Dispensa di diritto civile 4 - corsolexfor.it. CIVILE - Obbligazioni... · LE SEZIONI UNITE SULLE...
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A cura del cons. Francesco Caringella
Dispensa di diritto civile 4
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Obbligazioni pecuniarie, solidali e di garanzia.
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Indice
1. LA NUOVA ESSENZA VALORISTICA DELLE OBBLIGAZIONI
PECUNIARIE (SU ASSEGNO CIRCOLARE): Cass. Sez. Un. 18 dicembre 2007, n.
26617
2. IL LUOGO DI ADEMPIMENTO DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE.
RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE: Cass. ord. 17 novembre 2015, n. 23527
3. IL NUOVO REGIME PROBATORIO DI CUI ALL'ARTICOLO 1224,
COMMA 2 C.C.
3.1 Cass. Sez. Un. 16 luglio 2008, n. 19499
3.2 Cass.24 gennaio 2014, n.1506
4. LE SEZIONI UNITE FANNO IL PUNTO SULL'ANATOCISMO: Cass. Sez.
Un. 4 novembre 2004, n.21095
5. USURA E INTERESSI MORATORI
5.1 Cass. 9 gennaio 2013, n. 350
5.2 Trib. Parma 25 luglio 2014
5.3 Trib. Napoli 15 aprile 2014
6. OBBLIGAZIONI SOLIDALI E CONDOMINIO
6.1 Cass. Sez. Un. 8 aprile 2008 n.9148
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6.2 Cass. 29 gennaio 2015, n. 1674
7. LE SEZIONI UNITE SULLE OBBLIGAZIONI SOLIDALI IN TEMA DI
ILLECITO AQUILANO: Cass. Sez. Un. 15 luglio 2009, n. 16503
8. TRANSAZIONE E OBBLIGAZIONI SOLIDALI: Cass. Sez. Un. 30 dicembre
2011, n. 30174
9. LE COORDINATE DEL CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA:
Cass. Sez. Un. 18 febbraio 2010, n. 3947
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Selezione giurisprudenziale
1. LA NUOVA ESSENZA VALORISTICA DELLE OBBLIGAZIONI
PECUNIARIE (SU ASSEGNO CIRCOLARE): Cass. Sez. Un. 18 dicembre
2007, n. 26617
Nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia inferiore a 12.500 euro o per le quali non sia imposta per
legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente
corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare; nel primo caso il creditore non può
rifiutare il pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato motivo da valutare secondo la
regola della correttezza e della buona fede oggettiva; l'estinzione dell'obbligazione con l'effetto liberatorio
del debitore si verifica nel primo caso con la consegna della moneta e nel secondo quando il creditore
acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio
dell'inconvertibilità dell'assegno.
2. Il motivo pone la questione se nelle obbligazioni pecuniarie abbia efficacia estintiva solo il pagamento
in moneta contante, oppure anche mediante consegna di assegni circolari.
La questione si risolve in quella se il creditore possa rifiutare senza giustificato motivo il pagamento che il
debitore intenda effettuare con assegni circolari e pretendere che avvenga con la corresponsione di
denaro contante, pena l'inadempimento e gli effetti conseguenti di "mora debendi".
Il tema dell'indagine è quindi il carattere obbligatorio della modalità del pagamento con dazione di
moneta avente corso legale e correlativamente la rifiutabilità di mezzi alternativi di pagamento.
(omissis)
3. Secondo l'orientamento largamente prevalente nella giurisprudenza di questa Corte l'invio di assegni
circolari o bancari da parte del debitore obbligato al pagamento di somme di denaro si configura come
"datio in solutum" o più precisamente come proposta di "datio pro solvendo", la cui efficacia
liberatoria dipende dal preventivo assenso del creditore (che può manifestarsi anche con comportamento
concludente) ovvero dalla sua accettazione che è ravvisabile quando trattenga e riscuota l'assegno; in tale
ipotesi la prestazione diversa da quella dovuta è da ritenere accettata con riserva, quanto al definitivo effetto
liberatorio, dell'esito della condizione "salvo buon fine" o "salvo incasso" inerente all'accettazione di un credito
anche cartolare, in pagamento dell'importo dovuto in numerario.
3.1. L'orientamento risale alla sentenza 22.7.1973, n. 2200, ed è stato seguito dalle sentenze 14.4.1975, n. 1412;
3.7.1980, n. 4205; 5.1.1981, n. 24; 16.2.1982, n. 971; 8.1.1987, n. 17; 19.7.1993, n. 8013; 3.2.1995, n. 1326;
3.4.1998, n. 3427; 21.12.2002, n. 18240; 10.2.2003, n. 1939; 10.6.2005, n. 12324; 14.2.2007, n. 3254.
La sua più completa espressione è nella sentenza 10.6.2005, n. 12324, il cui "iter" argomentativo si articola nelle
seguenti proposizioni.
Il dato letterale dell'art. 1277, comma 1, c.c. comporta che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente
corso legale; sebbene l'assegno sia bancario che circolare costituisca, a differenza della cambiale, mezzo di
pagamento, la consegna o trasmissione di esso, salva diversa volontà delle parti, si intende fatta "pro solvendo" e
non "pro soluto" con esclusione dell'immediato effetto estintivo del debito; l'invio di assegno circolare in luogo
della somma di denaro configura violazione sia degli artt. 1277 e 1197 c.c. (rappresentando una "datio pro
solvendo" in assenza di consenso del creditore) che dell'art. 1182 c.c. (secondo il quale l'obbligazione avente ad
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oggetto denaro deve essere adempiuta al domicilio del creditore) in quanto comporta la sostituzione del
domicilio del creditore con la sede dell'istituto bancario presso cui è riscuotibile l'assegno; l'art. 1277 c.c. è norma
derogabile che cessa di operare, rendendo inapplicabile il principio secondo cui il creditore di somme di denaro
non è tenuto ad accettare in pagamento titoli di credito anche se assistiti da particolari garanzie di solvibilità
dell'emittente come gli assegni circolari, quando esista una manifestazione di volontà espressa o presunta del
creditore in tale senso; non si può ritenere che la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo al pagamento
in contanti, estingue l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che
gli impongono di prestare la sua collaborazione ai sensi dell'art. 1175 c.c. in quanto la collaborazione è dovuta
solo per ricevere l'oggetto della prestazione e non un oggetto diverso; i principi sopra esposti valgono se il debito
pecuniario non supera l'importo di euro 12.500; se lo supera vige una particolare disciplina (d.l. 143/1991
convertito in L. 197/1991) che conserva, tuttavia, piena valenza all'art. 1227.
3.2. Il concetto fondamentale è che l'adempimento dell'obbligazione pecuniaria avviene attraverso il
trasferimento della moneta contante attuato con la consegna materiale di pezzi monetari nelle mani del creditore.
L'obbligazione pecuniaria è assimilata al debito di dare una quantità di cose fungibili (i pezzi
monetari).
La titolarità della disponibilità monetaria è collegata al possesso e la sua circolazione importa la dazione di pezzi
monetari considerati quali cose da trasferire in proprietà al creditore.
Come è stato osservato, l'adempimento con denaro contante realizza l'attribuzione della moneta al creditore con
gli strumenti del terzo libro del codice civile attraverso le categorie del possesso e della proprietà.
4. Secondo altro orientamento assolutamente minoritario nella giurisprudenza di questa Corte la consegna
di assegni circolari, pur non equivalendo a pagamento a mezzo somme di denaro, estingue
l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che gli
impongono di prestare collaborazione all'adempimento dell'obbligazione a norma dell'art. 1175 c.c.
Sono espressive di questo orientamento le sentenze 16.2.1998, n. 1351; 7.7.2003, n. 10695.
L'orientamento è motivato considerando che gli assegni circolari in ragione delle modalità di emissione
assicurano al legittimo portatore il conseguimento della somma di denaro indicata. Sebbene essi non siano
denaro né possano svolgerne la funzione, la facilità della circolazione e la sicurezza della convertibilità in denaro
possono rendere contrario a buona fede e quindi illegittimo il loro rifiuto da parte del creditore.
Pertanto, se il creditore non ha un apprezzabile interesse a ricevere il denaro contante né ha ragione di
dubitare della regolarità ed autenticità degli assegni, la consegna di essi estingue l'obbligazione di
pagamento sia pure con la clausola implicita del buon fine.
L'obiezione che il creditore deve recarsi presso la banca per riscuotere l'assegno, mentre di regola ha
diritto di ricevere la prestazione al suo domicilio, è superata con il riferimento alla crescente considerazione
sociale degli assegni circolari e con il fatto che normalmente il creditore ha un conto bancario sul quale deposita
denaro e titoli.
4.1. La valutazione si sposta dal comportamento del debitore a quello del creditore ed ha come oggetto la verifica
della legittimità del rifiuto del pagamento a mezzo assegno circolare alla luce del principio della correttezza e della
buona fede oggettiva.
Il principio, desunto dall'art. 1175 (che impone l'obbligo di comportarsi secondo le regole della correttezza) e
dall'art. 1375 c.c. (che stabilisce che il contratto deve essere eseguito secondo buona fede), costituisce il limite
oltre il quale il rifiuto del creditore diventa illegittimo ed il pagamento con assegno circolare spiega efficacia
solutoria salvo buon fine.
Con tale impostazione si introduce nel meccanismo estintivo dell'obbligazione pecuniaria il principio
della correttezza e della buona fede nella prospettiva di adeguare il dato normativo alle esigenze della
realtà concreta dove la circolazione del denaro a mezzo assegni circolari garantisce maggiore sicurezza
e celerità, svincolandola da un aggancio a substrati fisici.
4.2. In dottrina si è osservato che sulla base del criterio della correttezza dell'adempimento si possono
raggiungere i medesimi risultati dell'ordinamento tedesco che al § 362 del BGB stabilisce il principio che il
rapporto obbligatorio si estingue quando la prestazione dovuta ha efficacia per il creditore e, cioè, quando si è
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definitivamente consolidata nel patrimonio dello stesso; questo principio ha consentito alla giurisprudenza
tedesca di affermare che il pagamento eseguito mediante mezzi alternativi (nel caso mediante bonifico bancario)
diventa definitivamente efficace per il creditore quando la somma di denaro entra nella sua piena e libera
disponibilità (BGH 28.10.1998 in Neue Juristiche Wochenschrift, 1999, 210).
4.3. Costituisce riflesso dell'orientamento minoritario l'affermazione contenuta nella sentenza di questa Corte
6.9.2004, n. 17961, secondo la quale l'assegno circolare è considerato a tutti gli effetti equivalente al denaro
contante, per cui il pagamento effettuato tramite la consegna di tale assegno estingue immediatamente
l'obbligazione.
Si tratta, peraltro, di un "obiter" privo di supporto giustificativo.
Contiene una chiara esposizione dell'orientamento la sentenza 19.5.2006, n. 11851, laddove rileva che questa
Corte non ha affermato che l'assegno circolare costituisce un mezzo di pagamento, ma soltanto che il rifiuto di
esso nei rapporti tra debitore e creditore può essere contrario al principio di buona fede, stante la sicurezza del
buon fine ed il minimo aggravio per il creditore, pur senza prendere posizione sulla questione ed anzi
confermando che l'assegno circolare rimane un titolo di credito con tutte le conseguenze che ne derivano in base
alla legge sulla circolazione del titolo.
Condivide l'orientamento minoritario la sentenza 19.12.2006, n. 27158, secondo la quale, se è vero che la
consegna di un assegno circolare al creditore non equivale alla consegna di denaro contante, è altrettanto vero
che, costituendo l'assegno circolare un mezzo di pagamento e non sussistendo alcun pericolo di mancanza della
provvista presso la banca obbligata al pagamento, la "datio" di tale assegno secondo gli usi negoziali, come è
prassi per i pagamenti delle società di assicurazione o, comunque, come accettata dal creditore, è sicuramente
idonea ad estinguere l'obbligazione senza che occorra un preventivo accordo delle parti in tale senso o il rilascio
di una quietanza liberatoria.
5. Nella dottrina più recente prevale la tesi che la regola, secondo la quale il denaro contante è l'unico mezzo
legale di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, va "scardinata" e va riconosciuta efficacia solutoria a mezzi
alternativi di pagamento che eliminano il trasferimento materiale di moneta, come l'assegno circolare, dovendosi
intendere per "somma di denaro" la funzione ideale del mezzo monetario.
In questo ambito si distingue fra moneta scritturale incentrata sulle scritturazioni bancarie, che riposa in
definitiva sulla garanzia che offrono le banche, ed altri sistemi di pagamento, come la cambiale, precisandosi che
l'effetto satisfattorio si realizza con la creazione della disponibilità monetaria a favore del creditore.
L'idea di fondo è la smaterializzazione del denaro con trasformazione del diritto reale sui pezzi monetari
in diritto di credito ad una determinata somma di denaro.
Nella prospettiva della smaterializzazione il principio nominalistico (in base al quale il debitore si libera dal
proprio debito con una quantità di moneta corrispondente a quella "nominalmente" dovuta a prescindere dalle
variazioni del suo potere di acquisto) riguarda la disciplina dei mezzi di pagamento e, cioè, la determinazione
della quantità della somma da offrire in pagamento e non la qualità dei mezzi di pagamento.
La linea di tendenza è verso l'eliminazione degli spostamenti di moneta contante, oltre che per esigenze
di semplificazione della tecnica dei pagamenti (evitando l'impiego di notevoli quantità di numerario), perché la
custodia, la circolazione e lo scambio attraverso moneta contante sono valutati inefficienti ed insicuri
specialmente per importi rilevanti.
L'adempimento dell'obbligazione pecuniaria è inteso non come atto materiale di consegna della
moneta contante, bensì come prestazione diretta all'estinzione del debito, nella quale le parti debbono
collaborare osservando un comportamento da valutare per il creditore secondo la regola della
correttezza e per il debitore secondo la regola della diligenza.
Ove avvenga con mezzi diversi, l'adempimento si può considerare efficace e liberatorio solo quando realizza i
medesimi effetti del pagamento per contanti e, cioè, quando pone il creditore nelle condizioni di disporre
liberamente della somma di denaro, senza che rilevi se la disponibilità sia riconducibile ad un rapporto di credito
verso una banca presso la quale la somma sia stata accreditata.
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Si è osservato che nell'ordinamento manca una regola di parificazione della moneta avente corso legale a quella
scritturale; tale regola si può, però, desumere da un'abbondante legislazione speciale che si inserisce nella generale
tendenza alla decodificazione caratteristica dell'epoca attuale.
6.1. Nell'interpretazione della normativa codicistica sul sistema di pagamento dei debiti pecuniari non si può
prescindere dai numerosi interventi legislativi infittitisi negli ultimi tempi che hanno introdotto sistemi
alternativi, rendendoli frequentemente obbligatori.
In questo ambito assumono particolare rilievo il d.l. 3.5.1991, n. 143, convertito con modificazioni in L. 5.7.1991,
n. 197, che pone il divieto di effettuare pagamenti mediante trasferimento di denaro contante e titoli al portatore
per somme superiori ad euro 12.500, ed il d. l. 4.7.2006, n. 223, convertito con modificazioni in L. 4.8.2006, n.
248, secondo cui i compensi in denaro per l'esercizio di arti e professioni sono riscossi esclusivamente mediante
assegni non trasferibili o bonifici o altre modalità di pagamento bancario o postale nonché mediante sistemi di
pagamento elettronici, salvo che per importi inferiori ad euro 100.
A seguito di questi interventi l'area di applicazione della normativa codicistica si è a tal punto ristretta che il
sistema di pagamento da essa previsto è diventato addirittura marginale.
Né vale l'osservazione che siccome il d.l. 143/1991 conserva valenza all'art. 1277 c.c. il creditore ha il diritto di
pretendere il pagamento in moneta avente corso legale, sia pure attraverso l'intermediario abilitato che subentra
nella posizione del debitore (Cass. 10.6.2005, n. 12324), in quanto la convertibilità in denaro è tipica di qualsiasi
sistema alternativo di pagamento, con la precisazione che il rischio di convertibilità e, cioè, l'eventualità che la
banca non sia in grado di garantire la conversione in moneta legale dipende in definitiva dal grado di affidabilità
della banca.
6.2. La disciplina del sistema codicistico di pagamento delle obbligazioni pecuniarie è contenuta negli artt. 1277,
1182, 1197 c.c.
6.3. Come già detto, l'interpretazione dell'art. 1277 privilegiata dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte è
che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato ed il creditore può rifiutare
qualsiasi altro mezzo di pagamento, compreso l'assegno circolare che pure è assistito da una particolare
affidabilità e sicurezza in relazione alle modalità di emissione.
In dottrina si è osservato che l'art. 1277 non riguarda le modalità di pagamento, ma il sistema valutario nazionale
e la necessità, quindi, che i mezzi monetari impiegati si riferiscano ad esso, evidenziando che secondo la
concezione moderna il denaro è unità ideale di valore cui l'ordinamento attribuisce la funzione di unità di misura
dei valori monetari o secondo una concezione più raffinata "ideal unit", astratta unità ideale monetaria creata
dallo Stato.
6.4. Considerato che nell'ambiente socio-economico l'assegno circolare e quello bancario costituiscono
mezzi normali di pagamento; che la circolazione del denaro tende a realizzarsi con strumenti sempre più
sofisticati affrancati dalla consegna materiale di numerario per ragioni di sicurezza e velocizzazione dei rapporti;
che collateralmente alla disciplina codicistica è cresciuta una legislazione che ha introdotto sistemi alternativi di
pagamento, rendendoli spesso obbligatori, si impone un'interpretazione evolutiva, costituzionalmente orientata,
dell'art. 1277 che superi il dato letterale e, cogliendone l'autentico senso, lo adegui alla mutata realtà.
6.5. Si ritiene, pertanto, che l'espressione "moneta avente corso legale nello Stato al momento del
pagamento" significa che i mezzi monetari impiegati si debbono riferire al sistema valutario nazionale,
senza che se ne possa indurre alcuna definizione della fattispecie del pagamento solutorio.
Ed in altri termini la moneta avente corso legale non è l'oggetto del pagamento che è rappresentato dal valore
monetario o quantità di denaro.
6.6. Con questa interpretazione dell'art. 1277 risultano ammissibili altri sistemi di pagamento, purché
garantiscano al creditore il medesimo effetto del pagamento per contanti e, cioè, forniscano la disponibilità della
somma di denaro dovuta.
Tale effetto sicuramente produce l'assegno circolare con il quale, stante la precostituzione della provvista, tramite
l'intermediazione di una banca si realizza il trasferimento della somma di denaro con la messa a disposizione del
creditore.
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Il rischio di convertibilità e, cioè, l'eventualità che per qualsiasi ragione la banca non sia in grado di assicurare la
conversione dell'assegno in moneta legale rimane a carico del debitore, il quale si libera solo con il buon fine
dell'operazione.
6.7. Occorre precisare che lo schema della "datio pro solvendo" con l'applicazione della regola stabilita dall'art.
1197 c.c. rimane estraneo all'impiego del mezzo alternativo di adempimento in quanto la moneta avente corso
legale non è l'oggetto del pagamento, costituito dal valore monetario o quantità di denaro, per cui tale mezzo non
è niente altro che una diversa modalità di adempimento.
Diversamente opinando, si perverrebbe alla inaccettabile conclusione che sistemi diversi di pagamento, imposti
per somme superiori a 12.500 euro, non siano ammessi per somme inferiori.
6.8. La raggiunta conclusione non trova ostacolo nell'art. 1182 c.c. sul luogo dell'adempimento.
Vale in proposito considerare che l'obbligazione pecuniaria non è assimilabile all'obbligazione di dare cose
fungibili, sicché non risulta perfettamente adattabile lo schema di tale tipo di obbligazione, mentre assume
rilevanza l'interesse del creditore alla giuridica disponibilità della somma invece che al possesso dei pezzi
monetari.
In questa prospettiva il concetto di domicilio del creditore non coincide con il suo domicilio anagrafico
soggettivamente riconducibile alla persona fisica, ma deve essere oggettivizzato e può individuarsi nella sede
(filiale, agenzia o altro) della banca presso la quale il creditore ha un conto.
6.9. Mentre se il debitore paga in moneta avente corso legale il debito pecuniario di importo inferiore ad euro
12.500 o per il quale non sia imposta una diversa modalità di pagamento, il creditore non può rifiutare il
pagamento e l'effetto liberatorio si verifica al momento della consegna della somma di denaro, se il debitore paga
con assegno circolare o con altro sistema che assicuri ugualmente la disponibilità della somma dovuta, il creditore
può rifiutare il pagamento solo per giustificato motivo che deve allegare ed all'occorrenza anche provare; in
questo caso l'effetto liberatorio si verifica quando il creditore acquista la concreta disponibilità della somma.
La valutazione del comportamento del creditore va fatta in base alla regola della correttezza e della buona fede
oggettiva.
7. Il contrasto va, pertanto, risolto nel senso che "nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia inferiore a
12.500 euro o per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha
facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di
assegno circolare; nel primo caso il creditore non può rifiutare il pagamento, come, invece, può nel
secondo solo per giustificato motivo da valutare secondo la regola della correttezza e della buona fede
oggettiva; l'estinzione dell'obbligazione con l'effetto liberatorio del debitore si verifica nel primo caso
con la consegna della moneta e nel secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità
giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell'inconvertibilità dell'assegno".
2. IL LUOGO DI ADEMPIMENTO DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE.
RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE: Cass. ord. 17 novembre 2015, n. 23527
La Sezione Sesta ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite di un
ricorso involgente la questione – oggetto di contrasto – se, ai fini della competenza territoriale, ove il
contratto non predetermini l’importo del corrispettivo e questo sia autodeterminato dal creditore nell’atto
introduttivo del giudizio, il “forum destinatae solutionis” sia presso il domicilio del creditore (art. 1182,
comma 3, c.c.) o presso il domicilio del debitore (art. 1182, comma 4, c.c.).
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Il Collegio non può che rilevare l'esistenza di un contrasto, nella giurisprudenza delle sezioni civili, a proposito
dell'applicazione del criterio di competenza fissato nei commi 3 e 4 dell'art. 1182 c.c., disposizione secondo la
quale “L'obbligazione avente per oggetto una somma, di danaro deve essere adempiuta al domicilio che il
creditore ha, al tempo della, scadenza. Se tale domicilio è diverso da quello che il creditore aveva quando è sorta
l'obbligazione e ciò rende più gravoso l'adempimento, il debitore, previa dichiarazione al creditore, ha diritto di
eseguire il pagamento al proprio domicilio.
Negli altri casi l'obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza”.
È infatti innegabile che secondo la giurisprudenza citata dalla requisitoria e dal ricorso è irrilevante che la
prestazione richiesta non sia convenzionalmente prestabilita, essendo sufficiente che l'attore abbia agito per il
pagamento di una somma da esso puntualmente indicata.
Altra parte della giurisprudenza considera invece che quando la somma deve essere ancora determinata dalle
parti, o, in loro sostituzione, liquidata dal giudice, mediante indagini ed operazioni diverse dal semplice calcolo
aritmetico, trova applicazione il quarto comma dell'art. 1182, secondo cui l'obbligazione deve essere adempiuta al
domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza (Cass. 22326/07).
Il foro del creditore ex art. 1182 terzo comma potrebbe operare solo nel caso di somma già contrattualmente
determinata nel suo ammontare.
Il Collegio ritiene che sia insita in queste posizioni una linea di contrasto circa il concetto di obbligazione
pecuniaria rilevante ex art. 1182 terzo comma, linea di contrasto che ha trovato talora una via di fuga nel rilievo
che ai fini della competenza occorre avere riguardo ai fatti per come prospettati dall'attore, prescindendo della
fondatezza delle contestazioni formulate dal convenuto o comunque concernenti il merito della causa.
Pare opportuno che la questione sia rimessa alle Sezioni Unite affinché, su una questione di massima che involge
un contenzioso di considerevole portata, venga fatta chiarezza, stabilendo se sia applicabile l'art. 1182 c.c. comma
terzo qualora nel contratto non risulti predeterminato l'importo del corrispettivo di una prestazione, ma tale
importo venga autodeterminato dall'attore nell'atto con cui fa valere la propria pretesa creditoria.
3. IL NUOVO REGIME PROBATORIO DI CUI ALL'ARTICOLO 1224,
COMMA 2 C.C.
3.1 Cass. Sez. Un. 16 luglio 2008, n. 19499
Nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno
di cui all'art. 1224, comma 2, cod. civ. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali
che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi
il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle categorie a suo
tempo individuate -, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del
rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi
legali determinato per ogni anno ai sensi del primo comma dell'art. 1284 cod. civ.;
è fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo
ha subito in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della
somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata;
il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad
offrire la prova del danno effettivamente subito, quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e
completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il ricorso al credito
bancario sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei propri investimenti;
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in entrambi i casi la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni
dell'impresa ed all'entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito
bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo si
sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma
sarebbe stata impiegata utilmente nell'impresa.
2. Conviene allora, in vista della soluzione del problema del quale queste sezioni unite sono investite, ripercorrere
la storia dell'evoluzione della giurisprudenza in ordine alla prova del danno da svalutazione monetaria nelle
obbligazioni pecuniarie.
Con la fondamentale sentenza n. 3776/79 (pres. Novelli, est. Scanzano, seguita dalla conforme n. 5572/79) le
sezioni unite predicarono la liberalizzazione più ampia possibile nel rispetto dei principi tradizionali un anno
prima affermati da Cass., n. 4463/77; principi intanto disattesi da Cass., n. 5670/78, la quale aveva
sostanzialmente ritenuto - secondo i commenti fortemente critici della dottrina prevalente - che, insorta la mora
debendi, le obbligazioni di valuta dovessero essere trattate come quelle di valore, sicché la somma
originariamente dovuta "andava necessariamente rivalutata alla stregua di indici pubblicizzati di sicura
attendibilità".
