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Indice
1. L’ABUSO DEL DIRITTO: SI PUÒ RECEDERE SENZA CAUSA (AD NUTUM) MA
NON SENZA MODI (AD LIBITUM): Corte di Cassazione Sez. III Civile, 18 settembre 2009, n.
20106
2. CONTATTO SOCIALE E RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: Cassazione Civile, 12 luglio 2016, n. 14188
3. LE OBBLIGAZIONI DEL MEDICO SONO ANCHE DI RISULTATO: IL
PROBLEMA DELLA CAUSALITÀ
Cassazione civile, Sezioni unite, 11 gennaio 2008, n. 577(ud. 20 novembre 2007)
Cassazione civile, Sezioni unite, 11 gennaio 2008, n. 581
4. IL CONSENSO INFORMATO E ONERE DELLA PROVA: Cassazione Civile, sez. III, 19
maggio 2011, n. 11005
5. IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA E LE CONSEGUENZE
RISARCITORIE: Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 22 dicembre 2015, n. 25767
6. LA (IR)RISARCIBILITÀ DEL DANNO TANATOLOGICO: Cassazione Civile, SS.UU.,
sentenza 22/07/2015 n. 15350
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Selezione giurisprudenziale
1. L’ABUSO DEL DIRITTO: SI PUÒ RECEDERE SENZA CAUSA (AD NUTUM) MA
NON SENZA MODI (AD LIBITUM): Corte di Cassazione Sez. III Civile, 18 settembre 2009, n.
20106
Si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti
con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato
ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori
rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è consentito al
giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del
diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore
della controparte contrattuale, a prescindere dall'esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò
costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell'individuo o dell'imprenditore, giacché ciò che è censurato
in tal caso non è l'atto di autonomia negoziale, ma l'abuso di esso (in applicazione di tale principio, è stata
cassata la decisione di merito la quale aveva ritenuto insindacabile la decisione del concedente di recedere ad
nutum dal contratto di concessione di vendita, sul presupposto che tale diritto gli era espressamente
riconosciuto dal contratto).
(omissis)
Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto
contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei
contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.).
In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere
all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva,
accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476).
Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei
comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod.
civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art.
1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo
dell'ordinamento giuridico.
L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di
un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le
altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta
costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di
solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle
parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a
prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da
singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona
fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo,
lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.
La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede)
"richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto
riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un
potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del
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rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più
proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata,
anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede,
in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione.
Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto.
Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale -
sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il
concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non
rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente
rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un
criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di
esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico
cui è soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso
formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di
obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. È ravvisabile, in sostanza, quando,
nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti
alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede.
Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di
rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio,
posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.
E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i
vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da
alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo
nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.
Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto.
La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, piu' che su di un principio giuridico, su di un
concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di
biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o
quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola
generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura
definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in
termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto
medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad
es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che
consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti.
Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto
di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (…).
Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del
diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del
campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con
l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la
correttezza e buona fede (contrattuale).
In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi
degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri
degli interessi di cui le parti sono portatrici.
E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo
scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci
di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del
contratto (v. Cass. 11.6.2003 n. 9353).
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Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto
prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al
contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la
materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede
delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso
della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v.
anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258).
(omissis)
In materia contrattuale, poi, gli stessi principi sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di
mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio
ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n.
8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239;
Cass. 7.3.2007 n. 5273).
Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul
riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056,
30057).
Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del
diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da
atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le
parti contrattuali adottano.
Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione.
Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce
dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi
assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone
generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto
giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo
scopo per i quali essi sono conferiti.
Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso.
In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo
esercizio. Alla luce di tali principi e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede,
impugnata.
La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:
1) il giudice non ha alcuna possibilità di controllo sull'atto di autonomia privata; "2) la previsione contrattuale del recesso ad
nutum dal contratto non consente, quindi, da parte del giudice, il sindacato su tale atto, non essendo necessario alcun
controllo causale circa l'esercizio del potere, perché un tale potere rientra nella libertà di scelta dell'operatore economico in
un libero mercato; 3) La R. I. non doveva tenere conto anche dell'interesse della controparte o di interessi diversi da quello
che essa aveva alla risoluzione del rapporto"; 4) la insussistenza di un'ipotesi di recesso illegittimo comporta la non
pertinenza del richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c.; 5) i principi di correttezza e buona fede non creano obbligazioni
autonome, ma rilevano soltanto per verificare il puntuale adempimento di obblighi riconducibili a determinati rapporti; 6)
Non sono presenti nel caso in esame i principi enucleati dalla giurisprudenza in tema di abuso del diritto;
e ciò perché "La sussistenza di un atto di abuso del diritto (speculare ai cosiddetti atti emulativi) postula il concorso di un
elemento oggettivo, consistente nell'assenza di utilità per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo costituito
dall'animus nocendi, ossia l'intenzione di nuocere o di recare molestia ad altri"; 7) "Il mercato, concepito quale luogo della
libertà di iniziativa economica (garantita dalla Costituzione), presuppone l'esistenza di soggetti economici in grado di
esercitare i diritti di libertà in questione e cioè soggetti effettivamente responsabili delle scelte d'impresa ad essi formalmente
imputabili. La nozione di mercato libero presuppone che il gioco della concorrenza venga attuato da soggetti in grado di
autodeterminarsi";
8) Alla libertà di modificare l'assetto di vendita, da parte della R. I. spa, conseguiva che il recesso ad nutum rappresentava,
per il titolare di tale facoltà, il mezzo più conveniente per realizzare tale fine: non sussiste, quindi, l'abuso"; 9) La
impossibilità di ipotizzare "un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia privata, in mancanza di un atto
normativo che specifichi come attuare tale astratta tutela", produce, come effetto, quello della introduzione di "un controllo
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di opportunità e di ragionevolezza sull'esercizio del potere di recesso; al che consegue una valutazione politica, non
giurisdizionale dell'atto"; 10) La impossibilità di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico e,
particolarmente, "in ambito contrattuale in cui i valori di riferimento non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti e la
composizione del conflitto avviene proprio seguendo i parametri legali dell'incontro delle volontà su una causa eletta
dall'ordinamento come meritevole di tutela" fa sì che "Solo allorché ricorrono contrasti con norme imperative, può essere
sanzionato l'esercizio di una facoltà, ma al di fuori di queste ipotesi tipiche, normativamente previste, residua la più ampia
libertà della autonomia privata".
Le affermazioni contenute nella sentenza impugnata non sono condivisibili sotto diversi profili.
Punto di partenza dal quale conviene prendere le mosse è quello che non è compito del giudice valutare le scelte
imprenditoriali delle parti in causa che siano soggetti economici, scelte che sono, ovviamente, al di fuori del
sindacato giurisdizionale. Diversamente, quando, nell'ambito dell'attività imprenditoriale, vengono posti in essere
atti di autonomia privata che coinvolgono - ad es. nei contratti d'impresa - gli interessi, anche contrastanti, delle
diverse parti contrattuali.
In questo caso, nell'ipotesi in cui il rapporto evolva in chiave patologica e sia richiesto l'intervento del giudice, a
quest'ultimo spetta di interpretare il contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti.
Ciò vuoi significare che l'atto di autonomia privata è, pur sempre, soggetto al controllo giurisdizionale.
Gli strumenti di interpretazione del contratto sono rappresentati: il primo, dal senso letterale delle parole e delle
espressioni utilizzate; con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune
volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da
precludere la ricerca di una volontà diversa; con l'adozione eventuale degli altri criteri interpretativi, comunque, di
natura sussidiaria.
Ma il contratto e le clausole che lo compongono - ai sensi dell'art. 1366 c.c. - debbono essere interpretati
anche secondo buona fede. Non soltanto.
Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il
contratto nel suo svolgimento, dalla formazione all'esecuzione, ed, essendo espressione del dovere di
solidarietà fondato sull'art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire
nell'ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall'esistenza di specifici
obblighi contrattuali o di norme specifiche.
La sua violazione, pertanto, costituisce di per sè inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire
il danno che ne sia derivato (v. anche S.U. 15.11.2007 n. 23726; Cass. 22.1.2009 n. 1618; Cass. 6.6.2008 n.
21250; Cass. 27.10.2006 n. 23273; Cass. 7.6.2006 n. 13345; Cass. 11.1.2006 n. 264).
Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo -
anche in senso modificativo o integrativo - dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di
contemperamento degli opposti interessi (v. S.U. 15.11.2007 n. 23726 ed i richiami ivi contenuti).
Il giudice, quindi, nell'interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell'ottica dell'equilibrio fra
i detti interessi.
Ed è su questa base che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare ed interpretare le clausole del contratto - in
particolare quella che prevedeva il recesso ad nutum - anche al fine di riconoscere l'eventuale diritto al
risarcimento del danno per l'esercizio di tale facoltà in modo non conforme alla correttezza ed alla buona fede.
(omissis)
Anche con riferimento all'abuso del diritto, le indicazioni fornite dalla Corte di merito non possono essere
seguite.
Il controllo del giudice sul carattere abusivo degli atti di autonomia privata è stato pienamente riconosciuto dalla
giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità, cui si è fatto cenno.
La conseguenza è l'irrilevanza, sotto questo aspetto, delle considerazioni svolte in tema di libertà economica e di
libero mercato.
Nessun dubbio che le scelte decisionali in materia economica non siano oggetto di sindacato giurisdizionale,
rientrando nelle prerogative dell'imprenditore operante nel mercato, che si assume il rischio economico delle
scelte effettuate.
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Ma, in questo contesto, l'esercizio del potere contrattuale riconosciutogli dall'autonomia privata, deve essere
posto in essere nel rispetto di determinati canoni generali - quali quello appunto della buona fede oggettiva, della
lealtà dei comportamenti e delle correttezza - alla luce dei quali debbono essere interpretati gli stessi atti di
autonomia contrattuale.
Ed il fine da perseguire è quello di evitare che il diritto soggettivo, che spetta a qualunque consociato che ne sia
portatore, possa sconfinare nell'arbitrio.
Da ciò il rilievo dell'abuso nell'esercizio del proprio diritto. La libertà di scelta economica dell'imprenditore,
pertanto, in sè e per sè, non è minimamente scalfita; ciò che è censurato è l'abuso, ma non di tale scelta, sebbene
dell'atto di autonomia contrattuale che, in virtù di tale scelta, è stato posto in essere. L'irrilevanza, per il diritto,
delle ragioni che sono a monte della conclusione ed esecuzione di un determinato rapporto negoziale, non
esclude - ma anzi prevede - un controllo da parte del giudice, al fine di valutare se l'esercizio della facoltà
riconosciuta all'autonomia contrattuale abbia operato in chiave elusiva dei principii espressione dei canoni
generali della buona fede, della lealtà e della correttezza.
Di qui il rilievo riconosciuto dall'ordinamento - al fine di evitare un abusivo esercizio del diritto - ai
canoni generali di interpretazione contrattuale.
Ed in questa ottica, il controllo e l'interpretazione dell'atto di autonomia privata dovrà essere condotto tenendo
presenti le posizioni delle parti, al fine di valutare se posizioni di supremazia di una di esse e di eventuale
dipendenza, anche economica, dell'altra siano stati forieri di comportamenti abusivi, posti in essere per
raggiungere i fini che la parte si è prefissata.
Per questa ragione il giudice, nel controllare ed interpretare l'atto di autonomia privata, deve operare ed
interpretare l'atto anche in funzione del contemperamento degli opposti interessi delle parti contrattuali.
(omissis)
Il problema è che la valutazione di un tale atto deve essere condotta in termini di "conflittualità". Ovvero: posto
che si verte in tema di interessi contrapposti, di cui erano portatrici le parti, il punto rilevante è quello della
proporzionalità dei mezzi usati. Proporzionalità che esprime una certa procedimentalizzazione nell'esercizio del
diritto di recesso (per es. attraverso la previsione di trattative, il riconoscimento di indennità ecc.). In questo
senso, la Corte di appello non poteva esimersi da un tale controllo condotto, secondo le linee guida esposte,
anche, quindi, sotto il profilo dell'eventuale abuso del diritto di recesso, come operato.
In concreto, avrebbe dovuto valutare - e tale esame spetta ora al giudice del rinvio - se il recesso ad nutum
previsto dalle condizioni contrattuali, era stato attuato con modalità e per perseguire fini diversi ed
ulteriori rispetto a quelli consentiti.
Ed in questo esame si sarebbe dovuta avvalere del materiale probatorio acquisito, esaminato e valutato alla luce
dei principii oggi indicati, al fine di valutare - anche sotto il profilo del suo abuso - l'esercizio del diritto
riconosciuto.
