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dispense del corso di metodi matematici per

l’economia

alexandre pantanella

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I N D I C E

1 algebra lineare 5

1.1 Spazi lineari 5

1.2 Matrici 8

1.3 Autovalori ed autovettori 16

1.4 Forme quadratiche 25

2 cenni di metrica e topologia 29

2.1 Metrica di Rn29

2.2 Topologia di Rn31

2.3 Spazi metrici 33

2.4 Spazi normati 37

2.5 Insiemi compatti 42

3 calcolo differenziale per funzioni di più vari-abili 45

3.1 Introduzione 45

3.2 Generalità 46

3.3 Limiti per funzioni di più variabili 47

3.4 Continuità 49

3.5 Derivata parziale 52

3.6 Gradiente 55

3.7 Derivata direzionale 55

3.8 Derivate di ordine superiore 57

3.9 Differenziabilità 60

3.10 Formula di Taylor per funzioni di più variabili 65

3.11 Massimi e minimi per funzioni di più variabili 68

3.12 Punti di sella 71

3.13 Funzioni convesse 72

3.14 Funzioni implicite 74

3.15 Massimi e minimi vincolati 75

4 equazioni differenziali 83

4.1 Introduzione 83

4.2 Equazioni differenziali 85

4.3 Equazioni differenziali a variabili separabili 87

4.4 Equazioni differenziali lineari del primo ordine 89

4.5 Equazioni differenziali di Bernoulli 92

4.6 Equazioni differenziali di Riccati 93

4.7 Equazioni differenziali esatte 95

4.8 Equazioni differenziabili non riconducibili in for-ma normale 99

4.9 Equazioni differenziabili di Clairaut 101

4.10 Equazioni differenziali di D’Alembert-Lagrange 102

4.11 Equazioni del tipo x = ϕ(y, y′) 103

a appendice 105

a.1 Derivate 105

a.1.1 Derivate di funzioni elementari 105

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Indice

a.1.2 Regole di derivazione 105

a.1.3 Ulteriori regole di derivazione 105

a.2 Integrali 106

a.2.1 Integrali elementari 106

a.2.2 Integrali del tipo a + bx 107

a.2.3 Integrali del tipo√

a + bu 107

a.2.4 Integrali del tipo a2 ± u2, u2 − a2108

a.2.5 Integrali del tipo√

u2 ± a2108

a.2.6 Integrali del tipo√

a2 − u2109

a.2.7 Integrali del tipo(u2 ± a2)3/2

109

a.2.8 Integrali del tipo(a2 − u2)3/2

110

a.2.9 Integrali del tipo au2 + bu + c 110

a.2.10 Integrali del tipo aun + b 110

a.2.11 Integrali di funzioni logaritmiche 111

a.2.12 Integrali di funzioni esponenziali 111

indice analitico 111

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1A L G E B R A L I N E A R E

indice

1.1 Spazi lineari 51.2 Matrici 81.3 Autovalori ed autovettori 161.4 Forme quadratiche 25

1.1 spazi lineari

In questo paragrafo definiremo il concetto di spazio lineare par-tendo dal caso più semplice (semigruppo) ed estendendo di vol-ta in volta la struttura algebrica che abbiamo definito arricchen-dola con nuove proprietà. Dato un insieme non vuoto A è pos-sibile definire su di esso un’ operazione algebrica se è possibiledefinire una legge che associa ad ogni coppia ordinata (a, b) dielementi di A uno e un solo elemento c ancora appartenente adA. Sia ∗ una generica operazione algebrica, se ∀a, b, c ∈ A si ha:

• se a∗b = b∗a⇒ ∗ è commutativa;

• se (a∗b)∗c = a∗b(∗c)⇒ ∗ è associativa;

Definizione 1: Si chiama struttura algebrica un insieme sul qualesiano definite una o più operazioni algebriche.

La più semplice struttura algebrica che possiamo considerare èil semigruppo, costituito da un insieme non vuoto A dotato diuna sola operazione algebrica associativa. La prima naturaleestensione della struttura algebrica semigruppo appena definitasi ottiene introducendo i concetti di elemento neutro ed elementoinverso:

Definizione 2: si dice che un insieme A è un gruppo rispet- Gruppo

to all’operazione algebrica associativa ∗ se valgono le seguentiproprietà:

1. esiste almeno un elemento I ∈ A, detto elemento neutro,tale che ∀a ∈ A si ha a∗I = a;

2. ad ogni elemento a ∈ A è possibile associare un elementoa ∈ A, detto inverso di a, tale che a∗a = I.

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algebra lineare

Definizione 3: Si dice che un insieme A è un Gruppo Abelianorispetto all’operazione algebrica associativa ∗ se essa è commu-Gruppo Abeliano

tativa.

Le definizioni viste finora sono estremamente generiche inquanto riferite ad un’operazione algebrica qualsiasi. Sostituendol’operazione algebrica ∗ con l’ordinaria operazione di addizioneo moltiplicazione è possibile definire rispettivamente un gruppoadditivo o moltiplicativo. In particolare l’elemento neutro additi-vo si chiama zero e si indica con 0 mentre quello moltiplicati-vo è lo scalare 1. L’elemento inverso additivo sarà invece det-to opposto e si indicherà con −a mentre quello moltiplicativoverrà detto reciproco e si indicherà con a−1. E’ ora possibiledotare l’insieme A di due operazioni algebriche, addizione emoltiplicazione ottenendo:

Definizione 4: Si dice che un insieme A è un Anello rispetto alleAnello

due operazioni se è un gruppo abeliano rispetto all’addizioneed un semigruppo rispetto alla moltiplicazione. Devono inoltrevalere le due proprietà distributive della moltiplicazione rispettoall’addizione, ossia ∀a, b, c ∈ A:

1. a · (b + c) = a · b + a · c

2. (a · b) + c = a · c + b · c

La definizione (4) può essere ancora estesa con

Definizione 5: Si dice che un anello A è un Anello commutativose anche la moltiplicazione è commutativa.Anello Commutativo

Infine

Definizione 6: Si dice che un anello A è un corpo se tutti gliCorpo

elementi diversi dallo zero formano un gruppo rispetto all’oper-azione di moltiplicazione.

Definizione 7: Si dice che un Corpo A è un Campo se anche lacampo

moltiplicazione è commutativa.

Esempio 1: L’insieme dei numeri razionali Q e l’insieme dei nu-meri reali R, con le operazioni di addizione e moltiplicazioneusuali tra numeri sono campi, mentre l’insieme N dei numeriinteri non è un campo perché i soli elementi ad avere un inversomoltiplicativo sono +1 e -1.

Tutti gli elementi delle strutture algebriche viste finora sonodefiniti su un unico insieme A, per poter definire uno spaziolineare o vettoriale abbiamo bisogno di introdurre elementi ap-partenenti a due diversi insiemi: insieme dei vettori e insiemedegli scalari.

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1.1 spazi lineari

Definizione 8: Si chiama vettore ad n componenti una qualsiasin− pla ordinata di numeri reali che si indica con:

a = (a1, a2, . . . , an)

Definizione 9: Dato un gruppo additivo commutativo X = x, y, . . .Spazio Lineare

ed un campo K = α, β, . . . si dice che X è uno spazio linearesu K se è definita l’operazione di prodotto di uno scalare di unvettore α · u (∀α ∈ K e ∀x ∈ X) il cui risultato è ancora unvettore che goda delle seguenti proprietà:

1. (αβ) · x = α(β · x)

2. 1 · x = x

3. (α + β) · x = α · x + β · x

4. α · (x + y) = α · x + β · y

Nel caso in cui K coincide con il campo dei numeri reali Xviene detto spazio lineare reale. Un esempio ricorrente è rappre-sentato dagli spazi vettorali, nei quali X coincide con lo spazioRn dei vettori ad n dimensioni dotato delle operazioni di ad-dizione e moltiplicazione per uno scalare.

Definizione 10: Siano x1, x2, . . . , xn elementi fissati di uno spaziolineare X sul campo K. La somma:

α1x1 + α2x2 + . . . + αnxn

con αi ∈ K si chiama combinazione lineare degli elementi xi. Glielementi xi sono detti linearmente indipendenti se ∀αi ∈ K si ha:

α1x1 + α2x2+, . . . , +αnxn = 0⇒ α1 = α2 = . . . = αn = 0

In caso contrario si dicono linearmente dipendenti.

Il concetto di indipendenza lineare appena introdotto è neces-sario per definire la dimensione di uno spazio:

Definizione 11: Siano x1, x2, . . . , xn n elementi linearmente in-dipendenti di uno spazio lineare X. Se ogni insieme di n +1 elementi di X risulta linearmente dipendente allora n è ladimensione dello spazio K e si indica con dim(X).

E’ opportuno notare che non tutti gli spazi sono di dimensionefinita, infatti se ∀n > 0 esistono n vettori linearmente indipen-denti in X, allora, evidentemente, X è di dimensione infinita.Individuati un insieme di vettori linearmente indipendenti diuno spazio K, la cui numerosità coincide con la dimensione diK risulta definita una base dello spazio lineare K così come dallaseguente

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algebra lineare

Definizione 12: Un insieme di n elementi x1, x2, . . . , xn linear-mente indipendenti dello spazio lineare K è chiamato base di Kse ogni x ∈ X può essere espresso come combinazione linearedegli elementi xi, i = 1, 2, . . . , n.

1.2 matrici

Una matrice A è un insieme di m× n numeri reali (o complessi)Matrice

ordinati, rappresentati dalla tabella rettangolare che segue:

A =

a11 a12 · · · a1n

a21 a22 · · · a2n

· · · · · · . . . · · ·am1 am2 · · · amn

Il generico elemento della matrice, indicato solitamente con aij,indica l’elemento che si trova sulla riga i-esima e sulla colonnaj-esima. Nel caso particolare in cui n coincide con m, ossia il nu-mero delle righe e delle colonne siano uguali, la matrice vienedetta quadrata di ordine n. Inoltre, nel caso in cui n sia ugualead uno la matrice viene detta vettore colonna, nel caso in cui m èuno si para invece di vettore riga.Siano date ora due matrici A ∈ Rn×m e B ∈ Rn×m della stesadimensione. Resta definita la somma tra matrici ed individuatala matrice somma C ∈ Rn×m di elementi cij = aij + bij. L’elemen-to neutro additivo è rappresentato in questo caso dalla matricenulla, ossia la matrice O di ordine n×m i cui elementi sono tuttinulli.Infine data una generica matrice A ∈ Rn×m ed uno scalare α ∈ R

il prodotto di A per α è ancora una matrice C ∈ Rn×m di elemen-ti cij = α · aij. Pertanto, avendo dotato l’insieme delle matrici diun’operazione di addizione e di moltiplicazione per uno scalare,è immediato verificare che l’insieme delle matrici in Rn×m godedella struttura di spazio lineare.E’ possibile arricchire ulteriormente lo spazio delle matrici ap-pena introdotto mediante l’aggiunta del prodotto interno. Sianodate due matrici A ∈ Rn×m e B ∈ Rm×p, si definisce matriceprodotto (righe per colonne) C di A e B la matrice di ordinen× p i cui elementi si ottengono mediante la seguente relazione

cij =m

∑k=1

aikbkj (1.1)

E’ importante notare che il prodotto interno così definito è unoperatore binario che può essere applicato ai due operandi solose il numero di colonne del primo è pari al numero di righe delsecondo ed il risultato conserva il numero di righe del primoe il numero di colonne del secondo. Il prodotto di matrici godedella proprietà associativa e distributiva rispetto alla somma, manon della proprietà commutativa. Quindi, nel caso generale non

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1.2 matrici

è possibile sempre effettuare il prodotto tra matrici, deve essereverificata la condizione sulle dimensioni che abbiamo appenavisto. Solo in un caso particolare il prodotto è ben definito: lematrici quadrate. Date due matrici A ∈ Rn×n e B ∈ Rn×n lamatrice prodotto C avrà dimensioni n× n, quindi il prodotto èsempre definito (il numero di colonne di A è uguale al numerodi righe di B) e le dimensioni della matrice risultato saranno lestesse di quelle degli operandi. Anche per il prodotto tra matriciquadrate è possibile definire un elemento neutro moltiplicativo,sarà la matrice identità così definita:

aij =

1 se i = j0 se i 6= j

Esempio 2: Calcolare la matrice prodotto C = A · B:

A =[

3 −3 22 −1 0

]; B =

0 −31 −10 1

Applicando la regola (1.1) si ottiene una matrice C di dimensioni2× 2:

C =[

3 · 0− 3 · 1 + 2 · 0 3 · (−3) + (−3) · (−1) ·+2 · 12 · 0− 1 · 1 + 2 · 0 2 · (−3) + (−1) · (−1) ·+0 · 1

]

C =[−3 −4−1 −5

]Definizione 13: Sia A ∈ Rm×n, si definisce trasposta di A e si Matrice trasposta

indica con AT la matrice AT ∈ Rn×m che si ottiene scambiandotra loro le righe e le colonne di A.

Si verifica facilmente che

• (AT)T = A

• (A + B)T = AT + BT

• (AB)T = BT AT

• (αA)T = αAT

Definizione 14: Una matrice A ∈ Rn×n si dice simmetrica se Matrice simmetrica

coincide con la sua trasposta.

Per completare il calcolo algebrico su matrici è opportuno intro-durre il concetto di determinante di una matrice quadrata.

Definizione 15: Si dice determinante di una matrice quadrata Determinante

la funzione che ad ogni matrice quadrata A associa il numeroreale

det A = ∑k

(−1)i+kaik A∗ik = ∑h

(−1)h+jahj A∗hj

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algebra lineare

dove con A∗ij si indica il complemento algebrico di aij, cioè il de-terminante della sottomatrice1 Aij, ottenuta da A sopprimendola riga i-esima e la colonna j-esima (Primo teorema di Laplace).

Il determinante è dunque una funzione dall’insieme delle ma-trici ai numeri reali

det :Mn×n → R

e la definizione che abbiamo appena dato fa riferimento al primoteorema di Laplace, che risulta essere un’utile metodo di calcolodel determinante stesso. Se la matrice ha ordine uno allora ilsuo determinante coincide con l’elemento stesso:

det A = det[a11] = a11

Il determinante di una matrice di ordine due si calcola rapida-mente per la diagonale, sottraendo al prodotto degli elemen-ti situati sulla diagonale principale il prodotto degli elementidell’altra diagonale:

det A = det[

a11 a12

a21 a22

]= a11a22 − a12a21

Nel caso di matrici di ordine tre il calcolo può essere effettuatoin due diversi modi:

1. procedimento per diagonale (generalizzando quanto appe-na visto per l’ordine due) detto anche regola di Sarrus

2. utilizzando il teorema di Laplace introdotto precedente-mente.

Data la matrice:

A =

a11 a12 a13

a21 a22 a23

a31 a32 a33

Consideriamo una nuova matrice ottenuta affiancando ad A lesue prime due colonne: a11 a12 a13 a11 a12

a21 a22 a23 a21 a22

a31 a32 a33 a31 a32

Il determinante di A, utilizzando il procedimento per diago-

nale, è dato dalla somma dei prodotti degli elementi situati sulladiagonale principale e sulle sue parallele diminuito della sommadei prodotti degli elementi appartenenti all’altra diagonale e allediagonali ad essa parallele:

det A = a11a22a33 + a12a23a31 + a13a21a32+−(a31a22a13 + a32a23a11 + a33a21a12)

1 Si dice sottomatrice d’una matrice data la matrice ottenuta selezionando uncerto numero di righe e di colonne della matrice iniziale.

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1.2 matrici

Lo stesso calcolo può essere effettuato utilizzando il teorema diLaplace, sviluppando ad esempio rispetto alla prima riga:

det A = (−1)1+1 det[

a22 a23

a32 a33

]+ (−1)1+2 det

[a21 a23

a31 a33

]+

+(−1)1+3 det[

a21 a22

a31 a32

]Per matrici di ordini superiori l’applicazione ricorsiva del teore-ma di Laplace permette di ottenere il calcolo del determinante.Possiamo a questo punto introdurre le proprietà dei determinan- Proprietà dei determinanti

ti:

1. Il determinante di una matrice quadrata coincide con quel-lo della sua trasposta.

2. Se una matrice A ha una linea (riga o colonna) compostadi zeri, il suo determinante è nullo.

3. Se in una matrice quadrata A una riga (o una colonna)viene spostata verso l’alto o verso il basso (verso sinistraverso destra) di p posizioni, il determinante risulta molti-plicato per (−1)p.

4. Se in una matrice quadrata si scambiano tra loro due righe(o due colonne), il determinante cambia segno.

5. Se in una matrice quadrata due righe (o due colonne) sonouguali, il suo determinante è nullo.

6. Se si moltiplica una linea di una matrice per k il determi-nante è moltiplicato per k.

7. Se una matrice ha due linee parallele uguali, il suo deter-minante è nullo.

8. Se in una matrice quadrata due righe (o due colonne) sonotra di loro proporzionali il determinante è nullo.

9. Date due matrici quadrate A e B, dello stesso ordine, det(AB) =det(A) det(B).

L’applicazione delle proprietà appena viste permette di sempli-ficare notevolmente calcolo dei determinanti di matrici di ordinisuperiore a tre.Possiamo a questo punto tornare sulla definizione di vettori lin-earmente indipendenti (??) e fornire uno strumento algebricoche permette di verificare in maniera molto più rapida rispet-to alla definizione stessa se n vettori di Rn sono linearmenteindipendenti.

Teorema 1: Dati n vettori di Rn: risultano linearmente indipendentise e solo se è non singolare la matrice A ottenuta dal loro accostamentocome righe (o come colonne).

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algebra lineare

Definizione 16: Data una matrice A ∈ Rn×n, se esiste una ma-Matrice inversa

trice B ∈ Rnxn tale che AB = BA = I allora A si dice invertibilee la sua inversa viene indicata con A−1. Se A non è invertibileviene detta singolare.

Siano A e B matrice quadrate di ordine n invertibili, valgonole seguenti proprietà:

• A−1 è invertibile e (A−1)−1 = A

• AT(A−1)T = I

• (AT)−1 = (A−1)T

• (AB)−1 è invertibile e (AB)−1 = B−1A−1

La procedura per il calcolo di una matrice inversa di una qual-siasi matrice quadrata non singolare A può essere riassunta nelseguente modo:

1. si calcola il determinante della matrice A

2. si effettua la trasposta della matrice A

3. per ogni elemento della matrice trasposta di A si calcola ilsuo complemento algebrico

4. considerando il complemento algebrico come elemento siottiene una nuova matrice, A′ (matrice aggiunta)

5. si divide ogni elemento della matrice aggiunta così ottenu-ta per il determinante della matrice a calcolato preceden-temente. La matrice così ottenuta è l’inversa della matriceA.

Esempio 3: Data la matrice:

A =

1 1 22 1 21 −2 1

se ne calcoli l’inversa.

1. Il determinante è:

det(A) =

∣∣∣∣∣∣1 1 22 1 21 −2 1

∣∣∣∣∣∣ =

sottraendo dalla seconda riga e sviluppando rispetto allaseconda riga si ottiene

=

∣∣∣∣∣∣1 1 21 0 01 −2 1

∣∣∣∣∣∣ = −1∣∣∣∣ 1 2−2 1

∣∣∣∣ = −1 · [1 · 1− 2 · (−2)] = −5

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1.2 matrici

2. La matrice trasposta è

AT =

1 2 11 1 −22 2 1

I complementi algebrici sono

c11 = +∣∣∣∣ 1 −2

2 1

∣∣∣∣ = +[1 · 1− (−2) · 2] = 5

c12 = −∣∣∣∣ 1 −2

2 1

∣∣∣∣ = −[1 · 1− (−2) · 2] = −5

c13 = +∣∣∣∣ 1 1

2 2

∣∣∣∣ = +[1 · 2− 1 · 2] = 0

...

c33 = +∣∣∣∣ 1 2

1 1

∣∣∣∣ = +[1 · 1− 2 · 1] = −1

consideriamo quindi la matrice A′ che ha come elementi i com-plementi algebrici trovati

A′ =

5 −5 00 −1 2−5 3 −1

dividendo la matrice A′ per il valore del determinante di Aottengo la matrice inversa A−1

A−1 =

−1 1 00 1/5 −2/51 −3/5 1/5

Un ulteriore metodo utile per il calcolo dell’inversa di una ma-trice quadrata A è il Metodo di riduzione Gauss-Jordan. Data unamatrice invertibile A, il calcolo è ricondotto alla risoluzione di nsistemi lineari del tipo:

Axi = Ii

dove xi rappresenta l’i-esima colonna della matrice A−1, mentreIi rappresenta l’i-esima colonna della matrice identità. In formamatriciale

AX = I

doveX = [x1|x2| . . . |xn] = A−1

con I la matrice identica di dimensione n. Effettuando dellecombinazioni lineari delle equazioni del sistema così ottenuto èpossibile giungere ad un sistema equivalente

DX = B

dove la matrice D è una matrice diagonale, quindi facilmenteinvertibile. In pratica si parte dalla matrice M di dimensione n×

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algebra lineare

2n ottenuta affiancando alla matrice A la matrice identità, M =[A|I] e tramite delle combinazioni lineari si cerca di ottenere laforma M = [I|A− 1].

Esempio 4: Invertire la matrice

A =

1/2 1 21 1 1

1/2 1/2 2

utilizzando il metodo di riduzione di Gauss-Jordan. la matriceM è:

M =

1/2 1 2 1 0 01 1 1 0 1 0

1/2 1/2 2 0 0 1

Moltiplicando la prima riga per 2 e sommando alla seconda ealla terza riga la prima moltiplicata per −1 si ottiene:

M =

1 2 4 2 0 00 −1 −3 −2 1 00 −1 0 2 0 −2

Moltiplicando la seconda riga per −1 e sommando alla terza rigala seconda riga

M =

1 2 4 2 0 00 1 3 2 −1 00 0 3 0 −1 2

Moltiplicando per -2 la seconda riga e sommandola alla prima

M =

1 0 −2 −2 2 00 1 3 2 −1 00 0 3 0 −1 2

Dividendo la terza riga per 3

M =

1 0 −2 −2 2 00 1 3 2 −1 00 0 1 0 −1/3 2/3

A questo punto restano da annullare gli elementi m1,3 e m2,3. Perfarlo è sufficiente moltiplicare la terza riga per −3 e sommarlaalla seconda e successivamente moltiplicare la terza riga per 2 esommarla alla prima ottenendo

M =

1 0 0 −2 4/3 4/30 1 0 2 0 −20 0 1 0 −1/3 2/3

che è della forma M = [I|A− 1] con

A−1 =

−2 4/3 4/32 0 −20 −1/3 2/3

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1.2 matrici

Esempio 5: Modello di Leontief. Consideriamo un’economiacaratterizzata dalla seguente matrice dei coefficienti tecnici diproduzione

A =[

1/2 1/21/5 2/5

]e il vettore della domanda finale

Y =[

2080

]Calcolare il vettore delle quantità che l’economia deve produrre.Ricordando che le quantità da produrre sono date dalla relazione

Q∗ = (I − A)−1 ·Y

calcoliamo I − A:

I − A =[

1 00 1

]−[

1/2 1/21/5 2/5

]=[

1/2 −1/2−1/5 3/5

]Calcoliamo l’inversa mediante il metodo di riduzione di Gauss-Jordan

(I−A)−1 =[

1/2 −1/2 1 0−1/5 3/5 0 1

]=[

1 −1 2 0−1/5 3/5 0 1

]=

Avendo moltiplicato la prima riga per 2. Moltiplichiamo la sec-onda riga per−5 e successivamente sommiamo alla seconda rigala prima moltiplicate per −1

=[

1 −1 2 01 −3 0 5

]=[

1 −1 2 00 −2 −2 −5

]=

ora dividiamo la seconda riga per -2 e successivamente sommi-amo alla prima la seconda moltiplicate per −1:

=[

1 −1 2 00 1 1 5/2

]=[

1 0 3 5/20 1 1 5/2

]Quindi

(I − A)−1 =[

3 5/21 5/2

]L’inversa ci dice che occorrono 3 unità del bene 1 al settore1 per produrre 1 unità del bene 1 da disporre come merce fi-nale;occorrono 2.5 unità del bene 2 al settore 2 per produrre 1unità del bene 2 da disporre come merce finale; occorrono 2.5unità del bene 1 al settore 2 per produrre 1 unità del bene 2 dadisporre come merce finale ed infine che occorre 1 unità del bene2 al settore 1 per produrre 1 unità del bene 1 da disporre comemerce finale. Dalla formula precedente

Q∗ = (I − A)−1 ·Y =[

3 5/21 5/2

] [2080

]=[

260220

]che sono le quantità da produrre del bene 1 e, rispettivamente,del bene 2 da produrre per soddisfare una domanda finale di 20unità del bene 1 e di 80 unità del bene 2.

15

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algebra lineare

1.3 autovalori ed autovettori

Introduciamo ora i concetti di autovalore ed autovettore.

Definizione 17: Sia A una matrice quadrata di ordine n, unAutovalori edautovettori vettore v è detto autovettore di A associato all’autovalore λ ∈ R

se valeAv = λv

Dalla definizione discendono direttamente le seguenti proprie-tà:

1. Se v è un autovettore associato all’autovalore λ allora unsiffatto λ è unico, perché se esistessero λ1λ2 ∈ R tali che

λ1v = Av = λ2v⇒ λ1v− λ2v = 0⇔ (λ1 − λ2) v = 0

2. a λ è, invece, associato più di un autovettore. In effetti sitratta di un’infinità di autovettori, perché se v è tale cheAv = λv allora, preso comunque c ∈ R con c 6= 0, risultainnanzi tutto con cv 6= 0 e soprattutto :

A(cv) = c(Av) = c(λv) = λ(cv)

da cui il vettore cv è associato al medesimo λ autovaloredi v.

