Dispensa di diritto civile 2 - corsolexfor.it. civile - La responsabilita... · 6 estintivo del...
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Dispensa di diritto civile 2
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La responsabilità contrattuale, con particolare riguardo alla responsabilità sanitaria; obbligazioni pecuniarie e obbligazioni solidali
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Indice
1. IL REGIME PROBATORIO DELL'INADEMPIMENTO: SUL
CREDITORE INCOMBE SOLO L'ALLEGAZIONE: Corte di Cassazione,
Sezioni Unite, 30 ottobre 2011, n. 13533
2. IL REGIME DELLA VARIATIO EX ART 1453 C.C.: Corte di Cassazione,
Sezioni Unite, 11 aprile 2014, n. 8510
All. 2
3. IL CONCORSO COLPOSO DEL CREDITORE EX ART 1227 c. 1° c.c.:
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 21 novembre 2011, n. 24406
4. LA CAUSALITÀ MATERIALE NON È FRAZIONABILE: Corte di
Cassazione, 21 luglio 2011, n. 15991
5. DANNO DA LESIONE DELLA CHANCE: Corte di Cassazione, sez. III, 4
marzo 2004, n. 4400
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Selezione giurisprudenziale
1. IL REGIME PROBATORIO DELL'INADEMPIMENTO: SUL
CREDITORE INCOMBE SOLO L'ALLEGAZIONE: Corte di Cassazione,
Sezioni Unite, 30 ottobre 2011, n. 13533
Il creditore, sia che agisca per l'adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare
la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può
limitarsi ad allegare l'inadempimento della controparte: sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova
del fatto estintivo del diritto, costituito dall'avvenuto adempimento.
Eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile nel caso in cui il debitore,
convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno da inadempimento, si avvalga
dell'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c. per paralizzare la pretesa dell'attore.
In tale eventualità i ruoli saranno invertiti.
Una eccezione all'affermato principio va invece ravvisata nel caso di inadempimento di obbligazioni
negative.
1. Il denunciato contrasto riguarda la posizione del creditore e del debitore, in tema di onere della prova, a
norma dell'art. 2697 c.c., relativamente ai rimedi offerti al creditore dall'art. 1453 c.c., nel caso di
inadempimento del debitore nei contratti a prestazioni corrispettive.
(omissis)
Il contrasto si pone nei seguenti termini.
1.1. Un primo orientamento, maggioritario, sostiene che il regime probatorio è diverso secondo che il
creditore richieda l'adempimento ovvero la risoluzione.
Si afferma che, in materia di obbligazioni contrattuali, l'onere della prova dell'inadempimento incombe al
creditore, che è tenuto a dimostrarlo, oltre al contenuto della prestazione stessa, mentre il debitore, solo dopo
tale prova, è tenuto a giustificare l'inadempimento che il creditore gli attribuisce. Infatti, ai fini della
ripartizione di detto onere, si deve avere riguardo all'oggetto specifico della domanda, talché, a differenza
del caso in cui si chieda l'esecuzione del contratto e l'adempimento delle relative obbligazioni, ove è sufficiente
che l'attore provi il titolo che costituisce la fonte del diritto vantato, e cioè l'esistenza del contratto, e, quindi,
dell'obbligo che si assume inadempiuto, nell'ipotesi in cui si domandi invece la risoluzione del contratto per
l'inadempimento dell'obbligazione, l'attore è tenuto a provare anche il fatto che legittima la risoluzione, ossia
l'inadempimento e le circostanze inerenti, in funzione delle quali esso assume giuridica rilevanza, spettando al
convenuto l'onere probatorio di essere immune da colpa, solo quando l'attore abbia provato il fatto costitutivo
dell'inadempimento (sent. n.2024/68; n. 1234/70; n. 2151/75; n. 5166/81; n. 3838/82; n. 8336/90; n. 11115/90;
n. 13757/92; n. 1119/93; n. 10014/94; n. 4285/94; n. 7863/95; n. 8435/96; n. 124/97).
1.1.1. La tesi trova sostegno nei seguenti argomenti.
Viene valorizzata la distinzione tra i rimedi congiuntamente previsti dall'art. 1453 c.c., rilevando che si
tratta di azioni con le quali vengono proposte domande con diverso oggetto (adempimento, risoluzione,
risarcimento del danno).
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Si osserva che nella azione di adempimento il fatto costituivo è il titolo, costituente la fonte negoziale o
legale del diritto di credito, sicché la prova che il creditore deve fornire, ai sensi dell'art. 2697, comma 1, deve
avere ad oggetto soltanto tale elemento. Al contrario, nella azione di risoluzione, la domanda si fonda su
due elementi: il titolo, fonte convenzionale o legale dell'obbligazione, e l'inadempimento dell'obbligo,
sicché la prova richiesta al creditore deve riguardarli entrambi, trattandosi di fatti costituitivi del diritto fatto
valere, ai sensi dell'art. 2697, comma 1.
Si ritiene irrilevante che l'inadempimento, elevato ad oggetto dell'onere probatorio, sia un fatto negativo,
opponendosi che, per costante giurisprudenza, anche i fatti negativi possono essere provati fornendo prova dei
fatti positivi contrari (in tal senso: sent. n. 3644/82; n. 13872/91; n. 12746/92; n. 5744/93).
1.1.2. L'orientamento maggioritario trova riscontro anche in una parte della dottrina, nella quale si rinvengono
analoghe argomentazioni.
1.2. Il contrapposto indirizzo, minoritario, tende invece a ricondurre ad unità il regime probatorio da
applicare in riferimento a tutte le azioni previste dall'art. 1453 c.c., e cioè all'azione di adempimento, di
risoluzione e di risarcimento del danno da inadempimento richiesto in via autonoma (facoltà
pacificamente ammessa dalla giurisprudenza di questa S.C.: sent. n. 3911/68; n. 3678/71; n. 1530/88).
Si è affermato che l'azione di risoluzione per inadempimento prevista dall'art. 1453 c.c. e quelle di adempimento
e di risarcimento dei anch'esse da detta norma hanno in comune il vincolo contrattuale di cui si deduce la
ad opera dell'altro contraente, sicché alla le propone non può addossarsi altro onere, dell'art. 2697 c.c., che di
provare l'esistenza titolo e, quindi, l'insorgenza di obbligazioni connesse, incombendo alla controparte, invece,
della prova di avere adempiuto (sent. n. 10446/94).
Altre decisioni hanno ribadito che il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 c:c. in
materia di responsabilità contrattuale è identico, sia che il creditore agisca per l'adempimento dell'obbligazione,
sia che domandi il risarcimento per l'inadempimento contrattuale; in entrambi i casi il creditore dovrà provare
i fatti costitutivi della pretesa, cioè l'esistenza della fonte negoziale o legale del credito e, se previsto, il
termine di scadenza, e non anche l'inadempimento, mentre il debitore dovrà eccepire e dimostrare il
fatto estintivo dell'adempimento (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n. 11629/99).
1.2.1. La tesi trova sostegno nei seguenti argomenti.
Dall'art. 2697 c.c., che richiede all'attore la prova del diritto fatto valere ed al convenuto la prova della
modificazione o dell'estinzione del diritto stesso, si desume il principio della presunzione di persistenza il
principio - pacificamente applicabile all'ipotesi della domanda di adempimento, in relazione alla quale il creditore
deve provare l'esistenza della fonte negoziale o legale del credito e, se previsto, del termine di scadenza, in quanto
si tratta di fatti costitutivi del diritto di credito, ma non l'inadempimento, giacché è il debitore a dover provare
l'adempimento, fatto estintivo dell'obbligazione -, deve trovare applicazione anche alle ipotesi in , cui il creditore
agisca per la risoluzione o per il risarcimento del danno da inadempimento richiesto in via 973/96; n. 3232/98 ;
n. 11629/99).
Siffatta estensione trova giustificazione nella considerazione che, dovendo le norme essere interpretate
secondo un criterio di ragionevolezza, appare irrazionale che di fronte ad una identica situazione
probatoria della ragione del credito, e cioè dell'esistenza dell'obbligazione contrattuale e del diritto ad
ottenerne l'adempimento, vi sia una diversa disciplina dell'onere probatorio, solo perché il creditore
sceglie di chiedere (la risoluzione o) il risarcimento in denaro del danno determinato dall'inadempimento
in luogo dell'adempimento, se ancora possibile, o del risarcimento in forma specifica (sent. n. 973/96).
L'esenzione del creditore dall'onere di provare il fatto negativo dell'inadempimento in tutte le ipotesi di cui all'art.
1453 c.c. ( e non soltanto nel caso di domanda di adempimento), con correlativo spostamento sul debitore
convenuto dell'onere di fornire la prova del fatto positivo dell'avvenuto adempimento, è conforme al principio di
riferibilità o di vicinanza della prova. In virtù di tale principio, che muove dalla considerazione che il creditore
incontrerebbe difficoltà, spesso insuperabili, se dovesse dimostrare di non aver ricevuto la prestazione, l'onere
della prova viene infatti ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l'uno o per l'altro soggetto di
provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione. Ed appare coerente alla regola dettata
dall'art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e fatti estintivi, ritenere che la prova dell'adempimento, fatto
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estintivo del diritto azionato dal creditore, spetti al debitore convenuto, che dovrà quindi dare la prova diretta e
positiva dell'adempimento, trattandosi di fatto riferibile alla sua sfera di azione (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n.
