DISPENSA di DIRITTO AMMINISTRATIVO Il riparto di giurisdizione n 3... · 2 Il riparto di...

96
1 DISPENSA di DIRITTO AMMINISTRATIVO Il riparto di giurisdizione A cura di Francesco Caringella

Transcript of DISPENSA di DIRITTO AMMINISTRATIVO Il riparto di giurisdizione n 3... · 2 Il riparto di...

1

DISPENSA di DIRITTO AMMINISTRATIVO

Il riparto di giurisdizione

A cura di

Francesco Caringella

2

Il riparto di giurisdizione dopo il codice del

processo amministrativo: il riparto di posizioni

e il riparto per materia

3

Indice

1. Il riparto di giurisdizione

1.1. Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 4 luglio 1949, n. 1657 : il criterio della

causa petendi come criterio ordinario di riparto: individuazione della giurisdizione

dipendente dalla consistenza della posizione soggettiva. Dicotomia carenza- cattivo uso del

potere

(estratto)

1.2. Consiglio di Stato, sez. IV, 5 luglio 2012, n. 3298 : inesistenza di una riserva di tutela

dell’interesse legittimo in favore del g.a.

1.3. Consiglio di Stato, sezione V, 13 maggio 2014, n. 2456

2. La giurisdizione per connessione

2.1 Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 23 marzo 2011, n. 6594 : giurisdizione

ordinaria in materia di risarcimento del danno da provvedimento favorevole illegittimo

previamente annullato

2.2 Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 4 febbraio 2011, n. 804 : danno da occupazione

appropriativa e indennizzo da occupazione legittima

3. In base al criterio ordinario di riparto spettano al giudice amministrativo tutte le

controversie nelle quali si faccia questione del corretto esercizio del potere pubblico da

parte di un soggetto pubblico.

3.1 Nozione di soggetto pubblico

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 22 dicembre 2011, n. 28329

4

3.2 Potere pubblico

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza del 3 giugno 2011, n.10

Corte di cassazione, Sezioni unite, sentenza del 12 ottobre 2011, n. 20929: Controversie in tema di

quote latte, giurisdizione del giudice ordinario e fondamento

Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza del 29 luglio 2013, n. 17 : riparto di giurisdizione

in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni

3.2.1 Il comportamento amministrativo

Corte Costituzionale, sentenza n. 204 del 2004

(estratto)

Corte costituzionale, sentenza n. 191 del 2006

3.3 Corretto esercizio del potere pubblico : carenza / cattivo uso del potere

Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 4 luglio 1949, n. 1657 : adesione al

principio di affievolimento dei diritti e a quello della carenza di potere

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza del 22 ottobre 2007, n. 12 : rifiuto della

tesi della carenza in concreto

3.3. 1 Riparto di giurisdizione e diritti inaffievolibili o a nucleo rigido

Corte Costituzionale, sentenza del 27 aprile 2007, n. 140: normativa in materia di impianti

di generazione di energia elettrica e incomprimibilità del diritto alla salute e alla salubrità

dell’ambiente

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 30 marzo 2011, n. 7186 : procedure

selettive e violazione del divieto di discriminazione

5

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 15 febbraio 2011, n. 3670: concessione

del bonus bebè e violazione del divieto di discriminazione (allegato 1)

Corte di cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 6 settembre 2013, n. 20577 : la

giurisdizione del g.o. in merito alla domanda di annullamento dell’atto amministrativo di diniego

di autorizzazione ad effettuare cure specialistiche praticate all’estero

4. Casistica: la giurisdizione sui danni cagionati dagli amministratori delle società pubbliche

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 19 dicembre 2009, n. 26806: Società a

partecipazione pubblica , azione di responsabilità nei confronti degli amministratori o dei dipendenti e

giurisdizione della Corte dei conti

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 3 maggio 2013, n. 10299: giurisdizione del

giudice ordinario in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione

pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti.

Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 25 novembre 2013, n. 26283 : giurisdizione della

Corte dei Conti sull’azione di responsabilità esercitata dalla Procura della Repubblica presso detta corte

quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da essi cagionati

al patrimonio di una società in house.

6

Selezione giurisprudenziale

1. Il riparto di giurisdizione

1.1 Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 4 luglio 1949, n. 1657 : il criterio della causa petendi

come criterio ordinario di riparto: individuazione della giurisdizione dipendente dalla consistenza della

posizione soggettiva. Dicotomia carenza- cattivo uso del potere

(estratto)

“la discriminazione fra la competenza giudiziaria ordinaria e quella del giudice amministrativo si precisa così: se il

cittadino nega che potere siffatto ( potere discrezionale di disporre (…) di quel diritto) sia conferito all’autorità

amministrativa, la competenza a conoscere di tale controversia spetta all’autorità giudiziale, perché si tratta di accertare se

il diritto subiettivo sia tale anche di fronte alla p.a. Se invece la controversia abbia per suo oggetto l’esercizio, che si

pretende scorretto, del potere discrezionale conferito, sotto l’aspetto della competenza, della forma o del contenuto (…) la

competenza a conoscere è del g.a.”

1.2 Consiglio di Stato, sez. IV, 5 luglio 2012, n. 3298 : inesistenza di una riserva di tutela

dell’interesse legittimo in favore del g.a.

Testo della sentenza

(omissis)

DIRITTO

1. - L’appello non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.

2. – (omissis)

3. - Venendo al merito della questione, va osservato come, valutando correttamente le ragioni

sostanziali sottese alla pretesa dell’originaria parte ricorrente, il giudice di prime cure, sollecitato

7

dall’espressa eccezione di controparte, si è soffermato preliminarmente nell’esame dell’esistenza

della propria giurisdizione.

Va condivisa la valutazione operata in sentenza che, ponendo in primo piano la pretesa della parte

originariamente appellante, ha verificato come la controversia sfugga alla giurisdizione del giudice

amministrativo. Infatti, in disparte la veste impugnatoria data in ricorso, la questione non verte sui

vizi formali o procedimentali degli atti impugnati, ma unicamente sull’effettiva spettanza del diritto

dominicale, assumendo sostanzialmente parte ricorrente di essere nella proprietà dell’immobile.

La giurisdizione, infatti, è conformata dalla domanda e, ai fini del riparto tra i diversi plessi

giurisdizionali, rileva non già la prospettazione delle parti, quanto il petitum sostanziale,

identificato in relazione alla concreta pronuncia che si chiede al giudice ed in funzione

della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed

individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti

fatti costituiscono manifestazione.

L’articolazione del giudizio come impugnatorio, quindi, non è fatto idoneo a trasferire la vicenda

presso il giudice dell’atto amministrativo (da ultimo, Cassazione civile, sez. un., 16 maggio 2008, n.

12378), specie nella fattispecie in esame, dove la vicenda fondamentale in scrutinio non risulta

oggetto di uno specifico accertamento giurisdizionale che si imponga all’amministrazione, atteso

che il giudizio che si è svolto innanzi al giudice delle acque non ha riguardato la posizione giuridica

del D’Arienzo (come emerge dalle sentenze del Tribunale regionale delle acque pubbliche n. 144/92

e n. 92/94, e del Tribunale superiore delle acque pubbliche n. 106/98).

Quindi, quando si verta nel caso dell’ordine di rilascio di un immobile da parte della pubblica

amministrazione, sul presupposto della sua appartenenza al demanio ed il privato miri, tramite il

giudizio, a sentire accertare negativamente la demanialità del bene e positivamente il proprio pieno e

libero diritto di proprietà, la relativa controversia spetta alla cognizione del giudice ordinario, in

quanto non investe vizi dell'atto amministrativo, ma si esaurisce nell'indagine sulla titolarità della

proprietà e, quindi, è rivolta alla tutela di posizioni di diritto soggettivo (per l’espressione di tale

principio in relazione alla diversa casistica, Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 4 ottobre 2011 n.

627; Consiglio di Stato, sez. VI, 26 settembre 2011 n. 5357; Consiglio di Stato, sez. VI, 9 novembre

2010 n. 7975; Consiglio di Stato, sez. VI, 30 luglio 2010 n. 5044; Cassazione civile, sez. un., 29

marzo 2011 n. 7097)

4. - L’appello va quindi respinto. Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano come

8

in dispositivo.

1.3 Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 13 maggio 2014, n. 2456

FATTO e DIRITTO

1. La presente controversia ha ad oggetto l’individuazione del soggetto pubblico obbligato al

pagamento delle rette di degenza e assistenza della signora A.M.P. ricoverata presso la struttura Villa

Serena facente capo all’Ente Provincia Toscana Denominata "Addolorata" dell'Istituto delle Suore

Passioniste di S. Paolo della Croce (in prosieguo Istituto dell’Addolorata).

1.1. In fatto, sulla scorta di tutta la documentazione versata nel fascicolo di primo grado, giova

evidenziare quanto segue:

a) la signora A.M.P., nata nel comune di Fossacesia (Chieti) il 4 settembre 1939 ed ivi residente fino al

1972, è stata ricoverata nel 1963, su richiesta della provincia di Chieti, nell’Istituto dell’Addolorata,

struttura che pacificamente non eroga e non ha mai erogato prestazioni sanitarie;

b) nel 1970 è stata dichiarata invalida civile al 100%, ai sensi della l. n. 625 del 1966, perché epilettica,

con specifica attestazione della impossibilità di riduzione dell’invalidità mediante idoneo trattamento di

riabilitazione;

c) nel 1985 è stata dichiarata inabile al lavoro per riduzione permanente della capacità lavorativa in

misura superiore ai 2/3 ai sensi della l. n. 118 del 1971;

d) nel 1997 è stata dichiarata persona handicappata ai sensi della l. n. 104 del 1992, con accertamento di

epilessia e oligofrenia di media entità, possibilità di attività lavorativa solo per determinati tipi, uso

continuo di terapia farmacologica;

e) è acclarata la prescrizione di farmaci anticomiziali (con prescrizione di assistenza continua, in un

quadro di condizioni cliniche stabilizzate), da parte di medico che non risulta alle dipendenze

dell’Istituto dell’Addolorata (cfr. certificati in data 11 ottobre 2002 e 19 dicembre 2006);

f) fino al marzo del 1998, le spese di degenza sono state sostenute (e ripartite) dall’U.S.L. n. 7 di

Lanciano (poi A.U.S.L. n. 3 di Lanciano – Vasto) e dalla U.S.L. n. 10 di Firenze;

g) successivamente, entrambi gli enti del servizio sanitario nazionale hanno sospeso ogni pagamento

indicando come unico soggetto obbligato il comune di Fossacesia, in quanto verrebbero in rilievo

prestazioni di carattere eminentemente socio assistenziale e non sanitario.

1.2. Protraendosi la situazione di omessa corresponsione delle rette di degenza e di assistenza, l’Istituto

dell’Addolorata, dopo aver inutilmente adito il giudice ordinario che ha declinato la propria

giurisdizione (cfr. sentenza del Tribunale civile di Firenze n. 2676 del 9 luglio 1995), ha proposto

ricorso al T.a.r. per la Toscana – allibrato al nrg. 42/2007 – per l’accertamento del soggetto pubblico

obbligato alla rifusione delle rette di degenza e assistenza e la relativa condanna al pagamento della sorte

capitale e degli accessori.

2. L’impugnata sentenza - T.a.r. per la Toscana, Sezione II, n. 773 del 6 maggio 2009 -:

a) ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo (tale capo non è stato impugnato ed è

coperto dalla forza del giudicato interno);

9

b) ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva della Azienda U.S.L. n. 10 di Firenze (anche tale capo

non è stato impugnato);

c) ha respinto l’eccezione di tardività del ricorso di primo grado sollevata dalla difesa del comune di

Fossacesia;

d) assodata la prevalenza della natura socio assistenziale delle prestazioni erogate dall’Istituto

dell’Addolorata (spese di ricovero in senso stretto), rispetto ai profili socio sanitari pure ravvisati

presenti (spese farmacologiche e di sorveglianza), ha condannato sia il comune di Fossacesia che l’A.s.l.

di Lanciano – Vasto, ciascuno per quanto di ragione, al pagamento delle rette di degenza e assistenza a

far data dal 1 marzo 1998;

e) ha accertato la natura di obbligazione di valuta della sorte capitale, escludendo il cumulo di interessi

legali e rivalutazione, ma riconoscendo, a far data dal 1° marzo 1998, a titolo di danno da ritardato

pagamento, la sola rivalutazione monetaria del credito; ha poi previsto, nel caso di liquidazione della

sorte capitale e degli accessori da parte degli enti debitori, che su tale somma globalmente determinata

decorreranno gli interessi al saggio legale fino all’effettivo soddisfo;

f) ha compensato integralmente fra le parti le spese di lite.

3. Con ricorso notificato il 28 ottobre 2009 e depositato il successivo 23 novembre, il comune di

Fossacesia ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza articolando i seguenti mezzi:

a) con il primo motivo (pagine 5 – 6 dell’appello), si contesta il quantum della sorte capitale sostenendosi

che la signora A.M.P. percepisca una pensione sociale dal 1 gennaio 2008 e che possa avere diritto

all’indennità di accompagnamento; dal che discenderebbe che il comune non potrebbe essere chiamato

a corrispondere integralmente il vitto e l’alloggio; si anticipa, infine, la tesi di fondo meglio sviluppata

con il terzo mezzo, ovvero che è dirimente l’accertamento della natura delle prestazioni erogate dalla

struttura di ricovero e non la qualità del soggetto che le eroga;

b) con il secondo motivo (pagine 6 – 8 dell’appello), si ripropone criticamente l’eccezione di

irricevibilità del ricorso di primo grado in relazione alla data del provvedimento con cui è stato negato il

pagamento delle rette (nota comunale del 28 maggio 2002);

c) con il terzo motivo (pagine 8 – 11 dell’appello), si contrastano le conclusioni cui è pervenuto il primo

giudice, negandosi la natura socio assistenziale delle prestazioni erogate dalla struttura, sostenendosi in

ogni caso la prevalenza di quelle sanitarie (sorveglianza e cura di malato psichico cronico in terapia

farmacologica), nonché l’irrilevanza della circostanza che l’Istituto dell’Addolorata non sia un ente

autorizzato all’esercizio dell’attività sanitaria e che non sia accreditato con il Servizio sanitario nazionale;

d) con il quarto motivo, infine (pagina 11 dell’appello), si contesta la decorrenza degli interessi e della

rivalutazione monetaria sulla sorte capitale, venendo in rilievo crediti querable, per cui gli accessori non

potrebbero che decorrere dalla data della proposizione del giudizio di primo grado (28 dicembre 2006),

atteso che nel 2002 era stato negato il pagamento delle rette di degenza.

4. L’A.s.l di Lanciano – Vasto:

a) si è costituita depositando controricorso in data 29 dicembre 2009, deducendo l’infondatezza del

gravame del comune di Fossacesia;

b) con ricorso spedito per la notificazione il 22 – 24 dicembre 2009 e depositato il successivo 29

dicembre, ha interposto appello incidentale contestando, con un unico complesso motivo (pagine 4 –

10), che le prestazioni erogate dall’Istituto dell’Addolorata abbiano rilevanza sanitaria e possano essere

rimborsate dal Servizio sanitario nazionale.

5. L’Istituto dell’Addolorata:

10

a) ha proposto, a sua volta, appello incidentale – notificato il 23 dicembre 2009 e depositato il

successivo 29 dicembre – subordinandone l’esame all’accoglimento dell’appello principale proposto dal

comune in modo da individuare, una volta per tutte, l’ente obbligato al pagamento delle rette di

degenza e assistenza;

b) con memoria depositata in data 23 febbraio 2010, ha eccepito la tardività dell’appello incidentale

dell’A.s.l. – da qualificarsi come improprio perché vertente su capi autonomi dell’impugnata sentenza -

in quanto notificato il 30 dicembre 2009, oltre il termine di 60 giorni decorrente dalla notificazione

dell’impugnata sentenza (si sostiene che la notificazione sarebbe dovuta avvenire entro il 14 novembre

2009); nel merito ha concluso per la correttezza del ragionamento logico giuridico posto dal T.a.r. a

fondamento del proprio decisum.

6. Il Comune e L’A.S.L. hanno meglio illustrato le proprie difese con le memorie indicate in epigrafe.

7. All’udienza pubblica del 15 aprile 2014, la causa è stata trattenuta in decisione.

8. (omissis)

9. Prima di esaminare gli appelli in trattazione, giova ricostruire sinteticamente il quadro delle norme

(cfr., in particolare, artt. 72 ss. l. n. 6872 del 1890, 23 e 25, d.P.R. n. 616 del 1977, 30, l. n. 730 del 1983,

6, l. n. 328 del 2000, d.p.c.m. 8 agosto 1985 e 14 febbraio 2001, recanti gli atti di indirizzo e

coordinamento alle regioni e province autonome in materia di attività di rilievo sanitario connesse con

quelle socio assistenziali), e dei principi elaborati dalla giurisprudenza nella materia per cui è causa (cfr.

Cass. civ., sez. un., 12 dicembre 2012, n. 22787; sez. I, 22 marzo 2012, n. 4558; sez. un., 30 luglio 2008,

n. 20586; sez. un., 18 ottobre 2005, n. 20114; Cons. St., sez. III, 15 febbraio 2013, n. 930; ad. plen. 16

dicembre 2011, n. 24; ad. plen. 30 luglio 2008, n. 3, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d),

c.p.a.).

In sintesi:

a) gli interventi per contrastare la povertà e il rischio di marginalità sociale sono a carico delle

autonomie locali e le norme che li disciplinano attribuiscono ai soggetti protetti diritti soggettivi perfetti;

ma il comune può ritenersi obbligato a corrispondere rette di degenza solo nel caso in cui abbia

preventivamente autorizzato l’erogazione della prestazione assistenziale, tenuto anche conto che, per le

limitate risorse disponibili, deve essere lo stesso ente a stabilire - in applicazione di regole predefinite sui

requisiti reddituali e sulle prestazioni assistenziali necessarie e nel rispetto delle procedure di contabilità

cui è astretto - se e in che misura può contribuire alle spese di degenza di un infermo privo di redditi; in

quest’ottica deve escludersi che l’ente locale debba subire meccanicamente il peso economico

dell’iniziativa autonoma del beneficiario delle prestazioni assistenziali, dei suoi familiari o peggio

dell’istituto di ricovero;

b) in considerazione della natura delle posizioni soggettive coinvolte, spetta all’autorità

giudiziaria ordinaria la giurisdizione sulle controversie nelle quali un istituto privato di

assistenza a malati richieda il pagamento delle rette di degenza al comune o al servizio

sanitario nazionale, non influendo sulla determinazione della giurisdizione il carattere

sanitario, socio-assistenziale o misto, della prestazione erogata dall’istituto; tanto deriva dal

fatto che il legislatore non può comprimere il diritto alla salute neppure nella delicata

operazione di bilanciamento con le esigenze della finanza pubblica;

c) per individuare l’ente pubblico (comune o azienda sanitaria), obbligato alla rifusione delle spese di

ricovero dei malati indigenti, il criterio guida dirimente è quello della natura oggettiva della prestazione

in concreto erogata; in presenza di prestazioni miste, deve aversi riguardo alla circostanza che l’istituto

di ricovero sia accreditato con il servizio sanitario nazionale (o quantomeno autorizzato ad esercitare

11

attività sanitaria), e che non si tratti di prestazioni sanitarie occasionali (ovvero non legate alla patologia

che ha dato causa al ricovero); in quest’ottica si è stabilito che:

I) laddove ad un soggetto malato cronico, oltre alle prestazioni socio-assistenziali, vengano erogate

anche quelle sanitarie e sussista una stretta correlazione tra le stesse, l’attività va considerata comunque

di rilievo sanitario e quindi di totale competenza del servizio sanitario nazionale; lo stesso è a dire per le

persone affette da malattia mentale cronica, ricoverate presso un’apposita struttura, se vengano ivi

erogate sia prestazioni sanitarie sia prestazioni di natura assistenziale, tra loro strettamente correlate; in

tal caso i relativi oneri finanziari ricadono totalmente sul servizio sanitario nazionale (sì che il comune

non può addebitare ai congiunti del paziente il pagamento di una quota dei costi del ricovero in

relazione alle prestazioni assistenziali), senza che assuma rilievo, in contrario, la circostanza della

impossibilità di guarigione o miglioramento della malattia psichica trattata;

II) la competenza degli enti del servizio sanitario nazionale è esclusa tutte le volte in cui al malato

psichico risultino erogate prestazioni di mera assistenza e sorveglianza;

d) il criterio di collegamento per l’individuazione del comune (ma lo stesso vale per l’individuazione

dell’azienda sanitaria), tenuto a sostenere l’onere dell’assistenza e del soccorso a soggetti affidati a

strutture di ricovero, è costituito dal c.d. «domicilio di soccorso», inteso non solo come residenza, ma

anche come comune di nascita o come dimora di fatto al momento del ricovero senza che abbia rilievo

la successiva acquisizione della residenza nel luogo in cui è sita la struttura ospitante.

10. Scendendo all’esame dell’appello principale del comune di Fossacesia, è agevole rilevarne la

completa infondatezza alla stregua dei principi sopra illustrati.

(omissis)

10.2. Parimenti infondato si rivela il secondo mezzo, atteso che la posizione soggettiva azionata in

giudizio dall’Istituto dell’Addolorata ha pacifica consistenza di diritto soggettivo, sicché non è possibile

porre una questione di irricevibilità del ricorso avverso gli atti del comune di Fossacesia privi, in quanto

tali, di qualsiasi valenza provvedimentale perché meramente adempitivi di obbligazioni discendenti dalla

legge.

10.3. Migliore sorte non tocca al terzo mezzo di gravame, una volta assodato, sulla scorta della

precedente ricostruzione in fatto (retro §§ 1 ss.), che le prestazioni in concreto erogate dall’Istituto

dell’Addolorata hanno natura esclusivamente socio assistenziale e che in tale genus sono sussumibili (per

le considerazioni in diritto sviluppate retro § 9) anche quelle relative alla sorveglianza della disabile ed

alla somministrazione di farmaci.

Invero:

a) non può ammettersi che una struttura residenziale, priva dell’autorizzazione all’esercizio di attività

sanitaria, possa erogare prestazioni di carattere sanitario;

b) non è provato che la prescrizione del trattamento farmacologico sia stata disposta da personale

sanitario in servizio presso la struttura;

c) la concreta somministrazione del trattamento farmacologico non integra prestazione di carattere

sanitario in assenza di specifica prova contraria in ordine alle peculiarità intrinseche a tale attività ed

all’espletamento da parte di personale sanitario;

d) è assodato che il ricovero presso la struttura non aveva finalità riabilitative o di cura, stante la

irreversibilità e la stabilità del quadro clinico e medico legale della signora A.M.P.;

e) la mera attività di assistenza e sorveglianza, anche se svolta in via continuativa e finalizzata alla

prevenzione di atti autolesionistici, non integra il concetto di prestazione sanitaria.

10.4. Relativamente al quarto ed ultimo mezzo di gravame, il Collegio osserva che:

12

a) non è vero che il T.a.r. abbia disposto il cumulo degli accessori (interessi legali e rivalutazione

monetaria sulla sorte capitale), avendolo invece espressamente escluso; quanto al pagamento dei soli

interessi legali sulla somma complessiva (e dalla data) risultante dalla liquidazione della sorte capitale e

della rivalutazione monetaria ad opera degli enti convenuti, si tratta di evento non verificatosi; in questa

prospettiva le relative censure risultano inammissibili per carenza del requisito della soccombenza;

b) circa la natura querable dell’obbligazione dedotta in giudizio e la decorrenza degli accessori dalla data

di introduzione del giudizio di primo grado (28 dicembre 2006), si tratta di affermazione errata, sia in

fatto che diritto, perché:

I) a mente del combinato disposto degli artt. 1182, 1219, 1224 e 1282 c.c., come interpretati dalla

consolidata giurisprudenza (cfr. fra le tante Cass. civ., sez. I, 18 settembre 2013, n. 21340; 20 maggio

1997, n. 4476; sez. III, 3 ottobre 2005, n. 19320; 8 novembre 1983, n. 6597), i pagamenti dovuti dalle

amministrazioni pubbliche e dagli enti locali in particolare (a mente dell’art. 185 t.u. n. 267 del 2000),

compresi quelli aventi ad oggetto gli interessi corrispettivi ed il maggior danno derivante dal ritardo

nell’adempimento di obbligazioni pecuniarie, devono effettuarsi presso la tesoreria dell’ente e

necessitano dell’emissione del mandato di pagamento (anche al fine della decorrenza degli interessi che

presuppongono la liquidità ed esigibilità del credito principale); tanto esclude la possibilità di

configurare la mora ex re ed impone la necessità di una formale intimazione da parte del privato

creditore; allorquando però sia stata effettuata rituale messa in mora, resta irrilevante ogni circostanza

relativa alla procedura ed ai tempi di emissione del mandato di pagamento;

II) nel caso di specie risulta dalla lettera datata 18 aprile 2002 (redatta dal legale del creditore, inoltrata a

mezzo raccomandata postale e ricevuta dal comune il successivo 24 aprile 2002), che l’Istituto

dell’Addolorata ha costituito in mora il comune intimando il pagamento del dovuto a titolo di sorte

capitale ed accessori;

c) pertanto, le somme dovute a titolo di sorte capitale (ovvero gli importi delle rette di degenza e di

assistenza nella misura indicata dal T.a.r. e in quella successivamente dovuta sulla scorta delle

determinazioni via via assunte dagli organismi competenti), con decorrenza marzo 1998 (non contestata

dal comune), andranno maggiorate della sola rivalutazione monetaria esclusivamente e a partire dal

rateo mensile successivo alla messa in mora (ovvero dalla rata di maggio 2002) e fino all’effettivo

soddisfo; sui ratei mensili dovuti a titolo di rette di degenza e assistenza dall’ottobre 1998 all’aprile 2002,

non saranno pertanto riconosciuti e pagati accessori.

11. Quanto all’appello incidentale dell’A.s.l. è agevole rilevarne la fondatezza alla luce di tutte le

considerazioni in fatto e diritto sviluppate in precedenza.

Pertanto deve escludersi che l’A.s.l. sia tenuta al pagamento delle spese farmacologiche nonché a quelle

di assistenza e sorveglianza della disabile per tutte le ragioni esposte retro ai §§ 9. e 10.3.

12. (omissis)

13

2. La giurisdizione per connessione

2.1 Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 23 marzo 2011, n. 6594 : giurisdizione

ordinaria in materia di risarcimento del danno da provvedimento favorevole illegittimo

previamente annullato

Testo della sentenza

(omissis)

RITENUTO IN DIRITTO

Il ricorso devesi ritenere ammissibile, perche' il Tribunale adito, anziche' pronunciare sulla domanda nel

merito, con provvedimento in data 13.1.2010, preso atto del proposto regolamento preventivo di

giurisdizione, ha provveduto a sospendere il giudizio ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 367 c.p.c.

(cfr. in tal senso cass. sez. un. n. 4805 del 2005);

Con riferimento alla questione di giurisdizione sottoposta all'esame di questa Suprema Corte, si

osserva:

se la pubblica amministrazione procede alla emanazione di provvedimenti illegittimi - contro i quali, ai

sensi dell'articolo 113 Cost., comma 1, e' sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli

interessi legittimi lesi dinanzi agli organi di giustizia ordinaria o amministrativa - determina la lesione dei

diritti o degli interessi in maniera diversa a seconda che l'interesse leso rientri nella categoria generale

degli interessi pretensivi o in quella degli interessi oppositivi. Se l'interesse e' pretensivo la sua lesione si

concretizza nello illegittimo diniego o nella ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo

(legittimo); se l'interesse e' oppositivo la sua lesione si concretizza nello illegittimo sacrificio di un bene

o di una situazione di vantaggio. Il Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 80, articolo 35, come

sostituito dalla Legge 21 luglio 2000, n. 205, articolo 7, dispone che "il giudice amministrativo, nelle

controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in

forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto.".

La Corte Costituzionale, nelle sentenze n. 292 del 2000 e 281 del 2004, ha chiarito che con tale

disposizione il legislatore ha inteso rendere piena ed effettiva la tutela del cittadino nei confronti della

pubblica amministrazione, concentrando innanzi al giudice amministrativo non solo la fase del

14

controllo di legittimita' dell'azione amministrativa, ma anche (ove configurabile) quella della riparazione

per equivalente, ossia il risarcimento del danno, evitando per esso la necessita' di instaurare un

successivo e separato giudizio innanzi al giudice ordinario; ha chiarito, pero', che il risarcimento del

danno ingiusto non costituisce una nuova materia attribuita alla giurisdizione del giudice

amministrativo, ma esclusivamente uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a

quello classico demolitorio, da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica

amministrazione.

In altre parole il legislatore ha inteso realizzare la unificazione della tutela avanti al giudice

amministrativo, concentrando dinanzi allo stesso sia i poteri di annullamento dell'atto illegittimo che la

tutela risarcitoria consequenziale alla pronuncia di legittimita' dell'atto o provvedimento contro cui si

ricorre (argomenta anche dal succitato articolo 113 Cost.), prima riservata al giudice ordinario.

Ne deriva che la attrazione della tutela risarcitoria nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice

amministrativo puo' verificarsi esclusivamente qualora il danno, patito dal soggetto che ha proceduto

alla impugnazione dell'atto, sia conseguenza immediata e diretta (articolo 1223 c.c.) della illegittimita'

dell'atto impugnato; pertanto, qualora si tratti di atto o provvedimento rispetto al quale l'interesse

tutelabile e' quello pretensivo, il soggetto che puo' chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al giudice

amministrativo, perche' vittima di danno ricollegabile con nesso di causalita' immediato e diretto al

provvedimento impugnato, e' colui che si e' visto, a seguito di una fondata richiesta, ingiustamente

negare o adottare con ritardo il provvedimento amministrativo richiesto; qualora si tratti di atto o

provvedimento amministrativo rispetto al quale l'interesse tutelabile si configura come oppositivo, il

soggetto che puo' chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo e' soltanto colui che e'

portatore dello interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio, che vengono

direttamente pregiudicati dall'atto o provvedimento amministrativo contro il quale ha proposto ricorso.

Soltanto in queste situazioni la tutela risarcitoria si pone come tutela consequenziale e comporta, quindi,

la concentrazione della fase del controllo di legittimita' dell'azione amministrativa e quella della

riparazione per equivalente, ossia il risarcimento del danno, dinanzi all'unico giudice amministrativo.

Tra gli atti rispetto ai quali e' configurabile un interesse pretensivo rientra la concessione edilizia.

Appare opportuno precisare che la concessione edilizia prevista dalla legge n. 10/77 in sostituzione

della licenza edilizia, nonostante il nomen iuris, non e' una concessione. La Corte Costituzionale nella

sentenza 5/1980 ha chiarito che la concessione edilizia ha struttura e funzione di autorizzazione. In

detta sentenza si afferma che il diritto di edificare inerisce alla proprieta' dell'area da edificare (ius

aedificandi), e che tale diritto, pero', puo' essere esercitato solo entro i limiti, anche temporali, stabiliti

15

dagli strumenti urbanistici; che sussistendo le condizioni richieste solo il proprietario o il titolare di altro

diritto reale, che legittimi a costruire, puo' edificare, non essendo consentito dal sistema che altri possa,

autoritativamente, essere a lui sostituito per la realizzazione dell'opera; che, quindi, la concessione a

edificare non e' attributiva di diritti nuovi, ma presuppone facolta' preesistenti, sicche' sotto questo

profilo non adempie a funzione sostanzialmente diversa da quella dell'antica licenza, avendo lo scopo di

accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall'ordinamento per l'esercizio del diritto, nei limiti in

cui il sistema normativo ne riconosce e tutela la consistenza.

Il proprietario del suolo o il titolare di altro diritto reale, che legittimi a costruire, hanno, quindi, un

interesse pretensivo al rilascio della concessione edilizia; se il richiedente che si trova nelle condizioni

previste dalla legge per il rilascio di detta li concessione, se la veda ingiustamente negare, puo' insorgere

contro l'illegittimo provvedimento di diniego chiedendo al giudice amministrativo sia il controllo della

legittimita' dell'atto sia il conseguente risarcimento del danno. In questo caso e' ammissibile la

concentrazione di entrambe le tutele dinanzi allo stesso giudice, potendo l'avente diritto al rilascio della

licenza invocare entrambe le tutele. Diversa e' la situazione del proprietario o di altro titolare dello ius

aedificandi che ottenuta la concessione edilizia ed iniziata l'attivita' di edificazione sul fondo facendo

affidamento (incolpevole) sulla (apparente) legittimita' dell'atto, venga successivamente privato del

diritto ad edificare a seguito di annullamento di ufficio della concessione o di annullamento

giurisdizionale della stessa su ricorso di un soggetto (in tal caso titolare di

un interesse oppositivo), che assuma la intervenuta lesione di un suo diritto da parte del provvedimento

impugnato.

In questo caso, intervenuto l'annullamento d'ufficio o giurisdizionale per la riscontrata illegittimita' della

concessione, il proprietario ed il titolare di altro diritto che lo legittima ad edificare, venendo

giustamente privati del diritto ad edificare, non possono invocare, adducendo la perdita di tale facolta',

il risarcimento del danno. Sulla base di questa situazione non possono invocare ne' la tutela demolitoria

di un qualche atto (a meno che non si ritenga di impugnare il provvedimento di ufficio, che, una volta

riconosciuto legittimo non consente piu' di invocare lo ius aedificandi quale fondamento di una

ulteriore tutela) ne' quella risarcitoria alla possibilita' di quel tipo di tutela strettamente collegata. La

legittima privazione del diritto ad edificare non autorizza nessuna delle due tutele e non consente,

quindi, (non costituendo la tutela risarcitoria una autonoma ipotesi di giurisdizione esclusiva) che possa

essere invocata dinanzi al giudice amministrativo la tutela risarcitoria.

16

Una volta intervenuto legittimamente l'annullamento della concessione edilizia puo' rilevare

esclusivamente una diversa situazione, sulla quale fondare il risarcimento del danno.

Il titolare dello ius aedificandi, cui sia venuto meno tale diritto, a seguito di annullamento della

concessione edilizia o d'ufficio o su ricorso di un altro soggetto, che sia insorto contro detto

provvedimento (soggetto che, in quanto portatore di un interesse oppositivo all'annullamento dell'atto

puo' chiedere dinanzi al medesimo giudice amministrativo sia la tutela demolitoria che la correlata tutela

risarcitoria), una volta che sia stata definitivamente accertata la illegittimita' della concessione, si trova

privato dello ius aedificandi, senza che sussista un qualche altro provvedimento amministrativo contro

il quale possa insorgere.