Fu dunque ribadito che nei debiti originariamente pecuniari, per i quali vale il principio nominalistico, la
svalutazione monetaria verificatasi durante la mora non giustifica alcun risarcimento automatico che
possa essere attuato con la rivalutazione della somma dovuta. Ma si affermò anche che non ha bisogno di
essere provato il fatto che il denaro è destinato ad essere impiegato nell'acquisto di beni o servizi o comunque in
forme remunerative; che risponde infatti alla natura della moneta che essa è non solo la misura dei valori ma è
strumento di scambio, dotata appunto di valore nella misura in cui viene adoperata a questo scopo; che il
prudente apprezzamento del giudice in ordine alle presumibili modalità di impiego può essere formato
eventualmente anche con valutazioni equitative, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ.; che, infine, l'orientamento
tradizionale andava rimeditato anche "perché non dà adeguato rilievo a presunzioni di ordine oggettivo", che
furono ricollegate all'appartenenza del creditore ad una delle categorie creditorie di cui appresso.
Le sezioni unite si pronunciarono nuovamente negli anni successivi con le sentenze nn. 2318/83, 2564/84 e
2368/86 (pres. Tamburrino, est. Cantillo), l'ultima delle quali dette spazio ai cosiddetti "criteri personalizzati di
normalità", riaffermando che nelle obbligazioni pecuniarie il danno da svalutazione non si identifica col
fenomeno inflattivo e che incombe pertanto al creditore dimostrare che il pagamento tempestivo lo avrebbe
messo in condizione di evitare o limitare gli effetti economici depauperatori che l'inflazione produce per tutti i
possessori di denaro; ma chiarendo anche che tanto il creditore può fare avvalendosi di presunzioni e dati
economici acquisiti dalla comune esperienza e riferiti a categorie economiche socialmente significative
("imprenditore", risparmiatore abituale", "creditore occasionale", "modesto consumatore" "o altre
enucleabili in relazione a più particolari modalità di impiego del denaro").
Con specifico riguardo alla categoria del creditore esercente attività imprenditoriale si affermò che possono
essere fatte valere presunzioni di due tipi: a) quelle connesse con il normale impiego del denaro nel ciclo
produttivo, per cui l'esistenza e l'ammontare approssimativo del danno possono essere desunti dal risultato
medio dell'attività in un certo periodo, come suggerito dalle sentenze del 1979; b) quelle connesse al costo del
denaro, precisamente allo scarto fra interesse legale e tasso di mercato dell'interesse praticato dalle banche alla
migliore clientela per il credito a breve termine (prime rate), con la precisazione che tale criterio ha carattere
primario, perché attiene al danno emergente, è altresì ancorato ad un parametro certo di facile rilevazione e,
soprattutto, è l'unico possibile per un'azienda che non produca utile, ma sia in pareggio o in perdita, non
essendovi allora un guadagno cui commisurare la presumibile entità della somma mancata (così la motivazione,
sub 9).
Conclusero le Sezioni unite che, pertanto, l'altro criterio risulta applicabile solo quando l'imprenditore
espressamente deduca il mancato guadagno; ed affermarono "che l'onere probatorio, pur non potendosi attestare
alla qualità professionale, si atteggia diversamente per ciascuno dei due criteri ritenuti più appropriati per questa
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figura: in relazione al criterio del maggior costo del denaro, il creditore deve dimostrare di trovarsi in condizioni
atte a presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito; in relazione al
criterio del mancato guadagno, invece, è tenuto a fornire gli elementi necessari a stabilire la redditività del denaro
investito nell'impresa, sicché la prova - basata in gran parte su vicende proprie della singola impresa - spesso
presenta maggiore complessità" (sub. 13, lettera b, della motivazione). Non affermarono, dunque, che
l'imprenditore era tenuto a provare di aver fatto ricorso al finanziamento delle banche durante la mora, ma si
riferirono genericamente alla dimostrazione di "condizioni atte a presumere".
Criteri specifici furono fissati anche per il "risparmiatore abituale", per il "creditore occasionale" e per il
"modesto consumatore":
- si disse che al primo faceva carico l'onere di allegare e dimostrare la qualità degli investimenti abitualmente
effettuati, sicché la presunzione operava in riferimento all'uguale destinazione che egli avrebbe dato alla somma
non pagata ed all'ammontare del relativo reddito (interessi di titoli di Stato, rendimento di azioni, etc.);
- si ritenne che, per il secondo, era consentito presumere l'impiego mediante deposito presso istituti di credito,
con conseguente commisurazione del danno alla remunerazione media dei depositi nel periodo di mora;
- si affermò per il terzo che, essendo presumibile che egli avrebbe destinato la somma alla immediata
soddisfazione dei propri bisogni familiari e personali, così realizzando la moneta al suo valore attuale e
conseguentemente sottraendosi agli effetti depauperativi della svalutazione, era del tutto appropriato il
riferimento agli indici Istat per la determinazione forfettaria del (maggior) danno.
Ancora al criterio personalizzato di normalità le sezioni unite si riferirono con sentenza n. 5299/89, con la quale
fu ribadita la possibilità di una presunzione generalizzata di spesa immediata da parte del semplice consumatore e
della determinabilità del danno da ritardato pagamento in riferimento agli indici Istat delle variazioni dei prezzi al
consumo, "così semplificandosi al massimo l'assolvimento dell'onere della prova ... ed ancorando, al tempo
stesso, la liquidazione del danno a parametri oggettivi e di agevole liquidazione".
Può dunque dirsi che, nella seconda metà degli anni ’80, il regime probatorio relativo al maggior danno da
svalutazione monetaria per il ritardato pagamento dei debiti pecuniari (ex art. 1224, comma 2, cod. civ.) risultò
governato dalle seguenti regole:
a) il creditore imprenditore era gravato da un particolare onere probatorio solo in caso di richiesta di un maggior
danno corrispondente ai risultati utili della sua impresa (lucro cessante), mentre poteva avvalersi di una
presunzione di tipo, quasi oggettivo, fondata su criteri personalizzati di normalità, in ordine al maggior danno
ancorato allo scarto tra il tasso degli interessi legali ed il prime rate (danno emergente), essendo comunque tenuto
a dimostrare di trovarsi in condizioni atte a presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al
mercato del credito;
b) il semplice consumatore poteva pretendere un maggior danno corrispondente alle differenze tra indici Istat e
tasso legale di interesse, nel periodo della mora, indipendentemente da ogni specifica prova di impiego;
c) per il creditore occasionale si aveva senz'altro riguardo al tasso medio sui depositi bancari;
d) il risparmiatore abituale era invece tenuto a provare come normalmente investiva il denaro ed a quale tasso.
Senonché - osservò criticamente la dottrina - soltanto l'imprenditore ed il consumatore (e quest'ultimo solo in
ragione del censo o della modesta entità della somma dovutagli) erano, se pur non senza gravi difficoltà,
astrattamente suscettibili di essere inseriti in una categoria determinata, mentre apparivano difficilmente
etichettabili i creditori occasionali ed i risparmiatori abituali. Soprattutto perché il creditore sovente non è in
grado egli stesso di stabilire, ex post, cosa avrebbe davvero fatto del denaro che gli era dovuto ma che non aveva
tempestivamente avuto, in quanto il problema dell'impiego si sarebbe posto, in relazione alle contingenze ed alle
propensioni del momento, solo se e quando lo avesse davvero ricevuto; sicché si dava in tal modo la stura ad una
serie di complicazioni processuali destinate ad offrire risultati di scarsissima attendibilità, data l'ovvia propensione
del creditore ad evitare un inquadramento sfavorevole o nel quale la prova si presentasse complessa e, per
converso, quello del debitore a prospettare l'inserimento del creditore in una categoria nella quale il maggior
danno fosse più difficile da provare o di entità meno gravosa per il convenuto.
Negli anni successivi la prevalente giurisprudenza si attestò comunque sulla posizione secondo la quale, in caso di
ritardato pagamento di un debito pecuniario ad un imprenditore commerciale, ai fini del riconoscimento del
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maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria non si rende necessario che egli fornisca la prova
concreta di un danno causalmente ricollegabile all'indisponibilità dell'importo, ben potendosi dedurre in tale
situazione, in base all'id quod plerumque accidit, che in caso di tempestivo adempimento la somma dovuta
sarebbe stata reimpiegata in modo tale da essere sottratta agli effetti della svalutazione (cfr., ex plurimis, Cass.,
nn. 600/86, 742/86, 809/86, 6483/87, 4666/90, 1403/98 e 5732/99 della I sezione civile; nn. 35/85, 1492/87,
2161/87, 12343/97 e 4184/98 della II sezione, n. 6231/86 della III sezione, nn. 1244/88, 3014/89 e 12381/91
della Sezione lavoro).
Una giurisprudenza minoritaria ritenne, per contro, che il pur legittimo ricorso al notorio ed alle
presunzioni da parte del giudice non può prescindere dall'assolvimento da parte del creditore,
quantunque imprenditore commerciale, di un onere quantomeno di allegazione che consenta al giudice
di merito di verificare se il particolare danno allegato (anche da svalutazione) possa essersi verosimilmente
prodotto (così Cass., nn 1212/86, 2368/86, 2690/87, 4344/93, 5517/97, 5678/99).
Più numerose le sentenze che hanno affrontato il tema negli anni 2000, ancora una volta prevalentemente risolto
nel senso che è sufficiente che non sia controversa la qualità di imprenditore del creditore perché possa essere
riconosciuto il richiesto maggior danno da svalutazione monetaria (tra le altre, Cass., nn. 15059/00, 2816/06, 4885/06
e 19927/07 della I sezione; nn. 409/00, 1770/01, 13133/03 e 5860/06 della II sezione; nn. 317/02, 14909/02, 58/04,
20807/04, 13829/04, 5008/05 e 22986/05 della III sezione; nn. 14089/00, 6420/01, 10304/02 e 2113/03 della sezione
lavoro; hanno per contro ritenuto che occorrano allegazioni specifiche, pur nell'ambito della categoria di appartenenza, tra le
altre, Cass., sez. I, n. 4919/03; sez. II, n. 6327/00; nonché le sentenze della sezione lavoro nn. 14970/02, 9910/03,
12634/04, 2613/06, 6153/06; oltre a Cass. Sez. un., n. 16871/07, della quale si dirà specificamente più avanti).
Emblematiche dei due contrapposti indirizzi, per le argomentazioni addotte, sono le sentenze n. 14089/2000 da
un lato, e 14970/02 e 12634/04 dall'altro, tutte della Sezione lavoro.
2.1. La prima, pronunciata in fattispecie pressoché identica a quella ora in scrutinio, s'è fatta puntuale carico
dell'argomento secondo il quale il ricorso a categorie tipiche finirebbe anch'esso col determinare un automatismo
di rivalutazione del credito contrario al principio nominalistico e farebbe venir meno la distinzione tra
obbligazioni di valuta ed obbligazioni di valore.
Ha tuttavia rilevato che il rispetto del principio nominalistico non è affatto incompatibile con la rilevanza delle
variazioni del potere di acquisto della moneta; che, infatti, mentre nei debiti di valore la considerazione di quella
variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa della prestazione, nei debiti di valuta essa può
invece rilevare esclusivamente sub specie damni e pone problemi di esclusiva natura probatoria; che ritenere
notoria l'entità del fenomeno inflattivo e probabilisticamente rilevante la destinazione del danaro allo scambio
non significa affatto derogare al principio nominalistico, ma solo adottare un criterio di valutazione che tiene
conto degli interessi delle parti ed è conforme alla comune esperienza ed al comune sentire.
Ha dunque ricordato che, in base a tali principi, alcune decisioni di questa Corte avevano conseguentemente
affermato che il danno da inadempimento dell'obbligazione pecuniaria è per qualsiasi creditore, per la parte che
non sia già coperta dagli interessi legali, non inferiore alla misura dell'inflazione della moneta, che ne costituisce
l'elementare dato probatorio, salvo che esso assuma un diverso, maggiore valore per il singolo creditore in
relazione al comprovato uso che della somma oggetto dell'obbligazione intendeva fare. Pertanto, salvo questa
prova diversa, il danno da svalutazione può essere determinato sulla base degli indici ufficiali dell'inflazione in
relazione al costo della vita (sono citate Cass. nn. 123/83, 651/84, 3356/85). Ed ha concluso che, in effetti, "non
è dubbio che la mancata disponibilità del danaro da parte del creditore costituisce obiettivamente un danno e non
ha bisogno di alcuna prova di carattere soggettivo, salva la possibilità da parte del debitore di provare il concorso
del fatto colposo del creditore, ai sensi dell'art. 1227 del codice civile. Di conseguenza, il creditore che intenda
ottenere la rivalutazione nella misura ufficiale deve solo allegare gli indici ufficiali dell'Istat. Il creditore, invece,
che ritenga che la mancata disponibilità del danaro abbia inciso sul suo patrimonio in misura superiore agli
interessi legali e alla svalutazione ufficiale, dovrà provare il maggiore danno: dovrà provare, ad esempio, di aver
dovuto rinunciare a investimenti particolarmente vantaggiosi o di essere dovuto ricorrere a prestiti
particolarmente onerosi".
2.2. Opposte le conclusioni di Cass. 14970/02, pronunciata anch'essa in fattispecie di domanda di restituzione di
contributi indebitamente versati all'Inps. Con tale sentenza la stessa Sezione lavoro, dichiaratasi a sua volta
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pienamente consapevole dell'orientamento appena illustrato, ha tuttavia ritenuto (richiamando Cass., nn.
11870/92, 5517/97, 5678/99, 9965/01):
a) che collegare alla sola qualità di imprenditore la presunzione di un impiego antinflattivo del denaro e, dunque,
di un maggior danno da svalutazione monetaria durante la mora, finirebbe per stravolgere il criterio
fondamentale dell'onere della prova di cui all'art. 2697 cod. civ., risolvendosi in un'ingiustificata soluzione di
favore per il creditore il quale, per beneficiare del risarcimento, dovrebbe solo provare di appartenere ad una
determinata categoria economica;
b) che una tale conseguenza avrebbe ben poca giustificazione anche sotto il profilo sistematico, comportando
l'introduzione di un meccanismo di automatica rivalutazione analogo a quello di cui all'art. 429 cod. proc. civ.
senza alcun fondamento normativo e, anzi, nel contesto di un'opposta tendenza legislativa, in cui il divieto di
cumulo rappresenta la regola ed in cui una sostanziale valorizzazione dei crediti pecuniari, anche contrattuali, in
relazione a particolari caratteristiche del creditore, necessiterebbe ancor più di un'esplicita previsione normativa.
Le conclusioni della citata sentenza 14970/02 sono state condivise dalla successiva 12634/04 che, ancora una
volta relativa al danno da ritardo nella restituzione di somme indebitamente versate all'Inps, contrapponendosi a
Cass. 14089/00, ha ribadito che il maggior danno da svalutazione nelle obbligazioni pecuniarie non può essere
riconosciuto indipendentemente dall'osservanza di uno specifico onere di allegazione e prova da parte del
creditore (quantunque imprenditore) per due sostanziali ordini di ragioni:
c) perché si deve escludere che la svalutazione costituisca danno di per sé, stante l'operatività del principio
nominalistico (art. 1277 c.c.) derogato specificamente dal legislatore soltanto per particolari crediti pecuniari,
come i crediti di lavoro, ai sensi dell'art. 429, comma terzo, c.p.c.;
d) perché osta alla identificazione del danno mora-torio nella diminuzione di valore della moneta il rilievo che "il
denaro, per le illimitate possibilità di opzione tra i diversi impieghi, è metro di misura totalmente astratto; tale
danno, quindi, può derivare esclusivamente dall'impiego che il creditore avrebbe fatto della somma se ne avesse
conseguito la disponibilità tempestivamente (es. autofinanziamento e reimpiego nella produzione, acquisto di
valori mobiliari, interessi bancari, ecc.), cosicché deve ritenersi indispensabile (non potendo il giudice determinare
autonomamente il tipo di impiego) che siano forniti elementi che consentano al giudice di ritenere, anche in via
presuntiva, alcune forme di impiego più verosimili di altre".
3. Allo stato, dunque, le principali tesi in materia sono tre:
1) quella secondo la quale nei debiti di valuta, quale che sia la categoria cui appartiene il creditore, il maggior
danno da svalutazione monetaria rispetto a quello che non sia già assorbito dagli interessi legali moratori, va
riconosciuto in via generalizzata e presunta, fermo l'onere del creditore che assuma di aver subito un danno
ancora maggiore di provare che avrebbe fatto un uso del denaro tale da garantirgli un rendimento superiore al
tasso di inflazione (lucro cessante), ovvero che a causa dell'inadempimento ha dovuto procurarsi denaro a tassi
più onerosi (danno emergente); e salva la facoltà del debitore di offrire comunque la prova contraria;
2) quella secondo la quale il maggior danno da svalutazione va correlato alla sola categoria creditoria cui il
creditore appartiene in relazione alla più probabile forma di impiego del denaro;
3) quella secondo la quale l'appartenenza ad una categoria creditoria non è comunque sufficiente a giustificare il
riconoscimento del maggior danno correlabile alle forme di impiego tipiche della categoria nella quale il creditore
è iscrivibile (soprattutto se imprenditore), essendo egli comunque gravato da uno specifico onere quantomeno di
allegazione in ordine al verosimile impiego che avrebbe fatto della somma dovutagli, che consenta al giudice di
verificare se, tenuto conto di dette qualità personali e professionali, il danno denunziato possa essersi
effettivamente prodotto (in difetto di quella allegazione, alcune sentenze affermano che non possono
riconoscersi che gli interessi legali, come la citata n. 12634/04; altre, che tale tipo di conseguenza va tratto solo
per il danno eccedente il tasso di svalutazione, come Cass., sez. lavoro, n. 6153/06).
Va osservato che nessuna delle tre è in tutto conforme ai principi enunciati da queste Sezioni unite nel 1986, il
cui trasparente scopo fu quello di semplificare, mediante il ricorso a presunzioni di tipo generalizzato in relazione
alla categoria di appartenenza del creditore, le modalità della prova del maggior danno da svalutazione. Si trattò
di una soluzione intermedia tra quella che richiedeva la rigorosa e quasi sempre impossibile prova dell'avvenuta
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predisposizione di un impiego alternativo del denaro non tempestivamente pagato e quella di chi invece riteneva
che, in caso di mora, il maggior danno da svalutazione è in via generale presunto in misura pari al tasso di
inflazione in relazione alle caratteristiche proprie del denaro, destinato per sua natura ad essere speso o investito
in impieghi tali da mettere chi lo possegga al riparo, quantomeno, dalla svalutazione.
La terza tesi, che formalmente ne segue gli enunciati letterali, finisce infatti col non assecondarne lo spirito,
segnatamente nella sua più rigorosa versione; la seconda è a questo conforme, ma ne disattende le prescrizioni
testuali in relazione al creditore imprenditore; la prima è quella che maggiormente se ne discosta, ma è anche
quella che, a parere del collegio, tiene in maggior conto i non appaganti risultati applicativi della soluzione
dell'inquadramento dei creditori in categorie, cui collegare in via presuntiva il tipo di impiego che del denaro
avrebbero fatto se fosse stato loro tempestivamente dato e, dunque, l'entità del maggior danno durante la mora
del debitore.
A parte, invero, la categoria dell'imprenditore (per la quale pure, come s'è rilevato, non vengono adottate
soluzioni univoche), l'inquadramento del creditore in una qualsiasi delle altre, o in quelle ulteriori che le sezioni
unite del 1986 pure prospettarono potessero essere in seguito configurate e che non sono state invece mai
elaborate, si è rivelata di assai problematica praticabilità, non sussistendo parametri di riferimento
sufficientemente univoci per definire i caratteri propri di ogni categoria.
E la stessa categoria degli imprenditori - per la quale, invece, i parametri per una qualificazione palesemente
sussistono - non vale, a ben vedere, ad offrire criteri di maggiore attendibilità delle possibili inferenze induttive,
posto che a quello che pretendesse come maggior danno la differenza tra il tasso legale d'interesse ed il prime
rate (peraltro non più rilevato a partire dal 2004 e, secondo le sezioni unite del 1986, ottenibile quasi sulla base
della sola appartenenza alla relativa categoria) poterebbe obiettarsi che già alla data di insorgenza della mora la
redditività marginale media dei propri investimenti era inferiore al tasso praticato dalle banche alla migliore
clientela nei prestiti a breve termine; ovvero, se superiore, che male il creditore aveva fatto a non ricorrere al
credito bancario (con conseguente applicazione dell'art. 1227, comma 2, cod. civ.), ovvero che non era
comunque prevedibile dal debitore che non lo facesse (con conseguente irrisarcibilità del danno differenziale ex
art. 1225 cod. civ.).
I bisogni ed i desideri che il denaro vale a soddisfare sono d'altronde troppi e troppo intimamente
connessi anche al modo d'essere di ognuno, nonché agli eventi di cui ciascuno è nella vita
protagonista, spettatore o vittima, perché l'uno o l'altro creditore sia suscettibile di essere tout court
qualificato -come consumatore, o risparmiatore, o creditore occasionale, essendo vero invece che
ognuno è o può essere l'una o l'altra cosa, o l'altra ancora, o tutte insieme in relazione a ciascuna
frazione dell'importo ed a seconda delle contingenze economiche generali e personali del momento,
dell'entità del credito, dei propri progetti e così via.
Per altro verso, le prorompenti esigenze di semplificazione dell'istruzione probatoria impongono, a distanza
di circa un quarto di secolo, soluzioni più snelle, anche alla luce dei dati costituiti dall'incessante aumento del
contenzioso civile, dall'allungamento dei tempi medi di definizione del processo, dal nuovo principio della sua
ragionevole durata, proclamato dall'art. 111, comma 2, Cost. (nel testo introdotto con legge costituzionale n. 2
del 1999). Si verte, del resto, in situazioni che recano in se stesse il germe dell'inevitabile approssimazione della
statuizione giudiziale, come avvertivano le stesse Sezioni unite del 1986; nelle quali, dunque, l'equazione
"categoria creditoria = presunta, oggettivamente personalizzata modalità di impiego del denaro" presenta
incognite non inferiori, in prima battuta, a quelle proprie dell'equazione "creditore = maggior danno da
svalutazione corrispondente all'incremento dei prezzi al consumo, ovvero alla redditività delle più comuni forme
di impiego alternative alla spesa".
4. Non sussistono d'altro canto i paventati pericoli che i debiti di valuta ricevano in tal modo una disciplina
identica a quella propria dei debiti di valore, con sostanziale pretermissione del principio nominalistico di cui
all'art. 1277 cod. civ.; o che le conseguenze dell'inadempimento finiscano per divenire, per qualsiasi credito di
denaro, identiche a quelle "speciali" che l'art. 429, comma 3, cod. proc. civ. contempla per i crediti di lavoro;
ovvero che sia sostanzialmente disapplicato il principio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 cod. civ..
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4.1. Sul primo punto va infatti osservato che il rispetto del principio nominalistico non è affatto
incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere d'acquisto della moneta. Solo che, mentre nei
debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa
della prestazione in quanto il denaro vale solo a misurare e ad esprimere un valore necessariamente attuale, nei
debiti di valuta essa può invece rilevare esclusivamente sub specie damni. La circostanza che una somma di
denaro, come quantità di pezzi monetari dedotta in obbligazione, conservi integra la propria idoneità solutoria
quale che sia l'alterazione nel tempo del suo valore in termini di potere d'acquisto (non altro è il 'significato e non
altra la conseguenza del nominalismo monetario), non esclude che la diminuzione del suo valore durante il
periodo di mora debendi si risolva in un danno tutte le volte che il creditore agli effetti della svalutazione si
sarebbe sottratto, spendendo o investendo il denaro non tempestivamente versatogli in impieghi con
remuneratività superiore al tasso di inflazione. Facendone, cioè, l'uso connaturale alla sua intima essenza, volta
che se il denaro è l'unico bene intrinsecamente insuscettibile di offrire qualunque utilitas diretta è anche il solo
che consente, mediante lo scambio, di procurare immediatamente quelle ricavabili da qualsiasi altro bene (è
questa la giustificazione economica del rendimento del denaro dato a mutuo), sicché è del tutto contraria ai dati
di comune esperienza l'ipotesi della mera conservazione improduttiva da parte del creditore di un bene
ontologicamente destinato allo scambio o all'investimento. Se ne mostrò d'altronde consapevole lo stesso
legislatore del 1942 all'atto della redazione del codice civile; al punto n. 592 (in fine) della relazione al re del
ministro guardasigilli si legge infatti testualmente: "L'alterazione del valore della moneta dovuta può verificarsi
durante la mora del debitore. Il caso non è previsto espressamente, perché esso si risolve in un danno, che è
risarcibile secondo gli artt. 1218 e 1224, 2° comma".
Neppure è possibile che si creino confusioni di sorta sul piano processuale, posto che nei debiti di valore (tipica
l'obbligazione di risarcimento del danno) la rivalutazione non va neppure domandata, essendo il giudice tenuto
d'ufficio alla liquidazione in valori monetari attuali; mentre nei debiti di valuta vanno chiesti sia gli interessi
moratori sia il maggior danno (anche da svalutazione, secondo l'impreciso ma corrente lessico giudiziario; e
tuttavia, più esattamente, da intervenuta impossibilità, per fatto del debitore, che il creditore si sottraesse agli
effetti della svalutazione) , risultando altrimenti inficiata da vizio di ultrapetizione la sentenza che riconoscesse gli
uni o l'altro.
4.2. Quanto alla temuta possibilità che i crediti pecuniari ordinari e quelli di lavoro finiscano con
l'essere trattati allo stesso modo, s'è già rilevato che per i crediti di cui all'art. 429, comma 3, cod. proc. civ.
interessi e svalutazione si cumulano, mentre nei debiti di valuta il maggior danno (anche da svalutazione) è
dovuto, ex art. 1224, comma 2, cod. civ., solo per la parte che non sia già coperta dagli interessi moratori.
