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1 A cura del cons. Francesco Caringella Dispensa di diritto amministrativo n. 11

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A cura del cons. Francesco Caringella

Dispensa di diritto amministrativo n. 11

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Il nuovo processo amministrativo.

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Indice

1. IL NUOVO RITO SUGLI APPALTI DOPO IL CODICE DEGLI

APPALTI D.LGS. N. 50 DEL 2016: Severini, Il nuovo contenzioso sui contratti

pubblici (l’art. 204 del Codice degli appalti pubblici e delle concessioni, ovvero il nuovo art. 120

del Codice del processo amministrativo) in giustizia amministrativa.

2. IL RAPPORTO INFINITO TRA RUCORSO PRINCIPALE E

INCIDENTALE TORNA IN CORTE DI GIUSTIZIA: Corte di Giustizia, 5

aprile 2016 in C 589/2013

3. OTTEMPERANZA E ART. 42 BIS TESTO UNICO ESPROPRIAZIONI:

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 2 del 2016

4. POTERE AMMINISTRATIVO SUCCESSIVO AL GIUDICATO: Consiglio

di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 2 del 2013

5. ASTREINTES E CONDANNE PECUNIARIE: Consiglio di Stato, Adunanza

Plenaria, sentenza n. 15 del 2014

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Selezione giurisprudenziale

1. IL NUOVO RITO SUGLI APPALTI DOPO IL CODICE DEGLI

APPALTI D.LGS. N. 50 DEL 2016: Severini, Il nuovo contenzioso sui contratti

pubblici (l’art. 204 del Codice degli appalti pubblici e delle concessioni, ovvero il nuovo art. 120

del Codice del processo amministrativo) in giustizia amministrativa.

Il nuovo contenzioso sui contratti pubblici

(l’art. 204 del Codice degli appalti pubblici e delle concessioni,

ovvero il nuovo art. 120 del Codice del processo amministrativo)

1. - Considerazioni generali

Il pieno ingresso, nel diritto italiano dei contratti pubblici, del diritto comunitario delle direttive del 31 marzo

2004 (2004/17/CE per i lavori; 2004/18/CE per i servizi e le forniture) avvenuto con il d.lgs. 12 aprile 2006, n.

163 (Codice dei contratti pubblici) portò un incisivo spostamento d’accento sulla ragione della gara per la scelta

dell’impresa contraente.

L’obiettivo dichiarato delle direttive di assicurare l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza, fece sì che il

richiamo dei principi comunitari di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, enunciati

dall’art. 2 del Codice come principi aggiuntivi, presto sono divenuti principi cardine del settore. La ricerca

efficientistica dell’offerta più utile per l’amministrazione appaltante, con la garanzia diretta delle prestazioni, nella

pratica delle cose ha progressivamente ceduto il passo ai temi intesi ad assicurare la concorrenza “per il mercato”:

in particolare per le sub-procedure di ammissione e vaglio delle qualificazioni. Il nuovo assunto di base era che la

tutela della concorrenza reca in sé la garanzia di efficienza del mercato, sicché la selezione deve anzitutto

incentrarsi su uno scrupoloso vaglio preliminare delle figure dei concorrenti: da lì sarebbe derivata

l’ottimizzazione delle convenienze. La concorrenza, infatti, è la condizione ideale del mercato e lo mette in grado

di generare l’allocazione migliore delle risorse.

Si andò dunque a concepire l’accesso alla gara, libero per principio comunitario, come un momento essenziale di

vaglio del titolo per l’ingresso in un micro-mercato ad hoc, straordinario e temporaneo, finalizzato a un singolo

contratto pubblico e composto da quanti, titolati, vanno a contendere in parità delle armi. Così, a guardare le

cose nella loro durata, il bene pubblico perseguito è arretrato dal risultato della stretta utilità amministrativa, al

mezzo della competizione tra gli aspiranti offerenti. Il mercato dell’offerta, messo in concorrenza mediante il

severo vaglio di base degli ingressi, avrebbe generato l’effetto di efficienza per il domandante, cioè per la stazione

appaltante: il mezzo avrebbe garantito il risultato. Sicché l’intervento pubblico è stato molto speso per accentuare

il momento topico della verifica delle condizioni di par condicio nella competizione.

Una tale impostazione comportava il massimo vaglio del titolo degli aspiranti a partecipare alla gara: sia, in

termini sostanziali, per i requisiti di capacità economica e finanziaria e di capacità tecnica; sia, prima ancora, in

termini di adempimenti formali per controllare che non sussistessero ragioni di preclusione: vuoi ex defectu, vuoi

ex delicto.

Questo ha però generato - effetto ulteriore indesiderato ma reale - un’ipertrofia delle verifiche preliminari alla

gara, della fase formale di ammissione a quel micromercato . Si è così assistito, in Italia, a una sorta di

continuativa codificazione nella codificazione, intesa a una quantità di adempimenti formali notevole quanto

mutevole per novellazioni, malcerta quanto minuziosa (le mutazioni progressive dell’art. 38, sui requisiti di ordine

generale, sono paradigmatiche). Elevato e fatale il conseguente rischio di falle nel documentarsi e mostrarsi atti a

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concorrere. L’effetto complessivo è stato quello, paradossale, di un abbassamento della sicurezza giuridica -

pregiudizio in sé per il mercato – e dell’insorgere dei presupposti per esacerbate tensioni sulle condizioni di

partenza: altro danno in sé per il mercato.

Si è assistito infatti a un proliferare di controversie, formalistiche e postume, sulla presenza in limine dei requisiti

alla gara e sulle mancate esclusioni. Statisticamente, nel contenzioso amministrativo sui contratti pubblici, questo

ha costituito la preponderanza della “domanda di giustizia”: ed è stato causa della sua dilatazione fino a

un’incidenza mai prima figurata.

L’effetto di sistema è stato un sovraffollamento della giustizia amministrativa di ricorsi e ricorsi incidentali

escludenti, dove l’oggetto reale del contendere era non la bontà dell’offerta ormai prescelta ma il titolo originario

per la partecipazione alla gara.

Con tanti giudizi retrospettivi, quello che si era voluto considerare un micro-mercato ad hoc ha finito per

nuocere al mercato in generale, al sistema economico nazionale. Per il quale era, però, strumentale: i contratti

pubblici di lavori sono stipulati o per acquisire servizi o per realizzare infrastrutture, cioè mezzi e opere serventi

al sistema economico. Sicché si è arrivati all’effetto paradossale che, per garantire un micro-mercato, si è andata a

rallentare l’efficienza del macro-mercato.

Il nocumento è stato esasperato dalla contestualizzazione di ogni tipo di controversia in materia, formale o

sostanziale: sui requisiti di origine come sulla valutazione dell’anomalia dell’offerta. Una concentrazione che ha

soverchiato i giudici portandone l’attenzione ai primi passi del procedimento e che ha finito per costare più che

dare al mondo delle imprese, in ultimo alla collettività che ha subito gli effetti economicamente svantaggiosi del

rallentamento dei contratti pubblici.

Infatti, anziché chiamare il giudice a trattare delle buone o cattive ragioni sostanziali che hanno portato all’esito

della gara, spesso con le impugnazioni il soccombente ha praticato – malgrado la realtà ormai compiuta dell’esito

della contesa – una risalita a monte, all’altrui preteso cattivo titolo per partecipare. Il formalismo su questi titoli e

la casistica minuziosa hanno reso agevole – e frequente - aggredire il risultato sfavorevole di aggiudicazione: quasi

rituale è divenuto il ricorso incidentale escludente per negare che, quando la gara muoveva i primi passi, esistesse

un’altrui giusta ragione di ingresso in quel micro-mercato. Claudicazioni che seguivano l’intero percorso della

gara ma che nelle more restavano inattaccabili per giuridica mancanza, ancora, di un lesività attuale del bene della

vita dell’aggiudicazione. Così il contenzioso amministrativo sui contratti pubblici è divenuto in gran parte

retrospettivo e incentrato sulla fase prodromica dell’effettiva presenza dei titoli di partecipazione. Una grande,

recessiva caccia all’errore, incentrata sui vizi formali di violazione di legge piuttosto che su sintomi di distorsioni

sostanziali nell’apprezzamento del contenuto delle offerte. Non sono valsi in contrario i tentativi di mitigazione

giurisprudenziale, come quelli improntati alla non incidenza, per inidoneità del mendacio, del c.d. “falso

innocuo” di penalistica memoria .

Questa ipertrofia di un contenzioso sostanzialmente postumo ha generato un collo di bottiglia giurisdizionale per

sovraffollamento rispetto alle risorse giudiziarie disponibili e in danno del restante ordinario contenzioso.

Un tale squilibrio indotto, sul solco di un diritto che si pretende illimitato come quello alla risposta di giustizia,

non considera che la giustizia è nella realtà delle cose una risorsa limitata. Il paradosso è che ha causato un

rallentamento complessivo della risposta giudiziaria, dove si è evidenziata la natura ordinatoria di termini

concepiti in funzione acceleratoria (inclusi quelli recentemente figurati dall’art. 40 d.-l. 24 giugno 2014, n. 90

convertito dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, a modifica dell’art. 120, commi 6, 8 e 9 del Codice del processo

amministrativo). Il giudizio amministrativo è divenuto in buona parte ultroneo rispetto dall’esigenza pubblica

fondamentale della moralità della gara e dell’efficienza dei risultati di scelta del contraente; è prevalso l’effetto

complessivo un rallentamento, per … incidente giudiziario, della realizzazione delle opere o delle forniture di

servizi: a fronte del quale è divenuta insufficiente la stessa capacità di risposta che pure, conforme agli standard

europei, rende giudicati amministrativi in tema in meno di due anni. Evidente il danno al mercato generale, al

sistema economico nazionale, al ‘sistema Paese’, alla restante domanda di giustizia amministrativa. Da molti

questo è stato considerato uno svantaggio competitivo per le imprese che operano o investono in Italia: dunque

un abbassamento generalizzato delle effettive condizioni di sicurezza giuridica, delle regole su cui far affidamento

per modulare le capacità di competere nella contesa economica. Naturale l’esigenza di strumenti deflattivi.

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2. La riforma dell’art. 120 del Codice del processo amministrativo e il processo anticipato e in

prevenzione.

L’art. 204 (Ricorsi giurisdizionali) del Codice degli appalti pubblici e delle concessioni del 2016 che sostituisce il

Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture del 2006, agendo sul corpo del Codice del

processo amministrativo (approvato con d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104) riforma alcune parti di quell’art. 120 (sulle

disposizioni specifiche per le controversie relative ai provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di

pubblici lavori, servizi e forniture) per rimediare o per contenere alcuni degli inconvenienti di cui si è detto.

Il legislatore delegato intende così attuare il principio e criterio direttivo dell’art. 1, comma 1, lett. bbb) , della

legge di delega 28 gennaio 2016, n. 11. Per farlo, introduce all’art. 120, con il comma 2-bis – questa è la prima

novità - un’azione anticipata e in prevenzione per rimediare a distorsioni di sistema. Si stabilisce infatti anzitutto

che «il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all’esito

della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine

di trenta giorni decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi

dell’art. 9, comma 1, del codice degli appalti pubblici e delle concessioni».

Si genera così un’accelerazione dell’eventuale vaglio giurisdizionale sul perimetro della platea dei concorrenti che

assorbe anche qualsiasi ulteriore, specifica derivazione di illegittimità.

È un’innovazione notevole che, vista in termini generali, conferisce alla tutela complessiva in materia di gare una

struttura bifasica . In vista del dominante interesse generale alla speditezza delle procedure, si ricerca una

sicurezza giuridica immediata sulle figure dei protagonisti della gara. Con il modello di questa immediata e

incondizionata giustiziabilità di ammissioni o esclusioni, la riforma vuol perseguire una rapida quanto ultima

certezza sulle titolazioni dei concorrenti, allo scopo di renderle poi inoppugnabili per tutta la gara e oltre. La

formazione della platea dei concorrenti – cioè l’ammissione o l’esclusione dalla gara per carenza dei requisiti

soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali – viene insomma elevata a esigenza speciale di certezza

preventiva. L’obiettivo tecnico-processuale è il suo consolidamento sollecito e senza residue riserve. Lo scopo di

sistema è di deflazionare il contenzioso amministrativo in questa materia.

La leva con cui la riforma agisce è dunque l’anticipazione differenziata dell’accesso al giudice. Viene creato un

nuovo e speciale sottosistema processuale, a seconda delle angolazioni qualificabile come anticipato, preliminare,

immediato, autonomo, decadenziale, finalizzato comunque alla rapida costituzione di certezze giuridiche poi

incontestabili sui protagonisti della gara: cioè “a definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento

antecedente all'esame delle offerte e alla conseguente aggiudicazione” . Rispetto al percorso del procedimento

amministrativo, l’avvio dell’eventuale investitura del giudice sui titoli – ecco il punto concettualmente centrale –

viene, anche a prezzo della possibile moltiplicazione delle fasi eventuali di contenzioso, ubicato a prima

dell’autentico svolgimento della competizione sostanziale: con un spazio, per ricorrere, di appena trenta giorni

dalla pubblicazione sul profilo del committente.

I lavori preparatori mostrano che questa accelerazione si incontra con la questione dell’attualità della lesione di

chi ha l’onere di subito impugnare, da cui sorge l’interesse a ricorrere. Senza lesione effettiva e attuale, del resto,

una domanda giudiziale è di suo inammissibile.

Vi è qui un’abilitazione a ricorrere, e in termini dichiaratamente fatali, quando ancora non c’è stata

l’aggiudicazione, cioè quando ancora non è avvenuta l’attribuzione del bene della vita per cui si compete

mediante la gara.

Nelle cose, all’inizio della gara, quando è ancora futuro e incerto l’esito della competizione – l’evento che in

ipotesi genera il pregiudizio da riparare –, una vera lesione rispetto a quel bene è ancora a venire e dunque è

eventuale. Sicché, a conseguente interesse ad agire ancora non nato, non vi sarebbe ragione sufficiente per

investire il giudice. Ancora infatti non è detto che senza il processo e l’esercizio della giurisdizione il ricorrente

soffrirebbe inevitabilmente il pregiudizio finale della soccombenza nella selezione.

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La scelta del legislatore delegato del 2016 è netta: si introduce l’immediato termine decadenziale di trenta giorni

per lamentare esclusioni o ammissioni. Tanto è sufficiente, e necessario, per devolvere i dubbi sui titoli di

ammissione in giudizio.

In termini pratici si va così a ripetere lo schema processuale di «tutela anticipata» dell’art. 129 Cod. proc. amm.

sul giudizio contro le esclusioni dal procedimento preparatorio per le elezioni locali e regionali.

A corollario dell’innovazione qui vi sono anzitutto lo stretto termine per l’impugnazione al giudice

amministrativo, fissato in trenta giorni (quanti ordinariamente ne prevede l’art. 120, comma 5, per i giudizi su

questi temi) e la decorrenza di questo termine individuata nel giorno della pubblicazione sul profilo (internet) del

committente, dunque della stazione appaltante, dei dati costitutivi della conoscenza.

Soprattutto, strettamente connesso a questa anticipazione è la previsione della seconda parte del comma 2-bis:

«L’omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure

di affidamento, anche con ricorso incidentale. È altresì inammissibile l’impugnazione della proposta di

aggiudicazione, ove disposta, e degli altri atti endoprocedimentali privi di immediata lesività». Dal che la

preclusione della facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti della procedura, e anche con ricorso

incidentale.

3. segue: la presunzione di interesse a ricorrere.

In un sistema di giurisdizione soggettiva come quello del processo amministrativo è essenziale, perché il giudice

possa essere investito di una domanda giudiziale, che sussista la prima condizione dell’azione: per agire in

giudizio è necessario avervi interesse, secondo il principio generale dell’art. 100 Cod. proc. civ., valevole – come

sempre si dice - anche per il processo amministrativo; ormai anche in virtù della regola generale dell’art. 39,

comma 1, Cod. proc. amm. (che rinvia ai principi generali espressi dal Codice di procedura civile) ; e come è

presupposto dall’art. 35, comma 1, lett. b), che prevede che il ricorso è «inammissibile quando è carente

l’interesse».

L’interesse, cioè il bisogno di tutela giurisdizionale indispensabile per rimuovere un atto lesivo, dev’essere

concreto e attuale, non teorico o generico . Secondo questa regola generale, che si riflette anche nell’art. 34,

comma 2, Cod. proc. amm. («In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi

non ancora esercitati»), non è data azione in giustizia amministrativa per soltanto ricordare l’astratta volontà di

massima della legge e la sua mera soggettiva prospettazione . Pas d’intérêt, pas d’action: l’interesse - si usa dire -

è la misura dell’azione e dev’essere serio, reale, non banale. E usualmente l’effettiva consistenza dell’interesse

forma oggetto di un accertamento preliminare e immanente, che rimane come possibile e anzi doveroso per tutto

il processo.

È dunque inammissibile un’azione di mera iattanza, ovvero provocatoria (ad es. perché tesa a portare alla luce

quanti tra i competitori hanno un serio interesse alla gara): perché l’utilità finale resterebbe sotto condizione di

un’aggiudicazione futura e incerta .

A guardare le cose dal punto di vista dell’aggiudicazione, questa riforma provvede mediante una tacita fictio iuris.

Abilitando al ricorso immediato, dà per costituito l’interesse a ricorrere, quasi fosse avvenuto a quel riguardo un

effetto di lesione al bene della vita: cioè come ad applicarvi – secondo lo schema proprio delle finzioni giuridiche

– una fattispecie legale di costituzione della lesione medesima.

Il nuovo art. 120, comma 2-bis, Cod. proc. amm., senza dirlo , agisce così sul rapporto tra lesione, interesse a

ricorrere e azione in giudizio. La formula mostra che gli atti relativi alla costituzione dei protagonisti della gara

sono considerati automaticamente generatori di un distinto interesse a ricorrere: e così è data azione in quanto ne

è presunto l’interesse. Il rapporto tra interesse a ricorrere e azione in giudizio è del resto consolidato in

giurisprudenza ed era stato analiticamente ricostruito da Cons. Stato, Ad. plen., 27 gennaio 2003, n. 1

sull’impugnazione immediata dei bandi di gara.