Si ha soltanto che il provvedimento che aveva concesso il diritto ad edificare e che, perche' illegittimo,

legittimamente e' stato posto nel nulla e che non rileva, quindi, piu' come provvedimento che rimuove

un ostacolo all'esercizio di un diritto, continua a rilevare per il proprietario del fondo o il titolare di altro

diritto, che lo abiliti a costruire sul fondo, esclusivamente quale mero comportamento degli organi che

hanno provveduto al suo rilascio, integrando cosi', ex articolo 2043 c.c., gli estremi di un atto illecito per

violazione del principio del neminem laedere, imputabile alla pubblica amministrazione in virtu' del

principio di immedesimazione organica, per avere tale atto con la sua apparente legittimita' ingenerato

nel suo destinatario l'incolpevole convincimento (avendo questo il diritto di fare affidamento sulla

legittimita' dell'atto amministrativo e, quindi, sulla correttezza dell'azione amministrativa) di poter

legittimamente procedere alla edificazione del fondo.

In mancanza di un atto impugnabile il proprietario o il titolare di altro diritto che lo abiliti a costruire

sul fondo hanno la esclusiva possibilita' di invocare un'unica tutela (che non essendo collegata alla

impugnabilita' di un atto non puo' essere attratta nell'ambito di applicazione della giurisdizione

esclusiva, atteso che, appare opportuno ribadirlo, la autonoma tutela risarcitoria non costituisce una

ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva): quella risarcitoria fondata sull'affidamento; viene in

considerazione un danno che oggettivamente prescinde da valutazioni sull'esercizio del potere pubblico,

fondandosi su doveri di comportamento il cui contenuto certamente non dipende dalla natura

privatistica o pubblicistica del soggetto che ne e' responsabile, atteso che anche la pubblica

amministrazione, come qualsiasi privato, e' tenuta a rispettare nell'esercizio della attivita' amministrativa

principi generali di comportamento, quali la perizia, la prudenza, la diligenza, la correttezza. Di quanto

si e' osservato sin qui si puo' offrire questa sintesi.

17

In base agli articoli 103 e 113 Cost., il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa

hanno giurisdizione per la tutela contro gli atti della pubblica amministrazione.

La giurisdizione amministrativa e' dunque ordinata ad apprestare tutela - cautelare, cognitoria ed

esecutiva - contro l'agire della pubblica amministrazione, manifestazione di poteri pubblici,

quale si e' concretato nei confronti della parte, che in conseguenza del modo in cui il potere e'

stato esercitato ha visto illegittimamente impedita la realizzazione del proprio interesse

sostanziale o la sua fruizione.

Dei poteri che al giudice amministrativo e' stato dato di esercitare per la tutela degli interessi sacrificati

dall'agire illegittimo della pubblica amministrazione, dal Decreto Legislativo n. 80 del 1998, in poi, ha

iniziato a far parte anche il potere di condanna al risarcimento del danno, in forma di completamento o

sostitutiva: risarcimento che e' percio' volto a contribuire ad elidere le conseguenze di quell'esercizio del

potere che si e' risolto in sacrificio illegittimo dell'interesse sostanziale del destinatario dell'atto.

Casi, come quello in esame, non prospettano un'esigenza di tutela quale quella appena delineata.

La parte che agisce in giudizio non e' stata destinataria di un provvedimento ablatorio, di un

comportamento silenzioso mantenuto su una domanda di provvedimento favorevole o del diniego di

un tale procedimento, atti o comportamenti di cui avrebbe potuto avere ragione di postulare

l'illegittimita' e sollecitare di tale illegittimita' l'affermazione con l'ulteriore eventuale ristoro del danno

che quella illegittimita' gli avesse provocato.

Nel caso in esame, la parte ha ottenuto il rilascio di una concessione edilizia e ha iniziato a realizzare il

manufatto oggetto della concessione.

Questa situazione di fatto non era tale da sollecitare alcuna esigenza di tutela contro un agire illegittimo

della pubblica amministrazione.

L'esigenza di tutela - risarcitoria e solo di tale tipo - affiora in questo come in analoghi casi solo per

l'affidamento ingenerato dal provvedimento favorevole e non richiede che per ottenere il risarcimento

la parte domandi al giudice amministrativo un accertamento a proposito della illegittimita' del

comportamento tenuto dall'amministrazione, perche' questo accertamento essa ha invece interesse a

contrastarlo nel giudizio di annullamento del provvedimento summenzionato da altri provocato e puo'

solo subirlo.

18

La parte che invoca la tutela risarcitoria non postula dunque un esercizio illegittimo del potere,

consumato in suo confronto con sacrificio del corrispondente interesse sostanziale, ma la colpa che

connota un comportamento consistito per contro nella emissione di atti favorevoli, poi ritirati per

pronunzia giudiziale o in autotutela, atti che hanno creato affidamento nella loro legittimita' ed

orientato una corrispondente successiva condotta pratica, poi dovuta arrestare.

La possibilita' di questa sola e, quindi, autonoma tutela porta ad escludere la giurisdizione esclusiva del

giudice amministrativo, invocata

dalle controparti in applicazione del Decreto Legislativo n. 80 del 1998, articolo 34, come sostituito

dalla Legge n. 205 del 2000, articolo 7, non solo, ma anche quella generale di legittimita', stante la

consistenza di diritto soggettivo della situazione, nel caso di specie, fatta valere. Va dichiarata, pertanto,

la giurisdizione del giudice ordinario, compensando integralmente tra le parti, data la complessita' della

questione, le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; compensa le spese.

2.2 Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 4 febbraio 2011, n. 804 : danno da occupazione

appropriativa e indennizzo da occupazione legittima

TESTO DELLA SENTENZA

(omissis)

DIRITTO

1. - In via preliminare, va disposta la riunione dei due appelli, in quanto proposti contro la stessa

sentenza.

2. - Gli appelli non sono fondati e vanno respinti per i motivi di seguito precisati.

3. - Iniziando la disamina dalle ragioni proposte nel ricorso n. 3915 del 2010, evidenziata la palese

inammissibilità del primo motivo che contiene un’istanza di correzione degli errori materiali contenute

19

nella sentenza di primo grado e che va proposto con l’apposito rimedio giurisdizionale, rilevato che ai

punti 2 e 3 dell’appello non sono contenute ragioni di doglianza, deve essere esaminato il terzo motivo

di ricorso, con cui si lamenta l’erroneità del ritenuto difetto di giurisdizione del giudice amministrativo

sulla domanda di accertamento dell’inefficacia e dell’inopponibilità dell’atto pubblico notarile di

trasferimento della proprietà dell’immobile oggetto di espropriazione dal CASIC alla società ARPRA. A

parere della difesa appellante, poiché il trasferimento della proprietà è una delle possibili finalità

dell’espropriazione, questo deve essere considerato comportamento riconducibile, anche mediatamente,

all’esercizio del pubblico potere, e quindi ricompreso nell’ambito attribuito alla cognizione del giudice

amministrativo.

4. - La doglianza non ha pregio.

Occorre rilevare che il procedimento espropriativo, nel quale vengono esercitati i poteri autoritativi

spettanti alla pubblica amministrazione, si conclude al momento dell’acquisizione in capo al soggetto

pubblico dell’utilità prima appartenente al privato. L’attività rientrante nell’ambito delle attribuzioni

pubblicistiche è quindi quella che termina, nel caso in specie, con il decreto di esproprio. Da quel

momento in poi, il regime giuridico del bene ablato cessa di essere regolato dal diritto amministrativo

per finire invece nell’ambito del diritto comune e quindi nel regime ordinario della proprietà.

Pertanto, anche a volere accedere all’ampia nozione di riconducibilità al pubblico potere

propugnata dalla difesa appellante, questa non può essere impiegata per travalicare i limiti

ontologici dei procedimenti ablatori. Ne deriva che, completata la fase procedimentale

autoritativa, a nulla rileva l’ulteriore destinazione impressa al bene, atteso che questo è, nelle

more, transitato nella disponibilità, secondo le regole del codice civile, del soggetto

avvantaggiato dall’espropriazione.

Deve quindi ritenersi corretta la valutazione operata dal giudice di prime cure che ha dichiarato, in

relazione alla domanda di dichiarazione di inefficacia e di inopponibilità dell’atto di compravendita, il

proprio difetto di giurisdizione.

5. – (omissis)

8. - Venendo ora alle ragioni sostenute dal CACIP nel ricorso n. 4005 del 2010, viene in rilievo il primo

motivo di diritto, con il quale l’appellante consorzio si duole del rigetto dell’eccezione di difetto di

giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alle domande risarcitorie conseguenti

all’annullamento degli atti del procedimento amministrativo di espropriazione.

20

8.1. - La doglianza non ha pregio.

Va, infatti, ricordato che, a seguito di un lungo travaglio giurisprudenziale, l’attuale assetto del riparto di

attribuzioni tra le due magistrature è nel senso di ritenere che, anche nel caso di procedimento

espropriativo non soggetto alle norme del D.P.R. n. 327/2001, rientra nella giurisdizione del giudice

amministrativo un’azione con la quale i proprietari di un’area hanno chiesto la restituzione del fondo, o

in subordine il risarcimento dei danni, deducendo la sopravvenuta illegittimità degli atti di occupazione,

ancorché originariamente avvenuti a seguito di una corretta dichiarazione di pubblica utilità. Rientra,

invece, nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda relativa alla richiesta dell'indennità di

occupazione legittima, in applicazione, ratione temporis, dell’art. 34 d.lgs. n. 80/1998, come sostituito

dall’art. 7, comma 1, lett. b), l. n. 205/2000, senza che l’eventuale connessione tra tale domanda e quella

di risarcimento del danno può giustificare l'attribuzione di entrambe le domande allo stesso giudice,

essendo indiscusso in giurisprudenza il principio generale dell'inderogabilità della giurisdizione per

motivi di connessione (da ultimo, Cassazione civile, sez. un., 9 febbraio 2010, n. 2788).

Pertanto, in disparte ogni considerazione sulla circostanza di quanto in concreto sia stata accolta la

domanda, deve ritenersi che in ogni caso la giurisdizione sia stata correttamente radicata dinanzi al

giudice amministrativo.

9. – (omissis).

3. In base al criterio ordinario di riparto spettano al giudice amministrativo tutte le

controversie nelle quali si faccia questione del corretto esercizio del potere

pubblico da parte di un soggetto pubblico.

3.1 Nozione di p.a.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 22 dicembre 2011, n. 28329

Testo

(omissis)

DIRITTO

(omissis)

21

Con il primo motivo la ricorrente in sostanza deduce la erroneità della qualificazione della 'selezione per

personale giornalistico 2010' della RAI come 'procedura concorsuale', e la inesistenza nella specie di

qualsivoglia situazione giuridica soggettiva in capo al […], in quanto il provvedimento impugnato

dinanzi al giudice amministrativo non era un bando di concorso, essendo semplicemente finalizzato alla

selezione di un gruppo di persone che la RAI si riservava di assumere o meno, a seconda delle future

esigenze aziendali.

Con il secondo motivo la ricorrente rileva la erroneità della qualificazione della s.p.a. RAI come ente

equiparato alla pubblica amministrazione, deducendo che la RAI è una società per azioni (art. 49 d.lgs.

n. 177/2005) equiparata agli enti pubblici soltanto a determinati fini, e cioè con riguardo alla disciplina

degli appalti e alla responsabilità contabile dei funzionari, ma non in relazione alla disciplina

dell'organizzazione interna, interamente sottratta al diritto pubblico, ed aggiungendo che la scelta

legislativa in favore della natura privatistico societaria della RAI, è stata dettata proprio dall'intento di

differenziare la RAI dalle amministrazioni pubbliche, sicché equiparare la prima alle seconde per via

giurisprudenziale costituirebbe una 'invasione del merito legislativo', non consentita all'Autorità

Giudiziaria. La ricorrente, inoltre, deduce che:

- la nomina di taluni consiglieri d'amministrazione da parte di una commissione parlamentare non è

risolutiva per affermare la natura di ente pubblico della RAI, perché caratteristica comune a tutte le

società per azioni di interesse nazionale;

- l'indisponibilità dello scopo sociale è comune a numerose imprese, ivi comprese quelle

indubitabilmente private operanti nel settore radiotelevisivo, le quali non possono avere altro oggetto

sociale che l'esercizio dell'attività radiotelevisiva;

- la percezione di fondi pubblici consegue alla scelta originaria, secondo la quale la concessionaria del

servizio pubblico radiotelevisivo, ancorché società per azioni, dovesse essere in mano pubblica;

- la sottoposizione ai poteri di vigilanza di un'apposita commissione parlamentare non depone per la

natura pubblica dell'ente, ed anzi prescinde dalla forma prescelta per lo stesso;

- il controllo della Corte dei Conti discende dal fatto che la RAI rientra tra gli enti, non necessariamente

pubblici, destinatari di contribuzioni ordinarie da parte dello Stato;

- l'obbligo dell'osservanza delle procedure di evidenza pubblica nell’affidamento degli appalti, scaturisce

dall’inquadramento a tal fine negli 'organismi di diritto pubblico' ai sensi della normativa comunitaria in

materia ma non implica affatto la natura pubblica dell'ente.

22

Con il terzo motivo la ricorrente, deduce che anche le norme generali sul riparto di giurisdizione di cui

agli artt. 7 e 133 del Codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010) escludono nella

fattispecie la giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto la RAI non è titolare di poteri

autoritativi e nell’esercizio della propria attività non emana provvedimenti amministrativi, rilevando

altresì che neppure potrebbe dilatarsi 'a dismisura' l’ambito applicativo dell’art. 63 c. 4 del d.lgs. n. 165

del 2011, in forza della 'generalissima disposizione' contenuta nell’art. 18 comma 2 del d.l. 112 del 2008

(conv. con l. n. 133 del 2008), con conseguente 'surrettizio ampliamento della giurisdizione' del giudice

amministrativo.

In primo luogo, osserva il Collegio che la RAI - Radiotelevisione italiana s.p.a. è designata direttamente

dalla legge (vedi ora art. 49 comma 1 del d.lgs. n. 177 del 31-7-2005 – 'T.U. dei servizi di media

audiovisivi e radiofonici' -, e già art. 20 comma 1 della legge n. 112 del 3-5-2004) quale concessionaria

(fino al 6-5-2016) del 'servizio pubblico generale radiotelevisivo' (in precedenza sulla 'natura' di s.p.a. di

'interesse nazionale ex art. 2461 c.c.' (ora art. 2451 c.c.) della società concessionaria v. art. 1 della legge

n. 206 del 1993 e sulla previsione della concessione 'ad una società per azioni a totale partecipazione

pubblica' v. art. 2 comma 2 della legge n. 223 del 1990 e, prima ancora, art. 3 della legge n. 103 del 1975;

da ultimo, invece, sulla previsione dell’avvio del processo di 'dismissione della partecipazione dello

Stato' v. art. 21 della legge n. 112 del 2004, richiamato nel comma 13 dell’art. 49).

Il secondo comma, poi, del citato articolo 49 del T.U. stabilisce espressamente che 'per quanto non sia

diversamente previsto dal presente testo unico la Rai Radiotelevisione s.p.a. è assoggettata alla disciplina

generale delle società per azioni, anche per quanto concerne l'organizzazione e l’amministrazione'.

La RAI è quindi una società per azioni per volontà stessa del legislatore (che peraltro con l'art. 21 della

legge n. 112 del 2004 ha previsto anche la incorporazione della 'Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a.' nella

RAI-Holding s.p.a.' nonché, 'per l'effetto', la assunzione da parte della incorporante della

denominazione sociale di 'RAI- Radiotelevisione italiana s.p.a.') e, seppure soggetta ad una disciplina

particolare per determinati aspetti ed a determinati fini, riguardanti anche la giurisdizione, chiaramente

dettata da interessi di natura pubblica, per tutto quanto non diversamente previsto non può che essere

regolata secondo il regime generale delle società per azioni.

In particolare va premesso che il T.U. citato, all'art. 7 chiarisce che la RAI è 'la società del servizio

pubblico generale radiotelevisivo' istituita 'al fine di favorire l’istruzione, la crescita civile e il progresso

sociale, di promuovere la lingua italiana e la cultura, di salvaguardare l’identità nazionale e di assicurare

prestazioni di utilità sociale', con il contributo pubblico da essa percepito, costituito dal canone versato

dagli utenti, che 'è utilizzabile esclusivamente ai fini dell’adempimento dei compiti di servizio pubblico

23

generale affidati alla stessa (all’uopo l’art. 47 dello stesso T.U. prevede la tenuta di 'una contabilità

separata' e il divieto di 'utilizzare, direttamente o indirettamente, i ricavi derivanti dal canone per

finanziare attività non inerenti al servizio pubblico' – in tal senso v. già art. 18 della legge n. 112 del

2004 - ).

La norma, peraltro, precisa che l'informazione radiotelevisiva di qualsiasi emittente costituisce

comunque un 'servizio di interesse generale'.

L’art. 49 disciplina gli organi, i relativi poteri e le relative nomine, stabilendo tra l'altro che spetta alla

Commissione parlamentare di vigilanza il potere di nominare i sette noni del consiglio di

amministrazione 'fino a che il numero delle azioni alienate non superi la quota del 10 per cento del

capitale'.

La RAI è poi sottoposta a penetranti poteri di vigilanza da parte della detta Commissione parlamentare

(art. 50) e alla verifica dell’adempimento dei compiti affidata all’Autorità per le garanzie nelle

comunicazioni (art. 48), nonché al controllo della Corte dei Conti (ai sensi dell’art. 2 della legge n. 259

del 1958, trattandosi di ente 'cui lo Stato contribuisce in via ordinaria' e, dal 2010, a seguito del DPCM

10-3-2010, ai sensi dell'art. 12 della stessa legge, configurandosi, con riguardo alla intervenuta recente

fusione sopra richiamata, la fattispecie tipica dell'apporto statale al patrimonio in capitale).

In tale quadro, poi, è stato precisato da questa Corte che 'poiché la RAI è un'impresa pubblica (sotto

forma societaria, in cui lo Stato ha una partecipazione rilevante) operante nel settore dei 'servizi'

pubblici di telecomunicazioni radio e televisive in concessione, assoggettata, ai poteri di vigilanza e di

nomina da parte dello Stato e costituita per soddisfare finalità di interesse generale, essa deve essere

qualificata come 'organismo di diritto pubblico' tenuto ad osservare le norme comunitarie di evidenza

pubblica, nonché le rispettive norme interne attuative, per la scelta dei propri contraenti in tutti gli

appalti di valore eccedente le soglie indicate per i servizi di cui all'art. 7 del d.lgs. n. 158 del 1995 (ad

eccezione delle sole procedure per l’aggiudicazione di appalti che siano relativi specificamente a servizi

di radiodiffusione e televisione - settore 'escluso' dalla Direttiva 92/50/CEE del 18 giugno 1992)', con

le relative conseguenze in ordine alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art.

33, lett. d) del d.lgs. n. 80 del 1998 come sostituito dall’art. 7, comma 1, lett. a) della legge n. 205 del

2000 (v. Cass. S.U. 23-4-2008 n. 10443).

Nello stesso quadro, infine, pur sempre delimitato, va collocata la affermazione della sostanziale

'assimilabilità' della RAI ad un 'ente pubblico' al fine della qualificabilità come danno erariale del danno

cagionato dai suoi agenti e della conseguente loro assoggettabilità all'azione di responsabilità

24

amministrativa davanti al giudice contabile, peraltro connessa al controllo ex l. n. 259 del 1958 al quale è

assoggettata (v. Cass. S.U. 22-12-2009 n. 27092).

Orbene, tali aspetti particolari, costituiscono pur sempre dei segmenti speciali di una disciplina che,

comunque, per tutto quanto non diversamente disposto si rifà al regime proprio delle società per azioni.

Del resto la espressa configurazione per legge in tal senso non potrebbe di certo assumere una valenza

assolutamente 'neutrale'.

In conclusione la RAI-Radiotelevisione Italiana, anche se fortemente caratterizzata dagli evidenziati

peculiari aspetti e tuttora in mano pubblica, resta pur sempre una società per azioni, e ciò deve vieppiù

affermarsi a seguito della legge n. 112 del 2004 e del T.U. n. 177 del 2005 (in precedenza sulla natura

privatistica della RAI v. fra le altre Cass. S.U. 26-11-1996 n. 10490, Cass. 13-8-2002 n. 12200).

Sulla base di tale premessa deve quindi escludersi che, con riferimento alla stessa, possa applicarsi la

riserva della giurisdizione del giudice amministrativo, 'in materia di procedure concorsuali per

l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni', di cui all'art. 63 comma 4 del d.lgs. n. 165

del 2001.

La RAI, infatti, non è in alcun modo annoverabile tra le pubbliche amministrazioni indicate nell'art. 1

comma 2 dello stesso d.lgs..

Né all'uopo potrebbe invocarsi l'ampia espressione contenuta nell'art. 7 comma 2 del Codice del

processo amministrativo, d.lgs. n. 104 del 2010 ('Per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente

codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del

procedimento amministrativo'). Il detto articolo, infatti, come si legge nella Relazione trasmessa dal

Governo al Senato, 'definisce la giurisdizione del giudice amministrativo in ossequio alle norme

costituzionali e ai noti principi dettati dalla Corte Costituzionale, in particolare nelle sentenze nn. 204

del 2004 e 191 del 2006. In applicazione di tali regole e principi la giurisdizione amministrativa è

strettamente connessa all'esercizio (o al mancato esercizio) del potere amministrativo e in tale ambito

rientrano in essa le controversie concernenti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili

anche mediatamente a detto potere. L'articolo 7 costituisce una clausola generale tesa a spiegare la ratio

delle diverse ipotesi di giurisdizione amministrativa in termini unitari'

In definitiva ciò che è comunque essenziale è la riconducibilità dell'atto, del provvedimento o del

comportamento all'esercizio di un pubblico potere (cfr. C. Cost. n. 191 del 2006, n. 35 del 2010),

esercizio che è del tutto assente in capo alla RAI.

25

Alla luce, quindi, di quanto espresso nella richiamata Relazione, deve escludersi qualsiasi incidenza

innovativa dell'art.7 comma 2 citato sulla estensione della giurisdizione amministrativa nella materia

delle procedure concorsuali come prevista dall’art. 63 comma 4 d.lgs. n. 165 del 2001, tanto meno in

combinato disposto con l’art. 18 comma 2 del d.l. n. 112 del 2008, conv. con l. n. 133 del 2008 ('Le altre

società a partecipazione pubblica totale o di controllo adottano, con propri provvedimenti, criteri e

modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi,

anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità e imparzialità').

In primo luogo l’art. 7 comma 2 citato non contiene alcun rinvio all’art. 18 comma 2 citato, con la

conseguenza che tale ultima disposizione di natura chiaramente sostanziale non può assumere di per sé

alcuna rilevanza processuale, tanto meno al fine di un allargamento della giurisdizione del giudice

amministrativo prevista dall’art. 63 comma 4 del d.lgs. n. 165 del 2001.

L'obbligo, poi, di adottare i detti 'criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il

conferimento degli incarichi', si inserisce pur sempre nell'agire (jure privatorum) della società, senza

comportare esercizi di pubbliche potestà e senza incidere sulla giurisdizione.

Inoltre non può ignorarsi che la riserva della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di

procedure concorsuali, ex art. 63 comma 4 d. lgs. n. 165 del 2001, presuppone la finalità della

instaurazione di un rapporto di lavoro pubblico, seppure contrattualizzato, alle dipendenze di una

pubblica amministrazione e non può affatto configurarsi in funzione della insorgenza di un rapporto di

lavoro privato alle dipendenze di una società per azioni.

Infine, con riferimento alla fattispecie in esame, neppure può trascurarsi che la selezione de qua

('riservata a giornalisti professionisti di lingua italiana da utilizzare, per future esigenze, con contratti di

lavoro subordinato a tempo determinato in qualità di redattore ordinario, nelle redazioni giornalistiche

regionali' delle regioni e province autonome indicate) non ha ad oggetto, in via immediata, l'assunzione

di giornalisti, ma solo l’individuazione di un gruppo di giornalisti idonei in vista di future assunzioni, di

guisa che anche sotto tale profilo non potrebbe invocarsi l’art. 63 comma 4 del d.lgs. 165/2001 (per

un'ipotesi analoga v. Cass. 13-8-2002 n. 12200 cit.).

In conclusione, sul regolamento preventivo di giurisdizione proposto, nella controversia in esame va

dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.

Infine in considerazione della complessità e della novità delle questioni trattate, le spese del presente

giudizio vanno compensate tra le parti.

26

P.Q.M.

Pronunciando sul ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, compensa le spese e

rimette le parti davanti al tribunale civile.

3.2 Potere pubblico

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza del 3 giugno 2011, n.10

DIRITTO

(omissis)

Sul merito dei ricorsi di primo grado

33. Superati tutti gli ostacoli frapposti dalle numerose questioni pregiudiziali e preliminari, occorre

procedere all’esame, per la prima volta, dei ricorsi di primo grado, espressamente e integralmente

riproposti.

I motivi dei ricorsi di primo grado si incentrano sulle seguenti questioni:

a) dalle deliberazioni prodromiche alla scissione non emergerebbero le ragioni di interesse pubblico e in

particolare le finalità istituzionali sottese alla creazione della società di engineering;

b) le Università non potrebbero partecipare, quali operatori economici, a gare di appalto e

pertanto non potrebbero allo scopo costituire una società con socio unico né potrebbero agire

quali imprenditori sul mercato;

c) la società di engineering sarebbe stata dotata di un capitale di quasi tre miliardi di vecchie lire (lire

2799 milioni), provenienti da un finanziamento statale destinato ad altro scopo (il recupero urbanistico

di Venezia);

d) le Università hanno fini non lucrativi di ricerca e di insegnamento, per cui non potrebbero

costituire una società con fini di lucro;

e) si sarebbe creata una società privata a fine di lucro, che opera sul mercato in concorrenza con

operatori privati, fruendo di finanziamento pubblico, così creandosi una evidente distorsione di

mercato.

33.1. L’ordinanza di rimessione ritiene che le Università, aventi finalità di insegnamento e di

ricerca, possano dare vita a società, nell’ambito della propria autonomia organizzativa e

27

finanziaria, solo per il perseguimento dei propri fini istituzionali, e non per erogare servizi

contendibili sul mercato.

Tanto, ad avviso dell’ordinanza di rimessione, in virtù di un principio che si desume dall’ordinamento, e

che è ora codificato dall’art. 27, co. 3, l. n. 244/2007.

34. In punto di diritto, il collegio, condividendo quanto affermato nell’ordinanza di rimessione, ritiene

che l’art. 27, co. 3, l. n. 244/2007 esprima un principio di carattere generale che era immanente

nell’ordinamento anche prima della sua esplicitazione positiva.

34.1. Dispone, infatti, la citata disposizione che, “al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le

amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non

possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente

necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere

direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. E’ sempre ammessa la costituzione di

società che producono servizi di interesse generale e che forniscono servizi di committenza o di centrali

di committenza (…)”.

La disposizione in questione evidenzia un evidente disfavore del legislatore nei confronti della

costituzione e del mantenimento da parte delle amministrazioni pubbliche (ivi comprese le Università)

di società commerciali con scopo lucrativo, il cui campo di attività esuli dall’ambito delle relative finalità

istituzionali, né risulti comunque coperto da disposizioni normative di specie (secondo il modello delle

c.d. ‘società di diritto singolare’).

Si osserva al riguardo che la Corte costituzionale, nel dichiarare infondata la questione di legittimità

costituzionale relativa ai commi 27 e 29, con la sentenza 4 maggio 2009 n. 148, ha sottolineato come

essi abbiano inteso rafforzare la distinzione tra l’esercizio della attività amministrativa in forma

privatistica (posta in essere da società che operano per una pubblica amministrazione con effettivo

carattere di strumentalità, configurandosi nei fatti quali mere modalità organizzative per l’esercizio di

compiti tipici dell’Ente pubblico di riferimento) e l’esercizio della attività di impresa da parte degli enti

pubblici, mirando altresì ad evitare che quest'ultima possa essere svolta beneficiando dei privilegi dei

quali un soggetto può godere in quanto pubblica amministrazione.

34.2. Così interpretata la ratio della citata disposizione, essa esprime un principio già in precedenza

immanente nel sistema.

Il sistema, anche anteriormente alla l. n. 244/2007, era connotato dalle seguenti coordinate

fondamentali:

a) l’attività di impresa è consentita agli enti pubblici solo in virtù di espressa previsione;

b) l’ente pubblico che non ha fini di lucro non può svolgere attività di impresa, salve espresse deroghe

normative;

28

c) la possibilità di costituzione di società in mano pubblica, operanti sul mercato, è ordinariamente

prevista da espresse disposizioni legislative; non di rado è la legge a prevedere direttamente la creazione

di una società a partecipazione pubblica;

d) la costituzione di società per il perseguimento dei fini istituzionali propri dell’ente pubblico è

generalmente ammissibile se ricorrono i presupposti dell’in house (partecipazione totalitaria pubblica,

esclusione dell’apertura al capitale privato, controllo analogo, attività esclusivamente o prevalentemente

dedicata al socio pubblico), e salvi specifici limiti legislativi (v. art. 23-bis, co. 3, d.l. n. 112/2008 conv.

in l. n. 133/2008).

34.3. Un conto è, dunque, la costituzione di una società in house, da parte di un ente pubblico senza

fine di lucro, che è in sé un modulo organizzativo neutrale, che rientra nell’autonomia organizzativa

dell’ente, con il limite intrinseco che ogni forma organizzativa è sempre e necessariamente strumentale

al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente medesimo, e salvi specifici limiti legislativi.

Un altro conto è la costituzione, da parte di un ente pubblico, di una società commerciale che non operi

con l’ente socio, ma operi sul mercato, in concorrenza con operatori privati, e accettando commesse sia

da enti pubblici che da privati.

La società commerciale facente capo ad un ente pubblico, operante sul mercato in concorrenza con

operatori privati, necessita di previsione legislativa espressa, e non può ritenersi consentita in termini

generali, quanto meno nel caso in cui l’ente pubblico non ha fini di lucro.

La stessa Corte costituzionale, nel ribadire l’intangibilità in via di principio della libertà di iniziativa

economica privata degli Enti pubblici, ha altresì sottolineato la necessità di “evitare che soggetti dotati

di privilegi operino in mercati concorrenziali” (sentenza n. 326/2008). L’approccio in questione, del

resto, appare pienamente compatibile con il paradigma normativo comunitario secondo cui è fatto

divieto agli Stati membri di emanare o mantenere, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese

cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, misure contrarie alle disposizioni dei trattati, con particolare

riguardo a quelle in tema di tutela della concorrenza e divieto di erogazione di aiuti di Stato (art. 106

TFUE – già art. 86 TCE).

34.4. L’evoluzione normativa mostra un netto sfavore per la costituzione e mantenimento di società da

parte di enti pubblici, persino per quanto riguarda gli enti locali, nonostante il loro riconoscimento

costituzionale come enti territoriali autonomi a fini generali, e persino quando si tratta di società create

per i fini istituzionali dell’ente (art. 13, d.l. n. 223/2006; art. 23-bis, d.l. n. 112/2008; art. 14, co. 31, d.l.

n. 78/2010).

34.5. Tanto vale anche per le Università, la cui riconosciuta e indiscussa autonomia organizzativa e

finanziaria incontra il limite interno invalicabile della rigorosa strumentalità rispetto alle finalità

istituzionali.

Viene in rilevo, sotto tale profilo, l’art. 6, co. 4, l. n. 168/1989, il quale, nell’individuare le Università

quali ‘sedi primarie della ricerca scientifica’ e nel ribadire il necessario rispetto della libertà di ricerca dei

docenti e dei ricercatori nonché dell'autonomia di ricerca delle strutture scientifiche, stabilisce – con

29

inciso dall’evidente carattere di chiusura – che le richiamate prerogative siano riconosciute alle

Università pur sempre “per la realizzazione delle proprie finalità istituzionali”.

Viene anche in considerazione lo Statuto di IUAV, che sia nel testo vigente all’epoca dei fatti che in

quello attuale, dispone espressamente che “(…)L’Università IUAV, ferma restando l’esclusione di

qualunque scopo di lucro ha piena capacità di diritto pubblico e privato(…) è legittimata a porre in

essere ogni atto negoziale, anche a titolo oneroso, idoneo al perseguimento delle proprie finalità

istituzionali, ivi compresi gli atti di costituzione o di adesione (…) a società di capitali (…)”.

E’ evidente il nesso di stretta strumentalità del negozio societario rispetto ai fini istituzionali dell’Ente.

In assenza di una disposizione di legge in senso contrario, sembra che il logico corollario sia

rappresentato dal generale divieto per tali Istituzioni di istituire società di capitali con scopo meramente

lucrativo (le cui finalità, per definizione, esulano dal perseguimento delle tipiche finalità istituzionali).

34.6. Né militano in senso favorevole alla possibilità di costituire società commerciali operanti sul

mercato le previsioni dell’art. 7, l. n. 168/1989 e dell’art. 66, d.P.R. n. 382/1980.

L’art. 7, relativo all’autonomia finanziaria e contabile dell’Università, dispone che le sue entrate sono, tra

l’altro, costituite da “c) forme autonome di finanziamento, quali contributi volontari, proventi di

attività, rendite, frutti e alienazioni del patrimonio, atti di liberalità e corrispettivi di contratti e

convenzioni”.

La circostanza che siano previsti i corrispettivi di contratti e convenzioni non autorizza per ciò solo a

ritenere che sia consentito qualsivoglia contratto, e segnatamente il contratto costitutivo di società

commerciale, perché si deve pur sempre trattare di contratti consoni ai fini istituzionali dell’Ente.

A sua volta l’art. 66, d.P.R. n. 382/1980, prevede che “Le Università, purché non vi osti lo svolgimento

della loro funzione scientifica didattica, possono eseguire attività di ricerca e consulenza stabilite

mediante contratti e convenzioni con enti pubblici e privati. L'esecuzione di tali contratti e convenzioni

sarà affidata, di norma, ai dipartimenti o, qualora questi non siano costituiti, agli istituti o alle cliniche

universitarie o a singoli docenti a tempo pieno”.