11629/99).
1.2.2. L'orientamento minoritario riceve l'approvazione di larga parte della dottrina, che svolge analoghe
argomentazioni. .
2. Il contrasto va composto aderendo all'indirizzo minoritario.
2.1. Per quanto concerne la disciplina dell'onere della prova, va ricordato che l'art. 1312 del codice civile del 1865
disponeva che: "Chi domanda l'esecuzione di un'obbligazione deve provarla e chi pretende essere liberato deve
dal canto suo provare il pagamento o il fatto che ha prodotto l'estinzione dell'obbligazione."
Veniva quindi regolata specificamente la sola ipotesi dell'onere probatorio in relazione alla domanda di
adempimento.
L'art. 2697 del codice civile vigente ha invece dettato una disciplina generale in tema di riparto dell'onere della
prova, senza riferimento a specifici tipi di domande.
La formulazione generale del principio è quindi di ostacolo alla formulazione di temi fissi di prova. Ed occorre
considerare che, al fine in esame, assume certamente rilevanza il ruolo assunto dalla parte nel processo.
Tuttavia, con riferimento ai tre rimedi congiuntamente previsti dall'art. 1453 c.c. appare opportuno individuare
un criterio di massima caratterizzato, nel maggior grado possibile, da omogeneità. L'eccesso di distinzioni di tipo
concettuale e formale è sicuramente fonte di difficoltà per gli operatori pratici del diritto, le cui esigenze di
certezza meritano di essere tenute nella dovuta considerazione.
2.2. Ritengono queste Sezioni unite di prestare adesione all'indirizzo minoritario, del quale condividono le
principali argomentazioni.
2.2.1. Il principio della presunzione di persistenza del diritto, desumibile dall'art. 2697, in virtù del quale,
una volta provata dal creditore l'esistenza di un diritto destinato ad essere soddisfatto entro un certo
termine grava sul debitore l'onere di dimostrare l'esistenza del fatto estintivo, costituito
dall'adempimento, deve ritenersi operante non solo nel caso in cui il creditore agisca per l'adempimento; nel
quale caso deve soltanto provare il titolo contrattuale o legale del suo diritto, ma anche nel caso in cui, sul
comune presupposto dell'inadempimento della controparte, agisca per la risoluzione o per il risarcimento del
danno.
2.2.2. La ravvisata omogeneità del regime dell'onere della prova per le tre azioni previste dall'art. 1453 c.c.
consegue infatti ad una interpretazione delle norme che vengono in gioco nella specie (Part. 1453 in relazione agli
artt. 1218 e 2697 c.c.) secondo un criterio di ragionevolezza.
La domanda di adempimento, la domanda di risoluzione per inadempimento e la domanda autonoma
di risarcimento del danno da inadempimento si collegano tutte al medesimo presupposto, costituito
dall'inadempimento. Servono tutte a far statuire che il debitore non ha adempiuto: le ulteriori pronunce sono
consequenziali a questa, che rimane eguale a se stessa quali che siano i corollari che ne trae l'attore.
Le azioni di adempimento e di risoluzione sono poste dall'art. 1453 sullo stesso piano, tanto è vero che il
creditore ha facoltà di scelta tra l'una o l'altra azione. Non è ragionevole attribuire diversa rilevanza al fatto
dell'inadempimento a seconda del tipo di azione che viene in concreto esercitata. Se la parte che agisce per
l'adempimento può limitarsi (come è incontroverso) ad allegare (senza onere dì provarlo) che adempimento non
vi è stato, eguale onere limitato alla allegazione va riconosciuto sussistente nel caso in cui invece
dell'adempimento la parte richieda, postulando pur sempre che adempimento non vi è stato, la risoluzione o il
risarcimento del danno.
D'altra parte, va anche rilevato che l'art. 1453, comma 2, che consente di sostituire in giudizio alla domanda di
adempimento la domanda di risoluzione (art. 1453, comma 2) ha riconnesso l'uno e l'altro diritto ad un'unica
fattispecie, e non ha condizionato il mutamento della domanda all'accollo di un nuovo onere probatorio.
2.2.3. L'identità del regime probatorio, per i tre rimedi previsti dall'art. 1453, merita di essere affermata anche per
palesi esigenze di ordine pratico.
La difficoltà per il creditore di fornire la prova di non aver ricevuto la prestazione, e cioè di fornire la prova di un
fatto negativo (salvo che si tratti di inadempimento di obbligazioni negative), è superata dai sostenitori
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dell'orientamento maggioritario con l'affermazione che nel vigente ordinamento non vige la regola secondo la
quale "negativa non sunt probanda", ma opera il principio secondo cui la prova dei fatti negativi può essere data
mediante la prova dei fatti positivi contrari.
Si tratta tuttavia di una tecnica probatoria non agevolmente praticabile: il creditore che deduce di non essere stato
pagato avrà serie difficoltà ad individuare, come oggetto di prova, fatti positivi contrari idonei a dimostrare tale
fatto negativo; al contrario, la prova dell'adempimento, ove sia avvenuto, sarà estremamente agevole per il
debitore, che di regola sarà in possesso di una quietanza (al rilascio della quale ha diritto: art. 1199 c.c.) o di altro
documento relativo al mezzo di pagamento utilizzato.
Si rivela quindi conforme all'esigenza di non rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto del creditore a
reagire all'inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore adempiente, fare applicazione
del principio di riferibilità o di vicinanza della prova, ponendo in ogni caso l'onere della prova a carico del
soggetto nella cui sfera si è prodotto l'inadempimento, e che è quindi in possesso degli elementi utili per
paralizzare la pretesa del creditore, sia questa diretta all'adempimento, alla risoluzione o al risarcimento del
danno, fornendo la prova del fatto estintivo del diritto azionato, costituito dall'adempimento.
2.2.4. In conclusione, deve affermarsi che il creditore, sia che agisca per l'adempimento, per la risoluzione
o per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se
previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l'inadempimento della controparte:
sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall'avvenuto
adempimento.
3. Eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile nel caso in cui il debitore,
convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno da inadempimento, si avvalga
dell'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c. per paralizzare la pretesa dell'attore.
In tale eventualità i ruoli saranno invertiti.
Chi formula l'eccezione può limitarsi ad allegare l'altrui inadempimento: sarà la controparte a dover neutralizzare
l'eccezione, dimostrando il proprio adempimento o la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione a suo
carico (in tal senso: sent. n. 3099/87; n. 13445/92; n. 3232/98).
4. Anche secondo i fautori della tesi che esenta il creditore dall'onere di provare l'inadempimento, qualora
richieda la risoluzione o il risarcimento del danno in via autonoma, e pongono a carico del debitore, in entrambi i
casi, l'onere di provare l'adempimento come fatto estintivo del diritto azionato (alla stessa stregua di quanto
avviene nel caso di proposizione della domanda di adempimento), la regola non vale qualora sia dedotto, a
fondamento della domanda di risoluzione o di risarcimento del danno, un inesatto adempimento: in tale ipotesi
affermano che il creditore non può limitarsi ad allegare l'inesatto adempimento, ma ne deve fornire la prova (in
tal senso, tra le decisioni che accolgono l'orientamento minoritario, v. sent. n. 11629/99).
In dottrina si rileva che, in tale eventualità, il creditore ammette l'avvenuto adempimento, ma lamenta vizi, difetti
o difformità della prestazione eseguita rispetto a quella dovuta, dei quali deve dare la prova.
4.1. La tesi non merita adesione.
Le richiamate esigenze di omogeneità del regime probatorio inducono ad estendere anche all'ipotesi dell'inesatto
adempimento il principio della sufficienza dell'allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di
doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per
difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando anche in tale eventualità sul debitore l'onere di
dimostrare l'avvenuto esatto adempimento.
Appare artificiosa la ricostruzione della vicenda secondo la quale il creditore che lamenta un
inadempimento inesatto manifesterebbe, per implicito, la volontà di ammettere l'avvenuto
adempimento. In realtà, il creditore esprime una ben precisa ed unica doglianza, incentrata sulla non
conformità del comportamento del debitore al programma negoziale, ed in ragione di questa richiede
tutela, domandando l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento.
D'altra parte, la diversa consistenza dell'inadempimento totale e dell'inadempimento inesatto non può
giustificare il diverso regime probatorio. In entrambi i casi il creditore deduce che l'altro contraente non
è stato fedele al contratto. Non è ragionevole ritenere sufficiente l'allegazione per l'inadempimento totale
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(massima espressione di infedeltà al contratto) e pretendere dal creditore la prova del fatto negativo
dell'inesattezza, se è dedotto soltanto un inadempimento inesatto o parziale (più ridotta manifestazione di
infedeltà al contratto). In entrambi i casi la pretesa del creditore si fonda sulla allegazione di un inadempimento
alla quale il debitore dovrà contrapporre la prova del fatto estintivo costituito dall'esatto adempimento.