Sempre dal punto di vista dell’aggiudicazione, la finzione giuridica opera – come spesso avviene - mediante una

tacita presunzione assoluta: che è di lesività e che serve a dare attualità all’interesse a ricorrere. Si tiene luogo di

una lesione effettiva ancora non prodotta del bene ultimo della vita, cioè della pretesa all’aggiudicazione:

fattispecie che si avrebbe davvero soltanto o con l’esclusione o con la soccombenza finale nella gara. Insomma,

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per abilitare all’immediata impugnazione si attribuisce virtualmente concretezza e attualità a ciò che rappresenta

una lesione ancora, nelle more del provvedimento conclusivo, solo indiziaria e potenziale, non già concreta ed

effettiva.

Rispetto all’aggiudicazione, questa tecnica attualizza l’insorgenza del bisogno di giustizia, altrimenti ancora a

venire. Per passarvi oltre, si opera sul concetto preesistente: “l’interesse alla legittimità della procedura costituisce

un aspetto ed un riflesso dell’interesse all’aggiudicazione, ed è anzi quest’ultimo che può fondare e sostenere il

primo, sicché l’eventuale illegittimità della procedura acquista significato e rilievo soltanto se comporta il diniego

di aggiudicazione, in tal modo ledendo effettivamente l’interesse protetto, di cui è titolare il soggetto che ha preso

parte alla gara. Quanto […] all’interesse protetto, o comunque alla situazione soggettiva di cui è titolare il

partecipante alla gara, […] il suo contenuto è costituito non dall’astratta legittimità del comportamento

dell’amministrazione, ma dalla possibilità di conseguire l’aggiudicazione. L’aggiudicazione costituisce il bene della

vita che l’interessato intende conseguire attraverso la gara; ed è il medesimo bene della vita che si intende

conseguire attraverso la tutela giurisdizionale, nell’ipotesi di illegittimo diniego di aggiudicazione” .

Dunque - sempre a tener fermo il punto di vista del bene finale per cui si compete nella gara - il semplice metus,

la posizione di chi ha solo a temere dagli effetti dell’altrui ammissione, ovvero il fatto della propria esclusione da

una gara ancora da svolgersi (ipotesi, quest’ultima, variamente trattata in giurisprudenza ) sono qui convertiti in

requisiti sufficienti perché il giudice possa essere investito. Si crea la base giustificativa per un’azione immediata

che, da quell’angolazione, appare in prevenzione: per il mero timore di un damnum nondum factum, quod

futurum veremur, come tradizionalmente è nell’azione di danno temuto (damnum infectum).

Fermo quanto detto, va anzitutto considerato che l’operazione non è del tutto nuova nella pratica, perché a

risultati analoghi si è pervenuti in copiosa, vicina giurisprudenza. Ad esempio, da tempo si tende a ravvisare

un’analoga equiparazione quando si tratta di impugnazione delle clausole del bando di gara immediatamente

lesive degli interessi dell’aspirante , collegandovi pregiudizievoli effetti decadenziali . Paradigma giustificante è da

lungo quello della sufficienza dell’interesse strumentale, dove l’azione in giudizio si giustifica anche se non ne

consegue direttamente il bene della vita, ma solo l’opportunità, concreta, di conseguirlo. È il consolidato

indirizzo sulla sufficienza dell’opportunità di futura riedizione dell’azione amministrativa con le chances che

questa effettivamente incorpora: dove – guardando agli effetti anche ulteriori - la soddisfazione del ricorrente

non risiede nella diretta acquisizione del bene della vita, bensì nella possibilità che il suo interesse possa utilmente

trovare soddisfazione mediante la ripetizione del procedimento .

Soprattutto, come si è accennato, questa formula di scorporamento ripete in qualche modo lo schema

processuale di «tutela anticipata» dell’art. 129 Cod. proc. amm. sul giudizio contro le esclusioni dal procedimento

preparatorio per le elezioni locali e regionali: dove la struttura bifasica del contenzioso vuole speditamente risolte

in origine le questioni giudiziarie sulla titolazione alla contesa elettorale, mettendone al riparo i successivi risultati.

L’art. 129 però fa testuale riferimento ai «provvedimenti immediatamente lesivi» del diritto a partecipare al

procedimento elettorale preparatorio. L’immediata lesività lì è correlata all’enunciazione legale di un diritto a

partecipare, bene in sé che di suo precede la pretesa al bene della vita del risultato elettorale .

La ricordata elaborazione giurisprudenziale che, in tema di procedure per i contratti pubblici, aveva dato vita a

contenziosi a duplice sequenza vedeva la lesività immediata nella lex specialis di gara o nell’esclusione non

automatica: ma pur sempre compiendo una valutazione ordinaria circa l’attualità dell’interesse a ricorrere, che

faceva giungere ad apprezzarne la correttezza in proporzione alla ragionevole effettività delle chances di ottenere

l’aggiudicazione . Qui invece, ad avere riguardo al bene finale della vita, si opera sull’interesse futuro

convertendolo senz’altro in interesse attuale, indipendentemente dall’effettività delle chances.

L’innovazione agisce dunque sulla condizione dell’azione intrinseca della domanda di giustizia e della

giustificabilità della risposta giudiziaria: ma riflette per mano legislativa una tendenza all’ammissione pretoria di

nuovi spazi di anticipazione dell’azione che ormai latamente si registra per esigenze di sicurezza giuridica

connesse all’accelerata dinamica degli interessi economici in rapporto alle diverse tempistiche della giurisdizione.

All’allineamento tra le due risorse si vuol pervenire allargando le porte d’ingresso alla seconda. Il risultato è

modellato in una costruita astrazione dall’effettività della lesione ultima, per modo da escludere, al momento

dell’azione in giustizia, la valutazione in concreto della lesione medesima.

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È così, grazie a questa attualizzazione e allo scorporamento di tutela giudiziale che ne segue, che si crea un

modello complessivo di contenzioso a duplice sequenza: dove questo nuovo sottosistema accelerato viene

disgiunto da quello successivo - che resta ampio e residuale - delle impugnazioni sulle modalità restanti o

sull’esito oggettivo della gara.

A questo punto ci si può chiedere se l’esaminare questo tema da punto di vista del bene finale dell’aggiudicazione

non sia restrittivo; e se questa innovazione in realtà non si rifletta, in termini sostanziali, sulla configurabilità di

una pretesa sostanziale e autonoma circa il perimetro dell’insieme dei concorrenti. A ben vedere, infatti, questa

costruzione appare lo specchio di un interesse alla legittima formazione dei concorrenti al successivo sviluppo

procedimentale. Se, come spesso si afferma, l’interesse a ricorrere riflette in concretezza e attualità l’esistenza

sostanziale di un interesse legittimo , è lecito chiedersi se all’innovazione non corrisponda un autentico interesse

legittimo che è alla giusta formazione della platea dei concorrenti alla gara, bene che ora diviene tutelabile

autonomamente. L’utilità del fine contiene l’utilità del mezzo: se il mezzo è già sufficientemente utile,

evidentemente corrisponde a un già presente interesse sostanziale alla legittimità di quella prima fase del

procedimento. Il tema investe la ragione, la natura e la stessa effettività della tutela giurisdizionale amministrativa.

4. segue: la questione dell’improcedibilità sopravvenuta.

Ad arrestarsi alla configurazione processuale, la finzione concerne il tempo dell’introduzione dell’azione. Se poi

in corso di causa un fatto esterno vi andrà a incidere e farà altrimenti venir meno l’utilità del ricorso anticipato

(ad es., l’aggiudicazione allo stesso ricorrente), l’azione potrà divenire improcedibile per sopravvenuto difetto di

interesse perché ormai incapace di portare un distinto vantaggio al ricorrente, meglio soddisfatto col bene finale .

Il giudice recupererà il potere di vagliare d’ufficio la persistenza dell’interesse al ricorso, che come condizione

dell’azione deve sussistere fino al tempo della decisione .

4. segue: la razionalizzazione del processo in materia di gare pubbliche e la nuova regola “ora o mai

più”.

Il nuovo dato più incisivo è che la presunzione di cui si è detto opera fini ad essere poi preclusiva. E, secondo gli

auspici, in senso deflattivo, per razionalizzare il processo in materia di gare pubbliche depotenziando l’invalsa

tattica dei ricorsi incidentali strumentali. Il nuovo dispositivo si incentra – con carattere di onere per questa

azione anticipata - sulla regola “ora o mai più”, aut nunc aut numquam. La mancata impugnazione di tali

provvedimenti negli stretti termini ora stabiliti preclude la facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi

atti della procedura di gara, anche con ricorso incidentale. La configurazione dell’azione per presunzione legale

non solo anticipa, ma anche assorbe senza rimedi l’utilità pratica dell’insorgere successivo della lesione effettiva:

negandole efficacia, preclude l’utilità del manifestarsi effettivo dell’interesse a ricorrere e così la possibilità di una

rimessa in discussione della legittimazione a partecipare alla gara.

Perciò, vuole il legislatore, se il semplice pericolo di lesione futura è stimato sufficiente per agire in giudizio, si

agisca ora o si taccia per sempre.

In questo contesto, l’ulteriore presunzione prevista dalla disposizione, quella di conoscenza per effetto «della

pubblicazione […] sul profilo del committente della stazione appaltante» segna il dies a quo dello stretto termine

decadenziale per questa particolare impugnazione e funge da messa in guardia verso l’eventuale inoppugnabilità

per acquiescenza decorsi i trenta giorni. È una responsabilizzazione che opera mediante un avviso pubblico

informatico. Le imprese così sono sollecitate a vigilare quel profilo internet.

Al fine di definire concretamente detto dies a quo per proporre il ricorso anticipato, la disposizione richiama

espressamente l’art. 29 (Principi in materia di trasparenza) del Codice degli appalti pubblici e delle concessioni.

L’art. 29 prevede che sono pubblicati «nei successivi due giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il

provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e l’ammissione all’esito delle

valutazioni dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali».

È il caso di sottolineare la necessità dell’adeguatezza dei contenuti di questa pubblicazione perché la conoscenza

possa ritenersi piena agli effetti dell’art. 41, comma 2, Cod. proc. amm.. Da un lato occorre rammentare che la

giurisprudenza esclude che la pienezza della conoscenza possa essere desunta da semplici presunzioni e richiede

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elementi univoci e sicuri che rendano certo, e non semplicemente probabile, che in un determinato momento

l’interessato abbia avuto cognizione dell’atto ; da un altro lato che nel processo amministrativo a integrare la

piena conoscenza, il cui verificarsi causa il dies a quo per proporre ricorso, è la percezione non solo dell’esistenza

di un provvedimento amministrativo, ma anche degli aspetti che ne manifestano la lesività per il potenziale

ricorrente, così rendendo percepibile l’attualità dell’interesse ad agire : il che, in questo caso di lesività che la legge

vuole come presunta, porrà questioni particolari. Del resto, un diritto di azione non è ragionevolmente

esercitabile senza la piena conoscenza di quanto si presume lesivo: si dovrebbe allora figurare che, per

l’impugnazione dell’altrui ammissione, l’ammissione stessa è comunque lesiva per il concorrente. Né si possono

adeguatamente sviluppare motivi di impugnazione “al buio”, cui si rimedierebbe solo con un frazionamento della

domanda mediante atto di motivi aggiunti presentato dopo aver esperito – e fruttuosamente - un accesso agli atti.

Una simile concatenazione frustrerebbe lo scopo acceleratorio e deflattivo alla base di questa riforma, finendo

per negarne l’utilità. Problematiche questioni si possono porsi riguardo alla conoscenza della motivazione di

esclusione che per l’art. 76 (Informazione dei candidati e degli offerenti) può seguire di ben quindici giorni

l’apposita richiesta, anche ricordando se secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, la motivazione dell’atto

non è un elemento necessario per la sua piena conoscenza in questione .

Il tema è connesso anche a quelli della digitalizzazione delle procedure di cui all’art. 44, all’accesso agli atti di cui

all’art. 53, che riguarda anche «le candidature», e alla redazione e modalità di pubblicazione degli avvisi di cui

all’art. 72.

5. segue: la questione del ricorso incidentale nei due processi.

Uno degli effetti pratici più significativi recati da questa innovazione è nella incidenza sulla realtà del c.d. ricorso

incidentale escludente.

È noto come seguendo i principi di cui a Cons. Stato, Ad. plen., 7 aprile 2011, n. 4 si sia definitivamente

affermata la regola – risalente a Cons. Stato, VI, 6 marzo 1992, n. 159 - per cui l’esame del ricorso incidentale che

contesta la legittimazione del ricorrente principale confutando la sua ammissione alla gara, deve ordinariamente

precedere l’esame del ricorso principale. Non è valsa a contenerne gli effetti di sistema la mitigazione indotta –

sulla scorta delle “direttive ricorsi” 89/665/CEE e 2007/66/CE – da CGUE, 4 luglio 2013, n. 100/12 (Soc.

Fastweb c. Asl Alessandria) e dalla conseguente Cons. Stato, Ad. plen., 25 febbraio 2014, n. 9, con le sue

considerazioni sul principio di “parità delle armi” e il riferimento alla simmetria delle esclusioni, che assume che il

ricorso incidentale vada esaminato prima del ricorso principale solo se a carattere escludente perché contesta la

legittimazione a ricorrere del ricorrente principale; mentre vada esaminato dopo se censuri valutazioni e

operazioni di gara sul presupposto della regolare partecipazione del ricorrente principale. Ma non basta: la stessa

“giurisprudenza Fastweb”, lungi dal risolvere questo stato di cose, lo ha aggravato imponendo l’esame di tutti i

motivi reciprocamente sollevati.

Recentissima è poi una decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sui rapporti, nelle gare ‘a tre’, fra

ricorso principale e incidentale escludente, a favore dell’esame prioritario del primo .

La regola dell’esame prioritario del ricorso incidentale escludente era stata definita in stretto punto di diritto: un

ordine del decidere informato a logica (cfr. art. 276, secondo comma, Cod. proc. civ.) ed economia del processo

richiede che le questioni preliminari precedano quelle di merito, e che tra queste ultime quelle sui presupposti

processuali precedano quelle sulle condizioni dell’azione.

Nondimeno, l’esperienza impone di registrare, per l’impatto organizzativo sulla giustizia amministrativa, l’uso

ormai smisurato del ricorso incidentale escludente nelle controversie in tema di contratti pubblici. È una delle

principali ragioni del rallentamento dell’azione amministrativa in questo ambito, la cui funzione di fondo è quella,

essenziale per lo sviluppo, dell’approntamento di beni e servizi strumentali al sistema economico nazionale. Il

peso di questo fenomeno conduce all’esasperazione per cui la logica della valutazione del titolo all’ingresso del

micromercato finisce, distorsivamente, per prevalere sull’utilità generale del mercato complessivo.

L’innovazione di cui trattiamo intende rimediare a questa torsione negativa per la generalità, anche nella

considerazione della limitatezza quantitativa della risorsa giurisdizionale.

11

Da questo punto di vista, la presunzione assoluta di insorgenza virtualmente immediata dell’interesse a ricorrere,

conduce non solo alla successiva non configurabilità di un ricorso incidentale escludente a valle

dell’impugnazione principale dell’aggiudicazione, com’è testualmente detto al comma 2-bis, penultimo periodo

(«L’omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure

di affidamento, anche con ricorso incidentale»); ma, probabilmente, anche alla non configurabilità di analogo

strumento, in senso proprio, come risposta a un ricorso immediato avverso l’altrui ammissione proposto in base

al comma 2-bis, primo periodo, seconda parte.

Va considerato infatti che l’interesse a proporre un ricorso incidentale sorge soltanto per effetto dell’avvenuta

proposizione del ricorso principale (art. 42, comma 1, Cod. proc. amm.: «Le parti resistenti e i controinteressati

possono proporre domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale, a

mezzo di ricorso incidentale»). Qui la presunzione assoluta e generalizzata di interesse a ricorrere per tutti i

concorrenti anticipa figurativamente questa insorgenza dell’interesse a ricorrere “escludente” al momento

ufficiale della conoscenza di quell’ammissione. Sicché la medesima ragione che preclude una reiterazione nel

tempo dell’interesse a ricorrere, che si è vista per il primo ricorso, preclude una reiterazione per quello che

altrimenti sarebbe un ricorso incidentale. Anche per l’impresa di cui si contesta la legittimazione alla gara opera

da subito la presunzione di interesse a contestare in giudizio l’ammissione dell’impresa che muove questa

contestazione. In forza della presunzione, simile, simmetrico e simultaneo è il loro interesse alla reciproca

esclusione: e questo, per virtuale che sia, tiene ormai luogo di ogni altra effettiva, successiva insorgenza di utilità a

quei medesimi riguardi.

In termini pratici segue che l’impresa che immagina un’altrui contestazione della propria legittimazione alla gara

dispone, per muovere una simmetrica contestazione in giustizia, dello stesso termine di trenta giorni per ricorrere

e dal medesimo dies a quo. E il suo – se segue l’altro - non sarà comunque un ricorso incidentale, ma un ricorso

formalmente autonomo: anche se, appunto, in risposta a un ricorso senza il quale non lo avrebbe mosso e

comunque a quello stesso connesso.

Diversa, naturalmente, e conforme agli schemi usuali è la prospettazione per quanto concerne l’appello

incidentale, perché oggetto di impugnazione nell’appello è anzitutto la sentenza di primo grado e l’appello

incidentale trova base sull’avvenuta proposizione dell’appello principale per preservare le utilità acquisite con la

prima sentenza .

6. La presunzione di non lesività di alcuni atti procedimentali.

Il comma 2-bis si conclude enunciando che è altresì «inammissibile l’impugnazione della proposta di

aggiudicazione, ove disposta, e degli altri atti endoprocedimentali privi di immediata lesività».

Così la riforma, riguardo ad atti endoprocedimentali non lesivi e proposta di aggiudicazione, introduce una

presunzione di non lesività mediate l’inammissibilità della loro impugnazione. Il parere del Consiglio di Stato

sullo schema di decreto legislativo la stimava superflua, trattandosi di regola generale e consolidata del processo

amministrativo trattandosi di atti a lesività non immediata: il che sarebbe stato sufficiente a rendere comunque

inammissibile la loro impugnazione giurisdizionale. Ma la previsione è rimasta.

