l’hanno e del resto non la prenderei. Di cambiamento me ne è bastato uno. Se non sarò giudicato capace di fare il Parroco a Barbiana vorrà dire che Dio mi chiama a lasciare l’apostolato e cercare una via di maggiore raccoglimento. Questo è il patto che abbiamo fatto tra me e Lui. Mi lasceranno a Barbiana e mi costringeranno a mutare mezzi di apostolato? Non lo credo. Sarà forse eresia dire che la scuola è mezzo migliore che non il flipper. Ma non sarà peccato stare, come sto, quassù sul Monte Giovi senza dar noia a nessuno e far scuola a 6 poveri bambini. Del resto se mi costringessero a mettere il televisore vuol dire che saranno costretti a portar quassù la luce elettrica e sarà un comodo per me e per questi infelici. […] Non ho motivo di allarme per me né velleità riformiste o ereticali. Sono allenato a prender quel che mi danno senza far tragedie e tentando piuttosto di leggerci dentro quale sia il modo più semplice di sortirne in Grazia di Dio e salvarsi l’anima. Non mi ribellerò mai alla Chiesa, perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa».

173 Si riferisce a padre Perego. Che la pubblicazione avesse ricevuto il placet della

gerarchia era una garanzia di ortodossia. Sconfessare don Milani era sconfessare la stessa

gerarchia.

174 Non è una frase di disprezzo. Solo che nell’idea di Milani il fine della Scuola era

appunto l’umanizzazione della persona e la riconquista della dignità; cosa che per il

momento competeva solo ai sei ragazzi della prima ora che frequentavano la scuola.

L’anima è un concetto pastorale: è la persona in condizione di essere educata alla fede. Per

gli altri novanta, non ancora persone, perché non ancora educati, non si addiceva la

qualità di anima. Perciò don Lorenzo può ben dire di avere una parrocchia di sole sei

anime!

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L’amarezza

La vera amarezza per don Milani non era soltanto la stroncatura del libro o della scuola quanto l’immobilismo della Curia fiorentina e del suo cardinale (in specie Florit nella questione del processo per la risposta ai cappellani militari) sulle urgenze pastorali della Chiesa del suo tempo. Avrebbe desiderato, e lo implorava come garanzia di salvezza e non solo del suo operato, avere diretta testimonianza di paternità ed essere difeso dal suo vescovo: significava per lui la fiducia di quella Chiesa che in fin dei conti lo aveva generato e gli aveva consegnato il potere di amministrare i Sacramenti per la salvezza del popolo. Il riconoscimento oggettivo non era tanto una questione personale né la promozione delle sue idee, quanto un dire pubblicamente (soprattutto contro i nemici della Chiesa) della grandezza e forza della Chiesa:

«Rispetto per la Gerarchia! E allora rispettiamola anche nelle sue più umili propaggini. Un povero piccolo prete di montagna si può infamare

e calunniare senza far danno alla Chiesa? È onesto questo?»175.

Se la Chiesa accettava che anche solo un suo piccolo membro investito di autorità ministeriale venisse denigrato e messo a tacere, ne andava della stessa credibilità di tutta la Chiesa. Se non è credibile una parte della Chiesa anche solo in un suo insignificante pastore, allora non è credibile tutta la Chiesa. In gioco non c’era tanto don Milani, quanto la Chiesa stessa. Il che è ben più importante. Il priore soffriva: desiderava un segno di «onore» nei

suoi confronti176. Così quando la Curia, nella persona del vicario generale monsignor Giovanni Bianchi, impedì la sua partecipazione in un convegno a Calenzano sulla scuola e lo stesso vicario invitò don Lorenzo a considerare l’inopportunità di andare là dove aveva già svolto il suo ministero, don Lorenzo scrisse una lettera ferocissima (tra l’altro il vicario era stato da poco a Barbiana in visita). Era diventato «parola imbarazzante» soprattutto sulle questioni di natura politico-sindacale, sociale ed ecclesiale, onde per cui era meglio limitare la sua presenza in pubblico. Ma a questo Milani si ribellava:

175 Lettera a monsignor Francesco Olgiati, direttore della Rivista del Clero Italiano –

11.2.1959 – che aveva a sua volta recensito EP (in Dalla parte… p. 267).