3. v autovettore associato all’autovalore λ se e solo se v è unasoluzione propria del sistema omogeneo

(A− λI)v = 0

Definizione 18: Dato l’insieme di vettori v1, · · · , vp con vp ∈Rp, si definisce span

v1, · · · , vp

, l’insieme delle combinazioni

lineari costituite da tali vettori. Ciò è una maniera equivalentedi dire che i vettori generano il relativo span.

Se i vettori v1, · · · , vp fossero linearmente indipendenti, lospazio span

v1, · · · , vp

sarebbe semplicemente il sottospazio

da essi generato.Nel caso di un autovalore λ si pone:

Definizione 19: Vλ = span v : v autovettore di λ (ovvero Vλ èil sottospazio generato da tutti gli autovettori associati all’auto-valore λ).Vλ è detto autospazio associato a λ .

Tale definizione è ben posta, nel senso che effettivamente Vλ

è un sottospazio ma prima di verificare ciò si può introdurre laseguente

Definizione 20: Dato un sottospazio vettoriale V dello spazioRn , si dice che i vettori, v1, v2, · · · , vp, linearmente indipendenti

16

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1.3 autovalori ed autovettori

costituiscono una base per V , se ogni vettore di V può essereespresso come loro combinazione lineare (ovvero V è generatoda tali vettori). Per comodità di notazione, usiamo l’espressioneinsiemistica

v1, . . . , vp

per indicare una base.

Anche in questo caso si possono costruire differenti basi peril sottospazio V ma ciò che resta immutato è il numero p di ele-menti di una qualunque base di V. Tale intero p viene dettorango o dimensione del sottospazio V. Inoltre, ovviamente valep ≤ n (altrimenti i vettori non potrebbero essere linearmente in-dipendenti) ma notiamo che nel caso limite p = n, si potrebbedimostrare che V = Rn. Inoltre, fissata una base di V, ogni vet-tore del sottospazio si può esprimere in modo univoco rispettoad essa.

Teorema 2: Vλ è un sottospazio vettoriale ed ogni suo elemento nonnullo è un autovettore associato all’autovalore λ.

Dimostrazione. Siano w1, w2 ∈ Vλ e quindi tali che Aw1 = λw1

e Aw2 = λw2. Si ha che

A(w1 + w2) = Aw1 + Aw2 = λw1 + λw2 = λ(w1 + w2)

che implicaw1 + w2 ∈ Vλ

ed inoltre ∀α ∈ <

A(αw1) = α(Aw1) = α(λw1) = λ(αw1)⇒ αw1 ∈ Vλ

Definizione 21: Data An, matrice di ordine n, si chiama poli-nomio caratteristico di A , quello così definito (I è sempre la ma-trice identica di ordine n, nel nostro caso):

PA(λ) := det(A− λI) =

∣∣∣∣∣∣∣∣∣a1,1 − λ a1,2 · · · a1,n

a2,1 a2,2 − λ · · · a2,n...

.... . .

...an,1 an,2 · · · an,n − λ

∣∣∣∣∣∣∣∣∣Teorema 3: Data An, allora λ è autovalore per A ⇔ PA(λ) = 0ovvero λ è una radice del polinomio caratteristico.

Dimostrazione. Sia λ una radice del polinomio

PA(λ) = 0⇔ det(A− λI) = 0⇔ r(A− λI) < n⇔ (A− λI)v = 0

Quest’ultimo sistema omogeneo ammette soluzioni proprie se esolo se ∃v 6= 0 soluzione propria di (A− λI)v = 0 se e solo se vè autovettore per l’autovalore λ.

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algebra lineare

Definizione 22: La molteplicità di un autovalore λ2, inteso comesoluzione del polinomio caratteristico, è detta molteplicità del-l’autovalore.

Per il calcolo degli autovalori ed autovettori si procede nelseguente ordine:

1. Se ci sono n autovalori distinti per A, λ1, · · · , λn allora ilpolinomio caratteristico è uguale a:

PA(λ) = (λ− λ1) · · · (λ− λn)

2. Per trovare gli autovalori di una matrice A, si risolve l’e-quazione in λ:

det(A− λI) = 0

3. per trovare gli autovettori riferiti agli autovalori radici del-la precedente, si risolve il sistema

(A− λI)v = 0

Al variare dei λ tra le radici del polinomio caratteristico.

Esempio 6: Completiamo l’esempio relativo al Modello di Leon-tief (5), verificando che il sistema individuato dalla matrice A siavitale o meno. Ricordiamo che un sistema è detto vitale quando èin grado di produrre altro oltre quanto necessario a rimpiazzaregli input produttivi. Matematicamente è sufficiente l’autovaloremassimo della matrice dei coefficienti tecnici A sia minore di 1.Questa condizione garantisce la non negatività dell’inversa diLeontief.

det(A− λI) =∣∣∣∣ 1/2− λ 1/2

1/5 2/5− λ

∣∣∣∣Che posto uguale a zero da il polinomio caratteristico:

PA(λ) = 10λ2 − 9λ + 1 = 0

Le cui soluzioni sono:

λ1 = 0.7702; λ2 = 0.1298

che garantiscono che il sistema sia vitale.

Definizione 23: Una matrice quadrata An è detta triangolareMatrice triangolare

superiore [risp. inferiore] se tutti gli elementi al di sotto del-la diagonale principale [risp. secondaria] sono nulli (ovvero seai,j = 0 con i > j [risp. i < j]).

2 Ricordiamo che quando si dice che la radice x0 ha molteplicità k per ilpolinomio Pn(x), di grado n, si intende che si può scrivere Pn(x) = (x −x0)kPn−k(x) , con Pn−k(x) un opportuno polinomio di grado n− k.

18

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1.3 autovalori ed autovettori

Una matrice diagonale può essere vista come una matrice con-temporaneamente triangolare superiore ed inferiore. Per quantoattiene agli autovalori, se la matrice A è diagonale o triangolare(superiore od inferiore) allora gli autovalori di A sono dati daglielementi presenti nella diagonale principale della matrice stessa.

Esempio 7: Sia A una matrice triangolare superiore:

A =(

3 10 3

)Gli autovalori sono

det(A− λI) = det(

3− λ 10 3− λ

)da cui

(3− λ)2 = 0⇔ 3− λ = 0⇔ λ = 3

L’autovalore λ = 3 è un autovalore doppio. Pertanto, c’è un soloautovalore che viene contato due volte. Cerchiamo gli autovet-tori ad esso associati ovvero il relativo autospazio:

A3 ≡ A− 3I =(

0 10 0

)Chiaramente, il rango di A3 non può essere 2 (avendo impostola condizione che il suo determinante sia nullo). In effetti valer(A) = 1 perché ovviamente c’è un (unico) elemento non nullonella matrice A3 = (A3)1,2 = 1 6= 0.

Vediamo ora di ricavare gli autovettori di A, di fatto quel-li associati all’unico autovalore della matrice (pur se contatodue volte). Utilizzando come matrice dei coefficienti quella suriportata, occorre allora risolvere il sistema che ne deriva:

(A− λI)w = 0⇔ 0 ·w1 + 1 ·w2 = 0

Che ha ∞2−1 = ∞1 soluzioni del tipo t(1, 0)t∈R. Gli autovettorisono quindi tutti multipli dell’autovettore v1 = (1, 0).

Se è dato un sistema lineare la cui matrice dei coefficienti è tri-angolare superiore o addirittura diagonale, la relativa soluzioneè meno costosa in termini e di calcoli e di tempo. Pertanto,trasformare una data matrice dei coefficienti appunto in formatriangolare o diagonale, se possibile, è auspicabile. A tale scopo,sono utili gli autovalori e gli autovettori.

Definizione 24: Data una matrice A di dimensione n, si diceche essa è

1. triangolarizzabile se esiste una matrice B tale che B−1AB Matrice triangolarizzabile

è triangolare superiore o inferiore

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algebra lineare

2. diagonalizzabile se esiste una matrice B tale che B−1AB èMatrice diagonalizzabile

diagonale

Inoltre, date due matrici A e C,esse sono dette simili se esisteMatrici simili

una matrice B, invertibile, tale che C = B−1AB. Esse hanno lostesso determinante, stesso rango e stesso polinomio caratteristi-co.

Utilizzando il

Teorema 4: Siano v1, v2, · · · , vp autovettori di A associati, rispetti-vamente, agli autovalori (reali) λ1, λ2, · · · λp. Se

λi 6= λj ∀i 6= j⇔ v1, v2, · · · , vp L.I.

ovvero, ad autovalori distinti corrispondono autovettori linearmenteindipendenti e viceversa.

si può dimostrare l’importante

Teorema 5: Ogni matrice quadrata A è triangolarizzabile.

In particolare se A è diagonalizzabile, si consideri la sua cosid-detta trasformata diagonale, D , ovvero la matrice diagonale ri-cavata dalla posizione D = B−1AB con B matrice invertibile.Indicata esplicitamente:

D =

λ1 0 . . . 00 λ2 . . . 0...

.... . .

...0 0 . . . λn

dovrebbe valere

B−1AB = D =

λ1 0 . . . 00 λ2 . . . 0...

.... . .

...0 0 . . . λn

⇔ AB = BD

Ciò è vero se e solo se, indicate le colonne di B con i vettori vi

risulta Av1 = λ1v1

......

Avn = λnvn

Quanto scritto in realtà equivale a dire che le colonne di B sonoautovettori per la matrice A associati, rispettivamente, agli ele-menti posti nella diagonale di D che risultano a loro volta gliautovalori di A. Inoltre

Teorema 6: Data la matrice A di ordine n, essa è diagonalizzabile see solo se ammette n autovettori linearmente indipendenti.

20

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1.3 autovalori ed autovettori

Dimostrazione. (⇒) A è diagonalizzabile quindi ∃B, invertibile,tale che la matrice D = B−1AB è diagonale. Del resto se B, di ordine n, è invertibile, si ha che det B 6= 0 e quindi, le suecolonne, intese come vettori, sono linearmente indipendenti. Perl’osservazione precedente, esse sono n autovettori per A e sonolinearmente indipendenti, il che implica la prima parte del teo-rema.(⇐) A ammette n autovettori linearmente indipendenti, siano es-si v1, v2, . . . , vn. Definiamo la matrice B, di ordine n, come quellache ammette come colonne tali vettori ovvero B = (v1, v2, . . . , vn). Visto che le colonne sono per ipotesi linearmente indipendenti,ciò implica che det B 6= 0 e quindi B è invertibile (avendo rangomassimo n). Inoltre, agli autovettori v1, v2, . . . , vn sono associati,rispettivamente, gli autovalori λ1, λ2, . . . , λn tali che Avi = λivi

per i = 1, . . . , n. Posta allora

D =

λ1 0 . . . 00 λ2 . . . 0...

.... . .

...0 0 . . . λ3

tale matrice è diagonale e risulta ovviamente

AB = BD ⇒ D = B−1AB

con B invertibile. Tutto ciò è proprio la definizione di diagonaliz-zabilità della matrice A.

Teorema 7: Se A ammette n autovalori (reali) distinti allora A èdiagonalizzabile.

Dimostrazione. Se esistono n autovalori distinti allora esistonoanche n autovettori linearmente indipendenti e di conseguenza,per il teorema precedente essa è diagonalizzabile.

Definizione 25: Una matrice A è detta ortogonale se è invert- Matrice ortogonale

ibile e se la sua inversa coincide con la sua trasposta, ovveroA−1 = AT

Ricordando la definizione e la notazione della diagonalizzabil-ità, risulta vero che

Teorema 8: Se A è una matrice simmetrica allora essa è diagonalizz-abile, con B unitaria. Viceversa, se A è diagonalizzabile con B unitaria,allora A è una matrice simmetrica.

Definizione 26: Data A diagonalizzabile, con matrice diagonaleassociata

D =

λ1 0 . . . 00 λ2 . . . 0...

.... . .

...0 0 . . . λ3

21

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algebra lineare

si dice che esiste una base che diagonalizza A, costituita daivettori v1, v2, . . . , vn associati agli autovalori λ1, λ2, . . . , λn (even-tualmente non distinti) e, di fatto, tale base è costituita dall’u-nione di quelle degli autospazi Vλ (presi corrispondentemente).In simboli, si scriverà

BA = v1, v2, . . . , vn

Esempio 8: Data la matrice

A =

0 4 04 0 30 3 0

si calcolino i suoi autovalori ed autovettori, identificando i cor-rispondenti autospazi. Verificare, inoltre, se e come essa possaessere diagonalizzata. Essendo A è simmetrica, sappiamo a pri-ori che essa è diagonalizzabile. Ora, il suo polinomio caratteris-tico, posto uguale a 0, è dato da

PA(λ) = det

−λ 4 04 −λ 30 3 −λ

= −λ3 + 25λ = −λ(λ2− 5) = 0

da cui si ricava che esso ammette come radici i seguenti autoval-ori:

λ1 = 0, λ2 = 5, λ3 = −5

Esplicitiamo gli autospazi e gli autovettori corrispondenti.

1. λ1 = 0 Tale autovalore ha matrice associata

A− 0 · I3 =

0 4 04 0 30 3 0

che ha rango 2, visto che da essa si può estrarre quella didimensione 2

A(2)0 =

[0 44 0

]con rango 2, poiché il suo determinante è diverso da 0 .Pertanto, l’autospazio V0 associato a tale autovalore avràdimensione 1, in quanto il sistema lineare relativo - che haA(2)

0 come matrice dei coefficienti - ammette ∞3−2 = ∞1

soluzioni, per il teorema di Rouché-Capelli. Tali soluzionipossono essere ricavate risolvendo, appunto

4y = 04x + 3z = 0

Se si attribuisce a z il valore parametrico t, il sistema si puòriscrivere come

z = ty = 0

4x = −3t

22

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1.3 autovalori ed autovettori

le cui soluzioni sono (−3/4t, 0, t) con t ∈ R. In conclu-sione V0 ammette come elementi i multipli dell’autovettore(−3/4, 0, 1)

2. λ2 = 5 ha matrice associata

A− 5 · I3 =

−5 4 04 −5 30 3 −5

che ha rango 2, visto che da essa si può estrarre quella didimensione 2

A(2)5 =

[4 −50 3

]con rango 2, come nel caso precedente. Pertanto, l’au-tospazio V5 associato a tale autovalore avrà dimensione 1,in quanto il sistema lineare relativo - che ha A(2)

5 come ma-trice dei coefficienti - ammette ∞3−2 = ∞1 soluzioni, per ilteorema di Rouché-Capelli. Tali soluzioni possono esserericavate risolvendo il sistema lineare

4x− 5y + 3z = 03y− 5z = 0

ed attribuendo a z il valore parametrico t, tale sistemadiviene

z = t4x + 5y = −3t

3y = 5t

le cui soluzioni sono (4/3t, 5/3t, t) con t ∈ R. In conclu-sione V5 ammette come elementi i multipli dell’autovettore(−4/3, 5/3, 1)

3. λ3 = −5 ha matrice associata

A + 5 · I3 =

5 4 04 5 30 3 5

Ancora una volta, il rango è 2 , visto che da essa si puòestrarre

A(2)−5 =

[4 05 3

]con rango 2. Pertanto, l’autospazio V−5 associato a tale au-tovalore avrà dimensione 1, in quanto il sistema lineare rel-ativo - che ha A(2)

−5 come matrice dei coefficienti - ammette∞3−2 = ∞1 soluzioni, per il teorema di Rouché-Capelli.Tali soluzioni possono essere ricavate risolvendo il sistemalineare

5x + 4y = 04x + 5y + 3z = 0

23

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algebra lineare

ed attribuendo a x il valore parametrico t, tale sistemadiviene

x = t4y = −5t

5y + 3z = −4t

le cui soluzioni sono (t,−5/4t, 3/4t) con t ∈ R. In conclu-sione V−5 ammette come elementi i multipli dell’autovet-tore (1,−5/4, 3/4)

Infine, la matrice trasformata in forma diagonale di A è

D =

0 0 00 5 00 0 −5

mentre una base diagonalizzante per A è data dall’insieme

BA = v1, v2, v3

Se calcoliamo la somma degli autovalori ottenuti nll’esempioprecedente possiamo introdurre altre interessanti proprietà dellematrici (valide in genere per tutte le matrici quadrate):

1. La somma degli elementi della diagonale principale dellamatrice quadrata A è detta traccia di A e si indica con trA

2. Il prodotto degli autovalori della matrice quadrata A coin-cide con il determinante di A

Se consideriamo ora matrici reali simmetriche possiamo intro-durre ulteriori proprietà dei loro autovalori ed autovettori:Data la matrice reale simmetrica A:

1. i suoi autovalori sono tutti numeri reali;

2. A è diagonalizzabile: esiste una matrice diagonale D eduna matrice invertibile B, ambedue reali, tali che B−1AB =D

3. la matrice B del punto precedente può essere scelta taleche BT = B−1 (ortogonale)

La prima proprietà citata ci assicura che nel caso di matrici realisimmetriche troveremo autovalori ed autovettori ancora reali. Laseconda proprietà è forse la più sorprendente tra quelle citate:una matrice simmetrica è sempre diagonalizzabile, qualunquesia la molteplicità dei suoi autovalori. Questo è un caso partico-lare di un risultato noto come Lemma di Shur:

Lemma 1: Sia A una matrice quadrata, non necessariamente simmet-rica, i cui elementi siano reali così come i suoi autovalori. Esiste unamatrice ortogonale S ed una matrice triangolare superiore U tali cheS1AS = U.

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1.4 forme quadratiche

1.4 forme quadratiche

La teoria delle forme quadratiche che richiamiamo brevementein questo paragrafo risulta molto utile in vari campi di appli-cazione, in particolare la utilizzeremo nel calcolo di massimi eminimi locali di funzioni a più variabili.

Definizione 27: Data la matrice quadrata simmetrica A di or- Forme quadratiche

dine n e il generico vettore x ∈ Rn si chiama forma quadraticaindividuata da A l’espressione

xT Ax (1.2)

La (27) mostra che la forma quadratica è un polinomio disecondo grado ed omogeneo3 nelle variabili x1, x2, . . . , xn i cuicoefficienti sono dati dagli elementi della matrice simmetrica A.

Esempio 9: In R2 sia

A =[

1 −1−1 2

]; x =

(x1

x2

)La forma quadratica individuata da A è:

xT Ax =(

x1 x2) [ 1 −1−1 2

] (x1

x2

)=

= x21 − 2x1x2 + 2x2

2

ed è quindi un polinomio omogeneo di secondo grado nellevariabili x1 e x2.

Nella definizione (27) non si è escluso volutamente il vettorenullo. E’ ovvio che se lo si considera nell’espressione (??) laforma quadratica assume il valore zero. Nel seguito studiere-mo forme quadratiche che si annullano solo per x = 0 e che sichiamano forme quadratiche definite.

Definizione 28: La forma quadratica xT Ax è definita positivase:

xT Ax > 0 ∀x ∈ Rn, x 6= 0

si dirà semidefinita positiva se

xT Ax ≥ 0 ∀x ∈ Rn

si dirà definita negativa se

xT Ax < 0 ∀x ∈ Rn, x 6= 0

si dirà semidefinita negativa se

xT Ax ≤ 0 ∀x ∈ Rn

3 Ovvero ogni termine è dello stesso grado.

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algebra lineare

Diremo semplicemente, in seguito, che la matrice simmetricaA è (semi)definita positiva [(semi)definita negativa] se lo è laforma quadratica da essa individuata e che è indefinita in tuttigli altri casi. Vediamo quindi come caratterizzare in pratica lematrici simmetriche definite con il seguente teorema:

Teorema 9: Condizione necessaria e sufficiente affinchè la forma quadrat-ica xT Ax sia definita positiva (negativa) è che tutti gli autovalori di Asiano positivi (negativi).

Vediamo un esempio:

Esempio 10: In R2 caratterizzare la forma quadratica individua-ta da

A =[

t 11 2

]; x =

(x1

x2

)t ∈ R

al variare di t.

xT Ax =(

x1 x2) [ 2t 1

1 1

] (x1

x2

)=

= (2t)x21 + 2x1x2 + x2

2

Se calcoliamo autovalori di A otteniamo:

PA(λ) = det[

2t− λ 11 1− λ

]= λ2 − (1 + 2t)λ + 2t− 1 = 0

l’equazione di secondo grado in λ così ottenuta va studiata alvariare del parametro t. Iniziamo a vedere per quali valori delparametro gli autovalori assumono lo stesso segno ponendo

ca

= 2t− 1 > 0⇒ t >12

Quindi per t > 12 la formaquadratica è definita, altrimenti in-

definita. Resta da vedere per quali valori di t essa è definitapositiva e per quali definita negativa:

−ba

= 1 + 2t > 0⇒ t > −12

Dall’intersezione delle due soluzioni possiamo concludere che:

1. per t > 12 la matrice A è definita positiva

2. per t = 12 la matrice A è semidefinita positiva (è sufficiente

sostituire il valore in t per verificarlo)

3. per t < 12 la matrice A è indefinita

Non sempre è agevole il calcolo degli autovalori di una ma-trice, per cui esistono altri metodi che permettono di caratter-izzare una matrice. Il metodo che illustriamo ora si basa sulcalcolo dei minori principali di una matrice quadrata.

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1.4 forme quadratiche

Definizione 29: Data una matrice quadrata A di ordine n sidice minore principale di ordine k un qualsiasi minore di ordinek (1 ≤ k ≤ n) ottenuto prendendo righe e colonne con gli stessiindici. Tale minore viene detto dominante di ordine se ottenuto apartire dalle prime k righe e k colonne di A

Si può quindi introdurre una nuova metodologia per caratter-izzare la matrice A basata sul seguente teorema:

Teorema 10: Condizione necessaria e sufficiente affinché A si è defini-ta positiva è che siano positivi tutti i suoi minori principali dominanti,cioè;

Ak > 0 k = 1, 2, . . . , n

Condizione necessaria sufficiente affinché A sia definita negativa è che

(−1)k Ak > 0 k = 1, 2, . . . , n

Anche nel caso di matrici semidefinite si possono trovare risul-tati analoghi4: è condizione necessaria e sufficiente affinché A siasemidefinita positiva (negativa) la non negatività (non negativitàdei minori di ordine pari, non positività di quelli dispari) di tuttii minori principali di A.

Esempio 11: Data la matrice

A =

2 0 23 −1 11 0 2

;

I suoi minori del primo ordine sono

|2| = 2 (dom.); | − 1| = −1; |2| = 2;

I suoi minori del secondo ordine sono∣∣∣∣ 2 03 −1

∣∣∣∣ = −2 (dom.);∣∣∣∣ 2 2

1 2

∣∣∣∣ = 2;∣∣∣∣ −1 0

1 2

∣∣∣∣ = −2;

Il suo unico minore principale del terzo ordine è∣∣∣∣∣∣2 0 23 −1 11 0 2

∣∣∣∣∣∣ = −2

che è, ovviamente, anche dominante.

Esempio 12: La matrice

A =[

1 −3−3 9

];

4 Si noti che per vedere se una matrice è semidefinita occorre esaminare tutti isuoi minori principali e non soltanto quelli dominanti.

27

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algebra lineare

è semidefinita positiva, i suoi minori principali del primo ordinesono:

|1| = 1 > 0|9| = 9 > 0

il suo unico minore principale del secondo ordine è:∣∣∣∣ 1 −3−3 9

∣∣∣∣ = 0

ed infatti anche i suoi autovalori sono λ1 = 10 e λ2 = 0.

28

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2C E N N I D I M E T R I C A E T O P O L O G I A I N Rn

indice

2.1 Metrica di Rn 292.2 Topologia di Rn 312.3 Spazi metrici 332.4 Spazi normati 372.5 Insiemi compatti 42

Nel paragrafo precedente abbiamo definito il concetto di spaziolineare, nella sua forma il più possibile generica. Il passo succes-sivo è introdurre degli strumenti che ci permettano di estenderead Rn i concetti definiti per funzioni reali a variabili reali. Adesempio la definizione di limite di funzione in R fa uso del con-cetto di intorno così come è possibile dare la definizione di con-vergenza puntuale solo dopo aver stabilito cosa si intende per dis-tanza fra due punti. Abbiamo quindi bisogno di indicare comecalcolare in Rn la distanza tra due suoi punti, stabilendo unapossibile metrica di Rn e precisare il concetto di intorno di unpunto, ossia definire una topologia.

2.1 metrica di Rn

Vediamo di ridefinire il concetto di distanza, per generalizzarload insiemi di dimensione qualsiasi.

Definizione 30: Sia E un insieme, una funzione d : E× E _ R Metrica

viene detta metrica su E se verifica le seguenti proprietà:

1. d(x, y) ≥ 0, per ogni (x, y) ∈ E× E

2. d(x, y) = 0, se e solo se x = y

3. d(x, y) = d(y, x) per ogni (x, y) ∈ E× E

4. d(x, z) ≤ d(x, y)+ d(y, z) per ogni x, y, z ∈ E (disuguaglian-za triangolare).

