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1 Dispensa di diritto civile 1

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Dispensa di diritto civile 1

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Diritto civile

Il rapporto obbligatorio: nozione, struttura, fonti e principi.

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Indice

1. L’ABUSO DEL DIRITTO: SI PUÒ RECEDERE SENZA CAUSA (AD NUTUM) MA

NON SENZA MODI (AD LIBITUM): Corte di Cassazione Sez. III Civile, 18 settembre 2009, n.

20106

2. CONTATTO SOCIALE, RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE E LESIONE

DELLA BUONA FEDE: Cassazione Civile, Sez I , 20 dicembre 2011 n. 27648

3. LE OBBLIGAZIONI DEL MEDICO SONO ANCHE DI RISULTATO: IL

PROBLEMA DELLA CAUSALITÀ

Cassazione civile, Sezioni unite, 11 gennaio 2008, n. 577(ud. 20 novembre 2007)

Cassazione civile, Sezioni unite, 11 gennaio 2008, n. 581

4. IL CONSENSO INFORMATO E ONERE DELLA PROVA: Cassazione Civile, sez. III, 19

maggio 2011, n. 11005

5. IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA E LE CONSEGUENZE

RISARCITORIE: Corte di Cassazione, sez. III civile, ordinanza 23 febbraio 2015, n.3569

6. LA (IR)RISARCIBILITÀ DEL DANNO TANATOLOGICO: Cassazione Civile, SS.UU.,

sentenza 22/07/2015 n. 15350

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Selezione giurisprudenziale

1. L’ABUSO DEL DIRITTO: SI PUÒ RECEDERE SENZA CAUSA (AD NUTUM) MA

NON SENZA MODI (AD LIBITUM): Corte di Cassazione Sez. III Civile, 18 settembre 2009, n.

20106

Si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo

eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede,

causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine

di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono

attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare

inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il

quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte

contrattuale, a prescindere dall'esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò

costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell'individuo o dell'imprenditore, giacché ciò

che è censurato in tal caso non è l'atto di autonomia negoziale, ma l'abuso di esso (in applicazione

di tale principio, è stata cassata la decisione di merito la quale aveva ritenuto insindacabile la

decisione del concedente di recedere ad nutum dal contratto di concessione di vendita, sul

presupposto che tale diritto gli era espressamente riconosciuto dal contratto).

(omissis)

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Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto

contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione

dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.).

In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve

presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in

definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476).

Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei

comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art.

1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione

del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel

tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico.

L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico,

espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica

(v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori

introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una

specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la

sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere

di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici

obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa

prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento,

per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto

negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.

La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e

buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera

del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di

reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio

se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che

incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale

della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per

scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il

rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione.

Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del

diritto.

Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e

giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto;

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2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una

pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio

concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto

secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico;

4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione

ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.

L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea

l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di

obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. È ravvisabile, in sostanza,

quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di

esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede.

Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel

senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette

regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.

E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o

conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma

esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui

l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.

Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto.

La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, piu' che su di un principio giuridico, su di

un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato

meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla

preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande

latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al

giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella

norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare

il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così

ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e

spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero

di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti.

Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato

oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass.

8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass.

11.5.2007 n. 10838).

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Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società,

l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro

ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con

approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza,

di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale).

In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci,

ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il

rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici.

E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato

esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare

ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di

buona fede nell'esecuzione del contratto (v. Cass. 11.6.2003 n. 9353).

Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto

prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo

finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre

nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed

all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass.

19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo

formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n.

11258).

(omissis)

In materia contrattuale, poi, gli stessi principi sono stati applicati, in particolare, con riferimento al

contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto

di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass.

22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass.

1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273).

Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria,

fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U.

23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057).

Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio

dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti

negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della

formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano.

Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione.

Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e

rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa

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qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda,

costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto

privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la

necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.

Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso.

In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo

abusivo esercizio. Alla luce di tali principi e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in

questa sede, impugnata.

La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:

1) il giudice non ha alcuna possibilità di controllo sull'atto di autonomia privata; "2) la previsione contrattuale del

recesso ad nutum dal contratto non consente, quindi, da parte del giudice, il sindacato su tale atto, non essendo

necessario alcun controllo causale circa l'esercizio del potere, perché un tale potere rientra nella libertà di scelta

dell'operatore economico in un libero mercato; 3) La R. I. non doveva tenere conto anche dell'interesse della

controparte o di interessi diversi da quello che essa aveva alla risoluzione del rapporto"; 4) la insussistenza di

un'ipotesi di recesso illegittimo comporta la non pertinenza del richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c.; 5) i principi di

correttezza e buona fede non creano obbligazioni autonome, ma rilevano soltanto per verificare il puntuale

adempimento di obblighi riconducibili a determinati rapporti; 6) Non sono presenti nel caso in esame i principi

enucleati dalla giurisprudenza in tema di abuso del diritto;

e ciò perché "La sussistenza di un atto di abuso del diritto (speculare ai cosiddetti atti emulativi) postula il

concorso di un elemento oggettivo, consistente nell'assenza di utilità per il titolare del diritto, e di un elemento

soggettivo costituito dall'animus nocendi, ossia l'intenzione di nuocere o di recare molestia ad altri"; 7) "Il

mercato, concepito quale luogo della libertà di iniziativa economica (garantita dalla Costituzione), presuppone

l'esistenza di soggetti economici in grado di esercitare i diritti di libertà in questione e cioè soggetti effettivamente

responsabili delle scelte d'impresa ad essi formalmente imputabili. La nozione di mercato libero presuppone che

il gioco della concorrenza venga attuato da soggetti in grado di autodeterminarsi";

8) Alla libertà di modificare l'assetto di vendita, da parte della R. I. spa, conseguiva che il recesso ad nutum

rappresentava, per il titolare di tale facoltà, il mezzo più conveniente per realizzare tale fine: non sussiste, quindi,

l'abuso"; 9) La impossibilità di ipotizzare "un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia

privata, in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare tale astratta tutela", produce, come effetto,

quello della introduzione di "un controllo di opportunità e di ragionevolezza sull'esercizio del potere di recesso;

al che consegue una valutazione politica, non giurisdizionale dell'atto"; 10) La impossibilità di procedere ad un

giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico e, particolarmente, "in ambito contrattuale in cui i valori di

riferimento non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti e la composizione del conflitto avviene proprio

seguendo i parametri legali dell'incontro delle volontà su una causa eletta dall'ordinamento come meritevole di

tutela" fa sì che "Solo allorché ricorrono contrasti con norme imperative, può essere sanzionato l'esercizio di una

facoltà, ma al di fuori di queste ipotesi tipiche, normativamente previste, residua la più ampia libertà della

autonomia privata".

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Le affermazioni contenute nella sentenza impugnata non sono condivisibili sotto diversi profili.

Punto di partenza dal quale conviene prendere le mosse è quello che non è compito del giudice valutare

le scelte imprenditoriali delle parti in causa che siano soggetti economici, scelte che sono, ovviamente,

al di fuori del sindacato giurisdizionale. Diversamente, quando, nell'ambito dell'attività imprenditoriale,

vengono posti in essere atti di autonomia privata che coinvolgono - ad es. nei contratti d'impresa - gli

interessi, anche contrastanti, delle diverse parti contrattuali.

In questo caso, nell'ipotesi in cui il rapporto evolva in chiave patologica e sia richiesto l'intervento del

giudice, a quest'ultimo spetta di interpretare il contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei

contraenti.

Ciò vuoi significare che l'atto di autonomia privata è, pur sempre, soggetto al controllo giurisdizionale.

Gli strumenti di interpretazione del contratto sono rappresentati: il primo, dal senso letterale delle

parole e delle espressioni utilizzate; con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri

interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle

espressioni adoperate, e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa; con

l'adozione eventuale degli altri criteri interpretativi, comunque, di natura sussidiaria.

Ma il contratto e le clausole che lo compongono - ai sensi dell'art. 1366 c.c. - debbono essere

interpretati anche secondo buona fede. Non soltanto.

Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve

accompagnare il contratto nel suo svolgimento, dalla formazione all'esecuzione, ed, essendo

espressione del dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del

rapporto obbligatorio di agire nell'ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a

prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche.

La sua violazione, pertanto, costituisce di per sè inadempimento e può comportare l'obbligo di

risarcire il danno che ne sia derivato (v. anche S.U. 15.11.2007 n. 23726; Cass. 22.1.2009 n. 1618;

Cass. 6.6.2008 n. 21250; Cass. 27.10.2006 n. 23273; Cass. 7.6.2006 n. 13345; Cass. 11.1.2006 n. 264).

Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al

controllo - anche in senso modificativo o integrativo - dello statuto negoziale; e ciò quale

garanzia di contemperamento degli opposti interessi (v. S.U. 15.11.2007 n. 23726 ed i richiami ivi

contenuti).

Il giudice, quindi, nell'interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell'ottica

dell'equilibrio fra i detti interessi.

Ed è su questa base che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare ed interpretare le clausole del

contratto - in particolare quella che prevedeva il recesso ad nutum - anche al fine di riconoscere

l'eventuale diritto al risarcimento del danno per l'esercizio di tale facoltà in modo non conforme alla

correttezza ed alla buona fede.

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(omissis)

Anche con riferimento all'abuso del diritto, le indicazioni fornite dalla Corte di merito non possono

essere seguite.

Il controllo del giudice sul carattere abusivo degli atti di autonomia privata è stato pienamente

riconosciuto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità, cui si è fatto cenno.

La conseguenza è l'irrilevanza, sotto questo aspetto, delle considerazioni svolte in tema di libertà

economica e di libero mercato.

Nessun dubbio che le scelte decisionali in materia economica non siano oggetto di sindacato

giurisdizionale, rientrando nelle prerogative dell'imprenditore operante nel mercato, che si assume il

rischio economico delle scelte effettuate.

