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DOMENICA 7 AGOSTO 2005 D omenica La di Repubblica ZHUKOVSKIJ L e raffiche di kalashnikov, secche come frustate ta- glienti, si perdono tra boschetti di betulla e cam- pagne a grano. Da uno stagno, tra una colonia di ra- ne che asciugano sopra ninfee giganti, emergono figure minute grondanti di fango. Indossano la mimetica dei reparti d’assalto, hanno l’elmetto calato sugli occhi, calzano anfibi fino al ginocchio. Qualcuno, con gesto da veterano, ac- costa alla bocca la borraccia di alluminio verde. In fondo al pra- to, dove si immerge un pezzo di sole color ciliegia, vanno al- l’attacco di un nemico inesistente. I soldati-bambini giocano alla guerra e sognano di sfondare trincee: ma si preparano a combattere, o a non essere uccisi in battaglia, quando saranno adulti. Tra i poderi di Zhukovskij, un’ora di corriera a sud di Mosca, dopo la scuola si radunano in 183. Tre ore di allenamento al giorno, dal lunedì al venerdì, per accedere all’esercito volonta- rio dei piccoli che non vogliono aspettare di diventare grandi. Dalle sei alle nove di sera fanno vita militare, come fossero pro- fessionisti. Hanno tra i dieci e i diciotto anni e la prima cosa che imparano è attraversare i pantani senza bagnare le armi. Ap- prendono il segreto di infilare una maschera antigas senza so- spendere la corsa né interrompere gli spari. Accedono alle istruzioni per difendersi da un attacco nucleare, o batteriolo- gico. Adeguano il passo a lunghe marce, appesantite dai vec- chi zaini dismessi dall’Armata Rossa. Assemblano e smontano armi come consumati guerriglieri: l’imbrunire è celebrato dai tornei di tiro alla bottiglia. Il loro campo patriottico-militare, “Kaskad”, è privilegiato. Il poligono tra le paludi non è battuto dal vento e le autorità pas- sano gratis il liquido per sopravvivere all’unico avversario rea- le: zanzare grasse come libellule, che si tuffano sotto gli indu- menti con l’ingordigia del sorcio. Negli altri sessanta centri d’addestramento bellico per bambini, sparsi ormai ad ogni an- golo dell’immensità russa, i morsi degli insetti mietono d’esta- te più vittime del gelo invernale. I piccoli soldati dell’armata di Vladimir Putin, in quattro an- ni, sono diventati dodicimila. Hanno aderito al “Programma di educazione e di promozione del patriottismo”, caldeggiato dal Cremlino per restituire vigore alla formazione paramilitare dei giovani russi. (segue nelle pagine successive) con un servizio di GUIDO RAMPOLDI di Putin bambini I soldati cultura Così Hugo Pratt diventò Corto Maltese UMBERTO ECO il reportage Il cimitero delle regine del mare RAIMONDO BULTRINI il racconto I fantini del Palio, servi e padroni ADRIANO SOFRI i sapori Vini d’estate, anche il rosso piace fresco LICIA GRANELLO e ENZO VIZZARI GIAMPAOLO VISETTI spettacoli Muddy Waters e le strade del Blues ERNESTO ASSANTE i luoghi Tremiti, il confino a cinque stelle ATTILIO BOLZONI Hanno dai 10 ai 18 anni, ogni giorno dopo la scuola si allenano alla guerra Il nuovo orgoglio russo punta anche su questa baby-armata FOTO F. DIMIER/LIBREARBITRE Repubblica Nazionale 27 07/08/2005

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DOMENICA 7 AGOSTO 2005

DomenicaLa

di Repubblica

ZHUKOVSKIJ

Le raffiche di kalashnikov, secche come frustate ta-glienti, si perdono tra boschetti di betulla e cam-pagne a grano. Da uno stagno, tra una colonia di ra-ne che asciugano sopra ninfee giganti, emergono

figure minute grondanti di fango. Indossano la mimetica deireparti d’assalto, hanno l’elmetto calato sugli occhi, calzanoanfibi fino al ginocchio. Qualcuno, con gesto da veterano, ac-costa alla bocca la borraccia di alluminio verde. In fondo al pra-to, dove si immerge un pezzo di sole color ciliegia, vanno al-l’attacco di un nemico inesistente. I soldati-bambini giocanoalla guerra e sognano di sfondare trincee: ma si preparano acombattere, o a non essere uccisi in battaglia, quando sarannoadulti.

Tra i poderi di Zhukovskij, un’ora di corriera a sud di Mosca,dopo la scuola si radunano in 183. Tre ore di allenamento algiorno, dal lunedì al venerdì, per accedere all’esercito volonta-rio dei piccoli che non vogliono aspettare di diventare grandi.Dalle sei alle nove di sera fanno vita militare, come fossero pro-fessionisti. Hanno tra i dieci e i diciotto anni e la prima cosa che

imparano è attraversare i pantani senza bagnare le armi. Ap-prendono il segreto di infilare una maschera antigas senza so-spendere la corsa né interrompere gli spari. Accedono alleistruzioni per difendersi da un attacco nucleare, o batteriolo-gico. Adeguano il passo a lunghe marce, appesantite dai vec-chi zaini dismessi dall’Armata Rossa. Assemblano e smontanoarmi come consumati guerriglieri: l’imbrunire è celebrato daitornei di tiro alla bottiglia.

Il loro campo patriottico-militare, “Kaskad”, è privilegiato.Il poligono tra le paludi non è battuto dal vento e le autorità pas-sano gratis il liquido per sopravvivere all’unico avversario rea-le: zanzare grasse come libellule, che si tuffano sotto gli indu-menti con l’ingordigia del sorcio. Negli altri sessanta centrid’addestramento bellico per bambini, sparsi ormai ad ogni an-golo dell’immensità russa, i morsi degli insetti mietono d’esta-te più vittime del gelo invernale.

I piccoli soldati dell’armata di Vladimir Putin, in quattro an-ni, sono diventati dodicimila. Hanno aderito al “Programma dieducazione e di promozione del patriottismo”, caldeggiato dalCremlino per restituire vigore alla formazione paramilitare deigiovani russi.

(segue nelle pagine successive)con un servizio di GUIDO RAMPOLDI

di Putinbambini

I soldati

cultura

Così Hugo Pratt diventò Corto MalteseUMBERTO ECO

il reportage

Il cimitero delle regine del mareRAIMONDO BULTRINI

il racconto

I fantini del Palio, servi e padroniADRIANO SOFRI

i sapori

Vini d’estate, anche il rosso piacefrescoLICIA GRANELLO e ENZO VIZZARI

GIAMPAOLO VISETTI

spettacoli

Muddy Waters e le strade del BluesERNESTO ASSANTE

i luoghi

Tremiti, il confino a cinque stelleATTILIO BOLZONI

Hanno dai 10 ai 18 anni,ogni giorno dopo la scuola

si allenano alla guerraIl nuovo orgoglio russo puntaanche su questa baby-armata

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la copertinaScuoledi violenza

Sono diventati 12mila, in quattro anni,i piccoli fanti dell’armata segretadi Putin. Siamo andati a visitare unodei centri dove ogni giorno, dopo le lezioniin classe, i ragazzini imparano a sparare,a obbedire agli ordini, a difenderela patria. Anche a costo della propria vita

Le indicazioni del Cremlino però noncambiano. Il ministro della Difesa Ser-ghei Ivanov, compagno di Putin nelKgb, ha appena inaugurato Stella, uncanale televisivo “patriottico” rivoltoalle forze armate e ai giovani. Stipendida fame, alloggi fatiscenti, mezzi in ro-vina, arsenali abbandonati vengonofatti dimenticare con documentari diguerra, apologetici film sulla gloria mi-litare russa, interviste a obesi generali.«Dobbiamo mostrare l’aspetto miglio-re della patria — ha chiarito Ivanov allapresentazione — se vogliamo smetter-la di trasformare le persone in idioti».

Una campagna che nasconde l’ag-ghiacciante realtà. Secondo il procura-tore militare Aleksandr Savenkov, nel2004 si sono suicidati 246 giovani di le-va. In marzo, a Saratov, quattro giovanireclute si sono impiccate assieme. Ilnonnismo nelle caserme dilaga. In un

anno gli abusi sono aumentati del 25per cento, dal 1946 ad oggi i morti sonostati oltre 150mila, 323 solo lo scorsoanno. «Reduci dalle guarnigioni dibambini — dice Lev Ponomariov, atti-vista dei diritti umani — i ragazzi di le-va considerano i maltrattamenti unatradizione. Violenze e torture nascon-do però veri e propri regolamenti diconti criminali, o scontri etnici consu-mati nel silenzio dei reggimenti».

Accade così, a diciotto anni, di esseresbattuti dal colonnello a fare i manova-li in nero. L’estate scorsa è toccato aOleg, baby-soldato di Tula finito in uncantiere a Tver. «Il capo — racconta —mi ha detto che per due mesi non dove-vo più raggiungere il campo di adde-stramento volontario. Mi sarebbe pas-sato a prendere un furgone: altrimentiera meglio che non mi presentassi più».Dalla guerra simulata alla costruzione,

gratis, della casa di un generale. Assie-me a lui, altri venti ragazzini. Costo ze-ro, dieci ore al giorno, tangente incas-sata dai superiori. Fino al pomeriggioin cui un bambino-soldato-operaio didodici anni è precipitato da un’impal-catura ed è morto. «La sera — dice Oleg— eravamo di nuovo sull’attenti asmontare e rimontare il nostro kalash-nikov, come nulla fosse».

Un esercito alla deriva

Dietro ai nuovi centri patriottico-mili-tari per ragazzi emerge così la tragediadi un’armata alla deriva. Due milioni dieffettivi, tra soldati e civili, poco menodi 1.500 morti ufficiali all’anno, duemi-la generali privi di incarico, 300mila mi-litari messi a riposo forzato, 600milacosacchi appena riaccorpati alle forzearmate. Cifre da Sud America, una fru-strazione che rende i vertici feroci. «So-

lo in Cecenia — ricorda Valentina Mel-nikova — in dieci anni di guerra la Rus-sia ha perso 30mila uomini. Oltre 60mi-la sono stati feriti e resteranno invalidi.A livello ufficiale però le vittime non ar-rivano a cinquemila. Invece di pro-muovere una politica di pace, il Crem-lino premia i bambini che indossano lamimetica e nasconde i caduti».

Come Andrej. Ha dodici anni ed è en-trato nel mini-esercito di Zhukovskij daotto mesi. Il mitra che porta a tracolla èpiù alto di lui, così che deve tenerlo in-clinato. Suo padre, quarant’anni, è sal-tato su una mina in Daghestan. Ha giu-rato che un giorno lo vendicherà. «De-vo imparare — dice mentre pulisce lacanna del fucile — ad essere il più rapi-do. Con il piede ormai sento un sassoanche sotto un metro di sabbia. Soorientarmi in un deserto e in una nottesenza stelle. Ultimata l’undicesima

(segue dalla copertina)

Istituito da Stalin, soppresso daKrusciov, blandamente riscoper-to da Breznev, il “Piano di educa-zione alla guerra” è stato tenace-mente rilanciato dall’ex spia delKgb diventata presidente. «Inve-

ce di abbandonarli a perverse tentazio-ni — spiega Ghennadij Korotaev, co-mandante del “Centro militare-sporti-vo” alle porte della capitale — costruia-mo cittadini più puri e più morali».

Terminati i compiti, i soldati-bambi-ni non raggiungono i compagni per lapartita di hockey, o di basket. Rispondo-no all’appello di generali in pensione emandano a memoria il sincronismodello schieramento. Campi ed uscite so-no facoltativi, ma i nomi di chi partecipavengono segnalati a professori, ministe-ro della Difesa, servizi segreti. Sarà piùfacile accedere gratis all’università, en-trare nelle accademie più esclusive,iscriversi al partito presidenziale. LaRussia, alle prese con lo sfascio del suoesercito e con la fuga dalla leva, torna apuntare su una società fondata sulla cul-tura militare. «Ogni centro — dice OlegRozhkov, presidente dell’Unione dellagioventù russa — non accoglie più diduecento ragazzi. Meno che ai tempidell’Urss, ma più che negli anni Novan-ta, quando si cercò di soffocare questatradizione. I bambini cominciano a ca-pire che si può fare qualcosa di meglioche vendere mughetti ai semafori».

L’iniziazione militare

Anche perché, dal 2001, l’iniziazionemilitare obbligatoria è rientrata a scuo-la. Dall’ottavo all’ultimo anno, femmi-ne comprese, un’ora alla settimana è ri-servata all’“Addestramento militare na-zionale”. I più piccoli studiano le armi sumodelli di legno; ma dopo i quattordicianni imbracciano fucili automatici veri.Il diploma finale di “difensore della pa-tria”, presuppone la conoscenza diuniformi, distintivi, gradi e sezioni del-l’esercito. «Il dramma — dice ValentinaMelnikova, leader dell’Unione dei co-mitati delle madri dei soldati — è cheeduchiamo i bambini a un’esistenza ar-mata. Imparano che la forza è un valore,la violenza un vantaggio, il mitra un’as-sicurazione: e quandovengono spediti inguerra davvero,muoiono prima diaver capito dove sonoe per fare cosa».

Ai bambini-solda-to della nuova Russiacapita in realtà di nontornare a casa ancheprima di svegliarsi trale montagne della Ce-cenia. Due mesi fa, unsedicenne è mortod’infarto durante la“corsa con equipag-giamento pieno” ditre chilometri. Pocoprima aveva coperto icento metri, con gliscarponi, in 13,4 se-condi. Nel 2003, in Si-beria, un quindicen-ne è stato soffocatodal suo vomito, cheaveva otturato la ma-schera antigas. L’i-struttore aveva impo-sto una marcia di die-ci chilometri appenamangiato. «Chi tiene i corsi di adde-stramento per ragazzi — spiega PavelFelgenhauer, esperto di problemi mi-litari — non è preparato. Sono soldatiin congedo, non hanno mai lavoratocon i bambini, agiscono come se si tro-vassero in una caserma. Non trovo nul-la di buono nella reintroduzione deicorsi di guerra».

Associazioni non governative e cir-coli di intellettuali democratici, de-nunciano il pericolo di riprodurreun’adolescenza militarizzata. «Abbia-mo milioni di abbandoni scolasticiprecoci — dice il liberale Boris Nemt-sov — ma il governo si preoccupa di in-segnare ai bambini come ammazzareun uomo a duecento metri di distanza».

GIAMPAOLO VISETTI

La guerra di Andrejbaby-soldatodella nuova Russia

GIOCHI DI GUERRASopra, un bambino

soldato si esercita

alla sbarra

in un centro

“militare-sportivo”

russo. Accanto

da sinistra,

diverse fasi

dell’allenamento.

Dal 2001

il Cremlino

ha reintrodotto

nelle scuole un’ora

a settimana

di educazione

militare

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classe chiederò di essere inviato nelCaucaso». Assicura di essere pronto aduccidere e lo dice come se affermasse dipoter rubare un pugno di nocciole.

«Belle parole — riconosce a tarda se-ra il vecchio comandante Korotaev —ma questi campi di educazione patriot-tica sono solo un espediente per copri-re i furti dei burocrati. Per ottenere ifondi, stanziati da Difesa e Istruzionepubblica, devi versare il cinquanta percento nelle tasche dei funzionari. E ilgrosso dei finanziamenti non lascianemmeno i ministeri».

Sulla finta piazza d’armi di Zhukov-skij si sono radunati i 161 soldati-bam-bini presenti. Alcuni sono così piccoliche, non essendoci divise della loro mi-sura, hanno mimetizzato con la verni-ce le loro stracciate tute da ginnastica.Eseguono il presentat-arm e poi resta-no in attesa. I loro occhi non tradiscono

aspettative. «Se non vengono qui — di-ce Korotaev — finiranno al fronte sen-za aver mai visto una bomba a mano.Ne ho visti a centinaia, in una vita, per-dere le braccia provando il primo lan-cio. Più si addestrano ora e più hannouna speranza di sopravvivenza quandosaranno inviati a combattere. Nessu-no, tra i commilitoni, li aiuterà».

L’esercito dei ragazzi scioglie le righementre dal bosco sale il richiamo di ungufo. Quelli fino a quindici anni vengo-no riportati a Mosca sui pulmini. Igrandi si ficcano in bocca una sigaret-ta, saltano in bicicletta e corrono alchiosco delle birre: anche stasera liaspetta una cassa di Baltika quasi fre-sche. Bevono, come si fa al fronte.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 7 AGOSTO 2005

Il confine sottilecarnefice-vittima

Sulfinire del 2001, subito dopo l’in-gresso a Kabul delle milizie tagi-che, nella città pachistana di

Quetta cominciarono ad affacciarsicomandanti Taliban in cerca d’unnuovo esercito. L’emiro pagava bene,e se il Talib finiva ucciso in combatti-mento garantiva una pensione alla ve-dova e agli orfani: non tanto, ma abba-stanza per scampare alla morte per fa-me o per malattia. Ma il mullah Omarera un datore di lavoro ormai prossimoalla bancarotta: l’onnipotente aviazio-ne americana l’avrebbe presto privatodel suo effimero regno. Allo stessotempo i comandanti non intendevanorinunciare al soldo. Così lasciavano leloro truppe sul fronte di Kandahar esgattaiolavano oltre il confine, per fiu-tare l’aria di Quetta ed essere lesti a co-gliere le nuove opportunità.