In ipotesi, poi, di eventuale, provata disparità di forze fra i contraenti, la verifica giudiziale del carattere
abusivo o meno del recesso deve essere più ampia e rigorosa, e può prescindere dal dolo e dalla
specifica intenzione di nuocere: elementi questi tipici degli atti emulativi, ma non delle fattispecie di
abuso di potere contrattuale o di dipendenza economica.
Le conseguenze, cui condurrebbe l'interpretazione proposta dalla sentenza impugnata, sono inaccettabili.
La esclusione della valorizzazione e valutazione della buona fede oggettiva e della rilevanza anche
dell'eventuale esercizio abusivo del recesso, infatti, consentirebbero che il recesso ad nutum si
trasformi in un recesso, arbitrario, cioè ad libitum, di sicuro non consentito dall'ordinamento giuridico.
(omissis)
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2. CONTATTO SOCIALE E RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: Cassazione Civile, 12 luglio 2016, n.14188
La responsabilità precontrattuale (nella specie, della P.A.) non ha natura extracontrattuale, ma deve
correttamente inquadrarsi nella responsabilità di tipo contrattuale da “contatto sociale qualificato”, inteso
come fatto idoneo a produrre obbligazioni ai sensi dell’art. 1173 c.c., con conseguente applicazione del termine
di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c.
(omissis) 3. Va anzitutto osservato che, in relazione ai contratti conclusi con la p.a., il dispiegamento degli effetti
vincolanti per le parti, al di là della formale stipula di un accordo negoziale, è subordinata all'approvazione
ministeriale ai sensi del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 19, che richiede un provvedimento espresso -
adottato dall'organo competente nella forma solenne prescritta dalla legge la cui esistenza non può, pertanto,
desumersi implicitamente dalla condotta tenuta dall'Amministrazione. Ne discende che, ai fini del
perfezionamento di un effettivo vincolo contrattuale, è insufficiente la mera aggiudicazione pronunciata
in favore del contraente, come pure la formale stipula del contratto ad evidenza pubblica nelle forme
prescritte dalla legge (artt. 16 e 17 del decreto cit.) (Cass. 10020/2015). L'eventuale responsabilità della p.a.
- ipotetica laddove si verta, come nel caso di specie, in tema di prescrizione potrebbe, di conseguenza,
essere configurata soltanto come responsabilità precontrattuale (cfr. Cass. 3383/1981;
23393/2008; 11135/2009; 9636/2015), derivandone - laddove si acceda alla tesi tradizionale, secondo la quale
tale tipo di responsabilità è inquadrabile nella responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. , l'applicabilità del termine
quinquennale di prescrizione del diritto azionato ai sensi dell'art. 2947 c.c. (in tal senso, Cass. 2705/1983;
4051/1990).
3.1. Ne deriva che, dovendo ritenersi, nella fattispecie concreta, insussistente, fino alla concessione
dell'autorizzazione da parte dell'autorità tutoria, un effettivo vincolo negoziale, ai fini di accertare
l'eventuale fondatezza della censura in esame – (omissis) - è necessario affrontare il dibattuto problema
concernente la ravvisabilità di una responsabilità contrattuale anche in assenza di un atto negoziale dal
quale scaturiscano specifici obblighi di prestazione a carico delle parti, qualora tra le stesse venga
comunque ad instaurarsi una relazione qualificabile come "contatto sociale qualificato". La risposta al
quesito ha, in verità, costituito oggetto di una significativa evoluzione della giurisprudenza di questa Corte, in
precedenza attestata sull'affermazione della natura aquiliana della responsabilità precontrattuale, ed ora, invece,
significativamente, e pressochè uniformemente, orientata - in materie diverse e sia pure senza una consapevole
visione di insieme - nella direzione del riconoscimento di una responsabilità di tipo contrattuale, anche in assenza
di un formale vincolo negoziale tra le parti.
3.2. (omissis) 4. Tanto premesso, va osservato che l'orientamento della giurisprudenza di legittimità è stato, come
dianzi detto, per lungo tempo ancorato alla tradizionale concezione della responsabilità precontrattuale come
responsabilità di tipo aquiliano, riconducibile al disposto dell'art. 2043 c.c. , con la conseguenza che la prova
dell'esistenza e dell'ammontare del danno, nonchè del dolo o della colpa del danneggiante, è a carico del
danneggiato e che il termine di prescrizione del diritto azionato è quinquennale, ai sensi dell'art. 2947 c.c. (cfr., ex
plurimis, Cass. 9157/1995; 15172/2003;
15040/2004; 16735/2011). L'affermazione appare per lo più ancorata alla bipartizione fondamentale delle fonti
delle obbligazioni: da un lato le obbligazioni da atto lecito, ossia da contratto; dall'altro, le obbligazioni da fatto
illecito, ossia da delitto. Ne è risultata pretermessa la terza, importante, fonte delle obbligazioni, rappresentata - ai
sensi dell'art. 1173 c.c. - da "ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico; il
che non ha consentito di dare il giusto rilievo, sul piano giuridico", alla peculiarità di talune situazioni non
inquadrabili nè nel torto nè nel contratto, e - tuttavia - singolarmente assimilabili più alla seconda fattispecie, che
non alla prima. (omissis) 8. La dottrina italiana si è posta consapevolmente sulla stessa scia, fin dai primi anni '90
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del secolo scorso, prefigurando una forma di responsabilità che si colloca "ai confini tra contratto e torto", in
quanto radicata in un "contatto sociale" tra le parti che, in quanto dà adito ad un reciproco affidamento dei
contraenti, è "qualificato" dall'obbligo di "buona fede" e dai correlati "obblighi di informazione e di protezione",
del resto positivamente sanciti dagli artt. 1175, 1375, 1337 e 1338 c.c.. Viene, per tale via, ad esistenza la figura
di un rapporto obbligatorio connotato, non da obblighi di prestazione, come accade nelle obbligazioni
che trovano la loro causa in un contratto, bensì da obblighi di protezione, egualmente riconducibili,
sebbene manchi un atto negoziale, ad una responsabilità diversa da quella aquiliana e prossima a
quella contrattuale, poichè ancorabili a quei fatti ed atti idonei a produrli, costituente la terza fonte
delle obbligazioni menzionata dall'art. 1173 c.c..
Si osserva, al riguardo, che la teoria degli obblighi di protezione - la cui violazione dà luogo ad una responsabilità
di tipo contrattuale ha un preciso fondamento dogmatico nelle norme che costruiscono il rapporto obbligatorio
come un "rapporto complesso", le cui finalità di tutela non si riducono al solo interesse alla prestazione, definito
dall'art. 1174 c.c. , ma che ricomprendono anche l'interesse di protezione, preso in considerazione dalla norma
successiva di cui all'art. 1175 c.c.. Nella teoria del rapporto obbligatorio - come rielaborata dalla dottrina italiana
prevalente - viene messo in luce, dunque, come il proprium della responsabilità contrattuale non sia più costituito
dalla violazione di una pretesa di adempimento, bensì dalla lesione arrecata ad una relazione qualificata tra
soggetti, in quanto tale sottoposta dall'ordinamento alla più pregnante ed efficace forma di responsabilità,
rispetto a quella aquiliana, rappresentata dalla responsabilità di tipo contrattuale (prescrizione decennale,
inversione dell'onere della prova a favore del danneggiato, maggiore estensione del danno risarcibile, stante
l'applicabilità solo a quest'ultima del disposto di cui all'art. 1225 c.c.).
9. Ebbene, deve ritenersi che l'impostazione dogmatica suesposta abbia costituito una sorta di vero e proprio
percorso euristico che la giurisprudenza di legittimità ha seguito, nella quasi totalità delle decisioni in materia,
dandosi in tal modo luogo - come dianzi detto - ad una vera e propria evoluzione giurisprudenziale, connotata
dalla piena condivisione delle elaborazioni dottrinali in tema di responsabilità contrattuale da "contatto sociale
qualificato", ormai pressochè assestata e stabile nella giurisprudenza di questa Corte.
Il che è in special modo evidenziato dal recepimento della categoria - come si vedrà- anche da parte di talune
importanti decisioni delle Sezioni Unite, emesse con riferimento a fattispecie diverse.
9.1. In tema di incidenti scolastici, invero, la responsabilità dell'istituto scolastico e dell'insegnante, per il danno
cagionato dall'alunno a se stesso, è stata configurata come responsabilità, non extracontrattuale, bensì
contrattuale, fondata, per il primo, sul vincolo negoziale che si determina per effetto dell'accoglimento, da parte
della scuola, della domanda di iscrizione dell'aspirante alunno, per il secondo, sul "contatto sociale" che si
instaura tra precettore ed allievo. Tra tali soggetti viene, difatti, in essere un rapporto giuridico, nell'ambito del
quale l'insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo
di protezione e vigilanza, onde evitare che l'allievo si procuri da solo un danno alla persona. Ne discende
l'applicabilità, in subiecta materia, delle norme sull'onere della prova e sulla prescrizione, dettate dagli artt. 1218 e
2946 c.c. (cfr. ex plurimis, Cass. S.U. 9346/2002; Cass. 8397/2003; 24456/2005;
5067/2010; 2559/2011; 2413/2014; 3695/2016).
9.2. Del pari, in tema di responsabilità del sanitario, questa Corte ha affermato che il rapporto che si instaura tra
paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con
effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben
può essere adempiuta dal paziente, dall'assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a
carico della casa di cura (o dell'ente), accanto a quelli di tipo "latu sensu" alberghieri, obblighi di messa a
disposizioni del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le
attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze (Cass. 13953/2007;
18610/2015). Nei confronti del medico dipendente, invece, la responsabilità, ove non tragga origine da un
contratto di prestazione d'opera professionale (qualora sia lo stesso paziente a rivolgersi ad un determinato
professionista), viene a radicarsi in un "contatto sociale qualificato", che si instaura per effetto della "presa in
carico" del paziente da parte del sanitario operante presso la casa di cura o l'ente ospedaliero, e dal quale
scaturiscono obblighi di protezione che comportano, in caso di loro violazione, una responsabilità di tipo
11
contrattuale del sanitario, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ. (omissis).
9.3. Nella specifica materia della responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle
specifiche regole poste dall'art. 43 legge assegni ( R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736 ), l'incasso di un assegno
bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità, a persona diversa dal beneficiario del
titolo, le Sezioni Unite di questa Corte hanno, poi, affermato che la responsabilità dell'istituto di credito - nei
confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano
sofferto un danno - ha natura contrattuale e non aquiliana. La banca ha, difatti, un "obbligo professionale di
protezione (obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto)", operante nei confronti di tutti i soggetti
interessati al buon fine della sottostante operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di
pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l'incasso. Ne deriva che l'azione
di risarcimento proposta dal danneggiato è soggetta all'ordinario termine di prescrizione decennale, stabilito
dall'art. 2946 cod. civ. (Cass. S.U. 14712/2007;
in senso conforme, cfr. Cass. 7618/2010; 10534/2015).
9.4. Importanti affermazioni in tema di responsabilità da contatto sociale qualificato si ritrovano, infine, nella
giurisprudenza, sia dei giudici ordinari che di quelli amministrativi, concernente la violazioni degli obblighi
procedimentali assunti dall'amministrazione nei confronti dei privati, in conseguenza dell'instaurazione di un
procedimento amministrativo.
9.4.1. Ed invero, questa Corte ha, in proposito, da tempo affermato che, a seguito dell'entrata in vigore della
L. n. 241 del 1990, e della conseguente nuova concezione dei rapporti tra cittadino ed amministrazione,
la responsabilità di quest'ultima per la lesione degli interessi procedimentali del privato si radica - a
differenza di quanto deve ritenersi per il periodo precedente - nella violazione dei canoni contrattuali di
correttezza e di buona fede (Cass. 157/2003). Sicchè, nella vigenza della legge succitata, deve distinguersi tra la
lesione dell'interesse oppositivo o pretensivo, o anche della mera integrità patrimoniale del cittadino (quando
l'interesse sia soddisfatto, seppure in modo illegittimo), dovuta all'esercizio illegittimo o al mancato esercizio
(silenzio inadempimento o rifiuto) dell'attività amministrativa, talchè risulti danneggiato, per effetto dell'attività
illegittima della p.a., l'interesse al bene della vita al quale la suddetta posizione soggettiva del privato si correla,
che dà luogo a responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. (cfr. la fondamentale Cass. S.U. 500/1999; conf., da
ultimo, Cass. 23170/2014; 11794/2015; S.U. 17586/2015), dal danno derivante dalla violazione delle regole
procedimentali dell'attività amministrativa medesima. La lesione di tali regole, giacchè riconducibile
all'inadempimento del rapporto che si instaura in relazione all'obbligo imposto dalla normativa che regola il
comportamento della p.a., assume, invero, un carattere del tutto autonomo rispetto al pregiudizio costituito dalla
perdita sostanziale del bene della vita al quale il privato aspira, ed è, pertanto, inquadrabile - stante il contatto
qualificato che viene ad instaurarsi tra il privato e l'amministrazione nel procedimento - nella fattispecie della
responsabilità di tipo contrattuale ex art. 1218 cod. civ. (Cass. 24382/2010).