Resta comunque che per questi atti endoprocedimentali la lesività non immediata potrà un domani essere

sostituita da una lesività sopravvenuta insieme alla lesività di un provvedimento. La sopravvenienza del

provvedimento lesivo sarà cioè utile ai fini dell’impugnazione. L’eccezione non può che valere medio tempore e

essere di stretta interpretazione.

7. Verso un’azione di diritto obiettivo ? La prova di costituzionalità.

A voler tenere ferma l’angolazione dal punto di vista del bene finale dell’aggiudicazione, ci si può domandare se

questa nuova tecnica legislativa che costruisce un interesse a ricorrere virtuale che tiene luogo di, e priva di effetti,

quello effettivo non orienti, eccezionalmente, verso una formula di giurisdizione di ordine oggettivo: un’azione in

realtà senza interesse, attribuita a un privato fatto ad hoc portatore non di interessi diffusi però attuali, ma di un

interesse – in realtà - meramente individuale e ancora ipotetico.

12

Si potrebbe osservare che altre volte il legislatore ha costruito una legittimazione straordinaria a ricorrere (ad es.,

quella delle associazioni ambientaliste, ai sensi dell’art. 13 l. 8 luglio 1986, n. 349 o dell’art. 9, comma 3, d.lgs. 18

agosto 2000, n. 267): ma lo ha fatto per definire, in casi di loro incerti come quelli dei c.d. interessi diffusi o

collettivi, il perimetro di chi ha la qualità ufficiale per ricorrere al giudice e senza prescindere dall’attualità di

un’effettiva lesione. Qui invece si pone una finzione giuridica per l’interesse a ricorrere, vale a dire per l’elemento

fondante il c.d. bisogno di giustizia in un sistema che è di giurisdizione soggettiva. Ci può essere infatti un

vantaggio potenziale dall’annullamento dell’altrui ammissione; ma non è ancora detto che questa sia davvero

pregiudizievole per il conseguimento dell’aggiudicazione.

In questi termini qualcuno in principio potrebbe avanzare dubbi rispetto agli artt. 24, primo comma («Tutti

possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi») e 113, primo comma, Cost. («Contro

gli atti della Pubblica Amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi

legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa»). Mentre è dato, per esigenze di certezza,

costruire legittimazioni straordinarie, potrebbe non esser dato figurare lesioni che in realtà sono inattuali e

astratte: come riconoscere fittiziamente a chi non ne subisce o non ne ha subite ancora.

Può essere tuttavia opposto a tali dubbi che, come si è visto, qui si è implicitamente raffigurato un vero e proprio

interesse legittimo, di nuovo conio, alla giusta formazione della platea dei concorrenti in gara.

Non solo: qui l’attribuzione anticipata dell’interesse a ricorrere non coinvolge anche la legittimazione al ricorso,

cioè la qualità di titolare dell’azione davanti al giudice amministrativo; e comunque postula l’avvenuta

presentazione di una domanda di partecipazione alla gara, fatto che è di radicamento individuale e differenziato

rispetto all’estraneo alla vicenda amministrativa .

8. Criticità. Un rito specialissimo, i rischi di giudizi sommari.

Le innovazioni della struttura processuale complementari al comma 2-bis dell’art. 120, introducono scansioni e

atti di un rito specialissimo o, come dice il parere del Consiglio di Stato sullo schema di decreto legislativo,

superspeciale: dove, per lo stretto contenimento temporale della dialettica delle parti e della risposta del giudice,

non è remoto un rischio di giudizi avvertibili come sommari.

È anzitutto un rito specialissimo: si inserisce come schema speciale nel contesto del già speciale “rito appalti”

dell’art. 120 . Il quale già di suo rappresenta un procedimento speciale all’interno dei già speciali riti abbreviati

dell’art. 119.

Questo profilo riflette una tendenza all’episodicità di interventi legislativi sul processo e alla moltiplicazione dei

riti che già caratterizza, con alterne vicende, il processo civile e il processo penale e che nel processo

amministrativo recentemente aveva toccato, ancora una volta, lo stesso ‘rito appalti’ . È innegabile che generi

insicurezze e contrasti la funzione propria della codificazione: in specie del processo amministrativo, compiuta

con il d.lgs. n. 104 del 2010, e i sui obiettivi di semplificazione normativa, organicità e stabilizzazione, fattori

primari di sicurezza giuridica. Se si constata che in buona parte le odierne innovazioni rappresentano una

contrazione dei tempi e dei termini già raccorciati dall’intervento del 2014, sorgono poi questioni circa il previo

vaglio di effettività di quelle stesse recenti innovazioni: che avrebbe portato al confronto con le opposte iniziative

sulla consistenza delle dotazioni di magistrati e con le difficoltà organizzative nel mantenere i livelli temporali di

risposta già allora figurati.

In termini di configurazione complessiva, portando al massimo gli obiettivi di concentrazione e immediatezza

processuale già propri del - più volte così novellato in senso acceleratorio - “rito appalti”, con il comma 6-bis si

introducono ritmi e modelli di provvedimento finalizzati, piuttosto che all’accurata ricerca di rassicurazioni

sostanziali, alla comunque più celere formazione di un formale giudicato sulla platea dei concorrenti alla gara: per

sgombrare quanto prima la procedura di gara da insicurezze sui soggetti e consentirne il pacifico, o meglio

pacificato, sviluppo. L’accelerazione che così imprime è dunque essenzialmente funzionale a uno sviluppo

successivo della gara sgombro da questo genere di contese.

L’obiettivo è peraltro di massima meritevole e, di suo, merita condivisione; come merita condivisione la finalità

pratica di deterrenza e disincentivazione delle liti formalistiche che con danno generale affollano la giustizia

amministrativa.

13

L’esigenza per il macro-mercato della sollecita realizzazione delle opere previste o delle prestazioni di servizi è

fatta superiore, perché tocca gli interessi della generalità. Sicché il polo dell’efficienza recupera su quello della

garanzia, fiaccando le liti di puro ripiego formalistico.

Tuttavia, per le controversie più serie, non è fuor di luogo paventare che la sicurezza giuridica del caso concreto

possa andare a sopravanzare la certezza generale delle situazioni, che pure d’ordinario la compone; e che il

prezzo dell’efficienza vada a carico della reale dialettica delle parti e dell’approfondimento partecipativo, che nel

giudizio proiettano la verifica degli ingressi nel micro-mercato della gara di cui in esordio si è detto.

Queste criticità sono fatalmente connesse alla realtà limitata della risorsa-giustizia.

Così, se è vero che si salvaguardano le scansioni dialettiche con le reciproche opportunità processuali delle parti

(non ricorre il caso canonico del procedimento sommario, “simplicter et de plano”), la tempistica è ora fatta

talmente stretta da rendere la garanzia prevalentemente formale. Da tanta compressione del tempi può soffrire

l’effettività sostanziale del contraddittorio: non mera facoltà formale di contra dicere, dire in senso contrario; ma

– come ormai è concezione acquisita nei sistemi processuali - anche capacità di replicare e reagire adeguatamente,

prevenire posizioni sfavorevoli, svolgere un effettivo e persuasivo ruolo attivo nel processo e davvero partecipare

alla formazione consapevole della miglior decisione. Per una buona giustizia, l’adeguatezza dev’essere

proporzionale a tempi di respiro ragionevoli per approntare le allegazioni e le argomentazioni di parte, come dal

lato del giudice per bene elaborare la motivazione della decisione. Dal che non poche preoccupazioni sulla

congruenza di queste nuove scansioni per l’effettività dei compiti di difesa e il rischio di giudizi che possano

essere avvertiti come sommari.

Potrebbe così non essere fuor di luogo considerare che il principio di effettività della tutela giurisdizionale e il

principio della ragionevole durata del processo, convenzionale (art. 6 CEDU) e costituzionale (art. 111, secondo

comma, Cost. dopo l’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999, n. 2), potrebbero esser chiamati a temperare, nei casi

dubbi, l’eccessiva brevità dei termini processuali quando, per incongruenza con il principio del contraddittorio,

questi comprimano oltre misura l’esplicazione del diritto di difesa, con cui il primo va correlato , o menomino

senza giustificazione la credibilità e la funzione cognitiva del processo. Il che riflette anche il principio

eurounitario – rammentato dal parere del Consiglio di Stato sullo schema di decreto legislativo, seppure circa la

piena conoscenza per impugnare - per cui i ricorsi nella materia debbono essere efficaci (oltre che quanto più

rapidi possibili) a norma delle “direttive ricorsi”: precisamente, dell’art. 2 della direttiva 665/89/CEE come

sostituito dalla direttiva 2007/66/CE.

È facile del resto prevedere che mentre gli ormai strettissimi termini processuali a carico delle parti porteranno

con sé i conseguenti effetti decadenziali e non potranno che essere effettivi, non altrettanto potrà sempre

avvenire per gli angusti tempi di fissazione dell’udienza, per quelli sincopati di rinvio (pare si ignori come si

compongono i collegi, specie d’appello) o per quelli di formazione della decisione. Tutte le cose hanno un loro

tempo, dice un’antichissima saggezza: ma non pare che qui se ne tenga gran conto .

Si aggiungano alcuni dubbi tecnici o indeterminatezze insisti nella lettera della disposizione. Ad esempio, circa la

sintetica previsione della possibile passerella tra camera di consiglio e udienza pubblica, gettata a salvaguardia del

principio convenzionale di pubblicità dei giudizi. Non è chiaro per opera di chi si possa manifestare la «richiesta

delle parti», del secondo periodo del comma 6-bis. Una funzione di garanzia suggerirebbe come sufficiente la

richiesta di una parte, ma la norma parla di «richiesta delle parti», non «di parte». Prima ancora, il fatto che il

giudizio debba essere «definito in una camera di consiglio» (salva, appunto, la conversione a richiesta in udienza

pubblica), sembra porre non solo l’obbligo di definizione all’esito dell’udienza cautelare ex art. 60 Cod. proc.

amm., ma anche che la discussione di merito debba essere in principio fissata per una camera di consiglio,

similmente ai c.d. riti camerali (es. silenzio, accesso, ottemperanza, giurisdizione e competenza, correzione di

errore materiale, ecc.). La forma della “definizione” deve essere comunque una sentenza .

9. segue: il comma 8-ter e i presupposti della decisione cautelare. Le esigenze imperative connesse a un

interesse generale alla esecuzione del contratto.

Novità particolari reca poi il comma 8-ter sui presupposti e i contenuti della decisione cautelare. Va considerato

da un lato che l’innovazione riguarda in genere le controversie dell’art. 120, comma 1, cioè tutte le controversie

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contro atti di procedure di affidamento relativi a pubblici lavori, servizi o forniture e i «connessi provvedimenti»

dell’Autorità nazionale anticorruzione; dall’altro che, come rileva il parere del Consiglio di Stato sullo schema di

decreto legislativo, quanto al rito anticipato previsto per le ammissioni e le esclusioni, “la tutela cautelare diventa,

di fatto e nella ordinarietà dei casi, superflua, attesi i tempi strettissimi in cui si perviene alla decisione di merito,

di cui può anche essere anticipata la pubblicazione del dispositivo. Sicché la funzione anticipatoria che è propria e

tipica della tutela cautelare non troverà ordinariamente possibilità di pratica esplicazione”.

Nella decisione cautelare il giudice deve ora tener conto delle late previsioni circa l’inefficacia del contratto

pubblico (art. 121, comma 1, e 122) e motivare in ordine alla sussistenza di «esigenze imperative connesse a un

interesse generale alla esecuzione […] del contratto» .

Ferma l’osservazione testé fatta sulla superfluità della cautela per il giudizio anticipato, naturalmente non può il

giudice, nel caso del giudizio anticipato di cui si è detto, prendere in considerazione una casistica riconducibile

all’art. 121, comma 1 (sulle «gravi violazioni») se ancora di tratta di ipotesi a venire o all’art. 122 (sui violazioni

residue) quando si presuppone l’avvenuta stipulazione del contratto (es. per il riguardo allo «stato di esecuzione

del contratto»).

Quanto alle «esigenze imperative connesse a un interesse generale», si tratta di espressione di matrice

giurisprudenziale comunitaria, sorta per indicare eccezioni non scritte al principio di libera circolazione delle

merci. Poi è passata, per il tramite della direttiva ‘servizi’ del 2004 , della direttiva ricorsi e ora delle direttive del

2014 , al diritto dei contratti pubblici, e così già figura all’art. 121, comma 2, Cod. proc. amm. come limite

espresso alla naturale dichiarazione di inefficacia del contratto in presenza di «gravi violazioni» (la disposizione

offre una casistica, seppur aperta, di qualificazioni come «esigenze imperative») .

L’espressione, di ritornante utilizzazione, è qui ripresa dall’art. 1, comma 1, lett. aaa) della legge di delega n. 11 del

2016, con il principio e criterio direttivo in base al quale «al fine di garantire l'efficacia e la speditezza delle

procedure di aggiudicazione ed esecuzione dei contratti relativi ad appalti pubblici di lavori, previsione, nel

rispetto della pienezza della tutela giurisdizionale, che, già nella fase cautelare, il giudice debba tener conto del

disposto dell'articolo 121, comma 1, del codice del processo amministrativo, di cui all'allegato 1 annesso al

decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, e, anche nelle ipotesi di cui all'articolo 122 e nell'applicazione dei criteri

ivi previsti, debba valutare se il rispetto di esigenze imperative connesse a un interesse generale possa influire

sulla misura cautelare richiesta».

Su queste basi, si deve osservare che:

-anzitutto, la norma di delega riferisce questo parametro alle procedure circa i «contratti relativi ad appalti

pubblici di lavori». Può presentare criticità, rispetto ai limiti dell’art. 76 Cost., che possa essere esteso ai contratti

relativi ad appalti pubblici di servizi e alle concessioni;

-ferma ancora l’osservazione sulla superfluità della cautela per il giudizio anticipato, pare comunque dubbio che il

riferimento alle «procedure di aggiudicazione ed esecuzione dei contratti» implichi l’automatica estensione al

processo anticipato: anche per l’evidenziata irragionevolezza del rapporto con elementi di violazione ancora

futuri e incerti quali quelli degli art. 121, comma 1, e 122.

Quanto al contenuto sostanziale da riconoscere nella «esigenze imperative connesse a un interesse generale alla

esecuzione del contratto», non può che essere – per naturale coerenza del corpo normativo - quello del ricordato

art. 121, comma 2.

Quanto all’incidenza rispetto ai temi dedotti nella controversia, è qui solo il caso di rammentare che la matrice

giurisprudenziale comunitaria intende con quell’ellittica espressione un parametro di riferimento per un

adeguato controllo di proporzionalità: per il quale sovente si rinvia al paradigma di giudizio della rule of reason,

dunque a una necessaria proporzionale contestualizzazione con la situazione generale.

La portata più incisiva dell’innovazione si ha riguardo ai casi di violazioni residuali di cui all’art. 122. Ora anche in

quei casi (non più solo nei gravi casi dell’art. 121) queste esigenze «imperative» - cioè in concreto imperiose,

prioritarie, prevalenti, dominanti per l’importanza dell’interesse generale che concretamente rappresentano e che

qui il (solo) legislatore delegato collega all’esecuzione del contratto - vanno prese in considerazioni dal giudice

cautelare e comunque esternate nel suo provvedimento.

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L’espressione «interesse generale all'esecuzione del contratto» non deve indurre in errore. A ben vedere, si tratta

di un interesse il cui oggetto da dover prendere in valutazione non è il fatto in sé dell’esecuzione, quale che ne sia

la ragione o lo scopo; ma l’oggetto o la finalità dell’esecuzione stessa, che soltanto può concretare l’interesse

«generale». Nulla afferma che il fatto mero dell’esecuzione sia, di suo, corrispondente all’interesse della generalità.

Non solo: la legge delega non precisava che l’«interesse generale» dovesse essere rapportato «all'esecuzione del

contratto» (il che di suo pone autonome questioni di rispetto dei limiti dell’art. 76 Cost.).

L’interesse «generale», si sa, è altra cosa dall’interesse pubblico, qui in particolare l’interesse dell’amministrazione

appaltante alla realizzazione dell’opera. Ad esempio sono «interesse generale» - alla luce della giurisprudenza

europea in rapporto agli artt. 43 e 49 del Trattato - la cura dell’ordine o della sicurezza pubblica, della difesa

nazionale, della salute, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e così via; o,

come espressamente qualifica l’appena ricordato art. 9 d.-l. n. 133 del 2014, quelle di tutela dell’incolumità

pubblica. Proprio per il diritto eurounitario soltanto l’interesse generale (non l’interesse pubblico) può in

concreto essere tale da prevalere come «esigenza imperativa» sulle garanzie della concorrenza e dell’accesso al

mercato: dalla libera circolazione delle merci, a - qui - la riparazione delle illegittimità nelle gare pubbliche . E

certo interesse generale è anche quello all’effettività ed efficacia della giurisdizione, inclusa la pienezza di tutela,

con cui quest’altro va in concreta comparazione. Insomma, perché una «esigenza imperativa» possa prevalere,

deve consistere in altro che non la mera realizzazione del contratto e corrispondere a un interesse della generalità

che in concreto si dimostri non solo esistente, ma anche particolarmente intenso. Diversamente, si arriverebbe al

paradosso, facilmente sospettabile di incostituzionalità e di manifesto contrasto sia con la CEDU che con le

eurounitarie “direttive ricorsi”, per cui la tutela giurisdizionale sarebbe sempre e comunque subalterna alla

realizzazione dei contratti pubblici.

Resta comunque aperta la questione – a parte le qualificazioni dell’art. 121, comma 2 – della consistenza

materiale di queste «esigenze imperative», cioè – più brevemente – di queste prevalenti necessità di interesse

generale: come e quando sorgano, come il giudice ne acquisisca la conoscenza, quando diventino rilevanti e

quando dominanti. È inutile dire delle difficoltà per formulare il giudizio di proporzionalità, specie prima facie.