176 Alla mamma circa il telegramma della Curia che impediva a don Lorenzo la

partecipazione in un convegno: «Ricordo bene che quando arrivò la nomina a Barbiana,

parrocchia di cui era già stata decretata la soppressione (senza popolo né servizi di sorta)

te li definisti con molta esattezza dei sadici. Io ci sono stato e ci sto volentieri, nonostante

che il conservarmi parroco di 55 anime suoni quotidiano insulto alla mia onorabilità

d’uomo, di cattolico e di sacerdote... voglio segni di onore e non dispettini» ([336] Barbiana

11 aprile 63, in Alla mamma… p. 390)

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«Mi meraviglio che lei [monsignor Bianchi] dopo la sua visita qui non abbia ancora capito che i miei ragazzi ed io ci sforziamo quotidianamente di vivere in una elevata atmosfera di dedizione al prossimo, di problematica religiosa, morale, politica, culturale a alto livello. È ben umiliante per noi sentirci chiamare in basso al livello puerile, dispettosetto, irreligioso delle gelosie e delle invidiuzze locali. Ma è ancora più umiliante che coloro che mostrano di vivere a quel livello trovino ascolto subito in Curia. Che la Curia si presti a far loro da portavoce, che la Curia non domandi loro: “Perché non andate a dirlo all’interessato come prescrive il Vangelo?”. Nove anni fa, dopo sette anni di incensurato apostolato, don X., don Y. e altri preti della zona vollero il mio allontanamento in modo e in circostanze infamanti e un assurdo esilio in una parrocchia disabitata (che era stata avvertita che non avrebbe avuto più parroco). Ebbero facile gioco a calunniarmi in Curia e nel popolo perché io non rispondevo. Sono stato zitto nove anni… solo perché credo in Dio e perché non stimo né quei preti né chi li ascolta. […] mi vidi arrivare il di lei telegramma che nel contesto che ora ho descritto suonava insulto alla mia onorabilità d’uomo, di cattolico, di sacerdote. […] La ringrazio comunque di avermi scritto. Una parola franca anche se malinformata mi fa più bene che il silenzio vile che la Curia ha tenuto con me nei sedici anni del mio sacerdozio. Capisco che non è tutta colpa sua se ella è circondato da così miserevoli. Forse è colpa anche dei migliori preti della diocesi che accettano gli schiaffi porgendo l’altra guancia. Così adempiono il Vangelo, ma intanto non aiutano né lei né il

Vescovo a evitare questa catena di scandali»177.

Il bisogno di riconoscimento e soprattutto di chiarezza circa il suo apostolato era così forte, che spinse don Lorenzo il 5.3.1964 a scrivere al cardinale un’altra lettera struggente in cui fa il bilancio del suo sacerdozio. Il cardinale sapendo che era entrato in ospedale e non potendolo andare a trovare perché era a Roma (tra l’altro avrebbe dovuto salire anche a Barbiana a parlare ai ragazzi e a sottoporsi alle domande degli stessi) scrisse un biglietto di paterna

attenzione178. La risposta di don Lorenzo è la seguente. È una prova di quella passione che dicevamo aprendo queste note su don Lorenzo: non gli vieta di

177 Barbiana, 20.10.1963, in LPB pp. 184-187

178 Non si sa come dalle agende personali sia uscito un giudizio così malevolo nei

confronti di don Milani: «È un dialettico affetto da mani di persecuzione. Non

preoccupazione di santità fondata sull’umiltà, ma pseudo-santità puntata verso la

canonizzazione di se stesso. egocentrico, pazzo, tipo orgoglioso e squilibrato». È un

giudizio che dopo la morte lo stesso cardinale corresse (in EB p. 185)

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esprimersi con assoluta e cruda schiettezza e amore per la Verità. Don Lorenzo non vuole solo un riconoscimento per sé, ma anche per tutta quella parte di Chiesa che egli ha creduto di servire: i poveri.

