Dispensa Di Amministrativo - 1

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1 Riassunto di: Manuale Di Diritto Amministrativo Elio Casetta Quindicesima edizione A cura di Fabrizio Fracchia …che materia di merda

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Diritto Amministrativo

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Riassunto di:

Manuale

Di

Diritto Amministrativo

Elio Casetta

Quindicesima edizione

A cura di Fabrizio Fracchia

…che materia di merda

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Capitolo 1

1. La pubblica amministrazione

Amministrazione non è di per sé un concetto giuridico.

Il termine indica la cura in concreto di interessi ed è riferibile, quindi, a un qualsiasi soggetto che svolge

un'attività rivolta alla soddisfazione di interessi correlati ai fini che il soggetto stesso si propone di

perseguire.

Quello riportato è il concetto di amministrazione-attività ossia il concetto di amministrazione in senso

oggettivo. È collegato alla nozione di amministrazione in senso soggettivo, in quanto è amministrativa

l'attività posta in essere dalle persone giuridiche pubbliche e dagli organi che hanno competenza alla cura

degli interessi dei soggetti pubblici. Da osservare anche il fatto, come afferma la costituzione, che l'attività

amministrativa viene esercitata anche da organi cui istituzionalmente essa non competerebbe;

l'amministrazione in senso soggettivo, a sua volta, esercita anche funzioni diverse da quelle istituzionalmente

proprie. Lo studio dello sviluppo dell'organizzazione e dell'attività amministrativa è compito, in particolare,

delle discipline storiche. Nell'era feudale le funz. amministrative venivano espletate sulla base di un diritto

ereditario e gli interessi privati si intrecciavano perfettamente con quelli pubblici, pertanto non si poteva

ritenere l'esistenza di un'attività posta al servizio dell'utilità degli amministrati. Successivamente il principio

della separazione dei poteri che nonostante non fosse ancora attuato, risultava percepibile in nuce, ma spesso

"amministrare" si confondeva con "governare" ed era assente una sorta di tutela giurisdizionale nei confronti

dei cittadini. Dopo la rivoluzione francese il fenomeno che più importa sottolineare è quello dell'aumento

delle dimensioni dell'amministrazione e non solo a livello nazionale, in quanto si erano moltiplicate le

esigenze che lo stato doveva soddisfare e le nuove richieste avanzate dalle classi sociali.

Amministrazione in senso soggettivo equivale dunque a dire organizzazione amministrativa. È proprio

all’organizzazione che la Costituzione dedica la sua lacunosa disciplina. L’art.97 fa riferimento

all’organizzazione dei pubblici uffici. In tal senso sembrerebbe quasi che sia stata in qualche modo accolta la

concezione cavouriana dell’amministrazione facente capo al governo, responsabile di fronte al Parlamento.

Concezione rispondente ad una visione accentratrice, in cui l’amministrazione è soprattutto amministrazione

dello Stato. Tuttavia questo è contraddetto dall’affermazione costituzionale del principio di autonomia e

della sua realizzazione attraverso la possibilità per gli enti territoriali di darsi un indirizzo politico-

amministrativo non in sintonia con quello del governo dello Stato. Si comprende come la crescita di centri

d’imputazione di interessi più o meno autonomamente gestiti contribuisse alla formazione di

un’amministrazione pubblica, che, tendeva ad aumentare di dimensioni.

Il legislatore tenta in parte di ridimensionare questa situazione, sia trasformando molti soggetti pubblici in

soggetti privati, sia istituendo soggetti privati con il compito di perseguire finalità pubblicistiche.

Sotto diverso aspetto è assai rilevante un ulteriore fenomeno, costituito dalla tendenza dell’amministrazione

ad avvalersi dell’ausilio di soggetti privati preesistenti per lo svolgimento di compiti pubblicistici: ove si

consideri che la giurisprudenza ha in qualche caso qualificato i privati come organi indiretti della PA e che

la legislazione ha talora equiparato i gestori privati incaricati dell’esercizio di pubblici servizi alle

amministrazioni.

Si tratta di stabilire se esista una definizione legislativa di amministrazione pubblica. Una disposizione non

può ricavarsi dalle poche disposizioni della nostra Carta Costituzionale. Frequente negli ultimi tempi è il

tentativo di dilatare il significato della normativa costituzionale in materia di PA. In pratica non si dovrebbe

parlare di PA, bensì di ‘pubbliche amministrazioni’, in quanto il concetto dovrebbe diversificarsi a seconda

dei fini in vista dei quali esso dovrebbe essere utilizzato. Per pubbliche amministrazioni si intendono tutte le

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amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative,

le aziende e amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le

comunità montane e loro consorzi associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari,

le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni tutti gli enti pubblici non

economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende degli enti del servizio sanitario

nazionale, l'agenzia per la rappresentanza nazionale delle pubbliche amministrazioni e agenzie di cui al d.lgs

300/1999.

Comunque la nozione più ampia attendibile appare quella riportata dall'articolo uno co. due del decreto

legislativo 165/2001 che tuttavia non ricomprende gli enti pubblici economici tra le amministrazioni

pubbliche, per la semplice ragione che il rapporto di lavoro dei loro dipendenti era già sottoposto a una

disciplina privatistica.

2. La PA dopo l’entrata in vigore della Costituzione, i suoi mali recenti e i rimedi posti in atto. In

particolare: il problema della riforma della PA

Il numero degli enti pubblici è mutevole nel tempo, inoltre anche all’interno della stessa amministrazione si

verificano mutamenti di grande rilievo. Per risalire alle cause occorre riportarsi all’entrata in vigore della

Costituzione. La brevità della durata in carica dei governi succedutisi alla guida dello Stato e l’ampliamento

del numero degli uffici e degli organi delle amministraz. ministeriali, in conseguenza degli accresciuti

compiti a esse affidati, avevano inizialmente provocato una presa di distanza dell’apparato burocratico dai

vertici politici dei vari dicasteri: fu reso possibile, da un lato dall’applicazione dei principi costituzionali

concernenti l’attività amministrativa; dal lato opposto dalla sottrazione, pur modesta, di competenze già

appartenenti ai singoli ministri che vennero attribuite al neo-istituito ruolo della dirigenza.

Fu attuato il cosiddetto ‘addomesticamento’ mediante la collocazione, almeno nei posti di maggiore

importanza dell’amministrazione dello Stato e degli enti da questo controllati, di persone politicamente

legate ai partiti.

La riforma dell’amministrazione è pertanto questione costantemente oggetto di analisi e preoccupazioni.

Innanzitutto il legislatore si è mosso nella direzione dell’attuazione di norme e principi costituzionali in

materia amministrativa: legge sul proc. amministrativo e sulle autonomie locali, correlate rispettivamente

agli artt. 97 e 128 della Cost.. Inoltre il legislatore ha introdotto una distinzione marcata tra indirizzo politico

e gestione che emerge dal d.lgs 165/2001 e dalla normativa sugli enti locali. La maggior

responsabilizzazione della dirigenza si riflette altresì sulla riforma del bilancio oggi articolato a livello statale

per programmi, aggregati di risorse finanziarie destinate al perseguimento di obiettivi strategici.

Le leggi cosiddette ‘Bassanini uno’, ‘Bassanini-bis’ e ‘Bassanini-ter’ costituiscono tre esempi di riforma la

cui attuazione ha determinato rilevanti modifiche dell’attività e dell’organizzazione amministrativa. Hanno

lo scopo di attuare un notevole decentramento di poteri, in quanto il legislatore ha inteso conferire molte

funzioni statali alle regioni e agli enti locali, riservando soltanto alcune e fondamentali materie allo Stato e

introducendo il principio di sussidiarietà.

Alcuni tentativi di riforma e razionalizzazione non hanno avuto seguito; un’incisiva riforma costituzionale è

stata posta in essere con la l. cost. 3/2001 che ha modificato il titolo V della parte II della Cost.. Non può non

essere citato il d. lgs 104/2010 che ha introdotto il codice del processo amministrativo e le numerose

manovre adottate per far fronte alla crisi economico-finanziaria, spesso con ricadute sull’organizzazione e

sull’attività amministrativa. Alla crisi economica si aggiunge quella delle istituzioni: risposta al riguardo è

stata la disciplina per la lotta alla corruzione e all’illegalità.

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Radicale mutamento dovrebbe derivare dall’impiego dei nuovi strumenti legati allo sviluppo tecnologico e

dal conseguente potenziamento del c.d e-government nell’ambito dei rapporti con cittadini ed imprese.

Il codice dell’amministrazione digitale, che prevede l’individuazione di un responsabile unico delle attività

relative alla digitalizzazione, attribuisce ai cittadini numerosi diritti, tra cui quello di usare le tecnologie nei

rapp. con l’amministrazione, di accedere agli atti per via telematica ed effettuare pagamenti in forma digitale.

Tra gli strumenti dell’e-government ricordiamo la posta elettronica certificata, la presenza di gestori Pec

attribuisce garanzia certificata dell’invio e della ricezione dei messaggi, assistiti da apposita ricevuta, nonché

del riferimento temporale. Ogni amministrazione pubblica rende noto sul proprio sito web istituzionale

almeno un indirizzo di pec cui il cittadino possa rivolgersi per trasmettere istanze e ricevere informazioni.

Ricordiamo inoltre la firma digitale, i documenti informatici, i siti internet, la carta d’identità elettronica e

la carta nazionale dei servizi. Le comunicazioni di documenti tra le pubbliche amministrazioni avvengono

mediante l’utilizzo della posta elettronica o in cooperazione applicativa; esse sono valide ai fini del

procedimento amministrativo una volta che ne sia verificata la provenienza.

Il d.l. 179/2012 promuove l’agenda digitale italiana, anche come misura essenziale per la crescita del paese,

disciplinando, tra gli istituti, la Pec, la cartella medica digitale e la giustizia digitale e apportando numerose

modifiche al codice dell’amministrazione digitale. Viene altresì istituita l’agenzia per l’Italia digitale,

preposta alla realizzazione dell’agenda. Di rilievo è l’istituto del domicilio digitale: ogni cittadino può

indicare alla PA un proprio indirizzo di Pec, quale suo domicilio digitale.

Tutto questo si lega alla trasparenza, è collocata infatti un’apposita sezione denominata ‘Amministrazione

trasparente’ al cui interno sono contenuti i dati, le informazioni e i documenti pubblicati ai sensi della

normativa vigente. Per sistema pubblico di connettività si intende il sistema che ha la finalità di assicurare

il coordinamento informativo e informatico dei dati tra tutte le amministrazioni e promuovere l’omogeneità

nell’elaborazione e trasmissione dei dati stessi, finalizzata allo scambio e diffusione delle informazioni e alla

realizzazione di servizi integrati.

3. La nozione di diritto amministrativo

Il diritto amministrativo è la disciplina giuridica della pubblica amministrazione nella sua organizzazione,

nei beni e nell’attività ad essa peculiari e nei rapporti che, esercitando tale attività, si instaurano con gli altri

soggetti dell’ordinamento. È strettamente collegato ad un certo tipo di Stato, si parla di Stati a regime

amministrativo qualora siano presenti Stati con regole amministrative distinte dal diritto comune.

La rivoluzione francese è ritenuta la svolta decisiva ai fini della nascita del diritto amministrativo in senso

moderno. Tuttavia il diritto amm. nacque come sommatoria di più accadimenti, taluno dei quali risalente nei

secoli e con esperienze statali assai diverse. Alla rivoluzione francese si deve il fatto che, ispirandosi ai

principi dell’Illuminismo, condusse in primo luogo all’avvento della borghesia e all’affermazione del ruolo

centrale del potere legislativo, espressione della volontà popolare, determinando la subordinazione

dell’amministrazione alla legge. La vicenda rivoluzionaria sopra richiamata non si può ridurre

semplicemente alla sostituzione della signoria del sovrano, tipica del periodo precedente, con la signoria

della legge, perché la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 comportò il deciso

riconoscimento della posiz di quest’ultimo. La rivoluzione francese inoltre affermò il principio della

divisione dei poteri. La distinzione tra amministrazione e giurisdizione, configurata come applicazione del

diritto da parte di un soggetto terzo rispetto agli interessi in gioco, fece sì che l’autoritatività dell’azione

amministrativa si svincolasse dal rispetto delle forme giurisdizionali. Vero è che in questo modo sfumavano

le garanzie a favore del privato proprie del processo.

In sintesi, l’attività amministrativa autoritativa acquistò in questo periodo autonomia rispetto alle altre

manifestazioni di imperio statuale e inizio a reggersi su propri principi, forme e garanzie.

Il dir. Amministrativo si diffuse in Europa in concomitanza con l’estensione del modello di amministrazione

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napoleonica, estremamente accentrata e rimase sostanzialmente immutato nel periodo della Restaurazione

come nelle esperienze liberali e borghesi successive, a conferma della presenza di una matrice autoritativa.

Per quanto attiene l’Italia, dove già nel 1859 si era completata la legislazione amministrativa piemontese,

dopo l’unità nel ’65, si uniformò la legislazione relativa ai territori annessi ad opera delle c.d. leggi di

unificazione.

Occorre ora individuare i limiti del dir. Amministrativo:

Non appare giustificabile l'inclusione nel diritto amministrativo in senso proprio, dell'attività giurisdizionale

posta in essere da organi soggettivamente non appartenenti alla pubblica amministrazione. Proprio perché

esercitano giurisdizione questi organi godano di indipendenza che è inammissibile negli organi

amministrativi svolgenti esclusivamente attività amministrativa.

Negli Stati a regime amministrativo l'attività della pubblica amministrazione non si esaurisce nella sola

attività di diritto pubblico, si assiste infatti all'espansione dell'attività di diritto privato della pubblica

amministrazione stessa; così l'attività amministrativa può essere esercitata da soggetti pubblici tanto nelle

forme di diritto pubblico quanto nelle forme del diritto privato.

L'attività amministrativa ha subito nel tempo notevoli variazioni in relazione al profondo mutamento

dell'atteggiarsi dei rapporti tra attività amministrativa dovuto alla riportata vicenda della trasformazione dello

Stato monoclasse in Stato pluriclasse. Pertanto si evidenziano un accentuato interventismo in campo

economico per la proliferazione in modo atipico delle persone giuridiche che in esso operano e una più

ampia utilizzazione del diritto privato, quale strumento di normale impiego anche per la pubblica

amministrazione.

Occorre chiedersi se la normazione concernente gli atti di diritto privato della pubblica amministrazione

possa essere attratta nel diritto amministrativo. La risposta è negativa: i principi che regolano la relativa

attività sono proprii del diritto privato. Opposta conclusione va formulata per le norme che riguardano

l'attività amministrativa preordinata alla formazione della volontà contrattuale dell'amministrazione.

L'articolo uno comma uno bis, l. 241/1990 dispone che la pubblica amministrazione nell'adozione di atti di

natura non autoritativa agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente.

La norma, sembra:

- consentire che l'azione amministrativa sia retta da norme di diritto privato e non soltanto che

l'amministrazione usi strumenti privatisti, come è naturale che faccia in quanto soggetto dotato di capacità di

diritto privato.

- individuare nel carattere dell'autoritatività la linea di demarcazione tra attività amministrativa retta dal

diritto amministrativo e attività retta dal diritto privato.

- limitare l'area dell'applicazione del diritto privato al settore degli atti non autoritativi ove, l'amministrazione

agisce con la capacità di diritto privato senza limiti connessi alla tassatività dei poteri.

- configurare il diritto privato come la regola dell'attività che si esplica mediante atti non autoritativi senza

che risultino necessarie ulteriori prescrizioni normative.

- riservare, a contrario, l'applicazione delle norme di diritto pubblico all'area degli atti autoritativi in coerenza

con il principio di legalità che verrà analizzato nel corso del capitolo due senza alcuna intromissione del

diritto privato.

La norma è probabilmente ispirata a un favor nei confronti del diritto privato, che aprirebbe la via a un

rapporto di parità tra amministrazione e cittadino: si tratta di idea errata; piuttosto è l'insussistenza, in

concreto e a monte di questi rapporti nei confronti dell'amministrazione che dovrebbe spingere verso

applicazioni di garanzie pubblicistiche. La rilevanza della disposizione dipende ovviamente

dall'interpretazione dell'inciso 'salvo che la legge disponga diversamente' e del concetto autoritatività.

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La tesi secondo cui autoritativi sarebbe solo i provvedimenti limitativi della sfera del privato, non convince.

È sufficiente osservare quanto dispone il comma 1-ter: “i soggetti privati preposti all’esercizio di attività

amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi cui al co. 1, con un livello di garanzia non

inferiore a quello cui sono tenute le PA in forza delle disposizioni di cui alla presente legge”; a sua volta il

co.1 stabilisce: “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di

economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente

legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento

dell’UE”. Dal combinato disposto di queste norme deriva che l’attività dei privati qui considerati è soggetta

ai principi del procedimento amm. e a quelli di trasparenza e pubblicità: sarebbe insostenibile ritenere che

questi principi vincolino l’attività amministrativa ove svolta dai privati e non quella dell’amministrazione.

Potrebbe essere che la disposizione di cui al comma 1-bis venga applicata in senso più riduttivo. Potrebbe

cioè essere considerata come norma che, pur consentendo di utilizzare strumenti privatistici per realizzare

finalità di interesse pubblico, non elimina la necessità di un procedimento di formazione della volontà

amministrativa che rispetti i vincoli pubblicistici, secondo il modello dell’evidenza pubblica. In tal modo,

l’applicazione del diritto privato e l’uso di strumenti privatistici saranno probabilmente temperati da garanzie

a esso estranee e creando in realtà un diritto speciale dell’amministrazione. La tesi secondo cui il comma 1-

bis intenda in realtà riferirsi all’uso di strumenti privatistici e non già, più in generale, all’impiego di norme

privatistiche, sembra forse la più ragionevole.

Una seconda ed opposta ipotesi interpretativa è quella che ritiene che tutti i poteri amministrativi siano

autoritativi: la norma sancirebbe l’ovvio, in quanto se l’atto non è autoritativo ciò significa che manca il

provvedimento perché non ricorre un potere ed è naturale che l’amministrazione agisca come un privato; la

disposizione, dunque, troverebbe in tal modo applicazione nei casi in cui l’amministrazione non eserciti

poteri conferiti dalla legge. È comunque possibile che si registri la tendenza ad allargare l’area della non

autoritatività, per annettervi tutti gli atti che producono effetti ampliativi della sfera giuridica del privato.

Pure se interpretato in questo senso, l’art 1, co.1-bis, suscita comunque perplessità. Va aggiunto che è la

stessa l. 241/1990 a dettare una diversa disciplina per i procedimenti relativi a provvedimenti ampliativi,

sicché parrebbe operare la deroga di cui al comma 1-bis: basti pensare sul ‘preavviso di diniego’ e ‘silenzio

assenso’ relativi ai procedimenti ad iniziativa di parte. In altri termini, ove si ritenesse che la clausola “salvo

che la legge disponga diversamente” sia soddisfatta per il solo fatto di trovarsi al cospetto di una disciplina

pubblicistica dell’attività, le norme prima citate comporterebbero lo svuotamento dell’art 1, c. 1-bis,

l.241/1990.

Disciplinata in parte dal codice civile è poi l’attività amministrativa che determina, o concorre a determinare,

la costituzione di status, di capacità, di rapporti di diritto privato, ad esempio mediante trascrizioni,

registrazioni, documentazioni (c.d. amministrazione pubblica del diritto privato).

Negli ultimi decenni molti reati sono stati depenalizzati per diventare illeciti amministrativi, pur essendo

rimasta immutata la relativa fattispecie. Inoltre in passato si è molto discusso sulla distinzione tra diritto

amministrativo e altri rami del diritto, senza per altro raggiungere risultati soddisfacenti; data la vastità

raggiunta dal diritto amministrativo, lo si intende ‘speciale’, pertanto in esso rientrano anche parte del diritto

regionale, quello degli enti locali, quello urbanistico, il diritto pubblico dell’economia, il diritto sanitario, il

diritto dell’energia, o magari altri settori che possono essere ritenuti meritevoli di approfondimento.

Da sempre la principale questione riguarda il diritto costituzionale, cui sono state dedicate molte indagini,

tutte fondate sulla frase di Pellegrino Rossi che tutti i rami del diritto trovano, nel diritto costituzionale, i loro

titres de chapitre. Ciò vuol dire che ci sono parti dei due diritti che condividono i medesimi principi.

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4. La scienza del diritto amministrativo

Se il diritto che disciplina l’attività e l’organizzazione amministrativa è il diritto amministrativo, occorre

precisare che il termine è spesso impiegato altresì per indicare la scienza che si occupa di tale diritto, la cui

opera di sistemazione teorica ed approfondimento ha contribuito non poco all’emancipazione del primo, in

quanto il processo di formazione di una scienza autonoma presuppone l’affermazione dell’autonomia del suo

oggetto. Lo sviluppo della scienza del diritto amministrativo ha accompagnato la creazione e/o il

rafforzamento degli stati nazionali ed è avvenuto, almeno nella fase iniziale, soprattutto in Francia e

Germania. A dire il vero, la scienza del diritto amministrativo ha trovato in Italia il suo precursore: Gian

Domenico Romagnosi, che già nel 1814 pubblicò i Principi fondamentali del diritto amministrativo onde

tesserne le istituzioni. In tale opera esprimeva la necessità di fondare un’autonoma scienza del diritto

amministrativo in Italia.

Lo sviluppo storico di amministrazione, diritto amministrativo e scienza del diritto amministrativo non è

stato né omogeneo né contestuale. In particolare nello stato costituzionale inglese, la tradizione liberale del

potere e la centralità del Parlamento ostarono all’introduzione di un diritto specifico dell’azione

amministrativa, sicchè tendenzialmente i rapporti tra privati e amministrazione erano equiparati a quelli tra

privati; l’apparato fu comunque il frutto di una formazione lenta e progressiva. L’esempio inglese mostra che

lo sviluppo di organizzazioni amministrative non necessariamente si accompagna alla formazione di un

diritto amministrativo e all’introduzione di giudici speciali che ne controllino l’osservanza, ovvero di rimedi

distinti da quelli ordinari. Anche in Gran Bretagna si registra la presenza di ambiti regolati da regole

specifiche, sussistono anche administrative tribunals, corpi amministrativi che concorrono alla costruzione di

regole derogatorie al diritto comune.

In Francia, le prime elaborazioni di una scienza di diritto amministrativo furono impostate su modelli di

diritto privato e sulla teorizzazione della giurisprudenza, sempre dominante, del Conseil d’Etat.

In Germania la scienza del diritto amministrativo si è affermata soltanto successivamente, metà 800,

separandosi dallo studio dello Staatsrecht, comprendente il diritto costituzionale. Si inserì in quel movimento

culturale che fu chiamato pandettistica, inteso ad elaborare le fonti del diritto romano ad uso moderno e a

costruire l’unita sistematica del diritto, ponendo così le basi del formalismo giuridico. Tra gli autori si

ricorda Otto Mayer, il quale pubblicò nel 1895 il Deutsches Verwaltungsrecht. Le concezioni tedesche

influenzarono profondamente la dottrina italiana. Con la fine del secolo, l’Italia trovò in V.E. Orlando il

propugnatore di una nuova scuola volta alla ricostruzione del diritto pubblico attraverso il metodo giuridico,

ossia alla rifondazione di una scienza giuridica dalla quale doveva essere eliminata ogni considerazione

spuria, relativa alla politica, alla sociologia, all’economia. Tra i fondatori Santi Romano,Ranelletti, Cammeo.

Il metodo elaborato e seguito dagli appartenenti alla Scuola di diritto pubblico, comunque animati

dall’intento di costruire un sistema di garanzie per il cittadino, se applicato in modo acritico comportava una

sorta di chiusura nei confronti della realtà della storia e della politica, in quanto ritenute irrazionali.

I radicali mutamenti istituzionali che si registrarono nei primi decenni del secolo avrebbero richiesto

un’evoluzione degli schemi della Scuola: infatti l’avvento dello Stato pluriclasse, l’affollarsi degli interessi

in conflitto, la perduta omogeneità delle classe dirigente erano fenomeni che portavano gli autori a ripudiare

il modello originario.

Sotto il punto di vista metodologico si affacciarono anche nuove proposte. Recepivano la necessità di

volgere l’attenzione alla realtà e alla storia, di verificare le soluzioni nel concreto, in sintesi di abbandonare

schemi formalistici per dare voce alle pulsioni della società in continuo divenire e al processo di

democratizzazione, insofferente nei confronti di una costruzione teorica ancorata ad un modello ormai

superato. In questo periodo ebbero influenza rilevante la teoria istituzionale proposta da Santi Romano e

l’indirizzo realistico. In particolare l’istituzionalismo portò alla ribalta il tema dell’organizzazione

amministrativa, evidenziando in essa la nozione di ordinamento giuridico interno e ponendo le basi per la

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rivisitazione di alcuni settori del diritto pubblico. Da parte sua il realismo giuridico, caratterizzato

dall’abbandono dell’apriorismo teorico, della teoria fine a sé stessa e delle sue derivazioni del teoreticismo e

del formalismo, dello spirito di geometria e delle pretese di unità ad ogni costo, si contrappone alla corrente

del formalismo giuridico. Tuttavia, ancora oggi, il diritto amministrativo presenta un materiale legislativo

sparso e disorganico, troppo spesso legato a circostanze occasionali e al perseguimento di interessi settoriali,

mentre talvolta è lacunoso e contraddittorio nei principi. Si tratterebbe quindi di aggiornare i concetti

elaborati nel passato, che appaiono ancora oggi irrinunciabili. D’altro lato però bisogna osservare che il

metodo giuridico appare oggi meno soddisfacente che in passato, in quanto troppo ancorato per la sua stessa

origine a schemi privatistici.

Il sempre maggior collegamento tra fattori economici, sociologici e anche politici con la disciplina

dell'attività amministrativa, imponga alla scienza del diritto amministrativo odierna la conoscenza e

l'utilizzazione di nozioni extragiuridiche necessarie per la comprensione della realtà oggetto di analisi. Le

nozioni appartenenti a discipline non giuridiche, la cui utilizzazione imposta dalla necessità di descrivere e

penetrare la realtà, in vista della quale il diritto è posto e sulla quale viene a sua volta ad incidere, non vanno

confuse, a pena di gravi mutamenti della ricerca, con il diritto amministrativo. D'altra parte la PA è oggetto

di studi da parte di cultori di discipline non giuridiche. Tra le scienze extra giuridiche che vantano

collegamenti con il diritto amministrativo, la scienza dell'amministrazione ha assunto una posizione di

rilievo.

La scienza del diritto amministrativo deve confrontarsi con alcuni dati che vanno messi in evidenza. In primo

luogo non esiste soltanto il potere statale, ma sussistono anche altri poteri, essi devono però sempre

rapportarsi all'ordinamento generale e quindi il loro studio giuridico permane nell'ambito del diritto di un

medesimo ordinamento generale. In secondo luogo il diritto amministrativo è sempre più spesso diritto

prodotto dalle fonti comunitarie. In terzo luogo le aree di privilegio dello Stato stanno progressivamente

restringendosi e risultano occupate dal diritto comune, secondo un processo che tende ad avvicinare gli

ordinamenti continentali a quello anglosassone, ma che non è assolutamente univoco, nel senso che dalla

matrice del diritto comune talora scaturisce una disciplina impregnata dei tipici elementi pubblicistici.

L'autoritarietà non pare però destinata a soccombere e dunque il diritto speciale in questo senso dovrà pur

sempre permanere.

5. L’amministrazione europea e il diritto amministrativo dell’Unione europea

Le organizzazioni internazionali sono dotate di una propria struttura amministrativa e spesso intrattengono

relazioni con gli stati e con le amministrazioni nazionali, relazioni che possono essere rilevanti per lo studio

dei compiti delle amministrazioni nazionali stesse. Grande importanza riveste , sotto il profilo del diritto

amministrativo, l’Unione europea. La riflessione sui rapporti tra amministrazione e diritto dell’Unione

europea impone l’esame di quel settore della disciplina dell’attività amministrativa posta dalle fonti

comunitarie, in particolare da direttive e regolamenti. Il moltiplicarsi di questa normativa offre sempre più

esempi di condizionamento dell’azione amministrativa ad opera di fonti dell’Unione europea, che incidono

soprattutto nel settore economico. Si può usare il termine ‘diritto amministrativo dell’Unione europea’.

Esso esprime il fenomeno dell’integrazione tra ordinamento dell’Unione europea e ordinamenti nazionali,

garantito dal principio dalla prevalenza del diritto dell’Unione europea. Nei casi di regolamenti, nonché di

norme del Trattato e di direttive c.d. self executing, che esplicano effetti immediati nell’ambito degli stati, il

diritto si applica direttamente alle amministrazioni nazionali, senza interposizioni normative ulteriori.

In altri termini, questa disciplina, pur di derivazione comunitaria per la fonte che la pone in essere, diviene

parametro di legittimità e quindi ‘diritto amministrativo’.

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La disciplina europea ha introdotto un nuovo modello di potere pubblico(le autorità indipendenti), una nuova

funzione(quella regolativa dei mercati) e ha accentuato la rilevanza del mercato e della tutela dei

consumatori. A Nizza è stata proclamata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che

riafferma diritti già riconosciuti dalla giurisprudenza comunitaria. Il 18 giugno 2004 a Bruxelles è stato

approvato il testo finale della Costituzione europea, anche se il processo di ratifica degli stati ha subito un

brusco arresto a seguito del rifiuto espresso nel giugno 2005 da Francia e Olanda. Quindi successivamente si

è deciso di adottare il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009 che ha modificato sia il

Trattato sull’Unione, sia il Trattato che istituisce la comunità europea. Il trattato disegna l’unione come un

ordinamento unitario e facendo riferimento a quanto detto finora, da un punto di vista interno, un’influenza

crescente, con riferimento ad alcuni settori del diritto amministrativo è destinata a produrre la Convenzione

europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La corte costituzionale si

è pronunciata sulla posizione della CEDU nel nostro ordinamento, riconoscendo alle disposizioni della stessa

un valore di "norme interposte". Tuttavia nel 2011 in risposta ai tentativi del 2007 di operare una

comunitarizzazione della CEDU, la corte costituzionale ha ribadito che anche dopo il trattato di Lisbona

quest'ultima svolge un ruolo solo strumentale all'individuazione dei principi generali stabiliti dal diritto

dell'unione e non diviene direttamente operante negli ordinamenti nazionali degli Stati membri.

Il diritto amministrativo comunitario in senso proprio è soltanto quello avente ad oggetto

l'amministrazione comunitaria. Esso, derivando anche dall'elaborazione e dalla sintesi del diritto dei paesi

membri, può trasformarsi in uno strumento di circolazione di modelli giuridici.

Per amministrazione comunitaria si intende l'insieme degli organismi e delle istituzioni dell'Unione

Europea cui è affidato il compito di svolgere attività sostanzialmente amministrativa e di appena emanare atti

amministrativi. Il moltiplicarsi dei compiti dell'Unione Europea impone lo sviluppo dei raccordi tra

istituzioni europee e amministrazioni nazionali e induce quindi ad una modifica delle competenze di questi

ultimi e delle loro organizzazioni. Nell'ambito del diritto dell'unione europea di estremo rilievo è il principio

di sussidiarietà, che presenta due facce, una garantista, a favore del decentramento e dei poteri locali e l'altra

viceversa, può agevolare processi di decentramento a favore del livello di governo superiore, consentendo a

quest'ultimo di agire anche aldilà delle competenze ad esso attribuite formalmente. Costituisce un vera e

propria regola di riparto delle competenze tra Stati Membri e Unione nei settori di competenza non esclusiva

dell'Unione.

La presenza dell’amministrazione dell’Unione determina un mutamento del ruolo delle amministrazioni

nazionali, le quali sono spesso chiamate a svolgere compiti esecutivi delle decisioni adottate

dall’amministrazione comunitaria; in altre ipotesi il ruolo delle amministrazioni italiane è istruttorio o

preparatorio nell’ambito di procedimenti che si svolgono in una fase nazionale e in quella comunitaria.

Ciò determina una complicazione del procedimento amministrativo, nel senso che si assiste alla

partecipazione ad esso sia delle amministrazioni italiane, sia di quella comunitaria, che emana l’atto finale

destinato ad avere effetti per i cittadini; situazione che crea dubbi e incertezze in ordine al giudice a cui deve

rivolgersi il privato che si ritenga leso nell’azione procedimentale. Il fenomeno in esame pare rievocare

l’immagine dell’amministrazione nazionale come potere esecutivo, piuttosto che soggetto chiamato ad

operare scelte in vista di poteri pubblici; l’analisi dei rapporti tra amministrazione nazionale e

amministrazione dell’Unione consente di individuare ulteriori problemi: cosa si intenda per esecuzione del

diritto dell’Unione europea, indicare poi quali atti devono essere eseguiti dall’amministrazione comunitaria e

individuare inoltre quale organo sia titolare della funzione esecutiva comunitaria.

In primis l’attuazione riguarda sia gli atti comunitari puntuali e concreti, sia gli atti normativi. L’esecuzione

di molte decisioni spetta alle amministrazioni nazionali, sicché manca una funzione esecutiva-attuativa

comunitaria. Anche l’attuazione di regolamenti e direttive spetta agli stati membri che agiscono adottando

atti legislativi e amministrativi. Importante è distinguere tra esecuzione in via diretta ed esecuzione in via

indiretta, che avviene cioè avvalendosi della collaborazione degli stati membri. La prima, invece, si

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caratterizza per le funzioni svolte direttamente dall’Unione, il che determina un conseguente aumento delle

dimensioni organizzative dell’apparato amministrativo che a essa fa capo; la Commissione si avvale quindi

di apparati esecutivi, uffici, comitati creati e sviluppati mediante decisioni ad hoc.

Difficile è spiegare cosa si intenda per amministrazione dell’Unione, poiché l’individuazione di un potere

esecutivo si scontra con la difficoltà di separare nettamente i compiti del Consiglio da quelli della

Commissione. Tuttavia in linea di massima si può affermare che la soluzione esecutiva è esercitata dalla

Commissione, essendo distribuite le funzioni normative e amministrative tra Consiglio e Commissione.

Anche il diritto sovranazionale gioca un crescente ruolo all’interno del nostro contesto giuridico.

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11

CAP. II

ORDINAMENTO GIURIDICO E AMMINISTRAZIONE:

LA DISCIPLINA COSTITUZIONALE

1. Diritto amministrativo e nozione di ordinamento giuridico.

Con il termine ordinamento giuridico generale si indica l’assetto giuridico e l’insieme delle norme

giuridiche che si riferiscono ad un particolare gruppo sociale.

Ai fini dello studio del diritto amministrativo, quel che interessa è la concezione istituzionale del

diritto la quale pone l’equivalenza tra ordinamento giuridico e istituzione intesa come ente o corpo

sociale(Santi Romano) e concepisce il diritto non già come semplice norma o complesso di norme

ma come organizzazione di un ente sociale. Tale teoria appare applicabile a un diritto ,come quello

amministrativo, disomogenero e caratterizzato da principi non scritti, sancendo inoltre la negazione

della statualità del diritto Compito essenziale dell’ordinamento generale è quello di fornire soluzioni ai conflitti di interesse che

possano sorgere tra gli stessi , riconoscendo o attribuendo loro possibilità di azione. Pertanto

l’amministrazione non è altro che uno dei tanti soggetti dell’ordinamento. A loro volta ,alcuni tra i soggetti

giuridici già riconosciuti possono dar vita ad ordinamenti guridici derivati, con una propria normazione non

necessariamente riconosciuta dall'ordinamento generale. (Es università, accademie, governi locali, sindacati.)

2. L’amministrazione nella Costituzione: il rapporto tra politica e amministrazione

La Costituzione si occupa dell’amministrazione nella sez. II del titolo III della parte seconda, nella sez. I

art. 95 e ss. , negli artt. 5, 28, 52 e 114 . Di rilievo sono poi gli articoli che interessano la materia dei pubblici

servizi( 32, 33, 38, 41 ecc), la responsabilità(art. 28) e le altre disposizioni comunque applicabili

all’amministrazione.

Dal quadro costituzionale emergono diversi modelli di amministrazione, nessuno dei quali può essere

considerato principale :

art 98 ai sensi del quale la p.a. pare in primo luogo direttamente legata alla collettività nazionale, al cui

servizio i suoi impiegati sono posti,

1) l’art. 5 che caratterizza il modello del decentramento amministrativo e la promozione delle

autonomie locali, capaci di esprimere un proprio indirizzo politico-amministrativo.

2) l’art. 97 che contiene una riserva di legge e mira a sottrarre l’amministrazione, regolata dalla legge,

al controllo politico del governo, rendendola indipendente e che si legittima per la sua imparzialità ed

efficienza. Tale articolo pone dei limiti anche al legislatore il quale può incidere sull’amministrazione

soltanto dettando regole per la disciplina della sua organizzazione.

3) Autonomie funzionali

Ai sensi dell’art. 95 il Governo, assieme al Parlamento, esprime un indirizzo, qualificato come politico-

amministrativo (politico: complesso di manifestazioni di volontà in funzione del conseguimento di un fine

unico , amministrativo : prefissione di obiettivi dell'azione amministrativa).

L’ordinamento fa anche riferimento all’indirizzo politico- amministrativo svolto dagli organi di governo

delle varie amministrazioni, caratterizzato dalla “ definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e

direttive generali per l’azione amministrativa e per la gestione''.

L’art. 2 , c. 1 l. 400/88 attribuisce al Consiglio dei ministri il compito di determinare , in attuazione della

politica generale del governo, l’indirizzo generale dell’azione amministrativa, mentre il d.lgs. 165/01

attribuisce agli organi di governo l’indirizzo politico-amministrativo.

Il momento amministrativo non è dunque totalmente estraneo dal governo, punto d'incontro tradizionale è il

ministro, organo politico e amministrativo.

3. La separazione tra indirizzo politico e attività di gestione.

E’ l’ordinamento stesso che introduce una tendenziale distinzione tra politica e amministrazione, soprattutto

in occasione della disciplina dell’organizzazione del lavoro presso le pubbliche amministrazioni, (d.lgs.

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165/01), disciplina che mira a delimitare le attribuzioni della componente politica

dell’amministrazione(organi di governo cui spetta determinare l’indirizzo politico-amministrativo) rispetto

alla componente burocratica, in particolare del vertice dirigenziale, che agisce in modo imparziale ed

efficiente, attuando concretamente gli obiettivi prefissati.

Infatti gli organi politici possono controllare e indirizzare il livello più alto dell’amministrazione, la

dirigenza, soltanto utilizzando gli strumenti di cui la d.lgs. 165/01, quali prefissione degli obiettivi e verifica

dei risultati.

Tuttavia la legge configura in alcuni casi, es. l. 145/02 la sussistenza di uno stretto vincolo fiduciario tra

organo politico e vertice dirigenziale, tale che ad es. alcuni incarichi dirigenziali cessano decorsi 90 giorni

dal voto sulla fiducia del nuovo esecutivo(c.d. spoil system) e in tali ipotesi la separatezza tra politica e

amministrazione risulta attenuata. Il sistema degli spoils system venne dichiarato incostituzionale perchè in

contrasto con gli art 97-98 cost. Secondo la corte questo sistema trasformava illegittimamente una

“dipendenza funzionale del dirigente” in mera “dipendenza politica”. Oggi prima della revoca dell'incarico al

vecchio dirigente è necessaria una preventiva fase di verifica. In questo senso prevalgono i principi di

imparzialità della p.a e buon andamento.

Specifico riflesso del problematico rapporto che corre tra politica, amministrazione e diritto amministrativo

è costituito dalla questione della distinzione tra atti politici e atti amministrativi, essendo solamente i primi

sottratti al sindacato del giudice amministrativo, ponendosi al di fuori dell’area del principio di legalità. Tali

atti, infatti, anche quando emanati dal governo, data la loro altissima discrezionalità e il carattere libero del

loro fine, non ledono diritti soggettivi o interessi legittimi, uniche situazioni alle quali l’ord. giur. riconosce

una tutela giurisdizionale. es. di atti politici: gli atti di iniziativa legislativa del governo.

Diversi sono gli atti di alta amministrazione, caratterizzati da una amplissima discrezionalità, e considerati

l’anello di collegamento tra indirizzo politico e attività amministrativa in senso stretto, soggetti alla legge e al

sindacato giurisdizionale.

4. I principi costituzionali della pubblica amministrazione : la responsabilità

Il principio di responsabilità è enunciato dall’art. 28 Cost. a tenore del quale: “ I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici

sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali,civili e amministrative, degli atti compiuti in

violazione di diritti. In alcuni casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.

Il principio di legalità

esprime l’esigenza che l’amministrazione sia soggetta alla legge e si applica a qualsivoglia potere pubblico,

in quanto la legge, espressione della volontà generale, si pone alla base di tutte le manifestazioni pubbliche

dell’ordinamento.

Nel nostro ordinamento giuridico convivono più concezioni di tale principio :

a) può essere considerato nei termini di non contraddittorietà dell’atto amministrativo rispetto alla legge.(

preferenza della legge) Es. i regolamenti amministrativi non possono contenere norme contrarie alle

disposizioni di legge.

b) Il principio di legalità formale esprime l’esigenza che l’azione amministrativa abbia uno specifico

fondamento legislativo, impostando il rapporto tra legge e amministrazione nel senso di vietare a

quest’ultima di contraddire la legge ma anche di dover agire nelle ipotesi ed entro i limiti fissati dalla legge

che attribuisce il potere. In questa accezione suscita diversi dubbi il riconoscimento di poteri impliciti in capo

all'amministrazione. Si applica ad alcuni atti normativi, quali regolamenti ministeriali.

c) Per quanto riguarda i provvedimenti amministrativi questi devono rispettare altresì il principio di legalità

sostanziale, inteso nel senso che l’amministrazione deve necessariamente agire non solo entro i limiti di

legge ma anche in conformità della disciplina sostanziale posta dalla legge stessa, la quale incide anche sulle

modalità di esercizio dell’azione. Questa concezione si ricava dalle ipotesi in cui la Costituzione prevede una

riserva di legge, che riguarda il rapporto tra Cost., legge e amministrazione, imponendo la disciplina

legislativa di una data materia e delimitando l’esercizio del potere normativo spettante all’esecutivo.

Il principio di legalità attiene al rapporto tra legge ed attività complessiva della p.a. anche quella non

normativa: il mancato rispetto del principio in questione determina l’illegittimità dell’azione amministrativa.

Il principio di legalità in senso sostanziale ripropone la difficoltà di contemperare due esigenze diverse: da un

lato, quella di garantire e di tutelare i privati, che richiede una disciplina legislativa che penetri all’interno

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della sfera del potere amministrativo, dall’altro quella di lasciare spazi adeguati d’azione

all’amministrazione.

In ragione del fatto che il potere si concretizza nel provvedimento si comprende perché il principio di legalità

si risolva in quello di tipicità dei provvedimenti amministrativi: se l’amministrazione può esercitare i soli

poteri autoritativi attribuiti dalla legge, essa può emanare soltanto i provvedimenti stabiliti in modo tassativo

dalla legge stessa.

Il principio di legalità è richiamato dall’art. 1 , l. 241/90 ai sensi del quale l’attività amministrativa persegue

i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficienza, di pubblicità e di trasparenza

secondo le modalità previste dalla l. 241/90, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario. Il c. 3

chiarisce che il rispetto di tali principi va assicurato anche dai soggetti privati preposti all’esercizio

dell’attività amministrativa.

Per quanto riguarda gli atti di natura non autoritativa , la legge stabilisce che l'amministrazione agisce

secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge non disponga diversamente. L'art 21-octies l

241/1990 evidenzia che il mancato rispetto di alcune regole dell'agire amministrativo può divenire irrilevante

sotto il profilo dell'annullabilità dell'atto.

Nei rapporti tra legge e attività amministrativa, occorre altresì richiamare il principio del giusto

procedimento, elaborato dalla Corte Cost. ed avente la dignità di principio generale dell’ordinamento,

mettendo i privati in condizione di esporre le proprie ragioni sia a tutela del proprio interesse,sia a titolo di

collaborazione nell'interesse pubblico.

Il principio di imparzialità

L’art. 97 pone espressamente due principi relativi all’amministrazione: il principio di imparzialità e di buon

andamento, che la norma sembra riferire all’organizzazione amministrativa.

Dottrina e giurisprudenza hanno affermato la natura precettiva e non semplicemente programmatica della

norma costituzionale, la quale pone una riserva di legge. Pertanto dottrina e giurisprudenza hanno affermato

l’applicabilità diretta dei due principi in esame all’organizzazione come all’attività amministrativa.

Il concetto di imparzialità, in negativo, esprime il dovere dell’amministrazione di non discriminare la

posizione dei soggetti coinvolti dalla sua azione nel perseguimento degli interessi affidati alla sua cura. Il

principio postula un comportamento attivo volto alla realizzazione di un assetto imparziale dei rapporti.

L’imparzialità impone innanzitutto che l’amministrazione sia strutturata in modo da assicurare una

condizione oggettiva di aparzialità.

Applicazioni di tale principio, che si rivolge sia al legislatore che all’amministrazione( riserva di

organizzazione), sono la posizione dei pubblici impiegati , i quali sono al servizio esclusivo della nazione

(art. 98), l’obbligo di astensione sussistente in capo ai titolari dei pubblici uffici allorché debbano decidere

questioni alle quali essi siano interessati.

Strettamente connesso all'imparzialità è il principio delle predeterminazione dei criteri e delle modalità cui

le amministrazioni si debbono attenere nelle scelte successive, che consente di verificare la rispondenza delle

scelte concrete ai criteri che l'amministrazione ha prefissato (''autolimite''). Il principio pare in via primaria

rivolto ad assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa.Ma non sempre l'azione dell'amministrazione

è tale da consentire un confronto con altre situazioni analoghe, in tali ipotesi il principio di imparzialità

postula qualcosa di differente: esso attiene alla decisione in sé considerata piuttosto che all'attività

complessiva dell'amministrazione e può tradursi in una serie di regole specifiche dell'azione la cui

ottemperanza garantisce un'attività imparziale sul piano sostanziale quando vi sia spazio per l'adozione di

una scelta.

Concludendo si ribadisce che, proprio perché l’amministrazione è parte, e dunque agisce in vista di un

interesse in grado di prelevare, quello pubblico, occorre che la sua attività sia sottoposta ad un principio,

quello di imparzialità, il quale garantisca che il suo agire come parte risulti da un lato sottratto alle deviazioni

indebite, dall’altro ragionevole.

Il principio del buon andamento

Enunciato dall’art. 97 Cost., impone che l’amministrazione agisca nel modo più adeguato e conveniente

possibile.

Applicazioni di tale principio si rinvengono nella disciplina del lavoro presso le p.a. in tema di razionale

distribuzione del personale nelle carriere e della corrispondenza tra livello retributivo e qualifica esercitata;

Page 14: Dispensa Di Amministrativo - 1

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nell’ambito del procedimento amministrativo va richiamato il criterio di non aggravamento di esso se non

per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo sviluppo dell’istruttoria.

Il principio va riferito alla p.a. nel suo complesso, non al funzionario ma all’ente.

I criteri di efficacia, economicità, efficienza, pubblicità e trasparenza. La lotta alla corruzione e

all'illegalità.

Accanto ai principi tradizionali di buon andamento e di imparzialità, l’amministrazione deve oggi attenersi

anche ai criteri di economicità, efficacia, efficienza, pubblicità e trasparenza.

Molti di essi sono contemplati dall’art. 1 della l. 241/90 secondo cui “l’attività amministrativa persegue i

fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficienza, di pubblicità e di trasparenza

secondo le modalità previste dalla presente legge e da altre disposizioni che disciplinano i singoli

procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”. Si noti che anche i principi comunitari

reggono l’attività amministrativa.

Essi costituiscono la traduzione di principi costituzionali, diventando veri e propri parametri giuridici

dell’attività e dell’organizzazione amministrativa.

Il criterio di efficienza indica il rapporto tra i risultati ottenuti e le risorse impiegate, e al fine di conseguire

maggiore efficienza le amministrazioni incentivano l’uso della telematica nei rapporti interni e in quelli con i

privati.

Il criterio di efficacia indica il rapporto tra risultati ottenuti e obiettivi prefissati. Secondo il d.lgs. 150/2009

l'efficacia si valuta attraverso la determinazione di standards e obiettivi, e da qui la misurazione e valutazione

della performance. Il criterio di efficienza, di efficacia e, più in generale, la nozione stessa di buon

andamento, sembrano destinati a essere rispettivamente valorizzati e rivisitati alla luce del principio

costituzionale di equilibrio di bilancio: esso, infatti, imponendo di tener conto dell'interesse prioritario al

rispetto di un equilibrio economico complessivo, vincola le amministrazioni ad usare nel modo più efficiente

le risorse disponibili per conseguire con efficacia gli obbiettivi pubblici e offre un parametro di riferimento

ulteriore al concetto di buon andamento.

I criteri di pubblicità e trasparenza possono essere riferiti sia all’attività che all’organizzazione, e

costituiscono applicazione del principio di imparzialità. I due concetti appaiono simili. La trasparenza

concerne solo quei dati espressamente indicati dal legislatore, mentre la pubblicità si riferisce a tutto lo

spettro dell'amministrazione e ell'organizzazione amministrativa.

Ad essi vanno ricondotti molteplici istituti, tra cui il diritto d’accesso, la pubblicità degli atti, l’obbligo di

motivazione dei provvedimenti amministrativi, l’istituto degli uffici di relazione con il pubblico, la figura del

responsabile del procedimento.

La legislazione valorizza gli strumenti digitali per la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione , la

conservazione delle informazioni.Ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. 82/05, infatti, le p.a., nell’organizzare

autonomamente la propria attività, utilizzano le tecnologie dell’informazione e della comunicazione per la

realizzazione degli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, semplificazione e

partecipazione.

Una tematica trasversale che intercetta legalità , trasparenza e responsabilità è quella della strategia volta a

contastare il fenomeno della corruzione nelle amministrazioni. Si tratta di misure molto diverse tra loro

delineate nella l.190/2012 , in attuazione all'art 6 della Convenzione dell' ONU. Tale disciplina parte dal

pressuposto che la corruzione dilaga dove non c'è trasparenza e etica nei comportamenti i dipendenti e

dirigenti e può essere contrastata con misure che incrementino questi due valori mediante :

1) azioni amministrative

2) strumenti repressivi, di controllo

3) insime di obblighi e divieti

in particolare :

a) art 54 bis dlgs 165/2001 dispone che fuori dai casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione ,il

pubblico dipendente che denuncia non può essere sanzionato , licenziato o sottoposto ad una misura

discriminatoria , aventi effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati alla denuncia.

b) disciplina sul conflitto d'interessi ; il responsabile del procedimento e i titolari ddi uffici competenti ad

adottare pareri , devono astenersi in caso di conflitto d'interessi , segnalando ogni situazione di conflitto

anche potenziale.

c)disciplina arbitrati ; ai magistrati è vietata ,pena la decadenza dagli incarichi e la nullità degli atti compiuti ,

la partecipazione a collegi arbitrali o l'assunzione di incarico di arbitro unico. L 'amministrazione stabilisce

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inoltre l'importo massimo spettante al dirigente pubblico per l'attività arbitrale.

d) i dipendenti che ,negli ultimi 3 anni di servizio, hanno esercitato poteri auoritativi o negoziali er conto

della p.a., non possono svolgere, nei 3 anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego,

attività lavorativa presso i soggetti privati destinatari dell'attività della p.a. Svolta attraverso i medesimi

poteri. ( contratti nulli)

e)le amministrazioni pubbliche comunicano tutti i dati utili a rilevare le posizioni dirigenziali attribuite a

persone individuate dell'organo di indirizzo politico

f) divieto per coloro che sono stati condannati , anche con sentenza non passata in giudicato , per delitti

contro la pa di fare parte di commissioni per l'accesso o la selezione a pubblici impieghi.

g) nei contratti pubblici è prevista l'istituzione di una white list ,contenente l'elenco dei fornitori, prestatori di

servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa.

Quanto ai soggetti:

1. dipartimento della funzione pubblica, che coordina l'attuazione delle strategie di prevenzione e

contrasto della corruzione .

2. Autorità nazionale anticorruzione organo collegiale composto da tre componenti, nominati con

decreto dal Presidente della Repubblica , previa delibera del consiglio dei ministri e parere favorevole delle

commissioni parlamentari competenti espresso a maggioranza dei due terzi dei componenti . Svolge diversi

compiti tra i quali l'approvazione del piano nazionale anticorruzione.

3. Pubbliche amministrazioni trasmettono e definiscono al dipartimento della funzione pubblica ; un

piano di prevenzione della corruzione , procedure appropriate per selezionare e formare i dipendenti chiamati

ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione.

4. L'organo di indirizzo politico adotta il piano triennale di prevenzione alla corruzione ,su proposta

del responsabile della prevenzione alla corruzione.

5. Responsabile della prevenzione alla corruzione è individuato dall'organo di indirizzo politico tra i

dirigenti amministrativi di ruolo di prima fascia di servizio. ( responsabilità dirigenziale e disciplinare )

Un importante norma di riferimento in tema di lotta alla corruzione è il dlgs 33/2013 che al fine di garantire

la trasparenza ,delinea diversi istituti tra i quali :

• obblighi di pubblicazione di dati . Si tratta di una lunga elencazione , la cui pubblicazione deve

avvenire nel sito istituzionale e mantenuta per un periodo di 5 anni dal 1 gennaio dell'anno successivo a

quello da cui decorre l'obbligo di pubblicazione e comunque finche produce effetti. Deve essere garantita

anche la qualità dei dati

• l'accesso civico : diritto attivabile dal cittadino ad ottenere dati e informazioni, indipendentemente

dal fatto che sussista un particolare interesse qualificato.

Per quanto concerne le sanzioni l'eventuale violazione comporta responsabilità per danno all'immagine e

responsabilità dirigenziale . È evidente che tutta questa disciplina improntata sulla trasparenza entra in

contrasto con la riservatezza, per cui sono previste due regole generali. Innanzitutto le pubbliche

amministrazioni provvedono a rendere non intellegibili i dati sensibili e giudiziari la cui conoscenza non

risulti indispensabile alla finalità della trasparenza. In secondo luogo le pubbliche amministrazioni

provvedono a rendere intellegibili i dati personali non pertinenti. Resatno fermi i limiti circa la diffusione di

dati relativi allo stato di salute e alla vita sessuale.

I principio di azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini nei confronti della p.a.

L’art. 24, 1 c. stabilisce che “ tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi

legittimi”, mentre l‘art. 113 cost. dispone che “ contro gli atti della p.a. è sempre ammessa la tutela

giurisdizionale dei dei diritti e degli interessi legittimi dinnanzi agli di giurisdizione ordinaria o

amministrativa”.

Tale disciplina esprime l’esigenza che ogni atto della p.a. possa essere oggetto di sindacato da parte di un

giudice e che tale sindacato attenga a qualsiasi tipo di vizio di legittimità: si tratta del principio di

azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini nei confronti dell’amministrazione e del principio di

sindacabilità degli atti amministrativi. La norma non impedisce l’emanazione delle c.d. leggi provvedimento,

leggi che hanno contenuto puntuale e concreto alla stessa stregua dei provvedimenti amministrativi, contro le

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quali il cittadino non può ottenere una tutela giurisdizionale delle proprie situazioni giuridiche davanti il

G.A. o il G.O., potendo la legge provvedimento essere sindacata soltanto dalla Corte Costituzionale, alla

quale non è possibile proporre direttamente ricorso da parte dei soggetti privati.

A questo proposito emerge il problema della riserva di amministrazione: ci si deve chiedere cioè se esista un

ambito di attività riservato esclusivamente alla p.a, ma l'idea di una riserva di funzione amministrativa nei

confronti del legislativo sembra stridere con tutta una serie di principi, tra cui quello di preferenza della

legge.

Una legge che disponesse in modo puntuale e concreto una situazione caraterizzata dalla presenza di più

interessi di cui occorre effettuare una valutazione e ponderazione, violerebbe il principio di imparzialità cui il

legislatore è vincolato in tema di attività amministrativa.

Dall'art 97 si evince anche che la legge debba astenersi dall'intervenire in concreto nelle scelte, perchè

sottrarrebbe il momento della ponderazione degli interessi, tipica della p.a.

Principio dell'equilibrio di bilancio

In linea di principio la disciplina costituzionale impedisce di finanziare la spesa pubblica attraverso

l'indebitamento. Si tratta di una disciplina influenzata dalla crisi economica e dagli impegni assunti in sede

europea.

Ex art 81 cost il legislatore nelle sue scelte deve perseguire un equilibrio tra le entrate e le uscite di bilancio,

da qui si evince che è richiesto un semplice “equilibrio” non un “pareggio”. Sempre l'art 81 al comma

secondo consente il ricorso all'indebitamento in due sole situazioni: per considerare gli effetti del ciclo

economico e al verificarsi di eventi eccezionali, previa autorizzazione a maggioranza assoluta, dei

componenti delle camere (riserva assoluta di legge rinforzata).

Il dovere di assicurare l'equilibrio e la sostenibilità del debito complessivo è esteso al complesso delle

pubbliche amministrazioni. (sostenibilità del debito=entità avanzi > debito+interessi)

Secondo l'articolo 119 cost gli enti locali hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto

dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari

derivanti dall'ordinamento dell'unione europea.

5. Il principio della finalizzazione dell’amministrazione pubblica agli interessi pubblici.

Dall’esame dell’art. 97 Cost. emerge il principio di finalizzazione dell’amministrazione pubblica: il buon

andamento significa congruità dell’azione in relazione all’interesse pubblico; l’imparzialità, direttamente

applicabile all’attività amministrativa, postula l’esistenza di un soggetto “parte” il quale è tale in quanto

persegue finalità collettive che l’ordinamento generale ha attribuito alla sua cura.

I principi ora richiamati devono significativamente essere rispettati anche dal legislatore allorché ponga in

essere una disciplina dell’amministrazione.

Il principio è anche applicabile all’attività di diritto privato dell’amministrazione e all’organizzazione. La

circostanza che il soggetto pubblico disponga degli strumenti privatistici non contrasta infatti con il principio

di finalizzazione dell’amministrazione nel suo complesso.

Ciò che rileva ai fini del principio di finalizzazione è che l’attività complessiva dell’amministrazione è

comunque orientata al perseguimento di interessi pubblici.

6. I principi di sussidiarietà , differenziazione ed adeguatezza.

Un ulteriore principio dell’ordinamento dettato con riferimento all’allocazione delle funzioni amministrative

è il principio di sussidiarietà, nel senso di attribuzione di funzioni al livello superiore di governo esercitabili

soltanto nell’ipotesi in cui il livello inferiore non riesca a curare gli interessi ad essi affidati.

Esso è stato dapprima previsto a livello comunitario in relazione ai rapporti Unione – Stati membri(ex art. 5

Trattato C.E.). Correlato a tale principio è quello espresso dall’art. 5 Cost. in materia di decentramento

amministrativo, termine con il quale si indica la dislocazione dei poteri tra soggetti e organi diversi e assurge

a regola fondamentale dell’organizzazione amministrativa.

Il decentramento è un fenomeno organizzativo che può assumere forme diverse:

- burocratico che comporta soltanto il trasferimento di competenze da organi centrali a organi

periferici di uno stesso ente. Implicherebbe la responsabilità esclusiva degli organi locali nelle materie di

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propria competenza e l'assenza di un rapporto di rigida subordinazione con il centro. In realtà nel nostro

ordinamento gli organi locali dello stato continuano ad essere legati a quelli centrali da rapporti di

subordinazione. Nb (la presenza di organi statali locali realizza un deconcetrazione nell’ambito di

un'amministrazione statale che resta accentrata).

- autarchico che comporta l’affidamento, ad enti diversi dallo Stato, del compito di soddisfare la cura

di alcuni bisogni pubblici. Quest’ultimo può essere previsto a favore degli enti locali, consentendo così che

la cura di interessi locali sia affidata a enti esponenziali di collettività locali, ovvero a favore di altri enti (

c.d. decentramento istituzionale).

In particolare la l. 59/97, art. 1, c. 2 ha attribuito al Governo la delega per conferire agli enti locali e alle

regioni tutte le funzioni e i compiti amministrativi “ relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello

sviluppo delle rispettive comunità…..”, specificando che con il termine “conferimento” si intendono più

fenomeni quali il trasferimento, la delega e l’attribuzione di funzione e compiti. La delega è stata esercitata

con il d.lgs. 112/98: a seguito di questo processo di conferimento di compiti e funzioni a regioni ed enti

locali, oggi l’amministrazione italiana si configura dunque essenzialmente come regionale e locale. In

concomitanza con siffatto processo il legislatore ha iniziato a richiamare il principio di sussidiarietà, il quale

è annoverato dall’art. 4 , l. 59/97 tra i principi e criteri direttivi cui deve attenersi la regione nel conferimento

a province, comuni ed enti locali delle funzioni che non richiedano l’unitario esercizio a livello regionale.

L’art. 3 co. 5 T.U.E.L. prevede, inoltre, che comuni e province sono “ titolari di funzioni proprie e di quelle

conferite loro con legge dello Stato e della regione, secondo il principio di sussidiarietà”. Quest’ultimo può

essere inteso sia in senso verticale (relativamente cioè alla distribuzione delle competenze tra centro e

periferia) ma anche orizzontale (nei rapporti tra poteri pubblici e organizzazioni della società). Il cittadino,

da mero amministrato, viene considerato, oggi, come promotore della vita politica-amministrativa.

L’evoluzione ora richiamata si inquadrava in un contesto costituzionale incentrato sulla centralità dello Stato

al quale era attribuita una competenza legislativa residuale, mentre,in virtù del principio del parallelismo,le

regioni disponevano di competenze amministrative nelle medesime materie oggetto di potestà legislativa.