In R abbiamo definito la distanza tra due punti x1 e x2 apparte-nenti ad E per mezzo del concetto di valore assoluto o modulo|x2 − x1|. Partendo dalla definizione di modulo

|x| =

x se x ≥ 0−x se x < 0

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cenni di metrica e topologia

è decisamente semplice verificare le proprietà della metrica ap-pena introdotte.Sia ora E ∈ R2, dati x = (x1, x2) e y = (y1, y2) con x, y ∈ E ⊆ R2

si definisce la distanza tra x e y mediante l’espressione:

d(x, y) =√

(x1 − y1)2 + (x2 − y2)2

La metrica così introdotta in R2 è facilmente generalizzabile adDistanza euclidea

Rn. Siano dati x = (x1, x2, . . . , xn) e y = (y1, y2, . . . , yn) conx, y ∈ E ⊆ Rn l’espressione

d(x, y) =√

(x1 − y1)2 + (x2 − y2)2 + . . . + (xn − yn)2 (2.1)

L’espressione ottenuta è chiamata distanza euclidea in quanto ot-tenuta dalla generalizzazione della distanza della geometria eu-clidea. Può essere scritta in forma compatta come:

dε :=

√n

∑i=1

(xi − yi)2

Altre distanze si possono considerare in Rn, ad esempio con-siderando il modulo della differenza delle componenti omologhedi due vettori x, y ∈ Rn

d1 = (x, y) =n

∑i=1|xi − yi|

si ottiene la distanza unitaria d1. Un’altra distanza, quella infini-ta d∞ è:

d∞ = max1≤i≤n

|xi − yi|

Partendo invece dalla distanza euclidea e generalizzandola siottiene la distanza dp:

dp =

(n

∑i=1|xi − yi|p

)1/p

Possiamo notare una stretta relazione tra le distanze dp e d∞.Infatti:

Esempio 13: Siano:

d(x1, y1) = 1; d(x2, y2) = 2; d(x3, y3) = 3

dalla definizione di dp:

dp(x, y) = (1p + 2p + 3p)1/p

facendo tendere ora p→ ∞

limp→+∞(1p + 2p + 3p)1/p == exp

(limp→∞

1p ln(1p + 2p + 3p)

)=

= exp(

limp→∞1p ln

[3p(( 1

3

)p +( 2

3

)p + 1))]

=

= exp(

limp→∞1p

[p ln 3 + ln

(( 13

)p +( 2

3

)p + 1)])

== exp ln 3 == 3

30

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2.2 topologia di Rn

da cuid∞(x, y) = 3 = max

i=1,2,3|xi − yi|

che è la distanza infinita.

Figura 1.: Distanze

2.2 topologia di Rn

Iniziamo a definire il concetto di intorno:

Definizione 31: Dato un punto x0 ∈ Rn ed uno scalare δ, sichiama intorno circolare di centro x0 e raggio δ, e si indica conI(x0, δ), l’insieme dei punti x ∈ Rn che hanno distanza da x0

inferiore a δ, cioè:

I(x0, δ) = x ∈ Rn : ‖x− x0‖ < δ

Dalla definizione di intorno discende la seguente

Definizione 32: Dato x ∈ Rn ed A ⊆ Rn si dice che:

1. x è un punto di accumulazione di A se qualsiasi intornodi x contiene infiniti punti di A. L’insieme di tutti i puntidi accumulazione viene indicato con A′ e detto derivato diA.

2. x è un punto interno di A se x ∈ A ed inoltre esiste un suointorno tutto costituito di punti di A. L’insieme di tutti ipunti interni di A è detto interno di A ed indicato con A

3. x è un punto esterno di A se esso non appartiene ad A edinoltre esiste un suo intorno che non contiene alcun puntodi A;

4. x è un punto di frontiera di A se non è né interno né es-terno ad A, esso può appartenere o non appartenere ad A.L’insieme di tutti i punti di frontiera di A è detto frontieradi A ed indicato con ∂A.

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cenni di metrica e topologia

5. x è un punto isolato di A se esso appartiene ad A ma nonè un suo punto di accumulazione.

6. x è contiguo ad A se esso appartiene ad A oppure è un suopunto di accumulazione.

Sulla base delle definizioni appena date è possibile caratteriz-zare topologicamente i sottoinsiemi di Rn.

Definizione 33: Dato A ⊆ Rn si dice che:

1. Se A = A, ovvero se è costituito solo da punti interni, Aviene detto aperto.

2. Se A′ ⊆ A, ovvero se contiene tutti i suoi punti di accumu-lazione, A viene detto chiuso.

3. Se A′ = A, ovvero se coincide con il proprio derivato, Aviene detto perfetto.

4. Se A′ = ∅, ovvero se non ha punti di accumulazione, Aviene detto discreto.

Definizione 34: Dato A ⊆ Rn l’insieme A = A ∪ A′ è chiuso eprende il nome di chiusura di A.

Quindi la chiusura di un insieme può essere ottenuta sem-plicemente aggiungendo ad essi le parti di frontiera che noncontengono, in generale

A ∪ A′ = A ∪ ∂A

Esempio 14: E’ molto semplice fornire esempi di insiemi cheabbiano le proprietà elencate:

1. un intorno circolare è un insieme aperto;

2. l’insieme dei reciproci degli interi positivi

1, 12 , 1

3 , . . .

nonè discreto perchè possiede un punto di accumulazione inzero, non è chiuso (lo zero non gli appartiene) ma nem-meno aperto (è costituito da soli punti di frontiera isolati).

3. l’intervallo [1, 2] ⊂ R è chiuso.

In alcuni casi è necessario conoscere le caratteristiche topo-logiche degli insiemi relativamente al modo in cui i loro puntisono distribuiti nello spazio di appartenenza. Sia A ⊂ Rn

Definizione 35: A è detto convesso se presi due qualsiasi suoipunti è possibile congiungerli con un segmento appartenenteinteramente ad A.

Definizione 36: A è detto connesso per poligonali se presi duequalsiasi suoi punti è possibile congiungerli con una spezzatacostituita da punti di A.

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2.3 spazi metrici

Nella figura che segue l’insieme a sinistra è connesso per polig-onali ma non convesso mentre l’insieme di destra è sia connessoche convesso.

Figura 2.: Insieme connesso e convesso

Dati due punti u1 e u2 in A ⊆ Rn il segmento che li congiungeè descritto da

r(t) = tu2 + (1− t)u1 t ∈ [0, 1] (2.2)

La definizione precedente di convessità può essere formalizzatatramite la (2.2) affermando che A è convesso se e solo se ad essoappartengono tutte le combinazioni lineari convesse delle coppiedei suoi punti.

Definizione 37: A è detto convesso se e solo se ∀t ∈ [0, 1] e∀u1, u2 ∈ A si ha che r(t) ∈ A.

Relativamente alle operazioni insiemistiche è facile verificareche l’intersezione di insiemi convessi è ancora convessa mentrenon è detto che l’unione o la differenza lo siano.

Figura 3.: Intersezione ed unione di insiemi convessi

2.3 spazi metrici

E’ possibile definire il concetto di distanza su un insieme qualsi-asi.

Definizione 38: Si consideri un insieme S dotato di una fun- Spazi metrici

zione distanza (la metrica d) che, per ogni coppia di punti (x, y) ∈S, fornisce la distanza tra di loro per mezzo di un numero realenon negativo d(x, y) e che soddisfa le proprietà (30).

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cenni di metrica e topologia

Su uno stesso insieme S è possibile definire diverse metricheottenendo in tal modo diversi spazi metrici. Se consideriamo,per esempio, le distanze d1 e d2 restano definiti due spazi medi-ci differenti: (S, d1) e (S, d2).Vediamo a questo punto qualche esempio di spazio metrico in-dotto da comuni distanze, siano xi e yi, per i = 1, . . . , n duepunti dell’insieme S ⊆ Rn:

Esempio 15: La prima metrica che prendiamo in considerazioneè la distanza euclidea:

dε(x, y) :=

√n

∑i=1

(xi − yi)2 i = 1, . . . , n

lo spazio metrico generato da questa distanza (X, dε) è, in parti-colare, uno spazio di Hilbert.

Esempio 16: considerando il massimo valore del modulo del-la differenza delle componenti omologhe otteniamo la distanzainfinita:

d∞(x, y) = max|xi − yi|

Esempio 17: considerando il modulo della differenza delle com-ponenti omologhe otteniamo la distanza unitaria:

d1(x, y) =n

∑i=1|xi − yi|

Esempio 18: sia p : 1 ≤ p < +∞ possiamo generalizzare ladistanza euclidea precedentemente considerata:

dp(x, y) = (n

∑i=1|xi − yi|p)

1p

Esempio 19: Sia S l’insieme delle n-ple ordinate delle rilevazionidei prezzi di un portafoglio composto da n titoli in un certoperiodo. Dati due qualsiasi punti r ed s di S si può definire unadistanza tra r ed s ponendo d(r, s) = ∑n

i=1 |ri − si|. Anche inquesto caso la distanza considerata soddisfa le proprietà (30) equindi S, dotato della distanza d è anch’esso uno spazio metrico.

Gli spazi metrici possono essere costituiti anche da insiemi difunzioni:

Esempio 20: L’insieme delle funzioni di classe C0[a, b], ossia lefunzioni continue nell’intervallo chiuso [a, b]. Sia quindi

X = C0[a, b]d( f , g) = maxx∈[a,b] | f (x)− g(x)|

Lo spazio metrico ottenuto (X, d) verifica le 30 in quanto:

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2.3 spazi metrici

1. d( f , g) = 0 se e solo se f ≡ g (dalle proprietà del valoreassoluto);

2. d( f , g) = d(g, f ) (dalle proprietà del valore assoluto);

3. la proprietà triangolare è

d( f , h) = maxx∈[a,b] | f (x)− h(x)| == | f (x)− h(x)| = | f (x)− g(x) + g(x)− h(x)| ≤≤ | f (x)− g(x)|+ |g(x)− h(x)| ≤≤ maxx∈[a,b] | f (x)− g(x)|+ maxx∈[a,b] |g(x)− h(x)| == d( f , g) + d(g, h)

Quindi uno spazio metrico costituito da un insieme di funzioniC0[a, b] e dotato di distanza infinita può essere scritto come:(

C0[a, b], d∞)

Un altro tipo di distanza, sullo stesso insieme genera un diver-so spazio metrico:

Esempio 21: Consideriamo ancora l’insieme delle funzioni diclasse C0[a, b]. Sia quindi

X = C0[a, b]d1( f , g) =

∫ ba | f (x)− g(x)|dx

Lo spazio metrico ottenuto (C0[a, b], d1) verifica le 30.

1. d( f , g) = 0 se e solo se f ≡ g (dalle proprietà del valoreassoluto);

2. d( f , g) = d(g, f ) (dalle proprietà del valore assoluto);

3. la proprietà triangolare è

d1( f , h) =∫ b

a | f (x)− h(x)|dx ≤≤

∫ ba | f (x)− g(x)|+ |g(x)− h(x)|dx =

=∫ b

a | f (x)− g(x)|dx +∫ b

a |g(x)− h(x)|dx == d1( f , g) + d1(g, h)

Definizione 39: Due spazi metrici (S1, d1) e (S2, d2) sono iso- Spazi metriciisometricimetrici se esiste una corrispondenza biunivoca f detta isometria

tra S1 ed S2 tale che:

d2( f (u, v)) = d1(u, v) u, v ∈ S1

Quindi l’applicazione f è tale da conservare le distanze, os-sia misurando nello spazio metrico S1 la distanza tra due suoipunti qualsiasi o in S2 la distanza tra le rispettive immaginisecondo f si ottiene lo stesso valore. In questo paragrafo ab-biamo introdotto il concetto di spazio metrico non facendo nes-suna assunzione sulle caratteristiche dell’insieme che lo costitu-isce. Tutte le definizioni viste sinora sono quindi valide per uno

35

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cenni di metrica e topologia

spazio metrico qualsiasi. Cerchiamo di evidenziare ora le dif-ferenze tra spazi metrici qualsiasi e lo spazio metrico euclideoRn.In generale in Rn fissata una qualsiasi distanza si può definire ilconcetto di successione convergente:

Definizione 40: Si dice che la successione xk in Rn convergeal punto x ∈ Rn, in simboli

limk→+∞

xk = x

se la successione di numeri reali d(xk, x) converge a zero, ossiase

limk→+∞

‖xk − x‖ = 0

In particolare, in Rn è valido il criterio di convergenza diCauchy visto per le successioni in R:

Teorema 11: Condizione necessaria e sufficiente affinchè la succes-Criterio di Cauchy

sione xk sia convergente è che, comunque preso un ε ∈ R+ esista unindice N tale che per n, m > N sia

d(xn, xm) = ‖xn − xm‖ < ε

Se si tenta di estendere il concetto di successione appena defini-to in Rn ad uno spazio metrico qualsiasi si ottiene:

Definizione 41: Si dice che la successione xk nello spaziometrico (S, d) converge al punto x ∈ S, in simboli

limk→+∞

xk = x

se la successione di numeri reali d(xk, x) converge a zero, ossiase

limk→+∞

d(xk, x) = 0 (2.3)

Per spazi metrici generali non è in generale valido il criterio diconvergenza di Cauchy visto precedentemente, infatti se è validala precedente definizione (2.3) discende che comunque preso unε ∈ R+ esiste un indice N tale che comunque presi n, m > N siha

d(xn, xm) < ε (2.4)

che è, ovviamente una condizione necessaria per la convergenza.Si verifica agevolmente che essa non è però sufficiente.

Esempio 22: Si consideri l’insieme dei numeri razionali Q, dota-to dell’applicazione d : Q2 → R definita da d(p, q) = |p −q| ∀p, q ∈ Q. E’ facile verificare le (30) e quindi affermareche l’insieme dei numeri razionali, dotato della distanza d è

36

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2.4 spazi normati

uno spazio metrico. Si consideri ora la successione delle ap-prossimazioni per difetto razionali di

√2. Essa, evidentemente,

soddisfa la (2.4) ma non ammette limite in Q non essendo√

2razionale.

Se uno spazio metrico non è completo, ci si pone il problemadi vedere se è possibile renderlo tale. A tal proposito definendo

Definizione 42: La successione xk nello spazio metrico (S, d)è detta successione di Cauchy se è verificata la condizione (2.4).

si ha a disposizione uno strumento per completare un qualsi-asi spazio metrico:

Definizione 43: Uno spazio metrico (S, d) è completo se ogni sua Spazio metrico completo

successione di Cauchy è convergente.

La condizione espressa nella definizione precedente è sia nec-essaria che sufficiente.

Teorema 12: Uno spazio metrico non completo è sempre completabile.

2.4 spazi normati

Definizione 44: Dato uno spazio lineare X, un’applicazione da Norma

X → R+, indicata con ‖x‖ è detta norma se verifica:

1. ‖x‖ ≥ 0, per ogni x ∈ X

2. ‖x‖ = 0, se e solo se x = 0

3. ‖αx‖ = |α|‖x‖ per ogni x ∈ X, α ∈ K

4. ‖x + y‖ ≤ ‖x‖+ ‖y‖, per ogni x, y ∈ K detta disuguaglian-za triangolare

Nel caso particolare dello spazio Rn si definisce norma p, con1 ≤ p < ∞

‖x‖p =

(n

∑i=1|xi|p

)1/p

(2.5)

La precedente (2.5) nel caso in cui p assuma valore pari ad unoviene detta norma uno o norma di Manhattan; per p pari a due èla ben nota norma euclidea 2.1 e per p = ∞ è la norma del massimoo norma di Chebichev che si può definire nel seguente modo:

‖x‖∞ = max1≤i≤n

|xi|

Le proprietà richieste dalla definizione di norma sono banal-mente verificate per p = 1 e p = ∞ edin particolare, per 1 <

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cenni di metrica e topologia

p < ∞ la disuguaglianza triangolare viene detta disuguaglianzadi Minkowsky ed assume la forma(

n

∑i=1|xi + yi|p

)1/p

≤(

n

∑i=1|xi|p

)1/p

+

(n

∑i=1|yi|p

)1/p

(2.6)

Infine, se A è una matrice simmetrica di ordine n e definitapositiva, si definisce norma di vettore

‖x‖A :=

(n

∑i,j=1

aijxixj

)1/2

La definizione di norma di matrice è un po’ più complessa inNorma di matrice

quanto si vuole che sia compatibile con una norma di vettore.Più precisamente data una norma di vettore ad essa si asso-cia una norma di matrice in modo tale che valga la seguenterelazione

‖Ax‖ ≤ ‖A‖‖x‖

Per ottenere la disuguaglianza desiderata si puto definire unanorma di matrice, detta norma di matrice naturale associata allanorma di vettore, come segue: per ogni matrice A ∈ Rnxn

‖A‖ = supx∈Rn,x 6=0

‖Ax‖‖x‖

Ne segue che la norma così definita gode anche della proprietàsubmoltiplicativa:

‖AB‖ ≤ ‖A‖‖B‖

Più in generale quando una norma di matrice verifica la prece-dente proprietà submoltiplicativa si dice che essa è consistente ocompatibile con la corrispondente norma di vettore.

Definizione 45: Sia V uno spazio lineare e sia ‖ · ‖ una norma.La coppia (V, ‖ · ‖) è detta Spazio normato.

Vediamo un esempio immediato.

Esempio 23: Verifichiamo che R2, dotato della norma è uno spazionormato. Essendo R2 uno spazio lineare è sufficiente verificarele proprietà della norma. Essendo

‖x, y‖ =√

x2 + y2

le prime due risultano banalmente verificate, per quanto riguar-da la disuguaglianza triangolare

‖(x1, y1) + (x2, y2)‖ ≤ ‖(x1, y1)‖+ ‖(x2, y2)‖

quindi R2 è uno spazio normato.

38

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2.4 spazi normati

Esempio 24: Il cerchio di raggio unitario è l’insieme dei puntiche hanno norma minore od uguale ad uno, essendo, analitica-mente, la norma la distanza dall’origine di un punto, ma non èuno spazio normato perchè non è uno spazio lineare.

Ricordando inoltre che

‖x, y‖ = d(x, y)

si può dedurre che uno spazio normato è sicuramente anche unospazio metrico ma non è detto il contrario. Se indichiamo conVd uno spazio lineare metrico con distanza d possiamo chiarirecosa si intende con l’affermazione metrica indotta da una norma.Diremo che d è indotta da una norma se e solo se soddisfa:

1. d(λx, 0) = |λ|d(x, 0) ∀λ ∈ R ∀x ∈ V

2. d(x, y) = d(x + z, y + z) ∀x, y, z ∈ V

Vediamo di chiarire con alcuni esempi le proprietà appena in-trodotte. Partendo da una generica metrica vogliamo vedere seessa è indotta da una norma.

Esempio 25: Data la metrica

d1(x, y) =

0 se x = y1 se x 6= y

si può affermare che la metrica d1 non è indotta da una normanon verificando la prima proprietà delle (44).

Esempio 26: Data in Rn la metrica

dp(v, w) =

(n

∑i=1|vi −wi|p

)1/p

verifichiamo le (2.4). La prima

dp(λv, 0) = (∑ni=1 |λvi|p)1/p

= (|λ|p ∑ni=1 |vi|p)1/p

= |λ| (∑ni=1 |vi|p)1/p

= |λ|dp(v, 0)

risulta verificata con semplici passaggi algebrici; la seconda èbanalmente verificata. Quindi la metrica considerata distanzaindotta da una norma.

Introduciamo ora il concetto di prodotto scalare.

Definizione 46: Dato lo spazio vettoriale V, dotato del campo Prodotto scalare

K, si chiama prodotto scalare e si indica 〈·, ·〉 un’applicazione daV ×V a valori in R. Essa gode delle seguenti proprietà:

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cenni di metrica e topologia

1. è bilineare

〈λv1 + µv2, w〉 = λ〈v1, w〉+ µ〈v2, w〉〈v, λw1 + µw2〉 = λ〈v, w1〉+ µ〈v, w2〉

2. è simmetrica〈v, w〉 = 〈w, v〉

3. è definita positiva

〈v, v〉 > 0 ∀v 6= 0

per u, v ∈ V e λ, µ ∈ K

Nelle ipotesi fatte (V spazio vettoriale e 〈·, ·〉 prodotto scalaredefinito positivo su V) è naturalmente definita una norma sullostesso spazio ponendo:

‖v‖ =√〈v, v〉 ∀v ∈ V

Con questa norma lo spazio ha la struttura di spazio norma-to al quale è associata una naturale struttura metrica, ottenutadefinendo la distanza d come:

d(u, v) := ‖u− v‖ ∀u, v ∈ V.

Lo spazio V dotato dell’operazione di prodotto scalare viene det-to Spazio Prehilbertiano. Si verifica facilmente che tale spazio è diconseguenza normato e di conseguenza, essendo la distanza in-dotta dalla metrica tale, anche metrico. Il viceversa non è vero.Di seguito esempi di spazi prehilbertiani:

Esempio 27: In Rn il prodotto scalare è così definito:

〈u, v〉 :=n

∑i=1

uivi

Sia u = (u1, u2, . . . , un) un paniere di beni e sia p = (p1, p2, . . . , pn)il corrispondente vettore dei prezzi. Se indichiamo con U ilvalore del paniere avremo

U = 〈u, pT〉 = u1 p1 + u2 p2 + . . . + un pn

Esempio 28: Dato lo spazio delle funzioni continue su [a, b], C0[a, b]il prodotto scalare

〈 f , g〉 :=∫ b

af (x)g(x)dx

Verifica le proprietà del prodotto scalare (46) e quinti tale spazioè prehilbertiano.

Risultano utili i seguenti teoremi:

40

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2.4 spazi normati

Teorema 13: Sia (V, 〈·, ·〉) uno spazio prehilbertiano con

‖v‖ =√〈v, v〉

Allora ‖v‖ è una norma e vale l’uguaglianza del parallelogramma:

‖u + v‖2 + ‖u− v‖2 = 2(‖u‖2 + ‖v‖2)

comunque presi u, v ∈ V

Dimostrazione. Dimostriamo la validità dell’uguaglianza del par-allelogramma:

‖u + v‖2 = 〈u + v, u + v〉 = 〈u, u〉+ 〈v, v〉+ 2〈u, v〉‖u− v‖2 = 〈u + v, u + v〉 = 〈u, u〉+ 〈v, v〉 − 2〈u, v〉

Sommando membro a membro:

‖u + v‖2 + ‖u− v‖2 = 2〈u, u〉+ 2〈v, v〉

Da cui‖u + v‖2 + ‖u− v‖2 = 2(‖u‖2 + ‖v‖2)

Si può dare agevolmente un’interpretazione dell’uguaglianzadel parallelogramma in R2. Essa afferma che la somma deiquadrati delle diagonali del parallelogramma individuato daidue vettori coincide con la somma dei quadrati dei suoi quattrolati. Analogamente

Figura 4.: Regola del parallelogramma

Teorema 14: Sia (V, 〈·, ·〉) uno spazio normato la cui norma soddisfala regola del parallelogramma. Esiste un prodotto scalare su V tale che:

1. (V, 〈·, ·〉) è uno spazio prehilbertiano

2. ‖v‖ =√〈v, v〉

Importante per la dimostrazione di diversi teoremi successiviè il seguente lemma:

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cenni di metrica e topologia

Lemma 2: Disuguaglianza di Cauchy-Schwartz. Sia V uno spazioprehilbertiano, il valore assoluto del prodotto scalare di due elementi èminore o uguale al prodotto delle loro norme. Formalmente:

|〈u, v〉| ≤ ‖u‖+ ‖v‖ ∀u, v ∈ V

Dimostrazione. essendo banalmente vera per v = 0 assumiamo〈v, v〉 diverso da zero. Sia λ un numero reale. Abbiamo:

0 ≤ 〈u− λv, u− λv〉 = 〈u− λv, u〉 − λ〈u− λv, v〉 =

= 〈u, u〉 − 2λ〈u, v〉+ λ2〈v, v〉Scegliendo

λ = 〈u, v〉 · ‖v‖−2

otteniamo0 ≤ ‖u‖2 − 〈u, v〉2 · ‖v‖−2,

che vale se e solo se

〈u, v〉2 ≤ ‖u‖2‖v‖2.

o equivalentemente ∣∣〈u, v〉∣∣ ≤ ‖u‖‖v‖.

Dalla definizione di spazio metrico siamo passati a quella dispazio normato e successivamente, per mezzo del prodotto scalare,agli spazi prehilbertiani. Ricordando che uno spazio metricosi dice completo quando tutte le successioni di Cauchy sonoconvergenti ed il teorema del completamento possiamo definire:

Definizione 47: Uno spazio normato che risulti completo rispet-to alla metrica indotta dalla norma è detto Spazio di Banach.

Definizione 48: Uno spazio prehilbertiano e completo rispettoalla metrica indotta dalla norma indotta dal prodotto scalare èdetto Spazio di Hilbert.

L’esempio più importante di spazio di Hilbert è lo spazio vet-toriale Rn dotato del prodotto scalare. Gli spazi di Hilbert sonochiaramente particolari spazi di Banach. Questi ultimi costitu-iscono una classe molto più ricca e sono utilizzati in numeroseapplicazioni.

2.5 insiemi compatti

Uno dei teoremi più importanti visto nello studio di funzioni avariabile reale è il teorema di Weierstrass che garantisce l’esisten-za di un massimo e di un minimo per funzioni continue in unintervallo chiuso e limitato. Gli insiemi compatti hanno un ruoloanalogo in Rn degli intervalli chiusi e limitati in R, il loro studio,pertanto, risulta di notevole interesse.

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2.5 insiemi compatti

Definizione 49: Sia (X, d) uno spazio metrico. Un sottoinsiemeinfinito K ⊆ X si dice compatto se ogni suo sottoinsieme in-finito ha un punto di accumulazione appartenente a K. Unsottoinsieme finito è sempre compatto.

Un altro modo per definire insiemi compatto è il seguente:

Definizione 50: Sia (X, d) uno spazio metrico. Un sottoinsiemeinfinito K ⊆ X si dice compatto se e solo se, comunque si pren-da una successione con valori in K, da essa si può estrarre unasottosuccessione coe converge ad un punto di K. Formalmente:

∀xnn ⊆ K∃xnjj ⊆ xnn : limj→∞

xnj = x ∈ K

Ricordando la definizione di sottoinsiemi limitati:

Definizione 51: Sia (X, d) uno spazio metrico. Un sottoinsiemeinfinito K ⊆ X si dice limitato se e solo se

∃x0 ∈ K, M > 0 : K ⊆ B(x0, M)

Per spazi metrici qualsiasi vale il seguente teorema:

Teorema 15: Sia (X, d) uno spazio metrico e K ⊆ X con K compatto.Segue che K è chiuso e limitato.

Per i compatti di Rn vale il teorema di Heine-Borel:

Teorema 16: Un insieme K ⊆ Rn è compatto se e solo se è chiuso elimitato.