Infatti tale previsione intanto pone un limite di compatibilità e pertinenza della ricerca e consulenza,

rispetto ai fini istituzionali, e inoltre prevede una specifica formula organizzativa, atteso che l’esecuzione

di contratti e convenzioni deve avvenire tramite le ordinarie strutture dell’Università, e non mediante

società commerciali.

Sono previste poi una rigorosa ripartizione dei proventi delle prestazioni e dei contratti e una precisa

destinazione delle entrate, finalizzate al finanziamento dei compiti istituzionali dell’Università.

34.7. Il Collegio concorda anche con quanto osservato nell’ordinanza di rimessione, in ordine

all’irrilevanza, ai fini del presente giudizio, del mutato panorama giurisprudenziale in ordine alla

questione se le Università possano o meno partecipare, in veste di operatori economici, a gare di

appalto, per le ragioni già esposte nel par. 32.

30

Si impone tuttavia una puntualizzazione in ordine ai limiti entro cui l’Università può, tramite apposita

società, agire quale operatore economico nei confronti di committenza pubblica, oltre che privata.

L’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici con la determinazione 21 ottobre 2010 n. 7, alla luce

dell'orientamento espresso dalla C. giust. CE, ha sostenuto che “non sembra potersi affermare, in via

generale, l'esistenza di un divieto per gli operatori pubblici a partecipare alle procedure ad evidenza

pubblica. (…) Al contrario, la possibilità per le Università di operare sul mercato sarebbe espressamente

prevista dall'articolo 7, comma 1, lett. c), della legge 168/1989, che include, tra le entrate degli atenei,

anche i corrispettivi di contratti e convenzioni, nonché dall’articolo 66, del d.P.R. 382/1980, (…) che

prevede che le Università possano eseguire attività di ricerca e consulenza, stabilite mediante contratti e

convenzioni con enti pubblici e privati, con l’unico limite della compatibilità delle suddette attività con

lo svolgimento della funzione scientifica e didattica che per gli Atenei rimane prioritaria”.

Ad avviso del Collegio, il limite non è di mera compatibilità, ma di stretta strumentalità.

L’attività di ricerca e consulenza, anche se in favore di enti pubblici, non può essere indiscriminata, sol

perché compatibile, ma deve essere strettamente strumentale alle finalità istituzionali dell’Ente, che

sono la ricerca e l’insegnamento, nel senso che giova al progresso della ricerca e dell’insegnamento, o

procaccia risorse economiche da destinare a ricerca e insegnamento.

Non si può pertanto trattare di un’attività lucrativa fine a sé stessa, perché l’Università è e rimane un

ente senza fine di lucro.

Entro i limiti sopra disegnati, deve ammettersi che l’Università possa agire quale operatore economico

nei confronti di committenti pubblici (o ad essi equiparati ai sensi del d.lgs. n. 163/2006), non solo in

via diretta, ma anche mediante apposita società (come consentito dalla stessa Autorità di vigilanza sin

dalla deliberazione 18 aprile 2007 n. 119).

35. In tale prospettiva, occorre allora verificare, passando al caso concreto, se la società ISP s.r.l. sia o

meno strettamente necessaria al perseguimento delle finalità istituzionali dell’Università IUAV.

35.1. Si deve anzitutto escludere che ISP s.r.l. abbia i requisiti di una società in house, in quanto:

- pur essendo, al momento attuale, una società a totale partecipazione pubblica, lo statuto prevede la

possibilità di cessione delle azioni a terzi soggetti, non necessariamente pubblici (art. 6 statuto);

l’apertura al capitale privato esclude la sussistenza dell’in house [C. giust. CE 13 ottobre 2005 C-

458/03, Parking Brixen Gmbh; C. giust. CE, 6 aprile 2006 C-410/04, Anav c. Comune di

Bari; Cons. St., sez. V, 22 aprile 2004 n. 2316; Cons. St., sez. V, 13 luglio 2006 n. 4440; Cons. St.,

sez. V, 30 agosto 2006 n. 5072; Cons. St., sez. VI, 1 giugno 2007 n. 293];

- la società non è esclusivamente o prevalentemente dedicata ai soci pubblici, atteso che può operare sul

mercato, anche nei confronti di committenti privati.

35.2. Si deve anche escludere che ISP s.r.l. sia stata inizialmente costituita per consentire all’Università

di partecipare, quale operatore economico, a procedure di affidamento ai sensi del d.lgs. n. 163/2006:

31

l’oggetto sociale, testualmente riportato in altro paragrafo della presente decisione, è ben più ampio,

potendo ISP s.r.l. agire quale imprenditore sul mercato, nei confronti di committenti pubblici e privati.

35.3. Invece, ISP s.r.l. si configura, in base al suo statuto all’indomani della scissione, come società

commerciale a fine di lucro.

Va allora esclusa la sussistenza di un vincolo di stretta necessità della società in relazione alle finalità

istituzionali, se sol si considera l’ampiezza dell’oggetto sociale, che secondo l’atto costitutivo, include fra

le attività esercitabili (inter alia e solo a mo’ di esempio) la somministrazione e vendita al pubblico di

alimenti e bevande, la locazione di immobili, la concessione di fidejussioni e garanzie, la generica

possibilità di partecipare al capitale di altre società.

E se è vero che tali profili esulano dall’odierna materia del contendere, delimitata dall’interesse delle

categorie professionali rappresentate dagli Ordini ricorrenti, è anche vero che, pur avendo riguardo alla

parte di oggetto sociale relativo all’engineering, i compiti di progettazione e consulenza sono descritti

con tale ampiezza da escludere la necessaria correlazione con i compiti istituzionali della didattica e

della ricerca scientifica.

Dalle stesse delibere dell’Università prodromiche alla scissione societaria (verbali del Senato accademico

del 13 e del 22 marzo 2002) non si evincono le ragioni istituzionali che giustificano la costituzione di

una società di engineering.

E’ vero, poi, che:

- nella delibera del 21 marzo 2002 si ipotizza “la prossima costituzione in seno allo IUAV di un

“Comitato” chiamato a valutare la conformità delle commesse oggetto dell’attività della società di

engineering con le finalità istituzionali di ricerca e formazione dello IUAV”;

- nella seduta del 22 gennaio 2003 il Senato accademico delibera di “nominare un comitato composto

dai direttori dei dipartimenti dell’ateneo per definire la missione della società e i criteri attraverso i quali

essa raggiunge i propri obiettivi”.

Tuttavia dell’operato di tale Comitato non vi è traccia negli atti successivi.

Sicché non risulta che in virtù di atto parasociale l’oggetto sociale sia stato delimitato e mirato al

perseguimento dei fini istituzionali dell’Università; né vi è traccia di una “strumentalità finanziaria” della

società, nel senso della destinazione degli utili ai fini istituzionali della didattica e della ricerca scientifica.

36. E’ doveroso verificare se le successive vicende abbiano modificato o meno l’originaria

configurazione della società come società commerciale.

36.1. In prosieguo, infatti, il 20% del capitale sociale è stato ceduto a titolo oneroso all’Università di

Verona.

32

Ne è seguito un accordo tra le due Università, ex art. 15, l. n. 241/1990 che prevede una serie di

impegni da attuarsi mediante modifica dello statuto e mediante direttive agli amministratori; si prevede,

infatti:

a) la futura modifica dello statuto societario per garantire “la strumentalità della società rispetto ai fini

istituzionali e strumentali di entrambe le Università”;

b) l’impegno delle Università a dare opportune istruzioni agli amministratori e a vigilare sul loro

operato, affinché la società realizzi la parte più importante della sua attività a favore degli enti soci.

In attuazione di tale accordo, il verbale di assemblea del 10 luglio 2006 ha approvato modifiche

statutarie.

L’art. 1.2. del nuovo statuto prevede che: “nel perseguimento del proprio oggetto sociale, la società

opera quale ente strumentale e servente dei propri soci, che intendono unire le sinergie e le specifiche

conoscenze relativamente alle problematiche dell’edilizia universitaria, per una più efficiente e adeguata

attività di progettazione”.

L’art. 3 quanto all’oggetto sociale prevede che “L’attività che costituisce l’oggetto sociale consiste nel

condurre, quale ente strumentale dell’università, lavori di particolare complessità, utili all’avanzamento

della ricerca e della riflessione teorica, essere luogo di tirocinio per gli studenti ed esercitare funzione di

promozione per giovani laureati e quindi nell’espletare tutte le attività di studio, ricerca, progettazione

ed organizzazione tecnica strumentali e connesse alla promozione, sviluppo e realizzazione di progetti

ed appalti nel settore dell’ingegneria, dell’edilizia, dell’urbanistica e delle infrastrutture, comprese le

opere ferroviarie, stradali, marittime, portuali ed aeroportuali, gli studi di impatto ambientale e di tutela

e sviluppo dell’ambiente naturale, sia in Italia che all’estero, e in particolare: “segue l’elenco dei compiti

già in precedenza attribuiti alla società”.

36.2. Peraltro, lo statuto e l’atto costitutivo, al di là della formale enunciazione della strumentalità della

società rispetto ai fini istituzionali universitari, non indicano con chiarezza i poteri di direttiva dei soci e

il potere di controllo della finalizzazione delle attività della società ai fini istituzionali dell’Università,

così come non è indicata con chiarezza la devoluzione degli utili al soddisfacimento dei fini istituzionali.

Permane inoltre la possibilità di ingresso nel capitale azionario di soci privati.

Residua quindi un margine di ambiguità, sembrando consentite attività in favore di committenza

privata, senza un adeguato controllo istituzionale. Né sono stati prodotti in giudizio patti parasociali che

delimitino l’ambito di operatività della società.

Del resto, i limiti dell’oggetto sociale e i poteri di direttiva e controllo dei soci devono essere evincibili

dall’atto costitutivo e dallo statuto, al fine dell’opponibilità ai terzi e della tutela di questi ultimi. Un

eventuale patto parasociale (soggetto a iscrizione solo nelle società quotate in borsa, ex art. 122, t.u. n.

58/1998) avrebbe efficacia solo tra le parti [Cass. civ., sez. I, 5 marzo 2008 n. 5963] ma non inciderebbe

sull’azione della società nei rapporti con i terzi.

33

37. Alla luce di quanto esposto gli atti prodromici impugnati sono illegittimi perché prevedono la

costituzione di una società commerciale di engineering senza prevedere limiti puntuali che ne

garantiscano la stretta strumentalità rispetto ai fini istituzionali dell’Università.

Invece, tali atti avrebbero dovuto prevedere:

(i) una stretta connessione tra l’oggetto sociale e le finalità istituzionali dell’Università;

(ii) adeguati meccanismi per assicurare la strumentalità, quali la previsione di una precisa definizione

della missione della società in ordine al tipo di progetti da svolgere (sulla base di incarichi provenienti

da committenza pubblica o privata, purché inerenti a opere che ponessero problematiche proficue per

la ricerca e la didattica), la previsione che la società avrebbe impiegato esclusivamente docenti e studenti

universitari, ovvero neolaureati entro un limite temporale massimo e la previsione delle modalità di

impiego di tali soggetti;

(iii) adeguati strumenti di controllo da parte dei soci sull’operato della società;

(iv) la destinazione degli utili ai fini istituzionali dell’Università;

(v) l’esclusione dell’ingresso di soci privati.

38. Quanto alla diversa censura della destinazione a tale società di una parte dei fondi destinati alla

salvaguardia del patrimonio architettonico, urbanistico e ambientale di Venezia (l. n. 798/1984), essa è

priva di adeguato supporto probatorio.

Invero, l’IUAV inizialmente acquistava un immobile e la società proprietaria di esso con una spesa di 6

miliardi di lire, di cui 4,5 miliardi di finanziamento statale e 1,5 miliardi di risorse proprie dell’Università,

nell’anno 1996.

Nel 2003 alla società di engineering risulterebbero destinati quasi tre miliardi di lire (lire 2.799 milioni).

Non risulta tuttavia provato l’assunto degli Ordini ricorrenti, né quanto all’esatto importo, né quanto

alla circostanza che l’importo deriverebbe dal finanziamento pubblico destinato ad altri scopi.

Infatti in occasione dell’operazione di scissione fu redatta una stima del patrimonio della società prima

della scissione, da cui si evince che:

- il patrimonio superava i sette milioni di euro;

- alla società di engineering venivano destinati quasi 500.000 euro e non lire 2799 milioni.

E’ allora evidente che l’iniziale valore investito di sei miliardi di lire, pari a poco più di tre milioni di

euro, risulta più che raddoppiato al momento dell’operazione di scissione.

34

Pertanto, non vi è prova che il patrimonio destinato alla società di engineering derivi da finanziamento

statale diretto ad altri fini, e non da utili conseguiti dalla società.

39. Quanto, infine, all’ulteriore censura in ordine alla distorsione del mercato derivante dal

finanziamento pubblico, formulata in termini più generali rispetto alla questione della destinazione di

fondi statali, il Collegio rileva che genericamente lo statuto prevede la possibilità di finanziamento della

società da parte dei soci pubblici, senza che sia chiaro se il finanziamento avvenga con risorse pubbliche

o invece con gli utili derivanti dalla società medesima.

40. Si deve ora passare all’esame dell’ultimo motivo degli appelli incidentali di Fondazione IUAV e ISP

s.r.l. (da pag. 19 a pag. 22 degli appelli incidentali), con cui si contesta la sentenza n. 794/2007 in

relazione al capo che ha disposto la trasmissione degli atti alla competente Procura regionale della Corte

dei conti.

40.1. Si lamenta la contraddittorietà della sentenza che da un lato dichiara i ricorsi di primo grado

inammissibili e dall’altro lato si spinge ad un sindacato di merito sull’operato dell’Università, per di più

basandosi non su fatti ma su mere illazioni dei ricorrenti.

40.2. La censura va disattesa.

Infatti la disposta trasmissione degli atti alla Procura della Corte dei conti, pur occupando una parte

della sentenza e quindi costituendo, formalmente, un capo di essa, non è suscettibile di appello.

Il giudice di primo grado ha esercitato un potere di denuncia che compete ai pubblici ufficiali, e che si

colloca a latere della sentenza, rispetto alla quale resta esterno anche se formalmente esercitato nel

corpo di essa e, che oltretutto, in quanto mera denuncia, è privo di autonoma portata lesiva [Cass. civ.,

sez. III, 26 gennaio 2010 n. 1542] e quindi non è suscettibile di sindacato in appello.

41. In conclusione:

- vanno respinti gli appelli principali nn. 24/2011 e 25/2011 A.P. (n. 3888/2005 e n. 3889/2005 r.g.);

- vanno accolti per quanto di ragione gli appelli principali nn. 26/2011 e 27/2011 A.P. (n. 5473/2007 e

6233/2007 r.g.) e per l’effetto vanno annullati gli atti amministrativi relativi all’operazione di scissione

impugnati con i ricorsi di primo grado;

- vanno respinti i quattro appelli incidentali proposti in relazione agli appelli principali nn. 26/2011 e

27/2011 A.P. (n. 5473/2007 e 6233/2007 r.g.).

42. La complessità e la novità delle questioni giustificano la compensazione integrale delle spese di lite

in relazione al doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

35

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (adunanza plenaria), definitivamente pronunciando sugli appelli in

epigrafe, già riuniti:

1) respinge gli appelli principali n. 24/2011 e n. 25/2011 A.P. (n. 3888/2005 e n. 3889/2005 r.g.);

2) accoglie gli appelli principali n. 26/2011 e 27/2011 A.P. (n. 5473/2007 e 6233/2007 r.g.) e per l’effetto annulla

gli atti amministrativi relativi all’operazione di scissione;

3) respinge i quattro appelli incidentali proposti in relazione agli appelli principali n. 26/2011 e 27/2011 A.P. (n.

5473/2007 e 6233/2007 r.g.);

4) compensa interamente tra le parti le spese e gli onorari di lite in relazione ad entrambi i gradi di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Corte di cassazione, Sezioni unite, sentenza del 12 ottobre 2011, n. 20929: Controversie in tema di

quote latte, giurisdizione del giudice ordinario e fondamento

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la regione Puglia censura la dichiarazione di giurisdizione dell'a.g.o.

assumendo che oggetto del giudizio non sono le norme privatistiche sulla titolarità dell'impresa

o sull'acquisto o il godimento dei fattori di produzione, ma le norme che disciplinano la

materia delle quote latte (L. n. 468 del 1992 e L. n. 5 del 1998), sulla base delle quali l'A.I.M.A.

ha revocato l'attribuzione delle quote latte in precedenza riconosciute. L'interesse del Di

Fonzo al mantenimento della titolarità delle quote latte avrebbe consistenza di interesse

legittimo e non di diritto soggettivo a fronte del riconoscimento all'autorità amministrativa di

un potere discrezionale a tutela dell'interesse pubblico alla stabilizzazione del mercato della

produzione del latte. Con il secondo motivo la ricorrente eccepisce il proprio difetto di

legittimazione passiva affermando di non avere alcuna competenza in materia di attribuzione

di quote latte e, comunque, di essere estranea all'adozione del provvedimento di revoca

dell'attribuzione della titolarità delle predette quote.

Con il terzo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione della L. n. 5 del 1998, art. 2,

comma 2 e vizio di motivazione, la ricorrente afferma che se è vero che per il riconoscimento

della qualità di produttore di latte non è necessario essere proprietari dei capi di bestiame, la

norma indicata impone di accertare che i contratti con i quali è attribuito il diritto di

godimento del bestiame stesso siano validi, non simulati e non in frode alla legge. 2. Il ricorso

non merita accoglimento.

Con riferimento alla questione di giurisdizione, come questa corte ha già avuto modo di

rilevare (cass. sez. un. 4 febbraio 2009, n. 2635;

12 dicembre 2006, n. 26421), anche se la disciplina dell'attribuzione è connotata da numerosi

36

profili pubblicistici, ai fini dell'individuazione del giudice munito di giurisdizione è necessario

avere specifico riguardo alla consistenza della situazione giuridica soggettiva dedotta in

giudizio, in quanto se la controversia ha ad oggetto la spettanza del diritto alla suddetta quota

di riserva, sulla base di criteri posti (o ricavabili) dalla legge e senza l'esercizio di discrezionalità

amministrativa la giurisdizione spetta al giudice ordinario, mentre la giurisdizione spetta al

giudice amministrativo solo ove sia contestato l'esercizio di poteri autoritativi della pubblica

amministrazione di natura discrezionale. Nella specie, come ha esattamente rilevato la corte

territoriale, la questione controversa attiene all'accertamento della qualità di imprenditore

agricolo del Di Fonzo e all'interpretazione, alla qualificazione giuridica e alla validità dei

contratti intercorsi tra privati aventi ad oggetto il bestiame. Rispetto a tali questioni

l'amministrazione non esercita poteri autoritativi discrezionali diretti a valutare la compatibilità

delle vicende contrattuali con interessi di ordine generale, rispetto ai quali il privato possa

invocare la tutela solo di posizioni di interesse legittimo, ma ha esclusivamente poteri di

accertamento dei fatti, in particolare di interpretazione dei documenti contrattuali, e della loro

qualificazione giuridica e pertanto la controversia avente ad oggetto l'esercizio di tali poteri,

rispetto ai quali il privato ha una posizione di diritto soggettivo, rientra nella giurisdizione del

giudice ordinario.

3. La questione relativa alla legittimazione passiva della regione in materia di attribuzione di

quote latte risulta proposta per la prima volta in questa sede e, pertanto, indipendentemente

dalla fondatezza, la relativa eccezione è inammissibile perché sulla stessa si è formato il

giudicato implicito.

Non è fondata, infine, la censura diretta nei confronti dell'accertamento compiuto dalla corte

territoriale della sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della quota latte perché,

contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, la corte d'appello non si è limitata ad

accertare la qualità di imprenditore agricolo del Di Fonzo, ma, con specifico riferimento alla L.

n. 5 del 1998, art. 2, comma 2 ha anche esaminato e risolto, con motivazione corretta ed

esauriente, la questione della natura giuridica dei contratti aventi ad oggetto il bestiame e del

carattere effettivo e non illecito ne' simulato dei contratti stessi.

Il ricorso, in conclusione deve essere rigettato.

Nulla sulle spese non avendo gli intimati svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle sezioni unite civili, il 8 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2011

Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza del 29 luglio 2013, n. 17 : riparto di giurisdizione

in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni

37

FATTO e DIRITTO

I) L’impresa ricorrente in primo grado è stata ammessa al beneficio di un contributo con il decreto n.

1522307 del 1° dicembre 2006, riguardante il progetto 'La nuova scocca per camper AZ”, relativo ad un

programma di sviluppo precompetitivo e d’industrializzazione (in applicazione della legge n. 488 del

1992).

Con il decreto n. 14 del 30 marzo 2012, la Direzione generale per l'incentivazione delle attività

imprenditoriali del Ministero per lo sviluppo economico ha disposto la revoca totale del provvedimento

che ha ammesso al beneficio, poiché, a seguito delle verifiche effettuate in sede di rendicontazione, è

stata considerata ‘inammissibile’ una prestazione rendicontata, conseguente ad una collaborazione della

società D.C.R., sua ausiliaria, con cui aveva stipulato un contratto chiavi in mano.

La mancata valutazione della medesima prestazione era dipesa dal fatto che, ad avviso

dell’amministrazione, la fornitura non assumeva un grado di complessità tale da giustificare il ricorso a

siffatta tipologia contrattuale, anche perché non era stata considerata comprovata la specifica

competenza tecnica e commerciale dell’ausiliaria D.C.R.

II) Con il ricorso di primo grado n. 3435 del 2012 (proposto dinanzi al T.a.r. per il Lazio), l’impresa ha

impugnato il decreto ministeriale n. 14 del 30 marzo 2012, emesso dal Direttore generale, chiedendo

altresì il risarcimento dei danni subiti.

Si è costituito in giudizio il Ministero intimato, eccependo la carenza di giurisdizione del giudice

amministrativo e l’incompetenza territoriale del T.a.r. Lazio.

III) Il T.a.r. Lazio, con ordinanza n. 6392 del 2012, ha rilevato la sussistenza della competenza del T.a.r.

per la Campania.

A seguito della riassunzione del giudizio, con la sentenza appellata il T.a.r. per la Campania ha

dichiarato il difetto della giurisdizione amministrativa, rilevando che l’atto di ritiro di un contributo

pubblico - per inadempimento del concessionario - inciderebbe su un diritto soggettivo, devoluto alla

giurisdizione del giudice civile.

IV) Con l’appello in esame, l’impresa ha chiesto che, in riforma della sentenza del T.a.r., sia rilevata la

sussistenza della giurisdizione amministrativa ed ha riproposto le censure già formulate in primo grado.

38

Il Ministero appellato si è costituito in giudizio ed ha chiesto che l’appello sia respinto.

In particolare, il Ministero ha richiamato l’orientamento delle Sezioni Unite sulla sussistenza della

giurisdizione civile, quando vi sia un atto di revoca, incidente su un diritto soggettivo, di un precedente

atto concessivo di un contributo o di una sovvenzione (cfr. Cass. civ., sez. un., sent. n. 15618/2006).

Non si è costituito in giudizio l’istituto di credito delegato all’istruttoria, pure evocato.

Assunta la causa in decisione alla Camera di consiglio del giorno 18 dicembre 2012, la sezione VI, con

sentenza parziale e contestuale ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria n. 517/2013:

- ha respinto il primo motivo d’appello, con il quale l’impresa ha dedotto che il T.a.r. avrebbe

erroneamente dichiarato il difetto di giurisdizione, poiché - a seguito della declaratoria d’incompetenza

del T.a.r. per il Lazio e della susseguente riassunzione innanzi al T.a.r. per la Campania - si sarebbe

formato il ‘giudicato implicito’ sulla questione di giurisdizione;

- passando al secondo motivo d’appello (con cui si è dedotta la sussistenza della giurisdizione

amministrativa a conoscere della controversia), la Sezione ha ritenuto che il suo esame andasse deferito

all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99 del codice del processo amministrativo.

A questo proposito la Sezione VI premette che, nel caso in cui sia stato emanato un atto di revoca di un

provvedimento che abbia disposto un contributo pubblico, si è consolidato un risalente orientamento

delle Sezioni unite della Corte di cassazione, per il quale rilevano gli ordinari criteri di riparto, fondati

sulla natura delle situazioni soggettive azionate, con la conseguenza che, qualora la controversia sorga

in relazione alla fase di erogazione del contributo o di ritiro della sovvenzione, sulla scorta di

un addotto inadempimento del destinatario, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche

se si faccia questione di atti denominati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si

fondino sull'asserito inadempimento, da parte del beneficiario, quanto alle obbligazioni

assunte di fronte alla concessione del contributo. A tale orientamento, aggiunge l’ordinanza di

rimessione, si è adeguata la prevalente giurisprudenza amministrativa, per la quale è

configurabile una situazione soggettiva d’interesse legittimo, con conseguente giurisdizione

del giudice amministrativo, solo ove la controversia riguardi una fase procedimentale

precedente al provvedimento attributivo del beneficio, o se, a seguito della concessione del

beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto

iniziale con il pubblico interesse (ma non per inadempienze del beneficiario: cfr. Cons. St., Sez. IV,

sent. 28 marzo 2011, n. 1875; Sez. VI, sent. 24 gennaio 2011, n. 465; Sez. V, sent. 10 novembre 2010, n.

7994. Nella specie, sottolineato in punto di fatto che le circostanze determinanti la contestata

39

revoca sono emerse dopo il rilascio del provvedimento che ha disposto il beneficio non per vizi

riconducibili all’originario provvedimento ma per ragioni inerenti alla rendicontazione finale e

riguardanti la computabilità di spese che, ad avviso dell’amministrazione, non avrebbero

potuto essere computate (anche per l’inadeguatezza della capacità tecnica e commerciale dell’ausiliaria

D.R.C), l’ordinanza della Sezione VI ritiene che la consolidata giurisprudenza in materia (basata su

considerazioni generali circa la nascita di un diritto soggettivo a seguito del rilascio del contributo o

della sovvenzione) possa essere oggetto di una rimeditazione, ove si consideri che: a) il potere di

autotutela dell’amministrazione, esercitato con un atto di revoca (o di decadenza), in base ai principi del

contrarius actus, incide di per sé su posizioni d’interesse legittimo (come si evince dalla pacifica

giurisprudenza della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato attinente ai casi in cui una concessione

di un bene pubblico o di un servizio pubblico sia ritirata per qualsiasi ragione, anche nell’ipotesi

d’inadempimento del concessionario); b) l’art. 7 del codice del processo amministrativo dispone che il

giudice amministrativo ha giurisdizione nelle controversie “riguardanti provvedimenti, atti …

riconducibili anche mediatamente all’esercizio” del potere pubblico (e non è dubbio che il

provvedimento di ritiro di un precedente atto autoritativo a sua volta abbia natura autoritativa).

L’ordinanza ricorda ancora in proposito che la configurabilità di un potere autoritativo e di un

correlativo interesse legittimo, in presenza dell’esercizio del potere di autotutela, risulta più rispondente

alle esigenze di certezza del diritto pubblico (conseguendo l’atto di revoca la sua inoppugnabilità, nel

caso di mancata tempestiva impugnazione) ed a quelle di corretta gestione del denaro pubblico, poiché

l’esercizio del medesimo potere autoritativo agevola non solo il rapido recupero della somma in ipotesi

non dovuta, ma anche la conseguente erogazione dei relativi importi ad altri soggetti, con ulteriori atti

aventi natura autoritativa. Peraltro, secondo l’ordinanza stessa, la sussistenza della giurisdizione

amministrativa potrebbe anche essere affermata, in via esclusiva, in considerazione dell’art. 12 della

legge n. 241 del 1990, riguardante i ‘provvedimenti attributivi di vantaggi economici’, che disciplina la

“concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari”, attribuendo il nomen iuris di

concessione a qualsiasi provvedimento che disponga l’erogazione del denaro pubblico. Sotto tale

profilo, potrebbe risultare rilevante l’art. 133, comma 1, lettera b), sulla sussistenza della giurisdizione

esclusiva per le “controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di

beni pubblici”. Né, si conclude, la portata applicativa delle disposizioni di legge sopra richiamate

potrebbe essere riducibile in via interpretativa, per il rilievo da attribuire all’art. 44 della legge n. 69 del

2009, che ha condotto all’approvazione del codice del processo amministrativo, disponendo che il

riassetto del medesimo dovesse avvenire “alfine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della

Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, di coordinarle con le norme del codice di procedura

civile in quanto espressione di princìpi generali e di assicurare la concentrazione delle tutele”.

40

In vista dell’odierna discussione parte appellante non ha depositato memorie illustrative, mentre parte

appellata ha espresso, con memoria in data 4 maggio 2013, un nuovo e diverso orientamento in ordine

alla controversa giurisdizione, in senso adesivo all’ordinanza di rimessione.

Alla Camera di consiglio del 27 maggio 2013 l’appello è stato trattenuto in decisione.

V) Ritiene l’Adunanza plenaria che l’appello sia fondato e vada accolto, restando peraltro a tal fine priva

di rilevanza la questione rimessa all’esame dell’Adunanza stessa.

Con il secondo motivo di appello, il cui esame è stato appunto deferito a questa Adunanza dalla

Sezione Sesta, si deduce invero che “la revoca disposta con riferimento alle agevolazioni concesse

ex Lege 19 dicembre 1992 n. 488 sia sempre riconducibile alla giurisdizione amministrativa,

anche quando venga disposta dopo la concessione provvisoria del finanziamento” ( pag. 9 app.

).

Rileva in proposito il Collegio che vertesi in tema di sovvenzioni e finanziamenti erogati dalla p.a. a

privati e, in particolare, di agevolazioni di cui al D.L. 22 ottobre 1992, n. 415, art. 1, comma 2,

convertito, con modificazioni, dalla L. 19 dicembre 1992, n. 488, destinate - sulla base di una

graduatoria formata dalla pubblica amministrazione - alle imprese operanti nei settori di attività

individuati dalle direttive emanate con delibera del CIPE del 27 aprile 1995, e con decreto del Ministro

dell'industria, del commercio e dell'artigianato del 20 luglio 1998 e successive modifiche e integrazioni,

ai sensi del D.L. n. 415 cit., art. 1, comma 2 e del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, art. 18, comma 1, lett.

aa); esse sono concesse ed erogate secondo le modalità e i criteri previsti dalle dette direttive, nonchè

secondo le disposizioni del D.M. 20 ottobre 1995, n. 527, che, nel prevedere all'art. 6, comma 7, la

'concessione provvisoria' del contributo - erogato con le modalità di cui all'art. 7 e revocabile ai sensi

dell'art. 8 - stabilisce che, all'esito della 'documentazione definitiva' di spesa inviata dall'impresa e

trasmessa dalle banche concessionarie al Ministero dell'industria, l'amministrazione provveda alla c.d.

concessione definitiva, disciplinata dal successivo art. 10.

Orbene, sul tema specifico all’esame la Corte regolatrice, premesso che il riparto di giurisdizione tra

giudice ordinario e giudice amministrativo deve essere attuato distinguendo le ipotesi in cui il

contributo o la sovvenzione è riconosciuto direttamente dalla legge ( e alla p.a. è demandato

esclusivamente il controllo in ordine all'effettiva sussistenza dei presupposti puntualmente indicati dalla

legge stessa ) da quelle in cui la legge attribuisce invece alla p.a. il potere di riconoscere l'ausilio previa

valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati in relazione all'interesse pubblico primario

apprezzando discrezionalmente l'an, il quid ed il quomodo dell'erogazione, ha affermato che “la

41

controversia avente ad oggetto la revoca di un finanziamento disciplinato dal D.L. 22 ottobre 1992, n.

415, convertito in legge dalla L. 19 dicembre 1992, n. 488, appartiene alla giurisdizione del giudice

amministrativo, in quanto non riguarda una sovvenzione riconosciuta direttamente dalla legge, sulla

base di elementi da questa puntualmente indicati (per una fattispecie simile, v. Cass. Sez. Un. 25

novembre 2008 n. 28041); e ciò, ancorchè il finanziamento medesimo sia stato già riconosciuto in via

provvisoria a norma del D.M. n. 527 del 1995, art. 6, comma 7” ( Cassazione civile, sez. un., 16

dicembre 2010, n. 25398, in ipotesi di revoca del finanziamento già concesso in via provvisoria ed in

parte erogato, determinata dall’intervenuto accertamento di spese dichiarate non ammissibili in quanto

sostenute prima della domanda di ammissione ).

V.1) Non contrastano peraltro con l’enunciato principio:

- né, come rilevato espressamente dalla medesima citata Ord. n. 25398 del 2010, il precedente della

stessa Corte 10 luglio 2006, n. 15618, che riguarda la giurisdizione non già sul provvedimento di revoca

dell'intera agevolazione, bensì sulla riduzione - in rapporto a spese non ammissibili - di un

finanziamento provvisorio già deliberato, in ordine al quale, sino a che il titolo non venga meno nelle

forme di legge, sussiste un diritto soggettivo del beneficiario;

- né il precedente costituito da Cass., Sez. un., 20 luglio 2011, n. 15867, nel quale si afferma la

giurisdizione del giudice ordinario in una controversia sulla revoca di un finanziamento erogato ai sensi

della legge n. 44 del 1986 per la promozione e lo sviluppo dell’imprenditorialità giovanile nel

mezzogiorno, per l’impossibilità del raggiungimento delle finalità perseguite con il beneficio finanziario

a séguito della dichiarazione di fallimento dell’impresa destinataria dello stesso e dunque in un caso in

cui, come sottolineato dall’ordinanza stessa, l’Amministrazione, nel revocare il contributo stesso o nel

dichiarare la decadenza da esso, non compie alcuna valutazione discrezionale, rispetto alla quale il

privato possa vantare una posizione di interesse legittimo; ma si limita piuttosto ad accertare il venir

meno di un presupposto previsto in modo puntuale dalla legge.

Ciò posto, nel caso in esame la revoca del finanziamento non è stata oggetto di un provvedimento

vincolato dall’intervenuto accertamento dell’insussistenza di un presupposto puntualmente indicato

dalla legge, ma in applicazione della previsione contenuta nel D.M. 20 ottobre 1995, n. 527, art. 8,

comma 1, lett. f), che la consente qualora “calcolati gli scostamenti in diminuzione degli indicatori di cui

all'art. 6, comma 4, suscettibili di subire variazioni, anche solo uno degli scostamenti stessi di tali

indicatori rispetto ai corrispondenti valori assunti per la formazione della graduatoria o la media degli

scostamenti medesimi superi, rispettivamente, i 30 o i 20 punti percentuali” ( del tutto analogamente,

dunque, al caso deciso dalla citata decisione delle Sez. Un. n. 25398 del 2010, concernente una ipotesi di

42

applicazione della lett. e) dello stesso comma 1 ); e dunque nell’esercizio di un potere discrezionale ( in

relazione alla ammissibilità di alcune spese rendicontate che ha determinato uno scostamento del grado

previsto dall’indicata lett. f) ), in relazione al quale la posizione del privato è di interesse legittimo e la

giurisdizione è del giudice amministrativo.