5. Una eccezione all'affermato principio va invece ravvisata nel caso di inadempimento di obbligazioni
negative.
Ove sia dedotta la violazione di una obbligazione di non fare, la prova dell'inadempimento è sempre a carico
del creditore, anche nel caso in cui agisca per l'adempimento.
5.1. Il diverso regime è giustificato dalle seguenti considerazioni.
Ai sensi dell'art. 1222 c.c., ogni fatto compiuto in violazione di obbligazioni di non fare costituisce di per sé
inadempimento. L'inadempimento di siffatte obbligazioni integra un fatto positivo e non già un fatto negativo
come avviene per le obbligazioni di dare o di fare.
Comune presupposto dei rimedi previsti dall'art. 1453 c.c. è quindi un inadempimento costituito da un fatto
positivo (l'esecuzione di una costruzione, lo svolgimento di una attività).
Non opera quindi, qualora il creditore agisca per l'adempimento, richiedendo l'eliminazione delle modificazioni
della realtà materiale poste in essere in violazione dell'obbligo di non fare, ovvero la risoluzione o il risarcimento,
nel caso di violazioni con effetti irreversibili, il principio della persistenza del diritto insoddisfatto, perché nel
caso di obbligazioni negative il diritto nasce soddisfatto e ciò che viene in considerazione è la sua successiva
violazione, né sussistono le esigenze pratiche determinate dalla difficoltà di fornire la prova di fatti negativi sulle
quali si fonda il principio di riferibilità della prova, dal momento che l'inadempimento dell'obbligazione negativa
ha natura di fatto positivo.
2. IL REGIME DELLA VARIATIO EX ART 1453 C.C.: Corte di Cassazione,
Sezioni Unite, 11 aprile 2014, n. 8510
La parte che, ai sensi dell’art. 1453, secondo comma, cod. civ., chieda la risoluzione del contratto per
inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l’adempimento, può domandare,
contestualmente all’esercizio dello ius variandi, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il
risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale.
All. 1
3. IL CONCORSO COLPOSO DEL CREDITORE EX ART 1227 c. 1°
c.c.: Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 21 novembre 2011, n. 24406
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In tema di risarcimento del danno, al fine di integrare la fattispecie di cui all'art. 1227, primo comma, c.c. - applicabile
per l'espresso richiamo di cui all'art. 2056 c.c. anche alla responsabilità extracontrattuale - il comportamento omissivo
del danneggiato rilevante non è solo quello tenuto in violazione di una norma di legge, ma anche più genericamente
in violazione delle regole di diligenza e correttezza. Ciò comporta che, ai fini di un concorso del fatto colposo del
danneggiato ex art. 1227, comma, c.c., sussiste il comportamento omissivo colposo del danneggiato ogni qual volta tale
inerzia contraria a diligenza, a prescindere dalla violazione di un obbligo giuridico di attivarsi, abbia concorso a
produrre l'evento lesivo in suo danno.
(omissis)
Il nucleo centrale della censura, come emerge anche dal titoletto del motivo, è costituito dalla doglianza avverso
la sentenza impugnata nella parte in cui questa non ha rilevato che l'attrice aveva una corresponsabilità nella
causazione dell'evento dannoso, non avendo realizzato l'innalzamento dell'argine del canale, idonea ad evitare
l’esondazione, pur avendo un obbligo di realizzazione di tale misura di sicurezza. Sotto questo profilo il motivo
di ricorso si articola nell'individuazione delle norme giuridiche che fonderebbero l'obbligo giuridico della società
C. di innalzare il muro di sponda del canale.
2.2.Va preliminarmente osservato che, in tema di risarcimento del danno, l'art. 1227 cod. civ.,nel
disciplinare il concorso di colpa del creditore nella responsabilità contrattuale, applicabile per
l'espresso richiamo di cui all'art. 2056 cod. civ. anche alla responsabilità extracontrattuale,distingue
l'ipotesi in cui il fatto colposo del creditore o del danneggiato abbia concorso al verificarsi del danno
(comma primo), da quella in cui il comportamento dei medesimi ne abbia prodotto soltanto un
aggravamento senza contribuire alla sua causazione (secondo comma).
Secondo la dottrina classica nel nostro ordinamento esisterebbe un principio di autoresponsabilità,
segnatamente previsto dall'art. 1227, c. 1 c.c., oltre che da altre norme, che imporrebbe ai potenziali danneggiati
doveri di attenzione e diligenza. L'autoresponsabilità costituirebbe un mezzo per indurre anche gli eventuali
danneggiati a contribuire, insieme con gli eventuali responsabili, alla prevenzione dei danni che potrebbero
colpirli.
2.3.Senza entrare nella questione dell'esistenza nel nostro ordinamento del detto principio di autoresponsabilità,
va solo rilevato che la dottrina più recente, che questa Corte ritiene di dover condividere, ha abbandonato
l'idea che la regola di cui all'art. 1227, c. 1, cc. sia espressione del principio di autoresponsabilità,
ravvisandosi piuttosto un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante non può far
carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile. Pertanto la colpa, cui fa riferimento
l'art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perché il soggetto che danneggia se
stesso non compie un atto illecito di cui all'art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del
fatto del danneggiato.
2.4.Una volta riconosciuta all'art. 1227, c. 1, c.c., la funzione di regolare, ai fini della causalità di fatto,
l'efficienza causale del fatto colposo del leso, con conseguenze sulla determinazione dell'entità del
risarcimento, ed una volta ritenuto che detta norma trova il suo inquadramento nel principio
causalistico, secondo cui se tutto l'evento lesivo è conseguenza del comportamento colposo del
danneggiato, risulta interrotto il nesso di causalità con le possibili cause precedenti, rimane solo da
esaminare quando il comportamento omissivo del danneggiato possa essere idoneo a costituire causa
esclusiva o concausa dell'evento lesivo.
Va, anzitutto, rilevato che in tema di nesso causale per illeciti omissivi e con riferimento al comportamento
dell'autore dell'illecito (diverso quindi dal comportamento del danneggiato) nella giurisprudenza di questa Corte
coesistono due orientamenti ispirati rispettivamente alla tipicità ed all'atipicità dell'illecito omissivo.
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Secondo il primo di tali orientamenti (che fa capo all'art. 40, c. 2, c.p., nella sua valenza letterale: 'non impedire un
evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo'), ai fini della responsabilità per danni da
condotta omissiva non è sufficiente richiamarsi al principio del 'neminem laedere' o ad una generica
antidoverosità sociale dell'inerzia, ma occorre individuare, caso per caso, un vero e proprio obbligo giuridico di
impedire l'evento che può derivare, oltre che dalla norma, da uno specifico rapporto negoziale o di altra natura
che leghi danneggiato e soggetto chiamato a rispondere (Cass. 25.9.1998, n. 9590; Cass. 6.4.1992, n. 2134; Cass.
9.1.1979, n. 116; Cass. 28 giugno 2005 n. 13982;).
Secondo l'altro orientamento, un obbligo giuridico di impedire l'evento può derivare anche da una
specifica situazione che esiga una determinata attività a tutela di un diritto altrui (Cass. 8.1.1997, n. 72;
Cass. 14.10.1992, n. 11207; Cass. 29/07/2004, n.14484; Cass. 23/05/2006, n. 12111).
2.5. Ritiene questa Corte di dover aderire a questo secondo orientamento, tenuto conto che esso si appalesa più
conforme al principio solidaristico di cui all'art. 2 Cost., nonché al dovere di comportamento secondo
correttezza, che attiene anche alla fase genetica dell'obbligazione (art. 1175 c.c.) (indicazioni in questo senso
emergono già da Cass. S.U. n. 576 del 2008) Già solo rapportando tale interpretazione del nesso causale da
comportamento omissivo alla situazione in cui tale condotta dannosa è dello stesso danneggiato, deve ritenersi
che questi è tenuto ad attivarsi per evitare che si verifichi un evento lesivo in suo danno, secondo comuni
principi di diligenza.
2.6. Sennonché vi è anche una più specifica ragione per ritenere che, al fine di integrare la fattispecie di cui all'art.
1227, c. 1, c.c., il comportamento omissivo del danneggiato rilevante non è solo quello tenuto in violazione di
una norma di legge, ma anche più genericamente in violazione delle regole di diligenza e correttezza.
Proprio perché è rimasta superata la teoria del principio di autoresponsabilità del danneggiato, la colposità del
comportamento del creditore-danneggiato, pur richiesta dall'art. 1227, 1 c., c.c., è l'unico elemento di
selezione dei vari possibili comportamenti - eziologicamente idonei - del danneggiato, qualunque
possa essere l'interpretazione dell'obbligo giuridico, cui si richiama l’art. 40, c. 2, c.p.c., allorché il
danno trovi la sua causa nel comportamento omissivo di altro soggetto.
Così ristretta nella funzione la portata della colpa del creditore-danneggiato, stante la genericità dell'art. 1227, c. 1,
cc. sul punto, la colpa sussiste non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo
giuridico, ma anche nella violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa
generica.