L’applicazione dell’art. 5 cost., in chiave di valorizzazione del principio di sussidiarietà, si scontrava con la

disciplina del titolo V, parte II, della Cost. Ciò spiega la ragione per cui con la l. cost. 3/01 il titolo sia stato

incisivamente modificato, invertendo il precedente criterio stabilito per l’individuazione degli ambiti di

competenza legislativa tra lo Stato e la regione.

E’ stato così costituzionalizzato il principio di sussidiarietà, declinato sia in senso orizzontale che verticale.

L’art. 118 Cost. stabilisce infatti al 1 comma che “ le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni,

salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e

Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà , differenziazione e adeguatezza”. Il c.3 precisa '' Stato,regioni,

città metropolitane, province e comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per

lo svolgimento di attività d'interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà''. (es volontariato)

Il principio di sussidiarietà è richiamato inoltre dall'art 120 u.c. Cost e dalla legge 131/03.

7 . I principi costituzionali applicabili alla p.a. : l’eguaglianza, la solidarietà e la democrazia.

Alla p.a., come agli altri soggetti pubblici, si applicano il principio di eguaglianza (art. 3) e di solidarietà

(art 2) e il principio democratico ( art 1 e 52 )

Democratica (governo della maggioranza nel rispetto dei diritti delle minoranze) deve essere anche l’azione

amministrativa, che deve concorrere alla realizzazione di una società più democratica, rimuovendo gli

ostacoli che impediscono la piena eguaglianza dei cittadini.

8. L'amministrazione nella Costituzione come << potere dello Stato>>.

Il principio della separazione dei poteri teorizzato da Montesquieu, non trova più applicazione per diverse

ragioni :

1. sono stati riconosciuti altri poteri accanto a quelli tradizionali

2. mentre la funzione giurisdizionale è solo statale, quella legislativa e amministrativa sono distribuite

anche ad atri soggetti

3. accanto allo stato devono essere riconosciute anche le regioni

Tra i vari poteri pubblici possono sorgere conflitti diversi :

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18

• positivi: due autorità diverse invocano medesima potestà

• negativi: autorità nega di essere titolare di una potestà

• reale: C'è possibilità di pronunce contrastanti tra autorità diverse

• virtuale: possibilità che sorgano conflitti

Possono configurarsi anche:

• conflitti di attribuizione • conflitti di giurisdizione: tra tribunale ordinario e tar

• conflitti di competenza: sorgono tra medesimi organi del medesimo potere (es tra organi stessa

amministrazione)

La Costituzione si occupa solo dei conflitti di attribuizione, affidando alla Corte costituzionale il compito di

risolverli (art 134 Cost)

L'art 134 attribuisce alla Corte costituzionale anche il compito di risolvere i conflitti di attribuizione tra Stato

e regioni e i conflitti tra regioni . Tali conflitti sono orginati dall'invasione da parte di un atto statale , non

avente valore di legge, della sfera di competenza assegnata dalla Costituzione ad una regione, ovvero

dall'invasione da parte di un atto regionale della sfera di attribuizione dello Stato ( generalmente atti

amministrativi ).

Il Presidente del consiglio dei ministri, il Consiglio dei ministri e il ministro di grazia e giustizia sono

competenti a sollevare il conflitto tra poteri.

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CAPITOLO 3: L’organizzazione amministrativa: profili generali

I soggetti di diritto nel diritto amministrativo: gli enti pubblici

I soggetti di diritto pubblico costituiscono nel loro complesso l'amministrazione in senso soggettivo, che si

articola nei vari enti pubblici, possono essere definiti come centri di potere, in quanto titolari di capacità

giuridica e poteri amministrativi.

A causa del passaggio da un modello di stato liberale a un modello di stato sociale è sorta la necessità di

avvalersi anche dell'apporto dei privati, che vengo attratti nell'ambito della sfera pubblica. Il ruolo dello stato

è mutato fino a diventare quello di stato-regolatore, favorendo così la creazione di amministrazioni

indipendenti

Il problema dei caratteri dell'ente pubblico

L'art 97 Cost stabilisce il principio generale secondo cui “i pubblici uffici sono organizzati secondo

disposizioni di legge”, la norma esprime il principio secondo cui spetta all'ordinamento generale individuare

i soggetti che operano al suo interno.

Ma come qualifichiamo un ente come pubblico?

La giurisprudenza e la dottrina hanno individuato una serie di indici “esteriori” per tale scopo, non sufficienti

se presi singolarmente, ma idonei se considerati nel loro complesso. Tra gli indici ricordiamo: 1) la

costituzione dell'ente ad opera di un soggetto pubblico 2) nomina degli organi direttivi in tutto o in parte di

competenza dello stato o di altro ente pubblico 3) l'esistenza di controlli o di finanziamenti pubblici 4)

l'attribuzione dei poteri autoritativi.

La definizione di ente pubblico e le conseguenze della pubblicità

L'ente pubblico è quello che la giurisprudenza ritiene, nei fatti, tale. Gli indici esteriori non sembrano, nel

caso concreto, idonei a consentire l'individuazione dell'elemento essenziale della pubblicità di una persona

giuridica. Tale elemento va ricercato considerando la particolare rilevanza pubblicistica dell'interesse

perseguito dall'ente. L'ente pubblico è quindi istituito con specifica vocazione allo svolgimento di una

peculiare attività di rilevanza collettiva, quindi non può disporre della propria esistenza.

Talora l'ordinamento considera di pubblico interesse la presenza di un soggetto sul mercato, sicché il

pubblico interesse è individuato nel fatto che tale soggetto svolga, piuttosto che attività autoritative, attività

economiche, avvalendosi degli strumenti giuridici degli altri soggetti operanti nel settore: vengono così

istituiti gli enti di pubblico interesse.

L'ente pubblico fa parte della pubblica amministrazione.

La qualificazione di un ente come pubblico è importante perchè comporta conseguenze giuridiche di rilievo.

1) Soltanto gli enti pubblici possono emanare provvedimenti che hanno efficacia sul piano

dell'ordinamento generale. Tutti gli enti pubblici hanno autonomia, intesa come possibilità di

effettuare da sé le proprie scelte. L'autonomia è tradizionalmente riferita alla possibilità di porre in

essere norme generali e astratte che abbiano efficacia sul piano dell'ordinamento generale.

2) Soltanto agli enti pubblici è riconosciuta la potestà di autotutela; l'ordinamento riconosce cioè agli

enti la possibilità di risolvere un conflitto attuale o potenziale di interessi e, in particolare, di

sindacare la validità dei propri dei propri atti producendo effetti incidenti su di essi a prescindere da

una verifica giurisdizionale. L'amministrazione è comunque sempre un soggetto dell'ordinamento,

quindi non potrà, di regola, porsi allo stesso livello di un organo giurisdizionale.

3) Le persone fisiche legate da rapporto di servizio agli enti pubblici sono assoggettate a un particolare

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regime di responsabilità penale, civile e amministrativa.

4) Gli enti pubblici sono tenuti al rispetto dei principi applicabili alla pubblica amministrazione

5) L'attività che costituisce esercizio di poteri amministrativi è di regola retta da norme peculiari.

6) Gli enti pubblici possono utilizzare procedure privilegiate ai fini della riscossione delle entrate

patrimoniali dello stato.

7) Se l'ente è parte di una s.p.a., vi è una particlare disciplina sui relativi poteri.

8) Gli enti pubblici sono soggetti a particolari rapporti o relazioni, la cui intensità varia in ragione

dell'autonomia dell'ente.

Il termine “autogoverno”, sopra citato, non va confuso con il termine “autodichia”. Il secondo è il diritto con

cui certi organi costituzionali possono sottrarsi alla giurisdizione degli organi comuni. L'autogoverno è usato

in dottrina, per indicare le situazioni che ricorrono nelle ipotesi in cui gli organi dello stato siano designati

dalla collettività di riferimento, anziché essere nominati o cooptati da parte di autorità centrali.

Il problema della classificazione degli enti pubblici

La classificazione degli enti ha valore soltanto descrittivo, ciò detto, essi possono essere suddivisi in gruppi.

In funzione della finalità perseguita, si distinguono in dottrina enti con compiti di produzione di beni e

servizi in forma imprenditoriale, enti con compiti di promozione, enti con compiti di erogazione di servizi

pubblici, enti con compiti di disciplina di settori di attività.

In base al tipo di poteri attribuiti, si possono differenziare enti che posseggono potestà normativa dagli enti

che fruiscono di poteri amministrativi e da quelli che fanno uso della sola capacità di diritto privato.

In base alla modalità con cui vengono gestiti gli interessi negli organi dell'ente

a) enti a struttura istituzionale, nei quali la nomina degli amministratori è determinata da soggetti estranei

all'ente

b) enti associativi, nei quali le decisioni fondamentali dell'ente sono prese da soggetti facenti parte del suo

gruppo sociale. In essi si verifica quindi il fenomeno della autoamministrazione.

Sono presenti poi, nel nostro ordinamento, tutta una serie di distinzioni operate dal legislatore.

All'art. 5 cost il legislatore contempla gli enti autonomi, e all'art 100 cost gli enti a cui lo stato contribuisce in

via ordinaria ai fini della sottoposizione al controllo della corte dei conti.

L'art 33 cost riconosce anche alle accademie il diritto di darsi ordinamenti autonomi.

La legge (art. 1, d.lgs. 112/1998) ha introdotto la categoria delle autonomie funzionali, cioè enti ai quali, nel

quadro delle recenti riforme complessive dell'amministrazione, possono essere conferiti funzioni e compiti.

Si tratta di enti ai quali non è riferibile l'autonomia di indirizzo politico e la cui autonomia, anche

organizzativa, è così accentuata da consentire la attribuzione a loro favore di poteri direttamente da parte

dello stato.

Un'altra categoria di enti pubblici ricavabile dal diritto positivo è costituita dagli enti pubblici economici, la

cui disciplina generale è prevista tanto nel c.c. quanto in norme di legge. Importante è la l 70/1975 che in

ordine agli enti statali non economici (parastatali) pone una regolamentazione omogenea attinente al rapporto

di impiego, ai controlli, alla gestione contabile e alla nomina degli amministratori. Quanto agli enti a

struttura associativa, essi sono presi in considerazione dalla legge al fine di sottrarli all'estinzione pura e

semplice, proprio in ragione del fatto che la formazione sociale di cui essi sono esponenti non può cessare di

esistere.

Un'altra categoria di enti sono gli enti territoriali: comuni, province, città metropolitane, regioni e stato.

Questi enti sono comunità territoriali quindi politicamente rappresentativi del gruppo stanziato sul territorio

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in cui operano, e quindi agiscono tendenzialmente nell'interesse di tutto il gruppo. Soltanto gli enti territoriali

possono essere titolari di beni demaniali, posti al servizio dell collettività.

Gli enti pubblici non territoriali, pur esponenziali di gruppi sociali, sono altresì accomunati in ragione del

perseguimento di interessi settoriali; a differenza degli enti territoriali, non perseguono interessi generali e

vengono detti enti monofunzionali.

Relazioni e rapporti intersoggettivi e forme associative

Al fine di indicare la posizione reciproca tra enti la dottrina ha spesso utilizzato concetti quali la

strumentalità e la dipendenza.

Un primo tipo di relazione intersoggettiva è quello sorto dalla entificazione di apparati organizzativi già

propri di un altro ente, ovvero della situazione di strumentalità strutturale e organizzativa di un ente nei

confronti di un altro ente. In questa situazione l'ente secondario rivestirà un ruolo di subordinazione verso

l'ente principale.

Un secondo tipo comprende enti dotati di una posizione di maggior autonomia, sono enti che svolgono

un'attività che si presenta come rilevante per un altro ente pubblico territoriale. Il maggior grado di

autonomia è spesso determinato dalla loro preesistenza rispetto al riconoscimento come enti pubblici.

Poteri di vigilanza e direzione

Vigilanza: la vigilanza non è mera attività di controllo, ma anche di governo dell'ente subordinato. Non è

dunque una vera e propria relazione organizzativa, bensì un potere strumentale esercitabile anche all'interno

di altre relazioni intersoggettive.

Direzione: è caratterizzata da una situazione di sovraordinazione tra enti che implica il rispetto, da parte

dell'ente sovraordinato, di un ambito di autonomia dell'ente subordinato. Attraverso le direttive l'ente

superiore determina l'indirizzo dell'ente subordinato, lasciandogli però, la possibilità di scegliere le modalità

attraverso le quali conseguire gli obiettivi prefissati.

Avvalimento e sostituzione

Avvalimento: non comporta il trasferimento di funzioni ed è caratterizzato dall'utilizzo da parte di un ente

degli uffici di un altro ente, senza che si determini alcuna deroga all'ordine delle competenze.

Sostituzione: è l'istituto attraverso il quale un soggetto (sostituto) è legittimato a far valere un diritto, un

obbligo o un'attribuzione che rientrano nella sfera di competenza di un altro soggetto, operando in nome

proprio e sotto la propria responsabilità. L'ordinamento disciplina il potere sostitutivo tra enti nei casi in cui

un soggetto non ponga in essere un atto obbligatorio per legge o non eserciti le funzioni amministrative ad

esso conferite, il potere di sostituzione richiede la previa diffida.

Delega di funzioni amministrative

Dopo la riforma del titolo V del 2001 il legislatore ha costituzionalizzato l'istituto del conferimento di

funzioni amministrative ai vari livelli di governo locale sulla base dei principi di sussidiarietà,

differenziazione e adeuatezza.

Federazioni di enti e consorzi

le federazioni svolgono attività di coordinmento e di indirizzo dell'attività degli enti federati, nonché attività

di rappresentanza degli stessi. Non si sostituiscono mai agli enti federati nello svolgimento di compiti loro

propri.

I consorzi costituiscono una struttura stabile volta alla realizzazione di finalità comuni a più soggetti. Essi

agiscono nel rispetto di alcuni limiti derivanti dall'esercizio del potere direttivo e di controllo spettante ai

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consorziati. I consorzi sono obbligatori quando un rilevante interesse pubblico ne impone la necessaria

presenza.

La disciplina comunitaria: in particolare, gli organismi di diritto pubblico.

Il termine “amministrazione comunitaria” può essere impiegato per indicare l'insieme degli organismi e delle

istituzioni dell'Unione europea cui è affidato il compito di svolgere attività sostanzialmente amministrativa e

di emanare atti amministrativi.

I temini “pubblica amministrazione” e “pubblici poteri” utilizzati dal trattato di Lisbona vanno interpretati

con riferimento al momento dell'esercizio di potestà autoritative, nel senso che la deroga alla disciplina

generale è ammessa nei casi in cui l'attività svolta o l'impiego previsto siano caratterizzatati dall'autorità.

Opportuna risulta inoltre l'analisi che l'ordinamento comunitario riserva all'amministrazione in vista della

tutela della concorrenza del mercato: la pa condiziona la concorrenza in quanto a) soggetto che opera in un

regime particolare b) operatore che detiene una quota di domanda di beni e servizi assai rilevante.

L'amministrazione costituisce quindi un soggetto economico assai pericoloso nei confronti della concorrenza

sui mercati e del rispetto della parità degli operatori interessati. Le condizioni di concorrenza sono allora

create artificialmente in virtù dell'imposizione di una serie di regole quali la non discriminazione, l'indizione

delle gare, la trasparenza delle operazioni concorsuali e così via.

Organismo di diritto pubblico

Nozione di rilievo introdotta dall'ordinamento comunitario, si tratta di organismi:

a) istituiti per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale

b) aventi personalità giuridica

c)la cui attività è finalizzata in modo maggioritario dallo stato

queste condizioni hanno carattere cumulativo

Le figure di incerta qualificazione: in particolare, le società per azioni a partecipazione pubblica; le

fondazioni. Cenni al rapporto tra potere pubblico e mercato.

La disciplina dei rapporti economici nella carta costituzionale, individua un articolato sistema di limiti alla

libertà di iniziativa economica, contemplando però anche l'attività economica pubblica e la possibilità di

situazioni di monopolio. La cost privilegia un modello di stato regolatore al cui interno rivestono un ruolo

essenziale le autorità indipendenti, mentre vi è un arretramento delpotere pubblico nella produzione diretta di

beni e servizi.

La disciplina codicistica che fa riferimento alla società a partecipazione pubblica fauna differenziazione a

seconda che si trattino di società “chiuse” o “aperte”.

Società chiuse

L'articolo 2449 cc prevede che, se lo stato o gli enti pubblici hanno partecipazione in una società per azioni

che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, lo statuto può conferire a essi la facoltà di nominare un

numero di amministratori e sindaci, ovvero componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale alla

partecipazione del capitale sociale.

Società aperte

alle soc aperte che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio si applicano due insiemi di regole:

il primo riguarda le disposizioni dell'art 2346 comma 6, il quale si riferisce agli strumenti finanziari.

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Il secondo insieme prevede che il consiglio di amministrazione può altresì proporre all'assemblea che i diritti

amministrativi previsti dallo statuto a favore delle stato o degli enti pubblici siano rappresentati da una

particolare categoria di azioni.

All'interno dei tipi di società delineati dal cc, possiamo individuare vari modelli delineati dalla legge:

_ le società a totale partecipazione pubblica regolate da leggi speciali possono venire accostate a società che

risultano affidatarie di servizi in house senza necessità di una previa gara.

_ le società miste affidatarie di servizi pubblici locali

_ le società derivanti dal processo di privatizzazione.

La distinzione tra soc che svolgono attività di impresa e quelle che svolgono attività amministrative è ripresa

sia in dottrina che in giurisprudenza: in ordine alle soc che svolgono attività d'impresa, la giurisprudenza

ritiene compatibili l'interesse pubblico con lo scopo lucrativo che caratterizza le spa, queste soc sono

tendenzialmente sottoposte allo statuto delle soc private e alla giurisdizione del giudice ordinario. Le soc che

svolgono attività amministrativa sono caratterizzate dalla presenza di una molteplicità di figure soggettive

che impediscono la configurazione di un modello unitario.

Vanno ancora ricordate le disposizioni, talune delle quali specificamente relative a comuni e province, che

hanno disciplinato profili differenti, del regime delle società pubbliche, stabilendo obblighi di pubblicità, tetti

ai compensi degli amministratori o limiti al numero dei componenti del cda.

Con riferimento alla concorrenza, molto importante è il concetto di affidamento in house, delineato dalla

giurisprudenza comunitaria.

In sostanza, si esclude che la disciplina sugli appalti trovi applicazione nei casi in cui tra amministrazione e

imprese sussista un legame tale per cui il soggetto non possa ritenersi “distinto” dal punto di vista

decisionale: quando l'alterità tra ente e soc svanisce, la struttura realizza la parte più importante della propria

attività con l'ente o con gli enti che la controllano (c.d. Vincolo di prevalenza) e l'ente pubblico esercita sulla

persona giuridica un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi. In ragione di questo

controllo molto penetrante, la società in house, ai fini della disciplina sugli appalti, va considerata come un

organismo di diritto pubblico.

Il legislatore italiano si è preoccupato di regolare minuziosamente l'affidamento in house.

Al fine di comprendere il contesto attuale, si consideri che, al fine di mettere a gara l'affidamento del servizio

locale, le amministrazioni avevano tradizionalmente utilizzato lo schema societario pubblico non

necessariamente collimante con la relazione in house: questa tendenza era dunque destinata a confrontarsi

con i limiti comunitari dell'in house.

Alla luce di questo la corte di giustizia sostiene che i soci privati operativi, nelle società miste, vengano scelti

con gara.

Per quanto attiene alla disciplina relativa alla dismissione delle partecipazioni azionarie nelle soc in cui sono

stati trasformati gli enti privatizzati, che incide sui poteri dell'azionista pubblico, accanto a limiti al possesso

azionario e al divieto della cessione della partecipazione, consentiva allo stato di mantenere poteri speciali

(golden share). In tal caso la giurisprudenza comunitaria ha progressivamente limitato i poteri speciali,

considerati come ostacolo alla circolazione dei capitali. La soc a partecipazione pubblica ha così acquisito i

crismi di un modello peculiare. La disciplina vigente ha sancito il passaggio dalla golden share alla golden

power, nel senso che l'esercizio di poteri speciali non è più legato alla qualità di azionista.

L'organismo di diritto pubblico

Questa figura introdotta dall'UE è ricompresa dalla disciplina comunitaria in materia di appalti tra le

amministrazioni aggiudicatrici e assogettata alla specifica disciplina ispirata ai principi della concorrenza.

Questi organismi:

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a) sono stati istituiti per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale, aventi carattere non

industrale o commerciale. (Secondo la Corte di giustizia Ce è irrilevante che l'organismo, oltre a soddisfare

bisogni di interesse generale, sia libero di svolgere altre attività; non basta l'esistenza di una concorrenza sul

mercato in cui l'organismo opera a escludere la qualificazione di un soggetto come organismo di diritto

pubblico, considerato che il soggetto potrebbe ugualmente sfuggire alla logica del mercato in virtù dei suoi

rapporti con un ente pubblico);

b) hanno personalità giuridica;

c) svolgono un'attività finanziata maggiormente dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di

diritto pubblico, oppure sono gestiti da questi ultimi oppure hanno un organo di amministrazione, di

direzione o di vigilanza costituito per più della metà da membri designati dallo Stato, dagli enti locali o da

altri organismi di diritto pubblico.

Queste tre condizioni hanno carattere cumulativo (Corte giustizia Ce, 20 settembre 1998, causa

31/87. All'Ente fiera di Milano è stata negata la qualificabilità come organismo di diritto pubblico in quanto

svolge attività di natura commerciale).

Questi soggetti sono individuati o in base al dato teleologico (finalità pubbliche perseguite) e all'esistenza di un particolare

legame con lo Stato, indipendentemente dalla qualificazione come pubblici nel diritto interno. Il carattere latamente politico di questi

soggetti e i rapporti che intercorrono con gli enti che esprimono indirizzi politici non garantiscono il rispetto delle leggi di mercato,

sicchè si ritiene supplire imponendo norme giuridiche volte ad assicurare il gioco della concorrenza. La giurisprudenza ha qualificato

come organismi di diritto pubblico Cassa depositi e prestiti s.p.a., Interporto Padova s.p.a., una cassa di previdenza “privatizzata” in

base a d.lgs. 509/94, Enel.it s.p.a, Poste italiane s.p.a., gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria e la Società autostrade per

l'Italia.

In giurisprudenza riscontriamo inoltre un criticabile atteggiamento che abbandona la prospettiva che

considera l'organismo come figura strettamente - e limitatatamente – legata al problema dell'applicazione

della disciplina sugli appalti, per accedere all'idea secondo cui il diritto dell'UE avrebbe modificato i confini

della nozione di amministrazione pubblica, nel senso che l'organismo andrebbe qualificato nel diritto interno

come ente pubblico a tutti gli effetti.

8. Le figure di incerta qualificazione: in particolare, le società per azioni a partecipazione pubblica;

le fondazioni. Cenni al rapporto tra potere pubblico e mercato.

Per comprendere le società pubbliche sarà opportuno analizzare profili quali: il tema della capacità

degli enti pubblici, la questione della costituzione della società, il tema della struttura e della tipologia

societarie, la disciplina applicabile, il possibile “disturbo” alla concorrenza che la loro presenza e attività

cagionano, i rapporti con il tema del buon uso delle risorse pubbliche, la questione della competenza

legislativa a regolarne costituzione e attività,i rapporti con il diritto dell'Ue, la relazione con la questione dei

servizi pubblici, la natura delle società e i nessi con il fenomeno dell'impresa pubblica.

Iniziamo dall'ultimo profilo. La Costituzione oltre a sancire la libertà d'iniziativa economica tra

privati, individua anche dei limiti alla stessa, contemplando l'attività economica pubblica e la possibilità di

monopolio (art.43 Cost.). La Costituzione economica vivente oscilla tra un marcato intervento pubblico

nell'economia (imprese pubbliche) e uno Stato regolatore, la cui attività è al servizio del mercato e del suo

corretto funzionamento. Anche a seguito dell'influenza dell'UE, la Costituzione si è assestata privilegiando il

modello dello Stato regolatore, nel quale rivestono un ruolo essenziale le autorità indipendenti, mentre vi è

un arretramento del potere pubblico nella produzione diretta di beni e servizi, anche in forza di processi di

privatizzazione.

Abbiamo già visto la nozione d'impresa pubblica nel diritto dell'Ue (par.7). Nel nostro ordinamento manca una definizione

generale della stessa, anche se è stata emanata la l. 180/2011, c.d. “statuto dell'impresa”. Viene piuttosto in rilievo la nozione ricavabile dall'art.2201 c.c. (menziona gli enti pubblici che “hanno per oggetto

esclusivo o principale un'attività commerciale”, prevedendo l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese; v. anche artt. 2093 e

2221 c.c.): essa si applica alle fattispecie nelle quali un ente pubblico gestisce un'attività imprenditoriale, secondo criteri di

economicità e di professionalità (ente pubbico economico: cap.IV, par.7). Un'altra defizione (di derivazione comunitaria) identifica casi in cui i soggetti imprenditoriali sono sottoposti al'influenza

dominante di enti pubblici. L'artt. 3, c.28, d.lgs. 12 aprile 2006, n.163 (codice dei contratti pubbici), pur se soltanto ai fini

dell'applicione del codice e relativamente ai c.d. settori speciali, ad esempio, dispone che le “imprese pubbliche sono le imprse su

cui le amministrazioni aggiudicatrici possono esercitare, direttamente o indirettamente, un'influenza dominante o perchè ne sono

proprietarie, o perchè vi hanno una partecipazione finanziaria, o in virtù delle norme che disciplinano dette imprese”. Questa nozione ha una “matrice concorrenziale”, in quanto è pensata nella logica del mercato, alla stregua di quella, sempre

di origine comunitaria, di impresa tout court (indipendentemente dal suo carattere pubblico e dalla sua forma organizzativa) ai fini

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dell'assogettamento alle regole del Trattato. In questa prospettiva, l'impresa ricorre quando, almeno potenzialmente e alla luce della

disciplina complessiva, vi è un mercato sul quale la stessa ha la possibilità di reperire finanziamenti (escludendosi, ad esempio, il

ricorso a sovvenzioni pubbliche). Un tale approccio impone di verificare la sostenibilità di eventuali posizioni di monopolio a favore

dell'impresa, pubblica o privata che sia.

In realtà questo arretramento non coincide con la scomparsa del “pubblico”: lo Stato ha continuato a

condizionare il mercato attraverso sussidi, sovvenzioni e aiuti e, dove ha deciso di “abbandonare” alcune

imprese (privatizzandole), lo ha spesso fatto perchè queste imprese non erano produttive.

Il “sistema delle imprese pubbiche” è caratterizzato da organizzazioni volte alla cura di attività imprenditoriali e separate

rispetto all'amministrazione territoriale, che è incaricata della gestione delle funzioni amministrative più tradizionali. Questo sistema

ha assunto un'articolazione tripartita: aziende municipalizzate e autonome (nei limiti in cui venisse svolta atività d'impresa), enti

pubblici economici e partecipazioni societarie. Nei primi due casi abbiamo la gestione di un'impresa da parte di un ente o di un suo

organo; nella terza un'influenza pubblica su una società (dove pubblico è il soggetto che controlla). Le tre figure erano utilizzate sia

per svolgere attività riservate al settore pubblico, sia nei settori aperti all'intervento dei privati (Fracchia).

In sintesi, ridotto l'insieme degli enti pubblici e delle aziende, soltanto le società sono oggi chiamate a popolare l'orizzonte

che intregra il “sistema” dell'impresa pubblica. Il diritto dell'Ue non nega il ricorso allo strumento societario, purchè vengano

rispettate le sue prescrizioni a tutela del mercato e della sua concorrenza. La questione dei limiti entro cui i poteri pubblici possono

costituire società è invece affrontata sul piano interno.

Una conseguenza della crisi finanziaria che, partita dagli Usa, ha colpito le economie mondiali, è stato l'impulso

all'intervento pubblico (protagonista in tali casi è il Ministero dell'economia e delle finanze) nel settore creditizio. Il d.l. 155/2008,

conv. nella l. 190/2009 ha previsto misure di ricapitalizzazione pubbliche delle banche e, cioè, l'ingresso dello Stato nel capitale delle

banche in caso di “situazione di inadeguatezza patrimoniale”, nonché forme di garanzia statale su finanziamenti della Banca d'Italia o

sulle passività bancarie (gli aiuti a favore delle banche ricadono peraltro nche sel campo di applicazione del diritto dell'Ue). Più in

generale ai sensi dell'art. 12, d.l. 185/2008, conv. nella l.2/2009, sul finanziamento all'economia, il Ministro dell'economia e delle

finanze riferisce periodicamente al Parlamento fornendo dati diaggregati per ragione e categoria economica; per questo presso le

prefetture è istituto uno speciale osservatorio con la partecipazione dei soggetti interessati. Successivamente, nel 2012, e misure

adottate sono state quelle volte a tagliare le spese pubbliche e ad aumentare le entrate fiscali. Va notato che sussiste una certa analogia

con la crisi ambientale: il c.d. Caso Ilva ha dato luogo all'adozione di un d.l. che prevede un sostanziale commissariamento delle

società che gestiscano almeno uno stabilimento di interesse nazionale e la cui attività produttiva abbia comportato e comporti pericoli

gravi e rilevanti per l'integrità dell'ambiente e della salute a causa della inosservanza, rilevata dalle autorità competenti,

dell'autorizzazione integrata ambientale.

Descriviamo ora i blocchi di normative che si occupano di società pubbliche e che devono essere

considerati nel loro complesso.

Il primo è costituito dalla disciplina codicistica che si riferisce alle società a partecipazione pubblica.

Esse sono soggette a una disciplina particolare a seconda che si tratti di società “chiuse” o “aperte”.

Riguardo la partecipazione alle società “chiuse”, l'art. 2449 c.c., prevede che, se lo Stato o gli enti

pubblici hanno partecipazioni in una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio,

lo statuto può a essi conferire la facoltà di nominare un numero di amministratori e sindaci, ovvero

componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale alla partecipazione al capitale sociale.

Non è quindi possibile prevedere meccanismi in grado di garantire automaticamente e stabilmente il governo della società

al socio pubblico minoritario. La norma non può invece impedire di ottenere questo risultato utilizzando (congiuntamente) gli

strumenti del diritto societario ordinari. L'art. 2449 c.c. prosegue disponendo che gli amministratori e i sindaci o i componenti del

consiglio di sorveglianza possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati. Essi, inoltre, hanno i diritti e gli obblighi

dei membri nominati dall'assemblea. Gli amministratori non possono essere nominati per un periodo superiore a tre esercizi. Ai sensi

dell'art.3, c. 12, l. 244/2007, le amministrazioni pubbliche statali che detengono, direttamente o indirettamente, il controllo di società,

ai sensi dell'articolo 2359, c.1, numeri 1) e 2), del codice civile, devono adottare iniziative volte all riduzione dei componenti degli

organi societari.

Alle società aperte che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, si applicano due insiemi di

regole:

• art. 2346, c. 6 : strumenti finanziari partecipativi.

Ciò implica che l'ente pubblico debba comunque partecipare alla società per giovarsi dei relativi diritti. In passato l'art.2450

c.c., ora abrogato, a particolari condizioni consentiva invece poteri speciali di nomina anche all'ente non titolare di partecipazioni

azionarie;

• il consiglio di amministrazione può altresì proporre all'assemblea che i diritti amministrativi previsti

dallo statuto a favore dello Stato o degli enti pubblici siano rappresentati da una particolare categoria di

azioni (a tal fine, posto che si realizzi la trasformazione di azioni ordinarie in azioni di categoria, è necessario

il consenso dello Stato o dell'ente pubblico a favore del quale i diritti amministrativi sono previsti).

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La disposizione si riferisce solo ai diritti amministrativi (es. potere di convocazione). La disciplina illustrata è stata

introdotta a seguito di interventi del giudice comunitario che aveva censurato l'art.2449 c.c. nella precedete formulazione che

riconosceva poteri speciali in capo al socio pubblico per contrasto con il Trattato. Le disposizioni citate devono essere osservate dalle

regioni, le quali non possono legiferare nella materia di diritto privato: ove decidano di ricorrere allo strumento societario, devono

utilizzare il modello comune, anche se residua uno spazio per disciplinare l'area dei rapporti tra amministratori e società. Gli

amministratori e i sindaci di nomina pubblicistica si trovano in una delicata situazione di dipendenza nei confronti dell'ente pubblico,

in quanto, mentre soggiacciono alle direttive di quest'ultimo, debbono anche realizzare l'interesse sociale.

Un secondo blocco di leggi è rappresentato dalle fonti che direttamente e unilateralmente istituiscono

società (es. l. 112/2002 che aveva istituito la Patrimonio dello Stato S.p.a.) o impongono l'obbligo di

costituirle. Si pone il problema di coordinare questa disciplina con il procedimento di costituzione delineato

dal codice civile.

Un'analogia con tale situazione si riscontra nel caso di fondazioni istituite direttamente dalla legge: es. fondazione Istituto

italiano di tecnologia istituito da d.l. 269/2003, convertito con modificazioni, nella l. 326/2003 e avente lo scopo di promuovere lo

sviluppo tecnologico del Paese e l'alta formazione tecnologica, favorendo così lo sviluppo del sistema produttivo nazionale.

Un terzo ambito normativo è quello che impone alle società di assumere una certa fisionomia: sono

norme che derivano dalla “pressione” del diritto dell'Ue e che indicano i caratteri che le società devono

necessariamente esibire per garantirne la compatibilità con l'ordinamento dell'Ue (Fracchia).

Ricordiamo tra questi:

• le società a totale partecipazione pubblica regolate da leggi speciale e affidatarie di compiti in house

senza necessità di una previa gara;

il modello dell'in house è previsto anche per l'affidamento diretto -senza gara- a società pubbliche, da parte di

amministrazioni statali titolari per legge di fondi interventi pubblici, della gestione dei medesimi; a livello locale, le società in house

sono poi direttamente affidatarie di servizi pubblici locali in deroga al principio della gara;

• le società miste affidatarie di servizi pubblici locali;

Le norme del quarto blocco estendono alle società (in particolare a quelle in house) l'applicazione di

regole “pubblicistiche”. La costituzione della società non può tradursi in una “via di fuga” dal regime

pubblicistico: per le società in house si pensi alle norme sul patto di stabilità, sul reclutamento del personale,

sul regime dell'evidenza pubblica per gli acquisti di beni e servizi.

Per le altre società si aggiunga la necessità di rispettare: il regime di cui alla l. 241/1990 (art.29: “le disposizioni della

presente legge si applicano, altresì, alle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente all'esercizio delle funzioni

amministrative”); le limitazioni in tema di assunzione del personale; parte della disciplina sulla trasparenza e sulla lotta alla

corruzione; i vincoli di cui al d.lgs. 39/2013, che limitano fortemente la possibilità di chi ha svolto o svolge incarichi presso e società

di transitare” ai vertici delle amministrazioni (o negli organi di indirizzo politico) e viceversa. (In particolare l'art.1 fornisce le

definizioni di “enti di diritto privato in controllo pubblico”: società e altri enti di diritto privato che esercitano funzioni

amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici,

sottoposti a controllo ai sensi dell'art. 2359 c.c., da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti nei quali siano riconosciuti alle

pubbliche amministrazioni, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli

organi. E di “enti di diritto privato regolati o finanziati”: società o altri enti di diritto privato, anche privi di personalità giuridica, nei

confronti dei quali l'amministrazione che conferisce l'incarico: svolga funzioni di regolazione dell'attività principale che comportino

anche attraverso il rilascio di autorizzazioni o concessioni, l'esercizio continuativo di poteri di vigilanza, di controllo o di

certificazione; abbia una partecipazione minoritaria nel capitale; finanzi le attività attrarso rapporti convenzionali, quali contratti

pubblici, contratti di servizio pubblico e di concessione di beni pubblici). Anche altri soggetti sono ricondotti, almeno in parte, alla

disciplina degli enti: l'art.144, c. 5-bis, d.lgs. 267/2000, ad es. dispone che a decorrere dal 2013 le aziende speciali e le istituzioni

sono assogettate al patto di stabilità interno; a tali soggetti poi si applicano le disposizioni del codice di cui al d.lgs. 163/2006, nonché

le disposizioni che stabiliscono, a carico degli enti locali: divieto o limitazioni alle assunzioni del personale; contenimento degli oneri

contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitaria e per consulenza anche degli amministratori; obblighi e limiti alla

partecipazione societari degli enti locali.

Per quanto riguarda il regime applicabile agli amministratori, esso si avvicina a quello tipico dei

dipendenti pubblici. La giurisprundenza ha ampliato gli spazi della giurisdizione della Corte dei conti (che

riguarda i danni causati all'ammnistrazione) nel giudizio di responsabilità nei riguardi degli amministratori

delle s.p.a. miste per danni erariali cagionati al patrimonio dell'ente pubblico locale. Sono discussi la natura

(pubblicistica o privatistica) del potere di nomina degli amministratori esercitato dal socio pubblico e i limiti

dell'eventuale potere di indirizzo che l'ente può svolgere nei confronti dell'amministratore.

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Ai sensi dell'art. 1, c.1-ter, l. 241/1990, i soggetti privati preposti all'esercizio di attività

amminstrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui alla l. 241/1990 medesima, con un livello

di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di

cui alla l. 241/1990.

Da ricordare sono inoltre le disposizioni che disciplinano i profili del regime delle società pubbliche,

ad esempio stabilendo obblighi di pubblicità, tetti ai compensi degli amministratori o limiti al numero dei

componenti del consiglio di amministrazione. Le finalità qui perseguite sono quelle della moralizzazione e/o

del contenimento della spesa pubblica.

L'art. 3, c. 12, l.244/2007 stabilisce che gli statuti delle società direttamente o indirettamente controllate dallo Stato si

adeguano ad una serie di disposizioni (es. prevedere che previa delibera dell'assemblea dei soci, sulle materie delegabili, al presidente

possano essere attribuite deleghe operative da parte dell'organo di amministrazione che provvede a determinare in concreto il

contenuto e il compenso). L'art. 4, d.l. 95/2012, conv. Nella l. 135/2012 (non si applica alle società quotate), invece, prevede che i

consigli di amministrazione delle società strumentali controllate da enti pubblici devono essere composti da non più di tre membri. I

dipendenti dell'amministrazione titolare della partecipazioni o di poteri di indirizzo e vigilanza, ferme le disposizioni vigenti in

matera di onnicomprensività del trattamento economico, ovvero i dipendenti della società controllante hanno l'obbligo di riversare i

relativi compensi assembleari all'amministrazione ove riassegnabili, in base alle vigeti disposizioni, al fondo per il finanziamento del

trattamento economico accessorio, e alle società di appartenenza. E' comunque consentita la nomina di un amministratore unico.

Inoltre, fermo restando quanto diversamente previsto da specifiche disposizioni di legge, i consigli di amministrazione delle altre

società a totale partecipazione pubblica, diretta ed indiretta, devono essere composti da tre o cinque membri, tenendo conto della

rilevanza e della complessità delle attività svolte. Un'altra norma è l'art. 1, c. 734, l.296/2006 che stabilisce che “non può essere

nominato amministratore di ente, istituzione, azienda pubblica, società a totale o parziale capitale pubblico chi, avendo ricoperto nei

cinque anni precdenti incarichi analoghi, abbia chiuso in perdita tre esercizi consecutivi”; con disposizione di interpretazione

autentica il legislatore ha precisato che “Il comma 734 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, si interpreta nel senso che non

può essere nominato amministratore di ente, istituzione, azienda pubblica, società a totale o parziale capitale pubblico chi, avendo

ricoperto nei cinque anni precedenti incarichi analoghi, abbia registrato, per tre esercizi consecutivi, un progressivo peggioramento

dei conti per ragioni riferibili a non necessitate scelte gestionali”. Il c. 721 dell'art. 1, l. 296/2006 prevede poi che le regioni adottino

disposizioni, normative o amministrative, finalizzate – tra l'altro – alla fusione delle società partecipate e al ridimensionamento delle

strutture organizzative. Controlli interni sulle società partecipate non quotate, definiti dall'ente locale secondo la propria autonomia

organizzativa, sono esercitati negli enti con dimensioni maggiori ai sensi dell'art. 147-quater, T.U. Enti locali.

Gli interessi del legislatore quando interviene in materia di società a partecipazione pubblica sono:

tutela della concorrenza, buon uso delle risorse, trasparenza, ecc.

Quando il legislatore riduce la possibilità di istituire le società pubbliche vuole innanzittutto ridurre i costi

degli apparati pubblici, oltre che esprimere un atteggiamento di sfavore non imposto in generale dal diritto

europeo.

Analizziamo ora due casi:

– contenimento degli spazi di gemmazione di società da parte degli enti,

– riduzione dell'ambito di azione delle società comunque costituite.

L'art. 3, c. 27, l. 244/2007, “al fine si tutelare la concorrenza e il mercato” (e non è l'unica finalità

perseguita), ha chiarito che le amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, c. 2, d.lgs. 165/2001, non sono

libere di utilizzare lo strumento societario. La disposizione ha infatti vietato di costituire società aventi per

oggetto “attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle

proprie finalità istituzionali”, nonché di assumere o mantenere direttamente partecipazioni in tali società. Si

scorge qui un particolare vincolo legislativo che impedisce alle amministrazioni di gemmare società che non

siao coerenti con quegli scopi, sicchè la tematica deve anche essere inquadrata alla luce del principio di

legalità.

Questa norma si applica a tutte le amministrazioni. E' stata poi emanata una disciplina imitatrice

relativa ai soli comuni: l'art. 14, c.32, d.l. 78/2010, conv. Nella l. 122/2010, che vieta ai comuni con

popolazione inferiore a 30.000 abitanti di costituire società, imponendo di liquidare o dismettere le

partecipazioni detenute in violazione di tale vincolo. Sono escluse da questo obbligo di liquidazione o di

dismissione della partecipazione le società che:

a) al 31/12/2012 abbiano il bilancio in utile negli ultimi tre esercizi;

b) negli esercizi precedenti non abbiano subito riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio;

c) negli esercizi precedenti non abbiano subito perdite di bilancio in conseguenza delle quali il comune

sia stato gravato dall'obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime;

Queste eccezioni mostrano che la finalità principale è colpire gli sprechi, piuttosto che aprire spazi alla

concorrenza.

I comuni con popolazione tra i 30.000 e i 50.000 abitanti possono invece avere partecipazioni solo in

una società. Infine, il divieto di costituire società non si applica ai comuni con popolazione fino a 30.000

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abitanti, se la società – con partecipazione paritaria ovvero proporzionale al numero degli abitanti – sia

costituita da più comuni la cui popolazione complessiva superi i 30.000 abitanti.

Passando al piano dei vincoli che le società costituite incontrano nella propria attività, ricordiamo

l'art.13, d.l. 223/2006 (c.d. decreto Bersani), convertito, con mod., nella l. 248/2006. La norma dispone che le

società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche

regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti in funzione della loro

attività (si tratta di società che non operano sul mercato ma “per” le amministrazioni; la giurisprudenza

sostiene che sono ricomprese in questa categoria anche le camere di commercio), nonché, nei casi consentiti

dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, devono operare

“esclusivamente” con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore

di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre

società o enti aventi sede nel territorio nazionale. Esse poi sono a oggetto sociale esclusivo. In sostanza,

essendo nulli i “contratti” conclusi in violazione del divieto, la norma mira a impedire che i soggetti che già

occupano una posizione “privilegiata” sul mercato possano operare come normali “imprenditori” al di fuori

dell'ambito territoriale di riferimento (Ursi).

L'art. 13 non si applica al settore dei servizi pubblici locali. Il richiamo all'art. 13 cit., consente di accennare al tema della

potestà legislativa. La sentenza della Corte cost. n. 326/2008, ha “salvato” la norma affermando che essa, in quanto volta a definire i

confini tra l'attività amministrativa e l'attività di impresa, nonché a eliminare distorsioni della concorrenza, non lede la generale

competenza regionale in tema di organizzazione amministrativa. Siffatta disciplina è invece riconducibile a due titoli di

legittimazione a favore dello Stato e, cioè, sia alla competenza esclusiva in materia di ordinamento civile sia all'ambito della tutela

della concorrenza. Con un obiter dictum di sicuro rilievo, la Corte ha poi precisato che la norma si riferisce ai casi in cui società di

capitali operino per conto di pubbliche amministrazioni e, dunque, concerne le ipotesi nelle quali vi sia svolgimento di attività

amministrativa in forma privata, mentre rimane escluso il caso di “attività d'impresa di enti pubblici” svolta in regime di concorrenza.

E' intervenuto l'art. 4, d.l. 95/2012, conv. nella l. 135/2012 (c.d. spending review). La norma dispone

che, nei confronti delle società “controllate direttamente o indirettamente” dalle pubbliche amministrazioni

che abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche

amministrazioni superiore al 90% dell'intero fatturato, si procede, alternativamente:

a) allo scioglimento della società stessa entro il 21/12/2013;

b) all'alienazione, con procedure di evidenza pubblica, delle partecipazioni detenute alla data di entrata

in vigore del decreto entro il 31/12/2013 ed alla contestuale assegnazione del servizio per cinque anni a

decorrere dal 1° luglio 2014.

Il vincolo è rafforzato dal divieto, per le società che non provvedano, di ricevere affidamenti diretti “di

servizi” o di godere del rinnovo di affidamenti di cui sono titolari: queste società strumentali, nate per agire a

favore dell'ente gemmante, vengono in sostanza “disattivate” e “svuotate”, sebbene non sciolte.

Deroghe alla disciplina: a parte le società quotate e le loro controllate, sono escluse dagli obblighi di scioglimento o di

alienazione, tra le altre, quelle che svolgono “servizi di interesse generale, anche aventi rilevanza economica” (perciò sono salve le

società che gestiscono servizi pubblici), le società finanziarie partecipate dalle regioni, le società che svolgono compiti di centrale

di committenza e le società individuate, in relazione alle esigenze di tutela della riservatezza e della sicurezza dei dati, nonché

all'esigenza di assicurare l'efficacia dei controlli sulla erogazione degli aiuti comunitari del settore agricolo, con decreto del

presidente del Consiglio dei ministri. La disciplina sopra descritta non si applica qualora, per le peculiari caratteristiche economiche,

sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriali, di riferimento “non sia possibile per l'amministrazione pubblica

controllante un efficace e utile ricorso al mercato” (in tal caso, l'amministrazione predispone un'analisi del mercato e trasmette una

relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorità garante della concorrenza e del mercato per l'acquisizione del parere

vincolante, da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della relazione; il parere dell'Autorità è comunicato alla Presidenza del

Consiglio dei Ministri).

Alla luce del riferimento al 90% del fatturato, sono colpite dalla disciplina imitatrice le società più

“fedeli” di cui il d.l. 223/2006 – ora superato – si occupava : la speranza di sopravvivenza è legata al fatto di

aver avuto nel 2011 sostanziosi rapporti contrattuali sul mercato con soggetti diversi da quelli che hanno

gemmato la società medesima.

Per quanto riguarda le modalità di “esternalizzazione” delle attività da parte degli enti, l'art. 4, d.l.

95/2012 prescrive che, a decorrere dal 1° gennaio 2013 le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, d. lgs.

165/2001 possono acquisire a titolo oneroso servizi di qualsiasi tipo, anche in base a convenzioni, da enti di

diritto privato esclusivamente in base a procedure prevista dalla normativa nazionale in confromità con a

disciplina comunitaria.

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Sono escluse le fondazioni istitute con lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico e l'alta formazione tecnologica;

esclusi inoltre anche gli enti e le associazioni che operano nel campo dei servizi socio-assistenziali e dei beni e attività culturali,

dell'istruzione e della formazione, le associazioni di promozione sciale, gli enti di volontariato, le organizzazioni non governative, le

cooperative sociali, le associazioni sportive dilettantistiche , nonché le associazioni rappresentative, di coordinamento o di supporto

degli enti territoriali e locali.

Ai sensi del c. 7, a decorrere dal 1° gennaio 2014, le pubbliche amministrazioni, le stazioni

appaltanti, gli enti aggiudicatori e i soggetti aggiudicatori di cui al codice degli appalti acquisiscono sul

mercato i “beni e servizi strumentali” alla propria attività mediante le procedure concorrenziali previste dal

medesimo codice (è però ammessa l'acquisizione in via diretta di beni e servizi tramite convenzioni

realizzate ai sensi delle ll. 383/2000 – con le associazioni operanti nel campo dei servizi socio-assistenziali –

226/1991 - con gli enti di volontariato – 289/2002 – con e associazioni sportive – e con le organizzazioni non

governative per le acquisizioni di beni e servizi realizzate negli ambiti di attività previsti).

Come inquadrare teoricamente le società pubbliche che sopravvivono?

La giurisprudenza della Corte costituzionale facendo riferimento all'attività piuttosto che ai modelli,

introduce una distinzione tra società che svolgono vera e propria attività di impresa e società attraverso le

quali viene svolta attività amministrativa.

La distinzione che separa le società che svolgono attività d'impresa (che gestiscono servizi pubblici) da quelle che

esercitano attività amminitrativa è ripresa sia in dottrina che in giurisprudenza. Per quanto riguarda le società che svolgono attività

d'impresa, la giurisprudenza ritiene compatibile l'interesse pubblico con lo scopo lucrativo che caratterizza le società per azioni.

Queste società sono sottoposte allo statuto delle società private e alla giurisdizione del giudice ordinario. Invece le società che

svolgono attività amministrativa sono caratterizzate da una moltitudine di figure soggettive che impedisce la configurazione di un

modello unitario (es. organismo di diritto pubblico, società in house, società strumentali). Sempre riferendosi alla natura delle società,

in dottrina si è affermato che ricorre ente pubblico laddove lo statuto delle società per azioni e la disciplina delle dismissioni

implichino l'impossibilità di uno scioglimento: infatti l'esistenza e la destinazione funzionale della società “sono predeterminate con

atto normativo e rese indisponibili alla volontà dei propri organi deliberativi”. Cass. n. 7799/2005 ritiene che avrebbero natura

pubblica l'Age control S.p.a. E Poste Italiane S.p.a., affermando però in generale che le società pubbliche sarebbero soggetti privati.

A questo proposito è intervenuto l'art. 4, c.13, d.l. 95/2012, secondo cui “le disposizioni del presente

articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale

partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe

espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”. Il legislatore

sembra quindi rigettare l'idea di una sorta di sotterranea pubblicizzazione della forma societaria e sembra

sposare la tesi secondo cui il codice civile costituisce la disciplina comune. Le società pubbliche, anche

qualora abbiano un oggetto sociale di interesse pubblico, vanno ricondotte al paradigma privatistico (di

conseguenza secondo parte della dottrina anche le società pubbliche dovrebbero rispettare lo scopo di lucro –

Goisis – ) salvi i casi di deroga che la legge deve incaricarsi di indicare espressamente, esprimendo

limpidamente una volontà pubblicizzante.

Approfondiamo ora alcuni modelli rilevanti delineati dal legislatore italiano alla luce dei

condizionamenti comunitari.

Alle società quotate in mercati regolamentati è tendenzialmente riservato un regime speciale ; grazie a questo regime è

assicurato un certo tasso di concorrenza e sussiste inoltre l'esigenza della tutela del risparmio.

In riferimento alla concorrenza, è opportuno chiarire il concetto di affidamento in house, delineato

dalla giurisprudenza comunitaria. Sostanzialmente si esclude che la disciplina sugli appalti trovi applicazione

nei casi in cui tra amministrazione e imprese sussista un legame tale per cui il soggetto non possa ritenersi

“distinto” dal punto di vista decisionale. In particolare devono sussistere due requisiti: la struttura “realizza la

parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti...che la controllano” (c.d. Vincolo di

prevalenza che va considerato secondo una logica non solo quantitativa) e l'ente pubblico esercita sulla

persona giuridica “un controllo analogo a quello da esso esercitato su propri servizi”. In queste ipotesi

evapora l'alterità tra ente e affidatario e non sussistono i presupposti per il ricorso alle procedure di scelta del

contraente di cui alle direttive sugli appalti, quasi che la società si configurasse come una sorte di

“appendice” dell'ente, comunque da esso non distinto.

In ragione di questo controllo molto penetrante, la società in house, ai fini della disciplina sugli

appalti “a valle”, va considerata come un organismo di diritto pubblico.

La figura, nata nel settore degli appalti, è stata poi utilizzata anche in quello dei servizi pubblici,

onde consentire l'affidamento diretto degli stessi ai privati a condizione che sussistessero i requisiti sopra

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indicati. L'operazione, per essere compatibile con il diritto dell'Ue, richiede che il soggetto affidatario

esibisca specifiche caratteristische. Il legislatore italiano ha disciplinato minuziosamennte questa forma di

affidamento e i suoi presupposti.

In realtà, nell'ambito dei servizi pubblici le prestazioni sono rese non all'ente, ma ai cittadini.

In Italia per evitare di “mettere a gara” l'affidamento del servizio locale, le amministrazioni

utilizzavano tradizionalmente lo schema societario pubblico (anche ricorrendo a società miste con

affidamenti diretti) non necessariamente collimante con la relazione in house: questa tendenza era dunque

destinata a confrontarsi con i limiti comunitari all'in house.

L'affidamento diretto a società a capitale misto non garantiva il controllo analogo ( e il potere di

direzione e supervisione) previsto dalla Corte di giustizia.

Secondo la Corte giust. Causa C-26/03 Stadt Halle, cit, la partecipazione di un socio provato esclude che l'amministrazione

possa esercitare un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi; Corte giust. 10 settembre 2009, causa C-537/07, ha

precisato che se il capitale di una società è interamente detenuto dall'amministrazione aggiudicatrice al momento in cui l'appalto è

assegnato a tale società, l'apertura del capitale di quest'ultima ad investitori privati può essere presa in considerazione solo se in quel

momento esiste una prospettiva concreta e a breve termine di una siffatta apertira. Più rigida la posizione nazionale espressa da Cons.

Stato, sez. V, n. 5062/2006: il possesso dell'intero capitale sociale da parte dell'ente pubblico, pur astrattamente idonea a garantire il

controllo analogo a quello esercitato sui servizi interni, non è sufficiente se lo statuto della società consente che una quota di esso,

anche minoritaria, possa essere alienata a terzi.

Non è un caso che Cons. Stato, sez. II, parere n.456/2007 avesse negato la riconducibilità delle

società miste al modello dell'in house providing. Ciò non escluderebbe in linea di principio la compatibilità

comunitaria della figura della società mista a partecipazione pubblica maggioritaria in cui il socio privato

fosse scelto con una procedura di evidenza pubblica. Tale soluzione, tuttavia, potrebbe ravvisarsi unicamente

là dove vi sia un “affidamento con procedura di evidenza pubblica” dell'attività “operativa” della società

mista al partner privato, tramite la stessa gara volta alla individuazione di quest'ultimo e, dunque, nei casi in

cui il partner sia “socio si lavoro”, “socio industruale” o “socio operativo (come contrapposti al “socio

finanziario”: in tal modo si ha, a ben vedere, una commissione tra partenariato contrattuale e istituzionale).

La giurisprudenza della Corte di giustizia si è allineata agli orientamenti maturati in seno al

Consiglio di Stato, preoccupato di garantire comunque uno spazio per il modello delle società miste. La sent.

della Corte di giustizia 15 ottobre 2009, causa C-196/08, ha infatti statuito che gli artt. 43, 49 e 86 CE non

ostano all'affidamento diretto di un servizio pubblico ad una società a capitale misto costituita specificamente

a tal fine e con un oggetto sociale esclusivo, a condizione che il socio privato, cui spettano i compiti

operativi, sia scelto mediante procedura a evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di libera concorrenza,

trasparenza e parità di trattamento imposti dal trattato CE, previa verifica dei requisiti finanziari, tecnici,

operativi e di gestione relativamente al servizio. La Corte osserva a tale ultimo riguardo che la scelta del

concessionario risulta indirettamente da quella del socio medesimo effettuata al termine di una procedura che

rispetta i principi del diritto dell'Ue, “cosicchè non si giustificherebbe una seconda procedura di gara ai fini

della scelta del concessionario”.

La società mista nel settore dei servizi pubblici locali è dunque salva, anche se la compatibilità con i

vincoli comunitari impone che essa abbia una specifica struttura e che il socio privato, operativo, venga

scelto con gara; per altro verso, la disciplina dei servizi pubblici ha conosciuto un'incessante fibrillazione nel

corso del tempo (sul regime applicabile, a seguito di alcuni interventi della Corte costituzionale, e sulle tre

modalità – gara, affidamento in house e gara che abbia anche ad oggetto, la qualità di socio – di affidamento

del servizio).

L'art.4, d.l. 95/2912, conv. Nella l.135/2012, contiene una disposizione specificamente rivolta agli affidamenti in house, che

conferma la possbilitùà di utilizzare questo modello (anche al di fuori del settore dei servizi pubblici). Secondo quanto dispone il c. 8,

a decorrere dal 1° gennaio 2014, l'affidamento diretto può avvenire “solo” a favore di società a capitale interamente pubblico, nel

rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house. Altre forme di affidamento

di servizi strumentali, a favore ad esempio di società miste, paiono invece esclude. Peraltro, si dispone altresì che le amministrazioni

predispongano appositi piani di ristrutturazione e razionalizzazione delle società controllate: detti piani, approvati previo parere

favorevore del Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per acquisto di beni e servizi, prevedono

l'individuazione delle attività connesse esclusivamente all'esercizio di funzioni amministrative di cui all'articolo 118 della

Costituzione, che possono essere riorganizzate e accorpate attraverso società che rispondo ai requisiti della legislazione comunitaria

in materia di in house providing.

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Un altro problema, attinente alla compatibilità con i requisiti di origine europea della società in

house che assuma la configurazione di uno dei “tipi” societari delineati dal nostro codice.

Il punto ha a che fare con la nozione di controllo analogo.

La giurisprudenza ritiene non sufficiente il controllo che si risolve sostanzialmente nei poteri che il

diritto societario riconosce alla maggioranza dei soci.

La dottrina ritiene che l'autonomia lasciata agli amministratori nelle società per azioni sarebbe in

contrasto con il controllo analogo (che quell'autonomia esclude), dunque le società in house non potrebbero

avere la struttura di società per azioni. Si è inoltre negato che il controllo sia assicurabile mediante patti

parasociali (che hanno un'efficacia obbligatoria e limitata nel tempo), aggiungendo che l'in house sarebbe

incompatibile con la s.r.l., dove è ammissibile una maggior ingerenza dei soci nella gestione.

Per quanto riguarda la disciplina della dismissione delle partecipazioni azionarie nelle società in cui

sono stati trasformati gli enti privatizzati, l'art. 2, d.l. 332/1994, conv. l. 474/1994 e succ. modific., accanto a

limiti al possesso azionario e al divieto della cessione della partecipazione, consentiva allo Stato di mantere

poteri speciali (golden share). La giurisprudenza comunitaria ha progressivamente limitato i poteri speciali,

che erano considerati come ostacoli alla circolazione di capitali. La società a partecipazione pubblica è così

diventata un “modello” peculiare.

La disciplina vigente ha sancito il passaggio dalla “golden share” alla “golden power”, il che

significa che l'esercizio dei poteri speciali (in ordine al quale vi è giurisdizione esclusiva del giudice

amministrativo) non è più legato alla qualità di azionista né alle vicende di privatizzazione, poiché riguarda

tutte le società. Con d.p.c.m. possono essere esercitati alcuni poteri speciali in caso di minaccia di grave

pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale (apposizione di condizioni

all'acquisto di partecipazioni in imprese strategiche; veto all'adozione di delibere relative a operazioni

straordinarie di particolare rilevanza; opposizione all'acquisto di partecipazione di soggetti terzi quando

costoro vengano ad acquisire un livello di partecipazione in grado di compromettere gli interessi alla difesa e

alla sicurezza nazionale). Nel settore dell'energia, dei trasporti, delle telecomunicazioni, in presenza di

una situazione eccezionale di minaccia di grave pregiudizio per gli interessi pubblici relativi alla sicurezza e

al funzionamento delle reti e degli impianti, è possibile, sempre con d.p.c.m., esprimere il veto all'adozione

di delibere relative a operazioni di modifica degli asset. L'efficacia dell'acquisto a qualsiasi titolo da parte di

un soggetto esterno all'Ue di partecipazioni in società che detengono gli attivi strategici può essere

subordinata all'assunzione da parte dell'acquirente di impegni diretti a garantire a tutela dei predetti interessi.

Passiamo ora a ulteriori figure specifiche, societarie e non societarie (fondazioni).

L'art. 2451 c.c. si occupa delle società di interesse nazionale estendendo ad esse la normativa di cui

all'art.2449, “compatibilmente con le disposizioni delle leggi speciali che stabiliscono per tali società una

particolare disciplina circa la gestione sociale, la trasferibilità delle azioni, il diritto di voto e la nomina degli

amministratori, dei sindaci e dei dirigenti”. Tra queste società ricordiamo la Rai-Tv, concessionaria del

servizio pubblico, la quale è stata ritenuta una persona giuridica privata nonostante la partecipazione

pubblica. La concessione, almeno dal punto di vista giuridico, è tra l'altro temporanea (12 anni) e dunque,

non si potrebbe escludere una sopravvivenza della società in modo indipendente dalla gestione del servizio.