4.3. Quanto alla pretesa disapplicazione dell'art. . 2697 cod. civ. che deriverebbe dal ritenere presunta (ma,
rectius, normale), una modalità di impiego del denaro tale da consentire al creditore di sottrarsi agli effetti della
svalutazione, è stato da tempo chiarito come, in definitiva, è nel rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola
ed eccezione che si rinviene il criterio teorico e pratico della ripartizione dell'onere della prova, il quale non
costituisce un istituto giuridico in sé concluso, ma un modo di osservare l'esperienza giuridica. E la
giurisprudenza ha quindi fatto ricorso, tutte le volte che il modello legale prefissato non risultava appagante in
relazione alle posizioni delle parti riguardo ai singoli temi probatori, allo schema della presunzione in modo talora
così tipico e costante da creare, in definitiva, vere e proprie regole di giudizio. Col risultato non già di invertire
l'onere della prova, ma di distribuirlo in senso conforme alla realtà dell'esperienza positiva.
Ebbene, è senz'altro conforme alla realtà dell'esperienza positiva che il denaro sia speso in relazione
alla sua primaria destinazione allo scambio, ovvero impiegato in rassicuranti forme remunerative tali da
garantire un rendimento superiore al tasso di inflazione, qual è quello dei titoli di stato, costantemente
eccedente l'incremento dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati rilevati dall'Istat.
4.4. Quanto, infine, all'argomento- (addotto da Cass. Sez. lav. n. 12634/04) che "il denaro, per le illimitate
possibilità di opzione tra i diversi impieghi, è metro di misura totalmente astratto", deve rilevarsi che
l'osservazione si attaglia ai debiti di valore, nei quali il denaro viene appunto in considerazione come strumento di
misura di un valore (mensura), ma non è conferente in ordine ai debiti di valuta, nei quali il denaro è dedotto in
obbligazione come ammontare di pezzi monetari (mensuratum). Sicché, come la variazione del valore di una cosa
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si misura comparando fra loro le diverse quantità di moneta necessarie per scambiarla in tempi diversi con
denaro, così la variazione del "valore" del denaro si misura comparando tra loro le diverse quantità di pezzi
monetari necessari, in tempi diversi, per procurarsi la medesima cosa o le medesime cose. Cose e pezzi monetari
dovuti e non dati, il cui valore sia mutato durante la mora, possono o meno aver prodotto un danno da
diminuzione di valore a seconda dell'impiego che ne avrebbe fatto il creditore: "possono" (non "devono"),
giacché se la loro destinazione era la mera conservazione, il danno da diminuzione di valore durante la mora sarà
in ogni caso insussistente; ma se la destinazione era lo scambio o l'investimento, il danno andrà commisurato alla
diminuzione di valore, o al costo affrontato dal creditore per procurarsi quel che gli era dovuto (cose o denaro), o
ancora alle conseguenze economiche negative subite per non esserci riuscito.
5. Tanto precisato in linea di principio, va qui detto che le vicende che connotarono gli anni '70 e '80, durante i
quali il tasso di svalutazione monetaria fu pressoché costantemente superiore a quello degli interessi legali, talora
in misura assai rilevante, con una differenza che toccò i 16.1 punti percentuali nel 1980, indussero il legislatore a
modificare l'art. 1284, comma 1, cod. civ., dapprima elevando il tasso degli interessi legali dal 5 al 10% in ragione
di anno (art. 1, 1. 26.11.1990, n. 353), e poi riportandolo al 5% ma stabilendo che esso può essere annualmente
modificato dal Ministro del tesoro "sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non
superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell'anno" (art. 2, comma 185, 1.
23.12.1996, n. 662).
Da allora, fatta eccezione per una pressoché insignificante differenza nell'anno 2000 , il tasso di interesse è stato
costantemente superiore al tasso ufficiale di aumento dei prezzi al consumo, sicché la svalutazione è risultata
normalmente assorbita per intero dagli interessi legali, con conseguente perdita di rilevanza del problema relativo
al risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria; (omissis).
L'effetto di disincentivazione dell'inadempimento (e, di riflesso, la positiva ricaduta sulla diminuzione del
contenzioso civile e sulla semplificazione del processo) è appunto collegato ad una soluzione che renda il
debitore consapevole del fatto che la promozione di una causa da parte del creditore insoddisfatto si
risolverebbe, comunque, nel riconoscimento a suo favore di un maggior importo corrispondente quantomeno
all'utile economico minimo che il debitore ha tratto o che avrebbe potuto trarre dalla conservazione, medio
tempore, del denaro che doveva dare e che non ha dato. Ed è qui appena il caso di ricordare come, senza
eccezione alcuna, tutte le istituzioni del Paese da tempo annoverino la inappagante funzionalità della giustizia
civile (la quale dipende soprattutto dai lunghi tempi di definizione, a sua volta correlati alla variabile niente affatto
indipendente del numero delle cause promosse) fra le ragioni di uno sviluppo economico inferiore a quello
possibile, segnatamente sotto il profilo dell'abbassamento della propensione agli investimenti.
Tutto insomma concorre all'adozione di un'interpretazione che si risolva nel riconoscere al creditore di
somme di denaro non corrisposte dal debitore in mora un maggior danno - ex art. 1224, comma 2, cod.
civ. - corrispondente alla differenza tra il tasso di rendimento netto (dedotta l'imposta) dei titoli di Stato
di durata non superiore ai dodici mesi (o tra il tasso di inflazione se superiore) e quello degli interessi legali
(se inferiore).
E tanto del tutto in linea con la ratio legis del novellato art. 1284, comma 1, cod. civ., il quale prevede un
meccanismo che sconta l'inevitabile riferibilità al futuro dell'eventuale intervento adeguatore del Ministro del
tesoro ("con decreto da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica non oltre il 15 dicembre dell'anno
precedente a quello cui il saggio si riferisce", ex art. 1284, comma 1, cod. civ.), le cui conseguenze vanno tuttavia,
in linea di principio, sopportate non già dal creditore insoddisfatto, ma dal debitore che versi anche in quella
situazione di qualificato ritardo nell'adempimento qual è la mora (ex art. 1219 cod. civ.): quanto si va osservando
è infatti estraneo agli interessi corrispettivi di cui all'art. 1282 c.c. ed a quelli compensativi di cui all'art. 1499 c.c.,
per i quali non è configurabile un danno da ritardo fino alla data di insorgenza della mora debendi.
Tale conclusione risulta, poi, definitivamente corroborata dalla lettera dell'art. 1284, comma 1, cod. civ., nel testo
novellato nel 1996, laddove espressamente vincola il Ministro del tesoro a determinare il saggio d'interesse "sulla
base" del rendimento annuo lordo dei titoli di Stato non ultrannuali e "tenuto conto" del tasso d'inflazione
registrato nell'anno: la differenza tra le due espressioni è invero significativa del primario rilievo che il legislatore
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ha conferito al parametro di riferimento costituito dal rendimento dei titoli di Stato ai fini dell'apprezzamento
della normale redditività del denaro.
Le considerazioni fin qui svolte comportano il superamento della suddivisione dei creditori in categorie, a
ciascuna delle quali si attagli la presunzione di una personalizzata modalità di impiego del denaro,
restando invece l'ambito della possibile personalizzazione affidato, esso solo, alla prova. Sarà così
consentito al debitore di provare - pur con le difficoltà connesse alla raffigurabilità di un ipotetico ed
economicamente inefficiente comportamento altrui - che dal proprio ritardo nell'adempimento il creditore non
ha subito un danno, o che lo ha subito in misura inferiore al saggio degli interessi legali, sicché nulla gli è dovuto,
in aggiunta a quelli, per maggior danno (perché, ad esempio, dedito al deposito del denaro in conto corrente, la
cui remuneratività è notoriamente assai bassa, ovvero perché i suoi investimenti nel periodo si sono risolti in una
perdita, etc.); così come sarà consentito al creditore di provare che il danno da ritardo è stato invece maggiore del
rendimento netto dei titoli di Stato (perché costretto a ricorrere al credito bancario, o per mancati investimenti
remunerativi, o per altre particolari vicende). Ma ciò non in quanto il creditore appartenga ad una categoria; il che
si risolverebbe tra l'altro - quantomeno in epoche connotate, come quella attuale, da un aumento dei prezzi al
consumo normalmente inferiore al saggio degli interessi legali - nel paradossalmente deteriore trattamento dei
meno abbienti, quale il modesto o mero o semplice consumatore. Non dunque per questo, ma perché il
risarcimento va sempre tendenzialmente adeguato al danno effettivamente subito, nei limiti in cui tale risultato
sia perseguibile; limiti di cui il legislatore s'è fatto del resto consapevole carico dettando la disposizione di cui
all'art. 1226 cod. civ., ormai costantemente interpretata nel senso che alla valutazione equitativa nella liquidazione
del danno è possibile ricorrere non solo quando il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare,
ma anche quando quella prova si presenti, per l'una o per l'altra parte, particolarmente complessa o costosa,
anche in riferimento al livello degli interessi dedotti in giudizio, oppure quando sia destinata ad offrire risultati di
assai scarsa attendibilità.
Anche il creditore imprenditore, al pari di ogni altro creditore ed indipendentemente da qualsivoglia
allegazione, avrà dunque titolo a pretendere il maggior danno nei limiti sopra indicati, salva la prova
contraria, da offrirsi dal debitore, che esso è inferiore o inesistente. Ove invece lamenti un danno
superiore a quei livelli e ne domandi il risarcimento, dovrà offrirne la prova, come ogni altro creditore.
A tal fine sarà in linea di massima sufficiente la produzione di documentazione dalla quale si evinca che, durante
la mora del debitore, egli aveva fatto ricorso al credito bancario (con saggio di interesse passivo oggi attestantesi,
a quanto consta, sull'Euribor maggiorato tra circa 0,20 e 2,5 punti) o ad altre forme di approvvigionamento di
liquidità, con la dimostrazione dei relativi costi; e sempre che, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed
all'entità del credito, sia effettivamente presumibile che il ricorso al credito esterno sia stato conseguenza
dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo avrebbe comportato la destinazione della somma alla
parziale estinzione del debito assunto verso il finanziatore (si incoraggerebbe altrimenti il possibile ricorso
strumentale al credito bancario in funzione probatoria dell'entità del danno nel successivo giudizio di
adempimento e risarcimento).
Se invece sia domandato un risarcimento del danno correlato all'utilità marginale netta dell'impresa durante la
mora, perché il maggior danno possa essere rapportato ai mancati utili sarà necessario che il creditore
imprenditore produca il bilancio contenente il conto economico (se tenuto a redigerlo) ovvero altre idonee
scritture contabili; e sempre che, in relazione all'importo dovutogli e con riguardo al tipo ed al rilievo economico
dell'attività stessa, sia effettivamente presumibile che la somma di cui era creditore sarebbe stata impiegata
nell'impresa con il medesimo risultato utile.
(omissis)
7. Possono conclusivamente enunciarsi i seguenti principi di diritto:
« - nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di
cui all'art. 1224, comma 2, cod. civ. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali
che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne
domandi il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle
categorie a suo tempo individuate -, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra
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il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio
degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del primo comma dell'art. 1284 cod. civ.;
- è fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha
subito in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della
somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata;
- il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad offrire
la prova del danno effettivamente subito, quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e
completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il ricorso al
credito bancario sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei propri investimenti;
- in entrambi i casi la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni
dell'impresa ed all'entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito
bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo
si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la
somma sarebbe stata impiegata utilmente nell'impresa ».
3.2 Cass.24 gennaio 2014, n.1506
In tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, nel caso in cui il creditore – del quale non sia controversa la
qualità di imprenditore commerciale – deduca di aver subito dal ritardo del debitore nell’adempimento un
pregiudizio conseguente al diminuito potere di acquisto della moneta, non è necessario, ai fini del riconoscimento del
maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria, che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente
ricollegabile all’indisponibilità del credito per effetto dell’inadempimento, dovendosi presumere, in base all’id quod
plerumque accidit, che, se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata utilizzata in
impieghi antinflattivi per il finanziamento dell’attività imprenditoriale e, quindi, sottratta agli effetti della svalutazione.
Nell'unico motivo di ricorso incidentale viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art 1224 e 2697 cod
civ. nonché dell'art. 2729 cod. civ. per non aver riconosciuto il maggior danno nella misura della svalutazione
monetaria o secondo i criteri presuntivi desumibile dalla sentenza delle S.U. n. 19499 del 2008, non essendo
contestabile la qualità d'imprenditore commerciale dell'Elmi. Il motivo viene prospettato anche sotto il profilo
del vizio di motivazione.
Il motivo è fondato.
La Corte d'Appello, dopo aver esattamente qualificato il credito come di valuta, ha escluso il riconoscimento del
maggior danno ex art. 1224 cod. civ. non ritenendo fornita la prova delle modalità d'investimento dell'importo.
Peraltro gli incassi, per comune volontà delle parti, dovevano rimanere sui conti bancari e non essere finalizzati
ad investimenti. Così decidendo la sentenza impugnata non ha fatto buon governo dei principi consolidati
elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di riconoscimento del maggior danno ex art. 1224 cod. civ.
nei debiti di valuta, ed in particolare sull'utilizzazione del regime probatorio delle presunzioni semplici. Pur
negandone l'automatismo, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la naturale fruttuosità del denaro affermando
che "Nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all'art. 1224,
secondo coma, cod. civ. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, 11 saggio
medio di rendimento netto del titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al
saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque
creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l'attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto
nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del
maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà
l'onere di provare l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il
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creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l'onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario
sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero - attraverso la produzione dei bilanci - quale fosse la produttività
della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l'onere di dimostrare,
anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto
impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al
saggio legale.(S.U. 19499 del 2008). L'orientamento indicato, ampiamente e costantemente condiviso negli anni
successivi (4402, 17813, 20753 del 2009; 12609 del 2010) è stato di recente ribadito proprio con riferimento
all'imprenditore commerciale nella pronuncia n. 22096 del 2013 alla luce della quale "In tema di inadempimento
delle obbligazioni pecuniarie, nel caso in cui il creditore - del quale non sia controversa la qualità di imprenditore
commerciale - deduca di aver subito dal ritardo del debitore nell'adempimento un pregiudizio conseguente al
diminuito potere di acquisto della moneta, non è necessario, ai fini del riconoscimento del maggior danno
ragguagliato alla svalutazione monetaria, che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile
all'indisponibilità del credito per effetto dell'inadempimento, dovendosi presumere, in base all'"id quod
plerumque accidit", che, se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata utilizzata in
impieghi antinflattivi per il finanziamento dell'attività imprenditoriale e, quindi, sottratta agli effetti della
svalutazione. Nella specie, di conseguenza, non poteva essere radicalmente escluso il riconoscimento del maggior
danno da ritardato adempimento di obbligazione pecuniaria ex art. 1224 cod. civ., senza aver verificato,
preliminarmente ed in mancanza di allegazioni specifiche sul presumibile impiego del denaro, se il tasso legale
degli interessi attivi, fosse inferiore al rendimento medio dei titoli di . stato, alla data del 7 maggio 1991, tenuto
conto della incontestata qualità d'imprenditore commerciale dell'Elmi e della verosimile utilizzazione in senso
antinflattivo del denaro della categoria di appartenenza del creditore. In conclusione deve essere respinto il
ricorso principale ed accolto quello incidentale, con conseguente cassazione con rinvio della sentenza impugnata.
Il giudice del rinvio dovrà attenersi al principio di diritto sopra indicato.
4. LE SEZIONI UNITE FANNO IL PUNTO SULL'ANATOCISMO: Cass. Sez.
Un. 4 novembre 2004, n.21095
La Suprema Corte, pronunciandosi a Sezioni Unite, ha stabilito che "le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi dovuti dal correntista devono considerarsi nulle anche se contratte prima dell'orientamento giurisprudenziale che nella primavera del 1999 ne ha negato la legittimità". In sostanza, la Suprema Corte ha attribuito valore retroativo all'inesistenza dell'uso normativo della capitalizzazione triestrale degli interessi. Fino al 1999, l'art. 1283 del codice civile, il quale prevede che "in mancanza di usi contrari, gli interessi passivi scaduti possono produrre interessi (anatocisti) solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi", era stato interpretato, da pronunzie giurisprudenziali filobancarie, nel senso di poter attribuire alla locuzione "salvo usi contrari" un valore quasi negoziale. Le Banche, pertanto, capitalizzavano trimestralmente gli interessi, sfruttando il bisogno dei correntisti di porre in essere una serie di operazioni bancarie, principalmente prestiti e scopertura di conto corrente. Con le sentenze n. 2374 e n. 3096 del 1999, il Supremo Giudice aveva già stabilito che "gli usi contrari, suscettibili di derogare al precetto di cui all'art. 1283 c.c., sono non i meri usi negoziali ex art. 1340 c.c. ma esclusivamente i veri e propri usi normativi, di cui agli articoli 1 e 8 disp. Prel. C.c., consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompaganato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non dipendente da un mero arbitrio soggettivo) ma giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell'ordinamento giuridico". Gli "usi" cui fa riferimento l'art. 1283 cod. civ. sono, dunque, esclusivamente, quelli normativi in senso tecnico.
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1. La questione di massima, in ragione della cui particolare importanza gli atti della presente causa sono stati
rimessi a queste Su, ai sensi dell’articolo 374, cpv, Cpc si risolve nello stabilire se - incontestata la non
attualità di un uso normativo di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista
bancario - sia o non esatto escludere anche che un siffatto uso preesistesse al nuovo orientamento
giurisprudenziale (Cassazione 2374/99 e successive conformi) che lo ha negato, ponendosi in consapevole
e motivato contrasto con la precedente giurisprudenza.
(omissis)
4.1. Il parametro di riferimento è costituito dall’articolo 1283 del Cc (Anatocismo) e, in particolare, dall’inciso
“salvo usi contrari” che, in apertura della norma, circoscrive la portata della regola, di seguito in essa enunciata,
per cui «gli interessi scaduti possono produrre interessi [(a)] solo dalla domanda giudiziale o [(b)] per effetto di
convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre, che si tratti di interessi dovuti da almeno sei mesi».
4.2. Come è noto, in sede di esegesi della predetta norma, le richiamate sentenze (2374, 3096, 3845) della
primavera del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del ventennio precedente
(6631/81; 5409183; 4920/87; 3804/88; 2444/89; 7575/92; 9227/95; 3296/97; 12675/98), hanno enunciato il
principio - reiteratamente, poi, confermato dalle successive sentenze 12507/99; 6263/01; 1281, 4490, 4498,
8442/02; 2593, 12222, 13739/03, ed al quale ha dato comunque immediato riscontro anche il legislatore (che,
con l’articolo 25 del D.Lgs 342/99 ha, all’uopo, ridisciplinato le modalità di calcolo degli interessi su base
paritaria tra banca e cliente) – (principio) per cui gli “usi contrari”, idonei exarticolo 1283 Cc a derogare il
precetto ivi stabilito, sono solo gli usi “normativi” in senso tecnico; desumendone, per conseguenza, la nullità
delle clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed incorre
quindi nel divieto di cui al citato articolo 1283.
4.3. Al di là di varie ulteriori argomentazioni, di carattere storico e sistematico, rinvenibili nelle pronunzie del
nuovo corso, destinate più che altro ad avvalorare il “revirement” giurisprudenziale, emerge dalla motivazione
delle pronunce stesse come, nel suo nucleo logico-giuridico essenziale l’enunciazione del principio di nullità delle
clausole bancarie anatocistiche si ponga come la conclusione obbligata di un ragionamento di tipo sillogistico. La
cui premessa maggiore è espressa, appunto, dalla affermazione che gli “usi contrari”, suscettibili di
derogare al precetto dell’articolo 1283 Cc, sono non i meri usi negoziali di cui all’articolo 1340 Cc ma
esclusivamente i veri e propri “usi normativi”, di cui agli articoli 1 e 8 disp. prel. Cc, consistenti nella
ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus),
accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non dipendente da un mero arbitro
soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si
ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio juris ac necessitatis).
E la cui premessa minore è rappresentata dalla constatazione che «dalla comune esperienza emerge
che i clienti si sono nel tempo adeguati all’inserimento della clausola anatocistica non in quanto
ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti
nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità
con le direttive dell’associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui
sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari.
Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui,
sostanzialmente, consiste l’opinio juris ac necessitatis, se non altro per l’evidente disparità di
trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal
cliente».
4.4. Ora di questo sillogismo, che costituisce la struttura portante del nuovo indirizzo, del quale si sollecita il
riesame, neppure la banca ricorrente mette in discussione la premessa maggiore, mentre quanto alla sua premessa
minore la contestazione che ad essa si muove, attiene, sul piano diacronico, al solo profilo della portata
retroattiva che il nuovo indirizzo ha inteso attribuire alla rilevata inesistenza di un uso normativo in materia di
capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari. Si sostiene, infatti, in contrario che la giurisprudenza del ‘99
abbia correttamente accertato l’inesistenza attuale, ma erroneamente escluso l’esistenza pregressa della
consuetudine in parola.
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E si auspica per ciò, dunque, che essa vada superata nel senso di constatare che «la convinzione degli
utenti del servizio bancario della normatività dell’uso di capitalizzazione trimestrale degli interessi,
originariamente sussistente, è venuta meno dopo lungo tempo» [id est: la consuetudine si è estinta per
desuetudine in relazione al venire meno della opinio iuris del comportamento sottostante] «proprio a seguito di
quello stesso processo di mutamento di prospettiva che ha indotto la Cassazione medesima a mutare il
proprio precedente orientamento».
Ed a sostegno di tale assunto la difesa della ricorrente argomenta: a) che l’opinio iuris della prassi di
capitalizzazione degli interessi dovuti dal cliente sarebbe stata esclusa dalla criticata giurisprudenza assumendo a
parametro un quadro normativo, come evolutosi a partire dai primi anni ‘90, non certo retrodatabile all’epoca in
cui, in un contesto radicalmente diverso, quella prassi si era instaurata, con adesione degli utenti dei servizi
bancari, che ne avrebbero pienamente presupposto la normatività; b) che, comunque, la stessa precedente
giurisprudenza che per un ventennio aveva reiteratamente ritenuto, ove pur erroneamente, l’esistenza di un uso
normativo di capitalizzazione degli interessi bancari avrebbe, per ciò stesso, costituito “elemento di fondazione o
consolidazione dell’uso stesso”. Nessuno dei riferiti, pur suggestivi, argomenti si lascia però condividere.
4.5. L’evoluzione del quadro normativo - impressa dalla giurisprudenza e dalla legislazione degli anni ‘90, in
direzione della valorizzazione della buona fede come clausola di protezione del contraente più debole, della tutela
specifica del consumatore, della garanzia della trasparenza bancaria, della disciplina dell’usura ha innegabilmente
avuto il suo peso nel determinare la ribellione del cliente (che ha dato, a sua volta, occasione
al revirement giurisprudenziale) relativamente a prassi negoziali, come quella di capitalizzzione trimestrale degli
interessi dovuti alle banche, risolventesi in una non più tollerabile sperequazione di trattamento imposta dal
contraente forte in danno della controparte più debole.
Ma ciò non vuole dire (e il dirlo sconterebbe un evidente salto logico) che, in precedenza, prassi siffatte
fossero percepite come conformi a ius e che, sulla base di una tale convinzione (opinio iuris), venissero
accettate dai clienti. Più semplicemente, di fatto, le pattuizioni anatocistiche, come clausole non negoziate e
non negoziabili, perché già predisposte dagli istituti di credito, in conformità a direttive delle associazioni di
categoria, venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessità di usufruire del credito bancario e non aveva.
quindi, altra alternativa per accedere ad un sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare. Dal che la
riconducibilità, ab initio, della prassi di inserimento, nei contratti bancari, delle clausole in questione,
ad un uso negoziale e non già normativo (per tal profilo in contrasto dunque con il precetto dell’articolo
1283 Cc), come correttamente ritenuto dalle sentenze del 1999 e successive.
4.6. Né è in contrario sostenibile che la “fondazione” di un uso normativo, relativo alla capitalizzazione degli
interessi dovuti alla banca, sia in qualche modo riconducibile alla stessa giurisprudenza del ventennio antecedente
al revirement del 1999. Anche in materia di usi normativi, così come con riguardo a norme di condotta
poste da fonti-atto di rango primario, la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi
decisori, non può essere altra che quella ricognitiva, dell’esistenza e dell’effettiva portata, e non dunque
anche una funzione creativa, della regola stessa.
Discende come logico ed obbligato corollario da questa incontestabile premessa che, in presenza di una
ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi però erronea nel presupporre l’esistenza di
una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva debba avere una
portata naturaliter retroattiva, conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di una regola
che troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenza che, erroneamente presupponendola, l’avrebbero
con ciò stesso creata.
Ciò vale evidentemente, nel caso di specie, anche con riguardo alla giurisprudenza (costituita, per altro, da solo
dieci tralaticie pronunzie nell’arco di un ventennio) su cui fa leva l’istituto ricorrente. La quale - a prescindere
dalla sua idoneità (tutta da dimostrare e in realtà indimostrata) ad ingenerare nei clienti una “opinio iuris” del
meccanismo di capitalizzazione degli interessi, inserito come clausola insuscettibile di negoziazione nei controlli
stipulati con la banca - non avrebbe potuto, comunque, conferire normatività ad una prassi negoziale (che si è
dimostrato essere) contra legem.
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4.7. Della insuperabile valenza retroattiva dell’accertamento di nullità delle clausole anatocistiche, contenuto nelle
pronunzie del 1999, si è mostrato subito, del resto, ben consapevole anche il legislatore. Il quale - nell’intento di
evitare un prevedibile diffuso contenzioso nei confronti degli istituti di credito - ha dettato, nel comma 3
dell’articolo 25 del già citato D.Lgs 342/99, una norma ad hoc, volta appunto ad assicurare validità ed
efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla
entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, di cui ai precedenti commi primo e secondo del
medesimo articolo 25.
Quella norma di sanatoria è stata, però, come noto, dichiarata incostituzionale, per eccesso di delega e
conseguente violazione dell’articolo 77 Costituzione, dal Giudice delle leggi, con sentenza n. 425 del
2000.