«Caro Monsignore, la ringrazio della sua lettera che non posso interpretare che come un atto di amicizia. […] Ho passato i miei diciassette anni di sacerdozio tutto teso solo verso le anime che il Vescovo mi aveva affidato. Del Vescovo non mi sono mai curato. Pensavo nella mia ingenuità di neofita che il Vescovo fosse un padre commosso della generosità dei suoi figli apostoli, preoccupato solo di proteggerli aiutarli benedirli nel loro apostolato. Pensavo che egli amasse i miei figlioli così che tutto quel che facevo per loro gli paresse fatto a lui e così il legame fra me e lui anche senza mai vedersi o scriversi fosse il più alto e il più profondo che esiste: un oggetto d’amore comune. Dopo sette anni di questa illusione idilliaca d’un tratto seppi la tragica realtà: la curia fiorentina e il vescovo erano un deserto! Allora scelsi quella che in quel momento mi parve la via della santità: per nove anni ho badato soltanto a salvarmi l’anima, a accettare in silenzio le crudeltà […] con cui calpestavate in me un uomo, un neofita, un cristiano, un sacerdote, un parroco cui in diciassette anni di sacerdozio non avete saputo trovare neanche il più piccolo appiglio per un richiamo, un consiglio, un rimprovero. Ho badato a accettare in silenzio perché volevo pagare i miei debiti con Dio, quelli che voi non conoscete. E Dio invece mi ha indebitato ancora di più: mi ha fatto accogliere dai poveri, mi ha avvolto nel loro affetto. Mi ha dato una famiglia grande, misericordiosa, legata a me da tenerissimi e insieme elevatissimi legami. Qualcosa che temo lei non abbia mai avuto. E per questo m’è preso pietà di lei e ho deciso di risponderle. Da due anni in qua i medici e alcuni segni m’han detto che è l’ora di prepararsi alla morte. Allora ho voluto riesaminare freddamente questi diciassette anni di vita sacerdotale. Anzi i loro frutti. E m’è improvvisamente saltato all’occhio che la santità non è così semplice come io credevo. Lasciarsi calpestare può essere santo, ma nel calpestare me voi calpestavate anche i miei poveri, li allontanavate dalla Chiesa e da Dio. E poi che serve amare e tacere, porger l’altra guancia ai soprusi e alle calunnie quando chi li compie è il capo della Chiesa fiorentina? Più santamente io tacevo e più scandalosa appariva la lontananza del Vescovo dai poveri, dalla verità, dalla giustizia. Ho lavorato alla costruzione della mia personale santità che (se l’avessi raggiunta) non sarebbe servita (in questa vita) che a metter in luce l’abiezione d’una Curia che esilia i santi e onora gli adulatori e le spie. Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come

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un fatto privato, qualcosa di simile all’opera di un pastore protestante. Ma io non lo sono stato e lei lo sa. […] Ho servito per diciassette anni la Chiesa Cattolica nei suoi poveri, vorrei oggi per una volta servirla anche nei suoi ministri che purtroppo fino ad oggi ho trascurato, anzi dimenticato. Ecco perché le porgo una mano. Vuole ereditare la mia umile opera? Vuole mietere dove io ho seminato? Vuol partecipare all’abbraccio affettuoso dei poveri che mi vogliono bene, che ho tentato di avvicinare al Signore, che sono talmente buoni (vorrei quasi dire “stupidamente” buoni) da essere capaci di perdonarle tutto da oggi a domani e accoglierla come uno di loro così come hanno accolto me? Vuole con un tratto di penna cancellare diciassette anni di scandali che la Curia fiorentina ha dato ai due popoli che mi aveva affidato? Vuole annettere con un tratto di penna (che è doveroso oltre a tutto) nell’ortodossia cattolica ciò che per diciassette ho eroicamente mantenuto fino allo scrupolo dell’ortodossia cattolica e che il suo comportamento fino a oggi faceva invece apparire eterodosso? […] Le chiedo solo di dire … ai miei due infelici popoli che nella Casa del Padre mansiones multæ sunt e che una di esse generosa e ortodossa fino allo spasimo è stata quella del prete che ella ha fino ad oggi implicitamente

insultato e lasciato insultare»179.

Don Lorenzo si riferisce agli episodi della sua vita più salienti e dolorosi che vogliamo ricordare ancora: l’incomprensione per la posizione elettorale del ’48 e la costrizione a respirare altra aria all’estero; lo spostamento forzato a Barbiana e la sensazione precisa di essere stato mandato via da invidie di preti locali e dalla cattiva informazione della Curia; il non essere visto di buon occhio, già dai tempi dei Seminari, da alcuni preti che occupavano posti importanti; la vicenda tormentata di Esperienze Pastorali con tutto lo strascico di polemiche e il ritiro del testo dal mercato; le offese ricevute da numerose riviste circa il suo lavoro pastorale e le accuse di classismo; il dileggio della sua scuola; l’impedimento di parlare in pubblico; la proposta atroce della escardinazione; la tristissima vicenda della lettera in risposta ai cappellani militari e le umilianti minacce da parte di molti combattenti; la chiamata in giudizio dal Tribunale a Roma; la lettera ai Giudici; l’intervista su Lo Specchio fatta da alcuni sprovveduti che volevano incastrarlo, in cui veniva tacciato come prete «rosso» (etichetta che odiava moltissimo)… e tutto questo senza che ci fosse mai una precisa considerazione della sua linea da parte dell’unico dal quale la esigeva e sperava: il suo Cardinale. Egli l’avrebbe percepita come un chiaro segno della Grazia di Dio. E questo contava per il cammino di