2.7. Ciò comporta che, ai fini dell'art. 1227, c. 1, c.c., sussiste il comportamento omissivo colposo del
danneggiato ogni qual volta tale inerzia contraria a diligenza, a prescindere dalla violazione di un
obbligo giuridico di attivarsi, abbia concorso a produrre l'evento lesivo in suo danno.
Né va trascurato il rilievo che la contraria tesi finirebbe per svuotare parzialmente di contenuto il principio di cui
all'art. 1227, c. 1, cc. (anche nell'ipotesi di causalità esclusiva) in tutti i casi di comportamento omissivo colposo
del danneggiato, in quanto generalmente l'ordinamento non pone obblighi giuridici a carico di un soggetto per la
tutela delle posizioni giuridiche di questi, mentre la regola di cui all'art. 1227 c.c. va inquadrata esclusivamente
nell'ambito del rapporto causale ed è espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno
risarcibile quello che ciascuno procura a se stesso (Cass. 26/04/1994, n.3957; Cass. 08/05/2003, n. 6988).
2.8. Non può, quindi condividersi il principio rigido di Cass. 30/09/2008, n. 24320, secondo cui il concorso del
fatto colposo del danneggiato, che ai sensi dell'art. 1227, c. 1, c.c., esclude o limita il diritto al risarcimento, non
può essere invocato allorché la vittima del fatto illecito abbia omesso di rimuovere tempestivamente una
situazione pericolosa creata dallo stesso danneggiante, dalla quale - col concorso di ulteriori elementi causali - sia
derivato il pregiudizio del quale si chiede il risarcimento. Anche in questo caso il giudice di merito dovrà valutare
se il comportamento omissivo tenuto dal danneggiato, rilevante sotto il profilo eziologico, sia stato connotato da
colpa sia pure generica, nei termini sopra detti.
(omissis)
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4. LA CAUSALITÀ MATERIALE NON È FRAZIONABILE: Corte di
Cassazione, 21 luglio 2011, n. 15991
In tema di responsabilità civile, qualora la produzione di un evento dannoso, quale una gravissima patologia neonatale (concretatasi, nella specie, in una invalidità permanente al 100 per cento), possa apparire riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla pregressa situazione patologica del danneggiato (la quale non sia legata all'anzidetta condotta da un nesso di dipendenza causale), il giudice deve accertare, sul piano della causalità materiale (rettamente intesa come relazione tra la condotta e l'evento di danno, alla stregua di quanto disposto dall'art. 1227, primo comma, cod. civ.), l'efficienza eziologica della condotta rispetto all'evento in applicazione della regola di cui all'art. 41 cod. pen. (a mente della quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione e l'omissione e l'evento), così da ascrivere l'evento di danno interamente all'autore della condotta illecita, per poi procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause sul piano della causalità giuridica (rettamente intesa come relazione tra l'evento di danno e le singole conseguenze dannose risarcibili all'esito prodottesi) onde ascrivere all'autore della condotta, responsabile "tout court" sul piano della causalità materiale, un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose non riconducibili eziologicamente all'evento di danno, bensì determinate dal fortuito, come tale da reputarsi la pregressa situazione patologica del danneggiato che, a sua volta, non sia eziologicamente riconducibile a negligenza, imprudenza ed imperizia del sanitario.
(omissis)
Dica la Corte se, in tema di responsabilità medica, ai fini dell'accertamento del nesso di causalità
giuridica, il giudice del merito, facendo applicazione di una seria legge di prevedibilità scientifica,
debba scrutinare la possibile dipendenza dell'evento lesivo dai suoi antecedenti fattuali e valutare, in
questo contesto, l'incidenza del factum superveniens rappresentato dalla dedotta condotta omissiva dei
sanitari, accertando altresì se risulti specularmente improbabile, anche se solo possibile, che la predetta
condotta omissiva sia stata causa dell'evento, senza che sia lecito procedere ad una compensatio culpae
cum causa.
(omissis)
Non colgono parimenti nel segno le argomentazioni del primo e del secondo motivo di ricorso nella parte in cui
affrontano il tema del concorso di cause e della conseguente valutazione dell'efficienza etiologica, nella
produzione dell'evento, di ciascuna singola (e concorrente) concausa.
Il ragionamento probatorio proposto dalla difesa della ricorrente - di cui è esplicita traccia ed esplicita conferma
in una recente pronuncia di questa corte regolatrice, la sentenza n. 975 del 2009 - si fonda su di una presunta
concorrenza efficiente di eventi e di antecedenti fattuali da valutare in funzione di una più corretta e puntuale
affermazione di responsabilità esclusiva dei sanitari, valutazione peraltro pretermessa da parte del giudice di
appello proprio sotto l'aspetto di una più precisa e motivata analisi dell'efficienza etiologica di tutte le concause
naturali dell'evento. Il fondamento teorico sotteso a tale argomentazione, quello cioè dell'efficienza concausale
del fortuito (in esso ricompresa la pregressa condizione del paziente, nella specie un neonato) non coglie nel
segno sul piano della causalità materiale, onde al dictum della pronuncia del 2009 di questa stessa sezione il
collegio ritiene di non poter dare, in parte qua, continuità, altra e diversa apparendo la questione della rilevanza
delle concause nella diversa dimensione della causalità giuridica (pur evocata dal ricorrente nel quesito posto a
conclusione del secondo motivo di doglianza).
Con la pronuncia 975/09, intervenuta a definizione di un complesso caso di responsabilità medica, questa corte
ha difatti affrontato la questione del concorso fra causa naturale (nella specie, uno stato patologico pregresso
del paziente) e causa umana, legittimando la possibilità per il giudice del merito, in sede di
accertamento del nesso causale tra condotta ed evento, di procedere alla specifica identificazione della
parte di danno rapportabile all'uno o all'altra, eventualmente con criterio equitativo, con conseguente
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graduazione o riduzione proporzionale dell'obbligo risarcitorio del professionista, in evidente ed
esplicita soluzione di continuità con un consolidato orientamento di questa giurisprudenza di
legittimità (per tutte, Cass. 16 febbraio 2001, n. 2335), a mente del quale, in base ai principi di cui agli art.
40 e 41 c.p., "qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su
cui incide il comportamento imputabile dell'uomo siano sufficienti a determinare l'evento di danno
indipendentemente dal comportamento medesimo, l'autore dell'azione o della omissione resta
sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente
dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo,
senza l'apporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento imputabile è responsabile per
Intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, non potendo in tal caso operarsi
una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una
comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra
una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una
concausa naturale non imputabile".
A tale orientamento il collegio intende tornare a dare ulteriore continuità, sia pur con le precisazioni che
seguono. Non pare condivisibile, in punto di diritto, il criterio -pur espressamente indicato da Cass. 975/09 al
giudice del rinvio - alla luce del quale, ove l'indagine probabilistica sul nesso di causa tra condotta e danno non
consenta di decidere la controversia per essersi l'evento prodotto per un concorso di caso fortuito (ritenuto tale
la pregressa, grave situazione patologica del paziente che, di per sè sola, avrebbe potuto spiegare l'evento lesivo) e
di causa umana (id est l'errore dei sanitari), sarebbe compito del giudice del merito procedere alla specifica
identificazione della parte di danno rapportabile all'uno o all'altra, eventualmente con criterio equitativo, e ciò in
quanto "non si potrebbe più accogliere la soluzione della irrilevanza dei fattori naturali", onde l'eventuale
incertezza della misura del concorso tra concause naturali e concause umane andrebbe superata attraverso il
ricorso alla applicazione della norma di cui all'art. 1226 c.c. (senza alcuna distinzione fra responsabilità
contrattuale ed extracontrattuale). Il modello di causalità - del tutto innovativo - che scaturisce da tale
ricostruzione risulta, pertanto (in adesione con quanto pensosamente predicato da una recente quanto acuta
dottrina), quello cd. equitativo-proporzionale, e volge con decisione al superamento della rigida regola dell'all-or-
nothing in termini di giustizia sostanziale.
È convincimento di questo collegio che, con riferimento al caso di specie ed alle questioni poste dalla ricorrente,
una nuova e più approfondita analisi della complessa tematica della rilevanza giuridica delle patologie preesistenti
in tema di responsabilità medica appare (sicuramente) opportuna e (probabilmente) non più a lungo eludibile.
Premessa la inconferenza del richiamo agli artt. 1227 e 2055 c.c. (norme destinate a disciplinare il concorso tra
concause imputabili), la riflessione prende le mosse dalla radicale trasposizione (operato con la sentenza 975/09)
dell'eventuale rilevanza degli stati pregressi del danneggiato (a valenza concausale) dall'ambito dell'indagine
diretta all'individuazione delle singole conseguenze risarcibili - più rettamente destinata a scorrere entro l'alveo
della, causalità giuridica, (artt. 1223 e ss. c.c.) - alla precedente fase dell'accertamento del nesso di causalità
materiale, così come prospettato ed allegato dagli attori, tra condotta addebitata ai sanitari ed evento di danno. Al
giudice di merito, conseguentemente, già nella fase dell'accertamento del primo nesso di causa, sarebbe riservata
la possibilità di procedere equitativamente, ex art. 1226 c.c., alla valutazione della diversa efficienza delle varie
concause e alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile a ciascuna di esse. Tale regola
operazionale in tema di causalità civile non sembra legittimamente predicabile ne' sotto il profilo morfologico ne'
sotto quello funzionale.