L’eliminazione ex tunc, per tal via, della eccezionale salvezza e conservazione degli effetti delle clausole già
stipulate lascia queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore
delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali, per quanto si è detto, esse non possono che essere
dichiarate nulle, perché stipulate in violazione dell’articolo 1283 Cc (cfr. Cassazione 4490/02).
(omissis)
5. USURA E INTERESSI MORATORI
5.1 Cass. 9 gennaio 2013, n. 350
Ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e dell'art. 1815 c.c., co. 2, si intendono usurari gli interessi che superano il
limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi
anche a titolo di interessi moratori. Infatti il riferimento, contenuto nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, co. 1, agli interessi
a qualunque titolo convenuti rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - tale assunto.
3.2.- Quanto al profilo sub b) (usurarietà dei tassi) va rilevato che parte ricorrente deduce che l'interesse pattuito
(inizialmente fisso e poi variabile) era del 10.5%, in contrasto con quanto è previsto dal D.M. 27 marzo 1998, che
indica il tasso praticabile per il mutuo nella misura dell'8.29%.
Tale tasso dovrebbe ritenersi usurario a norma della L. n. 108 del 1996, art. 1, comma 4, tanto più ove si
consideri che fu richiesto per l'acquisto di un bene primario quale la casa di abitazione e che dovrebbe tenersi
conto della prevista maggiorazione di 3 punti in caso di mora.
La censura sub b), nella parte in cui ripete l'assunto - già correttamente disatteso dalla Corte di merito - secondo
cui la natura usuraria discenderebbe dalla finalità del mutuo, contratto per l'acquisto della propria casa, è
infondata in quanto, ai sensi del nuovo testo dell'art. 644 c.p., comma 3, sono usurari gli interessi che
superano il limite stabilito dalla legge ovvero "gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri
vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per
operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra
utilità, ovvero all'opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di
difficoltà economica o finanziaria".
E, a tale scopo, non è sufficiente dedurre che il mutuo è stato stipulato per l'acquisto di un'abitazione.
La stessa censura (sub b), invece, è fondata in relazione al tasso usurario perchè dalla trascrizione dell'atto di
appello risulta che parte ricorrente aveva specificamente censurato il calcolo del tasso pattuito in raffronto con il
tasso soglia senza tenere conto della maggiorazione di tre punti a titolo di mora, laddove, invece, ai fini
dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e dell'art. 1815 c.c., comma 2, si intendono usurari gli interessi che superano il
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limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo,
quindi anche a titolo di interessi moratori (Corte cost. 25 febbraio 2002 n. 29: "il riferimento, contenuto nel D.L.
n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, agli interessi a qualunque titolo convenuti rende plausibile - senza necessità di
specifica motivazione - l'assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso
soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori"; Cass., n. 5324/2003).
(omissis)
4.- Quanto al secondo motivo, la censura è infondata, posto che, pur trattandosi di questione (di diritto)
rilevabile d'ufficio (nullità della convenzione di interessi usurari), gli elementi in fatto sui quali la questione era
fondata e, dunque, l'indicazione del tasso applicato contenuta (soltanto) nella comparsa conclusionale non poteva
che essere ritenuta tardiva, tenuto conto della necessità che i motivi di appello, ex art. 342 c.p.c., siano specifici e
che con la comparsa conclusionale non possono essere dedotte nuove circostanze di fatto che non siano state già
dedotte con l'atto di appello.
E' vero, infatti, che la deduzione della nullità delle clausole che prevedono un tasso d'interesse usurario è
rilevabile anche d'ufficio, non integrando gli estremi di un'eccezione in senso stretto, bensì una mera difesa, che
può essere avanzata anche in appello, nonchè formulata in comparsa conclusionale, ma ciò a condizione che "sia
fondata su elementi già acquisiti al giudizio" (Sez. 1, Sentenza n. 21080 del 28/10/2005).
5.2 Trib. Parma 25 luglio 2014
Se il contratto statuisce che la mora si aggiunge al tasso corrispettivo e si calcola sull'intera rata, è ammessa la
sommatoria tra tassi corrispettivi e tassi moratori, ai fini del calcolo del TEG
Premesso che la L. 24/2001 stabilisce che "si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla
legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal
momento del loro pagamento".
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 350/2013 ha ribadito questo concetto, poggiando la propria
interpretazione anche sulla sentenza della Corte Costituzionale 29/2002 e seguendo una precedente pronuncia
dello stesso tenore (Cass. 5324/2003): tutte le voci contrattuali [escluse imposte e tasse] devono essere
conteggiate nel calcolo del TEG (o ISC: indicatore sintetico di costo), compresi gli interessi di mora.
Da ultimo, tra le tante, è stato stabilito come "la giurisprudenza si era in gran parte orientata nel senso di
ricomprendere nel calcolo del TEG qualsiasi onere effettivamente sopportato dal cliente quale costo economico
dell'operazione, indipendentemente dalle istruzioni della Banca d'Italia.
"La portata normativa della Legge 2/09 ... si risolve in realtà in una mera conferma della "disciplina vigente" e
cioè nel richiamo dell'art 644 c.p. e non delle circolari della Banca d'Italia, pacificamente prive di portata
normativa" (C. d'A. Cagliari, 31/03/2014).
- Definita la norma di riferimento, in punto di diritto, occorre verificare il singolo contratto. Ossia verificare se il
contratto preveda interessi di mora in caso di inadempimento e se gli stessi siano "sostitutivi" dell'interesse
corrispettivo. Infatti:
- se la previsione contrattuale statuisce che la Banca debba applicare al cliente inadempiente solo e soltanto gli
interessi di mora sul capitale, sostituendo questi agli interessi corrispettivi, non si farà la sommatoria tra tassi
corrispettivi e tassi moratori ai fini del calcolo del TEG e si verificherà lo sforamento del tasso soglia solo con
riferimento al tasso moratorio sommato a tutte le spese accessorie;
- se invece il contratto prevede che il tasso moratorio si applichi in aggiunta a quello corrispettivo, allora i due
indici andranno valutati congiuntamente ed il risultato andrà confrontato con i limiti normativamente imposti
(legge n. 108/96 e succ. modifiche).
Nella fattispecie in esame, l'art. 5 del contratto stabilisce che "l'importo complessivamente dovuto alla scadenza
di ciascuna rata (..) e non pagato, produce interessi di mora (...) La parte finanziata approva specificatamente il
diritto del Banco di imputare gli interessi di mora sull'intero importo delta rata scaduta e non pagata". Pertanto,
25
prevedendo il contratto che gli interessi moratori non si sostituiscano a quelli corrispettivi ma si sommino a
questi (quindi su ogni rata già formata da quota capitale e quota interessi corrispettivi] si può concludere che,
applicando la normativa al contratto de quo, anche gli interessi di mora siano da computarsi ai fini del TEGM e
pertanto quest'ultimo sfora il tasso soglia (vigente alla data della stipula] ed il contratto di mutuo sia usurato ab
origine, quindi trova applicazione la sanzione civilistica ex art. 1815 u.c. cc
5.3 Trib. Napoli 15 aprile 2014
Nella sentenza Cass. 350/2013 viene affermato niente altro se non che la disciplina relativa al tasso soglia, con le relative sanzioni, riguarda anche gli interessi moratori in sé considerati, con la conseguenza che anche rispetto ad essi deve verificarsi attentamente l'eventuale superamento del tasso soglia, e conseguentemente dichiararsi la nullità delle relative previsioni per il caso del suo superamento. Laddove, invece, nella indicata sentenza della Suprema Corte si fa riferimento alla "maggiorazione di tre punti a titolo di mora" non vuole intendersi l'affermazione di principio circa la necessità di effettuare una sommatoria tra i tassi corrispettivi e i tassi moratori in relazione al limite del tasso soglia, ma si ha semplicemente riguardo ad una modalità di pattuizione di quello specifico tasso di mora contrattuale, che così come contrattato, nella fattispecie esaminata dal Giudice di legittimità, risultava moratorio, in sé e per sé considerato, ed a prescindere da qualsivoglia sommatoria con il tasso relativo agli interessi corrispettivi.
la violazione denunciata da parte ricorrente troverebbe la propria ragion d'essere, nella prospettazione difensiva
di parte ricorrente, nell'avvenuta pattuizione, in sede di contratto di mutuo, di due differenti tassi di interesse a
titolo rispettivamente di corrispettivo del prestito, nella misura del 5,50%, (art. 1 del contratto di mutuo), e a
titolo di interesse moratorio, nella misura del 6,795 % (art. 5 del contratto) per l'ipotesi di inadempimento.
Sostiene, infatti, il ricorrente che con la sommatoria dei detti interessi si perverrebbe ad un tasso del 12,295 %
che sarebbe un tasso ben al di sopra del tasso soglia d'usura come rilevabile avuto riguardo al tempo della
rilevazione della Banca di Italia, fissato all'epoca del contratto nella misura del 6,795 %, ovvero nella misura del
tasso effettivo globale medio su base annua dell'epoca, aumentato della metà.
Ritiene questo Giudicante che una siffatta ricostruzione dei fatti sia il frutto di una fuorviante interpretazione
della statuizione assunta dalla Corte di Cassazione con la nota pronuncia n. 350/2013 nella quale è stato
testualmente sostenuto che "risulta che parte ricorrente aveva specificamente censurato il calcolo del tasso
pattuito in raffronto con il tasso soglia senza tenere conto della maggiorazione di tre punti a titolo di mora,
laddove, invece, ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e dell'art. 1815 c.c., comma 2, si intendono usurari gli
interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque
convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori (Corte cost. 25 febbraio 2002 n. 29: "il
riferimento, contenuto nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, agli interessi a qualunque titolo convenuti rende
plausibile - senza necessità di specifica motivazione - l'assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di
legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori". Cass., n. 5324/2003).
Tale motivazione merita una interpretazione adeguata e coerente con il sistema, laddove, pure affermando e
ribadendo la stessa un principio ormai riconosciuto e già sancito anche in un'altra importante sentenza della
Corte Costituzionale, (25-2-2002 n. 29) non puo' ritenersi che in essa risulti affermato niente altro se non che la
disciplina relativa al tasso soglia, con le relative sanzioni, riguarda anche gli interessi moratori in sé considerati,
con la conseguenza che anche rispetto ad essi deve verificarsi attentamente l'eventuale superamento del tasso
soglia, e conseguentemente dichiararsi la nullità delle relative previsioni per il caso del suo superamento.
Laddove, invece, nella indicata sentenza della Suprema Corte si fa riferimento alla "maggiorazione di tre punti a
titolo di mora" non vuole intendersi l'affermazione di principio circa la necessità di effettuare una sommatoria tra
i tassi corrispettivi e i tassi moratori in relazione al limite del tasso soglia, ma si ha semplicemente riguardo ad una
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modalità di pattuizione di quello specifico tasso di mora contrattuale, che così come contrattato, nella fattispecie
esaminata dal Giudice di legittimità, risultava moratorio, in sé e per sé considerato, ed a prescindere da
qualsivoglia sommatoria con il tasso relativo agli interessi corrispettivi.
Procedere, invece, addizionando il tasso moratorio al tasso corrispettivo, e sottoponendo al vaglio del
superamento del tasso soglia il dato derivante dalla detta somma aritmetica significherebbe non cogliere la
differente natura delle due previsioni pattizie, che restano autonome l'una dall'altra e solo occasionalmente
interdipendenti, atteso che, come evidenziato in analoga fattispecie dal Collegio di Napoli dell'arbitro bancario
finanziario, "in materia finanziaria l'interesse, nel momento stesso in cui si rende disponibile (ovvero alla
scadenza di pagamento), diventa capitale".
Pertanto, fondamentale è la necessità di considerare, nella interpretazione del dato oggettivo del tasso soglia, e
degli elementi che lo compongono, la esatta composizione dello stesso, nel quale non è data la possibilità di
assimilazione, alle altre voci che compongono il TEG del finanziamento ovvero alle altre voci considerate dalle
Circolari della Banca d'Italia, anche dell'interesse moratorio in quanto tale.
A cadere sotto la scure della sanzione della nullità, con conseguente obbligo di restituzione dell'indebito, e invece,
anche nella ribadita interpretazione della Suprema Corte, solo la previsione di un tasso moratorio che, in sé
considerato, e non in forma additiva rispetto al tasso corrispettivo ed alle altre voci considerate nel T.E.G., sia
tale da oltrepassare il tasso soglia.
Non trascurabile è il dato essenziale, ai fini dell'indagine, che, proprio per la menzionata differente natura
dell'interesse corrispettivo e di quello moratorio, al secondo vada attribuita natura sostitutiva e non additiva del
tasso corrispettivo, venendo lo stesso in rilievo in via eventuale solo per l'ipotesi di inadempimento e su di una
somma complessivamente considerata, ove la parte cui si è tenuti per la quota, originariamente prevista quale
interesse si è ormai inglobata nel capitale perdendo la propria originaria vocazione e natura di interesse.
6. OBBLIGAZIONI SOLIDALI E CONDOMINIO
6.1 Cass. Sez. Un. 8 aprile 2008 n.9148
Ritenuto che la solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza non soltanto della pluralità dei debitori e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì della indivisibilità della prestazione comune; che in mancanza di quest'ultimo requisito e in difetto di una espressa disposizione di legge, la intrinseca parziarietà della obbligazione prevale; considerato che l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché comune, è divisibile, trattandosi di somma di danaro; che la solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge e che l'art. 1123 cit., interpretato secondo il significato letterale e secondo il sistema in cui si inserisce, non distingue il profilo esterno e quello interno; rilevato, infine, che - in conformità con il difetto di struttura unitaria del condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità individuale dei diritti, delle obbligazioni e della relativa responsabilità - l'amministratore vincola i singoli nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote: tutto ciò premesso, le obbligazioni e la susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal criterio dalla parziarietà. Ai singoli si imputano, in proporzione alle rispettive quote, le obbligazioni assunte nel cosiddetto "interesse del condominio", in relazione alle spese per la conservazione e per il godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ., per le obbligazioni ereditarie, secondo cui i coeredi concorrono al pagamento dei debiti ereditali in proporzione alle loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei condebitori tra gli eredi si ripartisce in proporzione alle quote ereditarie.
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2.1 La questione di diritto, che la Suprema Corte deve risolvere per decidere la controversia, riguarda la natura
delle obbligazioni dei condomini.
Secondo l'orientamento maggioritario della giurisprudenza, la responsabilità dei singoli partecipanti per le
obbligazioni assunte dal "condominio" verso i terzi ha natura solidale, avuto riguardo al principio generale
stabilito dall'art. 1294 cod. civ. per l'ipotesi in cui più soggetti siano obbligati per la medesima prestazione:
principio non derogato dall'art. 1123 cod. civ., che si limita a ripartire gli oneri all'interno del condominio (Cass.,
Sez. II, 5 aprile 1982, n. 2085; Cass., Sez. II, 17 aprile 1993, n. 4558; Cass., Sez. II, 30 luglio 2004, n. 14593; Cass.,
Sez. II, 31 agosto 2005, n. 17563).
Per l'indirizzo decisamente minoritario, la responsabilità dei condomini è retta dal criterio dalla parziarietà: in
proporzione alle rispettive quote, ai singoli partecipanti si imputano le obbligazioni assunte nell'interesse del
"condominio", relativamente alle spese per la conservazione e per il godimento delle cose comuni dell'edificio,
per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le
obbligazioni dei condomini sono regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le
obbligazioni ereditarie, secondo cui al pagamento dei debiti ereditali i coeredi concorrono in proporzione alle
loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei condebitori si ripartisce tra gli eredi in proporzione alle quote
ereditarie (Cass., Sez. II, 27 settembre 1996, n. 8530).
2.2 Per determinare i principi di diritto, che regolano le obbligazioni (contrattuali) unitarie le quali vincolano la
pluralità di soggetti passivi - i condomini - occorre muovere dal fondamento della solidarietà.
L'assunto è che la solidarietà passiva scaturisca dalla contestuale presenza di diversi requisiti, in difetto
dei quali - e di una precisa disposizione di legge - il criterio non si applica, non essendo sufficiente la
comunanza del debito tra la pluralità dei debitori e l'identica causa dell'obbligazione; che nessuna
specifica disposizione contempli la solidarietà tra i condomini, cui osta la parziarietà intrinseca della prestazione;
che la solidarietà non possa ricondursi alla asserita unitarietà del gruppo, in quanto il condominio non raffigura
un "ente di gestione", ma una organizzazione pluralistica e l'amministratore rappresenta immediatamente i singoli
partecipanti, nei limiti del mandato conferito secondo le quote di ciascuno.
La disposizione dell'art. 1292 cod. civ. - è noto - si limita a descrivere il fenomeno e le sue conseguenze. Invero,
sotto la rubrica "nozione della solidarietà", definisce l'obbligazione in solido quella in cui "più debitori sono
obbligati tutti per la medesima prestazione" e aggiunge che ciascuno può essere costretto all'adempimento per la
totalità (con liberazione degli altri). L'art. 1294 cod. civ. stabilisce che "i condebitori sono tenuti in solido, se dalla
legge o dal titolo non risulta diversamente". Nessuna delle norme, tuttavia, precisa la ratio della solidarietà,
ovverosia ne chiarisce il fondamento (che risulta necessario, quanto meno, per risolvere i casi dubbi).
Stando all'interpretazione più accreditata, le obbligazioni solidali, indivisibili e parziarie raffigurano le risposte
dell'ordinamento ai problemi derivanti dalla presenza di più debitori (o creditori), dalla unicità della causa
dell'obbligazione (eadem causa obbligandi) e dalla unicità della prestazione (eadem res debita).
Mentre dalla pluralità dei debitori e dalla unicità della causa dell'obbligazione scaturiscono questioni che, nella
specie, non rilevano, la categoria dell'idem debitum propone problemi tecnici considerevoli: in particolare, la
unicità della prestazione che, per natura, è suscettibile di divisione, e la individuazione del vincolo della solidarietà
rispetto alla prestazione la quale, nel suo sostrato di fatto, è naturalisticamente parziaria.
Semplificando categorie complesse ed assai elaborate, l'indivisibilità consiste nel modo di essere della
prestazione: nel suo elemento oggettivo, specie laddove la insussistenza naturalistica della indivisibilità
non è accompagnata dall'obbligo specifico imposto per legge a ciascun debitore di adempiere per
l'intero. Quando la prestazione per natura non è indivisibile, la solidarietà dipende dalle norme e dai
principi. La solidarietà raffigura un particolare atteggiamento nei rapporti esterni di una obbligazione
intrinsecamente parziaria quando la legge privilegia la comunanza della prestazione. Altrimenti, la
struttura parziaria dell'obbligazione ha il sopravvento e insorge una pluralità di obbligazioni tra loro
connesse.
È pur vero che la solidarietà raffigura un principio riguardante i condebitori in genere. Ma il principio generale è
valido laddove, in concreto, sussistono tutti i presupposti previsti dalla legge per la attuazione congiunta del
condebito. Sicuramente, quando la prestazione comune a ciascuno dei debitori è, allo stesso tempo, indivisibile.
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Se invece l'obbligazione è divisibile, salvo che dalla legge (espressamente) sia considerata solidale, il principio
della solidarietà (passiva) va contemperato con quello della divisibilità stabilito dall'art. 1314 cod. civ., secondo
cui se più sono i debitori ed è la stessa la causa dell'obbligazione, ciascuno dei debitori non è tenuto a pagare il
debito che per la sua parte.
Poiché la solidarietà, spesso, viene ad essere la configurazione ex lege, nei rapporti esterni, di una obbligazione
intrinsecamente parziaria, in difetto di configurazione normativa dell'obbligazione come solidale e,
contemporaneamente, in presenza di una obbligazione comune, ma naturalisticamente, divisibile viene meno uno
dei requisiti della solidarietà e la struttura parziaria dell’obbligazione prevale.
Del resto, la solidarietà viene meno ogni qual volta la fonte dell'obbligazione comune è intimamente collegata
con la titolarità delle res.
Le disposizioni di cui agli artt. 752, 754 e 1295 cod. civ. - che prevedono la parziarietà delle obbligazioni dei
coeredi e la sostituzione, per effetto dell'apertura della successione, di una obbligazione nata unitaria con una
pluralità di obbligazioni parziarie - esprimono il criterio di ordine generale del collegamento tra le obbligazioni e
le res.
Per la verità, si tratta di obbligazioni immediatamente connesse con l'attribuzione ereditaria dei beni: di
obbligazioni ricondotte alla titolarità dei beni ereditari in ragione dell'appartenenza della quota. Ciascun erede
risponde soltanto della sua quota, in quanto è titolare di una quota di beni ereditari. Più in generale, laddove si
riscontra lo stesso vincolo tra l'obbligazione e la quota e nella struttura dell'obbligazione, originata dalla
medesima causa per una pluralità di obbligati, non sussiste il carattere della indivisibilità della prestazione, è
ragionevole inferire che rispetto alla solidarietà non contemplata (espressamente) prevalga la struttura parziaria
del vincolo.
2.3 Le direttive ermeneutiche esposte valgono per le obbligazioni facenti capo ai gruppi organizzati, ma
non personificati.
Per ciò che concerne la struttura delle obbligazioni assunte nel cosiddetto interesse del "condominio" - in realtà,
ascritte ai singoli condomini - si riscontrano certamente la pluralità dei debitori (i condomini) e la ‘eadem causa
obbligandi’, la unicità della causa: il contratto da cui l'obbligazione ha origine. È discutibile, invece, la unicità della
prestazione (idem debitum) che certamente è unica ed indivisibile per il creditore, il quale effettua una
prestazione nell'interesse e in favore di tutti condomini (il rifacimento della facciata, l'impermeabilizzazione del
tetto, la fornitura del carburante per il riscaldamento etc.). L'obbligazione dei condomini (condebitori), invece,
consistendo in una somma di danaro, raffigura una prestazione comune, ma naturalisticamente divisibile.
Orbene, nessuna norma di legge espressamente dispone che il criterio della solidarietà si applichi alle
obbligazioni dei condomini.
Non certo l'art. 1115 comma 1 cod. civ. Sotto la rubrica "obbligazioni solidali dei partecipanti", la norma
stabilisce che ciascun partecipante può esigere che siano estinte le obbligazioni contratte in solido per la cosa
comune e che la somma per estinguerle sia ricavata dal prezzo di vendita della stessa cosa. La disposizione, in
quanto si riferisce alle obbligazioni contratte in solido dai comunisti per la cosa comune, ha valore meramente
descrittivo, non prescrittivo: non stabilisce che le obbligazioni debbano essere contratte in solido, ma regola le
obbligazioni che, concretamente, sono contratte in solido. A parte ciò, la disposizione non riguarda il
condominio negli edifici e non si applica al condominio, in quanto regola l'ipotesi di vendita della cosa comune.
La disposizione, infatti, contempla la cosa comune soggetta a divisione e non le cose, gli impianti ed i servizi
comuni del fabbricato, i quali sono contrassegnati dalla normale indivisibilità ai sensi dell'art. 1119 cod. civ. e,
comunque, dalla assoluta inespropriabilità.
D'altra parte, nelle obbligazioni dei condomini la parziarietà si riconduce all'art. 1123 cod. civ., interpretato
valorizzando la relazione tra la titolarità della obbligazione e la quella della cosa. Si tratta di obbligazioni propter
rem, che nascono come conseguenza dell'appartenenza in comune, in ragione della quota, delle cose, degli
impianti e dei servizi e, solo in ragione della quota, a norma dell'art. 1123 cit., i condomini sono tenuti a
contribuire alle spese per le parti comuni. Per la verità, la mera valenza interna del criterio di ripartizione raffigura
un espediente elegante, ma privo di riscontro nei dati formali.
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Se l'argomento che la ripartizione delle spese regolata dall'art. 1123 comma 1 cod. civ. riguardi il mero profilo
interno non persuade, non convince neppure l'asserto che il comma 2 dello stesso art. 1223 - concernente la
ripartizione delle spese per l'uso delle parti comuni destinate a servire i condomini in misura diversa, in
proporzione all'uso che ciascuno può fame - renda impossibile l'attuazione parziaria all'esterno: con la
conseguenza che, quanto all'attuazione, tutte le spese disciplinate dall'art. 1223 cit. devono essere regolate allo
stesso modo.
Entrambe le ipotesi hanno in comune il collegamento con la res. Il primo comma riguarda le spese per la
conservazione delle cose comuni, rispetto alle quali l'inerenza ai beni è immediata; il secondo comma concerne le
spese per l'uso, in cui sussiste comunque il collegamento con le cose: l'obbligazione, ancorché influenzata nel
quantum dalla misura dell'uso diverso, non prescinde dalla contitolarità delle parti comuni, che ne costituisce il
fondamento. In ultima analisi, configurandosi entrambe le obbligazioni come obligationes propter rem, in quanto
connesse con la titolarità del diritto reale sulle parti comuni, ed essendo queste obbligazioni comuni
naturalisticamente divisibili ex parte debitoris, il vincolo solidale risulta inapplicabile e prevale la struttura
intrinsecamente parziaria delle obbligazioni. D'altra parte, per la loro ripartizione in pratica si può sempre fare
riferimento alle diverse tabelle millesimali relative alla proprietà ed alla misura dell'uso.
2.5 Né la solidarietà può ricondursi alla asserita unitarietà del gruppo dei condomini.
Dalla giurisprudenza, il condominio si definisce come "ente di gestione", per dare conto del fatto che la
legittimazione dell'amministratore non priva i singoli partecipanti della loro legittimazione ad agire in giudizio in
difesa dei diritti relativi alle parti comuni; di avvalersi autonomamente dei mezzi di impugnazione; di intervenire
nei giudizi intrapresi dall'amministratore, ecc..