Parimenti, da un punto di vista generale va considerato che queste «esigenze imperative» non possono – a prezzo

della vanificazione del rilievo costituzionale della tutela cautelare, essenziale strumento processuale verso atti

immediatamente esecutivi , così come del contrasto della “direttiva ricorsi” 2007/66/CE - sempre e comunque

condurre alla soluzione che lascia continuare l’esecuzione dell’opera . Perché questo non avvenga, la loro

applicazione non può prescindere da, quanto meno, un previo controllo di proporzionalità in senso stretto, cioè

da una valutazione comparativa degli effetti: per modo che una sbilanciata prevalenza di queste necessità di

interesse generale non finisca per schiacciare ogni capacità di protezione giudiziaria interinale a una pur

consistente ragione del ricorrente. Questo indipendentemente da ogni considerazione sull’effetto pratico, che in

massima parte sarà quello processuale di volgere, nel caso di manifesta fondatezza del ricorso, verso la

definizione immediata del merito ai sensi dell’art. 60 Cod, proc. amm. e così, all’esito della stessa camera di

consiglio, chiudere il giudizio con sentenza di accoglimento in forma semplificata.

Aperta resta la questione del rapporto con quanto previsto – mediante parametri di bilanciamento più che di

proporzionalità - per le controversie relative a infrastrutture strategiche, vale a dire ad opere dove massima si

immagina l’intensità dell’interesse generale alla realizzazione: per le quali il ricordato art. 125, comma 2, stabilisce

che in sede cautelare «si tiene conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi

che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera, e, ai fini

dell’accoglimento della domanda cautelare, si valuta anche la irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente, il cui

interesse va comunque comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle

procedure».

Un’interpretazione conforme all’art. 3 Cost., che tenga conto del rapporto invertito rispetto all’assunta esigenza

generale, non può condurre a dare al nuovo art. 120, comma 8-ter una portata addirittura più stringente della

lettera di questo art. 125, comma 2. E sempre che quel rito, speciale tra gli speciali, dell’art. 125 conservi tuttora i

presupposti di applicazione, considerata la configurazione della riforma a proposito della ‘grandi opere’.

16

10. Conclusioni.

Da un punto di vista sistematico, la ratio della riforma consiste nell’aver costruito un dispositivo di sicurezza

giuridica inteso al consolidamento iniziale delle certezze sugli attori principali della gara. L’affollamento di

domande di giustizia che finora ha caratterizzato i momenti susseguenti alle aggiudicazioni, con il riesumante

vaglio giudiziario delle mancate esclusioni, è contrastato in favore di un ormai pacificato sviluppo successivo

della competizione.

Questo avviene mediante la previsione di un nuovo contenzioso anticipato e in prevenzione, a carattere

tendenzialmente sommario, per generare o inoppugnabilità (se nessuno impugna) o decisioni del giudice (se

qualcuno impugna) prima che sortisca l’esito finale della gara e non più a fatto ormai compiuto; rendendo così lo

sviluppo del procedimento immune da contestazioni postume dei presupposti soggettivi fondamentali. L’idea è

contrastare le controversie dell’ultima ora per confutare l’originario cattivo titolo degli altri concorrenti a

partecipare e far saltare così il tavolo finale. L’abbassamento della pressione giudiziaria dovrebbe conseguirne.

Dal punto di vista generale, sarà l’esperienza futura a dire se questa azione immediata, come si figura e si confida,

defatigherà impugnazioni strumentali e improduttive e darà maggiori speditezze alle gare restituendo efficienza al

sistema; ovvero se, sul paradigma del dilemma del prigioniero, dalla nuova opportunità sorgerà il paradosso di

una nuova massa di contenzioso che andrà a gravare ulteriormente sulle gare stesse e sulla giustizia. Molto verrà

dalle capacità organizzative e dalle dimensioni dei competitori. Sia comunque consentito figurare nuovi oneri

economici processuali per il sistema delle imprese che si attesteranno sulla controversia preventiva circa la

legittimazione alla gara: vuoi se ricorrenti, vuoi se avvertite dell’anticipato giudizio per resistervi o spiegarvi un

simmetrico ricorso.

Giuseppe Severini

Presidente di Sezione del Consiglio di Stato

(pubblicato il 3 giugno 2016)

2. IL RAPPORTO INFINITO TRA RUCORSO PRINCIPALE E

INCIDENTALE TORNA IN CORTE DI GIUSTIZIA: Corte di Giustizia, 5

aprile 2016 in C 589/2013

1) L’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/CEE del

Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari

e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di

aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla

direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2007,

deve essere interpretato nel senso che osta a che un ricorso principale proposto da un

offerente, il quale abbia interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto

e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto

dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono tale diritto, e

diretto a ottenere l’esclusione di un altro offerente, sia dichiarato irricevibile in

applicazione di norme processuali nazionali che prevedono l’esame prioritario del

ricorso incidentale presentato da detto altro offerente.

17

2) L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una

disposizione di diritto nazionale nei limiti in cui quest’ultima sia interpretata nel senso

che, relativamente a una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del

diritto dell’Unione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza, qualora

non condivida l’orientamento definito da una decisione dell’adunanza plenaria di tale

organo, è tenuta a rinviare la questione all’adunanza plenaria e non può pertanto adire

la Corte ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale.

3) L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che, dopo aver ricevuto la

risposta della Corte di giustizia dell’Unione europea ad una questione vertente

sull’interpretazione del diritto dell’Unione da essa sottopostale, o allorché la

giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha già fornito una risposta

chiara alla suddetta questione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima

istanza deve essa stessa fare tutto il necessario affinché sia applicata tale

interpretazione del diritto dell’Unione.

(omissis)

Procedimento principale e questioni pregiudiziali

12 Con bando pubblicato il 18 gennaio 2012 la Airgest, società di gestione dell’Aeroporto civile di Trapani-

Birgi (Italia), ha avviato una procedura aperta, avente ad oggetto l’affidamento del servizio di pulizia e

manutenzione delle aree verdi presso tale aeroporto per un periodo di tre anni. (omissis) L’appalto è stato

attribuito, …, all’associazione temporanea di imprese creata fra la GSA e la Zenith Services Group Srl (ZS).

13 La PFE, che aveva partecipato all’appalto e che si era classificata seconda, ha proposto un ricorso dinanzi

al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, chiedendo, inter alia, l’annullamento del provvedimento di

aggiudicazione e, in via consequenziale, l’aggiudicazione dell’appalto a suo favore e la stipula del relativo

contratto. Gli altri offerenti non hanno impugnato il provvedimento di aggiudicazione di cui trattasi.

14 La GSA, capogruppo dell’associazione temporanea di imprese cui è stato affidato l’appalto, si è costituita

in giudizio e ha interposto un ricorso incidentale basato sul difetto di interesse della PFE, ricorrente principale,

alla coltivazione dell’impugnativa, giacché quest’ultima non avrebbe soddisfatto i requisiti di ammissione alla gara

d’appalto e, di conseguenza, avrebbe dovuto essere esclusa dal procedimento di aggiudicazione. Il Tribunale

amministrativo regionale per la Sicilia ha esaminato gli argomenti delle due parti e ha accolto i due ricorsi. A

seguito di tale decisione la Airgest, quale amministrazione aggiudicatrice, ha escluso le due ricorrenti nonché tutti

gli altri offerenti inizialmente inseriti nella graduatoria, a causa dell’inidoneità delle rispettive offerte rispetto ai

documenti di gara. Gli altri offerenti non avevano proposto ricorso avverso il provvedimento di aggiudicazione

dell’appalto. È stata allora indetta una nuova procedura, negoziata, di attribuzione dell’appalto in parola.

15 La PFE ha impugnato tale sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia dinanzi al

Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana. Quanto alla GSA, essa ha interposto appello

incidentale dinanzi a quest’ultimo organo giurisdizionale, adducendo, segnatamente, che il Tribunale

amministrativo regionale per la Sicilia, procedendo alla disamina dei motivi dedotti nel ricorso principale, aveva

disatteso i principi relativi all’ordine di esame dei ricorsi enunciati dalla sentenza del 7 aprile 2011, n. 4,

dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Secondo detta sentenza, in caso di ricorso incidentale volto a

contestare l’ammissibilità del ricorso principale, il ricorso incidentale deve essere valutato prioritariamente, prima

del ricorso principale. Nell’ordinamento giuridico nazionale un siffatto ricorso incidentale è qualificato come

«escludente» o «paralizzante» poiché, qualora ne constati la fondatezza, il giudice adito deve dichiarare

inammissibile il ricorso principale senza esaminarlo nel merito.

18

16 Il giudice del rinvio osserva che la Corte, nella sentenza Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448),

pronunciata successivamente alla menzionata sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ha giudicato

che l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 deve essere interpretato nel senso che osta ai principi, stabiliti

da detta ultima sentenza, riportati al punto precedente della presente sentenza. La causa all’origine della sentenza

Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448) riguardava due offerenti che erano stati selezionati dall’amministrazione

aggiudicatrice e invitati a presentare delle offerte. A seguito del ricorso proposto dall’offerente la cui offerta non

era stata prescelta, l’aggiudicatario aveva presentato un ricorso incidentale, con il quale faceva valere che l’offerta

che non era stata prescelta avrebbe dovuto essere esclusa in quanto non rispettava uno dei requisiti minimi

previsti dal piano di fabbisogni.

17 Il giudice del rinvio si chiede, in primo luogo, se l’interpretazione fornita dalla Corte nella sentenza

Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448) valga anche nella fattispecie in discussione, considerato che, nella causa

all’origine della citata sentenza, le imprese partecipanti alla gara erano solo due ed entrambe si trovavano

portatrici di interessi contrapposti nel contesto del ricorso principale per annullamento presentato dall’impresa la

cui offerta non era stata prescelta e del ricorso incidentale presentato dall’aggiudicatario, mentre, nel

procedimento principale di cui alla presente fattispecie, le imprese partecipanti sono più di due, anche se soltanto

due fra loro hanno proposto ricorso.

18 In secondo luogo, il giudice del rinvio rileva che, conformemente all’articolo 1, paragrafo 2, del decreto

legislativo del 24 dicembre 2003, n. 373 – Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana

concernenti l’esercizio nella regione delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato, esso costituisce una sezione del

Consiglio di Stato e che, in quanto tale, è un giudice nazionale avverso le cui decisioni non può proporsi un

ricorso giurisdizionale di diritto interno ai sensi dell’articolo 267, terzo comma, TFUE. Orbene, in ragione della

norma processuale ex articolo 99, paragrafo 3, del codice del processo amministrativo, esso sarebbe tenuto ad

applicare i principi di diritto enunciati dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, anche sulle questioni afferenti

all’interpretazione e all’applicazione del diritto dell’Unione, fatta salva la facoltà della sezione, quando intenda

discostarsi da detti principi, di rimettere le questioni in discussione all’adunanza plenaria onde sollecitare un

revirement della sua giurisprudenza.

19 Il giudice del rinvio, a tale riguardo, pone in rilievo i contrasti fra la sentenza n. 4 dell’adunanza plenaria del

Consiglio di Stato, del 7 aprile 2011, e la sentenza Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448) per affermare che,

nell’ipotesi in cui il vincolo procedurale descritto al punto precedente si applicasse parimenti alle questioni

attinenti al diritto dell’Unione, il medesimo sarebbe incompatibile con il principio di competenza esclusiva della

Corte in materia di interpretazione del diritto dell’Unione e con l’obbligo incombente a ogni organo

giurisdizionale di ultima istanza degli Stati membri di adire la Corte ai fini di una pronuncia pregiudiziale, quando

siano sollevate questioni di interpretazione di tale diritto.

20 (omissis)

Sulla prima questione

21 Con detta questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma,

e 3, della direttiva 89/665, debba essere interpretato nel senso che osta a che un ricorso principale

proposto da un offerente, il quale abbia interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto

e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell’Unione in

materia di appalti pubblici o delle norme che recepiscono tale diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di

un altro offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di norme processuali nazionali che

prevedono l’esame prioritario del ricorso incidentale presentato da detto altro offerente.

22 Il giudice del rinvio desidera accertare, in particolare, se l’interpretazione dell’articolo 1, paragrafo 3,

della direttiva 89/665 data dalla Corte nella sentenza Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448) si applichi

nell’ipotesi in cui le imprese partecipanti alla procedura di gara controversa, sebbene ammesse

inizialmente in numero maggiore di due, siano state tutte escluse dall’amministrazione aggiudicatrice

senza che un ricorso sia stato proposto dalle imprese diverse da quelle – nel numero di due ‑ coinvolte

nel procedimento principale.

19

23 Al riguardo è d’uopo ricordare che, secondo le disposizioni dell’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3,

della menzionata direttiva, affinché i ricorsi contro le decisioni adottate da un’amministrazione aggiudicatrice

possano essere considerati efficaci, devono essere accessibili per lo meno a chiunque abbia o abbia avuto

interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una

presunta violazione.

24 Al punto 33 della sentenza Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448) la Corte ha considerato che il ricorso

incidentale dell’aggiudicatario non può comportare il rigetto del ricorso di un offerente escluso

nell’ipotesi in cui la legittimità dell’offerta di entrambi gli operatori venga contestata nell’ambito del

medesimo procedimento, in quanto in una situazione del genere ciascuno dei concorrenti può far

valere un analogo interesse legittimo all’esclusione dell’offerta degli altri, che può indurre

l’amministrazione aggiudicatrice a constatare l’impossibilità di procedere alla scelta di un’offerta

regolare.

25 Al punto 34 della succitata sentenza la Corte ha pertanto interpretato l’articolo 1, paragrafo 3, della

direttiva 89/665 nel senso che tale disposizione osta a che il ricorso di un offerente la cui offerta non è

stata prescelta sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell’esame preliminare dell’eccezione di

inammissibilità sollevata nell’ambito del ricorso incidentale dell’aggiudicatario, senza che ci si

pronunci sulla conformità delle due offerte in discussione con le specifiche tecniche indicate nel piano

di fabbisogni.

26 La sentenza in parola costituisce una concretizzazione dei requisiti posti dalle disposizioni del diritto

dell’Unione citate al punto 23 della presente sentenza, in circostanze nelle quali, a seguito di una procedura di

aggiudicazione di un appalto pubblico, due offerenti presentano ricorsi diretti ad ottenere la reciproca

esclusione.

27 In una situazione siffatta ciascuno dei due offerenti ha interesse a ottenere l’aggiudicazione di un

determinato appalto. Da un lato, infatti, l’esclusione di un offerente può far sì che l’altro ottenga l’appalto

direttamente nell’ambito della stessa procedura. D’altro lato, nell’ipotesi di un’esclusione di entrambi gli offerenti

e dell’indizione di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, ciascuno degli offerenti

potrebbe parteciparvi e, quindi, ottenere indirettamente l’appalto.

28 L’interpretazione, ricordata ai punti 24 e 25 della presente sentenza, formulata dalla Corte nella sentenza

Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448) è applicabile in un contesto come quello del procedimento principale. Da

un lato, infatti, ciascuna delle parti della controversia ha un analogo interesse legittimo all’esclusione dell’offerta

degli altri concorrenti. D’altro lato, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 37 delle sue conclusioni,

non è escluso che una delle irregolarità che giustificano l’esclusione tanto dell’offerta dell’aggiudicatario quanto di

quella dell’offerente che contesta il provvedimento di aggiudicazione dell’amministrazione aggiudicatrice vizi

parimenti le altre offerte presentate nell’ambito della gara d’appalto, circostanza che potrebbe comportare la

necessità per tale amministrazione di avviare una nuova procedura.

29 Il numero di partecipanti alla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi,

così come il numero di partecipanti che hanno presentato ricorsi e la divergenza dei motivi dai

medesimi dedotti, sono privi di rilevanza ai fini dell’applicazione del principio giurisprudenziale che

risulta dalla sentenza Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448).

30 Tenuto conto delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla prima questione sottoposta

dichiarando che l’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665 deve essere interpretato

nel senso che osta a che un ricorso principale proposto da un offerente, il quale abbia interesse a

ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una

presunta violazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono

tale diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di un altro offerente, sia dichiarato irricevibile in

applicazione di norme processuali nazionali che prevedono l’esame prioritario del ricorso incidentale

presentato da detto altro offerente.

(omissis)

20

3. OTTEMPERANZA E ART. 42 BIS TESTO UNICO ESPROPRIAZIONI:

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 2 del 2016

«Il commissario ad acta può emanare il provvedimento di acquisizione coattiva

previsto dall'articolo 42-bis d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 - Testo unico delle

disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica

utilità -:

a) se nominato dal giudice amministrativo a mente degli artt. 34, comma 1, lett.

e), e 114, comma, 4, lett. d), c.p.a., qualora tale adempimento sia stato previsto dal

giudicato de quo agitur;

b) se nominato dal giudice amministrativo a mente dell'art. 117, comma 3, c.p.a.,

qualora l'amministrazione non abbia provveduto sull'istanza dell'interessato che

abbia sollecitato l'esercizio del potere di cui al menzionato art. 42-bis».

FATTO E DIRITTO

1. L'OGGETTO DEL PRESENTE GIUDIZIO.

1.1. L'oggetto del presente giudizio è costituito dal provvedimento reso dal commissario ad acta - nominato

in sede di esecuzione di un giudicato - recante, nella sostanza, l'emanazione di un decreto di

acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 - Testo unico delle disposizioni legislative e

regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità - (in prosieguo t.u. espr.), in danno della odierna

ricorrente.

1.2. Più in dettaglio viene in rilievo la domanda di esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza irrevocabile

… che, in accoglimento del ricorso proposto ...:

a) ha preso atto della irreversibile trasformazione di un appezzamento di terreno (di proprietà dell'istante) in

giardino pubblico ad opera del comune di Villa Castelli che, sebbene avesse disposto l'occupazione d'urgenza

dell'area, non aveva emanato il successivo decreto di esproprio;

b) ha condannato il comune a restituire l'area, ovvero a concludere un accordo transattivo, o, in alternativa, ad

emanare un provvedimento di acquisizione ai sensi dell'allora vigente art. 43 t.u. espr.;

c) ha scandito dettagliatamente la tempistica di ciascuna fase ed i relativi adempimenti, formulando minute

prescrizioni anche in ordine ai criteri di liquidazione, per equivalente monetario, del danno derivante dalla perdita

della proprietà e del possesso sine titulo, oltre che degli accessori;

d) ha espressamente stabilito che, trascorsi i termini concessi per ciascuno degli alternativi adempimenti, la parte

privata avrebbe potuto agire in giudizio per l'esecuzione della decisione;

(omissis)

2. IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO.

2.1. Con una prima sentenza irrevocabile resa in esecuzione del giudicato de quo agitur …

a) è stata assodata la sostanziale inerzia del comune ad eseguire il giudicato;

b) è stato ordinato all'ente di dare corso a tutti gli adempimenti previsti dal giudicato entro un breve termine (45

giorni);

c) …

2.2. Con una seconda sentenza irrevocabile resa sempre in esecuzione del giudicato - ..

a) è stato ritenuto applicabile in luogo dell'art. 43, l'art. 42-bis t.u. espr.;

b) si è preso atto che il comune non ha inteso concludere un accordo transattivo;

c) sono state rinnovate le statuizioni alternative, relative alla restituzione del terreno ovvero all'emanazione di un

provvedimento ex art. 42-bis, accompagnate dalle consequenziali misure risarcitorie;

21

d) è stato concesso un ulteriore termine di 60 giorni;

e) è stato nominato il commissario ad acta con il mandato di provvedere a tutti gli adempimenti occorrenti per

l'ottemperanza;

f) …

2.3. Nella perdurante inerzia del comune, il commissario ad acta ha emanato, …, un provvedimento ex

art. 43 t.u. espr. determinando il valore del bene ed il risarcimento del danno.