9.4.2. Nella medesima prospettiva si è posta, peraltro, la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale il danno
da illecito provvedimentale, ossia da provvedimento o comportamento (silenzio) illegittimo della p.a., che abbia
leso un interesse legittimo del privato con incidenza sul bene della vita finale, rientra nello schema della
responsabilità extracontrattuale disciplinata dall'art. 2043 c.c. , giacchè, con la domanda di ristoro del danno
subito, il cittadino non si duole dell'ottemperanza ad uno o più obblighi gravanti a carico della p.a., bensì dello
scorretto esercizio del potere amministrativo (cfr., ex plurimis, C. St. n. 1833/2013;
6450/2014; 675/2015; 284/2016). Per converso, la relazione che viene ad instaurarsi tra il privato e
l'amministrazione nel procedimento amministrativo è ricostruibile in termini di "contatto sociale qualificato",
sicchè i comportamenti positivi o negativi della p.a., parametrati sulle regole che governano il procedimento in
questione, possono tradursi nella lesione patrimoniale dell'interesse del privato al bene della vita realizzabile
mediante l'intermediazione del procedimento stesso. Ne deriva che il diritto al risarcimento dell'eventuale danno
subito dal cittadino presenta, nella fattispecie in parola, una fisionomia sui generis, non riconducibile al mero
modello aquiliano ex art. 2043 c.c., essendo connotata dal rilievo di alcuni tratti della responsabilità
precontrattuale e della responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, con conseguente applicabilità delle
norme in materia di responsabilità contrattuale, concernenti la prescrizione del diritto, l'onere della prova e l'area
12
del danno risarcibile (omissis).
10. Orbene, la disamina che precede evidenzia che le affermazioni giurisprudenziali in ordine ad una
responsabilità contrattuale da "contatto sociale qualificato" muovono dalla considerazione di
situazioni nelle quali, per effetto del rapporto che si è venuto a creare tra le parti e del conseguente
affidamento che ciascuna di esse ripone nella buona fede, nella correttezza e nella professionalità
dell'altra, si generano tra le stesse obblighi di protezione che precedono e si aggiungono agli obblighi
di prestazione scaturenti dal contratto. Ma è proprio nella specifica materia contrattuale, della quale si
controverte in questa sede, che alcune pronunce delle Sezioni Unite hanno disegnato, in modo particolarmente
incisivo, i tratti essenziali di una responsabilità contrattuale non fondata su di un atto negoziale, bensì su una
relazione di vita produttiva di obblighi la cui violazione è assimilabile a quella arrecata agli obblighi scaturenti dal
contratto. Si è, invero, affermato - al riguardo - che rientrano nelle controversie di natura contrattuale, non solo
quelle riguardanti il mancato adempimento di un obbligo di prestazione di fonte negoziale, della cui natura
contrattuale non è possibile dubitare, ma anche le controversie nelle quali l'attore alleghi l'esistenza di una regola
di condotta legata ad una "relazione liberamente assunta tra lui e l'altra parte" e ne lamenti la violazione da parte
di quest'ultima (Cass. S.U. 24906/2011).
Ed inoltre - nell'affermare la validità del cd. preliminare di preliminare, ove sia configurabile un interesse delle
parti, meritevole di tutela, ad una formazione progressiva del contratto - le Sezioni Unite hanno osservato che, in
relazione alle "puntuazioni" che, pur non dando luogo ad un vero e proprio contratto preliminare sono, tuttavia,
vincolanti in relazione ai profili sui quali si è raggiunto un accordo irrevocabile, "la violazione di queste intese,
perpetrata in una fase successiva rimettendo in discussione questi obblighi in itinere che erano già determinati, dà
luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un'obbligazione specifica sorta nel corso della
formazione del contratto, riconducibile alla terza delle categorie considerate nell'art. 1173 c.c. , cioè alle
obbligazioni derivanti da ogni fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico" (Cass.
S.U. 4628/2015).
11. Nello stesso ordine di idee, si colloca, peraltro, anche una decisione della Corte di Giustizia, in materia di
determinazione delle competenze giurisdizionali ex art. 5, punto 1, della Convenzione del 27 settembre 1968 ,
nella quale si afferma, a chiare lettere, che costituisce materia contrattuale ogni relazione giuridicamente rilevante
tra due parti, ossia un "obbligo liberamente assunto" da una parte nei confronti dell'altra, pure in assenza di un
formale atto negoziale (C. Giust., 17/6/1992, C- 261/91, Handte).
12. Alla stregua delle riflessioni che precedono e della diffusività ormai assunta dalla teorica della
responsabilità da "contatto sociale qualificato", non può revocarsi in dubbio che l'orientamento
tradizionale della giurisprudenza di legittimità, in tema di responsabilità precontrattuale ex artt. 1337 e
1338 c.c. , debba essere rimeditato.
12.1. Le considerazioni svolte dalla dottrina e recepite dalla massima parte della giurisprudenza hanno, invero,
evidenziato che l'elemento qualificante di quella che può ormai denominarsi "culpa in contrahendo" solo di
nome, non è più la colpa, bensì la violazione della buona fede che, sulla base dell'affidamento, fa sorgere
obblighi di protezione reciproca tra le parti. Ne discende che la responsabilità per il danno cagionato da una
parte all'altra, in quanto ha la sua derivazione nella violazione di specifici obblighi (buona fece, protezione,
informazione) precedenti quelli che deriveranno dal contratto, se ed allorquando verrà concluso, e non del
generico dovere del neminem laedere, non può che essere qualificata come responsabilità contrattuale. Certo,
può obiettarsi - ed una parte minoritaria della dottrina lo ha fatto - che anche l'investimento di un pedone, uno
scontro tra veicoli, un atto violento che produca una lesione, danno vita ad un contatto sociale, possibile
fondamento di una responsabilità che va oltre quella extracontrattuale, meno gravosa per il danneggiante. Ma
l'obiezione, incentrandosi sulla considerazione del contatto sociale semplice, non coglie il proprium della
responsabilità in parola, nella quale il contatto sociale tra sfere giuridiche diverse deve essere "qualificato", ossia
connotato da uno "scopo" che, per il suo tramite, le parti intendano perseguire.
In virtù di tale relazione qualificata, una persona - al fine di conseguire un obiettivo determinato (stipulare un
contratto non svantaggioso, evitare eventi pregiudizievoli alla persona o al patrimonio, assicurarsi il corretto
esercizio dell'azione amministrativa) - affida i propri beni della vita alla correttezza, all'influenza ed alla
13
professionalità di un'altra persona. Per il che non si verte - com'è del tutto evidente - in un'ipotesi di mero
contatto sociale, bensì di un contatto sociale pregnante che diventa fonte di responsabilità - concretando un fatto
idoneo a produrre obbligazioni ai sensi dell'art. 1173 c.c. - in virtù di un affidamento reciproco delle parti e della
conseguente insorgenza di specifici, e reciproci, obblighi di buona fede, di protezione e di informazione.
12.2. L'esserci una struttura obbligatoria, vicenda tipica dell'obbligazione senza prestazione, segna,
dunque, la differenza con la responsabilità aquiliana, alla base della quale non vi è alcun obbligo
specifico, costituendo anche il generico dovere di "alterum non laedere" niente altro che la proiezione - insita
nel concetto stesso di responsabilità - sul danneggiante del diritto del danneggiato all'integrità della propria sfera
giuridica, al di fuori di un preesistente rapporto con il primo, atteso che, senza il rispetto da parte di chiunque
altro dal titolare, il diritto in questione non sarebbe tale.
Il "non rapporto" caratterizza, pertanto, la responsabilità civile aquiliana, nella quale la rilevanza giuridica del
contatto semplice tra soggetti viene alla luce solo nel momento della lesione, generando l'obbligo del
risarcimento, laddove nella relazione da "contatto sociale qualificato" sussiste un rapporto connotato da obblighi
già a monte della lesione, ancorchè non si tratti di obblighi di prestazione ( art. 1174 c.c. ), bensì di obblighi di
protezione correlati all'obbligo di buona fede ( artt. 1175 e 1375 c.c.).
13. Certamente significative in tal senso si rivelano le decisioni nelle quali questa Corte ha affermato che il
principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, espressione del dovere di solidarietà fondato
sull'art. 2 Cost. , impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli
interessi dell'altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico di entrambe, a prescindere dall'esistenza di
specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge. Ne discende che la
violazione di tale principio "costituisce di per sè inadempimento" e può comportare l'obbligo di
risarcire il danno che ne sia derivato a titolo di responsabilità contrattuale (cfr., tra le tante, Cass.
21250/2008; 1618/2009; 22819/2010). Nella medesima prospettiva (omissis) questa Corte ha, altresì, statuito che
la violazione della clausola generale di buona fede e correttezza, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. , può assumere
rilevanza, ai fini della risoluzione del rapporto per inadempimento, qualora, incidendo sulla condotta sostanziale
che le parti sono obbligate a tenere per preservare il reciproco interesse all'esatto adempimento delle rispettive
prestazioni, pregiudichi gli effetti economici e giuridici del contratto (Cass. 11437/2002).
14. Ebbene, il significativo ampliamento dell'area di applicazione della responsabilità contrattuale che ne è
derivato è certamente frutto di un' evoluzione nel modo di intendere la responsabilità civile che dottrina e
giurisprudenza hanno operato, nella prospettiva di assicurare a coloro che instaurano con altri soggetti relazioni
significative e rilevanti, poichè involgenti i loro beni ed interessi - sempre più numerose e diffuse nell'evolversi
della società, dei bisogni e delle esigenze dei cittadini -, una tutela più incisiva ed efficace rispetto a quella
garantita dalla responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.. Quest'ultima resta, pertanto, limitata al solo
ambito nel quale si riscontrino lesioni ab extrinseco a beni o interessi altrui, al di fuori di qualsiasi rapporto
preesistente che si ponga come fonte di obblighi di vario genere (di prestazione e/o di protezione), tali da
radicare una responsabilità di tipo contrattuale.
15. Non mancano, tuttavia, specifiche statuizioni di questa Corte proprio nel senso della configurabilità - che qui
più interessa - della responsabilità precontrattuale come responsabilità contrattuale da "contatto sociale
qualificato".
15.1. Con riferimento alla fattispecie concernente l'erronea scelta del contraente di un contratto di
appalto, divenuto inefficace e "tamquam non esset" per effetto dell'annullamento dell'aggiudicazione
da parte del giudice amministrativo, questa Corte ha, difatti, affermato che siffatta evenienza espone la
p.a. al risarcimento dei danni per le perdite e i mancati guadagni subiti dal privato aggiudicatario. Tale
responsabilità - si è osservato - non è, peraltro, qualificabile nè come aquiliana, nè come contrattuale in senso
proprio, sebbene a questa si avvicini poichè consegue al "contatto qualificato" tra le parti nella fase
procedimentale anteriore alla stipula del contratto, ed ha origine nella violazione del dovere di buona
fede e correttezza, per avere l'amministrazione indetto la gara e dato esecuzione ad un'aggiudicazione
apparentemente legittima, in tal modo provocando la lesione dell'interesse del privato, assimilabile a un
diritto soggettivo avente ad oggetto l'affidamento incolpevole nella regolarità e legittimità
14
dell'aggiudicazione. (Cass. 24438/2011).
15.2. Sempre con riferimento alla responsabilità precontrattuale, si è, dipoi, ancora più puntualmente osservato
che la parte che agisca in giudizio per il risarcimento del danno subito nella fase che precede la stipula del
contratto, non è tenuta a provare l'elemento soggettivo dell'autore dell'illecito (dolo o colpa), versandosi - come
nel caso di responsabilità da contatto sociale, di cui la responsabilità precontrattuale costituisce "una figura
normativamente qualificata" - in una delle ipotesi previste dall'art. 1173 cod. civ. (Cass. 27648/2011). La
decisione si pone, pertanto, perfettamente in linea con la vista impostazione dottrinale che considera la struttura
della "culpa in contrahendo" come fondata, non più sulla colpa, bensì sulla violazione della buona fede nelle
trattative, ed il "contatto sociale qualificato" come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ai sensi dell'art. 1173 c.c..
La medesima sentenza si fa, peraltro, carico di specificare che colui che agisca in giudizio a titolo di responsabilità
precontrattuale deve, per contro, allegare, e occorrendo dimostrare, il danno e l'avvenuta lesione della sua buona
fede, in una prospettiva di bilanciamento dei diritti delle parti coinvolte nella vicenda precontrattuale.