Ma la figura dell'ente, ancorché di mera gestione, suppone che coloro i quali ne hanno la rappresentanza non
vengano surrogati dai partecipanti. D'altra parte, gli enti di gestione in senso tecnico raffigurano una categoria
definita ancorché non unitaria, ai quali dalle leggi sono assegnati compiti e responsabilità differenti e la disciplina
eterogenea si adegua alle disparate finalità perseguite (art. 3 legge 22 dicembre 1956, n. 1589). Gli enti di gestione
operano in concreto attraverso le società per azioni di diritto comune, delle quali detengono le partecipazioni
azionarie e che organizzano nei modi più opportuni: in attuazione delle direttive governative, razionalizzano le
attività controllate, coordinano i programmi e assicurano l'assistenza finanziaria mediante i fondi di dotazione.
Per la struttura, gli enti di gestione si contrassegnano in ragione della soggettività (personalità giuridica pubblica)
e dell'autonomia patrimoniale (la titolarità delle partecipazioni azionarie e del fondo di dotazione).
Orbene, nonostante l'opinabile rassomiglianza della funzione - il fatto che l'amministratore e l'assemblea
gestiscano le parti comuni per conto dei condomini, ai quali le parti comuni appartengono - le ragguardevoli
diversità della struttura dimostrano la inconsistenza del ripetuto e acritico riferimento dell'ente di gestione al
condominio negli edifici.
Il condominio, infatti, non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la titolarità dei
diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini; agli stessi
condomini sono ascritte le obbligazioni per le cose, gli impianti ed i servizi comuni e la relativa responsabilità; le
obbligazioni contratte nel cosiddetto interesse del condominio non si contraggono in favore di un ente, ma
nell'interesse dei singoli partecipanti.
Secondo la giurisprudenza consolidata, poi, l'amministratore del condominio raffigura un ufficio di diritto
privato assimilabile al mandato con rappresentanza: con la conseguente applicazione, nei rapporti tra
l'amministratore e ciascuno dei condomini, delle disposizioni sul mandato.
Orbene, la rappresentanza, non soltanto processuale, dell'amministratore del condominio è circoscritta alle
attribuzioni - ai compiti ed ai poteri - stabilite dall'art. 1130 cod. civ..
In giudizio l'amministratore rappresenta i singoli condomini, i quali sono parti in causa nei limiti della loro quota
(art. 1118 e 1123 cod. civ.). L'amministratore agisce in giudizio per la tutela dei diritti di ciascuno dei condomini,
nei limiti della loro quota, e solo in questa misura ognuno dei condomini rappresentati deve rispondere delle
conseguenze negative. Del resto, l'amministratore non ha certo il potere di impegnare i condomini al di là del
diritto, che ciascuno di essi ha nella comunione, in virtù della legge, degli atti d'acquisto e delle convenzioni. In
proporzione a tale diritto ogni partecipante concorre alla nomina dell'amministratore e in proporzione a tale
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diritto deve ritenersi che gli conferisca la rappresentanza in giudizio. Basti pensare che, nel caso in cui
l'amministratore agisca o sia convenuto in giudizio per la tutela di un diritto, il quale fa capo solo a determinati
condomini, soltanto i condomini interessati partecipano al giudizio ed essi soltanto rispondono delle
conseguenze della lite.
Pertanto, l'amministratore - in quanto non può obbligare i singoli condomini se non nei limiti dei suoi poteri, che
non contemplano la modifica dei criteri di imputazione e di ripartizione delle spese stabiliti dall'art. 1123 c.c. -
non può obbligare i singoli condomini se non nei limiti della rispettiva quota.
2.5 Riepilogando, ritenuto che la solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza non
soltanto della pluralità dei debitori e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì della indivisibilità
della prestazione comune; che in mancanza di quest'ultimo requisito e in difetto di una espressa
disposizione di legge, la intrinseca parziarietà della obbligazione prevale; considerato che
l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché comune, è divisibile, trattandosi di somma di
danaro; che la solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge e che
l'art. 1123 cit., interpretato secondo il significato letterale e secondo il sistema in cui si inserisce, non
distingue il profilo esterno e quello interno; rilevato, infine, che - in conformità con il difetto di struttura
unitaria del condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità individuale dei diritti, delle
obbligazioni e della relativa responsabilità - l'amministratore vincola i singoli nei limiti delle sue
attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote: tutto ciò premesso, le obbligazioni e la
susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal criterio dalla parziarietà. Ai singoli si
imputano, in proporzione alle rispettive quote, le obbligazioni assunte nel cosiddetto "interesse del
condominio", in relazione alle spese per la conservazione e per il godimento delle cose comuni
dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla
maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono regolate da criteri consimili a quelli dettati
dagli artt. 752 e 1295 cod. civ., per le obbligazioni ereditarie, secondo cui i coeredi concorrono al
pagamento dei debiti ereditali in proporzione alle loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei
condebitori tra gli eredi si ripartisce in proporzione alle quote ereditarie.
2.6 Il contratto, stipulato dall'amministratore rappresentante, in nome e nell'interesse dei condomini
rappresentati e nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetti nei confronti dei
rappresentati. Conseguita nel processo la condanna dell'amministratore, quale rappresentante dei
condomini, il creditore può procedere all'esecuzione individualmente nei confronti dei singoli, secondo
la quota di ciascuno.
Per concludere, la soluzione, prescelta secondo i rigorosi principi di diritto che regolano le obbligazioni
contrattuali comuni con pluralità di soggetti passivi, appare adeguata alle esigenze di giustizia sostanziale
emergenti dalla realtà economica e sociale del condominio negli edifici.
Per la verità, la solidarietà avvantaggerebbe il creditore il quale, contrattando con l'amministratore del
condominio, conosce la situazione della parte debitrice e può cautelarsi in vari modi; ma appare preferibile il
criterio della parziarietà, che non costringe i debitori ad anticipare somme a volte rilevantissime in seguito alla
scelta (inattesa) operata unilateralmente dal creditore. Allo stesso tempo, non si riscontrano ragioni di
opportunità per posticipare la ripartizione del debito tra i condomini al tempo della rivalsa, piuttosto che attuarla
al momento dell'adempimento.
6.2 Cass. 29 gennaio 2015, n. 1674
La responsabilità dei condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 c.c.
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3. - Il primo motivo del ricorso principale (che sebbene genericamente intitolato è chiaramente riferito, nello
svolgimento e nel quesito di diritto, alla violazione dell'art. 1294 c.c.) è fondato nei termini che seguono.
3.1. - La natura delle obbligazioni dei singoli condomini verso i terzi è i stata oggetto, vigente la disciplina
anteriore alla legge n. 220/12 (in vigore dal 18.6.2013), di un intervento delle S.U. di questa Corte, le quali con
sentenza n. 9148/08 hanno affermato, in rapporto a obbligazioni assunte dall'amministratore in rappresentanza
del condominio nei confronti di terzi, che in difetto di un'espressa previsione normativa che stabilisca il principio
della solidarietà, la responsabilità dei condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della
parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti
soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 c.c..
Ciò in quanto, si legge in motivazione, la solidarietà configura, nei rapporti esterni tra creditore e debitori, il
modo di essere di un'obbligazione intrinsecamente parziaria quando la legge privilegia la comunanza della
prestazione. Diversamente, in assenza, cioè di un'espressa previsione normativa che stabilisca la solidarietà nel
debito, la struttura parziaria dell'obbligazione ha il sopravvento e insorge una pluralità di obbligazioni tra loro
connesse. Sebbene la solidarietà raffiguri un principio riguardante i condebitori in genere, tale principio generale
è valido laddove, in concreto, sussistano tutti i presupposti previsti dalla legge per l'attuazione congiunta del
condebito. E poiché la solidarietà, spesso, viene ad essere la configurazione ex lege, nei rapporti esterni, di
un'obbligazione intrinsecamente parziaria, in difetto di configurazione normativa dell'obbligazione come solidale
e, contemporaneamente, in presenza di un'obbligazione comune, ma naturalisticamente divisibile, viene meno
uno dei requisiti della solidarietà, la quale, del resto, viene meno ogni qual volta la fonte dell'obbligazione
comune è intimamente collegata con la titolarità delle res.
3.1.1. - Tale pronuncia delle S.U., emessa con riguardo ad un'obbligazione contrattuale che un
condominio tramite il suo amministratore aveva assunto verso un terzo, ricollega dunque la solidarietà
nelle obbligazioni divisibili ad una previsione legislativa che imponga l'esecuzione congiunta della
prestazione.
In disparte il delicato problema dell'esportabilità del principio anzi detto oltre gli stretti limiti di corrispondenza
alla fattispecie concreta posta all'esame delle S.U. (per un'argomentata negativa cfr. in motivazione Cass. n.
21907/11, che osserva come la decisione delle S.U. si basi essenzialmente su considerazioni ulteriori che
eccedono il fondamento dell'art. 1294 c.c. e la sua applicabilità alla comunione), va osservato che in materia di
responsabilità per fatto illecito l'espressa previsione della solidarietà passiva è contenuta nell'art. 2055,
primo comma c.c., in base al quale se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate
in solido al risarcimento del danno.
3.1.2. - L'applicabilità dell'art. 2055 c.c. (che opera un rafforzamento del credito evitando al creditore di dover
agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota) ai danni da cosa condominiale in custodia trova una
prima conferma, innanzi tutto, in alcuni precedenti di questa Corte, come Cass. n. 6665/09, che ha ritenuto il
condomino danneggiato quale terzo rispetto allo stesso condominio cui è ascrivibile il danno stesso (con
conseguente inapplicabilità dell'art. 1227, primo comma c.c.); Cass. n. 4797/01, per l'ipotesi di danni da omessa
manutenzione del terrazzo di copertura cagionati al condomino proprietario dell'unità immobiliare sottostante;
Cass. n. 6405/90, secondo cui i singoli proprietari delle varie unità immobiliari comprese in un edificio
condominiale, sono a norma dell'art. 1117 c.c. (salvo che risulti diversamente dal titolo) comproprietari delle parti
comuni, tra Le quali il lastrico solare, assumendone la custodia con il correlativo obbligo di manutenzione, con la
conseguenza, nel caso di danni a terzi per difetto di manutenzione del detto lastrico, della responsabilità solidale
di tutti i condomini, a norma degli artt. 2051 e 2055 c.c..
3.1.3. - Ciò premesso a giustificazione di una linea di tendenza che appare già presente, va osservato che
premesse storiche, ragioni sistematiche e considerazioni particolari alla fattispecie della responsabilità per danni
derivanti da cose in custodia, confortano la tesi dell'applicabilità dell'art. 2055, 1 comma c.c. anche in
ambito condominiale.
Nel codice civile del 1865, che come tutti i codici liberali dell'800 richiedeva, essendo ispirato al favor debitoris,
una specifica fonte convenzionale o legale della solidarietà (v. l'art. 1188 c.c. 1865), la previsione della solidarietà
passiva nelle ipotesi di delitto o quasi-delitto (v. l'art. 1156 c.c. 1865) impediva che l'opposto principio della
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parziarietà dell'obbligazione, concepito come una sorta di beneficio, potesse operare anche a vantaggio di chi,
essendo autore di un illecito aquiliano, non ne era ritenuto degno.
Invertita nel codice vigente la regola generale sulla solidarietà passiva, l'art. 2055 c.c. può ritenersi mera norma di
rimando all'art. 1294 c.c. solo a patto di riespandere quella portata generale e autoreferenziale di quest'ultima
disposizione, che il citato arresto delle S.U. ha inteso comprimere.
Diversamente, minore è la pervasività della regola generale nelle singole ipotesi di obbligazioni soggettivamente
complesse nel lato passivo, maggiore, di riflesso, è l'autonoma incidenza fondativa delle norme che prevedono la
solidarietà in ambiti particolari, tra cui appunto l'art. 2055, 1 comma c.c. per quanto concerne la responsabilità
extracontrattuale. Non può ipotizzarsi, infatti, che il sistema ponga allo stesso modo, con disposizioni
ugualmente generiche e necessitanti d'integrazione, tanto la regola generale quanto quella di settore.
A ciò va aggiunto che la stessa struttura della responsabilità per danni prevista dall'art. 2051 c.c. presuppone
l'identificazione di uno o più soggetti cui sia imputabile la custodia. Il custode non può essere identificato né nel
condominio, interfaccia idoneo a rendere il danneggiato terzo rispetto agli altri condomini, ma pur sempre ente
di sola gestione di beni comuni, né nel suo amministratore, essendo questi un mandatario dei condomini. Solo
questi ultimi, invece, possono considerarsi investiti del governo della cosa, in base ad una disponibilità di fatto e
ad un potere di diritto che deriva loro dalla proprietà piena sui beni comuni ex art. 1117 c.c. (sui requisiti in
generale della custodia ai fini dell'applicazione dell'art. 2051 c.c., cfr. Cass. S.U. n. 12019/91).
Se ne deve trarre, pertanto, che il risarcimento del danno da cosa in custodia di proprietà condominiale
non si sottrae alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, 1 comma c.c., individuati nei singoli
condomini i soggetti solidalmente responsabili.
7. LE SEZIONI UNITE SULLE OBBLIGAZIONI SOLIDALI IN TEMA DI
ILLECITO AQUILANO: Cass. Sez. Un. 15 luglio 2009, n. 16503
In contrapposizione all'art. 2043 c.c., che fa sorgere l'obbligo del risarcimento dalla commissione di un «fatto» doloso o colposo, il successivo art. 2055 considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il «fatto dannoso», sicché, mentre la prima norma si riferisce all'azione del soggetto che cagiona l'evento, la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno, ed in cui favore è stabilita la solidarietà. Deriva, da quanto precede, che l'unicità del fatto dannoso richiesta dal ricordato art. 2055 per la legittima predicabilità di una responsabilità solidale tra gli autori dell'illecito deve essere intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale forma di responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempreché le singole azioni o omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno. In altri termini, per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti l'art. 2055, comma 1, c.c. richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l'unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate.
10. Con il primo motivo il ricorrente S. R. censura la sentenza impugnata denunziando “violazione e falsa
applicazione degli artt. 1306, 2° comma e 2909 c.c. e dell'art. 112 c.p.c.; omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3, 4 e 5 c.p.c.)”.
Assume, in particolare, il ricorrente che la deroga al principio dei limiti soggettivi del giudicato, di cui all'art. 1306,
comma 2, c.c. può operare solo con riferimento alle obbligazioni solidali nascenti da uno stesso titolo.
11. Nei limiti di cui appresso il motivo è fondato.
Alla luce delle considerazioni che seguono.
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11.1. In tema di obbligazioni solidali, giusta la puntuale previsione di cui all'art. 1306 c.c. “la sentenza pronunziata
tra il creditore e uno dei debitori in solido, o tra il debitore e uno dei creditori in solido, non ha effetto contro gli
altri debitori o contro gli altri creditori” (comma 1).
“Gli altri debitori - peraltro - possono opporla al creditore, salvo che sia fondata sopra ragioni personali al
condebitore; gli altri creditori possono farla valere contro il debitore, salve le eccezioni personali che questi può
opporre a ciascuno di essi” (comma 2).
11.2. In applicazione della disposizione da ultimo trascritta la sentenza ora oggetto di ricorso per cassazione, ha
rigettato la domanda proposta da S. R. nei confronti del Ministero osservando:
- il giudizio (tra il danneggiato e il T. nonché la compagnia assicuratrice del veicolo dallo stesso condotto),
conclusosi con sentenza passata in giudicato 8 luglio 1987 ha avuto a oggetto lo stesso fatto generatore del
danno, ossia l'investimento di S. R. a opera dell'auto condotta dal T. e di sua proprietà, dedotto in questa sede al
fine di estendere la responsabilità del Ministero quale soggetto autore di una condotta autonoma, antecedente
che avrebbe concorso, mediante omissione di doverose cautele, a provocare il sinistro;
- da ciò discende che il Ministero, chiamato a rispondere quale condebitore solidale in relazione al medesimo
fatto generatore del danno, ancorché con ruolo causale autonomo per condotta antecedente, e rimasto estraneo
al giudizio, ha facoltà - ai sensi dell'art. 1306, comma 2 c.c. - di opporre allo S., quale creditore, la sentenza
passata in giudicato, così giovandosi dell'accertamento, ormai irretrattabile, fatto nei rapporti con gli altri
condebitori solidali, in forza del quale il danno, per metà, deve restare a carico della vittima, senza possibilità di
rivalsa nei confronti degli altri condebitori.
11.3. L'interpretazione data, dalla sentenza gravata, al combinato disposto di cui agli artt. 1306, comma 2 e 2909
c.c. non merita - a parere di queste Sezioni Unite - conferma.
11.3.1. Come noto, in contrapposizione all'art. 2043 c.c., che fa sorgere l'obbligo del risarcimento dalla
commissione di un «fatto» doloso o colposo, il successivo art. 2055 considera, ai fini della solidarietà nel
risarcimento stesso, il «fatto dannoso», sicché, mentre la prima norma si riferisce all'azione del soggetto
che cagiona l'evento, la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno, ed in cui favore è
stabilita la solidarietà.
Deriva, da quanto precede, che l'unicità del fatto dannoso richiesta dal ricordato art. 2055 per la
legittima predicabilità di una responsabilità solidale tra gli autori dell'illecito deve essere intesa in senso
non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale forma di responsabilità pur se il
fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed
anche diversi, sempreché le singole azioni o omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla
produzione del danno (Cass. 15 luglio 2005, n. 15030).
In altri termini, per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti l'art. 2055, comma 1, c.c.
richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano tra
loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso
in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l'unicità del
fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va
intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate (Cass. 16 dicembre 2005, n. 27713; Cass. 14
gennaio 1996, n. 418).
11.3.2. Certo quanto sopra, osserva la Corte che nella specie la sentenza del 1987, coperta da giudicato, ha
ritenuto - in esito a un giudizio al quale non ha partecipato il Ministero odierno controricorrente - che il fatto
dannoso denunziato (le lesioni riportate da S. R.) fosse ascrivibile alla concorrente responsabilità de il T., che ha
investito lo S. (per il 50 %) e dello stesso S. (per il restante 50%) che non ha prestato la dovuta attenzione
nell'attraversare la carreggiata stradale percorsa dal T..
11.3.3. È evidente, pertanto, che il giudicato formatosi in quella sede [e opponibile al creditore da parte del
Ministero, condebitore solidale] riguarda, oltre che la misura del danno conseguente all'evento (cfr. Cass. 11
giugno 2008, n. 15462) non - come implicitamente ritenuto dalla sentenza impugnata - tutte le autonome, e
distinte, condotte poste in essere da tutti coloro che - almeno in tesi - possono ritenersi responsabili solidali
dell'evento, ma unicamente il comportamento colposo di uno di questi, e, in particolare, del T..
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Non essendo stato oggetto di indagine, in quel giudizio, la diversa, e autonoma, condotta del Ministero che ha
omesso di vigilare sul comportamento dello S., all'epoca dei fatti minore, è evidente che nessun giudicato, si è
formato - ex art. 2909 c.c. - su tale omessa (o insufficiente) vigilanza.
11.3.4. Certo quanto sopra, e certo che nella specie il danneggiato non ha ottenuto - in esito al precedente
giudizio - l'integrale risarcimento del pregiudizio patito (e già accertato) è palese che non sussisteva alcuna
preclusione, perché il danneggiato - dopo il passaggio in giudicato della sentenza nei confronti del T. - agisca, per
ottenere il residuo risarcimento, nei confronti del Ministero per la verifica di tale diversa colpa in vigilando.
A fronte di tale domanda, correttamente - in applicazione dell'art. 1306, comma 2, c.c. - il Ministero (al fine di
paralizzare almeno in parte, l'accoglimento della domanda avversaria) ha opposto che era oramai irretrattabile sia
il quantum debeatur del fatto dannoso, sia che di questo il T. era responsabile al 50%.
È certo - infatti - che in questo secondo giudizio lo S. non può pretendere danni ulteriori né il pagamento, dal
coobbligato solidale delle somme già riscosse in forza del precedente titolo dall'altro coobbligato (cfr. Cass. 2
luglio 2004, n. 12174).
11.3.5. Deve escludersi, peraltro, come anticipato, che sia precluso in questo nuovo giudizio il diverso
accertamento - ora sollecitato dallo S. - quanto alla rilevanza della condotta negligente della scuola, e quindi del
Ministero, per avere omesso i dovuti controlli prima di lasciare libero il minore.
Infatti, a prescindere dal rilevare che nessun accertamento, con forza di giudicato, è stato mai compiuto
al riguardo, non può considerarsi favorevole al debitore solidale - per gli effetti di cui all'art. 1306,
comma 2, c.c. - il capo della sentenza che abbia affermato la sussistenza del concorrente apporto
causale dello stesso creditore al verificarsi dell'evento lesivo (a norma dell'art. 1227, comma 1, c.c.) qualora
il creditore nel secondo giudizio intenda imputare al terzo, non convenuto nel precedente giudizio, la
responsabilità proprio di quell'apporto causale che il primo giudice abbia ritenuto scriminante della
responsabilità del primo convenuto.
8. TRANSAZIONE E OBBLIGAZIONI SOLIDALI: Cass. Sez. Un. 30 dicembre
2011, n. 30174
Il debitore che non sia stato parte della transazione stipulata dal creditore con altro condebitore in solido non può profittarne se, trattandosi di un'obbligazione divisibile ed essendo stata la solidarietà prevista nell'interesse del creditore, l'applicazione dei criteri legali d'interpretazione dei contratti porti alla conclusione che la transazione ha avuto ad oggetto non l'intero debito ma solo la quota di esso riferibile al debitore che ha transatto; in caso contrario, il condebitore ha diritto a profittare della transazione senza che eventuali clausole in essa inserite possano impedirlo. Qualora risulti che la transazione ha avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che la ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido è destinato a ridursi in misura corrispondente all'ammontare di quanto pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito; se invece il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l'accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura proporzionale alla quota di chi ha transatto.
4. Il quarto ed il quinto motivo del ricorso sono collegati e possono perciò essere esaminati congiuntamente.
Si tratta della già accennata questione se il creditore ed uno dei debitori in solido, nel transigere la lite tra
loro insorta, possano impedire agli altri debitori in solido di profittare degli effetti della transazione,
come previsto dall'art. 1304, primo comma, c.c. (omissis)
4.1. A tal riguardo è opportuno anzitutto rilevare come l'apparente contrasto riscontrabile nella lettura di alcune
massime estratte da sentenze di questa corte (Cass. n. 5108 del 2011 e n. 4257 del 1991, da un lato, Cass. n. 1873
del 1997 e n. 24 del 1968, dall'altro) sembra in realtà agevolmente componibile in base alla diversa portata
che, di volta in volta, può assumere la transazione intervenuta tra il creditore ed uno di più condebitori
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solidali. Decisiva in tal senso, come è stato sottolineato anche dalla dottrina maggioritaria, appare la
circostanza che la transazione riguardi l'intero debito o che invece abbia ad oggetto unicamente la
quota del debitore con cui è stipulata. Ipotesi, quest'ultima, certamente configurabile - sempre che, beninteso,
l'obbligazione sia per sua natura scindibile e che non si tratti di solidarietà pattuita nell'interesse di uno dei
condebitori - quando vi consenta il creditore nel cui interesse il vincolo della solidarietà passiva è concepito,
senza che sia necessario postulare un preventivo scioglimento della solidarietà, che ben può invece realizzarsi nel
contesto medesimo della transazione. Né occorre a tal fine postulare un'indispensabile diversità dei titoli da cui
dipendono le diverse obbligazioni legate dal vincolo della solidarietà, volta che tale vincolo sia unicamente
funzionale ad una migliore realizzazione del credito e nulla perciò valga ad ostacolare la libera esplicazione
dell'autonomia negoziale delle parti che intendono escluderlo per una quota parte del credito stesso.
La transazione pro quota, in quanto tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva rispetto
al debitore che vi aderisce, non può coinvolgere gli altri condebitori, i quali dunque nessun titolo
avrebbero per profittarne, salvo ovviamente che per gli effetti derivanti dalla riduzione del loro debito in
conseguenza di quanto pagato dal debitore transigente. La previsione dell'art. 1304, primo comma, c.c.
non si riferisce a questa fattispecie (in tal senso si vedano anche Cass. n. 16050 del 2009, Cass. n. 14550 del
2009, Cass. n. 7485 del 2007, Cass. n. 9396 del 2006 e Cass. n. 8946 del 2006).
È la transazione riguardante l'intero debito quella cui, viceversa, detta norma si riferisce, perché è la
comunanza dell'oggetto della transazione a far si che di questa possa avvalersi il condebitore in solido,
pur non avendo partecipato alla sua stipulazione e quindi in deroga al principio secondo cui il contratto
produce effetto solo tra le parti. La riduzione dell'ammontare del debito eventualmente pattuita in via
transattiva con uno solo dei debitori opererà, in tal caso, anche per gli altri che dichiarino di volersene avvalere,
non diversamente da quel che sarebbe accaduto se anch'essi avessero sottoscritto la medesima transazione. Né
tale conseguenza potrebbe essere evitata introducendo nella transazione per l'intero debito una clausola di
contrario tenore, per l'ovvia considerazione che una simile clausola sarebbe destinata ad incidere su un diritto
potestativo che la legge attribuisce ad un soggetto terzo, rispetto ai contraenti, e del quale perciò questi ultimi
non sarebbero legittimati a disporre.
Lo stabilire poi se, in concreto, la transazione tra il creditore ed uno dei debitori in solido ha avuto ad oggetto
l'intero debito o solo la quota del debitore transigente comporta, evidentemente, un'indagine sul contenuto del
contratto e sulla comune volontà che in esso i contraenti hanno inteso manifestare, da compiere ad opera del
giudice di merito secondo le regole di ermeneutica fissate negli artt. 1362 e segg. c.c..
4.2. Giova però ancora interrogarsi, ove l'indagine sopra menzionata conduca alla conclusione che le parti hanno
inteso focalizzare la transazione unicamente su una determinata quota di debito, su quale sia il residuo
credito azionabile nei confronti degli altri debitori rimasti estranei.