Non sotto l'aspetto morfologico, poiché il giudizio sul nesso di causalità materiale è limitato alla sua
sussistenza/insussistenza, senza che siano date terze ipotesi, tantomeno in via equitativa:
diversa questione è quella della misura dell'incidenza di eventuali stati patologici pregressi sul danno
risarcibile (questione che potrebbe, peraltro, astrattamente porsi anche a prescindere dalla relativa valenza con-
causale nella determinazione dell'evento di danno), la cui analisi e la cui soluzione è riservata alla fase in cui
si procede alla determinazione delle conseguenze risarcibili dell'evento dannoso ex artt. 1223 e ss. c.c..
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Non sotto l'aspetto funzionale, poiché essa darebbe luogo ad inestricabili difficoltà di gestione dei territori di
"causalità incerta": l'applicazione di una logica valutativa fondata sull'equitas pura alla dimensione della causalità
materiale trasformerebbe, difatti, il (già impervio) giudizio probabilistico in un giudizio equitativo, onde le
incertezze da risolversi "a monte" tramite l'indagine sulla sussistenza del primo rapporto causale secondo le
regole dell'art. 41 c.p. verrebbero inevitabilmente inquinate dalla diversa analisi "a valle" volta alla selezione dei
danni ingiusti risarcibili (e per di più, affidate al criterio equitativo, come mostra di ritenere il precedente di questa
corte più volte citato, ove si legge che, qualora l'indagine sul rapporto causale tra condotta e danno non
consentisse di decidere la controversia per un concorso tra concause umane e concause naturali, il giudice
potrebbe risolvere la questione ricorrendo, appunto, a tale criterio), mentre, specularmente, le eventuali
incertezze sul quantum debeatur verrebbero traslate sul (logicamente e cronologicamente preesistente) piano
dell'an debeatur. Il rapporto tra la condotta illecita (o il comportamento inadempiente) e l'evento (a sua volta
produttivo di conseguenze dannose risarcibili) deve, viceversa, tornare a collocarsi sul tradizionale piano
della causalità materiale secondo un modello funzionale all'imputazione della responsabilità civile così
come delineato dal diritto positivo, onde l'impredicabilità di sue forme di frazionamento in
considerazione di concause naturali, come confermato dalla previsione di cui all'art. 1227 c.c. (non meno
che dall'art. 2055 c.c.), volto a disciplinare, quale unica legittima ipotesi di comparazione etiologicamente
"efficiente", quella tra concausa imputabile al danneggiante e concausa ascrivibile, per dolo o colpa., al
danneggiato (mentre il diritto penale riconosce una forma attenuata di responsabilità, ex art. 62 c.p., n. 5, alla
sola ipotesi di concausa dolosa riconducibile al comportamento del soggetto passivo del reato).
In conclusione, ritiene questo collegio che l'attuale modello normativo della causalità civile sia tale da
escludere tout court un'imputazione in via equitativa dell'evento dannoso sul piano della causalità
materiale.
Diverso discorso può essere articolato - sulla premessa della duplicità di dimensioni della causalità civile (come
analiticamente ricostruito da questa corte con la pronuncia n. 21619 del 2007 in tema di rapporti tra causalità
ordinaria e causalità da chance perduta) attraverso le quali il giudice del merito può essere chiamato a considerare
il rapporto tra illecito/inadempimento ed evento produttivo del danno lamentato - nell'esaminare la rilevanza
degli stati pregressi della vittima sotto il (solo) profilo afferente alle singole conseguenze risarcibili.
Il piano probatorio su cui si colloca tanto la causalità ordinaria quanto quella da perdita di chance non
deve prescindere, difatti, dalla considerazione di eventuali stati patologici pregressi della vittima o di
altre sue personalissime condizioni (l'età, le abitudini di vita), poiché l'accertamento del nesso causale
secondo il criterio della probabilità logica - che postula un giudizio (anche in via controfattuale) sulle
varie prove acquisite - non può dirsi agnostico rispetto a vicende che possono avere contribuito alla
situazione pregiudizievole lamentata dal danneggiato, mentre, sul piano concettuale, la stessa
estensione dell'evento di danno oggetto dell'indagine sulla causalità materiale ben potrebbe essere
determinata anche in considerazione di stati pregressi del danneggiato, come nel caso di un errore
medico innestatosi su di una situazione patologica già in corso (onde l'evento di danno imputabile potrà
configurarsi in termini di aggravamento della patologia già in via di sviluppo, ovvero - nella prospettiva della
causalità da perdita di chance - in termini di privazione di possibilità di scongiurare un maggior pregiudizio
rispetto a quello che sarebbe seguito nel caso di tempestivi interventi terapeutici). Tale dimensione di analisi
non può, peraltro, in alcun modo condurre, nella disamina della causalità materiale, ad operazioni di
apporzionamento/frazionamento della responsabilità risarcitoria, men che meno facendo ricorso al
criterio equitativo di cui all'art. 1226 c.c., onde, nel caso di specie, la misura dell'evento dannoso imputabile ai
ritardi diagnostici e terapeutici dei sanitari rispetto alle patologie pregresse (patologie che non risultano oggetto di
contestazione in seno al presente processo, discorrendo la stessa difesa delle parti resistenti di "preesistenti
malformazioni di tipo congenito", con le quali avrebbero poi concorso, nel generare le gravissime
compromissioni a livello nEurologico, "la prolungata sofferenza fetale e la mancata adozione di pratiche
rianimatorie efficaci") è vicenda che non rileva al fini dell'imputazione della responsabilità, -a tal fine rilevando,
viceversa, che la condotta illecita sia stata fonte dell'evento dannoso lamentato.
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In tema di causalità materiale, pertanto (pur nella consapevolezza che, nel panorama degli ultimi anni, la più -
pensosa dottrina ha avviato approfondite riflessioni critiche sul cd. "mito della causalità materiale" intesa come
mera analisi fattuale, sempre di più cogliendosi segnali tali da indurre a ritenere che il relativo modello si stia
progressivamente avviando verso la piena accettazione che anche la prima fase della causalità, sussunta nella sfera
del rilevante giuridico, non sia più soltanto questione di ricostruzione dei fatti nel loro svolgersi fenomenologico,
ma sempre ed anche vicenda "giuridica", cioè questione anche di diritto, e, più precisamente, vero e proprio
ragionamento probatorio sui fatti, allegati e non, dimostrati e non, tanto da discorrersi ormai di "inarrestabile
giuridicizzazione del nesso di causalità materiale"), la regula iuris che, ad oggi, il giudice di merito è
chiamato ad applicare resta quella, codificata, secondo la quale la presenza di cause naturali che in
teoria la possano escludere (onde l'incertezza sulla sua sussistenza) conduce ad un interrogativo che non
può essere risolto in via equitativa, ovvero tramite il ricorso ad un modello di responsabilità
proporzionale, bensì trovare risposta nel solo senso della sua sussistenza/insussistenza.
Sul piano operazionale, una siffatta situazione di incertezza andrà, in concreto, risolta dal giudice di
merito a seconda che essa graviti nell'orbita della responsabilità aquiliana ovvero di quella contrattuale.
In seno alla fattispecie di responsabilità disciplinata dagli artt. art. 2043 e ss. c.c., il giudice del merito valuterà
comparativamente le prove addotte da ciascuna delle parti, gravando in tal caso l'onere probatorio comunque sul
danneggiato (pur legittimando, caso per caso, tanto ragionamenti presuntivi quanto la regola della prossimità e
disponibilità della fonte di prova);
Nella responsabilità contrattuale (o, comunque, nella responsabilità per inadempimento ex art. 1218 c.c.) il
giudice, in ossequio alla diversa distribuzione degli oneri probatori, esaminerà, da un lato, l'allegazione, da parte
delcreditore/danneggiato, dell'idoneità della condotta (commissiva od omissiva) alla produzione dell'evento di
danno, dall'altro, la eventuale prova positiva, fornita dal debitore/danneggiante, della causa non imputabile, e
cioè di un fatto sufficientemente certo che inequivocabilmente escluda in radice il nesso etiologico. In entrambe
le forme di responsabilità, laddove la condotta sia idonea alla determinazione (anche solo parziale) dell'evento
pregiudizievole lamentato (il mancato raggiungimento del risultato esigibile nel caso concreto), e sì prospetti una
questione circa l'incidenza di una causa naturale, non possono che aversi due alternative: o è certo che il fattore
naturale sia tale da escludere del tutto il nesso di causa, oppure sì deve ritenere che il danneggiante/debitore non
abbia fornito la prova della causa non imputabile, con conseguente riconducibilità, in termini di responsabilità
tout court, della lesione della salute o della vita alla condotta colpevole.