Le fondazioni costituiscono un modello in via di diffusione nell'ambito dell'attività

dell'amministratore. Sono caratterizzate dalla indisponibilità dello scopo ( e del suo “governo”) e in Italia

sono attratte nella disciplina del codice civile; sono prive di scopo di lucro e svolgono spesso attività in

settori contigui a quelli delle amministrazioni. In alcuni casi vengono in evidenza fondazioni considerate

come soggetti provati e costituenti momento finale di percorsi di privatizzazione di soggetti pubblici

(fondazioni musicali o bancarie). Di recente però, alcune di quelle costituite dagli enti, aperte alla

partecipazione dei privati e anche create per attrarre i loro capitali, hanno costituito oggetto di una disciplina

speciale: sono le c.d. Fondazioni di partecipazione, che, in forza dell'ingresso di soggetti partecipanti,

segnano un avvicinamento al modello associativo. Talune poi sembrano rivestire un marcato carattere

pubblico. Infine è possibile che, con riferimento ai servizi locali privi di rilevanza economica, le

fondazioni vengano inserite dalle fonti regionali e locali tra le forme di gestione.

Le direttive comunitarie relative agli appalti di lavori, di servizi e di forniture nei c.d. Settori speciali si applicano anche

alle imprese pubbliche e ai soggetti non pubblici che operino in virtù di diritti speciali o esclusivi: in tali categorie rientrano pure le

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società di capitali a prevalente partecipazione pubblica. La ragione per cui è stata operata tale estensione è da ricercarsi nella volontà

di asservire anche i soggetti che operano in un contesto non concorrenziale ( tali sono le società che agiscono in un mercato chiuso e

in una posizione privilegiata nello stesso) alle regole pubblicistiche che garantiscono il rispetto della concorrenza nella scelta dei

contraenti. Per quanto riguarda il campo di applicazione soggettivo della normativa dell'Ue e di quella nazionale di recepimento nei

restanti settori (e, cioè, in quelli ordinari), centrale è la nozione di amministrazioni aggiudicatrici: sono tali lo Stato, gli enti locali, gli

organismi di diritto pubblico, le associazioni costituite da detti enti od organismi di diritto pubblico. Posto che gli organismi di

diritto pubblico sono dotati di personalità giuridica, finanziati e/o controllati da enti pubblici e istituiti per soddisfare specificamente

i bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, diventa importante comprendere se le società per azioni

a partecipazione pubblica possano essere qualificate come organismi di diritto pubblico al fine di assogettarli alla normativa

comunitaria sugli appalti. La giurisprudenza è sul punto divisa: accanto alla soluzione negativa, esistono posizioni favorevoli a

considerare compatibile la natura di impresa con la configurazione del soggetto in termini di organismo di diritto pubblico. La tesi

negativa si basa sul fatto che la società ha scopo di lucro, laddove l'organismo di diritto pubblico è istituito per soddisfare bisogni di

interesse generale aventi carattere industriale o commerciale.

9. Vicende degli enti pubblici

La costituzione degli enti pubblici può avvenire per legge o per atto amministrativo sulla base di

una legge, anche se in molti casi la legge si è limitata a riconoscere come enti pubblici organizzazioni nate

per iniziativa privata. Il legislatore non è libero di rendere pubblica qualsiasi persona giuridica privata,

sussistono infatti limiti costituzionali che tutelano le formazioni sociali, la libertà di associazione e altre

attività private.

Per quanto riguarda l'estinzione degli enti pubblici, bisogna osservare che essa può aprire una

vicenda di tipo successorio (a titolo universale o a titolo particolare: nel primo caso occorre l'integrale

devoluzione al nuovo ente degli scopi pubblici dell'ente soppresso), normalmente disciplinata direttamanete

dalla legge, allorchè le sue attribuzioni siano assorbite da un altro ente.

A differenza della successione nel campo del diritto privato, si osserva la prevalenza di una regolamentazione eteronoma.

L'estinzione può essere prodotta dalla legge o da un atto amministrativo basato sulla legge.

Ai sensi dell'art.15, d.l. 98/2011, conv. Nella l. 111/2011, quando la situazione economica, finanziaria e patrimoniale di un

ente sottoposto alla vigilanza dello Stato raggiunga un livello di criticità tale da non potere assicurare la sostenibilità e l'assolvimento

delle funzioni indispensabili, ovvero l'ente stesso non possa fare fronte ai debiti liquidi ed esigibili nei confronti dei terzi, con decreto

del ministro vigilante, di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze, l'ente è posto in liquidazione coatta amministrativa; i

relativi organi decadono ed è nominato un commissario. Un'altra particolarità della vicenda estintiva di alcuni enti pubblici è

costituita dal fatto che la tutela costituzionale delle formazioni sociali e delle associazioni eventualmente costituenti il sostrato

dell'ente comporta l'impossibilità che le stesse si disperdano a seguito dell'estinzione dell'ente stesso, persino se effettuata dalla legge:

esiste dunque una tutala delle organizzazioni sociali anche nei confronti del legislatore, il quale, infatti, allorchè è intervenuto in

materia, ha previsto la trasformazione degli enti in persone giuridiche private. E' discussa la possibilità dell'ente associativo

(caratterizzato dal fatto che i membri assumono direttamente le decisioni fondamentali dell'ente) di autosciogliersi: la tesi negativa

pare preferibile. Gli enti associativi possono estinguersi se vengono meno tutti gli associati, mentre è dubbio che possano estinguersi

per le altre cause previste dagli artt. 27 e 28 c.c. (raggiungimento dello scopo o insufficienza del patrimonio).

Quanto alle modificiazioni degli enti pubblici, ricordiamo: il mutamento degli scopi, le modifiche

degli enti territoriali, le modificazioni delle attribuzioni e le variazioni della consistenza patrimoniale.

Un limite alla modificazione degli scopi degli enti sussiste per quelli di carattere associativo,

soprattutto se riconducibili alle formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost. Il legislatore può infatti liberamente

modificarne gli scopi originari.

Il legislatore può invece trasformare un ente pubblico non economico in ente pubblico economico, come è accaduto per

esempio per il Poligrafico dello Stato e come è stato previsto per l'Ente nazionale per l'aviazione civile (Enac). Non può essere

invece considerata una trasformazione in senso proprio la vicenda che ha istituito l'Ente tabacchi italiani (ente pubblico

economico), trasferendo ad esso alcune funzioni precedentemente svolte dall'amministrazione autonoma monopoli di Stato. L'ente è

stato trasformato in società per azioni con delira 23 giugno 2000.

Gli enti pubblici possono inoltre essere trasformati in persone giuridiche di diritto privato.

Anche il riordino degli enti pubblici può comportare l'estinzione degli stessi o la loro

trasformazione in persone giuridiche private.

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10. La privatizzazione degli enti pubblici.

La scelta di privatizzare gli enti pubblici è sostenuta da molte ragioni. In particolare, qualora la

privatizzazione comporti la trasformazione dell'ente in società per azioni, questa è in grado di reperire

capitale di rischio sul mercato e ha una snellezza d'azione maggiore. Il processo è influenzato dall'Ue, che

impone il divieto di discriminazioni tra gli operatori economici e tende a ridurre gli ambiti nei quali i soggetti

pubblici agiscono in posizione di monopolio o, comunque, disponendo di speciali privilegi: ciò determina la

limitazione dell'area del diritto derogatorio a tutto vantaggio delle regole comuni applicabili ai soggetti che

gestiscano attività d'impresa. La privatizzazione è stata inoltre introdotta anche ai fini della riduzione

dell'indebitamento finanziario.

Più in generale, la privatizzazione che non sia soltanto formale (che cioè non consista nella mera trasformazione dell'ente in

persona giuridica privata, ma investa anche la sostanza della persona giuridica, nel senso che lo Stato perde altresì il controllo

dell'ente, in particolare dismettendo le partecipazioni azionarie) comporta che il potere pubblico rinunzi ad essere imprenditore e ,

quindi, incide profondamente sul modello di intervento pubblico dell'economia.

E' chiaro che se si fosse in presenza di privatizzazione in senso sostanziale, non resterebbe che constatare lo spostamento

della linea di demarcazione tra pubblico e privato, secondo un'oscillazione che potrebbe dirsi “pendolare”. La realtà appare però

differente, in quanto spesso il legislatore affida la gestione di interessi pubblici alle strutture privatizzate, ossia realizza una

privatizzazione meramente formale cui non si accompagna la effettiva gestione di tali interessi da parte dei privati, rimanendo il

capitale nella totalità o nella maggioranza in mano pubblica.

Le tappe fondamentali della privatizzazione sono:

• privatizzazione c.d. “formale”, ovvero “fase fredda” della privatizzazione: in primo luogo, l'ente

pubblico economico (che può a sua volta derivare dalla trasformazione di un'azienda autonoma) viene

trasformato in società per azioni;

• privatizzazione c.d. “sostanziale”, o “fase calda” della provatizzazione: successivamente si procede

alla dismissione della quota pubblica (es. quella dell'Eni o della società Autostrade). Quest'ultima tappa è disciplina dal d.l. 332/1994, convertito nella l. 474/1994, come modificato dalla l.

350/2003, che fa riferimento a procedure trasparenti e non discriminatorie, finalizzate anche alla diffusione

dell'azionatario tra il pubblico dei risparmiatori e degli investitori istituzionali.

La l. 474/1994 subordina la privatizzazione delle società in mano pubblica operanti nei settori della difesa,

trasporti, telecomunicazioni, fonti di energia e altri servizi pubblici, alla creazione di organismi indipendenti

di regolazione e prevedeva che lo Stato potesse mantenere speciali poteri (golden share: oggi trasformati in

golden power). Cons. Stato, sez. I, parere n. 2228/1996, ha affermato che l'alienazione delle partecipazioni detenute dello Stato nelle

società operanti nel settore autostradale non deve necessariamente essere preceduta dalla costituzione di un'apposita autorità di

regolazione, atteso che lo Stato non ha mantenuto poteri speciali.

La privatizzazione interessa soggetti che operano in tre settori principali: nella gestione di

partecipazioni azionarie (Iri, Eni); nei servizi di pubblica utilità (Enel, telecomunicazioni, gas e così via); nel

settore creditizio (istituti di credito di diritto pubblico). Quanto alla privatizzazione degli enti che gestiscono servizi di pubblica utilità, le attivitò attribuite all'ente prima della

trasformazione in monopolio o comportanti lo svolgimento di poteri pubblicistici, vengono affidate alla società per azioni a titolo di

concessione per la durata minima di venti anni. Le dimissioni delle partecipazioni azionarie pubbliche relative alle società operanti

nei settori della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni e delle fonti di energia sono subordinate alla creazione di autoritò

regolatrici con compiti in materia di tariffe e di qualità di servizi di rilevante interesse pubblico. Per quanto attiene al settore

creditizio, la privatizzazione ha comportato la trasformazione degli istituti di diritto pubblico in società per azioni controllate da enti

pubblici conferenti (fondazioni bancarie aventi il fine di svolgere attività di assistenza e di beneficenza, in ordine alle quali la

partecipazione azionaria costituisce fonte di reddito). In tema di fondazioni bancarie vanno ricordate due importanti decisioni della Corte costituzionale. La n. 300/2003 ha

sottolineato che la l. 448/2001 opera nell'ambito della materia “ordinamento civile”, che include la disciplina delle persone giuridiche

di diritto privato; la sent. n.301/2003, invecem ha rigettato la questione di legittimità costituzionale relativa alla previsione legislativa

di settori “rilevanti”, mentre, sotto il profilo della governance, ha ritenuto fondata la questione attinente alla composizione dell'rgano

di indirizzo, considerando irragionevole la prevalenza della composizione riservata a enti territoriali. In attuazione dell'art. 11, l.

59/1997, sono inoltre stati privatizzati altri enti: si ricordano in particolare l'ente autonomo acquedotto pugliese.

L'ordinamento italiano conosce altre ipotesi di privatizzazione, caratterizzate dal fatto che gli enti

vengono trasformati in soggetti privati non aventi scopo di lucro.

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es. trasformazione dell'ente pubblico “La Biennale di Veneziale” in fondazione privata, l'ente pubblico “Istituto nazionale per il

dramma antico” in fondazione, l'Ente autonomo “La triennale di Milano” in fondazione.

Con d.lgs. 419/1994, modificato dalla l. 284/2002, sono state poi emanate norme in materia di

privatizzazione, fusione, trasformazione e soppressione di enti pubblici nazionali, ridefinendo altresì i

compiti della Siae.

Tale decreto, inapplicabile agli enti che svolgono attività di previdenza, dispone che, in esito ad istruttoria dei ministeri

competenti, siano adottabili misure di razionalizzazione relativamente agli enti indicati in una specifica tabella allegata. Gli enti

privatizzati continuano a sussistere come enti privi di scopo di lucro e assumono la personalità giuridica di diritto privato, potendo

continuare a svolgere e gestire, sulla base di apposite concessioni o convenzioni con le autorità ministerali competenti, i compiti e le

funzioni attribuiti ad essi dalla normativa vigente.

Un importante programma di soppressione di enti (in particolare di quelli con dotazioni organiche

ridotte) è previsto sia dall'art. 26 (c.d. “taglia-enti”), d.l. 112/2008 convertito nella l. 133/2008, sia dall'art. 2,

c. 634, l. 144/2007 ( che fa riferimento a riordino, trasformazione e soppressione di soggetti statali.

Il processo è alimentato anche dalle esigenze di contenimento della spesa pubblica. Il d.l. 95/2012,

conv. Nella l. 135/2012 (spending review), prevede che regioni, province e comuni sopprimano o accorpino,

riducendone in tal caso gli oneri finanziari in misura non inferiore al 20%, enti agezie e organismi comunque

denominati e di qualsiasi natura giuridca che, alla data di entrata in vigore del decreto, esercitano, anche in

via strumentale, funzioni fondamentali di cui all'art. 117, c. 2, lettera p), Cost. O funzioni amministrative

spettanti ai comuni, province, e città metropolitane ai sensi dell'art. 118, Cost. (ma la disposizone non si

applica alle aziende speciali, agli enti e alle istituzioni che gestiscono servizi socio assistenziali, educativi e

culturali). E' vietato inoltre agli enti locali di istutuire enti, agenzie e organismi comunque denominati e di

qualsiasi natura giuridica, che esercitino una o più funzioni fondamentali e funzioni amministrative loro

conferite ai sensi dell'art. 118, Cost.

11. I principi in tema di organizzazione degli enti pubblici.

Per la realizzazione dei propri fini, l'amministrazione ha bisogno di un insieme di strutture e di mezzi

personali e reali che è il risultato di una certa attività organizzativa la quale si deve svolgere, in primo luogo,

nell'osservanza della Costituzione.

I caratteri qualitativi e quantitativi dell'amministrazione pubblica, intesa come modo d'essere della

medesima, dipendono strettamente dall'ampiezza e dalla natura dei compiti da essa svolti: recentemente,

l'accrescersi delle attività pubbliche e, al loro interno, l'importanza di crescente acquisita dai servizi, hanno

comportato un'incisiva trasformazione dell'organizzazione pubblica e una marcata attenzione verso i relativi

aspetti teorici. Più in particolare, si registra il tramonto del modello gerarchico (tipico di una struttura

accentrata, rigida e caratterizzata dallo svolgimento di compiti ripetitivi: tale modello è dominato dalla

principale preoccupazione del rispetto della legge e l'introduzione di nuovi assetti organizzativi più flessibili,

in grado di rispondere in modo più adeguato alle nuove esigenze (anche di responsabilizzazione) e ai nuovi

compiti assunti dagli enti.

Per quanto attiene all'attività di organizzazione, è stato osservato che l'art.97 Cost. (che si riferisce

letteralmente all'organizzazione) può essere letto come una norma di ripartizione della funzione di indirizzo

politico tra governo e parlamento: poiché l'attività di organizzazione è espressione di quella di indirizzo, si

desume la sussistenza di una riserva di organizzazione in capo all'esecutivo, il quale può così modellare le

proprie strutture in ragione delle esigenze spesso mutevoli che si trova a dover affrontare.

La legge costituisce dunque la fonte primaria di disciplina della materia organizzativa: essa deve

rispettare i principi di imparzialità e buon andatmento, ma non può comprimere del tutto gli “spazi” di

organizzazione riservati all'esecutivo.

Un riconoscimento espresso di potestà di organizzazione in capo all'amministrazione è operato

dall'art.17, c.1, lett. d), l. 400/1988, che prevede la figura dei regolamenti governativi disciplinanti

l'organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni di legge:

va poi ricordato l'art. 17, c.4-bis, l. 400/1988, introdotto dall'art. 13, l. 59/1997, il quale stabilisce che

l'organizzazione e la disciplina degli uffici dei ministeri sono determinate con regolamento governativo

emanato ai sensi del c.2 (si tratta dunque di un regolamento c.d. Di delegificazione, ossia autorizzato ad

abrogare norme di legge: cap. V, par. 21), su proposta del ministro competente, d'intesa con il Presidente del

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Consiglio dei ministri e con il ministro del tesoro. Tale regolamento individua i soli uffici dirigenziali

generali, mentre spetta ai ministri di regolare con i propri atti i “compiri delle unità dirigenziali” minori.

L'art. 97 si riferisce all'amministrazione statale. Va però richiamata l'interpretazione che ammette

l'applicabilità dei principi desumibili dall'art.97 Cost. all'amministrazione nel suo complesso.

Il modello si ripropone anche per gli enti locali pur con qualche complicazione. Ai sensi dell'art.

117, c. 2, lett. p), Cost., spetta alla legge dello Stato (e non della regione) la disciplina degli organi di

governo e delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane. Gli enti locali possono

dunque “specificare le attribuzioni” soltanto degli organi diversi da quelli di governo. Per altro verso, ai sensi

dell'art. 117 c.6, Cost., tali enti hanno “potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e

dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. In questo caso, a differenza di quanto accade per lo Stato, vi

è dunque un riconoscimento costituzionale della riserva di organizzazione. Essi godono poi di potestà

statutaria.

Incerto è il confine tra disciplina statutaria, disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle

funzioni e disciplina dell'attività: in linea di principio si può ritenere che allo statuto spetti la fissazione delle

linee organizzative di base (organizzazione c.d. Statica, rispettando i limiti derivanti dall'intervento del

legislatore statale quanto agli organi di governo), mentre l'ambito di cui all'art. 117, c. 6, spettante ai

regolamenti locali, riguarderebbe l'organizzazione collegata all'esercizio di specifiche funzioni (si pensi

all'introduzione di moduli organizzativi quali uno sportello unico o una conferenza); la disciplina dell'attività

– rimessa alla fonte competente ai sensi dell'art. 117 Cost – concernerebbe infine il momento dinamico dello

svolgimento del potere. In ogni caso, Corte cost. n. 246/2006 ha statuito che solo gl enti locali possono

adottare i regolamneti di cui al c. 6, restando escluso qualsiasi potere sostitutivvo o supplettivo della regione:

si configura dunque una riserva di regolamento costituzionalmente protetta.

Accanto alle norme giuridische di organizzazione debbono poi essere ricordati atti di

organizzazione non aventi carattere normativo, quali gli atti di istituzione di enti, di organi o di uffici,

l'assegnazione agli organi dei titolari, gli accordi tra più amministrazioni che disciplinano attività di interesse

comune o con costitutivi consorzi.

Il potere di organizzazione è oggi espressamente disciplinato dagli artt. 1 e 5 d.lgs. 165/2001.

La prima norma afferma che le amministrazioni pubbliche definiscono “secondo i principi generali

fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi, medianti atti organizzativi secondo i rispettivi

ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici” e “individuano gli uffici di maggior

rilevanza”, indicando anche i principi cui le amministrazioni debbono ispirarsi.

La seconda norma stabilisce che le pubbliche amministrazioni – in questo caso il riferimento è ai

dirigenti – assumono ogni determinazione organizzativa al fine di assicurare l'attuazione dei principi di cui

all'art. 2, c. 1 “con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”; alle determinazioni operative e

gestionali occorre garantire “adeguati margini” (art. 2, comma 1, lett. b) e cioè, uno spazio di discrezionaità

organizzativa.

L'attività di organizzazione si svolge dunque su molteplici livelli: la legge, lo staturo, gli atti amministrativi di

organizzazione e le concrete “determinazioni” assunte nel rispetto delle leggi e degli atti organizzativi di competenza degli organi di

governo.

La riforma del rapporto di impiego presso le amministrazioni pubbliche (d.lgs. 150/2009, che ha

modificato il d.lgs. 165/2001) ha cura di escludere l'area dell'organizzazione amministrativa degli uffici – di

spettanza dei dirigenti: c.d. Micro-organizzazione – dalla contrattazione collettiva, rimettendo, dunque, le

relative scelte al potere unilaterale del datore di lavoro pubblico ed escludendo contaminazioni con il

“momento sindacale”.

Gli elementi dell'organizzazione che abbiano un riflesso esterno (che possano cioè rapportarsi con

altri soggetti), devono in ogni caso essere istituiti dalla legge, ovvero da atti amministrativi che abbiano

diretto fondamento in una legge che definisca in modo puntuale il potere di “organizzare”.

L'art. 97 Cost. Stabilisce che “nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le

responsabilità proprie dei funzionari”, mentre la l. 421/1992, che contiene la delega poi esercitata dal Governo con l'emanazione del

d.lgs. 29/1993 (ora sostituito dal d.lgs. 165/2001), prevede che restino assogettati alla disciplina pubblicistica gli organi, gli uffici

fondamentali dell'organizzazione; si aggiunga che l'art.3, d.lgs. 165/2001 riserva alla legge e agli atti amministrativi l'individuazione

degli uffici di maggior rilevanza (tra i quali è da ritenere rientrino gli organi aventi rilevanza esterna) e la prefissione delle linee

fondamentali di organizzazione degli uffici.

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In linea di principio, la dimensione organizzativa sfugge all'area di ciò che è giustiziabile a iniziativa

dai privati, quasi si trattasse di una sfera riservata ai soggetti pubblici. Siffatta limitazione corrisponde

all'idea secondo cui le situazioni giuridiche spettanti ai cittadini – e azionabili dinanzi a un giudice – hanno a

oggetto unicamente l'attività e i provvedimenti. Il d.lgs. 198/2009, tuttavia, prevede un'azione spettante ai

cittadini e attivabile “al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di

un servizio”: essa pare in grado di incidere anche sui profili organizzativi dell'amministrazione.

Vanno infine ricordati gli accordi organizzativi che, sempre più spesso, vengono stipulati tra più

amministrazioni. La norma che fonda il potere è costituita, in generale, dall'art. 15, l. 241/1990, ma numerose

disposizioni contengono discipline specifiche, prevendendo in particolare che, mediante convenzioni, le

amministrzioni possano istituire strutture comuni, caratterizzate da una notevole flessibilità e duttilità in

ragione delle esigenze concrete che le amministrazioni intendono soddisfare.

Nell'ambito delle organizzazioni pubbliche vanno oggi ricomprese anche le società legate all'ente da

relazioni in house. In questo contesto i principi della disciplina sono racchiusi nella normativa statale e,

sopprattutto, nella normativa comunitaria, comunque prevalente. Più precisaemte, tali principi indicano quale

assetto organizzativo deve avere la società (nonché il tipo di rapporto con l'ente che detiene il capitale)

affinchè a società medesima possa giovarsi dell'affidamento diretto di compiti.

12. L'organo.

Problema essenziale delle organizzazioni è quello della referibilità ad esse di situazioni giuridiche e

rapporti giuridici.

Le prime elaborazioni teoriche attribuivano la personalità giuridica soltanto allo Stato (ad esso era

dunque riferibile la capacità giuridica), mentre in seguito si riconobbero altre soggettività.

Atteso che le persone giuridiche costituiscono una creazione del diritto e, dunque, sono

naturalisticamente incapaci di agire, si trattava di spiegare come invece esse potessero agire. Le principali

soluzioni prospettabili erano due: ricorrere all'istituto della rappresentanza, alla stessa stregua di quella

necessaria disposta per le persone fisiche incapaci di agire (in forza del quale gli effetti dell'attività del

rappresentante-persona fisica si imputano in capo al rappresentato), ovvero utilizzare la figura dell'organo.

Attraverso l'organo la persona giuridica agisce e l'azione svolta dall'organo si considera osta in

essere dall'ente. Siffatto modello si è imposto dall'analisi dell'organizzazione degli enti pubblici, anche

perchè evita la moltiplicazione dei rappresentanti dell'ente e consente l'imputazione a questo non soltanto

degli effetti, ma anche dell'attività. L'organo infatti non è seprato dall'ente, sicchèm a differenza di quanto

accade nella rappresentanza, la sua azione non è svolta in nome e per conto di altri, diventando invece

direttamente attività propria dell'ente che, secondo alcuni, risulterebbe così capace di agire, senza necessità

che altri “presti” la propria volontà.

Al riguardo va precisato che la capacità giuridica spetta comunque all'ente, che è centro di

imputazioni di effetti e fattispecie, laddove sul piano naturalistico occorre pur sempre l'opera dell'uomo

preposto all'organo. Pare allora corretto riferire la capità di agire soltano all'organo e ritenere che l'ente mero

centro di imputazione di effetti e di attività: più esattamente, in quanto si proponga in veste di preposto

dell'organo, la persona fisica consente tale imputazione in capo all'ente.

L'organo è dunque uno strumento di imputazione e, cioè, l'elemento dell'ente che consente di riferire

all'ente stesso atti e attività; spesso – ma non sempre – l'organo permette all'ente di rappottarsi con altri

soggetti giuridici, o comunque di produrre effetti giuridici preordinati all'emanazione di atti aventi rilevanza

esterna.

Più in particolare l'organo va identificato nella persona fisica o nel collegio in quanto – e fino a

quando – investono della competenza attribuita dall'ordinamento.

Il contratto stipulato dal dirigente comunale si considera concluso dal comune; il provvedimento

adottato dal sindaco è provvedimento del comune; il bando emanato dal dirigente statale “è” atto statale, e

così via.

Posto che i poteri vengono attribuiti soltanto all'ente avente la soggettività giuridica, e che esso si

avvale di più organi, ognuno di esse, pur senza esserne titolare, esercita una quota di quei poteri, detta

competenza.

Da questo punto di vista l'organo è dunque anche un centro di competenza, nel senso che il

meccanismo di imputazione che corre tra persona fisica preposta all'organo e l'ente si attiva con riferimento a

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una sfera di competenze.

La competena è ripartita secondo svariati criteri: per materia (il sindaco per esempio si occupa di

materie differenti da quelle la cui cura è affidata al dirigente), per valore (allorchè all'interno dell'ente la

competenza spettante a ciascun organo sia distribuita in ragione dell'entità della spesa che l'adozione dell'atto

comporta), per grado (se la potestà è distribuita tra organi inferiori o superiori) o per territorio. Essa può

subire modificazioni, come si vedrà nel par. 15.

Si deve ricordare che il termine competenza viene usato in senso improprio per indicare anche le attività di spettanza degli

uffici.

Va aggiunto che si può discutere se l'organo “sia”, ovvero “abbia” competenza: le due soluzioni rispecchiano differenti

impostazioni. La prima sottolinea il carattere oggettivo dell'organo, la seconda quello soggettivo, risultante dalla roevanza della

persona fisca ad essa preposta.

La competenza va tenuta distinta dall'attribuzione, espressione che sarà impiegata per indicare la

sfera di poteri che l'ordinamento generale conferisce ad ogni ente pubblico.

L'attribuzione è di norma collegata con la personalità giuridica dell'ente, anche se sussistono alcune eccezioni.

13. L'imputazione di fattispecie in capo agli enti da parte di soggetti estranei alla loro

organizzazione.

In alcuni casi il fenomeno di imputazione di fattispecie all'ente avviene secondo un meccanismo

diverso: non già dall'organo all'ente, bensì da un distinto centro attivo di imputazione (persona fidica o

giuridica), il quale ha pur sempre il dovere di agire (da questo punto di vista la situazione in esame si

distingue dall'istituto civilistico della rappresentaza) anche se, in senso proprio, è estraneo all'organizzazione

amministrativa a favore della quale l'imputazione si realizza.

Molteplici sono le ipotesi nelle quali attività pubbliche vengono esercitate da soggetti privati: si pensi alle funzioni

certificative spettanti al notaio, alla possibilità che comcessionari emanino atti amministrativi o eroghino servizi pubblici, alla

potestà spettante ai cittadini di procedere all'arresto in caso di flagranza di reato, alla possibilità di affidare a terzi la riscossione dei

tributi.

Il privato può agire direttamente in base alla legge, ovvero in forza di un atto della pubblica

amministrazione. Egli riceve spesso un compenso da parte dell'ente pubblico oppure degli utenti che

fruiscono della sua attività (allorchè si sostituisca all'ente nell'erogazione di un servizio). L'attività si

configura nei confronti dei terzi come pubblicistica (e come tale è soggetta a un peculiare regime), alla stessa

stregua di quella che avrebbe posto in essere l'ente pubblico sostituito.

I concessionari o i gestori privati non sono soggetti pubblici: essi, infatti, nascono con una vocazione

differente rispetto a quella che connota gli enti pubblici istituiti o riconosciuti in relazione al perseguimento

di interessi pubblici; non vi è piena coincidenza tra lo scopo del soggetto pubblico che ha assunto il servizio

o ha previsto la realizzazione dell'opera e lo scopo del concessionario questi resta privato in tutto e per tutto

dunque potendo ad esempio cessare l'attività e “disperre della propria esistenza”, anche se, in forza della

concessione o dell'affidamento – e per la sola durata di questi – è tenuto a svolgere un servizio o a realizzare

un'opera con le caratteristiche e secondo gli indirizzi determinati dall'ente pubblico concedente. In linea di

principio, trova applicazione l'art.1, c. 1-ter, l. 241/1990, secondo cui i soggetti privati preposti all'esercizio

di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui alla l. 241/1990 medesima.

14. Classificazione degli organi.

Circa gli organi sono state prospettate varie distinzioni.

Sono esterni gli organi competenti a emanare provvedimenti o atti aventi rilevanza esterna. Gli

organi procedimentali (o organi interni) sono quelli competenti ad emanare atti aventi rilevanza

endoprocedimentale. Inizialmente l'organo era utilizzato solo per rapporti giuridici a rilevanza esterna e,

cioè, per rendere operativo l'ente nei suoi rapporti con altri soggetti: in seguito, la figura ha trovato impego

con riferimento pure ai fenomeni di imputazione di atti giuridici diversi da quelli aventi rilevanza esterna.

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38

Anche per essi occorre d'altronde spiegare il meccanismo della loro imputazione in capo all'ente e la teoria

dell'organo – che appunto consente tale imputazione – fornisce una soluzione soddisfacente.

Organi centrali sono quelli che estendono la propria competenza all'intero spettro dell'attività

dell'ente; gli organi periferici, viceversa, hanno competenza limitata a un particolare ambito di attività, di

norma individuato secondo un criterio geografico.

Gli organi ordinari sono previsti nel normale disegno organizzativo dell'ente; gli organi

straordinari operano invece in sostituzione degli organi ordinari (in genere essi sono denoinati

“commissari”).

Gli organi permanenti sono stabili; gli organi temporanei svolgono funzioni solo per un limitato

periodo di tempo (si pensi alle commissioni di concorso).

Gli organi attivi sono competenti a formare ed eseguire la volontò dell'amministrazione in vista del

conseguimento dei fini ad essa affidati; gli organi consultivi rendono pareri; gli organi di controllo

sindacano l'attività posta in essere dagli organi attivi. Spesso lo stesso organo svolge compiti consultivi e

attivi: i dirigenti, ad esempio, formulano proposte ed esprimono pareri, pur essendo anche gli organi cui

spetta l'adozione di atti e provvedimenti amminoistrativi.

La distinzione rispecchia quella tra attività amministrativa attiva (che ha la finalità di curare gli

interessi pubblici: c.d. Amministrazione attiva), attività consultiva (mediante la quale vengono espressi

pareri) e attività di controllo interno (la cui finalità è quella di verificare l'attività amministrativa attiva alla

luca di un parametro prefissato).

Gli organi rappresentativi sono quelli i cui componenti, a differenza degli organi non

rappresentativi, vengono designati o eletti dalla collettività che costituisce il sostrato dell'ente. Tipico

esempio di organo rappresentativo è il sindaco; organo non rappresentativo è invece, ad esempio, il prefetto.

Si può invero configurare una diversa nozione di rappresentatività, la quale prescinda dal metodo di

designazione ed esprima la posizione di un organo derivante dal rapporto con altro organo rappresentativo:

muovendo da tale premessa anche il ministro può essere considerato organo rappresentativo in virtù del suo

rapporto con il Parlamento.

Vi sono poi organi con legale rappresentanza; essa non deve essere confusa con la rappresentanza in

senso tecnico cui si è in precedenza fatto cenno. L'organo dotato di legale rappresentanza è in realtà un

particolare tipo di organo esterno e, cioè, quello che esprime la volontà dell'ente nei rapporti contrattuali con

i terzi e che, avendo la capacità processuale, conferisce la procura alle liti per agire o resistere in giudicio (es.

il sindaco e il presidente della provincia). Esso non è invece protagonista del meccanismo di imputazione di

effetti tipico della rappresentanza in senso proprio, e d'altro lato, non è il solo a poter impegnare l'ente

all'esterno, atteso che questa p la caratteristica di tutti gli organi, anche di quelli cui non siaattribuita la legale

rappresentanza.

Da quanto detto emerge che la responsabilità giuridica spetta solo all'ente; alcuni organi, tuttavia, per

espressa volontà di legge, sono anche dotati di personalità giuridica (e sono pertanto detti organi con

personalità giuridica od organi-enti), profilandosi come titolari di poteri e come strumenti di imputazione

di fattispecie ad altro ente (in quanto organi di quest'ultimo): è ad esempio tradizionalmente considerato tale

l'Istat, alla dipendenza della presidenza del Consiglio dei ministri, con compiti relativi alle indagini

statistiche interessanti le amministrazioni statali.

Un'ipotesi differente in cui l'attivitàdi un soggetto esterno all'organizzazione dello Stato si impuuta a quest'ultimo è

costituita dalla Banca d'Italia, alla quale, ai sensi dell'art. 6 d.lgs. 430/1997, è affidato il servizio di tesoreria dell'amministrazione

statale.

Sono organi monocratici quelli il cui titolare è una sola persona fisica. Negli organi collegiali si ha

la contitolarità di più persone fisiche considerate nel loro insieme.

Le ragioni per cui si procede all'istituzione dell'organo collegiale sono fondamentalmente due:

riunire in un unico corpo i portatori di interessi differenti e/o far confluire nel collegio più capacità

professionali e tecniche. L'essenza della collegialità consiste nell'imputazione all'organo della volontà,

espressa nei modi di legge della maggioranza dei suoi componenti, i quali possono essere portatori, in seno

all'organo stesso, di interessi o professionalità diverse.

L'esercizio delle competenze dell'organo collegiale avviene mediante deliberazione, la cui adozione

segue un procedimento che, solitamente, consta delle seguenti fasi:

• convoczione del collegio (che è l'invito, mediante comunicazione contenente l'ordine del giorno, a

riunirsi in un certo luogo e in una certa data),

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• presentazione di proposte sui punti all'ordine del giorno,

• discussione (che talora precede la formulazione della proposta),

• votazione.

Per capire il funzionamento degli organi collegiali, occorre distinguere tra quorum strutturale e

quorum funzionale. Il primo indica il numero di membri che debbono essere presenti affinchè il collegio sia

legittimamente costituito (di solito si tratta della metà più uno dei componenti; nei c.d. Collegi perfetti la

legge, ovvero la natura dei poteri esercitati – come ad esempio ccade per i collegi che accertano l'idoneità dei

candidati nei concorsi – impongono la presenza di tutti i componenti). Il quorum funzionale indica il numero

di membri presenti che debbono esprimersi favorevolmente sulla proposta affinchè questa si trasformi in

deliberazione. Nei c.d. Collegi perfetti non è ammessa l'astenzione; negli altri casi l'astenuto è considerato

talora come assente, più spesso come votante; in quest'ultma ipotesi il voto di astensione (che nel caso non è

astensione dal voto) non riduce il computo dei votanti in ragione del quale deve essere calcolato il quorum

funzionale e, dunque, equivale a voto negativo. La deliberazione si perfeziona con la proclamazione fatta dal

presidente: le sedute vengono documentate attraverso processi verbali redatti dal segretario e servono ad

esternare la deliberazione adottata.

Il principio della collegialità della commissione di gara può essere derogato (delegando alcuni adempimenti a singoli

membri o a sottocommissioni) soltanto quando si tratti di svolgere attività che non comportino valutazioni (preparatorie, istruttorie,

strumentali vincolate. Occorre segnalare la tendenza alla riduzione degli organi collegali. Va notato che uno degli istituti che

dovrebbero sostituirli – la conferenza di servizi – tende paradossalmente ad agire secondo le regole della collegialità, nonostante che

essa si distingua dall'organo collegiale perchè le varie volontà non si fondono in un'unica deliberazione e le varie competenze delle

amministrazioni partecipanti rimangono distinte.

15. Relazioni interorganiche. I modelli teorici: la gerarchia, la direzione e il coordinamento.

Tra gli organi di una persona giuridica pubblica possono instaurarsi relazioni disciplinate dal diritto,

le quali hanno carattere di stabilità e riflettono la posizione reciproca di essi nell'ambito dell'organizzazione.

La dottrina ha enucleato una serie di modelli organizzativi, i quali tuttavia trovano soltanto parziale corrispondenza nella

realtà normativa, anche a motivo della già citata atipicità degli enti pubblici, che determina la presenza di strutture organizzative

spesso singolari. Il discorso riguarda soprattutto la gerarchia e la direzione: esse verranno dunque analizzate prima come modelli teorici,

rinviando al seguito la verifica della loro effettiva realizzazione ad opera della legge. Va aggiunto che la difficoltà di utilizzare le

ricostruzioni classiche nel panorama normativo risultante dalle recenti riforme in materia amministrativa sono accresciute dalla

previsione di figure assai peculiari, quali il responsabile del procediemento.

La gerarchia esprime la relazone di sovraordinazione-subordinazione tra organi diversi. La

gerarchia si è sviluppata – ed è ancora presente – nell'ambito dell'amministrazione militare, ove in un primo

tempo esprimeva non già i rapporti tra organi, bensì la supremazia di un funzionario nei confronti del

subordinato: essa peraltro ha costituito per lungo tempo il modulo organizzatorio più ricorrente all0interno di

tutte le branche dell'amministrazione.

Nella gerarchia in senso proprio non sussiste una vera e propria seprazione di competenza tra gli

organi interessati dalla relazione. Più precisamente l'organo subordinato non dispone di una propria escusiva

sfera di competenza, ancorchè, in ossequio al principio di legalità, non possa operare al di fuori dell'ambito

ad esso assegnato, e l'organo superiore ha una competenza comprensiva anche di quella del secondo, pur se

non vale il reciproco. L'omogeneitò delle competenze giustifica i poteri spettanti al superiore gerarchico e il

dovere di obbedienza di quello inferiore.

Più in particolare, i poteri caratteristici della relazione gerarchica sono:

a) potere di ordine (che consente di vincolare l'organo subordinato a un certo comportamento nello

svolgimento della propria attività), di direttiva (mediante la quale si indicano fini e obbiettivi da

raggiungere, lasciando sussistere un margine di scelta in ordine alle modalità con cui conseguirli) e di

sorveglianza sull'attività degli organi subordinati, i quali possono essere sottoposti a ispezioni e inchieste;

b) potere di decidere i ricorsi gerarchici proposti avverso gli atti dell'organo subordinato;

c) potere di annullare d'ufficio e di revocare gli atti emanati dall'organo subordinato (sul punto non vi

è perà l'unanimità di vedute in dottrina; l'art. 21-nonies, l.241/1990, in ogni caso, dispone che l'annullamento

del provvedimento illegittimo da parte di organo diverso da quello che lo ha emanato deve essere previsto

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dalla legge);

d) potere di risolvere i conflitti che insorgano tra organi subordinati;

e) potere in capo all'organo superiore di avocazione (per singoli affari, per motivi di interesse pubblico,

indipendentemente dall'inadempimento dell'organo inferiore) e sostituzione (a seguito di inerzia dell'organo

inferiore). Importanti poteri di sostituzione, avocazione e nomina di un commissario sono espresamente

disciplinati in generale, per il caso di ritardo nell'emanazione del provvedimento finale, dell'art. 2, l.

241/1990.

Più controversa è la spettanza all'organo superiore del potere di delega, che si ritiene sussistente

soltanto nei casi previsti dalla legge.

Tipico della relazione gerarchica è, come detto, il potere di emanare ordini relativamente alle

funzioni e mansioni dell'inferiore gerarchico: tale atto esclude la possibilità di scelta in capo all'organo

subordinato, facendo sorgere il dovere di eseguirlo, salvo che l'ordine stesso contrasti con la legge penale. Se

il dipentende ritenga l'ordine palesemente illegittimo, deve farne rimostranza al superiore, dichiarandone le

ragioni, ma è poi obbligato ad eseguirlo se l'ordine viene rinnovato per iscritto (semprechè, come detto, non

si tratti di ordine criminoso: artt. 16 e ss, t.u. 3/1957). Una relazione (tra ente e società) simile alla gerarchia

pare essere presupposta dalle relazioni in house.

Altro tipo di relazione interorganica (essa ha tra l'altro caratteristiche simili a quella che ricorre nelle

relazioni intersoggettive) è la direzione, caratterizzata dal fatto che, pur essendoci due organi posti in

posizione di diseguaglianza, sussiste una più o meno ampia sfera di autonomia in capo a quello subordinato.

L'organo sovraordinato ha in particolare il potere di indicare gli scopi da perseguire, ma deve lasciare

alla struttura sottordinata la facoltà di scegliere le modalità e i tempi dell'azione volta a conseguire quei

risultati. Nella direzione, l'organo sovraordinato ha più in particolare il potere di indirizzo (con il quale

vengono fissati gli obiettivi), il potere di emanare direttive (le quali, come rilevato, si riscontrano perarltro

anche nella gerarchia, pur non caratterizzandola) e quello di controllare l'attività amministrativa in

considerazione degli obbiettivi da conseguire.

Altri poteri, quali quello di avocazione o di sostituzione, possono di volta in volta essere attribuiti

dalla legge. In sintesi, rispetto alla gerarchia, il potere ordinatorio è sostituito da quello di emanare direttive,

da cui l'organo inferiore non è completamente vincolato; per altro verso, il controllo, che nella gerarchia

riguarda essenzialmente gli atti, si svolge in via successiva e investe l'attività.

L'organo subordinato può – secondo parte della dottrina – disattendere le direttive morivando

adeguatamente. In realtà pare più corretta la tesi secondo cui le direttive hanno efficacia vincolante, anche se,

a differenza dell'ordine, lasciano uno spazio di discrezionalità in capo al destinatario e, di conseguenza, non

possono contenere disposizioni concrete e puntuali. Seguendo l'altra tesi, infatti, le direttive non si

distinguerebbero dai pareri, che di norma consentono appunto a chi li riceve di discostarsi motivando. Il

diritto positivo mostra comunque che la inosservanza delle direttive configura la responsabilità dirigenziale

(art.21, d.lgs. 165/2001), confermando l'efficacia vincolante -pur limitata – delle stesse.

Si è detto che il presupposto della gerarchia è l'identità di competenza tra organi sottoordinati e

organi sovraordinati: il progressivo emergere di nuovi interessi imputati alla cura delle amministrazioni e la

conseguente necessità di specializazione delle competenze sono alla base della crisi di quel modello. La

moltiplicazione dei centri di potere ha però imposto la individuazione di strumenti più pregnanti di

collegamento tra le varie attività.

In dottrina si individua, quale ulteriore relazione interorganica, il coordinamento, riferendolo a

organi in situazione di equiordinazione proposti ad attività che, pur dovendo restare distinte, sono destinate

ad essere ordinate secondo un disegno unitario. Contenuto di tale relazione sarebbe il potere, spettante a un

“coordinatore”, di impartire disposizioni idonee a tale scopo e di vigilare sulla loro attuazione e osservanza.

Finalizzati al coordinamento sarebbero alcuni organi (v. ad esempio i comitati interministeriali), mentre

altri organi si servono a fini di coordinamento degli atti di concerto, degli accordi, degli atti di indirizzo e

così via.

Lo spazio operativo di tale relazione è però abbastanza angusto. Il coordinamento è definito dalla

legge non già come autonoma relazione, bensì come potere esercitabile all'interno della direzione.

Il coordinamento si configura altresì come il risultato dell'esercizio di poteri che attengono ad altre

relazioni (ordini, direttive, istruzioni: da questo punto di vista il miglior coordinamento si realizza nella

gerarchia). Gli strumenti che dovrebbero consentire il coordinamento (in particolare ciò vale per gli accordi,

le intese), inoltre, non sempre sono inquadrabili nell'ambito di un rapporto di pariordinazione.

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Il coordinamento pare comunque acquisire autonoma rilevanza nelle relazioni di vera

equiordinazione, allorchè sia necessario attrbuire a un organo, appunto di coordinamento, poteri di contatto,

informazione e armonizzazione dell'azione di più soggetti che operano sullo stesso piano. Tali compiti

possono essere riconosciuti a un organo ad hoc, oppure a uno degli organi interessati al coordinamento.

Va aggiunto che, recentemente, l'esigenza di coordinamento (che si sposa con quella di

semplificazione) tra l'azione di più soggetti pubblici è soddisfatta attraverso l'utilizzo della conferenza di

servizi, in grado tra l'altro di comportare anche una deroga al regime ordinario delle competenza: tale

istituto non costituisce tuttavia una relazione in senso proprio, mancando in linea di massima del carattere di

stabilitò, sicchè può al massimo essere considerata – sempre non coinvolga organi di enti diversi – una figura

di “rapporto” interorganico.

15.1 Segue: il controllo.

Un'ultima importante elazione interorganiza è costituita dal controllo. Il controllo, che nel

linguaggio comune indica un'attività di verifica, esame e revisione dell'operato altrui, costituisce nel diritto

amministrativo un'autonoma funzione svolta da organi peculiari.

Esso rappresenta dunque una materia che non si può identificare compiutamente con la omonima relazione interorganica.

Per questo motivo, pur prendendo le mosse da tale spunto, il discorso sarà più ampio, anche se non toccherà il controllo inteso come

espressione riassuntiva dei modelli di regolamentazione delle attività economiche, né le misure di direzione dell'economia e di

discipina pubblicistica dell'impresa. In particolare, non si farà qui cenno all'attività, la quale pure ha la stessa struttura – verifica più

misura – del controllo come sopra definito, svolta in esplicazione dei poteri di polizia: tale controllo attiene alle relazioni con i

privati e non già a quelle interorganiche, è esercitato di norma di norma mediante rilascio d autorizzazione ed è caratterizzato

dall'instaurazione di un rapporto dei privati con il soggetto pubblico titolare di rilevanti poteri amministrativi, in particolare ispettivi e

sanzionatori.

In quanto relazione interorganica, il controllo consiste in un esame, da parte in generale di un

apposito organo, di atti e attività imputabili a un altro organo controllato.

Un'attività di controllo, in ogni caso, viene svolta nell'ambito delle relazioni di sovraordinazione-

sottoordinazione: l'organo gerarchicamente superiore, ad esempio, controlla l'attività del subordinato.

Il controllo, che è sempre doveroso (nel senso che l'organo chiamato a svolgerlo non può rifiutarsi di

esercitarlo), accessorio rispetto a un'attività principale e svolto nelle forme previste dalla legge, si conclude

con la formulazione di un giudizio, positivo o negativo, sulla base del quale viene adottata una misura.

Il controllo può anche essere esercitato da organi di un ente nei confronti di organi di altro ente: in tal

senso, si distingue tra controlli interni o esterni (a seconda che essi siano esercitati da organi dell'ente o da

organi di enti diversi: di norma interno è ad esempio il controllo ispettivo, anche se esso può configurarsi

momento di un altro procedimento di controllo esterno, come accade nell'ipotesi della Corte dei conti, la

quale può effettuare “ispezioni” ai sensi dell'art.3, c. 8, l. 20/1994).

Il controllo sugli organi degli enti territoriali è riservato allo Stato in quanto “espressione di un

potere politico di sovranità che non può non rimanere di pertinenza dello Stato” ed è previsto, per quanto

riguarda le regioni, dall'art. 126 Cost., e dagli artt. 141 e ss., T.U. Enti locali in ordine agli enti territoriali

diversi dalla regione.

Il controllo può essere condotto alla luce di criteri di volta in volta differenti – conformità alle norme

(controllo di legittimità, denominato vigilanza), opportunità (esso viene talora denominato tutela),

efficienza, efficacia e così via – e avere, come sopra accennato, oggetti assai diversi tra di loro: organi, atti

normativi (si pensi ai regolamenti), atti amministrativi di organi individuali e collegiali (va notato che il

controllo sull'atto ha in realtà ad oggetto tutta la fattispecie procedimentale), contratti di diritto privato,

attività (in questo caso esso normalmente implica poteri di ispezione, inchiesta e verifica; anche l'attività di

organizzazione è soggetta oggi a controllo: v. art. 5, u.c., d.lgs. 165/2001). Particolarmente rilevante è il

contrtollo sull'attività volto a verificare il raggiungimento dei risultati (gestione).

Le misure che possono esere adottate a seguito del giudizio che costituisce la prima fase del

controllo sono di vario tipo: repressive (annullamento dell'atto,il quale è esercizio di un potere vincolato, che

non lascia spazio alla ponderazione dell'interesse pubblico), impeditive (le quali ostano a che l'atto produca

efficacia: rifiuti di apporvazione o di visti; a differenza di ciò che accade allorchè siano previste misure

repressive, l'esito negativo del controllo non determina l'eliminazione dell'atto), sostitutive (controllo

sostitutivo: in tali casi – v. ad es. d.lgs. 229/1999 in tema di servizi sanitari regionali – alla privazione della

facoltà di agire in capo al controllato si accompagna l'esercizio di funzioni di amministrazione attiva da parte

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del sostituto o dell'organo da lui nominato).

Nel controllo sugli organi la misura è la sostituzione (spesso mediante un organo straordinario)

all'organo ordinario nel compimento di alcuni atti. In altri casi la misura è lo scioglimento dell'organo

(collegiale). Ancora diversa è la misura che consiste nell'appliczione di sanzioni ai componenti dell'organo.

Nell'ambito dei controlli sugli atti, infine, si distingue tra controlli preventivi (rispetto alla

produzione degli effetti degli atti: essi possono avere effetti deresponsabilizzanti rispetto

all'amministrazione) e successivi (i quali si svolgono quando l'atto ha già prodotto i suoi effetti). Esempi di

controlli preventivi erano quelli esercitati nei confronti degli atti delle regioni (da un organo statale) e degli

enti locali (da un organo regionale). In una via di messo tra controlli preventivi e controlli successivi si

collocano i controlli mediante riesame, i quali procrastinano l'efficacia dell'atto all'esito di una nuova

deliberazione dell'autorità decidente.

La l. cost. 3/2001 di riforma del titolo V della parte II della Costituzione non elenca i controlli nel

loro complesso tra le materie riservate allo Stato o alla potestà legislativa concorrente. Si fa invece menzione

della materia del “sistema contabile dello Stato” e di quella dell' “ordinamento e organizzazione

amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”, in cui possono essere ricompresi i controlli statali.

La vigente legge ordinaria è dunque compatibile con la Costituzione (che ha tra l'altro eliminato i controlli

esterni sugli atti di regioni e enti locali) ove disciplini i controlli esterni della Corte dei conti, i controlli di

ragioneria e i controlli interni relativamente ai soggetti pubblici statali; i restanti controlli paiono invece

devoluti alla legislazione regionale.

Pare in ogni caso permanere la competenza statale in ordine ai controlli sugli organi degli enti

territoriali e in quanto la materia è ricompresa nella disciplina degli “organi di governo e funzioni

fondamentali” degli enti locali.

Analizziamo ora i principali controlli.

15.2. In particolare: il controllo di ragioneria nell'amministrazione statale e il controllo della

Corte dei conti.

Il d.lgs. 123/2011 disciplina il controllo di regolarità amministrativa e contabile su tutti gli atti

statali di spesa; esso è svolto dal sistema delle ragionerie e, cioè, dagli uffici centrali del bilancio operanti

presso le amministrazioni centrali e, in periferia, dalle regionerie territoriali dello Stato.

Il controllo – che per taluni atti può anche seguire un programma annuale – si svolge in via

preventiva o successiva. Circa il controllo preventivo, gli atti di spesa, contestualmente alla loro adozione,

sono inviati all'ufficio di controllo che effettua la registrazione contabile delle somme relative agli atti di

spesa, con conseguente effetto di rendere indisponibili ad altri fini le somme ad essa riferite fino al momento

del pagamento.

In taluni casi, comunque, gli atti di spesa non possono avere corso: ad es. qualora siano pervenuti oltre il termine perentorio

di ricevibilitò del 31 dicembre dell'esercizio finanziario cui si riferisce la spesa, ovvero qualora la spesa ecceda lo stanziamento del

capitolo di bilancio.

Accanto al profilo contabile vi è quello, che incide sull'efficacia dell'atto, del controllo di

legittimità, con riferimento alla normativa vigente: entro trenta giorni dal ricevimento, l'ufficio provvede

all'apposizione del visto di regolarità amministrativa e contabile ( per alcuni atti, però, il termine è di sessanta

giorni: ad es. contratti di assunzione). Fatte salve le norme in materia di controllo da parte della Corte dei

conti, trascorso il termine senza che l'ufficio di controllo abbia formulato osservazioni o richiesto ulteriori

documentazioni, l'atto è efficace e viene restituito munito di visto. In presenza di orsservazioni o di richiesta

di chiarimentim i termini sono interrotti fino alla ricezione dei chiarimenti (ma se il dirignte non si attiva, il

provvedimento oggetto di rilievo non acquista efficacia ed è improduttivo di effetti contabili). Ricevute le

osservazioni o le richieste di chiarimenti, il dirigente responsabile comunica, entro trenta giorni, se intende

modificare o ritirare il provvedimento, per conformarsi alle indicazioni ricevute dall'ufficio di controllo. Egli,

tuttavia, sotto la propria responsabilità, puà disporre entro trenta giorni di dare ulteriore corso al

provvedimento, che acquista efficacia pur in presenza di osservazioni. In tali casi l'ufficio di controlo ne

prende atto e trasmette l'atto corredato dalle osservazioni e dalla relativa documentazione al competente

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ufficio di controllo della Corte dei conti.

E' comunque esclusa la possibilitò di disporre l'ulteriore corso di provvedimenti non sorretti da un'obbligazione

giuridicamente perfezionata o che disponga l'utilizzo di somme destinate ad altre finalità; di provvedimenti concernenti pagamenti in

conto sospeso non derivanti da provvedimenti giurisdizionali o da lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva. Il d.lgs. 123/2011, infine

disciplina il controllo successivo di taluni atti: gli uffici provvedono al discarico di quelli ritenuti regolari; nel caso in cui siano

riscontrate irregolarità inviano al funzionario delgeato una nota di osservazione; i funzionari rispondono ai rilievi entro trenta giorni;

in caso di inerzia o qualora le controdeduzioni rese non siano idonee a superare i rilievi formulati, i rendiconti non sono discaricati.

Una disciplina specifica, volta ad agevolare il pagamento emessi a titolo di corrispettivo nelle transazioni commerciali: ferme

restando le ipotesi in cui non si può dar corso agli atti di spesa, essi devono pervenire all'ufficio di controllo almeno 15 giorni prima

della data di scadenza del termine di pagamento; l'ufficio di controllo espleta i riscontri di competenza e dà comunque corso al

pagamento entro i 15 giorni successivi al ricevimento degli atti di pagamento, sia in caso di esito positivo, sia in caso di formulazione

di osservazioni o richieste di integrazioni o chiarimenti. Qualora il dirigente responsabile non risponda alle osservazioni, ovvero i

chiarimenti forniti non siano idonei a superare le osservazioni mosse, l'ufficio di controllo è però tenuto a segnalare alla competente

Procura Regionale della Corte dei conti eventuali ipotesi di danno erariali derivanti dal pagamento cui si è dato corso.

Controllo successivo esterno e costituzionalmente garantito è quello esercitato dalla Corte dei conti

“organo al servizio dello Stato-comunità”, attraverso il meccanismo della registrazione dell'apposizione del

visto. A differenza dei controlli esterni, quello esterno della Corte non costituisce esercizio di funzione

amministrativa, sicchè i relativi atti non sono impugnabili. Per altro verso, la Corte persegue un interesse

obiettivo e “esterno” rispetto a quello specifico curato dal soggetto controllato.

La l. 20/1994 ha drasticamente limitato l'ambito degli atti soggetti a controllo preventivo di

legittimità, che non è più svolto con carattere di generalità.

La Corte dei conti svolge anche altre importanti funzioni di controllo, definite dall'art. 3, l.20/1994, il

quale demanda a tale organo il rilevante compito di identificare alcune categorie di atti assoggettate a

controllo, pur se con carattere temporaneo. Nell'esercizio dei suoi poteri di controllo, la Corte può

“richiedere alle amministrazioni pubbliche e agli altri organi di controllo interno qualsiasi atto o notizia e può

effettuare e disporre ispezioni e accertamenti diretti”.

La tendenza è quella di ridurre i controlli solamente formali e di accentuare quelli gestionali

(incentrati sul raggiungimento del risultato e degli obiettivi programmatici) e finanziari. In sintesi, il quadro

dei controlli spettanti a tale organo, dotato di ampia autonomia regolamentare circa l'organizzazione della

funzione, contempla:

a) un controllo preventivo di legittimità (sugli atti gia indicati)

b) un controllo preventivo sugli atti che il presidente del Consiglio dei ministri richieda di sottoporre

temporaneamente a controllo o che la Corte dei conti deliberi di assoggettare per un periodo determinato a

controllo “in relazione a situazioni di diffusa e ripetuta irregolarità rilevante in sede di controllo successivo”:

art. 3, c. 1, lett. l), l. 20/1994;

c) un controllo successivo sui titoli di spesa relativi al costo del personale, (art.60, d.lgs. 165/2001), sui

contratti e i relativi atti di esecuzione, in materia di sistemi informativi automatizzati, stipulati dalle

amministrazioni statali e sugli atti di liquidazione dei trattamenti di quiescenza dei pubblici dipendenti; nei

primi due casi si tratta di un controllo-referto, che sfocia cioè in una comunicazione all'ente;

d) un controllo successivo sugli atti “di notevole rilievo finanziaro individuati per categorie e

amministrazioni statali” che le sezioni unite stabiliscano di sottoporre a controllo per un periodo determinato

(la Corte può richiedere il riesame degli atti entro quindici giorni dalla ricezione, “ferma restandone

l'esecutività”; le amministrazioni trasmettono gli atti adottati a seguito del riesame alla Corte, la quale, ove

rilevi illegittimità, ne dà avviso al ministro: art. 3, c. 3, l. 20/1994);

e) un controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria (es.

Expo spa), esercitato da una speciale sezione della Corte (l. 259/1958 e art. 3, c. 7, l. 20/1994).

Assoggettati a controllo sono gli enti che godono di contributi pubblici ordinari con carattere di periodicità o iscritti a bilancio da

oltre un biennio; gli enti i quali sostengono il proprio fabbisogno finanziario a mezzo di imposte, tasse e contributi che, con carattere

di continuità, siano autorizzati ad imporre o che siano comunque ad essi devoluti (per queste due categorie di enti il controllo è svolto

da apposita sezione della Corte alla quale debbono essere trasmessi alcuni atti – conti consuntivi, bilanci di esercizio con il relativo

conto economico corredati dalle relazioni dei rispettivi organi amministrativi e di revisione – entro quindici giorni dalla loro

approvazione e comunque non oltre sei mesi e quindici giorni dalla chiusura dell'esercizio finanziario a cui si riferiscono); gli enti ai

quali lo Stato od un'azienda autonoma contribuiscono con apporto al patrimonio in capitale o servizi o beni, ovvero mediante

concessione di garanzia finanziaria (il controllo è esercitato, oltre che mediante l'invio dei consuntivi e dei bilanci, d a un magistrato

della Corte che assiste alle sedute degli organi di amministrazione e di revisione: non si tratta dunque di un controllo solo successivo,

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ma anche contestuale). Va notato che, secondo la Corte cost., le società per azioni derivanti dalla trasformazione di enti pubblici sono

assoggettate a questo tipo di controllo finchè permanga la partecipazione esclusiva o maggioritaria dello Stato. Si consideri che sono

esclusi da questo controllo regioni, province, comuni ed enti di interesse esclusivamente locale.

La Corte è tenuta a riferire al Parlamento i risultati del controllo eseguito e può formulare, in qualsiasi altro

momento, ove accerti irregolarità nella gestione di un ente e, comunque, quando lo ritenga opportuno, i suoi

rilievi al Ministro per il tesoro e al ministro competente.

f) Un controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni

pubbliche, nonché sulle gestioni fuori bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria. Il d.lgs. 419/1999

estende il controllo successivo anche sulla gestione degli enti di diritto privato risultanti dalla privatizzazione

e prevista da tale fonte, limitatamente all'esercizio di funzioni e servizi pubblici. La Corte riferisce, almeno

annualmente, al Parlamento e ai consigli regionali sull'esito del controllo; le relazioni sono inviate anche alle

amministrazioni interessate, alle quali la Corte formula, in qualsiasi momento, le proprie osservazioni. Di

rilievo è poi la previsione secondo cui le amministrazioni comunicano alla Corte e agli organi elettivi le

misure consequenzialmente adottate. Il controllo concerne anche il rispetto della disciplina sui tetti al

trattamento economico onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle pubbliche finanze emolumenti o

retribuzioni: art. 3, c. 53, l. 244/2007.

g) Di grande rilievo sono i controlli esterni e sulle gestioni finanziarie degli enti territoriali operati

dalla Corte dei Conti ai sensi del d.l. 174/2012, conv. nella l. 213/2012, che si inserisce in un quadro

normativo mosso e frastagliato. La centralità del ruolo della Corte, che ormai si profila quale soggetto

garante degli equilibri della finanza pubblica, è riconosciuta, come detto, dal d.l. 174/2012, conv. l.