2.4. Il provvedimento commissariale è stato reclamato …., ex art. 114, comma 6, c.p.a., sotto molteplici aspetti

(cfr. atto notificato in data 4 dicembre 2012).

2.5. Il reclamo è stato respinto dall'impugnata sentenza del T.a.r. di Lecce, Sez. I, n. 383 del 21 febbraio 2013 che,

previa riqualificazione del provvedimento ex art. 42-bis cit.:

a) ha escluso che il commissario dovesse agire nel contraddittorio delle parti, acquisendo il contributo istruttorio

delle medesime;

b) ha riconosciuto congrua la determinazione del valore del terreno in relazione alla sua inedificabilità;

c) ha escluso che la stima dell'Agenzia del territorio, posta a base del provvedimento commissariale, fosse stata in

precedenza ritenuta incongrua o inutilizzabile dal medesimo T.a.r.

3. IL GIUDIZIO DI APPELLO DAVANTI ALLA IV SEZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO.

3.1. Con ricorso ritualmente notificato e depositato .. ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza

articolando due autonomi motivi:

a) con il primo (pagine 7-9 del gravame), ha contestato che il commissario fosse esonerato dall'obbligo di

acquisire i pareri delle parti che sarebbero stati, viceversa, rilevanti e decisivi in punto di scelta fra restituzione del

bene o acquisizione coattiva;

b) con il secondo (pagine 9-10 del gravame), ha ribadito che il commissario, per individuare il valore del bene,

non avrebbe dovuto basarsi sulla stima dell'Agenzia del territorio perché tale valutazione era stata considerata

inappropriata dallo stesso T.a.r. nella sentenza n. 2241 del 2009; da qui la violazione del mandato conferito

all'ausiliario dalla sentenza n. 928 del 2012 e l'invalidità, in parte qua, del provvedimento reclamato.

3.2. Si è costituito il comune confutando analiticamente la fondatezza dell'appello di cui ha chiesto il rigetto.

4. L'ORDINANZA DI RIMESSIONE DELLA CAUSA ALL'ADUNANZA PLENARIA ED I SUCCESSIVI

SVILUPPI PROCESSUALI.

4.1. Con ordinanza n. 3347 del 3 luglio 2014, la IV Sezione del Consiglio di Stato:

a) ha ricostruito, in chiave storica e sistematica, l'istituto dell'acquisizione disciplinato prima dall'art. 43 e poi

dall'art. 42-bis t.u. espr.;

b) ha dato atto del contrasto registratosi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato circa la possibilità che in

sede di esecuzione del giudicato il giudice amministrativo, direttamente o per il tramite dell'intervento

del commissario ad acta, possa o meno ordinare alla P.A. di adottare un provvedimento ex art. 42-bis,

ovvero limitarsi a sollecitare l'esercizio di tale potere, fissando all'uopo un termine, scaduto il quale non

rimarrebbe che assicurare la sola tutela restitutoria;

c) ha rilevato la pendenza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 42-bis t.u. espr. sollevata dalle

Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. ordinanze 13 gennaio 2014, nn. 441 e 442);

d) all'esplicito scopo di meglio garantire l'armonico coordinamento (ed il rispetto) dei principi della effettività

della tutela giurisdizionale, da un lato, e dell'autorità del giudicato, dall'altro, ha sottoposto all'Adunanza planaria

la seguente questione ovvero «se nella fase di ottemperanza - con giurisdizione, quindi, estesa al merito -

ad una sentenza avente ad oggetto una domanda demolitoria di atti concernenti una procedura

espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad acta,

l'adozione della procedura semplificata di cui all'art. 42-bis t.u. espr.».

4.2. Con ordinanza dell'Adunanza plenaria - n. 28 del 15 ottobre 2014 - è stato sospeso il presente giudizio in

attesa della definizione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.

4.3. Con sentenza parzialmente interpretativa di rigetto n. 71 del 30 marzo 2015 - … - la Corte costituzionale, in

relazione ai vari parametri evocati, ha dichiarato in parte inammissibile, in parte infondata, ed in parte non

22

fondata ai sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del più volte menzionato art. 42-

bis.

4.4. Il giudizio è stato ritualmente proseguito …

5. LA NATURA GIURIDICA, I PRESUPPOSTI APPLICATIVI E GLI EFFETTI DELLA

ACQUISIZIONE EX ART. 42-BIS T.U. ESPR.

5.1. Si riporta per comodità di lettura il più volte menzionato art. 42-bis, t.u. espr. – (omissis)

5.2. Prima di procedere alla risoluzione del quesito sottoposto all'Adunanza plenaria, è indispensabile ricostruire

(limitandosi a quanto di interesse) il quadro dei condivisibili principi che, successivamente all'ordinanza di

rimessione della IV Sezione, sono stati elaborati dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 71 del 2015 cit.), dalle

Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. decisioni n. 735 del 19 gennaio 2015 e n. 22096 del 29 ottobre 2015)

e dal Consiglio di Stato (cfr. sentenze Sez. IV, n. 4777 del 19 ottobre 2015; n. 4403 del 21 settembre 2015; n.

3988 del 26 agosto 2015; n. 2126 del 27 aprile 2015; n. 3346 del 3 luglio 2014), all'interno della consolidata

cornice di tutele delineata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per contrastare il deprecato fenomeno delle

«espropriazioni indirette» del diritto di proprietà o di altri diritti reali (omissis).

5.3. In linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa,

occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell'amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può

comportare l'acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. - con la conseguente

decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull'occupazione

contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene - che viene a cessare

solo in conseguenza:

a) della restituzione del fondo;

b) di un accordo transattivo;

c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una certa prospettazione delle SS.UU.) da parte del

proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della

irreversibile trasformazione del fondo;

d) di una compiuta usucapione, ma solo nei ristretti limiti perspicuamente individuati dal Consiglio di Stato allo

scopo di evitare che sotto mentite spoglie (i.e. alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti

sull'Amministrazione responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione

dell'art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu (Sez. IV, n. 3988 del 2015 e n. 3346 del 2014); dunque a

condizione che:

I) sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta;

II) si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis;

III) si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del t.u. espr. (30 giugno 2003)

perché solo l'art. 43 del medesimo t.u. aveva sancito il superamento dell'istituto dell'occupazione acquisitiva e

dunque solo da questo momento potrebbe ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il «... giorno in cui il diritto può

essere fatto valere»;

e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis t.u. espr.

5.4. Chiarito che l'acquisizione ex art. 42-bis cit. costituisce una delle possibili cause legali di estinzione di un fatto

illecito e che essa trova legittima applicazione anche alle situazioni prodottesi prima della sua entrata in vigore (§

6.9.1. della sentenza della Corte cost. n. 71 del 2015 cit., che ha così definitivamente fugato i dubbi adombrati

dalle Sezioni unite al § 4 della sentenza n. 735 del 2015 cit.), giova evidenziare che:

a) la disposizione introduce una norma di natura eccezionale; tale conclusione è coerente con l'impostazione

tradizionale che considera a tale stregua le norme limitatrici della sfera giuridica dei destinatari, con particolare

riguardo a quelle che attribuiscono alla P.A. un potere ablatorio.

Un atto definibile come espropriazione in sanatoria stricto sensu, e basato sulla illiceità dell'occupazione di un

bene altrui, infatti, segnerebbe una interruzione della consequenzialità logica della disciplina generale (europea e

nazionale) di riferimento in materia di acquisizione coattiva della proprietà privata, ponendosi in contrasto con

essa attraverso una discriminazione - pure sancita dalla legge - del trattamento giuridico di situazioni soggettive

che altrimenti sarebbero destinatarie della disciplina generale; da qui l'indefettibile necessità, ex art. 14, disp. prel.

23

c.c., di una esegesi rigorosa della norma medesima che sia, ad un tempo, conforme al sistema di tutela della

proprietà privata disegnato dalla CEDU ma rispettosa del valore costituzionale della funzione sociale della

proprietà privata sancito dall'art. 42, comma 2, Cost. (che costituisce il fondamento del potere attribuito alla

P.A.), secondo un approccio metodologico basato su una visione sistemica, multilivello e comparata della tutela

dei diritti, a sua volta incentrata sulla considerazione dell'ordinamento nel suo complesso, quale risultante dalla

interazione fra norme (interne e internazionali) e principi delle Corti (interne e sovranazionali);

b) l'art. 42-bis, invece, configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale,

semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque

ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato

dall'Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì

quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella

soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione

di qualsiasi opera dell'infrastruttura realizzata sine titulo;

c) un tale obbiettivo istituzionale, inoltre, deve emergere necessariamente da un percorso motivazionale -

rafforzato, stringente e assistito da garanzie partecipativo rigorose - basato sull'emersione di ragioni attuali ed

eccezionali che dimostrino in modo chiaro che l'apprensione coattiva si pone come extrema ratio (perché non

sono ragionevolmente praticabili soluzioni alternative e che tale assenza di alternative non può mai consistere

nella generica «... eccessiva difficoltà ed onerosità dell'alternativa a disposizione dell'amministrazione...»), per la

tutela di siffatte imperiose esigenze pubbliche;

d) sono coerenti con questa impostazione:

I) le importanti guarentigie previste per il destinatario dell'atto di acquisizione sotto il profilo della misura

dell'indennizzo (avente natura indennitaria secondo Cass. civ., Sez. un., n. 2209 del 2015 cit.), valutato a valore

venale (al momento del trasferimento, alla stregua del criterio della taxatio rei, senza che, dunque, ci siano somme

da rivalutare ma, in ogni caso, tenuto conto degli ulteriori parametri individuati dagli artt. 33 e 40 t.u. espr.),

maggiorato della componente non patrimoniale (dieci per cento senza onere probatorio per l'espropriato), e con

salvezza della possibilità, per il proprietario, di provare autonome poste di danno;

II) la previsione del coinvolgimento obbligatorio della Corte dei conti in una vicenda che produce

oggettivamente (e indipendentemente dagli eventuali profili soggettivi di responsabilità da accertarsi nelle

competenti sedi) un aggravio sensibile degli esborsi a carico della finanza pubblica;

e) per evitare che l'eccezionale potere ablatorio previsto dall'art. 42-bis possa essere esercitato sine die in

violazione dei valori costituzionali ed europei di certezza e stabilità del quadro regolatorio dell'assetto dei

contrapposti interessi in gioco, la disciplina ivi dettata è inserita in (ed arricchita da) un più ampio contesto

ordinamentale che - in ragione della sussistenza dell'obbligo della P.A. di valutare se emanare un atto tipico

sull'adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto - prevede per il proprietario strumenti adeguati di

reazione all'inerzia della P.A., esercitabili davanti al giudice amministrativo, sia attraverso il c.d. "rito silenzio"

(artt. 34 e 117 c.p.a.), sia in sede di ordinario giudizio di legittimità avente ad oggetto il procedimento ablatorio

sospettato di illegittimità (o altro giudizio avente ad oggetto la tutela reipersecutoria, come verificatosi nel caso di

specie), secondo le coordinate esegetiche esplicitamente stabilite dalla sentenza n. 71 del 2015 (in particolare §

6.6.3.);

f) assume un rilievo centrale (in particolare ai fini della risoluzione del quesito sottoposto all'Adunanza plenaria,

come si vedrà meglio in prosieguo) un ulteriore elemento caratterizzante l'istituto in esame, ovvero l'impossibilità

che l'Amministrazione emani il provvedimento di acquisizione in presenza di un giudicato che abbia disposto la

restituzione del bene al proprietario; tale elemento - valorizzato dalla sentenza n. 71 del 2015 in coerenza coi

principi elaborati dalla Corte di Strasburgo - si desume implicitamente dalla previsione del comma 2 dell'art. 42-

bis nella parte in cui consente all'autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad

oggetto l'annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel corso del successivo eventuale giudizio di

ottemperanza), ma non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio ma

anche esplicitamente restitutorio (come meglio si dirà in prosieguo);

24

g) ne consegue che la scelta che l'amministrazione è tenuta ad esprimere nell'ipotesi in cui si verifichi una delle

situazioni contemplate dai primi due commi dell'art. 42-bis, non concerne l'alternativa fra l'acquisizione

autoritativa e la concreta restituzione del bene, ma quella fra la sua acquisizione e la non acquisizione, in quanto

la concreta restituzione rappresenta un semplice obbligo civilistico - cioè una mera conseguenza legale della

decisione di non acquisire l'immobile assunta dall'amministrazione in sede procedimentale - ed essa non

costituisce, né può costituire, espressione di una specifica volontà provvedimentale dell'autorità, atteso che,

nell'adempiere gli obblighi di diritto comune, l'amministrazione opera alla stregua di qualsiasi altro soggetto

dell'ordinamento e non agisce iure auctoritatis;

h) per concludere sul punto utilizzando un argomento esegetico caro all'analisi economica del diritto, può dirsi

che la nuova disposizione, in buona sostanza, ha evitato che si riproducesse il vulnus arrecato dal superato art. 43

t.u. espr., ovvero la possibilità, accordata dalla norma all'epoca vigente, di far regredire la property rule (che

dovrebbe assistere il privato titolare della risorsa), a liability rule (con facoltà della pubblica amministrazione di

acquisire a propria discrezione l'altrui bene con il solo pagamento di una compensazione pecuniaria),

introducendo pragmaticamente una regola di second best, da un lato, riducendo al minimo l'ambito applicativo

dell'appropriazione coattiva, dall'altro, evitando che tale strumento divenga di uso routinario - causa maggiori

costi, responsabilità erariale, impossibilità di far valere l'onerosità della restituzione quale giusta causa di

acquisizione del bene, partecipazione rafforzata del proprietario alla scelta finale, motivazione esigente e rigorosa

sulla impossibilità di configurare soluzioni diverse - configurandosi come una normale alternativa

all'espropriazione ordinaria: in quest'ottica la procedura prevista dall'art. 42-bis non rappresenta più (per usare il

linguaggio della Corte di Strasburgo) il punto di emersione di una defaillance structurelle dell'ordinamento

italiano (rispetto a quello europeo) ma costituisce, essa stessa, espropriazione adottata secondo il canone della

«buona e debita forma» predicato dal paradigma europeo.

6. IL POTERE SOSTITUTIVO DEL COMMISSARIO AD ACTA E L'ADOZIONE DEL

PROVVEDIMENTO EX ART. 42-BIS T.U. ESPR.

6.1. La possibilità di emanazione del provvedimento ex art. 42-bis in sede di ottemperanza, da parte del giudice

amministrativo o per esso dal commissario ad acta, non può essere predicata a priori e in astratto ma, al

contrario, come bene testimonia il caso di specie, postula una risposta articolata che prenda

necessariamente le mosse dal contesto processuale in cui è chiamato ad operare il giudice (ed il suo

ausiliario) e lo conformi ai principi dianzi illustrati (in particolare al § 5.4.).

6.2. Si è visto in precedenza (retro § 5.4., lett. f), che l'effetto inibente (all'emanazione del provvedimento di

acquisizione) del giudicato restitutorio costituisce elemento essenziale dell'istituto disciplinato dall'art. 42-bis nella

lettura costituzionalmente orientata che ne ha fatto il giudice delle leggi in armonia con la CEDU:

conseguentemente in presenza di un giudicato restitutorio il provvedimento di acquisizione non può essere

emanato.

Si pone il problema della individuazione del giudicato restitutorio: nulla quaestio nel caso in cui il giudicato

(amministrativo o civile) disponga espressamente, sic et simpliciter, la restituzione del bene, con l'unica

precisazione che una tale statuizione restitutoria potrebbe sopravvenire anche nel corso del giudizio di

ottemperanza. Si tratta di una conseguenza fisiologica della naturale portata ripristinatoria e restitutoria del

giudicato di annullamento di provvedimenti lesivi di interessi oppositivi d'indole espropriativa (cfr. C.d.S., Ad.

plen. 29 aprile 2005, n. 2; Ad. plen., 4 dicembre 1998, n. 8; Ad. plen., 22 dicembre 1982, n. 19).

In tutti questi casi è certo che l'Amministrazione non potrà emanare il provvedimento ex art. 42-bis.

6.3. Tuttavia, costituisce fatto notorio che, sovente, durante la pendenza del processo avente ad oggetto la

procedura espropriativa, il fondo subisce alterazioni tali da rendere necessario il compimento, ai fini della sua

restituzione, di rilevanti attività giuridiche o materiali; a fronte di una situazione di tal fatta si possono verificare le

seguenti evenienze:

I) il privato potrebbe non avere un interesse reale ed attuale alla tutela reipersecutoria - preferendo evitare di

essere coinvolto in attività spesso defatiganti - e dunque non propone una rituale domanda di condanna

dell'Amministrazione alla restituzione previa riduzione in pristino, secondo quanto previsto dal combinato

disposto degli artt. 30, comma 1, e 34, comma 1, lett. c) ed e), c.p.a.; in questo caso il giudicato si presenterebbe

25

come puramente cassatorio, per scelta (e a tutela) del proprietario, ma non si produrrebbe l'effetto inibitorio

dell'emanazione del provvedimento ex art. 42-bis;

II) il proprietario ha interesse alla restituzione e propone la relativa domanda ma il giudice non si pronuncia o si

pronuncia in modo insoddisfacente; in tal caso il rimedio è affidato ai normali strumenti di reazione processuale,

in mancanza (o all'esito) dei quali se il giudicato continua a non recare la statuizione restitutoria, comunque

l'Amministrazione potrà emanare il provvedimento ex art. 42-bis non sussistendo la preclusione inibente dianzi

richiamata.