I più previdenti andavano a bussarealla casa dove vivevano in esilio i Karzaie chiedevano di Hamid, l’afgano che dilì a poco sarebbe tornato a Kabul comeprimo ministro. Fu appunto il nipote diHamid, il ventiduenne Yama, che mipresentò uno di questi comandantipronti a cambiare bandiera. Era un uo-mo sui trentacinque anni, asciutto ecordiale. Il fatto d’essere disponibile acambiare fronte, tecnicamente a “tra-dire”, non lo imbarazzava più di quan-to provi disagio un calciatore che cam-bia squadra. La guerra era il suo me-stiere, mi disse. Non sapeva fare altro,né a quell’età poteva reinventarsi. Ov-viamente era analfabeta però potevasmontare e rimontare un kalashnikovad una velocità strabiliante, e di questoera orgoglioso. Comandava cinquantauomini, prima di lasciarli aveva discus-so con loro sul da farsi. Decisione una-nime: cercare un acquirente. Chi com-prava il comandante comprava anchela sua truppa. Il sensale, anch’egli un excomandante ormai sulla sessantina,lasciava intendere che per acquistare icinquanta armigeri occorreva una cifraa quattro zeri. Se gli americani fosserostati interessati, probabilmente si po-teva concludere l’affare per dieci o ven-timila dollari.

Il comandante Talib aveva una storiaabbastanza tipica d’un certo genered’afgani. Aveva esordito nel mestiere

delle armi al-l’età di otto an-ni, durante laguerra santacontro i sovieti-ci, come aiu-tante del cuocoaggregato aduna banda dim u j a h i d d i n ;erano agli ordi-ni di Gulbud-din Hek-matyar, a queltempo nel li-bro-paga di pa-chistani e sau-diti (ancheHekmatyar hacambiato ban-diera: ieri allea-to degli ameri-cani, oggi licombatte alfianco del mul-lah Omar). Pre-sto era uscitodalla cucina:entrato a quin-dici anni nei

ranghi dei combattenti col tempo ave-va risalito la gerarchia militare. Quan-do i Taliban, presa Kandahar, avevanomesso insieme un piccolo esercito pa-shtun, comandava già una milizia pro-pria: era un piccolo capitano di ventu-ra. S’era unito ai Taliban con la suatruppa personale non per convinzioneo per fede, ma per necessità. Un milita-re pashtun con famiglia non aveva altromodo per esercitare il mestiere: fossestato un tagico, avrebbe combattutocon l’Alleanza del nord. Certamenteaveva ucciso, probabilmente trafficatoin droga, forse razziato, torturato, rapi-nato. Ma non pareva un cattivo diavo-lo; e comunque non aveva fatto unagran carriera come invece gli assassiniafgani più efferati: per esempio il suocomandante in capo, quell’Hekmatyarricevuto come un eroico combattenteper la libertà sia da Reagan sia dalla

Thatcher. Non è vero, come in genere si crede,

che i bambini-soldato siano sempre ar-ruolati a forza. Questo certamente ac-cade in alcuni conflitti africani, dovenon è raro imbattersi nell’infanzia mi-litarizzata di cui racconta Giulio Alba-nese in Soldatini di piombo (Feltrinel-li). Per esempio quel «Super-Soldier,un bambino in tuta mimetica incontra-to in Sierra Leone: aveva tredici anni eda quattro imbracciava, non per suavolontà, il fucile… Trovava il coraggiodi uccidere grazie a droghe micidiali, diquelle che bruciano il cervello». Ma al-trove non sono necessarie le drogheper indurre un ragazzino ad uccidere,né le minacce per costringerlo ad in-dossare una tuta mimetica. Anzi è pro-babile che dei centottantamila mino-renni oggi parte attiva in eventi bellici,i più siano spinti dalle proprie famiglieverso l’apprendistato militare, vuoiperché non si sa come sfamarli, vuoiperché la guerra, dov’è endemica, fini-sce per diventare un mestiere non mol-to diverso da altri (così in Afghanistan).

Probabilmente anche i lanzichenec-chi, o i capitani di ventura del Quattro-cento italiano erano stati bambini-sol-dato come il nostro comandante Talib.Anche per questo ci paiono un po’ reto-riche le campagne contro l’impiego deibambini nei conflitti armati che in Oc-cidente impegnano ong e giornali; e discarsa utilità quel Protocollo della Con-venzione internazionale sui diritti del-l’infanzia, approvato dall’assembleagenerale delle Nazioni Unite il 25 mag-gio 2000, che vieta l’arruolamento diminorenni. Tanto più perché, man-cando un tribunale internazionale,manca anche il deterrente d’una san-zione. Infine l’indignazione spesso se-gue uno standard bizzarro. Ci scanda-lizziamo tutti per le “infanterie”, i par-goli che uccidono vestendo una divisa;ma quando i bambini vengono am-mazzati da guerrieri adulti, questo cipare quasi nella natura delle cose. Il fat-to che la ripugnante guerriglia irache-na non arretri mai davanti alla proba-bilità di fare stragi di bambini non im-pedisce ai suoi fans europei di conside-rarla una giusta “Resistenza”. E all’op-posto, le macerie di Falluja non susci-tano il minimo dubbio nel nostrogiornalismo a stelle e strisce, pur cosìproclive allo sdegno.

Chi vuole tenersi lontano dai morali-smi degli scribi può però riflettere su unfenomeno sinistro probabilmente tipi-co del Novecento. Accanto al bambi-no-soldato prodotto da necessità pra-tiche, è apparsa la figura ideologica delbambino-militante offerto alla causaper la quale ucciderà o si farà uccidere.Per esempio i kamikaze minorenni im-piegati dallo stragismo palestinese,esito ovvio d’una cultura dell’assassi-nio che si rappresenta con le foto di in-fanti minuscoli bardati di dinamite,mitra-giocattolo e sura coranica scrittasulla fettuccia stretta intorno alla testo-lina. Non siamo molto lontani dai ritiantichi in cui bambini venivano scan-nati sull’altare d’un dio vorace.

Nessuno come Pol Pot è stato così ra-dicale nella trasformazione del bambi-no in assassino. E così efficace.Vent’anni dopo il genocidio cambogia-no, lessi sul Phnom Pen Post la letterad’un sopravvissuto ad un campo di“rieducazione”, di fatto un campo disterminio. Vibrava d’un odio mortaleverso la direttrice di quel lager. Solonelle ultime righe il testo precisava l’etàdell’aguzzina: dodici anni. Non era uncaso raro. Angkar, l’Organizzazione, ilnome della struttura-ombra attraversola quale Pol Pot esercitava il suo potereparanoico, intendeva costruire l’Uo-mo nuovo partendo da chi non era sta-to ancora contaminato dal putridomondo borghese: e fosse paura o in-consapevolezza, gli adolescenti coin-volti nel progetto, in genere khmer fa-natizzati e analfabeti, si mostraronospietati come li si voleva. «Ammazza-vano con la stessa naturalezza con cuiun adulto mangia, ride, respira», miraccontò una sopravvissuta. Tra quan-ti riuscirono a scappare, molti non so-no mai più tornati in Cambogia proprioper reazione alla ferocia della genera-zione giovanissima: se quello è il futu-ro, si dissero, il Paese è spacciato. Nonsi può dire che la storia cambogiana diquesti ultimi anni abbia smentito quel-la previsione pessimista.

GUIDO RAMPOLDI

ARRUOLATI E COMBATTENTI

I minori che nel mondo partecipano

alle guerre sono stimati intorno

ai 180mila. Ma secondo la coalizione

internazionale di Ong “Stop Using

Child Soldiers” quelli arruolati

nelle forze armate sono oltre 300mila

A fine giornatai più grandisi mettono unasigaretta in boccae corrono al chioscodelle birre: bevono,come si fa al fronte

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il reportageRelitti industriali

È una spiaggia lunga cinque chilometri, sulla costa ovest dell’IndiaSi chiama Alang e fino a vent’anni fa era un paradisodi pescherecci e sabbia bianca. Oggi è abitata da 50mila sfascianaviche rottamano le petroliere e gli incrociatori venuti ad arenarsi qui,da ogni parte del mondo, imbottiti di materiali inquinanti

RAIMONDO BULTRINI

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 AGOSTO 2005

ALANG (Gujarat)

Lo sfascianavi indiano Arjun Ransir sem-bra un vecchio ma non ha più di 47 anni.Scruta col sole allo zenit il Golfo di Cam-bay dal quale esala una foschia tremo-

lante per l’effetto ottico dell’insopportabile calore e per i fumidi residui chimici lasciati bruciare a cielo aperto. «Arriva un’al-tra nave — dice — Un altro uomo morirà».

Arjun fuma una foglia di tendu arrotolata tra le dita sporchedi olio e corrose dagli acidi, mentre segue con gli occhi il pun-to lontano sul Mare Arabico dove una grande petroliera at-tende l’alta marea, ben oltre la baia di sabbia color ruggine e ilmare grigio come antracite di questa costa meridionale delGujarat. Ferma a non troppa distanza dalla leggendaria cittàsommersa di Cambay, una misteriosa Atlantide indiana del-l’era neolitica, la petroliera tra non molto raggiungerà Alang,la sua ultima meta. Sfrutterà le onde alte fino a dieci metri spin-ta da vecchi motori in tutta la sua decrepita possanza: qualco-sa come cinquantamila tonnellate di acciaio, macchinari,mobili e, come spesso accade, dannose sostanze residue.

Sager, l’Oceano, è sorgente di vita lungo tutte le coste delmondo. Anche ad Alang, un tempo incantevole oasi per resi-denti e turisti ai bordi del deserto rovente, porta soldi e un cer-to benessere, ma non per le perdute bellezze paesaggistiche,né per le colorate flotte di pescherecci del passato. La mannache da più di venticinque anni arriva ad ogni alta marea sonogli enormi pesci d’acciaio pronti a farsi spolpare dalla testa al-

la coda da un eser-cito di gnomi cheentrano ed esconoda fori praticaticon la fiamma os-sidrica lungo le al-te pareti degli sca-fi. Un affare da mi-liardi di rupie, an-che se solo piccolebriciole (e i grandirischi legati al la-voro) finiranno inmano agli operaicome Arjun.

C’è una simbio-si inquietante trala sorte di questigiganteschi va-scelli e quelle degliuomini che in tre,quatto mesi di la-voro duro e peri-coloso li fannoscomparire: glo-riose navi da guer-ra e da crociera,

transatlantici e petroliere che i paesi d’origine si guardereb-bero bene dallo smantellare a casa propria, con tutto il loro mi-cidiale fardello di materiali inquinanti, fibre isolanti a base diamianto, vernici chimiche, antiossidanti, antiruggine e idro-carburi. In questo gigantesco cimitero navale lungo cinquechilometri, il più grande al mondo, più grande di quelli diBombay e Chittagon in Bangladesh, lavorano tra i 40 e i 50mi-la shipbreakers, sfascianavi come Arjun, assoldati da 184 rot-tamatori autorizzati che comprano e rivendono all’asta ognivite della nave fatta a pezzi nel loro tratto di spiaggia chiama-to enfaticamente “piattaforma”.

Gli operai vengono quasi tutti dal Bihar, ma anche dall’Ut-tar Pradesh, dallo Jarkhand, i più poveri tra gli stati indiani. Lasorte delle circa quattrocento navi che finiscono la loro corsaqui ogni anno (nel 1990 erano appena cento) somiglia alla de-riva degli shipbreakers: lontani dalla propria terra, consape-voli che Alang è davvero l’ultima spiaggia, un pianeta doveamorfe forme di vita agonizzano tra deserto e risacche mari-ne dai riverberi metallici, dove scheletri di balene meccanicheun tempo orgoglio di armatori e capitani giacciono con le ca-rene reclinate, lo scafo aperto orizzontalmente a mostrare invivisezione i desolati saloni, le stive, i ristoranti, i ponti spogli.

Così sono finite le navi immortalate dalla serie Love Boat; lagloriosa fregata francese da guerra “Clemenceau” con le sue22 tonnellate di amianto a bordo; i transatlantici per vacanzedi lusso come “Stella Solaris” e “Stella Oceanis”; e molti altri,coi loro sofisticati pannelli dipinti o scolpiti, opere di Ema-

nuele Luzzati, Enrico Paulucci, Joseph Farcus, venduti spessocome pezzi da rottamare, se qualche collezionista ben infor-mato non fa in tempo a rintracciarli in una delle centinaia dirivendite ai lati dei cantieri. Qui giacciono mobili danesi dellametà del Novecento disegnati da Kay Koerbing per la super-chic “Winston Churchill”, i resti degli splendidi saloni da bal-lo creati da Jean Munro per la nave da crociera “Franconia”, lesedie disegnate da Gio Ponti, saloni in stile Liberty e classi-cheggianti come quelli della “Apollon” che doveva ospitare aNapoli il vertice della Nato, poi cancellato per la catastrofedell’11 settembre.

Proprio il crollo delle crociere transoceaniche dopo le mi-nacce terroristiche ha accelerato il crepuscolo dei grandi tran-satlantici, venuti a morire a branchi sulle coste del Gujarat. Eragià successo alle petroliere, decimate dall’aumento dei prez-zi del greggio e dalle nuove disposizioni seguite a disastri co-me la rottura delle stive della “Exxon Valdez” del ‘98, quandofu imposto il doppio scafo per il trasporto dei combustibili.

L’ultimo cadavere galleggiante che ha fatto rotta su Alang èl’“Eugenio C.”, ex gioiello della flotta Costa varato a Monfal-cone nel 1964. Venduta e ribattezzata più volte fino a diventa-re “Big Red Boat” per via dello scafo ridipinto di rosso fuoco, èpartita dalle Bahamas, ha passato il Canale di Suez e il porto diDubai per trascinarsi con la sua celebre carena, vanto dell’in-gegneria navale italiana, sulla spiaggia del Gujarat. La sua car-riera di «regina dei mari» avrebbe potuto trasformarla — co-me proponevano molti — in un museo navale galleggiantedella marineria italiana. Ma l’impennata dei prezzi dell’ac-ciaio (dai 150 ai 450 dollari nell’ultimo anno) ha fatto gola ainuovi armatori e l’ex “Eugenio C.”, arrivata ad Alang ai primidi giugno, morirà col suo nuovo buffo nome e senza le fanfareche l’hanno accolta per quarant’anni in tanti porti del mondo.

L’ultimo messaggio radio ha fornito al capitano e ai dodiciuomini dell’equipaggio le direttive per raggiungere il tratto dispiaggia del rottamatore acquirente, segnalato da una ban-diera e da un razzo. Poi si lascerà docilmente smantellare datrecento sfascianavi, probabilmente a mani nude e poco equi-paggiati come quelli che a grappoli stanno smembrando da-vanti ai nostri occhi una grande nave passeggeri della Tirrenia,compagnia di traghetti italiana. La nave è in avanzata fase dirottamazione presso il molo 184, l’ultimo. Le staccano i pan-nelli dei soffitti, dissaldano panche e oblò con la fiamma ossi-drica a occhi scoperti, camminano con ciabatte e a piedi nuditra frammenti di vetro e isolanti termici nei vecchi comparti-menti dove vacanzieri e pendolari hanno fatto per trent’annila spola tra Civitavecchia e Olbia.

Come un grande pesce al quale hanno tagliato la testa, la na-ve - Tirrenia della quale non si conosce il nome si erge con ilventre aperto sulla battigia. Qui i motori, sbuffando a tutta for-za per l’ultima volta, tre mesi fa circa l’hanno trascinata a sec-co per morire al suono rauco di una vecchia sirena. Gli stru-menti sulla enorme plancia di comando sono ancora quasitutti intatti, ma il proprietario della nave deve rifarsi presto dei180 milioni di rupie (50 milioni di euro) pagati alla compagniaitaliana, e li ha già venduti all’asta subito dopo l’attracco: il mo-mento in cui gli acquirenti salgono a bordo per distribuirsi ac-ciaio e legno, porte e letti, frigoriferi e suppellettili, casseforti,divani, tazze dei water.

Uno dei sorveglianti — gli odiati muqadam — al quale sia-mo stati presentati come acquirenti ci mostra i vari piani del-la nave traghetto in gran parte del tutto bui, mentre attorno lefiamme ossidriche rischiarano figure di ragazzi che scardina-no pareti e tubi. La vista dall’alto è impressionante, aperta suchilometri di costa disseminati di navi grandi e piccole che in-tere o a pezzi aspettano la fine del loro turno di smontaggio.Nelle ultime tre settimane ne sono arrivate sedici, e la baia hail colore dell’olio residuo fuoriuscito o lasciato sgorgare perpoi bruciarlo di notte, così che appena fa buio le fiamme spri-gionate dai liquami dei giganti marini emanano bagliori sini-stri su tutta la superficie dell’Oceano.