VI. Deve pertanto conclusivamente affermarsi, in accoglimento dell’appello, la giurisdizione del giudice

amministrativo, in applicazione dei principii ripetutamente enunciati dalle Sezioni unite della Corte di

Cassazione in materia di contributi e sovvenzioni pubbliche; donde l’irrilevanza, nel presente giudizio,

della questione di diritto posta dall’Ordinanza di rimessione, postulante la sussistenza della giurisdizione

amministrativa sulla base del superamento nella materia de qua degli ordinarii criterii di riparto fondati

sulla natura delle posizioni soggettive azionate.

La causa va conseguentemente rimessa, ai sensi del comma 1 dell’art. 105 c.p.a., al giudice di primo

grado, dinanzi al quale le parti dovranno riassumere il processo con le modalità e nei termini, di cui al

comma 3 dello stesso articolo.

La sostanziale coincidenza delle posizioni delle parti quanto alla controversia questione di giurisdizione

induce il Collegio a compensare integralmente tra esse le spese della presente fase di appello.

P.Q.M.

il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, definitivamente pronunciando

sul ricorso in appello, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiara la

giurisdizione del giudice amministrativo.

3.2.1 Il comportamento amministrativo

Corte Costituzionale, sentenza n. 204 del 2004

..."Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.

80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni

pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in

attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come sostituito dall’art. 7,

lettera a, della legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), nella

parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «tutte le

43

controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli» anziché «le controversie in materia di

pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed

altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore

di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n.

241, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei

confronti del gestore, nonché»;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 2, del medesimo decreto legislativo 31 marzo

1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera a, della legge 21 luglio 2000, n. 205;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, del medesimo decreto legislativo 31 marzo

1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera b, della legge 21 luglio 2000, n. 205, nella parte in cui

prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi

per oggetto «gli atti, i provvedimenti e i comportamenti» anziché «gli atti e i provvedimenti» delle

pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati, in materia urbanistica ed edilizia."

Corte costituzionale, sentenza n. 191 del 2006

Considerato in diritto

1.– Il TAR per la Calabria, sede di Catanzaro, solleva, con ordinanza n. 36 del 2005, in riferimento

agli artt. 25 e 102, comma secondo, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale

dell'art. 53, comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e

regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), e con ordinanza n. 425

del 2005, in riferimento all'art. 103 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art.

53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni legislative

in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B), disposizione trasfusa nell'art. 53,

comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, innanzi menzionato, nella parte in cui devolvono alla

giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto i

«comportamenti» delle pubbliche amministrazioni, e dei soggetti ad esse equiparati, in materia di

espropriazione per pubblica utilità.

44

Entrambe le ordinanze – emesse nel corso di giudizi nei quali era stata proposta domanda di

risarcimento dei danni per avere subìto, il fondo di proprietà dei ricorrenti, radicali trasformazioni

durante il periodo di occupazione disposta per la realizzazione di un'opera pubblica senza che fosse

intervenuto il decreto di esproprio – osservano che l'art. 53, comma 1, prevede la devoluzione alla

giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie aventi ad oggetto (anche) «i

comportamenti» delle pubbliche amministrazioni, e cioè la medesima ipotesi che questa Corte – con

la sentenza n. 204 del 2004 – ha espunto, ritenendola costituzionalmente illegittima, dall'art. 34,

comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di

organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle

controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell'articolo 11,

comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come sostituito dall'art. 7, comma 1, lettera b), della

legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa).

L'ordinanza n. 36 del 2005 precisa che il dubbio circa la conformità a Costituzione della norma de

qua non avrebbe ragion d'essere ove la dichiarazione di pubblica utilità ed urgenza fosse stata

pronunciata dopo l'entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001 (e cioè dopo il 30 giugno 2003: art. 1

del decreto legislativo n. 302 del 2002), dal momento che in tal caso opererebbe (ex art. 57 del

d.P.R. n. 327, come modificato dal citato art. 1 del decreto legislativo n. 302 del 2002) anche l'art.

43 del medesimo d.P.R., il quale attribuisce alla pubblica amministrazione il potere (certamente

sindacabile dal giudice amministrativo) di acquisire l'immobile, «modificato in assenza del valido ed

efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità», al patrimonio

indisponibile con «condanna al risarcimento del danno e con esclusione della restituzione del bene

senza limiti di tempo»; poiché nel caso sottoposto al suo esame la dichiarazione di pubblica utilità è

intervenuta «ben prima del 30 giugno 2003», la previsione (che sarebbe certamente di diritto

sostanziale) dell'art. 43 non potrebbe operare e, pertanto, ci si troverebbe in una situazione

perfettamente analoga a quella che era disciplinata dall'art. 34 (dichiarato incostituzionale dalla

sentenza n. 204 del 2004), del quale l'art. 53, comma 1, riproduce (aggiungendovi soltanto «gli

accordi») il contenuto.

2.– Va rilevato che mentre una ordinanza (n. 425 del 2005) vede nella dichiarazione di illegittimità

costituzionale dell'art. 53, comma 1, una sorta di completamento di quanto, ex art. 27 della legge n.

87 del 1953, già con la sentenza n. 204 del 2004 questa Corte avrebbe potuto fare; l'altra (n. 36 del

2005) osserva che il mancato utilizzo da parte della Corte dello strumento della dichiarazione

45

consequenziale di illegittimità costituzionale si giustificherebbe per il collegamento, sopra ricordato,

della previsione di cui all'art. 53, comma 1, con quella di cui all'art. 43: sicché, ove tale collegamento

ratione temporis non operi, il riferimento ai “comportamenti” dovrebbe essere cassato come lo fu

quello contenuto nell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998.

Ne discende che il petitum delle due ordinanze diverge in ciò, che l'una (n. 425) sollecita una

pronuncia che definitivamente espunga dalla norma censurata la locuzione “i comportamenti”,

mentre l'altra (n. 36) chiede che la Corte ciò faccia relativamente ai giudizi nei quali non potrebbe

trovare applicazione la norma (ritenuta) di diritto sostanziale (art. 43), che, sola, giustifica la

giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in quanto contempla un potere della pubblica

amministrazione sindacabile da parte di quel giudice.

3.– Questa Corte, con la sentenza n. 204 del 2004, ha giudicato di questioni di legittimità

costituzionale che investivano, da un lato, l'art. 33 (relativo ai pubblici servizi) e, dall'altro, l'art. 34

(relativo all'edilizia ed urbanistica) del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificati dall'art. 7 (lettere a e b)

della legge n. 205 del 2000, in quanto con tali norme il legislatore aveva «sostituito al criterio di

riparto della giurisdizione fissato in Costituzione, e costituito dalla dicotomia diritti soggettivi-

interessi legittimi, il diverso criterio dei “blocchi di materie”» (punto 2.1. del Considerato in

diritto).La Corte ha osservato che le censure mosse dai giudici rimettenti «colgono nel segno nella

parte in cui denunciano l'adozione, da parte del legislatore ordinario del 1998-2000, di un'idea di

giurisdizione esclusiva ancorata alla pura e semplice presenza, in un certo settore dell'ordinamento,

di un rilevante pubblico interesse», laddove «è evidente che il vigente art. 103, primo comma, Cost.,

non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità

nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli

ha conferito il potere di indicare “particolari materie” nelle quali “la tutela nei confronti della

pubblica amministrazione” investe “anche” diritti soggettivi». «Tale necessario collegamento delle

“materie” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle

situazioni soggettive – e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine

tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa – è espresso dall'art. 103 laddove statuisce che quelle

materie devono essere “particolari” rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di

legittimità: e cioè devono partecipare della loro medesima natura, che è contrassegnata dalla

circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è

accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo», sicché, «da un lato, è escluso che la

mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la

46

giurisdizione del giudice amministrativo […] e, dall'altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico

coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al

giudice amministrativo» (punto 3.2.).

Sulla base di tali premesse, questa Corte – dopo aver distinto nell'ambito dell'art. 33 le ipotesi in cui

la materia dei servizi pubblici era legittimamente devoluta al giudice amministrativo in quanto «la

pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo» da quelle prive di tale

connotato (punto 3.4.2.) – ha osservato che «analoghi rilievi investono la nuova formulazione

dell'art. 34», la quale «si pone in contrasto con la Costituzione nella parte in cui, comprendendo

nella giurisdizione esclusiva – oltre “gli atti e i provvedimenti” attraverso i quali le pubbliche

amministrazioni […] svolgono le loro funzioni pubblicistiche in materia urbanistica ed edilizia –

anche “i comportamenti”, la estende a controversie nelle quali la pubblica amministrazione non

esercita – nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti

intrinsecamente privatistici – alcun pubblico potere» (punto 4.3.3. del Considerato in diritto).

3.1.– Discende, dalla sommaria esposizione dell'iter argomentativo seguito dalla sentenza n. 204 del

2004, che non è corretta la premessa dalla quale implicitamente muovono entrambe le ordinanze di

rimessione, e cioè che, avendo questa Corte espunto dalla disposizione di cui all'art. 34 la locuzione

“i comportamenti”, tale espunzione non possa non estendersi all'identica locuzione impiegata

nell'art. 53, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001.

Tale tesi, infatti, si fonda esclusivamente sulla circostanza che, con il suo dispositivo, la sentenza n.

204 del 2004 ha inciso sul testo dell'art. 34, ma trascura del tutto non soltanto la motivazione che è

alla base di quel dispositivo, ma anche, e soprattutto, la valenza che la locuzione espunta aveva,

specie in relazione alla questione di legittimità costituzionale allora sottoposta alla Corte, nella

disposizione dell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998.

Ed infatti, nell'affrontare la questione del se fosse costituzionalmente legittimo devolvere alla

giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “blocchi di materie” ed in particolare l'intera

“materia urbanistica ed edilizia” (comprensiva, la prima, di “tutti gli aspetti dell'uso del territorio”),

questa Corte ha ravvisato – come risulta dalla motivazione della sentenza – nella locuzione “i

comportamenti” lo strumento utilizzato dal legislatore per operare l'indiscriminata devoluzione che

si andava a censurare: sicché l'espunzione di tale locuzione, per la funzione “di chiusura”

assegnatale dal legislatore nell'art. 34, valeva a ribadire che la “materia edilizia ed urbanistica” non

poteva essere devoluta “in blocco” alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma

poteva esserlo nei limiti precisati nella motivazione.

47

3.2.– La questione di legittimità costituzionale sulla quale questa Corte è ora chiamata a

pronunciarsi investe (non più la pretesa del legislatore ordinario di attribuire alla giurisdizione

esclusiva del giudice amministrativo “in blocco” la materia edilizia ed urbanistica, ma)

specificamente la conformità a Costituzione – e, segnatamente, agli artt. 25, 102, comma secondo, e

103 – della norma che, in tema di espropriazione per pubblica utilità, devolve «alla giurisdizione

esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto», oltre che «gli atti, i

provvedimenti, gli accordi», anche «i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti

ad esse equiparati»; questione che, per quanto si è fin qui osservato, non può essere risolta

attraverso la semplice e meccanica estensione a questa disposizione dell'espunzione (solo perché,

allora, operata) della locuzione de qua dall'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998.

Va, altresì, precisato che, non essendo implausibile la tesi per cui l'art. 53, in quanto norma

processuale (e non anche l'art. 43, in quanto norma di diritto sostanziale), troverebbe applicazione

nei giudizi aventi ad oggetto fattispecie non governate, quanto al diritto sostanziale, dal d.P.R. n.

327 del 2001, la questione di legittimità costituzionale ora all'esame della Corte concerne l'art. 53,

comma 1, esclusivamente nella sua valenza di norma attributiva della giurisdizione al giudice

amministrativo, e pertanto senza che in alcun modo possa esserne coinvolta la norma nella parte in

cui – essendo applicabile l'art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 – presuppone la possibilità che sia

sindacato dal giudice amministrativo l'esercizio, da parte della pubblica amministrazione, del potere

di acquisire al suo patrimonio indisponibile l'immobile modificato.

Peraltro la questione sollevata è rilevante nei giudizi a quibus perché, non essendo implausibile la

tesi dell'immediata applicabilità dell'art. 53, comma 1, quale norma processuale (specie a giudizi

incardinati nella vigenza dell'art. 34 del d. lgs. n. 80 del 1998, come modificato dalla legge n. 205 del

2000) e pendendo la causa davanti al giudice amministrativo, l'eventuale carenza di sua giurisdizione

a norma dell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998 – a seguito dell'espunzione della locuzione “i

comportamenti” operata da questa Corte – legittimerebbe (ex art. 5 del codice di procedura civile)

una pronuncia declinatoria della giurisdizione solo ove fosse dichiarata costituzionalmente

illegittima la disposizione dell'art. 53, comma 1, che ex novo rende il giudice amministrativo munito

di giurisdizione: se è vero, infatti, che la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente al

momento della proposizione della domanda, è anche vero che il sopravvenire della giurisdizione in

capo al giudice che originariamente ne era (o ne era divenuto) sfornito impedisce – per pacifica

giurisprudenza – la pronuncia declinatoria.

4.– Le questioni sono fondate nei limiti di seguito precisati.

48

4.1.– Entrambe le fattispecie oggetto dei giudizi a quibus sono riconducibili alle ipotesi

tradizionalmente denominate (in giurisprudenza e dottrina) di occupazione appropriativa (ovvero,

anche, di accessione invertita o espropriazione sostanziale): il che si verifica quando il fondo è stato

occupato a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, e pertanto nell'ambito di una procedura di

espropriazione, ed ha subìto una irreversibile trasformazione in esecuzione dell'opera di pubblica

utilità senza che, tuttavia, sia intervenuto il decreto di esproprio o altro atto idoneo a produrre

l'effetto traslativo della proprietà.

Tale fenomeno viene contrapposto a quello cosiddetto di occupazione usurpativa, caratterizzato

dall'apprensione del fondo altrui in carenza di titolo: carenza universalmente ravvisata nell'ipotesi di

assenza ab initio della dichiarazione di pubblica utilità, e da taluni anche nell'ipotesi di

annullamento, con efficacia ex tunc, della dichiarazione inizialmente esistente ovvero di sua

inefficacia per inutile decorso dei termini previsti per l'esecuzione dell'opera pubblica.

Nel caso dell'occupazione appropriativa, perfezionandosi con l'irreversibile trasformazione del

fondo la traslazione in capo all'amministrazione del diritto di proprietà, il proprietario del fondo

non può che chiedere la tutela per equivalente, laddove, nel caso dell'occupazione usurpativa

(rectius: nelle ipotesi – in relazione a taluna delle quali non v'è unanimità di consensi – ad essa

riconducibili) il proprietario può scegliere tra la restituzione del bene e, ove a questa rinunci così

determinando il prodursi (dei presupposti) dell'effetto traslativo, la tutela per equivalente.

4.2.– È evidente che la soluzione della questione di legittimità costituzionale in esame non può che

muovere da quanto questa Corte, con la più volte citata sentenza n. 204 del 2004, ha statuito

riguardo all'art. 35 (come modificato dall'art. 7, lettera c, della legge n. 205 del 2000) del d.lgs. n. 80

del 1998; statuizione, va precisato, e non già obiter dictum, in quanto la Corte – investita della

questione di legittimità costituzionale della devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice

amministrativo dei “blocchi di materie” relative ai servizi pubblici ed all'edilizia ed urbanistica e del

potere, altresì, di giudicare di azioni risarcitorie riconosciutogli come attributo della giurisdizione

esclusiva – non poteva non considerare, quanto meno con riferimento al disposto dell'art. 35,

comma 1, se anche la tutela risarcitoria fosse configurabile come una “materia” devoluta in blocco

alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

In proposito questa Corte ha statuito che «il potere riconosciuto al giudice amministrativo di

disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto

non costituisce sotto alcun profilo una nuova “materia” attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno

49

strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare

per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione».

4.3.– I principi appena ricordati impongono di escludere che, per ciò solo che la domanda proposta

dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno, la giurisdizione competa al

giudice ordinario: ciò dicendo non intende questa Corte prendere posizione sul tema della natura

della situazione soggettiva sottesa alla pretesa risarcitoria, ovvero sulla natura (di norma secondaria,

id est sanzionatoria di condotte aliunde vietate, oppure primaria) dell'art. 2043 cod. civ., ma

esclusivamente ribadire che laddove la legge – come fa l'art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998 – costruisce

il risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice

amministrativo, come strumento di tutela affermandone – come è stato detto – il carattere

“rimediale”, essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto

dell'art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi

ragionevoli.

In altri termini, al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di diritto

soggettivo della situazione giuridica conseguente all'annullamento del provvedimento

amministrativo, attribuiva al giudice ordinario «le controversie sul risarcimento del danno

conseguente all'annullamento di atti amministrativi» (così l'art. 35, comma 5, del d. lgs. n. 80 del

1998, come modificato dall'art. 7, lettera c della legge n. 205 del 2000), il legislatore ha sostituito

(appunto con l'art. 35 cit.) un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della

legittimità dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi

anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per

l'illegittimo esercizio della funzione.

Da ciò consegue che, ai fini del riparto di giurisdizione, è irrilevante la circostanza che la pretesa

risarcitoria abbia – come si ritiene da alcuni –, o non abbia, intrinseca natura di diritto soggettivo:

avendo la legge, a questi fini, inequivocabilmente privilegiato la considerazione della situazione

soggettiva incisa dall'illegittimo esercizio della funzione amministrativa, a questa Corte competeva (e

compete) solo di valutare se tale scelta del legislatore – di collegare, cioè, quanto all'attribuzione

della giurisdizione, la tutela risarcitoria a quella della situazione soggettiva incisa dal provvedimento

amministrativo illegittimo – confligga, o non, con norme costituzionali; ciò che, con la più volte

ricordata sentenza n. 204 del 2004, questa Corte ha escluso.

5.– Le considerazioni fin qui esposte rendono palese che la questione di legittimità costituzionale

50

sollevata dalle ordinanze de quibus non può risolversi in base al solo petitum, id est alla domanda di

risarcimento del danno, bensì considerando il fatto, dedotto a fondamento della domanda, che si

assume causativo del danno ingiusto.

Con espressione ellittica l'art. 53, comma 1, individua (anche) nei “comportamenti” della pubblica

amministrazione il fatto causativo del danno ingiusto, in parte qua riproducendo il contenuto

dell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998 (come modificato dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000).

Tale previsione è costituzionalmente illegittima là dove la locuzione, prescindendo da ogni

qualificazione di tali “comportamenti”, attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice

amministrativo controversie nelle quali sia parte - e per ciò solo che essa è parte - la pubblica

amministrazione, e cioè fa del giudice amministrativo il giudice dell'amministrazione piuttosto che

l'organo di garanzia della giustizia nell'amministrazione (art. 100 Cost.).

Viceversa, nelle ipotesi in cui i “comportamenti” causativi di danno ingiusto – e cioè, nella specie, la

realizzazione dell'opera – costituiscono esecuzione di atti o provvedimenti amministrativi

(dichiarazione di pubblica utilità e/o di indifferibilità e urgenza) e sono quindi riconducibili

all'esercizio del pubblico potere dell'amministrazione, la norma si sottrae alla censura di illegittimità

costituzionale, costituendo anche tali “comportamenti” esercizio, ancorché viziato da illegittimità,

della funzione pubblica della pubblica amministrazione.

In sintesi, i principi sopra esposti – peraltro già enunciati da questa Corte con la sentenza n. 204 del

2004 – comportano che deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla

giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative a

“comportamenti” (di impossessamento del bene altrui) collegati all'esercizio, pur se

illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente

illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di “comportamenti” posti in essere in

carenza di potere ovvero in via di mero fatto.

L'attribuzione alla giurisdizione del giudice amministrativo della tutela risarcitoria – non a

caso con la medesima ampiezza, e cioè sia per equivalente sia in forma specifica, che davanti al

giudice ordinario, e con la previsione di mezzi istruttori, in primis la consulenza tecnica,

schiettamente “civilistici” (art. 35, comma 3) – si fonda sull'esigenza, coerente con i principi

costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico giudice

l'intera tutela del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica (così

Corte di cassazione, sez. un., 22 luglio 1999, n. 500 ), ma non si giustifica quando la pubblica

51

amministrazione non abbia in concreto esercitato, nemmeno mediatamente, il potere che

la legge le attribuisce per la cura dell'interesse pubblico.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico

delle disposizioni legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B), trasfuso nell'art. 53, comma 1,

del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e

regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), nella parte in cui, devolvendo alla

giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative a «i comportamenti delle pubbliche

amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati», non esclude i comportamenti non riconducibili, nemmeno

mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere.

3.3 Corretto esercizio del potere pubblico : carenza / cattivo uso del potere

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza del 22 ottobre 2007, n. 12 : rifiuto della

tesi della carenza in concreto

Motivi della decisione.

I - La Sezione quarta, dubitando della permanente attualità – dopo la pubblicazione della sentenza

Corte Cost. 11 maggio 2006, n. 191 e delle correlate pronunce delle Sezioni Unite della Corte di

Cassazione - dei principi ripetutamente affermati dalla Adunanza Plenaria ha correttamente rimesso a

quest’ultima il rinnovato esame della individuazione del giudice amministrativo quale giudice cui spetta

di pronunciarsi in tema di c.d. accessione invertita, allorché la formale espropriazione intervenga dopo

la sopravvenuta inefficacia, per decorso del suo termine finale, della dichiarazione di pubblica utilità.

Correttamente, si è detto, alla stregua delle esigenze che, positivamente poste nei confronti del giudizio

per cassazione (art. 374 cod.proc.civ. come sostituito dall’art. 8 D.Lg.vo 2 febbraio 2006, n. 40),

derivano da generali principi di certezza del diritto e di economicità della funzione giurisdizionale che

ovviamente coinvolgono il processo innanzi al Consiglio di Stato, nel quale è per altro già prevista la

opportunità, qui di nuovo sottolineata, della rimessione in ordine a questioni di diritto che abbiano dato

luogo o possano dar luogo a contrasti giurisprudenziali ovvero allorché si renda necessaria la

risoluzione di questioni di massima di particolare importanza ( art. 45 co. 2 e 3 T.U. 26 giugno 1924, n.

1054 come sostituiti dall’art. 5 L.21 dicembre 1950, n. 1018 ).

II - La rimessione in parola, è necessario premettere ad ulteriore chiarificazione delle proposte questioni

pregiudiziali, concerne esclusivamente il ricorso 1284/2000 ed il ricorso 476/2005 e motivi aggiunti con

52

i quali Signori C. – M. e C. hanno proposto, siccome accertato dal Tribunale regionale amministrativo e

ritenuto dalla Sezione quarta, domanda risarcitoria.

Gli altri ricorsi inizialmente proposti risultano, infatti, oggetto di dichiarazione di estinzione per

rinunzia ovvero di improcedibilità per carenza di interesse, improcedibilità estesa, dal predetto

Tribunale, anche ai motivi del ricorso 1284/2000 relativi alla impugnazione per annullamento di alcuni

degli atti emessi nel corso del procedimento di espropriazione il cui atto conclusivo (decreto n. 3273/05

della Provincia) è stato espressamente annullato dal Tribunale, con connessa dichiarazione di

irreversibile trasformazione dei beni occupati.

In tale situazione la Sezione remittente ha ritenuto di superare le deduzioni della Provincia relative alla

pretesa non integrità del contraddittorio in primo grado e del G. relative alla omessa notifica

dell’appello a Regione, Comune, N. s.r.l. e Signori R. e V. I., mentre contro questi ultimi soggetti

nessuna domanda risarcitoria è proposta, né si configura alcun loro interesse e mentre Comune e

Regione sono stati intimati in primo grado ( il primo si è anche costituito) in relazione agli atti da loro

emessi (ric. 1544/97, 1548/97 e 257/99), ed hanno ricevuto notificazione della sentenza appellata, la

domanda risarcitoria fu proposta nei soli confronti della Provincia, ente espropriante, e concerne, una

volta definiti come s’è ricordato gli altri giudizi, esclusivamente i rapporti tra la stessa Provincia e,

ormai, il Signor G. ed i suoi danti causa.

Ne risulta l’infondatezza delle domande di integrazione del contraddittorio ritualmente instaurato e in

primo grado e in appello.

L’annullamento, poi, dell’atto finale della procedura di espropriazione e la pronuncia di intervenuta

accessione invertita, di per sé non impugnata dal Signor G., e per altro satisfattiva della richiesta tutela ,

rendono prive di rilievo le di lui deduzioni relative ad atti e comportamenti e della Regione e del

Comune, ormai irrilevanti a seguito del predetto annullamento, e della Provincia dalle quali mai

potrebbe conseguire la restituzione, e su questa non si insiste nelle conclusioni rassegnate il 7 marzo

2006 ed il 30 settembre 2007, delle aree coinvolte dalla costruzione della strada, pressoché terminata ed

aperta al traffico (v. note in atti del Responsabile del procedimento in data 25 febbraio 2004 e 19 aprile

2005) già al 25 febbraio 2004 e, comunque, “parecchi mesi prima dello stesso 19 aprile 2005” e, perciò,

nel corso dei termini della dichiarazione di pubblica utilità.

Dato atto di ciò, deve infine rilevarsi che il Tribunale non si è in alcun modo pronunciato sulla

domanda risarcitoria, proposta e perfino quantificata nel corso del relativo grado di giudizio (v. oltre

alle istanze notificate il 23 febbraio ed il 29 ottobre 2001 le ammissioni nelle memorie della Provincia

del 19 dicembre 2000 e del 11 aprile 2001 nonché l’istanza di sospensiva del giudizio indennitario dalla

stessa proposta alla Corte di Appello e la correlata ordinanza e v., ancora, il ricorso 11 aprile 2005

notificato il successivo 12 aprile), sulla quale ha soltanto disposto il completamento dell’istruttoria in

corso: sono, pertanto, intempestive le relative deduzioni della Provincia nonché degli appellati e perciò

inammissibili in questa sede le loro richieste.

III - Si rileva, venendo perciò al punto di diritto in contestazione, che permangono, nella

giurisprudenza più recente, significativi contrasti in tema di discriminazione della giurisdizione, contrasti

forse avvertiti con maggior disagio di quelli pur vivi nel secolo scorso ora che sussistono condizioni di

ulteriore sviluppo sociale ed economico, di correlato aumento della legislazione e delle discipline così

civili come amministrative e, perciò, di più forte richiesta di decisioni di merito pronte, facilmente

accessibili, coerenti con le esigenze operative e con le aspettative di tutela delle pubbliche

amministrazioni, delle imprese e di ciascun componente la comunità nazionale.

I recenti, ripetuti richiami della Corte Costituzionale ( v. da ultimo, sent. 12 marzo 2007, n. 77) ai

53

precetti dell’art. 24 Cost. confermano un orientamento perseguito con ancor più determinata

convinzione; orientamento che, sottolineando il valore servente delle forme, pur ferme e vincolanti,

rispetto alle aspettative sostanziali, merita di essere condiviso e seguito, come pare sia condiviso dallo

stesso legislatore ( cfr., di recente, in tema di giurisdizione e di procedure, la L. 21 luglio 2000, n. 205 e,

puntualmente in tema di nullità, la L. 7 agosto 1990, n. 191 ) le cui rinnovate dichiarazioni di volontà

semplificatrice si traducono tuttavia, in qualche caso, in complicazioni di discipline di non sottile

spessore e di non agevole applicazione da parte di una Amministrazione costretta a troppo frequenti

mutamenti dei suoi complessi moduli organizzativi ed operativi ed a tal fine, specie in sede locale, non

sempre munita di necessari mezzi e di adeguate strutture.

In generale, ed omettendo analisi storiche altrove e da altri svolte con puntualità e completezza, la

discriminazione è positivamente fissata, nel quadro dei rigidi precetti posti dagli artt.24, 102,103, 111 e

113 Cost., dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, - in vigore dal 1 agosto 2000 e seguita dalla L. 11 febbraio

2005, n. 15 e dal D.Lg.vo 12 aprile 2006, n. 163 - , che, anche riformulando le disposizioni del D.Lg.vo

31 marzo 1998, n. 80, ha sostanzialmente definito il disegno innovatore avviato con l’art. 13 della L. 19

febbraio 1992, n. 142 ed organicamente posto dalla legge di delega 15 marzo 1997, n. 59:

Su questa disciplina è ripetutamente intervenuta e, per quanto qui rileva, specialmente con le sentenze

17 luglio 2000, n. 292, 6 luglio 2004, n. 204, 28 luglio 2004, n. 281, 11 maggio 2006, n. 191, 12 marzo

2007, n. 77 e 27 aprile 2007, n. 140, la Corte Costituzionale.

Punti fondamentali dell’assetto normativo che ne è derivato e che, salvo le integrazioni e le precisazioni

appresso indicate, vige attualmente sono: 1) resta fermo, e vincola lo stesso legislatore, che criterio

generale di discriminazione è quello fondato sulla natura della situazione giuridica di cui si chiede tutela,

nel senso che giudice dei diritti soggettivi è il giudice ordinario e giudice degli interessi legittimi è il

giudice amministrativo;

2) resta fermo che è nella, per così dire, ragionevole discrezionalità del legislatore attribuire alla

giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in particolari materie (e non in blocchi indiscriminati

di materie) specialmente caratterizzate dalla compresenza o dalla difficile qualificazione di diritti

soggettivi ed interessi legittimi, anche la tutela di diritti soggettivi;

3) il giudice amministrativo conosce, nell’ambito della sua giurisdizione, sia essa di sola legittimità

ovvero, pur con differente dizione, esclusiva, “ anche di tutte le questioni relative all’eventuale

risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti

patrimoniali conseguenziali “ ;

4) il giudice ordinario, cui non spetta mai giurisdizione sugli interessi legittimi, non ha il potere di

annullare i provvedimenti amministrativi nè quello di risarcire il danno conseguente all’annullamento

degli stessi da parte del giudice amministrativo, e tuttavia, vertendosi in tema di lesione dei diritti

soggettivi non ricompresi nella cennata giurisdizione esclusiva, può disapplicare gli atti

dell’amministrazione e provvedere al risarcimento dell’eventuale danno.

IV - Con riferimento al nuovo assetto così sommariamente descritto si sono riproposti alla

giurisprudenza spinosi problemi interpretativi già vivi nel quadro della precedente disciplina ed ulteriori

questioni sostanziali e procedurali ha posto l’ampliamento della giurisdizione esclusiva e dei poteri del

giudice amministrativo.

Deve ricordarsi, al primo proposito, il permanere dalle difficoltà di discriminazione poste dalla

dicotomia diritto soggettivo – interesse legittimo nell’ambito di una legislazione che dalla

considerazione della loro natura il più delle volte prescinde preferendo enucleare dalle situazioni

soggettive e disciplinare puntualmente, con riferimento alla attività amministrativa, tal volta spezzoni

54

qualificabili come facoltà, più spesso aspetti analitici solo mediatamente riferibili ad individuabili

situazioni di diritto o di interesse.

Si tratta, nell’uno e nell’altro caso, di situazioni mai direttamente definite dalla legge e di derivazione

dottrinale e giurisprudenziale spesso collegate ad esigenze di preconcetti ed immobili schemi sistematici

piuttosto che ad ordinamenti e norme i quali supporrebbero, nel loro continuo aggiornarsi, il continuo

aggiornamento di un “ sistema “ che, dismessa la pretesa di imporsi alla legge, da questa ricevesse la sua

necessaria legittimazione.

Il dibattito, in proposito, è continuo e basti segnalare, di recente, la distinzione proposta dalla Corte di

Cassazione (Sez. un. 1 agosto 2006, n. 17461 ) che rivendica la giurisdizione del giudice ordinario in

ogni caso quando si sia in presenza di “ posizioni soggettive a nucleo rigido “ (es. in tema di salute e di

ambiente ) che, a differenza di quelle “ a nucleo variabile “, sarebbero assolutamente incomprimibili.

Siffatta tesi, espressamente contraddetta dalla Corte Costituzionale (sent. 27 aprile 2007, n. 140 ), reca

in se il corollario della inesistenza del provvedimento amministrativo che, pur emesso in applicazione di

legge, siffatti incomprimibili diritti in concreto incidesse.

Corollario che sembra meritare attenti approfondimenti nel punto in cui pare prescindere e dalle

attribuzioni esclusive della Corte Costituzionale in tema di verifica della costituzionalità delle leggi e

dalle attribuzioni del giudice amministrativo in tema di provvedimenti che conformemente a legge

incidono su situazioni soggettive degradandole, come si è soliti ripetere, ad interesse legittimo.

Riconosciuta a quest’ultimo giudice, com’è doveroso per chiunque, “ piena dignità di giudice “ e tenuto

conto della compiuta effettività della sua tutela, organizzata positivamente come efficace e sollecita, non

si vede la ragione perché le regole di discriminazione della giurisdizione debbano essere, a fronte dei

diritti c.d. “ a nucleo rigido “, di categoria, cioè, suscettibile di estensione ben oltre i casi esemplificati,

né si comprende la sottesa, asserita pretesa di una minore incisività della giurisdizione amministrativa .

Di tale opinione non è, per altro, lo stesso legislatore che, in maniera espressa ed univoca, ipotizza, con

l’art. 21 co. 8 della L. 1034/71, come integrato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, provvedimenti cautelari

del giudice amministrativo anche in tema di “interessi essenziali della persona quali il diritto alla salute,

alla integrità dell’ambiente, ovvero ad altri beni di primario rilievo costituzionale”.

E’ ben vero che allo stato si riscontra positivamente in relazione a talune situazioni soggettive del

genere di quelle indicate e di altre ancora una ordinaria e prevalente giurisdizione del giudice civile che

in nessun modo si contesta; epperò, mentre non può escludersi che in astratto ed in concreto si

profilino situazioni di interesse legittimo ovvero di attribuzione di giurisdizione esclusiva, è seriamente

controvertibile una tesi che, muovendo dalla categoria dei diritti soggettivi incomprimibili e varcando la

soglia della sola descrittività, sancisca aprioristicamente limiti assoluti e non costituzionalmente posti

alla giurisdizione amministrativa.