Ma, in questo contesto, l'esercizio del potere contrattuale riconosciutogli dall'autonomia privata, deve

essere posto in essere nel rispetto di determinati canoni generali - quali quello appunto della buona fede

oggettiva, della lealtà dei comportamenti e delle correttezza - alla luce dei quali debbono essere

interpretati gli stessi atti di autonomia contrattuale.

Ed il fine da perseguire è quello di evitare che il diritto soggettivo, che spetta a qualunque consociato

che ne sia portatore, possa sconfinare nell'arbitrio.

Da ciò il rilievo dell'abuso nell'esercizio del proprio diritto. La libertà di scelta economica

dell'imprenditore, pertanto, in sè e per sè, non è minimamente scalfita; ciò che è censurato è l'abuso, ma

non di tale scelta, sebbene dell'atto di autonomia contrattuale che, in virtù di tale scelta, è stato posto in

essere. L'irrilevanza, per il diritto, delle ragioni che sono a monte della conclusione ed esecuzione di un

determinato rapporto negoziale, non esclude - ma anzi prevede - un controllo da parte del giudice, al

fine di valutare se l'esercizio della facoltà riconosciuta all'autonomia contrattuale abbia operato in chiave

elusiva dei principii espressione dei canoni generali della buona fede, della lealtà e della correttezza.

Di qui il rilievo riconosciuto dall'ordinamento - al fine di evitare un abusivo esercizio del diritto

- ai canoni generali di interpretazione contrattuale.

Ed in questa ottica, il controllo e l'interpretazione dell'atto di autonomia privata dovrà essere condotto

tenendo presenti le posizioni delle parti, al fine di valutare se posizioni di supremazia di una di esse e di

eventuale dipendenza, anche economica, dell'altra siano stati forieri di comportamenti abusivi, posti in

essere per raggiungere i fini che la parte si è prefissata.

Per questa ragione il giudice, nel controllare ed interpretare l'atto di autonomia privata, deve operare ed

interpretare l'atto anche in funzione del contemperamento degli opposti interessi delle parti contrattuali.

(omissis)

Il problema è che la valutazione di un tale atto deve essere condotta in termini di "conflittualità".

Ovvero: posto che si verte in tema di interessi contrapposti, di cui erano portatrici le parti, il punto

rilevante è quello della proporzionalità dei mezzi usati. Proporzionalità che esprime una certa

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procedimentalizzazione nell'esercizio del diritto di recesso (per es. attraverso la previsione di trattative,

il riconoscimento di indennità ecc.). In questo senso, la Corte di appello non poteva esimersi da un tale

controllo condotto, secondo le linee guida esposte, anche, quindi, sotto il profilo dell'eventuale abuso

del diritto di recesso, come operato.

In concreto, avrebbe dovuto valutare - e tale esame spetta ora al giudice del rinvio - se il recesso ad

nutum previsto dalle condizioni contrattuali, era stato attuato con modalità e per perseguire

fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli consentiti.

Ed in questo esame si sarebbe dovuta avvalere del materiale probatorio acquisito, esaminato e valutato

alla luce dei principii oggi indicati, al fine di valutare - anche sotto il profilo del suo abuso - l'esercizio

del diritto riconosciuto.

In ipotesi, poi, di eventuale, provata disparità di forze fra i contraenti, la verifica giudiziale del

carattere abusivo o meno del recesso deve essere più ampia e rigorosa, e può prescindere dal

dolo e dalla specifica intenzione di nuocere: elementi questi tipici degli atti emulativi, ma non

delle fattispecie di abuso di potere contrattuale o di dipendenza economica.

Le conseguenze, cui condurrebbe l'interpretazione proposta dalla sentenza impugnata, sono

inaccettabili.

La esclusione della valorizzazione e valutazione della buona fede oggettiva e della rilevanza

anche dell'eventuale esercizio abusivo del recesso, infatti, consentirebbero che il recesso ad

nutum si trasformi in un recesso, arbitrario, cioè ad libitum, di sicuro non consentito

dall'ordinamento giuridico.

(omissis)

2. CONTATTO SOCIALE, RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE E LESIONE

DELLA BUONA FEDE: Cassazione Civile, Sez I , 20 dicembre 2011 n. 27648

In tema di responsabilità precontrattuale, la parte che agisca in giudizio per il risarcimento del

danno subito ha l'onere di allegare, ed occorrendo provare, oltre al danno, l'avvenuta lesione della

sua buona fede, ma non anche l'elemento soggettivo dell'autore dell'illecito, versandosi - come nel

caso di responsabilità da contatto sociale, di cui costituisce una figura normativamente qualificata

- in una delle ipotesi previste dall'art. 1173 cod. civ.

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Alle ipotesi di responsabilità precontrattuale ex art. 1337 cod. civ. - configurabile anche nei

rapporti tra privato e P.A. che agisca "iure privatorum" - si applica l'art. 1223 cod. civ., con la

conseguenza che il risarcimento deve comprendere sia la perdita subita che il mancato guadagno,

purché in relazione immediata e diretta con la lesione dell'affidamento, e non del contratto,

consistendo quindi il danno emergente nelle spese sostenute ed il lucro cessante nelle occasioni di

lavoro mancate, mentre resta, in ogni caso, escluso quanto sarebbe stato dovuto in forza del

contratto non concluso. Ne deriva che, per il professionista che svolga la sua attività in modo

autonomo, il tempo dedicato, senza corrispettivo, all'esecuzione dell'opera intellettuale non

costituisce, di per sé, un danno emergente risarcibile, in quanto esso è, al più, valutabile come

danno non patrimoniale, che in tal caso non è suscettibile di risarcimento.

(omissis)

E' innanzi tutto da condividere la premessa che l'art. 1223 c.c., invocato nel ricorso, è norma di diritto

comune, che si applica sia nei rapporti tra privati e sia nei rapporti con la pubblica amministrazione,

laddove questa agisca jure privatorum. La norma chiarisce che il risarcimento del danno comprende la

perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante). Essa trova

applicazione anche in materia di responsabilità precontrattuale, dove la lesione ha per oggetto non un

diritto sancito dal contratto, ma la buona fede del contraente;

sicchè nessuna distinzione sarebbe, su questo piano, giustificata.

L'applicazione di questa regola alla fattispecie di cui all'art. 1337 c.c. comporta dunque, come nel caso

della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale il risarcimento dell'intero danno, nelle sue due

componenti indicate dalla legge, sempre che il danno stesso sia in relazione immediata e diretta con la

lesione dell'affidamento, e non del contratto; ed è, appunto, in questo significato specifico e circoscritto

che può parlarsi - non del tutto propriamente - di tutela dell'interesse negativo. La giurisprudenza ha

avuto modo quindi di chiarire che devono essere risarcite sia le spese sostenute dal contraente in buona

fede in relazione alla vicenda che ha originato la responsabilità precontrattuale, e sia il lucro cessante

cagionato dalla stessa vicenda, e costituito dalle occasioni di lavoro mancate a causa dell'affidamento

riposto nella sua valida conclusione; mentre rimane escluso quanto sarebbe stato dovuto in forza del

contratto non concluso: in questo caso, la retribuzione del lavoro contemplato nel contratto, sia esso

stato svolto o no.

Sotto questo profilo, il fatto, in sè, che la parte danneggiata abbia dedicato tempo e lavoro

all'esecuzione della prestazione contrattuale non rileva, se non nella misura in cui ciò si sia tradotto in

perdite patrimoniali (spese sostenute) o in perdita di altre occasioni di lavoro. Ora, lo stesso ricorrente

rifiuta di trattare il tema delle diverse opportunità che egli avrebbe lasciato cadere per dar corso agli

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impegni assunti con l'amministrazione, per sostenere la tesi - infondata, per quel che s'è detto - secondo

la quale una perdita patrimoniale sarebbe ravvisabile nel tempo e nelle attività intellettuali spesi per

l'esecuzione dell'incarico. Si tratta, in realtà, di tesi incompatibile con le premesse sopra ricordate, e che

non trova riscontro nella sentenza di questa corte 27 ottobre 2006 n. 23289, richiamata dal ricorrente.

Al di là del modo in cui quella sentenza è stata massimata, la sua lettura integrale dimostra che in quel

caso è stata soltanto ritenuta congrua, esente da vizi logici e da errori di diritto e pertanto insindacabile

la motivazione della Corte territoriale, che aveva accertato l'intempestività della rottura delle trattative

con gli artisti, giunta solo a ridosso dell'inizio delle prove, quando regista, sceneggiatore e costumista

avevano già eseguito sulla parola i rispettivi compiti preparatori e la Compagnia era già in viaggio per la

Sicilia, "tal che per tutti era manifestamente troppo tardi per trovare occasioni alternative di lavoro

durante la stagione estiva". In quel caso, dunque, era stato accertato in punto di fatto quanto con il

ricorso si pretende essere superfluo nei casi di svolgimento di lavoro intellettuale, e cioè la perdita di

occasioni alternative di lavoro.

Concludendo sul punto ritiene la corte che non possa accedersi alla tesi, implicata dall'impostazione

difensiva del ricorso, che per il professionista che svolga la sua attività in modo autonomo lo

svolgimento di opera intellettuale, se non retribuito, costituirebbe di per sè un danno emergente (come

si ritiene, in forza del precetto contenuto nell'art. 36 Cost. per il solo lavoro dipendente). Il tempo

utilizzato senza corrispettivo in tale attività, qualora lo si volesse per ciò stesso considerare sprecato,

sarebbe al più valutabile come un danno non patrimoniale, che in questo caso non è risarcibile.

(omissis)

8. Con il secondo motivo del suo ricorso incidentale, il ministero censura, per violazione dell'art. 1337

c.c. e per vizio di motivazione, l'accertamento della sua responsabilità precontrattuale. Le trattative, alle

quali fa riferimento l'art. 1337 c.c., si erano concluse con la stipulazione di una convenzione il 25

settembre 1981, e il C. non aveva mai sostenuto l'inosservanza da parte della pubblica amministrazione

dei principi di lealtà e correttezza nella fase delle trattative che hanno preceduto tale convenzione. Non

era configurabile una culpa in contrahendo per la mancata registrazione del decreto ministeriale di

approvazione della convenzione.