6.4. A diverse conclusioni deve giungersi allorquando, come verificatosi nella vicenda in trattazione, il giudicato

rechi, in via esclusiva o alternativa, la previsione puntuale dell'obbligo dell'Amministrazione di emanare un

provvedimento ex art. 42-bis.

In realtà è bene precisare subito che non esiste la possibilità, tranne si versi in una situazione processuale

patologica, che il giudice condanni direttamente in sede di cognizione l'Amministrazione a emanare tout court il

provvedimento in questione: vi si oppongono, da un lato, il principio fondamentale di separazione dei poteri (e

della riserva di amministrazione) su cui è costruito il sistema costituzionale della Giustizia Amministrativa,

dall'altro, uno dei suoi più importanti corollari processuali consistente nella tassatività ed eccezionalità dei casi di

giurisdizione di merito sanciti dall'art. 134 c.p.a. fra i quali non si rinviene tale tipologia di contenzioso (cfr. negli

esatti termini C.d.S., Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5).

(omissis)

6.5. Come si è testé rilevato è ben possibile, invece, che il giudice amministrativo, adito in sede di

cognizione ordinaria ovvero nell'ambito del c.d. rito silenzio, a chiusura del sistema, imponga

all'amministrazione di decidere - ad esito libero, ma una volta e per sempre, nell'ovvio rispetto di tutte le

garanzie sostanziali e procedurali dianzi illustrate - se intraprendere la via dell'acquisizione ex art. 42-bis

ovvero abbandonarla in favore delle altre soluzioni individuate in precedenza (retro § 5.3.).

In questo caso non vi è ragione di discostarsi dai principi recentemente enucleati dall'Adunanza plenaria di

questo Consiglio (cfr. sentenza 15 gennaio 2013, n. 2) in sintonia con la Corte europea dei diritti dell'uomo (cfr.

sentenza 18 novembre 2004, Zazanis), alla stregua dei quali l'effettività delle tutela giurisdizionale e il

carattere poliforme del giudicato amministrativo, impongono di darvi esecuzione secondo buona fede e

senza che sia frustrata la legittima aspettativa del privato alla definizione stabile del contenzioso e del

contesto procedimentale: in tali casi, la totale inerzia dell'autorità o l'attività elusiva di carattere

soprassessorio posta in essere da quest'ultima, consentiranno al giudice adito in sede di ottemperanza

di intervenire, secondo lo schema disegnato dagli artt. 112 e ss. c.p.a., direttamente o (più

normalmente) di nominare un commissario ad acta che procederà, nel rispetto delle prescrizioni e dei

limiti dianzi illustrati, a valutare se esistono le eccezionali condizioni legittimanti l'acquisizione

coattiva del bene ex art. 42-bis.

7. L'Adunanza plenaria restituisce gli atti alla IV Sezione del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 99,

commi 1, ultimo periodo, e 4, c.p.a., affinché si pronunci sull'appello in esame nel rispetto del seguente

principio di diritto: «Il commissario ad acta può emanare il provvedimento di acquisizione coattiva

previsto dall'articolo 42-bis d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 - Testo unico delle disposizioni legislative e

regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità -:

a) se nominato dal giudice amministrativo a mente degli artt. 34, comma 1, lett. e), e 114, comma, 4, lett.

d), c.p.a., qualora tale adempimento sia stato previsto dal giudicato de quo agitur;

b) se nominato dal giudice amministrativo a mente dell'art. 117, comma 3, c.p.a., qualora

l'amministrazione non abbia provveduto sull'istanza dell'interessato che abbia sollecitato l'esercizio del

potere di cui al menzionato art. 42-bis».

(omissis)

26

4. POTERE AMMINISTRATIVO SUCCESSIVO AL GIUDICATO: Consiglio

di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 2 del 2013

L’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. cpa (ai

quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la attuale

polisemicità del “giudizio” e dell’ “azione di ottemperanza”: sotto tale unica

definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, talaltre di chiara

natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale

presupposto, di una sentenza passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è

rappresentata dal dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato

dall’art. 24 Cost. Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il

tramite dell’art. 113 cpa, deve essere attualmente considerato come il giudice naturale

della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle

obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio

presupposto.

L’instaurazione di due distinti giudizi – volti a definire la concreta e precisa

configurazione della patologia dell’atto adottato successivamente al giudicato, ovvero

se esso debba essere considerato nullo, in quanto elusivo o violativo di giudicato,

ovvero illegittimo per vizi propri e per la prima volta rilevabili - non elimina la

sostanziale unicità di una domanda che presuppone implicitamente la richiesta al

giudice, insieme all’esame della natura della patologia dell’atto, la corretta

qualificazione della tipologia dell’azione. Il che, come è evidente, non può che avvenire

se non attraverso un esame congiunto e comparativo delle due domande, ancorché le

stesse introducano – per effetto del sistema processuale vigente – due giudizi

tipologicamente distinti, l’uno di cognizione l’altro di ottemperanza. Ciò appare

coerente con il principio di effettività (completezza) della tutela giurisdizionale,

rendendo possibile la valutazione complessiva del giudice di una pretesa di parte

sostanzialmente unitaria.

Al fine di consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte dall’interessato

a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un giudicato, le doglianze relative

devono essere dedotte davanti al giudice dell’ottemperanza, sia in quanto questi è il

giudice naturale dell’esecuzione della sentenza, sia in quanto egli è il giudice

competente per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, quale è la nullità.

Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato

dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato,

dichiarandone così la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire la

improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda.

Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione

dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la

cognizione.

27

In caso di rigetto della domanda di nullità la conversione dell’azione può essere

disposta dal giudice dell’ottemperanza e non viceversa, perché solo questo giudice, per

effetto degli articoli 21 septies l. 7 agosto 1990, n. 241 e 114, co. 4, lett. b), cpa, è

competente, in relazione ai provvedimenti emanati dall’amministrazione per

l’adeguamento dell’attività amministrativa a seguito di sentenza passata in giudicato,

per l’accertamento della nullità di detti atti per violazione o elusione del giudicato, e

dunque della più grave delle patologie delle quali gli atti suddetti possono essere affetti.

Non può escludersi, in via generale, la rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame del

giudice; tuttavia, la riedizione del potere deve essere assoggettata a precisi limiti e

vincoli: l’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati

presupposti relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei

confronti dell’azione amministrativa. Tale assetto appare, oltretutto, coerente con

l’impostazione soggettiva dell’azione giudiziale amministrativa e in linea con

l’orientamento interpretativo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui

l’amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione esecutiva del giudice

amministrativo, non può rimettere in discussione quanto accertato in sede

giurisdizionale.

Anche laddove non siano i fatti ad essere messi in discussione bensì la loro valutazione,

non va dimenticato che alla stregua del principio ribadito anche dall’art. 112, comma

primo, del codice, su tutte le parti incombe l’obbligo di dare esecuzione ai

provvedimenti del giudice; e ciò vale specialmente per la pubblica amministrazione, in

un’ottica di leale ed imparziale esercizio del munus publicum, in esecuzione dei principi

costituzionali scanditi dall’art. 97 Cost. e della Convenzione europea dei diritti

dell’uomo (ove il diritto alla esecuzione della pronuncia del giudice è considerato quale

inevitabile e qualificante complemento della tutela offerta dall’ordinamento in sede

giurisdizionale).

1. Vengono poste all’esame dell’adunanza plenaria rilevanti questioni che attengono, in primo luogo,

all’esigenza di conferire adeguata effettività alle sentenze del giudice amministrativo e, al contempo,

alla necessità, da un lato, di contenere in tempi ragionevoli la risposta giurisdizionale e, dall’altro, di

evitare inutili duplicazioni di accesso alla tutela giurisdizionale stessa.

Quanto a quest’ultimo profilo, il caso di specie appare emblematico nell’evidenziare le difficoltà per gli interessati

di individuare un chiaro percorso al riguardo. Il ricorrente, vincitore in sede cognitoria, ha difatti attivato due

ricorsi, uno in sede di ottemperanza (dichiarato inammissibile dal giudice di primo grado) ed uno in sede di

cognizione (accolto per un motivo formale) e tale modus operandi è di frequente utilizzo in presenza di un

giudicato, a dimostrazione delle incertezze tuttora esistenti sulle tecniche di tutela in materia.

Sul piano sostanziale, poi, il problema portato all’attenzione di questo consesso risiede nella individuazione di

un equilibrato assetto tra giudicato e riedizione del potere amministrativo, assetto che peraltro non può

che essere delineato sul piano dei principi, poiché il concreto atteggiarsi del singolo giudicato nei

confronti del sopravvenuto esercizio della funzione amministrativa non può che essere rimesso

all’analisi della vicenda specifica (cfr., C.d.S., A.P., 22 dicembre 1982 n. 19).

2. Il caso oggetto dei presenti giudizi, l’uno di ottemperanza e l’altro di cognizione e portati unitariamente

all’esame dell’adunanza plenaria, postula necessariamente, anche al fine preliminare di verificare la correttezza

della riunione, che sia delineata l’attuale configurazione del giudizio di ottemperanza, quale essa risulta,

non solo dalle acquisizioni giurisprudenziali, ma anche e soprattutto alla luce del codice del processo

amministrativo.

28

Ebbene, ciò che risulta evidente dall’esame della disciplina codicistica è che il giudizio di ottemperanza (cui

sono state già dedicate le sentenze nn. 2, 18 e 24 del 2012 dell’adunanza plenaria) presenta un contenuto

composito, entro il quale convergono azioni diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come

tradizionalmente configurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei

confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio

ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il

giudice competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito

(principio che peraltro, come è noto, non ha copertura costituzionale).

Più precisamente, la disciplina dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di

esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, presenta profili affatto diversi, non solo

quanto al “presupposto” (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga

ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere:

a) “l’attuazione” delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro

giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio

2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634) e del giudice tributario, o, più in generale, di quei

provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo “per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza”

(art. 112, comma 2). E già in questa ipotesi tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impedisce – come

è noto - di ricondurre la natura dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione;

b) la condanna “al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in

giudicato della sentenza” (art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione è evidentemente attratta dal giudizio di

ottemperanza, poiché le somme ulteriori, al pagamento delle quali l’amministrazione è tenuta, hanno natura di

obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già pronunciata una precedente sentenza

o provvedimento equiparato);

c) il “risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica,

totale o parziale, del giudicato. .” (art. 112, comma 3). In questo caso l’azione, che viene definita risarcitoria dallo

stesso Codice, non è rivolta all’ “attuazione” di una precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova

in questi ultimi solo il presupposto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperibile proprio perché è

l’ottemperanza stessa che non è realizzata, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni

di economia processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale (a prescindere dal rispetto del doppio

grado di giudizio), attribuita al giudice dell’ottemperanza;

d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e

ciò sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione

della sentenza passata in giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta violazione o

elusione del giudicato (art. 112, comma 3, ult. parte); danni questi ultimi che possono derivare sia dalla ritardata

attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia direttamente

(e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone l’effetto causativo di danno.

Come è dato osservare, dunque, nell’ambito del giudizio di ottemperanza, il Codice disciplina azioni diverse (al di

là della mera – e tradizionale – distinzione inerente la riconducibilità dell’ “attuazione” richiesta ad una

“esecuzione” della sentenza (o provvedimento equiparato), ovvero a più ampi ambiti di conformazione della

successiva azione amministrativa, in dipendenza del giudicato medesimo.

A tale quadro, va aggiunto il ricorso, ex art. 112, comma 5, proposto al fine di “ottenere chiarimenti in ordine alle

modalità dell’ottemperanza”: anche questo non presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso

sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge anzitutto dalla stessa terminologia usata dal

legislatore, il quale - lungi dall’affermare che è l’ “azione di ottemperanza” ad essere utilizzabile in questi casi -

afferma che è “il ricorso” introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad essere a tali fini

utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a differenza dell’azione di ottemperanza, che è

naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra procedura a questa

equiparabile, in questo caso il ricorso appare proponibile dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica

Amministrazione soccombente nel precedente giudizio).

29

In conclusione, l’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. cpa (ai quali occorre

doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la attuale polisemicità del “giudizio” e dell’

“azione di ottemperanza”, dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune

meramente esecutive, talaltre di chiara natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato

dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in giudicato, e la cui comune giustificazione

è rappresentata dal dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost. Di

conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 cpa, deve essere

attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa

successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il

proprio presupposto.

3. E’ in questo quadro normativo che occorre, dunque, procedere preliminarmente all’esame dell’ammissibilità

della riunione dei due appelli in esame, operata dal collegio remittente.

Ebbene, ritiene questa adunanza plenaria che tale riunione sia possibile, tenuto conto dell’esigenza di simultaneus

processus che caratterizza il tipo di doglianze prospettate dai ricorrenti.

E’ noto che, in via generale, la riunione dei ricorsi, per ragioni di connessione (art. 70 cpa), può essere disposta in

riferimento a cause che attengono al medesimo tipo di giudizio e sempre che i ricorsi pendano nel medesimo

“grado”. Tanto si ricava, sempre in via generale, oltre che dalla lettura delle disposizioni del codice di procedura

civile (cui il codice del processo amministrativo effettua rinvio: art. 39, comma 1, cpa), anche dalle norme dello

stesso Codice del processo amministrativo. Infatti, l’art. 32, nel disciplinare l’ipotesi di “pluralità delle domande e

conversione delle azioni”, prevede che “è sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse”.

Nondimeno, l’adunanza ritiene che i due giudizi in questione, pur nella evidente differenza di tipologia, debbano

essere trattati in modo unitario.

Ed infatti, proprio perché ciò che viene richiesto al giudice, sia pure per il tramite dell’instaurazione di due

distinti giudizi, è innanzi tutto la concreta e precisa configurazione della patologia dell’atto adottato

(precisamente: se esso debba essere considerato nullo, in quanto elusivo o violativo di giudicato, ovvero

illegittimo per vizi propri e per la prima volta rilevabili), il giudice stesso non può che essere chiamato ad un

esame complessivo della vicenda.

L’instaurazione di due distinti giudizi – che è conseguenza di una incertezza derivante dallo stesso ordinamento

processuale – non elimina la sostanziale unicità di una domanda che presuppone implicitamente la richiesta al

giudice, insieme all’esame della natura della patologia dell’atto, la corretta qualificazione della tipologia

dell’azione. Il che, come è evidente, non può che avvenire se non attraverso un esame congiunto e comparativo

delle due domande, ancorchè le stesse introducano – per effetto del sistema processuale vigente – due giudizi

tipologicamente distinti, l’uno di cognizione l’altro di ottemperanza.

Fermi, dunque, i principi generali in tema di riunione sopra individuati, in questo caso - provvisto di una sua

evidente specificità - la riunione dei ricorsi appare coerente con il principio di effettività (completezza) della

tutela giurisdizionale, rendendo possibile la valutazione complessiva del giudice di una pretesa di parte

sostanzialmente unitaria.

In attuazione di quanto esposto, occorre quindi ritenere corretto che nel caso di specie si sia proceduto alla

riunione dei due appelli originati, rispettivamente, dal giudizio di ottemperanza e dal giudizio di cognizione.

4. Quanto ora affermato sulla correttezza della riunione dei due appelli sollecita a questa adunanza plenaria una

ulteriore riflessione.

Ed infatti, le medesime ragioni – che il Collegio ha qui evidenziato per così dire ex post, a giustificazione della

riunione disposta dal giudice remittente – rendono possibile, sia pure nei termini e limiti di seguito esposti,

sostenere l’ammissibilità di un solo ricorso, in luogo dei due che la parte è spesso, per ovvie ragioni di “cautela

processuale”, necessitata ad esperire avverso i provvedimenti emanati dall’amministrazione successivamente al

giudicato di annullamento di proprio precedente provvedimento.

In via generale può ammettersi che, al fine di consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte

dall’interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un giudicato, le doglianze relative vengano

dedotte davanti al giudice dell’ottemperanza, sia in quanto questi è il giudice naturale dell’esecuzione della

30

sentenza, sia in quanto egli è il giudice competente per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, quale è

la nullità.

Naturalmente questi in presenza di una tale opzione processuale è chiamato in primo luogo a qualificare le

domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece hanno a

che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie

conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori.

Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione

costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone così la nullità, a tale dichiarazione non potrà

che seguire la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda.

Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione dell’azione per la

riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione.

Ciò appare consentito dall’art. 32, co. 2, primo periodo, cpa, in base al quale “il giudice qualifica l’azione proposta

in base ai suoi elementi sostanziali”, e la conversione dell’azione è ben possibile – ai sensi del secondo periodo

del medesimo comma – “sussistendone i presupposti”.

Ciò peraltro presuppone che tale azione sia proposta non già entro il termine proprio dell’actio iudicati (dieci

anni, ex art. 114, co. 1, cui rinvia l’art. 31, co. 4, cpa), bensì entro il termine di decadenza previsto dall’art. 41 cpa:

il rispetto del termine decadenziale per la corretta instaurazione del contraddittorio è reso necessario, oltre che

dalla disciplina del giudizio impugnatorio, anche dall’espresso richiamo alla necessità di sussistenza dei

“presupposti” (tra i quali occorre certamente comprendere il rispetto del termine decadenziale), effettuato

dall’art. 32, co. 2, cpa.

Giova osservare, infine, che la conversione dell’azione può essere disposta dal giudice dell’ottemperanza e non

viceversa, perché solo questo giudice, per effetto degli articoli 21 septies l. 7 agosto 1990, n. 241 e 114, co. 4, lett.

b), cpa, è competente, in relazione ai provvedimenti emanati dall’amministrazione per l’adeguamento dell’attività

amministrativa a seguito di sentenza passata in giudicato, per l’accertamento della nullità di detti atti per

violazione o elusione del giudicato, e dunque – come si è già evidenziato - della più grave delle patologie delle

quali gli atti suddetti possono essere affetti.

5. Ciò premesso e venendo al caso in esame, è ben noto come sia jus receptum l’assunto che il giudicato

amministrativo si presenti in modo poliforme, a seconda delle situazioni giuridiche coinvolte e delle

censure dedotte.