Ai fini della concreta verificazione di questa è necessario poi ribadire che configurano situazioni

soggettive di interesse legittimo non solo quelle che come tali originariamente nascono in capo al loro

titolare sibbene anche quelle che pur qualificandosi genericamente ed in astratto di diritto soggettivo

siano, in presenza di una norma che ciò consenta e di un procedimento ovvero di un provvedimento in

tal senso indirizzato, successivamente apprezzabili in concreto come di interesse legittimo. Certo è

necessario che procedimento e provvedimento siano svolti e decisi da un’autorità a ciò competente,

senza che concorrano violazioni di legge, senza che intervengano sviamenti e note carenze. Questi,

tuttavia, sono puntualmente i vizi rimessi allo scrutinio della giurisdizione amministrativa, individuabile

anche in base al fondamentale criterio, appresso approfondito, della riconducibilità della lesione sofferta

all’esercizio del potere autoritativo in astratto conferito all’autorità. Il criterio innovativo come

55

innovativa è stata la citata legislazione, è per altro frutto anche del consapevole contributo di tutte le

riflessioni che, in più di un secolo di elevato e fertile impegno, dottrina e giurisprudenza hanno arrecato

: dalla distinzione delle norme di azione dalle norme di relazione, dalle dottrine del diritto condizionato

ed affievolito fino alla stessa rilevata notazione dei c.d. diritti a “nucleo rigido “ non v’è nulla di

totalmente superato ovvero di superabile con improvvisazione e in ogni riflessione si riscontra un

elemento di validità che è di ausilio per sciogliere nodi che legislazione e pronunce costituzionali

tendono oggi a rendere meno aggrovigliati nel contestuale riconoscimento della unitarietà, quoad

effectum, della giurisdizione, attribuita sì a giudici diversi, ma di uguale dignità, muniti di analoghi poteri

ugualmente compiuti ai fini della completezza delle tutele di merito loro commesse, ugualmente intesi

ad attuare i precetti degli artt. 24 e 111 Cost. (cfr. Cort. Cost., 12 marzo 2007, n. 77).

Questi aspetti unitari, che valgono ad attenuare, almeno nella concretezza delle vicende giudiziarie, il

rilievo di talune estreme questioni di giurisdizione, non consentono, tuttavia, di inferirne il corollario,

come avanti si vedrà in tema di “pregiudiziale amministrativa”, della necessità, formale e sostanziale,

della uguaglianza della tutela.

V - Si sono posti, al secondo proposito, con riferimento, cioè, al nuovo assetto come sopra descritto, il

problema della estensione della giurisdizione esclusiva, sia con riferimento a materie ritenute di solo

diritto soggettivo sia con riferimento a precisazioni del legislatore ordinario dell’ambito di cognizione

concreta del giudice amministrativo ed il problema, inoltre, della connessione tra la domanda di

annullamento e la domanda risarcitoria.

Su questi ed altri problemi, approfonditi in dottrina, è ripetutamente intervenuta, con puntuali

pronunce, la Corte Costituzionale che, con le sentenze innanzi citate ha precisato:

a) i confini della giurisdizione esclusiva relativa alla materia dei pubblici servizi e della giurisdizione

esclusiva relativa alla materia urbanistica ed edilizia e delle espropriazioni;

b) la natura del potere del giudice amministrativo di provvedere sulle domande risarcitorie e sugli altri

diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di annullamento.

Così in materia di pubblici servizi, dalla quale sono state espunte controversie ritenute di diritto

soggettivo e, perciò, di pertinenza della giurisdizione ordinaria, come in materia di urbanistica ed edilizia

nonché delle espropriazioni, la Corte Costituzionale, confermata la nodale relazione tra l’esercizio di

poteri pubblici autoritativi e la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ha segnato il limite di

quest’ultima.

Ha cioè dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 33 co. 1 D.Lg.vo 31 marzo 1990, n. 80, come

sostituito dall’art. 7 lett. b. della L. 21 luglio 2000, n. 205, dell’art. 34 co. 1 del medesimo decreto,

nonché dell’art. 53, co.1, del D.Lg.vo 8 giugno 2001, n. 325 ( v. D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 53 )

nella parte in cui, devolvendo alla giurisdizione esclusiva le controversie relative a “ i comportamenti

delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati non esclude i comportamenti non

riconducibili, nemmeno mediamente, all’esercizio di un pubblico potere “ (così Cort. cost. 11 maggio

2006, n. 191 con riferimento alla giurisdizione esclusiva in tema di espropriazione per pubblica utilità e,

in precedenza, Cort. cost. 6 luglio 2004, n. 204 ).

Puntualizzato, da una parte, che l’aggettivo “ mediatamente “ si riferisce, come sopra ricordato, ai casi

in cui l’esercizio del potere si realizza nelle consentite forme negoziali, e , d’altra parte, che sussiste,

nelle motivazioni delle due sentenze, ancora riprese da quelle successive, un espresso legame sì che esse,

integrandosi costituiscono un unico, coerente disegno nei limiti del quale la Corte ammette la legittimità

costituzionale delle norme scrutinate, deve subito fissarsi un primo punto.

I “comportamenti”, cioè, che esulano dalla giurisdizione amministrativa esclusiva non sono

56

tutti i comportamenti, ma solo quelli che, tenuto conto dei riferimenti formali e fattuali di ogni

concreta fattispecie, non risultano riconducibili all’esercizio di un pubblico potere.

Altrimenti detto, quando può affermarsi che nella specie sia rilevabile un oggettivo, e non

meramente intenzionale, svolgersi di un’attività amministrativa costituente esercizio di un

potere astrattamente riconosciuto alla pubblica amministrazione o ai soggetti ad essa

equiparati, sussiste ogni elemento sufficiente ad affermare la giurisdizione amministrativa.

Caratterizzante, perciò, non è la legittimità dell’esercizio del potere, che, se fosse richiesta,

finirebbe per privare di causa la tutela appunto prevista per i casi di incompetenza, violazione

di legge ed eccesso di potere, né lo è il maggiore o minore spessore della illegittimità ovvero

della situazione giuridica tutelata.

Caratterizzante è , invece, la mera emersione di un agire causalmente riferibile ad una funzione

che per legge appartenga all’amministrazione agente e che per legge questa sia autorizzata a

svolgere e che, in concreto, risulti svolta.

Se così è, l’in sé dell’esercizio del potere deve rilevarsi, prioritariamente, in materia

comportamentale, non tanto dalle intenzioni e dalla generiche dichiarazioni del soggetto

pubblico agente quanto dalle oggettive vicende procedimentali che, mentre nella grande

maggioranza dei casi precedono ed accompagnano il fenomeno comportamentale,

testimoniano esse, oggettivamente, della rilevanza e della finalità e della consistenza del

comportamento consentendo di individuarne la genesi e di distinguerlo dai casi di semplice

generica presupposta esistenza del pubblico interesse.

La illegittimità di questo o quel momento procedimentale , cioè di quella serie formale

strumentalmente rivolta a realizzare l’interesse pubblico e sintomatica dell’agire autoritativo

consentito dalla legge , può sì far concludere per la illegittimità e, nei congrui casi, per la

illiceità del comportamento con effetti anche analoghi o uguali a quelli propri della accertata

carenza del potere, ma tale conclusione spetta al giudice cui, con garanzie ed effettività di

certo non inferiori a quelle apprestate dal giudizio ordinario, compete alla stregua

dell’ordinamento: al “giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica “.

E a questo “giudice naturale “ compete, in diretta applicazione dei principi di effettività e di

concentrazione della tutela nonché delle norme poste dal legislatore ordinario, di conoscere

non solo delle domande intese all’annullamento dell’attività autoritativa e, comunque,

impugnatorie ma “di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno ingiusto,

anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali

consequenziali”; risarcimento che, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, è “disposto” con

procedure anche innovative (v. art. 7 e 8 L. n. 205 del 2000).

In proposito la Corte Costituzionale, chiarita la irrilevanza della natura giuridica intrinseca alla pretesa

risarcitoria, se di per sé di diritto soggettivo o meno, ha escluso la configurabilità della giurisdizione

ordinaria “per ciò solo che la domanda abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno” ed ha

dichiarato costituzionalmente legittimo il nuovo sistema di riparto che riconosce esclusivamente al

giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena

tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto

per l’illegittimo esercizio della funzione.

Ciò in quanto il potere di risarcire il danno ingiusto non costituisce una nuova materia attribuita alla

cognizione del giudice amministrativo ma uno “strumento di tutela ulteriore “ rispetto a quello

demolitorio, strumento che, in armonia con l’art. 24 Cost. ne completa i poteri “non soltanto per

57

effetto della esigenza di concentrare davanti ad un unico giudice l’intera protezione del cittadino

avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica, ma anche perché quel giudice è idoneo ad

offrire piena tutela” oltre che agli interessi legittimi “ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente

garantiti coinvolti nell’esercizio della funzione amministrativa “ ( Cort. cost. 27 aprile 2007, n. 140).

L’illegittimità dell’esercizio del potere, nel senso sopra precisato, comporta, dunque, sempre nel caso di

lesione di interessi e, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, anche nel caso di lesioni di diritti

soggettivi, di qualsiasi spessore, la configurabilità della sola giurisdizione amministrativa così nel caso

che la domanda risarcitoria venga proposta congiuntamente a quella demolitoria come nel caso che

venga proposta autonomamente, derivandosi anche in tal caso la risarcibilità del danno dalla ipotizzata

illegittimità dell’attività amministrativa.

La Corte di Cassazione, pur convenendo su tali conclusioni generali (v. già Cass. 23 gennaio 2006, n.

1207), sottolinea ancora , non senza rimarchevoli oscillazioni, perplessità di non lieve momento.

Adducendo ora la perdurante vigenza della L. 20 marzo 1865, all. E, artt. 2 e 4, e non solo dei suoi

generali principi così come costituzionalmente recepiti, ora, con non felice espressione, una asserita

difficoltà del giudice amministrativo a penetrare le regole civilistiche sul risarcimento del danno

ingiusto, ora la individuabilità di diritti in assoluto riservati alla tutela ordinaria, la indicata Corte :

1) limita i casi in cui si è in presenza di “un concreto esercizio del potere“ ai casi in cui l’esercizio stesso

sia riconoscibile come tale perché a sua volta deliberato nei modi e in presenza dei requisiti richiesti per

valere come atto o provvedimento e non come mera via di fatto ( Sez. un. 13 giugno 2006, n. 13659)

“in consonanza con le norme che lo regolano “ (Sez. un. 15 giugno 2006, n. 13911; Cass. 7 febbraio

2007, n. 2691);

2) costruisce una categoria di diritti incomprimibili in maniera assoluta e perciò sempre da comprendere

nell’ambito della giurisdizione ordinaria ;

3) asserisce che la giurisdizione amministrativa è rifiutata ove, in presenza di autonoma domanda

risarcitoria, il giudice non provvede all’esame di merito per la ragione che nel termine per ciò stabilito

non sono stati chiesti l’annullamento dell’atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti. In tali

circostanze avverte la Corte, il rifiuto si espone a cassazione ex art. 362, co. 1, cod.proc.civ. (Sez.un. 13

giugno 2006, n. 13659 e n. 13660; 5 gennaio 2007, n. 13; 19 gennaio 2007, n. 1139).

Si tratta, come ognuno vede, di perplessità gravi nella misura in cui sostanzialmente evocano, per via di

una definizione resa fortemente restrittiva dal suo carattere analitico, la dicotomia sussistenza del potere

– esercizio del potere nei termini, anch’essi ambigui , precedenti il nuovo assetto di riparto della

giurisdizione; nella parte in cui confliggono con le univoche dichiarazioni della Corte Costituzionale 27

aprile 2007, n. 140 in tema di c.d. diritti incomprimibili e 12 marzo2007, n. 77 in tema di limiti, ex art.

362 e 386 cod.proc.civ., inerenti il controllo dei confini esterni della giurisdizione; nella parte in cui,

varcando tali limiti, assoggetta a nuove forme di sindacato le sentenze del giudice amministrativo.

Al primo proposito si rileva che, proprio con riferimento alla materia delle espropriazioni, la Corte di

Cassazione, nel suo indirizzo più radicale (v. Sez. un. 7 febbraio 2007, n. 2688, 2689, 2691; 13 febbraio

2007, n. 3048; 19 febbraio 2007, n. 3723; 12 aprile 2007, n. 9323) che sembra attenuato da altro pur

recentemente confermato indirizzo (Sez. un. 20 dicembre 2006, n. 27190 e 27192), configura la

giurisdizione ordinaria non solo, com’è pacifico, nei casi in cui l’amministrazione agisce, fuori di ogni

schema procedimentale, in via di fatto, ma anche nei casi in cui la dichiarazione di pubblica utilità risulti

“radicalmente nulla “ per omessa indicazione dei termini per l’espropriazione o per scadenza degli

stessi, ovvero per imprecisioni nella indicazione delle aree.

In tali casi, ed inoltre nei casi di decreto di espropriazione emesso fuori termine, rilevandosi anche

58

violazione dell’art. 42 Cost., si sarebbe, secondo la Corte, in presenza di vizi di spessore maggiore di

quelli che, in altri casi, inducendo il giudice amministrativo all’annullamento della dichiarazione di

pubblica utilità o del decreto di espropriazione, legittimerebbero, sia pure per sole esigenze di

concentrazione, la giurisdizione amministrativa (v. Sez. un. 2 luglio 2007, n. 14594).

Ora la perplessità che tale indirizzo suscita non attiene soltanto alla identificazione di una categoria di

speciali vizi che non sembra trovare conforto positivo e che anzi contrasta con le disposizioni

analiticamente introdotte con l’art. 14 della L. 11 febbraio 2005, n. 15, ma nella sostituzione del criterio

della riferibilità dell’esercizio del potere all’agire autoritativo, riferibilità che come sopra si è visto chiama

in causa l’intero procedimento, con il criterio del sindacato concreto della legittimità del provvedimento

della cui applicazione si tratta, che non si vede come possa tal volta competere al giudice ordinario e tal

altra al giudice amministrativo.

In materia di espropriazione, poi, si prescinde del tutto – non solo dal nuovo regime della nullità

introdotto, ad integrazione della L. 7 agosto 1990, n. 241, dall’art. 14 della L. 11 febbraio 2005, n. 15 –

ma anche dall’entrata in vigore, il 30 giugno 2003, del T.U. approvato con D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327,

il cui art. 43 sembra, come si preciserà più avanti, avere apportato sul punto definitivi chiarimenti.

Dei diritti c.d. incomprimibili s’è detto.

VII - Quanto, infine, al problema della c.d. pregiudizialità amministrativa, istituto risalente nel tempo ed

utilizzato di recente in tema di appalti (v. art. 13 L. 19 febbraio 1992, n. 142 e, per qualche profilo

generale, Corte cost. 8 maggio 1998, n. 165), esso è estremamente complesso (v.Ad. plen. 26 marzo

2003, n. 4) e qui non pertinente se non per la sua connessione, già richiamata dalla Corte di Cassazione,

con la questione della giurisdizione.

Basti, perciò, enunciarne taluni profili problematici, relativi:

- il primo, alla struttura stessa della tutela del giudice amministrativo che, come si è visto è, specialmente

articolata sia in sede di giurisdizione di legittimità sia in sede di giurisdizione esclusiva, nel senso che il

provvedimento amministrativo lesivo di un interesse sostanziale (e non, perciò, il mero

comportamento) può essere aggredito e in via impugnatoria, per la sua demolizione, e

“conseguenzialmente” in via risarcitoria, per i suoi effetti lesivi, ponendosi, nell’ uno e nell’altro caso, la

questione della sua legittimità.

Il carattere “conseguenziale” ed “ulteriore” della tutela risarcitoria, espressamente ed inequivocamente

posto, in armonia con gli artt. 103 e 113 co. 3 Cost., dall’art. 35. co. 1 e 4 del D.Lg.vo 31 marzo 1988, n.

80 e confermato dal successivo co. 5 che comunque abroga “ogni disposizione che prevede la

devoluzione al giudice ordinario della controversie sul risarcimento del danno” ancora una volta visto

come “conseguente all’annullamento di atti amministrativi”, sembra invero incontestabile.

Ed è confermato dalla ritenuta riferibilità della pronuncia di condanna all’insieme dei poteri strumentali

attribuiti al giudice per rimediare compiutamente alla lesione della situazione soggettiva

concettualmente, prima ancora che positivamente, unica e ciò sia che l’esercizio dei poteri del giudice

sia chiesto contestualmente sia che, giudizialmente accertatasi la illegittimità, sia richiesto, per vero con

condivisa interpretazione estensiva non del tutto allineata, tuttavia, con le convenienze della

“contestualità”, l’esercizio di ulteriori poteri prima non sollecitati.

Non c’è traccia, nella pronunce della Corte Costituzionale di alcun sospetto di illegittimità

costituzionale di siffatto disegno ed, anzi, sembra agevole inferirne il contrario.

L’istituto, per altro, autorevolmente confermato da motivate pronunce della stessa Corte di Cassazione

(v. 10 gennaio 2003, n. 157; 27 marzo 2003, n. 4538; 23 gennaio 2006, n. 1207), ha, oltre a radici

storiche e letterali di univoco rilievo, ragioni del pari univoche.

59

Deve considerarsi, in proposito, che diritto ed interesse, benché molto spesso partecipi di una

assimilabile pretesa ad un c.d. bene della vita, sono situazioni soggettive fortemente differenziate e tali

ritenute già a livello costituzionale.

Il primo, per dirla nei noti, riassuntivi termini, è assistito da una tutela tendenzialmente piena e diretta e,

nei suoi confronti, è sempre circoscritta la eventualità di condizionamenti esterni, anche se imputabili

ad una amministrazione pubblica e, perciò, ad interessi generali.

Il secondo origina da un compromesso, chiaramente solidaristico, tra le esigenze collettive di cui è

portatrice, ex art. 97 e 98 Cost.., la amministrazione stessa e la pretesa, di colui che dalla loro legittima

soddisfazione è coinvolto, di veder preservati quei suoi beni giuridici che preesistono all’attività

pubblica ovvero che nel corso di questa si profilino.

Ne deriva un coinvolgimento costante dell’interesse del singolo nell’interesse della collettività che si

esprime nell’attività, non libera, ma doverosa e funzionalizzata dell’amministrazione e questo legame

genetico spiega non solo la previsione di una giurisdizione a ciò specificamente deputata ma, insieme, le

differenze, che rimangono marcate, che possono individuarsi e in tema di discipline processuali e in

tema di connotati della tutela .

I commendevoli contributi acquisiti, in sede dottrinale e giurisprudenziale, in tema “giudizio sul

rapporto“, non sembrano condivisibili ove approdino al disconoscimento della natura principalmente

impugnatoria dell’azione innanzi al giudice amministrativo, cui spetta non solo di tutelare l’interesse

privato ma di considerare e valutare gli interessi collettivi che con esso si confrontano e, non solo di

annullare, bensì di “conformare” l’azione amministrativa affinché si realizzi un soddisfacente e legittimo

equilibrio tra l’uno e gli altri interessi.

Queste essenziali circostanze, mentre si riflettono sui diversi caratteri del giudizio amministrativo

rispetto a quello civile, nel quale si contrappongono pretese ascrivibili ad analoghe fonti e di regola

sottratte ad interferenze esterne da parte dell’autorità pubblica, sembrano spiegare e giustificare e la

priorità dell’azione impugnatoria, nel cui ambito soltanto è possibile e doveroso esercitare

compiutamente l’anzidetto vaglio di legittimità nonché misurare spessore e valenza così della dedotta

situazione soggettiva come della denunciata lesione, e la posta “conseguenzialità “ rispetto ad essa,

dell’azione risarcitoria.

Non si trascuri che il risarcimento del danno, oltre che “conseguenziale” è previsto, nell’ambito della

processualmente qualificante giurisdizione di legittimità, anche come “eventuale” con un attributo, cioè,

che mentre è di regola oggetto di ingiustificata pretermissione, riassume e sottopone alla

consapevolezza del giudice i travagli che le relative norme hanno inteso risolvere e che, in dottrina,

hanno persino indotto a configurare come “speciale” la figura in discorso.

Si ricorderà che la stessa Corte costituzionale aveva avuto modo, nel sottolineare l’urgenza di

“prudenti” soluzioni normative, di ipotizzare “scelte tra misure risarcitorie, indennitarie, reintegrative in

forma specifica e ripristinatorie” nonché la “delimitazione delle utilità economiche suscettibili di ristoro

patrimoniale nei confronti della pubblica amministrazione” (v.ord.8 maggio 1998, n, 165 e sent. 25

marzo 1980, n. 35) nella considerazione della inesistenza della copertura di rilievo costituzionale della

pretesa “regola generale di integralità della riparazione ed equivalenza al danno cagionato” (Cort. Cost.

2 novembre 1996, n. 369), con evidenti rilessi anche di natura processuale.

E’ su queste premesse che, rimasta inattuata la articolata delega di cui all’art. 20 co. 5, lett. h, della legge

15 marzo 1997, n. 59, il legislatore è, infine, pervenuto a stabilire, con formula che privilegia le ritenute

esigenze di concentrazione dei giudizi, il criterio della conseguenzialità - evidentemente inteso a

confermare la priorità del processo impugnatorio e in vista della prevalenza dell’interesse collettivo al

60

pronto e risolutivo sindacato dell’agire pubblico e in vista della convenienza, per la collettività,

dell’esercizio del sindacato stesso secondo criteri e modalità che, essendo positivamente propri del

giudizio di annullamento, da esso non consentono di prescindere - ed il criterio della “eventualità “ del

risarcimento del danno arrecato all’interesse legittimo, criterio rafforzato dalla diversa prescrizione in

tema di giurisdizione esclusiva e che, perciò, non solo esclude automatismi ma impone i predetti

apprezzamenti specifici, possibili soltanto allorché sia in causa, siccome suo oggetto principale e diretto,

il provvedimento, con le sue ragioni ed i suoi effetti.

E’ su queste premesse, perciò, che dev’essere apprezzato il vulnus che si ritiene connesso alla c.d.

pregiudiziale amministrativa che, in effetti, da un lato corrisponde ad avvertite esigenze di controllo,

convenientemente sollecitate dalle azioni impugnatorie, della legittimità e della trasparenza dell’azione

autoritativa e, d’altra parte, consente il compiuto rilievo degli interessi collettivi e generali coinvolti,

rilievo certamente monco e claudicante anche con riferimento alla giurisdizione esclusiva, pur sempre

relativa anche ad interessi legittimi e a diritti “degradati”, nell’ambito di un processo di solo tipo

risarcitorio, nel quale, per altro, gli interessi economici coinvolti appaiono non più rilevanti degli

interessi spesso anche di libertà che si fanno valere, senza che la relativa decadenza sia motivo di

censura, nel processo di annullamento.

Lo stesso soggetto leso sembra avere convenienza, a fronte dei non gravissimi disagi correlati alla

previsione di decadenza, agevolmente superabili con il doveroso uso della diligenza media e certamente

più ridotti rispetto a quelli che la legislazione consente o impone in altre anche se diverse materie, a

sperimentare preventivamente l’azione di annullamento, nella cui procedura e nella cui finalità

strumentale, gli è consentito rilevare vizi ed approfondirne lo spessore con risultati ben utili ai fini

dell’accertamento compiuto dell’an e del quantum della richiesta riparazione.

Ragioni sostanziali, dunque, non meno che formali, sembrano assistere le conclusioni già raggiunte

dall’Adunanza plenaria;

- il secondo, alla c.d. presunzione di legittimità, che, mentre involge radicati poteri della pubblica

amministrazione e positivi caratteri dei suoi provvedimenti, come la efficacia e la esecutorietà,

emergenti da una legislazione costante nel tempo, si tramuta da relativa in assoluta allorché, nel termine

di decadenza, - certamente eluso in ipotesi di vanificazione della pregiudiziale - siasi omessa

impugnazione ovvero finchè, in presenza di discrezionale apprezzamento, non sia intervenuto

annullamento d’ufficio (v. L. 11 febbraio 2005, n. 15 );

- il terzo, alla articolazione della tutela sopra ricordata che, in entrambi i suoi casi, concerne la stessa

illegittimità del provvedimento strumentalmente invocata, “principaliter”, e ai fini del buon esito della

domanda impugnatoria e ai fini del buon esito della domanda risarcitoria con la conseguenza che,

costituisca il “danno ingiusto” fatto o, come sembra preferibile, fattispecie, esso non può essere

configurato a fronte di una illegittimità del provvedimento che, per l’assolutezza della cennata

presunzione, è, de jure, irreclamabile ;

- il quarto, alla incidenza della lamentata “decadenza” che attiene, a ben vedere, all’azione impugnatoria

invece che all’azione risarcitoria, impedita, piuttosto che dalla decadenza, dalla non configurabilità, in

presenza di un provvedimento inoppugnabile così come in presenza di un provvedimento inutilmente

impugnato, di una sua condizione che la contraddizione legittimità-illeceità rende essenziale, la formale

inesistenza, cioè, della ingiustizia del danno che è nucleo essenziale, anche se non sufficiente, della

illiceità;

- il quinto, alla concreta equivalenza del giudicato che, rilevando immediatamente la inesistenza della

appena ricordata condizione, dichiari la improponibilità della domanda col giudicato che,

61

pronunciandosi, come si pretende, nel merito dichiari infondata – e questa volta con pronuncia

inequivocabilmente sottratta a verifica ex art. 362 cod.proc.civ. - la domanda per difetto della

denunziata illegittimità;

- il sesto, al reclamato potere regolatore della Corte di Cassazione ( Sez. un, 19 gennaio 2007, n. 1139; 4

gennaio 2007, n. 13 ) che, secondo il correlato avvertimento della Corte Costituzionale (sent. 12 marzo

2007, n. 77) , “con la sua pronuncia può soltanto, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost., vincolare

il Consiglio di Stato e la Corte di Conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma certamente

non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione “. Ad

analogo principio, prosegue la Corte Costituzionale “si ispira l’art. 386 cod. proc. civ. applicabile anche

ai ricorsi proposti a norma dell’ art. 362, comma primo cod. proc. civ., disponendo che “la decisione

sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio, non

pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda” ;

- il settimo, ma non ultimo, relativo alla correlata verifica degli eventuali limiti dell’indirizzo della Corte

di Cassazione secondo cui la inoppugnabilità dell’atto amministrativo, siccome relativa agli interessi

legittimi, non impedirebbe in nessun caso al giudice ordinario di disapplicarlo (v. Cass. 9 maggio 2006,

n. 10628 e Cass. 26 maggio 2006, n. 12646).

VIII - Quanto si è fin qui considerato consente di confermare l’attualità degli indirizzi già assunti

dall’Adunanza plenaria con riferimento alla questione da decidere, in merito alla quale la giurisdizione

amministrativa è affermata anche dalle Sezioni unite (v., da ultimo, 2 luglio 2007, n. 14954).

Già con pronuncia 30 agosto 2005, n. 4 l’Adunanza plenaria ha posto il principio secondo cui deve

configurarsi la giurisdizione amministrativa in ordine a “liti che abbiano ad oggetto diritti soggettivi

quando la lesione di questi ultimi tragga origine, sul piano eziologico, da fattori causali riconducibili

all’esplicazione del pubblico potere, pur se in un momento nel quale quest’ultimo risulta ormai mutilato

nella sua forma autoritativa per la sopraggiunta inefficacia disposta dalla legge per la mancata

conclusione del procedimento” e ciò anche se il risarcimento è autonomamente richiesto, nei limiti

temporali della prescrizione quinquennale (v. Ad. pl. 9 febbraio 2006, n. 2), di seguito all’intervenuto

annullamento del provvedimento degradatorio, anche in via di autotutela.

Nello stesso senso si è poi pronunciata Ad. plen. 16 novembre 2005, n. 9, che, anche richiamando

analoghi orientamenti delle Sezioni Unite ( ord. 22 novembre 2004, n. 21944 e sent. 31 marzo 2005,

n.6745), ha ritenuto compresa nella giurisdizione amministrativa quelle “condotte che si connotano

quale attuazione di potestà amministrative manifestatesi attraverso provvedimenti autoritativi che

hanno spiegato, secundum legem, i loro effetti pur se successivamente rimossi, in via retroattiva, da

pronunce di annullamento”.

Più di recente Ad. plen. 30 luglio 2007, n. 9 che, in fattispecie per più versi analoga, conclude che “nella

materia dei procedimenti di esproprio sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le

controversie nelle quali si faccia questione - naturalmente anche ai fini complementari della tutela

risarcitoria - di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di

pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all’interno del quale sono state espletate

non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi

dichiarati illegittimi”.

Infine Ad. plen. 30 luglio 2007, n. 10, ha statuito che pur nell’ambito della giurisdizione generale di

legittimità spetta al giudice amministrativo conoscere, ai fini risarcitori, dei danni conseguiti ad un

provvedimento amministrativo annullato per intervenuta scadenza del suo termine di efficacia (nella

specie : requisizione) anche se i danni stessi si sono verificati dopo la stessa scadenza.

62

Ne deriva, conclusivamente, che la domanda per cui è causa è stata correttamente compresa,

dal giudice di primo grado, nella giurisdizione del giudice amministrativo in quanto intesa a

rimediare, insieme in via impugnatoria e risarcitoria, ad una lesione che risulta conseguente ad

una serie procedimentale certamente svolta, dalla Provincia di Modena, nella sua veste di

Autorità nell’esercizio, sia pure illegittimo, del potere ad essa spettante.

Assumono particolare rilievo, ai fini della riconducibilità della lesione all’esercizio del potere

pubblico, i provvedimenti di variazione e di integrazione della pianificazione urbanistica, i

reiterati provvedimenti di dichiarazione di pubblica utilità, i conseguenziali provvedimenti di

occupazione e di determinazione e deposito delle indennità nonché lo stesso provvedimento di

trasferimento della proprietà che, benché adottato dopo la scadenza del termine fissato dalla

dichiarazione di pubblica utilità e perciò illegittimo e perciò annullato, da una parte non inficia

la dispiegata efficacia degli atti posti in essere precedentemente – atti giunti a configurare la

irreversibile destinazione del bene all’uso pubblico - e, d’altra parte, non vulnera la ritenuta

riconducibilità procedimentale dell’attività amministrativa all’esercizio di un pubblico potere

autoritativo.

IX - Si deve, infine, sottolineare – e la circostanza sembra avere chiari riflessi nella intera materia delle

espropriazioni per pubblica utilità - che, è intanto entrato in vigore, con decorrenza 30 giugno 2003, il

T.U. approvato con D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, (v. in merito all’art. 57, Ad. plen. 29 aprile 2005, n. 2

e Sez.un. 30 maggio 2005, n. 11336 e 2 luglio 2007, n. 14954) che, nel suo art. 43 detta una innovativa

disciplina in tema di fattispecie già inquadrate negli schemi, contrastati anche dalla Corte di Strasburgo,

della c.d. accessione invertita, derivi essa da occupazione acquisitiva o usurpativa.

In presenza di utilizzazione di un bene immobile per scopi di interesse pubblico - prescrive la norma -

che sia modificato “in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo di

pubblica utilità “ l’autorità cui risale l’utilizzazione “anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia

sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il

decreto di esproprio” può disporre che l’immobile stesso “vada acquisito al suo patrimonio

indisponibile” con provvedimento discrezionale che, verso determinazione e preventivo pagamento

della misura del risarcimento del danno, comporta il trasferimento del diritto di proprietà.

La norma, che rimette alla valutazione discrezionale dell’amministrazione di negare la restituzione del

bene e che attribuisce al giudice amministrativo di sindacare, nell’ambito della giurisdizione attribuitagli

ai sensi del successivo art.53, le ragioni del diniego - secondo alcuni con competenza non solo esclusiva

ma estesa al merito - sembra rilevare, per quanto qui interessa, sotto due aspetti.

Da una parte ed in generale essa conferma, infatti, quanto si è venuto esponendo in tema di positiva

priorità del criterio di discriminazione fondato sulla “riconducibilità” dell’esercizio del potere all’autorità

per altro estendendo la possibilità di accertarlo anche per via del solo accertamento della qualifica di

“autorità” del soggetto agente e delle strumentalità del suo agire ai fini della realizzazione degli “scopi di

interesse pubblico” la cui cura è ad essa commessa.

D’altra e più specifica parte la norma importa, ed i suoi compiuti effetti debbono essere ovviamente

verificati nel nuovo quadro definito dall’intero decreto, una profonda revisione degli istituti

dell’accessione invertita così come introdotti e sviluppati dalla giurisprudenza.

La fattispecie regolata resta per più di un verso analoga nei suoi tratti generali posto :

- che non è sufficiente il mero impossessamento del bene immobile altrui ma è necessario che lo stesso

immobile sia anche “modificato” ed “utilizzato per scopi di interesse pubblico”, che, cioè, si sia in

presenza e di un’attività materiale e di una sua obiettiva strumentalità;

63

- che permane l’esigenza della qualificazione del soggetto pubblico agente, che, dovendo configurarsi

come “autorità” deve agire, alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata, nel

riconoscibile esercizio dei suoi poteri autoritativi.

L’istituto è per altro innovato sia, come già rilevato, quanto ai modi di emersione di questo esercizio

rispetto ai quali appare fortemente recessiva la rilevanza dei momenti procedurali della dichiarazione di

pubblica utilità e del decreto di espropriazione e sintomatica, perciò,la sola astratta previsione del

potere; sia quanto all’estensione dell’ambito della discrezionalità amministrativa; sia quanto al

meccanismo del trasferimento della proprietà del bene immobile, del quale l’autorità può rifiutare la

restituzione nel solo ambito delle cennate garanzie giuridiche ed economiche, la cui esigenza è stata

specialmente sottolineata dalla Corte di Strasburgo; sia con riferimento alla tutela giudiziaria,

interamente attribuita, ora, con la sola eccezione delle “vie di fatto” materiali, al giudice amministrativo,

ben al di là, perciò, dei limiti precedentemente affermati.

Si realizza per tale maniera, nella materia delle espropriazioni (eccezion fatta per le questioni

indennitarie) quella estesa concentrazione della giurisdizione che è tra gli obiettivi prioritari della recente

legislazione e che, coerente con la acquisita pienezza dei poteri del giudice amministrativo, consente

ponderate riflessioni anche nelle altre materie che tuttora esprimono elementi di incertezza sul tema per

più versi centrale degli esposti criteri di discriminazione.