I due motivi sono intrinsecamente collegati, e possono essere esaminati insieme. Essi sono infondati.

La domanda di accertamento della responsabilità precontrattuale è validamente proposta sulla

base della rappresentazione di elementi di fatto idonei a dimostrare la lesione della buona fede

tenuta dalla parte nel corso della vicenda, e con ciò dell'obbligo sancito dall'art. 1337 c.c.. La

citata disposizione, infatti, delinea completamente la fattispecie sostanziale tutelata, costituita dal

rapporto particolare che con la trattativa s'istituisce tra le parti, alle quali è normativamente imposto un

14

obbligo di comportamento in buona fede; una fattispecie, pertanto, ben distinta dalla responsabilità

aquiliana ex art. 2043 c.c., in cui la lesione precede l'instaurazione di un qualsiasi rapporto particolare tra

le parti. La violazione di quest'obbligo particolare, dunque, costituisce un caso di responsabilità

compreso tra quelli indicati dall'art. 1173 c.c.. Sulla base di queste premesse, l'interpretazione della

domanda, compiuta dal giudice di merito, appare giuridicamente corretta e immune da censure.

Quanto alla mancata allegazione del profilo della colpa, va ricordato che questa corte è da tempo

pervenuta a qualificare la responsabilità da contatto sociale in termini di responsabilità

contrattuale, nella quale, conseguentemente, il danneggiato deve dimostrare - oltre al danno

sofferto - solo la condotta antigiuridica, e non anche la colpa (tra le molte, in particolare, Cass. 22

gennaio 1999 n. 589, e Sez. un. 26 giugno 2007 n. 14712).

Come si è già osservato, la responsabilità precontrattuale, nella quale v'è certamente un contatto

sociale qualificato dallo stesso legislatore, con la previsione specifica di un obbligo di buona

fede, presenta tutti gli elementi dell'art. 1173 c.c., sicchè deve ritenersi che l'attore, il quale

intenda far valere tale responsabilità, abbia l'onere di provare solo l'antigiuridicità del

comportamento (la violazione dell'obbligo di buona fede) e il danno.

Il motivo, pertanto, deve essere rigettato in base al principio che, in tema di responsabilità

precontrattuale, la parte che agisca in giudizio per il risarcimento del danno subito ha l'onere

di allegare, e occorrendo provare, oltre al danno, l'avvenuta lesione della sua buona fede, ma

non anche l'elemento soggettivo dell'autore dell'illecito, versandosi - come nel caso di

responsabilità da contatto sociale, di cui costituisce una figura normativamente qualificata - in

una delle ipotesi previste nell'art. 1173 c.c..

(omissis)

3. LE OBBLIGAZIONI DEL MEDICO SONO ANCHE DI RISULTATO: IL

PROBLEMA DELLA CAUSALITÀ

Cassazione civile, Sezioni unite, 11 gennaio 2008, n. 577(ud. 20 novembre 2007)

Il paziente che si pretenda danneggiato dall'inadempimento della prestazione di cura ha l'onere di

provare il fatto costitutivo del rapporto obbligatorio (legge o contratto) e di allegare un

inadempimento efficiente alla causazione del danno. Anche al fine della distribuzione dell'onere

della prova non può essere riconosciuto alcun rilievo alla considerazione dell'obbligazione

sanitaria come un'obbligazione di mezzi.

15

Il paziente danneggiato che chiede il risarcimento deve limitarsi a provare il contratto con la

struttura sanitaria (o il “contatto sociale” con il medico), l’aggravamento della patologia o

l’insorgenza di un’affezione; all’ammalato-creditore basterà allegare un inadempimento del

debitore che sia “qualificato”, cioè astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato: starà poi

al debitore dimostrare che l’inadempimento non c’è stato o che, pur esistendo, esso non è stato

rilevante sotto il profilo eziologico (nella specie la Corte ha accolto il ricorso di un paziente che

sosteneva di aver contratto l’epatite C dopo le trasfusioni praticategli per un intervento effettuato

in una casa di cura, cassando con rinvio la sentenza di merito che imponeva all’ammalato l’onere

di dimostrare il nesso causale fra l’emotrasfusione e la patologia contratta oltre che di provare che

egli non fosse portatore della malattia prima del ricovero).

(omissis)

1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare

importanza relative: alla responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente; alla

ripartizione dell'onere probatorio in materia di responsabilità medica.

(omissis)

Per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante

che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente

equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei

servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a

quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta

di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione,

senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura,

pubblica o privata, della struttura sanitaria (Cass. 25.2.2005, n. 4058).

Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella

responsabilità contrattuale, sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del

ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del

2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n.

11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316).

A sua volta anche l'obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti

del paziente, ancorchè non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura

16

contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488;

Cass. n. 9085 del 2006).

3.2. Per diverso tempo tale legame contrattuale è stato interpretato e disciplinato sulla base

dell'applicazione analogica al rapporto paziente-struttura delle norme in materia di contratto di

prestazione d'opera intellettuale vigenti nel rapporto medico-paziente, con il conseguente e riduttivo

appiattimento della responsabilità della struttura su quella del medico. Da ciò derivava che il

presupposto per l'affermazione della responsabilità contrattuale della struttura fosse l'accertamento di

un comportamento colposo del medico operante presso la stessa.

Più recentemente, invece, dalla giurisprudenza il suddetto rapporto è stato riconsiderato in termini

autonomi dal rapporto paziente-medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a

prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza

sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull'inadempimento fissate dall'art. 1218 c.c..

Da ciò consegue l'apertura a forme di responsabilità autonome dell'ente, che prescindono

dall'accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte

nell'inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all'ente. Questo percorso interpretativo,

anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite

(1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del

2006) che si è espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso,

privata) che valorizzi la complessità e l'atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura

di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario,

paramedico, l'apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali

complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai

articolata, definita genericamente di "assistenza sanitaria", che ingloba al suo interno, oltre alla

prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori.

3.3. Così ricondotta la responsabilità della struttura ad un autonomo contratto (di spedalità), la sua

responsabilità per inadempimento si muove sulle linee tracciate dall'art. 1218 c.c., e, per quanto

concerne le obbligazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari,

l'individuazione del fondamento di responsabilità dell'ente nell'inadempimento di obblighi propri della

struttura consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto

d'opera professionale e di fondare semmai la responsabilità dell'ente per fatto del dipendente sulla base

dell'art. 1228 c.c..

3.4. Questa ricostruzione del rapporto struttura - paziente va condivisa e confermata.

17

Ciò comporta che si può avere una responsabilità contrattuale della struttura verso il paziente

danneggiato non solo per il fatto del personale medico dipendente, ma anche del personale ausiliario,

nonchè della struttura stessa (insufficiente o inidonea organizzazione).

Dalla ricostruzione in termini autonomi del rapporto struttura-paziente rispetto al rapporto

paziente-medico, discendono importanti conseguenze sul piano della affermazione di

responsabilità in primo luogo, ed anche sul piano della ripartizione e del contenuto degli oneri

probatori. Infatti, sul piano della responsabilità, ove si ritenga sussistente un contratto di spedalità tra

clinica e paziente, la responsabilità della clinica prescinde dalla responsabilità o dall'eventuale mancanza

di responsabilità del medico in ordine all'esito infausto di un intervento o al sorgere di un danno che,

come nel caso di specie, non ha connessione diretta con l'esito dell'intervento chirurgico.

Non assume, in particolare, più rilevanza, ai fini della individuazione della natura della responsabilità

della struttura sanitaria se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del SSN, o

convenzionata, oppure ad una struttura privata o se, invece, si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha

effettuato l'intervento presso una struttura privata. In tutti i predetti casi è ipotizzabile la responsabilità

contrattuale dell'Ente.

4.1. Inquadrata nell'ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico,

nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell'onere probatorio deve seguire i criteri

fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni

Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova

dell'inadempimento e dell'inesatto adempimento.

Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il

principio - condiviso da questo Collegio - secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione

contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve dare la prova della

fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza

dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della

prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento.

Analogo principio è stato enunciato con riguardo all'inesatto adempimento, rilevando che al

creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per

violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza

dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una

volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento.

18

4.2. La giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte, applicando questo principio all'onere della

prova nelle cause di responsabilità professionale del medico ha ritenuto che gravasse sull'attore

(paziente danneggiato che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento della prestazione

sanitaria) oltre alla prova del contratto, anche quella dell'aggravamento della situazione patologica o

l'insorgenza di nuove patologie nonchè la prova del nesso di causalità tra l'azione o l'omissione del

debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del sanitario. Resta a carico del

debitore l'onere di provare l'esatto adempimento, cioè di aver tenuto un comportamento diligente

(Cass. n. 12362 del 2006; Cass. 11.11.2005, n. 22894; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 3.8.2004, n.

14812).

4.3. Il punto relativo alla prova del nesso di causalità non può essere condiviso, nei termini in cui è stato

enunciato, poichè esso risente implicitamente della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni

di risultato, che se può avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata, quanto meno in

tema di riparto dell'onere probatorio dalla predetta sentenza delle S.U. n. 13533/2001 (vedasi anche

S.U. 28.7.2005, n. 15781).

5.1. La dottrina ha assunto posizioni critiche sull'utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di

risultato, la quale, ancorchè operante soltanto all'interno della categoria delle obbligazioni di fare (a

differenza che in Francia dove rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), ha

originato contrasti sia in ordine all'oggetto o contenuto dell'obbligazione, sia in relazione all'onere della

prova e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità del professionista.

Come insegna la definizione tradizionale, nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta

prescinde da un particolare esito positivo dell'attività del debitore, che adempie esattamente

ove svolga l'attività richiesta nel modo dovuto.