Infatti, il ricorrente può far valere mere censure formali nei confronti dell’azione amministrativa, ovvero vizi più

pregnanti, che afferiscono alla sussistenza dei presupposti per ottenere il bene della vita; la sua domanda poi, può

tendere ad opporsi ad un’azione della p.a, (in questo caso di frequente vengono prospettate censure formali, che

comunque consentono di sterilizzare l’iniziativa della p.a.), ovvero può prospettare una pretesa (e in questo caso

contemplerà usualmente censure di carattere sostanziale, tendenti a dimostrare la fondatezza della pretesa stessa).

E dunque è altrettanto pacifico che la sentenza del giudice amministrativo si atteggia in modo differente a

seconda che abbia ad oggetto una situazione oppositiva o una vera e propria pretesa nonché a seconda

del vizio accolto.

E’ in questo quadro variegato che va posta e risolta la questione dell’annoverabilità nell’ambito del giudicato non

solo del “dedotto” (ossia di ciò che espressamente è stato oggetto di contestazione ed esame), ma anche del

“deducibile” (id est: ciò che, pur non espressamente trattato, si pone come presupposto/corollario indefettibile

del thema decidendum).

Va premesso peraltro che la questione si può porre solo nei riguardi dell’attività oggetto di esame giudiziale, in

quanto tale anteriore a quest’ultimo: infatti, l’esigenza di certezza, propria del giudicato, ossia di un assetto

consolidato degli interessi coinvolti, non può proiettare l’effetto vincolante nei riguardi di tutte le situazioni

sopravvenute di riedizione di un potere, ove questo, pur prendendo atto della decisione del giudice, coinvolga

situazioni nuove e non contemplate in precedenza.

La questione si pone invece ove la riedizione del potere (come nel caso in esame) si concreti nel valutare

differentemente, in base ad una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o implicitamente, siano state

oggetto di esame da parte del giudice.

31

In tal caso l’adunanza plenaria ritiene che non può escludersi in via generale la rivalutazione dei fatti sottoposti

all’esame del giudice.

E’ ben consapevole l’adunanza delle tesi da tempo avanzate che, facendo leva sul principio di effettività della

giustizia amministrativa, prospettano la necessità di pervenire all’affermazione del divieto di ogni riedizione del

potere a seguito di un giudicato sfavorevole, ma non ritiene di poter aderire a tale indirizzo che appare

contrastante con la salvezza della sfera di autonomia e di responsabilità dell’amministrazione e non imposto dalle

pur rilevanti pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, come attestato dalla disciplina della materia in

Paesi dell’Unione europea a noi più vicini (si pensi alla Francia ed alla Germania) nei confronti dei quali

possiamo vantare un sistema di esecuzione del giudicato amministrativo – l’ottemperanza appunto – sicuramente

più avanzato.

Ma va subito aggiunto che la riedizione del potere deve essere assoggettata a precisi limiti e vincoli.

5.1. Anzitutto, poiché il cpa abilita all’utilizzo di mezzi di accertamento relativi alla esistenza dei presupposti della

pretesa e non alle mere modalità di esercizio dell’azione amministrativa, consegue che sempre di più l’azione

davanti al giudice amministrativo sia qualificabile come avente ad oggetto direttamente il fatto, senza doversi

limitare all’esame tramite il prisma dell’atto (cfr., in questo senso, C.d.S., adunanza plenaria, 23 marzo 2011, n. 3).

In questo modo, oltretutto, si recupera un lontano indirizzo giurisprudenziale, poi abbandonato in ossequio al

modello giuridico idealistico che per lunghi anni ha prevalso nel nostro ordinamento, secondo il quale si riteneva

possibile un immediato e diretto accesso al fatto nei casi in cui la pretesa al bene della vita non dovesse essere

filtrata da una valutazione discrezionale, rimessa alla esclusiva competenza della p.a.: cfr. C.d.S., IV, 13 giugno

1902, De Paulis contro Provincia di Aquila, con nota adesiva della migliore dottrina dell’epoca).

Da ciò discende che l’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti

relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei confronti dell’azione amministrativa (di

recente C.d.S., VI, 19 giugno 2012, n. 3569 ha affermato che l’ampiezza dell’accertamento sostanziale contenuto

nella sentenza passata in giudicato condiziona gli spazi di applicabilità anche della normativa sopravvenuta): tale

assetto appare, oltretutto, coerente con l’impostazione soggettiva dell’azione giudiziale amministrativa in

precedenza richiamata e in linea con l’orientamento interpretativo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,

secondo cui l’amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione esecutiva del giudice amministrativo, non

può rimettere in discussione quanto accertato in sede giurisdizionale (in questo senso, cfr. CEDU, 18 novembre

2004, Zazanis c. Grecia) .

5.2. Ma anche là dove non siano i fatti ad essere messi in discussione bensì la loro valutazione (come nel caso in

esame, in cui i dati sull’attività didattica erano incontestati ed è cambiata invece la loro valutazione), non va

dimenticato che alla stregua del principio ribadito anche dall’art. 112, comma primo, del codice, su tutte le parti

incombe l’obbligo di dare esecuzione ai provvedimenti del giudice; e ciò vale specialmente per la pubblica

amministrazione, in un’ottica di leale ed imparziale esercizio del munus publicum, in esecuzione dei principi

costituzionali scanditi dall’art. 97 Cost. e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ove il diritto alla

esecuzione della pronuncia del giudice è considerato quale inevitabile e qualificante complemento della tutela

offerta dall’ordinamento in sede giurisdizionale).

Tale richiamo non deve apparire come un formale appello a principi inveterati ma di scarsa rilevanza effettuale,

poiché l’esigenza di dare esecuzione secondo buona fede alla decisione giurisdizionale amministrativa è alla base

di qualsiasi ricostruzione interpretativa della materia: la pubblica amministrazione, infatti, ha l’obbligo di

soddisfare la pretesa del ricorrente vittorioso e di non frustrare la sua legittima aspettativa con

comportamenti elusivi.

Ed invero, occorre che la p.a. attivi una leale cooperazione per dare concreta attuazione alla pronuncia

giurisdizionale anche e soprattutto alla luce del fatto che nell’attuale contesto ordinamentale la risposta del

giudice amministrativo è caratterizzata da un assetto soggettivo, inteso come soddisfazione di una specifica

pretesa. E se è vero che la sua soddisfazione non può prescindere dall’ottimale assetto di tutti gli interessi

coinvolti ivi compresi quelli pubblici, è anche vero che ciò non può e non deve costituire un alibi per sottrarsi al

doveroso rispetto del giudicato.

32

Consegue da tutto ciò che la nuova operazione valutativa deve dimostrarsi il frutto della costatazione di

una palese e grave erroneità del giudizio precedente e non sia, invece, l’espressione di una gestione – a

dir poco – ondivaga e contraddittoria del potere e in quanto tale contrastante, nella prospettiva

pubblicistica, con il principio costituzionale del buon andamento e, in quella privatistica, con i principi

di correttezza e buona fede.

Ed è inutile dire che la relativa argomentazione deve essere tanto più esplicita e pregnante nel caso in cui il

riesame sia effettuato dagli stessi soggetti del primo giudizio.

(omissis)

5. ASTREINTES E CONDANNE PECUNIARIE: Consiglio di Stato, Adunanza

Plenaria, sentenza n. 15 del 2014

Nell’ambito del giudizio di ottemperanza la comminatoria delle penalità di

mora, di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), del codice del processo

amministrativo, è ammissibile per tutte le decisioni di condanna di cui al

precedente art. 113, ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni di natura

pecuniaria.

La penalità di mora, nel processo amministrativo, assumendo una più marcata

matrice sanzionatoria che completa la veste di strumento di coazione indiretta,

si atteggia a tecnica compulsoria che si affianca, in termini di completamento e

cumulo, alla tecnica surrogatoria che permea il giudizio d’ottemperanza. Detta

fisionomia impedisce di distinguere a seconda della natura della condotta

ordinata dal giudice, posto che anche per le condotte di facere o non facere, al

pari di quelle aventi ad oggetto un dare (pecuniario o no), vige il requisito della

surrogabilità/fungibilità della prestazione e, quindi, l’esigenza di prevedere un

rimedio compulsivo volto ad integrare quello surrogatorio. 1. E’ sottoposta al vaglio dell’Adunanza Plenaria la quaestio iuris relativa all’ammissibilità della comminatoria

delle penalità di mora, di cui all'art. 114, comma 4, lett. e), del codice del processo amministrativo, nel

caso in cui il ricorso per ottemperanza venga proposto in ragione della non esecuzione di una sentenza

che abbia imposto alla pubblica amministrazione il pagamento di una somma di denaro.

Ai fini della soluzione del problema è necessaria un’indagine sulla genesi e sulla fisionomia dell’istituto in esame.

2. L'art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a. prevede che il giudice dell’ottemperanza, in caso di accoglimento del ricorso

in executivis, “salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su

richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero

per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo”.

La norma, che costituisce una novità nel processo amministrativo italiano, delinea una misura coercitiva

indiretta a carattere pecuniario, inquadrabile nell’ambito delle pene private o delle sanzioni civili

indirette, che mira a vincere la resistenza del debitore, inducendolo ad adempiere all’ obbligazione

sancita a suo carico dall’ordine del giudice (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688).

La norma dà la stura, in definitiva, ad un meccanismo automatico di irrogazione di penalità pecuniarie in

vista dell’assicurazione dei valori dell’effettività e della pienezza della tutela giurisdizionale a fronte

della mancata o non esatta o non tempestiva esecuzione delle sentenze emesse nei confronti della

33

pubblica amministrazione e, più in generale, della parte risultata soccombente all’esito del giudizio di

cognizione.

Il modello della penalità di mora trova un antecedente, nell’ambito del processo civile, nell’art. 614-bis (inserito

nel c.p.c. dall’art.49, comma 1, della legge 18 giugno 2009, n. 69), rubricato “attuazione degli obblighi di fare

infungibile o non fare”. La norma in analisi dispone che “Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che

ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni

violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il

provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione

o inosservanza. (...)”. Al comma II viene precisato che “Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al

primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o

prevedibile e di ogni altra circostanza utile”.

3. Sia l’istituto previsto dal codice del processo amministrativo sia quello contemplato dal codice di procedura

civile sono fortemente innovativi rispetto alla nostra tradizione processuale.

Il legislatore nazionale si è, infatti, mostrato in passato restio all’abbandono dell’ispirazione liberal-individualistica

di matrice ottocentesca, manifestando diffidenza per il recepimento dell’istituto delle misure coercitive indirette,

ritenute una forma di eccessiva ingerenza dello Stato delle libere scelte degli individui anche in merito

all’osservanza, in forma specifica o meno, di un comando giudiziale.

Prima della riforma del 2009, dunque, la possibilità che un provvedimento giurisdizionale di condanna fosse

assistito da una penalità di mora era prevista, in modo episodico, solo con riferimento a fattispecie tassativamente

individuate da norme speciali, insuscettibili di applicazione analogica. Tra queste vanno ricordati l’art. 18, ultimo

comma, dello Statuto dei lavoratori, in base al quale il datore di lavoro, in caso di illegittimo licenziamento, è

tenuto al pagamento di una somma commisurata alle retribuzioni dovute dal momento del licenziamento fino a

quello dell’effettivo reintegro; gli artt. 124, co. 2, e 131, co. 2, del codice della proprietà industriale, che, in tema di

brevetti, prevede l’adozione di una sanzione pecuniaria in caso di violazione della misura inibitoria applicata nei

confronti dell’autore della violazione del diritto di proprietà industriale; l’art. 156 della legge sul diritto d’autore,

relativo alla protezione del diritto d’autore, che prevede parimenti una sanzione pecuniaria in caso di

inosservanza della statuizione inibitoria; l’art. 8, co. 3, d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, che, in tema di ritardato

pagamento nelle transazioni commerciali, contempla la possibilità di irrogare un’astreinte in caso di mancato

rispetto degli obblighi imposti dalla sentenza che abbia accertato l’iniquità delle clausole contrattuali; l’art. 140,

co. VII, del codice del consumo, che ha previsto misure pecuniarie per il caso di inadempimento del

professionista a fronte di pronunce rese dal giudice civile su ricorsi proposti dalle associazioni di tutela degli

interessi collettivi in materia consumeristica; l’art. 709-ter, co. 2, n. 4, cod. proc. civ., che, con riferimento alle

controversie relative all’esercizio della potestà genitoriale o alle modalità dell’affidamento dei figli, prevede, a

carico del genitore inadempiente alle obbligazioni di facere, il pagamento di una sanzione amministrativa

pecuniaria a favore della Cassa delle ammende.

Con l’art. 614-bis cod. proc. civ. e con l’art. 114, comma 4, lettera e, cod. proc. amm., il nostro ordinamento,

conferendo alla misura in esame un respiro generale, ha esibito, quindi, una nuova sensibilità verso l’istituto delle

sanzioni civili indirette, dando seguito ai ripetuti moniti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui

“il diritto ad un tribunale sarebbe fittizio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato membro permettesse

che una decisione giudiziale definitiva e vincolante restasse inoperante a danno di una parte” (sent. Hornsby c.

Grecia, 13/03/1997, e Ventorio c. Italia, 17/05/2011).

Nell’adeguamento dell’ordinamento nazionale al panorama degli ordinamenti più evoluti in subiecta materia il

legislatore ha seguito il modello francese delle cc. dd. “astreintes”, costituenti misure coercitive indirette a

carattere esclusivamente patrimoniale, che mirano ad incentivare l’adeguamento del debitore ad ogni sentenza di

condanna, attraverso la previsione di una sanzione pecuniaria che la parte inadempiente dovrà versare a favore

del creditore vittorioso in giudizio.

Il carattere essenzialmente sanzionatorio della misura, prevista dall’ordinamento francese con riferimento ad ogni

tipo di sentenza di condanna, è dimostrato dal tenore della legge 5 luglio 1972, ove, all’art. 6, si prevede

specificamente che l’astreinte è “indépendante des dommages-intérets”. La natura giuridica della misura

34

coercitiva indiretta francese, dunque, non è ispirata alla logica riparatoria che permea la teoria generale della

responsabilità civile, dovendosi configurare la sua comminatoria alla stregua di una pena privata o, più

precisamente, di una sanzione civile indiretta. Trattasi, quindi, di una pena, e non di un risarcimento, che vuole

sanzionare la disobbedienza all’ordine del giudice, a prescindere dalla sussistenza e dalla dimostrazione di un

danno. E’ altresì pacifica, nella stessa prospettiva, la cumulabilità della penalità con il danno cagionato

dall’inosservanza del precetto giudiziale, al pari della non defalcabilità dell’ammontare della sanzione dall’importo

dovuto a titolo di riparazione.

Nel campo dei rapporti amministrativi la legge 8 febbraio 1995 ha poi attribuito anche ai Tribunaux

Administratifs e alle Cours Administraves d’Appel il potere, prima assegnato dal decreto 30 luglio 1963 al solo

Conseil d’Etat, di disporre l’astreinte a carico dell’amministrazione inadempiente, anticipando al momento della

pronuncia della sentenza la possibilità di disporre il mezzo di coercizione indiretta e introducendo un nuovo

potere del giudice amministrativo, nei casi in cui l’esecuzione del giudicato amministrativo comporti

necessariamente l’emanazione di un provvedimento dal contenuto determinato, di ordinare all’amministrazione

l’adozione dell’atto satisfattorio e, quando risulti opportuno, di fissare un termine per l’esecuzione (si veda la

disciplina oggi prevista dagli artt. L.911-4 e 911-5 del code de justice administrative).

Norme simili, pur se con modulazioni diverse, sono presenti anche negli ordinamenti tedesco (c.d. Zwangsgeld)

e inglese (c.d. Contempt of Court).

Le Zwangsgeld, in particolare, possono assistere esclusivamente provvedimenti di condanna a obblighi di fare

infungibili o di non fare (come negli ordinamenti rumeno, greco e sloveno) e consistono in una condanna al

pagamento di una somma di denaro (Zwangsgeld/Ordnungsgeld) in favore dello Stato, con la possibilità di

conversione in arresto (Zwangsgeld/Ordnungshaft) nel caso in cui il debitore non disponga di un patrimonio

capiente.

Il Contempt of Court, invece, può, come avviene per le astreintes francesi, essere pronunciato a fronte della

violazione di ogni provvedimento dell’autorità giudiziaria, a prescindere dal suo contenuto, e consiste in una

sanzione pecuniaria da versarsi allo Stato (in alternativa al sequestro di beni) o in una sanzione detentiva (arrest

for the contempt of the court), con facoltà di scelta discrezionale per il giudice tra la misura patrimoniale e quella

limitativa della libertà personale.

3.1. Tutte le misure descritte sono ispirate dalla medesima esigenza di offrire uno strumento di coazione

all’adempimento delle pronunce giurisdizionali.

La breve ricognizione comparatistica effettuata, mettendo in luce l’eterogeneità delle opzioni abbracciate nei vari

ordinamenti circa l’ambito di applicazione delle penalità di mora, consente di mettere in chiaro che la scelta

attuata dall’art. 614-bis c.p.c., al pari di alcuni degli altri ordinamenti passati in rassegna, di limitare l’astreinte al

solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile, non deriva da un

limite concettuale insito nella ratio o nella struttura ontologica dell’istituto ma è il frutto di un’opzione

discrezionale del legislatore.

4. Si deve, a questo punto, segnalare che la penalità di mora disciplinata dall’art. 114, comma 4, lett. e,

c.p.a. si distingue in modo significativo da quella prevista per il processo civile.

I profili differenziali rispetto all’omologo istituto di cui all’art. 614 bis c.p.c. sono, infatti, molteplici e di rilevante

importanza:

a) mentre la sanzione di cui al 614-bis c.p.c. è adottata con la sentenza di cognizione che definisce il giudizio di

merito, la penalità è irrogata dal Giudice Amministrativo, in sede di ottemperanza, con la sentenza che accerta il

già intervenuto inadempimento dell’obbligo di contegno imposto dal comando giudiziale;

b) di conseguenza, nel processo civile la sanzione è ad esecuzione differita, in quanto la sentenza che la commina

si atteggia a condanna condizionata (oin futuro) al fatto eventuale dell’inadempimento del precetto giudiziario nel

termine all’uopo contestualmente fissato; al contrario, nel processo amministrativo l’astreinte, salva diversa

valutazione del giudice, può essere di immediata esecuzione, in quanto è sancita da una sentenza che, nel giudizio

d’ottemperanza di cui agli artt. 112 e seguenti c.p.a., ha già accertato l’inadempimento del debitore;

c) le astreintes disciplinate dal codice del processo amministrativo presentano, almeno sul piano formale, una

portata applicativa più ampia rispetto a quelle previste nel processo civile, in quanto non si è riprodotto nell’art.