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3

C A L C O L O D I F F E R E N Z I A L E P E R F U N Z I O N I D IP I Ù VA R I A B I L I

indice

3.1 Introduzione 453.2 Generalità 463.3 Limiti per funzioni di più variabili 473.4 Continuità 493.5 Derivata parziale 523.6 Gradiente 553.7 Derivata direzionale 553.8 Derivate di ordine superiore 573.9 Differenziabilità 603.10 Formula di Taylor per funzioni di più variabili 653.11 Massimi e minimi per funzioni di più variabili 683.12 Punti di sella 713.13 Funzioni convesse 723.14 Funzioni implicite 743.15 Massimi e minimi vincolati 75

3.1 introduzione

Nei corsi di base di matematica generale vengono normalmenteintrodotte le funzioni nella loro formulazione più generale, daun insieme A un insieme B e successivamente, studiate soltantole funzioni numeriche di una variabile reale. In particolare ven-gono studiate le successioni numeriche, ossia le applicazioni daN in R che forniscono un primo concetto di limite per l’indicedella successione n che tende ad infinito. tale concetto, ripresosuccessivamente nell’ambito delle funzioni a variabili reali vienegeneralizzato e vengono introdotte la continuità, la derivabilità,le approssimazioni di una funzione per mezzo di funzioni piùsemplici.Viene naturale estendere i concetti fin qui visti alle funzioni dipiù variabili reali. L’importanza delle funzioni di più variabilinella pratica è enorme, basti pensare a problemi di previsionimetereologiche, problemi di cinematica, alla capacità di calco-lare il prezzo di un bene tenendo conto della domanda e dell’of-ferta; si potrebbero citare innumerevoli esempi.Per le funzioni di una variabile è stato possibile costruire una

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

rappresentazione grafica (grafico) in grado di descriverne intuiti-vamente il comportamento, tale strumento sarà ancora disponi-bile nello studio delle funzioni a più variabili limitandoci a con-siderarne al massimo due.

3.2 generalità

Definizione 52: Dato un insieme A di Rn una funzione f da AFunzioni daRn → R in R è detta funzione reale di n variabili reali.

Definizione 53: Il più grande insieme A su cui f è definita siDominio

dice insieme di definizione o dominio di f , e l’insieme dei suoivalori è detto codominio di f .

Definizione 54: Sia f : A ⊆ Rn → R e y = f (x). Si dice graficoo diagramma della funzione f di dominio En l’insiemeGrafico

G = (x, f (x)) : y = f (x), x ∈ A, f (x) ∈ R (3.1)

E’ ovviamente possibile rappresentare graficamente soltantole funzioni a due variabili per le quali la precedente definizioneassume la forma

G = (x1, x2, f (x1, x2)) : x3 = f (x1, x2), (x1, x2) ∈ A, x3 ∈ R(3.2)

che ci permette di tradurre, intuitivamente, il concetto di in-sieme di definizione. Proiettando ortogonalmente sul piano x1x2

il grafico della funzione G si ottiene l’insieme di definizione A.

Figura 5.: Grafico di funzione e curve di livello

Definizione 55: Data una funzione f definita in un insieme A,Varietà di livello

si dice varietà di livello della f alla quota k l’insieme dei puntidi A tali che f (x) = k.

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3.3 limiti per funzioni di più variabili

In particolare, in R2 tali curve sono dette curve di livello. Og-ni curva di livello e la proiezione sul dominio della funzionedell’intersezione tra il grafico G ed il piano parallelo al pianox1x2 individuato da k. le curve di livello sono spesso utilizzateper rappresentare praticamente molti fenomeni terrestri, infatti,il loro nome deriva dalla cartografia terrestre. Sono curve di liv-ello ad esempio le cosiddette isobare, che indicano le curve chehanno ugual pressione atmosferica, le isoipse, rappresentanti ipunti della superficie terrestre che hanno ugual altezza, le isò-bate, che indicano le curve di uguale profondità sotto il livellodel mare.

3.3 limiti per funzioni di più variabili

Analogamente a quanto è stato fatto per le funzioni di una vari-abile diamo ora il concetto di limite per funzioni di più vari-abili. Ricordando la definizione di punto di accumulazione pos-siamo richiamare il concetto di limite per funzioni in R e poiestendere la definizione in Rn.

Definizione 56: Sia f : A → R con A ⊆ R e x0 punto di ac- Limite in R

cumulazione di A. Si dice che il limite di f , per x che x0, è lse

∀ε ∈ R+ ∃δ ∈ R+ : 0 < |x− x0| < δ, x ∈ A

si ha che| f (x)− l| < ε (3.3)

e si scrivelim

x→x0f (x) = l

In questa definizione stiamo considerando un intorno circo-lare di x0 e non stiamo facendo distinzioni sulla direzione conla quale la funzione si avvicina al suo punto di accumulazione.Esistono funzioni per le quali la 3.3 è verificata solo se ci si avvic-ina al punto limite da destra oppure da sinistra. Per tener contodi tali eventualità si introduce il limite destro ed limite sinistro.

Definizione 57: Sia f : A → R con A ⊆ R e x0 punto di accu- Limite destroe sinistro in Rmulazione di A. Si dice che il limite di f ,per x che tende ad x0

da destra, è l se

∀ε ∈ R+ ∃δ ∈ R+ : x0 < x < x0 + δ, x ∈ A

si ha che| f (x)− l| < ε (3.4)

e si scrivelim

x→x+0

f (x) = l

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

Figura 6.

La definizione di limite sinistro è analoga. Vediamo se e cometali definizioni possono essere adattate a funzioni in Rn.

Definizione 58: Sia f : A → R con A ⊆ Rn e x0 punto diLimite in Rn

accumulazione di A. Si dice che il limite di f , per x che tende adx0, è l se

∀ε ∈ R+ ∃δ ∈ R+ : 0 < ‖x− x0‖ < δ, x ∈ A

si ha che

| f (x)− l| < ε (3.5)

e si scrive

limx→x0

f (x) = l

Quindi, adattata la topologia allo spazio considerato non cisono difficoltà nell’estendere i concetti di limite di funzione reale(finito o infinito) e di continuità a funzioni in Rn. Valgono inoltretutti i risultati ottenuti in R riguardo alla somma, prodotto oquoziente di funzioni che ammettono limite in x0 così come ilteorema di unicità del punto limite. Una precisazione è doverosanei riguardi dei concetti di limite destro e sinistro che non sonoestendibili ad Rn.

Infatti sulla retta reale è possibile avvicinarsi quanto si vuoleal punto x0 soltanto da due direzioni, ossia da destra o da sinis-tra. Nel piano le cose cambiano, esistono infinite traiettorie chepermettono di raggiungere uno stesso punto. Non ha quindisenso parlare di limite destro o sinistro già in R2, discorso che siestende naturalmente ad Rn. Affermare in Rn che una funzioneammette limite in un punto vuol dire che tale punto limite siaverificabile indipendentemente dalla direzione scelta. Infatti

Teorema 17: Condizione necessaria e sufficiente affinchè siaLimite lungouna traiettoria

limx→x0

f (x) = l

è che si abbia

limt→0+

f [g(t)] = l

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3.4 continuità

per qualunque traiettoria1 x = g(t) passante, per t = 0 in x0.

Nella verifica è sufficiente trovare una direzione per la qualenon vale la (3.5) per poter affermare che la funzione non abbialimite in tale punto. Concludiamo introducendo il concetto dilimite all’infinito.

Definizione 59: Sia f : A→ R con A ⊆ Rn e A non limitato. Si Limite all’infinito

dice che il limite di f , per x che tende ad ∞, è l se

∀ε ∈ R+ ∃M ∈ R+ : ‖x‖ > M, x ∈ A

si ha che| f (x)− l| < ε (3.6)

e si scrivelim‖x‖→∞

f (x) = l

3.4 continuità

Vediamo ora cosa si intende per continuità di una funzione inRn e come essa possa essere verificata.

Definizione 60: Sia f : A → R con A ⊆ Rn e x0 sia apparte- Continuità in Rn

nente ad A e di accumulazione per f . Si dice che la funzione fè continua in x0 se

∀ε ∈ R+ ∃δ ∈ R+ : ‖x− x0‖ < δ, x ∈ A

si ha che| f (x)− f (x0)| < ε (3.7)

e si scrivelim

x→x0f (x) = f (x0)

La prima ipotesi, cioè che x0 sia punto di accumulazione perf 2, ci permette di scrivere il limite della funzione in tale punto(limx→x0 f (x)) mentre la seconda, relativa all’appartenenza di x0

ad A, ci permette di calcolare f (x0). Inoltre, analogamente alacaso reale, diremo che una funzione è continua in un intervallose lo è in ogni suo punto.

1 E’ possibile descrivere matematicamente una traiettoria in questo modo: Sia ilpunto x ∈ En funzione di una variabile t che varia in [0, 1]:

x = g(t) t ∈ [0, 1]

con g : [0, 1] → A. Si può considerare il limite per x che tende ad x0 lungo latraiettoria g(t) considerando solo i valori di x dati da x = g(t) e far tendere ta zero da destra.

2 Se x0 è un punto di isolato per f si considera la funzione continua in esso.

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

Esempio 29: Data la funzione f (x1, x2) = log(x21 + x2

2 + 1) verifi-carne la continuità in (0, 0) per mezzo della definizione. La fun-zione è definita su tutto R2 essendo l’argomento del logaritmo èsempre positivo. L’origine è quindi un punto di accumulazioneper f essendo un punto interno. Sia ora ε > 0,determiniamo unintorno circolare di (0, 0) tale che

| log(x21 + x2

2 + 1)| < ε

Omettiamo il modulo perchè l’argomento del logaritmo è sem-pre positivo (di conseguenza il logaritmo sarà sempre maggioredi uno) e otteniamo:

log(x21 + x2

2 + 1) < ε

da cuix2

1 + x22 < eε − 1

che rappresenta i punti interni di un cerchio di centro (0, 0) eraggio

√eε − 1, che è un intorno circolare aperto dell’origine.

Per quanto riguarda la verifica della continuità non è, serven-dosi della sola definizione, semplice come in R. Per quanto af-fermato in precedenza dovremmo occuparci del calcolo del lim-ite secondo infinite direzioni, strada evidentemente percorribilesolo in casi particolarmente semplici.

Esempio 30: Data la funzione

f (x1, x2) =

x1x2

2x2

1+x42

se x 6= 0

0 se x = 0

verificarne la continuità nel dominio. Dobbiamo verificare che ilvalore della funzione nel punto 0 sia lo stesso del limite qualsi-asi direzione si scelga. Tale valore è, evidentemente, f (0) = 0.Prendiamo in considerazione una generica retta passante perl’origine di equazione x = mv con m ∈ R. Si ha

limm→0

m3x1x22

m2x21 + m4x4

2= lim

m→0m

x1x22

x21 + x4

2= 0

Quindi qualsiasi sia la retta pasante per l’origine che scelgoil limite sarà sempre zero. Vediamo ora cosa accade se scel-go un’altra traiettoria per tendere a (0, 0). Sia x2 = ax2

1 l’e-quazione canonica3 di una parabola. Ricavando x1 otteniamox1 = (1/a)x2

2 che parametrizzata ha equazioni:x1 = at2

x2 = at

3 La parabola di equazione y = ax2 con a 6= 0 ha le seguenti proprietà:

1. ha per simmetria l’asse y2. ha coordinate del fuoco (0, 1/4a)3. ha per direttrice la retta di equazione y = − 1

4a4. ha vertice nell’origine dgli assi

50

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3.4 continuità

Si ha allora:

limt→0

at2a22t2

a2t4 + a4t4 = limt→0

a1 + a2 =

a1 + a2

che dipende da a e quindi dalla parabola scelta per avvicinarsial punto. La funzione non è quindi continua in (0, 0).

Sfruttando il seguente teorema il problema può essere, almenodal punto di vista metodologico, semplificato.

Teorema 18: Sia ϕ(x) : A → R con e A ⊂ R continua in A. Lafunzione f (x) : A×R→ R è continua in A×R, ∀x ∈ A×R.

Vediamo l’applicazione pratica di tale teorema.

Esempio 31: Data la funzione dell’esempio precedente, verifi-carne la continuità nel dominio. Grazie al teorema appena citatopossiamo limitarci a studiare le funzioni f (x1) = x2

1, f (x2) =x2

2, f (x1, x2) = 1 che risultano continue nel dominio. Essendolegate da un’operazione di somma all’interno dell’argomentodel logaritmo possiamo affermare che la funzione data è altresìcontinua.

Per quanto riguarda l’estensione del teorema di Weierstrassad Rn conviene distinguere le proprietà degli insiemi compattie degli insiemi connessi. Il teorema di Heine-Borel (16) ci as-sicura che un compatto è anche chiuso e limitato e quindi chela f sia dotata di minimo e massimo mentre la definizione diinsieme connesso (??) ci dice che dati due qualsiasi punti dell’in-sieme è sempre possibile congiungerli con una poligonale e diconseguenza che la funzione assume tutti i valori compresi tra idue punti.

Teorema 19: Sia f : X → R con X ⊆ A. Se f è continua un X e Xè compatto di A allora f (X) è compatto di R ed f ammette minimo emassimo.

Teorema 20: Sia f : X → R con X ⊆ A. Se f è continua un X e Xè connesso di A allora f (X) è connesso di R ed f assume tutti i valoricompresi tra f (α) ed f (β), ∀α, β,∈ X

Dai due teoremi appena citati discende il teorema di esistenzadegli zeri:

Teorema 21: Sia f : X → R con X ⊆ A. Se f è continua un X, Teorema di esistenzadegli zericompatto e connesso di A, e se dati x1 ed x2 di X f (x1) ed f (x2) sono

di segno opposto allora esiste x0 ∈ X tale che f (x0) = 0

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

3.5 derivata parziale

Anche per le funzioni di variabili possiamo introdurre un con-cetto di derivazione, anche se questo sarà abbastanza diversoda quello che ci si potrebbe aspettare cercando di estendere ledefinizioni date per le funzioni reali a variabile reale.

Definizione 61: Sia f : A → R con A ⊆ Rn. Si dice che laDerivata parziale

funzione f e derivabile parzialmente rispetto alla variabile xi seesiste ed è finito il seguente limite:

limt→0

f (x1, . . . , xi−1, xi + t, xi+1, . . . , xn)− f (x1, . . . , xn)t

e si indica in uno dei seguenti modi:

∂ f∂xi

(x1, . . . , xn) = Di( f (xi)) = fxi(x)

Se consideriamo la funzione

g(s) = f (x1, . . . , xi−1, s, xi+1, . . . , xn)

con le variabili xj 6= xi considerate costanti. Se ne calcoliamo laderivata otteniamo:

g′(s) =∂ f∂xi

(x1, . . . , xn)

che è la derivata parziale della funzione f rispetto ad xi. Quin-di derivare parzialmente vuol dire derivare la funzione di unavariabile ottenuta considerando tutte le variabili costanti eccet-to quella i-esima. Si può dare agevolmente un’interpretazionegeometrica del significato della derivata parziale. Sia f (x1, x2) :A → R con A ⊆ R2. Sia P(x0

1, x02) un punto rispetto al quale

derivare la funzione f . Considerare costante x2 vuol dire in-tersecare la funzione f con il piano passante per il punto P eparallelo al piano individuato dagli assi x1 e x3 fig:8. Dall’inter-sezione si ottiene una funzione nella variabile x1. La derivataparziale della funzione così ottenuta rispetto alla variabile x1 èa sua volta una funzione, che valutata in P(x0

1, x02) fornisce la

pendenza della retta tangente alla curva nel punto considerato.Ragionamento analogo si ha considerando costante x1, ossia in-tersecando la funzione f con il piano passante per il punto Pe parallelo al piano individuato dagli assi x2 e x3 fig:9. In gen-erale l’esistenza della derivata parziale implica che nel puntodi coordinate (x0

1, x02, f (x0

1, x02)) esista una tangente sul piano in

questione; un punto angoloso della curva implica, invece, chenon vi è derivata parziale nel punto (x0

1, x02, f (x0

1, x02)). Ragiona-

mento analogo si ha per la derivata parziale rispetto alla x2.Quando una funzione a più variabili è continua, le derivateparziali permettono di definire una base del piano tangente. InR2, ad esempio, posto x = (x1, x2) tale base è

(1, 0, ∂ f∂x1

(x)) (0, 1, ∂ f∂x2

(x))

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3.5 derivata parziale

Figura 7.: Funzione in R3

Figura 8.: Intersezione con piano x1x3

Figura 9.: Intersezione con piano x2x3

Esistono differenze significative tra la derivata ordinaria di unafunzione e le derivate parziali di funzioni di più variabili. Inparticolare:

• per le funzioni di una variabile la derivabilità implica lacontinuità in un punto;

• per le funzioni a più variabili in generale questo non è

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

vero.

Esempio 32: Sia

f (x1, x2) =

1 se x1x2 = 00 se x1x2 6= 0

Questa funzione ha la particolarità di essere nulla fuori dagliassi e valere uno sugli assi. In particolare su un singolo assele derivate parziali sono una nulla (quella rispetto all’asse inquestione) mentre l’altra non esiste. Nell’origine la funzione nonè continua. Calcoliamo le derivate parziali:

∂ f∂x1

(0, 0) =∂ f∂x2

(0, 0) = 0

Quindi sebbene le derivate parziali esistano la funzione non ècontinua nell’origine degli assi.

Per quanto attiene l’esistenza del piano tangente, non è dettoche essa esista malgrado esistano le derivate parziali nel pun-to. Vediamo un applicazione economica del concetto di derivataparziale:

Esempio 33: L’elasticità della domanda rispetto al prezzo indical’attesa variazione percentuale della domanda di un dato bene(quantità venduta p) rispetto ad una variazione percentuale delprezzo dello stesso bene (indicato con x) o di altri prodotti (elas-ticità incrociata).

ex =∆xx

∆pp

Considerando variazioni infinitesime anziché variazioni finite

ex =∂xx

∂pp

=px

∂x∂p

se indichiamo con x1 ed x2 le quantità domandate di due distintibeni e con p1 e p2 i rispettivi prezzi, l’ elasticità della domandadei due beni è:

e1 =p1

x1

∂x1

∂p1e2 =

p2

x2

∂x2

∂p2

mentre l’elasticità incrociata dei due beni, che misura la lorosostituibilità, è:

e12 =p1

x2

∂x2

∂p1e21 =

p2

x1

∂x1

∂p2

Numericamente, date le due funzioni:

x1 = 4p−21 p1/2

2 , x2 = 4p1/21 p−1/2

2

si ha

e1 =p1

x1

∂x1

∂p1= −8

p1/22x1

e2 =p2

x2

∂x2

∂p2= 2

p−1/21 p1/2

2x2

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3.6 gradiente

mentre le elasticità incrociate sono:

e12 =p1

x2

∂x2

∂p1= 4

p1/21 p1/2

2x2

e21 =p2

x1

∂x1

∂p2= 2

p−21 p−1/2

2x1

3.6 gradiente

L’introduzione delle derivate parziale ci permette di definireuna nuova funzione vettoriale, il gradiente della funzione f cosìdefinito:

Definizione 62: Sia f tale da ammettere derivate parziali in x0 Gradiente

rispetto a tutte le variabili. Si chiama gradiente della funzionef in x0 il vettore che indichiamo con ∇ f (x0), o con grad f (x0),ottenuto ponendo:

∇ f (x0) =(

∂ f∂xi

(x0))

1≤i≤n=

∂ f∂x1

(x0)e1 + · · · ∂ f∂xn

(x0)en ∈ Rn

Dunque il gradiente di una funzione f in x è un vettore cheha per componenti le derivate parziali della funzione stessa cal-colate in x. Inoltre, la funzione gradiente di f

∇ f : x⇒ ∇ f (x)

è un esempio di campo vettoriale, essendo definita in un sottoin-sieme di Rn a valori in Rn.

3.7 derivata direzionale

Si può pensare di estendere il concetto di derivata parziale aduna direzione generica dello spazio. Tale operazione è una gen-eralizzazione del concetto di derivata parziale e prende il nomedi derivata direzionale.

Definizione 63: Si chiama direzione associata ad un vettore v ∈ Versore

Rn il versorev =

v‖v‖ (3.8)

Il vettore ottenuto dalla (3.8) è un particolare vettore di nor-ma unitaria, definibile ovviamente solo in uno spazio norma-to, che indica una direzione ed un verso nello spazio. Dato unpunto generico x0 è possibile individuare la retta passante pertale punto e di direzione data da v per mezzo della seguenteequazione

x = x0 + tv t ∈ R

Consideriamo ora il rapporto tra l’incremento della funzione nelpassaggio della variabile indipendente da x0 ad x sulla retta tv e

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

l’incremento della variabile indipendente misurato sempre sullastessa retta (di ampiezza pari a t).

f (x0 + tv)− f (x0)t

Sia il numeratore che il denominatore del precedente rapportosono scalari ed essendo dipendente unicamente da t ne possi-amo fare il limite per t → 0, definendo in tal modo la derivatadirezionale

Definizione 64: Se esiste ed è finito il limiteDerivatadirezionale

∂ f∂v

(x0) = limt→0

f (x0 + tv)− f (x0)t

(3.9)

diremo che la funzione f è direvabile nella direzione di v e talelimite sarà la derivata direzionale di f (x), calcolata in x0 lungola direzione individuata da v.

Appare chiaro che la derivata direzionale è una generalizzazionedella derivata parziale, basta scegliere un versore v coincidentecon una direzione degli assi per ottenere dalla (3.9) la (61). Analoga-mente al caso precedente la derivabilità direzionale non implicala continuità della funzione.

Esempio 34: In R2 sia

f (x1, x2) =

(

x21x2

x41+x2

2

)2se (x1, x2) 6= 0

0 se (x1, x2) = 0

Si piò vedere facilmente che fuori dall’origine la funzione è deriv-abile direzionalmente mentre nell’origine sia le derivate parzialiche quelle direzionali esistono e sono entrambe nulle. Infatti,data la generica direzione v = (v1, v2)

limt→0

f (0 + tv)− f (0)t

= limt→0

t2v21+tv2

t4v41+t2v2

2− 0

t= lim

t→0

t5v41v2

2

(t4v41 + t2v2

2)2= 0

la derivata direzionale è nulla. E’ sufficiente, anche in questocaso considerare un’altra direzione per affermare che la funzionedata non è continua nell’origine. Sia x2 = λx2

1, lungo i puntidella parabola la funzione assume il valore:

f (x1, λx22) =

λ

1 + λ2

che è un valore costante. La funzione assume quindi sui puntidella parabola sempre lo stesso valore, eccetto nell’origine incui salta a zero. Ciò è sufficiente a constatare la discontinuitànell’origine della funzione data.

56

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3.8 derivate di ordine superiore

Ricordando la definizione di gradiente (62) possiamo esprimerela derivata direzionale della funzione f nel punto x0 nel seguentemodo:

∂ f∂v

(x0) = 〈 f (x0), v〉

ovvero la derivata direzionale, nella direzione di un versore v,calcolata in un punto x0 equivale al prodotto scalare fra il gradi-ente della funzione calcolato in x0 e il versore v stesso.

3.8 derivate di ordine superiore

La derivata parziale prima della funzione f definisce una nuo-va funzione fxi(x) d3lla quale è lecito chiedersi se a sua voltaammette derivate parziali che indichiamo con

∂2 f∂xixj

e che rappresenta la derivata parziale seconda della funzione frispetto alle variabili xi ed xj. Per i = j si scrive

∂2 f∂x2

i

Iterando il ragionamento si può così definire la derivata parzialeterza, quarta,..., n-esima della funzione f . Ci limiteremo allo stu-dio delle derivate parziali prime e seconde perchè di fondamen-tale importanza nello studio di massimi e minimi per le funzionidi più variabili.

Esempio 35: Sia

f (x1, x2) = x21 − x2

2 + x1x2

le derivate parziali prime sono:

∂ f∂x1

(x1, x2) = 2x1 + x2∂ f∂x2

(x1, x2) = −2x2 + x1

le derivate parziali seconde sono:

∂2 f∂x2

1(x1, x2) = 2 ∂2 f

∂x22(x1, x2) = −2

∂2 f∂x1x2

(x1, x2) = 0 ∂2 f∂x1x2

(x1, x2) = 0

Nell’esempio precedente le derivate parziali seconde misterisultano essere uguali. Il teorema seguente precisa le ipotesiper le quali ciò accade:

Teorema 22: Sia f : A → R ed A un aperto di Rn,se f ammette Teorema di Schwartz

derivate parziali prime e derivate seconde miste in un intorno U di unpunto x0 di A e se le derivate seconde miste sono continue in x0 alloraesse risultano uguali.

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

Dimostrazione. Dimostriamo il teorema in R2, la tesi da dimostrareè dunque:

∂2 f∂x1∂x2

(x0) =∂2 f

∂x2∂x1(x0)

Consideriamo all’interno di U(x0) un quadrato i cui vertici, par-tendo da sinistra in basso, siano

(x01, x0

2)(x0

1 + t, x02 + t)

(x01 + t, x0

2)(x0

1, x02 + t)

con t < r√2, vedi (fig:10).

Figura 10.