In tali obbligazioni è il comportamento del debitore ad essere in obbligazione, nel senso che la

diligenza è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo,

con l'ulteriore corollario che il risultato è caratterizzato dall'aleatorietà, perchè dipende, oltre che dal

comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi.

Nelle obbligazioni di risultato, invece, ciò che importa è il conseguimento del risultato stesso,

essendo indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo. La diligenza opera solo come

parametro, ovvero come criterio di controllo e valutazione del comportamento del debitore: in

altri termini, è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente

in obbligazione.

19

5.2. Tale impostazione non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle

ipotesi di prestazione d'opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto

obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni.

In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore

che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicchè molti Autori criticano la distinzione

poichè in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere

attraverso il vincolo, come l'impegno che il debitore deve porre per ottenerlo.

5.3. Dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti interessanti in ordine alla dicotomia tra

obbligazione di mezzi e di risultato, spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali

la distribuzione dell'onere della prova e l'individuazione del contenuto dell'obbligo, ai fini del giudizio di

responsabilità, operandosi non di rado, per ampliare la responsabilità contrattuale del professionista,

una sorta di metamorfosi dell'obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l'individuazione di

doveri di informazione e di avviso (cfr. segnatamente, per quanto riguarda la responsabilità

professionale del medico: Cass. 19.5.2004, n. 9471), definiti accessori ma integrativi rispetto all'obbligo

primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione,

indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio.

5.4. Sotto il profilo dell'onere della prova, la distinzione (talvolta costruita con prevalente attenzione alla

responsabilità dei professionisti intellettuali e dei medici in particolare) veniva utilizzata per sostenere

che mentre nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombesse l'onere

della prova che il mancato risultato era dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece,

sul debitore incombeva l'onere della prova che il mancato risultato era dipeso da causa a lui non

imputabile.

5.5. Ma anche sotto tale profilo la distinzione è stata sottoposta a revisione sia da parte della

giurisprudenza che della dottrina.

Infatti, come detto, questa Corte (sent. n. 13533/2001) ha affermato che il meccanismo di

ripartizione dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 c.c. in materia di responsabilità

contrattuale (in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità

in concreto dell'onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra

responsabilità contrattuale e da fatto illecito) è identico, sia che il creditore agisca per

l'adempimento dell'obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che domandi il risarcimento per

l'inadempimento contrattuale, ex art. 1218 c.c., senza richiamarsi in alcun modo alla

distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.

20

6.1. Prestata piena adesione al principio espresso dalla pronunzia suddetta, ritengono queste S.U. che

l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno

nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo

quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno.

Ciò comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento,

qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente

efficiente alla produzione del danno.

Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che,

pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.

6.2. Nella fattispecie, quindi, avendo l'attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria (ed il

punto non è in contestazione) ed il danno assunto (epatite), allegando che i convenuti erano

inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti

fornire la prova che tale inadempimento non vi era stato, poichè non era stata effettuata una trasfusione

con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l'inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante

nell'azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell'affezione

patologica già in atto al momento del ricovero.

(omissis)

10. In definitiva va accolto il ricorso nei termini suddetti; va cassata,in relazione, l'impugnata sentenza e

la causa va rinviata, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello

di Roma, che si uniformerà ai seguenti principi di diritto:

A) In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità

professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio, l'attore,

paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e

l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un'affezione ed allegare l'inadempimento del

debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.

Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur

esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.

(omissis)

Cassazione civile, Sezioni unite, 11 gennaio 2008, n. 581

21

Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per

contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma degli artt. 2935 e

2947, c. l,c.c, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui

o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui viene percepita o

può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un

terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze

scientifiche.

Il nesso di causalità è regolato, anche in materia civile, dall’applicazione dei principi generali che

regolano la causalità di fatto, delineati dagli artt. 40 e 41 c.p. e temperati dalla “regolarità

causale”, in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso eziologico configurabile;

tale applicazione va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative della

responsabilità civile. In particolare, muta la regola probatoria: mentre nel processo penale vige la

regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, nel processo civile vige la regola della

preponderanza dell’evidenza, o del “più probabile che non”.

(omissis)

1.1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare

importanza relative: al nesso causale in tema di responsabilità civile, segnatamente da condotta

omissiva; al dies a quo della prescrizione per il risarcimento dei danni lungolatenti; alla

responsabilità del Ministero della Salute per danni "da sangue infetto".

(omissis)

3.1. Il punto di maggior rilievo è l'individuazione del dies a quo per la decorrenza della

prescrizione in ipotesi di fatto dannoso lungolatente, quale è quello relativo a malattia da contagio.

Come è noto, in base all'art. 2935 cc, norma assolutamente aperta a molteplici e contrapposte

interpretazioni, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può

essere fatto valere. L'art. 2947, 1° comma, ce. aggiunge che il diritto al risarcimento del danno da fatto

illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il «fatto si è verificato».

Nell'evoluzione giurisprudenziale questa Corte (Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 9927 del 2000) ha

affrontato il significato da attribuirsi all'espressione «verificarsi del danno», specificando che il

danno si manifesta all'esterno quando diviene «oggettivamente percepibile e riconoscibile»

anche in relazione alla sua rilevanza giuridica. La Corte, successivamente, ha ritenuto che il

22

termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di avere contratto per

contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere, a norma dell'art. 2947,

1° comma, cc non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno all'altrui

diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui la malattia

viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento

doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle

conoscenze scientifiche. Qualora invece non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non

può iniziare a decorrere, poiché la malattia, sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo,

non è idonea in sé a concretizzare il "fatto" che l'art. 2947, 1° comma, cc. individua quale esordio della

prescrizione (Cass. 21/02/2003, n.2645 ; Cass. 05/07/2004, n. 12287; Cass. 08/05/2006, n. 10493).

Viene applicato, unitamente al principio della «conoscibilità del danno», quello della

«rapportabilità causale».

3.2.Ritengono queste Sezioni Unite di dover condividere tale ultimo orientamento. L'individuazione del

dìes a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell'«esteriorizzazione del danno» può, come

visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l'inattività

(incolpevole) della vittima rispetto all'esercizio dei suoi diritti.

È quindi del tutto evidente come l'approccio all'individuazione del dies a quo venga a spostarsi da una

mera disamina dell'evolversi e dello snodarsi nel tempo delle conseguenze lesive del fatto illecito o

dell'inadempimento - e cioè delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno «occulto» a

quello che si manifesta nelle sue componenti essenziali ed irreversibili - ad una rigorosa analisi delle

informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente

attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa,

circa i dati necessari per l'instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e le

azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al convenuto, con conseguenti riflessi sulla

condotta tenuta da quest'ultimo eventualmente colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla

vittima, nei casi in cui era a ciò tenuto ( ciò è pacifico negli ordinamenti anglosassoni, in tema di

medicai malpractice).

3.3.Va specificato che il suddetto principio in tema di exordium praescriptionis , non apre la strada ad

una rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato. Esso deve essere saldamente

ancorato a due parametri obiettivi, l'uno interno e l'altro esterno al soggetto, e cioè da un lato

al parametro dell'ordinaria diligenza, dall'altro al livello di conoscenze scientifiche dell'epoca,

comunque entrambi verificabili dal giudice senza scivolare verso un'indagine di tipo

psicologico. In particolare, per quanto riguarda l'elemento esterno delle comuni conoscenze

23

scientifiche esso non andrà apprezzato in relazione al soggetto leso, in relazione al quale l'ordinaria

diligenza dell'uomo medio si esaurisce con il portarlo presso una struttura sanitaria per gli accertamenti

sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza scientifica che in merito a tale

patologia era ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si è rivolta (o avrebbe dovuto

rivolgersi) la persona lesa.

3.4. I principi, quindi, che vanno affermati, sono i seguenti:

" Anche allorché sia proposta domanda di condanna generica al risarcimento del danno, da liquidarsi in

separato giudizio, il convenuto, che assuma che il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto, ha

l'onere di sollevare la relativa eccezione in tale giudizio nei termini di legge a pena di decadenza e non

nel successivo giudizio di liquidazione del danno; il giudice di primo grado ha l'obbligo di decidere su

tale eccezione, che integra una preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza della prescrizione fa

venir meno ogni interesse della parte all'accertamento dell'esistenza del diritto azionato" "Il termine di

prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio

una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, c.

l,c.c, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal

momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui viene percepita o

può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di

un terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle

conoscenze scientifiche".

(omissis)

8.1.Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana ex art.

2043 cc, da omessa vigilanza, va ora esaminata la questione del nesso causale in siffatto tipo di

responsabilità.

Osserva preliminarmente questa Corte che l'insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile

dell'elaborazione penalistica in tema di nesso causale è emersa con chiarezza nelle concezioni moderne

della responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno

ingiusto, anziché al "fatto illecito", divenuto "fatto dannoso".

In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale è

appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico) , ai fini della

responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale.

E tuttavia un "fatto" è pur sempre necessario perché la responsabilità sorga, giacché l'imputazione del

danno presuppone l'esistenza di una delle fattispecie normative di cui agli artt. 2043 e segg. cc, le quali

24

tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a

cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a

rispondere.

Il "danno" rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di

conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella

giuridica.

Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza

del fatto lesivo ( di cui è un elemento l'evento lesivo).

Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria.

8.2.Proprio in conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l'idea,

sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio

aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica

causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41

c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell'intero danno cagionato,

che costituisce l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria.

A questo secondo momento va riferita la regola dell'art. 1223 cc.(richiamato dall'art. 2056 cc), per il

quale il risarcimento deve comprendere le perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del fatto

lesivo (ed. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e

non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose

risarcibili. Secondo l'opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato,

il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perche' possa configurarsi, a monte,

una responsabilità' "stmtturale" (Haftungsbegrùndende Kausalitàt) e, dall'altro, il nesso che,

collegando l'evento al danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose,

con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già' accertata) responsabilità'

risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitàt).

Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente,

nel primo e nel secondo comma dell'art. 1227 cc: il primo comma attiene al contributo

eziologico del debitore nella produzione dell'evento dannoso, il secondo comma attiene al

rapporto evento- danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni. Nel macrosistema

civilistico l'unico profilo dedicato al nesso eziologico, è previsto dall'art. 2043 cc, dove l'imputazione del

"fatto doloso o colposo" è addebitata a chi "cagiona ad altri un danno ingiusto", o, come afferma l'art.

1382 Code Napoleon "qui cause au autrui un dommage".

25

Un'analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non è richiesta in tema di

responsabilità ed. contrattuale o da inadempimento, perché in tal caso il soggetto responsabile è, per lo

più, il contraente rimasto inadempiente, o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. E

questo è uno dei motivi per cui la stessa giurisprudenza di legittimità partendo dall'ovvio presupposto di

non dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si è limitata a dettare una serie di

soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo, tesa a coniugare il

"risarcimento del danno", cui è dedicato l'art. 1223 ce, con il rapporto di causalità. Solo in alcune ipotesi

particolari, in cui l'inadempimento dell'obbligazione era imputabile al fatto illecito del terzo, il problema

della causalità è stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il profilo del rapporto tra

comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili.

Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtù

del rinvio operato dall'art. 2056 ce, è composto dagli artt. 1223, 1226 e 1227 ce e, in tema di

responsabilità da inadempimento, anche dalla disposizione dell'art. 1225 ce A queste norme si deve

aggiungere il principio ricavabile dall'art. 1221 ce che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la

situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente avvenuta.

8.3. Ai fini della causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza

e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p.,ritengono

che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non

si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).

Il rigore del principio dell'equivalenza delle cause , posto dall'art. 41 c.p, in base al quale, se la

produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di

esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal

secondo comma dell'art. 41 c.p., in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente

all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre

cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto

(Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).

Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente

rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel

momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino

come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c. d. causalità adeguata o quella

similare della ed. regolarità causale ( ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass.

27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).

26

8.4. Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di

common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o

omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito,

escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o

imprevedibili. Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con

valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze

dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti

conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel

momento in cui la condotta è stata posta in essere, operandosi una "prognosi postuma", nel senso che

si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l'azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe

potuta discendere una data conseguenza. La teoria della regolarità causale, pur essendo la più seguita

dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non è andata esente da critiche da parte della dottrina italiana,

che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalità adeguata, ove venisse compiuto con

valutazione ex ante verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza dell'elemento

soggettivo. Ma la censura non pare condivisibile, in quanto tale prevedibilità obbiettiva va esaminata in

astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non è quello della conoscenza

dell'uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poiché non si tratta di

accertare l'elemento soggettivo, ma il nesso causale).

In altri termini ciò che rileva è che l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma (per così dire) da

parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un

giudizio di non improbabilità dell'evento. Il principio della regolarità causale diviene la misura della

relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed

evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre

tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad

iscriversi entro l'elemento soggettivo (la colpevolezza) dell'illecito. Inoltre se l'accertamento della

prevedibilità dell'evento, ai fini della regolarità causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe

rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso che

quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e

quindi dell'accertamento positivo del nesso causale ( con la conseguenza illogica che della lunghezza del

processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilità oggettiva, potrebbe giovarsi l'attore, sul quale

grava l'onere della prova del nesso causale).

8.5.Nell'imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la

condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004;

Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n.15789) : rilievo che si traduce a volte nell'affermazione

27

dell'esigenza, per l'imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del

rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire. E' questa l'ipotesi per la quale in

parte della dottrina si parla anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicità e che effettivamente

non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli limiti di

supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione della regola di cui all'art. 40, c. 2, c.p.. Poiché

l'omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale

dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una

norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del

soggetto cui si addebita l'omissione, siccome implicante l'esistenza a suo carico di particolari obblighi di

prevenzione dell'evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione

generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso

causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva

individuazione dell'obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto.

L'individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l'apprezzamento di una condotta

omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al

comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile

apprezzare l'omissione del comportamento sul piano causale.

La causalità nell'omissione non può essere di ordine strettamente materiale, poiché ex nihilo nihil flt.

Anche coloro (corrente minoritaria) che sostengono la causalità materiale nell'omissione e non la

causalità normativa (basata sull'equiparazione disposta dall'art. 40 c.p.) fanno coincidere l'omissione con

una condizione negativa perché l'evento potesse realizzarsi. La causalità è tuttavia accertabile attraverso

un giudizio ipotetico: l'azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l'evento?

In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento

omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l'evento prospettato: la

responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico

(l'omissione di un comportamento dovuto è di per sé un comportamento antigiuridico), ma perchè

quell'omissione non è causa del danno lamentato.

Il giudice pertanto è tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità omissiva) nel

senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto in essere la

condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L'accertamento del rapporto di

causalità ipotetica passa attraverso l'enunciato "controfattuale" che pone al posto

dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa

avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.

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8.6. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in

materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p e dalla "regolarità causale", in assenza di altre norme

nell'ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a

massime di esperienza.

Tanto vale certamente allorché all'inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o

commissiva, secondo la norma generale di cui all'art. 2043 c.c..

Né può costituire valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze

morfologiche e funzionali tra accertamento dell'illecito civile ed accertamento dell'illecito penale,

essendo il primo fondato sull'atipicità dell'illecito, essendo possibili ipotesi di responsabilità oggettiva ed

essendo diverso il sistema probatorio.

La dottrina, che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può

definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature

quante l'atipicità dell'illecito.

Altra parte della dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione

sulla causalità materiale in una questione di causalità giuridica (in diversa accezione da quella sopra

esposta, con riferimento all'art. 1223 ce), per cui un certo danno è addebitato ad un soggetto chiamato a

risponderne ed il legame "causale" tra responsabile e danno è tutto normativo.

8.7.Ritengono queste S.U. che le suddette considerazioni non sono decisive ai fini di un

radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l'applicazione dei principi

generali di cui agli artt. 40 e 41 cp., temperati dalla " regolarità causale", ai fini della

ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie

normative di responsabilità civile.

Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che è successiva al verificarsi

ontologico del fatto dannoso e che può anche mancare. Di questo si vedrà più ampiamente in seguito.

E' vero che la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella

penale intorno alla figura dell'autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un

responsabile è pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in

un'assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di premio.

L'atipicità dell'illecito attiene all'evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e

l'elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione.

29

E' vero, altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della

responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta solo una varietà di tali criteri

di imputazione, ma da una parte non elimina la necessità del nesso di causalità di fatto e dall'altra non

modifica le regole giuridico-logiche che presiedono all'esistenza del rapporto eziologico.

Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva. E'

esatto che tale criterio di imputazione è segnato spesso da un'allocazione del costo del danno a carico di

un soggetto che non necessariamente è autore di una condotta colpevole (come avviene generalmente e

come è previsto dalla clausola generale di cui all'art. 2043 ce, secondo il principio classico, per cui non

vi è responsabilità senza colpa: "ohne schuld keine haftung), ma ha una determinata esposizione a

rischio ovvero costituisce per l'ordinamento un soggetto più idoneo a sopportare il costo del danno

(dando attuazione, anche sul terreno dell'illecito, al principio di solidarietà accolto dalla nostra

Costituzione) ovvero è il soggetto che aveva la possibilità della cost-benefit analysis, per cui deve

sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata

per evitarlo nel modo più conveniente, sicché il verificarsi del danno discende da un'opzione per il

medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.

Sennonché il criterio di imputazione nella fattispecie ( con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad

indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può anche costituire un supporto argomentativo ed

orientativo nell'applicazione delle regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire

autonomi principi della causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità

elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o

l'ingiustizia del danno.

8.8.Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all'infinito. La responsabilità oggettiva non può

essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con

altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione

che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilità

per colpa quest'ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di

quest'ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva sono i criteri di imputazione

ad individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai

fini della responsabilità.

Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica "da fare responsabile". Ciò perché nella fattispecie

di responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e

condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura

non coincide con una condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a

30

risolvere la questione della responsabilità. Tale questione la norma di volta in volta risolve mediante

qualcosa di ulteriore, che è costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio di

imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale

debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la catena causale

alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale deve gravare il

costo del danno.

8.9.Sennonchè detto ciò, ai fini dell'individuazione del soggetto chiamato alla responsabilità dal criterio

di imputazione, un nesso causale è pur sempre necessario tra l'evento dannoso e, di volta in volta, la

condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di altri (ad es.

art. 2049 ce.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt. 2051, 2052, 2054, c. 4,

ce), posti all'inizio della serie causale.

Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale "concatenazione causale" tra la

condotta di altri e l'evento ovvero tra il fatto di altra natura e l'evento ( di cui debba rispondere il

soggetto gravato della responsabilità oggettiva).

In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far

riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo

caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere,

ma tra l'elemento individuato dal criterio di imputazione e l'evento dannoso. In altri termini,

mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento

iniziale la condotta dell'agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di

partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma

fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente

o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l'evento dannoso, in assenza di altre

disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo,

considerati eventualmente dal la ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell'allocazione del

costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma

restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria

della causalità nell'illecito civile.

8.10. Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico-giuridico ai fini della ricostruzione

del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola

probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr.

Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della

preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in

31

gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo

civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l'identità

di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra

processo civile e penale (in questo senso vedansi: la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass.

18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632). Anche la

Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di

tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n.295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla

concorrenza in danno del consumatore se "appaia sufficientemente probabile" che l'intesa tra

compagnie assicurative possa avere un'influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione;

Corte giustizia CE, 15/02/2005, n.12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che

"occorre postulare le varie concatenazioni causa-effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente

probabili").

Detto standard di "certezza probabilistica" in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla

determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (ed. probabilità quantitativa o

pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il

grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili

alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (ed. probabilità logica o baconiana). Nello schema

generale della probabilità come relazione logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei

relativi elementi di conferma (ed. evidence and inference nei sistemi anglosassoni).