35

114, co. 4, lett. e, c.p.a., il limite della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi

aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile;

d) la norma del codice del processo amministrativo non richiama i parametri di quantificazione dell’ammontare

della somma fissati dall’art. 614 bisc.p.c.;

e) il codice del processo amministrativo prevede, accanto al requisito positivo dell’inesecuzione della sentenza e

al limite negativo della manifesta iniquità, l’ulteriore presupposto negativo consistente nella ricorrenza di “ragioni

ostative”.

4.1 La questione dell’applicabilità delle astreintes nel caso in cui sia chiesta, nell’ambito di un giudizio

di ottemperanza, l’esecuzione di un titolo giudiziario avente ad oggetto somme di danaro, trae origine

dalla terza delle differenze delineate.

Per il processo amministrativo, infatti, manca una previsione esplicita che limiti la riferibilità delle penalità di

mora al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile. Nasce

quindi il problema relativo alla possibilità di richiedere l’applicazione delle penalità anche nel caso

dell’ottemperanza a sentenze aventi ad oggetto un dare pecuniario.

5. Mentre la dottrina è in gran parte favorevole ad una lettura estensiva della norma de qua, la giurisprudenza

amministrativa ha manifestato significative divisioni sulla questione rimessa all’Adunanza Plenaria.

5.1. L’opinione prevalente ammette l’applicazione delle penalità di mora anche per le sentenze di condanna

pecuniaria (…).

Deporrebbero a favore di tale opzione ermeneutica (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462)

le seguenti argomentazioni:

a) il tenore letterale della disposizione, che, a differenza dell’art. 614-bis cod. proc. civ., non pone “alcuna

distinzione per tipologie di condanne rispetto al potere del giudice di disporre, su istanza di parte, la condanna

dell'amministrazione inadempiente al pagamento della penalità di mora” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 29

gennaio 2014, n. 462), con una scelta che “appare coerente con il rilievo che il rimedio dell’ottemperanza, grazie

al potere sostitutivo esercitabile, nell’alveo di una giurisdizione di merito, dal giudice in via diretta o mediante la

nomina di un commissario ad acta, non conosce, in linea di principio, l’ostacolo della non surrogabilita degli atti

necessari al fine di assicurare l’esecuzione in re del precetto giudiziario” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre

2011, n. 6688);

b) la peculiare natura giuridica della penalità di mora ex art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., che, in

virtù della sua diretta derivazione dal modello francese delle cc. dd. “astreintes”, “assolve ad una finalita

sanzionatoria e non risarcitoria in quanto non mira a riparare il pregiudizio cagionato dall’esecuzione della

sentenza ma vuole sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore

all’adempimento” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688), integrando un strumento “di pressione

nei confronti della p.a., inteso ad assicurare il pieno e completo rispetto degli obblighi conformativi discendenti

dal decisum giudiziale” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462);

c) il rilievo secondo cui la matrice sanzionatoria della misura, idonea a confutare il rischio di duplicazione

risarcitoria, è confermata dalla considerazione da parte dell’art. 614-bis, comma 2, cod. proc. civ., sempre

nell’ottica dell’aderenza al modello francese, della misura del danno quantificato e prevedibile come “solo uno dei

parametri di commisurazione in quanto prende in considerazione anche altri profili, estranei alla logica

riparatoria, quali il valore della controversia, la natura della prestazione e ogni altra circostanza utile, tra cui si può

annoverare il profitto tratto dal creditore per effetto del suo inadempimento” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20

dicembre 2011, n. 6688).

5.2 L’opposto orientamento dà risposta negativa alla questione (cfr. di recente Cons. Stato, Sez. IV, 13 giugno

2013 n. 3293; Cons. Stato, Sez. III, 06 dicembre 2013, n. 5819) sulla scorta delle seguenti argomentazioni:

a) la considerazione per la quale la funzione della penalità di mora nel giudizio di ottemperanza sarebbe quella di

“incentivare l'esecuzione di condanne di fare o non fare infungibile prima dell'intervento del commissario ad

acta, il quale comporta normalmente maggiori oneri per l'Amministrazione, oltre che maggiore dispendio di

tempo per il privato”, di modo che “ove il giudizio di ottemperanza sia prescelto dalla parte per l'esecuzione di

sentenza di condanna pecuniaria del giudice ordinario, la tesi favorevole all'ammissibilità dell'applicazione

36

dell'astreinte finirebbe per consentire una tutela diversificata dello stesso credito a seconda del giudice dinanzi al

quale si agisca atteso che il creditore pecuniario della p.a. nel giudizio di ottemperanza potrebbe ottenere

maggiori e diverse utilità rispetto a quelle conseguibili nel giudizio di esecuzione civile solo in base ad un'opzione

puramente potestativa” (cfr. Cons. di Stato, Sez. III, 6 dicembre 2013, n. 5819);

b) la valorizzazione dell’iniquità della condanna al pagamento di una somma di danaro laddove l'obbligo oggetto

di domanda giudiziale sia esso stesso di natura pecuniaria, di talché sarebbe già assistito, per il caso di ritardo nel

suo adempimento, dall’obbligo accessorio degli interessi legali, cui la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe

ulteriormente ad aggiungersi, con le conseguenze della “duplicazione ingiustificata di misure volte a ridurre

l'entità del pregiudizio derivante all'interessato dalla violazione, inosservanza o ritardo nell'esecuzione del

giudicato, nonché dell’ingiustificato arricchimento del soggetto già creditore della prestazione principale e di

quella accessoria” (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 6 dicembre 2013, n. 5819);

c) l’impossibilità di cumulare un modello di esecuzione surrogatoria con uno di carattere compulsorio, dal

momento che il sistema nazionale di esecuzione amministrativa della decisione, connotato da caratteri di estrema

incisività e pervasività, porrebbe già a presidio delle ragioni debitorie dell’amministrazione “la doppia garanzia sul

piano patrimoniale del riconoscimento degli accessori del credito e su quello coercitivo generale dell’intervento

del Commissario ad acta” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, ord. 18 aprile 2014, n. 2004).

6. L’Adunanza Plenaria ritiene di aderire all’orientamento prevalente che ammette l’operatività

dell’istituto per tutte le decisioni di condanna adottate dal Giudice Amministrativo ex art. 112 c.p.a., ivi

comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni pecuniarie.

6.1. A sostegno dell’opzione estensiva si pone, innanzitutto, un argomento di diritto comparato.

Si deve considerare, infatti, che il sistema francese, modello sul quale sono stati coniati gli istituti nazionali che

prevedono l’irrogazione della penalità di mora, è connotato da un’indiscussa funzione sanzionatoria, essendo

teleologicamente orientato a costituire una pena per la disobbedienza alla statuizione giudiziaria, e non un

risarcimento per il pregiudizio sofferto a causa di tale inottemperanza.

Il modello transalpino, quindi, in aderenza al favor espresso dalla giurisprudenza della CEDU verso la massima

estensione, anche in executivis,dell’effettività delle decisioni giurisdizionali, dimostra che il rimedio compulsorio

in esame può operare anche per le condanne pecuniarie, in quanto non conosce limiti strutturali in ragione della

natura della condotta imposta dallo iussum iudicis.

Si conferma, in questo modo, che la delimitazione dell’ambito oggettivo di operatività della misura è frutto di una

scelta di politica legislativa e non un limite concettuale derivante dalla fisionomia dell’istituto.

6.2. L’argomento di diritto comparato si salda con l’argomento letterale.

L’analisi del dato testuale dell’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., chiarisce, infatti, che, in sede di

codificazione del processo amministrativo, il legislatore ha esercitato la sua discrezionalità, in sede di adattamento

della conformazione dell’istituto alle peculiarità del processo amministrativo, nel senso di estendere il raggio

d’azione delle penalità di mora a tutte le decisioni di condanna. La norma in analisi non ha, infatti, riprodotto il

limite, stabilito della legge di rito civile nel titolo dell’art. 614-bis, della riferibilita del meccanismo al solo caso di

inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un non fare o un fare infungibile.

Si deve aggiungere che la norma in esame non solo non contiene un rinvio esplicito all’art. 614-bis, ma neanche

richiama implicitamente il modello processual-civilistico.

Decisiva risulta la constatazione che l’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., modifica l’impianto

normativo del rito civile prevedendo l’ulteriore limite negativo rappresentato dall’insussistenza di “ragioni

ostative”.

Significativa appare, in questa direzione, anche la considerazione che nel giudizio civile l’astreinte è comminata

dalla sentenza di cognizione con riguardo al fatto ipotetico del futuro inadempimento, mentre nel processo

amministrativo la penalità di mora è applicata dal giudice dell’esecuzione a fronte del già inverato presupposto

della trasgressione del dovere comportamentale imposto dalla sentenza che ha definito il giudizio.

Non può, dunque, essere attribuito un rilievo decisivo ai lavori preparatori, in quanto il riferimento, operato dalla

Relazione governativa di accompagnamento, alla riproduzione dell’art. 614-bis cod. proc. civ., va inteso come

richiamo della fisionomia dell’istituto e non come recepimento della sua disciplina puntuale.

37

In definitiva, a fronte dell’ampia formulazione dell’art. 114, co. IV, lett. e, cod. proc. amm., un’operazione

interpretativa che intendesse colmare una lacuna che non c’è attraverso il richiamo dei limiti previsti dalla diversa

norma del processo civile, si tradurrebbe in un’inammissibile analogia in malam partem volta ad assottigliare lo

spettro delle tutele predisposte dal codice del processo amministrativo nel quadro di un potenziamento

complessivo del giudizio di ottemperanza.

6.3. Occorre mettere l’accento, a questo punto, sull’ argomento sistematico.

La diversità delle scelte abbracciate dal legislatore per il processo civile e per quello amministrativo si giustifica in

ragione della diversa architettura delle tecniche di esecuzione in cui si cala e va letto il rimedio in esame.

Nel processo civile, stante la distinzione tra sentenze eseguibili in forma specifica e pronunce non attuabili in re,

la previsione della penalità di mora per le sole pronunce non eseguibili in modo forzato mira a introdurre una

tecnica di coercizione indiretta che colmi l’assenza di una forma di esecuzione diretta. Detto altrimenti, nel

sistema processual-civilistico, con l’innesto della sanzione in parola il legislatore ha inteso porre rimedio

all’anomalia insita nell’esistenza di sentenze di condanna senza esecuzione, dando la stura ad una tecnica

compulsoria che supplisce alla mancanza di una tecnica surrogatoria.

Nel processo amministrativo, per converso, la norma si cala in un archetipo processuale in cui, grazie alle

peculiarità del giudizio di ottemperanza, caratterizzato dalla nomina di un commissario ad acta con poteri

sostitutivi, tutte le prestazioni sono surrogabili, senza che sia dato distinguere a seconda della natura delle

condotte imposte.

La penalità di mora, in questo diverso humus processuale, assumendo una più marcata matrice sanzionatoria che

completa la veste di strumento di coazione indiretta, si atteggia a tecnica compulsoria che si affianca, in termini di

completamento e cumulo, alla tecnica surrogatoria che permea il giudizio d’ottemperanza.

Detta fisionomia impedisce di distinguere a seconda della natura della condotta ordinata dal giudice, posto che

anche per le condotte di facere o non facere, al pari di quelle aventi ad oggetto un dare (pecuniario o no), vige il

requisito della surrogabilità/fungibilità della prestazione e, quindi, l’esigenza di prevedere un rimedio compulsivo

volto ad integrare quello surrogatorio.

6.4. Le considerazioni esposte sono suffragate anche dall’argomento costituzionale.

6.4.1. Non può ravvisarsi, in primo luogo, la paventata disparità collegata all’opzione potestativa, esercitabile da

parte del creditore, attraverso la scelta, in sostituzione del rimedio dell’esecuzione forzata civile - priva dello

strumento della penalità di mora per le sentenze di condanna pecuniaria –, dell’ottemperanza amministrativa,

rafforzata dalla comminatoria delle astreintes.

Il riscontro di profili di disparità dev’essere, infatti, effettuato tenendo conto dei soggetti di diritto e non delle

tecniche di tutela dagli stessi praticabili.

Ne deriva che la possibilità, per un creditore pecuniario della pubblica amministrazione, di utilizzare, in coerenza

con una consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione e di questo Consiglio, due diversi meccanismi di

esecuzione, lungi dal porre in essere una disparità di trattamento, per la quale difetterebbe il referente soggettivo

discriminato, evidenzia un arricchimento del bagaglio delle tutele normativamente garantite in attuazione dell’art.

24 Cost. in una con i canoni europei e comunitari richiamati dall’art. 1 c.p.a.

6.4.2. Non può neanche ravvisarsi, sotto altra e complementare angolazione, una discriminazione ai danni del

debitore pubblico, per essere lo stesso soggetto, diversamente dal debitore privato, a tecniche di esecuzione

diversificate e più incisive.

Tale differenziazione è il precipitato logico e ragionevole della peculiare condizione in cui versa il soggetto

pubblico destinatario di un comando giudiziale.

La pregnanza dei canoni costituzionali di imparzialità, buona amministrazione e legalità che informano l’azione

dei soggetti pubblici, qualificano in termini di maggior gravità l’inosservanza, da parte di tali soggetti, del precetto

giudiziale, in guisa da giustificare la previsione di tecniche di esecuzione più penetranti, tra le quali si iscrive il

meccanismo delle penalità di mora.

In questo quadro va rimarcato che la previsione di cui all’art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a., si inserisce

armonicamente in una struttura del giudizio di ottemperanza complessivamente caratterizzata, proprio per la

specialità del debitore, da un potere di intervento del giudice particolarmente intenso, come testimoniato

38

dall’assenza del limite dell’infungibilità della prestazione, dalla previsione di una giurisdizione di merito e

dall’adozione di un modello surrogatorio di tutela esecutiva.

6.5. La tesi esposta non è, infine, scalfita dall’argomento equitativo su cui fanno leva i fautori della tesi restrittiva,

richiamando il rischio di duplicazione di risarcimenti, con correlativa locupletazione del creditore e

depauperamento del debitore.

L’argomento è inficiato dal rilievo che la penalità di mora, come fin qui osservato, assolve ad una funzione

coercitivo-sanzionatoria e non, o quanto meno non principalmente, ad una funzione riparatoria, come

dimostrato, tra l’altro, dalle caratteristiche dei modelli di diritto comparato e dalla circostanza che nell’articolo

614 bis c.p.c. la misura del danno è solo uno di parametri di quantificazione dell’importo della sanzione.

Trattandosi di una pena, e non di un risarcimento, non viene in rilievo un’inammissibile doppia riparazione di un

unico danno ma l’aggiunta di una misura sanzionatoria ad una tutela risarcitoria. E’, in definitiva, insito nella

diversa funzione della misura, da un lato, che a tale sanzione, diversamente da quanto accade per i punitive

damages, si possa accedere anche in mancanza del danno o della sua dimostrazione; e, dall’altro, che al danno da

inesecuzione della decisione, da risarcire comunque in via integrale ai sensi dell’art. 112, comma 3, c.p.a., si possa

aggiungere una pena che il legislatore, pur se implicitamente, ha inteso destinare al creditore insoddisfatto.

Si deve soggiungere che la locupletazione lamentata, frutto della decisione legislativa di disporre un trasferimento

sanzionatorio di ricchezza, ulteriore rispetto al danno, dall’autore della condotta inadempitiva alla vittima del

comportamento antigiuridico, si verifica in modo identico anche per sentenze aventi un oggetto non pecuniario,

per le quali parimenti il legislatore, pur se non attraverso meccanismi automatici propri degli accessori del credito

pecuniario (rivalutazione e interessi), prevede l’azionabilità del diritto al risarcimento dell’intero danno da

inesecuzione del giudicato (art. 112, comma 3, cit), in aggiunta alla possibilità di fare leva sul meccanismo delle

penalità di mora.

Anche sotto questo punto di vista, quindi, le sentenze aventi ad oggetto un dare pecuniario non pongono

problemi specifici e non presentano caratteristiche diverse rispetto alle altre pronunce di condanna.

Va soggiunto che la funzione deterrente e general-preventiva delle penalità di mora verrebbe frustrata dalla

mancata erogazione della tutela in analisi ove vi sia già stato o possa essere assicurato un integrale risarcimento.

6.5.1. Si deve, infine, osservare che la considerazione delle peculiari condizioni del debitore pubblico, al pari

dell’esigenza di evitare locupletazioni eccessive o sanzioni troppo afflittive, costituiscono fattori da valutare non

ai fini di un’astratta inammissibilità della domanda relativa a inadempimenti pecuniari, ma in sede di verifica

concreta della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura nonché al momento dell’esercizio del

potere discrezionale di graduazione dell’importo.

Non va sottaciuto che l’art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a., proprio in considerazione della specialità, in questo caso

favorevole, del debitore pubblico - con specifico riferimento alle difficoltà nell’adempimento collegate a vincoli

normativi e di bilancio, allo stato della finanza pubblica e alla rilevanza di specifici interessi pubblici- ha aggiunto

al limite negativo della manifesta iniquità, previsto nel codice di rito civile, quello, del tutto autonomo, della

sussistenza di altre ragioni ostative.

Ferma restando l’assenza di preclusioni astratte sul piano dell’ammissibilità, spetterà allora al giudice

dell’ottemperanza, dotato di un ampio potere discrezionale sia in sede di scrutinio delle ricordate esimenti che in

sede di determinazione dell’ammontare della sanzione, verificare se le circostanza addotte dal debitore pubblico

assumano rilievo al fine di negare la sanzione o di mitigarne l’importo.

7. L’Adunanza Plenaria afferma pertanto il seguente principio di diritto: “Nell’ambito del giudizio di

ottemperanza la comminatoria delle penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), del codice del

processo amministrativo, è ammissibile per tutte le decisioni di condanna di cui al precedente art. 113,

ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni di natura pecuniaria”. .

(omissis)