X - Ne deriva che, ritenuta e dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, l’appello deve essere

respinto con assorbimento del ricorso incidentale.

Le spese del grado di giudizio, tenuto conto della complessità delle questioni esaminate e del relativo

esito, possono compensarsi.

Deve ordinarsi la rimessione degli atti di causa al Tribunale regionale amministrativo per la Lombardia,

sezione di Brescia, per la definizione del giudizio

P.Q.M.

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ritenuta e dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo,

respinge l’appello con assorbimento del ricorso incidentale.

Compensa le spese del giudizio di appello.

Ordina la rimessione della causa al Tribunale regionale amministrativo per la Lombardia , sezione di Brescia, per

la definizione del giudizio.

3.3.1 Riparto di giurisdizione e diritti inaffievolibili o a nucleo rigido

Corte Costituzionale, sentenza del 27 aprile 2007, n. 140: normativa in materia di impianti

di generazione di energia elettrica e incomprimibilità del diritto alla salute e alla salubrità

dell’ambiente

64

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Civitavecchia dubita, in riferimento agli articoli 103 e 25 della

Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 552, della legge 30 dicembre

2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -

legge finanziaria 2005), nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice

amministrativo le controversie aventi ad oggetto le procedure ed i provvedimenti in materia di

impianti di energia elettrica di cui al decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 (Misure urgenti per

garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 9

aprile 2002, n. 55 e le relative questioni risarcitorie.

2. – Sulle eccezioni di carattere preliminare sollevate da più parti si osserva quanto

segue.

(omissis)

3. – Con riferimento all’altro parametro, costituito dall’art. 103, primo comma, Cost., il

rimettente ricorda che l’art. 1, comma 552 della legge n. 311 del 2004 – nella parte in cui

dispone che «Le controversie aventi ad oggetto le procedure ed i provvedimenti in materia di

impianti di generazione di energia elettrica di cui al decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7,

convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2003 [recte: 2002], n. 55, e le relative questioni

risarcitorie sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo» – consente di

ricomprendere la fattispecie in esame, pur in considerazione delle peculiarità degli interessi fatti

valere con il ricorso introduttivo del giudizio cautelare. Ciò, sia perché la norma censurata

include espressamente le azioni risarcitorie (rispetto alle quali l’azione inibitoria promossa dal

Comune ricorrente si colloca in posizione anticipatoria), sia perché l’ambito delle controversie

riservate alla giurisdizione esclusiva del TAR risulta definito da una «endiadi (procedure e

provvedimenti in materia di impianti) non agevolmente delimitabile». In tal modo – a giudizio

del rimettente - la norma finisce con l’includere, in modo del tutto indipendente dalla natura

degli interessi lesi, qualsiasi controversia interferente con la progettazione, la realizzazione,

l’esistenza e il funzionamento di un impianto di energia elettrica. E ciò, in violazione dell’art.

103, primo comma Cost.

La questione non è fondata.

Il progetto di riconversione della centrale in questione prevedeva la realizzazione di un impianto

di potenza superiore a 300 MW termici, per la cui approvazione si era fatto ricorso al

procedimento di autorizzazione unica previsto dall’art. 1 del decreto- legge n. 7 del 2002,

convertito dalla legge n. 55 del 2002.

65

Secondo l’art. 1, comma 1, del citato decreto-legge, emanato in conformità con la

direttiva n. 96/92/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 dicembre 1996,

(concernente norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica), attuata con il decreto

legislativo 16 marzo 1999, n. 79, «la costruzione e l’esercizio degli impianti di energia elettrica di

potenza superiore a 300 MW termici, gli interventi di modifica o ripotenziamento, nonché le

opere connesse e le infrastrutture indispensabili all’esercizio degli stessi, sono dichiarati opere di

pubblica utilità e soggetti ad una autorizzazione unica rilasciata dal Ministero delle attività

produttive, la quale sostituisce autorizzazioni, concessioni ed atti di assenso comunque

denominati, previsti dalle norme vigenti [….] costituendo titolo a costruire e ad esercitare

l’impianto in conformità al progetto approvato»

Per effetto del comma 2 l’autorizzazione di cui al comma 1 è rilasciata «a seguito di un

procedimento unico, al quale partecipano le Amministrazioni statali e locali interessate, svolto

nel rispetto dei princípi di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n.

241 e successive modificazioni, d’intesa con la regione interessata».

Il procedimento seguito nel caso di specie s’inquadra perfettamente nella formulazione

della norma denunciata che parla di «procedure e […] provvedimenti in materia di impianti di

generazione di energia elettrica», proprio per indicare quel procedimento complesso, in ragione

del coinvolgimento di più soggetti pubblici, il quale si conclude con i provvedimenti specifici

riguardanti le singole modalità attuative degli interventi inerenti gli impianti in questione.

La norma censurata, d’altronde, è conforme all’orientamento espresso nelle sentenze n. 204 del

2004 e, soprattutto, n. 191 del 2006 di questa Corte. Secondo tali pronunce, l’art. 103 Cost.,

pur non avendo conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata

discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua

giurisdizione esclusiva, gli ha riconosciuto il potere di indicare «particolari materie»

nelle quali la tutela nei confronti della pubblica amministrazione investe «anche» diritti

soggettivi. Deve trattarsi tuttavia, di materie determinate nelle quali la pubblica

amministrazione agisce nell’esercizio del suo potere.

La richiamata giurisprudenza di questa Corte esclude, poi, che la giurisdizione possa

competere al giudice ordinario per il solo fatto che la domanda abbia ad oggetto

esclusivo il risarcimento del danno (sentenza n. 191 del 2006). Il giudizio amministrativo,

infatti, in questi casi assicura la tutela di ogni diritto: e ciò non soltanto per effetto

dell’esigenza, coerente con i princípi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di

concentrare davanti ad un unico giudice l’intera protezione del cittadino avverso le

modalità di esercizio della funzione pubblica, ma anche perché quel giudice è idoneo

66

ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti

nell’esercizio della funzione amministrativa.

Nella fattispecie disciplinata dal censurato comma 552 dell’art. 1 della legge n. 311 del 2004

ricorrono tutti i presupposti che questa Corte ha ritenuto sufficienti a legittimare il

riconoscimento di una giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo. L’oggetto delle

controversie è rigorosamente circoscritto alle particolari «procedure e provvedimenti», tipizzati

dalla legge (decreto-legge n. 7 del 2002), e concernenti una materia specifica (gli impianti di

generazione di energia elettrica).

Né osta - va ribadito - alla validità costituzionale del «sistema» in esame la natura

«fondamentale» dei diritti soggettivi coinvolti nelle controversie de quibus, su cui pure

insiste il rimettente, non essendovi alcun principio o norma nel nostro ordinamento che

riservi esclusivamente al giudice ordinario - escludendone il giudice amministrativo - la

tutela dei diritti costituzionalmente protetti. Peraltro, l’orientamento – espresso dalle

Sezioni unite della Corte di cassazione – circa la sussistenza della giurisdizione del giudice

ordinario in presenza di alcuni diritti assolutamente prioritari (tra cui quello alla salute) risulta

enunciato in ipotesi in cui venivano in considerazione meri comportamenti della pubblica

amministrazione, e pertanto esso è coerente con la sentenza n. 191 del 2006, con la quale questa

Corte ha escluso dalla giurisdizione esclusiva la cognizione del risarcimento del danno

conseguente a meri comportamenti della pubblica amministrazione. Nel caso in esame, invece,

si tratta di specifici provvedimenti o procedimenti «tipizzati» normativamente.

Deve, dunque, concludersi che legittimamente la norma censurata ha riconosciuto

esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione

pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche una tutela risarcitoria,

per equivalente o in forma specifica, per il danno asseritamente sofferto anche in

violazione di diritti fondamentali in dipendenza dell’illegittimo esercizio del potere

pubblico da parte della pubblica amministrazione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 552, della

legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e

pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005), sollevata, in riferimento all’art. 25 della

Costituzione, dal Tribunale di Civitavecchia, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

67

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso articolo 1, comma

552, della legge n. 311 del 2004 sollevata, in riferimento all’art. 103 della Costituzione, dal

Tribunale di Civitavecchia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 30 marzo 2011, n. 7186 : procedure

selettive e violazione del divieto di discriminazione

In tema di azione ai sensi dell'art. 44 del T.U. sull'immigrazione (d.lgs. n. 286 del 1998), il legislatore, al fine di

garantire parità di trattamento e vietare ingiustificate discriminazioni per "ragioni di razza ed origine etnica", ha

configurato una posizione di diritto soggettivo assoluto a presidio di un'area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile

vittima delle discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione posta in essere sia da privati che dalla P.A., senza che

assuma rilievo, a tal fine, che la condotta lesiva sia stata attuata nell'ambito di procedimenti per il riconoscimento, da parte

della P.A., di utilità rispetto a cui il privato fruisca di posizioni di interesse legittimo, restando assicurata una tutela

secondo il modulo del diritto soggettivo e con attribuzione al giudice del potere, in relazione alla variabilità del tipo di

condotta lesiva e della preesistenza in capo al soggetto di posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo a determinate

prestazioni, di "ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo,

secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione". Ne consegue che è devoluta alla giurisdizione del giudice

ordinario l'azione promossa contro la decisione dell'amministrazione datrice di lavoro di escludere dalle procedure di

stabilizzazione, previste dalla legge finanziaria del 2007, alcuni lavoratori extracomunitari perché privi della cittadinanza

italiana, dovendosi ritenere che le questioni relative a dette procedure riguardino solo la fase successiva all'esercizio

dell'azione antidiscriminatoria, restando esclusa ogni asserita violazione del principio del giudice naturale.

RITENUTO IN DIRITTO

1. I due ricorsi, diretti a contestare la giurisdizione del giudice ordinario relativamente allo

stesso giudizio, devono essere riuniti. Tuttavia si prenderà in considerazione in primo luogo il

ricorso proposto dall'Azienda ospedaliera in via autonoma. 2. Hanno un rilievo centrale

rispetto alla questione di giurisdizione in esame le disposizioni di natura processuale introdotte

al fine di consentire una più efficace attuazione concreta delibi norme di carattere sostanziale

di divieto di discriminazioni basate sulla razza, la religione, l'origine etnica, la cittadinanza, ecc,

e cioè la speciale azione disciplinata dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44 (t.u. delle

disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello

straniero), nel quadro delle previsioni di carattere sostanziale di cui all'art. 43, che, in relazione

alla materia regolata dal t.u., delinea in maniera molto circostanziata la disciplina di divieto

68

delle discriminazioni (rispetto alla quale possono assumere rilievo anche le varie disposizioni

dello stesso testo normativo circa i diritti e i doveri dello straniero, comprese ora le

disposizioni di cui agli artt. 9 e 9 bis, nel testo di cui al D.Lgs. n. 3 del 2007, art. 1, comma 1,

emanato per dare attuazione alla direttiva 2003/109/CE sullo status di cittadini di paesi terzi

soggiornanti di lungo periodo). Il modello di azione delineato dall'art. 44 cit. è richiamato, poi,

con taluni secondari adattamenti, dal D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, artt. 4 e 4 bis (il secondo

inserito dal D.L. n. 59 del 2008, art. 8 sexies, convertito con modificazioni dalla L. n. 101 del

2008) e dal D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 4, testi normativi che, dando attuazione,

rispettivamente, alla direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone

indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica e alla direttiva 2000/78/CE sulla parità di

trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, formano con lo stesso d.lgs.

286/1998 (oltre che con altre disposizioni di carattere generale o settoriale -cfr. per esempio il

D.Lgs. n. 67 del 2006 di contrasto alle discriminazioni delle persone con disabilità, il cui art. 3

fa analogamente rinvio al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44 -, nonché con fonti sovranazionali e

in particolare comunitarie) un complesso normativo antidiscriminatorio di lettura non del tutto

agevole, a causa della tecnica adottata della successiva integrazione e ripetizione, sotto

prospettive parzialmente diverse, delle previsioni antidiscriminatorie. 3. È utile riportare il

testo dei primi dieci commi del citato D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44 (tenendo presente

l'intervenuta sostituzione del tribunale in funzione monocratica al pretore):

1. Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una

discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza

diparte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro

provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione.

2. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla parte, nella

cancelleria del pretore del luogo di domicilio dell'istante.

3. Il pretore, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede

nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai

presupposti e ai fini del provvedimento richiesto.

4. Il pretore provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda. Se accoglie la

domanda emette i provvedimenti richiesti che sono immediatamente esecutivi.

5. Nei casi di urgenza il pretore provvede con decreto motivato, assunte, ove occorra,

sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l'udienza di comparizione delle

parti davanti a sè entro un termine non superiore a quindici giorni, assegnando all'istante un

termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale

udienza il pretore, con ordinanza, conferma, modifica o revoca provvedimenti emanati nel

decreto.

6. Contro i provvedimenti del pretore è ammesso reclamo al tribunale nei termini di cui

all'articolo 739, secondo comma, del codice di procedura civile. Si applicano, in quanto

compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice di procedura civile.

7. Con la decisione che definisce il giudizio il giudice può altresì condannare il convenuto al

risarcimento del danno, anche non patrimoniale.

8. Chiunque elude l'esecuzione di provvedimenti del pretore di cui ai commi 4 e 5 e dei

provvedimenti del tribunale di cui al comma 6 è punito ai sensi dell'art. 388 c.p., comma 1.

9. Il ricorrente, alfine di dimostrare la sussistenza a proprio danno del comportamento

69

discriminatorio in ragione della razza, del gruppo etnico o linguistico, della provenienza

geografica, della confessione religiosa o della cittadinanza può dedurre elementi di fatto anche

a carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle

mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti

dell'azienda interessata. Il giudice valuta i fatti dedotti nei limiti di cui all'art. 2729 c.c., comma

1.

10. Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento discriminatorio di

carattere collettivo, anche in casi in cui non siano individuabili in modo immediato e diretto i

lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere presentato dalle rappresentanze locali

delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Il giudice, nella

sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del presente

articolo, ordina al datore di lavoro di definire, sentiti i predetti soggetti e organismi, un piano

di rimozione delle discriminazioni accertate (seguono il comma 11 prevedente sanzioni nei

confronti di imprese beneficiarie di agevolazioni o appalti pubblici e il comma 12

sull'istituzione su base regionale di centri di osservazione e di assistenza riguardo ai fenomeni

di discriminazione nei confronti degli stranieri). 4. Queste Sezioni unite hanno avuto

l'occasione di precisare, sulla base di un esame approfondito della questione, che il riportato

art. 44 ha introdotto e disciplinato un procedimento cautelare con funzione anticipatoria della

pronuncia di merito, al quale si applicano, in quanto compatibili, le norme sul procedimento

cautelare uniforme regolato dal codice di procedura civile e in particolare la disposizione

dell'art. 669 octies, comma 6, sulla esclusione dell'onere di iniziare il giudizio di merito entro

un termine perentorio (Cass. S.U. n. 6172/2008. a cui ha prestato adesione la recente sentenza

Cass. S.U. n. 3670/2011). Nella specie risulta seguito un iter procedurale conforme a tale

modello ricostruttivo e, in particolare ne discende l'ammissibilità del regolamento di

giurisdizione proposto dall'Azienda ospedaliera nel corso del primo grado del giudizio di

merito.

5. Il relativo ricorso si basa in sostanza sulla tesi secondo cui l'introduzione dello speciale

procedimento ex art. 44 cit. non può avere influenza sulle attribuzioni giurisdizionali del

giudice amministrativo secondo le generali previsioni al riguardo e sulla natura della posizione

soggettiva di cui fruisce il privato in relazione alla natura dei vari procedimenti amministrativi e

dei poteri esercitati dalla p.a. nell'ambito degli stessi. Con riferimento alla specie, si sostiene

che il procedimento di stabilizzazione di lavoratori a termine implica lo svolgimento di

procedure concorsuali ricadenti nella disciplina in punto di giurisdizione di cui al D.Lgs. n. 165

del 2001, art. 63, comma 4, con attribuzione della controversia alla giurisdizione

amministrativa e qualificabilità come interesse legittimo della posizione dei soggetti

partecipanti alla selezione concorsuale o comunque aspiranti a parteciparvi, senza che possa

farsi alcuna distinzione nel caso in cui si controverta circa l'operatività o meno del requisito

della cittadinanza italiana.

La qualificazione come concorsuale del procedimento di stabilizzazione dei lavoratori precari è

contestata dai controricorrenti.

La Corte ritiene però che la qualificabilità o meno come concorsuale della procedura di

stabilizzazione in questione non sia decisiva nella presente sede, stante il ruolo concretamente

assorbente della questione logicamente e giuridicamente preliminare relativa alla rilevanza t

anche sul piano della giurisdizione della disciplina sostanziale e processuale antidiscriminatoria.

70

3. Questa problematica è stata già affrontata di recente da questa Corte, sia pure in relazione

ad un procedimento promosso a norma del D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 4 bis. Si è osservato

che la chiarezza del dato normativo non consente dubbi riguardo all'attribuzione alla

giurisdizione ordinaria della tutela contro gli atti e i comportamenti ritenuti lesivi del principio

di parità e, in particolare della parità di trattamento dovuta, a norma del D.Lgs. n. 215 del

2003, art. 3, "senza distinzione di razza ed origine etnica (...) a tutte le persone sia nel settore

pubblico che privato", per la cui attuazione viene fatto i. -rinvio dagli artt. 4 e 4 bis -

quest'ultimo diretto ad assicurare la speciale tutela processuale nel caso di ritorsioni nei

confronti di attività dirette a perseguire la parità di trattamento - al procedimento D.Lgs. n.

286 del 1998, ex art. 44 (Cass. S.U. n. 3670/2011 cit). Nella stessa occasione, circa il rapporto

tra situazioni sostanziali e modi di tutela processuale, si è osservato che costituiscono oggetto

di tutela veri e propri diritti assoluti, derivanti dal fondamentale principio costituzionale di

parità (art. 3 Cost.) e dalle analoghe norme sovranazionali, in attuazione delle quali il legislatore

nazionale ha emanato le normative in esame; e circa l'attribuzione al giudice ordinario anche

del giudizio di merito, si è rilevato in particolare che comporterebbe l'introduzione di una

palese anomalia sistematica ammettere la possibile attribuzione al giudice amministrativo del

giudizio di merito, con interruzione del nesso tra giudizio cautelare, finalizzato ad assicurare

interinai mente o ad anticipare gli effetti del giudizio di merito, e quest'ultimo.

4. Tali rilievi sono condivisibili e sono recepiti in questa sede. In presenza di normative che, al

fine di garantire parità di trattamento, in termini particolarmente incisivi e circostanziati, e

correlativamente vietare discriminazioni ingiustificate, con riferimento a fattori meritevoli di

particolare considerazione sulla base di indicazioni costituzionali o fonti sovranazionali

articolano in maniera specifica disposizioni di divieto di determinate discriminazioli

contemporaneamente istituiscono strumenti processuali speciali per la loro repressione,

affidati lai giudice ordinario, deve ritenersi che il legislatore abbia inteso configurare, a tutela

del soggetto potenziale vittima delle discriminazioni, una specifica posizione di diritto

soggettivo, e specificamente un diritto qualificabile come "diritto assoluto" in quanto posto a

presidio di una area di libertà e potenzialità del soggetto, rispetto a qualsiasi tipo di violazione

della stessa.

Il fatto che la posizione tutelata assurga a diritto assoluto, e che simmetricamente possano

qualificarsi come fatti illeciti i comportamenti di mancato rispetto della stessa, fa sì che il

contenuto e l'estensione delle tutele conseguibili in giudizio presentino aspetti di atipicità e di

variabilità in dipendenza del tipo di condotta lesiva che è stata messa in essere e anche della

preesistenza o meno di posizioni soggettive di diritto o interesse legittimo del soggetto leso a

determinate prestazioni. Di ciò si trova riscontro nel dettato normativo, secondo cui il giudice

può "ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro

provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione"

(D.Lgs. n. 2876 del 1998, art. 44, comma 1), oltre che condannare il responsabile al

risarcimento del danno (comma 7).

Risulta quindi spiegabile, in particolare, come, in relazione a discriminazioni del genere di

quelle in esame, anche quando esse siano attuate nell'ambito di procedimenti per il

riconoscimento da parte della pubblica amministrazione di utilità rispetto a cui il soggetto

privato fruisca di una posizione di interesse legittimo e non di diritto soggettivo, la tutela del

privato rispetto alla discriminazione possa essere assicurata secondo il modulo del diritto

71

soggettivo e delle relative protezioni giurisdizionali. L'inquadramento nell'ambito del diritto

assoluto spiega efficacia, infatti, ai fini e nei limiti delle esigenze di repressione della (in ipotesi)

illegittima discriminazione, anche se non possono essere predeterminati in astratto i termini

della tutela accordabile giudizialmente, dovendosi tenere conto delle specificità di ogni

situazione e del riferimento delle disposizioni di legge anche ad ipotesi di discriminazione

indiretta (cfr. il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43, comma 2, lett. e), e il D.Lgs. n. 215 del 2003,

art. 2, comma 1, lett. b)).

D'altra parte è lo stesso testo del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, con il suo riferimento

incondizionato ai comportamenti sia dei privati che della pubblica amministrazione (comma

1), che non consente di escludere l'esperibilità delle azioni ivi previste solo perché la p.a. ha

attuato la discriminazione in relazione a prestazioni rispetto a cui il privato non fruisce di una

posizione di diritto soggettivo. Anche il D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 3, precisa che il relativo

principio di parità di trattamento opera sia nel settore pubblico che in quello privato (comma

1), e fa particolare riferimento all'accesso all'occupazione e al lavoro "compresi i criteri di

selezione e le condizioni di assunzione" (lett. a) e all'accesso a ogni tipo di prestazione sociale

(lett. e) e seguenti), mentre l'unica eccezione alla giurisdizione del giudice ordinario è prevista

in favore della giurisdizione amministrativa esclusiva - in quanto tale estesa alla tutela dei diritti

soggettivi - relativa al personale alle dipendenze della pubblica amministrazione in regime di

diritto pubblico a norma del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 3, comma 1, (comma 7 del cit. art. 3).

Nella specie non risulta alcuna esorbitanza dell'oggetto del giudizio rispetto alle finalità di

repressione delle asserite discriminazioni in ragione della cittadinanza, visto che il giudizio di

merito ha ad oggetto la conferma o meno delle statuizioni adottate nella fase cautelare,

contenenti l'ordine di ammettere anche i lavoratori di cittadinanza extracomunitaria alle

procedure di stabilizzazione, salva la verifica di ogni altro requisito.

5. La proposta eccezione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44 è

qualificabile come manifestamente infondata, in relazione alle già evidenziate ragioni che

spiegano e giustificano l'attribuzione della relativa azione al giudice ordinario. Quanto al

confronto con le tutele in giudizio previste in caso di discriminazioni di genere, premesso che

il testo del D.Lgs. n. 198 del 2006, artt. 36 e segg. che risente delle formulazioni della più

antica L. n. 125 del 1991, essendosi proceduto in sostanza alla redazione di un testo unico a

norma della L. n. 246 del 2005, art. 6, non fornisce elementi univoci a conferma della tesi che i

riferimenti alla competenza del tribunale amministrativo regionale riguardino ipotesi ulteriori

rispetto ai casi di rapporti di pubblico impiego in atto, deve comunque rilevarsi che non

potrebbe costituire un idoneo elemento di comparazione ai fini in esame la disciplina relativa

ad uno specifico elemento di discriminazione, in (ipotesi) disomogenea rispetto ad un coerente

e costituzionalmente giustificato indirizzo adottato in genere dal legislatore con riferimento

alle discriminazioni particolarmente qualificate per essere relative a fattori specificamente presi

in considerazione dalla Costituzione o da altre fonti qualificate riguardo alla protezione dei

diritti della persona.

6. Deve osservarsi infine che appartiene al merito - incidendo sulla configurabilità o meno di

una illegittima discriminazione in ragione della nazionalità - e non rileva ai fini della

giurisdizione, la soluzione della questione relativa alla applicabilità o meno del requisito della

cittadinanza italiana ai fini della partecipazione alle procedure in questione di stabilizzazione di

lavoratori precari, funzionali alla assunzione da parte di soggetto della pubblica

72

amministrazione con contratto di lavoro a tempo indeterminato. 7. Deve in conclusione

dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario, restando assorbita ogni questione circa

l'ammissibilità della richiesta di regolamento fatta dal prefetto.

8. Le spese del giudizio vengono poste a carico della parte ricorrente, che ha contestato la

riconosciuta giurisdizione del giudice ordinario.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; condanna l'Azienda

Ospedaliera San Paolo a rimborsare le spese del giudizio di cassazione ai controricorrenti,

liquidate nella somma complessiva di Euro duecento per esborsi ed Euro tremila per onorari.

Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2011

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 15 febbraio 2011, n. 3670: concessione del

bonus bebè e violazione del divieto di discriminazione

L'azione proposta in relazione alla denunziata natura ritorsiva del provvedimento con cui un Comune - dopo l'istituzione di un c.d.

"bonus bebè" riservato a famiglie con almeno un genitore italiano, ed a seguito di ordine giudiziale di estenzione del beneficio anche

alle famiglie composte da genitori stranieri - aveva, viceversa, deliberato di revocarlo per tutte le famiglie, sia italiane che straniere,

appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, sia nella fase cautelare rivolta all'ottenimento di un provvedimento anticipatorio

urgente, sia nella successiva fase della cognizione piena, così come previsto nell'art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, in considerazione

del quadro normativo costituzionale (art. 3 Cost.), sovranazionale (Direttiva 2000/43/CE) ed interno (art. 3 e 4 del d.lgs. 9

luglio 2003, n. 215 nonché l'art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) di riferimento, che configura il diritto a non essere

discriminati come un diritto soggettivo assoluto; né la giurisdizione può essere negata ai sensi degli artt. 4 e 5 del r.d. n. 2248 del

1865 all. E, in quanto il giudice ordinario è tenuto alla disapplicazione incidentale del provvedimento emesso in violazione del

principio di parità ai fini della tutela dei diritti soggettivi controversi, pur non interferendo nella potestà della P.A..

(pdf)

Corte di cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 6 settembre 2013, n. 20577 : la giurisdizione del

g.o. in merito alla domanda di annullamento dell’atto amministrativo di diniego di autorizzazione ad

effettuare cure specialistiche praticate all’estero

La controversia relativa al diniego dell'autorizzazione ad effettuare cure specialistiche presso centri di altissima specializzazione

73

all'estero appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario giacché la domanda è diretta a tutelare una posizione di diritto

soggettivo - il diritto alla salute - non suscettibile di affievolimento per effetto della discrezionalità meramente tecnica attribuita in

materia alla P.A., senza che rilevi che, in concreto, sia stato chiesto l'annullamento dell'atto amministrativo, il quale implica

solo un limite interno alle attribuzioni del giudice ordinario, giustificato dal divieto di annullamento, revoca o modifica dell'atto

amministrativo ai sensi dell'art. 4, legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, e non osta alla possibilità per il giudice di

interpretare la domanda come comprensiva della richiesta di declaratoria del diritto ad ottenere l'autorizzazione ad effettuare le

cure all'estero.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Sul presupposto che con istanza del 12 marzo 2012 fosse dal Galli domandato "il rimborso

delle cure mediche all'estero" (quarta e quinta riga di pag. 2 del ricorso per regolamento) e che

sia stato dato "parere negativo al rimborso delle cure mediche all'estero" (sesta e settima riga di

pag. 3 del ricorso) la Fondazione ricorrente chiede che sia dichiarata la giurisdizione del

giudice ordinario sulla scorta delle enunciazioni di Cass., sez. un., n. 2867/2009, la quale ha

affermato:

"in materia di rimborso delle spese sanitarie sostenute dai cittadini residenti in Italia presso

centri di altissima specializzazione all'estero, per prestazioni che non siano ottenibili in Italia

tempestivamente o in forma adeguata alla particolarità del caso clinico (...), la giurisdizione

spetta al giudice ordinario, sia nel caso in cui siano addotte situazioni di eccezionale gravità ed

urgenza, prospettate come ostative alla possibilità di preventiva richiesta di autorizzazione, sia

nel caso in cui l'autorizzazione sia stata chiesta e si assuma illegittimamente negata, giacché

viene comunque in considerazione il fondamentale diritto alla salute, non suscettibile di

affievolimento per effetto della discrezionalità meramente tecnica riconosciuta alla P.A. in

ordine all'apprezzamento dei presupposti per l'erogazione delle prestazioni". 2.- Benché nella

specie non sia stato chiesto il rimborso di spese affrontate per cure specialistiche praticate

all'estero pur in mancanza di autorizzazione, ma invece l'annullamento dell'atto amministrativo

di diniego di autorizzazione ad effettuarle, non di meno va dichiarata la giurisdizione del

giudice ordinario, essendo la domanda diretta a tutelare una posizione di diritto soggettivo,

senza che assuma rilievo in contrario il contenuto concreto del provvedimento richiesto, il

quale può implicare soltanto un limite interno alle attribuzioni del giudice ordinario,

giustificato dal divieto di annullamento, revoca o modifica dell'atto amministrativo ai sensi

della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 4, all. E (ex multis, Cass., sez. un., nn. 23284/2010,

4633/2007, 9005/1993). 3.- Resta peraltro salva la possibilità per il giudice ordinario, innanzi

al qual le parti vanno rimesse, di interpretare la domanda nel senso che sia in essa compresa la

richiesta di declaratoria del diritto ad ottenere l'autorizzazione ad effettuare le cure all'estero

sulla base delle valutazioni non discrezionali, ma meramente tecniche, attribuite in materia alla

pubblica amministrazione. Le spese del regolamento possono essere compensate in relazione

alle singolarità del caso.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE, A SEZIONI UNITE, dichiara la giurisdizione del giudice

74

ordinario, innanzi al quale rimette le parti, e compensa le spese del regolamento.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 11 giugno 2013.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2013

4. Casistica: la giurisdizione sui danni cagionati dagli amministratori delle società pubbliche

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 19 dicembre 2009, n. 26806: Società a partecipazione pubblica , azione di responsabilità nei confronti degli amministratori o dei dipendenti e giurisdizione della Corte dei conti

Spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione

pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti (nella specie, consistenti nell'avere accettato indebite

dazioni di denaro al fine di favorire determinate imprese nell'aggiudicazione e nella successiva gestione di appalti), non essendo in tal

caso configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente

pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la

giurisdizione della Corte dei conti. Sussiste invece la giurisdizione di quest'ultima quando l'azione di responsabilità trovi fondamento

nel comportamento di chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia

colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in

comportamenti degli amministratori o dei sindaci tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell'ente

pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l'impiego di risorse pubbliche, o da arrecare direttamente

pregiudizio al suo patrimonio. (Nell'affermare l'anzidetto principio, le S.U hanno altresì precisato che in quest'ultimo caso l'azione

erariale concorre con l'azione civile prevista dagli artt. 2395 e 2476, sesto comma cod. civ).

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi.

Con il primo motivo dei rispettivi ricorsi, sostanzialmente simili, i ricorrenti Craparotta,

Giuffrida e Caressa G., lamentano, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 1, la violazione della L. n. 20

del 1994, art. 1, L. n. 97 del 2001, artt. 3 e 7, del R.D. n. 2440 del 1923, art. 81, e R.D. n. 1234

del 1214, art. 52, per avere la Corte dei conti affermato la sussistenza della responsabilità

amministrativa di essi amministratori di s.p.a. a partecipazione pubblica, mentre tale

responsabilità non era ipotizzabile, segnatamente tenuto conto che l'Enel svolgeva attività di

impresa su mercati liberi e concorrenziali, esercitata con finalità di lucro e senza finalità

pubblicistiche, con conseguente difetto di giurisdizione della Corte dei Conti.

1.2. Con il primo motivo del ricorso incidentale l'Atzori lamenta la violazione delle norme che

disciplinano la giurisdizione della Corte dei Conti (L. n. 20 del 1994, art. 1, L. n. 97 del 2001,

75

artt. 3 e 7, del R.D. n. 2440 del 1923, art. 81 e R.D. n. 1234 del 1214, art. 52), assumendo il

difetto di giurisdizione del giudice contabile nei confronti di esso incaricato di una s.p.a., per

quanto facente parte di un gruppo societario la cui capogruppo, sempre una s.p.a., sia

qualificabile come impresa pubblica.

2. Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi a norma dell'art. 335 c.p.c..

Il problema che si pone è quello relativo alla questione se agli amministratori e dipendenti di

una s.p.a. cosiddetta "in mano pubblica" si applichino le norme di diritto societario o se dalla

presenza di capitali pubblici consegua invece l'assoggettamento di questi soggetti alle norme

proprie della responsabilità amministrativa, con la conseguente giurisdizione della Corte dei

Conti.

Il problema non è quello di definire se, come e quando una s.p.a. "pubblica" risponda, come

persona giuridica per danno erariale ad una P.A., ma si tratta di stabilire sulla base di quale

statuto gli amministratori o i dipendenti di una s,p.a. "pubblica" rispondano dei danni ad essa

direttamente prodotti ed indirettamente riflessi sulla p.a., in quanto titolare della partecipazione

azionaria. La differenza è rilevante, se si considera che nel primo caso la s.p.a. "pubblica" è il

soggetto responsabile del danno che deve risarcire con il proprio patrimonio sociale, nel

secondo caso essa diviene il soggetto danneggiato il cui patrimonio deve essere reintegrato.

Vanno, quindi, fissati alcuni principi generali.

3.1. Com'è noto, il limite esterno della giurisdizione della Corte dei conti, sul quale le sezioni

unite della Corte di cassazione sono chiamate a pronunciarsi, ha rilevanza costituzionale:

discende dal disposto dell'art. 103 Cost., comma 2, a tenore del quale "la Corte dei conti ha

giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge".

Al di fuori delle materie di contabilità pubblica, e quindi anche in tema di responsabilità,

occorre dunque che la giurisdizione della Corte dei conti abbia il suo fondamento in una

specifica disposizione di legge.