213/2012, finalizzato al rafforzamento del coordinamento della finanza pubblica e alla garanzia del rispetto

dei vincoli che derivano dall'appartenenza alla Ue. Tale disciplina, integrando quella precedente , amplia il

controllo su regioni ed enti locali, così estendendo ben al di là dello Stato il raggio di azione della Corte e

rafforzando il raccordo con i controlli interni.

g1) Per quanto attiene alle regioni, in primo luogo, si introduce un meccanismo di referto periodico, analogo

alle relazioni quadrimestrali sulla copertura della spesa nello Stato di cui alla l. 196/2009: ogni sei mesi le

sezioni regionali di controllo trasmettono ai consigli regionali una relazione sulla tipologia delle coperture

finanziarie adottate nelle leggi regionali approvate nel semestre precedente e sulle tecniche di quantificazione

degli oneri.

g2) In secondo luogo, sono rafforzati i controlli finanziari: le sezioni regionali di controllo della Corte dei

conti esaminano i bilanci preventivi e i rendiconti consintivi delle regioni e degli enti che compongono il

Servizio sanitario nazionale. Il controllo è finalizzato alla verifica del rispetto degli obiettivi annuali posti dal

patto di stabilità interno, dell'osservanza del vincolo previsto in materia d'indebitamento, della sostenibilità

dell'indebitamento e dell'assenza di irregolarità suscettibili di pregiudicare, anche in prospettiva, gli equilibri

economico-finanziari degli enti. Per quanto attiene alle “misure” che possono essere attuate, qualora le

sezioni regionali accertino comportamenti difformi dalla sana gestione finanziaria o il mancato rispetto degli

obiettivi posti con il patto, adottano una specifica pronuncia e vigilano sull'adozione da parte dell'ente

locale delle necessarie misure correttive e sul rispetto dei vincoli e limitazioni posti in caso di mancato

rispetto delle regole del patto di stabilità interno. L'accertamento, da parte delle competenti sezioni regionali

di controllo della Corte dei conti, di squilibri economico-finanziari, della mancata copertura di spese, della

violazione di norme finalizzate a garantire la regolarità della gestione finanziaria o del mancato rispetto degli

obiettivi posti con il patto di stabilità interno comporta per le amministrazioni interessate l'obbligo di

adottare, entro sessanta giorni dalla comunicazione del deposito dalla pronuncia di accertamento, i

provvedimenti idonei a rimuovere le irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio. Tali provvedimenti

sono trasmessi alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti che li verificano nel termine di trenta

giorni dal ricevimento. Qualora la regione non provveda alla trasmissione dei suddetti provvedimenti o la

verifica delle sezioni regionali di controllo dia esito negativo, è preclusa l'attuazione dei programmi di

spesa per i quali è stata accertata la mancata copertura o l'insussistenza della relativa sostenibilità finanziara:

con riferimento a queste due specifiche fattispecie, la sanzione collegata all'inerzia, dunque, è

particolarmente drastica.

g3) Analoga disciplina – comprendente la possibilità di irrogare la medesima sanzione del blocco dei

programmi di spesa – è dettata con riferimento agli enti locali.

g4) Viene poi introdotto il giudizio di parifica del rendiconto generale per le regioni da parte delle sezioni

regionali, che segue le regole stabilite dal r.d. 1214/1934: questo giudizio si interpone tra l'attività di

rendicontazione e la legge che approva il conto;

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g5) Il presidente della regione è obbligato a trasmettere ogni dodici mesi alla sezione regionale di controllo

della Corte dei conti una relazione sulla regolarità della gestione e sull'efficacia e sull'adeguatezza del

sistema dei controlli interni. La relazione è altresì inviata al presidente del consiglio regionale.

g6) In modo parzialmente analogo, per quanto attiene agli enti locali, la disciplina prevede un articolato

meccanismo di controllo esterno attivato sulla base di referti trasmessi semestralmente dagli enti di

dimensioni più rilevanti. Esso si salda con il meccanismo dei controlli interni e si caratterizza per il fatto che

può sfociare in una fase giurisdizionale (che, come tale, dovrebbe presupporre l'iniziativa della procura,

chiamata a verificare la sussistenza dei requisiti dell'illecito). g7) A garanzia del corretto uso delle risorse

pubbliche trasferite ai gruppi consiliari regionali, si prevede che ciascun gruppo approvi un rendiconto di

esercizio annuale, strutturale secondo linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo

Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e recepite con d.p.c.m. In ogni caso il

rendiconto evidenzi, in apposite voci, le risorse trasferite al gruppo dal consiglio regionale, con indicazione

del titolo del trasferimento, nonché le misure adottate per consentire la tracciabilità dei pagamenti effettuati

(le norme trovano applicazione dall'esercizio 2013: Corte conti, sez. autonomie, del n. 15/2013).

g8) Un importante ruolo della Corte è riconosciuto per quanto attiene all'accertamento della situazione di

dissesto degli enti locali.

g9) Un altro strumento molto incisivo, che coinvolge anche la Corte è quello previsto dalla l. 149/2011 ed è

legato al fatto che le regioni sono tenute a redigere una relazione di fine legislatura, sottoscritta dal

Presidente della Giunta regionale non oltre il novantesimo giorni antecedente la data di scadenza della

legislatura. Entro e non oltre dieci giorni dopo la sottoscrizione della relazione, essa deve risultare certificata dagli organi di controllo

interno regionale e, nello stesso termine, trasmessa ad un apposito tavolo tecnico interistituzionale istituito presso la

Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, che verifica, per quanto di propria competenza, la

conformità di quanto esposto nella relazione di fine legislatura con i dati finanziari in proprio possesso ed invia, entro venti

giorni, apposito rapporto al Presidente della Giunta regionale. Il rapporto del tavolo e la relazione di fine legislatura sono

pubblicati sul sito istituzionale della regionale entro il giorno successivo alla data di ricevumento del rapporto da parte del

Presidente della Giunta regionale. Entrambi i documenti sono inoltre trasmessi dal Presidente della Giunta regionale alla

Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica.

La relazione, entro dieci giorni dalla sottoscrizione del Presidente della Giunta regionale, è trasmessa alla

sezione regionale di controllo della Corte dei Conti, la quale esprime entro trenta giorni le proprie valutazioni

al Presidente della Giunta regionale.

La relazione di fine legislatura contiene la descrizione dettagliata delle principali attività normative ed

amministrative svolte durante la legislatura, facendo riferimento anche agli esiti dei controlli interni ed ai

rilievi della Corte dei Conti.

Analoga disciplina è prevista per province e comuni.

Può in parte sovrapporsi all'attività della CdC il campo d'azione dell'organismo indipendente, l'istituzione del

quale è prevista (dalla l. Cost. 1/2012) presso le Camere, poichè questo organismo ha la funzione di analisi e

verifica degli andamenti della finanza pubblica e di valutazione dell'osservanza delle regole di bilancio.

La CdC ha anche funzione

1. di vigilanza sulla riscossione delle entrate pubbliche e sulla regolarità della gestione degli agenti dello Stato

2. giurisdizionale: pronuncia il giudizio di parificazione sul rendiconto generale dello stato (consistente nella certificazione di

parità tra i conti della Corte e quelli forniti dall'amministrazione del tesoro)

Il controllo preventivo e tradizionale risulta meno collaborativo, ma più incisivo e rassicurante per l'amministrazione perché di

carattere deresponsabilizzante. Altre forme di controllo a carattere più collaborativo e non deresponsabilizzante ingenerano il timore

che la Corte usi il materiale istruttorio in chiave di responsabilità (anche se la Corte Costituzionale ha negato che questa possibilità si

possa verificare in via "automatica").

Il Controllo preventivo della Corte dei Conti

la disciplina del C.P. (controllo preventivo) risulta dalla combinazione della l. 20/1994 e del t.u. Corte conti.

I provvedimenti soggetti a C.P. divengono efficaci se:

1. il controllo si conclude positivamente con il visto del consigliere delegato dalla sezione per il

controllo degli atti del ministero interessato, su proposta del magistrato istruttore

2. il competente ufficio di controllo non rimette l'esame dell'atto alla sezione di controllo entro dieci

giorni dal ricevimento dell'atto

3. la sezione di controllo non ha dichiarato l'illegittimità dell'atto entro dieci giorni dalla data di

deferimento del provvedimento

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4. la sezione di controllo non ha adottato ordinanza istruttoria entro dieci giorni dalla data di

deferimento del provvedimento

5. la sezione di controllo ha adottato ordinanza istruttoria, ma non si pronuncia entro dieci giorni dalla

data di ricevimento degli elementi richiesti con l'ordinanza

Tuttavia l'esecutività non si realizza quando la Corte ha sollevato una questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 81

Cost. oppure un conflitto di attribuzione.

L'esito del procedimento di controllo è comunicato alla sezione nelle ventiquattro ore successive alla fine dell'adunanza e le

deliberazioni sono pubblicate entro trenta giorni dall'adunanza stessa. La recente legislazione ha stabilito tempi più stretti che

rendono difficile che si riesca a procedere nei tempi al visto (accerta la legittimità dell'atto) ed alla registrazione.

Registrazione con riserva: a fronte della ricusazione del visto, questo meccanismo permette al Consiglio dei ministri, su iniziativa

del ministero interessato, di insistere nella richiesta di registrazione; la Corte delibera a sezioni riunite e, qualora non riconosca

cessata la causa del rifiuto, ne ordina la registrazione ed appone il visto con riserva. Questo meccanismo riflette l'equilibrio di poteri

tra Cdc (Corte dei conti) e Governo e Parlamento (rispetto al primo non può prevalere e rispetto al secondo deve comunicare gli atti

registrati con riserva). Non tutti gli atti possono essere registrati con riserva e può essere richiesta anche con riferimento

limitatamente ad una o più parti dell'atto. Se le sezioni unite della Cdc non deliberano entro trenta giorni, l'atto è esecutivo.

La registrazione con riserva impegna la responsabilità politica dell'esecutivo, infatti:

1. ogni quindici giorni la Cdc trasmette al Parlamento un elenco di tutti i provvedimenti registrati con riserva

2. ogni anno la Cdc espone le ragioni per le quali ha apposto con riserva il visto.

L'esito negativo del controllo in via preventiva deve essere affermato, dato che, come abbiamo visto sopra, il

silenzio equivarrebbe ad assenso e quindi a controllo positivo.

Il controllo successivo della Cdc

Gli atti sono assoggettati in via eccezionale al controllo successivo e tale controllo non incide sull'efficacia

dell'atto. In dottrina vi sono due correnti circa le conseguenze dell'esito negativo di controllo successivo:

1. implicito annullamento dell'atto controllato

2. obbligo dell'amministrazione di prendere atto della pronuncia di illegittimità dell'atto e quindi a) non

dare corso all'esecuzione dell'atto (opinione da preferire, dato che la legge non riconosce alla Cdc

espliciti poteri di annullamento), ovvero b) di annullare l'atto stesso.

15.3 L'evoluzione normativa in tema di controlli. Dai controlli interni alla valutazione del personale e

delle strutture.

Dal controllo di legittimità...

Il sistema italiano è stato per lungo tempo caratterizzato dalla prevalenza dei controlli preventivi di

legittimità sui singoli atti, trascurando così la verifica della convenienza e proficuità degli atti nel loro

insieme e quindi dell'attività amministrativa. In realtà la costituzione prevedeva forme di controllo diverse, ma il legislatore ha preferito mantenere il vecchio modello di controllo

preventivo! che consisteva nella conformazione dell'azione successiva dell'organo attivo.Si assiste ad un cambiamento di rotta nel

1990 che sfocia nell'introduzione del controllo di gestione con il d.lgs.29/1993 (oggi sostituito con d.lgs 165/2001).

D'altro canto la Corte costituzionale ha espressamente affermato che le previsioni costituzionali in tema di controlli non costituiscono

un sistema che descrive tutte le forme possibili di controllo, ma ammettono forme diverse e aggiuntive purché sia rintracciabile in

costituzione un adeguato fondamento normativo o sicuro ancoraggio a interessi costituzionalmente protetti.

...alle quattro tipologie di controlli interni.

In seguito, il d.lgs 286/1999 ha introdotto quattro tipologie di controlli interni, solo in parte superati dalla

riforma Brunetta (d.lgs 150/2009):

1. controllo di regolarità amministrativa e contabile: volto a garantire la legittimità, la regolarità e la

correttezza dell'azione amministrativa; è stato ridisciplinato dal d.lgs. 123/2011(non dalla riforma

Brunetta)

2. controllo di gestione: diretto a verificare l'efficacia, l'efficienza e l'economicità dell'azione

amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto

tra costi e risultati; si articola in diverse fasi: rilevazione degli obiettivi, rilevazione dei dati relativi ai

costi e dei risultati, valutazione dei dati in relazione agli obiettivi prefissati; rimane disciplinato dal

d.lgs. 286/1999.

3. valutazione della dirigenza: oggi ridisciplinata dalla riforma Brunetta, aveva ad oggetto le

prestazioni dei dirigenti, i comportamenti relativi allo sviluppo delle risorse professionali, umane ed

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organizzative ad essi assegnate, tenendo particolarmente conto dei risultati dell'attività e della

gestione; il modello di controllo interno ha imposto una strutturazione dell'amministrazione "per

risultati".

4. valutazione e controllo strategico: mira a valutare l'adeguatezza delle scelte compiute in sede di

attuazione dei piani e altri strumenti di determinazione dell'indirizzo politico, in termini di

congruenza tra i risultati conseguiti e obiettivi predefiniti, a supporto dell'attività di programmazione

strategica e di indirizzo politico-amministrativo; il controllo strategico è richiamato dalla disciplina

del 2009 ed è svolto da apposito organismo indipendente di valutazione.

Dal punto di vista dell'evoluzione storica, il potenziamento dei controlli interni corrispondeva alla riduzione o eliminazione di quelli

esterni. Venivano quindi introdotte quattro tipologie di attività facenti capo al controllo interno contrapposte al controllo esterno che

per quanto attiene alla gestione restava attribuito alla corte dei conti.

Circa la peculiarità dei controlli interni nel loro complesso, va osservato che:

1. devono svolgersi sulla base di parametri anche diversi dalla legittimità (espressamente ricordata soltanto in relazione al

controllo di regolarità amministrativa e contabile), quali efficienza ed efficacia.

2. Non hanno efficacia automaticamente paralizzante dell'attività amministrativa.

3. I controlli sono di norma successivi o concomitanti rispetto al "farsi del potere"

Ad eccezione del controllo di regolarità amministrativa e contabile, i controlli interni spesso si concludono con giudizi che implicano

una certa discrezionalità. Le misure adottabili a seguito del giudizio talora non erano neppure tassativamente indicate, potendo tra

l'altro spettare ad organi differenti da quello di controllo.

Il profilo caratterizzante dei controlli interni è costituito dalla marcata funzione di supporto all'attività di

indirizzo e dirigenziale e della incisiva valenza conformativa della successiva azione amministrativa.

In conclusione, quindi, il sistema dei controlli interni dell'amministrazione statale è stato completato dalla

riforma Brunetta (d.lgs. 150/2009):i profili della conformazione e della correzione dell'attività risultano

confermati, anche se, nel nuovo contesto, a questi si affianca l'essenziale compito, assegnato ad appositi

organismi indipendenti, di garantire la correttezza dei procedimenti di valutazione della performance.

Da un punto di vista più strettamente organizzativo nel quadro della riforma Brunetta si assiste alla creazione

di un network di soggetti (organismi indipendenti) che fanno capo a una commissione per la valutazione, la

trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche.

Ambiguità del nuovo sistema:

1. delinea meccanismi di controlli interni con indubbi riflessi esterni

2. La previsione della sottoposizione di tutte le strutture e tutti i dipendenti alla valutazione alimenta il

rischio di creare un'amministrazione eccessivamente preoccupata di "controllarsi" invece che di

agire.

Va infine ricordato che la Corte dei Conti svolge un importante controllo sul funzionamento dei controlli

interni e che le sezioni giurisdizionali dispongono anche della possibilità di irrogare sanzioni pecuniarie agli

amministratori in caso di inadeguatezza di questi strumenti.

16. I rapporti tra gli organi e l'utilizzo, da parte di un ente, degli organi di un altro ente.

Diversi dai rapporti interorganici sono i rapporti tra organi diversi: è assente il carattere della stabilità e

comportano talune volte modificazioni dell'ordine delle competenze fissate dall'ordinamento in generale.

Sono rapporti tra organi diversi il rapporto di:

1. Avocazione: per motivi di interesse pubblico ed indipendentemente dall'inadempimento dell'organo

istituzionalmente competente, un organo esercita i compiti spettanti ad altro organo in ordine a

singoli affari.

2. Sostituzione: ha come presupposto l'inerzia dell'organo istituzionalmente competente all'emanazione

di un atto e consiste, previa diffida, nell'adozione da parte di un organo sostituto (di norma è un

commissario) degli atti di competenza dell'organo diffidato nell'emanazione. La sostituzione attiene

all'attività di controllo sugli atti, non sugli organi, infatti, essa (la sostituzione) avviene solo

relativamente all'adozione di un determinato atto.

Da tenere distinta è la gestione sostitutiva coattiva: quest'ultima consiste nella sostituzione di

organi dell'ente ed è caratterizzata dallo scioglimento dell'organo dell'ente e dalla nomina di altri

soggetti (organi straordinari) che gestiscano l'ente per un periodo limitato di tempo.

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Quando invece la sostituzione è collegata al controllo si parla di controllo sostitutivo; essa non può

ricondursi in senso proprio alla funzione di controllo perché l'organo sostituto non ha la specifica

funzione di controllore e non svolge mera attività di controllo.

3. Delegazione: ha come presupposto un atto formale con il quale un organo, investito in via primaria

della competenza di una data materia, consente unilateralmente ad un altro organo di esercitare la

stessa competenza. Alterando l'ordine legale delle competenze, la delegazione necessita di una

espressa previsione legislativa che la contempli. Il delegante mantiene poteri di direttiva, vigilanza

ed avocazione (cioè revoca della delegazione- la quale secondo la giurisprudenza può avvenire anche

implicitamente). Il delegatario agisce in nome proprio, ma per conto e nell'interesse del delegante,

quindi la responsabilità per illecito rimane in capo al delegatario.

Da tenere distinta è invece la delega di firma: il delegato ha soltanto il compito di sottoscrivere

l'atto, non vi è alcuno spostamento di competenza e l'atto sarà dunque imputabile al delegante.

L'organo di una persona giuridica può essere anche l'organo di un'altra persona giuridica: ad esempio, il

sindaco è organo del comune ed anche organo dello Stato, in qualità di ufficiale di governo.

17. Gli uffici e il rapporto di servizio.

Gli uffici sono nuclei elementari di organizzazione che si trovano all'interno degli enti ed accanto agli organi.

Per essere più precisi, dal punto di vista strutturale (dell'organizzazione) anche gli organi sono uffici, però, a

differenza di questi ultimi, gli organi sono strumenti di imputazione di fattispecie a favore dell'ente (in

pratica, hanno competenze in senso proprio, che gli uffici non hanno).

Gli uffici sono costituiti da un insieme di mezzi materiali (locali, risorse, ecc) e personali e sono chiamati a

svolgere uno specifico compito, il quale, in coordinamento con quello degli altri uffici, concorre al

raggiungento di un determinato obiettivo.

Tra gli uffici ricordiamo l'urp, ufficio per le relazioni con il pubblico, che ha l'importante compito di curare

l'informazione dell'utenza e di garantire i diritti di partecipazione dei cittadini.

Il preposto

Tra gli addetti dell'ufficio, si distingue la figura del preposto, il quale, nel caso di situazione di primarietà, è il

titolare dell'ufficio. Il titolare dirige il lavoro dell'ufficio e ne è responsabile. In caso di temporanea assenza

o impedimento del titolare, l'ufficio viene affidato al supplente. In caso di mancanza di titolare, si ha la

reggenza.

Il dovere di ufficio

Il dovere di ufficio è il contenuto del rapporto giuridico (detto rapporto di servizio) che lega gli addetti ed i

titolari dell'ente alla persona giuridica. Consta nel dovere di agire prestando una particolare attività ed ha ad

oggetto comportamenti che il dipendente deve tenere sia nei confronti della pubblica amministrazione, sia

nei confronti dei cittadini.

Importante per l'individuazione dei doveri dei dipendenti è il codice di comportamento, la cui violazione dà

luogo ad una responsabilità disciplinare. Più nel dettaglio: il Governo definisce un codice di comportamento dei dipendenti delle PA, che prevede per tutti i dipendenti il

divieto di chiedere o accettare compensi, regali o altre utilità per espletare i propri compiti e funzioni (fatti salvi i regali d'uso, purché

di modico valore e nei limiti delle normali relazioni di cortesia).

Il codice è consegnato al dipendente che lo sottoscrive all'atto dell'assunzione. La violazione, oltre ad essere fonte di responsabilità

disciplinare (come già detto), è rilevante ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile in caso di violazione di

obblighi, doveri, leggi o regolamenti. Violazioni gravi o reiterate del codice comportano il licenziamento disciplinare.

Ciascuna PA è obbligata a definire (previo parere obbligatorio del proprio organismo indipendente di valutazione) un proprio codice

che integra quello deliberato dal Governo.

Il rapporto di servizio

I soggetti legati da rapporto di servizio all'amministrazione sono di norma dipendenti. In questi casi si parla

di rapporto di servizio di impiego: tali soggetti svolgono il proprio lavoro a titolo professionale, in modo

esclusivo e permanente.

Tuttavia il rapporto di servizio può anche essere non professionale, cioè o onorario o di fatto.

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Il rapporto di servizio in relazione al funzionario onorario ha un contenuto ridotto: diritto di ufficio, carattere

temporaneo, trattamento economico in termini di indennità, non vi è il diritto alla carriera.

Il rapporto organico

Il rapporto organico si distingue dal rapporto di servizio perché corre soltanto tra il titolare dell'organo e

l'ente e viene in evidenza ai fini dell'imputazione delle fattispecie. In realtà il preposto si identifica con l'ente in forza del rapporto organico, ma si contrappone ad esso in quanto legato dal rapporto di

servizio.

In passato, spesso il rapporto organico e quello di servizio sorgevano contestualmente, nonostante la diversa modalità di istituzione.

Oggi, il rapporto di servizio si instaura con il contratto, generalmente, così che l'investitura nella titolarità di un ufficio o di un organo

rimane distinta.

Nel caso di titoli onorari si procede per designazione o per elezione.

Il funzionario di fatto

L'organo viene definito funzionario di fatto quando sia il rapporto organico sia quello di servizio si

instaurano in via "di fatto":il rapporto organico si costituisce in assenza di un atto di investitura ed il rapporto

di servizio è instaurato di fatto solo se le funzioni "di fatto" esercitate sono essenziali ed indifferibili.

Altre esigenze fondamentali sono la tutela della buona fede e di affidamento dei privati (anzi sono imputabili all'ente solo gli atti

favorevoli al privato): esempio di funzionario di fatto, che si fonda sulla tutela della buona fede dei terzi, è costituito dalla persona

che, pur non avendo le qualità di ufficiale di stato civile, n'è eserciti pubblicamente le funzioni e celebri un matrimonio (esso è

considerato valido dall'ordinamento).

Il divieto di prorogatio

Il rapporto di servizio, una volta instaurato, può anche estinguersi (fisiologicamente per scadenza del

termine); quanto riguarda il rapporto organico, in questo caso, occorre, quindi, procedere all'investitura del

nuovo titolare.

In passato si riteneva che, per tutelare la continuità, in ordine agli uffici a titolarità onoraria, i titolari

rimanessero in carica nonostante fosse scaduto il periodo della loro investitura. Tale istituto viene

denominato prorogatio.

La l. 444/1994 invece ha stabilito il divieto generale di prorogatio, ridimensionando tale istituto: gli organi

sono prorogati di quarantacinque giorni dalla scadenza del termine e durante questo periodo possono solo

emanare atti di ordinaria amministrazione o urgenti o indifferibili (a pena di nullità); Trascorsi i

quarantacinque giorni, gli organi amministrativi decadono e gli atti adottati da questi (una volta decaduti),

sono nulli.

18. La disciplina attuale del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche.

Il rapporto di servizio professionale presso le PA segue una disciplina diversa da quella privatistica del

rapporto di lavoro.

Il settore ha conosciuto numerose ed importanti riforme:

Le riforme succedutesi negli anni e gli slogan che le hanno segnate

(N.B.: i d.lgs. sono molti di piu, qui sotto ho riportato i fondamentali, che costituiscono lo scheletro)

1)D.lsg 29/1993: ha operato la c.d. privatizzazione del rapporto di impiego presso le amministrazioni, con

l'intenzione di accentuare il ruolo della contrattazione collettiva ed individuale, avvicinandosi al mondo del

lavoro privato.

2)D.lsg 165/2001: ha manifestato un'attenzione alle esigenze della managerialità ed una volontà di ridurre

ulteriormente il peso del centralismo regolativo.

3)D.lgs 150/2009: fa mutare il contesto normativo accentuando i temi del merito e della performance; ha

introdotto importanti norme in materia di controlli; accentua la distanza tra la disciplina del rapporto di

lavoro privatistico e la regolamentazione del rapporto di lavoro presso le amministrazioni. Non abroga i

precedenti D.lgs. che trattano le stesse materie;

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L'applicabilità della riforma a regioni ed enti locali Va premesso che uno dei problemi che il legislatore statale delegato ha dovuto affrontare è legato al cresciuto spazio per il legislatore

regionale a seguito della riforma del titolo V parte II della Costituzione; la Corte Costituzionale, infatti, si è pronunciata a favore

della competenza legislativa regionale: 1)piena ed esclusiva competenza legislativa delle regioni relativamente alla materia dello

stato giuridico ed economico del personale regionale(2003); 2) residuale competenza legislativa regionale riguardo la

regolamentazione delle modalità di accesso al lavoro pubblico regionale (2004).

Ancora più delicato è il tema della disciplina statale relativa agli enti locali, in ordine alla quale sussistono interferenze riguardante la

tematica dell'organizzazione è del coordinamento della finanza pubblica. Anche qui la Corte Costituzionale si è pronunciata,

statuendo che i principi fissati dalla legge statale costituiscono tipici limiti di diritto privato, fondati sull'esigenza di garantire

l'uniformità nel territorio nazionale; per tanto, essi si impongono al legislatore regionale.

Il d.lgs.150/2009 individua: a)norme espressione di potestà legislativa statale, vincolati per tutte le

amministrazioni (riguardanti i contratti collettivi, la partecipazione sindacale, i poteri del datore di lavoro, il

trattamento economico, le sanzioni disciplinari e la trasparenza delle performance); b)principi generali cui si

devono adeguare regioni ed enti locali (riguardanti la misurazione, valutazione e incentivazione della

performance, i meccanismi premiali, le progressioni verticali di carriera)

Parole chiave della riforma del 2009:

temi del merito e della performance, ridefinizione del ruolo del dirigente, limitazione del ruolo del sindacato.

La standardizzazione dell'azione e le difficoltà della riforma

Di rilievo è il tema della standardizzazione dell'azione, primo passo per una differenziazione di trattamento

anche economico del personale. Il rispetto degli standard (fissati coerentemente con le linee guida definite

dalla commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle PA) è oggetto della valutazione delle

performance; per altro verso, la mancanza di risorse economiche aggiuntive (vedi la manovra finanziaria: l.

122/2010 e l.111/2011) ha pesantemente condizionato l'avvio della riforma ed ha impedito la spinta alla

standardizzazione.

Inoltre, con un accordo sindacale del febbraio 2011 (che ha sancito che a tutti i dipendenti deve essere conservato lo stesso stipendio

del 2010) unitamente ad un accordo siglato tra ministero e organizzazioni sindacali nel maggio 2012, si è delineato un dequotamento

del sistema della premialità.

È dunque arduo immaginare l'effettiva applicazione della riforma del 2009

4)D.lgs. 95/2012, conv. nella l.135/2012: è la disciplina transitoria attualmente applicabile in attesa dei

rinnovi contrattuali ed in attesa dell'applicazione di quanto disposto dall'art.19 d.lgs.150/2009(difficoltà di

applicazione di cui si trattava prima). Stabilisce che:

a)la performance dei dirigenti (ai fini dell'attribuzione del trattamento accessorio) è valutata dalle

amministrazioni in relazione 1)al raggiungimento degli obiettivi (individuali e dell'unità organizzativa) e al

contributo assicurato alla performance complessiva dell'amministrazione; b) ai comportamenti organizzativi

b)la performance individuale del personale è valutata dal dirigente in relazione 1)al raggiungimento di

specifici obiettivi individuali o di gruppo; b)al contributo assicurato alla performance dell'unità organizzativa

ed ai comportamenti organizzativi dimostrati.

Chiarito ciò, analizziamo i principali aspetti della disciplina del lavoro presso le amministrazioni:

A) i rapporti di lavoro sono disciplinati dalle disposizioni del codice civile, fatte salve le diverse

disposizioni contenute nel d.lgs. 165/2001, e dalla contrattazione sia individuale che collettiva (questo è il

significato originario della privatizzazione). L'unica eccezione all'assoggettabilità alla disciplina contrattuale

riguarda il personale in regime di diritto pubblico (magistrati, avvocati dello stato, personale militare e delle

forze di polizia di stato, personale della carriera diplomatica e prefettizia).

Oggi, a differenza della disciplina originaria, è prevista la presunzione di inderogabilità di eventuali

disposizioni di legge, regolamento o statuto (la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle PA): possono

essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi solo se è espressamente previsto dalla legge.

Compito specifico della contrattazione collettiva nazionale è in particolare quello di definire il trattamento

economico.

Va però anticipato che la legge interviene pesantemente in questa materia: è prevista la possibilità che l'amministrazione, in caso di

mancato rinnovo entro 60 giorni dalla scadenza dei contratti collettivi, eroghi unilateralmente e provvisoriamente gli incrementi

previsti per il trattamento stipendiale; vi è in tal modo una erosione del campo di azione della contrattazione.

Ci sono dei settori che vengono preservati dalla contrattazione e sono rimessi alla disciplina unilaterale, ad esempio quelli attinenti

all'organizzazione degli uffici, quelli oggetto di partecipazione sindacale, etc.

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51

In ordine alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della

mobilità e delle progressioni economiche orizzontali, infine, la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti

dalle norme di legge.

B) la contrattazione collettiva si svolge a vari livelli: nazionale ed integrativa.

I contratti nazionali regolano la struttura contrattuale, il rapporto tra i vari livelli e la durata dei rapporti, vincolando la contrattazione

integrativa (quindi non è possibile negoziare in sede decentrata su questi temi). In particolare sono stabiliti i comparti, con il vincolo

legislativo di non superare il numero di quattro.

La contrattazione nazionale ha anche il fondamentale compito di disciplinare le modalità di utilizzo delle

risorse destinate a premiare il merito ed a migliorare le performance.

La contrattazione integrativa ha il compito di assicurare adeguati livelli di efficienza e produttività dei servizi

pubblici, incentivando l'impegno e la qualità della performance.

Nella contrattazione collettiva la parte pubblica è rappresentata dall'Aran (agenzia per la rappresentanza negoziale delle PA). Essa

agisce in forza di indirizzi fissati da appositi comitati di settore o dal Governo (che opera come comitato di settore per le

amministrazioni). In questo modo i comitati controllano da vicino l'attività. La legge individua l'ammontare delle risorse destinate al

rinnovo, giunge all'ipotesi di accordo, che deve essere inviata al governo e ai comitati di settore perché esprimano un parere; dopo di

ciò può avere inizio la trattativa. L'Aran trasmette poi alla Corte dei Conti il documento di quantificazione dei costi ai fini della

certificazione di compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio. L'Aran sottoscrive gli accordi ed il contratto è

valido erga omnes.

C) sono sottratte alla contrattazione collettiva l'organizzazione degli uffici (micro-organizzazione) e la

gestione dei rapporti di lavoro, le quali sono assunte dagli organi preposti alla gestione con "la capacità ed i

poteri del privato datore di lavoro" (art. 5 d.lgs.165/2001). Da un lato si conferma l'avvicinamento al mondo

del "lavoro privato"; dall'altro si evince che il datore di lavoro pubblico è peculiare, avendo due componenti:

una politica ed una manageriale.

Nonostante la sottrazione alla contrattazione collettiva di queste due questioni (organizzazione uffici e

gestione dei rapporti di lavoro), vi sono due ranghi di limitazioni della discrezionalità di cui gode il dirigente,

infatti

È richiesto: a)dare informazione ai sindacati limitatamente alle misure riguardanti i rapporti di

lavoro, b)l'esame congiunto, se previsto nei contratti

Molti profili sono direttamente disciplinati dalla legge

Per quanto riguarda il trattamento economico dei dipendenti, sappiamo che i poteri del datore di lavoro sono sottoposti alla

contrattazione collettiva. Tuttavia il dirigente, in caso di mancata stipula di accordi integrativi, può esercitare in via provvisoria

importanti poteri gestionali.

Infine, è stato confermato il principio di separazione tra indirizzo politico (spettante agli organi politici) e gestione (spettante ai

dirigenti), escludendo il potere di gestione degli organi politici.

Altri rilevanti poteri del dirigente-datore di lavoro (sanzioni, valutazioni e controllo) saranno affrontati in

seguito.

D) le organizzazioni sindacali devono essere consultate o informate al di fuori delle materie economiche a

prescindere che abbiano prestato il loro consenso

E) come anticipato, il d.lgs. 150/2009 fissa alcune regoli invalicabili per la contrattazione collettiva riguardo

il trattamento economico accessorio: una quota prevalente del trattamento accessorio deve essere destinato al

trattamento economico collegato alla performance individuale. Il trattamento viene distribuito in base a tre

fasce di merito, soltanto in seguito ad una graduatoria determinata con delle procedure di valutazione (che

analizzeremo tra poco). Nella fascia alta è destinato il 50% delle risorse e può essere collocato solo il 25% del personale; in quella intermedia è destinata la

restante parte delle risorse e può essere collocato il 50% del personale; in quella bassa è collocato il restante 25% del personale!

senza possibilità di ottenere trattamenti accessori legati alle performance individuali.

La contrattazione collettiva può solo attenuare la rigidità delle fasce modificandone entro certi limiti la composizione percentuale.

Queste regole si applicano al personale dipendente se il numero dei dipendenti in servizio presso l'amministrazione è superiore a

quindici; ai dirigenti se sono più di cinque.

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52

F) restano in generale assoggettati alla disciplina pubblicistica: gli organi, gli uffici, i principi fondamentali

dell'organizzazione, i procedimenti di selezione per l'accesso al lavoro, i procedimenti di avviamento, i ruoli,

le incompatibilità, le responsabilità e la determinazione delle dotazioni organiche.

La dotazione organica indica il numero complessivo dei dipendenti ed il loro inquadramento. La dotazione organica delle PA va

determinata in base alla programmazione del fabbisogno del personale effettuata ogni tre anni, previa verifica degli effettivi

fabbisogni e consultazione delle organizzazioni sindacali. Ove non vi siano incrementi di spesa, la dotazione organica può essere

modificata con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (d.p.c.m.). Il d.lgs. 165/2001 disciplina, poi, la mobilità volontaria su

domanda (art. 30-passaggio diretto del personale su domanda per il quale è richiesto anche il parere dei dirigenti responsabili di

partenza e di destinazione) e la mobilità collettiva per esubero.

La materia delle dotazioni organiche è stata interessata anche dalla spending review: ai sensi del d.l. 95/2012, conv nella l. 135/2012,

gli uffici dirigenziali e le dotazioni organiche sono ridotti rispettivamente del 20% minimo e 10% minimo.

Per le unità di personale risultanti in sovrannumero all'esito delle riduzioni di organico, le amministrazioni le procedure della

mobilità collettiva per esubero (art. 33),pensionamento, riallocazione, etc. LaPresidenza del Consiglio avvia un monitoraggio dei

posti vacanti presso le PA e redige un elenco che viene pubblicato sul relativo sito web. Il personale iscritto negli elenchi può

presentare domanda di ricollocazione nei posti di cui al medesimo elenco e le PA sono tenute ad accogliere le suddette domande

(fermo restando il regime delle assunzioni previsto mediante reclutamento). Le amministrazioni che non accolgono le domande di

ricollocazione non possono procedere con l'assunzione del personale.

G) il reclutamento avviene mediante concorso pubblico, procedimento che parte con la pubblicazione di un

bando e si conclude con la formazione e l'approvazione di una graduatoria, cui segue la stipula del contratto

individuale.

Non è possibile procedere con il reclutamento in assenza di programmazione triennale del fabbisogno del personale e di

determinazione della pianta organica.

Per quanto riguarda il tipo di contratto, la regola è il contratto a tempi indeterminato; l'art 36 d.lgs. 165/2001

prevede che solo per esigenze temporanee ed eccezionali siano utilizzabili le forme contrattuali flessibili di

assunzione e di impiego. È invece ammesso il part-time, seppur non citato.

L'art 52 dispone che i dipendenti pubblici sono inquadrati in almeno tre distinte aree funzionali, le quali

raggruppano più profili professionali. All'interno delle aree vi è poi una suddivisione in fasce differenziate

sotto il profilo economico. In seno alle aree le mansioni sono equivalenti e quinte tutte esigibili dai

dipendenti.

Infatti la norma stabilisce che il dipendente deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti

nell'ambito dell'area di inquadramento.

L'assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore è legittima soltanto nel caso di vacanza del posto

organico, per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti e

nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto per la durata dell'assenza. La disciplina è

legata al principio di intangibilità della pianta organica, la cui rigidità non è valsa ad impedire forme di diffuso ma sionismo di fatto.

Accanto al profilo dell'accesso abbiamo il profilo della progressione di carriera. Ve ne sono due tipi:

orizzontale, cioè all'interno dell'assenza tessa area; verticale, tra eree diverse. Sia il d.lgs.150/2009 sia il

d.lgs.165/2001 ribadiscono che la progressione di carriera deve essere ispirata:

al principio di selettività se si tratta di progressione orizzontale, in funzione delle qualità

culturali e professionali, dell'attività svolta ed di risultati conseguito, attraverso l'attribuzione di

fasce di merito. Eccezione: regola speciale che prevede un meccanismo concorsuale (via

all'inserimento di soggetti esterni) per l'accesso alle posizioni economiche apicali nell'ambito

delle aree funzionali.

al principio di concorsualità se si tratta di progressione verticale, fermo restando la possibilità

per l'amministrazione di destinare al personale interno una riserva di posti non superiore al 50%

di quelli messi a concorso; in questo caso rileva la valutazione della performance (valutazione

positiva per almeno tre anni)

La Corte Costituzionale nel 2004 si è occupata del blocco delle assunzioni, strumento di cui il legislatore ha fatto largo uso per

limitare la spesa pubblica, precisando che la legge statale può unicamente stabilire principi e criteri.

H) tutti i dipendenti pubblici sono sottoposti a valutazione. La riforma del 2009 ha operato importanti

modificazioni, a partire dalla negativa esperienza pregressa. Ha definito una complicata architettura che

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valuta non solo gli individui, ma anche l'amministrazione nel suo complesso. Tutto ciò nella convinzione che

la valutazione possa sostituire la concorrenza di mercato che caratterizza i sistema privato, sottoponendo

l'organizzazione anche a un controllo diffuso da parte dei cittadini.

Il rispetto della disciplina della valutazione è condizione necessaria per l'erogazione di premi legati al merito

ed alla performance. Più in generale l'esito della valutazione rileva per le progressioni di carriera, per la

responsabilità disciplinare e per la responsabilità dirigenziale.

Dal punto di vista organizzativo vengono disciplinati i seguenti soggetti:

-la commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle PA

Detta Civit, ha il compito di indirizzare, coordinare e sovrintendere all'esercizio indipendente delle funzioni

di valutazione, di garantire la trasparenza dei sistemi di valutazione, di assicurare la comparabilità e la

visibilità degli indici di andamento gestionale, informando annualmente il ministro per l'attuazione del

programma di Governo sull'attività svolta. La disciplina del rapporto di lavoro deve essere coordinata con

quella sulla lotta alla corruzione e all'illegalità e con le norma volte a valorizzare la trasparenza.

- Organismi indipendenti di valutazione della performance

Si tratta di una figura organizzatoria, monocratica o collegiale, formata da tre componenti nominati per un

periodo di tre anni e il cui incarico può essere rinnovato una sola volta, dotati dei requisiti stabiliti dalla

Commissione e di elevata professionalità ed esperienza, che le amministrazioni possono istituire

singolarmente o in forma associata; regioni e enti locali non sono però obbligati a crearli.

L’organismo sostituisce i servizi di controllo interno anche se il controllo di regolarità amministrativa e

contabile sembra sopravvivere.

La finalità della valutazione è quella di migliorare la qualità dei servizi, nonché la crescita delle competenze

professionali attraverso la valorizzazione del merito e l’erogazione dei premi per i risultati perseguiti dai

singoli e dalle unità organizzative in un quadro di pari opportunità di diritti e doveri, trasparenza dei risultati

delle amministrazioni pubbliche e delle risorse impiegate per il loro perseguimento.

FUNZIONI:

• l’organismo monitora il funzionamento complessivo del sistema della valutazione, della trasparenza e

integrità dei controlli interni ed elabora una relazione annuale sullo stato dello stesso;

• comunica tempestivamente le criticità riscontrate ai competenti organi interni di governo e

amministrazione, nonché alla Corte dei conti, all’ispettorato per la funzione pubblica e alla commissione;

• “valida” la relazione sulla performance e ne assicura la visibilità attraverso la pubblicazione sul sito

istituzionale dell’amministrazione;

• garantisce la correttezza dei processi di misurazione e valutazione, nonché dell’utilizzo dei premi;

• propone all’organo di indirizzo politico-amministrativo la valutazione annuale dei dirigenti di vertice e

l’attribuzione ad essi dei premi;

• è responsabile della corretta applicazione delle linee guida, delle metodologie e degli strumenti predisposti

dalla Commissione;

• promuove e attesta l’assolvimento degli obblighi relativi alla trasparenza e all’integrità;

• verifica i risultati e le buone pratiche di promozione delle pari opportunità.

→ In sintesi, l’organismo è il “signore” dei controlli in sede locale, spettando a esso la misurazione e la

valutazione della performance di ciascuna struttura amministrativa nel suo complesso e, più in generale, il

monitoraggio del funzionamento del sistema di valutazione per cui tutti gli organismi fanno parte di una rete

complessa che fa capo alla Commissione.

A questa prima funzione, di garanzia del sistema di valutazione, si affianca anche quella di correzione delle

attività di gestione e d’indirizzo per verificare l’andamento delle performance rispetto agli obiettivi e ove

necessario, decide interventi correttivi in corso di esercizio.

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In terzo luogo, evidenzia le criticità anche nella prospettiva della repressione infatti ha il dovere di

comunicazione delle criticità all’ispettorato della funzione pubblica e alla Corte dei conti.

Infine, pure la validazione finale della relazione sulla performance spetta all’organismo poiché deve garantire

la correttezza non solo dei processi di misurazione e valutazione, ma anche dell’utilizzo dei premi e proporre

all’organo di indirizzo politico-amministrativo la valutazione annuale dei dirigenti di vertice e l’attribuzione

ai dirigenti medesimi dei premi.

L’accenno da ultimo compiuto ci porta a trattare del rapporto con la politica: l’organismo dovrebbe agire in

piena autonomia (art.14, c.2) ma la nomina spetta all’organo di indirizzo politico-amministrativo che ne ha

anche il controllo strategico.

Rimane centrale, quindi, il ruolo della politica. L’organo di indirizzo politico-amministrativo, infatti,

emana le direttive generali contenenti gli indirizzi strategici; definisce alcuni importanti documenti quali il

piano della performance e la relazione sulla performance.

Primariamente viene disciplinato il ciclo di gestione della performance: include le fasi della

programmazione con la definizione e assegnazione degli obiettivi su base triennale, l’allocazione delle

risorse, il monitoraggio, misurazione e valutazione della performance e la rendicontazione dei risultati.

Quindi gli organi di indirizzo politico, in collaborazione con i vertici dirigenziali, redigono due atti – piano

e relazione all’inizio e alla fine del ciclo di performance, e a conclusione del ciclo pongono la

rendicontazione e la comunicazione, anche e soprattutto dirette ai cittadini.

Le Amministrazioni invece sono chiamate a redigere:

- annualmente (entro il 31 gennaio) un piano triennale della performance che individua gli indirizzi e gli

obiettivi strategici ed operativi e definisce obiettivi finali ed intermedi nonché risorse e obiettivi assegnati al

personale dirigenziale ed i relativi indicatori.

Il piano deve essere coerente con il programma triennale per la trasparenza e l’integrità. Un tema

molto delicato è quello del “contraddittorio” relativo alla fissazione degli obiettivi

- una relazione sulla performance (entro il 30 giugno), che evidenzia, a consuntivo, con riferimento

all’anno precedente, i risultati organizzativi e individuali raggiunti, le risorse, con rilevazione degli eventuali

scostamenti, e il bilancio di genere realizzato; la relazione è validata dall’organismo indipendente e tale

validazione è condizione inderogabile per l’accesso agli strumenti per premiare il merito; a monte della

relazione si colloca il sistema di misurazione e valutazione della performance che individua fasi, i tempi,

modalità, soggetti e le responsabilità del processo di misurazione e valutazione della performance nonché le

procedure di conciliazione. Il conseguimento degli obiettivi costituisce condizione per l’erogazione degli

incentivi previsti dalla contrattazione integrativa. Sia il piano che la relazione vanno presentati alle

associazioni di consumatori o utenti, ai centri di ricerca e a ogni altro osservatore qualificato, nell’ambito di

apposite giornate della trasparenza.

L’attività di valutazione diventa così una componente essenziale della relazione tra potere pubblico e

cittadini, e le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni non sono oggetto di protezione della

riservatezza personale

Essenziale è, dunque, il valore della trasparenza, utile non solo per migliorare l’efficienza dei servizi, ma

centrale anche ai fini della lotta alla corruzione e all’illegalità

Le amministrazioni, sentite le associazioni dei consumatori e degli utenti, infine, adottano un programma

triennale per la trasparenza e l’integrità, da aggiornare annualmente, che indica le iniziative previste per

garantire un adeguato livello di trasparenza. Alle amministrazioni pubbliche, in caso di mancata adozione del

piano della performance, è fatto divieto di erogazione della retribuzione di risultato ai dirigenti che risultano

avere concorso alla mancata adozione del piano, per omissione o inerzia e l’amministrazione non può

procedere ad assunzioni di personale o al conferimento di incarichi di consulenza o di collaborazione

comunque denominati.

Sulla base dei documenti detti, si procede alla valutazione con cadenza annuale.

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55

Gli organi di indirizzo politico amministrativo, con il supporto dei dirigenti e avvalendosi delle risultanze dei

sistemi di controllo di gestione presenti nell’amministrazione, verificano l’andamento delle performance

rispetto agli obiettivi durante il periodo di riferimento e propongono, ove necessario, interventi correttivi in

corso di esercizio.

In sostanza, la valutazione delle strutture spetta all’organismo indipendente, mentre il personale non

dirigenziale è valutato dai dirigenti (art.18, d.lgs.165/2001, anche ai fini della progressione economica e tra

le aree e della corresponsione di indennità e premi incentivanti); nulla di specifico – ed è questa una lacuna

di rilievo – è detto circa la valutazione dei dirigenti. L’Organismo predispone poi una griglia che distribuisca

il personale nelle tre fasce di cui già ci siamo occupati (art.19, d.lgs.150/2009).

Elementi di valutazione della performance

L’oggetto della valutazione è individuato nella soddisfazione finale dei bisogni della collettività mediante

l’attuazione dei piani e dei programmi previsti con riguardo sia al grado di attuazione dei medesimi, sia al

rispetto delle fasi e dei tempi nonché dalle risorse allocate; tali obiettivi si uniscono alla modernizzazione e al

miglioramento qualitativo dell’organizzazione delle amministrazioni e delle competenze professionali; si

valuta lo sviluppo qualitativo e quantitativo delle relazioni con i cittadini, l’efficienza dei servizi e il

contenimento e riduzione dei costi, l’ottimizzazione dei tempi dei procedimenti amministrativi e il

raggiungimento degli obiettivi di pari opportunità. Pure il ritardo nell’adozione dei provvedimenti costituisce

elemento di valutazione della performance (art.2, l.241/1990).

La misurazione e la valutazione della performance individuale dei dirigenti e del personale responsabile di

unità organizzative in posizione di autonomia e responsabilità viene valutato in base al raggiungimento di

specifici obiettivi individuali, alla qualità del contributo assicurato alla performance generale della struttura,

alle competenze professionali e manageriali dimostrate; alla capacità di valutazione dei propri collaboratori.

Importante è motivare e incentivare tutti i dipendenti: la valutazione data dai dirigenti sulla performance

individuale del personale è collegata al raggiungimento di specifici obiettivi di gruppo o individuali, alla

qualità del contributo dato all’unità organizzativa di appartenenza, alle competenze dimostrate e ai

comportamenti professionali e organizzativi.

I) I dipendenti sono assoggettati a una particolare responsabilità: amministrativa, per danni

all’amministrazione, penale e contabile; vi è poi la responsabilità disciplinare regolata dall’art.55,

d.lgs.165/2001,anche se la materia dovrebbe essere devoluta alla contrattazione collettiva. La responsabilità

disciplinare è aggiuntiva rispetto a quella civile, amministrativa, penale e contabile; sia l’art.70, sia l’art.71

d.lgs.150/2009, rendono effettiva tale responsabilità prevedendo la comunicazione all’amministrazione di

appartenenza della sentenza penale e un ispettorato per la funzione pubblica con il compito, tra l’altro, di

vigilare sull’esercizio dei poteri disciplinari.

Particolare attenzione è riservata alla sanzione del licenziamento disciplinare. L’art.55-quater,

d.lgs.165/2001, infatti, tipizza le infrazioni più gravi, che possono dar luogo “comunque” a licenziamento ad

esempio: falsa attestazione della presenza in servizio, reiterazione di gravi condotte aggressive o moleste o

minacciose o ingiuriose, gravi condanne penali.

La norma si occupa poi dei “fannulloni”, stabilendo che il licenziamento può essere disposto in caso di

valutazione d’insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la

prestazione, entro un biennio. Il lavoratore, quando cagiona grave danno al normale funzionamento

dell’ufficio di appartenenza, per inefficienza o incompetenza professionale è collocato in disponibilità per un

periodo massimo di due anni e potrà essere ricollocato presso altre amministrazioni; trascorso inutilmente

questo periodo il rapporto si risolve. il dipendente è punito con la sospensione dal servizio e con privazione

della retribuzione da un minimo di tre giorni fino a un massimo di tre mesi, se la pubblica amministrazione

da cui dipende viene condannata al risarcimento del danno derivante da sua responsabilità.

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Per quanto attiene alla competenza, la titolarità del potere disciplinare spetta al dirigente soltanto per le

infrazioni di minore entità (sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a undici giorni),

mentre per quelle che comportano sanzioni superiori sussiste la competenza di uno specifico ufficio.

Il dirigente può incorrere anch’esso in responsabilità disciplinare secondo le norme fissate dal contratto

collettivo (art.21) ma la responsabilità civile in relazione al procedimento disciplinare è limitata ai casi di

dolo o colpa grave. Tuttavia il mancato esercizio o la decadenza dell’azione disciplinare, dovuti

all’omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare o a valutazioni

sull’insussistenza dell’illecito irragionevoli o manifestamente infondate, comporta l’applicazione ai dirigenti

di una sanzione disciplinare. Ai soggetti non aventi qualifica dirigenziale si applica la sanzione della

sospensione dal servizio con privazione della retribuzione. Per altro verso, il lavoratore dipendente o il

dirigente che rifiutano, senza giustificato motivo, la collaborazione o rendono dichiarazioni false o reticenti,

sono soggetti all’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della

retribuzione, fino a un massimo di quindici giorni. Ulteriori responsabilità disciplinari possono sorgere dal

mancato ricorso alle convenzioni Consip per l’acquisto di beni.

Procedimento: l’art.55-bis, d.lgs.165/2001, distingue tra diverse ipotesidisciplinando minuziosamente la

fase istruttoria e prevedendo, quale mezzo di comunicazione privilegiata, l’uso della posta elettronica

certificata. Infrazioni di minore gravità: è prevista l’irrogazione di sanzioni superiori al rimprovero verbale

ma inferiori alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni, se il

responsabile della struttura ha la qualifica dirigenziale, la disciplina prevede che non oltre i venti giorni, il

dirigente contesti per iscritto l’addebito al dipendente e lo convochi per il contraddittorio a sua difesa, con

l’eventuale assistenza di un procuratore ovvero di un rappresentante dell’associazione sindacale con un

preavviso di almeno dieci giorni. Il procedimento si conclude con l’atto di archiviazione o di irrogazione

della sanzione, entro sessanta giorni dalla contestazione dell’addebito.

Quando il responsabile della struttura non ha qualifica dirigenziale o comunque per le infrazioni più gravi il

procedimento prevede l’intervento dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, cui debbono

essere trasmessi gli atti entro cinque giorni dalla notizia del fatto, dandone contestuale comunicazione

all’interessato. L’ufficio contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa,

istruisce e conclude il procedimento.

Non è possibile l’impugnazione dei provvedimenti disciplinari e non si può più ricorrere dinanzi ai

precedenti collegi arbitrali, lasciando unicamente salva la facoltà di disciplinare mediante i contratti

collettivi procedure di conciliazione non obbligatorie. La sanzione concordemente determinata all’esito di

tali procedure non può essere di specie diversa da quella prevista per l’infrazione per la quale si procede.

I termini del procedimento disciplinare restano sospesi dalla data di apertura della procedura conciliativa e

riprendono a decorrere nel caso di conclusione con esito negativo.

L’art.55-quinquies disciplina la materia della malattia del dipendente, prevedendo responsabilità disciplinari

fino al licenziamento nel caso di falsa attestazione di malattia o di alterazione dei documenti, nonché

responsabilità penali e obblighi di risarcimento per i danni all’amministrazione e per il medico compiacente

si prevede la radiazione dall’albo, mentre l’art.55-septies si occupa del controllo delle assenze. Sotto il

profilo giurisdizionale sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le

controversie riguardanti il rapporto di lavoro dei dipendenti, e le controversie in materia di procedure

concorsuali di assunzione. La giurisdizione del giudice amministrativo a seguito della riforma del 2009, è

riservata alleprogressioni in carriera dei dipendenti interni o per l’accesso del personale già assunto a un’area

superiore.

19. La dirigenza e i suoi rapporti con gli organi politici

La dirigenza pubblica: ruoli, accesso, incarichi, poteri, responsabilità

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57

Ai dirigenti sono stati attribuiti poteri autonomi di gestione, con il compito di organizzare il lavoro, gli uffici

e le risorse umane e finanziarie e agisce con i poteri e le capacità del datore di lavoro privato,attua le

politiche delineate dagli organi di indirizzo politico-amministrativo, e risponde dei risultati.

Il dirigente, è anche interlocutore privilegiato della componente politica; quanto alla gestione delle risorse

umane, attualmente, il personale viene distribuito tra le strutture da un’unica Direzione e non dal dirigente.

Agli organi di governo spetta comunque, in ragione della loro connotazione politica, “le decisioni in materia

di atti normativi e l’adozione di atti di indirizzo interpretativo e applicativo”.

I doveri del dirigente – datore di lavoro e gli altri poteri gestionali

La riforma del 2009 ha la finalità di ampliare e rafforzare l’autonomia dei dirigentima anche quella di

“costringere” tali organi a svolgere le proprie funzioni di datori di lavoro. Quindi obbligatorietà d’inizio del

procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti colpevoli, pena l’applicazione in capo al dirigente di

sanzioni,e obbligo di controllo delle condotte assenteistiche dei lavoratori con valutazione e valorizzazione

della performance (art.7, d.lgs.150/2009; al dirigente colpevole di violazione del dovere di vigilanza sul

personale assegnato ai propri uffici, o che non abbia raggiunto degli standard quantitativi e qualitativi fissati

dall’amministrazione, è decurtata di una quota fino all’80% della sua retribuzione di risultato; vi sono anche

norme che limitano gli spazi d’azione.

La validazione finale dei risultati della valutazione effettuata dal dirigente, spetta all’organismo

indipendente; molte rigidità legali lo vincolano nella distribuzione dei premi ai dipendenti.

Ma se mancano gli accordi integrativi, il dirigente può esercitare in via provvisoria importanti poteri

gestionali. La dirigenza statale si articola in due fasce del ruolo istituito presso ogni amministrazione.

L’accesso alla dirigenza

L’accesso alla qualifica di dirigente (seconda fascia) nelle amministrazioni statali e negli enti pubblici non

economici avviene mediante due distinte modalità: concorso per esami indetto dalle singole amministrazioni

ovvero corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della pubblica

amministrazione (art.28, d.lgs.165/2001).

Spetta all’amministrazione determinare la percentuale di posti da coprire mediante concorso e, in misura non

inferiore al 30%, mediante corso-concorso. I vincitori di concorso, comunque, anteriormente al conferimento

del primo incarico dirigenziale, frequentano un ciclo di attività formative organizzato dalla Scuola superiore

della pubblica amministrazione.

Norme particolari sono dettate per la dirigenza scolastica e sanitaria (v. art.7, d.P.R. 70/2013).

Ai sensi dell’art.23, i dirigenti della seconda fascia transitano nella prima qualora abbiano ricoperto

incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali o equivalenti per un periodo di almeno cinque anni senza

essere incorsi nelle misure previste dall’art.21, d.lgs.165/2001 per la responsabilità dirigenziale.

La norma, prevede cheil 50% dei posti disponibili, viene coperto da un concorso pubblico per titoli ed esami

indetto dalle singole amministrazioni e aperto ai dirigenti o a soggetti in possesso dei titoli, mentre l’altro

50%, nei casi in cui lo svolgimento degli incarichi richieda specifica esperienza e peculiare professionalità, si

può provvedere, con contratti di diritto privato a tempo determinato, attraverso concorso pubblico

aperto ai soggetti in possesso dei requisiti professionali e delle attitudini manageriali. I contratti sono

stipulati per un periodo non superiore a tre anni.

Un canale diverso molto importante è costituito dagli incarichi diretti senza previo consenso pubblico. Tali

incarichi a tempo determinato entro il limite del 10% (prima fascia) e dell’8% dei dirigenti di seconda fascia,

possono essere conferiti a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile

nei ruoli dell’amministrazione e che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati, o in

aziende pubbliche o private, con esperienza di almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano

conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica, o che provengano dai

settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori

dello Stato; ai sensi dell’art.53, il conferimento di incarichi viene dato secondo criteri oggettivi e

predeterminati di professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, o conflitti di interesseAi sensi

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58

dell’art.15, d.lgs.33/2013, la pubblicazione degli estremi degli atti di conferimento di incarichi dirigenziali a

soggetti estranei alla pubblica amministrazione, di collaborazione o di consulenza a soggetti esterni a

qualsiasi titolo per i quali è previsto un compenso, nonché la comunicazione alla Presidenza del Consiglio

dei Ministri sono condizioni per l’acquisizione dell’efficacia dell’atto e per la liquidazione dei relativi

compensi.

L’incarico della funzione

L’ “incarico della funzione”, comporta l’attribuzione delle concrete mansioni dirigenziali.

L’incarico, cui non si applica l’art.2103 c.c., è retto dal principio della temporaneità, che deve essere

integrato con l’istituto dello spoil ssystem. Per il conferimento dell’incarico (che è rinnovabile) si tiene conto

di tuttele specifiche competenze ed esperienze organizzative possedute, nonché delle esperienze di direzione

eventualmente maturate all’estero, presso il settore privato o presso altre amministrazioni pubbliche, purchè

attinenti al conferimento dell’incarico (art.19, d.lgs.165/2001). La legge, dunque, cerca di limitare la

discrezionalità del soggetto che opera il conferimento.

Relativamente all’area delle posizioni organizzative, anche il personale non dirigenziale può avere

incarichi.

La legge scandisce il procedimento di conferimento: avviso sul sito istituzionale del numero e tipologia dei

posti di funzione che si rendono disponibili nella dotazione organica e i criteri di scelta, tenuto conto delle

norme sulla inconferibilità e incompatibilità degli incarichi (spetta al responsabile del piano anticorruzione

vigilare sul rispetto delle norme). L’amministrazione, l’ente pubblico o l’ente privato in controllo pubblico

che intenda procedere al conferimento dell’incarico deve motivare l’atto tenendo conto delle osservazioni

dell’Autorità. Si consideri che gli atti di conferimento degli incarichi adottati in violazione della disciplina di

cui al d.lgs. 39/2013 sono nulli. All’atto del conferimento, l’interessato presenta una dichiarazione sulla

insussistenza delle cause di inconferibilità e, nel corso dell’incarico, dovrà annualmente presentare analoga

dichiarazione; sussistono criteri per assicurare la rotazione dei dirigenti nei settori particolarmente esposti

alla corruzione e misure per evitare sovrapposizioni di funzioni e cumuli di incarichi nominativi in capo ai

dirigenti pubblici, anche esterni.

Non possono essere conferiti incarichi di direzione di strutture deputate alla gestione del personale a soggetti

che rivestano o abbiano rivestito negli ultimi due anni cariche in partiti politici o in organizzazioni sindacali.

I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente

autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, in caso di inosservanza del divieto, il compenso dovuto

deve essere versato, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente

per essere destinato ad incrementare il fondo di produttività o fondi equivalenti; l’atto di incarico, ha natura

sostanzialmente privatistica con giurisdizione del giudice ordinario. il dirigente è titolare di “interessi

legittimi di diritto privato”, ascrivibili alla categoria dei diritti di cui all’art.2907 c.c.