La risposta della giurisprudenza a questo interrogativo non sempre è stata chiara. In taluni casi si è affermato che
il credito verso gli altri condebitori si riduce in proporzione alla quota transatta (cfr. Cass., n. 16050 del 2009,
Cass. n. 7485 del 2007, Cass. n. 8946 del 2006, Cass. n. 7212 del 2002, Cass. n. 2931 del 1999 e Cass. 7413 del
1991); in altri casi si è detto che esso si riduce in misura pari all'ammontare di quanto il creditore ha già percepito
a seguito della transazione (cfr. Cass. n. 5108 del 2011, Cass. n. 14550 del 2009 e Cass. n. 4820 del 1979).
Il risultato non è però necessariamente il medesimo. Qualora, infatti, la transazione porti all'uscita di scena
di uno dei debitori solidali, ma al tempo stesso alla soddisfazione del credito in misura minore rispetto
alla quota ideale gravante su quel debitore (si faccia l'esempio di un credito verso tre condebitori
solidali, d'importo pari a 90, e si ipotizzi che la transazione sulla quota di uno dei debitori abbia
determinato il pagamento di 20), un conto è affermare che gli altri condebitori restano tenuti per
l'ammontare non soddisfatto del credito (pari, nell'esempio fatto, a 70), altro dire che il loro debito si
riduce in misura proporzionale alla quota ideale del condebitore venuto meno (ciò che, nel suddetto
esempio, legittimerebbe il creditore a pretendere dai condebitori esclusi dalla transazione solo 60).
Considerato allora che la transazione parziaria non può né condurre ad un incasso superiore rispetto
all'ammontare complessivo del credito originario, né determinare un aggravamento della posizione dei
condebitori rimasti ad essa estranei, neppure in vista del successivo regresso nei rapporti interni, è
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giocoforza pervenire alla conclusione che il debito residuo dei debitori non transigenti è destinato a
ridursi in misura corrispondente all'ammontare di quanto pagato dal condebitore che ha transatto solo
se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito. In caso contrario, se
cioè il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al transigente, il debito
residuo che resta tuttora a carico solidale degli altri obbligati dovrà essere necessariamente ridotto (non
già di un ammontare pari a quanto pagato, bensì) in misura proporzionale alla quota di chi ha
transatto, giacché altrimenti la transazione provocherebbe un ingiustificato aggravamento per soggetti
rimasti ad essa estranei.
(omissis)
5. L'impugnata sentenza deve perciò essere cassata, con rinvio alla Corte d'appello di Roma (in diversa
composizione), che giudicherà attenendosi al seguente principio di diritto:
'Il debitore che non sia stato parte della transazione stipulata dal creditore con altro condebitore in
solido non può profittarne se, trattandosi di un'obbligazione divisibile ed essendo stata la solidarietà
prevista nell'interesse del creditore, l'applicazione dei criteri legali d'interpretazione dei contratti porti
alla conclusione che la transazione ha avuto ad oggetto non l'intero debito ma solo la quota di esso
riferibile al debitore che ha transatto; in caso contrario il condebitore ha diritto a profittare della
transazione senza che eventuali clausole in essa inserite possano impedirlo.
Qualora risulti che la transazione ha avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che la ha stipulata,
il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido è destinato a ridursi in misura corrispondente
all'ammontare di quanto pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma
pari o superiore alla sua quota ideale di debito; se invece il pagamento è stato inferiore alla quota che
faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l'accordo transattivo, il debito residuo gravante
sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura proporzionale alla quota di chi ha transatto'.
5. Al giudice di rinvio si richiede anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
9. LE COORDINATE DEL CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA:
Cass. Sez. Un. 18 febbraio 2010, n. 3947
La polizza fideiussoria stipulata a garanzia delle obbligazioni assunte da un appaltatore assurge a garanzia atipica, a cagione dell'insostituibilità della obbligazione principale, onde il creditore può pretendere dal garante solo un risarcimento, prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto. Con la precisazione, peraltro, della invalidità della polizza stessa se intervenuta successivamente rispetto all'inadempimento delle obbligazioni garantite.
1. La giurisprudenza di questa corte ha seguito, nel tempo, itinerari interpretativi non sempre univoci sul tema dei
rapporti tra fideiussione e cd. Garantievertrag, pur avendo di recente manifestato una sempre maggiore
consonanza di pensiero nella strutturazione di una sempre più indispensabile actio finium regundorum tra le due
fattispecie.
Già all'indomani della pronuncia di Cass. ss. uu. n. 7341 del 1987, nella quale ancora nebulosa apparve, ai
commentatori e agli interpreti più accorti, la distinzione tra contratto autonomo di garanzia e fideiussione con
clausola solve et repete, le linee portanti dei due istituti verranno più pensosamente esplorate al sempre più nitido
delinearsi dei caratteri tipici del contratto autonomo di garanzia, che (sorto alla fine dell'800 in Inghilterra e in
Germania per soddisfare evidenti e pressanti esigenze di semplificazione del commercio internazionale), approda,
non senza contrasti, nel nostro Paese con indiscutibile ritardo, attesa la problematica compatibilità della nuova
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fattispecie con i tradizionali parametri cui dottrina prevalente e giurisprudenza pressochè unanime erano avvezzi
a far riferimento in materia negoziale: da un lato, il dogma della accessorietà "necessaria" del negozio di garanzia
titolato, dall'altro, il requisito della causa negotii tralaticiamente intesa come funzione "economico sociale" del
negozio - quantomeno fino alla recente svolta di questa corte di legittimità di cui alla sentenza 10490/2006,
autorevolmente confermata dalle sezioni unite, con la sentenza n. 26972/2008.
Incertezze e disarmonie interpretative trassero linfa dalla peculiarità di una fattispecie felicemente definita (Trib.
Torino, 29 agosto 2002), come "un articolato coacervo di rapporti nascenti da autonome pattuizioni tra il
destinatario della prestazione (e beneficiario della garanzia), il garante (sovente una istituto di credito), e il
debitore della prestazione (ordinante la garanzia atipica)", in attuazione di una complessa operazione economica
destinata a dipanarsi, sotto il profilo della struttura negoziale, attraverso una scansione diacronica di rapporti, il
primo (di valuta), corrente tra debitore e creditore, tra cui viene originariamente pattuito l'adempimento di una
certa prestazione del primo nei confronti dell'altro, il secondo (di provvista), destinato a intervenire tra debitore e
futuro garante, con esso pattuendosi l'impegno di quest'ultimo a garantire il creditore del primo rapporto, il terzo
nascente, infine, tra creditore e garante, con quest'ultimo senz'altro obbligato ad adempiere alla prestazione del
debitore a semplice richiesta del primo nel caso di inadempimento del secondo (rapporti ai quali non risulterà poi
inusuale l'aggiunta di una quarta convenzione negoziale collegata, quella tra un secondo istituto di credito
controgarante e banca prima garante, avente lo stesso contenuto del primo rapporto di garanzia).
L'elemento caratterizzante della fattispecie in esame viene individuato nell'impegno del garante a
pagare illico et immediate, senza alcuna facoltà di opporre al creditore/beneficiario le eccezioni relative
ai rapporti di valuta e di provvista, in deroga agli artt. 1936, 1941 e 1945 c.c., caratterizzanti, di converso,
la garanzia fideiussoria.
Elisione del vincolo di accessorietà e scissione della garanzia dal rapporto di valuta caratterizzano sul
piano funzionale il Garantievertrag, la cui causa concreta viene correttamente individuata in quella di
assicurare la libera circolazione dei capitali e il pronto soddisfacimento dell'interesse del beneficiario
(ovvero ancora in quella di sottrarre il creditore al rischio dell'inadempimento, trasferito nei fatti su di un altro
soggetto, "istituzionalmente" solvibile), il quale può così porre affidamento su di una rapida e sollecita
escussione di una controparte affidabile, senza il rischio di vedersi opporre, in sede processuale, il
regime tipico delle eccezioni fideiussorie.
E' in tali sensi che par lecito discorrere, a proposito del contratto atipico di garanzia, di una funzione di tipo
"cauzionale" - mentre la sua più frequente utilizzazione rispetto al deposito di una vera e propria cauzione trae
linfa proprio in ragione della sua minore onerosità e della possibilità di evitare una lunga e improduttiva
immobilizzazione di capitali (conseguenza ineludibile del deposito cauzionale): è in conseguenza di tali aspetti
funzionali che la garanzia muta "geneticamente" da vicenda lato sensu fideiussoria in fattispecie atipica che, ai
sensi dell'art. 1322 c.c., comma 2, persegue un interesse certamente "meritevole di tutela", identificabile
nell'esigenza condivisa di assicurare l'integrale soddisfacimento dell'interesse economico del beneficiario
vulnerato dall'inadempimento del debitore originario e, di conseguenza, di conferire maggiore certezza allo
scorrere dei rapporti economici (specie transnazionali).
2. Emerge così, in via definitiva, sotto il profilo causale, la disarmonia morfologica e funzionale con la
fideiussione (volta a garantire l'adempimento di un debito altrui), sopravvivendo resti di omogeneità tra i due
"tipi" negoziali soltanto nella misura in cui, attorno alle due le fattispecie, orbiti ancora il concetto di garanzia,
pur nelle non riconciliabili differenze di gradazioni "che il rapporto con la garanzia stessa può assumere lungo lo
spettro, unico, che conduce dalla accessorietà alla autonomia e che delinea il Garantievertrag entro ben
determinati limiti di operatività: da un lato, un limite iniziale, costituito (soltanto) dalla illiceità della causa del
rapporto di valuta, dall'altro, un limite funzionale, rappresentato dall'abuso del diritto da parte del beneficiario, la
cd. exceptio doli generalis seu presentis, che si verifica qualora la richiesta appaia fraudolenta e con esclusione
della buona fede del beneficiario", come, di recente, un'attenta dottrina non ha mancato di osservare,
aggiungendo ancora come l'indagine sulla volontà dei contraenti andrebbe più propriamente condotta lungo il
sentiero ermeneutico dell'accertamento della carenza dell'elemento dell'accessorietà, destinato ad emergere, in
concreto, attraverso l'adozione di un complesso di regole interpretative, testuali ed extratestuali, ritenendosi, in
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particolare, che la clausola "a prima richiesta" o "a semplice richiesta" possa alternativamente rappresentare
diversi "tipi" funzionali, a grado di intensità crescente: il primo, rigorosamente procedimentale, volto alla sola
inversione dell'onere probatorio; il secondo, determinativo dell'effetto di solve et repete, per ciò solo del tutto
inscritto (ancora) nell'orbita del negozio fideiussorio; il terzo, di sostanziale separazione del diritto
all'adempimento della autonoma obbligazione di garanzia rispetto al contratto sottostante.
Largamente prevalente, in proposito, appare l'orientamento giurisprudenziale (avallato dalla dottrina
maggioritaria), predicativo della decisiva rilevanza di clausole che sanciscano l'impossibilità, per il
garante, di opporre al creditore le eccezioni relative al rapporto di base che spettano al debitore
principale (così, tra le altre, Cass. 31 luglio 2002, n. 11368; Cass. 20 luglio 2002, n. 10637; Cass. 7 marzo 2002, n.
3326; Cass. 19 giugno 2001, n. 8324; Cass. 17 maggio 2001, n. 6757; Cass. 1 ottobre 1999, n. 10684; Cass. 21
aprile 1999, n. 3964; Cass. 6 aprile 1998, n. 3552), mentre alcune pronunce di merito fondano la ricostruzione del
Garantievertrag su altri elementi del tessuto negoziale, quali la previsione di un termine breve entro cui il garante
è obbligato al pagamento, la decorrenza di tale termine dal ricevimento della richiesta del beneficiario, l'espressa
esclusione del beneficio della preventiva escussione (ex aliis, Trib. Milano 22 ottobre 2001).
Criterio interpretativo utile ad orientare l'interprete verso l'autonomia della vicenda di garanzia divisata dalle parti
riposa ancora sull'individuazione - nell'ambito di una lettura complessiva delle singole convenzioni negoziali - di
una sua eventuale funzione "cauzionale": la peculiarità propria del Garantievertrag è difatti quella di
consentire al creditore di escutere il garante con la stessa, tempestiva efficacia con cui egli potrebbe far
proprio un versamento cauzionale. La funzione cauzionale sarebbe soddisfatta, e l'autonomia della garanzia
sarebbe conseguentemente rinvenuta, secondo alcune pronunce di questa corte, tutte le volte che la relativa
convenzione attribuisca al creditore la facoltà di procedere ad immediata riscossione delle somme, a prescindere
dal rapporto garantito, realizzando così una funzione del tutto simile a quella dell'incameramento di una somma
di denaro a titolo di cauzione (Cass. 17 maggio 2001, n. 6757; Cass. 21 aprile 1999, n. 3964; Cass. 6 aprile 1998,
predicative di un principio di diritto condiviso da autorevole dottrina).
Con particolare riguardo alle polizze fideiussorie (sulle quali, funditus, tra le altre, Cass. 11 ottobre 1994, n.
8295, pres. Rossi, rel. Bibolini, mentre l'orientamento tradizionale, che le inquadrava tout court nell'ambito della
fideiussione, sembra risalire a Cass. 17 giugno 1957, n. 2299), si è più volte sottolineato come esse concretino un
rapporto di un soggetto (una compagnia di assicurazioni o un istituto bancario) che, dietro pagamento di un
corrispettivo, si impegna a garantire in favore di altro soggetto l'adempimento di una determinata obbligazione
assunta dal contraente della polizza, strumento contrattuale che, pur non essendo espressamente disciplinato dal
codice del '42, è menzionato in molte leggi speciali che lo prevedono come forma di garanzia sostitutiva della
cauzione reale, normalmente richiesta per chi stipula - come nel caso di specie - contratti con la P.A..
Disattesa pressochè unanimemente la ricostruzione volta a riconoscere natura essenzialmente assicurativa alla
fattispecie (risulta essersi pronunciata in tal senso la sola, peraltro assai risalente, Cass. 9 luglio 1943), la
giurisprudenza di questa corte, sia pure nell'ambito dell'orientamento (che appare ormai minoritario) applicativo
delle norme di cui agli artt. 1936 e ss. c.c. ha in passato ritenuto che la polizza de qua costituisse un sottotipo
innominato di fideiussione, giudicando decisivo a tal fine il permanere della funzione di garanzia
dell'adempimento di una altrui obbligazione, pur in presenza di elementi caratteristici idonei a distinguerla
all'interno della fattispecie tipica della fideiussione come disciplinata dal codice (l'assunzione, cioè, della garanzia
secondo modalità tecnico-economiche dell'assicurazione: tra le meno recenti, Cass. 8 febbraio 1963, n. 221; 9
giugno 1975, n. 2297; 17 novembre 1982, n. 6155). La maggior parte delle pronunzie, di converso (Cass. 11
ottobre 1994, n. 8295, poc'anzi citata; Cass. 9 gennaio 1975, n. 1709, in Giust. civ. Mass., 1975; Cass. 14 marzo
1978, n. 1292, ivi, 1978; Cass. 25 ottobre 1984, n. 5450) avrebbe viceversa posto l'accento sul carattere
decisamente atipico della polizza, separando la questione della determinazione della disciplina applicabile al
contratto da quella dell'individuazione del tipo nominato cui la polizza stessa appaia in sè riconducibile - ma
circoscrivendo pur sempre il tema della atipicità alla alternativa tra causa assicurativa e causa fideiussoria
(entrambe compenetrate in parte qua nel contratto); gli aspetti prevalenti, e tendenzialmente assorbenti
resteranno, però, quelli tipici della fideiussione, con conseguente applicazione delle norme di cui agli artt. 1936 e
ss. c.c..
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La dottrina, dal suo canto, ha ritenuto di poter individuare tre tipi di polizze fideiussorie: quelle in cui l'obbligo
del garante dipende dall'esistenza dell'obbligo del debitore principale; quelle in cui l'obbligo del garante è
indipendente da quello del debitore principale; quelle, infine, in cui il beneficiario, per ottenere il pagamento della
garanzia, deve provare, in genere mediante documenti indicati nella polizza stessa, alcuni fatti attinenti al
rapporto principale (in tal guisa ritenendo applicabile la disciplina della fideiussione alle sole polizze del primo
tipo, per effetto della permanenza del carattere accessorio dell'obbligo assunto dal garante, e iscrivendo le altre
nell'orbita dei contratti autonomi di garanzia).
Quanto alla giurisprudenza più recente, va in limine osservato come, tra le sentenze citate dall'odierno
controricorrente, quelle di cui a Cass. 4 luglio 2003, 10574 (Pres. Genghini, rel. Marziale) e a Cass. 7.1.2004, n. 52
(Pres. Fiducia, est. Finocchiaro), pur contenendo alcune tra le più chiare distinzioni tra le fattispecie della
fideiussione e del contratto autonomo di garanzia, non esplorino specificamente il terreno delle polizze
fideiussorie: nella prima pronuncia si legge, difatti, che la deroga all'art. 1957 cod. civ. non può ritenersi implicita
nell'inserimento, nella fideiussione, di una clausola di "pagamento a prima richiesta" o di altra equivalente, sia
perchè detta norma è espressione di un'esigenza di protezione del fideiussore, che prescinde dall'esistenza di un
vincolo di accessorietà tra l'obbligazione di garanzia e quella del debitore principale e può essere considerata
meritevole di tutela anche nelle ipotesi in cui tale collegamento sia assente, sia perchè, comunque, la presenza di
una clausola siffatta non assume rilievo decisivo ai fini della qualificazione di un negozio come "contratto
autonomo di garanzia" o come "fideiussione", potendo tali espressioni riferirsi sia a forme di garanzia svincolate
dal rapporto garantito (e quindi autonome) sia a garanzie, come quelle fideiussorie, caratterizzate da un vincolo di
accessorietà, più o meno accentuato, nei riguardi dell'obbligazione garantita, sia infine a clausole, il cui
inserimento nel contratto di garanzia è finalizzato, nella comune intenzione dei contraenti, (non all'esclusione,
ma) a una deroga parziale della disciplina dettata dal citato art. 1957, ad esempio limitata alla previsione che una
semplice richiesta scritta sia sufficiente ad escludere l'estinzione della garanzia, esonerando il creditore dall'onere
di proporre azione giudiziaria. Ne consegue che, non essendo la clausola di pagamento a prima richiesta di per sè
incompatibile con l'applicazione della citata norma codicistica, spetta al giudice di merito accertare, di volta in
volta, la volontà in concreto manifestata dalle parti con la stipulazione della detta clausola; nella seconda, ancora,
che, ai fini della configurabilità di un contratto autonomo di garanzia oppure di un contratto di fideiussione, non
è decisivo l'impiego o meno delle espressioni "a semplice richiesta" o "a prima richiesta" del creditore, ma la
relazione in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione principale e l'obbligazione di garanzia. Ne consegue che
la carenza dell'elemento dell'accessorietà, che caratterizza il contratto autonomo di garanzia ("performance
bond") e lo differenzia dalla fideiussione, deve necessariamente essere esplicitata nel contratto con l'impiego di
specifica, clausola idonea ad indicare l'esclusione della facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni
spettanti al debitore principale, ivi compresa l'estinzione del rapporto (con riguardo, peraltro, a vicenda inerente
ad un preliminare di vendita con fideiussione bancaria).
3. Passando, allora, alla analisi specifica dei più significativi, precedenti di legittimità in subiecta materia, deve
essere considerato:
- Da un canto:
1) il dictum di cui a Cass. 2 aprile 2002, n. 4637 (Pres. Giustiniani, rel. Di Nanni), la quale, dopo la generale
premessa secondo cui il contratto atipico di garanzia autonoma si differenzia dalla fideiussione per la
mancanza dell'elemento dell'accessorietà, nel senso che il garante si impegna a pagare al beneficiario,
senza opporre eccezioni fondate sulla validità o efficacia del rapporto di base, ha poi escluso, nella
specie, che valessero a snaturare il contratto tipico di fideiussione ed a qualificarlo come garanzia
autonoma le diverse previsioni contrattuali di un termine per il pagamento decorrente dalla richiesta,
dell'esclusione del beneficio della preventiva escussione del debitore principale, della non necessità del
consenso di quest'ultimo al pagamento da parte del garante, del divieto per il garantito a sollevare
obiezioni sullo stesso pagamento (nella motivazione della sentenza, si legge ancora che in particolari rapporti,
specie quelli di appalto, nella pratica da tempo è invalso l'uso che l'appaltatore, per evitare l'immobilizzazione di
somme dovute a scopo cauzionale, presti al committente garanzie bancarie o assicurative di pagamento
incondizionato ed irrevocabile di quanto è da lui dovuto: ciò consente all'appaltatore di non versare la cauzione e
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garantisce l'appaltante che conseguirà le sonane a semplice richiesta, purchè siano rispettate le forme previste,
specificandosi, subito dopo, che questo risultato, peraltro, può essere realizzato anche attraverso una
fideiussione, quando il contratto è articolato in modo atipico, prevedendo, ad esempio, deroghe diverse rispetto
alla disciplina della fideiussione, come quella dell'esclusione del beneficio della preventiva escussione, ex art. 1944
cod. civ., oppure quella dell'esclusione per il fideiussore di opporre al creditore principale le eccezioni
appartenenti al debitore principale, ex art. 1945 c.c.);
2) Le affermazioni di cui a Cass. 6 aprile 1998, n. 3552 (Pres. Iannotta, rel. Preden), ove si legge che, al contratto
cosiddetto di assicurazione fideiussoria (o cauzione fideiussoria o assicurazione cauzionale), caratterizzato
dall'assunzione di un impegno, da parte di una banca o di una compagnia di assicurazioni, di pagare
un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a
lui dovuta da un terzo, sono applicabili le disposizione della fideiussione, salvo che sia stato
diversamente disposto dalle parti. Riveste carattere derogatorio rispetto alla disciplina della fideiussione, la
clausola con la quale venga espressamente prevista la possibilità, per il creditore garantito, di esigere dal garante il
pagamento immediato del credito "a semplice richiesta" o "senza eccezioni". In tal caso, in deroga all'art. 1945, è
preclusa al fideiussore l'opponibilità delle eccezioni che potrebbero essere sollevate dal debitore principale,
restando in ogni caso consentito al garante di opporre al beneficiario "l'exceptio doli", nel caso in cui la richiesta
di pagamento immediato risulti "prima facie" abusiva o fraudolenta.
3) I principi di cui a Cass. 18 maggio 2001 n. 6823 (Pres. Fiducia, rel. Manzo), secondo cui la cosiddetta
assicurazione fideiussoria costituisce una figura contrattuale intermedia tra il versamento cauzionale e
la fideiussione ed è contraddistinta dall'assunzione dell'impegno, da parte (di una banca o) di una
compagnia di assicurazione, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso
di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal contraente. E', poi, caratterizzata, dalla stessa funzione
di garanzia del contratto di fideiussione, per cui è ad essa applicabile la disciplina legale tipica di questo contratto,
ove non derogata dalle parti;
Dall'altro:
1) I principi di diritto affermati da Cass. 21 aprile 1999, n. 3964 (Pres. Iannotta, rel. Lupo) e 19 giugno 2001, n.
8324 (Pres. Greco, rel. Macioce), a mente della quali, ai fini della configurabilità di un contratto autonomo
di garanzia, oppure di un contratto di fideiussione, non è decisivo l'impiego o meno delle espressioni
"a semplice richiesta" o a "prima richiesta del creditore", ma la relazione in cui le parti hanno inteso
porre l'obbligazione principale e l'obbligazione di garanzia. Infatti la caratteristica fondamentale che
distingue il contratto autonomo di garanzia dalla fideiussione è l'assenza dell'elemento dell'accessorietà della
garanzia, insito nel fatto che viene esclusa la facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni che spettano
al debitore principale, in deroga alla regola essenziale della fideiussione, posta dall'art. 1945 cod. civ. (in entrambi
i casi la fattispecie, analoga a quella oggetto del presente ricorso, aveva a sua volta ad oggetto una polizza
fideiussoria cauzionale: i giudici di merito, con consonanti decisioni, confermate in punto di diritto da questa
corte, ritennero di dover qualificato in termini di autonomia la convenzione di garanzia stipulata, valorizzando la
clausola secondo cui la società garante avrebbe dovuto pagare entro un breve termine dalla richiesta del creditore,
dopo semplice avviso al debitore principale, di cui non era richiesto il consenso e che nulla avrebbe potuto
eccepire in merito al pagamento, anche in sede di rivalsa del garante, e opinando, in particolare, che la stessa
apposizione di un termine breve precludesse a priori qualsiasi possibilità, per il garante, di sollevare eccezioni in
ordine al rapporto sottostante, non essendo immaginabile, in tempi estremamente ristretti, lo svolgimento delle
necessarie indagini per l'accertamento in concreto dell'inadempimento dell'appaltatore e della legittimità della
richiesta dell'amministrazione garantita).
2) Il recente dictum di cui a Cass. 2008, n. 2377, ove si legge che la polizza fideiussoria prestata a garanzia
dell'obbligazione dell'appaltatore costituisce una garanzia atipica in quanto essa, non potendo
garantire l'adempimento di detta obbligazione, perchè connotata dal carattere dell'insostituibilità, può
semplicemente assicurare la soddisfazione dell'interesse economico del beneficiario compromesso
dall'inadempimento, risultando, quindi, estranea all'ambito delle garanzie di tipo satisfattorio proprie
delle prestazioni fungibili, caratterizzate dall'identità della prestazione, dal vincolo della solidarietà e
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dall'accessorietà, ed essendo, invece, riconducibile alla figura della garanzia di tipo indennitario -
cosiddetta "fideiussio indemnitatis" -, in forza della quale il garante è tenuto soltanto ad indennizzare,
o a risarcire, il creditore insoddisfatto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva
ritenuto che la polizza fideiussoria oggetto di controversia dovesse qualificarsi come garanzia atipica in quanto
non finalizzata a garantire la restituzione di un credito erogato dalla Provincia autonoma di Bolzano a fondo
perduto per un progetto di riconversione industriale finalizzato al raggiungimento dei livelli occupazionali ed
economici preventivati, giacchè detta restituzione sarebbe stata richiesta dalla medesima Provincia unicamente
nel caso in cui il mutuatario non fosse stato in grado di adempiere al promesso piano di riconversione
industriale).