Sia quindi definita:

A(t) =f (x0

1 + t, x02 + t)− f (x0

1, x02 + t)− f (x0

1 + t, x02) + f (x0

1, x02)

t2

Consideriamo ora la seguente funzione ausiliaria

g(s) = f (x01 + t, x0

2 + s)− f (x01, x0

2 + s)

è evidente che

g(t)− g(0) = f (x01 + t, x0

2 + t)− f (x01, x0

2 + t)+− f (x0

1 + t, x02) + f (x0

1, x02)

Applicando il teorema di Lagrange4

g(t)− g(0) = tg′(ξ1) con 0 < ξ1 < t

e osservando che

g′(ξ1) =∂ f∂x2

(x01 + t, x0

2 + ξ1)−∂ f∂x2

(x01, x0

2 + ξ1)

4 Il teorema di Lagrange afferma che per una funzione definita e continua in unintervallo chiuso e limitato [a, b] e derivabile al suo interno esiste almeno unpunto c, interno ad [a, b] in cui risulta:

f (b)− f (a) = f ′(c)(b− a)

58

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3.8 derivate di ordine superiore

moltiplicando membro a membro per t

tg′(ξ1) = t[

∂ f∂x2

(x01 + t, x0

2 + ξ1)−∂ f∂x2

(x01, x0

2 + ξ1)]

Introduciamo un’altra funzione ausiliaria di una variabile:

h(s) =∂ f∂x2

(x01 + s, x0

2 + ξ1)

da cui

h(t)− h(0) = ∂ f∂x2

(x01 + t, x0

2 + ξ1)− ∂ f∂x2

(x01, x0

2 + ξ1) == th′η1 == t

[∂2 f

∂x1∂x2(x0

1 + η1, x02 + ξ1)

]con 0 < η1 < 1. Di conseguenza

A(t) = t

(∂ f

∂x2(x0

1+t,x02+ξ1)− ∂ f

∂x2(x0

1,x02+ξ1)

)t2 =

=t·t ∂2 f

∂x1∂x2(x0

1+η1,x02+ξ1)

t2 == ∂2 f

∂x1∂x2(x0

1 + η1, x02 + ξ1)

Indichiamo con P il punto così ottenuto:

P = (x01 + η1, x0

2 + ξ1)

Ripetiamo il procedimento considerando ora:

ϕ(s) = f (x01 + s, x0

2 + t)− f (x01 + s, x0

2)

Seguendo lo stesso procedimento:

ϕ(t)− ϕ(o) = t2A(t) =

Applicando il teorema di Lagrange, sia 0 < η2 < 1,

= tϕ′(η2) = t

[∂ f∂x1

(x01 + η2, x0

2 + t)− ∂ f∂x1

(x01 + η2, x0

2)]

Consideriamo ora la seguente funzione ausiliaria:

ψ(s) =∂ f∂x1

(x01 + η2, x0

2 + s)

si ottiene

ψ(t)− ψ(0) = t[

∂ f∂x1

(x01 + η2, x0

2 + t)− ∂ f∂x1

(x01 + η2, x0

2)]

= tψ′(η2)

= t[

∂2 f∂x2∂x1

(x01 + η2, x0

2 + ξ2)]

Quindi

A(t) =∂2 f

∂x2∂x1(x0

1 + η2, x02 + ξ2)

59

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

Indichiamo con Q il punto così ottenuto:

Q = (x01 + η2, x0

2 + ξ2)

I punti P e Q così ottenuti giacciono nel quadrato di lato t evertice x0. Facendo tendere t → 0 P → x0 e Q → x0 e quindi,essendo

A(t) =∂2 f

∂x1∂x2(P) =

∂2 f∂x2∂x1

(Q)

si ottiene la tesi del teorema:

∂2 f∂x1∂x2

(x0) =∂2 f

∂x2∂x1(x0)

Osservazione 1: Il teorema di Scwhartz afferma che sotto al-cune ipotesi di esistenza e continuità di derivate di ordine mi-nore in un certo intorno di un punto è possibile effettuare inquel punto il calcolo delle derivate senza tener conto dell’ordinedelle variabili indipendenti. Per questo motivo il teorema vienespesso chiamato di inversione dell’ordine di derivazione.

Consideriamo ora una funzione f che possieda tutte le derivateMatrice Hessiana

parziali seconde in x0.

Definizione 65: La matrice

H f (x0) = (hij)1≤i,j≤n

con

hij =∂2 f

∂xi∂xj(x0)

ossia

H f (x0) =

∂2 f∂x2

1(x0)

∂2 f∂x2∂x1

(x0) · · · ∂2 f∂xn∂x1

(x0)∂2 f

∂x1∂x2(x0)

∂2 f∂x2

2(x0) · · · ∂2 f

∂xn∂x2(x0)

......

. . ....

∂2 f∂x1∂xn

(x0)∂2 f

∂x2∂xn(x0) · · · ∂2 f

∂x2nx0)

è detta matrice Hessiana di f in x0.

Nel caso in cui le derivate seconde miste siano uguali nelpunto x0 il teorema di Schwartz ci assicura che la matrice Hes-siana sia simmetrica. In tal caso l’ordine di derivazione è quindiininfluente.

3.9 differenziabilità

Estendere il concetto di dervabilità a funzioni in Rn è quindi piùcomplesso ed articolato rispetto al limite e alla continuità. Nel

60

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3.9 differenziabilità

caso unidimensionale, se una funzione f è derivabile in x0, sipuò scrivere

∆ f (x) = f ′(x0)(∆x) + (∆x)∆x

ossia si può approssimare in un’intorno del punto x0 l’incremen-to della funzione con l’incremento subito dalla retta tangente lafunzione nel punto. Il differenziale è dunque il primo addendodel secondo membro: un monomio in ∆x che ha per coefficientela derivata nel punto. La scelta della retta tangente non è ca-suale, si potrebbe dimostrare che tra le infinite rette passanti peril punto x0 essa è l’unica per la quale la parte complementare del-la funzione è un infinitesimo superiore al primo per ∆x → 0 eche può essere quindi trascurata. Esplicitando il termine relativoall’incremento della funzione e passando al limite

lim∆x→0

f (x)− f (x0)− f ′(x0)∆x∆x

= lim∆x→0

(∆x)∆x

= 0

dalla definizione di o-piccolo. la precedente scrittura si può gen-eralizzare ad Rn nel seguente modo:

Definizione 66: Se f : A → R ed A un aperto di Rn, f si dice Differenziabilità

differenziabile nel punto x0 ∈ A se esiste un’applicazione lineareL ∈ Rn tale che

limx→x0

f (x)− f (x0)− L(x− x0)‖x− x0‖ = 0 (3.10)

Si noti che mentre la definizione di derivata parziale coinvolgelimiti in R, la definizione di differenziabilità sfrutta i limiti in Rn.Inoltre l’applicazione lineare L è individuata da un vettore, cheindicheremo con vL, ed è tale che

L(x− x0) = 〈vL, x− x0〉

Resta, a questo punto, solo da specificare chi è il vettore vL: Dalla(3.10) sostituendo ad x x0 + tv si ottiene:

limt→0

f (x0 + tv)− f (x0)− L(tv)‖tv‖

limt→0

f (x0 + tv)− f (x0)− tL(v)|t|

che a sua volta è uguale a

limt→0

f (x0 + tv)− f (x0)t

− L(v)

da cui si ottiene

L(v) = limt→0

f (x0 + tv)− f (x0)t

61

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

Più in generale, posto

L =n

∑i=1

∂ f∂xi

(x0)dxi

che chiameremo differenziale della funzione f in x0 si haDifferenziale

L(x− x0) = 〈∇ f (x0), x− x0〉

Il risultato ottenuto mostra un’ulteriore proprietà delle funzionidifferenziabili:

Proposizione 1: Se f è differenziabile in x0, allora f ammette in x0

derivate direzionali lungo qualsiasi versore v 6= 0, si ha:

L(v) = 〈∇ f (x0), v〉 (3.11)

Alla luce di queste considerazione possiamo dare un’interpre-tazione geometrica del differenziale in Rn:dalla

f (x) = f (x0) + L(x− x0) + (‖x− x0‖) x→ x0

si può ottenere l’approssimazione della funzione in un intornodi x0 nel seguente modo:

f (x) ∼ f (x0) + L(x− x0) = f (x0) +∇ f (x0)(x− x0)

La precedente relazione, che linearizza la funzione f in un in-torno di x0 permette spesso di semplificare in modo efficace ecostruttivo la descrizione matematica di un fenomeno fisico. Nelcaso n = 2 l’equazione

f (x1, x2) = f (x01, x0

2)+∂ f∂x1

(x01, x0

2)(x1− x01)+

∂ f∂x2

(x01, x0

2)(x2− x02)

definisce un piano tangente al grafico di f nel punto di coordi-nate P(x0

1, x02, f (x0

1, x02))). Esso rappresenta il piano che meglio

approssima la funzione in un intorno del punto. In Rn tale dis-corso è analogo solo che non si può parlare più di piano tangentema di iperpiano (sottospazio affine di dimensione n− 1) tangenteal grafico nel punto. Dalla (3.11) si possono ottenere altre utiliindicazioni sull’andamento della funzione nel punto x0, dalladisuguaglianza di Cauchy-Schwarz (2) abbiamo:

∂ f∂v

(x0) ≤ ‖∇ f (x0)‖

da cui, applicando le proprietà del modulo

−‖∇ f (x0)‖ ≤ ∂ f∂v

(x0) ≤ ‖∇ f (x0)‖

Si vede facilmente che al variare della direzione v si ottengonovalori della derivata direzionale compresi tra due estremi, valeinfatti il segno di uguaglianza se

v = ± ∇ f (x0)‖∇ f (x0)‖

che induce la seguente proposizione:

62

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3.9 differenziabilità

Proposizione 2: Se il gradiente di f non è nullo in x0, la massima Proprietà delgradientecrescita di f , a partire da x0, avviene nella direzione del gradiente,

mentre la massima decrescita avviene nella direzione opposta a quelladel gradiente.

Un ulteriore importante risultato è il seguente:

Proposizione 3: Se f è differenziabile in x0 allora è continua in x0. Legame differenziabilitàcontinuità

Dimostrazione. Verifichiamo che il limite

limx→x0

f (x)− f (x0)

sia uguale a zero.Se la funzione è differenziabile posso scrivere

limx→x0

f (x)− f (x0) = limx→x0

f (x)− f (x0)− L(x− x0) + L(x− x0) =

Moltiplicando e dividendo per ‖x− x0)‖ l’espressione precedenterisulta

limx→x0

f (x)− f (x0)− L(x− x0)‖x− x0‖ ‖x− x0‖+ L(x− x0) = 0

Il limite è nullo in quanto:

• il primo termine ottenuto è la definizione di differenziabil-ità e quindi nullo al tendere di x ad x0;

• la norma di ‖x− x0)‖ tende a zero

• il termine relativo al funzionale lineare è nullo

|L(x− x0)| = |〈vL, x− x0〉| ≤ ‖vL‖‖x− x0‖

per la disuguaglianza di Cauchy-Schwarz

L’importante risultato ottenuto ci permette di studiare la conti-nuità di una funzione in un punto per mezzo delle sue proprietàdi differenziabilità. E’ evidente, però, che verificare la differen-ziabilità di una funzione per mezzo della definizione può esserealquanto complicato. Per questo motivo risulta utile il seguenteteorema della differenziabilità totale:

Teorema 23: Sia f : A → R con A ⊆ Rn e sia x0 ∈ A. Se f Teorema della differenziabilità totale

ammette derivate parziali continue in un intorno U di x0 allora f èdifferenziabile in x0.

Dimostrazione. Dimostriamo il teorema in R2, ma si può esten-dere facilmente ad Rn. Sia x0 = (x0

1, x02) un generico punto di A.

Dalla definizione di differenziale abbiamo

L =∂ f∂x1

(x0)dx1 +∂ f∂x2

(x0)dx2

63

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

Moltiplicando ambo i membri per (x− x0)

L(x− x0) = ∂ f∂x1

(x0)dx1(x− x0) + ∂ f∂x2

(x0)dx2(x− x0)= ∂ f

∂x1(x0)(x1 − x0

1) + ∂ f∂x2

(x0)(x2 − x02)

= 〈∇ f (x0), x− x0〉

Consideriamo ora, oltre al punto x0 = (x01, x0

2) ed al genericopunto x = (x1, x2) un terzo punto x che ha come coordinatex = (x0

1, x2). Possiamo scrivere

f (x)− f (x0) = f (x)− f (x) + f (x)− f (x0)

Applicando il teorema di Lagrange per funzioni reali a variabilereale

f (x)− f (x0) =∂ f∂x1

(ξ, x2)(x1 − x01), x0

1 ≤ ξ ≤ x1

e, analogamente

f (x)− f (x0) =∂ f∂x2

(x01, η)(x2 − x0

2), x02 ≤ η ≤ x2

sommando membro a membro

f (x)− f (x0) = 〈v, (x− x0)〉

con

v =(

∂ f∂x1

(ξ, x2),∂ f∂x2

(x01, η)

)Dalla definizione di differenziabilità posso scrivere

| f (x)− f (x0)− L(x− x0)|‖x− x0‖ =

|〈v, (x− x0)〉 − 〈∇ f (x0), x− x0〉|‖x− x0‖

che per le proprietà del prodotto scalare (46) risulta uguale a

|〈v−∇ f (x0), x− x0〉|‖x− x0‖ ≤

per la disuguaglianza di Cauchy-Schwartz

≤ ‖v−∇ f (x0)‖‖x− x0‖‖x− x0‖

A questo punto, semplificando e maggiorando la norma ‖v −∇ f (x0)‖ con la somma dei moduli delle sue componenti possoscrivere

‖v−∇ f (x0)‖ ≤∣∣∣ ∂ f

∂x1(ξ, x2)− ∂ f

∂x1(x0

1, x02)∣∣∣+∣∣∣ ∂ f

∂x2(x0

1, η)− ∂ f∂x2

(x01, x0

2)∣∣∣

Ricapitolando, abbiamo ottenuto

| f (x)− f (x0)−L(x−x0)|‖x−x0‖ ≤

∣∣∣ ∂ f∂x1

(ξ, x2)− ∂ f∂x1

(x01, x0

2)∣∣∣+∣∣∣ ∂ f

∂x2(x0

1, η)− ∂ f∂x2

(x01, x0

2)∣∣∣

64

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3.10 formula di taylor per funzioni di più variabili

Al limite, per (x → x0), sfruttando l’ipotesi di continuità dellederivate parziali, si ha

limx→x0

| f (x)− f (x0)− L(x− x0)|‖x− x0‖ ≤ 0

ma essendo la quantità al primo membro in valore assolutodeve valere necessariamente il segno di uguaglianza, quindi fè continua in x0.

Introduciamo infine la seguente notazione. Una funzione f : Funzioni di classe Ck

A → R con A ⊆ Rn si dice di classe Ck con k ≥ 1 in unaaperto Ω ⊆ A se è continua in A e se tutte le derivate parzialifino all’ordine k esistono e sono continue in A. L’insieme ditali funzioni viene indicato con C0(Ω). In particolare l’insiemeC0(Ω) è costituito dalle funzioni continue in Ω, l’insieme C1(Ω)dalle funzioni continue con derivate parziali prime continue inΩ, C∞(Ω) indica l’insieme delle funzioni che stanno in Ck(Ω)per ogni k. In base al teorema del differenziale totale possiamoaffermare che le funzioni di classe C1(Ω)sono differenziabili inogni punto di Ω.In seguito risulterà utile il seguente teorema:

Teorema 24: Sia f : A → R con A ⊆ Rn connesso, sia inoltre f diclasse C1(A). Allora

∇ f = 0 in A ⇔ f costante in A

3.10 formula di taylor per funzioni di più variabili

Nello studio di funzioni di una variabile reale, è stato studiatoil modo di approssimare funzioni relativamente complesse conaltre più semplici, giungendo alla formulazione della Formuladi Taylor. Questa formula si adatta bene a funzioni che, in unintorno di un certo punto x0, abbiano sufficienti derivate e per-mette di approssimarle come somme di polinomi nella variabilex − x0. Anche l’errore intrinseco della procedura stessa può es-sere scritto in funzione di x − x0 ed è possibile verificare che ilresto così ottenuto è un infinitesimo di ordine superiore rispettoal grado del polinomio. Ricordiamo la formula Formula di Taylor in R

f (x) = f (x0) + f′(x0)(x− x0) + 1

2! f′′(x0)(x− x0)2 + . . .

+ 1n! f n(x0)(x− x0)n + R(x)

dove il resto è

R(x) =f n+1(x0)(n + 1)!

(x− x0)n+1

L’aprossimazione consiste nel sostituire alla funzione il polinomio,trascurando il resto. Graficamente ciò equivale ad approssimarenell’intorno del punto x0 la funzione con la sua tangente, se ci si

65

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

arresta al primo grado del polinomio, oppure con una parabolatangente nel punto la curva, se ci si arresta al secondo oppurecon una cubica tangente nel punto la curva se si arriva al terzogrado e così via. Ricordiamo, infine, che la formula di Taylornel caso in cui il punto x0 coincida con l’origine degli assi vienedetta Formula di McLaurin.

Vediamo ora come estendere il concetto a funzioni di più vari-abili iniziando con due variabili e, di seguito, generalizzando ilrisultato ottenuto.Sia f : A ⊆ R2 → R, di classe Ck+1(I) con I intorno di (x0

1, x02) eFormula di Taylor in R2

I ⊆ A, ossia continua con le sue derivate in un intorno del pun-to (x0

1, x02) fino all’ordine k + 1. Scriviamo la funzione f (x1, x2)

nell’intorno I come somma di un polinomio nelle due variabili(x1 − x0

1) e (x2 − x02) e di un resto R(x1, x2):

f (x1, x2) = f (x01, x0

2)++ ∂ f

∂x1(x0

1, x02)(x1 − x0

1) + ∂ f∂x2

(x01, x0

2)(x2 − x02)+

+ 12!

[∂ f∂x (x0

1, x02)(x1 − x0

1) + ∂ f∂x2

(x01, x0

2)(x2 − x02)](2)

++ . . . +

+ 1k!

[∂ f∂x1

(x01, x0

2)(x1 − x01) + ∂ f

∂x2(x0

1, x02)(x2 − x0

2)](k)

++R(x1, x2)

dove

R(x1, x2) =1

(k + 1)!

[∂ f∂x1

(x01, x0

2)(x1 − x01) +

∂ f∂x2

(x01, x0

2)(x2 − x02)](k+1)

L’esponente tra parentesi va inteso come elevazione a potenzaquando lo si applica ai monomi (x1 − x0

1) e (x2 − x02) mentre

come ordine di derivazione quando lo si considera applicato alladerivata parziale. Così, per esempio, il termine[

∂ f∂x1

(x01, x0

2)(x1 − x01) +

∂ f∂x2

(x01, x0

2)(x2 − x02)](2)

va sviluppato in:

∂2 f∂x2

1(x0

1, x02)(x1 − x0

1)2 + ∂2 f

∂x22(x0

1, x02)(x2 − x0

2)2+

+2 ∂2 f∂x1∂x2

(x01, x0

2)(x1 − x01)(x2 − x0

2)

osservando che per quanto riguarda il termine con la derivataseconda mista essendo la funzione di classe Ck+1(I) sono rspet-tate le ipotesi del teorema di Schwarz (22) e quindi le derivateseconde miste assumono ugual valore. Ciò spiega il doppioprodotto del termine. Si osserva inoltre che arrestandosi al gra-do zero dello sviluppo è possibile ottenere in maniera immediatal’estensione del Teorema di Lagrange visto nei corsi di matematicagenerale al caso di due variabili:

f (x1, x2)− f (x01, x0

2) =∂ f∂x1

(xt1, xt

2)(x1− x01)+

∂ f∂x2

(xt1, xt

2)(x2− x02)

66

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3.10 formula di taylor per funzioni di più variabili

Vediamo ora come sia possibile compattare la notazione. Sia Multi-indice p

f : A ⊆ Rn → R, definiamo multi-indice la seguente n-pla:

p = (p1, p2, . . . , pn) con pi ∈N

A p è possibile associare un ordine |p|

|p| := p1 + p2 + . . . pn

un fattoriale p!p! := p1! · p2! · · · pn!

ed infine definire un vettore elevato ad un multi-indice p indica-to con vp

vp := vp11 · v

p22 · · · v

pnn con v ∈ Rn

Con l’introduzione del multi-indice possiamo alleggerire la no-tazione definendo la derivata parziale di multi-indice p:

Dp f (x) :=∂|p| f (x)

∂xp11 · ∂xp2

2 · · · ∂xpnn

Possiamo finalmente introdurre la funzione di Taylor per fun-zioni di più variabili

Teorema 25: Sia f : A ⊆ Rn → R una funzione di classe Ck+1(A).Risulta Formula di Taylor in Rn

f (x) =k

∑|p|=0

Dp f (x0)p!

(x− x0)p + ∑|p|=k+1

Dp f (ξ)p!

(ξ − x0)p (3.12)

con ξ ∈ σ(x0, x)

Esempio 36: Sia f : A ⊆ R2 → R, f = ex21+x2

2 e x0 = (0, 0). Lederivate parziali del primo ordine sono di multi indici (1, 0) e(0, 1):

∂ f∂x1

(x1, x2) = 2x1ex21+x2

2

∂ f∂x2

(x1, x2) = 2x2ex21+x2

2

Le derivate parziali del secondo ordine sono di multi indici (2, 0),(0, 2) e (1, 1) preso due volte:

∂2 f∂x2

1(x1, x2) = 4x2

1ex21+x2

2 + 2ex21+x2

2

∂2 f∂x2

2(x1, x2) = 4x2

2ex21+x2

2 + 2ex21+x2

2

∂2 f∂x1x2

(x1, x2) = 4x1x2ex21+x2

2

Le derivate parziali del terzo ordine sono di multi indici (3, 0),(0, 3), (2, 1) e (1, 2):

∂3 f∂x3

1(x1, x2) = ex2

1+x22(8x3

1 + 12x1)∂3 f∂x3

2(x1, x2) = ex2

1+x22(8x3

2 + 12x2)∂3 f

∂x21∂x2

(x1, x2) = ex21+x2

2(8x21x2 + 4x2)

∂3 f∂x1∂x2

2(x1, x2) = ex2

1+x22(8x2

2x1 + 4x1)

67

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

Sostituendo nella formula di Taylor:

f (x) = 1 + 01! x1 + 0

1! x2 + 12! 2(x1)2 + 1

2! 2(x2)2+

+(

eξ21+ξ2

2 (8ξ31+12ξ1)

3! x31 + eξ2

1+ξ22 (8ξ3

2+12ξ2)3! x3

2+

+ eξ21+ξ2

2 (8ξ21ξ2+4ξ2)

3! x21x2 + eξ2

1+ξ22 (8ξ2

2ξ1+4ξ1)3! x1x2

2

)dove la quantità tra parentesi rappresenta il resto di ordine 3.Semplificando:

f (x) = 1 + x21 + x2

2+

+(

eξ21+ξ2

2 (8ξ31+12ξ1)

3! x31 + eξ2

1+ξ22 (8ξ3

2+12ξ2)3! x3

2+

+ eξ21+ξ2

2 (8ξ21ξ2+4ξ2)

3! x21x2 + eξ2

1+ξ22 (8ξ2

2ξ1+4ξ1)3! x1x2

2

)Si noti che la precedente, che rappresenta lo sviluppo di MacLurindella funzione arrestato all’ordine due poteva essere ottenutodall’espressione f = ex2

1+x22 ponendo t = x2

1 + x22 e valutando la

f = et on t = 0.

Si può vedere facilmente, dall’espressione (3.12) che essa equiv-ale a

Teorema 26: Sia f : A ⊆ Rn → R una funzione di classe C2 in unintorno di x0. Allora f ammette in x0 il seguente sviluppo di Taylordel secondo ordine con resto di Peano:

f (x) = f (x0) + 〈∇ f (x0), (x− x0)〉+12 〈H(x− x0)(x− x0), (x− x0)〉+ (‖x− x0‖)2

Nell’espressione precedente il termine 〈∇ f (x0), (x − x0)〉 vi-enne detto parte lineare dell’approssimazione mentre il termine〈H(x− x0)(x− x0), (x− x0)〉 rappresenta la componente quadrat-ica.

3.11 massimi e minimi per funzioni di più variabili

Sia data f : A ⊆ Rn → R ed un punto x0 ∈ A.

Definizione 67: Diremo che x0 è un punto di massimo (minimo)locale o relativo per la funzione f se esiste un intorno U(x0) taleche comunque preso x ∈ U(x0) sia

f (x) ≤ f (x0) ( f (x) ≥ f (x0)) (3.13)

Se x0 è un punto di massimo o minimo locale per f diremoche f (x0) è un estremo locale e x0 è un estremante locale per f .Considerando l’intero dominio di definizione della funzione

Definizione 68: Diremo che x0 è un punto di massimo (minimo)assoluto per la funzione f se comunque preso x ∈ A sia

f (x) ≤ f (x0) ( f (x) ≥ f (x0)) (3.14)

68

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3.11 massimi e minimi per funzioni di più variabili

In entrambi i casi parleremo di estremi propri se il segno didisuguaglianza viene preso in senso stretto. Vediamo di definiredelle condizioni che ci permettano di stabilire se un punto deldominio della funzione f è estremante o meno.

Definizione 69: Sia f : A ⊆ Rn → R, sia inoltre f ∈ C1(A) e Aaperto.

x0 ∈ A e stazionario⇔ ∇ f (x0) = 0

Per una funzione definita in R2 tale condizione esprime il fattoche il piano tangente la funzione, passante per il punto f (x0) èparallelo al piano Ox1x2. Per estensione, in Rn diremo che l’iper-piano tangente è orizzontale e che x0 è un punto stazionario.Abbiamo quindi ottenuto che se un punto è un minimo od unmassimo per la funzione f allora questo sarà necessariamenteun punto stazionario. In realtà, dal punto di vista applicativo,abbiamo bisogno di poter verificare il contrario: se un punto èstazionario è necessario stabilire se è un massimo od un minimood altro. Ricordando l’espressione della formula di Taylor perfunzioni in Rn

f (x) = f (x0) + 〈∇ f (x0), (x− x0)〉+12 〈H(x− x0)(x− x0), (x− x0)〉+ (‖x− x0‖)2

possiamo enunciare il seguente teorema:

Teorema 27: Sia f ∈ C2(A) → R ed x0 ∈ A stazionario. Con-dizione necessaria affinchè x0 sia un punto di minimo (massimo) rela-tivo per f è che

〈H(x0)v, v〉 ≥ (≤)0 ∀v ∈ Rn

Dimostrazione. Dimostriamo il teorema nel caso del minimo. Siax = x0 + tv ∈ A con t ∈ R e v ∈ Rn. La formula di Taylor per fcentrata in x è:

f (x0 + tv)− f (x0) = 〈∇ f (x0), tv〉++ 1

2 〈H(x0)tv, tv〉+ (t2‖v‖)

Essendo x0 un punto stazionario, per la (69) sia ha che ∇ f (x0) =0 e quindi che

f (x0 + tv)− f (x0) =12

t2〈H(x0)v, v〉+ (t2)

da cui

f (x0 + tv)− f (x0)t2 =

12〈H(x0)v, v〉+ (t2)

t2

Se x0 è un punto di minimo relativo necessariamente deve essere

f (x0 + tv)− f (x0) ≥ 0

che implica che sia〈H(x0)v, v〉 ≥ 0

da cui la tesi.