8.11. Le considerazioni sopra esposte, maturate in relazione alla problematica del nesso di causalità,

portano ad enunciare il seguente principio di diritto per la decisione del caso concreto, attinente alla

responsabilità del Ministero della Sanità (oggi della Salute) da omessa vigilanza, correttamente applicato

dalla sentenza impugnata:

"Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego

di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale

alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinchè fosse utilizzato sangue

non infetto e proveniente da donatori conformi agli standars di esclusione di rischi, il giudice, accertata

l'omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all'epoca di produzione del preparato, la

conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue

infetto ed accertata - infine - l'esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto

emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale

omissione sia stata causa dell'insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del

Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la versificazione dell'evento".

32

(omissis)

4. IL CONSENSO INFORMATO E ONERE DELLA PROVA: Cassazione Civile, sez. III,

19 maggio 2011, n. 11005

In relazione all’obbligo d’informazione ed all’onere della relativa prova, la responsabilità

professionale del medico – ove pure egli si limiti alla diagnosi ed all’illustrazione al paziente delle

conseguenze della terapia o dell’intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenerne il

necessario consenso informato – ha natura contrattuale e non precontrattuale; ne consegue che, a

fronte dell’allegazione, da parte del paziente, dell’inadempimento dell’obbligo di informazione, è il

medico gravato dell’onere della prova di aver adempiuto tale obbligazione.

(omissis)

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, sono in parte inammissibili ed in parte

infondati; seno inammissibili laddove tendono, in sede di 1egittimita, ad una nuova valutazione della

prova e ad un diverso accertamento dei fatti;

sono infondati laddove lamentano violazioni di legge e vizi della motivazione;

infatti, quanto al nesso causale, la sentenza pone in evidenza che: il professionista non ha mai posto in

discussione né l’affezione da parte dell’attore della maculopatia, né il rapporto eziologico tra questa

malattia e l’assunzione dello specifico farmaco prescritto dal B.; a tal riguardo è dato conto della

comparsa di risposta del medico in primo grado; la derivazione causale in questione è dimostrata dalla

documentazione medica prodotta dall’attore;

inoltre, la sentenza contiene la decisiva e corretta affermazione secondo cui l’eventuale responsabilità di

altri medici che abbiano prescritto o fornito il farmaco in questione non esclude la responsabilità

concorrente e solidale del B., il quale non ha fornito la prova che quelle condotte furono da sole

sufficienti a cagionare il danno; quanto alla causalità astratta e concreta alla quale fa riferimento il

secondo motivo, occorre ribadire che la sentenza di condanna generica pronunciata nel corso di un

giudizio di risarcimento del danno aquiliano di norma presuppone il positivo accertamento del nesso di

causalità cosiddetta “materiale” (“ex” art. 40 c.p.) tra la condotta e l’evento produttivo di danno, sicché

nel successivo giudizio sul “quantum” resta da accertare soltanto il nesso di causalità cosiddetta

“giuridica” (“ex” art. 1223 cod. civ.) tra l’evento di danno ed i pregiudizi che ne sono derivati (tra le più

recenti, cfr. Casa. n. 3357/09);

quanto all’obbligo d’informazione ed all’onere della relativa prova basta ricordare che la

responsabilità professionale del medico – ove pure egli si limiti alla diagnosi ed all’illustrazione

al paziente delle conseguenze della terapia o dell’intervento che ritenga di dover compiere, allo

33

scopo di ottenerne il necessario consenso informato – ha natura contrattuale e non

precontrattuale; ne consegue che, a fronte dell’allegazione, da parte del paziente,

dell’inadempimento dell’obbligo di informazione, è il medico gravato dell’onere della prova di

aver adempiuto tale obbligazione (Cass. n. 2847/10);

quanto alla prescrizione ed alla sua decorrenza, la sentenza effettua un compiuto accertamento in

ordine all’epoca in cui si manifestò e fu diagnosticata la malattia e furono compiuti gli atti interruttivi;

in conclusione, non manifestandosi alcun vizio di legittimità, il ricorso deve essere respinto, con

condanna del ricorrente a rivalere il Bu. delle spese sopportate nel giudizio di cassazione (l’atto della

Ass.ni Generali spa aderisce al ricorso del B. e ne chiede l’accoglimento).

(omissis)

5. IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA E LE CONSEGUENZE

RISARCITORIE: Corte di Cassazione, sez. III civile, ordinanza 23 febbraio 2015, n.3569

La Corte rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite di due

questioni di massima importanza: 1) in cosa consista, in tema di c.d. “nascita indesiderata”, il

contenuto dell’onere probatorio gravante sulla madre quanto all’accertamento di anomalie o

malformazioni nel feto che l’avrebbe indotta ad interrompere la gravidanza se fosse stata

informata; 2) se, nel nostro ordinamento, possa essere affermata la sussistenza di un diritto “a non

nascere se non sano”, tale da legittimare il soggetto nato malformato a pretendere il risarcimento

del danno a carico del medico (e/o della struttura sanitaria) che, con il suo inadempimento, abbia

privato la gestante della possibilità di accedere all’interruzione della gravidanza.

Fatto e diritto

(omissis)

Considerato che:

- il ricorso investe la tematica del cosiddetto danno da nascita indesiderata (ricorrente quando, a

causa del mancato rilievo dell'esistenza di malformazioni congenite del feto, la gestante perda la

possibilità di interrompere la gravidanza) e si incentra su due questioni - quella relativa all'onere

probatorio e quella concernente la legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria - che

meritano, ad avviso del Collegio, il vaglio delle Sezioni Unite di questa Corte, al cospetto di contrastanti

orientamenti di legittimità;

34

- la questione del riparto degli oneri probatori si pone - nel caso - sotto un duplice profilo,

giacché la prova deve riguardare non soltanto la correlazione causale fra l'inadempimento dei

sanitari (che si assume consistito nell'omissione di approfondimenti diagnostici) e il mancato ricorso

all'aborto, ma anche la sussistenza delle condizioni comunque necessarie per procedere

all'interruzione della gravidanza dopo il novantesimo giorno di gestazione (in relazione all'art. 6,

lett. b) della l. n. 194/78, che subordina la possibilità di aborto - oltre tale termine - all'accertamento di

"processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che

determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna");

- al riguardo, si registrano due orientamenti contrastanti (articolati - al loro interno - in posizioni

ulteriormente differenziate) che, pur muovendo entrambi dalla premessa - pacifica e tralaticia - secondo

cui, trattandosi di fatti costitutivi, spetta alla donna l'onere di dimostrare che l'accertamento

dell'esistenza di anomalie o malformazioni l'avrebbe indotta ad interrompere la gravidanza e, altresì, che

la conoscenza di tali elementi avrebbe generato nella gestante uno stato patologico tale da mettere in

pericolo la sua salute fisica o psichica (con ciò rendendosi praticabile il ricorso all'interruzione della

gravidanza oltre il novantesimo giorno), divergono allorquando si tratta di individuare il tipo e, più

specificamente, il contenuto della prova richiesta alla madre;

- un primo e più risalente orientamento (quello richiamato dai ricorrenti) ritiene "corrispondente a

regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni

del feto" (Cass. n. 6735/2002, ribadita da Cass. n. 14488/2004 e - più recentemente - da Cass. n.

13/2010 e da Cass. n. 15386/2011): si è affermato, in particolare, che "è sufficiente che la donna

alleghi che si sarebbe avvalsa di quella facoltà se fosse stata informata della grave

malformazione del feto, essendo in ciò implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi

ricorso", compresa quella del "pericolo per la salute fisica o psichica derivante dal trauma connesso

all'acquisizione della notizia", precisandosi -peraltro- che "l'esigenza di prova al riguardo sorge solo

quando il fatto sia contestato dalla controparte, nel qual caso si deve stabilire -in base al criterio

(integrabile da dati di comune esperienza evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali) del "più

probabile che non" e con valutazione correlata all'epoca della gravidanza - se, a seguito

dell'informazione che il medico omise di dare per fatto ad esso imputabile, sarebbe insorto uno stato

depressivo suscettibile di essere qualificato come grave pericolo per la salute fisica o psichica della

donna" (Cass. n. 22837/2010);

- tale orientamento è stato recentemente sottoposto a critica da alcune pronunce di questa stessa

Sezione, a partire da Cass. n. 16754/2012, che ha evidenziato come -in mancanza di una preventiva

"espressa ed inequivoca dichiarazione della volontà di interrompere la gravidanza in caso di

malattia genetica"- la mera richiesta di un accertamento diagnostico costituisca un "indizio

isolato... del fatto da provare (l'interruzione di gravidanza)", dal quale "il giudice di merito è

35

chiamato a desumere, caso per caso, senza il ricorso a generalizzazioni di tipo statistico", se

"tale presunzione semplice possa essere sufficiente a provare quel fatto", non potendo pertanto

riconoscersi una "automatica significazione richiesta di diagnosi = interruzione di gravidanza in caso di

diagnosi di malformazioni"; con la conseguenza che, "in mancanza di qualsivoglia elemento che

colori processualmente la presunzione de qua, il principio di vicinanza alla prova e quello della

estrema difficoltà (ai confini con la materiale impossibilità) di fornire la prova negativa di un fatto

induce a ritenere che sia onere di parte attrice integrare il contenuto di quella presunzione con

elementi ulteriori (di qualsiasi genere) da sottoporre all'esame del giudice per una valutazione

finale circa la corrispondenza della presunzione stessa all'asserto illustrato in citazione";

- nella stessa linea, è stato affermato che "è onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se

fosse stata informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza" e

che "tale prova non può essere desunta dal solo fatto che la gestante abbia chiesto di

sottoporsi ad esami volti ad accertare l'esistenza di eventuali anomalie del feto, poiché tale

richiesta è solo un indizio privo dei caratteri di gravità ed univocità", ribadendosi che "il rischio

della mancanza o della insufficienza del quadro probatorio acquisito andrà a suo carico", fermo

restando – tuttavia - che l'accertamento "va condotto con giudizio ex ante, di talché ciò che si è

effettivamente verificato successivamente può avere solo valore indiziario o corroborativo, ma non

decisivo" (Cass. n. 7269/2013);