Un ulteriore passo avanti verso la automaticità dell'equazione Polizza fideiussoria dell'appaltatore =
Garantievertrag sembrerebbe implicitamente potersi rinvenire nella sentenza (ritenuta, in dottrina, "una
inspiegabile rottura, o quantomeno una forzatura, rispetto al precedente indirizzo giurisprudenziale") di cui a
Cass. 27.5.2002, n. 7712 (Pres. Giuliano, est. Durante), a mente della quale, ove sia prestata a garanzia
dell'obbligazione dell'appaltatore, la polizza fideiussoria non è configurabile come fideiussione, bensì come
garanzia atipica, in quanto l'insostituibilità della prestazione fa venire meno la solidarietà
dell'obbligazione del garante e comporta che il creditore possa pretendere da lui soltanto un indennizzo
o un risarcimento, che è prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto (nella specie la Suprema
Corte riconoscerà la validità della polizza fideiussoria, a mezzo della quale una società assicuratrice aveva
garantito l'adempimento delle obbligazioni dell'appaltatore, sebbene la sua stipulazione fosse stata addirittura
posteriore al verificarsi dell'inadempimento dell'obbligazione garantita. In sede di commento alla pronuncia, non
si è mancato di osservare come quest'ultima ancori la propria ratio decidendi al sillogismo per cui: 1) la polizza
fideiussoria - a garanzia delle obbligazioni assunte da un appaltatore - assurge a garanzia atipica, a cagione
dell'insostituibilità della obbligazione principale (premessa maggiore); 2) il creditore può pretendere dal garante
solo un indennizzo o risarcimento, prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto (premessa minore); 3) la
polizza fideiussoria è valida anche se intervenuta successivamente rispetto all'inadempimento delle obbligazioni
garantite (conclusione), sillogismo del quale si dicono condivisibili le premesse (sia quella maggiore che quella
minore), ma non la conclusione.
Va infine ricordato come, ancora più di recente, Cass. 21 febbraio 2008, n, 4446 (Pres. Velia, rel. Mensitieri),
abbia avuto modo di operare una sorta di "sintesi" riepilogativa delle posizioni assunte da questa corte in tema di
polizze fideiussorie, alla luce della quale: al contratto cosiddetto di assicurazione fideiussoria (o cauzione
fideiussoria o assicurazione cauzionale), caratterizzato dall'assunzione di un impegno, da parte di una
banca o di una compagnia di assicurazioni, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde
garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta da un terzo, sono applicabili le
disposizioni della fideiussione, salvo che sia stato diversamente disposto dalle parti. La clausola con la
quale venga espressamente prevista la possibilità, per il creditore garantito, di esigere dal garante il pagamento
immediato del credito "a semplice richiesta" o "senza eccezioni" riveste carattere derogatorio rispetto alla
disciplina della fideiussione. Siffatta clausola, risultando incompatibile con detta disciplina, comporta
l'inapplicabilità delle tipiche eccezioni fideiussorie, quali, ad esempio, quelle fondate sugli artt. 1956 e 1957 c.c.,
consentendo l'applicabilità delle sole eccezioni relative al rapporto garante/beneficiario (Cass. 1/6/2004 n.
10486); in tema di garanzia personale, la cosiddetta assicurazione fideiussoria o cauzione fideiussoria o
assicurazione cauzionale, è una figura intermedia tra il versamento cauzionale e la fideiussione ed è caratterizzata
dall'assunzione dell'impegno, da parte di una banca o di una compagnia di assicurazioni, di pagare un
determinato importo al beneficiario, onde garantirlo in caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal
terzo. Poichè infatti le norme contenenti la disciplina legale tipica della fideiussione sono applicabili se non sono
espressamente derogate dalle parti, portata derogatoria deve riconoscersi alla clausola legittima in virtù del
principio di autonomia negoziale - con cui le parti abbiano previsto la possibilità per il creditore garantito di
esigere dal garante il pagamento immediato del credito "a semplice richiesta" o "senza eccezioni", in quanto
preclude al garante l'opponibilità al beneficiario delle eccezioni altrimenti spettanti al debitore principale ai sensi
dell'art. 1945 c.c.. Siffatta clausola, risultando incompatibile con la disciplina della fideiussione, comporta
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l'inapplicabilità delle tipiche eccezioni fideiussorie, quali, ad esempio, quelle fondate sugli artt. 1956 e 1957 c.c.,
consentendo l'applicabilità delle sole eccezioni relative al rapporto garante/beneficiario (Cass. 14/2/2007. n.
3257); nella ipotesi in cui la durata di una fideiussione sia correlata non alla scadenza della obbligazione principale
ma al suo integrale adempimento, l'azione del creditore nei confronti del fideiussore non è soggetta al termine di
decadenza previsto dall'art. 1957 c.c., (Cass. 27/11/2002 n. 16758; 19/7/1996 n. 6520; 24/3/1994 n. 2827);
la clausola con la quale il fideiussore si impegni a soddisfare il creditore a semplice richiesta del medesimo
configura una valida espressione di autonomia negoziale e da vita ad un contratto atipico di garanzia, che pur
derogando al principio dell'accessorietà, non fa venir meno la connessione tra rapporto fideiussorio e quello
principale (Cass. 12/1/2007 n. 412).
4. Sulla scorta di tali premesse, l'intervento delle sezioni unite deve, da un canto, definitivamente chiarire i tratti
differenziali, sul piano morfologico, funzionale e interpretativo, tra le fattispecie della fideiussione e del
contratto autonomo di garanzia; dall'altro, risolvere il contrasto circa la natura delle polizze assicurative cd.
"fideiussorie", sia su di un piano generale, sia nella specifica dimensione, più propriamente oggetto di dubbi
ermeneutici, delle convenzioni negoziali stipulate dall'appaltatore di opere pubbliche, con particolare riguardo, in
quest'ultima ipotesi, e per quanto di interesse a fini interpretativi:
(omissis)
5. Il ricorso è fondato.
Avverso la sentenza della corte d'appello di Perugia la ATER propone quattro motivi di impugnazione,
chiedendo all'adita corte di legittimità di interpretare la convenzione negoziale per la quale è processo in termini
di contratto autonomo di garanzia alla luce sia della previsione di un obbligo di pagamento entro un breve
termine (dalla richiesta scritta) - non rilevando, in senso contrario, il mancato uso di espressioni quali "a
semplice" o "a prima richiesta", atteso che l'interpretazione della convenzione negoziale de qua andrebbe
viceversa desunta dalla relazione in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione principale e quella di garanzia -;
sia dell'impegno assunto dalla ditta debitrice di rimborsare al garante tutte le somme versate, con espressa
rinuncia a sollevare qualsiasi eccezione; sia della normativa pubblicistica all'uopo richiamata - che considera(va) la
polizza come sostitutiva di una cauzione dovuta dall'appaltatore in favore dello Stato o di altro ente pubblico.
La ricorrente deduce, di conseguenza, l'inapplicabilità, alla fattispecie, della decadenza di cui all'art. 1957 c.c.,
ovvero la deroga a tale disposizione, dovendo ritenersi che la proposizione dell'istanza scritta di pagamento sia
indice inequivoco della volontà dell'ente creditore di avvalersi della garanzia.
I motivi di ricorso appaiono meritevoli di accoglimento, per quanto di ragione.
E' opportuno premettere, ad avviso del collegio, alcune più generali premesse in ordine ai rapporti tra negozio
tipico di fideiussione e negozio atipico di garanzia (cd. Garantievertrag) che consentano di pervenire a
soddisfacente soluzione in diritto con riguardo alla vicenda processuale di cui queste sezioni unite
risultano oggi investite.
6. E' prassi ormai sempre più frequente, nel sottosistema civilistico delle garanzie personali, che contratti di
identico contenuto siano indicati con nomi diversi, come accade, in particolare, in tema di polizza fideiussoria,
denominata, di volta in volta, "assicurazione cauzionale", "cauzione fideiussoria", "polizza cauzionale",
"fideiussione assicurativa".
La polizza fideiussoria è, sotto il profilo genetico, un negozio stipulato dall'appaltatore su richiesta del
committente e in suo favore, strutturalmente articolato secondo lo schema del contratto a favore di
terzo, funzionalmente caratterizzato dall'assunzione dell'impegno, da parte di una banca o di una
compagnia di assicurazione, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso
di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal contraente (così, ex aliis, Cass. n. 11261/2005); il
terzo non è parte, nè in senso sostanziale nè in senso formale, del rapporto, e si limita a ricevere gli
effetti di una convenzione già costituita ed operante, sicchè la sua adesione si configura quale mera
condicio iuris sospensiva dell'acquisizione del diritto, rilevabile per facta concludentia, risultando la
dichiarazione di volerne profittare necessaria soltanto per renderla irrevocabile ed immodificabile ex
art. 1411 c.c., comma 3 (Cass. n. 23708/2008 e n. 13661/1992); non rileva, difatti, che il contratto sia stato
eventualmente stipulato anche con la partecipazione del creditore garantito, derivandone l'esclusivo
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effetto di obbligare direttamente la compagnia assicuratrice nei confronti del creditore stesso ed
impedire che quest'ultimo, quale beneficiario della prestazione negoziata a suo favore dal debitore,
possa dichiarare di non aderire alla stipulazione secondo la disciplina del contratto a favore del terzo
(Cass. n. 7766/1990), anche se, alla forma giuridica bilaterale della stipulazione - in relazione alla quale il
committente è terzo - corrisponde un'operazione economica sostanzialmente trilatera, in cui l'unica
parte effettivamente interessata alla validità del contratto è il beneficiario della polizza, che ad essa
condiziona l'erogazione delle sue prestazioni, potendo lo stipulante appaltatore anche non avere
interesse all'effettiva validità ed efficacia dell'assicurazione (così, ancora, Cass. n. 23708/2008).
Deve, pertanto, convenirsi con la più attenta dottrina che ricostruisce la fattispecie riconoscendo al debitore
principale la qualità di parte del contratto - per assumerne la veste di stipulante -, al garante la veste di
promittente, al creditore principale quella di (terzo) beneficiario (con la precisazione che, nella normalità dei casi,
il testo della garanzia viene in realtà imposto dal beneficiario, il quale non lascia al debitore ordinante margini di
negoziazione in ordine alle condizioni contrattuali: nè è escluso che il garante, su incarico del cliente-debitore,
stipuli il contratto direttamente con il creditore).
E' questa una prima, essenziale differenza morfologica rispetto allo schema tipico delle convenzioni fideiussorie,
che, caratterizzate dalla funzione di garantire un'obbligazione altrui, intercorrono esclusivamente tra il fideiussore
e il creditore (così, tra le tante, Cass. n. 1525/1984, che non manca di sottolineare come, ai sensi dell'art. 1936
c.c., comma 2, la fideiussione sia efficace anche se il debitore non ne ha conoscenza: la differenza parrebbe
attenuarsi nel dictum di cui a Cass. n. 3940/1995, a mente della quale la fideiussione "può anche essere stipulata
con l'intervento del debitore o tra quest'ultimo ed il garante, in modo da configurare un contratto a favore del
terzo creditore che, dichiarando di voler profittarne, rende irrevocabile la stipulazione, ai sensi dell'art. 1411 c.c.",
secondo una ricostruzione strutturale della fattispecie che parrebbe peraltro evocare, più propriamente, l'istituto
dell'accollo cumulativo esterno, oltre che confliggere con il preciso dictum normativo di cui all'art. 1936 c.c., che
identifica le parti del contratto nel creditore e nel garante).
Altra differenza funzionale rispetto alla fideiussione è costituita dall'essere la polizza o assicurazione
fideiussoria "necessariamente onerosa" in quanto assunta dall'assicuratore in corrispettivo del
pagamento di un premio (Cass. n. 221/1963), mentre la fideiussione può essere anche a titolo gratuito
(nel qual caso il contratto, ponendo obbligazioni a carico di una sola parte, si perfeziona in forza del
disposto dell'art. 1333 c.c.(Cass. n. 9468/1987).
7. Quanto alla natura giuridica delle polizze, la giurisprudenza di questa corte le ha diacronicamente
considerate, sotto l'aspetto tipologico, di volta in volta come sottotipo innominato di fideiussione (Cass. n.
221/1963), come figura contrattuale intermedia fra il versamento cauzionale e la fideiussione, come contratto
atipico, come contratto misto risultante dalla fusione di elementi propri di vari contratti (tra le tante: Cass. n.
2899/1968; n. 1292/1978; n. 6155/1982; n. 5981/1986; n. 6499/1990; n. 13661/1992; n. 3940/1995; n.
6823/2001; n. 11261/2005; n. 3257/2007; n. 14853/2007; n. 11890/2008, in motivazione; n. 12871/2009).
In particolare, diversamente dalla cauzione, la prestazione viene assunta da un terzo (garante) e non dallo stesso
debitore obbligato, mentre manca il versamento anticipato di una somma di denaro, così evitandosi l'effetto
negativo di una lunga e improduttiva immobilizzazione di capitali; diversamente dalla fideiussione, l'impegno del
garante è di estensione tale da consentire al creditore principale di soddisfarsi in via di autotutela, cioè di
realizzare il suo credito sui beni oggetto della garanzia (seppur non tramite l'incameramento della cauzione ma)
mediante un atto unilaterale costituito da una richiesta della somma assicurata (in caso di inserimento della
clausola "a semplice" o "prima richiesta"), all'esito di un accertamento unilaterale ed insindacabile dello stesso
creditore in ordine alla ricorrenza delle condizioni previste per l'escussione.
Va altresì sottolineato che, pur essendo prestata spesso da un'impresa di assicurazione, la funzione della polizza
non consiste nel trasferimento o nella copertura di un rischio - che assume un rilievo assai marginale, essendo la
prestazione del garante svincolata da un preciso ed obiettivo accertamento del suo presupposto (il quale è
demandato allo stesso beneficiario) - ma in quella di garantire al beneficiario l'adempimento di obblighi assunti
dallo stesso contraente, anche quando l'inadempimento sia dovuto a volontà dello stesso e questi sia solvibile.
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8. Secondo un primo orientamento della giurisprudenza di questa corte, poichè la causa del negozio de quo
consiste sostanzialmente nel garantire l'adempimento ("sostitutivo o di regresso": Cass. n. 1292/1978 cit.) della
prestazione dovuta al creditore da un terzo, troverebbe applicazione la disciplina legale tipica della fideiussione,
ove non espressamente derogata, potendo le parti, nella loro autonomia contrattuale, richiamare le norme
sull'assicurazione per quanto riguarda i rapporti tra il debitore contraente e l'assicuratore (Cass. n. 5450/1984
ritiene, pertanto, applicabili le norme sulla fideiussione, considerata come rapporto tipico "prevalente", e in
particolare l'art. 1941 c.c. secondo cui la fideiussione non può eccedere ciò che è dovuto dal debitore nè può
essere prestata a condizioni più onerose; mentre Cass. n. 11038/1991 e n. 6757/2001 si esprimono nel senso che,
nelle ipotesi di dichiarazioni inesatte o reticenti del contraente-debitore in ordine alla formazione del rapporto
principale, non trovi applicazione la disciplina dell'art. 1892 c.c. sull'assicurazione, dovendo la validità del
contratto essere piuttosto valutata alla stregua delle regole dell'annullabilità per errore o dolo.
Peraltro, in senso opposto, Cass. n. 2297/1975, n. 3457/1981, n. 7028/1983, n. 14656/2002 si esprimono nel
senso dell'applicabilità della normativa sull'assicurazione, in particolare dell'art. 2952 c.c., comma 1, quanto alla
prescrizione annuale delle rate di premio).
8.1. - Di segno speculare, invece, l'orientamento secondo il quale (pur ritenendosi la convenzione in parola -
tanto se diretta a garantire al beneficiario l'adempimento dell'obbligazione originariamente assunta verso di lui dal
contraente della polizza quanto se volta ad assicurargli la somma dovuta per inadempimento o inesatto
adempimento funzionale a garantire un obbligo altrui secondo lo schema previsto dall'art. 1936 cod. civ.,
affiancando al primo un secondo debitore di pari o diverso grado), la polizza fideiussoria, se prestata a garanzia
dell'obbligazione dell'appaltatore, non ripete i caratteri morfologici della fideiussione, ma si configura come
garanzia atipica (cd. fideiussio indemnitatis), in quanto l'infungibilità della prestazione dell'appaltatore fa venir
meno la solidarietà dell'obbligazione del garante e comporta che il creditore può pretendere da lui solo un
indennizzo o un risarcimento, che è prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto (così, tra le altre, Cass. n.
7712/2002; Cass. n. 2377/2008).
Questo secondo orientamento trae linfa dalla considerazione per cui elemento "normale ed essenziale" del
vincolo fideiussorio è pur sempre l'identità con l'obbligazione principale nella sua stessa quantità e nelle sue
stesse condizioni. Dal suo canto, autorevole dottrina evidenzia che la polizza non mira a garantire l'adempimento
dell'obbligazione del debitore principale (come accade nella fideiussione), ma ad assicurare al creditore la
presenza di un soggetto solvibile in grado di tenerlo indenne dall'eventuale inadempimento del medesimo, ciò
che dimostrerebbe il venir meno di uno degli elementi strutturali della fideiussione, vale a dire l'accessorietà
dell'obbligazione del garante rispetto a quella del debitore principale, con conseguente slittamento verso il
modello del contratto autonomo di garanzia e inadeguatezza del modello legale fideiussorio (erroneamente
applicato secondo la teoria della prevalenza o dell'assorbimento, ove la disciplina normativa viene individuata
attraverso l'incorporazione del contratto nel tipo prevalente o che più gli assomiglia). La medesima dottrina
propone, così, l'applicazione del cd. metodo "tipologico", che consentirebbe di rintracciare, nella trama del
contratto in questione, sotto- strutture negoziali differenti mediante un'opera di destrutturazione del contratto
che offra all'interprete l'opportunità di individuare diverse caratteristiche tipologiche che solo successivamente
verranno utilizzate al fine di determinare (sempre senza valicare i limiti dell'incompatibilità) il mix disciplinare che
meglio risponde all'esigenza di regolare il rapporto (mentre da altra parte si invita a considerare la naturale
propensione delle polizze a modellarsi in funzione delle diverse esigenze di garanzia di volta in volta soddisfatte e
a cogliere e valorizzare il quid proprium delle diverse configurazioni assunte nella prassi, rifuggendo da
aprioristici tentativi di generalizzazione e di riduzione a un "tipo").
Sulla polizza fideiussoria si riverbera così l'eco del dibattito sul contratto autonomo di garanzia (Garantievertrag)
e sulla sua causa.
8.2. Pur non essendo questa la sede per approfondire gli esiti di tale questione, pare sufficiente considerare che,
secondo una diffusa opinione, la funzione del Garantievertrag è quella di tenere indenne il creditore
dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale, che
non sempre consiste in un dare ma può anche riguardare un fare infungibile, contrariamente a quanto
accade per il fideiussore, il quale garantisce l'adempimento della medesima obbligazione principale
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altrui (attesa l'identità tra prestazione del debitore principale e prestazione dovuta dal garante). In altri termini,
mentre con la fideiussione è tutelato l'interesse all'esatto adempimento dell'(unica) prestazione
principale - per cui il fideiussore è un "vicario" del debitore -, l'obbligazione del garante autonomo è
qualitativamente altra rispetto a quella dell'ordinante - sia perchè non necessariamente sovrapponibile
ad essa, sia perchè non rivolta al pagamento del debito principale, bensì ad indennizzare il creditore
insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva
della mancata o inesatta prestazione del debitore.
Ne consegue che polizze fideiussorie e fideiussione, pur accomunate dal medesimo (generico) scopo di
offrire al creditore-beneficiario la garanzia dell'esito positivo di una determinata operazione economica,
si distinguono perchè le prime (se prestate a garanzia di obbligazioni infungibili) appartengono alla
categoria delle cd. garanzie di tipo indennitario, potendo il creditore tutelarsi (rispetto
all'inadempimento del debitore) soltanto tramite il risarcimento del danno, mentre la fideiussione
appartiene alle cd. garanzie di tipo satisfattorio, caratterizzate dal rafforzamento del potere del creditore
di conseguire il medesimo bene dovuto, cioè di realizzare specificamente il soddisfacimento del proprio
diritto.
8.3 Ancora con specifico riguardo alle polizze fideiussorie, l'introduzione, nelle condizioni generali di contratto,
di clausole di pagamento con diciture "a semplice" o "a prima richiesta (o domanda) ", "senza eccezioni" o
analoghe ("incondizionatamente", "a insindacabile giudizio del beneficiario" e così via), se ne ha di fatto
evidenziato l'impredicabilità di qualsivoglia natura assicurativa e l'indiscutibile avvicinamento al modello
cauzionale, ne ha specularmente posto il problema della compatibilità con il modello tipico fideiussorio.
La previsione di siffatte clausole di pagamento manifesta, difatti, una rilevante deroga alla disciplina legale della
fideiussione, che si sostanzia nell'attribuzione, al creditore-beneficiario, del potere di esigere dal garante il
pagamento immediato, a prescindere da qualsiasi accertamento (e dalla prova da parte del creditore) in ordine
all'effettiva sussistenza di un inadempimento del debitore principale (ciò vale, in particolare, per l'incameramento
della cauzione da parte dell'ente appaltatore di opere pubbliche, il quale non è tenuto a dimostrare la sussistenza
di un danno in concreto, proprio in ragione della determinazione forfettaria dello stesso che consegue alla
previsione della cauzione: così Cass. n. 8295 del 1994, in motivazione). A tale riguardo, questa corte ha avuto
modo di affermare che, se è consentito alle parti di concedere (o far concedere da un terzo) una somma di
denaro al creditore a garanzia dell'adempimento della prestazione dovutagli, allo stesso modo deve poter
rientrare nei poteri riconosciuti all'autonomia negoziale la sostituzione della somma di denaro con l'impegno di
un terzo di provvedere a quella prestazione o a quel pagamento a semplice richiesta del creditore, dovendosi
pertanto riconoscere in dette clausole una "una valida espressione di autonomia negoziale".
9. Di tali clausole, secondo un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 6499/1990, n.
10486/2004, n. 4446/2008 in motivazione), si predica la incompatibilità con la disciplina della fideiussione, e la
conseguente inapplicabilità delle tipiche eccezioni fideiussorie, quali quelle fondate sull'art. 1947 c.c.
(compensazione opposta dal garante con un debito del creditore verso il debitore principale), art. 1956
(liberazione del fideiussore per obbligazione futura assunta dal creditore), art. 1957 (decadenza prevista per
l'ipotesi che il creditore non coltivi dopo la scadenza dell'obbligazione la propria pretesa nei confronti del
debitore principale).
9.1. Secondo un diverso orientamento, dette clausole sarebbero invece idonee a valere anche come osservanza
dell'onere di cui all'art. 1957 prescindendo dalla proposizione dell'azione giudiziaria (Cass. n. 7345/1995, cit.),
sicchè non si tratterebbe di un'esclusione ma di una deroga parziale della disciplina dettata dal citato art. 1957, ad
esempio limitata alla previsione che una semplice richiesta scritta sia sufficiente ad escludere l'estinzione della
garanzia, esonerando il creditore dall'onere di proporre azione giudiziaria (Cass. n. 10574/2003, n. 27333/2005,
n. 13078/2008, quest'ultima sulla limitata funzione, che può essere svolta da una clausola di pagamento a prima
richiesta, di evitare al creditore la decadenza di cui all'art. 1957 non solo iniziando l'azione giudiziaria verso il
debitore principale, ma anche soltanto rivolgendo al fideiussore la richiesta di adempimento).
9.2. E' dunque opportuno approfondire le ragioni che hanno indotto la giurisprudenza di questa corte a ravvisare
nelle clausole di pagamento in oggetto una deroga (seppur variamente atteggiata) alla disciplina legale della
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fideiussione onde chiarire se di semplice deroga si tratti, ovvero di una così rilevante alterazione del "tipo"
negoziale fideiussorio tale da provocarne un exodus che conduca all'approdo al modello del Garantievertrag così
come comunemente praticato nel commercio internazionale e, di recente, anche nazionale (nelle forme del Bid
Bond o Bietungsgarantie, a garanzia del rispetto o del mantenimento di un'offerta contrattuale; del Performance
Bond o Leistungsgarantie e del Vertragserfullungsgarantie, quale garanzia di buona esecuzione di un contratto;
del Repayment Bond e dell'Advance payment Bond o Anzahlungsgarantie, a copertura del rischio che
l'appaltatore non rimborsi al committente il pagamento degli anticipi ricevuti in caso di mancata esecuzione dei
lavori; del Retention money Bond, la cui origine è nella prassi in base alla quale il committente trattiene una parte
dei pagamenti in occasione dei diversi stati di avanzamento dei lavori, al fine di costituire un fondo di copertura
per le spese eventuali da sostenere per riparare errori dell'appaltatore nell'esecuzione dei lavori).
Quelle ragioni risiedono nell'essere le suddette clausole volte a precludere al garante l'opponibilità al creditore
garantito delle eccezioni spettanti al debitore principale (siano esse relative al rapporto di valuta tra quest'ultimo e
il creditore o al rapporto di provvista tra il debitore principale e il garante), in deroga alla regola essenziale della
fideiussione posta dagli artt. 1945 e 1941 c.c., con l'effetto di svincolare (in tutto o in parte) la garanzia dalle
vicende del rapporto principale e di precludere la proponibilità delle eccezioni fideiussorie.
9.3. Sotto l'aspetto morfologico, il contratto autonomo di garanzia costituisce espressione di quella autonomia
negoziale riconosciuta alle parti dall'art. 1322 c.c., comma 2, che si configura come un coacervo di rapporti
nascenti da autonome pattuizioni fra il destinatario della prestazione (beneficiario della garanzia), il garante (di
solito una banca straniera), l'eventuale controgarante (soggetto non necessario, che solitamente si identifica in
una banca nazionale che copre la garanzia assunta da quella straniera) e il debitore della prestazione (l'ordinante).