Secondo le autorità del porto sotto il controllo del GujaratMaritime Board di Gandhinagar, bruciare combustibile inmare è un provvedimento di «salvaguardia ambientale». Enon è l’unica stravaganza di questo cimitero navale, dove iproprietari dei 184 cantieri di smantellamento e rivenditaespongono ipocriti cartelli dipinti a mano per invitare gli ope-rai a indossare elmetti, guanti, scarponi e maschere e a nonusare fiamme vive in cabine a rischio. Ben pochi dei giovanibihari che abbiamo visto disossare la carcassa della Tirreniaavevano una qualche protezione, in violazione non solo delleleggi portuali (difficile incontrare poliziotti o funzionari ma-rittimi da queste parti) ma anche delle convenzioni interna-zionali come quella di Basilea che impone a tutti i paesi di neu-tralizzare i propri residui industriali (computer e navi incluse)in ottemperanza delle norme ambientali, igieniche e di sicu-rezza sul lavoro, possibilmente a casa propria.

Da Copenaghen è arrivato di recente un operatore tv che vo-leva documentare lo smantellamento della “Riky”, una navepasseggeri da 19mila tonnellate con sospetti materiali tossicia bordo, diffidato dalle autorità danesi ma accolto da quelle in-diane, nonostante esista una severa regolamentazione nazio-nale contro gli scarichi industriali e nocivi. Come accadde al-la francese “Clemenceau”, che dovette disfarsi delle sue 22

Il cimiterodelle reginedel mare

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 7 AGOSTO 2005

tonnellate d’amianto dopo una campagna in-ternazionale, la vicenda della “Riky” aveva fattoscandalo e il suo attracco era stato ufficialmente ne-gato. Ma, dicono, è bastata una trattativa via radio ocellulare tra il capitano della “Riky” e il boss degli sfa-scianavi (più potente di qualsiasi comandante della poli-zia marittima) per risolvere il problema. Sarebbe finito tut-to nel silenzio più totale se il reporter danese non fosse riu-scito a mandare in onda sui telegiornali del suo paese le im-magini della nave già mezza smembrata.

Né questa, né le altre sistematiche denunce di Greenpeacecontro i pericoli del cimitero navale cambieranno la situazio-ne, anzi. Alang fornisce all’India tre milioni di tonnellate dimetalli, il quindici per cento del fabbisogno d’acciaio del pae-se. Ecco perché qui, alla spiaggia-cimitero, sono aumentatisbarramenti e divieti agli estranei ma all’interno tutto conti-nua esattamente come sempre. Su questa costa occidentaledell’India, dove sono fiorite le civiltà della Valle dell’Indo e diHarappan, continuano a far rotta da Oriente e Occidente i vec-chi vascelli che sono riusciti a raggiungere la meta senza ina-bissarsi o restare preda dei moderni pirati dello Stretto di Ma-lacca, i pronipoti tecnologizzati di Sandokan e Sir FrancisDrake che a ritmo crescente terrorizzano armatori, coman-danti ed equipaggi di tutto il mondo.

Sostanze e vernici tossiche usate come antiruggine e antia-derente per molluschi e alghe sono le prime a venire grattatevia dagli scafi e vengono disperse tra mare e terra, cariche diveleni che l’Oceano non riesce a ripulire. Sulla strada di terrabattuta che costeggia i cantieri donne dall’età incerta, coper-te dai sari sgargianti, trasportano in equilibrio sul capo cestecon fibre di lana d’amianto usate come isolanti termici sullenavi, che ad ogni soffio di vento si levano nell’aria per restaresospese a lungo prima di finire a terra e formare quell’impastomarrone e fetido di idrocarburi, acidi e metalli che è oggi laspiaggia un tempo bianca e fine di Alang. Ma quelle fibre si de-positano anche nei polmoni per sviluppare rapidamente ne-crosi, tumori e malattie respiratorie. Ce n’è dappertutto diquesta lanetta di vetro e amianto: nei cantieri, lungo la strada,dentro il villaggio di baracche e tende dove vivono gli operai ele loro famiglie. Perfino attorno al bell’edificio rosa che dal2003 doveva ospitare una clinica di pronto soccorso per frat-turati e ustionati, ma che è rimasto vuoto. I feriti dei cantiericontinuano a dover percorrere un’ora e mezzo di strada dis-sestata fino alla vicina cittadina di Bavnagar, centro d’affariper i compratori delle carcasse del mare.

Uno di loro si chiama, o dice di chiamarsi, Vishod, è nato ecresciuto ad Alang, dove è entrato nel grande giro del riciclag-gio di ferraglia, sebbene di affari ne porti a termine pochi, im-pegnato com’è a guidare militanti di Greenpeace, ambienta-listi, giornalisti e perfino turisti giunti da tutto il pianeta per vi-sitare i cinque chilometri di spiaggia che prima del 1978 eranostati il posto magico della sua infanzia, con le nuotate e i gio-chi, le reti dei pescatori e i molluschi ancora vivi. Oggi — spie-ga — al suo stomaco non assuefatto a batteri e veleni per an-dare all’altro mondo basterebbe bere l’acqua dei pozzi sali-nizzati con cui gli operai e le loro famiglie si lavano, risciac-quano il cibo e si dissetano nei tuguri di baracche e tende a ri-dosso dei cimiteri navali. Non sarà un caso che ad Alang le sta-tistiche della lebbra siano dieci volte al di sopra della medianazionale: 194 ammalati sui ventimila registrati due anni fa.

Quando alle sei di sera i maschi tornano a casa dopo nove oredi lavoro, scuri di sporcizia e di sole, ustionati dalle fiamme pe-rennemente alimentate da residui chimici e idrocarburi, ledonne si affacciano coi bambini sulla stretta strada polverosaper controllare che l’uomo che aspettano sia tra quelli che han-no varcato i cancelli degli sfascianavi. Hanno già preparato unabacinella d’acqua scaldata, sapone da sfregare e asciugamaniconsunti e anneriti dall’uso, e sorridono al proprio marito, fra-tello, padre anche oggi scampato a una caduta, allo schiaccia-mento sotto una turbina, all’intossicazione da gas, all’esplo-sione di un container o di un serbatoio di infiammabili. Inci-denti che uccidono anche trenta, cinquanta operai alla volta.

Donne e uomini sanno bene che «il morto a nave» della ru-dimentale statistica di Arjun non è causato soltanto dagli inci-denti e che per ogni giorno di lavoro i veleni nascosti accorcia-no la vita di un mese. Ma gli stipendi degli sfascianavi sono qua-si dieci volte più alti di quelli di un contadino del Bihar. Arjunguadagna qui 83 rupie, un euro e mezzo al giorno, contro le 10del suo villaggio di Nerotholam. Con 20 rupie ci compra un chi-lo di riso, con 30 un chilo di lenticchie. Il resto — dice — lo con-serva per quando tornerà a casa da vecchio, «se sopravviverò aparecchie navi ancora», calcola col suo sorriso sdentato.

L’ULTIMO APPRODO

Sono quattrocento l’anno i transatlantici

che finiscono il loro viaggio sulle coste

del Gujarat. Tutti i demolitori (shipbreakers)

che smontano pezzo dopo pezzo le navi

(nelle foto in basso) arrivano sulla spiaggia

di Alang dalle aree più povere dell’India:

il Bihar, il Pradesh e lo Jarkhand

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il raccontoRitratti d’autore

I fantini di piazza del Campo somigliano agli avventurieri,ai galeotti fondatori di città, ai militari conto terzi. Sonoi combattenti giovani e virili che, nerbo alla mano, devono -secondo Machiavelli - battere e urtare la Fortuna che è donna,volendola tenere sotto... Le foto di Marco Delogu lo mostranoE mostrano quanto sia dura la vita di questi eroi per un giorno

Adattando a Siena, che è un mondo a parte, ma fa parte diquesto mondo, la nozione di secolarizzazione, RobertoBarzanti ha appena esortato i suoi concittadini a vivere ilPalio senza la nostalgia del Palio. Ha esposto robuste con-siderazioni, e tuttavia mi chiedo se la sua non sia una bat-taglia perduta per definizione. Uno degli effetti del mondo

dal quale gli dei se ne sono andati è la voga della venerazione supersti-ziosa: falsi dei, falsi eroi, falsi cavalli alati, finti settenani, leoni taroccati edive ritoccate. Un altro effetto è la nostalgia e, a non farne un vizio, è buo-no. Si abita una casa dalla quale sono stati rubati, o sequestrati per debi-ti, cristalli e cassetti pieni di lettere, sedie a dondolo e letti a baldacchino,e sui muri solo rettangoli più chiari commemorano i bei quadri di una vol-ta. Non si abita la terra oggi senza nostalgia della terra. Il Palio comme-mora il Palio, e però riempie ancora di vivo presente la città e la piazza.Può permettersela, la nostalgia, a condizione di non svuotarsi delle vec-chie carte e dei bei quadri e delle tende ricamate, per correre meglio in-contro alla domanda. Alle televisioni, ai soldi, alla pubblicità, al seque-stro della Fortuna e della Virtù da parte della Tecnica e della Potenza.

Della nostalgia e del rimpianto dei senesi fa parte adesso la sensazio-ne di un’usurpazione dei fantini. Mercenari al servizio della festa muta-ti — come i pretoriani della tarda Roma, come gli autisti e le guardie delcorpo e gli odontotecnici della Roma d’oggi — nei padroni della festa edella città. Come i capitani di ventura del Rinascimento, quando passa-vano dal soldo alla signoria. Il gioco fantasioso, generoso e cinico, di al-leanze e tradimenti, uomini comprati e venduti, partiti fatti e sciolti e ri-fatti, può cedere alla corruzione qualunque, quella che regge il mondoordinario, le sue trame, i suoi troppi soldi, le sue troppe intercettazioni.Ancora Barzanti, nostalgico lui stesso benché si simuli realista, ha com-mentato il Palio di luglio, vinto secondo ogni pronostico da Trecciolinosu Berio per il Bruco, con un amaro paradosso: ha vinto il migliore, ma ilPalio in cui vinca il migliore non è più il Palio. Il Palio è Machiavelli mes-so alla prova della piazza, e Machiavelli senza la Fortuna e la Disgrazia èsolo un manuale di piccineria. Del resto anche un cuore indocile di fan-tino, magari nato proprio in città, che serve pensando al regno, e lo con-quista, sta nel conto di una festa piena di grazia e ribalderia. Aceto ave-va segnato un’epoca nuova. La gara fra gli eredi non è del tutto regolata,

ma che ci sia una monarchia in palio, e che il fantino regnante regni an-che sulla gara e sulla città, è una possibilità effettiva, se non un fatto com-piuto. Quando fosse un fatto compiuto, si sentirebbe paragonare il Pa-lio, non vogliano Dio e la Madonna Assunta, al torneo del Milan di Gal-liani e della Juventus di Moggi.

Dunque si guarderanno così, oggi, con l’occhio della nostalgia e l’au-gurio del rinascimento, le facce di questi cavalieri di ventura, che furo-no giovani e seppero nel cerchio bruciante della corsa piegare la sorte, econsegnare ai committenti la vittoria che era loro, in cambio del soldoconvenuto e delle nerbate nemiche.

* * *Si brucia in meno di un paio di minuti la corsa per il Palio, e attorno a

quell’apnea si sfoglia il calendario intero di Siena e delle sue contrade. Ilgioco di lentezza protratta e velocità di orgasmo è la qualità senese chepiù seduce e inquieta, e le è confidato anche il legame incomparabile frale esistenze personali (anche a Siena si è individui, perfino a Siena si puòsentirsi soli) e le identità comuni. Lentezza cerimoniale e precipitazio-ne tumultuosa evocano il binomio pace-guerra, e il lungo assedio e labattaglia campale, o, più sottilmente, il paziente corteggiamento e ilbruciante compimento dell’amore. Il corteo sfarzoso e rallentato cheprecede per ore nella Piazza del Campo la carriera, e dura fin nella dila-zione imprevedibile e logorante della mossa, orgoglio di costumisti edesasperazione di turisti, che non vedono l’ora che sia finita e si venga aldunque. Il corteggiamento attraversa l’anno intero, la minuziosa pre-parazione da un lato, dall’altro la felicità del festeggiamento o la morti-ficazione della sconfitta. È lo scambio complicato e mai del tutto espli-cito (esplicita è la volgarità) fra maschile in carne e ossa e femminile sim-bolico a scandire la lunga festa, come nella giostra cavalleresca: del cit-tadino con la contrada e la città, del giovane ardito con la fortuna da sog-giogare e domare, del figlio con la madre di cui meritarsi la grazia.

I fantini del Palio, forestieri per lo più, e dalle stesse regioni dalle qua-li proveniva la leva delle domestiche e delle polizie, erano tutt’altra gen-te che gli stranieri del calcio o di altri agonismi ricchi (ricchi di debiti, ma-gari, che è l’ultimo grido della ricchezza). Venivano da fuori a fare lo spor-co lavoro, un lavoro pressoché servile, benché col tempo, come in tutti iposti di nobiltà invecchiata, la servitù si sia messa a spadroneggiare.Mercenari dichiarati, e condottieri di ventura, al soldo delle contrade:idoli di un momento, e altrimenti mero strumento di una sfida alla for-

ADRIANO SOFRI

Le mani sul Palio

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tuna, senza nobiltà loro, pieno invece di nobiltà il destriero che ricevo-no in sorte. Dev’esserci il fantino alla partenza, che ci sia il fantino all’ar-rivo non importa. Il cavallo che può vincere scosso, bellissima invenzio-ne — il desiderio inconfessato e irresistibile di qualunque spettatore delPalio — dichiara la necessità superflua, per così dire, del fantino. Il qua-le viene a Siena a offrirsi contro tutto: la compera e il ripudio, il sospettoe l’intimidazione, la superstizione e il risentimento, e le botte e la cac-ciata, alla fine. Lo chiamano i soldi, la puntata grossa da lotteria, con cuiarrotondare o surclassare lo stento salario dell’anno ordinario. Ma so-prattutto l’ambizione del trionfo di qualche ora, della gara riuscita e del-la folla che ti innalza sulle spalle, prima di buttarti via e riprendersi, co-me ogni geloso proprietario, la festa che è solo sua.

Il fantino del Palio è di quelle figure di avventuriero, di galeotto fon-datore di città, di combattente del circo, di militare per conto terzi: è ilgiovane e virile che, nerbo alla mano, deve servire, secondo Machiavel-li, a battere e urtare la Fortuna che è donna, volendola tenere sotto. Suc-cedeva, con quei condottieri di ventura, contadini vogliosi di promo-zione sociale o cadetti in vena di rivalsa, che il soldo della vittoria non glibastasse più, e completassero l’opera delle armi impiegate a salvare lacittà volgendole dentro la città e facendosene signori. Nel petto del fan-tino oscuro, con una barba fosca mal curata, che la luce radente e crimi-nale della fotografia fa sinistramente risaltare, batte un cuore da usur-patore. La città e le sue contrade devono guardarsi dalla minaccia delservo-padrone, pena la perdita della propria delicata democrazia ari-stocratica, pena la democrazia plebea del tifo calcistico.

È sempre in bilico, il Palio, fra mille tentazioni di modernità e di somi-glianza al resto del mondo. La resa al fantino che la signoreggia — grantipo, del resto, come Aceto — o il castigo delle sue pretese, la volontà or-gogliosa di rimetterlo al posto suo. Da anni il brontolio contro l’inva-denza dei fantini protagonisti cresce. Il fantino di una volta, quello sì,anonimo se non per il nomignolo d’occasione, e caduco — alla lettera,destinato a cadere e mordere la polvere del Campo. Ora, che lo si avver-ta o no, il rapporto della città col fantino muta anche per l’analogia colnuovo rapporto fra la comunità e il forestiero. Il contratto specializzatoche la contrada e la città stipulavano con il capitano di ventura o col ca-valiere del torneo, era la copia privilegiata del contratto ordinario che lesocietà nuove o stanche stipulano con l’immigrazione, che venga a farei lavori che i locali non possono più o non vogliono più fare. Col tempo

un’immigrazione ordinaria e deprezzata insinua il fantasma del servopadrone fin dentro le case dei nativi ricchi e longevi e fragili, e l’ombradella gioventù sessualmente aggressiva e prolifica dentro una demo-grafia invecchiata e avara. E già a Siena la delega che la città assegnava alfantino per il triplice giro vorticoso che faccia culminare il corteggia-mento alla Fortuna e celebri il compimento dell’amore, sembrava rico-noscere una debolezza, una estenuata raffinatezza bisognosa di sanguenuovo da prendere a nolo e congedare — come nell’arruolamento del-le truppe mercenarie del Rinascimento, come, avventuriamoci a dire, inuna fecondazione eterologa e coperta dall’anonimato. Campioni di pas-saggio, che abbiano la Fortuna per amica, dunque giovani, «perché so-no meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano».