16. (omissis)
3. LE OBBLIGAZIONI DEL MEDICO SONO ANCHE DI RISULTATO: IL
PROBLEMA DELLA CAUSALITÀ
Cassazione civile, Sezioni unite, 11 gennaio 2008, n. 577(ud. 20 novembre 2007)
Il paziente che si pretenda danneggiato dall'inadempimento della prestazione di cura ha l'onere di provare il
fatto costitutivo del rapporto obbligatorio (legge o contratto) e di allegare un inadempimento efficiente alla
causazione del danno. Anche al fine della distribuzione dell'onere della prova non può essere riconosciuto
alcun rilievo alla considerazione dell'obbligazione sanitaria come un'obbligazione di mezzi.
Il paziente danneggiato che chiede il risarcimento deve limitarsi a provare il contratto con la struttura sanitaria
(o il “contatto sociale” con il medico), l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione;
all’ammalato-creditore basterà allegare un inadempimento del debitore che sia “qualificato”, cioè astrattamente
idoneo a provocare il danno lamentato: starà poi al debitore dimostrare che l’inadempimento non c’è stato o che,
pur esistendo, esso non è stato rilevante sotto il profilo eziologico (nella specie la Corte ha accolto il ricorso di
un paziente che sosteneva di aver contratto l’epatite C dopo le trasfusioni praticategli per un intervento
effettuato in una casa di cura, cassando con rinvio la sentenza di merito che imponeva all’ammalato l’onere di
dimostrare il nesso causale fra l’emotrasfusione e la patologia contratta oltre che di provare che egli non fosse
portatore della malattia prima del ricovero).
(omissis)
1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza
relative: alla responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente; alla ripartizione dell'onere
probatorio in materia di responsabilità medica.
(omissis)
Per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si
tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono
a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella
giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime
della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della
salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o
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differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria (Cass. 25.2.2005,
n. 4058).
Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità
contrattuale, sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita
ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006;
Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316).
A sua volta anche l'obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del
paziente, ancorchè non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura contrattuale (Cass. 22
dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006).
3.2. Per diverso tempo tale legame contrattuale è stato interpretato e disciplinato sulla base dell'applicazione
analogica al rapporto paziente-struttura delle norme in materia di contratto di prestazione d'opera intellettuale
vigenti nel rapporto medico-paziente, con il conseguente e riduttivo appiattimento della responsabilità della
struttura su quella del medico. Da ciò derivava che il presupposto per l'affermazione della responsabilità
contrattuale della struttura fosse l'accertamento di un comportamento colposo del medico operante presso la
stessa.
Più recentemente, invece, dalla giurisprudenza il suddetto rapporto è stato riconsiderato in termini autonomi dal
rapporto paziente-medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da
taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole
ordinarie sull'inadempimento fissate dall'art. 1218 c.c..
Da ciò consegue l'apertura a forme di responsabilità autonome dell'ente, che prescindono dall'accertamento di
una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell'inadempimento delle
obbligazioni direttamente riferibili all'ente. Questo percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di
merito, ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle
sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si è espressa in favore di una lettura del
rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l'atipicità del legame
che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a
disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l'apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature
necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente
una prestazione assai articolata, definita genericamente di "assistenza sanitaria", che ingloba al suo interno, oltre
alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori.
3.3. Così ricondotta la responsabilità della struttura ad un autonomo contratto (di spedalità), la sua responsabilità
per inadempimento si muove sulle linee tracciate dall'art. 1218 c.c., e, per quanto concerne le obbligazioni
mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l'individuazione del fondamento di
responsabilità dell'ente nell'inadempimento di obblighi propri della struttura consente quindi di abbandonare il
richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d'opera professionale e di fondare semmai la
responsabilità dell'ente per fatto del dipendente sulla base dell'art. 1228 c.c..
3.4. Questa ricostruzione del rapporto struttura - paziente va condivisa e confermata.
Ciò comporta che si può avere una responsabilità contrattuale della struttura verso il paziente danneggiato non
solo per il fatto del personale medico dipendente, ma anche del personale ausiliario, nonchè della struttura stessa
(insufficiente o inidonea organizzazione).
Dalla ricostruzione in termini autonomi del rapporto struttura-paziente rispetto al rapporto paziente-
medico, discendono importanti conseguenze sul piano della affermazione di responsabilità in primo
luogo, ed anche sul piano della ripartizione e del contenuto degli oneri probatori. Infatti, sul piano della
responsabilità, ove si ritenga sussistente un contratto di spedalità tra clinica e paziente, la responsabilità della
clinica prescinde dalla responsabilità o dall'eventuale mancanza di responsabilità del medico in ordine all'esito
infausto di un intervento o al sorgere di un danno che, come nel caso di specie, non ha connessione diretta con
l'esito dell'intervento chirurgico.
Non assume, in particolare, più rilevanza, ai fini della individuazione della natura della responsabilità della
struttura sanitaria se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del SSN, o convenzionata,
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oppure ad una struttura privata o se, invece, si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha effettuato l'intervento
presso una struttura privata. In tutti i predetti casi è ipotizzabile la responsabilità contrattuale dell'Ente.
4.1. Inquadrata nell'ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel
rapporto con il paziente, il problema del riparto dell'onere probatorio deve seguire i criteri fissati in
materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa
Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell'inadempimento e
dell'inesatto adempimento.
Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio
- condiviso da questo Collegio - secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il
risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del
suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte,
mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto
adempimento.
Analogo principio è stato enunciato con riguardo all'inesatto adempimento, rilevando che al creditore
istante è sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri
accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità
quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare
l'avvenuto, esatto adempimento.
4.2. La giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte, applicando questo principio all'onere della prova
nelle cause di responsabilità professionale del medico ha ritenuto che gravasse sull'attore (paziente danneggiato
che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria) oltre alla prova del
contratto, anche quella dell'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie nonchè la
prova del nesso di causalità tra l'azione o l'omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo
inadempimento del sanitario. Resta a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento, cioè di aver
tenuto un comportamento diligente (Cass. n. 12362 del 2006; Cass. 11.11.2005, n. 22894; Cass. 28.5.2004, n.
10297; Cass. 3.8.2004, n. 14812).
4.3. Il punto relativo alla prova del nesso di causalità non può essere condiviso, nei termini in cui è stato
enunciato, poichè esso risente implicitamente della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di
risultato, che se può avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata, quanto meno in tema di riparto
dell'onere probatorio dalla predetta sentenza delle S.U. n. 13533/2001 (vedasi anche S.U. 28.7.2005, n. 15781).
5.1. La dottrina ha assunto posizioni critiche sull'utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato,
la quale, ancorchè operante soltanto all'interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in
Francia dove rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), ha originato contrasti sia in ordine
all'oggetto o contenuto dell'obbligazione, sia in relazione all'onere della prova e, quindi, in definitiva, allo stesso
fondamento della responsabilità del professionista.
Come insegna la definizione tradizionale, nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde da un
particolare esito positivo dell'attività del debitore, che adempie esattamente ove svolga l'attività
richiesta nel modo dovuto.
In tali obbligazioni è il comportamento del debitore ad essere in obbligazione, nel senso che la
diligenza è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con
l'ulteriore corollario che il risultato è caratterizzato dall'aleatorietà, perchè dipende, oltre che dal comportamento
del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi.
Nelle obbligazioni di risultato, invece, ciò che importa è il conseguimento del risultato stesso, essendo
indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo. La diligenza opera solo come parametro, ovvero come
criterio di controllo e valutazione del comportamento del debitore: in altri termini, è il risultato cui mira
il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obbligazione.
5.2. Tale impostazione non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di
prestazione d'opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo
conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni.
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In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del
risultato, anche se in proporzione variabile, sicchè molti Autori criticano la distinzione poichè in
ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo,
come l'impegno che il debitore deve porre per ottenerlo.
5.3. Dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti interessanti in ordine alla dicotomia tra obbligazione di
mezzi e di risultato, spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione
dell'onere della prova e l'individuazione del contenuto dell'obbligo, ai fini del giudizio di responsabilità,
operandosi non di rado, per ampliare la responsabilità contrattuale del professionista, una sorta di metamorfosi
dell'obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l'individuazione di doveri di informazione e di avviso
(cfr. segnatamente, per quanto riguarda la responsabilità professionale del medico: Cass. 19.5.2004, n. 9471),
definiti accessori ma integrativi rispetto all'obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona
fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in
senso proprio.
5.4. Sotto il profilo dell'onere della prova, la distinzione (talvolta costruita con prevalente attenzione alla
responsabilità dei professionisti intellettuali e dei medici in particolare) veniva utilizzata per sostenere che mentre
nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombesse l'onere della prova che il
mancato risultato era dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore incombeva
l'onere della prova che il mancato risultato era dipeso da causa a lui non imputabile.
5.5. Ma anche sotto tale profilo la distinzione è stata sottoposta a revisione sia da parte della giurisprudenza che
della dottrina.
Infatti, come detto, questa Corte (sent. n. 13533/2001) ha affermato che il meccanismo di ripartizione
dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale (in conformità a
criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell'onere probatorio alla
sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito) è
identico, sia che il creditore agisca per l'adempimento dell'obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che
domandi il risarcimento per l'inadempimento contrattuale, ex art. 1218 c.c., senza richiamarsi in alcun
modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.
6.1. Prestata piena adesione al principio espresso dalla pronunzia suddetta, ritengono queste S.U. che
l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle
obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che
costituisce causa (o concausa) efficiente del danno.
Ciò comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso
sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione
del danno.
Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur
esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.
6.2. Nella fattispecie, quindi, avendo l'attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria (ed il punto
non è in contestazione) ed il danno assunto (epatite), allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo
sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale
inadempimento non vi era stato, poichè non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che,
pur esistendo l'inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell'azione risarcitoria proposta, per una
qualunque ragione, tra cui quella addotta dell'affezione patologica già in atto al momento del ricovero.
(omissis)
10. In definitiva va accolto il ricorso nei termini suddetti; va cassata,in relazione, l'impugnata sentenza e la causa
va rinviata, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Roma, che si
uniformerà ai seguenti principi di diritto:
A) In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da
contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio, l'attore, paziente danneggiato, deve
limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di
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un'affezione ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno
lamentato.
Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo,
esso non è stato eziologicamente rilevante.
(omissis)
Cassazione civile, Sezioni unite, 11 gennaio 2008, n. 581
Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per
contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947,
c.c, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal
momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può
essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo,
usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche.
Il nesso di causalità è regolato, anche in materia civile, dall’applicazione dei principi generali che
regolano la causalità di fatto, delineati dagli artt. 40 e 41 c.p. e temperati dalla “regolarità causale”,
in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso eziologico configurabile; tale
applicazione va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative della responsabilità
civile. In particolare, muta la regola probatoria: mentre nel processo penale vige la regola della prova
“oltre il ragionevole dubbio”, nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza, o del
“più probabile che non”.
(omissis)
1.1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza
relative: al nesso causale in tema di responsabilità civile, segnatamente da condotta omissiva; al dies a
quo della prescrizione per il risarcimento dei danni lungolatenti; alla responsabilità del Ministero della
Salute per danni "da sangue infetto".
(omissis)
3.1. Il punto di maggior rilievo è l'individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione in
ipotesi di fatto dannoso lungolatente, quale è quello relativo a malattia da contagio.
Come è noto, in base all'art. 2935 cc, …, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere dal giorno in
cui il diritto può essere fatto valere. L'art. 2947, 1° comma, cc. aggiunge che il diritto al risarcimento del danno da
fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il «fatto si è verificato».
Nell'evoluzione giurisprudenziale questa Corte (Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 9927 del 2000) ha affrontato il
significato da attribuirsi all'espressione «verificarsi del danno», specificando che il danno si manifesta
all'esterno quando diviene «oggettivamente percepibile e riconoscibile» anche in relazione alla sua
rilevanza giuridica. La Corte, successivamente, ha ritenuto che il termine di prescrizione del diritto al
risarcimento del danno di chi assume di avere contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di
un terzo inizia a decorrere, a norma dell'art. 2947, 1° comma, cc non dal momento in cui il terzo determina la
modificazione che produce danno all'altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma
dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto
conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenuto
conto della diffusione delle conoscenze scientifiche. Qualora invece non sia conoscibile la causa del
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contagio, la prescrizione non può iniziare a decorrere, poiché la malattia, sofferta come tragica fatalità non
imputabile ad un terzo, non è idonea in sé a concretizzare il "fatto" che l'art. 2947, 1° comma, cc. individua quale
esordio della prescrizione (Cass. 21/02/2003, n.2645 ; Cass. 05/07/2004, n. 12287; Cass. 08/05/2006, n. 10493).