69

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

In analogia allo studio di massimi e minimi di funzioni di unavariabile reale, lo studio del gradiente della funzione equivaleallo studio della derivata prima mentre lo studio dell’Hessianopuò essere paragonato alla derivata seconda in R. Il teoremaprecedente può essere riletto al contrario, con un accorgimento,per garantire la sufficienza dell’affermazione:

Teorema 28: Sia f ∈ C2(A)→ R ed x0 ∈ A. Condizione sufficienteaffinchè x0 sia un punto di minimo (massimo) relativo per f è che

〈H(x0)v, v〉 > (<)0 ∀v ∈ Rn

Quindi, mettendo insieme i risultati dei due teoremi possi-amo ottenere una condizione sia necessaria che sufficiente perla classificazione dei punti stazionari della funzione f . Vediamoora di fornire strumenti operativi che permettano di agevolarelo studio dell’Hessiano. Siano H una matrice m × n e v ∈ Rn,consideriamo la funzione F(v)

F(v) =〈Hv, v〉‖v‖2

Tale funzione risulta essere limitata

λ ≤ F(v) ≤ Λ

con λ e Λ il minimo ed il massimo autovalore di H. Inoltre

F(tv) =〈Htv, tv〉‖tv‖2 = F(v)

che dimostra che la funzione F(v) è costante su tutti i punti in-dividuati dalla retta tv. Da semplici passaggi algebrici si ottieneche

∇ f (v) =2‖v‖2 (Hv− F(v)v)

L’insieme generato da F(v), al varare di v ∈ Rn e considerandovettori v tali che ‖v‖ = 1 è un insieme chiuso e compatto, che peril teorema di Weierstrass risulta possedere minimo e massimo,ovvero:

∃v1, v2 : ‖v1‖ = ‖v2‖ = 1 e F(v1) ≤ F(v) ≤ F(v2) ∀v ∈ Rn

Sapendo, inoltre, che x0 è stazionario

∇ f (x0) = 0

che implica che

Hv1 − λv1 = 0 ⇒ Hv1 = λv1

Hv2 −Λv2 = 0 ⇒ Hv2 = Λv2

avendo postoF(v1) = λ F(v2) = Λ

70

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3.12 punti di sella

Dall’espressione precedente risulta chiaro che λ e Λ sono auto-valori della matrice H. Possiamo anche affermare che se tutti gliautovalori sono strettamente positivi allora 〈Hv, v〉 > 0, se tuttistrettamente negativi segue che 〈Hv, v〉 < 0, infatti sapendo che

λ ≤ F(v) ≤ Λ

e che

F(v) =〈Hv, v〉‖v‖2

risulta evidentemente

λ‖v‖2 ≤ 〈Hv, v〉 ≤ Λ‖v‖2

e quindi cheλ ≤ 〈Hv, v〉 ≤ Λ

Riassumendo, se x0 è un punto stazionario per F dallo studiodegli autovalori possiamo affermare quanto segue:

• se gli autovalori di H f (x0) sono tutti positivi ⇒ x0 è unpunto di minimo relativo;

• se gli autovalori di H f (x0) sono tutti negativi ⇒ x0 è unpunto di massimo relativo;

• se gli autovalori di H f (x0) sono semidefiniti positivi⇒ x0

potrebbe essere un punto di minimo relativo;

• se gli autovalori di H f (x0) sono semidiefiniti negativi ⇒x0 potrebbe essere un punto di massimo relativo;

• in tutti gli altri casi x0 non è né un punto di massimo né diminimo relativo.

3.12 punti di sella

Abbiamo visto che, data una funzione f : A ⊆ Rn → R, f ∈C2(I(x0)) con x0 punto stazionario per f se la matrice Hessianarisulta essere indefinita allora x0 non è un punto estremo per f .In tal caso il punto x0 verrà detto punto di sella per f .

Figura 11.: Curve di livello Figura 12.: Grafico

71

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

Esempio 37: Si consideri la funzione f (x1, x2) = x21 − x2

2. Ilgradiente è:

∇ f (x1, x2) = (2x1,−2x2)

che si annulla solo nell’origine degli assi. La matrice Hessiana è:

H f (x1, x2) =[

2 00 −2

]che, indipendentemente dal punto considerato, è indefinita. L’o-rigine è un punto di sella per la funzione f . Si vede dal grafico 12

che muovendosi sulla funzione lungo l’asse x1, ossia consideran-do la funzione di una variabile f (x1, 0) l’origine è un punto diminimo per f , mentre ripetendo il ragionamento lungo x2 sievince che lo stesso punto è un massimo locale per f . Tale com-portamento è tipico dei punti stazionari in cui la matrice Hes-siana è indefinita e non singolare. Ricordando che per una ma-trice simmetrica il prodotto degli autovalori coincide con il de-terminante per avere un punto di sella il determinante dell’Hes-siano deve essere minore di zero, in tale caso infatti, gli autoval-ori sono di segno discorde e quindi la forma quadratica associataalla matrice indefinita. Nel caso in cui il determinane sia stret-tamente maggiore di zero bisogna studiare se i pinti stazionarisiano di minimo o di massimo, nel caso di matrice singolare nonsi può dire nulla dalla sola conoscenza dell’Hessiano.

3.13 funzioni convesse

Anche per le funzioni di più variabili sono particolarmente in-teressanti le proprietà delle funzioni convesse.

Definizione 70: Sia f : A ⊆ Rn → R, f si dice convessa in A seA è convesso e se per ogni coppia di punti x1 ed x2 appartenentiad A e per λ ∈ (0, 1) ⊂ R si ha

(1− λ) f (x1) + λ f (x2) ≥ f ((1− λ)x1 + λx2) (3.15)

Se la precedente vale con il segno di disuguaglianza stret-to allora la funzione si dice strettamente convessa. In R è pos-sibile dare un’interpretazione geometrica della definizione diconvessità considerando il segmento di estremi (x1, f (x1)) ed(x2, f (x2)) e verificando che tutti i suoi punti si trovino al di so-pra o al più sul grafico della funzione stessa. Considerando la3.15 con il segno di minore uguale si può definire una funzioneconcava.Diamo ora una serie di importanti proprietà delle funzioni con-vesse:

• se f è convessa in un insieme aperto e convesso A è anchecontinua in A;

72

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3.13 funzioni convesse

• se f è differenziabile nell’insieme aperto convesso A, co-munque presa la coppia di punti x ed x0 appartenenti ad A,condizione necessaria e sufficiente affinchè f sia convessain A è che

f (x) ≥ f (x0) + f ′(x0)(x− x0)

ossia che il grafico della funzione si trovi sempre al disopra dell’iperpiano tangente o al più su di esso;

• se f è convessa in un insieme aperto e convesso A alloraogni suo punto stazionario è anche un punto di minimoglobale per f ;

• se f è strettamente convessa in A, aperto e convesso, alloraammette al più un unico punto stazionario e quindi ununico punto di minimo globale;

• se f ammette differenziale secondo nell’insieme aperto con-vesso A, allora essa è convessa in A se e solo se la matriceHessiana in x0, H(x0), è semidefinita positiva ∀x0 ∈ A;

• se f ammette differenziale secondo nell’insieme aperto con-vesso A, allora essa è strettamente onvessa in A se e so-lo se la matrice Hessiana in x0, H(x0), è definita positiva∀x0 ∈ A;

Si può dare infine una definizione alternativa di convessità facen-do riferimento alla sola proprietà di convessità, infatti indicandocon Epi f l’epigrafico della funzione f

Epi f = (x, y) ∈ A×R : y 6= f (x)

l’insieme costituito da tutti i punti che si trovano sul grafico di fo al di sopra di esso, si verifica facilmente che f è convessa se esolo se Epi f è un insieme convesso.

Esempio 38: Un monopolista produce due beni X e Y di quan-tità, rispettivamente, x e y. Siano px e py i prezzi dei due beni.Le funzioni di domanda del mercato sono:

x = −4px + py + 12y = 2px − 3py + 18

Il costo totale d’impresa è

C(x, y) = 1.5x + 1.8y + 8

Vogliamo calcolare i valori delle quantità di x ed y che massimiz-zano il profitto ed il conseguente profitto massimale. Dalle fun-zioni di domanda ricaviamo con semplici passaggi algebrici lefunzioni di domanda inversa:

px = 110 (54− 3x− y)

py = 15 (48− x− 2y)

73

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

calcoliamo il ricavo del monopolista

R(x, y) = pxx + pyy =110

(54x + 96y− 3x2 − 3xy− 4y2)

ed il suo profitto

Π(x, y) = R(x, y)− C(x, y) == 1

10 (−80 + 39x + 78y− 3x2 − 3xy− 4y2)

A questo punto abbiamo individuato l’espressione da massimiz-zare, valutiamo lo Jacobiano

∂Π∂x (x, y) = 1

10 (39− 6x− 3y) = 0∂Π∂y (x, y) = 1

10 (78− 3x− 8y) = 0

che fornisce x = 2y = 9

La matrice Hessiana è [−0.6 −0.3−0.3 −0.8

]e risulta essere definita negativa comunque scelti (x, y). Di con-seguenza il profitto è una funzione strettamente concava e quin-di il punto ottenuto è un massimo assoluto. Per concluderepossiamo calcolare i prezzi dei due beni:

px = 5.4− 1.5 = 3.9py = 9.6− 4 = 5.6

ed il profitto massimale

Π(x, y) = 31

3.14 funzioni implicite

Molto spesso, le funzioni che intendiamo studiare sono definiteda un’equazione del tipo

f (x1, x2, . . . , xn) = 0 (3.16)

Supponiamo che fissati x1, x2, . . . , x(n− 1) sia possibile individ-uare un valore di xn tale che l’n-pla (x1, x2, . . . , xn) risolva la(3.16). L’xn così individuato è a sua volta funzione delle n − 1variabili x1, x2, . . . , x(n− 1) e si può indicare con

xn = g(x1, x2, . . . , xn−1) (3.17)

In generale, data un’equazione, non è sempre agevole e moltospesso neanche possibile, passare dalla forma implicita a quel-la esplicita. Inoltre, quando sia possibile non è detto che talesoluzione sia unica. Sotto opportune ipotesi l’esistenza ed unic-ità della soluzione locale al problema viene garantita dal teore-ma del Dini:

74

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3.15 massimi e minimi vincolati

Teorema 29: Data una funzione f (x1, x2, . . . , xn, xn + 1) differenzi-abile nei punti di un insieme aperto A ⊆ Rn+1. Sia (α1, α2, . . . , αn+1)è tale che f (α1, α2, . . . , αn+1) = 0 e se

∂ f∂xn+1

(α1, α2, . . . , αn+1) 6= 0

allora esiste ed è univocamente determinata una soluzione locale

xn+1 = g(α1, α2, . . . , αn)

continua le cui derivate parziali sono date dalle espressioni

∂g∂xk

= −∂ f∂xk

[x1, x2, . . . , xn, g(x1, x2, . . . , xn)]∂ f

∂xk+1[x1, x2, . . . , xn, g(x1, x2, . . . , xn)]

; k = 1, 2, . . . , n

(3.18)

In R2, se f (x1, x2) = 0 e x2 = g(x1), le (3.18) si traducononell’espressione

∂g∂x1

= −∂ f∂x1

[x, g(x)]∂ f∂x2

[x, g(x)]

alla quale si pervine facilmente nella seguente maniera: sia (α1, α2)tale che f (α1, α2) = 0 e supposto x2 = g(x1) deve risultare in unintorno di α1

f [x1, g(x1)] = 0

e quindi∂

∂x1f [x1, g(x1)] = 0.

Se applichiamo ora la regola di derivazione delle funzioni com-poste

∂ f∂x1

+∂ f∂x2

∂g∂x1

= 0

da cui, ipotizzando che ∂ f∂x26= 0

∂g∂x1

= −∂ f∂x1∂ f∂x2

che è la formula cercata.

3.15 massimi e minimi vincolati

I risultati visti fino ad ora si applicano esclusivamente ai puntiestremi di una funzione definita su un dominio aperto. Ovvia-mente essi valgono anche se il dominio non è un aperto ma ilpunto in questione è comunque interno al dominio. In molte ap-plicazioni interessanti, invece, siamo condotti alla ricerca di val-ori estremi di una funzione definita su un insieme chiuso. Talericerca presenta sicuramente qualche difficoltà supplementare:

75

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

se si pensa ad un insieme chiuso come l’unione di in insiemeaperto e della sua frontiera, si deve fornire una trattazione dif-ferente per i punti sulla frontiera rispetto a quelli interni. Il van-taggio è che tale ricerca condurrà con maggior probabilità ad unrisultato rispetto alla ricerca di massimi e minimi liberi.Imporre un vincolo ad una funzione equivale a costringere lafunzione ad assumere soltanto alcuni valori del suo dominio,che è possibile descrivere matematicamente in diversi modi. De-terminare gli estremi di una funzione f (x1, x2) quando il punto(x1, x2) verifica la condizione aggiuntiva g(x1, x2) = k è una ricer-ca di massimi e minimi vincolati e l’insieme di livello g(x1, x2) =k prende il nome di vincolo.

Esempio 39: Sia f (x1, x2) = x1x2 la funzione da massimizzaresoggetta al vincolo x2

1 + x22 = 1 con x1 ≥ 0, x2 ≥ 0. L’insieme

definito dal vincolo è quindi

K =(x1, x2) ∈ R2 : x2

1 + x22 = 1 x1 ≥ 0, x2 ≥ 0

Disegnando il vincolo e qualche insieme di livello di f , cioè

Ec =(x1, x2) ∈ R2 : f (x1, x2) = c

per diversi valori di c. Massimizzare la funzione f soggetta al

Figura 13.: Massimo vincolato

vincolo vuol dire trovare il più grande valore di c tale che l’in-sieme Ec intersechi K. E’ evidente dalla figura 13 che tale punto,di coordinate

(√2

2 ,√

22

)ed indicato con P, corrisponde alla curva

di livello per c = 1/2 e che le due curve, la funzione ed il vin-colo, hanno in P la stessa tangente. Di conseguenza i gradientidelle due funzioni ∇ f (x0

1, x02) e ∇g(x0

1, x02) sono paralleli, cioè

∇ f (x01, x0

2) = λ∇g(x01, x0

2) conλ ∈ R

76

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3.15 massimi e minimi vincolati

La trattazione intuitiva appena vista può essere resa rigorosain questo modo: sia f (x1, x2) la funzione da massimizzare sogget-ta al vincolo g(x1, x2) = 0, supponiamo che ∂g

∂x26= 0. Esplicitan-

do l’espressione del vincolo si ricava un’equazione del tipo x2 =h(x1) e si sostituisce nella funzione da massimizzare ottenendouna nuova funzione in una variabile

F(x1) = f (x1, h(x1))

che si può agevolmente massimizzare rispetto ad x1 calcolan-do F′(x1) = 0. Sfortunatamente non è sempre possibile indi-viduare la funzione h(x1), si ha bisogno perciò di esprimere lacondizione F′(x1) = 0 in funzione di f e di g.

F′(x) =∂ f∂x1

+∂ f∂x2

h′(x1)

ma, applicando il teorema del Dini (29),

h′(x1) = − ∂g∂x1

/∂g∂x2

quindi la condizione di massimo è

F′(x1) =∂ f∂x1− ∂ f

∂x2

(∂g∂x2

)−1 ∂g∂x1

= 0

Ponendo∂ f∂x2

(∂g∂x2

)−1

= λ

si può scrivere in forma più compatta

F′(x1) =∂ f∂x1− λ

∂g∂x1

= 0

Con ragionamento analogo rispetto ad x2 si ottiene il seguentesistema

∂ f∂x1− λ

∂g∂x1

= 0∂ f∂x2− λ

∂g∂x2

= 0

Le condizioni ottenute sono dette condizioni del primo ordine perla ricerca di un massimo vincolato. Il risultato ottenuto puòessere sintetizzato ed esteso agevolmente a funzioni in Rn permezzo del seguente teorema dei moltiplicatori di Lagrange:

Teorema 30: Siano f e g due funzioni di classe C1(A), con A ∈ Rn.Se (x0

1, x02, . . . , x0

n) è un punto estremo per f nell’insieme

K = (x1, x2, . . . , xn) ∈ Rn : g(x1, x2, . . . , xn) = 0

e ∇g(x01, x0

2, . . . , x0n) 6= 0, allora esiste λ0 ∈ R tale che

∇ f (x01, x0

2, . . . , x0n) = λ0∇g(x0

1, x02, . . . , x0

n)

77

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

Scrivendo l’equazione vettoriale ∇ f = λ0∇g in termini dellesue componenti e consideriamo l’equazione del vincolo otteni-amo un sistema di n + 1 equazioni in n + 1 variabili:

∂ f∂x1

(x01, x0

2, . . . , x0n)− λ0

∂g∂x1

(x01, x0

2, . . . , x0n) = 0

∂ f∂x2

(x01, x0

2, . . . , x0n)− λ0

∂g∂x2

(x01, x0

2, . . . , x0n) = 0

......

∂ f∂xn

(x01, x0

2, . . . , x0n)− λ0

∂g∂xn

(x01, x0

2, . . . , x0n) = 0

g(x01, x0

2, . . . , x0n) = 0

In altre parole, i punti di massimo e minimo della funzione di nvariabili f (x1, x2, . . . , xn) soggetta al vincolo g(x1, x2, . . . , xn) = 0sono punti critici per la funzione di n + 1 variabili

L(x1, x2, . . . , xn, λ) = f (x1, x2, . . . , xn)− λg(x1, x2, . . . , xn) (3.19)

la cui variabile λ prende il nome di moltiplicatore di Lagrange.L’introduzione del Lagrangiano mi premette di trasformare ilproblema della ricerca dei punti stazionari di una funzione sogget-ta a vincoli nella ricerca degli estremi liberi di una nuova fun-zione. Dal punto di vista pratico posso seguire le seguenti lineeguida nel caso in cui il vincolo rappresenti una traiettoria:

1. se il vincolo è esprimibile in forma esplicita, ne calcolol’equazione, la sostituisco nell’espressione della funzioneda minimizzare o massimizzare e calcolo gli estremi liberidella funzione ottenuta;

2. se il vincolo non è esprimibile in forma esplicita, calco-lo la lagrangiana L, ne annullo il gradiente e valuto sin-golarmente i valori della funzione nei punti ottenuti percaratterizzarli;

e le seguenti nel caso il vincolo rappresenti una superficie:

1. calcolo i punti stazionari liberi della funzione;

2. prendo in considerazione solo i punti estremali che cadononell’insieme di definizione del vincolo;

3. cerco i punti stazionari vincolati sulla frontiera - a questopunto il vincolo è una traiettoria e posso rifarmi alle lineeguida precedenti.

Nel caso in cui i vincoli siano più di uno il procedimento èanalogo, si introduce un moltiplicatore di Lagrange per ognivincolo e si risolve il sistema così ottenuto. Ad esempio siaf (x1, x2, . . . , xn) la funzione da minimizzare o massimizzare esiano g(x1, x2, . . . , xn) = 0 ed h(x1, x2, . . . , xn) = 0 due vincoli dasoddisfare. La lagrangiana è:

L(x1, x2, . . . , xn, λ1, λ2) = f (x1, x2, . . . , xn)+−λ1g(x1, x2, . . . , xn)− λ2h(x1, x2, . . . , xn)

78

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3.15 massimi e minimi vincolati

Vediamo ora alcuni esempi di applicazioni di quanto visto sino-ra:

Esempio 40: Individuare il rettangolo di area massima fissato ilperimetro p.La funzione da massimizzare è

f (a, b) = ab

stante il vincolo2a + 2b = p

sul perimetro. Possiamo semplicemente esplicitare l’espressionedel vincolo

a =p− 2b

2sostituirla nell’equazione dell’area

f (b) = bp− 2b

2=

bp− 2b2

2

calcolare i punti stazionari

f ′(b) = −4b + p = 0

da cuib = p

4a = p

4

Una veloce analisi della derivata seconda

f ′′(b) = −4 > 0

ci assicura che il punto trovato è un massimo e che il rettangolocercato è in realtà un quadrato di lato l = p/4. Utilizzando ilmetodo dei moltiplicatori di Lagrange si calcola innanzitutto laLagrangiana

L(a, b, λ) = ab− λ(2a + 2b− p) = 0

Si annullano le derivate parziali prime della Lagrangiana∂L∂a = b− 2λ = 0∂L∂b = a− 2λ = 0∂L∂λ = 2a + 2b− p = 0

da cui si ottiene a = p

4b = p

4λ = p

8

Esempio 41: Si consideri la seguente funzione di produzione:

F(K, L) = (aK−2 + bL−2)−1/2 (3.20)

79

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calcolo differenziale per funzioni di più variabili

in cui K rappresenta il capitale ed L rappresenta il Lavoro. Sianoinoltre r e w rispettivamente il costo associato al capitale ed allavoro. Si minimizzi la funzione di costo

C(K, L) = rK + wL

soggetta al vincolo di produzione

F(K, L) = q

fissati r, w e k.La Lagrangiana associata al problema in questione è

L(K, L, λ) = rK + wL− λ(F(K, L)− q)

dalla quale si ottiene il seguente sistemar− λ ∂F

∂K = 0w− λ ∂F

∂L = 0F(K, L) = q

Dalla (3.20) si ottiene

λ ∂F∂K = a

( qK

)3

λ ∂F∂L = b

( qL

)3

F(K, L) = q

che sostituite nel sistemar = λa

( qK

)3

w = λb( q

L

)3

F(K, L) = q

isolando L e K e sostituendo nel vincoloK = q

(λar

)1/3

L = q(

λbw

)1/3(a(

q(

λar

)1/3)−2

+ b(

q(

λbw

)1/3)−2

)−1/2

= q

(3.21)

Risolvendo in λ l’ultima equazione(aq−2 λ−2/3a−2/3

r−2/3 + bq−2 λ−2/3b−2/3

w−2/3

)−1/2

= q

(λ−2/3

(a1/3

r−2/3 +b1/3

w−2/3

)q−2)−1/2

= q

λ−2/3(

a1/3

r−2/3 +b1/3

w−2/3

)q−2 = q−2

λ =(

a1/3r2/3 + b1/3w2/3)3/2

(3.22)

80

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3.15 massimi e minimi vincolati

Poniamo ora

ϑ =a1/3r2/3

a1/3r2/3 + b1/3w2/3

dalla (3.22)

λ = (ϑ−1a1/3r2/3)3/2 = ϑ−3/2a1/2rλ = b1/2w(1− ϑ)−3/2

dal sistema (3.21) Kq =

(ϑ−3/2a1/2ra

r

)1/3

Lq =

(b1/2w(1−ϑ)−3/2b

w

)1/3

da cui Kq = a1/2ϑ−1/2

Lq = b1/2(1− ϑ)−1/2

e quindi K = q

√ aϑ

L = q√

b1−ϑ

La funzione di costo è quindi

C(K, L) = rK + wL = λq

Esprimendo λ in funzione del costo C sia ha

λ =Cq

e calcolando il costo marginale

∂C∂q

= λ

si vede agevolmente che

∂C∂q

=Cq

esso dipende esclusivamente dal prezzo di input e non dal livel-lo di produzione q.

81

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4

E Q U A Z I O N I D I F F E R E N Z I A L I

indice

4.1 Introduzione 834.2 Equazioni differenziali 854.3 Equazioni differenziali a variabili separabili 874.4 Equazioni differenziali lineari del primo ordine 894.5 Equazioni differenziali di Bernoulli 924.6 Equazioni differenziali di Riccati 934.7 Equazioni differenziali esatte 954.8 Equazioni differenziabili non riconducibili in forma nor-

male 994.9 Equazioni differenziabili di Clairaut 1014.10 Equazioni differenziali di D’Alembert-Lagrange 1024.11 Equazioni del tipo x = ϕ(y, y′) 103

4.1 introduzione

Molti problemi di interesse nelle scienze naturali, sociali, eco-nomiche e ingegneristiche possono essere affrontati nel seguentemodo: cercare ed eventuualmente esplicictare una o più fun-zioni che soddisfano certe condizioni, per lo più poste dallanatura del problema che si sta esaminando. Generalmente leequazioni a cui si giunge hanno per incognita una funzione eper questo sono dette equazioni funzionali. Di frequente le con-dizioni espresse dalle equazioni riguardano il legame tra unadata funzione e le sue derivate fino ad un certo ordine. In questicasi, l’equazione viene detta differenziale. Si pensi ad esempiodi conoscere il numero di individui di una certa popolazionead un certo istante t0, indicato con p0 e di volerne prevederel’andamento demografico, ossia l’evoluzione nel tempo. Siamoquindi interessati a calcolare nel generico istante t il numero diindividui p(t) di una certa popolazione noto il loro numero in-iziale. Indicando con n(t) il tasso di natalità e con m(t) il tassodi mortalità della popolazione sappiamo che all’istante t stannonascendo np(t) individui e ne stanno morendo mp(t). Il tasso dicrescita della popolazione sarà

dp(t)dt

= np(t)−mp(t) = k(p(t)

83

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equazioni differenziali

con k = n−m tasso di crescita percentuale. Se supponiamo chep(t) > 0 ad ogni istante t possiamo scrivere

1p(t)

dp(t)dt

=p′(t)p(t)

= k

Ricordando la regole di derivazione della funzione logaritmo

D[ln |p(t)|] =p′(t)p(t)

possiamo scrivere, integrando ambo i membri

ln |p(t)| =∫ p′(t)

p(t)dt =

∫kdt = kt + C

dove abbiamo indicato con C = ln p0. Abbiamo quindi

ln |p(t)| = kt + ln p0

da cui|p(t)| = ekt+ln p0 = p0ekt

Il valore assoluto ci obbliga a prendere in considerazione siala soluzione positiva p(t) = p0ekt che quella negativa p(t) =−p0ekt, ma quest’ultima non soddisfa la condizione iniziale p(0) =0 che avevamo imposto. La soluzione del problema è dunque

p(t) = p0ekt

dove il termine ekt rappresenta l’evoluzione del fenomeno neltempo e p0 invece la condizione iniziale. La soluzione trova-ta si presta ad una interpretazione parzialmente realistica: lapopolazione aumenta esponenzialmente (poco probabile) quan-do k > 0, ossia quando il tasso di natalità è maggiore di quellodi mortalità e si estingue esponenzialmente quando accade ilcontrario. Se nasce esattamente lo stesso numero di persone chemuore, ad ogni istante, la popolazione resta costante (k = 0).Questo modello semplificato, abbiamo supposto implicitamenteche i tassi di mortalità e natalità siano costanti, può essere re-so più aderente alla realtà ipotizzando, ad esempio, che il tas-so di natalità sia proporzionale al numero di individui p dellapopolazione. In questo caso l’equazione differenziale diventa

p′(t)p(t)

= k− h(p(t))

con k ed h costanti positive. Questa equazione, detta equazionelogistica, è stata proposta dal matematico belga Verhulst nel XIXsecolo come modello di crescita della popolazione mondiale everrà risolta nei paragrafi successivi.