In termini generali, il contenuto ed i limiti della giurisdizione della Corte dei conti in tema di

responsabilità trovano la loro base normativa nella previsione del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214,

art. 13, secondo cui la corte giudica sulla responsabilità per danni arrecati all'erario da pubblici

funzionari nell'esercizio delle loro funzioni. Tali limiti sono stati successivamente ampliati della

L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 4, che ha esteso il giudizio della Corte dei conti alla

responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici anche per danni cagionati ad

amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza. La giurisdizione di detta

corte non è quindi circoscritta alla sola ipotesi di responsabilità contrattuale dell'agente, ma

può esplicarsi anche in caso di responsabilità aquiliana.

3.2. In passato i limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti, al pari di quella del

giudice amministrativo, erano però (relativamente) più agevoli da tracciare: la più netta

distinzione tra l'area del pubblico e quella del privato, la normale corrispondenza tra la natura

pubblica dell'attività svolta dall'agente ed il suo organico inserimento nei ranghi della pubblica

amministrazione, la conseguente più agevole demarcazione di confini tra l'agire

dell'amministrazione in forza della potestà pubblica ad essa spettante e per le finalità

tipicamente a questa connesse ed il suo agire invece iure privatorum: erano tutti elementi che

facilitavano anche l'individuazione dei limiti esterni della giurisdizione in esame.

La più recente evoluzione dell'ordinamento ha reso ora questi confini assai meno chiari, da un

lato incanalando sovente le finalità della pubblica amministrazione in ambiti tipicamente

76

privatistici, dall'altro affidando con maggiore frequenza a soggetti privati la realizzazione di

finalità una volta ritenute di pertinenza esclusiva degli organi pubblici.

In quest'ottica anche le sezioni unite della Cassazione, per evitare il rischio di un sostanziale

svuotamento - o almeno di un grave indebolimento - della giurisdizione della corte contabile in

punto di responsabilità, ha teso a privilegiare un approccio più "sostanzialistico", sostituendo

ad un criterio eminentemente soggettivo, che identificava l'elemento fondante della

giurisdizione della Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica dell'agente, un criterio

oggettivo che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie a

tal fine adoperate.

Si è perciò affermato che, quando si discute del riparto della giurisdizione tra Corte dei conti e

giudice ordinario, occorre aver riguardo al rapporto di servizio tra l'agente e la pubblica

amministrazione, ma che per tale può intendersi anche una relazione con la pubblica

amministrazione caratterizzata dal fatto di investire un soggetto, altrimenti estraneo

all'amministrazione medesima, del compito di porre in essere in sua vece un'attività, senza che

rilevi nè la natura giuridica dell'atto di investitura - provvedimento, convenzione o contratto -

ne' quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o pubblica

(Sez. un. 3 luglio 2009, n. 15599; 31 gennaio 2008, n. 2289; 22 febbraio 2007, n. 4112; 20

ottobre 2006, n. 22513; 5 giugno 2000, n. 400; Sez. un., 30 marzo 1990, n. 2611, ed altre

conformi).

L'affidamento da parte di un ente pubblico ad un soggetto esterno, da esso controllato, della

gestione di un servizio pubblico integra quindi una relazione funzionale incentrata

sull'inserimento del soggetto medesimo nell'organizzazione funzionale dell'ente pubblico e ne

implica, conseguentemente, l'assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti per

danno erariale, a prescindere dalla natura privatistica dello stesso soggetto e dello strumento

contrattuale con il quale si sia costituito ed attuato il rapporto (Sez. un. 27 settembre 2006, n.

20886; 1 aprile 2008, n. 8409; 1 marzo 2006, n. 4511; 19 febbraio 2004, 2004, n. 3351), anche

se l'estraneo venga investito solo di fatto dello svolgimento di una data attività in favore della

pubblica amministrazione (Sez. un. 9 settembre 2008, n. 22652) ed anche se difetti una

gestione del danaro secondo moduli contabili di tipo pubblico o secondo procedure di

rendicontazione proprie della giurisdizione contabile in senso stretto (Sez. un. 12 ottobre 2004,

n. 20132). Lo stesso dicasi per l'accertamento della responsabilità erariale conseguente

all'illecito o indebito utilizzo, da parte di una società privata, di finanziamenti pubblici (Sez. un.

5 giugno 2008, n. 14825, e Sez. un., n. 4511/06, cit.); o per la responsabilità in cui può

incorrere il concessionario privato di un pubblico servizio o di un'opera pubblica, quando la

concessione investe il privato dell'esercizio di funzioni obiettivamente pubbliche,

attribuendogli la qualifica di organo indiretto dell'amministrazione, onde egli agisce per le

finalità proprie di quest'ultima (Sez. un., n. 4112/07, cit.). Nella medesima ottica, a partire dal

2003, le sezioni unite di questa l'hanno ritenuto spettare alla Corte dei conti, dopo l'entrata in

vigore della L. n. 20 del 1994, art. 1, u.c., la giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto la

responsabilità di privati funzionar di enti pubblici economici (quali, ad esempio, i consorzi per

la gestione di opere) anche per i danni conseguenti allo svolgimento dell'ordinaria attività

imprenditoriale e non soltanto per quelli cagionati nell'espletamento di funzioni pubbliche o

comunque di poteri pubblicistici (Sez. un., 22 dicembre 2003, n. 19667). Si è sottolineato che si

esercita attività amministrativa non solo quando si svolgono pubbliche funzioni e poteri

77

autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall'ordinamento, si perseguono le finalità

istituzionali proprie dell'amministrazione pubblica mediante un'attività disciplinata in tutto o in

parte dal diritto privato; con la conseguenza - si è precisato - che, nell'attuale assetto

normativo, il dato essenziale che radica la giurisdizione della corte contabile è rappresentato

dall'evento dannoso verificatosi a carico di una pubblica amministrazione e non più dal quadro

di riferimento - pubblico o privato - nel quale si colloca la condotta produttiva del danno (Sez.

un., 25 maggio 2005, n. 10973; 20 giugno 2006, n. 14101; 1 marzo 2006, n. 4511; Cass. 15

febbraio 2007, n. 3367).

3.3. Se quanto appena osservato vale certamente per gli enti pubblici economici, i quali restano

nell'alveo della pubblica amministrazione pur quando eventualmente operino

imprenditorialmente con strumenti privatistici, è da stabilire entro quali limiti alla medesima

conclusione si debba pervenire anche nel diverso caso della responsabilità di amministratori di

società di diritto privato partecipate da un ente pubblico. Le quali non perdono la loro natura

di enti privati per il solo fatto che il loro capitale sia alimentato anche da conferimenti

provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico.

Il codice civile dedica alla società per azioni a partecipazione pubblica solo alcune scarne

disposizioni, oggi contenute nell'art. 2449 (come modificato dalla L. 25 febbraio 2008, n. 34,

art. 13, a seguito della pronuncia della Corte giustizia delle Comunità europee, 6 dicembre

2007, n. 463/04), essendo stato il successivo art. 2450 ormai abrogato dal D.L. 15 febbraio

2007, n. 10, art. 3, comma 1, convertito con modificazioni dalla L. 6 aprile 2007, n. 46. Ma

siffatte residue disposizioni del codice non valgono a configurare uno statuto speciale per dette

società (spesso, viceversa, interessate da norme speciali, non sempre tra loro ben coordinate),

salvo per i profili inerenti alla nomina e revoca degli organi sociali, specificamente ivi

contemplati, ne' comunque investono il tema della responsabilità di detti organi, che resta

quindi disciplinato dalle ordinarie norme previste dal codice civile a questo riguardo, com'è

confermato dalla immutata indicazione del comma 2 del citato art. 2449, a tenore del quale

anche i componenti degli organi amministrativi e di controllo di nomina pubblica "hanno i

diritti e gli obblighi dei membri nominati dall'assemblea". Nè pare dubbio che quest'ultimo

principio valga anche per le società a responsabilità limitata eventualmente partecipate da un

ente pubblico, in difetto di qualsiasi specifica disposizione del codice che se ne occupi. Se ne è

desunto - anche alla luce di quanto espressamente indicato nella relazione ("È lo Stato

medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria

gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici") - che la scelta della

pubblica amministrazione di acquisire partecipazioni in società private implica il suo

assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta. Dall'identità dei diritti e

degli obblighi facenti capo ai componenti degli organi sociali di una società a partecipazione

pubblica, pur quando direttamente designati dal socio pubblico, logicamente perciò discende la

responsabilità di detti organi nei confronti della società, dei soci, dei creditori e dei terzi in

genere, nei medesimi termini - contemplati dagli artt. 2392 c.c. e segg. - in cui tali diverse

possibili proiezioni della responsabilità sono configurabili per gli amministratori e per gli

organi di controllo di qualsivoglia altra società privata. 3.4. È innegabile, nondimeno, che si

possano determinare dei problemi quando il modello giuridico - formale prescelto entra in

tensione con il fenomeno economico sottostante, come non di rado accade proprio nel caso in

cui lo Stato o altro ente pubblico assume una partecipazione in una società per perseguire in

78

tal modo finalità di rilevanza pubblica.

Ne è testimone, in certa misura, la sentenza delle sezioni unite 26 febbraio 2004, n. 3899, che,

dopo aver ribadito il principio per cui una società per azioni costituita con capitale

maggioritario del comune in vista dello svolgimento di un servizio pubblico ha una relazione

funzionale con l'ente territoriale, caratterizzata dall'inserimento della società medesima nell'iter

procedimentale dell'ente locale e dal conseguente rapporto di servizio venutosi così a

determinare, ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti nelle controversie in materia

di responsabilità patrimoniale per danno erariale riguardanti gli amministratori ed i dipendenti

di una siffatta società. La portata di tale affermazione non risulta però del tutto univoca:

perché nella medesima sentenza si ha cura di specificare, per un verso, che l'elemento

determinante della decisione era costituito, in quel caso, dal rapporto di servizio intercorrente

tra la società privata ed il comune (piuttosto che dal rapporto partecipativo e dal conseguente

investimento di risorse finanziarie pubbliche nel patrimonio della società privata) e, per altro

verso, che la questione se il danno subito dal comune partecipante alla società fosse diretto, o

meramente riflesso, rispetto a quello arrecato al patrimonio sociale, costituiva un profilo

estraneo al giudizio sui limiti della giurisdizione. Proprio quest'ultimo profilo sembra invece

meritare un ulteriore approfondimento, potendo assumere carattere decisivo ai fini che qui

interesano.

3.5. In primo luogo, non sembra si possa prescindere dalla distinzione tra la posizione della

società partecipata, cui eventualmente fa capo il rapporto di servizio instaurato con la pubblica

amministrazione, e quella personale degli amministratori (nonché dei sindaci o degli organi di

controllo della stessa società): i quali, ovviamente, non s'identificano con la società, sicché

nulla consente di riferire loro, sic et simpliciter, il rapporto di servizio di cui la società

medesima sia parte. Quanto appena osservato non vale però a chiudere ogni possibile spazio

alla giurisdizione della Corte dei conti in ordine ad eventuali comportamenti illegittimi

imputabili agli organi delle società a partecipazione pubblica, dai quali sia scaturito un danno

per il socio pubblico.

S'è già prima accennato vuoi alla possibilità che tale giurisdizione sia riferita anche ad ipotesi di

responsabilità aquiliana, vuoi alla possibilità che essa si configuri pure in difetto di una formale

investitura pubblica dell'agente. Entra allora in gioco un ulteriore importante elemento

normativo, cui finora non si è fatto riferimento ma che occorre adesso prendere in

considerazione. Si allude alla disposizione della L. 28 febbraio 2008, n. 31, art. 16 bis, (che ha

convertito il D.L. 31 dicembre 2007, n. 248), così concepita: "Per le società con azioni quotate

in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre

amministrazioni o di enti pubblici, inferiore al 50 per cento, nonché per le loro controllate, la

responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è regolata dalle norme del diritto civile e le

relative controversie sono devolute esclusivamente alla giurisdizione del giudice ordinario".

Tale norma, benché la sua applicazione ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della

legge di conversione sia espressamente esclusa, assume un evidente significato retrospettivo,

nella misura in cui lascia chiaramente intendere che, in ordine alla responsabilità di

amministratori e dipendenti di società a partecipazione pubblica, vi sia una naturale area di

competenza giurisdizionale diversa da quella ordinaria.

Non si capirebbe, altrimenti, la ragione per la quale il legislatore ha inteso stabilire che, per

l'avvenire (e limitatamente alle società quotate, o loro controllate, con partecipazione pubblica

79

inferiore al 50%), la giurisdizione spetta invece in via esclusiva proprio al giudice ordinario.

Resta però da verificare entro quali limiti, al di fuori del ristretto campo d'applicazione della

disposizione da ultimo richiamata, sia davvero configurabile la giurisdizione del giudice

contabile che il legislatore ha in tal modo presupposto in rapporto ad atti di mala gestio degli

organi di società a partecipazione pubblica.

In difetto di norme esplicite in tal senso (e fatta salva la specificità di singole società a

partecipazione pubblica il cui statuto sia soggetto a regole legali sui generis, come nel caso

della Rai), è ai principi generali ed alle linee portanti del sistema che occorre aver riguardo. Ed

è proprio in quest'ottica che assume rilievo decisivo la già accennata distinzione tra la

responsabilità in cui gli organi sociali possono incorrere nei confronti della società (prevista e

disciplinata, per le società azionarie, dagli artt. 2393 e segg. e, per le società a responsabilità

limitata, dell'art. 2476 c.c., commi 1, 3, 4 e 5) e la responsabilità che essi possono assumere

direttamente nei confronti di singoli soci o terzi (prevista e disciplinata, per le società azionarie,

dall'art. 2395 c.c., per le società a responsabilità limitata, del cit. art. 2476 c.c., comma 6).

3.6. In tale ultimo caso la configurabilità dell'azione del procuratore contabile, tesa a far valere

la responsabilità dell'amministratore o del componente di organi di controllo della società

partecipata dall'ente pubblico quando questo sia stato direttamente danneggiato dall'azione

illegittima, non incontra particolari ostacoli (nè si pongono difficoltà derivanti dalla possibile

concorrenza di siffatta azione con quella ipotizzata in sede civile dai citati art. 2395 c.c. e art.

2476 c.c., comma 6, poiché l'una e l'altra mirerebbero in definitiva al medesimo risultato). Non

importa qui indagare sulla natura dell'indicata responsabilità: se essa abbia carattere

extracontrattuale (come la giurisprudenza è per lo più incline a ritenere: si vedano, tra le altre,

Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; 25 luglio 2007, n. 16416; e 3 aprile 2007, n. 8359) o se pur

sempre presupponga la violazione di un preesistente obbligo di corretto comportamento

dell'amministratore e del componente dell'organo di controllo anche nei diretti confronti di

ciascun singolo socio (onde alcune autorevoli voci di dottrina ravvisano anche in tal caso

un'ipotesi di responsabilità almeno lato sensu contrattuale).

Quel che appare certo è che la presenza dell'ente pubblico all'interno della compagine sociale

ed il fatto che la sua partecipazione sia strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed

abbia implicato l'impiego di pubbliche risorse non può sfuggire agli organi della società e non

può non comportare, per loro, una peculiare cura nell'evitare comportamenti tali da

compromettere la ragione stessa di detta partecipazione sociale dell'ente pubblico o che

possano comunque direttamente cagionare un pregiudizio al patrimonio di quest'ultimo.

Tipico esempio di questa situazione è il danno all'immagine dell'ente pubblico (su cui si veda

Sez. un. 20 giugno 2007, n. 14297) che derivi da atti illegittimi posti in essere dagli organi della

società partecipata: danno che può eventualmente prodursi immediatamente in capo a detto

ente pubblico, per il fatto stesso di essere partecipe di una società in cui quei comportamenti

illegittimi si siano manifestati, e che non s'identifica con il mero riflesso di un pregiudizio

arrecato al patrimonio sociale (indipendentemente dall'essere o meno configurabile e risarcibile

anche un autonomo e distinto danno all'immagine della medesima società).

Nessun dubbio, quindi, sulla sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti in un'ipotesi

siffatta; e se ne trae conferma anche dal disposto del L. 3 agosto 2009, n. 102, art. 17, comma

30 - ter, (quale risulta dopo le modifiche apportate dal D.L. in pari data, n. 103, convertito con

ulteriori modificazioni nella L. 3 ottobre 2009, n. 141), che disciplina e limita le modalità

80

dell'azione della magistratura contabile appunto in caso di danno all'immagine, nelle ipotesi

previste dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 7, ossia in presenza di una sentenza irrevocabile di

condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nel precedente art. 3 della stessa

legge, compresi quelli evidenti a prevalente partecipazione pubblica". Non si vede come la

medesima regola stabilita per i dipendenti non debba valere anche per gli amministratori e gli

organi di controllo della società a partecipazione pubblica. 3.7. Ad opposta conclusione si deve

invece pervenire nel caso in cui l'azione sia proposta per reagire ad un danno cagionato al

patrimonio della società.

Non solo, come detto, non è configurabile alcun rapporto di servizio tra l'ente pubblico

partecipante e l'amministratore (o componente di un organo di controllo) della società

partecipata, il cui patrimonio sia stato leso dall'atto di mala gestio, ma neppure sussiste in tale

ipotesi un danno qualificabile come danno erariale, inteso come pregiudizio direttamente

arrecato al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico che della suindicata società sia socio.

La ben nota distinzione tra la personalità giuridica della società di capitali e quella dei singoli

soci e la piena autonomia patrimoniale dell'una rispetto agli altri non consentono di riferire al

patrimonio del socio pubblico il danno che l'illegittimo comportamento degli organi sociali

abbia eventualmente arrecato al patrimonio dell'ente:

patrimonio che è e resta privato.

È certo vero che il danno sofferto dal patrimonio della società è per lo più destinato a

ripercuotersi anche sui soci, incidendo negativamente sul valore o sulla redditività della loro

quota di partecipazione; ma - fatte salve le limitate eccezioni oggi introdotte dall'art. 2497 c.c.

(come modificato dal D.Lgs. n. 6 del 2003), in tema di responsabilità dell'ente posto a capo di

un gruppo di imprese societarie, che qui non rilevano - il sistema del diritto societario impone

di tener ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio (o del terzo) da quelli

che siano il mero riflesso di danni sofferti dalla società.

Dei danni diretti, cioè di quelli prodotti immediatamente nella sfera giuridico - patrimoniale del

socio e che non consistano nella semplice ripercussione di un danno inferto alla società, solo il

socio stesso è legittimato a dolersi; di quelli sociali, invece, solo alla società compete il

risarcimento, di modo che per il socio anche il ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella

medesima maniera indiretta in cui si è prodotto il suo pregiudizio (principio pacifico: si

vedano, ex multis, Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; 3 aprile 2007, n. 8359; 27 giugno 1998, n.

6364; e 28 febbraio 1998, n. 2251).

Si capisce, allora, come il danno inferto dagli organi della società al patrimonio sociale, che nel

sistema del codice civile può dar vita all'azione sociale di responsabilità ed eventualmente a

quella dei creditori sociali, non è idoneo a configurare anche un'ipotesi di azione ricadente

nella giurisdizione della Corte dei conti:

perché non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto

privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e

non certo ai singoli soci - pubblici o privati - i quali sono unicamente titolari delle rispettive

quote di partecipazione ed i cui originar conferimenti restano confusi ed assorbiti nell'unico

patrimonio sociale.

L'esattezza di tale conclusione trova conferma anche nell'impossibilità di realizzare, altrimenti,

un soddisfacente coordinamento sistematico tra l'ipotizzata azione di responsabilità dinanzi

giudice contabile e l'esercizio delle surriferite azioni di responsabilità (sociale e dei creditori

81

sociali) contemplate dal codice civile. L'azione del procuratore contabile ha presupposti e

caratteristiche completamente diverse dalle azioni di responsabilità sociale e dei creditori

sociali contemplate dal codice civile: basta dire che l'una è obbligatoria, le altre discrezionali;

l'una ha finalità essenzialmente sanzionatoria (onde non implica necessariamente il ristoro

completo del pregiudizio subito dal patrimonio danneggiato dalla mala gestio

dell'amministratore o dall'omesso controllo del vigilante), le altre hanno scopo ripristinatorio;

l'una richiede il dolo o la colpa grave, e solo in determinati casi è esercitabile anche contro gli

eredi del soggetto responsabile del danno; per le altre è sufficiente anche la colpa lieve ed il

debito risarcitorio è pienamente trasmissibile agli eredi.

D'altronde, almeno in tutti i casi nei quali vi siano anche soci privati la cui partecipazione è

suscettibile di subire danno per effetto del comportamento illegittimo degli organi sociali,

sarebbe impossibile escludere l'esperibilità degli ordinari strumenti di tutela approntati dal

codice civile a beneficio della società (e dei soci privati, nonché eventualmente dei creditori). E

però, se si ipotizzasse il possibile concorso tra l'azione del procuratore contabile e l'azione

sociale di responsabilità contemplata dal codice civile, occorrerebbe poter individuare il modo

di disciplinare tale concorso, stante la descritta diversità delle rispettive caratteristiche delle

differenti azioni. L'assenza del benché minino abbozzo di coordinamento normativo in

proposito suona palese conferma della non configurabilità, in simili situazioni, di un'azione

diversa da quelle previste dal codice civile, che sia destinata a ricadere nella giurisdizione del

giudice contabile. 3.7. Giova ancora aggiungere che l'esclusione dell'ipotizzata giurisdizione del

giudice contabile per l'azione di risarcimento di danni cagionati al patrimonio della società

partecipata da un ente pubblico neppure provoca, a ben vedere, il rischio di una lacuna nella

tutela dell'interresse pubblico coinvolto nella descritta situazione.

Nell'attuale disciplina della società azionaria - ed in misura ancor maggiore in quella della

società a responsabilità limitata - l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità, in caso di mala

gestio imputabile agli organi della società, non è più monopolio dell'assemblea e non è più,

quindi, unicamente rimessa alla discrezionalità della maggioranza dei soci. Una minoranza

qualificata dei partecipanti alla società azionaria (art. 2393 - bis c.c.) ed addirittura ciascun

singolo socio della società a responsabilità limitata (art. 2476 c.c., comma 3) sono infatti

legittimati ad esercitare tale azione (anche nel proprio interesse, ma a beneficio della società)

eventualmente sopperendo all'inerzia della maggioranza.

Ne consegue che, trattandosi di società a partecipazione pubblica, il socio pubblico è di regola

in grado di tutelare egli stesso i propri interessi sociali mediante l'esercizio delle suindicate

azioni civili. Se ciò non faccia e se, in conseguenza di tale omissione, l'ente pubblico abbia a

subire un pregiudizio derivante dalla perdita di valore della partecipazione, è sicuramente

prospettabile l'azione del procuratore contabile nei confronti (non già dell'amministratore della

società partecipata, per il danno arrecato al patrimonio sociale, bensì nei confronti) di chi,

quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per

esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio ed abbia perciò

pregiudicato il valore della partecipazione. Ed è ovvio che, con riguardo ad un'azione siffatta,

vi sia piena competenza giurisdizionale della Corte dei conti.

4.1. Sulla base dei suddetti principi la questione della giurisdizione ha semplice soluzione.

La Corte dei conti ha pronunziato sentenza nei confronti degli attuali ricorrenti Craparotta,

Giuffrida, e Caressa G. per danni diretti al patrimonio delle Società, conseguenti

82

all'aggiudicazione delle gare d'appalto, a condizioni meno vantaggiose per l'impresa appaltante

ovvero al recupero da parte dell'impresa aggiudicataria della dazione illecita nel corso

dell'esecuzione del contratto ovvero mediante la c.d. retrocessione dei corrispettivi contrattuali

convenuti, nonché per il danno patrimoniale da disservizio costituito dalle spese sostenute

dalle società (Enelpower o Enel produzione) per ripristinare l'efficienza lesa.

Quanto all'Atzori, questi egualmente è stato condannato al risarcimento di danni subiti

direttamente dal patrimonio della società Enelpower in relazione a consulenze, ad aoutsorcing

e ad un contratto dell'Enelpower con la società croata Centro Promed Doo. Tutti e quattro i

ricorrenti sono stati poi condannati al pagamento del danno all'immagine subito Enel s.p.a.,

Enel Produzione S.p.a. ed Enelpower s.p.a..

Si tratta, all'evidenza, di tutti danni direttamente subiti dalla società.

4.2. Ne consegue che per le domande relative a tali danni va esclusa la giurisdizione della corte

dei conti, dovendosi affermare la giurisdizione del giudice ordinario.

La giurisdizione della Corte dei conti era configurabile nei confronti di chi, all'interno dell'ente

pubblico partecipante, avesse omesso di adottare, essendo chiamato a farlo, un

comportamento volto all'esercizio da parte del socio - pubblica amministrazione- dell'azione

sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori, con conseguente danno della

società partecipata e, dunque, dell'ente pubblico partecipante.

5.1. Invece va affermata la giurisdizione delle Corte dei conti solo relativamente alla condanna

di risarcimento del danno all'immagine subita dal Ministero dell'Economia e delle Finanze.

Rientra nella giurisdizione della Corte dei conti l'azione di responsabilità per il danno arrecato

all'immagine dell'ente da organi della società partecipata. Infatti, tale danno, anche se non

comporta apparentemente una diminuzione patrimoniale alla pubblica amministrazione, è

suscettibile di una valutazione economica finalizzata al ripristino del bene giuridico leso (Cass.

civ., Sez. Unite, 02/04/2007, n. 8098).

5.2. Non può essere accolta la tesi sostenuta dai ricorrenti Giuffrida e Caressa G., secondo cui,

in applicazione del D.L. n 103 del 2009, art. 1, contenente modificazioni al D.L. n. 78 del

2009, va dichiarato il difetto di giurisdizione per ogni tipo di danno all'immagine, in quanto

tale danno potrebbe essere liquidato solo nei casi e nei modi di cui alla L. n. 97 del 2001, art. 7,

e cioè in presenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna per delitto contro la p.a.,

che nella fattispecie mancherebbe. Infatti, a parte altri rilievi, come rilevano gli stessi ricorrenti

la norma nella sua formulazione letteraria fa salvi gli atti posti in essere dalla procura della

Corte dei Conti nel caso in cui, alla data di entrata in vigore del decreto legge convertito, fosse

già intervenuta una sentenza nell'ambito del giudizio sottoposto alla cognizione del giudice

contabile.

6. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente Craparotta lamenta la violazione dell'art. 360

c.p.c., della L. n. 20 del 1994, art. 1, L. n. 97 del 2001, artt. 3 e 7, R.D. n. 2440 del 1923, art. 81

e del R.D. n. 1234 del 1214, art. 52.

Assume il ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che egli fosse stato

dipendente anche di Enelpower, avendo svolto solo funzioni per Enel produzione. 7.11

motivo è inammissibile.

Anche dopo l'inserimento della garanzia del giusto processo nella formulazione dell'art. 111

Cost., il sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni della Corte dei

conti in sede giurisdizionale continua ad essere circoscritto al controllo dell'eventuale

83

violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice contabile, ovvero all'esistenza dei vizi

che attengono all'essenza della funzione giurisdizionale e non si estende al modo del suo

esercizio. (Cass. Sez. Unite, 16/02/2007, n. 3615). Nella fattispecie il ricorrente prospetta

profili che attengono al merito del giudizio promosso davanti alla Corte dei Conti, negando il

rapporto di servizio intrattenuto con Enelpower e la sua partecipazione agli illeciti in danno di

società del gruppo Enel, nonché il nesso causale tra la sua condotta ed i plurimi eventi

dannosi. I vizi lamentati attengono, quindi, a pretesi errores in iudicando della Corte dei Conti,

per cui la loro prospettazione è inammissibile in questa sede.

8. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente incidentale Atzori lamenta la carenza di

giurisdizione della Corte dei conti per violazione delle disposizioni che disciplinano l'ambito

della giurisdizione contabile nei confronti di collaboratori esterni consulenti di s.p.a. aventi

natura pubblicistica (L. n. 20 del 1994, art. 1; L. n. 97 del 2001, artt. 3 e 7, R.D. n. 2440 del

1923, art. 81; R.D. n. 1214 del 1934, art. 52).

Assume il ricorrente che all'epoca dei fatti oggetto di causa egli non era dipendente di EPW,

ma era legato ad essa solo da un contratto di collaborazione e poi di consulenza, donde il

difetto di giurisdizione della Corte dei conti nei suoi confronti. 9.1.11 motivo è infondato.

In tema di responsabilità per danno erariale, l'esistenza di un rapporto di servizio, quale

presupposto per un addebito di responsabilità al detto titolo, non è limitata al rapporto

organico o al rapporto di impiego pubblico, ma è configurabile anche quando il soggetto,

benché estraneo alla Pubblica Amministrazione, venga investito, anche di fatto, dello

svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività in favore della Pubblica

Amministrazione, con inserimento nell'organizzazione della medesima, e con particolari

vincoli ed obblighi diretti ad assicurare la rispondenza dell'attività stessa alle esigenze generali

cui è preordinata. (Cass. Sez. Unite, 12/03/2004, n. 5163; Cass. S.U. n. 19661/2003).

9.2. Nella fattispecie la sentenza impugnata ha ravvisato tale inserimento dell'Atzori

nell'organizzazione della s.p.a. Enelpower, con l'assunzione di vincoli ed obblighi funzionali,

poiché questi agiva nell'espletamento dell'attività consulenziale per conto di Enelpower, sulla

base di lettera di incarico e di due disposizioni interne.

Ne consegue che le censure mosse dal ricorrente sul punto attengono a vizi in iudicando che

non possono trovare ingresso in questa sede, poiché rientrano nei limiti interni della

giurisdizione, estranei al sindacato di questa Corte di cassazione(Cass. civ. (Ord.), Sez. Unite,

16/12/2008, n. 29348).

10. In definitiva va accolto, nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso, per

cui va dichiarato il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti in merito alla domanda

proposta dalla Procura della Corte dei Conti limitatamente ai soli danni attinenti alle società,

con esclusione della domanda attinente al risarcimento del danno all'immagine subita dal

Ministero dell'Economia e delle Finanze.

Vanno rigettati i restanti motivi dei ricorsi del \Craparotta\ e dell'\Atzori\. Va cassata senza

rinvio, in relazione al motivo accolto, l'impugnata sentenza.

Esistono giusti motivi per compensare per intero tra le parti, le spese del giudizio di

cassazione.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi. Accoglie, nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ciascun

84

ricorso. Dichiara il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti limitatamente ai soli danni

attinenti al patrimonio delle società. Rigetta i restanti motivi dei ricorsi del Craparotta e

dell'Atzori. Cassa senza rinvio, in relazione al motivo accolto, l'impugnata sentenza.

Compensa per intero tra le parti, le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2009

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 3 maggio 2013, n. 10299: giurisdizione del

giudice ordinario in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione

pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti.

Spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a

partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti (nella specie, consistenti

nell'avere accettato indebite dazioni di denaro al fine di favorire determinate imprese nell'aggiudicazione e nella successiva

gestione di appalti), non essendo in tal caso configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società,

né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato

allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti. Sussiste invece la giurisdizione

di quest'ultima quando l'azione di responsabilità trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante

dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i

propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in comportamenti degli

amministratori o dei sindaci tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell'ente pubblico,

strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l'impiego di risorse pubbliche, o da arrecare direttamente

pregiudizio al suo patrimonio.

Considerato in diritto

1.- I ricorsi vanno riuniti.

2.- A sostegno della carenza di giurisdizione della Corte dei conti e della sussistenza di quella del giudice

ordinario i ricorrenti invocano le disposizioni normative di cui agli artt. 102 e 103 Cost., 2393 e 2393 bis

cod. civ., 53 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214 e 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, nonché il principio

enunciato da Cass., sez. un., 19 dicembre 2009, n. 26906 (e dalla successiva conforme giurisprudenza)

nel senso che 'spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni

subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei

85

dipendenti (nella specie, consistenti nell'avere accettato indebite dazioni di denaro al fine di favorire

determinate imprese nell'aggiudicazione e nella successiva gestione di appalti), non essendo in tal caso

configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio

tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o

ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti. Sussiste invece la

giurisdizione di quest'ultima quando l'azione di responsabilità trovi fondamento nel comportamento di

chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso,

abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore

della partecipazione, ovvero in comportamenti degli amministratori o dei sindaci tali da compromettere

la ragione stessa della partecipazione sociale dell'ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità

pubbliche ed implicante l'impiego di risorse pubbliche, o da arrecare direttamente pregiudizio al suo

patrimonio'.

3.- Il principio è stato reiteratamente ribadito (da Cass., sez. un., nn. 519/2010, 4309/2010,

10063/2011, 14655/2011, 14957/2011, 20941/2011, 3692/2012) dando luogo ad un consolidato

orientamento del quale la Procura contabile sollecita la revisione.

Rappresenta come condizionamenti di carattere politico finiscano col rendere altamente improbabili

iniziative degli organi societari davanti al giudice ordinario, dando luogo ad un sostanziale esonero da

responsabilità di soggetti che pure arrecano danno a società sostanzialmente pubbliche, in quanto

totalmente partecipate dai Comuni, di cui costituiscono longa manus per l'attuazione delle relative

decisioni strategiche ed operative.

Richiama tra l'altro:

- i riferimenti alle società in house da parte dell'art. 25, comma 1, nn. 5 e 6, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1

(convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27), il cui art. 1 prevede la

responsabilità amministrativa in caso di stipulazione, da parte di talune società a totale partecipazione

pubblica, di contratti conclusi in violazione delle previste modalità di approvvigionamento;

- l'art. 4, comma 12, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 7 agosto

2012, n. 135, recante: 'Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica...'), laddove stabilisce

che 'le amministrazioni vigilanti verificano sul rispetto dei vincoli di cui ai commi precedenti; in caso di

violazione dei suddetti vincoli gli amministratori esecutivi e i dirigenti responsabili della società

rispondono, a titolo di danno erariale, per le retribuzioni ed i compensi erogati in virtù dei contratti

stipulati';

- l'art. 6, commi 3 e 4, del citato d.l. n. 95/2012, che estende alle società a totale partecipazione pubblica

il potere ispettivo attribuito agli organi statali nei confronti delle amministrazioni pubbliche (comma 3)

e prevede che comuni e province alleghino al rendiconto della gestione una nota informativa

contenente la verifica dei crediti e dei debiti reciproci tra ente e società partecipate e, in caso di

discordanze, adottino senza indugio i provvedimenti necessari ai fini della riconciliazione delle partite

debitorie e creditorie (quarto comma);

86

- l'art. 3 del d.l. 10 ottobre 2012, n. 174 (convertito in legge dalla L. 7 dicembre 201, n. 213, che ha

inserito l'art. 147 ter nel testo unico degli enti locali, prevedendo penetranti controlli da parte dell'ente

pubblico partecipante ed un bilancio consolidato riguardante le 'aziende non quotate partecipate'.