Viene applicato, unitamente al principio della «conoscibilità del danno», quello della «rapportabilità
causale».
3.2.Ritengono queste Sezioni Unite di dover condividere tale ultimo orientamento. L'individuazione del dìes a
quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell'«esteriorizzazione del danno» può, come visto, rivelarsi
limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l'inattività (incolpevole) della vittima
rispetto all'esercizio dei suoi diritti.
È quindi del tutto evidente come l'approccio all'individuazione del dies a quo venga a spostarsi da una mera
disamina dell'evolversi e dello snodarsi nel tempo delle conseguenze lesive del fatto illecito o dell'inadempimento
- e cioè delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno «occulto» a quello che si manifesta nelle sue
componenti essenziali ed irreversibili - ad una rigorosa analisi delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso
o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato
una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l'instaurazione del giudizio (non solo il
danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al convenuto,
con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest'ultimo eventualmente colpevole di non avere fornito
quelle informazioni alla vittima, nei casi in cui era a ciò tenuto ( ciò è pacifico negli ordinamenti anglosassoni, in
tema di medicai malpractice).
3.3.Va specificato che il suddetto principio in tema di exordium praescriptionis , non apre la strada ad una
rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato. Esso deve essere saldamente ancorato a due
parametri obiettivi, l'uno interno e l'altro esterno al soggetto, e cioè da un lato al parametro
dell'ordinaria diligenza, dall'altro al livello di conoscenze scientifiche dell'epoca, comunque entrambi
verificabili dal giudice senza scivolare verso un'indagine di tipo psicologico. In particolare, per quanto
riguarda l'elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andrà apprezzato in relazione al
soggetto leso, in relazione al quale l'ordinaria diligenza dell'uomo medio si esaurisce con il portarlo presso una
struttura sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza
scientifica che in merito a tale patologia era ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si è rivolta
(o avrebbe dovuto rivolgersi) la persona lesa.
3.4. I principi, quindi, che vanno affermati, sono i seguenti:
(omissis)
8.1.Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana ex art.
2043 cc, da omessa vigilanza, va ora esaminata la questione del nesso causale in siffatto tipo di responsabilità.
Osserva preliminarmente questa Corte che l'insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile
dell'elaborazione penalistica in tema di nesso causale è emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della
responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno ingiusto, anziché
al "fatto illecito", divenuto "fatto dannoso".
In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale è appunto
costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico) , ai fini della responsabilità civile ciò che
si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale.
E tuttavia un "fatto" è pur sempre necessario perché la responsabilità sorga, giacché l'imputazione del danno
presuppone l'esistenza di una delle fattispecie normative di cui agli artt. 2043 e segg. cc, le quali tutte si risolvono
nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra
natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere.
Il "danno" rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze
risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica.
Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto
lesivo ( di cui è un elemento l'evento lesivo).
Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria.
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8.2.Proprio in conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l'idea, sviluppata
soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la
costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità
materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come
evento lesivo) e la determinazione dell'intero danno cagionato, che costituisce l'oggetto
dell'obbligazione risarcitoria.
A questo secondo momento va riferita la regola dell'art. 1223 cc.(richiamato dall'art. 2056 cc), per il quale il
risarcimento deve comprendere le perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del fatto lesivo (ed.
causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla
determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili. Secondo
l'opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve
sussistere tra comportamento ed evento perche' possa configurarsi, a monte, una responsabilità'
"stutturale" e, dall'altro, il nesso che, collegando l'evento al danno, consente l'individuazione delle
singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già'
accertata) responsabilità' risarcitoria. Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione è
ravvisabile, rispettivamente, nel primo e nel secondo comma dell'art. 1227 cc: il primo comma attiene al
contributo eziologico del debitore nella produzione dell'evento dannoso, il secondo comma attiene al
rapporto evento- danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni. Nel macrosistema civilistico
l'unico profilo dedicato al nesso eziologico, è previsto dall'art. 2043 cc, dove l'imputazione del "fatto doloso o
colposo" è addebitata a chi "cagiona ad altri un danno ingiusto", (…)
Un'analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non è richiesta in tema di responsabilità
ed. contrattuale o da inadempimento, perché in tal caso il soggetto responsabile è, per lo più, il contraente
rimasto inadempiente, o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta.(…)
8.3. Ai fini della causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la
dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p.,ritengono che un evento è
da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in
assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
Il rigore del principio dell'equivalenza delle cause , posto dall'art. 41 c.p, in base al quale, se la produzione di un
evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale,
trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell'art. 41 c.p., in
base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo
se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali
linee di sviluppo della serie causale già in atto (…).
Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante,
dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si
produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto
imprevedibile, secondo il principio della c. d. causalità adeguata o quella similare della ed. regolarità causale ( …).
8.4. Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common
law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che
appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la
responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalità con le quali
si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex
post, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di quella
italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve
compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, operandosi una "prognosi postuma",
nel senso che si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l'azione, era del tutto imprevedibile che ne
sarebbe potuta discendere una data conseguenza. (…)
In altri termini ciò che rileva è che l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma (per così dire) da
parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un
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giudizio di non improbabilità dell'evento. Il principio della regolarità causale diviene la misura della
relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed
evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre
tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad
iscriversi entro l'elemento soggettivo (la colpevolezza) dell'illecito. Inoltre se l'accertamento della
prevedibilità dell'evento, ai fini della regolarità causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso
alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso che quanto maggiore è
quel tempo tanto maggiore è la possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell'accertamento
positivo del nesso causale ( con la conseguenza illogica che della lunghezza del processo, segnatamente nelle
fattispecie a responsabilità oggettiva, potrebbe giovarsi l'attore, sul quale grava l'onere della prova del nesso
causale).
8.5.Nell'imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la
condotta omissiva del comportamento dovuto: rilievo che si traduce a volte nell'affermazione
dell'esigenza, per l'imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio,
che la norma di condotta violata tendeva a prevenire. E' questa l'ipotesi per la quale in parte della dottrina si
parla anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicità e che effettivamente non sembra estranea ad una
corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo
nell'applicazione della regola di cui all'art. 40, c. 2, c.p.. Poiché l'omissione di un certo comportamento, rileva,
quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione
di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al
configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l'omissione, siccome implicante l'esistenza a suo carico di
particolari obblighi di prevenzione dell'evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento
(omissione generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso
causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva
individuazione dell'obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto.
L'individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l'apprezzamento di una condotta omissiva sul
piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti
tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l'omissione del
comportamento sul piano causale.
La causalità nell'omissione non può essere di ordine strettamente materiale, poiché ex nihilo nihil fit.
(…)
In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso,
ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l'evento prospettato: la responsabilità
non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l'omissione di un comportamento
dovuto è di per sé un comportamento antigiuridico), ma perchè quell'omissione non è causa del danno
lamentato.
Il giudice pertanto è tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità omissiva) nel senso
che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa
impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa
attraverso l'enunciato "controfattuale" che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo
dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.
8.6. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile
quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p e dalla "regolarità causale", in assenza di altre norme nell'ordinamento in
tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza.
Tanto vale certamente allorché all'inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o commissiva,
secondo la norma generale di cui all'art. 2043 c.c..
Né può costituire valida obiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche e
funzionali tra accertamento dell'illecito civile ed accertamento dell'illecito penale, essendo il primo fondato
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sull'atipicità dell'illecito, essendo possibili ipotesi di responsabilità oggettiva ed essendo diverso il sistema
probatorio.
La dottrina, che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può definirsi in
modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature quante l'atipicità
dell'illecito.
Altra parte della dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla
causalità materiale in una questione di causalità giuridica (in diversa accezione da quella sopra esposta, con
riferimento all'art. 1223 ce), per cui un certo danno è addebitato ad un soggetto chiamato a risponderne ed il
legame "causale" tra responsabile e danno è tutto normativo.
8.7.Ritengono queste S.U. che le suddette considerazioni non sono decisive ai fini di un radicale
mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l'applicazione dei principi generali di cui agli
artt. 40 e 41 cp., temperati dalla " regolarità causale", ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va
adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile.
Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che è successiva al verificarsi ontologico
del fatto dannoso e che può anche mancare. Di questo si vedrà più ampiamente in seguito.
E' vero che la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale
intorno alla figura dell'autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un responsabile è pur
sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in un'assicurazione contro i
danni, peraltro in assenza di premio.
L'atipicità dell'illecito attiene all'evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e
l'elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione.
E' vero, altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della responsabilità civile
non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta solo una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una
parte non elimina la necessità del nesso di causalità di fatto e dall'altra non modifica le regole giuridico-logiche
che presiedono all'esistenza del rapporto eziologico.
Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva. E' esatto che
tale criterio di imputazione è segnato spesso da un'allocazione del costo del danno a carico di un soggetto che
non necessariamente è autore di una condotta colpevole, ma ha una determinata esposizione a rischio ovvero
costituisce per l'ordinamento un soggetto più idoneo a sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche
sul terreno dell'illecito, al principio di solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero è il soggetto che aveva
la possibilità della cost-benefit analysis, per cui deve sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del
suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicché il verificarsi del danno
discende da un'opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.
Sennonché il criterio di imputazione nella fattispecie ( con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad indicare
quale è la sequenza causale da esaminare e può anche costituire un supporto argomentativo ed orientativo
nell'applicazione delle regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della
causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità elementi che gli sono estranei e che
riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o l'ingiustizia del danno.
8.8.Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all'infinito. La responsabilità oggettiva non può
essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con
altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione
che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilità
per colpa quest'ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di
quest'ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva sono i criteri di imputazione ad
individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della
responsabilità.
Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica "da fare responsabile". Ciò perché nella fattispecie di
responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un
agente candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una
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condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la questione della
responsabilità. Tale questione la norma di volta in volta risolve mediante qualcosa di ulteriore, che è costituito da
una qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire
quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura
serve ad individuare la catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva
sulla quale deve gravare il costo del danno.
8.9.Sennonchè detto ciò, ai fini dell'individuazione del soggetto chiamato alla responsabilità dal criterio di
imputazione, un nesso causale è pur sempre necessario tra l'evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del
soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di altri (ad es. art. 2049 ce.) o i fatti di
altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt. 2051, 2052, 2054, c. 4, ce), posti all'inizio della serie
causale.
Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale "concatenazione causale" tra la condotta
di altri e l'evento ovvero tra il fatto di altra natura e l'evento ( di cui debba rispondere il soggetto gravato
della responsabilità oggettiva).
In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far
riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il
nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra
l'elemento individuato dal criterio di imputazione e l'evento dannoso. In altri termini, mentre nella
responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta
dell'agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale
rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le
regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento
e l'evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e
41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dal la ratio dello specifico paradigma normativo ai fini
dell'allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di
fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria
della causalità nell'illecito civile.
8.10. Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico-giuridico ai fini della ricostruzione del nesso
causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in
quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre
2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più
probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e
l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta
dottrina che ha esaminato l'identità di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con
la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedansi: la recentissima Cass. 16.10.2007,
n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632).
Anche la Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di
tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n.295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza
in danno del consumatore se "appaia sufficientemente probabile" che l'intesa tra compagnie assicurative possa
avere un'influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n.12,
sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che "occorre postulare le varie concatenazioni causa-
effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili").
Detto standard di "certezza probabilistica" in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla
determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (ed. probabilità quantitativa o pascaliana),
che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza
all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in
relazione al caso concreto (ed. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come
relazione logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (ed. evidence
and inference nei sistemi anglosassoni).
24
8.11. Le considerazioni sopra esposte, maturate in relazione alla problematica del nesso di causalità, portano ad
enunciare il seguente principio di diritto per la decisione del caso concreto, attinente alla responsabilità del
Ministero della Sanità (oggi della Salute) da omessa vigilanza, correttamente applicato dalla sentenza impugnata:
"Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue
umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di
programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinchè fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente
da donatori conformi agli standars di esclusione di rischi, il giudice, accertata l'omissione di tali attività, accertata,
altresì, con riferimento all'epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici
della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata - infine - l'esistenza di una patologia da
virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri
fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta
doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la versificazione dell'evento".
(omissis)
4. IL CONSENSO INFORMATO E ONERE DELLA PROVA: Cassazione Civile, sez. III,
19 maggio 2011, n. 11005
In relazione all’obbligo d’informazione ed all’onere della relativa prova, la responsabilità professionale del
medico – ove pure egli si limiti alla diagnosi ed all’illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o
dell’intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenerne il necessario consenso informato – ha
natura contrattuale e non precontrattuale; ne consegue che, a fronte dell’allegazione, da parte del paziente,
dell’inadempimento dell’obbligo di informazione, è il medico gravato dell’onere della prova di aver adempiuto
tale obbligazione.