84

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4.2 equazioni differenziali

4.2 equazioni differenziali

Nell’esempio del paragrafo precedente abbiamo visto che unaequazione differenziale è dunque una relazione che coinvolge unafunzione incognita ed alcune delle sue derivate. Un’equazionedifferenziale del primo ordine è esprimibile con

f (x, y(x), y′(x)) = 0

mentre, in una forma più generale, un’equazione differenziale ordi-naria di ordine n è

f (x, y(x), y′(x), . . . , yn(x)) = 0 (4.1)

dove x, y, y′, . . . , yn sono variabili indipendenti ed yn 6= 0 (altri-menti non sarebbe di ordine n ma inferiore) e la sua soluzionesarà una funzione y(x) ∈ C(A) ⊆ R → R. Si noti che se lafunzione y che compare nella 4.1 anzichè funzione di variabilescalare fosse di variabile vettoriale, cioè se y = y(x) con x ∈ Sk

avendo indicato con Sk lo spazio k-dimensionale (k > 1), allorasi parlerebbe di equazione differenziale alle derivate parziali. Circo-scrivendo il discorso alle sole equazioni differenziali ordinarie,ogni funzione y = y(x) che in un certo intervallo I del suo do-minio A sia derivabile almeno n volte e che sostituita nella 4.1la verifichi prende il nome di soluzione o integrale dell’equazionedifferenziale (4.1).Inoltre, se è possibile esplicitare la funzione rispetto alla suaderivata n-esima

yn(x) = F(x, y(x), y′(x), . . . , yk−1(x))

l’equazione differenziale si dice ridotta in forma normale. Riguar-do la possibilità di poter passare alla forma implicita a quella es-plicita va sottolineato che non tutte le equazioni possono scriver-si in forma normale. Nei casi in cui non sia possibile, si puòtentare di applicare il teorema del Dini (29) che garantisce, sot-to opportune ipotesi, l’esistenza locale di una funzione esplici-ta. Vediamo ora cosa vuol dire risolvere un’equazione differen-ziale. Consideriamo il caso più semplice, ossia un’equazionedifferenziale del primo ordine ridotta in forma normale

y′ = F(x, y)

e andiamo a studiare la corrispondente equazione

F(x, y)− c = 0

al variare di c ∈ R. La precedente equazione, geometricamente,descrive il luogo dei punti del piano per i quali le tangentialle primitive della F(x, y) sono isoclìne, ossia hanno la stessapendenza. Ad esempio considerando l’equazione differenziale

y′ = y− x

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equazioni differenziali

il suo campo di direzioni si ottiene valutando l’equazione

y− x = c

per diversi valori di c. Si noti che per c = 0 si ottiene y− x = 0che è la bisettrice del primo e terzo quadrante. Il grafico delleisocline è mostrato in figura (14). Su ognuna di queste linee lafunzione y′(x) ha valore costante e coincidente con c. In parti-colare in c = 0 la y′(x) si annulla e quindi le tangenti sarannoorizzontali. Nella figura (14) sono riportate alcune di questetangenti. Infittendo il grafico con altri valori di c si ottiene

Figura 14.: Isocline e campo di direzioni

una rappresentazione migliore del campo delle direzioni, cosìcome mostrato in figura (15). Infine in figura (15) sono ripor-tate alcune traiettorie della funzione soluzione dell’equazionedifferenziale data. Quindi calcolare la soluzione dell’equazione

Figura 15.: Grafico

differnziale vuol dire individuare un’infinità di curve che sosti-tuite nell’equazione di partenza la soddisfano. Si può estendereil ragionamento fatto per le equazioni differenziali del primo or-dine ad equazioni differenziali di ordine n concludendo che taliequazioni ammettono come soluzioni una famiglia ∞n di curveintegrali.Molto spesso, nelle scienze applicate, l’obiettivo è valutare unaparticolare soluzione dell’equazione differenziale che soddisficerte condizioni, dette iniziali dettate dalla natura del proble-ma esaminato. Da un punto di vista geometrico, nel caso di

86

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4.3 equazioni differenziali a variabili separabili

un’equazione differenziale del primo ordine, il problema si ri-conduce a fissare nel campo delle direzioni un punto (x0, y0)che si richiede appartenga alla curva che risolve l’equazione dif-ferenziale. Dal momento che nel campo di direzioni per ciascunpunto passa una ed una sola curva integrale che soddisfa l’e-quazione data, imporre la condizione di passaggio per il pun-to (x0, y0) vuol dire individuare univocamente una soluzioneparticolare dell’equazione stessa. In maniera più formale:

Definizione 71: Si dice problema ai valori iniziali o problemadi Cauchy per un’equazione differenziale del primo ordine informa normale la seguente coppia di relazioni

y′ = f (x, y) ∀x ∈ Iy(x0) = y0

(4.2)

Un importante teorema, dovuto a Peano, garantisce l’esisten-za di una soluzione del problema di Cauchy sotto la sola ipotesidi continuità di f in un intorno del punto x0. L’unicità di talesoluzione è garantito da un’ulteriore teorema, dovuto ancora aCauchy, che asserisce che nell’ulteriore ipotesi di lipschitzianità1

della funzione f la soluzione del problema è unica. Essendotale ipotesi difficilmente verificabile, la si sostituisce con un’altraipotesi, più restrittiva ma di verificabilità immediata che la fun-zione F sia parzialmente derivabile rispetto alla variabile y e chequesta sia continua rispetto ad y.

4.3 equazioni differenziali a variabili separabili

A seconda del modo in cui le variabili sono legate fra loro sipossono classificare diverse tipologie di equazioni differenziali.Il caso più semplice è rappresentato da espressioni del tipo

y′(t) = h(y(t))g(t)

con h e g funzioni continue. Dividendo ambo i membri perh(y(t)), supposto ovviamente non nullo, si ottiene

y′(t)h(y(t))

= g(t)

che integrata rispetto alla variabile indipendente t∫ y′(t)h(y(t))

dt =∫

g(t)dt

ovvero ∫ 1h(y)

dy =∫

g(t)dt

1 Tale ipotesi è la seguente: esiste un numero positivo N tale che

|F(x, y1)− F(x, y2)| ≤ N|y1 − y2| ∀(x, y1), (x, y2) ∈ D

Una funzione che gode di tale proprietà è detta lipschitziana rispetto ad y.

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equazioni differenziali

Se indichiamo con H e G le primitive di 1/h e g ottenute dallaprecedente possiamo scrivere che

H(y) + c1 = G(t) + c2

con c1 e c2 costanti arbitrarie. Posto inoltre c = c2 − c1 si ha

H(y) = G(t) + c

Esempio 42: Risolvere l’equazione differenziale

dydt

= t4y3

Scrivendo l’equazione nella forma

1y3

dydt

= t4

e integrando ambo i membri∫y−3dy =

∫t4dt

da cui−2y−2 =

15

t5 + C

ossiay =

1√B− t5

10

avendo posto B = −C/2.

In alcuni casi è possibile, individuando un’opportuna sosti-tuzione di variabili, ricondurre un’equazione differenziale aduna forma in cui le variabili sono separabili. Sono equazionidel tipo

y′ = f (ax + by)

con f ∈ C0(I) ed a, b 6= 0, risolvibili, in generale, per mezzo diun cambio di variabili. Se si pone

u = ax + by

l’equazione f (ax + by) = f (u) e di conseguenza f (u) = u′−ab ,

ossiau′ = b f (u) + a

che è a variabili separabili.

Esempio 43: Risolvere l’equazione differenziale

y′ = (x− y)2 + (x− y)− 1

L’equazione può essere scritta nella forma

dydx

= (x− y)2 + (x− y)− 1,

88

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4.4 equazioni differenziali lineari del primo ordine

ponendo

z = y− x ⇒ dz = dy− dx ⇒ dy = dx− dz

si hadx− dz

dx= (x− y)2 + (x− y)− 1

da cui1− dz

dx= (x− y)2 + (x− y)− 1

semplificandodzdx

= −(z2 + z).

Supponendo che (z2 + z) 6= 0, ossia z 6= 0 e z 6= −1, si ha

1z2 + z

dz = −dx

che, integrando, permette di ottenere la seguente espressione Si noti che

1z(z + 1)

=Az

+B

z + 1

con A e B da determinare. Si ottiene

A(z + 1) + Bzz(z + 1)

=(A + B)z + A

z(z + 1)

e dal sistemaA + B = 0A = 1

si ottengono i valori delle costanti Ae B:

B = −1A = 1

∫ 1z2 + z

dz = −∫

dx

da cui ∫ 1z

dz−∫ 1

z + 1dz = −x + c1

e quindiln |z| − ln |z + 1| = −x + c1.

Posto c = − ln c1 e sfruttando le proprietà dei logaritmi

lncz

z + 1= −x

da cuicz

z + 1= e−x.

Risostituendo z = x− y si ha

e−x = cx− y

x− y + 1

che con semplici passaggi algebrici conduce a

y = x− 1cex − 1

4.4 equazioni differenziali lineari del primo ordine

Vengono classificate lineari le equazioni differenziali del primoordine della forma

y′ + f (x)y = g(x) (4.3)

con f e g ∈ C0(I). Se il termine g(x) = 0 le equazioni ven-gono dette omogenee altrimenti non omogenee. Iniziamo a vedere

89

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equazioni differenziali

come risolvere le equazioni lineari omogenee. Essendo g(x) =0 si ha

y′ + f (x)y = 0

da cuidydx

= − f (x)y.

Se y 6= 0 si può scrivere

1y

dydx

= − f (x),

raccogliendo ed integrando ambo i membri∫ 1y

dy = −∫

f (x)dx.

Scrivendoln |y|+ c1 = −

∫f (x)dx

si può porre c2 = ln c1 ed ottenere

c2y = e−∫

f (x)dx,

posto ancora c = 1/c2 si ottiene l’integrale generale

y = ce−∫

f (x)dx.

Esempio 44: Risolvere l’equazione differenziale

y′ − y(x2 − 3x)dx = 0.

E’ un’equazione linerare omogenea il cui integrale generale ècon

y(x) = ce−∫

f (x)dx

con f (x) = x2 − 3x. Sostituendo nella precedente

y(x) = ce∫

x2−3xdx

ed integrando si ottiene la soluzione

y(x) = cex33 + 3

2 x2.

Veidamo ora come risolvere le equazioni lineari non omoge-nee, ossia l’ equazione differenziale (4.3) con il termine g(x) 6= 0.L’equazione da risolvere può essere scritta nella forma

dy + f (x)ydx = g(x)dx.

Cerchiamo di individuare un cosiddetto fattore integrante, ossiauna funzione h(x) tale che

h(x)dy + f (x)h(x)ydx = d[h(x)y];

90

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4.4 equazioni differenziali lineari del primo ordine

dalla precedente

h(x)dy + f (x)h(x)ydx = h(x)dy + yd[h(x)]

semplificandof (x)h(x)dx = d[h(x)]

ed integrando si ottiene∫f (x)dx =

∫ d[h(x)]h(x)

ossialn c1h(x) =

∫f (x)dx

oppure, ponendo c = 1/c1

h(x) = ce∫

f (x)dx

che per c = 1 fornisce l’espressione del fattore integrante:

h(x) = e∫

f (x)dx.

Dall’equazione differenziale iniziale abbiamo

d[yh(x)] = h(x)g(x)dx,

ossiayh(x) =

∫h(x)g(x)dx

che fornisce l’integrale generale cercato

y = e−∫

f (x)dx[∫

e∫

f (x)dxg(x)dx + c]

. (4.4)

Esempio 45: Risolvere l’equazione differenziale

y′ − 2y = 3x.

Riscrivendola nella forma

dy− 2ydx = 3xdx

possiamo individuare le funzionif (x) = 2g(x) = 3x

Il fattore integrante

h(x) = e∫

2dx = e2x

permette di scrivere

d[ye2x] = 3xe2xdx

91

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equazioni differenziali

ossia

y = e−2x[

3∫

xe2xdx + c]

Calcolando per parti l’integraleNella formula dell’integrazione perparti ∫

f ′g = f g−∫

f g′

scegliamof ′ = e2x ⇒ f = e2x/2g = x ⇒ g′ = 1

∫xe2xdx = 1

2 e2xx− 12

∫e2x1dx

= 12

(e2xx− 1

2 e2x)+ c= 1

2 xe2x − 14 e2x + c

La soluzione cercata è dunque

y = 3e−2x ( 12 xe2x − 1

4 e2x + c)

= 32 x− 3

4 + ce2x

4.5 equazioni differenziali di bernoulli

Vengono classificate equazioni di Bernoulli le equazioni differen-ziali del primo ordine della forma

y′ + f (x)y = g(x)yn (4.5)

con f e g ∈ C0(I). Dall’eq.di Bernoulli si può ricavare, come casoparticolare, l’equazione differenziale lineare dividendo ambo imembri per yn

y−ny′ + y1−n f (x)y = g(x)

e ponendo

t = y1−n ⇒ t′ = (1− n)y−ny′ ⇒ y−ny′ =t′

1− n;

infatti, sostituendo si ottiene

t′

1− n+ f (x)t = g(x)

ossiat′ + (1− n) f (x)t = (1− n)g(x)

che è un’equazione lineare non omogenea la cui soluzione in t è

t = e−∫

(1−n) f (x)dx[∫

(1− n)e∫

(1−n) f (x)dxg(x)dx + c]

.

Dalla posizione fatta t = y1−n, esplicitando la y = t1

1−n sipuòfornire l’integrale generale direttamente in funzione di y:

y = e−∫

f (x)dx[∫

(1− n)e∫

(1−n) f (x)dxg(x)dx + c] 1

1−n

. (4.6)

Esempio 46: Risolvere l’equazione differenziale

y′ − xy = xy3

92

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4.6 equazioni differenziali di riccati

Si vede facilmente che l’equazione data è di Bernoulli con n = 3,f (x) = −x e g(x) = x. Applicando direttamente la (4.6) si ha

y = e∫

xdx[∫

(1− 3)e∫

(1−3)(−x)dxxdx + c] 1

1−3

= e∫

xdx[−2∫

e2∫

xdxxdx + c]− 1

2

si ha

y = ex22

[−2∫

ex2xdx + c

]− 12

= ex22

[c− ex2

]− 12

= (e−x2)−12

[c− ex2

]− 12

=[ce−x2 − e−x2

ex2]− 1

2

= 1√ce−x2−1

4.6 equazioni differenziali di riccati

Si chiamano equazioni di Riccati le equazioni differenziali del Equazioni differenziali di Riccati

primo ordine della forma

y′ + f (x)y = g(x)y2 + l(x) (4.7)

con f g l ∈ C0(I). Dall’equazione di Riccati si possono ricavaretutte le equazioni differenziali viste precedentemente:

• se g(x) = 0 essa si riduce ad un’equazione lineare nonomogenea;

• se g(x) = l(x) = 0 è un’equazione lineare omogenea;

• se g(x) 6= 0, l(x) = 0 è un’equazione di Bernoulli conn = 2;

• se g(x) 6= 0, l(x) 6= 0 è detta equazione di Riccati.

Neiprimi tre casi abbiamo già visto come tale equazione possaessere risolta, resta l’ultimo per il quale l’integrazione è possibilesolo nel caso sia noto un suo integrale particolare.

Esempio 47: Risolvere la seguente equazione differenziale

xy′ − 2y + xy2 = −2x

supposto che un suo integrale particolare sia y = xm. Verifichi-amo per quale o quali valori di m la funzione y = xm è soluzionedell’equazione differenziale data: Sostituiamo

y′ = mxm−1

nell’equazione differenziale

y′ − 2x

= −y2 − 2x2

93

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equazioni differenziali

ottenendomxm−1 − 2

xxm = −x2m − 2

x2

da cui(m− 2)xm−1 = (−x2m+2 − 2)x−2.

Per m = −1 l’equazione precedente è identicamente verificata equindi

y1 =1x

è un suo integrale particolare. A questo punto possiamo risol-vere l’equazione di Riccati per mezzo della sua formula riso-lutiva considerando f (x) = 2

x e g(x) = −1:essendo f (x) −2y1g(x) = 0 il suo integrale sarà costante, poniamolo ad esempiopari a c1, ottenendo

y = 1x + e−c1

[−∫−e−c1 dx + c

]= 1

x + e−c1(e−c1 x + c)

Esempio 48: Data l’equazione logistica

p′(t) = kp(t)− hp2(t)

e la condizione iniziale p(0) = 0, determinare p(t) per t > 0, sup-ponendo k ed h positive. L’equazione differenziale è a variabiliseparabili

p′(t) = p(t)(k− hp(t))

che ammette evidentemente p(t) = 0 e p(t) = kh come soluzioni.

Scrivendodp

p(k− hp)= dt

ed integrandoSi osservi che1

p(k−hp) = Ap + B

k−hp

= Ak−hp+Bpp(k−hp)

= Bp−Ahp+Akp(k−hp)

= (B−Ah)p+Akp(k−hp)

Dal sistemaB− Ah = 0Ak = 1

si ricava B = h/kA = 1/k

∫ dpp(k− hp)

= t− c

si ottiene

ln∣∣∣∣ pk− hp

∣∣∣∣ = k(t + c)

da cuip

k− hp= Dekt D 6= 0.

Esplicitiamo la p(t):

p(t)k−hp(t) = Dekt

p(t) = (k− hp(t))Dekt

p(t) + hp(t)Dekt = kDekt

p(t)(1 + h)Dekt = kDekt

p(t) = kDekt

(1+h)Dekt .

Imponendo la condizione iniziale possiamo calcolare la costantedi integrazione

D =p0

k− hp0

94

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4.7 equazioni differenziali esatte

che risulta verificata quando t > 0. Infine quando t→ +∞ si hache

lim p(t)t→+∞kDekt

(1 + h)Dekt =kh

,

limite che si interpreta deducendo phe il numero di individuiche compone la popolazione nel tempo tenderà a stabilizzarsiverso un numero di individui pari a k/h, che rappresenteràquindi la capacità dell’ambiente.

4.7 equazioni differenziali esatte

Sono equazioni differenziali del primo ordine della forma

a(x, y)dx + b(x, y)dy = 0 (4.8)

con aeb ∈ C0(I) che verificano

∂ya(x, y) =

∂xb(x, y).

In tale caso il primo termine della (4.8) è detto differenziale esatto.Possiamo quindi scrivere

d[ f (x, y)] = a(x, y)dx + b(x, y)dy = 0

da cui, integrando, si ottiene

f (x, y) =∫

[a(x, y)dx + b(x, y)dy] = cost.

ossiaf (x, y) = c1

che è detto integrale della (4.8). Ci sono diverse procedure chepermettono di ottenere l’integrale generale della (4.8), vediamonein particolare due.Metodo I.

Esempio 49:2(xy− 1)dx + x2dy = 0

Vediamo innanzitutto se è un differenziale esatto:∂

∂y [2(xy− 1)] = 2x∂

∂x [x2] = 2x

Dalla prima equazione (o dalla seconda, il procedimento è anal-ogo) si calcola

f (x, y) =∫

2(xy− 1)dx = x2y− 2x + g(y)

dove la costante arbitraria è ovviamente funzione della variabileconsiderata costante, in questo caso y. Essendo

∂yf (x, y) = x2

95

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equazioni differenziali

avendo verificato che il differenziale è esatto si ha

x2 + g′(y) = x2 ⇒ g′(y) = 0⇒ g(y) = c1

con c1 costante arbitraria. Pertanto l’integrale generale, ricordan-do che f (x, y) = c è

x2y− 2x + c1 = c2

oppurex2y− 2x = c

avendo posto c = c2− c1. Se avessimo integrato la seconda partedel differenziale, b(x, y), avremmo ottenuto:

f (x, y) =∫

x2dy = x2y + g(x)

e ricavato g(x) da

∂yf (x, y) = 2(xy− 1)

imponendo che

2xy + g′(x) = 2(xy− 1)⇒ g′(y) = −2⇒ g(y) = −2x.

La funzione F(X, Y) così ottenuta

x2y− 2x = c

è ovviamente la stessa.

Metodo II.

Tale metodo si basa sulla seguente osservazione: se

a(x, y)dx + b(x, y)dy

è un differenziale esatto il suo integrale sarà

f (x, y) =∫

a(x, y)dx +∫

b(x1, y)dy = c

con c costante arbitraria e x1 un qualsiasi valore di x.Nella applicazione pratica di questometodo si sceglie solitamente x1 = 0per semplificare il calcolodell’integrale.

Esempio 50: Sia

(3x2y− y2)dx + (x3 − 2xy)dy = 0.

Calcolarne l’integrale generale.Verifichiamo che sia un differenziale esatto

∂∂y [3x2y− y2] = 3x2 − 2y∂

∂x [x3 − 2xy] = 3x2 − 2y

96

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4.7 equazioni differenziali esatte

e applichiamo il metodo risolutivo:

f (x, y) =∫

3x2y− y2dx +∫

03 − 2 · 0 · ydy= 3y

∫x2dx− y2

∫dx +

∫0dy

= x3y− xy2 + c1

ricordando che f (x, y) = c porta a

f (x, y) = x3y− xy2 + c2

avendo posto c2 = c1 − c.

In alcuni casi, quando il differenziale non risulti esatto, si può Di seguito un metodo per tentare direndere esatto un differenziale.tentare di renderlo tale moltiplicandolo per un opportuno fat-

tore integrante. Tale manipolazione dell’equazione non è sem-pre, purtroppo, possibile. Supponiamo che esista un fattoreintegrante dell’equazione differenziale h(x, y), l’equazione

a(x, y)dx + b(x, y)dy = 0

diventah(x, y)a(x, y)dx + h(x, y)b(x, y)dy = 0

ossia l’equazione differenziale esatta

a1(x, y)dx + b1(x, y)dy = 0

avendo indicato con a1(x, y) = h(x, y)a(x, y) e con b1(x, y) =h(x, y)b(x, y). Possiamo ora scrivere

∂ya1(x, y) =

∂xb1(x, y)⇒ ∂

∂yha(x, y) =

∂xhb(x, y)

che derivata fornisce

hy(x, y)a(x, y) + h(x, y)ay(x, y) = hx(x, y)b(x, y) + h(x, y)bx(x, y)

ossia

h(x, y)[ay(x, y)− bx(x, y)] = hx(x, y)b(x, y)− hy(x, y)a(x, y).

In molti casi l’equazione ottenuta conduce ad un’equazione allederivate parziali, di difficile soluzione. E’ possibile stabilire l’e-sistenza del fattore integrante a partire dalla conoscenza dellefunzioni a(x, y) e b(x, y). Possiamo distinguere quattro diversicasi:

1. Se ay(x,y)−bx(x,y)b(x,y) ϕ(x) si può determinare il fattore integrante

nel seguente modo:se h = h(x) ⇒ hy = 0 e possiamo indicare hx(x) = h′(x)da cui

h(x, y)[ay(x, y)− bx(x, y)] = h′(x)b(x, y)

97

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equazioni differenziali

che è un’equazione a variabili separabili. Risolvendolaotteniamo

h[ay − bx] =dhdx

b

ossiadhh

=ay − bx

bdx

da cuih(x) = e

∫ ay−bxb dx;

2. se ay(x,y)−bx(x,y)b(x,y) = ϕ(x, y) non è possibile determinare il

fattore integrante;

3. se bx(x,y)−ay(x,y)a(x,y) = ϕ(y) si può determinare il fattore inte-

grante nel seguente modo:se h = h(y) ⇒ hx = 0 e possiamo indicare hy(y) = h′(y)da cui

h(x, y)[ay(x, y)− bx(x, y)] = −h′(y)a(x, y)

a variabili separabili. Risolvendola otteniamo

h[ay − bx] = −dhdy

a

ossiadhh

= −ay − bx

adx =

bx − ay

adx

da cuih(y) = e

∫ bx−aya dx;

4. se, infine, bx(x,y)−ay(x,y)a(x,y) = ϕ(x, y) non è possibile deter-

minare il fattore integrante.

Esempio 51: Risolvere l’equazione differenziale

y(2xy− 1)dx + (y− x)dy = 0.