* * *A scorrere il catalogo delle facce dei fantini — facce di gran tipi, che si

allineano alla mossa «come tanti assassini» — si può rintracciare questastratigrafia virile. E subito dopo buttarla via, e buttare via con un’alzatadi spalle tutte le tortuose osservazioni che ho appena compilato, perchéognuna di quelle facce reclama di essere presa per sé, la faccia di quellolì, col suo nome da corsa e il suo nome d’anagrafe, la sua vita di ieri e lasua vita di domani, e, “segni particolari” nella carta d’identità, i soli chela accomunino alle altre facce, certi solchi ai lati del naso e della bocca,certi bagliori in fondo alle pupille, scavati e accesi in meno di due minu-ti di un tramonto d’estate della loro vita.

Dura e servile era la vita del fantino di Palio, fino a poco fa, e per moltiancora. I ritratti di Marco Delogu lo mostrano. Foto di ricercati. Sceriffistanchi e pacifisti che furono pistoleri. Duellanti di vent’anni, come Bi-ghino, nelle cui labbra strette si legge già il magnanimo giudice di paceche verrà. Ritratti freddi, con una luce sinistra (si può dire così, come si di-ce “mettere in cattiva luce”) che aspetta al varco la barba di un giorno e isolchi scavati da una vita, e dai due minuti della corsa. Belle facce, belledidascalie. Messi davanti alla camera oscura, non sono i protagonisti delPalio, o piuttosto, lo sono, ma sono anche i suoi più innocenti passanti.Effetto di dentro, e di estraniazione: il Palio visto con gli occhi e i pensie-ri dei suoi fantini scossi è come la battaglia di Borodino vista con gli occhidi una cavallina. C’è una bella frase antinapoleonica di Dario Colagè, det-to il Bufera, sotto la foto stranamente glabra: «Il primo Palio che ho corsol’ho vinto ma non chiedetemi come è andata perché non lo so». Uno cor-re il Palio, e magari lo vince: e pretendete pure che l’abbia visto?

dei servi-padroni

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 7 AGOSTO 2005

palii corsi, 3 vinti), Bastiano (Silvano Vigni, 48 anni, 30

palii corsi, 5 vinti), Vittorino (Giorgio Terni, morto

nel 2000 a 68 anni, 22 palii corsi, 7 vinti), Rompicollo

(Rosanna Bonelli, 69 anni, un palio corso), Marasma

(Mauro Matteucci, 45 anni, 7 palii corsi, uno vinto),

Tripolino (Tripoli Torrini, 90 anni, 20 palii corsi, 6 vinti),

Bazza (Eletto Alessandri, morto nel 2003 a 76 anni, 36

palii corsi, 6 vinti), Pel di carota (Arturo Dejana, 65 anni,

2 palii corsi). Nelle altre foto, il Palio di Siena

I VOLTI

I ritratti in queste pagine sono tratti dal volume “I trenta

assassini”, di Marco Delogu e Massimo Reale, edito

da Punctum. I fantini sono, da sinistra in alto e poi

in senso orario: Aceto (Andrea Degortes, 60 anni, 58

palii corsi, 14 vinti), Bazzino (Massimo Alessandri, 48

anni, 26 palii corsi, 2 vinti), Giove (Lazzaro Beligni, 75

anni, 40 palii corsi), il Pesse (Giuseppe Pes, 40 anni, 38

palii corsi, 9 vinti), Canapino (Leonardo Viti, 61 anni, 46

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i luoghiOasi d’Italia

Su queste cinque isole abitano stabilmente412 persone, discendenti dei “guappi” deportatiqui un secolo e mezzo fa. Parlano e mangiano ancoranapoletano anche se vivono al largo della Puglia E non fanno più gli agricoltori o i pescatori: oravendono il loro splendido mare al miglior offerente

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 AGOSTO 2005

più un fabbro a San Nicola, non ci sonopiù falegnami o muratori o sarti su que-ste isole che sembrano aver perso la me-moria. «Siamo passati da luogo di confi-no all’industria turistica senza neancheaccorgerci di come stava cambiando lanostra vita», ci dice Gaetano Carducci,l’uomo più vecchio delle Tremiti. Ha ap-pena compiuto 91 anni. La donna piùvecchia è invece sua moglie Bianca, chedi anni ne ha 93. Gaetano è stato segre-tario del fascio, contabile alla coloniapenale, dipendente del Comune, presi-dente della Pro Loco. Scrive, dipinge, ar-chivia ogni documento che trova sullevicende dell’arcipelago e lo custodiscenella torre, pinnacolo di tufo di quel mo-nastero che fu regno di religiosi. Prima ibenedettini, poi i cistercensi, poi anco-ra i canonici lateranensi.

È Gaetano che ci ha fatto da guida nel-l’esplorazione delle sue cinque isole, checi ha svelato le intimità di San Nicola e diSan Domino,che ci ha rac-contato quel vi-vere lento di chista sempre inmezzo al mare.Suo padre sichiamava Vin-cenzo, è ricor-dato ancora alleTremiti perl’audacia cheebbe un secolofa. Era un con-tadino e con-vinse tutti gli al-tri contadini aestirpare ulivi emandorli perpiantare vigne.«Conservatoricome sonosempre stati, gliagricoltori inprincipio lopresero perpazzo. Poi perògli diedero ret-ta e non se nep e n t i r o n omai», sussurraGaetano men-tre ci accom-pagna sul vialeornato di pal-me e di olean-dri. Un vialeche per lui èstato il mondo.

Siamo sullacima di San Ni-cola. Giù c’èl’antico «sbar-catoio» e il tor-tuoso viottololungo il qualeuna volta simontava in vetta, adesso si sale con gliascensori scavati nella roccia, sui molidondolano i barconi dei “tour dell’iso-la”, i fuoribordo, i traghetti che vanno evengono dal Gargano. Ma su, su a SanNicola quasi nulla sembra cambiato.C’è silenzio, il sole sta calando dietro icasermoni dove Ferdinando II di Bor-bone rinchiudeva i suoi galeotti. «Ungiorno ho trovato una palla di ferro, unadi quelle che i proscritti avevano al pie-de legata alla catena», dice Gaetano in-dicando il punto esatto della campagnadove era rotolata quella palla.

Traversa delle Prigioni, via degli Aba-ti, via della Torretta, ecco le case doveper tanti anni vissero guappi, “politici”,i briganti stanati sulle Madonie dal pre-fetto Mori. Sono sempre state terre diconfino le Tremiti. Fin dall’antichità. Laprima segregata fu Giulia, nipote del-l’imperatore romano Augusto. Per isuoi adulteri la tennero prigioniera a vi-ta sulle isole, dove morì nell’anno 28. Esette secoli dopo ci portarono anchePaolo Diacono, reo di aver congiuratocontro suo suocero Carlo Magno.

Poi vennero i deportati dei Borboni epoi ancora gli esiliati del fascismo. Dal1940 ne passarono centinaia e centi-naia di confinati da San Nicola. Parla-mentari come Finzi e Ferreri e Martire,avvocati come Brignetti e Mancinelli e

Bolli, ingegneri, medici, sindacalisti.«Per pochi giorni è stato qui anche San-dro Pertini, trasferito per punizione daPonza alle Tremiti», ricorda Gaetano. Ilvecchio segretario del fascio cerca neisuoi scaffali la “carta di permanenza”del confinato Pertini Sandro, il regola-mento di comportamento che ricevevaogni nuovo arrivato. «Era qui, era pro-prio qui ma non riesco a trovarla. Perti-ni è rimasto comunque per un brevissi-mo periodo. Il suo alloggio era là in fon-do», dice Gaetano mentre ci accompa-gna verso l’ultimo casermone di via de-gli Abati. Quasi di fronte dimorava in-vece Amerigo Dumini, uno degliassassini di Giacomo Matteotti.

Gaetano torna indietro nel tempo,chiude gli occhi. E bisbiglia: «Quello melo ricordo bene, era sempre scortato daquattro carabinieri che temevano per lasua vita. Era elegantissimo, al guinza-glio teneva un cane bianco. Era l’unico

confinato alquale non cen-suravano la po-sta. Scrivevaogni settimanaal Duce e ognisettimana rice-veva denaro daRoma».

La sera del 25luglio 1943 il fa-scismo cadde ela triste storiadelle deporta-zioni alle Tre-miti finì persempre.

G a e t a n oCarducci nonera più segreta-rio del fascioma un galan-tuomo restasempre un ga-lantuomo. Ecosì cominciò alavorare in Mu-nicipio. E co-minciò anchead assistere allametamorfosidelle sue isole.

Quell i delTouring clubitaliano furonotra i primi a sco-prirle. Erano gliAnni Cinquan-ta quando ungruppo di me-dici milanesisbarcò a SanDomino. Poi ilTouring aprì ilsuo villaggio aCala degli In-glesi, una delle

insenature più spettacolari. E proprio lì,tra quella baia e il piccolo promontoriodenominato Punta del Vapore, un som-mozzatore romagnolo ha trovato un re-litto incagliato sul fondo. I resti di unanave con una grande ruota a pale. Dico-no che sia la carcassa del “Lombardo”,una delle due imbarcazioni — l’altra erail “Piemonte” — che il 6 maggio 1860levò l’ancora dallo scoglio di Quarto perfar rotta su Marsala. L’impresa di Pep-pino Garibaldi e dei suoi Mille.

Secondo alcuni storici il “Lombar-do” sarebbe affondato proprio a pochimetri dalla Cala degli Inglesi in unanotte di bufera, tra il 19 e il 20 marzo1864. Trasportava detenuti da Anconaalla colonia penale. «Aspettiamo an-cora conferme ufficiali dalla Soprin-tendenza», avverte il sindaco Giusep-pe Calabrese, un’ex testa di cuoio del-le nostre forze speciali che per le sueTremiti sogna un tunnel sottomarinoche conduca da San Domino a Cretac-cio e da Cretaccio a San Nicola, un’ar-dita via di comunicazione sulla tracciadi quei camminamenti in legno co-struiti dai benedettini, passerelle fra-dice di salsedine e scivolate in mare.

Ma ci vogliono tanti soldi e soldi nonne ha molti il Comune. Con l’euro cheogni turista versa come tassa di sbarco,l’amministrazione si copre a mala pena

le spese per lo smaltimento dei suoi ri-fiuti. Nel 2004 di turisti ne sono arrivati360mila. Annotava Francesco Delli Mu-ti nel suo primo libro sulle Tremiti datoalle stampe cinquant’anni fa: «Ecco il bi-lancio del movimento stagionale: 1954,turisti n. 542 dei quali 47 stranieri; 1955,turisti 2.141 dei quali 21 stranieri...».

Sono aumentati estate dopo estate.Ma si fermano poco. Gli aliscafi li scari-cano sui moli di mattina e se li vanno ariprendere al tramonto.

La guerra delle vacanze

Si lamentano dei prezzi troppo alti. Silamentano dei loro lamenti i commer-cianti. In molti vengono dall’Abruzzo odal Lazio con i torpedoni e abbinano lagiornata di mare con un pellegrinaggioa San Giovanni Rotondo, il paese dovevisse e morì Padre Pio. Scendono a SanDomino con gli zainetti pieni di provvi-ste. Non si comprano neanche l’acqua.È una piccola grande guerra quella tra ituristi pendolari e i bottegai di questeisole che nel passato chiamarono Dio-medee in onore dell’eroe della guerradi Troia, l’inseparabile compagno diUlisse. La leggenda narra che Diomedesia stato seppellito alla Tremiti. E che isuoi amici, furono tramutati da Afrodi-te in uccelli di mare.

Per fortuna nel villaggio di San Do-mino ci sono alberghi e pensioni cheregalano ospitalità e cibo buono. C’è“Il Gabbiano” di Gino Napolitano, unottantenne di grande garbo che fa an-che l’assessore al turismo delle sue iso-le. E c’è il “Belvedere” di Giusy e Artu-ro, lei in cucina e lui a intrattenere iclienti con i suoi racconti. È stato cam-pione mondiale di pesca subacqueaalla fine degli anni ‘60, ha le foto deisuoi trionfi alle pareti del bar. Hannoun figlio, Arturo junior. Ha tredici annie fa la terza media. È in una “pluriclas-se” con il mauriziano Shames, che fre-quenta la seconda media insieme allacompagna Morwen. Sono i soli trealunni delle isole. Per “socializzare”con gli altri ragazzi, le lezioni le fannoin videoconferenza, collegati con unpresidio scolastico di Manfredonia. Al-le elementari non ci sono studenti.L’ultimo bimbo è nato nel 2000, il pe-nultimo trentantacinque anni fa. Si vaa partorire a Foggia, a Termoli, a Bari.

C’è chi vuole comprare alle Tremiti.Lucio Dalla sta acquistando l’antica far-macia, quella che sta proprio sotto la ca-serma dei Reali Carabinieri dell’abba-zia fortezza. Diventerà la casa della fon-dazione Come è profondo il mare. Il can-tautore ha già un rifugio qui e qui si ispi-ra. Luna Matana è stato il suo ultimo al-bum, Cala Matano è forse la più bellabaia di San Domino.

E c’è chi vuole vendere. Lo Stato ita-liano sta cedendo all’agenzia del De-manio «per la dismissione» il faro, che èalla Punta del Diavolo. Dal 1987 è ab-bandonato. Nel novembre di quell’an-no due mercenari svizzeri lo fecero sal-tare, uno morì nell’attentato e l’altromisteriosamente sparì dopo un paio dimesi di prigionia. Qualche giorno pri-ma il colonnello Gheddafi aveva riven-dicato il possesso delle Tremiti per al-cuni deportati libici che nel 1911 vi sog-giornarono, poi arrivarono i due svizze-ri con le bombe. Di quell’intrigo non siscoprì mai nulla. «E da quel novembreio ho perso la casa dove abitavo dal1959», ricorda Menicu Calabrese, il fa-nalista che dentro il faro alla Punta delDiavolo aveva cinque stanze per i suoicinque figli e un piccolo orto dove colti-vava peperoni e melanzane.

Il padre di Menicu faceva il guardia-no del faro a San Domino. E anche suononno e suo bisnonno erano fanalisti.Ogni tanto, all’alba, Menicu si incam-mina ancora verso la roccia a stra-piombo. E si ferma sempre là, alla Pun-ta del Diavolo.

Tremiti, il confino a cinque stelleATTILIO BOLZONI

ISOLE TREMITI

In certi giorni d’inverno ce n’è unache sprofonda, che scomparenella tempesta. E a ogni primave-ra riaffiora più aspra, più rugosa.

Sulla sua roccia cresce solo l’aglio sel-vatico. È sperduta quell’ultima isolache guarda la costa dalmata e dove unavolta si spingevano i pescatori più im-pavidi, a nord ha fondali a picco e a suduna grande secca, non vi sono animali,tra le sue rupi non c’è più neanche quel-la cisterna che salvò la vita a Domenico.

Fu tanti anni fa. «Era il 1948 o forse il1949», ricorda lui che allora era appenaun ragazzo e non faceva ancora il guar-diano del faro. Al tramonto Domenico“Menicu” Calabrese puntò il suo gozzoa oriente, verso la Pianosa che sta in fon-do all’Adriatico.

Erano in quattro sulla barca e all’im-provviso si alzò il vento, il gozzo fu sca-gliato in aria e poi risucchiato in un gor-go. La burrasca li trascinò sugli scogli,trovarono riparo in una grotta. Raccon-ta Menicu: «Per due settimane siamorimasti là, sopravvissuti con le aragosteche catturavamo e con le cozze raccol-te in un canalone. Per fortuna c’era ac-qua buona nel serbatoio di pietra cheaveva lasciato qualche navigante oqualche pirata». È piatta l’isola che c’èe non c’è. La sua montagna più alta sfio-ra i dieci metri. Sulle carte nautiche è unpuntino distante dodici miglia dalle al-tre quattro, tutte così vicine tra loro,tutte così diverse.

C’è quella deserta che chiamano Ca-praia o Caprara e anche Capperaia oCapperara, per l’abbondanza dei suoicapperi. E poi, c’è San Nicola con l’im-ponente abbazia benedettina e queicasermoni dove erano relegati i confi-nati politici e ancor prima i coatti. E difronte ci sono le pareti ripide di San Do-mino, il bosco profumato di pini d’A-leppo, cale, antri, spuntoni e acque ver-di e azzurre che luccicano, i tornantiche uno dopo l’altro si arrampicano fi-no al paese. In mezzo all’arcipelago, di-sabitata anch’essa, c’è Cretaccio cheprende il nome dalla sua argilla. Quan-do piove si scioglie e colora di giallo ilmare. Stagione dopo stagione cambiaforma, si arrotonda, si fa più piccola.Mai uguale a se stessa, prima o poi saràinghiottita dal mare.

Figli dei “vagabondi”

Sono cinque le isole Tremiti e 412 i suoiabitanti, quelli che discendono dai«guappi» e dai «vagabondi» del Regnodelle Due Sicilie deportati più di un se-colo e mezzo fa su questi sassi davanti al-la Puglia. Parlano sempre napoletano eanche il loro mangiare è di quell’Italia aipiedi del Vesuvio, lingua e usanze tra-mandate di generazione in generazionedalle diciotto famiglie che originaria-mente popolavano e ancora popolanoquest’incanto nell’Adriatico. Sono lorole radici delle Tremiti. Sono i Santoro e iGreco, i Calabrese, gli Attanasio, i Car-ducci, gli Alfarano, sono i Pica e i Napo-litano. E i Lisci, i Cafiero, i Davino, i Pez-zella, i Pallesca e i De Simone, i Capitel-li, i De Luca, i De Martino e i Casieri.