(omissis)
5. IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA E LE CONSEGUENZE
RISARCITORIE: Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 22 dicembre 2015, n. 25767
In materia di responsabilità medica per nascita indesiderata, vanno affermati i seguenti principi di diritto: a)
la madre è onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, ma può assolvere l’onere mediante
presunzioni semplici; b) il nato con disabilità non è legittimato ad agire per il danno da “vita ingiusta”,
poiché l’ordinamento ignora il “diritto a non nascere se non sano”.
Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione di legge nel riparto dell'onere della prova dei grave
pericolo per la salute fisica o psichica della madre, dipendente da rilevanti malformazioni del nascituro.
Punto di partenza della relativa disamina è l'interpretazione della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la
tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria di gravidanza), che ha introdotto nel nostro
ordinamento la possibilità legale di ricorrere all'aborto, legittimando l'autodeterminazione della donna a tutela
della sua salute, e non solo della sua vita, pur nel rispetto di condizioni rigorose, espressione di un bilanciamento
di esigenze di primaria rilevanza.
(omissis) In particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la presenza delle condizioni ivi rigorosamente
tipizzate ha non solo efficacia esimente da responsabilità penale, ma genera un vero e proprio diritto
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all'autodeterminazione della gestante di optare per l'interruzione della gravidanza. Il dettato normativo trova
rispondenza assiologica nel principio costituzionale di non equivalenza tra la salvezza della madre, già persona, e
quella dell'embrione, che persona deve ancora diventare (Corte cost. 18 febbraio 1975 n.20).
In questa cornice normativa, la censura dei ricorrente qui in scrutinio ripropone l'annoso problema del
riparto dell'onere della prova dei predetti presupposti di legge in tema di risarcimento dei danni
richiesto da nascita indesiderata
(omissis) L'impossibilità della scelta della madre, pur nel concorso delle condizioni di cui all'art.6,
imputabile a negligente carenza informativa da parte dei medico curante, è fonte di responsabilità
civile. La gestante, profana della scienza medica, si affida, di regola, ad un professionista, sul quale grave
l'obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue richieste; senza limitarsi a seguire le direttive della
paziente, che abbia espresso, in ipotesi, l'intenzione di sottoporsi ad un esame da lei stessa prescelto, ma
tecnicamente inadeguato a consentire una diagnosi affidabile sulla salute del feto.
Occorre però che l'interruzione sia legalmente consentita - omissis - giacché, senza il concorso di tali
presupposti, l'aborto integrerebbe un reato; con la conseguente esclusione della stessa antigiuridicità del danno,
dovuto non più a colpa professionale, bensì a precetto imperativo di legge.
Oltre a ciò, dev'essere altresì provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza, in presenza
delle specifiche condizioni facoltizzanti.
Sotto questo profilo, il thema probandum è costituito da un
fatto complesso; e cioè, da un accadimento composto da molteplici circostanze e comportamenti
proiettati nel tempo: la rilevante anomalia dei nascituro, l'omessa informazione da parte del medico, il
grave pericolo per la salute psicofisica della donna, la scelta abortiva di quest'ultima.
In tale evenienza, può essere impossibile fornire la dimostrazione analitica di tutti gli eventi o comportamenti che
concorrano a comporre la fattispecie: onde, il problema si risolve ponendo ad oggetto della prova alcuni elementi
che si ritengano rappresentativi dell'insieme e dai quali sia perciò possibile derivare la conoscenza, per
estrapolazione, dell'intero fatto complesso.
Nel caso in esame un aspetto particolarmente delicato - ove il convenuto non dia per pacifiche le componenti di
fatto essenziali della fattispecie -- è costituito dalla circostanza che la prova verte anche su un fatto psichico: e
cioè, su uno stato psicologico, un'intenzione, un atteggiamento volitivo della donna, che la legge considera
rilevanti.
L'ovvio problema che ne scaturisce è che del fatto psichico non si può fornire rappresentazione immediata e
diretta; sicché non si può dire che esso sia oggetto di prova in senso stretto. In tal caso, l'onere probatorio - senza
dubbio gravoso, vertendo su un'ipotesi, e non su un fatto storico - può essere assolto tramite dimostrazione di
altre circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all'esistenza del fatto psichico che
si tratta di accertare.
Il passo successivo consiste nell'applicare la concezione quantitativa o statistica della probabilità, intesa come
frequenza di un evento in una serie di possibilità date: espressa dall'ormai consolidato parametro del "più
probabile, che no".
Nel caso in esame, la Corte d'appello di Firenze, confermando la decisione di primo grado, ha ritenuto che l'onere della prova di tutti
presupposti della fattispecie di cui all'art.6 ricadesse sulla gestante; inclusa quindi, la prova che ella avrebbe positivamente esercitato la
scelta abortiva: ciò che implica un impervio accertamento induttivo anche delle convinzioni di ordine umano, etico ed eventualmente
religioso, oltre che delle condizioni di salute psico-fisica esistenti all'epoca, che avrebbero concorso a determinare l'incoercibile decisione
di interrompere, o no, la gravidanza.
Ne ha poi tratto la conclusione che, in difetto di tale prova positiva, neppure la consulenza tecnica d'ufficio fosse ammissibile; e la
domanda dovesse essere quindi respinta in limine.
Al riguardo, si osserva che se la premessa astratta appare esatta, dal momento che i presupposti della fattispecie
facoltizzante non possono che essere allegati e provati dalla donna, ex art.2697 cod. civ. (onus incumbit ei qui
dicit) - con un riparto che appare dei resto rispettoso dei canone della vicinanza della prova - si palesa
manchevole, invece, l' omessa valutazione - che sembra adombrare un'esclusione aprioristica - della
possibilità di assolvere il relativo onere in via presuntiva.
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E bene chiarire che non si verte in tema di presunzione legale, sia pure juris tantum: la cui consacrazione in via
generale ed astratta appartiene al legislatore e che si risolve in una semplificazione della fattispecie legale,
esimendo la parte dall'onere di provarne uno o più elementi integrativi, ulteriori rispetto alla premessa fattuale
(omissis)
Ci si riferisce, invece, alla praesumptio hominis, rispondente ai requisiti di cui all'art. 2729 cod. civile, che
consiste nell'inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente
ricorrenti, secondo l'id quod plerumque accidit - che peraltro il giudice civile non potrebbe accertare d'ufficio, se
non rientrino nella sfera dei notorio (art.115, secondo comma, cod. proc. civ.) - ma anche di circostanze
contingenti, eventualmente anche atipiche - emergenti dai dati istruttori raccolti: quali, ad esempio, il ricorso al
consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche
della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d'ufficio, pregresse manifestazioni di
pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all'opzione abortiva in caso di grave malformazione dei
feto, ecc.
In questa direzione il tema d'indagine principale diventa quello delle inferenze che dagli elementi di prova
possono essere tratte, al fine di attribuire gradi variabili di conferma delle ipotesi vertenti sui fatti che si
tratta di accertare, secondo un criterio di regolarità causale: restando sul professionista la prova
contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all'aborto, per qualsivoglia ragione a lei
personale.
E' da escludere, peraltro, che tale indagine debba approdare ad un'elencazione di anomalie o malformazioni che
giustifichino la presunzione di ricorso all'aborto; che, proprio per il suo carattere generale e astratto, mai
dissimulerebbe l'inammissibile prefigurazione giudiziale di una presunzione juris tantum.
In conclusione, la statuizione della Corte d'appello di Firenze si e arrestata a livello enunciativo del principio generale, pur esatto, del
riparto dell'onere probatorio: e risulta dunque manchevole nella parte in cui omette di prendere in considerazione la possibilità di una
prova presuntiva, in concreto desumibile dai fatti allegati.
La sentenza dev'essere quindi cassata sul punto; restando impregiudicato l'accertamento susseguente dell'effettivo
evento di danno conseguito al mancato esercizio dei diritto di scelta, per eventuale negligenza dei medico
curante, parimenti oggetto di prova. Esclusa, infatti, la configurabilità di un danno ín re ípsa - quale
espressamente prospettato dai ricorrenti - occorre che la situazione di grave pericolo per la salute fisica o psichica
della donna , ex art.6 lett. b) l. 194/1978 (danno potenziale), si sia poi tradotto in danno effettivo, eventualmente
verificabile anche mediante consulenza tecnica d'ufficio.
Esula, altresì, dal thema decidendum di questa fase di legittimità il problema dell'identificazione dell'eventuale
pregiudizio, legato da vincolo causale immediato e diretto, al fatto colposo dei sanitari (artt. 1223, 2056 cod. civ.):
se limitato allo stesso danno alla salute prefigurato ex ante quale causa permissiva dell'interruzione di gravidanza -
- restando cioè interno alla fattispecie di cui all'art.6, in considerazione della natura eccezionale della norma - o se
sia esteso a tutti danni conseguenza riconducibili, in tesi generale, all'ordinaria responsabilità aquiliana.
Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la violazione degli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione e
della legge 29 luglio 1975 n. 405, nella negazione del diritto del figlio, affetto dalla sindrome di Down, al
risarcimento del danno per l'impossibilità di un'esistenza sana e dignitosa.
(omissis) Nucleo centrale della disamina è quello della legittimazione ad agire di chi, al momento della
condotta del medico (in ipotesi, antigiuridica), non era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio
consacrato all'art.1 cod. civ. ("La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita"), conforme
ad un pensiero giuridico plurisecolare.
Natura eccezionale, a questa stregua, rivestirebbero le norme che riconoscono diritti in favore del nascituro,
concepito o non concepito, subordinati all'evento della nascita (ibidem, secondo comma): quale deroga al
principio generale secondo cui non può reclamare un diritto chi, alla data della sua genesi, non era ancora
esistente (artt.254, 320, 462, 784), o non era più (arg. ex art.4 cod. civ.).
Di qui la definizione, nella fattispecie in esame, di diritto adespota, la cui configurazione riuscirebbe, "prima
facie" in contrasto con il principio generale sopra richiamato.
L'argomento, apparentemente preclusivo in limine, non si palesa, peraltro, insuperabile; e di fatto è stato superato
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da quella giurisprudenza di legittimità che ha opposto che il diritto al risarcimento, originato da fatto anteriore
alla nascita, diventa attuale ed azionabile dopo la nascita del soggetto.
E' vero, in tesi generale, che l'attribuzione di soggettività giuridica è appannaggio del solo legislatore, e che la cd.
giurisprudenza normativa, talvolta evocata quale fonte concorrente di diritto, violerebbe il principio
costituzionale di separazione dei poteri ove non si contenesse all'interno dei limiti ben definiti di clausole generali
previste nella stessa legge, espressive di valori dell'ordinamento (buona fede, solidarietà, ecc.): (omissis) Ma in
realtà non è indispensabile elevare il nascituro a soggetto di diritto, dotato di capacità giuridica - contro il chiaro
dettato dell'art.l cod. civ. - per confermare l'astratta legittimazione del figlio disabile ad agire per il risarcimento di
un danno le cui premesse fattuali siano collocabile in epoca anteriore alla sua stessa nascita. Al fondo di tale
ricostruzione dogmatica vi è, infatti, il convincimento tradizionale, da tempo sottoposto a revisione critica, che
per proteggere una certa entità occorra necessariamente qualificarla come soggetto di diritto.
Questa Corte ha già da tempo negato, pur se in ipotesi di danno provocato al feto durante il parto, che
l'esclusione del diritto al risarcimento possa affermarsi sul solo presupposto che il fatto colposo si sia
verificato anteriormente alla nascita: definendo erronea la concezione che, a tal fine, ritiene necessaria
la sussistenza di un rapporto intersoggettivo ab origine tra danneggiante e danneggiato. Ed ha concluso
che, una volta accertata l'esistenza di un rapporto di causalità tra un comportamento colposo, anche se
anteriore alla nascita, ed il danno che ne sia derivato al soggetto che con la nascita abbia acquistato la
personalità giuridica, sorge e dev'essere riconosciuto in capo a quest'ultimo il diritto al risarcimento (
Cass., sez.3, 22 novembre 1993, n. 11503).
Tenuto conto dei naturale relativismo dei concetti giuridici, alla tutela del nascituro si può pervenire, in
conformità con un indirizzo dottrinario, senza postularne la soggettività - che è una tecnica di imputazione di
diritti ed obblighi - bensì considerandolo oggetto di tutela (Corte costituzionale 18 febbraio 1975 n. 27;Cass.,
sez.3, maggio 2011 n. 9700; Cass. 9 maggio 2000, n. 5881).