Va pertanto negato ingresso, sul piano giuridico, all'ipotesi che, a fronte di una sia pur minima
incertezza sulla rilevanza di un'eventuale contributo concausale di un fattore naturale (qual che esso sia),
possa legittimamente dipanarsi un ragionamento probatorio "semplificato" che conduca ipso facto ad
un frazionamento della responsabilità, da compiersi addirittura in via equitativa (con conseguente,
costante e proporzionale ridimensionamento del quantum risarcitorio).
Va del pari espunta dal novero delle ipotesi legittimamente predicabili in tema di causalità materiale
quella secondo cui attraverso il principio equitativo andrebbe altresì esaminata e risolta la ipotesi di
totale incertezza sulla rilevanza causale non solo del fattore naturale ma anche di quello umano, con la
conseguenza di un'imputazione della responsabilità ancor più semplificata, ormai destinata a prescindere del tutto
dall'accertamento probabilistico del nesso così come dall'osservanza, da parte di ciascuno dei contradditori, dei
rispettivi oneri probatori.
Va in definitiva affermato il principio di diritto secondo il quale il nesso di causalità materiale tra illecito (o
prestazione contrattuale) ed evento dannoso deve ritenersi sussistente (a prescindere dalla esistenza ed entità
delle pregresse situazioni patologiche aventi valore concausale e come tali prive di efficacia interruttiva del
rapporto etiologico ex art. 41 c.p., ancorché eventualmente preponderanti, secondo un principio ampiamente
condiviso anche da altre giurisdizioni, da tempo predicative della cd. thin skull rule, in base alla quale se un uomo
è stato negligentemente investito o in altro modo leso nel suo corpo non costituisce valida difesa contro l'azione
risarcitoria avanzata dal danneggiato il sostenere che questi avrebbe riportato una lesione di minore entità, o
addirittura nessuna lesione, se non avesse avuto un cranio inusitatamente sottile o un cuore inusitatamente
debole), ovvero insussistente qualora le cause naturali di valenza liberatoria dimostrino efficacia
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esclusiva nella verificazione dell'evento, ovvero il debitore/danneggiante dimostri ancora l'effettiva
adozione di tutte quelle misure atte a circoscrivere la possibilità di un'incidenza delle condizioni
preesistenti sul raggiungimento del risultato favorevole al paziente ed esigibile nel caso concreto: id est
la assoluta non imputabilità dell'evento di danno (poiché, se gli esiti negativi potenzialmente discendenti dal
fattore naturale avrebbero potuto essere neutralizzati oppure circoscritti, la causa naturale, pur in astratto
assorbente, scadrebbe a concausa come tale non rilevante ai fini dell'imputazione del fatto lesivo).
La corte, pertanto, nel riaffermare la bontà dell'orientamento tradizionale in subiecta materia, non può che
concordare con quella dottrina secondo la quale tale soluzione comporta notevoli vantaggi in termini di
efficienza sotto il profilo dei costi transattivi imposti dal processo, volta che un netto confine tra lecito ed illecito
sul piano della causalità materiale attinge ad elevati gradi di certezza del giudizio risarcitorio, evitandone "zone
grigie" entro la quale la responsabilità oscilli in varia misura percentuale, eliminando la possibilità di difese
pretestuose, riducendo il rischio di eccessiva libertà da parte dei giudici nell'uso dello strumento equitativo. Sul
piano fenomenologico, difatti, in ogni vicenda di danno ricorreranno inevitabilmente circostanze
naturali e non imputabili, variabili indipendenti destinate ad influenzare anche non marginalmente la
determinazione del quantum risarcitorio -luoghi, tempi, qualità e caratteristiche di persone e cose così
che il dischiudere l'uscio del principio di proporzionalità trasmuterebbe ben presto nella ricerca di
quelle circostanze via via modellata secondo un più o meno elevato grado di facilità nell'individuarle,
circoscriverle, descriverne la portata e farle valere con successo in giudizio - con il rischio di rendere
quest'ultimo sempre più complesso e dispendioso.
Eventuali correttivi alle tradizionali strutture del principio causale puro (principio, si ripete, puramente normativo
dell'all-or- nothing), non richiedono ne' consentono la formulazione di una regola contrapposta a quella da lungo
tempo sancita da questa Corte, e non esigono ne' postulano l'approdo ad una regola ispirata al modello della
causalità proporzionale in salsa equitativa.
Onde va riaffermato il principio secondo il quale, essendo la comparazione fra cause imputabili a
colpa/inadempimento e cause naturali esclusivamente funzionale a stabilire, in seno all'accertamento
della causalità materiale, la valenza assorbente delle une rispetto alle altre - non può operarsi una
riduzione proporzionale in ragione della minore gravità dell'apporto causale (e non della colpa, come
erroneamente e tralaticiamente affermato) del danneggiante, in quanto una comparazione del grado di
incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di
comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale
non imputabile.
Diversa tematica risulta quella dei limiti della responsabilità del danneggiante/debitore sul piano della
causalità giuridica, segnatamente nell'ipotesi di aggravamento di una patologia pregressa del paziente
quale conseguenza della prestazione sanitaria. Diversa questione risulta, in altri termini, quella per cui,
ascritta, sul piano probabilistico, alla condotta del sanitario la responsabilità della determinazione dell'evento
(tanto in termini di causalità ordinaria quanto di causalità da perdita di chance) sotto il profilo della causalità (o
della concausalità) materiale, l'eventuale compresenza di concause naturali possa poi risultare oggetto di selezione
dei pregiudizi risarcibili: se e quale sia, cioè, la misura e la rilevanza delle singole conseguenze direttamente
riconducibili, o meno, al fatto lesivo della salute del paziente.
È convincimento del collegio che, su tale, diverso piano di analisi, che postula la preventiva e positiva disamina
della questione della causalità materiale secondo il criterio operazionale dell'art. 41 c.p., non sempre risulti
predicabile la irrilevanza tout court dello stato di salute pregresso del danneggiato.
La misura della sua eventuale incidenza sull'obbligazione risarcitoria andrà pertanto esaminata, con il
necessario rigore operazionale, in un momento successivo e in un contesto probatorio diverso, volta
che, accertata la causalità materiale (secondo una delle due dimensioni di analisi della causalità civile, quella
ordinaria e quella da chance perduta), l'analisi del giudice di merito si concentri - come richiesto, nella
sostanza, dall'odierno ricorrente, in parte qua, tanto con il primo quanto con il secondo motivo, che
espressamente discorre ed evoca il concetto di causalità giuridica - sulle conseguenze dannose risarcibili
(dirette e immediate, ex art. 1223) del fatto lesivo ormai definitivamente imputato al convenuto a titolo di
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piena responsabilità. Non è precluso, in altri termini, al giudicante - una volta esaurita la fase dell'accertamento
della responsabilità secondo la scansione diacronica del previo accertamento del nesso causale (secondo un
giudizio probabilistico di tipo oggettivo) e della successiva indagine sulla colpa. (destinata ad una valutazione in
termini di prevedibilità soggettiva pur se rapportata a standards ordinari di condotta attesane la dimensione
"normativa" del relativo giudizio) - di procedere a risarcire i pregiudizi tutti (pecuniari e non) che sono seguiti al
fatto lesivo su di un piano rigorosamente naturalistico, pregiudizi legittimamente destinati a determinarsi,
secondo l'inquadramento classico della nozione di danno contra iusr sulla base del confronto fra le condizioni del
danneggiato precedenti l'illecito, quelle successive alla lesione e quelle che si sarebbero verificate se non fosse
intervenuto l'evento dannoso. Emerge chiara, in tal guisa, la distinzione, non solo concettuale, tra
l'imputazione dell'evento di danno - e, pertanto, della responsabilità civile - e l'imputazione funzionale
alla individuazione/quantificazione delle singole conseguenze pregiudizievoli (una attenta dottrina offre,
all'uopo, l'illuminante esempio dell'addebitare ad una struttura sanitaria la morte di un soggetto ovvero la
privazione di possibilità di sopravvivenza per una ritardata diagnosi di una patologia tumorale - causalità
materiale, ordinaria o da perdita di chance - e lo stabilire che la causazione della morte abbia comportato per la
vittima, stante l'inevitabilità del decesso, la perdita di uno o più anni di vita o la privazione di determinate chance
di vivere questi anni, con conseguenze sul quantum dei danni, pecuniari e non pecuniari, risarcibili iure proprio in
capo ai congiunti).
La questione può così approdare ad appagante soluzione - del tutto conforme al diritto, sia positivo che
giurisprudenziale - volta che essa postuli l'analisi (da condurre con rigoroso rispetto delle evidenze probatorie del
caso concreto) delle conseguenze dannose dell'evento in termini di se e di quanto di differenze in negativo che il
fatto lesivo - ormai definitivamente imputato al debitore - abbia cagionato in capo alla vittima, tenuto conto delle
sue condizioni precedenti all'evento pregiudizievole e degli stati in cui si sarebbe venuto a trovare se l'evento in
parola non fosse intervenuto.