Sessant’anni fa, erano pescatori eagricoltori che hanno imparato a legge-re e a scrivere dagli «indesiderabili» delregime o da qualche istruito borsaiolospedito dai questurini al domicilio for-zato. Sono diventati albergatori, hannoaperto ristoranti e pizzerie e scuole disubacquea, affittano barche e gommo-ni, accumulano denaro vendendo il lo-ro mare al miglior offerente. Sono di-ventati ricchi ma non fanno il pane. Loportano ogni giorno con l’aliscafo daTermoli, la città molisana più vicina.Non c’è un forno alle Tremiti. Non c’èpiù un calzolaio a San Domino, non c’è

L’arcipelagoè stato da sempre

destinazionedegli “indesiderabili”e tra gli ospiti ha avutoanche Sandro PertiniI residenti: “Siamo

passati da terra di esilio a industria

turistica senzaaccorgercene”

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 7 AGOSTO 2005

LE BELLEZZE. Il faro dell’isola di San Domino. Qui sotto, il castello di San Nicola e, in basso a destra, i Faraglioni di San Domino

LA NATURA. Qui sotto, una veduta dell’isola di San Domino. Nella pagina accanto, l’arco di pietra di Caprara

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A dieci anni dalla morte la città di Siena gli dedica una mostradi acquarelli, realizzati tra il 1965 e il 1995, intitolata “Periploimmaginario”: una riflessione sull’opera di questo grande

artista della narrazione a fumetti, ma anche un’occasione per ammirarei suoi straordinari nudi femminili. Figure che ricordano i quadri di Schielee sospingono il creatore del marinaio-zingaro nell’universo dell’alta pittura

verbo-visiva imita una precedente tecnica cinematografica equando invece addirittura la precede (come è stato il caso diCrepax). A parte serie anche ben fatte che riciclano senza pu-dore trame letterarie o cinematografiche famose, e su questo ri-chiamo al già noto si sostengono, vorrei citare un fumetto in-teressante e spiritoso come Julia, che potrebbe vivere be-nissimo in base alle proprie forze (e ad alcune trovate ori-ginali come l’inserzione di commenti «musicali» nelcorso del racconto) e che tuttavia, come sentendo-si insicuro, ha deciso di dare alle sue due pro-tagoniste femminili i volti di Audrey Hep-burn e di Woopy Goldberg. Facile richia-mo, che forse contribuisce al successodella serie, ma perché non parlare critica-mente di parassitismo?

Cosa accade invece con Pratt? Tante volte isuoi lettori sono stati tentati di identificare CortoMaltese con Lord Jim, o almeno di intravedere nella saga diCorto influenze conradiane. Mi pare di ricordare che Pratt ab-bia ammesso i suoi debiti con Conrad (ma ha anche scritto cheil suo interesse per i mari del sud nasce da La laguna blu di deVere Stackpoole). Però sono del pari evidenti, e spesso esplicitinella scelta dei temi da illustrare, i suoi riferimenti a Stevenson,Kipling o Fenimore Cooper. Però non troviamo in Pratt alcunatraccia di parassitismo. Egli riconosce le sue fonti ispiratrici macombatte bravamente la sua lotta con l’angelo, elabora e risol-ve, come direbbe Bloom, la sua angoscia dell’influenza, e creadelle storie che sono soltanto e inequivocabilmente Pratt.

Lo fa persino con una strizzata d’occhio post-moderna, co-me si vede ad esempio quando, anziché subire un’influenza, laostenta con vezzo citazionistico: ed ecco che nella Ballata a uncerto punto Pandora appare dolcemente appoggiata all’opera

LA FOTOGRAFIAUn primo piano di Hugo Pratt

morto nel 1995 a 68 anni

UMBERTO ECO

Quasi semprei disegnatorisi sono ritrattinei loro personaggiL’eroe-vagabondoha la linea del naso,il taglio della boccadel suo ideatore

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 AGOSTO 2005

Hugo

Pratt“Periplo immaginario” è il titolo del sontuo-so catalogo della mostra dedicata a Sienaagli acquarelli di Hugo Pratt, dal 1965 al1995 (Lizard Edizioni, 60 euro). Anche sePratt fosse stato, in vita sua, soltanto l’au-tore di questi acquarelli, essi basterebbero

a fargli consacrare almeno un paragrafo in una storia dell’arte.Ma il rischio è che qualcuno, affascinato dalle immagini pro-digiose di questo volume, ammetta che Pratt è stato grande ar-tista perché si è dimostrato anche buon pittore, malgrado lasua lunga militanza «artigianale» nell’universo del fumetto.

Siccome invece Pratt è stato grande artista soprattutto inquanto narratore a fumetti (e se a qualcuno l’espressione puòparere ancora riduttiva, «narratore verbo-visivo»), non è ca-suale che la mostra di Siena lo onori a dieci anni dalla sua mor-te, e che il saggio introduttivo del volume, di Thierry Thomas,se pure è intitolato agli acquarelli, sia in realtà una riflessionesull’arte di Pratt in generale, e in particolare su quel suo genioverbo-visivo per cui si è incapaci di distinguere il disegno dallascrittura (nelle storie di Pratt «c’è una sola linea»)

Chi scrive la recensione di un romanzo non deve esordirecon una legittimazione della letteratura, mentre ancora oggichi parla al pubblico generico di fumetti deve mettere ancora,in qualche modo, le mani avanti. Meno di un anno fa si era te-nuto a Bologna, presso la Scuola Superiore di Studi Umanisti-ci (che ospita il Fondo Enrico Gregotti, centinaia di originali digrandi autori del fumetto), uno dei tanti convegni su questogenere letterario che si svolgono qua e là per il mondo, a livel-lo universitario, almeno dalla fine degli anni Cinquanta, ed ec-co che un quotidiano annunciava l’evento con il titolo «Il fu-metto entra all’università dalla porta d’ingresso» (come se ne-gli ultimi cinquant’anni ne fosse stato tenuto fuori — e comese questa inattesa promozione provocasse ancora vuoi in-quietudine vuoi lieta sorpresa).

In realtà non esistono detrattori del fumetto (chi non lo amanon lo legge, e basta, e quindi non è in grado di scriverne, siapure per dirne male). Esistono però i detrattori di coloro cheparlano del fumetto. Il loro argomento principe è che chi par-la di fumetti ha eliminato ogni differenza tra Dante e Topoli-no. Si tratta ovviamente di una sciocchezza, difficilmente so-stenibile con qualche ricorso testuale, ma è pur vero che gliamanti del fumetto, dando inizio a una sua storiografia e a unasua critica, si sono spesso comportati come uno storico dellaletteratura che non distingua (in termini di valore estetico,complessità e profondità di pensiero) tra Dante e Burchiello,partendo dal principio che entrambi scrivono in rima.

Il discorso sul fumetto porta ancora i segni di un complessodei suoi «padri apologisti», quando per farsi ascoltare occor-reva legittimare il genere in sé, senza perdersi in troppe di-stinzioni. È così sovente accaduto che in molte riviste dedica-te al tema (e spesso in opere storico-critiche) non fosse chiarala differenza tra critica delle opere e degli artisti, sociologia delfenomeno, gusto o mania collezionistici, e occasionale cedi-mento alla nostalgia.

Nell’universo del fumetto la critica dovrebbe poter operaredistinzioni tra bello e brutto, originalità e manierismo, inven-zione e plagio, così come avviene nei vari settori della letteratu-ra e delle arti. Si può essere cinefili e saper distinguere tra Anto-nioni ed Ed Wood. È sociologicamente interessante studiarel’impatto che sia Flash Gordon che Dick Fulmine hanno avutosulla generazione italiana degli anni Trenta e Quaranta — e ma-gari ammettere di sentirsi nostalgicamente più legati a Fulmi-ne che a Gordon, e parimenti pochi italiani nati in quell’epocasi sentono nostalgicamente legati a Little Nemo (che aveva fat-to fugaci apparizioni solo sul Corriere dei Piccoli dei loro geni-tori e su Topolinonel 1935), e ricordano con più tenerezza Man-drake. Ma è criticamente innegabile che Alex Raymond e Win-sor McCay sono stati artisti incomparabilmente più ricchi ecomplessi di Carlo Cossio e Phil Davis.

Insomma è spesso accaduto ai padri apologisti del fumettoquello che accadeva ai cinefili marxisti del tempo andato, per iquali ogni film sovietico era necessariamente un capolavoro.

Talora il fumetto ha determinato alcune tendenze delle artifigurative (la pop art ne è l’esempio più ovvio) e talora delle artifigurative ripercorre vicende anche secolari. Ora non mi pareche si analizzino ancora con la dovuta severità i casi in cui il fu-metto manifesta sindromi di dipendenza da altre arti. Non tut-te le analisi mettono in luce quando e come una data tecnica

All’ultima storia capì:Corto Maltese sono io

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to nello stesso movimento, altrimenti si rapprende e muore.Così, nelle ultime tavole di Hugo, la fase degli abbozzi e quel-le della messa in bella si confondono». Così avviene per esem-pio nella saga di Corto Maltese, dove il protagonista nasce conun segno ancora tormentato nella Ballata del mare salato(co-me se l’autore ne cercasse la fisionomia senza riuscire ancoraa definirla) e, via via che le sue storie procedono, si essenzia-lizza sempre più, diventa un cenno, un calligrafismo e (inven-zione di un «artista dell’acqua e dell’aria») si fa alla fine liqui-damente etereo diventando, in un solo lampeggiare di bian-chi e neri, la citazione di se stesso.

Ma Corto Maltese è anche l’esempio di una continua ridefi-nizione di Pratt. Mi scuso se torno a un aneddoto che ho già rac-contato almeno due volte, ma lo trovo denso di insegnamenti.Quasi sempre i disegnatori di fumetto si sono ritratti nei loroprotagonisti, o nei deuteragonisti al massimo, e chi ha incon-trato Al Capp, Feiffer, Schulz o Jacovitti, lo sa (solo Phil Davis hadisegnato in Mandrake il volto di Lee Falk, l’autore delle storie— ma forse era Lee Falk che a poco a poco aveva deciso di di-ventare Mandrake). Di Pratt non lo sospettavo. Ma un giorno,alla presentazione di non so più quale libro o evento, l’ho in-contrato alla Terrazza Martini di Milano e l’ho presentato a miafiglia, che credo facesse ancora le elementari ma era già lettricedelle sue storie, e lei mi ha sussurrato all’orecchio che Pratt eraCorto Maltese. Che il re sia nudo lo può dire solo un bambino.Pratt non aveva la statura, l’astata longilineità di Corto, ma guar-dandolo meglio, di profilo, ho dovuto convenire che in qualchemodo era Corto: la linea del naso, il taglio della bocca, non so,certamente Pratt non era il Corto della Ballata, ma quello piùmagico delle ultime storie, quelle che Pratt non aveva ancora di-segnato... Pratt si stava cercando (fantasticava con la matitachiedendosi come avrebbe voluto essere), e cercandosi inse-guiva alcuni sogni errabondi.

È in questa bruma, persino in una tecnica non ancora com-pletamente sicura di sé, che nascono i miti, e i personaggi chesanno uscire dai propri testi per invadere la nostra immagina-zione e il nostro ricordo, così che ci capita spesso di incontrarliin altri testi, magari venuti prima di loro, e addirittura — alme-no tanto è dato ai bambini — nella vita.

Ora questa ricerca appare ancora più evidente negli acqua-relli, che sfilano sotto i nostri occhi come un diario colorato e incui, come si diceva, l’abbozzo è talmente definitivo da diventa-re talora una definizione.

Siccome un acquarello è un’opera a sé, Pratt dovrebbe esse-re un pittore. Ma, in quanto frequentissimamente gli acquarel-li riproducono o anticipano personaggi delle sue storie, Pratt sa-rebbe un illustratore. Qual è la differenza tra un pittore e un il-lustratore anche quando l’illustratore è grandissimo, comeDoré, Rackham, o Gustavino? Direi che nella pittura il soggettodel quadro si affranca dalle circostanze che lo hanno ispirato,così che non ci chiediamo (se non giochiamo alla Dan Brown)chi sia la Gioconda o che cosa accada nel Concerto campestre.Invece davanti a una illustrazione di solito non possiamo go-derla appieno se non comprendiamo che cosa illustri, ovverose la si separa dal testo scritto da cui dipende. Naturalmente ladistinzione è trasversale rispetto alle tecniche. Molti pittori ot-tocenteschi che ci rappresentano, che so, i Lombardi alla primacrociata o il doge Tal dei Tali che riceve i messaggeri del sultano(direi in genere la pittura alla Hayez) sono in effetti illustratori,e se il quadro non avesse la targa col titolo ci chiederemmo checi stanno a fare quei signori in costume in quel salone. Al con-trario può accadere che alcuni schizzi nati per illustrare un libro(per esempio i don Chisciotte di Picasso), vivano poi per contoproprio, tanto quanto i personaggi del periodo blu.

Infine, a mezza strada tra l’illustrazione e la pittura, sta l’ara-besco, il «ricercare» grafico, genere a cui si possono ascriveretanti disegni dei grandissimi maestri rinascimentali o barocchi.Forse non ci presentano personaggi «universali» come la Damacon l’ermellino o l’Uomo del guanto, ma non rimandano a nul-la, vivono per grazia propria.

Ecco, negli acquarelli di Pratt ci sono spesso delle illustra-zioni, che rinviano alle sue storie, vi sono molti splendidiarabeschi e c’è pittura allo stato puro, e in particolare citereicerti nudi femminili, per cui Thomas azzarda il riferimento auno Schiele meno incattivito (ma sono prodigiosi anche sen-za pensare a Schiele). E per invogliare qualcuno ad andarsi asfogliare il catalogo, direi che il ritratto ambiguo di Venexia-na Stevenson, del 1994, raggiunge quel rapporto con l’uni-versale che è proprio della grande pittura (con qualsiasi tec-nica sia eseguita).

omnia di Melville, Cain — che verso la fine citerà Euripide — leg-ge Coleridge, autore di un’altra ballata, quella del vecchio ma-rinaio (che ha trovato in traduzione italiana a bordo di un sot-tomarino tedesco nella bibliotechina di Slütter, il quale lasceràa Escondida anche un Rilke e uno Shelley) e persino un avanzodi galera come Rasputin (anche qui una citazione, ma così sco-perta e così fuori contesto, da denunciare tutta la sua dotta iro-nia) legge in cabina il Voyage autour du monde par la frégate durois La Boudeuse et la flûte L’Etoile di Bougainville.

Pratt sembra a prima vista ispirato da tutto l’orientalismo el’esotismo degli ultimi due secoli, ma anziché abbarbicarvisiparassitariamente, lo critica e lo capovolge, posando unosguardo diverso sui suoi «selvaggi»: i suoi dancali esoterici, i suoiindios fatti saggi da remote macumbe, i suoi indiani delle gran-

di pianure sono spesso più colti e consapevoli dei loro coloniz-zatori — e tanto per citarne uno, il Cranio della Ballata ha fattopratica legale presso un avvocato indiano di Viti Levu e discutedi mitologia maori e sociopolitica melanesiana con la sicurez-za di una Margaret Mead.

Con maggiore libertà da ogni altra fonte (che non sia forse laprima ispirazione ricevuta da Milton Caniff) Pratt gioca congrazia ironica anche sul registro figurativo, e — come diceThomas nel suo saggio per il catalogo — si ha l’impressioneche gli stessi acquarelli con cui egli commentava in itinere isuoi fumetti, permettano di capire meglio le sue strisce. «In unacquarello, il tempo che separa lo schizzo dall’opera comple-ta, deve ridursi il più possibile. Idealmente non c’è distinzio-ne tra la preparazione e la realizzazione, tutto deve essere col-

IL CATALOGOLe illustrazioni di queste pagine

sono tratte dal catalogo della mostra

di Siena, intitolata “Periplo immaginario”.

Appartengono originariamente al volume

“Avevo un appuntamento”,

storia dei viaggi veri e immaginari

di Pratt nel Pacifico, pubblicato

per la prima volta nel 1994

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 7 AGOSTO 2005

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Tutto cominciò nelle piantagioni di cotone del profondo Sud. Ma la grandetrasformazione avvenne negli anni Quaranta nella capitale dell’Illinois,dove la “musica del diavolo” trovò finalmente la sua anima

Grazie all’introduzione nei ritmi afroamericani dei suoni della chitarra elettrica,lo strumento che poi sarebbe stato l’emblema della generazione del rock. Un successodovuto anche alla casa discografica di due fratelli ebrei arrivati dalla Polonia

Provate a guardarvi intorno,quello che vedrete è il blues,ovunque. Sì, perché siete aChicago, la città del blues, illuogo dove la musica deldiavolo ha trovato la sua ani-

ma. Provate a camminare lungo quelloche resta di Maxwell Street, a respirarel’aria di Canal Street e del suo mercato,a girare attorno al palazzo della ChessRecords, a scivolare tra i vicoli del SouthSide. Provate a rivivere l’inseguimentotra le centinaia di macchine della poli-zia e la “blues mobile” dei BluesBrothers sotto ai piloni del “Loop”, laferrovia sopraelevata della città e a in-tonare le note di Sweet Home Chicago,scritta da uno dei padri delblues, Robert Johnson. Ese ancora non accade nul-la, provate ad assaggiarequalche cucchiaiata di“soul food” in uno deimolti club della capitaledell’Illinois, dove si parlasolo la lingua del blues etutto vi apparirà più chia-ro. E la magia di una musi-ca antichissima e allo stes-so tempo moderna vi avràsicuramente catturato.