179 LPB pp. 207-210

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santità. Suo incancellabile obiettivo. Riconoscere il suo operato significava che il cammino di santità intrapreso era giusto. Invece…

L’impossibile dialogo nella Chiesa

C’è un altro importante documento-lettera (1.10.1964), scritto a quattro mani da don Lorenzo e don Bruno Borghi e inviato a tutti i preti della diocesi in occasione del cambiamento repentino del rettore del Seminario di Firenze,

monsignor Gino Bonanni180. Il documento è importante per la richiesta di dialogo all’interno della Chiesa. L’episodio, letto come uno scorretto colpo di spugna, è un’occasione per far riflettere il clero fiorentino sulla necessità che ci sia chiarezza e trasparenza tra il vescovo Florit (subentrato alla morte di Dalla Costa nel 1962) e il clero fiorentino. Si dice apertamente della necessità assoluta di non tacere, ma di parlare con fermezza. Questione di responsabilità ministeriale. L’unico modo di rendere servizio alla Chiesa e al suo Vescovo.

Nella lettera si fa accenno anche a due altri episodi passati sotto silenzio: il caso di padre Ernesto Balducci sull’obiezione di coscienza (che interessò anche don Milani) e la riunione preconciliare indetta dal Vescovo rivelatasi un monologo.

La mancanza di dialogo rischia di creare una frattura non solo tra i preti e il Vescovo, ma, peggio, tra il popolo e la Chiesa. È ancora una volta per amore della Chiesa, per la sua credibilità, per ciò che essa è, che don Lorenzo si espone ai suoi confratelli nel sacerdozio in modo accorato ma fermo e preciso. Il dialogo tra Vescovo e preti non potrà che far bene alla salute di tutta la Chiesa. Sarebbe una pietosa miopia fondare la Chiesa su un assolutismo che ormai, alla luce dell’appena inaugurato Concilio Vaticano II, risulta essere fuorviante e fuori dalla storia. Si spera in una Chiesa che, pur salvando la propria gerarchia, sia capace di (ri)forme collegiali e fraterne. Don Lorenzo è un prete formato prima del rinnovamento conciliare, non è un prete che pensa a una forma di Chiesa senza autorità. Qui, come altre volte, c’è in gioco la Verità che non può essere sfacciatamente contraddetta. Proprio perché don Milani non fa fatica a pensare la Chiesa come custode della Verità (soprattutto nel Dogma) la Chiesa non può tradire la Verità, altrimenti tradirebbe se stessa. Per un semplice principio di non contraddizione e per non creare corti circuiti viziosi don Lorenzo parla alla sua Chiesa e chiede coraggiosamente il dialogo e la trasparenza. Se un figlio non può parlare alla Chiesa, sua madre, e in seno ad essa, come potrà la madre illudersi di

180 La lettera è riportata in Dalla parte… pp. 302-305

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trattenere i suoi figli nel grembo?