Tale principio informa espressamente diverse norme dell'ordinamento. Così, l'art.1, primo comma, legge 19
febbraio 2004 n.40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) annovera tra i soggetti tutelati
anche il concepito ("AI fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla in
fertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le
modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito").
Analogo concetto è riflesso nell'art.1 della stessa legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della
maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), qui in esame, che retrodata la tutela della vita umana
anteriormente alla nascita ("Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il
valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio). Anche la legge 29 luglio 1975 n.405
(Istituzione dei consultori familiari) afferma l'esigenza di proteggere la salute del concepito (art.1: "Il servizio di
assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi...: c) la tutela della salute della donna e del prodotto del
concepimento'). Infine, nell'ambito della stessa normativa codicistica, l'art.254 prevede il riconoscimento dei
figlio nato fuori del matrimonio anche quando questi sia solo concepito, ma non ancora nato.
Entro questa cornice dogmatica si può dunque concludere per l'ammissibilità dell'azione dei minore, volta al
risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione. Tesi, che del resto
neppure collide con la teoria della causalità, posto che è ben possibile che tra causa ed evento lesivo intercorra
una cesura spazio-temporale, tale da differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi dell'effetto
pregiudizievole, purché senza il concorso determinante di concause sopravvenute ( cfr. art.41 cod. pen.).
Qui la particolarità risiederebbe nel fatto che il medico sia, in ipotesi, l'autore mediato del danno, per aver privato
la madre di una facoltà riconosciutale dalla legge, tramite una condotta omissiva che si ponga in rapporto diretto
di causalità con la nascita indesiderata; e la soluzione verrebbe, in tal modo, ad essere identica alla diversa ipotesi
della responsabilità del medico verso il nato disabile per omessa comunicazione ai genitori della pericolosità di un
farmaco somministrato per stimolare l'attività riproduttiva (Cass 11 maggio 2009 n. 10741), o di una malattia
della gestante suscettibile di ripercuotersi sulla salute del feto.
Se dunque l'astratta riconoscibilità della titolarità di un diritto (oltre che della legittimazione attiva) del
figlio handicappato non trova un ostacolo insormontabile nell'anteriorità del fatto illecito alla nascita,
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giacché si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti dotati di capacità giuridica ai
sensi dell'art.1 cod. civile, occorre scrutinare a fondo il contenuto stesso del diritto che si assume leso
ed il rapporto di causalità tra condotta del medico ed evento di danno.
Sotto il primo profilo, in un approccio metodologico volto a mettere tra parentesi tutto ciò che concretamente
non è indispensabile, per cogliere l'essenza di ciò che si indaga, si deve partire dal concetto di danno-
conseguenza, consacrato all'art.1223 cod. civile e riassumibile, con espressione empirica, nell'avere di meno,
a seguito dell'illecito. In siffatta ricostruzione dogmatica, il danno riuscirebbe pertanto legato alla stessa vita
del bambino; e l'assenza di danno alla sua morte
Ed è qui che la tesi ammissiva, in subiecta materia, incorre in una contraddizione insuperabile: dal momento che
il secondo termine di paragone, nella comparazione tra le due situazioni alternative, prima e dopo l'illecito, è la
non vita, (omissis) Il supposto interesse a non nascere, com'è stato detto efficacemente in dottrina, mette
in scacco il concetto stesso di danno. Tanto più che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori
nell'attribuire alla volontà dei nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia; come tale, indegna di essere
vissuta (quasi un corollario estremo dei cd. diritto alla felicità).
L'ordinamento non riconosce, per contro, il diritto alla non vita: cosa diversa dal cd. diritto di staccare la
spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico).
L'accostamento, non infrequente, tra le due fattispecie è fallace; oltre a non tener conto dei limiti connaturali al
ragionamento analogico, soprattutto in tema di norme eccezionali.
Né vale invocare il diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione
sanitaria, ai fini di una propagazione intersoggettiva dell'effetto pregiudizievole (Cass., sez. 3, 3 maggio
2011, n. 9700). La formula, concettualmente fluida ed inafferrabile, pretende di estendere al nascituro una facoltà
che è concessa dalla legge alla gestante, in presenza di rigorose condizioni - progressivamente più restrittive nel
tempo - posta in relazione di bilanciamento con un suo diritto già esistente alla salute personale, che costituisce il
concreto termine di paragone positivo: bilanciamento, evidentemente non predicabile, in relazione al nascituro,
con una situazione alternativa di assoluta negatività.
In senso contrario, qualche voce in dottrina, non senza echi giurisprudenziali, adduce l'apparente antinomia tra la
progressiva estensione del credito risarcitorio in favore del padre (Cass., sez.3, 10 maggio 2002 n. 6735) e dei
germani (Cass., sez.3, 2 ottobre 2012 n. 16.754) ed il perdurante diniego opposto al figlio, primo interessato dalle
patologie prese in considerazione dalla norma: argomento, suggestivo ed impressionistico, ma di nessun pregio
giuridico, restando ad un livello di costatazione empirica, senza adeguato apprezzamento delle diverse premesse
in diritto.
A prescindere da una disamina approfondita, estranea al presente thema decidendum, della tesi estensiva sopra
menzionata, per saggiarne la solidità argomentativa, sia in ordine ai presupposti oggettivi - se, cioè, sia, o no,
necessario che i parenti (che nessuna voce in capitolo hanno in ordine alla scelta abortiva), possano godere, di
fatto, di un trattamento probatorio perfino più favorevole che non la madre, perché esenti dall'onere di provare
lo stesso pericolo per la propria salute contemplato dall'art.6 I. cit. - e soggettivi - in quanto non onerati
dell'omologa prova della loro condivisione dell'opzione abortiva - valore dirimente ha il rilievo che solo per i
predetti soggetti, e non pure per il nato malformato, si può configurare una danno-conseguenza, apprezzabile
tramite comparazione tra due situazioni soggettive omogenee: la qualità della vita prima e dopo la nascita del
bambino handicappato.
In una decisione che investa diritti fondamentali della persona umana, diventa, al riguardo, rilevante anche
l'analisi comparatistica, mediante richiamo di precedenti attinti dall'esperienza maturata in ordinamenti stranieri,
culturalmente vicini ed informati al più assoluto rispetto dei diritti della persona.
(omissis)
Né può essere sottaciuto, da ultimo, il dubbio che l'affermazione di una responsabilità del medico verso il
nato aprirebbe, per coerenza, la strada ad un'analoga responsabilità della stessa madre, che nelle
circostanze contemplate dall'art. 6 l. 194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine
la gravidanza: dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico
termine dei rapporto giuridico, l'obbligo della madre di abortire. E per quanto si voglia valorizzare un
29
metodo antiformalista nella configurazione dell'illecito, valorizzando i principi di solidarietà ex artt. 2 e 3 della
Costituzione, occorre pur sempre evitare straripamenti giudiziari influenzati dal fascino, talvolta insidioso, dei
metodo casistico (case law system), nell'ambito di un sistema aperto, quale configurato nella norma generale
dell'art. 2043 cod. civ. (con l'espressione introduttiva: "qualunque fatto"...) in cui non si possono operare, a priori
discriminazioni tra fatti dannosi che conducono al risarcimento e fatti dannosi che lasciano le perdite a carico
della vittima.
II contrario indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, favorevole alla riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del
nato disabile verso il medico, pur se palesi un'indubbia tensione verso la giustizia sostanziale, finisce con
l'assegnare, in ultima analisi, al risarcimento del danno un'impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di
previdenza e assistenza sociale: in particolare, equiparando quoad effectum l'errore medico che non abbia evitato
la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni dei feto, all'errore medico che tale malformazione abbia
direttamente cagionato: conclusione, che non può essere condivisa, ad onta delle fitte volute concettualistiche
che la sorreggono, stante la profonda eterogeneità delle situazioni in raffronto e la sostanziale diversità
dell'apporto causale nei due casi.
(omissis) Per superare gli ostacoli frapposti all'affermazione al supposto diritto a non nascere se non sano - ignoto
al vigente ordinamento - i ricorrenti prospettano, altresì, nell'ambito dei secondo motivo, una concorrente
ragione di danno da valutare sotto il profilo dell'inserimento dei nato in un ambiente familiare nella migliore delle
ipotesi non preparato ad accoglierlo.
Al riguardo, occorre notare, in via preliminare, che di tale allegazione non v'è traccia nella sentenza impugnata;
onde, si deve ritenere, in difetto di critica specifica alla sua mancata disamina, che essa sia formulata per la prima
volta nel presente ricorso per cassazione. E tuttavia, essa non è, perciò stesso, inammissibile, risolvendosi in una
mera argomentazione, volta a dare fondamento alla medesima domanda, invariata nei suoi elementi essenziali
costitutivi, svolta ab initio: come tale, immune da preclusioni.
Nel merito, essa si rivela peraltro un mimetismo verbale del cd. diritto a non nascere se non sani; e va quindi
incontro alla medesima obiezione dell'incomparabilità della sofferenza anche da mancanza di amore familiare,
con l'unica alternativa ipotizzabile, rappresentata dell' interruzione della gravidanza.
Si deve dunque ritenere che l'argomentazione, se vale a confutare la tesi, peraltro già respinta, della irrisarcibilità
di un danno senza soggetto non ancora nato al momento della condotta dalla colposa del medico (cd. diritto
adespota), si palesa dei tutto inidonea, per contro, a sormontare l'impossibilità di stabilire un nesso causale tra
quest'ultima e le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso la sua vita. Oltre al fatto di postulare un'
irruzione dei diritto in un campo da sempre rimastogli estraneo, mediante patrimonializzazione dei sentimenti, in
una visione panrisarcitoria dalle prospettive inquietanti.
II ricorso dev'essere dunque accolto limitatamente al primo motivo con rinvio alla corte d'appello di Firenze, in
diversa composizione, per un nuovo giudizio, in relazione alla censura accolta, nonché per le spese della presente
fase di legittimità.
(omissis)
6. LA (IR)RISARCIBILITÀ DEL DANNO TANATOLOGICO: Cassazione Civile, SS.UU.,
sentenza 22/07/2015 n. 15350
In materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è
costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal
titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o
dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità "iure hereditatis" di tale
pregiudizio, in ragione - nel primo caso - dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e
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nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero - nel secondo - della mancanza
di utilità di uno spazio di vita brevissimo.
(omissis)
3.1. L'ordinanza della terza sezione, con la quale è stato segnalato il contrasto consapevole tra la sentenza n. 1361
del 2014 e il precedente costante e risalente orientamento, individua la questione rimessa all'esame di queste
sezioni unite nella risarcibilità o meno iure hereditatis del danno da perdita della vita immediatamente
conseguente alle lesioni derivanti da un fatto illecito.
Esulano quindi dal tema che formerà oggetto della presente decisione le questioni relative al risarcimento dei
danni derivanti dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo alle lesioni. Con riferimento a tale
situazione, infatti, non c'è alcun contrasto nella giurisprudenza di questa Corte (che prende le mosse dalla
sentenza delle sezioni unite del 22 dicembre 1925, alla quale di seguito si farà più ampio riferimento) sul diritto
iure hereditatis al risarcimento dei danni che si verificano nel periodo che va dal momento in cui sono provocate
le lesioni a quello della morte conseguente alle lesioni stesse, diritto che si acquisisce al patrimonio del
danneggiato e quindi è suscettibile di trasmissione agli eredi.
L'unica distinzione che si registra negli orientamenti giurisprudenziali riguarda la qualificazione, ai fini della liquidazione, del
danno da risarcire che, da un orientamento, con "mera sintesi descrittiva" (Cass. n. 26972 del 2008), è indicato come "danno
biologico terminale" (Cass. n. 11169 del 1994, n. 12299 del 1995, n. 4991 del 1996, n. 1704 del 1997, n. 24 del 2002, n. 3728
del 2002, n. 7632 del 2003, n 9620 del 2003, n. 11003 del 2003, n. 18305 del 2003, n. 4754 del 2004, n. 3549 del 2004, n.