Chicago è davvero unluogo straordinario, unadelle grandi capitali dellamusica americana, unadelle città che ha visto na-scere il jazz, dove è fioritoil blues, dov’è nata addi-rittura la techno, un luogodove i suoni e le culture sisono sempre incontrati edove ancora oggi è possi-bile “respirare” la musicaad ogni angolo, nei festi-val di jazz e di blues cheanimano la città tra la pri-mavera e l’autunno, neimille club che di notte trasformano an-cora Chicago in un gigantesco jukeboxnaturale, nelle strade dove, ricordan-

nismo, suonando al cospetto di Al Ca-pone e dei suoi “ragazzi”. E anche l’a-vanguardia, negli anni Settanta, trovòa Chicago il suo terreno naturale percrescere e svilupparsi, con i grandiprincipi dell’improvvisazione e i “pa-dri” dell’Art Ensemble Of Chicago.

Ma Chicago è soprattutto la città delblues, una sorta di naturale laborato-rio permanente dove la musica afroa-mericana ha saputo crescere e svilup-parsi: sulla scorta della lezione di arti-sti come Big Bill Broonzy, Ma Rainey,Blind Lemon Jefferson, raccogliendola lezione del boogie woogie, il blues aChicago ha definito i contorni dellasua identità urbana, favorito dall’in-venzione della chitarra elettrica. Ilblues urbano era una forma più agile eviolenta del blues tradizionale, i suoicaratteri incarnavano i ritmi e le ten-sioni della vita e del lavoro dei neri nel-le città del Nord. Per molti il blues stes-so si identifica col particolare stile delblues di Chicago, quello reso famosoda Muddy Waters, Elmore James,Howlin’ Wolf, un suono di chitarreelettriche su note allungate, di armo-niche a bocca amplificate dai mi-crofoni, e un ritmo pulsante di bassoelettrico e batteria, sul quale si intrec-ciano i suoni di un pianoforte boogiee voci profonde e cavernose. Chicagoha definitivamente trasformato ilblues in una musica capace di arriva-re a pubblici diversi, alle grandi plateemiste del “mass market”, uscendo de-finitivamente dai ghetti e influenzan-do intere generazioni di musicisti daun lato all’altro dell’oceano. In un cer-to senso fu il trionfo del blues del Del-ta, trasformato e adattato allo spiritodi una grande città.

L’epicentro di questa “rivoluzione”fu la Chess Records. Gli studi di 2120

do la tradizione, ci sono ancora decinedi musicisti che mettono alla prova dalvivo le loro composizioni. Ed è così dapiù di ottant’anni.

Nella città dell’Illinois furono realiz-zati i primi dischi di jazz, King Oliver in-cise con la New Orleans Jazz Band eLouis Armstrong formò i suoi Hot Fivee Hot Seven. A Chicago si sviluppò l’e-ra dello swing, così come avvenne aNew York e a Kansas City e le jazz bandfiorirono nell’illegalità del proibizio-

Nella città i suoni si “respirano”: qui sononati anche il jazz e, più di recente, la technoGli artisti continuano a darsi appuntamentoe a esibirsi nei festival, nei locali storicie perfino agli angoli delle strade

Dai campi a Chicago, sola andata

BluesLe vie

del

ERNESTO ASSANTE

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 AGOSTO 2005

IL GRANDE INNOVATORENelle foto qui sopra e in alto,

due immagini di Muddy Waters

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ROBERT CRAYForse il più famoso Bluesman

moderno. Grande sperimentatore,

unisce la tradizione Blues

con le ultime tendenze cross-over

BUDDY GUYAnimale da palco (a cui Jimi

Hendrix ha detto di essersi ispirato),

attivo fin dagli anni ’50, ha guidato

negli anni ’70 la rinascita del Blues

ERIC CLAPTONIl più grande musicista bianco

della tradizione Blues-Rock.

Alla fine degli anni ’60 porta

in Inghilterra il sound di Chicago

B. B. KINGBlues Boy King, forse il più grande

interprete Blues vivente. Negli anni

’50 diventa il principale esponente

del panorama R&B

HOWLIN’ WOLFA partire dagli anni ’40 la musica

Blues si trasferisce a Chicago

Howlin’ Wolf è il suo interprete

più significativo

ROBERT JOHNSONÈ il primo fenomeno Blues

del dopoguerra. Incide solo 29 pezzi,

fra cui “Sweet Home Chicago”

e “Come on in my Kitchen”

BLIND LEMON JEFFERSONNegli anni ’20 il Blues era ancora

considerato “musica da schiavi”.

Blind Lemon è il primo a riscuotere

un certo successo commerciale

I MITI

South Michigan Avenue vennero aper-ti da due fratelli ebrei, Leonard e PhilChess, arrivati nel 1928 dalla Polonia.Nessuno dei due conosceva una solanota di musica, ma avevano un gran-dissimo fiuto per gli affari. Leonard inparticolare aveva dato vita a diverse at-tività, fino a quando non incrociò ilblues e ne comprese le straordinariepotenzialità commerciali. Decise, conl’impegno determinante del fratello,di fondare la Chess, destinata a diven-tare la più importante etichetta bluesdella storia americana.

Prima dell’arrivo di Muddy Waters,c’erano già star del calibro di SonnyBoy Williamson, capace di trasforma-re l’armonica a bocca in un elementosolista determinante. C’erano Big BillBroonzy, carismatica figura, acuto espesso ironico poeta del blues nellasua nuova veste urbana, Tampa Red, il“guitar wizard” degli anni Venti eTrenta, c’era il jump blues, ma i nuoviarrivati dal sud volevano altro, chiede-vano qualcosa di più emotivo, forte,realistico. In pratica le qualità cheMuddy Waters portò con sé dal Missis-sippi. Il suo arrivo in città, narra la leg-genda, cambiò il volto del blues.Muddy scelse di elettrificare il suostrumento e di avere con sé una vera epropria band. Con lui c’erano JimmyRogers, eccellente seconda chitarra,Otis Spann, al pianoforte e, soprattut-to, Little Walter all’armonica, un au-tentico genio del suo strumento, il pri-mo a rendere il suono dell’armonicanon solo elettrico ma anche distorto,rauco, di alta intensità emotiva.

Fu una piccola rivoluzione, l’iniziodi una prorompente rinascita del ge-nere. Waters iniziò a incidere dischiper la Chess Records, scalando rapida-mente le classifiche e allargando ilconsenso del pubblico ai suoi concer-ti. Waters cantava poco, si limitava aborbottare qualche strofa, mettendol’accento sul ritmo irregolare e spessofrenetico della musica, portando inprimo piano la chitarra, con uno stileche avrebbe influenzato non solo una

infinita schiera di bluesman ma an-che, più tardi, molti artisti rock.

L’epicentro di questa esplosione eraMaxwell Street, con il suo mercato,una sorta di palcoscenico all’apertoper chiunque volesse suonare, con-quistare un pubblico, affermare lapropria musica. Per Maxwell Street,nel cuore di Jewtown, sono passati igrandi del blues di Chicago, ma chiun-que poteva arrivare, da solo o con il suogruppo, e cercare di raccogliere qual-che soldo con la musica. I musicistiche arrivavano dal Sud in cerca di for-tuna andavano lì e suonavano in stra-da per farsi ascoltare, per ascoltare glialtri, per sopravvivere e per condivide-re la loro musica con chiunque voles-se farlo, in una specie di laboratorio acielo aperto che rinverdiva la potenzadella dinamica tipica della dimensio-ne collettiva della musica folk.

Oggi Maxwell Street non c’è più,anche se il suo vecchio mercato e par-te della sua musica vivono ancora inCanal Street. Non ci sono più gli an-goli diventati famosi nel film BluesBrothers, non c’è neanche il Nate’sDeli, il piccolo ristorante dove ArethaFranklin cantava Think. Ma lo spiritodel blues vive ancora, soprattutto neiclub della Chicago notturna, alB.L.U.E.S, uno dei locali più rinomatie attivi, al Buddy Guy’s Legend, il clubgestito da una delle leggende delblues di Chicago, Buddy Guy appun-to. O il Chicago Blue, di una delle piùgrandi star femminili, Koko Taylor. Oancora alla House Of Blues, nata pro-prio sulla scia dell’avventura deiBlues Brothers, dove ancora, ogni an-no, Dan Aykroyd torna ad esibirsi. Dapoco si è concluso il Chicago Blues Fe-stival, che ha animato le notti delGrant Park. Tra breve, a settembre, lamusica afroamericana occuperà lascena con uno dei più grandi festivaldegli Stati Uniti. E Chicago tornerà adessere, ancora una volta, la capitaledel blues, la città dove il diavolo hadeciso che la sua musica doveva di-ventare elettrica.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 7 AGOSTO 2005

LE RADICINella foto

qui sopra,

uno scatto

d’epoca

della raccolta

del cotone

nelle piantagioni

degli Stati Uniti. È

proprio nei campi

del Sud che,

nella seconda metà

dell’Ottocento,

è nata la musica

Blues

IL CANTO DEI RACCOGLITORI

Sonorità melanconiche, testi crudi e realistici, spesso conditi

con riferimenti sessuali espliciti. Il Blues — la “musica

del diavolo” — nasce alla fine dell’800 fra gli schiavi africani

nelle piantagioni di cotone del delta del Mississippi. Negli anni

Trenta segue i lavoratori di colore, diventati operai,

e si trasferisce nelle metropoli. A Chicago incontra amplificatori

e chitarre elettriche, e nasce il Blues moderno. Ma è negli anni

Settanta, in Inghilterra, che si impone all’attenzione

del pubblico bianco, influenzando tutta la musica pop (v. m.)

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Muddy, il contadinoche diventò leggenda

Così Waters diede nuova vita al genere

«Muddy era a piedi nudi quando sep-pe che un uomo bianco lo stavacercando. Era domenica, l’ultimo

giorno di agosto, 1941. Il cotone era fiorito epronto, il raccolto sarebbe stato concluso in unmese. Muddy, come ogni altro nero che colti-vava un pezzo di terra di qualcun altro, stavaassaporando il suo riposo. Tra poco avrebberaccolto cotone dall’alba al tramonto. La voceraggiunse Muddy prima dell’uomo bianco.“Ecco, è fatta”, pensò Muddy, “hanno scoper-to che vendo whiskey”. Ma l’uomo bianco nonera la legge o un agente delle tasse. Era un tipogiovane di nome Alan Lomax e le sue registra-zioni di Muddy, le prime che furono mai rea-lizzate, lanciarono la carriera di McKinley A.Morganfield, ovvero Muddy Waters, spingen-dolo dalla sua vita di contadino a quella di leg-genda del blues».

Comincia così, quasi per caso, per un colpodella fortuna, per un incontro che forse non po-teva non avvenire, l’avventura musicale di unodei più grandi bluesman mai esistiti, MuddyWaters, “acque fangose”. Un’avventura cheviene raccontata in maniera magistrale da Ro-bert Gordon, eccellente studioso e critico mu-sicale americano, in Hoochie Coochie Man, lavita e i tempi di Muddy Waters, pubblicato inqueste settimane da Arcana. Quella scritta daGordon non è soltanto una biografia ma unasorta di grande libro di storia afroamericana.Gordon ripercorre, con dovizia di particolari, iprimi trent’anni di vita di Waters, quando erasolo un povero contadino nero nel profondoSud degli Stati Uniti, raccontando una storiache è stata comune a centinaia di migliaia di ne-ri americani. McKinley A. Morganfield non eradiverso da tutti gli altri, lavorava la terra, pen-sava di poter meritare un futuro migliore, sof-friva e amava. Era nato il 4 aprile del 1913, figliodi due ragazzini, Berta Grant e Ollie Morgan-field. Berta morì pochi anni dopo la sua nascitae fu sua madre a tirare su quel ragazzo nellapiantagione di Stovall, a nord di Clarksdale, nelMississippi, e a soprannominarlo “Muddy”.

Il ragazzo crebbe nei confini della piantagio-ne, povero, affamato, ma con il cuore straordi-nariamente pieno di musica. Ascoltava le voci ele urla di Son House e Big Joe Williams, sogna-va sulle note di Blind Lemon Jefferson e RobertJohnson, raccoglieva cotone cantando e iniziòa suonare la chitarra durante le feste alla pian-tagione: «I raccoglitori di cotone — scrive Gor-don — festeggiavano nei weekend perché era-no sopravvissuti un’altra settimana, perché laterra non li aveva inghiottiti, perché il fiumenon li aveva portati via, perché il padrone nonli aveva uccisi». Fu così che Muddy iniziò a gua-dagnare qualche cosa, suonando e cantandoquando le pause del lavoro lo consentivano, eattorno ai vent’anni era già celebre tra i suoicompagni. Il denaro lo faceva anche in altri mo-di, non tutti legali ovviamente, ma nulla chedesse troppi grattacapi alla nonna.

Poi arrivò Lomax, con il suo registratore, di-cendo che voleva registrare la sua musica per laLibreria del Congresso. Muddy cantò e suonòuna dozzina di brani, poi Lomax glieli fece ria-scoltare: «Hey, non puoi capire cosa provai quelpomeriggio quando ascoltai la mia voce. Pen-sai: io posso cantare». Lomax qualche tempodopo spedì a Waters venti dollari e due copie deldisco, Muddy le prese e corse al locale più vici-no. «Portai il disco al caffè all’angolo e lo misinel jukebox. Lo suonai, e lo suonai e lo suonai edissi: posso farlo, io posso farlo».

E lo fece, davvero. Prese la sua chitarra e partìper il Nord, lasciandosi alle spalle la piantagio-ne, il cotone, il dolore e i sogni. Raggiunse Chi-cago e cambiò le regole della musica blues. An-dava nei club e nessuno lo ascoltava, tuttichiacchieravano, facevano rumore con bic-chieri e bottiglie, lui era solo un sottofondo a cuinessuno dava retta. E allora pensò che aveva bi-sogno di un microfono e che la chitarra andavaamplificata, perché il suo suono potesse supe-rare le chiacchiere della gente. E che il bluesnon era roba triste da suonare da soli, che ci vo-leva una band per avere il giusto “groove”. Allachitarra arrivò Jimmie Rodgers, al pianoforteOtis Spann, all’armonica Little Walter Horton.Iniziarono a suonare e il blues cambiò volto.

I fratelli Chess, che nel cuore del South Sidegestivano la più importante casa discograficadi Chicago, portarono Muddy e i suoi in studioe nel 1948 la band incise Can’t Be Satisfied, poiHoochie Coochie Man, quindi Rolling Stone edecine di altri hit. Nel volgere di due anni Wa-ters era diventato una star e una nuova genera-zione di musicisti aveva seguito il suo esempio.Fino al 1983, quando morì per un cancro ai pol-moni, Waters ebbe numerosi successi, divenneun idolo per i giovani rockers inglesi, Keith Ri-chards ed Eric Clapton su tutti, suonò in tutto ilmondo, vinse premi Grammy, ma non imparòmai a leggere e a scrivere e non dimenticò mai isuoi giorni nella piantagione, le sue fatiche, lesofferenze e le gioie di una vita in cui il bluesnon era solo musica: «Era la vita, la prova cheero vivo».

(e.a.)

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i saporiSaper bere

Degustazioni e mille sorsi d’autore con “Calici di stelle”:mercoledì 10 agosto in 150 comuni i bianchi, i rossifreddi e i nuovi rosati italiani saranno prontia sprigionare i loro profumi sotto il cielo notturnoE, ad accompagnare le bottiglie culto delle cantine migliori,ecco i piatti irrinunciabili di questo caldissimo agosto

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 AGOSTO 2005

così, sembra complicatissimo: in realtà basta affidarsi alla memoria del palato, che sele-ziona naturalmente le armonie: niente vini troppo tannici (colore intenso, gusto astrin-gente), o di acidità assoluta, i più discordanti con la gamma di sapori che caratterizza la ga-stronomia dei mesi caldi.