«Siamo stati abituati a considerare il silenzio in casi simili come un segno di rispettosa sottomissione all’autorità. Ma sotto sotto sappiamo che è più comodo tacere che parlare e forse il silenzio non è che un sistema per scaricare sul Vescovo il barile della nostra responsabilità. […] Il Papa ha chiamato i Vescovi al dialogo, perché il Vescovo chiamasse al dialogo i parroci, il parroco i parrocchiani lontani e vicini. Se manca anche un solo anello di questa catena il messaggio di Giovanni XXIII e il Concilio non raggiungono il loro scopo. A Firenze un anello manca certamente: il dialogo tra il Vescovo e i Parroci e questo proprio nel momento in cui maturava l’esigenza del dialogo coi lontani: comunisti, ebrei, protestanti. Abbiamo da parlare con tutti e non parliamo al Vescovo e il Vescovo non parla a noi! Il 90% dei Vescovi e due Papi hanno scelto la via dell’apertura e del dialogo. È l’ora di svegliarsi e d’accorgersi che la Chiesa fiorentina col suo muro tra Vescovi e preti è ormai al margine della Chiesa Cattolica. Ma è anche al margine del mondo d’oggi… Quel mondo ci guarda con giusto disprezzo e si allontana sempre più da noi e dalle tante verità che a nostra volta potremmo offrirgli. […] Non scriviamo con l’intento di far recedere l’Arcivescovo dalla sua decisione sul Seminario. Quel che ci proponiamo è solo di creare una qualsiasi forma di dialogo tra noi e lui, un’usanza di parlargli, un nuovo stile di rapporto. Non è con i telegrammi di auguri, il regalo di una croce pettorale e le genuflessioni che si mostra l’amore al Vescovo, ma piuttosto con la sincerità rispettosa, il rifiuto del pettegolezzo di sagrestia. Perciò… chiediamo all’Arcivescovo che risparmi ai nostri popoli lo scandalo di un assolutismo abbandonato ormai anche dal Papa e perfino dai comunisti».

Il cardinale Florit reagì a quell’impertinenza proponendo, come già ricordato, l’escardinazione in altra diocesi.

L’obiezione e la disobbedienza di coscienza

Ci furono, poi – come ultimo capitolo della turbolenta biografia del «priore del niente» (che fece parlare tutti) – i tempi roventi della Risposta ai cappellani militari. Un gruppo di cappellani fiorentini in congedo nel giorno (11.2.65) dell’anniversario della conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano (Patti lateranensi) si erano riuniti votando un ordine del giorno nel quale

affermavano che l’obiezione di coscienza era un insulto alla patria181 e ai caduti,

181 Su questo concetto di patria ci basta questo: «Se voi però avete diritto di dividere il

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la quale poi estranea al comandamento dell’amore è invece espressione di viltà. Il tutto era apparso sulle pagine de La Nazione il giorno dopo. Non possiamo fermarci all’analisi della posizione etico-politica che tenne don Milani: basta sapere che gli costò un processo penale con il capo di accusa di «apologia di reato». Il priore scrisse una lettera in cui rispondeva apertamente spostando il problema dall’obiezione all’obbedienza e disobbedienza della coscienza in casi estremi. La risposta venne pubblicata su Rinascita il 6.3.1965. Anche il direttore Luca Pavolini venne imputato. Piovvero le accuse e le minacce, tra lettere e manifestini esposti, dai generali ai preti, agli ex-combattenti. A don Milani venne proibito telefonicamente dal

vicario monsignor Bianchi182, ormai vescovo ausiliare, la partecipazione ancora una volta a un confronto organizzato dall’amministrazione comunale di Vicchio (paese situato poco prima di salire a Barbiana) sugli aspetti religiosi, politici, giuridici dell’obiezione di coscienza, in cui don Lorenzo era l’ospite d’onore. Obbedì. Sulla vicenda, l’eco di molti giornali (Lo Specchio, la Nazione, L’Unità) fu fragorosa. Don Milani avrebbe dovuto rimanere impotente spettatore e lasciar travisare ciò che non aveva mai detto o lasciarsi infangare soprattutto da quotidiani che non meritavano la sua stima, né l’attenzione di un uomo di Chiesa? Anche in questa storia il priore soffrì per la posizione non chiara del Vescovo e della Curia. In una lettera a don Bensi (4.4.1965) egli ritorna sulla grande speranza del riconoscimento:

«So difendermi, so misurare le parole183, ma non posso far nulla contro l’atmosfera che mi ha creato intorno il vescovo […] Ho diritto di rispondere al giornale per esteso. So scrivere meglio di quel poveretto di [Magi] e potrei inchiodarlo alla sua malafede. […] Ma di fronte a tutto questo mi tocca tacere perché d’essere difeso da me non me ne importa nulla. Voglio essere difeso dal Vescovo o (se lui seguita a rifiutare di fare

mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo

il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori

dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri miei stranieri». «Anche la Patria è una creatura

cioè qualcosa di meno di Dio, cioè un idolo se la si adora» (da L'obbedienza non è più una

virtù).

182 «… spara una telefonata senza giustificarla e di nuovo mi riduce a quell’isolamento

solito, proprio nell’attimo che con sacrificio e rischio (ricevo ogni giorno lettere minatorie e

passo la notte sveglio fra che sto male e ho paura) difendo con equilibrio la verità dagli

attacchi che essa riceve» (in LPB p. 227).