1877 del 2006, n. 9959 del 2006, n. 18163 del 2007, n. 21976 del 2007, n. 1072 del 2011) - liquidabile come invalidità
assoluta temporanea, sia utilizzando il criterio equitativo puro che le apposite tabelle (in applicazione dei principi di cui alla
sentenza n. 12408 del 2011) ma con il massimo di personalizzazione in considerazione della entità e intensità del danno - e,
da altro orientamento, è classificato come danno "catastrofale" (con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella
cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni). Il danno "catastrofale", inoltre, per
alcune decisioni, ha natura di danno morale soggettivo (Cass. n. 28423 del 2008, n. 3357 del 2010, n. 8630 del 2010, n. 13672
del 2010, n. 6754 del 2011, n. 19133 del 2011, n. 7126 del 2013, n. 13537 del 2014) e per altre, di danno biologico psichico
(Cass. n. 4783 del 2001, n. 3260 del 2007, n. 26972 del 2008, n. 1072 del 2011). Ma da tali incertezze non sembrano derivare
differenze rilevanti sul piano concreto della liquidazione dei danni perchè, come già osservato, anche in caso di utilizzazione
delle tabelle di liquidazione del danno biologico psichico dovrà procedersi alla massima personalizzazione per adeguare il
risarcimento alle peculiarità del caso concreto, con risultati sostanzialmente non lontani da quelli raggiungibili con
l'utilizzazione del criterio equitativo puro utilizzato per la liquidazione del danno morale.
3.2. Nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni, invece, si
ritiene che non possa essere invocato un diritto al risarcimento dei danno iure hereditatis. Tale
orientamento risalente (Cass. sez. un. 22 dicembre 1925, n. 3475: "se è alla lesione che si rapportano i danni,
questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quanto e fin quando il
medesimo sia in vita. Questo spentosi, cessa anche la capacità di acquistare, che presuppone appunto e
necessariamente l'esistenza di un subbietto di diritto") ha trovato autorevole conferma nella sentenza della Corte
costituzionale n. 372 del 1994 e, come rilevato, anche nella più recente sentenza delle sezioni unite n. 26972 del
2008 (che ne ha tratto la conseguenza dell'impossibilità di una rimeditazione della soluzione condivisa) e si è
mantenuto costante nella giurisprudenza di questa Corte (…).
A tale risalente e costante orientamento le sezioni unite intendono dare continuità non essendo state dedotte
ragioni convincenti che ne giustifichino il superamento. Certamente tali ragioni non sono state neppure articolate
con la sentenza n. 15760 del 2006 (pronunciata su ricorso avente ad oggetto la domanda di risarcimento dei
danni da morte di congiunto avanzata iure proprio) che, con affermazione avente dichiarata natura di obiter
"sistematico", si è limitata ad auspicare che, in conformità con orientamenti dottrinari italiani ed Europei, sia
riconosciuto quale momento costitutivo del credito risarcitorio quello della lesione, indipendentemente
dall'intervallo di tempo con l'evento morte causalmente collegato alla lesione stessa. Ma anche l'ampia
motivazione della sentenza n. 1361 del 2014, che ha effettuato un consapevole revirement, dando luogo al
contrasto in relazione al quale è stato chiesto l'intervento di queste sezioni unite, non contiene argomentazioni
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decisive per superare l'orientamento tradizionale, che, d'altra parte, risulta essere conforme agli orientamenti della
giurisprudenza Europea con la sola eccezione di quella portoghese.
La premessa del predetto orientamento, peraltro non sempre esplicitata, sta nell'ormai compiuto superamento
della prospettiva originaria secondo la quale il cuore del sistema della responsabilità civile era legato a un profilo
di natura soggettiva e psicologica, che ha riguardo all'agire dell'autore dell'illecito e vede nel risarcimento una
forma di sanzione analoga a quella penale, con funzione deterrente (sistema sintetizzato dal principio affermato
dalla dottrina tedesca "nessuna responsabilità senza colpa" e corrispondente alle codificazioni ottocentesche per
giungere alle stesse impostazioni teoriche poste a base del codice del '42).
L'attuale impostazione, sia dottrinaria che giurisprudenziale, (che nelle sue manifestazioni più avanzate
concepisce l'area della responsabilità civile come sistema di responsabilità sempre più spesso oggettiva, diretto a
realizzare una tecnica di allocazione dei danni secondo i principi della teoria dell'analisi economica del diritto)
evidenzia come risulti primaria l'esigenza (oltre che consolatoria) di riparazione (e redistribuzione tra i consociati,
in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.) dei pregiudizi delle vittime di atti illeciti, con
la conseguenza che il momento centrale del sistema è rappresentato dal danno, inteso come "perdita cagionata da
una lesione di una situazione giuridica soggettiva " (Corte cost. n. 372 del 1994). Nel caso di morte cagionata
da atto illecito, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico "vita" che
costituisce bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere
reintegrato per equivalente (…). La morte, quindi, non rappresenta la massima offesa possibile del
diverso bene "salute", pregiudicato dalla lesione dalla quale sia derivata la morte, diverse essendo,
ovviamente, le perdite di natura patrimoniale o non patrimoniale che dalla morte possono derivare ai
congiunti della vittima, in quanto tali e non in quanto eredi (…). E poichè una perdita, per
rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a
far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo
dalle lesioni personali, l'irrisarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso, come ritenuto
da Cass. n. 6938 del 1998, poichè, come esattamente rilevato dalla sentenza n. 4991 del 1996, ciò di cui si discute
è il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in
cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo
credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (Cass. n. 4991 del 1996).
E' questo l'argomento che la dottrina definisce "epicureo", in quanto riecheggia le affermazioni di Epicuro
contenute nella Lettera sulla felicità a Meneceo ("Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi,
perchè quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla,
per i vivi come per i morti: perchè per i vivi essa non c'è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi
stessi a non esserci") e che compare nella già indicata sentenza delle sezioni unite n. 3475 del 1925 ed è condiviso
dalla sentenza della Corte costituzionale n. 372 del 1994, - che ha escluso la contrarietà a Costituzione
dell'interpretazione degli articoli 2043 e 2059 c.c. secondo cui non sono risarcibili iure hereditatis i danni
derivanti dalla violazione del diritto alla vita, potendo giustificarsi, sulla base del sistema della responsabilità civile,
solo le perdite derivanti dalla violazione del diritto alla salute che si verificano a causa delle lesioni, nel periodo
intercorrente tra le stesse e la morte - e dalla costante giurisprudenza successiva di questa Corte.
3.3. La negazione di un credito risarcitorio della vittima, trasmissibile agli eredi, per la perdita della vita, seguita
immediatamente o a brevissima distanza di tempo dalle lesioni subite, è stata ritenuta contrastante con la
coscienza sociale alla quale rimorderebbe che la lesione del diritto primario alla vita fosse priva di conseguenze
sul piano civilistico (Cass. n. 1361 del 2014), anche perchè, secondo un'autorevole dottrina, se la vita è oggetto di
un diritto che appartiene al suo titolare, nel momento in cui viene distrutta, viene in considerazione solo come
bene meritevole di tutela nell'interesse dell'intera collettività.
Ora, in disparte che la corrispondenza a un'indistinta e difficilmente individuabile coscienza sociale, se può avere
rilievo sul piano assiologico e delle modifiche normative, più o meno auspicabili, secondo le diverse opzioni
culturali, non è criterio che possa legittimamente guidare l'attività dell'interprete del diritto positivo, deve rilevarsi
che, secondo l'orientamento che queste sezioni unite intendono confermare, la morte provoca una perdita, di
natura patrimoniale e non patrimoniale, ai congiunti che di tal perdita sono risarciti, mentre non si comprende la
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ragione per la quale la coscienza sociale sarebbe soddisfatta solo se tale risarcimento, oltre che ai congiunti (per
tali intendendo tutti i soggetti che, secondo gli orientamenti giurisprudenziali attuali, abbiano relazioni di tipo
familiare giuridicamente rilevanti, con la vittima) per le perdite proprie, fosse corrisposto anche agli eredi (e in
ultima analisi allo Stato). Come è stato osservato (Cass. n. 6754 del 2011), infatti, pretendere che la tutela
risarcitoria "sia data anche al defunto corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire
più denaro ai congiunti".
Coglie il vero, peraltro, il rilievo secondo cui oltre che oggetto di un diritto del titolare, insuscettibile di tutela per
il venir meno del soggetto nel momento stesso in cui sorgerebbe il credito risarcitorio, la vita è bene meritevole
di tutela nell'interesse della intera collettività, ma tale rilievo giustifica e anzi impone, come è ovvio, che sia
prevista la sanzione penale, la cui funzione peculiare è appunto quella di soddisfare esigenze punitive e di
prevenzione generale della collettività nel suo complesso, senza escludere il diritto ex art. 185 c.p., comma 2, al
risarcimento dei danni in favore dei soggetti direttamente lesi dal reato, ma non impone necessariamente anche il
riconoscimento della tutela risarcitoria di un interesse che forse sarebbe più appropriato definire generale o
pubblico, piuttosto che collettivo, per l'evidente difficoltà, tutt'ora esistente per quanto riguarda la tutela
giurisdizionale amministrativa, di individuare e circoscrivere l'ambito della "collettività" legittimate a invocare la
tutela.
3.4. Ulteriore rilievo, frequente in dottrina, è che sarebbe contraddittorio concedere onerosi risarcimenti dei
danni derivanti da lesioni gravissime e negarli del tutto nel caso di illecita privazione della vita, con ciò
contraddicendo sia il principio della necessaria integralità del risarcimento che la funzione deterrente che
dovrebbe essere riconosciuta al sistema della responsabilità civile e che dovrebbe portare a introdurre anche nel
nostro ordinamento la categoria dei danni punitivi.
L'argomento ("è più conveniente uccidere che ferire"), di indubbia efficacia retorica, è in realtà solo suggestivo,
perchè non corrisponde al vero che, ferma la rilevantissima diversa entità delle sanzioni penali, dall'applicazione
della disciplina vigente le conseguenze economiche dell'illecita privazione della vita siano in concreto meno
onerose per l'autore dell'illecito di quelle che derivano dalle lesioni personali, essendo indimostrato che la sola
esclusione del credito risarcitorio trasmissibile agli eredi, comporti necessariamente una liquidazione dei danni
spettanti ai congiunti di entità inferiore.
Peraltro è noto che secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 132 del 1985, n. 369 del 1996, n. 148
del 1999) il principio dell'integrale risarcibilità di tutti i danni non ha copertura costituzionale ed è quindi
compatibile con l'esclusione del credito risarcitorio conseguente alla stessa struttura della responsabilità civile
dalla quale deriva che il danno risarcibile non può che consistere che in una perdita che richiede l'esistenza di un
soggetto che tale perdita subisce.
Del pari non appare imposta da alcuna norma o principio costituzionale un obbligo del legislatore di
prevedere che la tutela penale sia necessariamente accompagnata da forme di risarcimento che
prevedano la riparazione per equivalente di ogni perdita derivante da reato anche quando manchi un
soggetto al quale la perdita sia riferibile.
Da quanto già rilevato, inoltre, la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile da
quella penale ha comportato l'obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza (…) e
l'affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria), tanto che si è ritenuto non
delibabile, per contrarietà all'ordine pubblico interno, la sentenza statunitense di condanna al
risarcimento dei danni "punitivi" (…), i quali si caratterizzano per un'ingiustificata sproporzione tra
l'importo liquidato ed il danno effettivamente subito.
3.5. Pur non contestando il principio pacificamente seguito dalla giurisprudenza di questa Corte (in adesione a
un'autorevole dottrina e in conformità con quanto affermato da Corte cost. n. 372 del 1994) secondo il quale i
danni risarcibili sono solo quelli che consistono nelle perdite che sono conseguenza della lesione della situazione
giuridica soggettiva e non quelli consistenti nell'evento lesivo, in sè considerato, si è affermato con la sentenza n.
1361 del 2014 che il credito risarcitorio del danno da perdita della vita si acquisirebbe istantaneamente al
momento dell'evento lesivo che, salvo rare eccezioni, precede sempre cronologicamente la morte cerebrale,
ponendosi come eccezione a tale principio della risarcibilità dei soli "danni conseguenza".
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Ma, a parte che l'ipotizzata eccezione alla regola sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del
principio e, comunque, sarebbe difficilmente conciliabile con lo stesso sistema della responsabilità civile, fondato
sulla necessità ai fini risarcitori del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto, l'anticipazione del
momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione
tra il "bene salute" e il "bene vita" sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza
costituzionale e di legittimità.
Peraltro, se tale anticipazione fosse imposta dalla difficoltà di quantificazione del lasso di tempo intercorrente tra
morte (da intendersi sempre processo mortale e non come evento istantaneo) e lesione, necessario a far sorgere
nel patrimonio della vittima il credito risarcitorio, sarebbe facile osservare, da un lato, che da punto di vista
giuridico è sempre necessario individuare un momento convenzionale di conclusione del processo mortale, come
descritto dalla scienza medica, al quale legare la nascita del credito, e dall'altro, che l'individuazione dell'intervallo
di tempo tra morte e lesione, rilevante ai fini del riconoscimento del credito risarcitorio, è operazione
ermeneutica certamente delicata e che presenta margini di incertezza, ma del tutto conforme a quella che il
giudice è costantemente impegnato ad operare quando è costretto a fare applicazione di concetti generali e
astratti.
(omissis)