Nel provvedimento unilaterale di conferimento dell’incarico è contenuta la definizione dell’oggetto, degli

obiettivi e della durata dell’incarico, correlata agli obiettivi e comunque compresa tra i 3 e i 5 anni.

L’incarico di funzione dirigenziale di livello generale è conferito, a dirigenti della prima fascia, con decreto

del Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del ministro competente, o, in misura non superiore al

70%, ad altri dirigenti dei medesimi ruoli, o,con contratto a tempo determinato, a persone in possesso di

specifiche qualità professionali.

La retribuzione del dirigente; il problema della stabilità

La retribuzione del personale con qualifica di dirigente è determinata dai contratti collettivi, prevedendo che

il trattamento economico accessorio sia correlato alle funzioni attribuite, alle responsabilità e ai risultati

conseguiti. Il trattamento accessorio collegato ai risultati deve costituire almeno il 30% della retribuzione

complessiva dei dirigenti in base alle tre fasce di merito (ancorché si parli di retribuzione di risultato).

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qualora l’amministrazione di appartenenza non abbia predisposto il sistema di valutazione non può essere

datae così in altri casi di “inadempimento”.

Al fine di completare il discorso su temporaneità e stabilità degli incarichi, occorre ricordare che quelli di

segretario generale, di direzione di strutture in cui siano uffici dirigenziali generali e quelli di livello

equivalente cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo (art.19, d.lgs.165/2001:

spoilssystem).

Per quanto riguarda gli incarichi di vertice, a qualsiasi livello, conferite dal governo o dai ministri nei sei

mesi antecedenti la scadenza naturale della legislatura o nel mese antecedente lo scioglimento anticipato

delle camere, l’art.6, l.145/2002 dispone che le nomine possono essere confermate, revocate, modificate o

rinnovate entro sei mesi dal voto sulla fiducia al governo.

Inoltre, all’interno della dirigenza, si configura un regime speciale per i “dirigenti apicali” (fiduciari, da

distinguere rispetto a quelli professionali), che fungono da cerniera tra burocrazia e politica.

Gli incarichi dirigenziali possono essere revocati esclusivamente nei casi e con le modalità di cui alla

disciplina sulla responsabilità dirigenziale

Vediamo prima il mancato rinnovo. Le amministrazioni che per riorganizzazione o per scadenza di un

incarico di livello dirigenziale, non intendono confermare l’incarico conferito al dirigente, possono

conferire al medesimo dirigente un altro incarico, anche di valore economico inferiore purchécorrispondente

alla propria fascia e possono anche disporre il passaggio ad altro incarico prima della data di scadenza

prevista dalla normativa o dal contratto. Rimane l’obbligo della reintegrazione di un dirigente che sia

decaduto dall’incarico in base ad una disposizione dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, non

risultando sufficiente il risarcimento del danno.

La responsabilità dirigenziale

Propria dei dirigenti è la responsabilità dirigenziale, aggiuntiva rispetto alle altre forme di responsabilità

che gravano sui dipendenti pubblici.

Essa sorge allorché non siano raggiunti gli obiettivi – accertati attraverso la procedura di valutazione delle

performance – o in caso di inosservanza delle direttive imputabile al dirigente (art.21, d.lgs.165/2001). Tale

responsabilità, per cui non si richiede la colpa e che rivela l’inidoneità all’incarico, non sorge dalla

violazione di precise regole normative ma si collega all’attività complessiva dell’ufficio cui egli è preposto.

Se il personale assegnato ai propri uffici non raggiungegli standard quantitativi e qualitativi fissati

dall’amministrazione, il dirigente ne risponderà per “colpevole violazione” del dovere di vigilanza con

decurtazione di una quota fino all’80% della retribuzione di risultato.

Si aggiunga che, ai sensi dell’art.2, c.9, l.241/1990 e art.7, l.69/2009, la mancata emanazione o tardiva

emanazione dell’atto amministrativo nei termini costituisce elemento di valutazione della responsabilità

dirigenziale. E così la mancata o incompleta pubblicazione delle informazioni o la mancata predisposizione

del programma triennale per la trasparenza e l’integrità. Pure la mancata partecipazione alla conferenza di

servizi e la commissione di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato sono fonti di

responsabilità dirigenziale. La violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di

lavoratori e l’inosservanza del vincolo a utilizzare la posta elettronica nelle comunicazioni di documenti tra

le pubbliche amministrazioni, può comportare responsabilità per danno erariale e responsabilità dirigenziale

e disciplinare.

Queste responsabilità prevedono come sanzione il non rinnovo dello stesso incarico dirigenziale con revoca

dell’incarico o collocando il dirigente a disposizione ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le

disposizioni del contratto collettivo.

Tutti i provvedimenti sono adottati previa contestazione e sentito il parere di un comitato dei garanti

nominato con decreto del presidente del consiglio. La valutazione negativa nel caso di incarico conferito con

contratto a termine ex art.16, c.6, d.lgs.165/2001, determina la risoluzione del contratto di lavoro.

Dirigenti e organi

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Non necessariamente tutti i dirigenti hanno la titolarità di uffici dirigenziali: in questo caso i dirigenti

svolgono funzioni ispettive, di consulenza, studio, ricerca o altri incarichi specifici previsti dall’ordinamento.

La relazione interorganica nella nuova organizzazione amministrativa

Vediamo ora quali sono i rapporti tra organi politici e dirigenti di uffici dirigenziali.

All’interno dell’organizzazione del lavoro presso le pubbliche amministrazioni, ci si può domandare se sia

presente la relazione gerarchica o quella di direzione. La disciplina stabilisce che gli organi di governo

esercitino le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi e i programmi da attuare,

adottando gli altri atti e verificando i risultati dell’attività svolta (art.4, d.lgs.165/2001), mentre i dirigenti

adottano i provvedimenti amministrativi e curano la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa.

sul piano finanziario-contabile, lo spazio decisionale riconosciuto ai dirigenti richiede la possibilità di gestire

autonomamente risorse finanziarie. In particolare, il bilancio di previsione dello Stato è ripartito in

“programmi”, costituenti “aggregati omogenei di risorse dirette al perseguimento di obiettivi strategici”.

Ai sensi dell’art.14, c.1, d.lgs.165/2001, il ministro, definisce obiettivi, priorità, piani e programmi da attuare

ed emana le direttive generali per l’attività amministrativa e per la gestione e non può revocare, riformare,

riservare o avocare a sé o altrimenti adottare atti di competenza dei dirigenti e in caso di inerzia può solo

nominare, un commissario ad acta. Quindi “gli atti e i provvedimenti adottati dai dirigenti preposti al

vertice dell’amministrazione e dai dirigenti di uffici dirigenziali non sono suscettibili di ricorso gerarchico”.

Nuova configurazione della relazione

L’eliminazione del potere di decidere i ricorsi gerarchici e l’abrogazione del potere di annullamento, di

revoca e di riforma degli atti dei dirigenti sono sicuri sintomi del superamento della gerarchia. Si potrebbe

dunque sostenere che in questo ambito la relazione prevista dalla legge sia quella di direzione per

cuil’organo politico “superiore” fissa gli obiettivi, assegna le risorse, impartisce direttive generali, si

astiene dall’ingerirsi nella gestione e valuta i risultati finaliImportanti poteri spettano infine all’organo

di indirizzo politico con riferimento ai temi della valutazione e del controllo (art.15, d.lgs.150/2009): esso

emana le direttive generali contenenti gli indirizzi strategici, definisce in collaborazione con i vertici

dell’amministrazione il piano e la relazione della performance, verifica il conseguimento effettivo degli

obiettivi strategici.

La separazione tra organi di governo e dirigenti

Più che di direzione, è preferibile parlare di sfere di competenza separate e differenti. Ciò non vuol dire che i

due organi siano equiparati: semplicemente, essi svolgono competenze diverse e sono assoggettati a

responsabilità differenti, anche se il dirigente non può disattendere le direttive ministeriali, gli unici

momenti di “prevalenza” degli organi di governo sono costituiti dai poteri, spettanti all’organo politico, di

annullamento in via di autotutela e di conferimento dell’incarico di direzione degli uffici di livello

dirigenziale generale.

La relazione tra dirigenti di uffici dirigenziali generali e dirigenti

I dirigenti preposti agli uffici dirigenziali generali, nei confronti dei dirigenti definiscono gli obiettivi e

attribuiscono le risorse, “dirigono, coordinano e controllano l’attività dei dirigenti e dei responsabili dei

procedimenti” (art.16, c.1) con potere sostitutivo in caso di inerzia”. Il dirigente preposto all’ufficio di più

elevato livello può delegare compiti ai dirigenti. Esso, inoltre, propone le risorse e i profili professionali

necessari allo svolgimento dei compiti d’ufficio anche al fine dell’elaborazione del documento di

programmazione triennale del fabbisogno di personale.

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Relazioni dirigenti-personale preposto agli uffici

L’art.17, d.lgs.165/2001, prevede poteri di direzione, coordinamento e controllo in capo al dirigente in

relazione all’attività degli uffici che da lui dipendono e di quella dei responsabili dei procedimenti

amministrativi, il dirigente effettua la valutazione del personale assegnato ai propri uffici, nel rispetto del

principio del merito, ai fini della progressione economica e tra le aree, nonché della corresponsione di

indennità e premi incentivanti. Possono delegare con atto scritto e motivato alcune delle proprie competenze

a dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell’ambito degli uffici ad essi affidati.

La vice dirigenza e la mobilità

L’art.17-bis, d.lgs.165/2001 inoltre, prevede l’area della vice dirigenza, per valorizzare i funzionari laureati

e dotati di una certa anzianità, ed è rimessa alla contrattazione collettiva di comparto.

Le consulenze e gli incarichi di studio

Un cenno merita infine il tema delle consulenze affidate a soggetti esterni rispetto alle amministrazioni,

strumento di cui si sono spesso avvalsi i dirigenti e gli amministratori e il cui impiego il legislatore cerca

comunque di contenere; l’amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di

utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno, la prestazione deve essere di natura temporanea e

altamente qualificata;occorre preventivamente determinare durata, luogo, oggetto e compenso della

collaborazione, gli incarichi possono essere conferiti soltanto a esperti di particolare e comprovata

specializzazione, anche universitaria,è prevista la pubblicazione dei provvedimenti di incarico e la

trasmissione alla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti, l’incarico deve essere assegnato

secondo i principi del merito e della trasparenza.

20.i soggetti di diritto nel dir. Amm.: le formazioni sociali e gli ordinamenti autonomi

Le organizzazioni sociali no profit

Un ruolo importante, anche ai fini dello studio del diritto amministrativo, rivestono i soggetti di diritto

costituiti dalle organizzazioni sociali. Molte di queste formazioni sono costituite da aggregazioni di

individui che perseguono interessi, non caratterizzati dal fine di lucro, in parte coincidenti con quelli affidati

alla cura di soggetti pubblici.Rientrano in questo ambito moltissime associazioni quali le comunità

terapeutiche, le istituzioni pro-loco, le organizzazioni impegnate nei settori della ricerca, dello sport,

dell’istruzione, della beneficienza, della protezione civile, dell’accoglienza e dell’adozione di stranieri,

dell’assistenza, del servizio civile, della tutela dei beni culturali e così via. Si pongono quindi le questioni

dell’eventuale ruolo pubblicistico che a tali organizzazioni potrebbe essere attribuito, nonché dei limiti entro

i quali lo Stato può ingerirsi nella loro struttura e attività. In generale, il fenomeno delle organizzazioni non

lucrative ha conosciuto una fortissima espansione negli ultimi decenni, tanto da introdurre la definizione di

“terzo settore”, composto, sia da organizzazioni no profit, che da organizzazioni di volontariato,

associazioni e cooperative. Il campo di azione di queste organizzazioni è in linea di massima quello dei c.d.

servizi sociali.

La l. 328/2000 disciplina infatti un sistema integrato di interventi e servizi sociali, in cui anche gli organismi

in esame partecipino alla offerta e alla gestione dei servizi. La normativa di settore prevede che le

organizzazioni che perseguono finalità di interesse generale possano ricevere finanziamenti pubblici e siano

talora sottoposte a forme di controllo o vigilanza, ovvero ad un regime fiscale favorevole La l.11 agosto

1991, n.266 ha poi disciplinato le organizzazioni di volontariato, con finalità di assistenza alla persona. Tali

soggetti devono iscriversi negli appositi registri regionali e le associazioni possano stipulare convenzioni

con soggetti pubblici per lo svolgimento di servizi e possano partecipare in regime di concorrenza a

pubbliche gare.

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62

Le organizzazioni non lucrative hanno una importante funzione di rilevazione dei bisogni: le associazioni

oggetto di disciplina devono svolgere attività di utilità sociale “senza fine di lucro e nel pieno rispetto della

libertà e dignità degli associati” (no profit).

Le onlus sono organizzazioni come le associazioni, i comitati, le fondazioni, le società cooperative e gli altri

enti di carattere privato, con o senza personalità giuridica, i cui statuti o atti costitutivi, redatti nella forma

dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata, che svolgono attività in particolari settori

quali assistenza sociale e socio-sanitaria; beneficienza; istruzione; formazione; sport dilettantistico; tutela,

promozione e valorizzazione delle cose d’interesse artistico e storico; natura e’ambiente; promozione della

cultura e dell’arte; tutela dei diritti civili; ricerca scientifica; devono avere l’esclusivo perseguimento di

finalità di solidarietà sociale e il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili e avanzi di gestione

nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell’organizzazione; vi è l’obbligo di impiegare gli utili o gli

avanzi di gestione per la realizzazione delle attività istituzionali o connesse. La l.118/2005 ha delegato il

governo a emanare decreti legislativi per la disciplina delle imprese sociali, definite come le organizzazioni

private senza scopo di lucro che esercitano in via stabile e principale un’attività economica di produzione o

di scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale.

Gli ordinamenti autonomi: le confessioni religiose e l’ordinamento sportivo

Altre formazioni caratterizzate da una normazione propria, possono essere configurate come ordinamenti

autonomi e danno luogo ad organizzazioni in cui i rapporti con l’ordinamento statale sono assai più

complessi; sono gli ordinamenti delle confessioni religiose e gli ordinamenti sportivi.

In ordine alle confessioni religione, l’art.8 Cost. stabilisce che le confessioni religiose diverse da quella

cattolica (la Chiesa cattolica, ai sensi dell’art.7 Cost. è considerata ordine sovrano e indipendente) possono

organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.Entro

questi limiti, dunque, l’ordinamento confessionale non può entrare in conflitto con quello statale, in quanto

rispetti l’ambito riservato a quest’ultimo.

L’ordinamento sportivo, non è invece considerato al riparo dall’ingerenza della disciplina statale, perché

privo di garanzia costituzionale. La l.280/2003 stabilisce ora che “La Repubblica riconosce e favorisce

l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo

internazionale facente capo al comitato olimpico internazionale”; esso aggiunge che “i rapporti tra

l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia. Ma

riserva all’ordinamento sportivo – escludendo la giurisdizione del giudice ordinario o amministrativo – la

competenza sulle questioni tecniche aventi ad oggetto il corretto svolgimento delle attività sportive e

agonistiche, i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione e applicazione delle relative

sanzioni disciplinari sportive.

Soggetti degli ordinamenti separati come enti pubblici dell’ordinamento italiano

Il problema che però maggiormente interessa il diritto amministrativo è quello della qualificazione come

pubblici, di alcuni soggetti che contestualmente sono soggetti degli ordinamenti separati.

Il Coni (Comitato olimpico nazionale italiano), è ente esponenziale dell’ordinamento sportivo ma è, secondo

il diritto italiano, un ente pubblico.

L’ “intrusione” pubblicistica quindi la pretesa dell’ordinamento di entificare soggetti esponenziali di un

ordinamento separato ha dato luogo a delicati problemi; p.es. lo Stato attribuiva carattere pubblico alle

comunità israelitiche: la Corte costituzionale ha ritenuto tale disciplina in contrasto con il principio

costituzionale dell’autonomia statutaria delle confessioni religiose e con quello della laicità dello Stato.

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21. I mezzi. In particolare i beni pubblici. Nozione e classificazione codicistica.

Le amministrazioni pubbliche utilizzano mezzi materiali per il loro funzionamento e necessitano di mezzi

finanziari per lo svolgimento delle loro attività.

L’incremento dei compiti ha determinato un notevole aumento del bisogno di mezzi finanziari che si riflette sulla spesa pubblica. Le

amministrazioni fanno fronte ai propri bisogni con entrate di diverso tipo, soprattutto attraverso le imposte che vengono prelevate

dallo stato e successivamente ripartite tra le varie amministrazioni.

I beni pubblici, che come si evince appartengono agli enti pubblici, sono soggetti ad una normativa diversa

rispetto a quella degli altri beni soprattutto per ciò che riguarda la circolazione,l’uso e la tutela.

Accanto a questi, troviamo dei beni appartenenti ad enti pubblici che però ricadono nella disciplina di

carattere generale sulla proprietà privata, cioè il patrimonio disponibile degli enti pubblici : patrimonio

mobiliare, edilizio e fondiario destinati a produrre reddito secondo le regole dell’economia privata; cosi

definito per distinguerlo dal patrimonio indisponibile.

Vale ricordare l’acquisizione al patrimonio comunale degli immobile costruiti abusivamente e non demoliti spontaneamente dal

responsabile.

Anche il denaro fa parte del patrimonio disponibile e può quindi essere sottoposto ad esecuzione forzata da

parte dei creditori, salvo che si sia verificata una destinazione delle somme a particolari fini.

Secondo un opinione giurisprudenziale, il denaro trasferito dall’amministrazione a un privato a titolo di contributo deve essere

considerato come bene pubblico mentre il provvedimento va qualificato come concessione.

I beni patrimoniali disponibili possono essere oggetto di contratti di alienazione (contratti detti attivi,

stipulati mediante asta pubblica), di acquisto (contratti passivi, preceduti da gara mediante pubblico incanto).

Discorso a parte va fatto per l’alienazione dei beni del patrimonio disponibile sottoposto a procedimento di dismissione. I beni

appartenenti in proprietà privata a un qualunque soggetto sono per lo stesso disponibili, perché contemplato dall’art. 832 c.c. : la

locuzione qui utilizzata “patrimonio disponibile” non indica una particolare categoria sottoposta al diritto privato ma ha l’intenzione

di rimarcare la differenza del regime di questi beni appartenenti a soggetti pubblici rispetto a beni del patrimonio indisponibile e del

demanio, sottratti al potere di disposizione dell’ente proprietario.

Il complesso dei beni pubblici appartiene alle pubbliche amministrazioni a titolo di proprietà pubblica.

Nella proprietà pubblica si prediligono i doveri e per questo la legislazione ordinaria preferisce utilizzare

l’espressione “appartenenza” collocando le disposizioni nel libro terzo del codice civile; tuttavia l’art. 42

Cost. afferma che la proprietà si distingue in pubblica o privata, confermando la possibilità di impiegare il

concetto di proprietà per descrivere il titolo di appartenenza all’ente dei beni pubblici. Il fatto che si tratti di

proprietà spiega l’appartenenza dei frutti all’ente titolare del bene e il fatto che l’oggetto resti di proprietà

dell’ente : si delinea in questo modo il principio di elasticità della proprietà. I beni assoggettati a questo

regime sono indicati dalla legge in demaniali e patrimoniali indisponibili.

L’ordinamento valuta necessario che alcuni beni appartengano agli enti pubblici perche dotati della idoneità

a soddisfare gli interessi imputati a quegli enti, oppure siano preposti alla soddisfazione di libertà

costituzionalmente garantite che il regime privato non consentirebbe di assicurare.

In alcune ipotesi l’ordinamento intende sottrarre ogni spazio decisionale all’amministrazione, in altre il regime peculiare si applica

soltanto per il periodo di tempo in cui esiste la destinazione, determinata dall’ente, del bene a fini pubblici. I beni pubblici non

possono essere sottratti alla loro funzione o destinazione se non nei modi stabiliti dalla legge proprio perché servono a soddisfare

interessi pubblici : la proprietà pubblica è un esempio di proprietà-funzione. La legge impone una precisa disciplina per tutti questi

beni per salvaguardare la loro stabile destinazione, limitando i poteri di disposizione del proprietario.

La dottrina non ha mancato di sottolineare alcune incongruità della suddetta distinzione. Come abbiamo ricordato a questa

classificazione segue un peculiare regime giuridico di beni; a ulteriore conferma l’art. 879 c.c. sottrae alla comunione forzosa gli

edifici del demanio pubblico ma analogo divieto non sussiste per i beni del patrimonio indisponibile.

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La titolarità della proprietà trova la fonte nella legge. Alcuni beni appartengono ad enti territoriali: si tratta

del demanio naturale (marittimo ed idrico) e del patrimonio indisponibile (miniere) e di altri beni di

interesse artistico,storico o archeologico. Tale titolarità può derivare anche da :

a) fatti acquisitivi: occupazione, invenzione, accessione, specificazione,unione, usucapione..

b) atti di diritto comune: contratti, testamento, donazione..

c) fatti basati sul diritto internazionale: successione ad altro Stato, confisca,indennità di guerra..

d) atti pubblicistici che comportano l’ablazione di diritti reali su beni di altri soggetti: confisca,

espropriazione,requisizione..

22. Il regime giuridico dei beni demaniali.

La disciplina che si applica ai beni pubblici è contenuta negli artt. 822 c.c., nel r.d.lgs. 2440/1923 e nel r.d.

827/1924.

I beni demaniali sono tassativamente indicati dalla legge e comprendono i beni demaniali necessari e i beni

demaniali accidentali.

I beni del demanio necessario non possono appartenere allo Stato o alle regioni e sono costituiti dal

demanio marittimo,idrico e militare.

Ai sensi dell’art. 822 c.c. e dell’art. 28 cod. navig., fanno parte del demanio marittimo il lido del mare, le spiagge, i porti, le lagune,

le rade, le foci dei fiumi e i canali utilizzabili. Il demanio idrico è costituito da: fiumi, torrenti, laghi ed altre acque pubbliche; tutte le

acque superficiali e sotterranee sono considerate demaniali. La disposizione suscita dubbi in quanto sembra estendere la demanialità

anche alle acque di cui si ignora esistenza ed ubicazione, in questi casi l’acqua non essendo suscettibile di impiego non sarebbe un

bene in senso tecnico e conseguentemente non idonea ad appartenere ad un ente pubblico. Si noti che l’acqua degli acquedotti e ai

canali che la convogliano non rientrano nel demanio idrico ma, bensì, in quello accidentale. Il demanio militare comprende le opere

destinate alla difesa nazionale, le opere destinate al servizio delle comunicazioni militari.

Il demanio necessario è costituito esclusivamente da beni immobili che paiono caratterizzati dalla scarsa

deperibilità.

La legge contempla i beni del demanio accidentale, composto da strade,autostrade,aerodromi (non

militari),acquedotti,musei,pinacoteche,archivi,biblioteche.. I beni possono appartenere a chiunque ma sono

tali qualora appartengano ad un ente pubblico territoriale; un’ulteriore differenza deriva dal fatto che essi non

sono costituiti esclusivamente da beni immobili ma anche da universalità di mobili.

Il codice civile ricomprende anche le strade ferrate, alcune delle quali sono state sdemanializzate; l’art. 15 della l. 210/1985 prevede

che i beni ad opera del servizio ferroviario non possano essere sottratti alla loro destinazione senza il consenso delle ferrovie dello

Stato. Le strade sono oggi disciplinate dal codice della strada, la rete è gestita da Anas s.p.a. che ha istituito presso il ministero delle

infrastrutture l’Agenzia per le infrastrutture stradali : si occupa della programmazione della costruzione, dell’amministrazione

concedente, della classificazione delle strade. Le autostrade costruite e gestite dai concessionari sono di proprietà di questi soggetti

finchè lo Stato non le riscatti. Analogo è il regime delle ferrovie costruite e gestite in concessione dai privati, che sono considerate

beni privati di interesse pubblico.

Non rientrano nel demanio stradale le strade vicinali e le strade militari di uso pubblico.

Per quanto attiene agli aeroporti l’attività aeroportuale civile è stata svolta dalla mano pubblica, riservando la possibilità

dell’affidamento della gestione (totale o parziale) a enti pubblici o a società a totale partecipazione pubblica. L’art. 10, c.13,

l.537/1994 ha avviato il processo di privatizzazione degli aeroporti; il disegno di privatizzazione è proseguito con d.l. 251/1995 che

ha abrogato le norme che prescrivono l’obbligatorietà della partecipazione maggioritaria pubblica, rinviando alla cessione delle quote

alla generale disciplina delle dismissioni delle partecipazioni azionarie.

Il demanio culturale e non possono essere alienati,né formare oggetto di diritti a favore di terzi,se non nei modi previsti dal codice.

L’art.824, c.2, c.c. assoggetta allo stesso regime dei beni demaniali accidentali i cimiteri e i mercati

comunali: tali beni rientrano nel demanio comunale.

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65

Le funzioni amministrative in materia di fiere e mercati sono state trasferite alle regioni e ai comuni; queste funzioni non attengono

al profilo immobiliare perché ricomprendono le “attività non permanenti volte a promuovere il commercio, cultura, l’arte..”.

I beni del demanio accidentale possono appartenere a chiunque ma sono tali qualora appartengano ad un ente

pubblico territoriale; un’ulteriore differenza deriva dal fatto che essi non sono costituii esclusivamente da

beni immobili, potendo costituire in universalità di mobili.

I beni demaniali, sia che appartengano al demanio necessario o a quello accidentale, sono caratterizzati

dall’appartenenza ad enti territoriali : preordinati alla soddisfazione di interessi imputati alla collettività.

Occorre inoltre distinguere i beni demaniali naturali rispetto a quelli del demanio artificiale; alcuni di essi

preesistono rispetto alle determinazioni dell’amministrazione mentre altri sono definiti pubblici in quanto

destinati ad una funzione pubblica dall’amministrazione. Infine alcuni beni sono riservati

necessariamente ad enti territoriali, mentre altri possono appartenere a privati o enti non territoriali.

Tutti i beni demaniali sono assoggettati alla disciplina dell’art. 823 c.c. in quanto inalienabili e non possono

formare oggetto di diritti a favore dei terzi : questa prescrizione implica che i diritti dei terzi sui beni

demaniali possano essere costituiti soltanto secondo le modalità previste dalla legge, come ad esempio

rimane preclusa l’usucapione quale modo di acquisto di diritti reali.

Assodata l’incommerciabilità dei beni demaniali, sono nulli di diritto gli atti dispositivi posti in essere dalla

pubblica amministrazione : i beni hanno un vincolo reale che rende impossibile l’oggetto. Va esclusa la

espropri abilità dei beni demaniali, è anche da escludere la trasferibilità dei beni del demanio necessario.

Questo è il regime tradizionale dei beni demaniali : la disciplina sul federalismo demaniale prevede che si

applichi al demanio marittimo, idrico e aeroportuale. Per completare l’analisi del regime del demanio, va

aggiunta la disciplina dell’art. 823 c.c.; ai sensi della norma citata, l’amministrazione dispone di poteri di

autotutela: può direttamente procedere a tutelare i propri beni, irrogando sanzioni ed esercitando poteri di

polizia demaniale.

I beni del demanio naturale acquistano la demanialità per il fatto di detenere i requisiti previsti dalla legge. I

beni “artificiali” diventano demaniali se rientrano in uno dei tipi fissati dalla legge, cioè quando l’opera è

realizzata e ciò implica la sua destinazione pubblica.

La cessazione della qualità di bene demaniale deriva dalla distruzione del bene, dal fatto della perdita dei

requisiti di beni demaniale e dalla cessazione –espressa o tacita- della destinazione. Vi può essere anche

l’intervento legislativo che “sdemanializza”. La cessazione dei requisiti è attestata da uno specifico atto

amministrativo; nell’ipotesi di beni riservati, tale sdemanializzazione ha finalità dichiarative: il bene non è

più pubblico perché ha perduto i caratteri di bene pubblico. Il codice civile si occupa del passaggio dei beni

dal demanio accidentale al patrimonio indisponibile.

L’atto ha mera natura dichiarativa, mentre la perdita della qualità del bene demaniale deriva dal venir meno dei consueti presupposti.

La sdemanializzazione comporta la cessazione del diritto di uso del bene spettante a terzi e la estinzione

delle eventuali limitazione derivanti dalla natura demaniale del bene stesso.

23.Il regime giuridico dei beni del patrimonio indisponibile. Il federalismo demaniale. L’amministrazione

dei beni pubblici.

I beni del patrimonio indisponibile sono indicati dall’art. 826 c.c. commi 2 e 3 e dall’art. 830, c.2, c.c.

In ordine ai beni del patrimonio indisponibile, occorre tenere presente:

le cave e le torbiere, sottratte alla disponibilità del proprietario, le acque termali e minerali e le

foreste che sono state trasferite al patrimonio indisponibile della regione. Le cave e le torbiere

possono essere sottratte senza corrispettivo alla disponibilità dei proprietari e avocate alla regione

solo in caso di mancato sfruttamento,venendo assoggettate alla disciplina delle miniere.

Le miniere erano riservate allo Stato.

Page 66: Dispensa Di Amministrativo - 1

66

Le funzioni amministrative relative alle risorse geotermiche sono ripartite tra Stato e regione ai sensi degli artt. 32 e ss.,d.lgs.

112/1998 : spettano alle regioni le funzioni relative ai permessi di ricerca e di coltivazione di minerali solidi; le miniere, una volta

scoperte, divengono di proprietà pubblica ma possono essere date in concessione.

le cose mobili di interesse storico, paletnologico, paleontologico, artistico sono assoggettate alla

disciplina dei beni patrimoniali indisponibili salvo che siano costituite in raccolte di musei,

pinacoteche..nel qual caso parleremo di demanio accidentale. I beni di interesse storico-artistico

possono appartenere anche ai privati.

L’art. 826, c.2, c.c. sembrerebbe escludere dal patrimonio indisponibile le cose di interesse storico, artistico ..non ritrovate nel

sottosuolo; il regime giuridico di tali beni prevede comunque che non siano alienabili senza autorizzazione ministeriale i beni

culturali non immobili appartenenti ad enti territoriali.

i beni costituenti la dotazione della presidenza della Repubblica, le caserme, gli armamenti, gli

aeromobili militari e le navi da guerra. Sono assoggettati alla disciplina dell’art. 828, c.2, c.c. e

pertanto non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li

riguardano.

A differenza dei beni demaniali, i beni del patrimonio indisponibile non sono assolutamente incommerciabili : gli atti di disposizione

devono tuttavia rispettare il vincolo di destinazione. L’atto di trasferimento di tali beni che non rispetti la disciplina non è nullo ma

annullabile per violazione dei “modi di legge” stabiliti per sottrarli al vincolo di destinazione, anche se la tesi della nullità è

sostenibile perché si registra una contrarietà ad una norma imperativa. Il limite della non sottrazione alla destinazione comporta che i

beni possono essere gravati di diritti reali parziari a favore di terzi, purchè compatibili con la destinazione. La legge stabilisce

parimenti un procedimento per la localizzazione delle opere pubbliche di interesse statale con la finalità di identificare le linee

fondamentali dell’assetto del territorio nazionale con riferimento ai valori naturali e ambientali tramite dei piani urbanistici ed edilizi.

L’acquisto e la perdita dei caratteri di bene pubblico si rifanno alla disciplina dei beni demaniali,

distinguendo a seconda del fatto che si tratti di beni pubblici solo perché possiedono i caratteri prescritti

dall’ordinamento ovvero perché viene richiesto un atto di destinazione pubblica.

La disciplina posta dal codice non risulta del tutto coerente.

Occorre considerare che:

a) alcuni beni demaniali sono necessariamente riservati ad enti pubblici territoriali,mentre altri possono appartenere anche a

privati o enti non territoriali

b) simili considerazioni possono essere fatte per i beni del patrimonio indisponibile che sono riservati a enti pubblici; altri

beni invece sono patrimoniali indisponibili per il solo fatto di appartenere ad un ente pubblico; vi sono beni che assumono

il carattere dell’indisponibilità in conseguenza di una destinazione pubblica

c) alcuni beni del patrimonio indisponibile sono incommerciabili perché beni riservati, gli altri sono incommerciabili e

sottratti alla garanzia patrimoniale dei creditori se in caso di destinazione pubblica

d) altri beni ancora sono soggetti ad un regime di inalienabilità, salvo permesso amministrativo.

La giurisprudenza ha esteso al patrimonio indisponibile parte della disciplina per il demanio in modo da

assicurare una gestione più efficiente anche per il demanio. A seguito dell’ attuazione del federalismo

demaniale dovremo assistere ad una riduzione dell’ampiezza del demanio statale, del numero dei beni

pubblici : i beni trasferiti andranno a far parte del patrimonio disponibile e potranno essere alienati.

La sua ispirazione di fondo è quella di attribuire i beni al livello territoriale più vicino e per questo

maggiormente responsabilizzato in termini politici. L’obiettivo è quello di sottrarli allo Stato affinchè

vengano valorizzati dagli enti destinatari; gli enti sono tenuti a garantirne la massima valorizzazione

funzionale a vantaggio diretto o indiretto della collettività. Il nesso tra attribuzione del bene e vantaggio

richiama una caratteristica dei beni demaniali, cioè quella di essere una dotazione minima necessaria per lo

svolgimento di libertà costituzionali da parte della collettività; questa definizione andrebbe però rivista alla

luce di ciò che viene considerato vantaggio indiretto.

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Il decreto si occupa della profilo della trasparenza e dell’informazione : ogni assicura l’informazione della collettività circa il

processo di valorizzazione, possono essere promosse forme di consultazione popolare. Le specifiche finalità e modalità di utilizzo del

bene, la tempistica ed economicità sono contenute in una relazione allegata alla domanda che l’ente territoriale deve presentare

all’agenzia del demanio al fine di ottenere l’assegnazione; se l’ente non utilizza il bene nel rispetto delle finalità, il governo esercita il

potere sostitutivo ai fini di assicurare la migliore utilizzazione del bene.

Un altro perno della riforma consiste nel fatto che l’attuazione del federalismo demaniale non comporterà

ulteriori spese aggiuntive per lo Stato, è infatti prevista una riduzione dei trasferimenti statali agli enti cui

verranno attribuiti a “titolo non oneroso” gli immobili statali. La realizzazione del disegno prefissato dal

decreto dovrebbe comportare il passaggio di molti immobili statali del demanio e del patrimonio

indisponibile al patrimonio degli enti territoriali non statali.

Alcuni importanti beni saranno esclusi dal trasferimento e rimarranno quindi nella sfera giuridica dello Stato (si parla di black list).

In ossequio al principio di sussidiarietà, i beni del demanio marittimo rimarranno alle amministrazioni statali; strade ferrate in uso di

proprietà dello Stato, giacimenti petroliferi e di gas. Un regime particolare è previsto per gli immobili “in uso alle amministrazioni

statali per comprovate ed effettive finalità istituzionali” essi possono essere esclusi dal trasferimento,solo a seguito di uno specifico

procedimento : le amministrazioni statali devono comunicare all’agenzia del demanio gli elenchi dei beni di cui richiedono

l’esclusione, entro i successivi trenta giorni l’elenco complessivo dei beni esclusi dal trasferimento è redatto e reso pubblico.

I beni ceduti finiranno nel patrimonio disponibile degli enti destinatari e potranno essere alienati solo previa

valorizzazione attraverso le procedure per l’adozione delle varianti allo strumento urbanistico. I beni

appartenenti al demanio marittimo,idrico e aeroportuale restano assoggettati al regime demaniale stabilito dal

codice civile; per altro verso il d.p.c.m. di attribuzione può disporre il mantenimento dei beni stessi nel

demanio o l’inclusione nel patrimonio indisponibile.

Il trasferimento ha luogo nello stato di fatto e di diritto in cui i beni si trovano, con immissione di ciascuna regione ed ente locale nel

possesso giuridico e subentro di tutti i rapporti relativi al bene trasferiti.

Le modalità di attribuzione saranno due. Alcuni beni saranno trasferiti dallo Stato a due categorie di enti

territoriali con d.p.c.m. entro 180 giorni, senza necessità del consenso dell’ente e secondo il seguente

principio : alle regioni verranno trasferiti il demanio marittimo e i beni del demanio idrico.

Destinata alle province è una quota dei proventi dei canoni ricavati dall’utilizzazione del demanio idrico, tenendo conto dell’entità

delle risorse idriche che insistono sul territorio.

Alle province verranno attribuiti i laghi chiusi e le miniere.

Va quindi corretta l’affermazione secondo la quale i beni del demanio necessario non possono che appartenere allo Stato o alle

regioni; ora anche le province potranno essere titolari di alcuni beni del demanio necessario, si ricordi che i beni del demanio

marittimo ed idrico mantengono il regime demaniale; per quanto riguarda il demanio militare il d.lgs. 85/2010 prevede una specifica

disciplina per i beni in uso dal ministero della difesa. Sono individuati e attribuiti i beni immobili in uso a tale ministero che

possono essere assegnati ad altri enti territoriali in quanto non ricompresi tra quelli utilizzati per la sicurezza nazionale: i beni

demaniali non trasferiti rimangono assoggettati al regime demaniale.

Analoghi decreti avranno il compito di individuare, ecco la seconda modalità di attribuzione, gli immobili

statali da assegnare e gli enti destinatari e gli enti destinatari, i quali dovranno farne richiesta motivata

all’agenzia del demanio entro il termine perentorio di 60 giorni dalla pubblicazione dei decreti.

Per quanto riguarda i criteri da seguire, il decreto fa riferimento a territorialità,sussidiarietà,adeguatezza,semplificazione,capacità

finanziaria,valorizzazione ambientale e correlazione con competenze e funzioni. Le funzioni amministrative di programmazione,

progettazione, esecuzione,manutenzione e gestione delle strade non rientranti nella rete autostradale e stradale nazionale sono state

affidate alle regioni e agli enti locali. Il d.lgs. 85/2010 prevede che gli enti possano procedere a consultazioni tra di loro e con le

amministrazioni periferiche dello Stato. I beni, considerato il loro radicamento al territorio, sono attribuiti ai comuni quando non

richiedono attribuzione a province,città o regione per soddisfare esigenze di tutela cazzo.

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Se un bene non viene attribuito a un ente territoriale di un determinato livello di governo, lo Stato procede

all’attribuzione del medesimo bene a un ente territoriale di un diverso livello : un apposito decreto, su

proposta del ministero dell’economia e della finanza, attribuisce i beni agli enti.

Il trasferimento dovrà tenere conto di eventuali accordi già siglati tra enti locali e amministrazioni pubbliche. Gli enti locali previa

approvazione della variante urbanistica, potranno decidere di vendere gli immobili : il 25% del ricavato dovrà essere versato nelle

casse dello Stato. Decorsi tre anni dalla pubblicazione dei decreti che elencano i beni in assegnazione, quelli non attribuiti agli enti

locali confluiranno nel patrimonio vincolato (fondo gestito dall’agenzia del demanio) , decorsi ulteriori 36 mesi i beni ancora senza

programmi d’intesa rientrano nella piena disponibilità dello Stato.

Il procedimento di attribuzione dei beni viene riattivato ogni due anni.

Un regime particolare è delineato per i beni culturali. Sono esclusi dal trasferimento quelli “vincolati” con provvedimento che ne

dichiara l’interesse artistico,storico ..; per i beni culturali ultracinquantennali è poi previsto un procedimento di verifica dell’interesse

culturale da svolgersi in 120 giorni. L’amministrazione dei beni immobili dello Stato comprende le attività di acquisto, di alienazione

e di destinazione dei beni; spetta generalmente al ministero dell’economia e delle finanze, ad eccezione dei beni del demanio

marittimo,amministrati dal ministero delle infrastrutture. La gestione dei beni immobili può essere affidata gratuitamente al ministero

al quale il servizio si riferisce; si tratta però di una gestione temporanea, quindi alla scadenza la gestione passa automaticamente al

ministero dell’economia e delle finanze. Particolare importanza riveste oggi la gestione delle partecipazioni azionarie di proprietà

dello Stato o di altri enti pubblici.

I beni demaniali sono descritti nell’inventario realizzato a cura del ministero dell’economia e delle finanze. I beni immobili

patrimoniali sono descritti a cura degli uffici decentrati del ministero dell’economia e delle finanze in registri di consistenza ove

vengono registrate le modificazioni nel valore o nella consistenza. Il loro complesso costituisce l’inventario generale dei beni

immobili patrimoniali tenuto dal ministero dell’economia e delle finanze. I beni mobili statali sono inventariati dai singoli ministeri

che li hanno in consegna e affidati ad agenti responsabili. Gli agenti consegnatari sono tenuti alla resa del conto giudiziale che deve

attestare l’adempimento dell’obbligazione di conservazione. I beni mobili non più idonei all’uso loro assegnato sono dichiarati fuori

uso e scaricati dal relativo inventario. In ordine alla valutazione, i beni mobili si iscrivono negli inventari per il loro prezzo

d’acquisto, mentre i beni immobili sono valutati in base al costo, all’estimo o all’imponibile.

La gestione patrimoniale dello Stato si inserisce nel rapporto tra parlamento e governo: ciò spiega perché sfoci nell’approvazione da

parte del parlamento del conto del patrimonio, che confluisce nel rendiconto generale dello Stato insieme al conto del bilancio. In

passato i beni demaniali erano esclusi dal conto del patrimonio, successivamente è stata prevista una classificazione dei beni,

comprendendo quelli demaniali, che mira ad individuare quelli suscettibili di valutazione economica stabilendo che al conto generale

del patrimonio sia allegato un documento contabile in cui sono rappresentati i componenti positivi e gli indicatori di redditività della

gestione. L’Agenzia del demanio si occupa dell’amministrazione dei beni immobili dello Stato con il compito di “razionalizzarne e

valorizzarne l’impiego”, assume anche le decisioni di spesa per la manutenzione e spetta il compito di individuare i beni del

patrimonio immobiliare pubblico con decreti aventi effetto dichiarativo della proprietà.

Il processo di privatizzazione dei beni appartenenti ad enti pubblici è finalizzato a soddisfare esigenze di

carattere finanziario e di risanamento del debito pubblico. I beni pubblici sono spesso utilizzati per produrre

entrate.

L’art. 7, l.140/1997, modificato dalla l. 488/1999, sulla dismissione di beni e diritti immobiliari di enti previdenziali consente il

conferimento o la vendita a società per azioni,anche appositamente costituite, di compendi o singoli beni immobili statali o diritti

reali su di essi.

Tre sono le modalità di dismissione del patrimonio pubblico.

In primis, il ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato a sottoscrivere quote di fondi

immobiliari, mediante apporto di beni immobili e di diritti reali su immobili appartenenti al patrimonio dello

Stato.

I fondi sono gestiti da una o più società di gestione che procedono all’offerta al pubblico delle quote derivate dall’istituzione del

fondo; la quota minima del fondo sottoscrivibile con apporto di immobili pubblici è del 51%, quindi anche con un consistente

apporto in denaro.

Il portafoglio dei fondi viene finanziato attraverso la collocazione di quote sul mercato, gli investitori sono

invece remunerati dai proventi derivanti dalla gestione di fondi. Questo meccanismo in realtà non è mai

divenuto operativo.

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In secondo luogo, i beni immobili appartenenti allo Stato, di minore valore, non conferiti nei fondi

immobiliari, individuati dal ministro dell’economia e delle finanze, possono essere alienati.

I beni e i diritti immobiliari sono alienati in deroga alle norme di contabilità dello Stato, mentre quelli compresi in un apposito

programma definito dal ministero possono essere alienati a uno o più intermediari scelti con procedure competitive; all’alienazione

singola dei beni e diritti, anche non compresi nei programmi, provvede il ministro dell’economia e delle finanze. L’alienazione è

effettuata in deroga alle norme di contabilità dello Stato.

Si rende possibile che comuni e province procedano alle alienazioni del patrimonio immobiliare, derogando alla disciplina attinente

all’alienazione degli immobili dello Stato; si rimette quindi all’ente locale il compito di definire con regolamento i criteri per

l’alienazione. Queste operazioni implicano la previa riduzione del bene pubblico al regime della disponibilità che implica, a sua

volta, la cessazione dei caratteri propri del bene demaniale (ovvero un’apposita legge di sdemanializzazione). Inoltre, in sostituzione

totale o parziale delle somme di denaro costituenti il corrispettivo di un appalto di lavori pubblici, il bando di gara può prevedere il

trasferimento all’appaltatore della proprietà di beni immobili appartenenti all’amministrazione aggiudicatrice indicati nel programma

triennale o nell’avviso di preinformazione; in quanto non assolvono più a funzioni di interesse pubblico.

Infine dobbiamo ricordare il modello della cartolarizzazione,che però è diventato di recente meno

praticabile. La l.410/2001 ha previsto che il ministro dell’economia e delle finanze possa costituire o

promuovere la costituzione di più società a responsabilità limitata con capitale iniziale di 10.000 euro aventi

ad oggetto esclusivo la realizzazione di una o più operazione di cartolarizzazione dei proventi (mediante

l’emissione di titoli o l’assunzione di finanziamenti; si tratta delle Scip) derivanti dalla dismissione del

patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri enti pubblici. Queste società veicolo, all’atto della loro

costituzione, corrispondono allo Stato un prezzo iniziale, con riserva di versare la differenza ad operazione

completata.

A queste società sono ceduti gli immobili, acquistati con l’unico fine di rivenderli, esse pagano un prezzo

iniziale all’ente ed ottengono un finanziamento attraverso prestiti obbligazionari o l’emissione di titoli; i

finanziatori versano una somma iniziale e man mano che gli immobili vengono venduti, ad essi viene

restituito il prezzo maggiorato da interessi ( e lo Stato incassa alla fine la differenza tra la somma restituita al

finanziatore e il prezzo effettivo di vendita). I beni costituiscono patrimonio separato rispetto a quello della

società e a quello relativo ad altre operazioni e sono sottratti alle azioni di terzi.

Il legislatore non si occupa solo di alienazione ma anche di valorizzazione. Il d.l. 112/2008, con lo scopo di

riordinare, gestire e valorizzare il patrimonio immobiliare, prevede che tali enti individuino i singoli beni

immobili ricadenti nel territorio di competenza suscettibili di valorizzazione o di dismissione, predisponendo

un piano delle alienazioni e delle valorizzazioni immobiliari. L’alienazione non è l’unica alternativa

possibile, la possibilità di attivare concessioni o locazioni a titolo oneroso di beni immobili pubblici ha infatti

lo scopo di favorire la riqualificazione e la riconversione di tali beni. Quanto alle forme di valorizzazione,

con decreto del ministero dell’economia e delle finanze è costituita una società di gestione del risparmio

(SGR) con capitale sociale di 2 milioni di euro per l’anno 2012, per l’istituzione di uno o più fondi di

investimento che partecipino ai fondi d’investimento immobiliari chiusi promossi da

regioni,province,comuni..

I fondi istituiti dalle SGR possono investire direttamente al fine di acquisire immobili in locazione passiva alle pubbliche

amministrazioni, partecipare ai fondi titolari di diritti di concessione o d’uso su beni indisponibili o demaniali.

Pure le regioni e gli enti locali possono istituire fondi, cui partecipano quelli istituiti dalla SGR. Anche tali

fondi necessitano di una società di gestione; ai fondi potranno essere apportati beni immobili e diritti :

l’apporto deve avvenire sulla base di progetti di utilizzo o di valorizzazione, si procede poi alla

regolarizzazione edilizia ed urbanistica. I fondi offrono sul mercato quote su base competitiva a investitori

qualificati.

L’art. 33-bis, d.l. 98/2011, convertito nella l. 111/2011, prevede programmi di valorizzazione,

trasformazione, gestione, alienazione del patrimonio pubblico ; l’eventuale trasferimento di beni alle società

o l’inclusione nelle iniziative concordate non modifica il regime giuridico previsto dagli articoli 823 e

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70

829,c.1, c.c. dei beni demaniali trasferiti. L’art. 6 l. 183/2011 ha autorizzato il ministero dell’economia e

delle finanze a conferire o a trasferire beni immobili dello Stato ad uno o più fondi comuni di investimento

immobiliari : le quote o le azioni sono collocate sul mercato e i proventi netti sono finalizzati alla riduzione

del debito pubblico.

Sulla valorizzazione del patrimonio, il Presidente della giunta regionale promuove la formazione di “programmi unitari di

valorizzazione territoriale” per il riutilizzo funzionale e la rigenerazione degli immobili di proprietà della Regione stessa, della

provincia, dei comuni.. Può essere attribuita agli enti locali interessati dal procedimento una quota compresa tra il 5% e il 15% del

ricavo della vendita degli immobili valorizzati se di proprietà dello Stato da corrispondersi a richiesta dell’ente locale interessato. Si

ricordi che anche per gli enti locali si sta diffondendo un’ipotesi di esternalizzazione, realizzato mediante global service

caratterizzato dall’affidamento della manutenzione e della gestione del patrimonio immobiliare a soggetti esterni.

Fenomeno ancora diverso è quello della privatizzazione dei beni che segue la privatizzazione del soggetto

originariamente titolare. I beni cosi privatizzati sono assoggettati ad un regime, simile a quello dei beni

pubblici, che ha l’obiettivo di garantirne la destinazione e l’asservimento alla soddisfazione di interessi

pubblici; rimangono in mano a soggetti che hanno forti connotazioni pubbliche.

Oltre all’ipotesi dei beni dell’ex demanio ferroviario, i beni la cui gestione o conservazione costituiva lo scopo istituzionale dell’ente

pubblico permangono destinati a tale finalità, fatto salvo ogni altro onere o vincolo gravante sugli stessi ai sensi delle vigenti

disposizioni; e non possono essere alienati o gravati di alcun diritto se non in base a specifica autorizzazione del ministero.

In forza della presenza di un regime speciale, si registrano forti similitudini con riferimento alle reti gestite

da privati; le reti costituiscono un decisivo fattore di condizionamento della concorrenza tra gli operatori che

devono avvalersi di essa per prestare servizi sul mercato.

24. Diritti demaniali su cose altrui, diritti d’uso pubblico e usi civici.

L’ordinamento prevede l’esistenza di altri diritti reali soggetti allo stesso regime giuridico, accomunati dalla

proprietà nel concetto di “appartenenza”. Si tratta di diritti spettanti ad enti territoriali sui beni altrui, art. 825

c.c. Quanto ai diritti demaniali su beni altrui, ad esempio si pensi al diritto di servitù gravante sul fondo

privato al fine della realizzazione di un acquedotto pubblico.

Dalle servitù prediali pubbliche vanno tenute distinte le limitazioni pubbliche della proprietà privata che non creano diritti in capo

all’amministrazione, ma restringono le facoltà del proprietario di alcuni beni privati ad esempio imponendo obblighi di non facere.

In ordine ai diritti gravanti su beni privati “costituiti per il conseguimento di fini di pubblico interesse” va

chiarito che essi non spettano a favore di ultimi beni ma a favore della collettività. Tipici esempi sono i

diritti di uso pubblico, si tratta sempre di diritti reali parziari. Un particolare fatto costitutivo è offerto dalla

dicatio ad patriam che si verifica quando un proprietario pone a disposizione dell’uso pubblico beni di

proprietà privata senza che ne risulti variata l’appartenenza.

Presentano profili di analogia gli usi civici : entrambe le categorie sono beni collettivi; gli usi civici sono

tuttavia assoggettati ad una particolare disciplina e possono gravare su beni pubblici. Si tratta di diritti di

godimento e d’uso e anche di proprietà spettanti alla collettività su terreni di proprietà comuni o di terzi che

hanno ad oggetto il pascolo, la pesca, la caccia..

La legge disciplina la liquidazione degli usi che gravano su beni privati mediante il distacco di una quota da cedere in proprietà alla

collettività, e la rimozione di promiscuità in modo che degli stessi immobili possano beneficiare più collettività; le attribuzioni degli

organi istituiti a tale scopo- i commissari per la liquidazione degli usi civici- sono ora state trasferite alle regioni.

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71

25. L’uso dei beni pubblici.

Il regime dei beni pubblici riguarda la circolazione giuridica e la tutela. Si deve poi aggiungere il profilo del

godimento e dell’uso, differente in questa fattispecie da quello della proprietà privata. Per una prima

categoria di beni la distanza rispetto alla proprietà privata è meno marcata, ne è consentito l’uso diretto e

riservato al proprietario pubblico che lo impiega per lo svolgimento dei propri compiti, garantito con norme

che sanzionano penalmente l’uso del bene da parte di altri.

In altri casi, il bene è in grado di soddisfare anche altre esigenze: si realizza l’uso promiscuo.

Si pensi alle strade militari che coniugano l’interesse della difesa con l’interesse della pubblica circolazione.

All’estremo opposto si collocano le situazioni in cui interessi diversi da quelli che fanno capo al titolare del

diritto dominicale possono e debbono ottenere soddisfazione mediante l’uso del bene. Questo avviene con il

riconoscimento dell’uso generale di quei beni pubblici che assolvono funzioni al servizio della collettività.

Tale uso costituisce uno dei mezzi rivolti alla rimozione degli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo

della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti”; in alcuni casi è necessario il pagamento di una

somma, in altri l’autorizzazione dell’ente pubblico.

Vi sono, infine, situazioni in cui i soggetti privati non si limitano ad entrare in rapporto diretto con il bene : il

bene infatti è posto al servizio di singoli soggetti, si parla di uso particolare.

Questo è il caso delle riserve di pesca, delle concessioni di bene pubblico. Talvolta il bene è utilizzato come elemento del proprio

ciclo produttivo.

Spesso l’amministrazione gestisce beni a “capacità limitata”, il cui uso è essenziale per gli imprenditori :

dovrebbe essere preferito un sistema di competizione pubblico e trasparente per selezionare i privati he

possono aver accesso a tale posizione. Muta notevolmente il ruolo dell’amministrazione : essa deve (nell’uso

diretto) conservare, tutelare e utilizzare direttamente il bene ; deve invece (nell’uso generale e particolare)

regolamentare ed organizzare l’uso da parte di terzi.

Analizzando la concessione di bene pubblico, occorre aggiungere che il privato paga un canone di locazione a titolo di corrispettivo

dell’utilità per la riscossione del quale l’amministrazione può impiegare la procedura specifica prevista per le entrate patrimoniali. In

caso di inosservanza degli obblighi del concessionario, l’ordinamento prevede provvedimenti sanzionatori (decadenza), la

giurisprudenza riconosce la possibilità di revocare la concessione stessa per ragioni di interesse pubblico.

L’uso diretto consente di scorgere essenzialmente le situazioni di doverosità dell’ente proprietario, l’uso

generale concreta la titolarità di “diritti civici”, costituiti da interessi semplici, aventi ad oggetto il dovere di

destinare il bene a quell’uso.

L’uso particolare concreta un rapporto tra ente pubblicistico e privato. La giurisprudenza è esclusivamente

del giudice amministrativo, salvo il caso delle concessioni in materia di acque le quali sono devolute alla

giurisdizione dei tribunali regionali e del tribunale superiore delle acque pubbliche.

Occorre accennare al conferimento dei beni stessi come capitale di dotazione nelle aziende speciali (s.p.a.) :

il bene dell’amministrazione proprietaria diventa in queste ipotesi elemento del ciclo produttivo posto in

essere da altro soggetto giuridico pubblico.

26. I beni privati di interesse pubblico : in particolare, i beni culturali appartenenti ai privati.

La dottrina individua una categoria più ampia di beni comprensiva di beni appartenenti a soggetti pubblici e

di beni in proprietà di privati : i beni di interesse pubblico.

In una ipotetica classificazione del regime dei beni, troviamo al primo posto i beni pubblici, poi i beni privati

di interesse pubblico, le limitazioni alla proprietà privata e i vincoli alla proprietà privata.

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72

Per quanto riguarda le opere private di interesse pubblico realizzate dai concessionari, esse sono destinate a rimanere di proprietà del

privato durante il periodo della gestione. Devono essere qualificate come frutto di “lavori pubblici” : la loro riconduzione nell’ambito

dei beni demaniali o patrimoniali indisponibili può avvenire solo nel momento in cui scade il periodo della concessione e il bene

passa nella proprietà dell’ente pubblico territoriale.

Tuttavia, la quasi totalità dei beni è sottoposta a regime amministrativo, nel senso che l’uso degli stessi e le

facoltà dei proprietari sono regolati da norme che attribuiscono il compito alle amministrazioni.

Per quanto riguarda i beni culturali di proprietà privata è stata proposta una dottrina che configura il bene

culturale come bene immateriale di proprietà pubblica inerente ad una o più cose e distinto dal bene

patrimoniale privato. Dalla qualificazione del bene derivano i due regimi : quello della titolarità formale del

bene e quello pubblicistico, connesso all’inerenza a pubblici interessi del bene stesso. Il bene culturale anche

se “privato” nell’appartenenza, rivela il suo aspetto di pubblicità in quanto la sua conservazione soddisfa

interessi pubblici.

La categoria del bene culturale è stata positivamente riconosciuta dall’art. 148,d.lgs. 112/1998. Taluni comportamenti imposti al

privato potrebbero essere anche descritti utilizzando la nozione di gestione; generalizzando i beni culturali sarebbero il risultato di

una situazione giuridica assai complessa, caratterizzata dalla presenza di un bene materiale oggetto di diritti privati, dall’esistenza di

un bene immateriale pubblico e dall’affidamento in gestione del bene pubblico allo stesso privato proprietario del bene materiale.

Talora l’interesse pubblico impone la semplice conservazione del bene, in altre la destinazione alla fruibilità pubblica. Una volta

ammesso l’affidamento al privato della gestione del bene pubblico compenetrato nella cosa che rientra nella proprietà del privato

stesso, si oppongono minori difficoltà alla prospettiva di affidamento in gestione al privato pure dei beni che appartengono alla

proprietà pubblica.

Questo ci permette di richiamare il problema del conflitto tra regime demaniale e normativa specifica dei

beni culturali stessi. L’art. 822 c.c. si riferisce agli immobili riconosciuti di interesse storico,archeologico ed

artistico, alle biblioteche..l’art. 53,d.lgs. 42/2004 afferma che i beni culturali indicati nell’art. 822 c.c.

costituiscono il demanio culturale. L’art. 55, d.lgs. 42/2004 prevede per i beni culturali che facciano parte del

demanio culturale e che non rientrino nel campo di applicazione dell’art. 54, quella dell’alienabilità previo

rilascio dell’autorizzazione ministeriale.

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Capitolo IV

L’ORGANIZZAZIONE DEGLI ENTI PUBBLICI

1. Cenni all’organizzazione statale: quadro generale.

Lo Stato- amministrazione come ente pubblico.

Lo Stato amministrazione può essere qualificato come ente pubblico, dovendosi a esso riconoscere la

qualità di persona giuridica in forza di espressi riferimenti normativi (art 28 Cost, art 822 c.c., norme che

ammettono conflitti di attribuzione tra Stato e regione.

Il problema della personalità dello Stato-amministrazione

Il problema del carattere unitario della personalità dello Stato resta rilevante, in quanto l’amministrazione

statale è estremamente disaggregata. Ci sono però indici che fanno propendere per una risposta positiva: la

responsabilità unitaria dello stato verso terzi, la presenza di strutture organizzative di raccordo orizzontale

che uniscono le varie organizzazioni statali.

Tuttavia l’indubbia frammentazione dell’amministrazione e la distinzione in ministeri che fanno capo a

vertici differenti, impongono di adottare una soluzione più articolata: sotto certi profili l’unicità della

personalità statale non sussiste.

Riprova di questo nell’atteggiamento della giurisprudenza: l’atto di un ministro, nell’esercizio di un poter attribuito ad un altro

ministero, è posto in essere in carenza di potere. Questo mostra di considerare i singoli ministeri, non lo Stato, come diretti

destinatari di attribuzioni amministrative.

L’attribuzione di poteri può avvenire solo a favore di organizzazioni idonee ad essere centro di rapporti

giuridici attivi e passivi; questo spiega perché i ministeri possono stare in giudizio autonomamente.

Di qui le varie teorie che riconoscono ai ministeri la qualifica di figure soggettive.

2. In particolare: il governo e i ministeri

Al vertice dell’organizzazione statale (potere esecutivo) è collocato il governo, formato dal Presidente del

consiglio dei ministri, dal Consiglio dei ministri e dai ministri. (92 Cost.)

Le funzioni amministrative del Presidente della Repubblica

Il presidente della Repubblica svolge alcune importanti funzioni attinenti all’attività amministrativa: poteri di nomina dei più alti

funzionari e emanazione regolamenti governativi.

Il Presidente del Consiglio dei ministri

I compiti del Presidente del Consiglio sono indicati nell’art 5,2 l.400/1988; tra gli altri: indirizza ai ministri le

direttive politiche e amministrative in attuazione delle deliberazioni del Consiglio; coordina e promuove

l’attività dei ministri; può sospendere l’adozione di atti da parte dei ministri competenti, sottoponendoli al

Consiglio; adotta le direttive per assicurare l’imparzialità, il buon andamento e l’efficienza degli uffici

pubblici; può disporre l’istituzione di particolari Comitati di ministri.

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La Presidenza del Consiglio dei ministri

Ha una struttura organizzativa propria alla quale fanno capo vari dipartimenti e uffici.

D.lgs. 303/1999 è intervenuto per disciplinare l’organizzazione e le funzioni di tale struttura. Il Presidente se ne avvale per l’esercizio

in forma integrata delle funzioni attinenti ai rapporti del governo con il parlamento, con le istituzioni europee, con il sistema delle

autonomie, con le confessioni religiose. Il segretario generale è responsabile delle risorse umane e strumentali della presidenza. Il

Presidente provvede all’autonoma gestione delle spese nei limiti di disponibilità iscritte nello stato di previsione.

L’organizzazione degli uffici della Presidenza è disciplinata da decreti del Presidente.