183 Il Cardinale Florit dopo l’uscita della Risposta aveva scritto a Lorenzo invitandolo a

sottoporgli «… ogni eventuale suo scritto, prima di dargli pubblicità in qualsiasi modo».

Era una «prescrizione» caduta la quale Lorenzo avrebbe potuto incorrere nella

sospensione a divinis! (in LPB p. 223).

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il Vescovo) almeno da un gruppetto di confratelli che rompano la situazione assurda che s’è formata e facciano succedere qualcosa di visibile (non solo care, e apprezzate del resto, lettere di solidarietà

private a me)»184.

Don Lorenzo stava male, ed era all’ospedale quando ricevette la lettera del cardinale (25.1.1966) che più di tutte gli fece male e che lo mise di fronte all’evidenza di non essere stato capito dal suo Vescovo e di sentirsi un escluso dalla Chiesa (senza coltivare mai l’atteggiamento di vittima sacrificale). Riportiamo qualche brano anche per far capire che l’imbarazzo della Chiesa fiorentina non era dettato da una volontà di non intervento o di ignoranza dei problemi da lui sollevati. Il problema era che con don Lorenzo non si sapeva come fare. Scegliere la sua linea estrema non era certo una soluzione, e don Lorenzo non era sempre disposto a guardare le cose da un punto di vista – parziale – che non fosse il suo… E non è così vero che Florit non capì assolutamente il priore di Barbiana. Dalla lettera si può facilmente evincere che le impostazioni pastorali erano diverse: «[…] il tuo vescovo non ti ha mai rimproverato di essere un eretico! […] L’atteggiamento che assumi nelle tue polemiche, nelle tue denunce, esprime certamente un sincero amore della verità, di Dio, dei poveri, ma non di rado ferisce gli altri oppure offre occasioni o pretesti a chi vuol colpire la Chiesa o non la conosce. Tu potrai magari scuotere le coscienze, ma resta vero che l’aceto converte pochi, e una goccia di miele ogni tanto attirerebbe forse più anime a Dio… Forse le stesse cose che tu dici potrebbero essere dette con altrettanta forza e con altro tono, in modo che anche i ricchi e i cosiddetti potenti (che sono i più poveri di fede e più aridi di cuore) sentissero che nascono da un cuore che vuol bene anche a loro. Qualche volta ho l’impressione che tu abbia consapevolezza eccessiva di quanto hai sofferto, e che questo ti faccia sentire in diritto di giudicare. Di qui nasce quella certa atmosfera quasi di lotta classista che è presente nei tuoi interventi; […] chi legge si sente spinto alla zuffa più che alla riforma interiore, che è la vera lotta della Chiesa e dei cristiani […]. Tu, don Milani, sei per natura un assolutista, e rischi di produrre, specialmente fra i più sprovveduti di cultura e di fede, dei veri classisti, di destra o di sinistra non importa. […] Riguardo alla posizione del tuo Vescovo verso di te è di affetto sincero, anche se personalmente non approvo… il tuo modus. […] Il fatto che per anni sei rimasto a Barbiana è dipeso da questo: i tuoi superiori hanno creduto di non riconoscere in te la necessaria disposizione alla carità pastorale, ma piuttosto lo zelo fustigatore che ti fa apparire dominatore delle

184 In LPB la lettera non è riportata con il nome del destinatario, don Bensi, mentre lo cita

esplicitamente la Fallaci in Dalla parte… pp. 413-414

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coscienze prima ancora che padre. […] Poteva proprio la Chiesa, nella quale mansiones multæ sunt, come tu dici, approvarti senz’altro e onorarti...? Tu sei di quelle persone che certo rendono a modo loro testimonianza al Signore perché credono in lui e per lui si sacrificano, ma che sono anche

spiritualmente dei solitari»185.

Don Lorenzo era in ospedale e la stanza era piena di barbianesi e di amici. La posta venne letta ad alta voce, come faceva con quasi tutta la posta. Lesse lui. E dopo un silenzio tombale si mise a piangere forte e come reazione fulminea cacciò fuori dalla stanza tutti gli intellettuali borghesi di Firenze presenti, suoi collaboratori e amici, ma che da quel giorno furono esclusi categoricamente dalla Scuola di Barbiana:

«Siete stati voi a ingannarlo. Andate a informarlo meglio»186.