- sulla scia di tali pronunce si sono poste - da ultimo - Cass. n. 27528/2013, che ha anche sottolineato la

limitata rilevanza della non contestazione delle allegazioni attoree da parte del convenuto

(discostandosi, sul punto, da Cass. n. 16754/2012 che proprio dall'esistenza di tale contestazione aveva

fatto dipendere l'insorgenza del "problema della prova") e Cass. n. 12264/2014;

- ancora più marcato è il contrasto sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il

risarcimento del danno a carico del medico (e/o della struttura sanitaria) che - col suo

inadempimento - abbia privato la gestante della possibilità di accedere all'interruzione della

gravidanza, rispetto alla quale si registrano almeno due recenti decisioni di segno opposto al

consolidato orientamento negativo;

- com'è noto, dopo aver rilevato che "l'ordinamento positivo tutela il concepito e l'evoluzione della

gravidanza esclusivamente verso la nascita, essendo pertanto (al più) configurabile un diritto a nascere e

a nascere sano, suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione... nel senso che

nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie", l'orientamento prevalente esclude che sia

configurabile anche un "diritto a non nascere" o a "non nascere se non sano" (che sarebbe un

"diritto adespota" in quanto "non avrebbe alcun titolare appunto fino al momento della nascita, in

costanza della quale proprio esso risulterebbe peraltro non esistere più"), con la conseguenza che,

"verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da

36

inadempimento contrattuale l'essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere

stata la madre, per difetto di informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto

alla salute facendo ricorso all'aborto" (Cass. n. 14488/2004; conformi Cass. n. 16123/2006 e Cass.

10741/2009);

- di contro, è stato recentemente affermato – dapprima - che, "una volta esclusa l'esigenza di ravvisare

la soggettività giuridica del concepito per affermare la titolarità di un diritto in capo al nato", dovrebbe

ammettersi - in caso di omessa diagnosi di malformazioni congenite - che "il diritto al

risarcimento possa essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio il quale, per la violazione

del diritto all'autodeterminazione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del

proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato)" (Cass. n. 9700/2011) e –

successivamente - che il nascituro, "ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della

nascita, una volta venuto ad esistenza, ha diritto ad essere risarcito da parte del sanitario con riguardo al

danno consistente nell'essere nato non sano, e rappresentato dell'interesse ad alleviare la propria

condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità, a nulla rilevando né che la

sua patologia fosse congenita, né che la madre, ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe

verosimilmente scelto di abortire" (Cass. n. 16754/2012).

P.Q.M.

la Corte rimette gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

6. LA (IR)RISARCIBILITÀ DEL DANNO TANATOLOGICO: Cassazione Civile, SS.UU.,

sentenza 22/07/2015 n. 15350

In materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio

conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute,

fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove

il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve

escludersi la risarcibilità "iure hereditatis" di tale pregiudizio, in ragione - nel primo caso -

dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa

essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero - nel secondo - della mancanza di utilità di

uno spazio di vita brevissimo.

37

(omissis)

3.1. L'ordinanza della terza sezione, con la quale è stato segnalato il contrasto consapevole tra la

sentenza n. 1361 del 2014 e il precedente costante e risalente orientamento, individua la questione

rimessa all'esame di queste sezioni unite nella risarcibilità o meno iure hereditatis del danno

da perdita della vita immediatamente conseguente alle lesioni derivanti da un fatto illecito.

Esulano quindi dal tema che formerà oggetto della presente decisione le questioni relative al

risarcimento dei danni derivanti dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo alle lesioni.

Con riferimento a tale situazione, infatti, non c'è alcun contrasto nella giurisprudenza di questa Corte

(che prende le mosse dalla sentenza delle sezioni unite del 22 dicembre 1925, alla quale di seguito si farà

più ampio riferimento) sul diritto iure hereditatis al risarcimento dei danni che si verificano nel periodo

che va dal momento in cui sono provocate le lesioni a quello della morte conseguente alle lesioni stesse,

diritto che si acquisisce al patrimonio del danneggiato e quindi è suscettibile di trasmissione agli eredi.

L'unica distinzione che si registra negli orientamenti giurisprudenziali riguarda la qualificazione, ai fini

della liquidazione, del danno da risarcire che, da un orientamento, con "mera sintesi descrittiva" (Cass.

n. 26972 del 2008), è indicato come "danno biologico terminale" (Cass. n. 11169 del 1994, n. 12299 del

1995, n. 4991 del 1996, n. 1704 del 1997, n. 24 del 2002, n. 3728 del 2002, n. 7632 del 2003, n 9620 del

2003, n. 11003 del 2003, n. 18305 del 2003, n. 4754 del 2004, n. 3549 del 2004, n. 1877 del 2006, n.

9959 del 2006, n. 18163 del 2007, n. 21976 del 2007, n. 1072 del 2011) - liquidabile come invalidità

assoluta temporanea, sia utilizzando il criterio equitativo puro che le apposite tabelle (in applicazione

dei principi di cui alla sentenza n. 12408 del 2011) ma con il massimo di personalizzazione in

considerazione della entità e intensità del danno - e, da altro orientamento, è classificato come danno

"catastrofale" (con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della morte

seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni). Il danno "catastrofale", inoltre, per alcune

decisioni, ha natura di danno morale soggettivo (Cass. n. 28423 del 2008, n. 3357 del 2010, n. 8630 del

2010, n. 13672 del 2010, n. 6754 del 2011, n. 19133 del 2011, n. 7126 del 2013, n. 13537 del 2014) e per

altre, di danno biologico psichico (Cass. n. 4783 del 2001, n. 3260 del 2007, n. 26972 del 2008, n. 1072

del 2011). Ma da tali incertezze non sembrano derivare differenze rilevanti sul piano concreto della

liquidazione dei danni perchè, come già osservato, anche in caso di utilizzazione delle tabelle di

liquidazione del danno biologico psichico dovrà procedersi alla massima personalizzazione per adeguare

il risarcimento alle peculiarità del caso concreto, con risultati sostanzialmente non lontani da quelli

raggiungibili con l'utilizzazione del criterio equitativo puro utilizzato per la liquidazione del danno

morale.

3.2. Nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni,

invece, si ritiene che non possa essere invocato un diritto al risarcimento dei danno iure

hereditatis. Tale orientamento risalente (Cass. sez. un. 22 dicembre 1925, n. 3475: "se è alla lesione che

38

si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in

quanto e fin quando il medesimo sia in vita. Questo spentosi, cessa anche la capacità di acquistare, che

presuppone appunto e necessariamente l'esistenza di un subbietto di diritto") ha trovato autorevole

conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 372 del 1994 e, come rilevato, anche nella più

recente sentenza delle sezioni unite n. 26972 del 2008 (che ne ha tratto la conseguenza dell'impossibilità

di una rimeditazione della soluzione condivisa) e si è mantenuto costante nella giurisprudenza di questa

Corte (tra le più recenti, successivamente alla citata sentenza della Corte costituzionale: Cass. n. 11169

del 1994, n. 10628 del 1995, n. 12299 del 1995, n. 4991 del 1996, n. 3592 del 1997, n. 1704 del 1997, n.

9470 del 1997, n. 11439 del 1997, n. 5136 del 1998, n. 6408 del 1998, n. 12083 del 1998, n. 491 del

1999, n. 1633 del 2000, n. 2134 del 2000, n. 4729 del 2001, 4783 del 2001, n. 887 del 2002, n. 7632 del

2003, n. 9620 del 2003, n. 517 del 2006, n. 3760 del 2007, n. 12253 del 2007, n. 26972 del 2008, n.

15706 del 2010, n. 6754 del 2011, n. 2654 del 2012, n. 12236 del 2012, n. 17320 del 2012).

A tale risalente e costante orientamento le sezioni unite intendono dare continuità non essendo state

dedotte ragioni convincenti che ne giustifichino il superamento. Certamente tali ragioni non sono state

neppure articolate con la sentenza n. 15760 del 2006 (pronunciata su ricorso avente ad oggetto la

domanda di risarcimento dei danni da morte di congiunto avanzata iure proprio) che, con affermazione

avente dichiarata natura di obiter "sistematico", si è limitata ad auspicare che, in conformità con

orientamenti dottrinari italiani ed Europei, sia riconosciuto quale momento costitutivo del credito

risarcitorio quello della lesione, indipendentemente dall'intervallo di tempo con l'evento morte

causalmente collegato alla lesione stessa. Ma anche l'ampia motivazione della sentenza n. 1361 del 2014,

che ha effettuato un consapevole revirement, dando luogo al contrasto in relazione al quale è stato

chiesto l'intervento di queste sezioni unite, non contiene argomentazioni decisive per superare

l'orientamento tradizionale, che, d'altra parte, risulta essere conforme agli orientamenti della

giurisprudenza Europea con la sola eccezione di quella portoghese.

La premessa del predetto orientamento, peraltro non sempre esplicitata, sta nell'ormai compiuto

superamento della prospettiva originaria secondo la quale il cuore del sistema della responsabilità civile

era legato a un profilo di natura soggettiva e psicologica, che ha riguardo all'agire dell'autore dell'illecito

e vede nel risarcimento una forma di sanzione analoga a quella penale, con funzione deterrente (sistema

sintetizzato dal principio affermato dalla dottrina tedesca "nessuna responsabilità senza colpa" e

corrispondente alle codificazioni ottocentesche per giungere alle stesse impostazioni teoriche poste a

base del codice del '42).