Così individuata e risolta la problematica degli stati pregressi del danneggiato, è peraltro necessario che il giudice
del merito (e con lui e per lui il consulente d'ufficio, cui andranno formulati, all'uopo, specifici e rigorosi quesiti)
distingua tra le varie, possibili ipotesi di conseguenze dannose irrisarcibili, dovendosi sterilizzare il rischio che
situazioni inter se distantibus e fra loro del tutto dissonanti possano viceversa risultare oggetto di trattamento e
soluzioni risarcitorie omogenee.
Deve pertanto (come osserva ancora una attenta dottrina) operarsi una netta differenziazione fra situazioni tra
loro eterogenee, quali:
da un canto, quelle in cui il danneggiato, prima dell'evento, risulti portatore di una mera "predisposizione" ovvero
di uno "stato di vulnerabilità" (stati preesistenti non necessariamente patologici o invalidanti, ciò che risulta ancor
più frequente nel delicato universo dei danni psichici), ma l'evidenza probatoria del processo non consenta, in
proposito, di superare la soglia della mera ipotesi, e comunque appaia indimostrabile la circostanza che, a
prescindere dalla causa imputabile, la situazione pregressa sarebbe comunque, anche in assenza dall'evento di
danno, risultata modificativa in senso patologico-invalidante della situazione del soggetto: in tal caso, il giudice
non procederà ad alcuna diminuzione del quantum debeatur, atteso che un'opposta soluzione condurrebbe ad
affermare l'intollerabile principio per cui persone che, per loro disgrazia (e non già per colpa imputabile ex art.
1227 c.c. o per fatto addebitabile a terzi) siano, per natura e per vicissitudini di vita più vulnerabili di altre,
dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto a quella riservata agli altri
consociati affetti da "normalità";
- dall'altro, quelle in cui il danneggiato già presenti, prima dell'evento dannoso, una reale e conclamata patologia,
tale (in base a prova da fornirsi dal danneggiante, anche attraverso la documentazione di quella complessa
vicenda relazionale che conduce al cd. consenso informato) da rendere le conseguenze dell'evento rigorosamente
configurabilì, sul piano probabilistico, alla stregua di un aggravamento dello stato patologico pregresso (o della
perdita di chance di evitare o differire la degenerazione della situazione preesistente): in tal caso, la valutazione
del quantum risarcitorio, con un suo eventuale adeguamento alla situazione de qua, deve ritenersi astrattamente
legittimo, pur se l'eventuale riduzione del risarcimento dovrà seguire un iter ben preciso, non potendosi ne'
ipotizzarne una automatica riduzione, ne' una quantificazione secondo un criterio strettamente proporzionale,
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espresso, cioè, in termini strettamente percentualistici della conseguenza naturale rispetto alla conseguenza
dannosa imputabile.
Il ventaglio delle possibili ipotesi, e delle possibili conseguenze in termini risarcitori, potrebbe, allora (in
consonanza con quanto opinato dalla dottrina specialistica che si è occupata funditus dell'argomento) risultare il
seguente:
- il danneggiato, affetto da una patologia pregressa ed irreversibile dagli effetti già invalidanti, subisce un'ulteriore
vulnus alle sue condizioni di salute: in questa ipotesi il danno risarcibile sarà determinato considerando sia la
differenza tra lo stato di invalidità complessivamente presentato dal danneggiato dopo l'intervento medico e lo
stato patologico pregresso, sia la situazione che si sarebbe determinata se non fosse intervenuto il fatto lesivo
imputabile (commissivo od omissivo), ferme restando le valutazioni del singolo caso sul piano di eventuali
ripercussioni esistenziali e/o economiche sulla vita del danneggiato;
- il danneggiato, affetto da patologie prive di effetti invalidanti, subisce una menomazione della sua salute con
conseguenze invalidanti:
in questa ipotesi, il giudice di merito dovrà determinarsi nel senso dell'irrilevanza dello stato patologico pregresso,
salva rigorosa dimostrazione che gli effetti invalidanti si sarebbero comunque verificati a prescindere dalla
concausa imputabile;
- il danneggiato, già affetto da uno stato di invalidità potenzialmente non idoneo (di per sè e nell'immediatezza) a
produrre esiti mortali, decede in conseguenza dell'intervento medico (commissivo od omissivo): in tal caso lo
stato di invalidità pregresso non potrà rilevare quanto ai danni risarcibili iure proprio ai congiunti, mentre
potrebbe condurre ad una riduzione del quantum dei pregiudizi risarcibili iure successionis, sempre che il
danneggiante fornisca la prova che la conseguenza dannosa dell'evento (nella specie, la morte) sia stata cagionata
anche dal pregresso stato di invalidità;
- il danneggiato, già in condizioni invalidanti idonee a condurlo alla morte a prescindere da eventuali condotte di
terzi, decede a seguito dell'intervento (commissivo od omissivo): la risarcibilità iure proprio del danno
patrimoniale e non patrimoniale - riconosciuto ai congiunti potrà subire un ridimensionamento in considerazione
del verosimile arco temporale in cui i congiunti avrebbero potuto ancora godere, sia sul piano affettivo che
economico, del rapporto con il soggetto anzitempo deceduto. Alla luce delle considerazioni che precedono, i
motivi vanno accolti limitatamente alla loro prospettazione di una omessa valutazione, sul piano della causalità
giuridica -quella materiale essendo stata definitivamente e correttamente accertata dal giudice di merito secondo i
parametri dianzi descritti - dell'eventuale, possibile incidenza dello stato di salute intrauterino del neonato sulle
conseguenze dannose risentite dopo la nascita in conseguenza della colpevole condotta dei sanitari sì come
correttamente e definitivamente accertata in sede di merito.
(omissis)
5. DANNO DA LESIONE DELLA CHANCE: Corte di Cassazione, sez. III, 4
marzo 2004, n. 4400
La chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non é una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d'autonoma valutazione, onde la sua perdita, id est la perdita della possibilità consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura un danno concreto ed attuale. Siffatto, danno, non meramente ipotetico o eventuale (quale sarebbe stato se correlato al raggiungimento del risultato utile), bensì concreto ed attuale (perdita di una consistente possibilità di conseguire quel risultato), non va commisurato alla perdita del risultato, ma alla mera possibilità di conseguirlo.
(omissis)
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E' pacifico che la responsabilità dell'Ente ospedaliero (o delle USSL ed attualmente delle ASL) nei confronti dei
pazienti ricoverati abbia natura contrattuale (cfr. Cass. n. 7336 del 1998 e n. 4152 del 1995), anche per quanto
attiene al comportamento dei propri dipendenti medici.
E' irrilevante in questa sede stabilire se detta responsabilità sia conseguenza dell'applicazione dell'art. 1228 c.c.,
per cui il debitore della prestazione , che si sia avvalso dell'opera di ausiliari, risponde anche dei fatti dolosi o
colposi di questi ovvero del principio di immedesimazione organica, per cui l'operato del personale dipendente di
qualsiasi ente pubblico ed inserito nell'organizzazione dei servizio determina la responsabilità diretta dell'ente
medesimo, essendo attribuibile all'ente stesso l'attività del suo personale (cfr. Cass. N. 9269/1997 e Casa. n.
10719/2000).
2.2. Ciò che rileva, in questa sede, è che l'ente ospedaliero risponde direttamente della negligenza ed imperizia dei
propri dipendenti nell'ambito delle prestazioni sanitarie effettuate al paziente.
Ne consegue che in relazione all'attività sanitaria posta in essere dal medico, l'ente ospedaliero (o la USSL) è
contrattualmente responsabile se il medico è almeno in colpa.
Poiché la prestazione dovuta dall'ente ospedaliero, relativamente all'attività del personale medico, coincide con
questa, anche la natura di questa prestazione coincide, poiché l'ente ospedaliero si obbliga tramite i suoi
dipendenti medici a fornire un'opera professionale sanitaria.
Trattasi, quindi, limitatamente a questo profilo, di una obbligazione di mezzi e non di risultato (figura
pacificamente riconosciuta in giurisprudenza, ma criticata da parte della dottrina).
2.3. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, da cui non vi è motivo di discostarsi, le obbligazioni
inerenti all'esercizio di un'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto
il professionista, assumendo l'incarico, si impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il risultato
desiderato, ma non al suo conseguimento.
Ne deriva che l'inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto, "ipso facto",
dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei
doveri inerenti lo svolgimento dell'attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza, per il quale trova
applicazione, in luogo del tradizionale criterio della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della
diligenza professionale fissato dall'art. 1176, comma 2, c.c. parametro da commisurarsi alla natura dell'attività
esercitata.
Pertanto non potendo il professionista garantire l'esito comunque favorevole auspicato dal cliente, il danno
derivante da eventuali sue omissioni in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente
probabilistici, si accerti che, senza quell'omissione, il risultato sarebbe stato conseguito secondo un'indagine
istituzionalmente riservata al giudice di merito, e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata
ed immune da vizi logici e giuridici (Cass. 26/02/2002, n. 2836; Cass. 10/09/1999, n. 9617; Cass. 10/09/1999, n.
9617).