Il Consiglio dei ministri

Le sue funzioni sono indicate dall’art 2, l.400/1988: funzione di indirizzo politico, normativa, poteri di

indirizzo e coordinamento, annullamento di ufficio di atti amministrativi.

Ministri e ministeri: organizzazione e funzioni

I ministri sono gli organi politici di vertice dei vari dicasteri, sono allo stesso tempo organi costituzionali e

vertici dell’amministrazione. Per l’esercizio delle funzioni di indirizzo politico amministrativo, il ministro si

avvale di uffici di diretta collaborazione - uffici di alta amministrazione- aventi esclusive competenze di

supporto e di raccordo con l’amministrazione.

I Ministri senza portafoglio

Nominati con d.P.R., su proposta del Presidente del Consiglio. Sono membri del governo ma non sono

titolari di dicasteri (quindi nemmeno di uffici). Ad essi possono essere delegate funzioni dal Presidente,

sentito il Consiglio; inoltre possono essere posti a capo dei dipartimenti nei quali si articola la Presidenza del

Consiglio.

I sottosegretari

Il ministro può essere coadiuvato da uno o più sottosegretari, nominati con d.P.R., su proposta del Presidente

del Consiglio, di concerto con il ministro che il sottosegretario coadiuverà.

A non più di 10 sottosegretari può essere conferito il titolo di vice ministro, se ad essi sono conferite dal

ministro competente deleghe relative all’intera area di competenza di una o più strutture dipartimentali o

direzioni generali.

La riforma dei ministeri

Il numero, le attribuzioni e le organizzazioni dei ministeri sono determinati dalla legge (95,3 Cost.).

I ministri svolgono le funzioni di spettanza statale per mezzo della propria organizzazione, nonché per mezzo

delle agenzie.

Con riferimento ad alcuni ministeri prefigurati da d.lgs 300/1999, si introduce il modello di organizzazione

caratterizzato dalla presenza, accanto alla figura del ministro, di strutture dipartimentali a cui sono attribuiti

compiti finali e strumentali concernenti grandi aree di materie omogenee. Nell’ambito di tale modello

scompare la figura del segretario generale, i cui compiti sono distribuiti ai capi dei dipartimenti.

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Negli altri ministeri invece la figura del segretario generale può sopravvivere: opera alla diretta dipendenza

del ministro, assicura il coordinamento dell’azione amministrativa, provvede all’istruttoria per l’elaborazione

degli indirizzi e dei programmi di competenza del ministro, coordina gli uffici e le attività del ministero.

In questi ministeri la struttura di primo livello è poi costituita dalle direzioni generali.

A differenza dei dipartimenti che sono previsti in numero limitato, sostanzialmente corrispondente alle aree funzionali affidate ai

ministeri, le direzioni generali sono competenti in settori di intervento più specifici, sono prive di responsabilità complessiva e

determinano una certa frammentazione strutturale, il che giustifica il la figura del segretario generale atta a mantenere l’unità

funzionale dell’azione amministrativa. la loro organizzazione è stabilita mediante regolamenti o decreti del ministro, si può quindi

differenziare la struttura amministrativa dei vari ministeri senza dover ricorrere all’emanazione di leggi.

Le agenzie sono strutture che svolgono attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale,

attualmente esercitate da ministeri e enti pubblici: la previsione della loro istituzione vuole rafforzare il ruolo

di governo del ministro, svuotato da compiti di amministrazione attiva.

Vi sono alcune agenzie fiscali (agenzia delle dogane, agenzia del demanio..), l’agenzia industrie difesa, l’agenzia per la protezione

dell’ambiente, l’agenzia dei trasporti e delle infrastrutture… Le agenzie operano al servizio delle amministrazioni pubbliche,

comprese quelle regionali e locali. Esse hanno autonomia nei limiti stabiliti dalla legge (autonomia di bilancio, di organizzazione),

sono sottoposte al controllo della Corte dei Conti e ai poteri di indirizzo e vigilanza del ministro. Devono essere organizzate in modo

da rispondere a esigenze di speditezza, efficienza, efficacia. Gli obiettivi attribuibili all’agenzia sono definiti da apposita convenzione

da stipularsi tra ministro competente e direttore generale dell’agenzia.

3. Le strutture di raccordo tra i vari ministeri.

Il ruolo di coordinamento del Presidente del Consiglio

I ministeri non operano in modo completamente separato. Il coordinamento dell’attività dei vari ministeri è

assicurato, innanzi tutto, dall’azione politica del Consiglio dei Ministri, dal Presidente del Consiglio e dai

comitati dei ministri.

Il consiglio di gabinetto

Organo collegiale ristretto costituito dal Presidente del Consiglio e dai ministri da lui designati, sentito il

CdM, avente il compito di coadiuvarlo nelle funzioni di mantenimento dell’unità di indirizzo politico e

amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri.

I comitati interministeriali

Sono altri organi collegiali che, a differenza dei comitati di ministri, possono essere formati anche da

soggetti che non siano ministri.

Il Cipe (comitato interministeriale per la programmazione economica) è il comitato interministeriale più

importante. È presieduto dal Presidente del Consiglio e composto da ministri.

È competente in via generale su questioni di rilevante valenza economico-finanziaria, e/o con prospettive di medio lungo termine,

che necessitino di un coordinamento a livello settoriale o territoriale.; altre importanti funzioni riguardano la infrastrutture strategiche

e la programmazione delle imprese finanziarie.

Il Cicr (comitato interministeriale per il credito e il risparmio) si occupa di politica creditizia, esercitando

poteri di direttiva nei confronti del Tesoro e della Banca d’Italia.

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Il Cis (comitato interministeriale per le informazioni) si occupa di politica della sicurezza.

Strutture orizzontali di raccordo dell’azione amministrativa dello Stato

L’unità dell’azione statale è altresì garantita da una serie di organi e di strumenti di raccordo orizzontali, costituiti da strutture facenti

parte dell’amministrazione statale, che sono al servizio dei vari ministeri. Esse sono dipendenti da un’organizzazione differente da

quella del ministero presso il quale operano. In alcuni casi la struttura opera presso ciascun ministero (uffici centrali del bilancio),

altre è incardinata presso la presidenza del Consiglio dei ministri (Avvocatura dello Stato, Corte dei Conti).

L’organizzazione dell’amministrazione contabile dello Stato

Gli uffici centrali del bilancio (ex ragionerie centrali), presenti in ogni ministero con portafoglio, sono

dipendenti dal dipartimento della Ragioneria generale dello Stato del ministero dell’economia e delle

finanze.

In passato le ragionerie centrali presenti nei vari ministeri operavano alle dipendenze dell’ “amministrazione controllata”, situazione

questa che ne limitava gravemente l’autonomia rispetto all’organo da controllare. A partire dal 1923, data la necessità di garantire

che tali uffici svolgano la propria attività al riparo da condizionamenti, tutte le ragionerie sono passate alla dipendenza della

Ragioneria generale del ministero dell’economia. Questo, oltre a comportare una sorta di separazione tra apparato amministrativo e

finanziario, fornì al governo un efficace strumento per controllare le spese all’interno dei vari ministeri (attraverso l’istituto del

rifiuto di registrazione del provvedimento dei spesa, la ragioneria esercitava una sorta di potere di veto sull’azione amministrativa).

Negli anni ’20 furono attribuiti alle ragionerie anche poteri di controllo sulla proficuità della spesa, che in concreto non furono mai

esercitati, sicché la ragioneria ha continuato a svolgere un controllo di mera legalità.

Il quadro organizzativo, caratterizzato dalla presenza del dipartimento di ragioneria generale dello Stato

presso il ministero dell’economia e delle finanze, dagli uffici centrali del bilancio costituiti presso i singoli

ministeri, è completato a livello periferico dalle ragionerie provinciali. Queste si occupano delle

amministrazioni statali decentrate e sono raggruppate in 10 circoscrizioni territoriali. Dipendono

organicamente e funzionalmente dal dipartimento della Ragioneria generale, svolgono altresì compiti di

tenuta delle scritture contabili, di programmazione dell’attività finanziaria, di monitoraggio e di valutazione

tecnica dei costi e degli oneri dell’attività.

L’Istat

Il servizio nazionale di statistica si articola in una serie di uffici presenti presso ciascun ministero e azienda

(più enti territoriali e camere di commercio), collegati funzionalmente all’Istat (istituto centrale di statistica).

L’avvocatura dello Stato

È organizzata in un unico complesso ma svolge attività a favore di tutta l’organizzazione statale. È composta

da legali che forniscono consulenza alle amministrazioni statali e provvedono alla loro difesa in giudizio.

L’Avvocatura è incardinata presso la Presidenza del Consiglio dei ministri; al suo vertice è posto l’Avvocato generale dello Stato

avente sede in Roma, nominato con d.P.R. su proposta del Presidente del Consiglio, dietro deliberazione del Consiglio. Esistono

inoltre 25 avvocature distrettuali, presso ogni sede della Corte d’appello. L’Avvocatura, pur facendo capo alla presidenza de

Consiglio, svolge le proprie funzioni in modo indipendente (si differenzia dagli uffici legali incardinati presso i vari enti).

Agenzia per l’Italia digitale

Ha il compito di fornire alle amministrazioni il supporto conoscitivo essenziale per l’attività amministrativa, esercitando altresì

funzioni di indirizzo e di controllo delle scelte di automazione da esse effettuate. L’Agenzia deve inoltre curare la progettazione, la

realizzazione, la gestione e l’evoluzione del sistema pubblico di connettività per le pubbliche amministrazioni.

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La tesoreria dello Stato

Il servizio di tesoreria è costituito dall’insieme di operazioni e atti attraverso i quali il denaro acquisito dallo

stato viene raccolto, conservato e impiegato: operazioni di acquisizione di entrate e di effettuazione delle

spese di bilancio. Il servizio, per tutti gli uffici dell’amministrazione centrale dello Stato, era in passato

svolto dalla direzione generale del tesoro. Dal 1997 il servizio di tesoreria centrale dello Stato è affidato alla

Banca d’Italia, la quale svolgeva già il servizio di tesoreria provinciale.

Gli enti locali possono, ad ogni modo, gestire fuori dalla tesoreria dello Stato tutte le entrate proprie,

realizzando interessi attivi più elevati. Questo sistema è tuttavia sospeso fino al 31 dicembre 2014.

4. Il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e il Cnel

All’unità dell’azione dello Stato è preordinata l’attività di altri organi, caratterizzati dalla peculiare

collocazione loro riservata nell’ambito del nostro ordinamento, dall’indipendenza di cui godono, nonché

dalla circostanza che essi non svolgono funzioni di amministrazione attiva, bensì funzioni strumentali

(consultive, di controllo, di proposta). Essi, qualificati come poteri dello Stato, sono costituiti dal Consiglio

di Stato, dalla Corte dei conti e dal Cnel. Sono inseriti dalla Costituzione nell’ambito degli organi ausiliari

del Governo, ma due di essi, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, non fanno parte dell’amministrazione

statale.

Il Consiglio di Stato

È l’organo di consulenza giuridico- amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione; la sua

denominazione di organo ausiliario del Governo non esprime un rapporto di dipendenza da esso, si tratta

invece di un autonomo potere dello Stato che può rendere pareri anche alle regioni.

Le sezioni consultive del Consiglio di Stato sono tre, a cui si aggiunge una sezione per l’esame di schemi

normativi in ordine ai quali il parere è prescritto per legge o è richiesto dall’amministrazione; anche

l’adunanza generale composta da tutti i magistrati ha funzioni consultive.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha statuito che non contrasta con l’art 6 della CEDU il fatto che

alcuni componenti del consiglio svolgano contemporaneamente funzioni giurisdizionali e consultive.

La Corte dei conti

Oltre a esercitare funzioni di controllo (cap III par. 15.2) dispone di funzioni giurisdizionali ed esercita altre

funzioni non facilmente riconducibili a quelle fin ora esaminate. Innanzi tutto vengono in rilievo le funzioni

consultive, principalmente con riferimento a disegni di legge governativi che modificano la legge sulla

contabilità dello Stato e alle proposte di legge riguardanti l’ordinamento e le funzioni della corte. Da tenere

distinto dalla funzione consultiva è invece il potere (art. 41 TU Corte dei conti) di esporre le variazioni o le

riforme che crede opportune per il perfezionamenti delle leggi e dei regolamenti sull’amministrazione e sui

conti di pubblico denaro. Vi sono altresì funzioni certificative in materia di contrattazione collettiva.

Un’ulteriore funzione è quella referente, che trova fondamento nell’art 100 Cost là dove si chiarisce che la

Corte riferisce direttamente alle camere sul risultato del riscontro eseguito.

Di norma il referto si inquadra nell’ambito dell’ausilio che la Corte dà al Parlamento in funzione di controllo politico sul Governo;

tuttavia non mancano casi in cui pare configurarsi una funzione di autonomo supporto al Parlamento o alle assemblee

rappresentative, al fine di garantire che l’attività legislativa rispetti i vincoli di bilancio o al fine di stimolare interventi legislativi.

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La Corte è potere dello Stato quando svolge attività di controllo preventivo e successivo sulla gestione, “dal

momento che tale funzione, per quanto ausiliare, risulta caratterizzata dalla piena autonomia dell’organo

investito del suo esercizio” e, al contempo, appartiene al potere giurisdizionale nell’esercizio delle funzioni

giurisdizionali.

La Corte Costituzionale ha escluso la legittimazione delle sezioni di controllo della Corte dei conti a sollevare questioni di

costituzionalità in sede di riscontro successivo di gestione (l’ha ammessa con riferimento alle leggi che la Corte deve applicare

nell’esercizio della sua funzione di controllo).

L’indipendenza della corte in quanto istituto e dei componenti, di fronte al Governo, è oggi richiamata

dall’art 100 Cost; mentre l’art. 108 Cost prevede che la legge assicuri l’indipendenza dei giudici delle

giurisdizioni speciali (proprio l’indipendenza consente di configurare la Corte come potere dello Stato).

Sotto il profilo organizzativo l’indipendenza è accentuata dalla presenza di un organo di autogoverno della

Corte stessa, costituito dal Consiglio di presidenza.

Fanno parte della Corte dei conti il presidente, nominato tra i magistrati della stessa Corte, il presidente

aggiunto, i presidenti di sezione, i consiglieri, i primi referendari e i referendari. La separatezza

dall’esecutivo risulta in parte pregiudicata dal fatto che la nomina di una limitata quota dei posti di

consigliere spetta al governo. Nella sede centrale di Roma la Corte è composta da 5 sezioni di controllo, in

ogni regione esistono inoltre sezioni regionali di controllo.

Un ruolo di nomofilachia è inoltre stato assegnato alla sezione delle autonomie dalla legge 213/2013. Questa

sezione cura il coordinamento dell’attività delle sezioni regionali e si occupa dell’andamento della finanza di

regioni ed enti locali. Essa, in presenza di interpretazioni discordanti delle norme rilevanti per l’attività di

controllo o consultiva o per la risoluzione di questioni di massima e di particolare rilevanza, emana una

delibera di orientamento alla quale le sezioni regionali di controllo si conformano. Il Presidente della Corte

può predisporre che le sezioni riunite adottino pronunce di orientamento generale sulle questioni risolte in

maniera difforme dalle sezioni regionali di controllo, nonché su casi che presentino questioni di massima di

particolare importanza; le sezioni regionali si conformeranno.

L’art 100 Cost colloca la corte tra gli organi ausiliari del Governo, ma la stessa norma contempla, quali

organi con cui la Corte entra in relazione, il Governo e soprattutto il Parlamento. Nell’attuale contesto

normativo essa non è semplicemente chiamata a colmare le lacune informative che affliggono il Parlamento

e a controllare la legalità finanziaria delle scelte dell’amministrazione; deve anche assicurare la sostenibilità

finanziaria del regionalismo e il rispetto del patto di stabilità a tutti i livelli. Ciò avviene soprattutto in forza

dei controlli sui bilanci e dei documenti finanziari che, originariamente previsti per quello dello Stato, si

sono estesi a quelli degli enti locali e delle regioni. La Corte garantisce quindi una visione unitaria della

finanza pubblica, assicurando da parte dell’amministrazione controllata un riesame diretto a ripristinare la

regolarità amministrativa e contabile nel quadro di un rapporto privilegiato con le assemblee legislative.

Il Cnel

Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, previsto dall’art 99 Cost. come organo ausiliario del

Governo, a differenza degli altri due organi esaminati, non è inserito neppure dal punto di vista strutturale e

organico nell’apparato amministrativo.

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Esso svolge compiti di consulenza tecnica (rendendo pareri facoltativi) e di sollecitazione, nelle materie

dell’economia e del lavoro, dell’attività del parlamento (attraverso l’iniziativa legislativa), del governo e

delle regioni.

È un organo collegiale che comprende esperti di materie economiche e sociali, rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro. Ha

fino ad ora rivestito un ruolo scarsamente incisivo: i portatori degli interessi delle categorie produttive tendono ad incidere sul

procedimento decisionale attraverso canali diversi dal Cnel, che doveva costituire una sede di rappresentanza in grado di consentire

una composizione degli interessi preventiva rispetto all’iter di formazione della legge.

5. Le aziende autonome e gli istituti pubblici

Accanto al modello di amministrazione ministeriale, l’organizzazione statale si completa in virtù della

presenza di altre figure soggettive – le aziende autonome- e di enti strumentali rispetto ad essa. Di recente

sono state anche istituite autorità indipendenti rispetto al potere esecutivo.

Le aziende autonome

O amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, sono amministrazioni caratterizzate dal fatto di

essere incardinate presso un ministero e di avere, ciononostante, una propria amministrazione, separata da

quella ministeriale. Svolgono in genere un’attività prevalentemente tecnica, amministrano in modo autonomo

le relative entrate, dispongono di capacità contrattuale e sono titolari di rapporti giuridici, pur non avendo un

proprio patrimonio. Molte di esse sono state trasformate in enti pubblici o in società per azioni:

l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato; l’Azienda di Stato per le foreste demaniali; L’Azienda di stato per i servizi

telefonici; L’Azienda per gli interventi sul mercato agricolo – ora Agenzia per le erogazioni in agricoltura , ente di diritto pubblico

non economico; l’Amministrazione autonoma delle poste e delle telecomunicazioni; L’Azienda autonoma delle ferrovie dello stato,

ora ente pubblico; L’azienda nazionale per l’autonomia delle strade (ANAS), trasformata in ente…

Prive, di norma, di personalità giuridica, esse sono di solito rette dal ministro che e ha altresì la rappresentanza; il ministro è

affiancato dal Cda e dal direttore, organo esecutivo. Il bilancio e il rendiconto dell’azienda sono allegati al bilancio dello stato.

Il termine azienda non è impiegato nella legislazione solo con riferimento alle aziende statali: a livello locale

sono aziende speciali gli enti strumentali degli enti territoriali minori che possono gestire servizi pubblici; a

livello regionale sono le Aziende sanitarie locali. Si tratta di soggetti aventi personalità giuridica.

Gli istituti pubblici

Il tema delle aziende e il problema della loro personalità giuridica introducono la questione degli istituti pubblici, organismi facenti

parte di un ente e creati per la produzione e la prestazione di beni e servizi a terzi, che, secondo alcuni autori, sarebbero dotati di

particolare autonomia finanziaria e di bilancio. Gli esempi tradizionalmente riportati sono quelli degli istituti di istruzione, delle unità

sanitarie locali e delle aziende di trasporto e di fornitura di servizi. Le aziende speciali – enti locali-, le unità sanitarie locali, oggi

definite aziende, hanno personalità giuridica. Con riferimento agli istituti scolastici, ad essi è attribuita personalità giuridica e

autonomia a mano che raggiungono i requisiti dimensionali stabiliti.

Devono essere ricondotte a questa categoria le istituzioni di cui all’art 114 TU, le quali, pur non essendo dotate di personalità

giuridica, hanno autonomia gestionale. Caratteri analoghi presentano poi l’Ispra –istituto superiore per la ricerca e la protezione

ambientale-, l’Iss – istituto superiore di sanità- e l’Ispesl –istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro- , nonché le

soprintendenze, i musei e le biblioteche pubbliche a cui sia attribuita autonomia scientifica, finanziaria, organizzativa e contabile.

6. Le amministrazioni indipendenti

L’ esperienza legislativa più recente è caratterizzata dall’introduzione di modelli di amministrazione assai

differenziati rispetto a quelli tradizionali: le amministrazioni indipendenti.

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Essi sono giustificati e richiesti sia dal tentativo di porre rimedio ai mali dell’amministrazione, sia dall’arretramento dello stato dal

mercato e dal tramonto del modello di intervento pubblico dirigistico nell’economia, cui sovente consegue lo smantellamento di

posizioni di monopolio statale e la necessità di prevedere forme diverse di tutela degli operatori e degli utenti sul mercato.

A seguito dell’introduzione delle autorità, la struttura organizzativa dell’amministrazione statale risulta in

parte modificata rispetto al passato, nel senso che compiti rilevanti sono attribuiti a soggetti dotati di

notevole indipendenza rispetto al governo e agli organi politici. Quest’introduzione segna un diverso

modello di intervento sul mercato da parte del potere pubblico: non più la presenza diretta di imprese

pubbliche, ma l‘assegnazione di un ruolo di controllo e di regolazione.

Esempi

La Banca d’Italia, la Consob (a tutela del risparmio si occupa del mercato dei prodotti finanziari, assicurandone la trasparenza e

garantendo la completezza delle informazioni); l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni; l’Autorità per le garanzie nelle

comunicazioni (subentra nei procedimenti amministrativi e giurisdizionali e nella titolarità dei rapporti attivi e passivi facenti capo al

Garante per l’editoria); l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (interviene in caso di intese restrittive della libertà di

concorrenza e di abuso di posizione dominante ma ha anche importanti compiti in materia di pubblicità ingannevole e di pratiche

commerciali scorrette); l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici; l’ Autorità per l’energia elettrica e il gas. Dotati di compiti di

garanzia, piuttosto che di tutela sono il Garante per la tutela delle persone rispetto al trattamento dei dati personali e la Commissione

di garanzia per l’attuazione della legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.

La Banca d’Italia

In dottrina si discute se la Banca d’Italia, a cui partecipano istituti di credito di diritto pubblico, istituti previdenziali e assicurativi, sia

da includere tra le autorità indipendenti. La Banca, qualificabile come ente pubblico a struttura associativa, è istituto di emissione e

svolge le funzioni di vigilanza sulle aziende di credito e di governo del settore valutario e monetario. La Banca dispone di notevole

autonomia di azione organizzativa, finanziaria e contabile. Essa dal punto di vista formale è soggetta alla vigilanza del ministero

dell’economia (sotto questo profilo si differenzia dalle altre autorità indipendenti che non sono soggette a vigilanza di alcun

ministero). Oggi un ruolo determinante nell’individuazione della politica monetaria è svolto dalla Banca Centrale Europea.

Caratteristiche delle Autorità indipendenti

La disciplina di riferimento offre un panorama assai variegato: alcune di tali autorità non hanno neppure

personalità giuridica, ciò rende ardua la sicura individuazione di un modello di autorità indipendente valido

per tutte le ipotesi, consentendo al più di rintracciare alcuni tratti comuni generali.

Le caratteristiche strutturali delle autorità indipendenti e il tipo di compiti ad esse affidati sono alla base della difficoltà di procedere

alla loro analisi utilizzando i tradizionali strumenti di indagine: è difficile estendere concetti come la terzietà e l’imparzialità,

concepiti con riferimento all’attività giurisdizionale o amministrativa.

Va piuttosto osservato che, in ordine all’attività delle autorità, alcuni principi classici del diritto

amministrativo subiscono qualche adattamento: così accade per il principio di legalità, che la giurisprudenza

ha talora interpretato in modo meno rigoroso, giustificando la presenza di poteri impliciti in capo alle

autorithies; anche il principio inquisitorio, relativamente ai poteri di indagine, e quello pattizio trovano

margini si applicazione più ampi.

I poteri delle Autorità

Le Autorità dispongono per lo più di autonomia organizzativa e funzionale; sono titolari di poteri

provvedimentali, in particolare sanzionatori e talora regolamentari; sono soggette al controllo da parte della

Corte dei conti.

La nomina dei vertici

I vertici delle autorità diverse da quelle operanti nei settori delle telecomunicazioni, dell’elettricità e del gas

(la cui nomina spetta al Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su

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proposta del ministro competente) sono generalmente nominati o designati dai presidenti delle camere,

ovvero (Garante della privacy) sono eletti per metà dalla camera e per metà dal senato.

L’indipendenza

L’elemento veramente caratterizzante delle autorità dovrebbe consistere nel fatto che esse sono indipendenti

dal potere politico del governo, pur dovendo, di norma, trasmettere relazioni a questo, oltre che al

Parlamento, in ordine all’attività svolta. Di conseguenza le autorità non sono tenute ad adeguarsi

all’indirizzo politico espresso dalla maggioranza e adottano, in posizione di relativa terzietà, decisioni simili

a quelle degli organi giurisdizionali. L’indifferenza rispetto agli interessi in gioco ha suggerito di

qualificarne la posizione come neutrale, in ciò ulteriormente differenziandosi rispetto alle tradizionali

amministrazioni che devono invece essere imparziali. L’indipendenza, poi, soprattutto per le autorità che

agiscono su peculiari mercati, deve anche essere riferita agli interessi imprenditoriali.

Si discute se, in aggiunta al profilo negativo costituito dalla sottrazione all’indirizzo politico dell’esecutivo,

le Autorità indipendenti si caratterizzino sotto il profilo funzionale in ragione dello svolgimento di funzioni

omogenee. Da questo punto di vista esse si differenziano dagli altri organi dello stato, pur indipendenti,

perché esercitano funzioni non già consultive o di controllo, bensì di amministrazione attiva.

Si è comunque osservato che alcune delle autorità richiamate presentano un’indipendenza molto meno

marcata: è il caso dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni

L’Ivass e la Consob

Anche l’Ivass presenta minore indipendenza: è sottoposta ai poteri di direzione esercitati dal ministro delle attività produttive sulla

base degli indirizzi fissati dal Cipe. Sotto il profilo strutturale inoltre, i membri della Consob e il presidente dell’Ivass, inoltre, sono

legati all’esecutivo in quanto la loro nomina è rispettivamente effettuata rispettivamente con decreto del Presidente del Consiglio,

previa deliberazione del Consiglio e con d.P.R. previa deliberazione del consiglio. Tuttavia tenendo conto che sono soggetti dotati di

autonomia funzionale molto ampia, possono esser ricondotti alla categoria delle autorità indipendenti.

Problematiche giuridiche sulle Autorità indipendenti

L’indipendenza di cui le amministrazioni indipendenti godono nei confronti dell’esecutivo, anche a

prescindere dal problema della loro eventuale personalità giuridica, vale a differenziarle notevolmente da

altri enti pubblici. Esse rispondono alla logica di dislocare al difuori della sfera di influenza politica settori

amministrativi ritenuti particolarmente delicati.

Proprio la circostanza che queste autorità non rispondano politicamente all’esecutivo ha suscitato dubbi in

ordine alla legittimità costituzionale della scelta legislativa di istituirle. Esse, prive di copertura

costituzionale, sfuggono quasi completamente al modello generale fondato sul principio di responsabilità

ministeriale. Né al fine di invocarne al sussistenza vale la natura squisitamente tecnica dei poteri loro

attribuiti (molti poteri affidati a tali autorità non sono squisitamente tecnici: ex. decisioni patteggiate dei

provvedimenti antitrust).

Discutibile è soprattutto l’attribuzione di poteri normativi a soggetti privi di responsabilità politica in assenza oltretutto di una

disciplina che ne fissi in modo peculiare i limiti.

Un diverso tentativo, recentemente percorso dalla dottrina, è quello di valorizzare il rapporto diretto di

legittimazione politica che corre tra autorità e Parlamento, che infatti svolge di norma un controllo e una

vigilanza su tali soggetti: essi sono dunque inseriti nel circuito della responsabilità politica, ma esclusi dal

meccanismo di quella ministeriale.

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Accanto al tema dell’indipendenza, altri due nodi teorici e pratici molto delicati che interessano le autorità

sono costituiti dalla profondità del sindacato sulla discrezionalità tecnica da esse esercitato e dal rispetto del

principio di legalità.

Autorità di regolazione e liberalizzazione

Numerose tra le autorità indipendenti sono state istituite in relazione a particolari mercati aperti alla

concorrenza e a garanzia di libertà costituzionali; in queste ipotesi esse – spesso definite Autorità di

regolazione- sono in via di principio chiamate a verificare, anche esercitando poteri giustiziali, la

compatibilità del comportamento degli operatori economici, pubblici o privati, con tali libertà e con le regole

della concorrenza e, eventualmente, a tutela degli utenti finali.

Un tempo, la presenza pubblica in tali mercati, era giustificata dal tipo di interessi che l’ordinamento voleva

tutelare con tale intervento. Nel nuovo mutato scenario, liberalizzato, si ritiene necessaria la presenza di

queste autorità.

Si è accennato alla liberalizzazione come apertura del mercato; occorre al riguardo effettuare una

precisazione, anche terminologica:

- una cosa è liberalizzare un settore nel senso di rimettere completamente alla dinamica del mercato la

cura degli interessi rilevanti, sul presupposto che non occorra alcun intervento pubblico. il potere

pubblico si ritrae dalla definizione di un’offerta di mercato (ciò non significa che le attività siano del

tutto immuni da condizionamenti e controlli pubblicistici)

- altro è intervenire per ridurre i limiti e i vincoli là dove gli ostacoli da rimuovere sono giuridici

(misure sostanzialmente protezionistiche impediscono l’accesso al mercato – concessioni e

autorizzazioni). si procede all’abbattimento di barriere giuridiche e regimi amministrativi, nonché

al “disboscamento” di norme previste in funzione di protezione degli operatori già esistenti.

- altro è liberalizzare un ambito là dove si richiedano interventi amministrativi che ne accompagnino

l’apertura (monopolio naturale).

Nell’ultimo caso, quello analizzato, si richiede anche maggior regolazione.

L’ordinamento ritiene che una liberalizzazione pura e semplice, sicuramente rispondente all’esigenza di una

maggior concorrenzialità, ove si traduca in un mero abbandono d’interi settori economici alla logica di

mercato, lascerebbe irrisolto il problema di salvaguardare esigenze collettive. La liberalizzazione in questi

casi non si risolve in una mera apertura alla concorrenza di alcuni settori e nel semplice superamento delle

posizioni monopolistiche, ma comporta la separazione tra regolazione e gestione. Comporta una regolazione

atta alla creazione artificiale di regole di comportamento suscettibili di garantire che la competizione

avvenga ad armi pari e di evitare che si vengano a creare posizioni restrittive della concorrenza. In sostanza

la regolazione ha una funzione pro-concorrenziale e mira a evitare la formazione di esternalità con

riferimento alle attività degli operatori. Essa non può perseguire finalità dirigistiche o di protezione degli

operatori già presenti sul mercato.

Le Autorità,nei casi sopraindicati,svolgono la funzione di regolazione di settore. Rispetto a queste

l’indipendenza organizzativa sarebbe soltanto strumentale (es. Autorità per l’energia e il gas).

In quest’ottica può essere letto il d.l 332\1994 ,conv. In l. 474\1994 che stabilisce che le dismissioni delle partecipazioni azionarie

pubbliche relative alle società operanti nei settori : difesa,trasporti,telecomunicazioni e fonti di energia sono subordinate alla

creazione di autorità regolatrici ,nella tutela delle esigenze collettive degli utenti. Un’ulteriore passo avanti fu fatto con la l. 481\1995

che istituì l’Autorità di regolazione per l’energia elettrica e il gas (organo collegiale composto da un pres e 4 membri,nominati con

dpr su proposta del min competente) e conteneva la previsione per l’istituzione di quella per le telecomunicazioni.

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Ciascuna di queste Autorità ha il compito di regolare e controllare un settore sensibile,disponendo di poteri

di segnalazione,fissazione di standard,criteri e paramentri di riferimento,ma anche di poteri di decisione dei

reclami e fissazione delle tariffe,il tutto nell’interesse degli utenti.

Diverso è il ruolo delle Autorità,nel caso in cui si tratti presidiare settori di mercato con poteri sanzionatori,di

vigilanza e controllo (es. aut garante per la concorrenza ).Gli interessi da tutelare sono sia quelli dei

concorrenti attuali e potenziali,sia quelli degli utenti e dei fruitori dei servizi : occorrono quindi soprattutto

interventi di regolazione.

Anche quando l’interesse è quello del corretto sviluppo dei mercati le aut non si limitano alla mera sorveglianza,anzi,ad es. l’aut

garante per la concorrenza può autorizzare intese in via di principio vietate,intervenendo direttamente sull’ assetto del mkt. Lo stesso

vale per la Consob o l’Ivass e le aut di regolazione di servizi di pubblica utilità,che dispongono di poteri autoritativi tradizionali. In

generale si può dire che spesso la vigilanza trasmodi nella creazione di regole.

Il difensore civico :figura non istituita a livello di organizzazione statale, che si occupa di questioni

diverse rispetto alle aut ma che presenta profili comuni con esse .(nb:dal 2010 non esiste più il dif civico

comunale,le sue funzioni sono svolte da quello provinciale). E’ nato con la funzione di collegamento tra

cittadini(ha il compito di riesaminare,su istanza dell’intessato,le richieste di accesso ai provvedimenti amm

in caso di rifiuto o di differimento) e poteri pubblici(giustificandone le azioni).

Il T.U degli enti locali lo definisce come garante :”dell’imparzialità e del buon andamento della PA”.

Il modello è quello di un organo soggetto esclusivamente alla legge,dotato di una marcata indipendenza e un

ridotto condizionamento politico. Alla stregua delle amm indipendenti trova riferimento nell’art.97 Cost. ,ma

da esse differisce in quanto non è dotato di poteri decisori. Il limite dell’istituto può essere ricercato nella

pluralità di funzioni svolte,incontro ad esigenze talora disomogenee,dalla difesa dei cittadini alla tutela della

legalità,dalla ricerca della trasparenza dei rapporti citt-pa e alla responsabilizzazione dei soggetti pubblici

7. Gli enti parastatali e gli enti pubblici economici

L’organizzazione statale è completata dalla presenza di enti strumentali rispetto ad essa:

A)Enti parastatali : ossia gli enti disciplinati dalla l.70/1975,che li raggruppa in sette categorie in base al

settore di attività (es: enti di promozione economica, enti in settori di pubblico interesse , settori sportivi

ecc..) e ne prevede la fusione o la soppressione se non compaiono nell’apposito elenco adottato con dpr.

Sempre questa l. ha stabilito le modalità di nomina,revoca e conferma degli amm ,ha disciplinato la gestione finanziaria e contabile e

le modalità di controllo e vigilanza stabilendo che le delibere più importanti siano sottoposte all’approvazione del ministero

competente,che entro 90 giorni a pena di esecutività della delibera stessa può restituirla all’ente ordinandone un riesame. Il ministro

può anche sciogliere il cda in casa di “ripetute e gravi inosservanze”. Tutti questi enti inoltre sono sottoposti al controllo della Corte

dei Conti.

Es. di ente parastatale : Coni = confederazione delle federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive associate. Raggruppa

nel suo insieme tutte le associazioni sportive strutturate in spa o srl,che non perseguono scopo di lucro e hanno personalità giuridica

di diritto privato,acquisita previo riconoscimento del Coni stesso. Il Coni ha il compito di stabilire i principi fondamentali ai quali il

loro statuto deve uniformarsi,sorvegliarle e tutelarle e favorire il potenziamento dello sport nazionale. Nb uno dei pochi enti non

trasformato in spa.

B) Enti pubblici economici : agiscono con gli strumenti del d comune e sono titolari di impresa.

Rappresentano una tappa intermedia nella trasformazione delle aziende autonome in spa,rivestendo una

posizione simile e strumentale rispetto allo Stato delle spa a partecipazione statale.

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La regola di trasformazione in spa non è assoluta: è prevista dalla l.59/1997 la trasformazione in ente pubblico economico di enti “ad

alto indice di autonomia finanziaria” operanti in settori diversi dall’assistenza e previdenza. A differenza degli altri enti pubblici è da

sottolineare che il rapporto di lavoro dei dipendenti di epe è di diritto privato,perciò sottratto al giudice amm. ,questi enti inoltre sono

sottratti al regime fallimentare.

[problema della definizione di economicità negli epe:la definizione necessita che l’attività sia svolta a scopo

di lucro e in regime concorrenziale,mentre quello degli epe è monopolistico,es. Enel).

Poiché questi enti operano con gli strumenti di d comune si contesta la riferibilità ad essi dell’autarchia,c’è

comunque un minimum di potestà pubblica( di certificazione,poteri di autoorganizzazione

interna,autotutela).]

Ci sono inoltre altri enti con caratteristiche particolari:

C)ordini e collegi professionali :enti pubblici associativi ad appartenenza necessaria,che raccolgono una

categoria di individui che svolgono una peculiare attività professionale. Sono disciplinati da leggi specifiche e di

norma soggetti al ministero di grazia e giustizia ,svolgono la funzione di autogoverno della categoria,tenuta degli

albi,disciplina,determinazione delle tariffe e degli onorari relativi alle prestazioni professionali.

D)camere di commercio ,industria,artigianato e agricoltura : enti di diritto pubblico che svolgono funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese. Sono enti ad appartenenza necessaria,di tipo associativo e competenza territorialmente delimitata (base provinciale),che raggruppano commercianti,artigiani e agricoltori,curandone gli interessi,tenendo il registro delle imprese …esercitando anche funzioni regolamentari.

L’art 1 della l.59\1997 esclude il conferimento a regioni,province o comuni dei compiti esercitati localmente in regime di autonomia funzionale dalle suddette camere . Sono riservate allo stato le funzioni di approvazione dello

statuto dell’Unione italiana delle camere di c,ar,agr ,la vigilanza sull’attività dell’Unioncamere e lo scioglimento degli organi

camerali per motivi di ordine pubblico ,oltre che l’istituzione di camere derivanti dall’accorpamento di due o più camere.

E) Siae

8. L’amministrazione statale periferica

L’amm statale è presente non solo al centro,ma anche sul territorio nazionale secondo il modello del decentramento burocratico,che ha dato luogo all’amm statale periferica(sul territorio convivono dunque amm statale periferica,quella regionale e gli enti locali).

Tale amm non si presenta in modo omogeneo,tali uffici periferici possono essere situati nel capoluogo di provincia o in altra provincia qualora ragioni di economicità ed efficienza lo richiedano. Al vertice di ciascuno di essi c’è un dipendente del ministero,mentre la difesa in giudizio spetta alle avvocature distrettuali dello Stato,aventi sede in ogni capoluogo dove opera una Corte d’Appello e il controllo sulla spesa è esercitato dalle ragionerie provinciali. Alla Banca d’Italia,che lo esercita tramite le proprie sedi e succursali,

spetta il servizio di tesoreria provinciale.

Tra le svariate ripartizioni periferiche vi è un organo che ha assunto un ruolo prevalente nell’ambito provinciale: il prefetto = organo del ministero dell’interno,preposto all’ufficio territoriale del governo,che svolge compiti in materia di ordine pubblico e sicurezza pubblica,di elezioni politiche e amministrative,di esercizio del d di sciopero nei pubblici servizi .(In passato preposto al controllo sugli atti degli enti locali,ora spetta ad un organo regionale).

Un dpr del 2000 ha semplificato il relativo procedimento amministrativo,introducendo un altro importante compito del prefetto

:quello del riconoscimento delle persone giuridiche private,con l’istituzione di un apposito registro.

Nel 99 è stata istituita la conferenza provinciale permanente dei responsabili degli uffici statali ,presediuta dal prefetto e

composta dai responsabili degli uffici decentrati dell’amm statale.

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Nel 2004 le prefetture sono state trasformate in prefetture-uffici territoriali del governo,mantenendo tutte le funzioni di competenza delle prefetture. Un dpr del 2006 ha disciplinato i poteri di intervento sostitutivo,previo assenso del ministro competente,del prefetto nei confronti degli ufficiali statali periferici,i comitati provinciali permanenti e le conferenze permanenti regionali. La prefettura inoltre assicura le funzioni di rappresentanza unitaria dello stato sul territorio,nel rispetto dell’autonomia funzionale degli altri uffici periferici.

Un regolamento da adottare ai sensi dell’art 17,c 2.l. 40\1988 ha individuato ulteriori compiti e attribuzioni connesse all’esercizio

delle funzioni sopracitate,nel rispetto di taluni principi,ad es. il mantenimento della circoscrizione provinciale quale ambito

territoriale di competenza delle Prefetture.

In passato il commissario del governo si occupava del rapporto a livello regionale tra funzioni amm statali e quelle regionali,con la riforma costituzionale del 2003 questa figura nelle regioni a statuto ordinario è scomparsa,sostituita dal prefetto che :”preposto all’ufficio territoriale del governo avente sede nel capoluogo della regione svolge le funzioni di rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie”.

Esso ha inoltre il compito di indire le elezioni regionali, di raccogliere notizie utili al funzionamento degli organi statali,assicurare il

pr di leale collaborazione stato e regione e il raccordo tra le istituzioni statali presenti sul territorio,il miglioramento dei servizi ai

cittadini…

9. L’organizzazione amm territoriale non statale :la disciplina costituzionale e le recenti riforme

L’attuazione del disegno costituzionale che prevedeva la presenza delle regioni ha incontrato dapprima l’ostruzionismo di alcune forze politiche e poi il condizionamento del centralismo,per questo le regioni a statuto ordinario furono istituite 20anni più tardi di quelli a statuto speciale.

L’ingerenza dapprima notevole dello Stato vs le regioni è venuta via via decrescendo,fino alla riforma del titolo V della parte II della Cost. ,che,modificando i poteri locali,ha interessato in modo determinante anche la fisionomia delle regioni.

In attesa della legislazione regionale il lgs statale può continuare a legiferare in materie spettanti alla lgs regionale? Si,guardando alle

lg statali come norme suppletive,destinate ad essere superate nel momento dell’entrata in vigore delle lg regionali. Nb:questo

meccanismo di cedevolezza non si applica ai rapporti fra fonti regionali e regolamenti comunali (117,c 6 . Questo art, oltre a definire

i casi in cui c’è competenza statale esclusiva,indica quelli “trasversali” dove il lgs statale ha spazio di intervento,es. in materia di

concorrenza).

Per quanto riguarda le funzioni amministrative ,l’art 118 ammette una doppia lettura: 1) modello dei poteri originari = i comuni sono titolari di tutte le funzioni amm (comma 1,che configura come eccezione il conferimento di poteri ad altri enti diversi dai comuni) , 2)modello dei poteri derivati = i poteri e le funzioni sono conferite ai comuni da stato e regioni (comma 2 ,che fa cenno a funzioni “proprie” e funzioni conferite con lg statali o regionali,secondo le rispettive competenze). L’opinione comune è quella secondo cui la Cost non sia direttamente applicativa,il 118 sia al più un indirizzo per il lgs e che quindi occorra una legge per la distribuzione dei poteri. Ciò non esclude che ci sia un’area di poteri pubblicistici,che riguardano i bisogni della collettività,esercitabili senza copertura legislativa. Accanto alle funzioni proprie (quelle che identificano l’ente nella sua qualità di soggetto esponenziale di una comunità),ci sono le funzioni fondamentali di comuni,province e città metropolitanee,che vanno identificate con lg statale e danno sostanza alla missione dell’ente in seno all’ordinamento.

In realtà la CC nega l’esistenza di funzioni ontologicamente locali,ma riconosce che il criterio storico per la ricostruzione del

concetto di autonomia prov e com è utilizzabile con riferimento al nucleo fondamentale delle libertà locali. Le funz amm possono

essere allocate anche ad un livello diverso,secondo un modello ascensionale che le sottragga ai comuni( es. funzioni di difesa

,sarebbero meglio svolte a livello statale).

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La distribuzione delle altre funzioni tra gli enti territoriali invece ,secondo l’art 118,deve avvenire .”sulla base di pr di sussidiarietà,differenziazione ed adeguatezza”,ma la Cost non contiene indicazioni chiare circa la fonte competente.

In riferimento alle materie in cui c’è competenza regionale c’è spazio per quella statale? Si, sent. 303\2003 Corte Cost. ,che occupandosi della disciplina per la realizzazione delle grandi opere,introducendo il meccanismo della cd chiamata in sussidiarietà, ha ammesso che la lg statale possa conferire funzioni amm allo Stato. In tal modo la Corte ha individuato un ulteriore ambito di potestà statale,non contemplato dal 117. Lo spostamento della

funzione è però subordinato all’intesa con la regione,ossia alla necessità di giustificare le ragioni che fondando l’avocazione delle

funzioni . La legge statale così emanata deve essere quindi adottata in seguito a procedure che assicurino la partecipazione di tutti i

livelli di governo coinvolti. Il conferimento delle funzioni è possibile solo se l’intesa sia raggiunta o tentata nel corso del

procedimento amministrativo per esercitarle. Es. coordinamento della finanza pubblica,poteri centrali:il ministro dell’economia e

delle finanze ha poteri di acquisizione di informazioni sugli enti pubblici e di predisposizione di modalità uniformi di

rappresentazione dei dati contabili.)

Come sopra citato le funzioni fondamentali degli enti locali sono escluse dal processo di distribuzione verso l’alto,la loro disciplina è rimessa unicamente alla legge dello Stato.

La potestà legislativa delle regioni : mentre nel previgente sistema c’era un elenco tassativo di casi,l’attuale art 117 dice

che alle regioni spetta una potesta lgs concorrente,su ogni materia non espressamente riservata allo Stato,rafforzandone i poteri

normativi.

Le leggi statali e regionali possono individuare funzioni amm conferite alle regioni,ai sensi dell’art 118 (pr di sussidiarietà,differenziazione,adeguatezza),quali le funzioni di indirizzo,programmazione e controllo. L’istituto del conferimento pare abbia sostituito quello della delega delle funzioni(=conferite alla regione con

legge statale). Nello svolgimento delle funzioni la regione può creare intese con altre regioni,anche con l’individuazione di organi

comuni ,o concludere accordi con stati e intese con altri enti territoriali interni ad altro stato,nei casi e nelle forme disciplinate dalla lg

dello stato. Per quanto riguarda i limiti che le regioni incontrano nell’esercizio delle funzioni amministrative pare dubbio che

sopravviva la funzione di indirizzo e coordinamento attinente ad esigenze di carattere unitario,poiché uno dei fondamenti di questo

potere,l’interesse nazionale ex 117 Cost,è sparito nel nuovo testo dell’art.

L’art 118,c 3 stabilisce forme di coordinamento stato-regioni nelle materie dell’immigrazione,dell’ordine pubblico,ad esclusoone delle polizia amm locale,della sicurezza e dei beni culturali.

[“altri enti locali”:terminologia presente nell’originaria formulazione del 118,ora usata solo per indicare i gioverni locali diversi dalle regioni. L’art. 2 ,T.U precisa che :”si intendono per enti locali i comuni ,le province,le città metropolitane,le comunità montane,le comunità isolane e le unioni di comuni”].

Tornando alle materie di competenza regionale si è passato da un elenco tassativo nel dettato costituzionale ad un ampliamento contenutistico con il decreto 616\1977. Con la l 59\1997 è stata avviata una riforma del sistema regionale,passando per la l.cost. 3\2001,fino all’attuale “disegno federalista”.

La l. 59\1997: contiene la delega al governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni e agli enti locali,per la riforma

della pa e la semplificazione amm. Mirò a realizzare una localizzazione territoriale delle funzioni e dei compiti amm in ragione della

loro strumentalità rispetto agli interessi della collettività(ciò che la lg chiamò conferimento). Questa legge si ispira al pr di

sussidiarietà,stabilendo che ove possibile le responsabilità politiche debbono essere attribuite all’autorità territorialmente più vicina

ai cittadini interessati.Il conferimento deve inoltre avvenire rispettando i pr di completezza,efficienza e di economicità,cooperazione

fra stato,regioni ed enti locali e di responsabilità e unicità dell’amm. La lg mira ad imporre un criterio di riparto delle competenze

secondo cui la competenza in generale spetta alle regione,fatti salve alcune materie di competenza statale,indicate nel c3 dell’art 1(ad

es. affari e commercio estero,difesa,estradizione,dogane…) . Il c6,art1 stabilisce che stato,regioni e gli altri enti locali,nell’ambito

delle rispettive competenze,devono promuovere lo sviluppo economico e la valorizzazione dei sistemi produttivi. NB:questa

legge,riformando l’amm a costituzione invariata,non poteva ampliare la potestà lgs della regione ma soltanto ampliarne i compiti

amm. Per rispettare il parallelismo tra funzioni amm e legislative regionali perciò è stato stabilito che la competenza legislativa spetti

alle regioni nelle materie del c1 del 117,mentre nelle altre materie alle regioni spetta solo il potere di emanare norme attuative(c2del

117). Questa legge cerca di mettere in atto un decentramento,anche da parte delle regioni a favore di province,comuni e altri enti

locali,nell’ambito del 117 c1,stabilendo che la regione conferisca agli altri enti locali “tutte le funzioni che non richiedono l’unitario

esercizio a livello regionale” (art.4,c1). Il c5,art4 precisa che :”ciascuna regione adotta,entro sei mesi dall’emanazione di ciascun

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decreto lgs,le legge di puntuale individuazione delle funzioni trasferite o delegate agli enti locali e di quelle mantenute in capo alal

regione stessa”,se non lo fa è compito del governo.

In attuazione di questa l. è stato emanato il d lgs 112\1998,che ha proceduto ad operare il conferimento di funzioni e compiti nelle materie: sviluppo economico e attività produttive ,territorio,infrastrutture e ambiente,servizi alla persona e alla comunità,polizia amm regionale e locale. Anche qui risulta evidente l’intento di

decentrare il più possibile compiti e funzioni a regioni ed enti locali,infatti i compiti trasferiti o delegati non possono essere più

attribuiti allo Stato.Agli enti destinatari del trasferimento sono conferiti anche tutti i compiti di natura consultiva,istruttoria e

preparatoria connessi all’esercizio della funzione trasferita. Il decreto prevede inoltre un potere sostitutivo in relazione alle funzioni(sia delegate sia trasferite)e ai compiti spettanti a regioni ed enti locali in caso di accertata inattività che comporti inadempimento agli obblighi derivanti dall’appartenenza all’ue o pericolo di grave pregiudizio agli interessi nazionali.Il pdC,su proposta del ministro competente,assegna all’ente inadempiente un congruo

termine per provvedere,decorso il inutilmente il quale,il Consiglio dei min,sentito il soggetto inadempiente,nomina un commissario

che provvede in via sostitutiva.

Il nuovo testo dell’art120 Cost. disciplina il potere sostitutivo del Governo nei confronti di regioni o enti locali nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali,della normativa comunitaria o di grave pericolo per l’incolumità o la sicurezza pubblica. All’ente interessato deve essere dato un termine per provvedere,decorso inutilmente il quale il governo nomina un apposito commisario che adotta provvedimenti sostitutivi,anche normativi,proporzionati alle finalità perseguite.

10. I rapporti con lo Stato e l’autonomia contabile della Regione

La Corte Costituzionale ha individuato come pr generale al quale dovrebbero essere improntati i rapporti Stato-regioni,nelle ipotesi in cui si verifichino interferenze fra le relative competenze,quello di leale cooperazione,che implica l’esercizio dei poteri in base ad accordi e intese.

Questo principio è stato costituzionalizzato dall’art.120 Cost. e poi ripreso dalla l. 131\2000(questa l. inoltre

conferisce al governo il potere di emanare uno o più d lgs al fine di dare attuazione al 117 Cost.).Quest’ultima ha previsto la figura del rappresentante dello stato per i rapporti con il sistema delle autonomie,la commissione parlamentare per le questioni regionali ex 126 Cost. ,la conferenza permanente per i rapporti tra stato,regione e province autonome. Nel 96 è stata inoltre istituita la conferenza Stato-città autonomie locali .

Le conferenze citate sono organi statali,anche se a composizione mista. L’art 9,l.59\1997 contiene una delega al governo ad emanare

un d lgs volto a definire ed ampliare le attribuzioni della Conf. Permanente,unificandola,per le materie e i compiti di interesse

comune delle regioni,delle province e dei comuni ,con la Conf. Stato-città e autonomie locali. Quest’ultima è presieduta dal

presidente del cdm o,per sua delega,dal ministro degli interni.

Per quanto riguarda i controlli,gli atti amministrativi delle regioni in passato erano soggetti a controlli di legittimità da parte di un organo dello Stato ex art 125 Cost. ,oggi la l. cost. 3\2001 ha abrogato questo art.,eliminando i controlli. Resta il controllo che Corte dei Conti,anche con sezioni regionali,esercita sulla gestione del bilancio e del patrimonio. Tale controllo trova riferimento nell’art.117 Cost.(coordinamento della finanza

pubblica) e nella l. sopracitata,secondo la quale il controllo della corte si estenderebbe,oltre he su comuni,province,città

metropolitane,anche sulle regioni.

Controllo sugli organi: art.126 prevede la possibilità che,in caso di gravi violazioni di legge o atti contrari alla Cost. ,il consiglio regionale venga sciolto e il pres della giunta rimosso con decreto del pdr,sentita una commissione di deputati e senatori costituita per le questioni regionali.Lo scioglimento e la rimozione possono essere anche disposti per motivi di sicurezza nazionale,nel caso il pres eletto a suffragio universale sia sfiduciato,abbia un impedimento permanente,muoia o si dimetta.I medesimi effetti conseguono alle dimissioni contestualu della maggioranza dei componenti del consiglio.

Art.119 dice che le regioni,i comuni,le province e le città metropolitane hanno autonomia finanziaria di entrata e spesa,nei limiti del rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci e dei vincoli dell’ue.L’art inoltre prevede due amibiti di competenza esclusiva statale:l’armonizzazione dei bilanci pubblici ,l’istituzione di un

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fondo perequativo per i territori con minore capacità fin per abitante e la destinazione di risorse aggiuntive e di interventi speciali,non solo a favore delle regioni ma anche degli enti.il c3 stabilisce il pr secondo cui le risorse derivanti da tributi ed entrate propri,compartecipazioni e trasferimenti a carico del fondo perequativo,consentono di finanziare integralmente le funzioni pubbliche attribuite.(Va ricordato che il coordinamento fra finanza pubblica e sistema tributario è materia concorrente ex art 117,c 3 ,perciò spetta allo stato fissare i principi fondamentali).Le regioni possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento. L’art 119 ha trovato una prima attuazione con la l. 42\2009,che sopprime i vecchi trasferimenti e prevede che le regioni dispongano di tributi propri e compartecipazioni al gettito di tributi erariali,senza vincolo di destinazione.La l. inoltre prevede una delega il governo di emanare provvedimenti applicativi di questa disciplina,che ha trovato attuazione con il d lgs 168\2011 sull’autonomia tributaria d regioni e province che istituisce una Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica,dispone la soppressione dei fin statali e individua le fonti di finanziamento per le regioni. Una specifica disciplina è dettata con riferimento alle spese relative ai livelli essenziali delle prestazioni,es. i costi standard nel settore sanitario.

Dal pr di autonomia finanziaria deriva che la regione ha un bilancio autonomo rispetto a quello statale(oltre che di un proprio patrimonio,vedi art 119.

Il d lgs 76\2000 (cd patto di stabilità)afferma la competenza concorrente stato-reg nel perseguimento degli obiettivi derivanti dall’appartenenza all’ue.In particolare è disciplinato il bilancio pluriennale e quello annuale,la lg fin regionale e le lg di spesa e rendiconto. Il d lgs 118\2011 individua quali regioni adottino il sistema della contabilità fin e quello economico-patrimoniale.

Il d lgs 149\2011 infine,sul piano politico,impone alle regioni una relazione di fine legislatura,contenente la descrizione dettagliata delle principali attività normative e amm svolte,con specifico riferimento agli esiti dei controlli,agli eventuali rilievi della Corte dei conti e alla situazione econ-fin.In caso di mandato adempimento al pres della giunta regionale e i responsabili del servizio bilancio e finanze,viene ridotto della metà,con riferimento alle successive tre mensilità,l’importo dell’indennità di mandato e degli emolumenti.E’ qui contenuta la disciplina che porta a rimozione del pres e scioglimento della giunta in caso di grave dissesto fin e le conseguenze del mancato rispetto del patto di stabilità e i meccanismi premiali per gli enti virtuosi.

11. L’organizzazione regionale

Fonti: disposizioni costituzionali(modificate con l.cost 1\1999) + disp statutarie (vedi art 123 Cost.)Da esse si rileva che :

-il consiglio regionale esercita le potestà legislative e altre funzioni ad esso conferite dalla Cost e dalle leggi

-la giunta regionale è l’organo esecutivo,esercita potestà regolamentare(la quale però può anche essere affidata al consiglio dallo statuto)e dispone di poteri di impulso e iniziativa legislativa.

-il presidente della giunta regionale rappresenta la regione,dirige la politica della giunta e ne è responsabile,promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali;dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla regione,conformandosi alle istruzioni del governo della Repubblica(art121 Cost.).

Ai sensi dell’art 123 Cost. la forma di governo di ciascuna regione è determinata dallo stato.

Il pres della giunta,salvo che lo statuto regionale disponga diversamente,è eletto a suffragio universale e diretto.Egli nomina e revoca i componenti della giunta. Le esigenze di stabilizzazione finanziaria hanno inciso anche sull’organizzazione regionale,le regioni debbono adeguare i rispettivi ordinamenti ai seguenti parametri(l.148\2011) : a) numero massimo dei consiglieri regionali,che va da un massimo di 20 per le regioni con fino un milione di abitanti a 80 per le regioni con più di otto milioni di abitanti, b) numero massimo degli assessori pari o inferiore ad un quinto del numero dei componenti del consiglio regionale.In caso di mancato adeguamento a questa disciplina,i trasferimenti erariali a favore della regione inadempiente sono ridotti per un importo corrispondente alla metà delle somme da essa destinate per l’es 2013al loro trattamento economico.Per altro verso non si procede all’erogazione di una quota pari all’80 per cento dei

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trasf erariali ,diversi da quelli destinati al finanziamento del servizio sanitario nazionale e del trasporto pubblico locale(d.l 174\2012). In ogni caso,nell’ipotesi di mancato adeguamento statutario,nei termini previsti dal d.l ,che variano a seconda della regione,previa fissazione di un termine per provvedere,si può giungere fino allo scioglimento del Consiglio regionale per grave violazione di legge.

Corte cost con sentenza 198\2012 ha ritenuto immuni da interventi legislativi statali solo gli statuti delle regioni a statuto speciale.

Atteso che la regione dispone pure di funzioni amm,esiste anche un apparato amm regionale,che si distingue in centrale(strutturato di norma in assessorati o dipartimenti)e periferico.

Per la cura degli interessi ad essi affidati,la regione,oltre ad impiegare il modelo descritto dall’art 118 Cot. (amm diretta e

conferimento di funzioni agli enti locali),può avvalersi anche di enti pubblici dipendenti,che dal punto di vista strutturale sono

uffici regionali entificati,ai quali residua una ridotta autonomia. Sono stati trasferiti alla competenza delle regioni anche gli enti statali

che operano nelle materie di competenza regionale,es. i consorzi di bonifica.

Tra i soggetti di diritto pubblico che operano in ambito regionale ci sono le aziende sanitarie locali,il cui compito è di assicurare

livelli di assistenza sanitaria uniforme nel proprio ambito territoriale.Esse hanno personalità giuridica pubblica e di autonomia

organizzativa,amm patrimoniale,contabile,gestionale e tecnica.

Le regioni possono assumere partecipazioni in società finanziare regionali (create con lo scopo di porre a disposizione degli

imprenditori operanti nell’ambito reg degli aiuti finanziari)il cui oggetto rientri nelle materie regionali.

12. La posizione e l’organizzazione degli enti locali

Enti locali: sono al pari delle regioni assieme alle quali formano la categoria dei “governi locali”(art 120 Cost) ,enti autonomi con propri statuti,poteri e funzioni secondo i pr fissati dalla Cost.art 114.

E’ questa la configurazione di tali enti risultante dalla riforma del 2001,volta a realizzare i pr dell’art5 Cost. secondo cui la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali.In precendenza l’art 128,ora abrogato,prevedeva

una garanzia di grado diverso rispetto a quella che assisteva,anche e soprattutto nei confronti dello Stato,l’ente regione.Oggi la loro

autonomia è sancita dalla Cost,che li equipara allo stato.

Lo stato disciplina la legislazione elettorale,gli organi di governo e le funzioni fondamentali in via esclusiva,tuttavia il sistema locale è complesso e si fonda sulla tipicità degli enti territoriali contemplati dalla Cost e dalla disciplina di province e comuni. Per quanto riguarda la differenziazione degli enti locali vedi quanto detto prima,art 118.

L’art 114 riconosce una peculiare posizione a Roma,definita capitale della repubblica ,disciplina il cui ordinamento è affidata a legge dello stato.

Evoluzione normativa di province e comuni: nel 1977 la loro autonomia amm riguardava materie esclusivamente locali,nelle materie del vecchio 117. La l 142\1990 ha segnato un momento decisivo dell’evoluzione normativa,ha assegnato loro potestà statutaria e ha dettato una disciplina generale,sottraendola al rischio di deroghe particolari.Le deroghe ai pr della l. possono essere fatte solo mediante

espressa modificazione delle sue disposizioni.E’ una norma che,non avendo rango Cost,non potrebbe vincolare il Parlamento,ma è

tuttavia indicativa della volontà di non svuotare di significato la riforma. La presenza della regione non offusca l’ente locale,al quale,anzi,la regione è impegnata dalla cost a delegare funzioni.In ogni caso l’importanza della regione con la l. 142\1990 è aumentata,le regioni sono il centro propulsore dell’intero sistema delle autonomie locali.Con la l. 265\1999 invece c’è un rafforzamento più evidente del ruolo dell’ente locale(vedi poteri sostitutivi degli enti).