Tutto ciò - conclude in memoria la Procura contabile - dovrebbe indurre a ritenere 'irragionevole che

siano sottoposti alla giurisdizione contabile gli amministratori di un'azienda speciale, quelli di una

società concessionaria, la giunta comunale ed i consiglieri comunali che approvano il conto consolidato

e controllano la società partecipata e non anche coloro che l'hanno gestita causando direttamente un

danno erariale'.

4.- Il ricorso, nella misura in cui invoca l'applicazione al caso di specie dei principi già enunciati dalla

giurisprudenza di questa corte nelle citate decisioni delle Sezioni unite nn. 26806/2009, 519/2010,

4609/2010, 10063/2011, 14655/2011, 14957/2011, 20941/2011 e 3692/2012 (cui adde, da ultimo,

l'ordinanza n. 8352/2013), appare fondato.

Infatti, alla luce di quei principi, che non occorre qui ripetere essendo stati già dianzi richiamati, non è

dato ravvisare la giurisdizione della Corte dei conti in controversie che abbiano ad oggetto la

responsabilità per mala gestio imputabile ad amministratori di società a partecipazione pubblica, ove il

danno di cui si pretende il ristoro sia riferito al patrimonio sociale, cioè ad un patrimonio che, non

potendosi quello della società confondere con quello dei soci, appartiene alla società medesima, la quale

non diviene essa stessa un ente pubblico sol per il fatto di essere partecipata da un ente pubblico.

La sollecitazione rivolta dalla Procura contabile a questa corte affinché riveda il proprio suaccennato

orientamento, quando la società di cui si tratta abbia le caratteristiche della c.d. società in house

providing, non può trovare riscontro in questa sede, per l'assorbente ragione che lo statuto della AMT-

Azienda Municipalizzata Trasporti s.p.a., allegato agli atti di causa, non evidenzia caratteristiche di tal

genere. È vero infatti che, secondo un orientamento da tempo affermatosi (benché a fini diversi da

quelli della disciplina del riparto tra giurisdizioni) nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea,

e talora richiamato anche dalla Corte costituzionale (si veda, in particolare, da ultimo, la sentenza n. 46

del 2013), le società in house costituirebbero null'altro che una longa manus dell'amministrazione; ma

ciò in quanto vi si ravvisi la contemporanea presenza di tre condizioni: a) l'essere la società a totale

partecipazione pubblica, b) la sua destinazione statutaria ad operare in via esclusiva o prevalente in

favore dell'amministrazione pubblica partecipante, c) l'esistenza di quello che si è ormai soliti definire

come 'controllo analogo', ossia una forma di direzione e controllo sulla gestione societaria, da parte

della pubblica amministrazione partecipante, analoga a quella che la medesima amministrazione

eserciterebbe su una propria articolazione interna.

Nel caso in esame lo statuto della società prevede che la partecipazione del Comune di Verona al

capitale sociale non possa essere inferiore al 51%, ma non che debba essere totalitaria. L'oggetto sociale,

pur facendo riferimento a 'servizi pubblici', non implica che l'impresa possa operare solo nei confronti

della pubblica amministrazione partecipante (comprendendo invece, ad esempio, anche l'attività di

trasporto turistico privato). I poteri di gestione dell'impresa, al pari di quelli di vigilanza sulla medesima

gestione e sulla contabilità, sono attribuiti ai competenti organi sociali secondo criteri del tutto

corrispondenti a quelli di regola previsti nelle normali società azionarie di diritto privato, con la sola

87

previsione, quanto ai budgets, ai prezzi ed alle tariffe, di un generico riferimento ad un documento di

indirizzo approvato dal Consiglio comunale di Verona; riferimento che evidentemente non vale ad

integrare gli estremi del 'controllo analogo' cui sopra si è fatto cenno.

Per il resto le argomentazioni svolte nelle difese della Procura contabile non offrono elementi decisivi,

tali da indurre a modificare l'indirizzo giurisprudenziale già menzionato, alla stregua del quale, peraltro,

non v'è ragione per dubitare della giurisdizione del giudice contabile in ordine all'azione proposta nei

confronti del sindaco e dell'assessore comunale, restando evidentemente poi rimessa a quel medesimo

giudice, in sede di merito, ogni valutazione circa la possibilità d'individuare nel caso di specie un danno

imputabile ad azioni o omissioni di quei soggetti e riferibile (non già al patrimonio della società

partecipata, bensì) direttamente all'ente pubblico comunale.

5. In conclusione, pertanto, va dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice contabile nei confronti

dei convenuti diversi dal sindaco e dall'assessore sopra menzionati.

Sussistono giusti motivi per compensare tra tutte le parti le spese del regolamento.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, pronunciando sui ricorsi riuniti, dichiara il difetto di

giurisdizione della Corte dei conti nei confronti dei convenuti diversi da S.M.M. e D.G.L. ;

compensa le spese del regolamento.

Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 25 novembre 2013, n. 26283 : giurisdizione della

Corte dei Conti sull’azione di responsabilità esercitata dalla Procura della Repubblica presso detta corte

quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da essi cagionati

al patrimonio di una società in house.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Le sezioni unite sono nuovamente chiamate a stabilire se sussista, ed eventualmente entro

quali limiti, la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti di soggetti che abbiano svolto

funzioni amministrative o di controllo in società di capitali (nella specie una società per azioni)

costituite e partecipate da enti pubblici, quando a quei soggetti vengano imputati atti contrari

ai loro doveri d'ufficio con conseguenti danni per la società.

Su tale questione, come più diffusamente si dirà tra un momento, questa corte è già intervenuta negli

ultimi anni con molteplici pronunce. Conviene dire subito, però, che la fattispecie ora in esame presenta

88

una connotazione particolare, cui solo di sfuggita v'era stata occasione di far cenno in alcune precedenti

occasioni: cioè che la società asseritamente danneggiata dai propri gestori ed organi di controllo

presenta le caratteristiche di una cosiddetta società in house.

Cosa con tale espressione debba intendersi e perchè ciò rilevi ai fini della giurisdizione lo si chiarirà

meglio in seguito. Qui giova sottolineare che la qualifica della ETM come società in house del Comune

di Civitavecchia discende da un accertamento in fatto compiuto dal giudice di primo grado, il quale ne

ha dato dettagliatamente atto nella propria sentenza (si vedano, in particolare, le pagg. 9 e 10), nella

quale è infatti puntualizzato: che l'anzidetta società è stata costituita dall'ente pubblico comunale, il

quale ne è l'unico socio e le cui azioni non possono essere neppure parzialmente alienate a terzi; che

essa ha per oggetto l'esercizio del servizio di trasporto pubblico locale e di altri servizi inerenti alla

mobilità urbana ed extraurbana (quali il servizio degli ausiliari della sosta e quello dei parcheggi); che la

parte più importante dell'attività sociale è svolta in favore del comune partecipante; e che sulla

medesima società detto comune esercita un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.

A tali accertamenti non risulta siano state mosse contestazioni specifiche negli atti di gravame proposti

dagli interessati contro la sentenza di primo grado, nè il giudice d'appello li ha rimessi in discussione, in

punto di fatto, sicchè (pur non risultando possibile in questa sede l'esame diretto dello statuto della

società ETM, non prodotto agli atti del giudizio di cassazione) si può tenere senz'altro per fermo che la

società di cui si discute presenta le caratteristiche sopra riferite.

2. Si è già ricordato all'inizio come sul tema della giurisdizione contabile in materia di responsabilità di

gestori ed organi di controllo delle società partecipate da enti pubblici le sezioni unite di questa corte si

siano già ripetutamente espresse, sin da quando ha cominciato ad avere grande diffusione il fenomeno

dell'uso dello strumento societario privato da parte delle pubbliche amministrazioni anche per la

realizzazione di finalità tipicamente pubblicistiche, e poi con crescente frequenza negli ultimi anni.

Sarebbe inutile ripercorrere qui le diverse tappe di questo iter giurisprudenziale, al quale ovviamente

anche la dottrina ha dato il suo apporto critico, pur manifestando posizioni talora alquanto divaricate.

Converrà solo richiamare brevemente i punti salienti dell'orientamento da ultimo consolidatosi,

diffusamente esposti nella sentenza n. 26806 del 2009 (alla quale anche la giurisprudenza successiva si è

allineata quasi senza eccezioni: si vedano, ad esempio, Sez. un. 10299/13, 7374/13, 20940/11,

20941/11, 14957/11, 14655/11, 16286/10, 8429/10, e 519/10).

2.1. Premesso che l'art. 103 Cost., comma 2, impone, al di fuori delle materie di contabilità pubblica, di

trovare il fondamento della giurisdizione della Corte dei conti in una specifica disposizione di legge

(rinvenibile all'origine nella previsione del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, art. 13, secondo cui la Corte dei

conti giudica sulla responsabilità per danni arrecati all'erario da pubblici funzionari nell'esercizio delle

loro funzioni, con il successivo ampliamento dovuto alla L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 4, che

ha esteso il giudizio della stessa Corte dei conti alla responsabilità di amministratori e dipendenti

pubblici anche per danni cagionati ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza),

la richiamata pronuncia delle sezioni unite muove da un duplice rilievo: anzitutto che nell'attuale assetto

normativo il perseguimento delle finalità istituzionali proprie della pubblica amministrazione si realizza

anche mediante attività disciplinate in tutto o in parte dal diritto privato, onde il dato essenziale che

radica la giurisdizione della corte contabile è rappresentato dall'evento dannoso verificatosi a carico

della stessa pubblica amministrazione e non più dal quadro di riferimento - pubblico o privato - nel

89

quale si colloca la condotta produttiva del danno; in secondo luogo, che le società di capitali

eventualmente costituite o comunque partecipate da enti pubblici per il perseguimento delle finalità loro

proprie non cessano sol per questo di essere delle società di diritto privato, la cui disciplina, se non

diversamente disposto, riposa tuttora sulle norme dettate dal codice civile, come confermato anche dal

dettato dell'art. 2449 dello stesso codice (nella cui relazione accompagnatoria è detto infatti

espressamente che 'è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per

assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici').

In ossequio ad un principio comune a tutti gli enti dotati di personalità giuridica, la società si configura

come un soggetto di diritto pienamente autonomo e distinto, sia rispetto a coloro che, di volta in volta,

ne impersonano gli organi sia rispetto ai soci, ed è titolare di un proprio patrimonio, riferibile ad essa

sola e non a chi ne detenga le azioni o le quote di partecipazione. Pertanto, non solo risulta impossibile

imputare personalmente agli amministratori o ad altri soggetti investiti di cariche sociali la titolarità del

rapporto di servizio intercorrente tra l'ente pubblico e la società cui sia stato affidato l'espletamento di

compiti riguardanti un pubblico servizio, ma soprattutto non può dirsi arrecato alla pubblica

amministrazione il danno che gli atti di mala gestio, posti in essere dagli organi sociali, abbiano inferto

al patrimonio della società.

La responsabilità nei confronti della società, dei soci, dei creditori e dei terzi in genere che grava sugli

organi sociali, assoggettati alle medesime norme sia quando designati dai soci secondo le regole generali

dettate in proposito dal codice sia quando eventualmente designati dal socio pubblico in forza dei

particolari poteri a lui spettanti (art. 2449 cit., comma 2), opera quindi sempre nei termini stabiliti

dall'art. 2392 c.c. e segg., non diversamente che in qualsivoglia altra società privata.

Di conseguenza il danno cagionato dagli organi della società al patrimonio sociale, che nel sistema del

codice civile può dar vita all'azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori

sociali, non è idoneo a configurare anche un'ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte

dei conti: perchè non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto

privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai

singoli soci - pubblici o privati - i quali sono unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione

ed i cui originari conferimenti restano confusi ed assorbiti nel patrimonio sociale medesimo. E

l'esattezza di tale conclusione trova conferma anche nell'impossibilità di realizzare, altrimenti, un

soddisfacente coordinamento sistematico tra l'ipotizzata azione di responsabilità dinanzi al giudice

contabile e l'esercizio delle azioni di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) contemplate dal codice

civile.

Risulta viceversa configurabile l'azione del procuratore contabile quando sia volta a far valere la

responsabilità dell'amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata

dall'ente pubblico che sia stato danneggiato dall'azione illegittima non di riflesso, quale conseguenza

indiretta del pregiudizio arrecato al patrimonio sociale, bensì direttamente. Si è allora innegabilmente in

presenza di un cosiddetto danno erariale, ossia di un danno provocato dall'agente al patrimonio

dell'ente pubblico, come ad esempio accade nel caso del danno all'immagine della pubblica

amministrazione, la cui riconducibilità entro i parametri della giurisdizione del giudice contabile è

confermata dal disposto della L. 3 agosto 2009, n. 102, art. 17, comma 30 ter, (quale risulta dopo le

modifiche apportate dal d.l. in pari data, n. 103, convertito con ulteriori modificazioni nella L. 3 ottobre

90

2009, n. 141). E' in questo quadro di principi generali che deve essere perciò letta anche la disposizione

della L. 28 febbraio 2008, n. 31, art. 16 bis, (che ha convertito il D.L. 31 dicembre 2007, n. 248), la

quale ha introdotto per le società quotate un'eccezione alla giurisdizione contabile da riferire, appunto,

alla sola area in cui detta giurisdizione risulterebbe altrimenti applicabile.

L'azione del procuratore contabile appare poi anche configurabile nei confronti (non già

dell'amministratore della società partecipata, per il danno arrecato al patrimonio sociale, bensì) di chi,

quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia

colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, così pregiudicando il valore della

partecipazione. Ciò che ben può accadere quando il socio pubblico, in presenza di atti di mala gestio

imputabili agli amministratori o agli organi di controllo della società partecipata, trascuri

ingiustificatamente di esercitare le azioni di responsabilità alle quali egli sia direttamente legittimato, ove

ne sia derivata una perdita di valore della partecipazione.

3. Il collegio è persuaso che l'orientamento ora richiamato, ispirato dall'esigenza di ricondurre la

soluzione del problema di giurisdizione entro un quadro coerente di principi giuridici che sono a

fondamento del sistema ordinamentale, debba essere in via generale tenuto fermo, anche alla luce della

normativa sopravvenuta. Normativa alla quale il carattere spesso frammentario e l'esser frutto di

esigenze contingenti impediscono di assumere una valenza sistematica, che vada oltre il dettato della

singola disposizione, onde parrebbe quanto mai azzardato il voler trarre da essa argomenti di ordine

generale, tali da incidere sui principi giuridici su cui è basata la citata giurisprudenza di questa corte in

materia, o anche solo indici dell'esistenza di principi in tutto o in parte diversi da quelli. La disciplina

speciale dettata per le cosiddette società pubbliche - come anche la più attenta dottrina non ha mancato

di rilevare - non ha tuttora assunto le caratteristiche di un sistema conchiuso ed a sè stante, ma continua

ad apparire come un insieme di deroghe alla disciplina generale, sia pure con ampio ambito di

applicazione.

Ciò dicasi, in particolare, per l'inclusione delle società a partecipazione pubblica nel novero delle

amministrazioni pubbliche cui si estende l'opera di supervisione, monitoraggio e coordinamento

nell'approvvigionamento di beni e servizi, demandata al commissario straordinario nominato dal

Governo a norma del D.L. 7 maggio 2010, n. 52, art. 2, (convertito con modificazioni dalla L. 6 luglio

2012, n. 94), inclusione ovviamente ispirata dall'esigenza di evitare aggravamenti anche solo indiretti

della spesa pubblica, ma che non consente certo sol per questo di qualificare ad ogni effetto come enti

pubblici le società a partecipazione pubblica cui detta norma si riferisce; e lo stesso dicasi per

l'assoggettamento delle società partecipate a vincoli economici derivanti dal c.d. patto di stabilità e per i

conseguenti maggiori controlli, da parte degli enti pubblici partecipanti, a tal fine imposti dall'art. 147

quater del testo unico sugli enti locali (articolo introdotto dal D.L. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito

con modificazioni dalla L. 7 dicembre 2012, n. 213).

Analogamente le disposizioni contenute nel D.L. 6 luglio 2012, n. 95, art. 4, (convertito con

modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 135), nel dettare regole particolari in tema di nomina e di

compensi spettanti ai componenti dei consigli di amministrazione ed ai dipendenti delle società a

partecipazione pubblica, non si discostano dalla logica da cui è già ispirato il citato art. 2449 c.c. - che s'è

visto essere coerente con l'inquadramento generale di tali enti, per tutto il resto, nel novero delle società

azionarie soggette alla disciplina privatistica - ed, anzi, il comma 13 del medesimo art. 4 ribadisce

91

espressamente che, 'per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica

comunque (alle società a partecipazione pubblica) la disciplina del codice civile in materia di società di

capitali'. Il che dimostra con evidenza come non possa essere in alcun modo attribuita una valenza di

ordine generale, che vada al di là della specifica portata di tale disposizione eccezionale, neppure alla

previsione del precedente comma 12, per la quale gli amministratori ed i dirigenti delle anzidette società,

in caso di violazione dei vincoli di spesa stabiliti dai commi precedenti, 'rispondono, a titolo di danno

erariale, per le retribuzioni ed i compensi erogati in virtù dei contrati stipulati'.

Nè in virtù di tali disposizioni, nè di altre altrettanto frammentarie e disorganiche che sono sparse

nell'ordinamento e delle quali sarebbe qui superfluo dare dettagliatamente conto, è dato insomma

sottrarsi alla drastica alternativa già precedentemente segnalata: alternativa per la quale, fin quando non

si arrivi a negare la distinzione stessa tra ente pubblico partecipante e società di capitali partecipata, e

quindi tra la distinta titolarità dei rispettivi patrimoni, la giurisdizione della Corte dei conti in tema di

risarcimento dei danni arrecati dai gestori o dagli organi di controllo al patrimonio della società

potrebbe fondarsi soltanto: o su una previsione normativa che eccezionalmente lo stabilisca,

quantunque si tratti di danno arrecato ad un patrimonio facente capo non già ad un soggetto pubblico

bensì ad un ente di diritto privato - previsione certo possibile, ma che allo stato non appare

individuabile in termini generali nell'ordinamento - ; oppure sull'attribuzione alla stessa società

partecipata della qualifica di ente pubblico, onde il danno arrecato al suo patrimonio potrebbe

qualificarsi senz'altro come danno erariale. Soluzione, quest'ultima, che appare però ben difficilmente

predicabile, perchè trova un solido ostacolo nel disposto della L. 20 marzo 1975, n. 70, art. 4, a tenore

del quale occorre l'intervento del legislatore per l'istituzione di un ente pubblico; e pare difficile dubitare

che siffatta norma esprima un principio di ordine generale, ove si consideri la molteplicità e la rilevanza

degli effetti giuridici potenzialmente implicati nel riconoscimento della natura pubblica di un ente. Di

modo che, se in via di principio può ammettersi che un siffatto riconoscimento sia desumibile anche

per implicito da una o più disposizioni di legge, occorre nondimeno che la volontà del legislatore in tal

senso risulti da quelle disposizioni in modo assolutamente inequivoco. Ma, quanto alle società a

partecipazione pubblica, lungi dal ravvisarsi disposizioni normative che inequivocabilmente

attribuiscano loro la qualifica di ente pubblico, s'è già visto come il legislatore si sia preoccupato a più

riprese di ribadirne, in via generale e fatta salva l'applicazione di singole regole speciali,

l'assoggettamento alla disciplina dettata dal codice civile per le società di diritto privato, con le già

richiamate conseguenze in punto di riparto di giurisdizione (solo in presenza di società di fonte legale,

regolate da una disciplina sui generis di chiara impronta pubblicistica, quale ad esempio la Rai, è parso

necessario pervenire a conclusioni diverse: si vedano Sez. un. 22 dicembre 2009, n. 27092).

4. Nelle considerazioni ora svolte assume un ruolo centrale, come s'è già sottolineato, la distinzione tra

la società di capitali (soggetto di diritto privato) ed i propri soci (ancorchè eventualmente pubblici).

Distinzione che - è appena il caso di ricordarlo - in via di principio non vien meno neppure

nell'eventualità in cui la società sia unipersonale ed il capitale sociale appartenga quindi ad un unico

socio, in base alle regole di matrice comunitaria introdotte nel nostro ordinamento prima per le sole

società a responsabilità limitata e poi anche per le società azionarie.

E' proprio partendo da questo profilo che si manifesta, però, la necessità di un'ulteriore riflessione

quando ci si trovi in presenza di quel particolare fenomeno giuridico, al quale si è già dovuto far cenno

92

all'inizio di questa sentenza, che ha trovato ampia diffusione negli ultimi decenni e che va sotto il nome

di in house providing.

4.1. La direttiva 2006/123/Ce, relativa ai servizi nel mercato interno, lascia liberi gli Stati membri di

decidere le modalità organizzative della prestazione dei servizi d'interesse economico generale (art. 1,

par. 6). E' perciò certamente consentito che, in conformità ai principi generali del diritto comunitario,

gli enti pubblici scelgano se espletare tali servizi direttamente o tramite terzi e che, in quest'ultimo caso,

individuino diverse possibili forme di esternalizzazione, ivi compreso il l'affidamento a società

partecipate dall'ente pubblico medesimo. In tale ambito, peraltro, si possono dare ipotesi ben distinte:

l'affidamento a società totalmente estranee alla pubblica amministrazione, l'affidamento a società con

azionariato misto, in parte pubblico ed in parte privato, ed infine l'affidamento a società c.d. in house.

Solo in quest'ultimo caso la Corte di Giustizia Europea (sin dalla nota sentenza Teckal del 18 novembre

1999, n. 107/98) ha escluso la necessità del preventivo ricorso a procedure di evidenza pubblica,

muovendo dal presupposto che non sussistono esigenze di tutela della concorrenza quando la società

affidataria sia interamente partecipata dall'ente pubblico, eserciti in favore del medesimo la parte più

importante della propria attività e sia soggetta al suo controllo in termini analoghi a quelli in cui si

esplica il controllo gerarchico dell'ente sui propri stessi uffici. Siffatte indicazioni sono state pienamente

recepite, in ambito nazionale, sia dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (si vedano tra le tante, a

mero titolo d'esempio, le pronunce n. 7636/04, 962/06, 1513/07, 2765/09, 5808/09, 7092/10 ed

1447/11), sia da ultimo dalla Corte dei conti (si veda la sentenza n. 546/13). Anche queste stesse

sezioni unite hanno avuto occasione, sia pur fuggevolmente, di farvi recentemente riferimento (si

vedano le ordinanze del 5 aprile 2013, n. 8352, e del 3 maggio 2013, n. 10299) se ne è occupata più

volte, infine, la Corte costituzionale (da ultimo nella sentenza 20 marzo 2013, n. 46, sulla quale si dovrà

poi brevemente tornare).

Pur trattandosi all'origine di una figura di stampo eminentemente giurisprudenziale, la società in house

non ha tardato ad acquisire cittadinanza anche nella legislazione nazionale. Se ne trova menzione in

molteplici sparse disposizioni normative, talvolta con mero richiamo alle caratteristiche richieste dalla

citata giurisprudenza Europea, altre volte con più specifica indicazione dei requisiti occorrenti perchè

tale figura ricorra. Particolare risalto assume, in questo contesto, il disposto dell'art. 113, comma 4, del

testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti a locali (D.Lgs. n. 267 del 2000), come riformulato dal

D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 14, (convertito con modificazioni dalla L. 24 novembre 2003, n.

326), che, in presenza di determinate condizioni, consente espressamente l'affidamento di servizi

pubblici, anzichè ad imprese terze da individuare mediante procedure di evidenza pubblica, a società di

capitali costituite per quello scopo e partecipate totalitariamente da soci pubblici, purchè esse realizzino

la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti che le controllano e purchè questi

ultimi esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.

E' dunque possibile considerare ormai ben delineati nell'ordinamento i connotati qualificanti della

società in house, costituita per finalità di gestione di pubblici servizi e definita dai tre requisiti già più

volte ricordati: la natura esclusivamente pubblica dei soci, l'esercizio dell'attività in prevalenza a favore

dei soci stessi e la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici

sui propri uffici. Ma s'intende che, per poter parlare di società in house, è necessario che detti requisiti

sussistano tutti contemporaneamente e che tutti trovino il loro fondamento in precise e non derogabili

disposizioni dello statuto sociale.

93

4.2. Poche brevi osservazioni paiono ancora opportune per meglio puntualizzare le tre caratteristiche

salienti della società in house.

In ordine alla prima di esse giova ricordare come già la giurisprudenza Europea abbia ammesso la

possibilità che il capitale sociale faccia capo ad una pluralità di soci, purchè si tratti sempre di enti

pubblici (si vedano le sentenze della Corte di giustizia 10 settembre 2009, n. 573/07, Sea, e 13

novembre 2008, n. 324/07, Coditel Brabant), e come nel medesimo senso si sia espresso, del tutto

persuasivamente, anche il Consiglio di Stato (si vedano, tre le altre, le pronunce n. 7092/10 ed

8970/09). E' quasi superfluo aggiungere che occorrerà pur sempre, comunque, che lo statuto inibisca in

modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici

siano titolari.

Il requisito della prevalente destinazione dell'attività in favore dell'ente o degli enti partecipanti alla

società, pur presentando innegabilmente un qualche margine di elasticità, postula in ogni caso che

l'attività accessoria non sia tale da implicare una significativa presenza della società quale concorrente

con altre imprese sul mercato di beni o servizi. Ma, come puntualizzato da Corte cost. 23 dicembre

2008, n. 439 (anche sulla scorta della giurisprudenza comunitaria: si veda, in particolare, la sentenza

della Corte di Giustizia 11 maggio 2006, n. 340/04, Carbotermo), non si tratta di una valutazione

solamente di tipo quantitativo, da operare con riguardo esclusivo al fatturato ed alle risorse economiche

impiegate, dovendosi invece tener conto anche di profili qualitativi e della prospettiva di sviluppo in cui

l'attività accessoria eventualmente si ponga. In definitiva - e segnatamente per quel che interessa ciò che

si andrà a dire in ordine alla reale natura delle società in house ai fini del riparto di giurisdizione - quel

che soprattutto importa è che l'eventuale attività accessoria, oltre ad essere marginale, rivesta una

valenza meramente strumentale rispetto alla prestazione del servizio d'interesse economico generale

svolto dalla società in via principale.

Quanto infine al requisito del cosiddetto controllo analogo, quel che rileva è che l'ente pubblico

partecipante abbia statutariamente il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della

società in house, i cui organi amministrativi vengono pertanto a trovarsi in posizione di vera e propria

subordinazione gerarchica.

L'espressione 'controllo' non allude perciò, in questo caso, all'influenza dominante che il titolare della

partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull'assemblea della società e,

di riflesso, sulla scelta degli organi sociali; si tratta, invece, di un potere di comando direttamente

esercitato sulla gestione dell'ente con modalità e con un'intensità non riconducibili ai diritti ed alle

facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal

codice civile, e sino a punto che agli organi della società non resta affidata nessuna autonoma rilevante

autonomia gestionale (si vedano, in tal senso, le chiare indicazioni di Cons. Stato, Ad. plen., 3 marzo

2008, n. 1, e della conforme giurisprudenza amministrativa che ne è seguita).

4.3. Le caratteristiche ora sommariamente descritte - e soprattutto la terza - bastano a rendere evidente

l'anomalia del fenomeno dell'in house nel panorama del diritto societario.

E' già anomalia non piccola il fatto che si abbia qui a che fare con società di capitali non destinate (se

non in via del tutto marginale e strumentale) allo svolgimento di attività imprenditoriali a fine di lucro,

così da dover operare necessariamente al di fuori del mercato. Forse entro certi limiti una siffatta

94

anomalia la si potrebbe ancora giustificare, in un contesto storico nel quale la causa lucrativa delle

società di capitali è andata via via sbiadendosi in favore di una concezione che vede in quelle società dei

modelli organizzativi utilizzabili per scopi diversi. Ma ciò che davvero è difficile conciliare con la

configurazione della società di capitali, intesa quale persona giuridica autonoma e distinta dai soggetti

che in essa agiscono e per il cui tramite essa stessa agisce, è la totale assenza di un potere decisionale

suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell'ente

pubblico titolare della partecipazione sociale.

Si potrebbe obiettare che il fenomeno della eterodirezione di società non è certo sconosciuto al diritto

societario, e che anzi, dopo la riforma attuata col D.Lgs. n. 6 del 2003, esso ha trovato esplicito

riconoscimento nell'art. 2497 c.c. e segg.. Ma non è la stessa cosa. Nei gruppi societari il potere di

direzione e coordinamento spettante all'ente capogruppo attiene all'individuazione delle linee

strategiche dell'attività d'impresa senza mai annullare del tutto l'autonomia gestionale della società

controllata. Gli amministratori di quest'ultima sono perciò tenuti ad adeguarsi alle direttive loro

impartite, ma conservano nondimeno una propria sfera di autonomia decisionale (giacchè, pur con gli

adattamenti resi necessari dall'esser parte di un gruppo imprenditoriale più vasto, continua ad applicarsi

alla singola società il disposto dell'art. 2380 bis c.c., comma 1) nè, soprattutto, essi possono prescindere

dal valutare se ed in qual misura quelle direttive eventualmente comprimano in modo indebito

l'interesse della stessa società controllata: interesse di cui sono garanti ed in virtù del quale hanno il

dovere, se del caso, di discostarsi da direttive illegittime. La disciplina della direzione e del

coordinamento dettata dai citato art. 2497 e segg., insomma, è volta a coniugare l'unitarietà

imprenditoriale della grande impresa con la perdurante autonomia giuridica delle singole società

agglomerate nel gruppo, che restano comunque entità giuridiche e centri d'interesse distinti l'una dalle

altre. Altrettanto non sembra potersi dire invece per la società in house, sia per la già ricordata

subordinazione dei suoi gestori all'ente pubblico partecipante, nel quadro di un rapporto gerarchico che

non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso, sia per l'impossibilità

stessa d'individuare nella società un centro d'interessi davvero distinto rispetto all'ente pubblico che la

ha costituita e per il quale essa opera.

Allo stesso modo, ove si abbia a che fare con una società a responsabilità limitata, non sembra possibile

ricondurre sic et simpliciter il 'controllo analogo', caratteristico del fenomeno dell'in house, ad uno dei

'particolari diritti riguardanti l'amministrazione' che l'atto costitutivo può riservare ad un socio (art. 2468

c.c., comma 3): giacchè neppure siffatti diritti speciali di amministrazione sono equiparabili, in presenza

di un amministratore non socio, ad un rapporto di natura gerarchica da cui quest'ultimo sia vincolato,

restando comunque intatto il suo primario dovere di perseguire l'interesse sociale, che conserva pur

sempre un qualche grado di autonomia rispetto a quello personale del socio.

La società in house, come in qualche modo già la sua stessa denominazione denuncia, non pare invece

in grado di collocarsi come un'entità posta al di fuori dell'ente pubblico, il quale ne dispone come di una

propria articolazione interna. E' stato osservato, infatti, che essa non è altro che una longa manus della

pubblica amministrazione, al punto che l'affidamento pubblico mediante in house contract neppure

consente veramente di configurare un rapporto contrattuale intersoggettivo (Corte cost. n. 46/13, cit.);

di talchè 'l'ente in house non può ritenersi terzo rispetto all'amministrazione controllante ma deve

considerarsi come uno dei servizi propri dell'amministrazione stessa' (così Cons. Stato, Ad. plen., n.

95

1/08, cit.). Il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è dunque squarciato: la

distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva.

L'uso del vocabolo società qui serve solo allora a significare che, ove manchino più specifiche

disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo va desunto dal modello societario; ma di una

società di capitali, intesa come persona giuridica autonoma cui corrisponda un autonomo centro

decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio, non è più possibile parlare.

5. Alla luce di quanto fin qui detto si comprende bene come le conclusioni cui questa corte è pervenuta

nell'individuare i limiti della giurisdizione del giudice contabile nelle cause riguardanti la responsabilità

degli organi di società a partecipazione pubblica non possano valere, tal quali le si è esposte nei

paragrafi 2 e 3 della presente sentenza, anche quando si tratti di società in house.

Non possono valere perchè - ciò sia detto quanto meno ai limitati fini del riparto di giurisdizione -

queste ultime hanno della società solo la forma esteriore ma, come s'è visto, costituiscono in realtà delle

articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non dei soggetti giuridici ad essa

esterni e da essa autonomi.

Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti capo alla

pubblica amministrazione, neppure possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli

amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un mero munus privato,

inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società. Essendo essi preposti

ad una struttura corrispondente ad un'articolazione interna alla stessa pubblica amministrazione, è da

ritenersi che essi siano personalmente a questa legati da un vero e proprio rapporto di servizio, non

altrimenti di quel che accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall'ente pubblico.

L'analogia tra le due situazioni, che si è visto essere una delle caratteristiche salienti del fenomeno dell'in

house, non giustificherebbe una conclusione diversa nei due casi, nè quindi un diverso trattamento in

punto di responsabilità e di relativa giurisdizione.

D'altro canto, se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l'ente pubblico partecipante

e la società in house che ad esso fa capo, è giocoforza concludere che anche la distinzione tra il

patrimonio dell'ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non

di distinta titolarità.

Dal che discende che, in questo caso, il danno eventualmente inferto al patrimonio della società da atti

illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza imputabile

agli organi di controllo, è arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all'ente

pubblico: è quindi un danno erariale, che giustifica l'attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione

sulla relativa azione di responsabilità.

6. Il ricorso deve quindi esser accolto, in base al principio di diritto qui di seguito enunciato: 'La Corte

dei conti ha giurisdizione sull'azione di responsabilità esercitata dalla Procura della Repubblica presso

detta corte quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da

essi cagionati al patrimonio di una società in house, per tale dovendosi intendere quella costituita da

uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente tali enti possano esser

soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui

96

gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici

sui propri uffici'.

La sentenza impugnata va quindi cassata, con rinvio della causa alla Corte dei conti per un nuovo

giudizio.

P.Q.M.

La corte accoglie il ricorso e cassa l'impugnata sentenza, dichiarando che la Corte dei conti ha

giurisdizione sulla presente causa, che rinvia alla medesima Corte dei conti.