Iniziò il blocco occidentale contro tutti gli intellettuali. Non avrebbero mai capito la novità del suo pensiero e del suo atteggiamento. L’intellettuale era per sua natura classista, discriminante e non poteva capire il linguaggio del povero. Furono cacciati anche dalla scuola.

Lettera a una professoressa

In questo clima di polemica contro gli intellettuali nacque l’ultimo lavoro di cui Lorenzo vantava solo la regia: la splendida Lettera ad una professoressa. Lavoro che esaltava la scuola, la sua pedagogia e il suo fine, e che era direttamente il futuro e la speranza della scuola, perciò dei suoi ragazzi e che indirettamente costituiva il suo orgoglioso testamento,

«un canto di fede nella scuola e il manifesto del sindacato dei

genitori»187.

Un libro scritto da ragazzi poveri per ragazzi poveri. Il libro uscì un mese prima della morte di don Lorenzo. Era fiero:

«È vero… che il lavoro è tutto dei ragazzi salvo la mia regìa (ma regìa da povero vecchio moribondo)… Non voglio morire signore, cioè autore di libro. […] Così la classe operaia saprà scrivere meglio di quella borghese. È per questo che io ho speso la mia vita e non per farmi incensare dai

borghesi come uno di loro»188.

185 LPB pp. 281-284

186 LPB p. 284

187 Lettera a Gostino Burberi, Barbiana, 20.9.1966, in LPB p. 305

188 Lettera a Giorgio Pecorini, Barbiana, 7.4.1967, in LPB p. 323

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Si compiva il riscatto e l’autorealizzazione dei poveri.

«Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti

insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia»189.

E quale fu il fine che guidò don Lorenzo in tutta la sua azione pastorale-politica:

«Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Che non presupponga nel ragazzo che d’esser uomo. […] Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo sovrani […]. Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli. […] Tentiamo di educare i

ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani!»190.

Sono di sabato 24 giugno 1967 le ultime parole di Lorenzo:

«Un grande miracolo sta avvenendo in questa stanza. Un cammello che

passa per la cruna di un ago»191.

Non si possono tirare conclusioni. Il prete Milani morrà con questa convinzione che è stata la confessione della sua vita. Ha tentato l’unità tra l’azione pastorale come santificazione delle anime che ha in modo sconvolgente amato e per le quali ha dato tutto e l’azione pastorale vissuta, interpretata come azione politica, sociale, scolastica. Non c’è mai stato in lui il minimo dubbio che si potesse agire diversamente facendo distinzioni o separazioni assurde e astratte, per non dire capziose. Fare il prete significava restituire la dignità umana. L’azione sociale e politica era già per sua natura portavoce di quella più alta cristiano-sacramentale. Dare la parola non era altro che condurre all’intelligenza della fede, del mistero, della Parola. Agire per e con il povero secondo giustizia era lottare per l’unica cosa che conta per l’uomo: la salvezza. Nessuna azione di Milani può essere definita laica, in senso stretto. Ogni sua azione non può mai essere disinserita dall’orizzonte della Grazia. Si è uomini e preti per questo. Credere nel povero perché è da lì che parte il rovesciamento della potenza di Dio per la storia dell’uomo. E inizia la conversione dell’uomo. Convertirsi all’ultimo? Sarebbe troppo poco, e non è questo che Dio ha fatto. Convertirsi dalla parte dell’ultimo. E lo sguardo da questa parte cambia… e converte. Non ci si converte al povero se non a partire dal povero stesso. Altrimenti si resta intellettuali e borghesi, cioè nelle

189 LP p. 14

190 LP p. 94 e 96. Vedi anche la già citata lettera di don Milani a Meucci (LPB p 36)

191 Testimonianza raccolta dalla perpetua Eda Pelagatti, in Dalla parte… p. 506

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cose dei poveri solo (poveri!) spettatori. Con il sospetto e l’ambiguità dell’elemosina e non della condivisione. Eucarestia perciò e non spiccioli avanzati. A meno che non siano quelli della vedova del Tempio. Ma allora il poco è il tutto che serve. E più di tutto non si può dare quando è offerto secondo giustizia e verità e passione-patire.

«Noi abbiamo un’unica ragione di vita quella di contentare il Signore e di mostrargli d’aver capito che ogni anima è un universo di dignità

infinita»192.

In definitiva è proprio questo grande sforzo e passione per la dignità dell’altro che fa di don Milani un uomo totalmente a servizio del povero… ma dalla parte dell’ultimo. Il solo «suo» Signore.