Il T.U stabilisce pr di cooperazione degli enti locali,comuni e province concorrono alla determinazione dei piani e dei programmi dello stato e delle regioni.Il T.U enti locali,oltre a riconoscere che le comunità locali,orinate in comuni e province,sono autonome,dispone che i comuni e le province hanno autonomia

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statutaria,oltre che impositiva e finanziaria nei propri statuti e regolamenti e delle leggi di coordinamento della fin pubblica.

13. Le funzioni e l’organizzazione del comune

Quadro vigente fino al 2011:mentre la titolarità delle funzioni spetta allo Stato,l’esercizio delle stesse è demandato al sindaco,in veste di ufficiale del governo,di organo statale,solo in questo modo si giusitificano i poteri di ispezione previsti per il prefetto. Si ricordi che la l.131\2003,in attuazione del 117,manteneva ferme le disposizioni in vigore sulla competenza del sindaco nell’adottare provvedimenti,anche –ma non necessariamente-contingibili ed urgenti,al fine di prevenire ed eliminare i gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana.Con decreto del min dell’interno è stato delineato l’ambito di applicazione

della normativa,anche con riferimento alle definizioni di incolumità pubblica e sicurezza urbana. Nell’esperienza concreta,se ordinari

e quindi senza limiti temporali,si sono spesso configurati come atti generali ed astratti,anche sovrapponendosi agli spazi occupati dai

regolamenti comunali. La Corte cost. nel 2011 ha dichiarato l’incostituzionalità della norma nella parte in cui consente al sindaco di emanare ordinanze,non contingibili ed urgentisenza limiti,salvo quello finalistico,contestando una violazione dell’art97 Cost. e del pr di legalità sostanziale,poichè il decr ministeriale non soddisfa la riserva di legge.Al sindaco resta dunque la facoltà di adottare solo ordinanze contingenti ed urgenti.

Altre funzioni dei comun= di tutte le funz. Amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale nei settori organici dei servizi sociali,dell’assetto e dell’utilizzo del territorio e dello sviluppo eocnomico,salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti da lg statale o regionale ex art 13 T.,da interpretare alla luce del nuovo 118 Cost. secondo il famoso pr di sussidiarietà.Comuni e province sono titolari di funz.amm. proprie e di quelle conferite con legge statale o reg,secondo le rispettive competenze. Ci sono inoltre funz fondamentali ,stabilite con legge statale e che gli enti devono necessariamente svolgere,vedi elenco nel d.l. 95\2012. Secono il c6 del 117 comuni e province hanno inoltre potestà regolamentare in ordine alle funz a loro attribuite(il termine sembra qui comprendere sia le proprie sia le conferite).

La disciplina cost. non parla più di delega ma di conferimento,anche se questo uso rimane per indicare il trasferimento di funzioni da

regioni ad enti locali.

Riforma del 2011-12 = sono intervenute riforme per i piccoli comuni,con l’intento di ridurre la spesa pubblica,aprendo così la via ad una netta diversificazione di regime tra questi comuni.La disciplina attuale -(d.l 95\2012 conv nella l.135\2012)prevede che i comuni con fino a 5.000 abitanti,ovvero 3000 se appartengono o sono appartenuti a comunità montane,esclusi i comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o più isole e il comune di Campione,esercitano obbligatoriamente in forma associata,mediante unione di comuni o convenzione,le funz fondamentali ad eccezione di quelle contenute nella lettera l. (registri anagrafici,di stato civile e popolazione …),però se l’esercizio di tali funzioni è legato alle

tecnologie dell’informazione,devono esercitarle in forma associata. Le convenzioni hanno durata almeno triennale,ove non sia comprovato il conseguimento di significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione,i comuni hanno l’obbligo di esercitare le funzioni in unioni di comuni(limite min. 10000 abitanti).E’ compito della regione individuare i comuni interessati nell’ambito del consiglio delle autonomie locali,secondo i pr di economicità,riduzione della spesa pubblica ed efficienza.Al comune che non rispetta la tempistica indicata per l’es associato il prefetto assegna un ulteriore limite di tempo,oltre il quale nomina un commissario ad acta,con poteri sostitutivi.

Gli organi di governo (sindaco,consiglio e giunta) durano in carica 5 anni. Il sindaco è l’organo responsabile dell’amm comunale,rappresenta l’ente,convoca e presiede la giunta e sovraintende al funzionamento degli uffici e all’esecuzione degli atti.Non è rieleggibile subito se ha già ricoperto la carica per due mandati consecutivi.Egli,sulla base degli indirizzi del consiglio,nomina e revoca i rappresentanti del comune presso enti,aziende e istituzioni.

Il consiglio comunale è l’organo di indirizzo e controllo politico-amm,la cui competenza è limitata ad atti fondamentali indicati dalla legge (statuti,regolamenti,strum urbanistici generali ecc).Il sindaco ,sentita la giunta e nel termine fissato dallo statuto,presenta in consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti

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che intende realizzare,mentre spetta allo statuto disciplinare i modi di partecipazione e controllo sul programma del consiglio.I consigli comunali dei comuni con più di 15000 ab sono presieduti da un pres eletto tra i consiglieri nella prima seduta,cui spettano autonomi poteri di convocazione e di direzione dei lavori del consiglio.Il cons si avvale,se lo statuto lo prevede,di commissioni costituite nel proprio seno con criterio

proporzionale.

La giunta è l’organo a competenza residuale(si noti che tale residualità è riferita ai soli atti che siano espressione delle funz degli organi di governo).Essa,formata dagli assessori,collabora col sindaco nell’amm del comune,attuando gli indirizzi generali del consiglio e svolge attività propositiva e d’impulso nei confronti di quest’ultimo.Il sindaco ne nomina i componenti,tra i quali un vicesindaco e da comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva all’elezione. La presentazione delle linee programmatiche di solito non è contestuale a tale

comunicazione,in modo tale da consentire al sindaco e alla giunta di formulare un articolato programma di governo.Compito di

rilievo della giunta è l’adozione di regolamenti sull’ordinamento degli uffici e sei servizi,nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal

consiglio.Le delibere diventano esecutive dopo il decimo gg dalla pubblicazione.

Ai sensi dell’art 90 T.U ,alle dirette dipendenze del sindaco,della giunta o degli assessori possono essere costituiti uffici di supporto per l’esercizio delle funz di indirizzo e controllo.

Sindaco e presidente possono revocare gli assessori,dandone motivata comunicazione al consiglio.in caso di approvazione della

mozione di sfiducia vs sindaco e giunta,il sindaco,il presidente della giunta e la giunta cessano dalla rispettive cariche,si procede allo

scioglimento del consiglio e alla nomina di un commissario. La giunta decade pure nei casi di dimissioni,impedimento

permanente,rimozione,decadenza o decesso del sindaco(le cui funzioni vengono svolte dal vicesindaco o dal vicepres fino alle nuove

elezioni,termine entro il quale rimangono in carica anche la vecchia giunta e il vecchio consiglio).In ogni caso lo scioglimento del

consiglio determina la decadenza del sindaco e delle relative giunte.

-[i comuni con popolazione fino a 1000 abitanti (qui la disciplina incide anche sugli organi:giunte destinate a scomparire e consiglio comunale =sindaco+sei consiglieri),possono esercitare in forma associata tutte le funzioni e tutti i servizi pubblici loro spettanti mediante un’unione speciale di comuni,in modo che la complessiva popolazione sia superiore a 5000,3000 se montani o mediante convenzioni di durata triennale.L’attuazione della disciplina è dilazionata nel corso del 2012-2014.Sono affidati all’unione speciale la programmazione econ-fin,le gestione contabile,la titolarità della potestà impositiva e patrimonale sui tributi locali sui comuni associati e la compilazione di un bilancio di previsione.Gli organi dell’unione speciale sono:il consiglio (composto da tutti i sindaci +due consiglieri comunali dei comuni membri.I consiglieri sono

eletti dai rispettivi consigli comunali,con la garanzia che almeno uno appartenga alle opposizioni.) ,il presidente(entro 30 gg dalla

formazione dell’unione il consiglio è convocato ed elegge il presidente tra tutti i sindaci dei comuni membri.La sua carica è di due

anni e mezzo e rinnovabile) e la giunta(a cui spettano le competenze della giunta comunale,è composta dal presidente che la

presiede,da assessori da quest’ultimo nominati tra gli altri sindaci che compongono il consiglio. Il consiglio adotta lo statuto

dell’unione,che stabilisce le modalità di funzionamento e i rapporti tra i propri organi.]

Tornando ai comuni,variabile è la composizione degli organi di governo:

- Comuni con popolazione fino a 1000 ab. : consiglio composto da sindaco +sei consiglieri, non c’è la giunta - Comuni con popolazione < 1000 fino a 3000 :consiglio composto da sindaco+sei assessori+max due consiglieri - Comuni con pop <3000 fino a 5000: sindaco+sette assessori+max tre consiglieri - Comuni con pop <5000 fino a 10000:sindaco+dieci assessori+max quattro consiglieri.

Nei comuni con pop <15000 gli assessori sono nominati anche al di fuori dei componenti del consiglio.Pubblicazione dei

dati e le info relativi ai componenti di questi organi.

Elezioni comunali:il sindaco è eletto a suffragio universale e diretto dai cittadini.Nei comuni con popolazione sino a 15000 abitanti,l’elezione dei consiglieri comunali si effettua con il sistema maggioritario;il sindaco è eletto contestualmente e la sua candidatura è collegata ad una lista di candidati alla carica di consigliere.In caso di parità di voti si procede al ballottaggio tra i due candidati con maggior numero di voti;alla lista collegata al candidato eletto sono attribuiti i 2\3 dei seggi consiliari e i restanti sono ripartiti tra le altre liste secondo il criterio di proporzionalità.Nei comuni con più di 15000 abitanti è previsto invece un sistema proporzionale con premio di maggioranza.Il sindaco è eletto con doppio turno elettorale,con

ballottaggio fra i due candidati che hanno preso il maggior numero di voti(salvo che uno non abbia la maggioranza assoluta).Il

sindaco dopo l’elezione giura davanti al consiglio.

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Dirigenza comunale: la disciplina della dirigenza degli enti locali si trova all’art111 T.U. I dirigenti,i quali svolgono la propria attività in base ad incarichi a tempo determinato,sono responsabili,in relazione agli obiettivi dell’ente,della correttezza amm e dell’efficienza della gestione.ad essi inoltre spetta l’attuazione dei programmi,con atti come l’adozione dei provvedimenti in attuazione degli obiettivi,la direzione degli uffici e dei servizi,ma anche la gestione amm,finanziaria e tecnica,con autonomi poteri di spesa e organizzazione delle risorse.Inoltre il sindaco sulla base dello statuto e del regolamento può delegare loro altre funzioni.Si

noti che la lg anche in questo caos utilizza il criterio della residualità,in quanto i dirigenti adottano tutti gli atti non ricompresi

espressamente(anche in caso di incertezza)dalla lg o dallo statuto tra le funz di indirizzo e controllo politico-amm degli organi o non

spettanti al segretario o al dir generale. Ai sensi dell’art89 T.U comuni,province ed altri enti locali provvedono alla rideterminazione

delle proprie piante organiche,all’organizzazione e gestione del personale coi soli limiti delle proprie capacità di bilancio e

dell’esercizio delle funzioni loro attribuite.

L’art 108,letto in combinato disposto con la l. 191\2009,ammette che il sindaco nei comuni con più di 100000 abitanti,previa deliberazione della giunta comunale,possa nominare,secondo i criteri stabiliti dal regolamento di organizzazione uffici e servizi,un direttore generale,al di fuori della dotazione organica e con contratto a tempo determinato. La durata del suo incarico non può eccedere quella del mandato del sindaco (o del pres),è una sorta di fiduciario del sindaco,che,secondo le direttive di quest’ultimo,provvede ad attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente. Ad es. propone il PEG ,piano esecutivo di gestione,che la giunta,sulla base del bilancio di previsione annuale,deve definire ad inizio esercizio.

Il segretario è invece un organo alle dipendenze dello Stato e nominato dall’amm degli interni.Tale organo,pur

legato da un rapporto funzionale con l’ente(a tempo determinato=mandato del sindaco),è inserito in un Albo gestito dal min

dell’interno per il tramite delle prefetture ed è nominato dal sindaco.Quest’ultimo può revocargli la nomina con provveimento

motivato e previa deliberazione della giunta,nel caso di violazione dei doveri di ufficio. Il nuovo sindaco entrante può riconfermare il segretario o nominarne uno nuovo non prima di 60gg e non oltre 120 dal suo insediamento,decorso tale termine si intende confermato il vecchio segretario. Il segretario non confermato,revocato o privo di incarico e in posizione di disponibilità per max 4 anni,decorsi i quali senza aver preso servizio ,viene collocato d’ufficio in mobilità presso altre amministrazioni.

Compiti del segretario : 1)collaborazione e assistenza giuridico-amm vs organi dell’ente , 2) partecipa,con funz consultive,referenti,di assistenza,alle riunioni del consiglio e ne cura la verbalizzazione , 3)può rogare tutti i contratti nei quali l’ente è parte , 4)autenticare le scritture private e atti unilaterali nell’interesse dell’ente, 5)rendere parere di regolarità tecnico-contabile sulle proposte di deliberazione sottoposte alla giunta e al consiglio , 6) controlli interni e adempimenti previsti dalla legge anticorruzione.

Rapporti tra segretario e direttore generale :quando il dg non sia stato nominato,le relative funzioni possono essere conferite dal

sindaco al segretario;inoltre,mentre i dirigenti dell’ente rispondono dell’esercizio delle funzioni loro assegnate al dg,ciò non vale per

il segretari. I sindaci,contestualmente al provvedimento di nomina del direttore generale,ne disciplinano i rapporti. In ogni caso la

figura del segretario non può trovarsi in posizione subordinata rispetto a quella del dg. Mentre in passato il segretario svolgeva

compiti di gestione diretta degli enti locali,ora la gestione è attribuita ai dirigenti.

13.1 Le funzioni e l’organizzazione della provincia

L’art 3 T.U definisce la provincia come ente intermedio tra comune e regione,che rappresenta la propria comunità,ne cura gli interessi e ne coordina lo sviluppo. Le province sono titolari di funzioni amm proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale,secondo le rispettive competenze. La provincia assuem rilievo anche nel settore ambientale,nonché nella promozione,nel coordinamento e nella realizzazione di opere di rilevante interesse provinciale nel settore economico,produttivo,commerciale ,turistico,sportivo e culturale,oltre ad altri compiti di programmazione e pianificazione territoriale.

Con il d.l 95\2012 cov. nella l.135\2012 aveva dato via ad un ambizioso programma di accorpamento delle province,poi non realizzato,perciò si applica un regime provvisorio.Rimangono di competenza delle province,quali “enti con funzioni di area vasta”,soltanto le seguenti funzioni: pianificazione territoriale provinciale di coordinamento,tutela e valorizzazione dell’ambiente,pianificazione dei servizi di trasporto in

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ambito provinciale,autorizzazione e controllo nel trasporto privato,costruzione,classificazione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad essa inerente,programmazione della rete scolastica e dell’edilizia scolastica delle scuole secondarie di secondo grado,più tutte le funzioni relative all’art .117 cost co 2 e 4 e quelle esercitate ai sensi del 118.

Le province così configurate paiono enti intermedi tra comune e regioni piuttosto che enti a fini generali(tradizionale qualificazione in passato).

Quanto agli organi,in attesa del riordino e dell’adozione della legge elettorale provinciale,il pres,la giunta e il consiglio restano in carica fino alla naturale scadenza dei mandati,ma è stato previsto il commissariamento delle prov chiamate a rinnovare gli organi istituzionali in scadenza dopo il novembre 2012.

La Corte Cost. ha censurato il disegno riformatore con sentenza n22\2013,anche se non è esclusa la possibilità che il disegno venga ripreso.

14. I controlli sugli atti e sugli organi di comuni e province

L’autonomia di cui godono comuni e province dipende dai controlli ai quali le loro attività e i loro organi sono sottoposti.

Controlli esterni :

Anche se la Corte dei conti esercita tuttora dei controlli molto severi sugli atti,in forza dell’abrogazione dell’art 130 Cost. ,i controlli necessari sugli atti degli enti locali sono stati eliminati,come confermato anche da alcune leggi regionali (es. della Toscana e della Lombardia).

Gli enti locali in origine subivano una notevole ingerenza da parte del governo centrale.Il controllo sugli atti era svolto dal Co.re.co

(organo regionale) e dal difensore civico,ove istituito,e veniva distinto in necessario,facoltativo ed eventuale. Oggi si discute,anche se

pare preferibile la soluzione negativa,se sopravviva il controllo sostitutivo (vedi par. precedenti, art 136 T.U :nomina di un

commissario ad acta a livello regionale…)

Ulteriori forme di controllo sopravvissute: Il T.U art 138 annovera tra i controlli anche l’annullamento straordinario governativo,che pare sopravvivere alla riforma costituzionale,trovando anzi nuovo fondamento nell’art 120 Cost (D’Auria).

Secondo il parere del consiglio di stato,sarebbe sopravvissuto anche il controllo prefettizio di cui all’art 135 T.U,secondo il quale il

prefetto può attivarsi affinchè siano sottoposte al controllo preventivo di legittimità le deliberazioni degli enti locali relative ad

acqusiti,alienazioni,appalti e in generale a tutti i contratti.Il prefetto può inoltre sollecitare il controllo interno ovvero richiedere un

motivato riesame di legittimità dell’atto de quo in via di autotutela da parte dell’organo che ha emesso l’atto.

Ricordiamo che nell’82 è stata istituita un’apposita sezione della Corte dei conti (in passato denominata sezione enti locali,ora sezione delle autonomie).Il ruolo della corte dei conti è stato rafforzato prima nel 2003 e poi con la

riforma 2012.

Controlli interni:

Premesso che i controlli interni devono essere organizzati dagli enti,in osservanza del principio di separazione tra funzione di indirizzo e compiti di gestione,partecipano ad essi il segretario dell’ente,il dg,i responsabili dei servizi e le unità di controllo laddove istituite. Per gli obiettivi del controllo interno si veda nota pag.346.

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Le tipologie di controllo interno sono sei:

1) Controllo di regolarità amministrativa e contabile: su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta deve essere richiesto il parere ,in ordine alla sola regolarità tecnica del responsabile del servizio interessato e,qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione econ-fin o sul patrimonio dell’ente,anche quello del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. Ove la giunta o il consiglio non intendano conformarsi ai pareri,devono dare adeguata motivazione. I soggetti rispondono in via amm e contabile dei pareri espressi. Il responsabile del servizio finanziario,di ragioneria o qualificazione corrispondente ad es. ,è preposto alla verifica di

veridicità delle previsioni di entrata e di compatibilità delle previsioni di spesa,avanzate dia vari servizi. Egli agisce in

autonomia nei limiti di quanto disposto dai pr finanziari e contabili,dalle norme ordinamentali e dai vincoli di fin pubblica.

Il controllo si articola in due fasi : a)prima fase di doppia verifica = controllo in sede di rilascio del parere di regolarità tecinca a opera id ogni responsabile del servizio competente. Il controllo contabile è invece effettuato dal responsabile del servizio finanziario ed è esercitato mediante parere di regolarità contabilee del visto attestante la copertura fin da parte del responsabile del servizio fin. b) controllo di regolarità amministrativa ,assicurato secondo i pr generali di revisione aziendale e modalità definite nell’ambito dell’autonomia organizzativa dell’ente,sotto la direzione del segretario. Le risultanze del controllo sono trasmesse periodicamente,a cura del segretario,ai responsabili dei servizi.

2) Controllo sugli equilibri finanziari :svolto sotto la direzione e il coordinamento del responsabile del servizio fin e mediante la vigilanza dell’organo di revisione,prevedendo il coinvolgimento attivo degli organi di governo,del dg,del segretario e dei responsabili dei servizi.Tale controllo è disciplinato nel regolamento di contabilità dell’ente ed è svolto nel rispetto delle norme sull’ordinamento fin degli enti locali,degli obiettivi di fin pubblica e delle norme di attuazzione dell’art 81 Cost. (pareggio di bilancio).Questo controllo si interseca anche con quello sulle società.

3) Controllo strategico : l’ente locale con popolazione superiore a 100000 abitanti in fase di prima applicazione,50000 per il 2014 e 15000 per il 2015,definisce,secondo la propria autonomia organizzativa,metodologie di controllo strategico finalizzate alla rilevazione dei risultati conseguiti rispetto agli obiettivi predefiniti,ai tempi di realizzazione ,alla qualità dei servizi erogati,al grado di soddisfazione della domanda espressa ,agli aspetti socio-economici.L’unità preposta al controllo strategico è posta sotto la direzione del dg o del segretario(se il dg manca).

4) Controllo di gestione : ha ad oggetto l’intera attività ed è disciplinato dall’art 196 T.U ed è volto ad ottimizzare il rapporto tra obiettivi e azioni realizzate,nonché tra risorse impiegate e risultati. Si

articola in almeno tre fasi : predisposizione di un piano dettagliato di obiettivi + rilevazione dei dati relativi ai costi e ai

proventi e rilevazione dei risultati + valutazione dei dati in relazione agli obiettivi,per verificarne lo stato di attuazione e di

misurarne l’efficacia.

5) Controlli sulle società partecipate :sono esercitati da strutture proprie dell’ente locale ,che ne sono responsabili. A

tal fine occorre stabilire gli obiettivi gestionali a cui deve tendere la società e organizzare un idoneo sistema informativo

finalizzato a rilevare i rapporti finanziari.I risultati complessivi della gestione dell’ente locale e delle azione non quotate

partecipate sono rilevati mediante bilancio consolidato,secondo la competenza economica.Controllo che riguarda solo l’ente locale con popolazione superiore a 100000 abitanti in fase di prima applicazione,50000 per il 2014 e 15000 per il

2015.

6) Controllo sulla qualità dei servizi erogati : sia direttamente,sia mediante organismi gestionali esterni,con l’impiego di metodologie dirette a misurare la soddisfazione degli utenti esterni e interni dell’ente.

La disciplina del controllo sugli organi spetta allo Stato,la normativa vigente attribuisce il potere di scioglimento dei consigli comunali e provinciali con decreto del PdR,su proposta del min dell’interno,previa deliberazione del consiglio dei ministri.Le cause di sciogliemento,relative a situazioni di grave deviazione funzionale

dell’organo sono : a) compimenot di atti contrari alla Cost.,gravi e persistenti violazioni di legge e gravi motivi di ordine pubblico, b)

impossibilità di assicurare il normale funzionamento degli organi e dei servizi per dimissioni,impedimento permanente,rimozione

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,decadenza,decesso del sindaco o del pres della provincia,cessazioen dalla carica del 50% +1 dei consiglieri ,riduzione dell’organo

assembleare per impossibilità di surroga alla metà dei componenti del consiglio, c)mancata approvazioen del bilancio nei termini , c

bis) mancata adozione da parte dei comuni con popolazione >1000 abitanti degli strumenti urbanistici. Con dpr è disposto lo

scioglimento e si provvede alla nomina di un commissario che eserciti le funzioni conferitogli dal decreto stesso,ad eccezione delle

ipotesi in cui lo scioglimento non dipenda dal comportamento del consiglio (es.decesso del sindaco),in quesot caso consiglio e giunta

rimangono in carica sino all’elezione del nuovo sindaco o pres della giunta e le funzioni del sidaco e del pres sono svolte

rispettivamente dal vicesindaco e dal vicepres. I consiglieri cessati dalla carica causa scioglimento continuano ad esercitare ,fino alla

nomina dei successori ,gli incarichi esterni loro eventualmente attribuiti.La legge prevede poi il potere del prefetto di sospendere per

un periodo non superiore a 90 gg e per motivi di grave e urgente necessità i consigli allorchè sia iniziata la procedura di

scioglimento,nominando un commissario. Altri motivi di scioglimento ex art 143 .Un ulteriore causa è il dissesto,vedi prossimo par.

Con decreto del min dell’interno posso essere rimossi il sindaco,il pres della provincia,i pres dei consorzi e delle comunità montane,i

componenti dei consigli e delle giunte e i pres dei consigli circoscrizionali,quando compiano atti contrari alla Cost o in caso di gravi

e persistenti violazioni di lg o gravi motivi di ordine pubblico (art 142 T.U). Questa norma inoltre consente al prefetto di sospendere

gli amm in attesa del decreto di rimozione. Il consiglio si scioglie anche in caso di approvazione consiliare di una mozione di sfiducia

,sottoscritta da almeno 2\3 dei membri assegnati all’ente e votata per appello nominale dalla maggioranza assoluta dei componenti

del collegio.

15. I rapporti fin e la contabilità nei comuni e nelle province

Per quanto attiene ai rapporti finanziari si ricordi che l’art 54 l.142\1990 ha tentato di modificare l’impostazione precedente(finanza locale dipende da quella statale) ,riconoscendo al comune e alle province autonomia fin e impositiva ,disciplinata da essi con propri regolamenti.

Alla luce del nuovo art 119 Cost,l’autonomia fin deve inquadrarsi nell’ambito del coordinamento della fin pubblica(materia di legislazione concorrente). La facoltà degli enti di istituire tributi propri è limitata dall’art23 Cost,nel senso che deve esserci una legge che li disciplini. L’art 119 accanto a tributi locali prevede la compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al territorio dell’ente e l’istituzione d un fondo perequativo con lg statale. L’insieme di questi tributi dovrebbe coprire il finanziamento integrale delle funz pubbliche assegnate agli enti. Il c.5 infine prevede il trasferimento da parte delo stato di risorse aggiuntive e interventi speciali per rimuovere fattori di disuguaglianza ,favorire l’es dei diritti della persona e per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni.

In attuazione della l delega 42\2009 è stato emanato il d lgs 23\2011 sulla fiscalità dei comuni:la norma ha istituito numerose forme di compartecipazione al gettito di imposte statali(sostanzialmente si tratta di fiscalità cd immobiliare ) e disciplinato i tributi propri autonomi che gli enti possono istituire e aumentare con atto amm. Abolita l’ici si prevede una nuova imposta municipale propria,l’Imu (di natura reale,diretta e patrimoniale.Sostituisce ici,irpef e addizionali locali su immobili non locati.per il 2013 il pagamento è stato sospeso per la prima casa) e una seconda facoltativa,l’Ims (sostituirà i tributi minori relativi all’occupazione di beni demaniali o del patr indisponibile).Inoltre alcuni enti possono introdurre un’imposta di soggiorno e una di scopo per la realizzazione di opere pubbliche e un tributo comunale sui rifiuti e sui servizi.

La riscossione e il pagamento,la custodia e l’amministrazione di titoli (servizio di tesoreria ,vedi par 3)vengono di norma affidate a istituti di credito sulla base di procedure ad evidenza pubblica stabilite dal regolamento sulla contabilità pubblica. Il SIOPE(sistema informativo delle operazioni degli enti pubblici),in vigore dal 2006,è un sistema di rilevazione telematica di tutte le operazioni di incasso e di pagamento effettuate dalla tesoreria statale e dalle tesorerie degli enti pubblici,la cui gestione è affidata alla B d’I.

Nel T.U enti locali sotto il profilo contabile:

- si stabilisce che il bilancio di previsione fin debba essere redatto in termini di competenza,mentre il rendiconto va articolato in

conto del bilancio,ce e conto del patrimonio

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-si stabilisce l’obbligo,per i comuni con pop > 15000 ab del PEG e un nuovo sistema di contabilità analitica ai fini del controllo di

gestione,consentendo comunque all’ente di sceglere il sistema di contabilità che ritiene più idoneo ai fini della predisposizione del

rendiconto.

-è istituito presso il ministero dell’interno di un osservatorio sulla finanza e sulla contabilità degli enti locali ,con compiti

promozionali e propositivi.

-è contenuta la procedura di dissesto : riferimento al caso in cui il comune o la provincia non siano in grado di garantire

l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili,ovvero esistano nei cfr dell’ente crediti liquidi ed esigibili di cui non sia

fatto validamente fronte con le modalità fissate dall’ordinamentoe non si possa farvi fronte con le procedure del disavanzo o dei

debiti fuori bilancio. La procedura consiste nella nomina di un commissario straordinario liquidatore(o di una commissione se

pop>15000 ab)avente il compito di rilevare la massa passiva,acquisire e gestire i mezzi finanziari disponibili e predisporre un piano

di estinzione delle passività,sottoposto all’approvazione del min degli interni,e di liquidare e pagare la massa passiva. NB l’ente

anche se dissestato non cessa di esistere,non perde totalmente la capacità di agire e il potere di utilizzare e di disporre dei beni beni

rientranti nel suo patrimonio,quindi,a differenza del fallimento,il dissesto no comporta un effetto automatico di

spossessamento(sentenza Tar Campania).Gli amm che la Corte dei conti ha ritenuto responsabili di danni cagionati con dolo o copa

grave,non possono ricoprire per 10anni incarichi di assessore,revisore dei conti di enti locali e di rappresentanti di enti locali presso

altri enti , i sindaci e i pres non sono candidabili per 10anni a cariche politiche,da quella di sindaco a quella di europarlamentare.Un

meccanismo sanzionatorio è previsto anche per i revisori dei conti colpevoli di gravi irregolarità : una sanzione pecuniaria da cnque a

venti volte la retribuzione mensile lorda al momento della violazione.

-procedura facoltativa di riequilibrio finanziario pluriennale,volta a scongiurare il dissesto,istituendo un fondo per assicurare la

stabilità fin attraverso la concessione di anticipazioni agli enti locali che hanno deliberato la procedura di equilibrio.il piano di

equilibrio deve essere approvato dalla sezione regionale della Corte dei conti e la relativa delibera è impugnabile dinanzi alle sez

riunite della corte.

-istituita la commissione per la stabilità fin degli enti locali :organo statale presieduto dal sottosegretariato di stato al min

dell’intenro,con delega per l’amm civile.

-revisione economico-fin affidata ad un collegio dei revisori dei conti. i revisori dei comuni sono eletti dai consigli e

vengono scelti:uno tra gli iscritti al registro dei revisori contabili (funzione di pres del collegio ), uno tra gli iscritti all’albo dei dottori

commercialisti e uno tra gli iscritti nell’albo dei ragionieri,tranne nei paesi con <15000ab dove c’è un solo revisore.La loro carica è di

tre anni,non sono revocabili,salvo inadempienza e sono rieleggibili solo una volta. Le funzioni del collegio sono elencate all’art 239

(in pratica collaborazione con organo consiliare secondo le disposizioni dello statuto e del regolamento,soprattutto nel fornire pareri

obbligatori che l’organo consiliare è tenuto ad adottare,previa motivazione. I revisori rispondono della verità delle loro attestazioni e

adempiono ai loro doveri con la diligenza del mandatario,dovendo tra l’atro riferire immediatamente al consiglio ove riscontrino

gravi irregolarità nella gestione dell’ente.

L'art. 28 l.448/1998 estende il patto di stabilità assunto dal governo in sede comunitaria a:

– regioni

– province;

– comuni con popolazione > a 1000 abitanti;

– società in house che gestiscono servizi pubblici;

– aziende speciali ;

– istituzioni;

– (a partire dal 2014 anche a unioni di comuni formate da enti con popolazione < a 1000 abitanti).

Tali enti, il cui bilancio deve contenere un apposito prospetto, devono ridurre il disavanzo al fine di

concorrere a realizzare gli obiettivi di finanza pubblica.

Il mancato rispetto del patto comporta sanzioni finanziarie:

– riduzione del fondo sperimentale di riequilibrio o del fondo perequativo;

– limiti agli impegni per spese correnti;

– divieto di ricorrere a indebitamento per spese di investimento;

– divieto di provvedere ad assunzioni;

– tagli delle indennità di funzione;

– adozione di un piano di stabilizzazione (per le regioni).

La disciplina prevede poi meccanismi premiali per gli enti virtuosi. La determinazione degli obiettivi programmatici vincolanti per gli enti territoriali in vista del patto di stabilità è demandata ad

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97

accordi o alla decisione di finanza pubblica. Quest'ultima, ex l. 196/2009 (c.d. Legge di contabilità e finanza pubblica) contiene: a)gli

obiettivi di politica economica e b)il quadro delle previsioni economiche e di finanza pubblica almeno per il triennio successivo. I

comuni sono divisi in due classi (i più virtuosi hanno maggiori libertà di spesa).

Art. 38 l.183/2011: i contratti di servizio e gli altri atti posti in essere dalle regioni e dagli enti locali elusivi del patto di stabilità

interno sono nulli; amministratori e responsabili di servizio economico-finanziario che abbiano artificiosamente rispettato il patto

sono soggetti a responsabilità amministrativa.

Ruolo essenziale nel controllo del rispetto del patto è svolto dalla Corte dei Conti.

Art. 148-bis t.u. Enti locali: gli enti locali devono adottare provvedimenti correttivi; se restano inerti o se

viene accertata l'inidoneità di tali provvedimenti, è preclusa l'attuazione dei programmi di spesa per i quali

manca la copertura o è insussistente la relativa sostenibilità finanziaria.

D.lgs. 149/2011: anche province e comuni hanno il dovere di predisporre una relazione di fine mandato

(redatta sulla base di uno schema tipo ministeriale) contenente la descrizione dettagliata delle principali

attività normative e amministrative svolte durante la legislatura. In particolare:

– sistema ed esiti dei controlli interni;

– eventuali esiti rilievi della Corte dei Conti;

– eventuali carenze riscontrate nella gestione degli enti comunque sottoposti al controllo della regione

con indicazione delle azioni intraprese per porvi rimedio;

– azioni intraprese per contenere la spesa;

– situazione economica e finanziaria, in particolare del settore sanitario, quantificazione certificata

della misura del relativo indebitamento regionale;

– individuazione di specifici atti cui sono riconducibili effetti di spesa incompatibili con obiettivi e

vincoli di bilancio. Tale relazione di fine mandato:

– è redatta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario generale;

– è sottoscritta dal presidente della provincia o dal sindaco (non oltre il novantesimo giorno antecedente la data di scadenza

del mandato);

– entro e non oltre 10 giorni dopo la sua sottoscrizione, deve risultare certificata dall'organo di revisione dell'ente locale e

trasmessa al tavolo tecnico interistituzionale.

Il tavolo tecnico istituzionale:

– è istituito presso la conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica;

– è composto (in egual misura) da rappresentanti ministeriali e degli enti locali;

– verifica la conformità del contenuto della relazione con i dati finanziari in proprio possesso e con le informazioni fatte

pervenire dagli enti locali;

– invia entro 20 giorni un apposito rapporto al presidente della provincia e al sindaco.

Relazione di fine mandato e rapporto sono pubblicati sul sito istituzionale della provincia o del sindaco (entro il giorno successivo

alla data del ricevimento del rapporto) e sono trasmessi dal presidente della provincia o dal sindaco alla conferenza permanente per il

coordinamento della finanza pubblica.

La relazione è trasmessa, entro 10 giorni dalla data di sottoscrizione del presidente della provincia o del

sindaco, alla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti. Se non è adempiuto l'obbligo di redazione e

pubblicazione della relazione nel sito istituzionale dell'ente, al sindaco e, qualora non abbia predisposto la

relazione, al responsabile del servizio finanziario del comune o al segretario generale, è ridotto alla metà

(con riferimento alle tre successive mensilità) rispettivamente l'importo dell'indennità di mandato e degli

emolumenti. Il sindaco deve dare notizia, motivandola, della mancata pubblicazione della relazione nella

pagina principale del sito istituzionale dell'ente.

Province e comuni sono poi tenuti a redigere una relazione di inizio mandato (non sono tuttavia previste

sanzioni in caso di mancata predisposizione\presentazione). Essa:

– è volta a verificare la situazione finanziaria e patrimoniale e la misura dell'indebitamento di tali enti;

– è predisposta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario generale;

– è sottoscritta dal presidente della provincia o dal sindaco entro 90 giorni dall'inizio del mandato.

Il presidente della provincia o il sindaco in carica, se sussistono i presupposti, possono (sulla base delle

risultanze di tale relazione) ricorrere alle procedure di riequilibrio finanziario.

16. Gli istituti di partecipazione negli enti locali.

Essi sono disciplinati dall'art. 8 t.u.e.l.. Tale articolo:

– stabilisce (co.1) che “i comuni – non le province – valorizzano le libere forme associative e

promuovono organismi di partecipazione popolare all'amministrazione locale”;

– riconosce il potere per gli interessati di partecipare al procedimento amministrativo relativo

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all'adozione di atti che incidono su posizioni giuridiche soggettive;

– prevede forme di consultazione della popolazione e procedure per l'ammissione di istanze,

petizioni e proposte di cittadini singoli o associati dirette a promuovere interventi per la migliore

tutela di interessi collettivi (lo statuto deve determinare le garanzie per il loro tempestivo esame);

– prevede la possibilità che lo statuto disciplini il referendum.

La consultazione è volta ad acquisire il parere non vincolante dell'elettorato su problemi di interesse

generale, ma solo proposte e istanze (non così per le petizioni) fanno sorgere l'obbligo di procedere. Limiti per il ricorso a consultazione e referendum:

– devono essere attinenti alle materie di esclusiva competenza locale;

– non devono aver luogo in coincidenza con operazioni elettorali provinciali, comunali e circoscrizionali.

Lo statuto promuove anche forme di partecipazione alla vita pubblica locale di cittadini dell'UE e degli stranieri regolarmente

soggiornanti.

Tra gli istituti di partecipazione sono poi ricompresi:

– l'azione popolare (ogni elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al

comune: in caso di soccombenza, le spese sono a carico dell'elettore, salvo che il comune,

costituendosi, abbia aderito all'azione): si distingue tra a)azioni popolari di tipo correttivo (quelle

dirette a far valere situazioni di illegittimità provocate dalla stessa amministrazione) e b) di tipo

suppletivo (quelle consentite a tutela degli interessi dell'amministrazione in caso di sua inerzia);

– il diritto di accesso agli atti amministrativi (eccetto quelli riservati per espressa indicazione di

legge o per effetto di temporanea e motivata dichiarazione del sindaco o del presidente della

provincia che ne vieti l'esibizione, conformemente a quanto stabilito dal regolamento, in quanto la

loro diffusione può pregiudicare il diritto alla riservatezza di persone, gruppi, imprese);

– il diritto di accesso alle informazioni di cui è in possesso l'amministrazione, alle strutture e ai

servizi degli enti, alle organizzazioni di volontariato e alle associazioni.

17. Territorio e forme associative.

Il territorio è elemento costitutivo del comune, considerato ente a fini generali; la regione, ex art. 133 Cost.,

con propria legge, sentite le popolazioni interessate, costituisce nuovi comuni e può modificare le loro

circoscrizioni e la loro denominazione.

Art. 15 t.u.e.l.: “Salvo i casi di fusione tra più comuni, non possono essere istituiti nuovi comuni con

popolazione inferiore ai 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri comuni

scendano sotto tale limite”.

La finalità perseguita è quella di ridurre l'eccessiva frammentazione territoriale. Nella stessa logica, l'art.33

tuel stabilisce che “le regioni predispongono, concordandolo con i comuni nelle apposite sedi concertative,

un programma di individuazione degli ambiti per la gestione associata sovracomunale di funzioni e servizi,

realizzato anche attraverso le unioni, che può prevedere altresì la modifica di circoscrizioni comunali (potere

fondato sugli artt. 117 e 133 Cost.) e i criteri per la corresponsione di contributi e incentivi alla progressiva

unificazione. Il programma è aggiornato ogni tre anni”.

La potestà delle regioni di procedere alla fusione di comuni è espressamente contemplata dai co. 1-2 dell'art.

15 tuel. A differenza della disciplina previgente, la disciplina attuale esalta i poteri di decisione autonoma dei

comuni in tema di associazionismo, senza imporre l'impiego di strumenti che comportino la fusione (la

regione avrebbe, in questa ottica, un ruolo di promozione e incentivazione). La legge comunale che istituisce

nuovi comuni deve, ex art. 15 co.2 tuel, stabilire che “alle comunità di origine o ad alcune di esse siano

assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento”.

Art. 16 tuel: lo statuto comunale (non la legge regionale) può contemplare l'istituzione di municipi nei

territori interessati dal processo di istituzione di nuovi comuni a seguito di fusione decisa dalla regione: lo

statuto e il regolamento ne disciplinano organizzazione e funzioni, potendo prevedere anche organi eletti a

suffragio universale diretto (istituto mai applicato).

Unioni di comuni.

Sono enti locali costituiti da due o più comuni, di norma contermini, finalizzati all'esercizio associato di

funzioni e servizi. Se è costituita da comuni montani è detta unione di comuni montani e può esercitare anche

le specifiche competenze di tutela e promozione della montagna. Ogni comune può far parte di una sola

unione di comuni. Le unioni di comuni possono stipulare apposite convenzioni tra loro o con singoli comuni.

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Gli organi dell'unione sono formati, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, da amministratori

in carica dei comuni associati e ad essi non possono essere attribuite retribuzioni, gettoni e indennità, o

emolumenti in qualsiasi forma percepiti. Tali organi sono:

– presidente (scelto tra i sindaci dei comuni associati);

– giunta (scelta tra i componenti dell'esecutivo dei comuni associati);

– consiglio (composto da consiglieri, eletti dai singoli consigli dei comuni associati tra i propri

componenti, in numero non superiore a quello previsto per i comuni con popolazione pari a quella

complessiva dell'ente, garantendo a. rappresentanza delle minoranze e b. rappresentanza di ogni

comune, ove possibile).

L'unione ha autonomia statutaria e potestà regolamentare e ad essa si applicano, in quanto compatibili, i

principi previsti per l'ordinamento dei comuni. Ad essa sono conferite dai comuni partecipanti le risorse

umane e strumentali necessarie all'esercizio delle funzioni loro attribuite.

Atto costitutivo e statuto dell'unione sono approvati dai consigli dei comuni partecipanti con le procedure e

con la maggioranza richieste per le modifiche statutarie. Lo statuto individua le funzioni svolte dall'unione e

le corrispondenti risorse.

Art. 33 tuel: nella disciplina delle incentivazioni occorre predisporre una maggioranza dei contributi nelle

ipotesi di fusione e di unione rispetto alle altre forme di gestione comunale (la legge dunque privilegia tali

forme di integrazione tra comuni).

Forme associative.

– Accordi di programma per la deflazione e l'attuazione di opere e di interventi (art.34);

– Convenzioni al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi determinati (art.30): gli enti interessati non danno

luogo a soggetti distinti, ma si limitano a coordinare la propria attività;

– Uffici comuni, istituiti mediante convenzione, ai quali affidare l'esercizio delle funzioni pubbliche, non servizi;

– Delega ad un solo ente dell'esercizio delle funzioni;

– Consorzi: soggetti distinti dagli enti che li costituiscono per la gestione associata di uno o più servizi e per l'esercizio di

funzioni;

– Esercizio associato di funzioni e servizi;

– Unioni di comuni (di carattere polifunzionale).

Le amministrazioni possono aderire soltanto a una forma associativa con riferimento a ciascuna delle seguenti categorie: consorzi,

unioni, esercizio associato di funzioni e servizi (art. 2, co.28, l. 244/2007).

Le circoscrizioni comunali.

L'ordinamento prevede l'articolazione del territorio comunale in circoscrizioni: esse, ex art. 17 tuel, sono “organismi di

partecipazione, di consultazione e di gestione dei servizi di base, nonché di esercizio delle funzioni delegate dal comune ”. Statuto e

regolamenti devono individuare il sistema e le forme di elezione, l'organizzazione e le funzioni della circoscrizione.

Legge 191/ 2009: impone di sopprimere il difensore civico, di eliminare le circoscrizioni di decentramento comunale (eccetto che per

i comuni con popolazione > ai 250mila abitanti: essi possono prevederle, purché ognuna di esse abbia una popolazione media non

inferiore a 30mila abitanti) e i consorzi di funzioni fra gli enti locali (salvo i bacini montani).

Frazioni, quartieri e borgate.

Frazioni e quartieri sono articolazioni territoriali previste dall'art.54, co.7 tuel. Il sindaco, ove non sussistano organi di decentramento

comunale, può delegare ad un consigliere comunale l'esercizio delle funzioni di ufficiale del governo nei quartieri o nelle frazioni. La

denominazione delle borgate e delle frazioni spetta ai comuni.

18. Città metropolitane e comunità montane.

L'art.144 Cost.: le città metropolitane sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i

principi fissati dalla Costituzione.

Art. 18 d.l. 95/2012 (convertito nella l. 135/2012): le province di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova,

Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria saranno soppresse, con contestuale istituzione delle

relative città metropolitane a partire dal 2014. Il territorio della città metropolitana coincide con quello della

provincia contestualmente soppressa. Lo statuto della città può prevedere un'articolazione del territorio del

comune capoluogo medesimo in più comuni. Le città metropolitane conseguono gli obiettivi del patto di

stabilità interno attribuiti alle province soppresse.

Oltre alle funzioni fondamentali delle province, alla città metropolitana sono attribuite ulteriori funzioni:

a. pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali;

b. strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici e organizzazione dei servizi pubblici di

interesse generale in ambito metropolitano;

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c. mobilità e viabilità;

d. promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale;

e. ulteriori funzioni attribuite da Stato e regioni, ciascuno per le proprie competenze, in attuazione dei

principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza ex art. 118, co.1 Costituzione.

Organi della città metropolitana:

– Consiglio metropolitano → componenti, in numero variabile a seconda della popolazione, eletti, tra

sindaci e consiglieri dei comuni ricompresi nel territorio della città metropolitana, da un collegio

formato dai medesimi;

– Sindaco metropolitano → può nominare un vicesindaco ed attribuire deleghe a singoli consiglieri. In

sede di prima applicazione, egli è di diritto il sindaco del comune capoluogo.

Lo statuto metropolitano:

– è da adottarsi dal consiglio metropolitano a maggioranza assoluta entro 6 mesi dalla prima

convocazione;

– può stabilire che il sindaco metropolitano: a. sia di diritto il sindaco del comune capoluogo; b. sia

eletto secondo le modalità stabilite per l'elezione del presidente della provincia; c. sia eletto a

suffragio universale diretto;

– regola l'organizzazione interna e le modalità di funzionamento degli organi e di assunzione delle

decisioni;

– regola le forme di indirizzo e di coordinamento dell'azione complessiva di governo del territorio

metropolitano;

– disciplina i rapporti fra i comuni facenti parte della città metropolitana e le modalità di

organizzazione e di esercizio delle funzioni metropolitane, prevedendo le modalità con le quali la

città metropolitana può conferire ai comuni ricompresi nel suo territorio o alle loro forme associative

proprie funzioni, con il contestuale trasferimento delle risorse umane, strumentali e finanziarie

necessarie per il loro svolgimento;

– prevede le modalità con le quali i comuni facenti parte della città metropolitana e le loro forme

associative possono conferire proprie funzioni alla medesima, con contestuale trasferimento delle

risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie per il loro svolgimento.

L'applicazione di tale disciplina è sospesa fino al 31 dicembre 2013 dall'art. 1, co. 115, l. 228/2012.

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Capitolo V- SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE E LORO VICENDE

1. Premessa. Qualità giuridiche, status, capacità e situazioni giuridiche.

Gli interessi sono aspirazioni dei soggetti verso beni ritenuti idonei a soddisfare bisogni: la limitatezza dei

beni rende assai probabile l'insorgere di conflitti tra i soggetti e la composizione di tali conflitti è funzione

essenziale dell'ordinamento giuridico. La risoluzione di conflitti intersoggettivi (consistente nell'attribuire la

prevalenza a uno degli interessi in gioco) comporta:

– che l'ordinamento riconosca preliminarmente i soggetti come tali;

– la qualificazione giuridica dei comportamenti dei soggetti coinvolti, in relazione alla particolare

posizione del soggetto che li pone in essere.

Le situazioni giuridiche soggettive.

Una situazione giuridica soggettiva (diritto soggettivo, interesse legittimo, potere, obbligo, dovere) è la

concreta situazione di cui è titolare un soggetto dell'ordinamento con riferimento al bene che costituisce

oggetto dell'interesse. Nell'ottica della pluralità degli ordinamenti, potrebbero esserci situazioni giuridiche

riconosciute e protette da uno di essi e non da quello generale: è il caso delle situazioni la cui tutela, ex d.l.

220/2003 (conv. In l. 280/2003), è assicurata all'interno dell'ordinamento sportivo dalla giustizia sportiva,

senza la possibilità per i titolari di adire il giudice dell'ordinamento generale, sul presupposto che esse non

abbiano dignità di diritti o interessi legittimi. Ogni soggetto del diritto costituisce sul piano dell'ordinamento giuridico un centro di riferimento di una serie di situazioni e rapporti

giuridici. Le qualità giuridiche sono i modi di essere giuridicamente definiti di una persona, di una cosa, di un rapporto giuridico, di

cui l'ordinamento giuridico faccia altrettanti presupposti per l'applicabilità disposizioni generali o particolari alla persona, alla cosa, al

rapporto. Le situazioni giuridiche sono i concreti modi di essere giuridici di un soggetto in ordine a interessi protetti

dall'ordinamento. La totalità delle stesse e dei rapporti imputabili ai soggetti ne definiscono la soggettività e ne formano la sua sfera

giuridica.

Lo status.

Gli status, invece, sono le qualità attinenti alla persona che globalmente derivano dalla sua appartenenza

necessaria o volontaria ad un gruppo e rappresentano il presupposto per l'applicazione al soggetto di una

serie di norme, le quali vengono così a costituire nei confronti di tutti i soggetti che posseggono lo status una

situazione giuridica uniforme e omogenea.

La capacità giuridica.

La idoneità di un soggetto ad essere titolare di situazioni giuridiche è la c.d. Capacità giuridica (art. 1 e 11 c.c.): solo in presenza di

essa vengono conferite dall'ordinamento stesso le situazioni giuridiche.

La capacità giuridica degli enti pubblici.

La capacità giuridica può essere relativa anche soltanto a talune situazioni giuridiche: l'amministrazione ha una capacità giuridica in

ordine ai poteri di diritto comune meno estesa di quella delle persone fisiche. Numerose disposizioni (o i principi generali) escludono

la possibilità per alcuni enti di compiere talune attività di diritto comune, ovvero di contrattare con soggetti diversi da quelli

espressamente indicati dalla legge. Le amministrazioni non possono ad esempio stipulare contratti aleatori al di fuori dei giochi in

regime di privativa e dei contratti di assicurazione.

Si dibatte circa la soggezione al principio di legalità dell'attività di diritto privato delle amministrazioni. A tal

proposito si contrappongono:

– le tesi più restrittive

– la tesi secondo cui, prima ancora di essere ente pubblico, il soggetto pubblico è, in quanto persona

giuridica, soggetto di diritto comune e, dunque, ha capacità giuridica, potendo così impiegare tutti gli

strumenti di diritto privato, salvo espressa previsione di legge.

Ex art. 11 c.c., “ le Province e i Comuni, nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche,

godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico”: la capacità degli enti non è

dunque illimitata, ma deve sempre rispettare la legge.

L'art. 3, co.27 legge 244/2007 sancisce il divieto di costituire società aventi per oggetto attività di

produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità

istituzionali. L'utilizzo degli strumenti privatistici, in generale, deve essere giustificato in ragione della

attinenza alle finalità dell'ente. Nell'ipotesi in cui l'amministrazione stipuli contratti eccedenti l'ambito delle proprie finalità l'alternativa è tra:

– nullità del contratto per violazione di norma imperativa (quella che stabilisce le finalità dell'ente);

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– annullabilità del contratto (manca una norma imperativa che lo vieta espressamente) ex art. 1425 c.c. .

La capacità d'agire.

Essa consiste nella idoneità a gestire le vicende delle situazioni giuridiche di cui il soggetto è titolare e si

acquista con il compimento dei 18 anni, salvo che la legge non stabilisca un'età diversa (art. 2 c.c.).

Capacità d'agire ed enti pubblici.

Si discute se la capacità di agire:

– possa essere riferita direttamente all'ente (opinione dominante): in virtù dell'immedesimazione organica, l'ente ha capacità

d'agire (si giova di quella dell'organo) e pertanto risponderà direttamente per gli illeciti compiuti dai dipendenti;

– sia esclusiva della persona fisica preposta all'organo che fa agire l'ente (opinione più attendibile, ma minoritaria): in tal caso

la responsabilità dell'ente per gli illeciti commessi dalle persone fisiche preposte all'organo è indiretta.

Rapporto tra capacità giuridica e capacità d'agire.

In linea di principio, capacità giuridica e capacità d'agire non sorgono contemporaneamente e quindi possono

non sussistere contestualmente in capo allo stesso soggetto (infatti l'ordinamento prevede istituti – come la

rappresentanza – per consentire l'imputazione di effetti in capo ai soggetti dotati della capacità giuridica, ma

non della capacità d'agire). Nel diritto amministrativo, tuttavia, con riferimento alle persone fisiche la capacità d'agire è di norma strettamente connessa con la

capacità giuridica, nel senso che si dispone della seconda in quanto si abbia l'idoneità a gestire le vicende delle situazioni giuridiche,

escludendosi la possibilità che le situazioni siano esercitate da soggetti diversi dai titolari (es. diritto di elettorato attivo).

La legittimazione ad agire.

Mentre la capacità d'agire concerne categorie astratte di situazioni giuridiche, la legittimazione ad agire si riferisce a situazioni

specifiche e concrete (attive o passive), effettivamente sussistenti, e a singoli rapporti. Essa consiste in una specifica posizione (non

in una qualità) del soggetto rispetto agli interessi: è dunque, in sostanza, la specificazione in direzioni determinate della capacità di

agire, astratta e generale.

2. Potere, diritto soggettivo, dovere e obbligo.

La dottrina non è unanime in ordine all'individuazione delle situazioni giuridiche soggettive, cioè delle

posizioni di vantaggio o svantaggio in cui il soggetto è collocato dall'ordinamento in ordine ai vari interessi.

La situazione, comunque, è sicuramente legata al tipo di tutela che l'ordinamento ad essa appresta e, forse,

rappresenta la sintesi tra interesse di fatto e tutela alla luce del diritto. Le situazioni giuridiche hanno dunque

un referente soggettivo. Per quanto riguarda la amministrazione pubblica, titolari di poteri, diritti, obblighi e doveri possono essere soltanto enti pubblici,

mentre questa possibilità deve essere esclusa per gli organi.

È necessario distinguere tra le situazioni che sussistono nell'ambito di concreti rapporti giuridici

(costituendone uno dei termini) e le altre che si collocano all'esterno di essi (poteri, doveri).

Il potere.

Esso è la potenzialità astratta di tenere un certo comportamento; è espressione della capacità del soggetto e perciò da esso

inseparabile: di qui l'impossibilità di un trasferimento del potere da un titolare ad un altro. Se la situazione in esame è una frazione

della capacità giuridica, il suo esercizio, invece, si collega alla capacità di agire. In quanto preesistente rispetto all'esercizio, il potere

è collocato al di fuori dell'orbita di un rapporto concreto e consente di produrre modificazioni (vicende giuridiche) delle situazioni

racchiuse in quel rapporto.

Oltre ai poteri amministrativi, molte amministrazioni dispongono del potere normativo. Esistono anche poteri esercitabili dai soggetti

privati nelle varie occasioni in cui essi si rapportano ad una pubblica amministrazione.

La possibilità astratta di tenere un certo comportamento produttivo di effetti giuridici si concretizza mediante atti giuridici, i più

importanti dei quali sono i provvedimenti , che presentano i caratteri di tipicità dei relativi poteri.

Poteri amministrativi e vicende giuridiche.

Nel diritto amministrativo hanno particolare rilevanza i poteri che il soggetto pubblico è in grado di

esercitare prescindendo dalla volontà del privato e, dunque, producendo unilateralmente una vicenda

giuridica (normalmente rappresentata da costituzione, estinzione o modificazione di situazioni giuridiche)

relativa alla sfera giuridica dello stesso (esempio: potere di espropriazione).

Il potere, almeno quando il suo esercizio concreto comporti incisioni nella sfera giuridica altrui, è attribuito

dall'ordinamento generale a seguito di un giudizio di prevalenza dell'interesse affidato alla cura

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103

dell'amministrazione nei confronti degli interessi privati. Tali interessi, che non costituiscono un

impedimento per la soddisfazione dell'interesse pubblico, sono così resi disponibili per l'amministrazione, la

quale, esercitando il potere, ne condiziona il soddisfacimento (esso può non verificarsi pure nei casi in cui

l'amministrazione agisca legittimamente).

Il diritto soggettivo.

È la situazione giuridica di vantaggio che si profila allorché la legge attribuisca al titolare la possibilità di

realizzare il proprio interesse indipendentemente dalla soddisfazione dell'interesse pubblico curato

dall'amministrazione. Il diritto soggettivo è tutelato in via assoluta, in quanto è garantita al suo titolare la

soddisfazione piena e non mediata dell'interesse finale (“bene della vita”) protetto dalla norma. Esso può

dunque essere definito come la situazione giuridica di immunità dal potere: essa spetta al soggetto cui sia

accordata dall'ordinamento protezione piena e incondizionata di interessi – nei confronti di uno solo, ovvero

di tutti gli altri soggetti – da parte di una norma dell'ordinamento stesso. L'interesse risulta così sottratto alla

disponibilità di qualunque soggetto diverso dal titolare, nel senso che la sua soddisfazione non dipende

dall'esercizio di un potere altrui.

Le norme di relazione.

Potere e diritto sono termini inconciliabili: ove sussista potere non esiste diritto soggettivo e ove il privato sia

titolare di un diritto non può affermarsi l'esistenza di un potere amministrativo.

Gli interessi considerati prevalenti si qualificano pubblici perché affidati dalla legge alla cura di soggetti

pubblici e costituiscono la ragione della attribuzione del potere. Poiché il potere amministrativo (o meglio, il

suo esercizio) comporta una incisione nella sfera dei privati, esso deve essere tipico, cioè predeterminato

dalla legge in ossequio del principio di legalità: la legge deve individuare tutti gli elementi del potere (in

particolare il soggetto al quale esso è attribuito, l'oggetto, il contenuto, la forma con cui dovrà essere

esercitato e l'interesse da perseguire), onde evitare rischi di autoattribuzione di poteri – o di loro elementi

essenziali – da parte dell'amministrazione (cioè significherebbe prevalenza non consentita di un soggetto

dell'ordinamento nei confronti di un altro).

Le norme di relazione sono quelle norme che, attribuendo poteri, riconoscono interessi pubblici “vincenti”

su quelli privati: caratterizzate, cioè, dal fatto di risolvere conflitti intersoggettivi di interessi. Il potere è da

esse circoscritto entro i limiti sopra determinati, dunque l'incidenza di un'attività pubblicistica sull'interesse

del privato al di fuori di questi limiti costituisce violazione della situazione soggettiva (diritto soggettivo) del

privato. Le norme di relazione esprimono quindi un giudizio relazionale fra interessi e tutelano in modo esclusivo quello del privato entro il

limite al di là del quale viene protetto l'interesse della pubblica amministrazione. Il riconoscimento di un diritto soggettivo

presuppone che l'ordinamento valuti come prevalente l'interesse del titolare del diritto stesso, accordandovi protezione mediante

norme che hanno la stessa natura di quelle che attribuiscono e delimitano il potere (norme di relazione).

Dovere e obbligo.

Oltre alle situazioni di vantaggio che esorbitano dai singoli rapporti (poteri), vi sono situazioni sfavorevoli

non racchiuse in rapporti concreti: i doveri. Il dovere è il vincolo giuridico a tenere un dato comportamento

positivo (fare) o negativo (non fare). Anche l'amministrazione è soggetta ai doveri propri di tutti i soggetti

dell'ordinamento, in particolare quello di buona fede e correttezza e quello di rispettare i diritti altrui

(presupposto dell'art. 2043 c.c.). Si versa invece nella situazione di obbligo allorché la necessità di tenere un

comportamento sia correlata al diritto altrui: l'obbligo è infatti il vincolo del comportamento del soggetto in

vista di uno specifico interesse di chi è il titolare della situazione di vantaggio. L'amministrazione ben può essere soggetta ad obblighi, derivanti da contratto, illecito, legge o atto amministrativo.

4. L'interesse legittimo.

L'ordinamento generale riconosce prevalenza agli interessi che possono entrare in conflitto tra loro

attribuendo di volta in volta diritti (se prevale l'interesse del privato) ovvero poteri amministrativi (se prevale

l'interesse pubblico) e questi ultimi consentono di produrre vicende giuridiche in ordine a situazioni dei terzi.

Nei confronti dell'esercizio del potere il privato si trova in uno stato di soggezione.

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Interesse pretensivo e oppositivo.

– Interesse pretensivo: il privato pretende qualcosa dall'amministrazione, sicché la soddisfazione della

propria aspirazione passa attraverso il comportamento attivo dell'amministrazione (es. soggetto che

partecipa ad un concorso pubblico: l'interesse è l'aspirazione ad un bene della vita, cioè il posto

messo a disposizione dall'ente pubblico);

– interesse oppositivo: il soggetto privato si oppone all'esercizio di un potere dell'amministrazione che

potrebbe cagionare una vicenda giuridica svantaggiosa, dunque egli vedrà soddisfatta la propria

pretesa se l'amministrazione non esercita il potere (es. espropriazione: in questo caso l'interesse

privato è l'aspirazione ad un bene della vita, cioè il mantenimento della proprietà).

In queste ipotesi il privato non ha un diritto soggettivo, in quanto la sua aspirazione al bene privato della vita

non è tutelata in via assoluta dall'ordinamento, non è cioè protetta da una norma di relazione: la fruizione e il

mantenimento del loro interesse dipendono dall'esercizio di un potere dell'amministrazione; l'interesse

privato non è un limite alla soddisfazione di quello pubblico.