Controlliamo se è esatta:

∂ya(x, y) = 4xy− 1 6= ∂

∂xb(x, y) = −1

Controlliamo se esiste un fattore integrante h(y):ay(x,y)−bx(x,y)

b(x,y) = 1−4xy−1y−x = 2(1+2xy)

y−x = ϕ(x, y)bx(x,y)−ay(x,y)

a(x,y) = −1−4xy−1y(2xy+1) = −2

x = ϕ(y)

Essendo la funzione, nel secondo caso, dipendente solo da y èpossibile calcolare il fattore integrante

h(y) = e−2∫ 1

y dy = e−2 ln y = eln y−2=

1y2

98

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4.8 equazioni differenziabili non riconducibili in forma normale

Moltiplicando il differenziale dell’equazione data per il fattoreintegrante otteniamo

2xy + 1y

dx +y− x

y2 dy = 0

che può essere risolta con uno dei due metodi visti in prece-denza. Utilizziamo, per brevità, il secondo metodo con x1 =0:

f (x, y) =∫ 2xy + 1

ydx +

∫ 1y

dy = c

riordinando gli integrali si ottiene∫2xdx +

1y

∫dx +

∫ 1y

dy = c

che risolta fornisce Poniamo c2 = c− c1

x2 +xy

+ ln |c2y| = 0

4.8 equazioni differenziabili non riconducibili in

forma normale

In molti casi l’equazione differenziale del primo ordine f (x, y, y′) =0 non è riconducibile in forma normale, cioè esplicitabile in y′,mediante semplici operazioni algebriche. Si distinguono tre casi:

1. essa è esplicitabile rispetto ad y, ossia y = ϕ(x, y′);

2. essa è esplicitabile rispetto ad x, ossia x = ϕ(y, y′);

3. essa non è esplicitabile né rispetto ad x, né rispetto ad y.

Iniziamo a vedere come può essere integrata un’equazione dif-ferenziale che rientra nel primo caso, ossia del tipo

y = ϕ(x, y′).

La si può ricondurre, mediante un artificio, ad un’equazionedifferenziale in forma normale nel seguente modo: si derival’equazione rispetto ad x ottenendo Si noti che la funzione derivata è a

sua volta funzione di x, ossia

y′ = y′(x)

quindi la derivata sarà quella di unafunzione composta.

y′ = ϕx(x, y′) + ϕy(x, y′)y′′,

si poney′ = p⇒ y′′ = p′

che sostituito nella precedente equazione conduce a

p = ϕx(x, p) + ϕy(x, p)p′

che è sempre esplicitabile rispetto a p′ e quindi riconducibile informa normale. Integrando si ottiene la famiglia di curve

p = p(x, c)

99

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equazioni differenziali

che, assieme alla y = ϕ(x, y′) fornisce l’integrale generale. Quin-di la coppiaPer ottenere la soluzione in funzione

di x, y è sufficiente eliminare ilparametro p tra le due equazioni.

p = p(x, c)y = ϕ(x, y′)

è l’integrale generale in forma parametrica dell’equazione dif-ferenziale.

Esempio 52: Integrare la seguente equazione differenziale

2yy′ = xy′2 + 4x

L’equazione data non è riconducibile in forma normale ma èpossibile esplicitarla rispetto alla y

y =12

xy′2 + 4xy′

che, posto y′ = p, derivata fornisce

y′ = p =12

(p2 + 2xpp′ + 4)p− (xp2 + 4x)p′

p2 .

Semplificando

p =1

2p2 (p3 + 2xp2 p′ + 4p− xp2 p′ − 4xp′)

ossia2p3 = p3 + 2xp2 p′ + 4p− xp2 p′ − 4xp′

che, raccogliendo rispetto a p fornisce

p(p2 − 4) = x(p2 − 4)p′.

Se p2 − 4 6= 0 possiamo semplificare la precedente inLa posizione p2 − 4 6= 0 ci porta adescludere i valori di

p = ±2⇒ y′ = ±2

che forniscono, integrando laprecedente, le soluzioni

y = ±2x

p = xp′ = xdpdx

da cuidpp

=dxx

che integrata èln p = ln cx ⇒ p = cx

con c costante di integrazione. La soluzione cercata, in formaparametrica, è dunque

p = cxy = 1

2xp2+4x

p

Con semplici passaggi algebrici si può verificare facilmente cheessa, in funzione di x ed y è

y =c2x2 + 4

2c

100

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4.9 equazioni differenziabili di clairaut

A questo punto resta da chiedersi se

y = ±2x

che abbiamo escluso precedentemente siano ancora soluzionidell’equazione data. Sostituendo y = 2x in Lo stesso vale per y = −2x

2yy′ = xy′2 + 4x

otteniamo4x2 = x22 + 4x ⇒ 8x = 8x

e quindi y = 2x è anch’essa soluzione.Gli integrali di un’equazione differenziale che non possono es- Non si confondano gli integrali

singolare con gli integrali particolari,che si ottengono dall’integralegenerale assegnano un valore allacostante di integrazione.

sere dedotti dall’integrale generale assegnando un valore finito oinfinito alla costante (o alle costanti) sono detti integrali singolari.

4.9 equazioni differenziabili di clairaut

Tra le equazioni differenziali non riconducibili in forma normalema esplicitabili rispetto alla y è possibile classificare le equazionidella forma

y = xy′ + ϕ(y′)

che vengono dette equazioni di Clairaut. Integriamole con ilmetodo visto nel paragrafo precedente ponendo y′ = p:

y = xp + ϕ(p)

derivata rispetto ad x fornisce

y′ = p = p + xp′ + ϕp(p)p′

ossiaxp′ + ϕp(p)p′ = 0⇒ (x + ϕp(p))p′ = 0

che si annulla perp′ = 0⇒ p = cx + ϕp(p) =⇒ x = −ϕp(p)

Quindi l’integrale generale in forma parametrica è dato dallacoppia

p = cy = xp + ϕ(p)

(4.9)

mentre l’integrale singolare èx = −ϕp(p)y = xp + ϕ(p)

(4.10)

Esempio 53: Risolvere l’equazione di Clairaut

y = xy′ +1y′

101

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equazioni differenziali

L’integrale generale è dato dalla (4.9), ossiap = cy = xp + 1

p

che forniscey = xc +

1c

mentre l’integrale singolare è dato dalla (4.10)x = −

(− 1

p2

)y = xp + 1

p

Eliminado il parametro p si ha

p2 =1x⇒ p = ± 1√

x

che sostituito nella seconda equazione fornisce

y =1p(p2x + 1) = ±2

√x

4.10 equazioni differenziali di d’alembert-lagrange

L’equazione di Clairaut è un caso particolare dell’equazione diD’Alembert-Lagrange

y = xϕ(y′) + ψ(y′) (4.11)

per ϕ(y′) = y′. Si pone, come indicato nel caso generale, y′ = pottenendo

y = xϕ(p) + ψ(p)

che derivata fornisce

y′ = p = xϕ′(p)p′ + ϕ(p) + ψ

′(p)p′

da cuip− ϕ(p) =

[xϕ

′(p) + ψ

′(p)] dp

dxossia

dxdp

= xϕ′(p)

p− ϕ(p)+

ψ′(p)

p− ϕ(p)portando il termine in x al primo membro

dxdp− x

ϕ′(p)

p− ϕ(p)=

ψ′(p)

p− ϕ(p)

e ponendo A(p) = − ϕ′(p)

p−ϕ(p)

B(p) = ψ′(p)

p−ϕ(p)

si ottiene un’equazione lineare non omogenea in x:

x′ + A(p)x = B(p)

102

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4.11 equazioni del tipo x = ϕ(y , y ′ )

4.11 equazioni del tipo x = ϕ(y, y′)

Le equazioni del tipo x = ϕ(y, y′) possono essere ricondottein forma normale assumendo y come variabile indipendente.Infatti derivando rispetto ad y si ottiene

x′ = ϕy(y, y′) + ϕy′(y, y′)y′′

e ponendo y′ = p(y) che implica y′′ = p′(y) risulta

x′ =dxdy

=1dydx

=1y′

=1p

che sostituite nella precedente permettono di esprimerla come

1p

= ϕy(y, p) + ϕp(y, p)p′

che è sempre riconducibile in forma normale. Integrando laprecedente si ottiene

p = p(y, c)

che assieme all’equazione y = xϕ(p) + ψ(p) fornisce l’integralegenerale in forma parametrica cercato.

103

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AA P P E N D I C E

a.1 derivate

a.1.1 Derivate di funzioni elementari

y = c→ y′ = 0

y = x → y′ = 1

y = xn → y′ = nxn−1

y =√

x → y′ = 12√

x

y = sen x→ y′ = cos x

y = cos x → y′ = −sen x

y = log x → y′ = 1x

y = ax → y′ = ax log a

y = ex → y′ = ex

a.1.2 Regole di derivazione

y = f (x) + g(x)→ y′ = f ′(x) + g′(x)

y = f (x)− g(x)→ y′ = f ′(x)− g′(x)

y = f (x) ∗ g(x)→ y′ = f ′(x) ∗ g(x) + f (x) ∗ g′(x)

y = f (g(x))→ y′ = f ′(g(x)) ∗ g′(x)

a.1.3 Ulteriori regole di derivazione

y = tag x→ y′ = 1cos2 x = 1 + tag2 x

y = cot g x→ y′ = − 1sen2x = −(1 + cot g2 x)

y = log f (x)→ y′ = f ′(x)f (x)

y = log |x| → y′ = 1x

y = n√

x → y′ = 1n√xn−1

105

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appendice

y = arc sen x→ y′ = 1√1−x2

y = arc cos x → y′ = − 1√1−x2

y = arc tg x→ y′ = 11+x2

y = arc cot g x→ y′ = − 11+x2

y = e f (x) → f ′(x) ∗ e f (x)y = tag x → y′ = 1cos2 x = 1 +

tag2 x

y = cot g x→ y′ = − 1sen2x = −(1 + cot g2 x)

y = log f (x)→ y′ = f ′(x)f (x) y = log |x| → y′ = 1

x

y = n√

x → y′ = 1n√xn−1

y = arc sen x→ y′ = 1√1−x2

y = arc cos x → y′ = − 1√1−x2

y = arc tg x→ y′ = 11+x2

y = arc cot g x→ y′ = − 11+x2

y = e f (x) → f ′(x) ∗ e f (x)

a.2 integrali

a.2.1 Integrali elementari

a du = au + C

a f (u) du = a∫

f (u) du

f (y) du =∫ f (y)

y′ du, where y′ = dydu

( f ± g± h± . . .) du =∫

f du±∫

g du±∫

h du± . . .

un du = 1n+1 un+1 + C, (n 6= −1)

∫ du

u = ln |u|+ C

eu du = eu + C

eau du = 1a eau + C

bau du = bau

a ln b + C (b > 0, b 6= 1)

ln u du = u ln u− u + C

106

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A.2 integrali

a.2.2 Integrali del tipo a + bx

(a + bu)n du = (a+bu)n+1

(n+1)b + C, (n 6= −1)

∫ du

a+bu = 1b ln |a + bu|+ C

u (a + bu)n du = 1b2(n+2) (a + bu)n+2− a

b2(n+1) (a + bu)n+1 +C, (n 6= −1, −2)

u2 (a + bu)n du = 1b3

[(a+bu)n+3

n+3 − 2a (a+bu)n+2

n+2 + a2 (a+bu)n+1

n+1

]+

C

∫ du

(a+bu)2 = − 1b(a+bu) + C

∫ u du

a+bu = 1b2 [(a + bu)− a ln |a + bu|] + C

∫ u du

(a+bu)2 = 1b2

[ln |a + bu|+ a

a+bu

]+ C

∫ u2 du

a+bu = 1b3

[12 (a + bu)2 − 2a (a + bu) + a2 ln |a + bu|

]+ C

∫ u2 du

(a+bu)2 = 1b3

[(a + bu)− 2a ln |a + bu| − a2

a+bu

]+ C

∫ du

u(a+bu) = − 1a ln

∣∣∣ a+buu

∣∣∣+ C

∫ du

u(a+bu)2 = 1a(a+bu) −

1a2 ln

∣∣∣ a+buu

∣∣∣+ C

∫ du

u2(a+bu) = − 1au + b

a2 ln∣∣∣ a+bu

u

∣∣∣+ C

∫ du

u2(a+bu)2 = − a+2bua2u(a+bu) + 2b

a3 ln∣∣∣ a+bu

u

∣∣∣+ C

a.2.3 Integrali del tipo√

a + bu

∫ √

a + bu du = 23b (a + bu)3/2 + C

u√

a + bu du = − 2(2a−3bu) (a+bu)3/2

15b2 + C

u2√

a + bu du =2(8a2−12abu+15b2u2) (a+bu)3/2

105b3 + C

∫ du

u√

a+bu= 1√

a ln∣∣∣√a+bu −

√a√

a+bu +√

a

∣∣∣+ C, (a > 0)

∫ du

u√

a+bu= 2√

−a tan−1√

a+bu−a + C, (a < 0)

un√

a + bu du = 2b(2n+3)

[un (a + bu)3/2 − na

∫un−1√

a + bu du]

∫ √a+bu

u du = 2√

a + bu + a∫ du

u√

a+bu

∫ √a+bu

u2 du = −√

a+buu + b

2

∫ duu√

a+bu

107

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appendice

∫ du√

a+bu= 2

√a+bub + C

∫ u du√

a+bu= − 2(2a−bu)

3b2

√a + bu + C

∫ u2 du√

a+bu=

2(8a2−4abu+3b2u2)15b3

√a + bu + C

∫ du

u2√

a+bu= −

√a+buau − b

2a

∫ duu√

a+bu

a.2.4 Integrali del tipo a2 ± u2, u2 − a2

∫ du

a2+u2 = 1a tan−1 ( u

a

)+ C

∫ du

a2−u2 = 12a ln

∣∣ a+ua−u

∣∣+ C,(a2 > u2)

∫ du

u2−a2 = 12a ln

∣∣ u−au+a

∣∣+ C,(u2 > a2)

∫ du

(a2+u2)2 = 12a3 tan−1 ( u

a

)+ 1

2a2u

a2+u2 + C

a.2.5 Integrali del tipo√

u2 ± a2

∫ √

u2 ± a2 du = 12

[u√

u2 ± a2 ± a2 ln∣∣∣u +

√u2 ± a2

∣∣∣]+ C

∫ du√

u2±a2 = ln∣∣∣u +

√u2 ± a2

∣∣∣+ C

∫ du

u√

u2−a2 = 1|a| sec−1 ( u

a

)+ C

∫ du

u√

u2+a2 = − 1a ln

∣∣∣ a+√

u2+a2

u

∣∣∣+ C

∫ √u2+a2

u du =√

u2 + a2 − a ln∣∣∣ a+√

u2+a2

u

∣∣∣+ C

∫ √u2−a2

u du =√

u2 − a2 − |a| sec−1 ( ua

)+ C =

√u2 − a2 +

|a| tan−1(

|a|√u2−a2

)+ C

∫ u du√

u2±a2 =√

u2 ± a2 + C

u√

u2 ± a2 du = 13

(u2 ± a2)3/2 + C

u2√

u2 ± a2 du = u4

(u2 ± a2)3/2 ∓ a2

8 u√

u2 ± a2− a4

8 ln∣∣∣u +

√u2 ± a2

∣∣∣+C

∫ u2 du√

u2±a2 = u2

√u2 ± a2 ∓ a2

2 ln∣∣∣u +

√u2 ± a2

∣∣∣+ C

∫ du

u2√

u2±a2 = ∓√

u2±a2

a2u + C

∫ √u2±a2

u2 du = −√

u2±a2

u + ln∣∣∣u +

√u2 ± a2

∣∣∣+ C

108

Page 109: dispense del corso di metodi matematici per l economia · dispense del corso di metodi matematici per l’economia alexandre pantanella. INDICE 1 algebra lineare 5 1.1 Spazi lineari

A.2 integrali

a.2.6 Integrali del tipo√

a2 − u2

∫ √

a2 − u2 du = 12

[u√

a2 − u2 + a2 sin−1(

u|a|

)]+ C

∫ du√

a2−u2 = sin−1(

u|a|

)+ C or − cos−1

(u|a|

)+ C

∫ du

u√

a2−u2 = − 1a ln

∣∣∣ a+√

a2−u2

u

∣∣∣+ C

∫ √

a2−u2

u du =√

a2 − u2 − a ln∣∣∣ a+√

a2−u2

u

∣∣∣ + C

∫ u du√

a2−u2 = −√

a2 − u2 + C

u√

a2 − u2 du = − 13

(a2 − u2)3/2 + C

u2√

a2 − u2 du = − u4

(a2 − u2)3/2 + a2

8

[u√

a2 − u2 + a2 sin−1(

u|a|

)]+

C

∫ u2 du√

a2−u2 = − u2

√a2 − u2 + a2

2 sin−1(

u|a|

)+ C

∫ du

u2√

a2−u2 = −√

a2−u2

a2u + C

∫ √a2−u2

u2 du = −√

a2−u2

u − sin−1(

x|a|

)+ C

a.2.7 Integrali del tipo(u2 ± a2)3/2

∫ (

u2 ± a2)3/2 du = 14

[u(u2 ± a2)3/2 ± 3a2u

2

√u2 ± a2 + 3a4

2 ln∣∣∣u +

√u2 ± a2

∣∣∣]+C

∫ du

(u2±a2)3/2 = ±ua2√

u2±a2 + C

∫ u du

(u2±a2)3/2 = −1√u2±a2 + C

u(u2 ± a2)3/2 du = 1

5

(u2 ± a2)5/2 + C

u2 (u2 ± a2)3/2 du = u6

(u2 ± a2)5/2 ∓ a2u

24

(u2 ± a2)3/2 −

a4u16

√u2 ± a2 ∓ a6

16 ln∣∣∣u +

√u2 ± a2

∣∣∣+ C

∫ u2 du

(u2±a2)3/2 = −u√u2±a2 + ln

∣∣∣u +√

u2 ± a2∣∣∣+ C

∫ du

u (u2+a2)3/2 = 1a2√

u2+a2 − 1a3 ln

∣∣∣ a+√

u2+a2

u

∣∣∣+ C

∫ du

u (u2−a2)3/2 = − 1a2√

u2−a2 − 1|a|3

sec−1 ( ua

)+ C

∫ du

u2 (u2±a2)3/2 = − 1a4

[√u2±a2

u + u√u2±a2

]+ C

109

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appendice

a.2.8 Integrali del tipo(a2 − u2)3/2

∫ (

a2 − u2)3/2 du = 14

[u(a2 − u2)3/2 + 3a2u

2

√a2 − u2 + 3a4

2 sin−1(

u|a|

)]+

C

∫ du

(a2−u2)3/2 = ua2√

a2−u2 + C

∫ u du

(a2−u2)3/2 = 1√a2−u2 + C

u(a2 − u2)3/2 du = − 1

5

(a2 − u2)5/2 + C

u2 (a2 − u2)3/2 du = − 16 u(a2 − u2)5/2 + a2u

24

(a2 − u2)3/2 +

a4u16

√a2 − u2 + a6

16 sin−1(

u|a|

)+ C

∫ u2 du

(a2−u2)3/2 = u√a2−u2 − sin−1

(u|a|

)+ C

∫ du

u (a2−u2)3/2 = 1a2√

a2−u2 − 1a3 ln

∣∣∣ a+√

a2−u2

u

∣∣∣+ C

∫ du

u2 (a2−u2)3/2 = 1a4

[−√

a2−u2

u + u√a2−u2

]+ C

a.2.9 Integrali del tipo au2 + bu + c

∫ du

au2+bu+c = 1√b2−4ac

ln∣∣∣ 2au+b−

√b2−4ac

2au+b+√

b2−4ac

∣∣∣+ C,(b2 − 4ac > 0

)∫ du

au2+bu+c = 2√4ac−b2 tan−1

(2au+b√4ac−b2

)+ C,

(b2 − 4ac < 0

)∫ du

au2+bu+c = − 22au+b + C,

(b2 − 4ac = 0

)∫ u du

au2+bu+c = 12a ln

∣∣au2 + bu + c∣∣− b

2a

∫ duau2+bu+c

a.2.10 Integrali del tipo aun + b

∫ du

a+bu2 = 1√ab

tan−1(√

ba u)

+ C, (ab > 0)

∫ du

a+bu2 = 12√−ab

ln∣∣∣ a+u

√−ab

a−u√−ab

∣∣∣+ C, (ab < 0)

∫ u2 du

a+bu2 = ub −

ab

∫ dua+bu2

∫ du

(a+bu2)2 = u2a(a+bu2) + 1

2a

∫ dua+bu2

∫ du

(a+bu2)n = u2(n−1)a(a+bu2)n−1 + 2n−3

2(n−1)a

∫ du(a+bu2)n−1

∫ u du

(a+bu2)n = − 12b(n−1)(a+bu2)n−1 + C

∫ u2 du

(a+bu2)n = − u2b(n−1)(a+bu2)n−1 + 1

2b(n−1)

∫ du(a+bu2)n−1

∫ du

u(a+bu2) = 12a ln

∣∣∣ u2

a+bu2

∣∣∣+ C

∫ du

u2(a+bu2) = − 1au −

ba

∫ dua+bu2

110

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indice analitico 111

a.2.11 Integrali di funzioni logaritmiche

ln u du = u ln u− u + C

u ln u du = u2

2 ln u− u2

4 + C

u2 ln u du = u3

3 ln u− u3

9 + C

un ln (u) du = un+1

n+1 ln (u)− un+1

(n+1)2 + C, (n 6= −1)

∫ [ln(u)]n

u du = 1n+1 [ln (u)]n+1 + C

a.2.12 Integrali di funzioni esponenziali

e±udu = ±e±u + C

eaudu = 1a eau + C

u eaudu = au−1a2 eau + C

un eaudu = uneau

a −na

∫un−1eaudu + C = eau ∑n

k=0 (−1)k n! un−k

(n−k)! ak+1 +C

eau sin (bu) du = eau[a sin(bu)−b cos(bu)]a2+b2 + C

eau cos (bu) du = eau[a cos(bu)+b sin(bu)]a2+b2 + C

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I N D I C E A N A L I T I C O

anello, 6

anello commutativo, 6

autospazio, 16

autovalore, 16

autovettore, 16

base, 8

base di sottospazio, 16

Campo, 6

campo di direzioni, 86

campo vettoriale, 55

chiusura, 32

classe Ck, 65

combinazione Lineare, 7

continuità in Rn, 49

convessità, 33, 72

Corpo, 6

costo totale d’impresa, 73

criterio di Cauchy, 36

curva di livello, 47

derivata direzionale , 56

derivata parziale, 52

derivatabilità, 53

determinante, 9

differenziabilità, 60

differenziale esatto, 95

dimensione, 7

distanza d∞, 30

distanza dp, 30

distanza euclidea, 30

distanza unitaria, 30

disuguaglianza di CauchySchwartz,42

disuguaglianza di Minkowsky,38

elasticità incrociata, 54

elemento, 8

equazione differenziale, 83

equazione differenziale diBernoulli, 92

equazione differenziale diRiccati, 93

equazione logistica, 84, 94

equazioni del tipo x =ϕ(y, y′), 103

equazioni di Clairaut, 101

equazioni di D’Alembert-Lagrange, 102

equazioni differenziali esat-te, 95

equazioni differenziali lin-eari, 89

equazioni lineari non omo-genee, 90

equazioni lineari omogenee,90

estremante, 68

fattore integrante, 91, 97

forma normale, 85

forma quadratica, 25

forma quadratica definitanegativa, 25

forma quadratica definitapositiva, 25

forma quadratica semidefini-ta negativa, 25

forma quadratica semidefini-ta positiva, 25

formula di McLaurin, 66

formula di Taylor, 65

funzione di produzione, 79

funzioni convesse, 72

funzioni implicite, 74

gradiente, 55

grafico di funzione, 46

gruppo, 5

gruppo abeliano, 6

Hessiano, 60

indipendenza lineare, 11

insieme aperto, 32

113

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114 indice analitico

insieme chiuso, 32

insieme connesso, 32

insieme convesso, 32

insieme discreto, 32

insieme perfetto, 32

insiemi compatti, 42

integrale singolare, 101

intorno, 31

Lagrangiano, 78

lemma di Shur, 24

limite all’infinito, 49

limite destro, 47

limite in Rn, 48

limite lungo una traiettoria,48

limite sinistro, 47

lipschitzianità, 87

massimo, 68

massimo assoluto, 68

massimo locale, 75

matrice, 8

matrice aggiunta, 12

matrice diagonale, 19

matrice diagonalizzabile, 19

matrice inversa, 12

matrice simmetrica, 9

matrice trasposta, 9

matrice triangolare, 18

matrice triangolarizzabile,19

matrici simili, 20

metrica, 29

metrica indotta da norma,39

minimo, 68

minimo assoluto, 68

minimo locale, 75

minori principali, 27

minori principali dominanti,27

modello Leontief, 15

molteplicità, 18

monopolista, 73

multi-indice, 67

norma di matrice, 38

norma di vettore, 38

polinomio caratteristico, 17

polinomio di Taylor, 65

problema di Cauchy, 87

prodotto di matrici, 8

prodotto scalare, 39

proprietà del gradiente, 63

proprietà metrica, 29

proprietà norma, 37

proprietà submoltiplicativa,38

punto contiguo, 32

punto di accumulazione, 31,47

punto di frontiera, 31

punto di sella, 71

punto esterno, 31

punto interno, 31

punto isolato, 32

punto stazionario, 69

riduzione di Gauss-Jordan,13

semigruppo, 5

sistema vitale, 18

span, 16

spazio di Banach, 42

spazio di Hilbert, 42

spazio Lineare, 7

spazio lineare, 5

spazio metrico, 33

spazio metrico completo, 37

spazio metrico isometrico,35

spazio normato, 37

spazio prehilbertiano, 41

struttura algebrica, 5

studio dell’Hessiano, 70

successione convergente, 36

teorema del Dini, 75

teorema della differenziabil-ità totale, 63

teorema di esistenza deglizeri, 51

teorema di Heine-Borel, 43

teorema di Lagrange, 58

teorema di Schwartz, 57

topologia, 29

traccia, 24

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indice analitico 115

uguaglianza del parallelo-gramma, 41

variabili separabili, 87

varietà di livello, 46

verifica della continuità, 51

versore, 55

vettore, 7