L'attuale impostazione, sia dottrinaria che giurisprudenziale, (che nelle sue manifestazioni più avanzate

concepisce l'area della responsabilità civile come sistema di responsabilità sempre più spesso oggettiva,

diretto a realizzare una tecnica di allocazione dei danni secondo i principi della teoria dell'analisi

economica del diritto) evidenzia come risulti primaria l'esigenza (oltre che consolatoria) di riparazione

39

(e redistribuzione tra i consociati, in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.)

dei pregiudizi delle vittime di atti illeciti, con la conseguenza che il momento centrale del sistema è

rappresentato dal danno, inteso come "perdita cagionata da una lesione di una situazione giuridica

soggettiva " (Corte cost. n. 372 del 1994). Nel caso di morte cagionata da atto illecito, il danno che

ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico "vita" che costituisce bene

autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per

equivalente (Cass. n. 1633 del 2000; n. 7632 del 2003; n. 12253 del 2007). La morte, quindi, non

rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene "salute", pregiudicato dalla lesione

dalla quale sia derivata la morte, diverse essendo, ovviamente, le perdite di natura patrimoniale

o non patrimoniale che dalla morte possono derivare ai congiunti della vittima, in quanto tali e

non in quanto eredi (Corte cost. n. 372 del 1994; Cass. n. 4991 del 1996; n. 1704 del 1997; n. 3592 del

1997; n. 5136 del 1998; n. 6404 del 1998; n. 12083 del 1998, n. 491 del 1999, n. 2134 del 2000; n. 517

del 2006, n. 6946 del 2007, n. 12253 del 2007). E poichè una perdita, per rappresentare un danno

risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il

credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo

dalle lesioni personali, l'irrisarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso, come

ritenuto da Cass. n. 6938 del 1998, poichè, come esattamente rilevato dalla sentenza n. 4991 del 1996,

ciò di cui si discute è il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dalla assenza di un soggetto

al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio

possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita

brevissimo (Cass. n. 4991 del 1996).

E' questo l'argomento che la dottrina definisce "epicureo", in quanto riecheggia le affermazioni di

Epicuro contenute nella Lettera sulla felicità a Meneceo ("Quindi il più temibile dei mali, la morte, non

è nulla per noi, perchè quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi.

La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perchè per i vivi essa non c'è ancora, mentre per

quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci") e che compare nella già indicata sentenza delle

sezioni unite n. 3475 del 1925 ed è condiviso dalla sentenza della Corte costituzionale n. 372 del 1994, -

che ha escluso la contrarietà a Costituzione dell'interpretazione degli articoli 2043 e 2059 c.c. secondo

cui non sono risarcibili iure hereditatis i danni derivanti dalla violazione del diritto alla vita, potendo

giustificarsi, sulla base del sistema della responsabilità civile, solo le perdite derivanti dalla violazione del

diritto alla salute che si verificano a causa delle lesioni, nel periodo intercorrente tra le stesse e la morte -

e dalla costante giurisprudenza successiva di questa Corte.

3.3. La negazione di un credito risarcitorio della vittima, trasmissibile agli eredi, per la perdita della vita,

seguita immediatamente o a brevissima distanza di tempo dalle lesioni subite, è stata ritenuta

contrastante con la coscienza sociale alla quale rimorderebbe che la lesione del diritto primario alla vita

40

fosse priva di conseguenze sul piano civilistico (Cass. n. 1361 del 2014), anche perchè, secondo

un'autorevole dottrina, se la vita è oggetto di un diritto che appartiene al suo titolare, nel momento in

cui viene distrutta, viene in considerazione solo come bene meritevole di tutela nell'interesse dell'intera

collettività.

Ora, in disparte che la corrispondenza a un'indistinta e difficilmente individuabile coscienza sociale, se

può avere rilievo sul piano assiologico e delle modifiche normative, più o meno auspicabili, secondo le

diverse opzioni culturali, non è criterio che possa legittimamente guidare l'attività dell'interprete del

diritto positivo, deve rilevarsi che, secondo l'orientamento che queste sezioni unite intendono

confermare, la morte provoca una perdita, di natura patrimoniale e non patrimoniale, ai congiunti che

di tal perdita sono risarciti, mentre non si comprende la ragione per la quale la coscienza sociale sarebbe

soddisfatta solo se tale risarcimento, oltre che ai congiunti (per tali intendendo tutti i soggetti che,

secondo gli orientamenti giurisprudenziali attuali, abbiano relazioni di tipo familiare giuridicamente

rilevanti, con la vittima) per le perdite proprie, fosse corrisposto anche agli eredi (e in ultima analisi allo

Stato). Come è stato osservato (Cass. n. 6754 del 2011), infatti, pretendere che la tutela risarcitoria "sia

data anche al defunto corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più

denaro ai congiunti".

Coglie il vero, peraltro, il rilievo secondo cui oltre che oggetto di un diritto del titolare, insuscettibile di

tutela per il venir meno del soggetto nel momento stesso in cui sorgerebbe il credito risarcitorio, la vita

è bene meritevole di tutela nell'interesse della intera collettività, ma tale rilievo giustifica e anzi impone,

come è ovvio, che sia prevista la sanzione penale, la cui funzione peculiare è appunto quella di

soddisfare esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività nel suo complesso, senza

escludere il diritto ex art. 185 c.p., comma 2, al risarcimento dei danni in favore dei soggetti

direttamente lesi dal reato, ma non impone necessariamente anche il riconoscimento della tutela

risarcitoria di un interesse che forse sarebbe più appropriato definire generale o pubblico, piuttosto che

collettivo, per l'evidente difficoltà, tutt'ora esistente per quanto riguarda la tutela giurisdizionale

amministrativa, di individuare e circoscrivere l'ambito della "collettività" legittimate a invocare la tutela.

3.4. Ulteriore rilievo, frequente in dottrina, è che sarebbe contraddittorio concedere onerosi risarcimenti

dei danni derivanti da lesioni gravissime e negarli del tutto nel caso di illecita privazione della vita, con

ciò contraddicendo sia il principio della necessaria integralità del risarcimento che la funzione deterrente

che dovrebbe essere riconosciuta al sistema della responsabilità civile e che dovrebbe portare a

introdurre anche nel nostro ordinamento la categoria dei danni punitivi.

L'argomento ("è più conveniente uccidere che ferire"), di indubbia efficacia retorica, è in realtà solo

suggestivo, perchè non corrisponde al vero che, ferma la rilevantissima diversa entità delle sanzioni

penali, dall'applicazione della disciplina vigente le conseguenze economiche dell'illecita privazione della

vita siano in concreto meno onerose per l'autore dell'illecito di quelle che derivano dalle lesioni

41

personali, essendo indimostrato che la sola esclusione del credito risarcitorio trasmissibile agli eredi,

comporti necessariamente una liquidazione dei danni spettanti ai congiunti di entità inferiore.

Peraltro è noto che secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 132 del 1985, n. 369 del

1996, n. 148 del 1999) il principio dell'integrale risarcibilità di tutti i danni non ha copertura

costituzionale ed è quindi compatibile con l'esclusione del credito risarcitorio conseguente alla stessa

struttura della responsabilità civile dalla quale deriva che il danno risarcibile non può che consistere che

in una perdita che richiede l'esistenza di un soggetto che tale perdita subisce.

Del pari non appare imposta da alcuna norma o principio costituzionale un obbligo del

legislatore di prevedere che la tutela penale sia necessariamente accompagnata da forme di

risarcimento che prevedano la riparazione per equivalente di ogni perdita derivante da reato

anche quando manchi un soggetto al quale la perdita sia riferibile.

Da quanto già rilevato, inoltre, la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità

civile da quella penale ha comportato l'obliterazione della funzione sanzionatoria e di

deterrenza (v., tra le tante, Cass. n. 1704 del 1997, n. 3592 del 1997, n. 491 del 1999, n. 12253 del 2007,

n. 6754/2011) e l'affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria),

tanto che si è ritenuto non delibabile, per contrarietà all'ordine pubblico interno, la sentenza

statunitense di condanna al risarcimento dei danni "punitivi" (Cass. n. 1183 del 2007, n. 1781 del

2012), i quali si caratterizzano per un'ingiustificata sproporzione tra l'importo liquidato ed il

danno effettivamente subito.

3.5. Pur non contestando il principio pacificamente seguito dalla giurisprudenza di questa Corte (in

adesione a un'autorevole dottrina e in conformità con quanto affermato da Corte cost. n. 372 del 1994)

secondo il quale i danni risarcibili sono solo quelli che consistono nelle perdite che sono conseguenza

della lesione della situazione giuridica soggettiva e non quelli consistenti nell'evento lesivo, in sè

considerato, si è affermato con la sentenza n. 1361 del 2014 che il credito risarcitorio del danno da

perdita della vita si acquisirebbe istantaneamente al momento dell'evento lesivo che, salvo rare

eccezioni, precede sempre cronologicamente la morte cerebrale, ponendosi come eccezione a tale

principio della risarcibilità dei soli "danni conseguenza".

Ma, a parte che l'ipotizzata eccezione alla regola sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa

attendibilità del principio e, comunque, sarebbe difficilmente conciliabile con lo stesso sistema della

responsabilità civile, fondato sulla necessità ai fini risarcitori del verificarsi di una perdita rapportabile a

un soggetto, l'anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione

verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il "bene salute" e il "bene vita" sulla quale concordano sia

la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità.

Peraltro, se tale anticipazione fosse imposta dalla difficoltà di quantificazione del lasso di tempo

intercorrente tra morte (da intendersi sempre processo mortale e non come evento istantaneo) e

42

lesione, necessario a far sorgere nel patrimonio della vittima il credito risarcitorio, sarebbe facile

osservare, da un lato, che da punto di vista giuridico è sempre necessario individuare un momento

convenzionale di conclusione del processo mortale, come descritto dalla scienza medica, al quale legare

la nascita del credito, e dall'altro, che l'individuazione dell'intervallo di tempo tra morte e lesione,

rilevante ai fini del riconoscimento del credito risarcitorio, è operazione ermeneutica certamente

delicata e che presenta margini di incertezza, ma del tutto conforme a quella che il giudice è

costantemente impegnato ad operare quando è costretto a fare applicazione di concetti generali e

astratti.

(omissis)