2.4. Questi principi vanno applicati anche in tema di responsabilità dell'ente ospedaliero per comportamento
colposo dei propri medici dipendenti, sia pure con alcune specificazioni.
Infatti, una volta affermato che anche in questa ipotesi trattasi di prestazione di mezzi (prestazione di attività
professionale dei medici dipendenti) e non di risultato, è solo in relazione alla prima che può sussistere
l'inadempimento, mentre il mancato raggiungimento del risultato sperato non costituisce di per sé
inadempimento, ma può costituire solo danno conseguenziale all'inadempimento della non diligente prestazione
a della colpevole omissione dell'attività sanitaria.
3.1. Osserva preliminarmente questa Corte che, posto che, in materia di responsabilità per colpa
professionale, al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire, nella ricerca del
nesso di causalità tra la condotta del professionista e l'evento dannoso, quello della probabilità di tali
effetti e dell'idoneità della condotta a produrli, il rapporto causale sussiste anche quando l'opera del
professionista, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì serie ed
apprezzabili possibilità di successo (Cass. 6 febbraio 1998, n. 1286).
L'evoluzione giurisprudenziale in tema d'individuazione del nesso di causalità tra inadempimento della
prestazione dedotta in contratto e danno pur con qualche non condivisibile ritorno alla "certezza morale" (Cass.
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28.4.94 n. 4044), o qualche esitazione tra "ragionevole certezza" e "ragionevole previsione" (Cass. 27.1.99 n. 722)
evidenzia l'esigenza di superamento della concezione tradizionale: dal criterio della certezza degli effetti della
condotta omessa a quello della probabilità di essi e dell'idoneità della stessa a produrli ove posta in
essere; criterio per il quale il rapporto causale può e deve essere riconosciuto anche quando si possa
fondatamente ritenere che l'adempimento dell'obbligazione, ove correttamente e tempestivamente
intervenuto, avrebbe influito sulla situazione, connessa al rapporto, del creditore della prestazione in
guisa che la realizzazione dell'interesse perseguito con il contratto si sarebbe presentata in termini non
necessariamente d'assoluta certezza ma anche solo di ragionevole probabilità, non essendo dato
esprimere, in relazione ad un evento esterno già verificatosi, oppure ormai non più suscettibile di
verificarsi, "certezze" di sorta, nemmeno di segno "morale", ma solo semplici probabilità d'un
eventuale diversa evoluzione della situazione stessa (criterio desumibile, con gli adattamenti logici resi
necessari dalle diverse situazioni di fatto considerate, da Cass. 21.1.2000 n. 632, Cass. 6.2.1998 n. 1286, Cass.
18.4.1997 n. 3362, Cass. 5.6.1996 n. 5264, Cass.11.11.1993 n. 11287).
3.2. In particolare e con riguardo alla sussistenza del nesso di causalità fra l'evento dannoso e la condotta
colpevole (omissiva o commissiva) del medico, ove il ricorso alle nozioni di patologia medica e medicina legale
non possa fornire un grado di certezza assoluta, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalità non può essere
esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità
scientifica, specie qualora manchi la prova della preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori
determinanti (Cass. 21 gennaio 2000, n. 632).
Il ricorso al giudizio di probabilità si presenta poi, come una necessità logica, poiché si tratta di accettare o
respingere l'assunto, secondo cui il danno si è verificato, perché non è stato tenuto il comportamento atteso.
Qui si tratta di stabilire se il comportamento mancato avrebbe evitato il danno e giudizi di certezza non
possono essere formulati già in linea di principio.
3.3. Ciò che va specificato, applicando anche in questa sede civile risarcitoria, i principi già espressi in sede penale
(Cass. Pen. S.U. 11.9.2002, n. 30328, Franzese), tenuto conto che il nesso di causalità materiale va
determinato a norma degli artt. 40 e 41 c.p., è che non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente
di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi dell'esistenza del nesso causale,
poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza
disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'esistenza di fattori
alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva o in ogni caso
colpevole del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con elevato grado di credibilità razionale o
probabilità logica.
4.1. Tutto ciò opera nel caso in cui il soggetto creditore agisca per il risarcimento del danno costituito
dal mancato raggiungimento del risultato sperato, allorchè ciò sia conseguenza, sia pure in termini di
probabilità concrete, dell'inadempimento della prestazione del medico, perché omessa, errata o
ritardata.
Tuttavia in una situazione in cui è certo che il medico ha dato alla patologia sottopostagli una risposta errata o in
ogni caso inadeguata, è possibile affermare che, in presenza di fattori di rischio, detta carenza (che integra
l'inadempimento della prestazione sanitaria) aggrava la possibilità che l'esito negativo si produca.
Non è possibile affermare che l'evento si sarebbe o meno verificato, ma si può dire che il paziente ha perso, per
effetto di detto inadempimento, delle chances, che statisticamente aveva, anche tenuto conto della particolare
situazione concreta (segnatamente se si era portato in ambiente ospedaliero).
4.2. Com'é stato ormai da tempo evidenziato, tanto da autorevole dottrina quanto dalla giurisprudenza di questa
Corte, la chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o
risultato, non é una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed
economicamente suscettibile d'autonoma valutazione, onde la sua perdita, id est la perdita della
possibilità consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura
un danno concreto ed attuale (ex pluribus Cass. 10.11.98 n. 11340, 15.3.96 n. 2167, 19.12.85 n. 6506).
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Siffatto, danno, non meramente ipotetico o eventuale (quale sarebbe stato se correlato al raggiungimento del
risultato utile), bensì concreto ed attuale (perdita di una consistente possibilità di conseguire quel risultato), non
va commisurato alla perdita del risultato, ma alla mera possibilità di conseguirlo.
4.3. Il principio è stato accolto in tema di risarcimento del danno subito da un lavoratore dipendente non
ammesso dal suo datore di lavoro a partecipare ad una procedura concorsuale (ex multis Cass.19/11/1997,
n.11522; Cass. 10/11/1998, n.11340;Cass. 22.4.1993, n. 4725).
Se il dipendente reclama come danno d'aver perso i vantaggi inerenti alla posizione superiore, alla sua domanda si
applica il modello già visto in tema di inadempimento di prestazione professionale intellettuale, per cui la
domanda va rigettata se le probabilità di vittoria erano scarse, mentre se erano elevate, gli si liquida tutto il danno
che deriva dal non aver raggiunto la posizione superiore.
Se il dipendente reclama che è stato privato della possibilità di concorrere, si considera che il diritto leso è stato
quello di partecipare e lo si risarcisce di una quota di danno commisurata alla possibilità di vittoria, che gli è stata
riconosciuta (giurisprudenza costante. Cass. n. 11877 del 1998; Cass. n. 8470 del 1996).
4.4. Il modello di giudizio basato sul sacrificio delle possibilità (la perdita di chances) è accolto, negli stessi
termini dalla giurisprudenza di altri ordinamenti, segnatamente quello francese, in tema di responsabilità dei
medici.
Una volta configurata la chance nei termini suddetti, ragioni di coerenza del sistema inducono a ritenere
condivisibile una tale soluzione in tema di responsabilità dei medici anche nel nostro ordinamento, ispirandosi,
anzi, essa alla ripartizione del carico del danno tra creditore e debitore, che si rinviene nel nostro ordinamento
(ad es. art. 1227 c.c.).
4.5.Sennonché ciò che occorre porre in rilievo è che la domanda per perdita di chances è ontologicamente
diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato.
Infatti, in questo secondo caso la stessa collocazione logico giuridica dell'accertamento probabilistico attiene alla
fase di individuazione del nesso causale, mentre nell'altro caso attiene al momento della determinazione del
danno: in buona sostanza nel primo caso le chances substanziano il nesso causale, nel secondo caso sono
l'oggetto della perdita e quindi del danno.
Né può ritenersi, come pure sostenuto da parte minoritaria della dottrina, che con l'espressione "perdita di una
probabilità favorevole" non si fa riferimento ad un danno distinto da quello finale, ma si descrive solo una
sequenza causale , nella quale la certezza del collegamento fatto-evento si evince dalla sola probabilità del suo
verificarsi, ed il risarcimento viene adeguato alla portata effettuale della condotta illecita sul danno finale. La
ricostruzione più convincente, sulla quale si allinea la giurisprudenza dominante in materia di lavoro (Cass.
09/01/2003, n.123, Cass.n. 23/01/2002, n.734; Cass. n. 11340 del 1998), dissocia invece il danno come perdita
della possibilità dal danno per mancata realizzazione del risultato finale, introducendo così una distinta ed
autonoma ipotesi di danno emergente, incidente su di un diverso bene giuridico, la possibilità del risultato
appunto.
4.6. Ne consegue, nell'ambito della responsabilità dei medici, per prestazione errata o mancante, cui è conseguito
il danno del mancato raggiungimento del risultato sperato, se è stato richiesto solo questo danno, non può il
giudice esaminare ed eventualmente liquidare il danno da perdita di chances, che il creditore della prestazione
sanitaria aveva, neppure intendendo questa domanda come un minus rispetto a quella proposta, costituendo,
invece domande diverse, non ricomprese l'una nell'altra.