«Così stando le cose è più saggio ridurre i termini a una sola semplicissima scelta. O con Dio contro i poveri o senza Dio coi poveri. E scegliendo io di star con Dio e la sua Chiesa non resta che pregare per i poveri che calpestiamo e tentare di confessarsi spesso per essere pronti al

severo castigo di Dio che non tarderà a venire e indicarci la strada»193.

192 EP p. 222

193 Lettera ad A. Meucci, San Donato a Calenzano 24.4.1954 (in La parola… p. 46). In LPB

questo passaggio è stralciato.

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Così Scrive Turoldo nell’introduzione al libro di Neera

Fallaci: Vita del prete Lorenzo Milani. Dalla parte dell’Ultimo:

«Essere come don Lorenzo? «Lui aveva un’unzione

particolare: non si può essere come era don Lorenzo, mi

permetto di dire, se non c’è un intervento diretto e particolare del

Signore. È arrivato qui con questa spinta a fare un lavoro di

evangelizzazione, a portare Dio dappertutto». E Turoldo

commenta: “ Certo non è questo che si richiede a un

cristiano: di essere copia di un altro. Ognuno ha la sua

faccia, e così ognuno ha la sua vocazione e il suo destino.

Ma di avere il medesimo spirito, questo sì. Lo Spirito di

Cristo: «Riceverete il mio Spirito». Lorenzo quando ancora

stava cercando la verità era già pieno di Spirito Santo; come è

detto di Stefano primo martire. Dunque posso e debbo imitare

Cristo, ma nessuno deve “scimmiottare” né Lorenzo, né

Francesco. A imitare i santi si può diventare anche matti, ma a

“seguire” Cristo non si sbaglia mai, sei sempre nuovo e

creativo, e adatto al tuo tempo. Perché Cristo è l’infinito di

Dio nel tempo di ciascuno» (pp. 6-7).

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Bibliografia minima

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SCUOLA DI BARBIANA, Lettera a una professoressa, LEF, 1988

L. MILANI, L’obbedienza non è più una virtù, LEF, 1991

L. MILANI, Alla mamma. Lettere 1943 – 1967, Marietti, 1990

L. MILANI, «Perché mi hai chiamato?» Lettere ai sacerdoti, appunti giovanili e ultime parole, San Paolo, 2013

(a cura di Michele GESUALDI) Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana,

Mondadori, 19705

(a cura di Michele GESUALDI) Don Lorenzo Milani, Maestro di Libertà, Firenze 1987.

E. BALDUCCI, L’INSEGNAMENTO DI DON LORENZO MILANI, BARI, UNIVERSALE

LATERZA 1995.

N. FALLACI, Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Milano Libri

Edizioni, 19774

F. MILANESE, Don Milani. Quel priore seppellito a Barbiana, LEF, 1987

E. MARTINELLI, Pedagogia dell’aderenza, Polaris, 2002

(a cura di M.L. OGNIBENE e C. GALEOTTI) Don Milani. Ideario, Stampa Alternativa, 2007

(a cura di Giovanna CECCATELLI) Lorenzo Milani. Gli ultimi e i primi, Edizioni Clichy, 2015

G. BRIENZA, Don Milani e Papa Francesco. L’attrazione della testimonianza, Cantagalli, 2014

G. LENTINI, Come bisogna essere. Don Lorenzo Milani, Centro Editoriale Cattolico Carroccio, Padova, 1991.

A. CORRADI, Non so se don Lorenzo, Feltrinelli, 2012

J.L. CORZO, Don Milani. La parola agli ultimi, ed. La Scuola, 2012

J.L. CORZO, Lorenzo Milani. Analisi spirituale e interpretazione pedagogica, Servitium, 2008

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M. GESUALDI, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, San Paolo 2016

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Ai missionari cinesi

«Ai missionari cinesi del Vicariato Apostolico di Etruria, perché contemplando i ruderi del nostro campanile e domandandosi il perché della pesante mano di Dio su di noi, abbiano dalla nostra stessa confessione esauriente risposta […] (Rom 11,19»

«Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito. È nel dormiveglia che abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, con congressi eucaristici di Franco. […] Saprà il Cristo rimediare alla nostra inettitudine. È Lui che ha posto nel cuore dei poveri la sete della giustizia. […] Un povero sacerdote bianco della fine del II millennio».

Comunità parrocchiale San Martino Cenate Sotto