Se poi non vi fidate del vostro personale archivio del gusto, tentate la sorte alcolica conqualche accortezza. Non fatevi fuoriviare dalle diatribe sul colore, superate insieme a unodegli ultimi tabù enologici: quello sul vino rosso freddo. Scettici? Sceglietene uno di strut-tura contenuta, poco concentrato, evitando uve enorigide come il Nebbiolo — un Chian-ti non giovanissimo, ad esempio — per evitare che, una volta raffreddato, il gusto esca “in-durito” e astringente. Servitelo a 12-14 gradi: sarà perfetto sulle pietanze con base pomo-doro — zuppe, guazzetti — e con le grigliate di carne. Oppure, lasciatevi sedurre da unodegli eccellenti rosa arrivati sul mercato negli ultimissimi anni, dopo un lungo oblio se-gnato da produzioni trasandate e raccogliticce: rinascitache ha indotto il Gambero Rosso a editare, autore Massi-mo Di Cintio, una guida monodedicata, uscita nei gior-ni scorsi con oltre 300 etichette recensite. Un rosato diqualità vi seguirà dall’aperitivo alla vigilia del dessertsenza tradirvi, sfoderando la freschezza di un biancoe la morbidezza di un rosso.

Se invece per voi estate fa rima (alcolica) con vinobianco, avete solo l’imbarazzo della scelta, dallebottiglie più beverine ai bicchieri barricati con ele-ganza che fanno invidia a molti rossi: regalatevi unafresca sorsata, spiluccando una tartare di tonno edimenticate la fine delle ferie.

Ogni brindisi è un desiderio

Le bottiglie di vino rosso

comprate lo scorso anno

560 milioni

Schulthauser2004

S. MichaelEppan

Cancelli2003

Coltibuono

Spaghetticon le vongoleIl sugo bianco non inganni:

la vongola è un frutto di mare

dal gusto intenso,

che disdegna i vini facili

Il Trebbiano abruzzese

è strutturato e mantiene

la freschezza

Trebbianod’Abruzzo

Valentini

Prosciutto e meloneAbbinamento complicato

dal melone, che va mangiato

in piccole dosi rispetto

al prosciutto,

per non coprirlo. Perfetto

il Moscato giallo vinificato

secco, morbido

Vogelmeier2004

Lageder

Frittura di pesceIl classico fritto marino

ha bisogno di essere

supportato nella sua

sapidità, senza trascurar

la freschezza finale

Qui trova la sua collocazione

ottimale il Vermentino

di Gallura

Vigna’ngema2003

Capichera

Ecco gli abbinamenti piatti-vini consigliatida Maida Mercuri una delle migliori sommelieritaliane, tra le fondatrici de “Le Donne del vino”Gestisce l’enoteca “Pont de Ferr” a Milano

d’estategli abbinamenti

CapreseIl suo vino è un Pinot bianco,

strutturato e di acidità

misurata. Se il pomodoro

è maturo e la mozzarella

di bufala vera, il fondo di pera

matura del vino si accorda

armonizzando

il contrasto dolce-acido

Grigliata di carneUn piatto da rosso, ma da

scegliere bene, perché i

tannini raffreddati possono

provocare una sensazione

di astringenza in bocca. Un

uvaggio come Sangiovese-

Sirah è ottimo a temperatura

ambiente come a 12°

Vini

LICIA GRANELLO

Naso in aria e bicchiere in mano. Potete immaginare una notte così? Anchese gli astronomi ogni anno anticipano la data ideale per osservare le stellecadenti, la tradizione ci lega indissolubilmente al 10 agosto, ricorrenza na-ta a memoria del martirio di San Lorenzo nel terzo secolo. Le sue lacrimetrasformate in stelle sono, secondo la scienza, la visualizzazione del pas-saggio nell’orbita terrestre dei Perseidi, asteroidi della costellazione Per-

seo. Negli anni, dalla poesia del Pascoli al film dei Taviani, il sapere non ha certo sottrat-to fascino al giorno consacrato al santo: così, ci piace credere, che per ogni scia di luce inpicchiata nel cielo abbiamo diritto ad esprimere un desiderio.

I vignaioli di 150 comuni italiani hanno scoperto di poter ispirare al meglio i nostri pen-sieri più reconditi. L’evento, “Calici di stelle”, consentirà a oltre mezzo milione di turisti— quanti se ne sono contati nella scorsa edizione — di unire il dilettevole al dilettevole:sorseggiare un buon vino, anche più di uno, scrutando il cielo notturno a caccia di stellecadenti, optando per uno degli eventi programmati nelle campagne, dove l’inquina-mento luminoso è minore, verificando luoghi e appuntamenti sul sito della Città del Vino(www. cittadelvino. it). Oppure scegliendo in base ai vini preferiti. Quasi mai gli stessi cheamiamo sorseggiare nel resto dell’anno. Perché l’estate è un faticoso banco di prova perl’alcol in bicchiere, insopportabile fonte di calore. Bevi e sudi, come non bastasse l’afa…

La vacanza è una medicina: rivitalizzati e allegri, pieds dans l’eau nel ristorantino in riva almare o reduci da una vigorosa camminata nei boschi, l’idea di una buona bottiglia aperta sultavolo ci fa gongolare. A patto di non massacrare il piatto estivo che abbiamo ordinato.

Secondo la sommellerie ufficiale, l’abbinamento cibovino deve obbedire a due co-mandamenti: contrapposizione di sensazioni e concordanza di aromi e struttura. Detto

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 7 AGOSTO 2005

Marco Pallantiè enologo-coproprietariodi unadelle aziendepiù raffinatenella produzione

del Chianti Classico,“Castello di Ama”, doveogni anno ospita con lamoglie Lorenza un artistainternazionale perrealizzare un’opera d’arteispirata al Chiantishire

Nell’immediato

entroterra savonese,

tra Alassio e Albenga,

ospita un campo

di golf tra i più belli

d’Italia. Mercoledì

sera, dalle 21,

nel castello Marchesi

Del Carretto,

concerto lirico e degustazione di vini e prodotti tipici

Info: 0182 580056

DOVE DORMIREIL CAMPANILE B&B

Piazza Annunziata 2 , Albenga

Tel. 0182-21823

Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREANTICO BORGO

Località Ciccioni Ovest, Stellanello

Tel. 0182-668051

Chiuso lunedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREAZIENDA AGRARIA ANFOSSI

Via Paccini 39

Tel. 0182-20024

Bastia di Albenga

Garlenda (Sv)Nella campagna

di questo comune

dell’alta valle del

Belice, fondato dagli

albanesi, prosperano

i vigneti di

Donnafugata, che per

San Lorenzo saranno

aperti al pubblico.

In programma anche visite delle cantine,

degustazioni, musica. Info: 800 252321

DOVE DORMIREBAGLIO S. VINCENZO

Contrada S. Vincenzo, Menfi (Agrigento)

Tel. 0925-75065

Camera doppia da 102 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELIDO RISTORANTE LA PINETA

Marinella di Selinunte (Trapani)

Tel. 0924-46820

Senza chiusura estiva, menù da 35 euro

DOVE COMPRARECAPRICCI DIVINI

Via Inico 148/a

Tel. 0925-75033

Menfi (Agrigento)

Contessa Entellina (Pa)Castellina in Chianti (Si)

itinerari

Le bottiglie di vino bianco

comprate lo scorso anno

370 milioni

Vitello tonnatoLa carne è arricchita

dalla salsa che incorpora

tonno, acciughe e il gusto

forte del cappero

Il Grecanico siciliano

ha profumo, un buon corpo

e l’acidità necessaria

a sgrassare la maionese

GrecanicoMandrarossa

2004Settesoli

Insalata di risoIl numero e la varietà degli

ingredienti non permettono

abbinamenti vaghi. L’Arneis

è un’uva a suo modo rigida,

che si mantiene distinta

ma risulta neutra, un po’

come il riso. Contenuta

l’aromaticità

Roero Arneis2003

Prunotto

Pesce crudoLo Chablis è il vino ad hoc

del plateau francese In Italia

l’uva Chardonnay trova

interpreti egregi

La fermentazione in legno

sviluppa morbidezza,

struttura, tannini dolci, che

esaltano tartare e frutti di mare

LinticlarusTiefenbrunner

PizzaIl piatto della tradizione

con un vino che si richiama

alla tradizione. Il rosè da uva

Sangiovese in purezza

significa corposità, intensità,

morbidezza. Proprio come

i migliori vini rosati

di un tempo

Rosato2003

Castellodi Ama

FrittataPiatto dove coesistono sapori

molto diversi

Il Sauvignon li esalta tutti:

la mineralità e i sentori erbacei

si sposano con le verdure,

mentre l’acidità ripulisce

la bocca dal gusto forte

dell’uovo e dall’untuosità

PiereSauvignon

Viedi Romans

La rinascita del vecchio rosèultimo figlio della tecnica

Perfetto per carne, pesci e perfino per la frutta, va servito fresco

ENZO VIZZARI

Bentornato rosato. E non sarà la moda di un’e-state, propiziata dalla naturale tendenza sta-gionale a privilegiare i vini freschi, beverini, im-

mediati. È piuttosto un ulteriore segnale dell’evolu-zione del gusto del “consumatore medio” e di chi ini-zia ad avvicinarsi al vino: si cercano e sono apprezza-ti vini non impegnativi, facili da degustare e da capire,di costo contenuto. E, come appunto i rosati, versati-li nell’accompagnarsi ai cibi, capaci di sposare salu-mi, pesci e carni bianche, paste e verdure, dall’aperi-tivo sino ai dessert a base di frutta. Bevuto a tempera-tura di cantina o ben fresco (mai gelato), il rosato —quello serio, quello buono — è per antonomasia il vi-no delle vacanze al sole ma non è affatto un vino mi-nore, ha piena dignità, ha radici lontane, ha un postonella storia del vino.

La sua origine risale al XV secolo, nelBordolese: claret era il rosé di una

notte, racconta lo storico dellavigna Hugh Johnson, fatto la-

sciando l’uva spremuta sullesue bucce non più di venti-quatt’ore, giusto per avvia-re la fermentazione chesarebbe continuata poinella botte. L’affinamen-to delle tecniche di lavora-zione ha codificato variprocedimenti per produr-

re il rosato, ma i più impor-tanti sono due: quello detto

par saigné, ormai meno utiliz-zato, nel quale si lasciano le buc-

ce delle uve in macerazione a con-tatto con il mosto perché gli cedano

colore sino al momento in cui sia raggiuntal’intensità desiderata, per poi separare le bucce e pro-

cedere alla vinificazione e l’altro, più diffuso e prati-cato, della spremitura diretta più o meno intensa del-le uve nere, che permette di estrarre dalle bucce laquantità di colore voluta. I passaggi successivi sono glistessi in uso per i vini bianchi. Viceversa è proibito inItalia come in Francia fare un rosato mescolando vi-no rosso e bianco (tranne che nella Champagne, do-ve quasi tutti i rosé sono ottenuti par mélange; con ra-re eccezioni: come il meraviglioso Krug Rosé).

Ma esistono e quali sono i rosati “buoni, veri e seri?”Sì, più numerosi di quanto si creda, benché poco co-nosciuti e diffusi, ma oggi alla riscossa. In Francia, do-ve l’eclisse del rosé è stata meno accentuata che danoi, sono numerosissime le zone e le tipologie di roséprodotti sia con vitigni nobili e internazionali sia convitigni autoctoni: dai pinot neri della Bourgogne ai ca-bernet franc e sauvignon del Bordolese, dai grenachee cinsault del Tavel, il più famoso rosé di Francia, nel-le Côtes du Rhônes, sino al Sud-Est dove con ilmourvèdre e altri vitigni autoctoni si produce il clas-sico Bandol e, pure con vitigni locali, il provenzale Bel-let. In Italia, da sempre, i migliori rosati fermi vengo-no dal Sud, dai terreni siccitosi ma esposti alle brezzemarine di Puglia, d’Abruzzo e delle isole: il Montepul-ciano d’Abruzzo Cerasuolo, su tutti quello dell’impa-reggiabile maestro Edoardo Valentini; i negroamaropiù malvasia nera, come il Vigna Mazzì di Rosa delGolfo e il Five Roses di Leone de Castris; il nerello ma-scalese più nero d’Avola come il Rose di Regaleali; ilNieddera del sardo Attilio Contini; il delizioso Rogitodelle Cantine del Notaio cento per cento aglianico delVulture; meno significativi i toscani, fra i quali tuttaviabrilla per modernità e fragranza il Rosato del Castellodi Ama; ottimi ma consumati quasi in toto localmen-te i Chiaretti del Garda e i Lagrein Kretzer altoatesini.Tutti, ad eccezione del Cerasuolo, costano tra gli 8 e i15 euro. Eccoli, i vini dell’estate 2006.

Comune vocato

per la produzione

del Chianti Classico,

nel cuore di una

campagna tra le più

amate del mondo,

organizza

“Degustellando

sotto il cielo

della Castellina”, con degustazioni di vini, prodotti

tipici e musici itineranti Info: 0577-741392

DOVE DORMIREPODERE TERRENO

Via alla Volpaia, Radda in Chianti

Tel. 0577-738312

Camera doppia da 150 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREANTICA TRATTORIA LA TORRE

Piazza Umberto Primo 17

Tel. 0577-740236

Chiuso venerdì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREENOTECA LE VOLTE

Via Ferruccio 12

Tel. 0577-741314

Castellina in Chianti

Le bottiglie di vino rosè

comprate lo scorso anno

70 milioni

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le tendenzeModa unisex

Contestatrice, poetica, minimalista, celebrativa o no global,la maglietta compie 85 anni e continua a regalarci sorprendentivariazioni sul tema. Ai classici scolli a giro, a barchetta o a Vaggiunge stravaganze cromatiche, applicazioni,ricami raffinati e griffe pregiate. E come un foglio biancoporta per le strade del mondo i variegati messaggi dei nostri tempi

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Rocchettara, contestatrice, poetica, minimalista. E an-cora: provocatoria, benefica, buonista, no-global,cafona, celebrativa, glamourous. Sono i tanti voltidella t-shirt, la maglietta di cotone che compie 85 an-ni ma sembra proprio non dimostrarli. Anzi. È l’in-dumento più amato dai giovani. È trasversale (per

censo, età e cultura) ed è presente in ogni guardaroba. La versione basic della t-shirt, vale a dire quella girocollo, con

manica corta, rappresenta un punto di forza della Benetton. Bian-ca o coloratissima, può essere indossata sia per fare sport che persostenere l’esame di maturità. Va bene in chiesa come allo stadio.Può essere casta o super-sexy. Oversize o fasciante come una guai-na. E, come insegna Giorgio Armani, grande fan della maglietta,può essere nobilitata anche sotto una giacca classica. «La t-shirt,essenziale e pura, rappresenta l’abc della moda — spiega lo stili-sta — io ho una vera passione per queste magliette, ne ho tante,tutte tenute con la massima cura. Hanno un sex appeal inconfon-dibile, senza mai essere sfiorate da accenni volgari».

La t-shirt piace e le sue evoluzioni sono infinite. Sì, perché è quasi pa-ragonabile a un foglio bianco sul quale ognuno può «raccontare, de-nunciare, scrivere quel che vuole». E il bello delle magliette è che, nel lo-ro piccolo, documentano amori, passioni, pagine di storia, eventi mu-sicali, mode. La riprova? Le magliette con le immagini di Bob Marley oJimi Hendrix, i Beatles o i Rolling Stones, sono ormai dei classici per igiovani che amano la musica rock (e non solo). Per gli appassionati dipoesia o testi letterari, quelle prodotte da «Parole di cotone» restano deicult. La maglia con il volto di Che Guevara va a ruba tra i giovani impe-gnati, quella con il simbolo «fate l’amore non la guerra» è la bandieradei pacifisti. Il fiocco rosso, che simboleggia la battaglia contro l’Aids,accomuna un pubblico vastissimo. Insomma, le t-shirt a tema, dedi-cate, da mostra o da denuncia ormai non si contano più. Ci sono quel-le aziendali, di squadra, di quartiere, quelle che vengono vendute neglishop dei grandi musei del mondo, quelle turistiche (stile «I love NewYork»), quelle con le frasi celebri e adesso anche quella con la stampa diquattro articoli della Costituzione prodotta dalla casa editrice Sellerio(«per ricordare in questi tempi bui i valori su cui si basa la nostra convi-venza sociale»), fino ad arrivare a quelle personalizzate, con la foto delbebè, della fidanzata di turno o del cane di famiglia.