Caratteristica fondamentale di tale contratto, che vale a distinguerlo da quello di fideiussione di cui agli artt. 1936
e seguenti cod. civ., è la carenza dell'elemento dell'accessorietà: il garante s'impegna a pagare al beneficiario, senza
opporre eccezioni in ordine alla validità e/o all'efficacia del rapporto di base, e identico impegno assume il
controgarante nei confronti del garante (così Cass. n. 1420/1998; sulla controgaranzia autonoma, Cass. n.
12341/1992 specifica che l'obbligo di pagamento del garante secondo il meccanismo dell'adempimento "a prima
richiesta", tanto della "garanzia" che della "controgaranzia", si attiva a seguito dell'inadempimento
dell'obbligazione principale, restando irrilevante l'avvenuto adempimento del contratto collegato a catena).
La diversità di struttura e di effetti rispetto alla fideiussione si riflette sulla causa concreta (in argomento,
funditus, Cass. 10490/06) del Garantievertrag, la quale risulta essere quella di trasferire da un soggetto ad un altro
il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da
inadempimento colpevole oppure no: infatti, la prestazione dovuta dal garante è qualitativamente diversa da
quella dovuta dal debitore principale, essendo (non quella di assicurare l'adempimento della prestazione dedotta
in contratto ma) semplicemente quella di assicurare la soddisfazione dell'interesse economico del beneficiario
compromesso dall'inadempimento (Cass. n. 2377/2008 cit., proprio con riguardo alle polizze fideiussorie); per la
sua indipendenza dall'obbligazione principale, esso si distingue, pertanto, dalla fideiussione, giacchè mentre il
fideiussore è debitore allo stesso modo del debitore principale e si obbliga direttamente ad adempiere, il garante
si obbliga (non tanto a garantire l'adempimento, quanto piuttosto) a tenere indenne il beneficiario dal nocumento
per la mancata prestazione del debitore, spesso con una prestazione solo equivalente e non necessariamente
corrispondente a quella dovuta (Cass. n. 27333/2005; n. 4661/2007): ne consegue, in definitiva, la sua fuoriuscita
dal modello fideiussorio, essendo il rapporto affidato per intero all'autonomia privata nei limiti fissati dall'art.
1322 c.c., comma 2 ed essendo la causa del contratto quella di coprire il rischio del beneficiario mediante il
trasferimento dello stesso sul garante.
Il riferimento, come oggetto della garanzia de qua, al rischio contrattuale da preservare (ovvero all'interesse
economico sotteso all'obbligazione principale) ha rappresentato una soluzione funzionale a superare l'apparente
ossimoro celato nel sintagma "garanzia autonoma" (atteso che il concetto di garanzia presuppone
ontologicamente una relazione di accessorietà con un quid che dev'essere garantito), con la conseguenza che la
garanzia sarebbe autonoma rispetto all'obbligazione principale ma pur sempre accessoria rispetto all'interesse
economico ad essa sottostante, così evitandosi la (preoccupante) conseguenza di individuare nel rapporto
principale il termine della relatio e di assimilare in tal modo la garanzia autonoma a quella accessoria.
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9.4. Sotto il profilo funzionale, il regime "autonomo" del Garantievertrag trova un limite quando:
le eccezioni attengano alla validità dello stesso contratto di garanzia (Cass. n. 3326/2002 cit.) ovvero al rapporto
garante/beneficiario (Cass. n. 6728/2002, sul diritto del garante di opporre al beneficiario la compensazione
legale per un credito vantato direttamente nei suoi confronti); il garante faccia valere l'inesistenza del rapporto
garantito (Cass. n. 10652/2008, in motivazione, "trattandosi pur sempre di un contratto (di garanzia) la cui
essenziale - quindi inderogabile - funzione è quella di garantire un determinato adempimento"); la nullità del
contratto- base dipenda da contrarietà a norme imperative o illiceità della causa ed attraverso il contratto di
garanzia si tenda ad assicurare il risultato che l'ordinamento vieta (Cass. n. 3326/2002; n. 26262/2007; n.
5044/2009); sia proponibile la cd. exceptio doli generalis seu presentis, perchè risulta evidente, certo ed
incontestabile il venir meno del debito garantito per pregressa estinzione dell'obbligazione principale per
adempimento o per altra causa (nel senso che il garante non è autorizzato ad effettuare pagamenti
arbitrariamente intimatigli, a pena di perdita del regresso nei confronti del debitore principale: Cass. n.
10864/1999; n. 917/1999; n. 5997/2006; in generale, sull'obbligo del garante di opporre l'exceptio doli a
protezione del garantito dai possibili abusi del beneficiario, Cass. n. 10864/1999; n. 5997/2006; n. 23786/2007;
n. 26262/2007; sull'obbligo del garante di fornire la prova certa ed incontestata dell'esatto adempimento del
debitore ovvero della nullità del contratto garantito o illiceità della sua causa: Cass. n. 3964/1999; n.
10652/2008), mentre discussa è la conseguenza della impossibilità sopravvenuta della prestazione principale non
imputabile al debitore (che, secondo una recente giurisprudenza di merito - App. Genova 25 luglio 2003 -
sarebbe a sua volta causa di estinzione della garanzia).
La più rilevante differenza operativa tra la fideiussione e il contratto autonomo di garanzia non riguarda, peraltro,
il momento del pagamento - cui (anche) il fideiussore "atipico" può essere tenuto immediatamente a semplice
richiesta del creditore -, ma attiene soprattutto al regime delle azioni di rivalsa dopo l'avvenuto pagamento.
9.5. Se, difatti, il pagamento non risulti dovuto per motivi attinenti al rapporto di base, il garante (dopo aver
pagato a prima/semplice richiesta) che agisce in ripetizione con l'actio indebiti ex art. 2033 c.c. nei confronti
dell'accipiens, cioè del creditore beneficiario, facendo valere le eccezioni di cui dispone il debitore principale,
risponde in realtà come un fideiussore, atteggiandosi la clausola di pagamento in questione come una ordinaria
clausola solve et repete ex art. 1462 c.c.. Il garante "autonomo", invece, una volta che abbia pagato nelle mani del
creditore beneficiario, non potrà agire in ripetizione nei confronti di quest'ultimo (salvo nel caso di escussione
fraudolenta), rinunciando, per l'effetto, anche alla possibilità di chiedere la restituzione di quanto pagato
all'accipiens nel caso di escussione illegittima della garanzia, ma potrà esperire l'azione di regresso ex art. 1950 c.c.
unicamente nei confronti del debitore garantito (il più delle volte mediante il cosiddetto "conteggio automatico"
a carico del debitore, quando questi ha anticipato alla banca le somme necessarie per il pagamento o quando
sussista la possibilità di addebitare le somme su un conto corrente), senza possibilità per il debitore di opporsi al
pagamento richiesto dal garante nè di eccepire alcunchè, in sede di rivalsa, in merito all'avvenuto pagamento (così
Cass. n. 8324/2001; n. 7502/2004; n. 14853/2007).
L'effetto è di "autonomizzare" il rapporto di garanzia rispetto al rapporto base, contrariamente a quanto accade
per la fideiussione tipica: è a quest'ultima, infatti, che si riferisce il principio secondo il quale "quando si estingue
l'obbligazione principale, si estingue anche quella accessoria di garanzia. Pertanto, se il fideiussore paga un debito
già estinto, per remissione, per pagamento o per altra causa, non può esercitare azione di regresso nei confronti
del debitore principale" (così Cass. n. 2334/1967).
Sarà il debitore principale ordinante, vittoriosamente escusso dal garante che abbia pagato al beneficiario, ad agire
in rivalsa, se il pagamento non era dovuto alla stregua del rapporto di base (ad esempio, per il pregresso e
puntuale adempimento della medesima obbligazione), sulla base del rapporto di valuta, nei confronti del
beneficiario, il quale ha ricevuto dal garante una prestazione non dovuta, mentre la stessa azione di rivalsa del
garante verso il debitore-ordinante viene esclusa quando il primo abbia adempiuto nonostante disponesse di
prove evidenti della malafede del beneficiario, salva in tal caso la possibilità di agire contro il beneficiario stesso
con la condictio indebiti, ai sensi dell'art. 2033 c.c. (Va in proposito ricordato che l'art. 20 della Convenzione
UNCITRAL, sulle garanzie autonome e sulle lettere di credito, elaborata dalla Commissione delle Nazioni Unite
sul commercio internazionale, tra le alternative riconosciute all'ordinante per neutralizzare il pericolo di
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un'abusiva escussione, prevede sia la possibilità di inibire al garante di trattenere o recuperare presso l'ordinante
le somme pagate in base alla garanzia sia la possibilità di richiedere un provvedimento giudiziario che impedisca
al beneficiario di riscuotere la garanzia).
10. Chiarite così le differenze operative tra fideiussione (eventualmente resa atipica dall'inserimento delle clausole
in questione) e Garantievertrag, va affrontato e risolta la speculare questione dell'idoneità o sufficienza della
clausola di pagamento a prima o semplice richiesta (o senza eccezioni) a trasformare un contratto di
fideiussione (pur atipico) in un Garantievertrag. A tale riguardo, si segnalano due non omogenei
orientamenti della giurisprudenza di questa Corte che - pur nella consonanza delle affermazioni secondo cui, da
un lato, la qualificazione della garanzia come contratto autonomo di garanzia o di fideiussione (eventualmente
atipica) si risolve in un apprezzamento dei fatti e delle prove da parte del giudice di merito, incensurabile in sede
di legittimità se congruamente motivato (Cass. n. 4981/2001; n. 10637/2002; n. 11368/2002; n. 13001/2006; n.
2464/2004), essendo privo di valore il nomen iuris utilizzato dalle parti per designare la garanzia; dall'altro, a
fronte della qualificazione della garanzia come fideiussoria, soggetta, in quanto tale, alla sorte del debito
principale, la parte che faccia valere la diversa configurazione di detta garanzia come autonoma, e, quindi,
svincolata dal debito principale, ha l'onere di dedurre gli elementi oggettivi sui quali tale configurazione si fonda
(Cass. n. 8540/2000) - appare, sul punto, contrastante: - un primo indirizzo è nel senso che l'inserimento di
clausole del genere valga di per sè a qualificare il negozio de quo come contratto autonomo di garanzia, essendo
incompatibile con il principio di accessorietà che caratterizza la fideiussione (Cass. n. 3552/1998, in motivazione;
n. 6757/2001; n. 3257/2007 cit.; n. 14853/2007; n. 11890/2008, in motivazione; in particolare, Cass. n.
8248/1998 ha qualificato la garanzia come autonoma in presenza di una clausola di pagamento "a prima
richiesta", con esclusione del beneficium excussionis e dell'accertamento dell'inadempienza da parte dello stesso
creditore garantito sulla base della contabilità dell'appalto); - un secondo filone interpretativo è invece nel senso
che il contratto non assume i connotati del contratto autonomo di garanzia per il solo fatto di presentare un
patto che obblighi il garante a pagare, sulla richiesta del beneficiario, il quale gli dichiari essersi verificati i
presupposti per l'esigibilità della garanzia, e senza poter opporre eccezioni attinenti al rapporto di base: la
distinzione tra fideiussione e Garantievertrag andrebbe tratta, infatti, anche dalla considerazione dei profili
funzionali della garanzia, e nel secondo caso la funzione sarebbe non già quella di garantire l'adempimento
dell'obbligazione altrui o l'integrale soddisfacimento della pretesa risarcitoria traente origine dall'inadempimento
del debitore, quanto quella, prossima a quella della cauzione, di assicurare al beneficiario la disponibilità almeno
di una determinata somma di danaro, a bilanciamento di rischi tipici di determinati contratti. Un patto di rinunzia
del fideiussore a far valere subito determinate eccezioni non altererebbe, peraltro, il tipo contrattuale, che resta
caratterizzato, come la fideiussione, dal principio di accessorietà (artt. 1939 e 1945 cod. civ.): la clausola è dunque
in sè valida, giacchè, pur con riguardo alla causa del contratto di fideiussione ed alla relativa disciplina, essa
costituisce una manifestazione di autonomia contrattuale, che resta nei limiti imposti dalla legge (art. 1322 cod.
civ.), dalla quale si trae, insieme, che clausole limitative della possibilità di proporre eccezioni sono in certa misura
ed a determinate condizioni consentite dall'ordinamento (art. 1341 c.c., comma 2), e che una clausola del tipo di
quella di cui si discute non è in contrasto con l'aspetto essenziale del contratto di fideiussione, aspetto
rappresentato dall'accessorietà (così Cass. n. 2909/1996, in motivazione; nel senso che, ai fini della distinzione
del contratto autonomo di garanzia dalla fideiussione, non è decisivo l'impiego o meno di espressioni quali "a
prima richiesta" o "a semplice richiesta scritta", ma la relazione in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione
principale e quella di garanzia, ancora di recente, Cass. n. 5044/2009 cit.).
Pur se non direttamente investite della questione, vertendo il contrasto di giurisprudenza oggi sotto posto
all'esame del collegio sulla natura e sulla disciplina applicabile alle polizze fideiussorie, queste sezioni unite
ritengono che debba essere data continuità al primo degli orientamenti citati, che ha l'ineliminabile pregio di
consentire, ex ante, la necessaria prevedibilità della decisione giudiziaria in caso di controversia, restringendo le
maglie di aleatori spazi ermeneutici sovente forieri di poco comprensibili disparità di decisioni a parità di
situazioni esaminate, così che la clausola "a prima richiesta e senza eccezioni" dovrebbe di per sè orientare
l'interprete verso l'approdo alla autonoma fattispecie del Garantievertrag, salva evidente, patente, irredimibile
discrasia con l'intero contenuto "altro" della convenzione negoziale.
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10.1. Così ricostruiti i caratteri strutturali ed effettuali del contratto autonomo di garanzia, pare innegabile che, in
difetto di diversa previsione da parte dei contraenti, ad esso non possa applicarsi la norma dell'art. 1957
cod. civ. sull'onere del creditore garantito di far valere tempestivamente le sue ragioni nei confronti del
debitore principale, poichè tale disposizione, collegata al carattere accessorio della obbligazione
fideiussoria (così Cass. n. 3964/1999 cit., ancora in tema di polizza fideiussoria; Cass. n. 11368/2002, in
motivazione) instaura un collegamento necessario e ineludibile tra la scadenza dell'obbligazione di
garanzia e quella dell'obbligazione principale, e come tale rientra tra quelle su cui si fonda
l'accessorietà del vincolo fideiussorio, per ciò solo inapplicabile ad un'obbligazione di garanzia
autonoma.
10.2. Per ciò che più specificamente concerne l'oggetto della questione sottoposta al collegio, è opportuno
ripercorrere, in sintesi, le divergenze manifestatesi nella giurisprudenza di questa corte sui profili di seguito
indicati.
10.3. Quanto ai caratteri morfologici della polizza fideiussoria, prevalente appare l'orientamento predicativo della
sua natura fideiussoria, con conseguente applicazione della disciplina legale tipica ex art. 1936 ss. c.c. ove non
derogata dalle parti; un diverso, minoritario indirizzo, ne esclude, viceversa, la configurabilità in termini di
fideiussione laddove essa sia prestata a garanzia dell'obbligazione dell'appaltatore: in tal caso, la convenzione
integrerebbe gli estremi della garanzia atipica in quanto, non potendo surrogare l'adempimento "specifico" di
detta obbligazione (connotata dal carattere dell'insostituibilità), ha la funzione di assicurare, sic et simpliciter, il
soddisfacimento dell'interesse economico del beneficiario, compromesso dall'inadempimento. Essa risulta,
pertanto, vicenda del tutto disomogenea rispetto al sistema delle garanzie di tipo satisfattorio proprie delle
prestazioni fungibili caratterizzate dall'identità della prestazione e dal vincolo della solidarietà
(sussidiarietà)/accessorietà -, riconducibile di converso alla figura della garanzia di tipo indennitario, in forza della
quale il garante è tenuto soltanto ad indennizzare, o a risarcire, il creditore insoddisfatto (Cass. n. 2377/2008 cit.;
n. 7712/2002).
10.4. Queste sezioni unite intendono dare continuità al secondo degli orientamenti poc'anzi ricordati.
Non appaiono decisive, difatti, le riserve che dottrina e giurisprudenza attestate sul fronte dell'equiparazione della
polizza de qua alla convenzione fideiussoria (quantunque atipica) hanno diacronicamente manifestato in subiecta
materia. Si obbietta, difatti, che la banca garantisce non già la prestazione primaria (cioè l'esecuzione dell'opera o
della fornitura), bensì quella secondaria, che consiste nel pagamento di una somma di denaro prestabilita (la quale
spesso assume i caratteri della clausola penale): ciò consentirebbe di ritenere che vi sia identità tra l'oggetto della
prestazione garantita e quello dell'obbligazione di garanzia, trattandosi in entrambi i casi di una (anzi della stessa)
somma di denaro. Si è anche osservato che, da questo punto di vista, la differenza con la fideiussione è meno
marcata, giacchè l'indennità non solo può essere in certi casi omogenea alla prestazione pecuniaria ed originaria
del debitore, ma è comunque omogenea rispetto alle prestazioni pecuniarie secondarie del debitore (derivino esse
da un risarcimento del danno o da una clausola penale). Con specifico riguardo alla garanzia (cd. definitiva)
dovuta all'Amministrazione appaltante, ai sensi della L. n. 109 del 1994, art. 30, comma 2, si è poi rilevato che, se
è vero che la garanzia ha carattere indennitario, in quanto il fideiussore non è obbligato ad adempiere in luogo del
debitore principale, essendo tenuto a rifondere il creditore degli oneri affrontati in conseguenza del mancato o
inesatto adempimento del debitore, è altrettanto vero che la diversità della prestazione dell'assicuratore non
esclude la funzione di garanzia in quanto la fideiussione sostituisce non la esecuzione dell'obbligazione principale
ma la cauzione, cioè la garanzìa reale dell'obbligazione dell'esecutore: ad essere garantito non sarebbe tanto un
qualsiasi adempimento, bensì la prestazione della cauzione.
Non si è mancato poi di sottolineare, per altro verso, che il concetto di fungibilità e infungibilità della prestazione
appare qualificazione giuridica tra le più sfuggenti, cui, del resto, non sempre è riconosciuto un autonomo
significato, trattandosi di un problema di interpretazione in senso lato, di talchè la fungibilità di un'obbligazione
non dipenderebbe tanto dal tipo di prestazione o dalla natura del suo oggetto secondo criteri astratti, ma avrebbe
da esser valutata in concreto, tenuto conto anche dell'interesse del creditore, ex art. 1173 c.c. (ciò che ha
consentito alla moderna dottrina di considerare fungibile anche l'adempimento delle obbligazioni di fare - così
superandosi la tradizionale impostazione, figlia del codice del 1865, propensa a ritenere che soltanto
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l'obbligazione pecuniaria potesse essere garantita da fideiussione -, coerentemente con il disposto dell'attuale art.
1936 c.c. - il cui pendant è costituito dal 765, comma 1, del BGB -, il quale non contiene alcuna distinzione
esplicita in argomento, indicando solo che la fideiussione garantisce "l'adempimento di un'obbligazione altrui",
così venendo meno qualsivoglia argomento letterale a favore dell'idea di un'identità di contenuto
dell'obbligazione principale e dell'obbligazione fideiussoria, mutando il precedente richiamo dell'art. 1898 c.c.
abrogato alla "stessa obbligazione"). Si è infine rilevato che l'accessorietà dell'obbligazione fideiussoria non
implicherebbe una assoluta ed univoca dipendenza del rapporto di garanzia dal rapporto garantito, in quanto la
fideiussione, al pari di qualsiasi altro rapporto obbligatorio, vive e si mantiene in questa relazione funzionale con
una individualità propria, e che il nostro ordinamento non conosce una nozione tecnica di accessorietà, ossia una
disciplina unitaria del fenomeno, onde la "relativizzazione" del requisito in parola, intesa come conseguenza
dell'acquisita autonomia causale della fideiussione, manifestandosi nell'ordinamento il riconoscimento di una
certa indipendenza dell'obbligazione di garanzia rispetto a quella garantita, con un'implicita retrocessione del
requisito dell'accessorietà a un livello non essenziale.
11. Le considerazioni che precedono non appaiono decisive al fine di predicare una non realistica consonanza tra
polizza fideiussoria e convenzione di garanzia tipica ex art. 1936 c.c.. Al di là della osservazione (di per sè
decisiva) secondo la quale esse non appaiono sufficienti a far superare il principio secondo cui rimangono fuori
dalla possibilità di essere garantite per il tramite di una fideiussione le obbligazioni di fare infungibile, nelle quali
c'è comunque un interesse del creditore alla personale esecuzione del debitore - non potendosi, in questo caso,
realizzarsi in alcun modo la sostituzione del fideiussore al debitore principale, poichè il garante non deve (nè può)
adempiere, in rapporto di solidarietà con il debitore principale, un debito identico a quello su di lui gravante -
non sembra seriamente contestabile che si discorra di fideiussio indemnitatis con riferimento a fattispecie nella
quale la funzione di garanzia viene piuttosto a porsi in via (succedanea e secondaria sì, ma) del tutto autonoma
rispetto all'obbligo primario di prestazione, onde garantire il risarcimento del danno dovuto al creditore per
l'inadempimento dell'obbligato principale e, quindi, per un'obbligazione non soltanto futura ed eventuale (ciò che
non costituirebbe di per sè ostacolo alla configurabilità di una fideiussione, avendo l'attuale art. 1938 c.c. posto
termine ad un dibattito dottrinale e giurisprudenziale formatosi nel vigore del precedente codice con l'ammettere
esplicitamente la legittimità della fideiussione "anche per un'obbligazione condizionale o futura"), ma
essenzialmente diversa rispetto a quella garantita, con l'ulteriore conseguenza che l'obbligazione del garante non
diviene attuale prima dell'inadempimento della (diversa) obbligazione principale, verificatosi il quale sorge
l'obbligo secondario del "risarcimento" del danno (rectius, dell'indennizzo conseguente all'inadempimento): viene
irredimibilmente vulnerato, in tal guisa, proprio quel meccanismo della solidarietà che attribuisce al creditore la
libera electio, cioè la possibilità di chiedere l'adempimento così al debitore come al fideiussore, a partire dal
momento in cui il credito è esigibile.
Venendo così meno la funzione di garantire, in senso preventivo, l'adempimento, la cd. fideiussio indemnitatis
pare definitivamente espunta dall'orbita della garanzia fideiussoria, per acquisire una funzione reintegratoria (non
del tutto aliena da un modello assicurativo).
Nè decisiva appare, ancora, l'obiezione secondo la quale, nel nostro ordinamento, un'astrazione assoluta
dell'elemento causale, in cui la sorte o i difetti dell'obbligazione sottostante non abbiano mai alcuna ripercussione
sull'obbligazione astratta di garanzia, non pare a tutt'oggi legittimamente predicabile.
Va premesso, in proposito, che, tra astrazione assoluta e accessorietà (intesa nel senso tradizionale) si stagliano
orizzonti che abbracciano diverse gradazioni di strutture negoziali che il legislatore di volta in volta legittima,
secondo un giudizio di valore rispetto ai vari interessi coinvolti: l'accessorietà dell'obbligazione autonoma di
garanzia rispetto al rapporto debitorio principale assume un carattere certamente più elastico, di semplice
collegamento/coordinamento tra obbligazioni, ma non viene del tutto a mancare, come dimostrato, da un lato,
dalla rilevanza delle ipotesi in cui il garante è esonerato dal pagamento per ragioni che riguardano comunque il
rapporto sottostante (supra, sub 6.2);
dall'altro, dal meccanismo di riequilibrio delle diverse posizioni contrattuali attraverso il sistema delle rivalse.
Va inoltre considerato che, come condivisibilmente affermato dalla terza sezione di questa corte con la sentenza
10490/06 (e poi ribadito, sia pur in obiter, da queste stesse sezioni unite con le 4 pronunce dell'11 novembre del
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2008, rese in tema di danno non patrimoniale), appaia oggi predicabile una ermeneutica del concetto di causa
che, sul presupposto della obsolescenza della matrice ideologica che la configurava come strumento di controllo
della sua utilità sociale, affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale
del negozio (che, a tacer d'altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale
elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello,
anche tipico, adoperato).
Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti.
Causa, dunque, ancora oggettivamente iscritta nell'orbita della dimensione funzionale dell'atto, ma, questa volta,
funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto,
secondo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla
cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l'uso che di ciascuno di essi hanno
inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale.
E' innegabile, pertanto, che di causa negotii sia lecito discorrere, in termini di sua concreta esistenza, anche con
riferimento al contratto autonomo di garanzia e alla polizza fideiussoria, ad esso assimilabile quoad effecta. E'
altresì innegabile, nel caso di specie, che la forma di garanzia prescelta dalle parti, in alternativa al deposito
cauzionale in denaro o titoli, non sia stata quella della fideiussione, bensì quella della polizza fideiussoria,
alternativa e, per l'effetto, sostituiva forma di prestazione della cauzione stessa, "consentita" (così, letteralmente,
il testo negoziale rilevante in parte qua) dall'amministrazione appaltante senza essere accompagnata da alcuna
dichiarazione abdicativa di tutti gli altri poteri e facoltà spettatile sulla base della normativa di settore vigente
ratione temporis. La funzione individuale del singolo, specifico negozio (id est della polizza fideiussoria) è stata
dunque quella di sostituire la traditio del denaro tipica della cauzione con l'obbligazione di corrispondere una
somma di denaro, da parte del garante, a richiesta del creditore, senza alcuna possibilità, per il primo, di invocare
il meccanismo, tipicamente fideiussorio, di cui all'art. 1957 c.c..
Va pertanto affermato il seguente principio di diritto: la polizza fideiussoria stipulata a garanzia delle obbligazioni
assunte da un appaltatore assurge a garanzia atipica, a cagione dell'insostituibilità della obbligazione principale,
onde il creditore può pretendere dal garante solo un risarcimento, prestazione diversa da quella alla quale aveva
diritto. Con la precisazione, peraltro, della invalidità della polizza stessa se intervenuta successivamente rispetto
all'inadempimento delle obbligazioni garantite.