LAURA ASNAGHI

UN AMORESOLIDALE

Del designer

Gaetano Gentile,

la t-shirt Hub

(amore in arabo)

è un segno

di solidarietà

I proventi vanno

in beneficenza

In vendita

alla Triennale

di Milano

SPORTIVAAL FEMMINILERosa confetto

e bordi fucsia. Perfetta

per lo sport ma anche

sulla gonna. Proposta

da Wrangler

OMAGGIOALLA CALIFORNIA

Auto di grossa

cilindrata, palme,

tramonti dorati: così

Gas rende omaggio

alla California

con una t-shirt

VARIANTE LUNGAVariante a manica lunga

del modello classico,

prodotta da Mason’s

T-shirtUn mito di cotonetra slogan e disegni

LOOK ESSENZIALEScritta nera

su fondo bianco

Ha un carattere

essenziale e non teme

alcun confronto con la

tradizione. Di Woolrich

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 7 AGOSTO 2005

La t-shirt può avere tirature limitate o produzioni industrial-mas-sificate con prezzi che variano tra i 50 e gli 80 euro, ma spesso sconfi-nano oltre la soglia dei 100 con all’aggiunta di paillette e decori o l’im-primatur delle griffe. Non c’è stilista che non ne abbia disegnate unadecina. Calvin Klein le ha rese sexy, Armani, ma anche Donatella Ver-sace, hanno proposto quelle con i loro volti stilizzati. Iceberg è famo-so per le sue magliette «pop-art», Antonio Marras ha, di recente, lan-ciato quella dedicata a Pasolini, Coveri ha reso omaggio a James Dean,Rocco Barocco ha esaltato gli «italian boys» con l’immagine del Da-vid di Michelangelo. Prada ha coinvolto alcuni giovani artisti per crea-re t-shirt d’autore. Dolce e Gabbana, copiatissimi, continuano a pro-durre magliette fashion che imperversano nelle discoteche. Insiemea quelle Diesel, Pirelli (con il pugno chiuso su fondo nero), Cp Com-pany, Sweet Years, Just Cavalli, Gas, Guru (riconoscibili per la celebremargherita), Miss Sixty (molto fantasiose), Pinko e Simbols. Sempresulla cresta dell’onda le idee-cotone di Custo Barcelona, quelle di Blu-girl o di Gaetano Navarra, ricamate a oltranza e invecchiate ad artecon lavaggi speciali in acqua e terra.

E pensare che ottantacinque anni fa tutto cominciò con il candore del-la storica «Fruit of the loom» creata solo per l’addestramento dei soldati.

ELIO FIORUCCI

Negli anni Sessanta e Set-tanta il desiderio diffuso dispiritualità portava le per-

sone a pensare a rivoluzioni cheavrebbero cambiato i valori delmondo. C’era chi intraprendevaviaggi in India per poi vivere ne-gli ashram sulle orme dei poetidella beat-generation e chi opta-va per soluzioni più rivoluziona-rie, radicali e a volte pericolose.Io ho scelto di lavorare a Milano,portando nella moda quella rivo-luzione dello spirito che era cosìforte nella gente.

Le t-shirt mi apparvero subitocome un possibile e bellissimomanifesto che, con tenere imma-gini, poteva diventare la scritturadei nostri valori. Nasceva così l’i-dea di un simbolo che accomu-nasse tutta l’umanità. Due angeli,per l’esattezza uno biondo e unomoro, con una stellina in fronte eocchi dolci rivolti al cielo, trasgre-dendo l’immaginario che li volevaimmancabilmente tutti biondi.Questo loro aspetto, che da unaparte ricordava gli angeli vittoria-ni o i putti barocchi, mentre dal-l’altra li rendeva familiari comefossero visi di bimbi, suscitò subi-to un enorme successo; sembravache tutti li aspettassero e li rico-noscessero come se ognuno liavesse nelproprio in-conscio.

L e m a -gliette inco-minciaronoa diffonder-si come unvero e pro-prio feno-meno di co-stume, rap-presentan-do un mes-s a g g i o d ispiritualitàe di compli-cità nella ri-c e r c a d e lbene.

Lo stessosuccesso siè verificatoin seguito, riprendendo altre im-magini, come quelle realizzate daSaint-Exupéry per il Piccolo Prin-cipe, un libro della spiritualitàche, dopo la Bibbia è il più vendu-to al mondo.

La grande intuizione è quellaquindi di individuare semprequei bisogni dello spirito dellagente, traducendoli in una ma-glietta-messaggio, creando cosìuna rivoluzione pacifica legataall’amore e a una profonda espe-rienza di semplicità.

L’importante è aver saputo co-gliere nell’arco di quasi qua-rant’anni i bisogni dello spiritoentrando nel cuore di ogni perso-na, andando quindi oltre la moda;perché, riprendendo una frase delPiccolo Principe «l’essenziale è in-visibile agli occhi ma è visibile alnostro cuore».

La storia delle t-shirts nasce ne-gli anni Settanta quando la rivo-luzione della moda permette diutilizzare un capo “underwear”,esibendolo all’esterno con l’e-mozione sensuale che ne deriva-va. Era l’epoca della minigonna ein America nascevano i concorsidella t-shirt bagnata dove si eleg-geva la ragazza più sexy; tra unmisto di moda e modi che rappre-sentava un evidente segno dellarivoluzione del costume. Il corponon era più colpevole, le donne sene riappropriarono regalandociquello che per tanto tempo eraforzatamente rimasto nascosto. Imessaggi fatti di immagini, foto-grafie e frasi fiorirono sul senodelle donne, luogo sacro ai pop-panti. E a noi uomini.

EFFETTO SHOCKEffetto esplosivo

per la t-shirt Diesel

in versione estivissima

SOS BAMBINIProdotta

in un orfanotrofio

sudamericano la t-shirt

Misericordia ha il colore

brillante del cielo

SEX SYMBOLMarlon Brando con la t-shirt

nel film “Un tram che si chiama

desiderio” del 1951

STILE VITTORIANOStile decisamente

vittoriano e aria

vagamente retrò:

le t-shirt prodotte

nel 1969 da Elio

Fiorucci (nella foto)

fecero furore in Italia

L’esercito Usa adotta

la t-shirt per la divisa

Nasce la “Fruit of the loom”

1920Fiorucci inventa il suo logo

e dà il via alla produzione

delle prime t-shirt Italiane

1970

ENERGIASOLAREHa il marchio

Peuterey

(Geospirit)

la maglietta

arancio-solare

con i profili

più scuri

PROVE D’ARTISTAFirmata dall’artista francese Mambo

e prodotta da Prada, questa t-shirt

è la prima espressione del progetto

creativo “Unspoken dialogue”

LOGOIN VISTAHa il logo

di Calvin Klein

la t-shirt

grigio pallido

in cotone

che esalta

la tintarella

Ai miei angeliho affidato

la spiritualità

Lo stilista Elio Fiorucci

MARGHERITA SULLA PELLESegno inconfondibile delle t-shirt

prodotte da Guru, la margherita

stilizzata fiorisce, stavolta,

su un campo verde smeraldo

Per non passare inosservati

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l’incontroTrasformazioni

FULVIO PALOSCIA

Danzare e scattarefoto sono cose legateIo ho due memorie,una nel cervello,l’altra nei muscoli:in questa memoriadel corpoimmagazzino tuttii gesti, i movimenti,le posture che vedoattorno a me

‘‘

‘‘Ballerino acclamato in tutto il mondo,attore a sorpresa in un serial tvscanzonato come “Sex and the city”,adesso fotografo raffinato in mostraal “Tuscan Sun Festival” di Cortona.

L’artista fuggitoin occidente dall’Ursscontinua a reinventarsie a rimettersi in gioco.Espiega la scelta del biancoe nero, perché in biancoe nero è stampata tutta la sua vita: “Riga, la città

dove sono cresciuto, è un paesaggio digrigi. E anche il clima politico di queglianni Cinquanta era privo di colore”

Mikhail BaryshnikovF

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CORTONA

Il dito sul pulsante. Clic, unoscatto. Su un bambino che è ap-pena caduto di bicicletta impa-rando a stare in equilibrio. Sul-

l’ombra di uno skater che danza lungoun palazzo di pietra in Rue du Bac, aParigi. Su un piatto di limoni. Su unpiede. Uno scatto. Sulla vita, su tuttoquello che capita davanti ai suoi occhiazzurro trasparente. Velati, ogni tan-to, dallo spaesamento, dal senso delprovvisorio che appartiene agli esuli.Per Mikhail Baryshnikov la macchinafotografica è una parte del corpo, unautomatismo fisico. Come i muscolidelle gambe che lo fanno ancora vola-re, piccolo e immenso, sui palcosceni-ci del mondo. È l’aria che respira. Os-sigeno, danza e pellicole, l’odore acredella camera oscura, del sudore chebagna la pelle dopo uno spettacolo in-dimenticabile.

Baryshnikov uno, due, tre. Uno: ilballerino. Due: l’attore, prima schivo etimido davanti alla macchina da pre-sa, poi così sicuro di sé da farsi scrittu-rare nello scanzonato e irriverente Sexand the city. Tre: il fotografo, che hainiziato a scattare bianchi e neri pa-recchi anni fa ma solo oggi arriva ametterli in mostra. «Un amico di SanPietroburgo, Leonid Lubianitsky, ungiorno mi ha messo una macchina inmano. Io stavo partendo per un tour:Giappone, Taiwan. Lui mi ha detto:dai, scatta. Punta l’obbiettivo su qua-lunque cosa ti ispiri. Fotografala. Poiportami indietro i rullini. L’ho fatto.Mi è piaciuto». Già, tutto qui. Come al-la fine di un assolo da lacrime agli oc-chi. La gente in delirio sotto il palco, e

lui che ringrazia allargando le braccia.That’s all. Semplice, no?

Sì, semplice. Per lui tutto sembra es-serlo. Forse perché il passato non lo èstato: la madre, morta suicida, che gliinsegnò la bellezza del teatro; il padre,militare, per il quale un sipario rossoche si apriva e si chiudeva era solo unaperdita di tempo. L’arte come salvez-za. L’asilo politico chiesto durante untour in Canada, nel 1974. Il passapor-to americano. Le mille attività comin-ciate e lasciate lì, come le tante storied’amore iniziate e finite in questi in-tensissimi, stropicciati 57 anni di vita.Alla rinfusa: i baci appassionati e unafiglia dall’attrice Jessica Lange, l’atti-vità di manager di una linea di abbi-gliamento sportivo con la sua griffe,una Dance foundation che dall’au-tunno accoglierà non solo danzatorima scrittori, artisti, compositori, arti-sti trasversali come lui. «Le proposte tiarrivano quando meno te lo aspetti equesta dannata, inquieta curiositàche ho dentro mi dice: dai, provaci,che ti costa?».

Perché la vita è un viaggio. Soprat-tutto la sua, che l’ha catapultato di quae di là, in ogni parte del mondo. E cheoggi lo ha portato a Cortona, piccola esplendida città medioevale a due pas-si da Arezzo. A Cortona c’è un festival,il Tuscan Sun, inventato da una scrit-trice americana, Frances Meyes, l’au-trice di Sotto il sole della Toscana dacui è stato tratto un film con Raoul Bo-va. La Meyes ora vive qui e con l’aiutodi un suo vicino di villa, l’impresarioBarret Wissmann, organizza eventi. Etra una star della lirica come ThomasHampson, o del podio come AntonioPappano, infila nel festival anchequalche battesimo del fuoco: quello diBaryshnikov, appunto, che al Mona-stero di Sant’Agostino fino al 21 ago-sto espone le sue fotografie per la pri-ma volta in Italia. Titolo della mostra:A Travel. Ovvero, mezzo mondo ap-piccicato alle pareti.

Cosa dobbiamo aspettarci? «Lavoridi uno che fotografa per hobby, undiario sotto gli occhi di tutti», dice conil suo inglese lento, meditato, taglien-te. Ok. Però Susan Sontag ha scrittoche Baryshnikov è meraviglioso inqualunque cosa si cimenti. È grandequando balla, grande quando recita eseduce Sarah Jessica Parker-CarrieBradshaw giornalista eternamente inamore, grande quando fa fotografie:«Le sue foto sono agili, calde, sagaci,curiose, aperte al mondo».

Se tra il danzare e lo scattare imma-gini c’è una relazione, lo sa solo lui. EBaryshnikov conferma. Certo che c’è,«sta nell’occhio. Vede, io ho due me-morie. Una è nel cervello, come tutti.L’altra nei miei muscoli, nelle mie os-sa. Ambedue passano dalle pupille.Perché nella memoria del corpo io im-magazzino tutti i gesti, le posture, i

movimenti che vedo intorno a me.Nelle mie braccia, nelle mie gambe,nei miei piedi c’è come una banca da-ti dove conservo due mani che fendo-no l’aria mosse da un barbone sul me-trò o le braccia conserte di una donnain chiesa. Quando danzo, tiro fuori daquesto computer di carne e sanguetutti i gesti memorizzati nel corso de-gli anni, e li trasformo in arte. Lo stes-so faccio con le fotografie: i miei scat-ti sono la memoria di un paesaggiostraordinario, di una persona cara, diqualcosa che accade di assolutamen-te normale sotto i miei occhi, ma cheper me è grandioso. Quando realizzouna fotografia che mi soddisfa, mi ri-cordo tutto del giorno in cui l’ho scat-tata. Un odore. Un suono. Una perso-na». Fotografare, dunque, secondoBaryshnikov, è bruciare un momento

di vita nella tua testa, «non è solo cat-turare l’immagine che hai davanti, matutti quei piccolissimi istanti che ven-gono prima e dopo lo scatto».

Non ha maestri. Sì, ama Anne Lei-bowitz, Eve Arnold, Cartier Bresson.Anche Andy Warhol, che tirava fuori lasua macchina fotografica pettegolanei momenti più impensabili? «No. Loconoscevo, ci siamo frequentati, maAndy era una farfalla sociale. Il com-mercio era il risvolto, dichiaratissimoperaltro, della sua arte. Tutto ciò chefaceva era definito geniale. Io non hoquesto potere. Lo ripeto, sono un di-lettante della fotografia. Un paparaz-zo legale».

Dice che i film di Polansky e Berg-man hanno lasciato un segno profon-do nel suo immaginario visivo. Ma nelbianco e nero è stampata tutta la suavita. Anche quella prima dell’esilio:«Riga, la città dove sono cresciuto, èun paesaggio di grigi. Il mare, la luce,il clima sono un intreccio di nero fu-mo, argento pallido, mille infinite sfu-mature del grigio. Il chiaroscuro dellepietre dei palazzi bagnate dalla piog-gia. In bianco e nero era anche il climapolitico di metà anni Cinquanta: dopoil secondo conflitto mondiale, in Rus-sia, le immagini della guerra e dellesue conseguenze erano ovunque. Ri-cordo le foto scattate da Evgheni Hal-dei con i soldati sovietici che innalza-no la bandiera sul Reichstag, quelle diAlexander Brodsky con i carri che cer-cano disperatamente di rompere l’as-sedio di Leningrado attraversando ilLago Ladoga ghiacciato. E poi le fotopropagandistiche che illustravano l’i-narrestabile marcia della Russia versola ricostruzione, che mi hanno rivela-to con quanta facilità un’immaginepuò suscitare emozioni. Le lattaie coni loro fazzoletti in testa che sorridonovantandosi della superproduzione,minatori con la faccia sporca, saldato-ri spettrali in mezzo alla pioggia discintille».

A lui basta un oggetto a portata dimano. Basta il quotidiano dentro lemura domestiche: «Mi piace fotogra-fare cose banali, sguardi e gesti rubati.I bambini, i miei figli: perché davantiall’obbiettivo si mostrano come sono,senza mentire. Non sanno cos’è l’in-ganno». Lui, quando è stato fotografa-to, ha mentito, ma solo un po’. Comementono i divi costretti a mettersi inposa; un ballerino soprattutto, guai senon spicca un salto mentre lo immor-talano. «Amo più fotografare che esse-re fotografato. E una piccola rivincitame la sono presa. Con Richard Ave-don. Lui era come me. Meglio staredietro che davanti alla macchina foto-grafica. Però un giorno gli chiesi se eradisposto a posare per una foto che ioavrei scattato. Lui nicchiava, “mi haifotografato per trent’anni, adesso toc-ca a te, concediti per qualche minu-

to”, gli dissi. Accettò».Artista nella vita, artista sul piccolo

schermo. Se gli si nomina AleksandrPetrovsky, lui sogghigna: «Oh myGod!». Mister Baryshnikov, l’ha fattagrossa. Entrare nel cast di Sex and thecity, che follia. «È stata Sarah JessicaParker a volermi. Io non guardo mai latelevisione, non ho tempo e non mipiace. Conoscevo questa fiction perfama, ma non l’avevo mai vista. Sarahè venuta da me con una borsa piena diregistrazioni. Mi ha fatto vedere alcu-ne puntate. In un primo momento so-no rimasto colpito. Tutte quei discor-si sul sesso. Poi sono andato sul set eho visto tanta professionalità. Così hodetto: va bene, ci sto. E confesso chemi sono divertito un mondo». Adessoc’è una generazione di single in car-riera che lo sogna. Che sospira davan-ti alla sua bellezza stazzonata, ai suoiocchi randagi e sensuali, ai suoi modiflessuosi e dandy.

Dicono che nella fiction televisivaquell’artista russo di passaggio a NewYork ma parigino di adozione gli so-migliasse molto: una vita ricca e pienadi impegni, un tenebroso playboy mi-lionario, un codazzo di segretarie in-daffarate, portaborse, portavoce, uffi-ci stampa. «Lo scriva per favore — eancora ride — lo dica che io non sonocome Petrovsky. Che io sono un’altrapersona, che io non c’entro nulla conlui». Una crisi d’identità? «Il problemaè che il pubblico televisivo tende aidentificarti con il ruolo che ti hannoaffidato. Per questo, ad esempio, nonho fatto vedere le mie puntate di Sexand the cityai miei figli. Non voglio chesi facciano idee strane su di me. Quan-do saranno più grandi, una sera, limetterò davanti al televisore. E dirò:guardate, vostro padre nella sua vitaha combinato anche questo».