Il privato che non sia titolare di un diritto soggettivo nei confronti dell'azione amministrativa gode di una tutela diversa rispetto a

quella garantita dalla titolarità di un diritto soggettivo. Accanto alla normativa che disciplina il potere, vi è quella che ne regolamenta

l'esercizio. Quando l'ordinamento attribuisce un potere, l'interesse vincente è un interesse pubblico; il perseguimento di esso è

sottratto all'assoluta libertà del titolare, risultando non indifferenti modalità e misura di attuazione concreta della prevalenza prevista

in astratto dall'ordinamento: il potere deve cioè essere esercitato in vista dell'interesse pubblico coerentemente al principio di

funzionalizzazione che informa tutta l'attività amministrativa. In questa prospettiva, la situazione del privato non è priva di tutela.

Egli ha infatti la pretesa, giuridicamente tutelata dall'ordinamento, che l'attività della pubblica amministrazione si svolga in modo

corretto e legittimo. Vi è poi la tutela risarcitoria: il sistema di tutela degli interessi pretensivi consente il passaggio a riparazioni per

equivalente solo “quando l'interesse, incapace di trovare realizzazione con l'atto, in congiunzione con l'interesse pubblico, assuma a

suo oggetto la tutela di interessi sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il ritardo nell'emanazione di un provvedimento

vantaggioso per l'interessato” (Cons. di Stato, ad. plen. n. 7/2005).

Definizione di interesse legittimo.

È una situazione soggettiva di vantaggio di fondamentale importanza, ribadita dalla Costituzione:

– art. 24: l'interesse legittimo è accostato al diritto soggettivo e ne è garantita la tutela giurisdizionale;

– art. 103: l'interesse legittimo è oggetto principale della giurisdizione amministrativa;

– art. 113: la sua tutela è sempre ammessa contro gli atti dell'amministrazione. In altri ordinamenti (come Francia e Germania)., invece, esso non ha rilievo.

Il fatto che l'interesse legittimo sia accostato al diritto soggettivo e, più precisamente, la presenza di un

medesimo interesse al bene, è indice del carattere omogeneo delle due situazioni, mentre la differenza di esse

va ricercata nel diverso tipo di “garanzia” e di “protezione” accordato dall'ordinamento. Al riguardo, vi sono

diverse tesi:

– tesi 1: pone l'accento sul modo occasionale e\o strumentale della protezione, in quanto essa è

assicurata soltanto nei “limiti” in cui l'azione amministrativa sia legittima, per cui il cittadino non

può esigere la soddisfazione dell'interesse al bene;

– tesi 2 (maggioritaria): sottolinea che la situazione di cui il cittadino è titolare è di vantaggio

sostanziale, protetta non soltanto in modo strumentale come conseguenza della legittimità

dell'operato dell'amministrazione, in quanto pone in primo piano il conseguimento del bene che ha di

mira colui che si rapporta col potere; resta fermo però il fatto che la soddisfazione del bene è soltanto

eventuale.

Tali tesi, tuttavia, se prese singolarmente, offrono una visione soltanto parziale di un fenomeno più

complesso e le ragioni di tale parzialità vanno ricondotte ad un problema di prospettiva. Se ci si colloca in

un'ottica:

– ex ante (momento in cui non si conosce l'esito dell'esercizio del potere), il soggetto titolare

dell'interesse legittimo può solo aspirare ad un bene a soddisfazione non assicurata, in quanto essa è

necessariamente mediato (int. Pretensivo) o dipende (int. Oppositivo), secondo un orizzonte

temporale predefinito, dall'intervento dell'amministrazione che agisce con poteri tipici. L'unica

garanzia che l'ordinamento gli offre in questo momento riguarda il fatto che quell'intervento

(necessario o possibile) è configurato come un dovere, le cui modalità d'esercizio (stabilite

assicurando una possibilità di intervento e di dialogo con il cittadino) sono soggette al sindacato del

giudice amministrativo. In questa fase, solo questi aspetti rilevano giuridicamente, a prescindere

dall'esito finale del procedimento e dal vantaggio che l'azione legittima o illegittima del soggetto

pubblico potrà arrecare in futuro al privato.

– ex post (momento successivo all'inizio dell'esercizio del potere), la situazione del privato è protetta

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dall'ordinamento in correlazione con la correttezza dell'azione amministrativa; infatti, quando la

soddisfazione delle aspirazioni del soggetto sarebbe favorita dall'azione illegittima

dell'amministrazione, la protezione non è accordata perché l'azione illegittima è con essa

incompatibile.

In definitiva, l ' interesse legittimo si può definire come una situazione soggettiva di vantaggio a

progressivo rafforzamento , la cui unitarietà permane in ragione dell'attinenza ad un medesimo bene finale .

Nella prima fase, esso garantisce la mediazione dell'amministrazione in forza di poteri tipici, il cui esercizio

è sindacabile dal giudice; nella seconda fase, rileva invece il profilo della legittimità dell'azione, limite di

soddisfazione dell'aspirazione del soggetto e, infatti, la tutela è tradizionalmente costituita dall'annullamento

dell'atto.

I poteri connessi all'interesse legittimo.

Sono poteri riconosciuti al titolare dell'interesse legittimo:

1. i poteri di reazione → il loro esercizio si concretizza nei ricorsi amministrativi e nei ricorsi

giurisdizionali, volti ad ottenere l'annullamento dell'atto amministrativo.

2. i poteri di partecipare al procedimento amministrativo → i documenti e le osservazioni che

rappresentano il punto di vista del cittadino devono essere presi in considerazione

dall'amministrazione procedente (tali poteri sono riconosciuti dalla legge anche a chi non è titolare di

interessi legittimi).

3. il potere di accedere ai documenti della pubblica amministrazione → l'art. 22 della l. 241/1990

ammette tale possibilità per i portatori di interessi giuridicamente rilevanti (tra cui rientrano gli

interessi legittimi); la posizione del privato che proponga richiesta di accesso è nella “disponibilità”

dell'amministrazione.

L'interesse procedimentale.

Attengono a “fatti procedimentali”; tuttavia, in dottrina è stato obiettato che in realtà si tratterebbe di facoltà

che attengono all'interesse legittimo. Essi hanno un campo di azione più ampio di quello dell'interesse

legittimo.

L'interesse legittimo, in ogni caso, sorge quando (e soltanto quando) la soddisfazione del suo interesse

dipende dall'esercizio di un potere (e non ogniqualvolta un soggetto, anche in modo secondario e indiretto,

venga implicato dall'esercizio di un potere); occorre una norma che tuteli la situazione del privato in modo

non generico, dunque non è sufficiente una disposizione che semplicemente assicuri la partecipazione ad un

procedimento. Inoltre, non si può pensare che per il solo motivo della partecipazione procedimentale, l'interesse procedimentale si trasformi in

interesse legittimo e, di conseguenza, consenta al suo titolare di ricorrere in giudizio (tesi invece sostenuta in dottrina). Peculiare

invece è il caso della partecipazione a procedimenti a evidenza pubblica, finalizzati ad individuare i contraenti dell'amministrazione

(e, dunque, ad attribuire “beni contigentati”): secondo la giurisprudenza, una situazione soggettiva tutelabile sorge solo in capo a chi

legittimamente sia stato ammesso alla procedura.

L'interesse procedimentale risulta spesso sfornito di tutela effettiva, non potendosi ricorrere al giudice per la

sua violazione, a differenza di quanto accade nell'ipotesi di titolarità di interesse legittimo.

5. Interessi diffusi e interessi collettivi.

L'interesse legittimo è un interesse personale , differenziato rispetto ad altri interessi e qualificato da una

norma: – qualificato perché è preso in considerazione da una norma che lo protegge, anche in modo indiretto;

– differenziato perché, in quanto qualificato, si distingue rispetto alla pluralità di interessi che fanno capo ai consociati.

La giurisprudenza tuttavia tende a sostituire al requisito della qualificazione in positivo dell'interesse da parte di una norma quello

della non illegittimità dell'interesse. La specificazione di tali caratteri risponde all'esigenza di individuare con precisione il soggetto

che, in quanto titolare di un interesse legittimo, sia legittimato ad agire in giudizio.

Gli interessi superindividuali: interessi diffusi e interessi collettivi. Gli interessi superindividuali pongono un problema di difesa in giudizio, la quale, per essere accordata, richiede che essi possano

essere qualificati come interessi legittimi o diritti soggettivi ex art. 24 Cost., in base al quale tutti possono agire in giudizio soltanto

per la tutela di tali situazioni.

Gli interessi superindividuali si distinguono in:

– Interessi diffusi → dal punto di vista soggettivo, appartengono ad una pluralità di soggetti, mentre

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da un punto di vista oggettivo, attengono a beni non suscettibili di fruizione differenziata. Carattere

peculiare di essi è la non frazionabilità del loro oggetto.

– Interessi collettivi → sono quelli che fanno capo ad un gruppo organizzato, dunque il carattere della

personalità e della differenziazione, necessario per qualificarli come legittimi, può essere rinvenuto,

sostituendo, al tradizionale soggetto atomicamente inteso, il gruppo.

La giurisprudenza ha fatto numerosi tentativi di individuare criteri di “trasformazione” degli interessi

collettivi e diffusi in interessi differenziati (e perciò legittimi) facenti capo a soggetti privati. Alcuni criteri utilizzati a tal fine: collegamento stabile e non occasionale dell'associazione che si fa carico della cura di interessi

superindividuali con il territorio sul quale si producono gli effetti di atti amministrativi; partecipazione dell'associazione a comitati

previsti dalla legge ovvero alla partecipazione procedimentale.

Il legislatore è intervenuto per attribuire una legittimazione ex lege a talune organizzazioni rappresentative di

interessi individuali. – Associazioni a tutela del consumatore e degli utenti → ex d.lgs. 206/2005 sono legittimate ad agire a tutela degli interessi

collettivi quelle iscritte in un apposito elenco delle associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello

nazionale, istituito presso il ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato.

– Associazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale, regionale e provinciale → ex l. 180/2011 (c.d.

statuto delle imprese, art. 4) sono legittimate ad impugnare atti amministrativi lesivi di interessi diffusi.

– Associazioni ambientaliste → legittimate ad impugnare atti illegittimi attinenti al danno ambientale.

L'art. 9, l. 241/1990 consente ai portatori di interessi diffusi (e di interessi collettivi) costituiti in associazioni

o comitati di intervenire nel procedimento amministrativo.

5. Il problema dell'esistenza di altre situazioni giuridiche soggettive.

Come visto, in quanto esista il potere, non ricorre il diritto; tuttavia, in alcune ipotesi, come nel caso del

proprietario soggetto all'esercizio del potere di espropriazione, il privato è innegabilmente titolare di un

diritto (di proprietà) nonostante la sussistenza del potere.

Il principio di relatività delle situazioni giuridiche.

Secondo tale principio, lo stesso rapporto di un soggetto con un bene può presentarsi, a seconda dei casi e dei

momenti e perfino a seconda del genere di protezione che il soggetto faccia valere, ora come un diritto

soggettivo, ora come interesse protetto solo in modo riflesso (quindi, nell'esempio precedente, il diritto di

proprietà si configura come diritto in quanto e fino al punto in cui non venga in considerazione un potere

dell'amministrazione di disporre dell'interesse del privato).

La degradazione o affievolimento del diritto.

La degradazione o affievolimento del diritto è il fenomeno che, secondo un orientamento prevalente di

dottrina e giurisprudenza, si riferisce alla vicenda di un diritto il quale, venendo a confliggere con un potere,

si trasformerebbe in interesse legittimo (Casetta pensa che non si possa parlare di questo fenomeno).

L'interesse legittimo non nasce dalla trasformazione di un diritto, ma è una situazione distinta, pur potendosi

riferire allo stesso interesse finale su cui si innesta un diritto, perchè interesse legittimo e diritto soggettivo

hanno a oggetto immediato beni diversi, dunque manca il presupposto per una trasformazione dell'uno

nell'altro. Infatti, ove venga eliminato (tramite annullamento) il risultato dell'esercizio del potere, la

situazione torna ad atteggiarsi come diritto anche nei confronti dell'amministrazione. Secondo parte della giurisprudenza sussisterebbero ipotesi di diritti “non degradabili”, non assoggettati, cioè, al potere

amministrativo. L'interesse del privato risulterebbe sempre vincente; l'amministrazione sarebbe dunque priva di poteri, sia pure in

vista di motivi di interesse pubblico, e il diritto soggettivo sarebbe tutelabile (davanti al giudice ordinario) anche nei confronti del

soggetto pubblico. Questa tesi però non convince: la prospettiva di una Costituzione che irrigidisce il sistema prevedendo tale tipo di

diritti, sottratti ad ogni potere, pare non rispondente alla realtà.

Non sussistono quindi situazioni intermedie tra diritto soggettivo e interesse legittimo: è inconsistente la

figura del diritto affievolito (che ricorrerebbe nell'ipotesi in cui un diritto sorga da un provvedimento, sicchè

sarebbe destinato ad essere eliminato a seguito della revoca dell'atto), che coincide completamente con

quella di interesse legittimo.

Il diritto in attesa di espansione.

Il diritto in attesa di espansione è la situazione in cui l'esercizio di un diritto dipenda dal comportamento

dell'amministrazione, che consentirebbe appunto l'espansione dello stesso. In realtà, a fronte del potere, il

titolare è titolare di un interesse legittimo, anche se la posizione “di partenza” si configura come diritto ove

considerata indipendentemente dal potere.

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La facoltà.

La facoltà è la possibilità di tenere un certo comportamento materiale. Essa non rientra nel novero delle

situazioni giuridiche, in quanto: a. costituisce una delle forme di estrinsecazione del diritto e b. non produce

modificazioni giuridiche.

L'aspettativa.

L'aspettativa è la situazione in cui versa un soggetto nelle more del completamento della fattispecie

costitutiva di una situazione di vantaggio (diritto, potere). Essa, non essendo tutelata in via assoluta, non è un

diritto. Tuttavia, se con tale termine si intende una situazione tutelata come interesse legittimo, essa deve

essere qualificata come tale, mentre se è assolutamente priva di tutela, è irrilevante per l'ordinamento.

La possibilità del soggetto privato (che parta da una situazione di base che diritto non è) di conseguire un

diritto (c.d. Chance) è in alcuni casi protetta dall'ordinamento, accordando tutela risarcitoria nelle ipotesi di

lesione di questa possibilità ad opera di una pubblica amministrazione.

5.1. Le situazioni giuridiche protette dall'ordinamento dell'Unione Europea.

Le situazioni giuridiche protette dall'ordinamento dell'UE in capo ai cittadini dell'UE consistono

essenzialmente in poteri: sono tali infatti le c.d. libertà che trascendono i limiti di concreti rapporti giuridici,

preesistendo alla loro costituzione.

La libera circolazione delle persone e dei capitali.

Il principio della libera circolazione delle persone implica l'abolizione delle discriminazioni tra i lavoratori

degli Stati membri fondate sulla nazionalità. Una deroga alla libertà di circolazione è ammessa per motivi di

ordine pubblico, sicurezza e sanità pubblica. Ex art. 45 Trattato UE, le disposizioni sulla libertà di

circolazione non sono applicabili agli impieghi presso la pubblica amministrazione (art. 38, l. 165/2011). Con riferimento alla libertà di circolazione di capitale, la Corte di giustizia ha individuato in limite oltre il quale essa risulterebbe

violata a motivo dell'esistenza di poteri amministrativi che ne condizionano in modo eccessivo l'esercizio.

La libertà di stabilimento.

La libertà di stabilimento (artt. 49 e ss.) comporta l'accesso alle attività non salariate e al loro esercizio,

nonché la costituzione e la gestione di imprese alle medesime condizioni fissate dall'ordinamento del paese

di stabilimento per i propri cittadini. Essa implica un carattere permanente, che la differenzia dalla libera

prestazione di servizi.

La libera prestazione di servizi.

È disciplinata dagli artt. 56 e ss. del Trattato. Per servizio si intende ogni prestazione fornita dietro

remunerazione da un cittadino di uno Stato membro stabilito in uno Stato membro a favore di una persona

stabilita in uno Stato diverso (ma appartenente all'Unione).

Anche nel settore della libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi vige la riserva giustificata da

motivi di ordine pubblico, sicurezza pubblica e di sanità e l'esclusione delle attività che partecipino, anche in

via occasionale, all'esercizio di poteri pubblici.

La libertà di concorrenza.

Essa può essere lesa a seguito della presenza di poteri amministrativi che condizionino oltre una certa misura

l'attività delle imprese. La questione è stata esaminata dalla Corte di giustizia (sent. n. 683/1985). Essa ha stabilito che il principio della libertà di commercio

è soggetto a taluni limiti giustificati dagli scopi d'interesse generale perseguiti dall'Unione, purché non si comprometta la sostanza di

quei diritti. Ha altresì affermato che le misure amministrative non debbono creare discriminazioni né eccedere le restrizioni

inevitabili giustificate dal perseguimento dello scopo d'interesse generale costituito dalla tutela dell'ambiente.

La tutela del principio della concorrenza, in particolare, osta alle discipline interne che attribuiscono poteri

amministrativi il cui esercizio potrebbe determinare effetti protezionistici, discriminazioni e limitazioni del

principio della concorsualità tra le imprese. Un'importante deroga è contemplata dall'art. 106 del Trattato per le “imprese incaricate della gestione di servizi di interesse

economico o generale o aventi carattere di monopolio fiscale”: esse sono sottoposte alle norme del Trattato e “in particolare alle

regole della concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della

specifica missione loro affidata”.

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La libertà di circolazione dei beni.

È disciplinata dagli artt. 34 e ss. del Trattato. Le misure amministrative che comportino indebite restrizioni

delle importazioni ed esportazioni confliggono con la disciplina comunitaria.

Gli obblighi di servizio pubblico.

Il diritto dell'UE e quello nazionale impone alcuni obblighi di servizio pubblico ai gestori nelle ipotesi in cui

occorra soddisfare determinati criteri di continuità, regolarità e capacità cui il privato non si atterrebbe ove

seguisse soltanto il proprio interesse economico. Ciò consente di individuare i correlativi diritti dei cittadini

alle prestazioni che ne costituiscono oggetto.

6. Le modalità di produzione degli effetti giuridici.

L'ordinamento determina direttamente o consente le vicende giuridiche (costituzione, modificazione,

estinzione) relative a rapporti giuridici e situazioni giuridiche soggettive secondo modalità differenti.

In particolare ciò riguarda i diritti soggettivi: la capacità e i poteri, infatti, sono strettamente legati alla

soggettività e sono acquistati a titolo originario, pur se l'esistenza o esercizio di un potere può essere

subordinato al ricorrere di una particolare condizione. I poteri sono intrasmissibili, dunque non esiste la vicenda della traslazione di un potere amministrativo da un soggetto pubblico a un

privato mediante provvedimento: in tali casi il privato esercita in realtà un potere amministrativo che rimane nella titolarità

dell'amministrazione, ovvero un potere proprio, anche se il provvedimento costituisce presupposto necessario per tale esercizio.

Lo schema norma-fatto-effetto.

Le vicende possono essere prodotte dall'ordinamento al verificarsi di alcuni fatti o al compimento di alcuni

atti (c.d. meri atti) che hanno la funzione di semplici presupposti per la produzione dell'effetto; la causa di

quella vicenda è però da tracciarsi direttamente nell'ordinamento. Questa modalità di dinamica giuridica è

riassunta nello schema norma-fatto-effetto: la norma disciplina direttamente il fatto e vi collega la

produzione di effetti. La legge si riferisce a tutti i rapporti che abbiano certe caratteristiche e determina l'effetto senza necessità di ulteriori interventi e

svolgimenti (carattere di generalità della legge, non inteso come generalità dei destinatari della legge). Talora la legge può

determinare la produzione dell'effetto non già in relazione a tutti i rapporti di un certo tipo, bensì con riferimento ad un singolo

rapporto: la legge viene definita legge-provvedimento (no carattere di generalità). In ogni caso, non richiede ulteriori interventi per la

produzione dell'effetto.

Lo schema norma-potere-effetto.

L'ordinamento attribuisce, definendo una serie di condizioni, ad un soggetto (privato o pubblico) il potere di

produrre vicende giuridiche e riconosce l'efficacia dell'atto da questo posto in essere. Questa modalità di

dinamica giuridica è riassunta nello schema norma-potere-effetto: l'effetto non risale immediatamente alla

legge, ma vi è l'intermediazione di un soggetto che pone in essere un atto, espressione di una scelta, mediante

il quale si regolamenta il fatto e si produce la vicenda giuridica. La legge rimane generale, nel senso che non si riferisce ad un rapporto peculiare, bensì a tutti quelli che presentano certe

caratteristiche; essa, tuttavia, al fine della produzione degli effetti richiede “l'attivazione dell'autonomia” (e cioè l'esercizio di un

potere) di un soggetto dell'ordinamento.

Dinamica giuridica e amministrazione.

L'amministrazione, se il tipo di dinamica è lo:

– schema norma-fatto-effetto, può essere “coinvolta” sia perchè pone in essere un fatto, sia perché

emana un mero atto al quale l'ordinamento direttamente collega la produzione di effetti [da un altro

punto di vista, si potrebbe dire che in esso l'amministrazione è priva di potere];

– schema norma-potere-effetto, pone in essere atti espressione di autonomia, che producono effetti

giuridici in relazione ad un particolare rapporto giuridico, a seguito dell'esercizio di un potere

conferito in via generale e astratta dalla legge. L'ordinamento rimette dunque alla scelta del soggetto

pubblico la produzione e la regolamentazione dell'effetto. In quei casi viene infatti attribuito un

potere che è la possibilità di produrre effetti riconosciuti dall'ordinamento, mediante provvedimenti

amministrativi. Può trattarsi della costituzione di diritti (concessioni) o di obblighi (ordini), della modificazione di preesistenti situazioni soggettive

(es. autorizzazioni), ovvero della estinzione di situazioni giuridiche (espropriazione). L'esercizio di alcuni poteri amministrativi

possono invece produrre effetti preclusivi.

In ordine alla dinamica norma-potere-effetto, la Corte Costituzionale (sent. 13/1962) ha riconosciuto il principio del giusto

procedimento, il quale richiede che per la realizzazione dell'effetto sia previamente attribuito all'amministrazione un potere il cui

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esercizio produce una vicenda giuridica. In tal modo è tra l'altro possibile il sindacato del giudice amministrativo sul corretto uso di

quel potere. Tale principio avrebbe dignità di principio generale dell'ordinamento, sicché sarebbe derogabile dal legislatore statale, il

quale potrebbe, mediante adozione di leggi-provvedimento produrre direttamente effetti in relazione ad un situazione concreta e

puntuale.

Dinamiche giuridiche e situazioni soggettive.

La dinamica norma-potere-effetto comporta il riconoscimento in capo al destinatario dell'esercizio del potere

amministrativo di un interesse legittimo. Attribuire un siffatto potere, dal cui esercizio scaturirà l'effetto

finale, significa decidere di rendere disponibile per l'amministrazione il bene della vita cui aspira il privato,

ossia subordinarne la soddisfazione all'azione amministrativa.

Viceversa, se lo schema è quello norma-fatto-effetto (vantaggioso), la legge accorda direttamente un diritto

soggettivo in quanto non prevede alcuna intermediazione provvedimentale tra l'aspirazione del privato e la

sua soddisfazione.

7. I poteri amministrativi: i poteri autorizzatori (in particolare: potere pubblico, accesso al mercato e

liberalizzazione.

Gli elementi dei principali poteri amministrativi sono trasfusi nei provvedimenti finali che ne costituiscono

esercizio e di cui la legge definisce i tipi.

I principali poteri amministrativi sono costituiti da:

– poteri autorizzatori;

– poteri concessori;

– poteri ablatori;

– poteri sanzionatori;

– poteri di ordinanza;

– poteri di programmazione e di pianificazione;

– poteri di imposizione di vincoli;

– poteri di controllo.

Il potere autorizzatorio ha l'effetto di rimuovere i limiti posti dalla legge all'esercizio di una preesistente

situazione di vantaggio e il suo svolgimento comporta la previa verifica della compatibilità di tale esercizio

con l'interesse pubblico.

L'uso di tale potere, a fronte del quale il destinatario si presenta titolare di interessi legittimi pretensivi,

produce dunque l'effetto giuridico di modificare una situazione soggettiva preesistente, consentendone

l'esplicazione (se potere) o l'esercizio (se diritto) in una direzione in precedenza preclusa, ma non di

costituire nuovi diritti.

L'ordinamento ritiene qui sufficiente “appoggiarsi” alla iniziativa di un soggetto (in genere un privato),

limitandosi a condizionarne lo svolgimento. Attraverso l'esercizio del potere autorizzatorio,

l'amministrazione esprime il proprio consenso preventivo all'attività progettata dal richiedente (esempio di

provvedimento permissivo: permesso di costruire, d.p.r. 380/2001). L'iniziativa, dunque, è sempre del

soggetto autorizzato e questi può cessare l'attività intrapresa senza che l'amministrazione debba attivarsi al

fine di sostituirsi ad esso per garantire il risultato finale.

L'autorizzazione non si limita in genere a consentire l'esercizio di una situazione di vantaggio preesistente

(potere o diritto): spesso l'ordinamento tende a rendere in qualche modo servente l'interesse privato rispetto a

quello pubblico, conformando l'azione del privato in vista di quest'ultimo interesse. L'autorizzazione spesso addirittura instaura una relazione tra soggetto pubblico e soggetto privato caratterizzata dalla presenza di

poteri di controllo e di vigilanza e dei limiti imposti all'esercizio dell'attività consentita mediante atto autorizzatorio. Ciononostante,

nei limiti in cui sia assente la garanzia pubblicistica del risultato finale, il provvedimento ha natura autorizzatoria.

Parte della dottrina e della giurisprudenza riconosce, invece, all'autorizzazione carattere costitutivo di una nuova situazione giuridica:

tale tesi è però priva di fondamento, se si pensa al concetto di relatività delle situazioni giuridiche.

Se si accetta il criterio dell'assenza della “garanzia del risultato”, va riconosciuta natura autorizzatoria anche

a quei provvedimenti permissivi che sono previsti nelle situazioni in cui esiste una “barriera” all'accesso di

peculiari mercati o un loro contingentamento. Infatti, in assenza dell'iniziativa dei privati l'amministrazione

non sarebbe in grado di raggiungere il risultato di offerta di determinati beni o di servizi.

L'introduzione di un regime autorizzatorio è caratterizzata dal previo riconoscimento di una sfera soggettiva

di vantaggio, al quale, contestualmente, si accompagna la previsione in via generale e astratta di limitazioni

che eventualmente l'amministrazione rimuove in via puntuale e concreta esercitando il relativo potere.

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L'apposizione del limite in via generale è normalmente operata contestualmente alla previsione del potere

della pubblica amministrazione di consentire in via concreta l'esercizio della situazione stessa. L'apparente

deroga (ad un generale divieto) costituita dall'autorizzazione va dunque in realtà riferita alla norma che

introduce un limite al diritto attribuito dall'ordinamento. L'ordinamento prevede oggi un esempio di autorizzazione plurima “riepilogativa” di una serie di atti di consenso: ove il

procedimento dello sportello unico delle attività produttive si concluda con un provvedimento espresso costituente titolo unico per la

realizzazione dell'intervento, esso “riassume” i vari atti di assenso richiesti dalla legge. Nell'ordinamento è anche presente

l'autorizzazione integrata ambientale (d.lgs. 152/2006), che sostituisce a tutti gli effetti ogni visto, parere o autorizzazione in materia

ambientale.

Dal ceppo comune dell'autorizzazione, dottrina e, in parte, giurisprudenza hanno enucleato figure specifiche: abilitazione, nullaosta,

dispensa, approvazione, licenza.

Le abilitazioni.

Le abilitazioni sono atti il cui rilascio è subordinato all'accertamento dell'idoneità tecnica di soggetti a

svolgere una certa attività. L'efficacia abilitante è ad esempio collegata dalla legge al superamento di un

esame e all'iscrizione ad un albo: le abilitazioni vanno quindi ricondotte allo schema norma-fatto-effetto (no

presenza di un potere procedimentale).

L'omologazione è rilasciata dall'autorità a seguito dell'accertamento della sussistenza in una cosa, di norma

destinata ad essere prodotta in serie, di tutte le caratteristiche fissate dall'ordinamento a fini di tutela

preventiva (prodotti pericolosi) o per esigenze di uniformità dei modelli (valgono le stesse considerazioni

delle abilitazioni).

Il nullaosta.

– E' un atto endoprocedimentale necessario;

– è emanato da un'amministrazione diversa da quella procedente, con cui si dichiara che, in relazione ad un particolare

interesse, non sussistono ostacoli all'adozione del provvedimento finale (l'assenso dell'amministrazione riguarda non il

provvedimento nel suo complesso, ma la sua compatibilità con l'interesse da essa curato);

– attiene ai rapporti tra diverse amministrazioni (anche se a volte legge, dottrina e giurisprudenza utilizzano il termine con

riferimento a provvedimenti autorizzatori direttamente rivolti ai privati);

– il suo diniego costituisce fatto impeditivo della conclusione del procedimento (ma ciò è destinato a mutare, in quanto la

disciplina della conferenza di servizi – artt.14 e ss. l.241/1990 – consente di superare il dissenso manifestato

dall'amministrazione negando il nullaosta (inoltre, tale disciplina annovera il nullaosta tra gli atti di consenso o di assenso:

artt. 14 e 19).

La dispensa è il provvedimento espressione del potere che l'ordinamento, pur vietando o imponendo in via

generale in certo comportamento, attribuisce all'amministrazione consentendole in alcuni casi di derogare

all'osservanza del relativo divieto o obbligo. A differenza di ciò che accade nell'autorizzazione, la situazione di partenza del destinatario non è caratterizzata dall'esistenza di una

posizione soggettiva tendenzialmente libera (pur se soggetta a limite superabile dall'amministrazione), ma è una posizione di dovere

o obbligo di non fare (es. dispensa del servizio militare). Se la deroga ad un divieto generale avviene in base allo schema normafatto-

effetto (no potere) si parla di esenzione.

L'approvazione.

L'approvazione è il provvedimento permissivo, avente ad oggetto (non già un comportamento, ma) un atto

rilasciato, a seguito di una valutazione di opportunità e convenienza dell'atto stesso. Essa opera dunque come

condizione di efficacia dell'atto ed è successiva ad esso.

Nell'ambito dei procedimenti di controllo è talora impiegata l'approvazione condizionata, che significa in

realtà annullamento con indicazione dei correttivi necessari per conseguire l'approvazione (se

l'amministrazione attiva si adegua, essa si traduce in atto di controllo positivo). Essa è legittima se non si

risolve in un'inammissibile sostituzione della sfera di scelta dell'organo attivo.

La licenza.

La licenza (che la legge tende oggi a sostituire con l'autorizzazione) è il provvedimento che permette lo

svolgimento di un'attività previa valutazione della sua corrispondenza ad interessi pubblici, ovvero della sua

convenienza in settori non rientranti nella signoria dell'amministrazione ma sui quali essa soprintende a fini

di coordinamento.

Tutti questi provvedimenti (eccetto la dispensa) rientrano nell'ambito del potere autorizzatorio. Tali atti sono

individuati dalla l. 241/1990 – unitamente alle concessione – con la nozione “atti di consenso”. Essi possono

essere sostituiti dai meccanismi della segnalazione di inizio attività (art. 19) ovvero possono essere

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assoggettati alla disciplina del silenzio assenso (art. 20). In forza dell'applicazione combinata degli artt. 19 e

20, lo spazio per le autorizzazioni “espresse” risulta a prima vista ridotto. Tuttavia, l'art. 20 prevede un

rilevante numero di eccezioni in ordine alle quali l'amministrazione deve provvedere espressamente, tali da

comprimere in modo significativo il campo d'applicazione dell'istituto. Le autorizzazioni espresse attengono

sostanzialmente alla cura di “interessi critici”, che fondano le eccezioni ex art. 20. Inoltre, l'effetto

autorizzatorio prodotto mediante silenzio è mantenuto (e non sostituito dall'art.19) in funzione di consenso

all'iniziativa dei privati nei casi in cui, al di fuori dell'area degli interessi critici, si tratti di concessioni

traslative, ovvero vi siano discrezionalità ovvero contingentamento dell'attività oppure programmazione

settoriale per il loro rilascio.

La tendenza alla riduzione del regime autorizzatorio e alla liberalizzazione delle attività dei privati.

La tendenza alla sostituzione degli atti permissivi con il meccanismo del silenzio assenso o della

segnalazione di inizio attività (ove il privato può agire senza necessità di ottenere un'autorizzazione) oppure

alla loro eliminazione è affiorata spesso nella legislazione recente, preoccupata di ridurre gli ostacoli

all'esercizio della libertà di iniziativa economica (liberalizzazione), anche come conseguenza del

rafforzamento del valore della concorrenza dall'ordinamento dell'UE. L'attuale disciplina della l.241/1990, oltre a contenere, in forza della previsione di alcune deroghe, l'ambito di applicazione del

silenzio assenso e della segnalazione di inizio attività, ha mantenuto taluni poteri di condizionamento e di autotutela anche per le

attività assoggettate a segnalazione di inizio attività.

La disciplina di cui al d.lgs. 59/2010 pur non riguardando la generalità dei regimi autorizzatori, incide

comunque su essi. Il decreto si occupa anche del tema della semplificazione, disciplinando lo sportello unico per le attività produttive, cui possono

rivolgersi i prestatori di servizi. Il decreto si applica a “qualunque attività economica, di carattere imprenditoriale o professionale,

svolta senza vincolo di subordinazione, diretta allo scambio di beni o alla fornitura di altra prestazione anche a carattere intellettuale.

Esclusioni (artt.2 e ss.): la disciplina recede rispetto a regimi speciali e non si applica ai servizi correlati a poteri pubblici, ad alcuni

servizi sociali,ecc. Ai sensi del decreto, costituisce servizio “qualsiasi prestazione anche a carattere intellettuale svolta in forma

imprenditoriale o professionale, fornita senza vincolo di subordinazione e normalmente dietro retribuzione” (non sono dunque

ricompresi i servizi non economici). Per quanto concerne l'iscrizione ad albi, elenchi o registri in relazione alle attività professionali

regolamentate, stabilisce che inutilmente decorsi due mesi dalla domanda, che va presentata all'ordine o al collegio, si forma il

silenzio assenso. Nei limiti del decreto, “l'accesso e l'esercizio delle attività di servizi costituiscono espressione della libertà di

iniziativa economica e non possono essere sottoposti a limitazioni non giustificate o discriminatorie” (mentre sono ammessi limiti

legati alla sussistenza di motivi imperativi di interesse generale).

Liberalizzazione dei servizi sul mercato interno e regime autorizzatorio.

Fatte salve le disposizioni istitutive e relative ad ordini, collegi e albi professionali, i regimi autorizzatori

possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale , nel

rispetto dei principi di non discriminazione, di proporzionalità e delle disposizioni introdotte dal decreto. Sono motivi imperativi di interesse generale: ragioni di pubblico interesse, tra cui ordine pubblico, sicurezza pubblica, incolumità

pubblica, sicurezza stradale, tutela dei lavoratori (compresa la protezione sociale di essi), mantenimento dell'equilibrio finanziario del

sistema di sicurezza sociale, tutela dei consumatori, dei destinatari di servizi e dei lavoratori, equità delle transazioni commerciali,

lotta alla frode, tutela dell'ambiente (incluso quello urbano), salute degli animali, proprietà intellettuale, conservazione del patrimonio

nazionale storico e artistico, obiettivi di politica sociale e politica culturale. Nelle materie di legislazione concorrente, le regioni

possono istituire o mantenere albi, elenchi, sistemi di accreditamento e ruoli, solo nel caso in cui siano previsti tra i principi generali

determinati dalla legislazione dello Stato.

L'autorizzazione, dunque, si configura come regime eccezionale rispetto alla libera prestazione.

Il numero dei titoli autorizzatori per l'accesso e l'esercizio di un'attività di servizi, in ogni caso, può essere limitato solo se sussiste un

motivo imperativo di interesse generale o per ragioni correlate alla scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche disponibili .

Ai fini del titolo autorizzatorio si segue il procedimento ex art. 19 della l.241/1990, o, se è così previsto, quello ex art.20: solo nei

casi in cui sussiste un motivo imperativo di interesse generale può essere imposto che il procedimento si concluda con l'adozione di

un provvedimento espresso. Il termine per la conclusione del procedimento decorre dal momento in cui il prestatore ha presentato

tutta la documentazione necessaria ai fini dell'accesso all'attività e al suo esercizio (viene rilasciata una ricevuta che indica il termine

previsto per la conclusione del procedimento, i mezzi di ricorso previsti e, salvi i casi in cui è previsto che il procedimento si

conclude con l'adozione di un provvedimento espresso, la menzione che, in mancanza di risposta entro il termine, l'autorizzazione si

intende rilasciata). Ove il numero di titoli autorizzatori disponibili per una attività di servizi è limitato per scarsità delle risorse

naturali o delle capacità tecniche disponibili, le autorità competenti applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali e

assicurano la predeterminazione e la pubblicazione, nelle forme previste dai propri ordinamenti, dei criteri e delle modalità atti ad

assicurarne l'imparzialità (in questi casi il titolo è rilasciato per una durata limitata).

L'autorizzazione permette al prestatore di accedere all'attività di servizi e di esercitarla su tutto il territorio nazionale (salvo che un

motivo imperativo di interesse generale imponga limitazioni), anche mediante l'apertura di rappresentanze, succursali, filiali o uffici.

L'autorizzazione, in linea di principio (ci sono eccezioni), ha durata illimitata.

Liberalizzazione, crisi e sviluppo economico.

Il decreto 59/2010 si limita sostanzialmente a tradurre sul piano interno la disciplina della direttiva

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206/123/CE , ma manca una chiara indicazione degli spazi “liberi” di cui può fruire l'iniziativa economica

privata.

Di liberalizzazioni si è poi occupato il legislatore nel quadro delle manovre assunte, a fronte della crisi, per la

crescita e lo sviluppo dell'economia del Paese. In questo contesto si collocano:

1. d.l. 138/2011, conv. nella l. 148/2011;

2. d.l. 201/2011 conv. nella l. 214/2011;

3. d.l. 1/2012 conv. nella l. 27/2012.

1. D.l. 138/2011:

– opera sul versante delle professioni e delle attività economiche;

– stabilisce il principio – cui i vari ordinamenti debbono adeguarsi entro il 30 settembre 2012 –

secondo cui l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è

espressamente vietato dalla legge (con indicazione dei vincoli ammissibili: quelli derivanti da

ordinamento dell'UE e obblighi internazionali; contrasto con principi fondamentali della

Costituzione; danno alla sicurezza, libertà, dignità umana; contrasto con l'utilità sociale; disposizioni

indispensabili per la salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell'ambiente,

del paesaggio e del patrimonio culturale; disposizioni che comportano effetti sulla finanza pubblica),

con conseguente applicazione della Scia (segnalazione inizio attività) e dell'autocertificazione con

controlli successivi ;

– allo scadere del termine le disposizioni incompatibili sono soppresse (norma dichiarata

incostituzionale nella parte in cui dispone la soppressione automatica delle norme incompatibili);

– ove fa riferimento alle restrizioni (artt. 6 e ss.), configura alcuni regimi autorizzatori che limitano

l'ingresso a specifici mercati (eccetto quando il contingentamento è operato sulla base della

popolazione o di altri criteri di fabbisogno) e quelli basati sulla valutazione pubblica del bisogno

(restrizioni). Le disposizioni relative all'introduzione di restrizioni all'accesso e all'esercizio di

attività economiche devono essere oggetto di interpretazione restrittiva. Restrizioni ulteriori possono

essere revocate con regolamento ex art. 17, co 2 della l. 400/1988; – accesso alle professioni regolamentate: fermo restando l'esame di Stato, gli ordinamenti professionali devono garantire che

l'esercizio dell'attività risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza, alla presenza diffusa dei professionisti sul

territorio nazionale, alla differenziazione e pluralità di offerta che garantisca l'effettiva possibilità di scelta degli utenti

nell'ambito della più completa informazione relativamente ai servizi offerti. Inoltre, la durata del tirocinio non potrà essere

superiore ai 18 mesi.

2. D.l. 201/2011:

– non si applica ad alcuni settori (professioni; trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non

di linea; servizi finanziari);

– ribadisce il principio secondo cui la disciplina delle attività economiche è improntata al principio di

libertà d'accesso, di organizzazione e di svolgimento, fatte salve le esigenze imperative di interesse

generale, costituzionalmente rilevanti e compatibili con l'ordinamento dell'UE, che possono

giustificare l'introduzione di previ atti amministrativi di assenso o autorizzazione o controllo, nel

rispetto del principio di proporzionalità;

– abroga immediatamente molte restrizioni;

– definisce un regime minimo per le autorizzazioni (ove sia stabilita la necessità di alcuni requisiti per

l'esercizio di attività economiche, la loro comunicazione alle autorità competenti deve poter essere

sempre data tramite autocertificazione e l'attività può subito iniziare, salvo il successivo controllo

amministrativo, da svolgere in un termine definito.

3. D.l. 1/2012:

– abroga tutte le norme limitative;

– ribadisce il vincolo a operare interpretazioni restrittive delle disposizioni limitative (le disposizioni

recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all'accesso ed all'esercizio delle attività economiche

sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente

proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei principi

costituzionali).

Ove ancora si intrecciano liberalizzazione e de-regolamentazione occorrerà attendere l'emanazione dei

regolamenti, che dovranno inoltre individuare limiti, programmi e controlli ragionevoli e proporzionati

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rispetto alle finalità pubbliche dichiarate.

I regimi autorizzatori saranno possibili soltanto se giustificati dalla sussistenza di interessi generali,

costituzionalmente rilevanti e compatibili con l'ordinamento dell'UE.

Specifiche norme sono state dettate in tema di commercio, farmacie e servizio di trasporto con l'istituzione di

un'apposita autorità di regolazione dei trasporti (art. 37, d.l. 201/2012 conv. nella l. 214/2012).

8. I poteri concessori.

L'esercizio dei poteri concessori, a fronte dei quali il destinatario si presenta come titolare di interessi

legittimi pretensivi, produce l'effetto di attribuire al destinatario medesimo status e situazioni giuridiche

(diritti) che esulavano dalla sua sfera giuridica in quanto precedentemente egli non ne era titolare . Al

concessionario è spesso attribuita una posizione di “privilegio” rispetto agli altri soggetti. La circostanza che

si tratti di poteri accrescitivi e che attengano a beni limitati comporta che il relativo procedimento sia spesso

caratterizzato da una scelta tra più soggetti.

In ordine alle concessioni di beni e di pubblici servizi, accanto al provvedimento con il quale si esercita il

potere concessorio amministrativo, si può spesso individuare una convenzione bilaterale di diritto privato

(questa, unitamente alla concessione, dà luogo alla c.d. Concessione-contratto), finalizzata a dar assetto ai

rapporti patrimoniali tra concessionario e concedente. I due atti sono strettamente legati: l'annullamento della

concessione travolge il contratto (la permanenza del rapporto contrattuale è quindi condizionata dalla

vigenza del provvedimento concessorio; se sorgono controversie tra concedente e concessionario, la loro

cognizione spetta al giudice amministrativo).

Concessione traslativa e costitutiva.

La concessione è:

– traslativa quando il diritto preesiste in capo all'amministrazione, sicchè esso è “trasmesso” al

privato, che risulta così privilegiato rispetto ad altri consociati (es.: concessione di servizi pubblici);

– costitutiva quando il diritto attribuito è totalmente nuovo, nel senso che l'amministrazione non

poteva averne la titolarità (es.: concessione di cittadinanza).

L'art. 19 della legge 241/1990 prevede la sostituzione con la segnalazione di inizio attività delle concessioni

non costitutive e quindi, sembrerebbe, di quelle traslative. In realtà sembra preferibile ritenere che la legge

intenda riferirsi a quegli atti che, ancorché definiti concessioni, non sono tali. L'amministrazione non trasferisce un potere al privato: il soggetto pubblico può soltanto consentirne l'esercizio al concessionario.

La vicenda concessoria traslativa non presenta problemi quando è attinente a beni pubblici: infatti, al privato,

in assenza di concessione, sarebbe precluso lo sfruttamento delle utilitates connesse al bene.

Dubbi si profilano invece quando è attinente ad opere pubbliche e servizi pubblici.

Concessioni di opere pubbliche.

La legislazione mira ad equipararle all'appalto o, quanto meno, a limitare la discrezionalità di cui gode

l'amministrazione chiamata a rilasciarle (l'amministrazione ha infatti la possibilità di scegliere

discrezionalmente il privato chiamato a sostituirsi ad essa in situazioni in ordine alle quali il soggetto

pubblico non dispone di adeguata organizzazione) al fine di evitare che essa possa svincolarsi dalle regole

poste a tutela della concorrenza (non a caso, la legislazione recente definisce questo tipo di concessioni

“contratti”).

Concessioni di servizi pubblici.

La dottrina aveva affermato la natura contrattuale di questa figura, che ricorre allorché l'ordinamento intenda

garantire ai privati alcune prestazioni e attività e consenta all'amministrazione di affidarne lo svolgimento a

soggetti privati mediante un provvedimento concessorio. Problema ridimensionato, perché questo tipo di

concessione è stato eliminato in relazione ai servizi pubblici locali a rilevanza economica. Talora assume

rilevanza essenziale nell'economia del rapporto la convenzione bilaterale stipulata tra amministrazione e

concessionario: in essa si esaurirebbero, cioè, tutte le scelte relative all'esercizio del servizio, e l'esercizio del

potere concessorio non si concretizzerebbe in un provvedimento autonomo. In tal modo la concessione

sembra essere relegata in una posizione secondaria, potendo addirittura essere sostituita dal contratto.

Tuttavia, almeno con riferimento alla concessione dei beni, la disposizione di essi deve avvenire mediante

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atti di natura pubblicistica, anche se questo non esclude che in alcune ipotesi possa ricorrere un accordo

bilaterale in luogo del provvedimento unilaterale. La riconduzione delle concessioni (almeno di quelle per le

quali non è prevista una specifica disciplina) nell'ambito degli accordi è anzi l'opzione che meglio consente

di far convivere carattere pubblico del potere, presenza di contrattazione e esigenza di non frazionare la

fattispecie. La tesi dunque secondo cui il potere esercitato dall'amministrazione sia meramente privatistico

non è condivisibile. L'art. 21-quinquies, tuttavia, sembra presupporre che la concessione si articoli su due

piani: quello del provvedimento e quello di un accordo bilaterale negoziale che ad esso acceda.

Dunque, i caratteri essenziali della concessione traslativa sono:

– attribuzione di una posizione di vantaggio/privilegio a un soggetto terzo sulla base di un accordo

– sostituzione del concessionario nello svolgimento di un compito dell'amministrazione,

assumendosene il rischio (il soggetto concessionario infatti agisce sotto il controllo

dell'amministrazione, ma gestendo in proprio l'attività e il rischio).

La crisi (teorica) della concessione.

Differenza concessione-autorizzazione:

– crisi se si assume che l'autorizzazione abbia effetto costitutivo → tuttavia se si segue la tesi secondo cui l'autorizzazione

non ha effetto costitutivo di diritti si può individuare la linea distintiva tra i due provvedimenti;

– la concessione (in particolare quella di servizi) non sempre attiene ad attività riservate all'amministrazione: posto che i

privati potrebbero comunque svolgere quell'attività in assenza di concessione, non è facile individuare l'effetto accrescitivo

conseguente. Il provvedimento assumerebbe al più un carattere organizzatorio e servirebbe (non già a costituire diritti,

bensì) a conferire ai privati la titolarità di uffici. In entrambi i casi il privato a seguito del provvedimento è chiamato a

svolgere un'attività non riservata all'amministrazione, pur se in varia misura subordinata all'interesse pubblico. Tuttavia

solo a monte della concessione di servizi sussiste l'assunzione della garanzia del risultato: sicché solo nel caso di

concessione si trasferisce al privato il dovere di garantire il servizio pubblico, che invece non sussiste nel caso di

autorizzazione.

A seguito della liberalizzazione, il regime concessorio è spesso sostituito con quello autorizzatorio.

Le concessioni e la l. 241/1990.

Secondo parte della dottrina opererebbe nel settore delle concessioni l'art. 1 co.1-bis l. 241/1990 secondo cui

“la pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di

diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. Poiché si tratta di procedimenti a istanza di parte,

per tutte le concessioni opera il meccanismo del silenzio assenso ex art. 20, sempre che non ricorrano le

esclusioni previste.

Le ammissioni.

Due tesi:

– Dottrina tradizionale → In relazione ai servizi pubblici gestiti dalla pubblica amministrazione e rivolti ai singoli utenti che

ne fanno richiesta, l'ammissione (es.: ammissione al servizio scolastico o al servizio sanitario) è definita come l'atto che

attribuisce al singolo il diritto alla “prestazione” e, quindi, al godimento del servizio stesso . Tale atto instaurerebbe dunque

un rapporto di natura amministrativa tra ente e utente.

– Altri → L'ammissione è l'atto che consente al singolo di far parte di una certa organizzazione o categoria professionale al

fine di renderlo partecipe di determinati diritti, servizi o vantaggi. Tale atto attribuirebbe quindi uno status.

In ogni caso:

– sempre più spesso i servizi pubblici non sono svolti in forma amministrativa, sicché la loro fruizione consegue alla

stipulazione di un contratto di diritto comune;

– nei limiti in cui l'ammissione consista nel mero accertamento di determinate situazioni di fatto o della preesistenza di un

diritto già configurato dalla legge, essa non ha natura provvedimentale ma si risolve in un mero atto.

Secondo la dottrina, nella concessione di beni, atteso in carattere non personale del rapporto, il concessionario può disporre del

proprio diritto, salvo diversa previsione di legge o dell'atto di concessione (nel silenzio della legge non è invece possibile il

trasferimento della concessione di servizi).

Le sovvenzioni.

Le sovvenzioni attribuiscono al destinatario vantaggi economici. Tale categoria è disciplinata dall'art. 12

l.241/1990 che si riferisce a:

– sovvenzioni → riguardano lo svolgimento di attività imprenditoriali

– contributi → attengono ad attività culturali o sportive

– sussidi → attribuzioni rientranti nella beneficenza generale

– ausili finanziari

– attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati. Il vantaggio può essere diretto (erogazione di somme) o indiretto (sgravi da alcuni oneri) e non sussiste l'obbligo, in capo al

beneficiario, di pagare alcun corrispettivo (si può dunque ravvisare, a differenza delle altre ipotesi concessorie, un intento di

liberalità).

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L'art.12 prevede che, nelle forme prescritte dai rispettivi ordinamenti, vengano predeterminati e pubblicati

“criteri e modalità cui le amministrazioni devono attenersi”. Qui il meccanismo del silenzio assenso sembra

non poter operare. Ex art. 26 d.lgs. 33/2013 la pubblicazione “costituisce condizione legale di efficacia dei

provvedimenti che dispongono concessioni e attribuzioni di importo complessivo superiore a mille euro nel

corso dell'anno solare al medesimo beneficiario”. Le pubbliche amministrazioni pubblicani gli atti con i quali sono determinati criteri e modalità ex art. 12 e gli atti di concessione dei

benefici.

La concessione edilizia non ha natura concessoria. La Corte Costituzionale (sent. 5/1980) ha negato il

carattere costitutivo della concessione edilizia, affermando l'inerenza del diritto di edificare alla proprietà e la

conseguente illegittimità della disciplina dell'indennità di espropriazione. La disciplina posta dalla l.10/1977

(c.d. Legge Bucalossi), prevedendo la sottoposizione a concessione dell'attività di trasformazione

urbanistico-edilizia, pareva operare lo scorporo dello ius aedificandi dal contenuto del diritto di proprietà,

attribuendo la facoltà di edificare alla pubblica amministrazione. La sentenza citata ha sostanzialmente ha

così aperto la via alla sua qualificazione come autorizzazione. Il testo unico delle disposizioni legislative e

regolamentari in materia edilizia (d.p.r. 380/2001) prevede la eliminazione della figura della concessione,

sostituendola con quella del “ permesso a costruire ” .

9. I poteri ablatori.

I poteri ablatori:

– incidono negativamente sulla sfera giuridica del privato;

– hanno segno opposto rispetto a quelli concessori → impongono obblighi (privando il soggetto della

libertà di scegliere se agire: ablatori personali) ovvero sottraggono situazioni favorevoli in

precedenza pertinenti al privato, attribuendole di norma, ma non necessariamente,

all'amministrazione (ablatori reali);

– a fronte del loro esercizio il destinatario si presenta come titolare di interessi legittimi oppositivi;

– l'effetto ablatorio può incidere su diritti reali (espropriazioni; occupazioni; requisizioni; confische; sequestri),

diritti personali (ordini) o obblighi a rilevanza patrimoniale (attengono al tema delle prestazioni imposte).

L'espropriazione.

L'espropriazione è il provvedimento che ha l'effetto di costituire un diritto di proprietà o altro diritto reale in

capo ad un soggetto (espropriante: non necessariamente si tratta dell'amministrazione che emana il

provvedimento), previa estinzione del diritto in capo ad altro soggetto (espropriato) al fine di consentire la

realizzazione dei un'opera pubblica o per altri motivi di pubblico interesse e dietro versamento di un

indennizzo ex art. 42, co.3 Costituzione.

La disciplina dell'espropriazione per pubblica utilità è contenuta nel testo unico di cui al d.p.r. 327/2001

(di

seguito T.U.).

Corte Costituzionale, sent. n. 348/2007:

– incompatibilità della disciplina dell'indennizzo introdotta dall'art. 5-bis d.l. 333/1192 (conv. In

l.359/1992) con l'art. 1 del Primo Protocollo allegato alla CEDU (così come interpretato dalla Corte

dei diritti dell'uomo) → illegittimità della normativa per contrasto con l'art. 117, co.1 Cost.;

– l'indennizzo non può essere slegato dal valore di mercato (anche se la Corte non esclude un margine

di intervento legislativo che tenga conto della funzione sociale della proprietà).

Legge 244/2007:

– modifica la disciplina del d.lgs. 327/2001;

– nel caso di esproprio di area edificabile, l'indennità è pari al valore venale del bene;

– se l'espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, l'indennità è

ridotta del 25%;

– se è stato concluso accordo di cessione, o esso non è stato concluso per fatto non imputabile

all'espropriato ovvero perché a questo è stata fatta offerta di un'indennità provvisoria che,

attualizzata, è inferiore agli 8/10 di quella determinata in via definitiva, l'indennità è aumentata del

10%.

L'esercizio del potere d'esproprio concernente beni sottoposti a vincolo quinquennale ai fini dell'esproprio in

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116

conseguenza – di norma – dell'approvazione di un piano urbanistico generale si articola: a. nella previa

dichiarazione (esplicita o implicita, cioè assorbita nell'approvazione di alcuni progetti o piani) di pubblica

utilità delle opere e b. nella successiva espropriazione.

L'occupazione temporanea.

La possibilità di procedere all'occupazione temporanea di alcuni beni è disciplinata all'art. 49 T.U., secondo

il quale essa può essere disposta quando ciò sia “necessario per la corretta esecuzione dei lavori”,

prevedendo la relativa indennità. L'ipotesi più rilevante era costituita dall'occupazione d'urgenza e riguardava il possesso delle cose destinate all'espropriazione

allorché la realizzazione dell'opera per la quale si procedeva fosse dichiarata indifferibile ed urgente, ed era accompagnata

dall'obbligo di pagare un indennizzo. Talora accadeva che, pur in presenza di un'opera realizzata durante la pendenza del

procedimento di occupazione temporanea, l'amministrazione non riusciva a concludere nei termini il procedimento espropriativo.

Sempre che si fosse realizzata l'irreversibile trasformazione dell'immobile, si produceva comunque l'acquisto della proprietà di esso a

favore dell'amministrazione, tenuta a risarcire il danno, e al privato era preclusa la possibilità di ottenere la restituzione del bene

(occupazione acquisitiva o accessione invertita: al riguardo si distingue tra occupazione usurpativa, laddove manchi ab initio il

titolo

giuridico – cioè la dichiarazione di pubblica utilità – e occupazione appropriativa, nei casi in cui sia stata avviata una procedura di

espropriazione, ma difetti il decreto di esproprio). Il Consiglio di Stato ha statuito (Ad. Plen. 2/2005) che l'amministrazione è tenuta a

restituire il bene espropriato a seguito di occupazione acquisitiva ancorché l'area abbia subito una irreversibile trasformazione, posto

che ciò non trasferisce la proprietà.

Per i casi in cui venga realizzata l'opera in mancanza della dichiarazione di pubblica utilità, l'art. 42-bis T.U. prevede che “l'autorità

che utilizzi per scopi di interesse pubblico e senza titolo un bene modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di

esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al

proprietario vada corrisposto un indennizzo”. È inoltre previsto un risarcimento del danno per il periodo di occupazione senza titolo.

Ove però l'amministrazione non proceda in questo senso (dunque al privato non è garantito alcun indennizzo) la proprietà non si

trasferisce in capo all'amministrazione e rimane astrattamente aperta la sola via risarcitoria, ferma restando la risarcibilità del danno

derivante dall'occupazione.

Le requisizioni.

Le requisizioni sono provvedimenti mediante i quali l'amministrazione dispone della proprietà o, comunque,

utilizza un bene di un privato per soddisfare un interesse pubblico. a. Requisizioni in proprietà:

– riguardano solo cose mobili;

– possono essere disposte, generalmente per esigenze militari, dietro corresponsione di indennità;

– hanno effetto irreversibile.

b. Requisizioni in uso:

– presupposto → urgente necessità (di cura di un'esigenza della collettività insuscettibile di essere soddisfatta altrimenti);

– riguarda beni sia mobili sia immobili;

– comporta la possibilità di poter utilizzare il bene (che rimane in proprietà del titolare) per il tempo necessario e pagando

un'indennità

– si differenzia dall'espropriazione (che non è temporanea) e dalle ordinanze di necessità e di urgenza (che non prevedono la

corresponsione di un indennizzo)

c. requisizioni di attività → se ne parla in dottrina per indicare le ipotesi in cui viene ingiunto al privato di svolgere una certa attività.

Art. 7, l. 2248/1865 → “Allorché per grave necessità pubblica l'autorità amministrativa debba senza indugio

disporre della proprietà privata [...], essa procederà con decreto motivato , sempre però senza pregiudizio dei

diritti delle parti”. Tale disposizione è applicabile ogniqualvolta altra prescrizione conferisca

all'amministrazione il potere di disporre della proprietà del privato.

La confisca è un provvedimento ablatorio a carattere (non espropriativo, ma) sanzionatorio ed è la misura

conseguente alla commissione di un illecito amministrativo.

Il sequestro è il provvedimento ablatorio di natura cautelare: mira, in genere, a salvaguardare la collettività

dai rischi derivanti dalla pericolosità del bene. Art. 13, l.689/1981: è ammesso il sequestro cautelare di tutte le cose che possono formare oggetto di confisca a titolo di sanzione

accessoria rispetto alle sanzioni amministrative pecuniarie.

Gli ordini hanno l'effetto di imporre un comportamento al destinatario. Si distinguono in: comandi (ordini di

fare) e divieti (ordine di non fare); generali e particolari. Alcuni ordini sono rivolti non ai privati, bensì ai dipendenti. Talora è caratterizzato, sotto il profilo funzionale, per il fatto che mira a

conformare l'attività dei privati.

Dagli ordini si distinguono:

– le direttive (minore vincolatività rispetto agli ordini);

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117

– la diffida, cioè il formale avvertimento ad osservare un obbligo che trova il proprio fondamento in altro provvedimento o

nella legge (mentre l'ordine crea l'obbligo).

I poteri ablatori patrimoniali:

– impongono obblighi a rilevanza patrimoniale;

– hanno come effetto la costituzione autoritativa di rapporti obbligatori (es.: provvedimenti prezzi;

prestazioni imposte).

In particolare, con riferimento agli atti che creano un obbligo di dare, l'acquisto del diritto a favore

dell'amministrazione avviene (non già direttamente a seguito del provvedimento, bensì) come conseguenza

dell'adempimento dell'obbligo di dare da parte del privato.

10. I poteri sanzionatori.

Sono un’ulteriore categoria di poteri il cui esercizio produce effetti sfavorevoli in capo al destinatario.

Sanzione (intesa in senso generale): la conseguenza (diretta e immediata) sfavorevole di un illecito

applicata coattivamente dallo Stato o da altro ente pubblico.

Illecito: violazione di un precetto compiuta da un soggetto (comportamento antigiuridico)

Una sanzione è dunque una misura retributiva (inflizione di un male ritenuto maggiore rispetto al

beneficio che dalla violazione possa derivare: natura e funzione inflittiva della sanzione) nei confronti del

trasgressore, o comunque del responsabile.

NB: la sanzione potrà bensì essere applicata anche ad altri soggetti in determinati rapporti con il trasgressore,

ma mai soltanto a questi (ad esclusione del trasgressore).

Natura afflittiva e intrasmissibilità della sanzione- la l. 689/1981, legge fondamentale in materia di sanzioni amministrative richiama

all’art 11 aspetti “retributivi” peculiari del carattere afflittivo della sanzione quali la gravità della violazione, l’opera svolta

dall’agente, la sua personalità e così via, e sancisce all’art 7 la intrasmissibilità agli eredi della sanzione.

NB: anche la sanzione pecuniaria ha carattere inflittivo, nonostante consista pur sempre in un’obbligazione suscettibile di seguire le

vicende del patrimonio del trasgressore.

Caratteri della sanzione- a) carattere eminentemente afflittivo; b) è la diretta e immediata conseguenza di un

comportamento antigiuridico di un soggetto;

Non è quindi sanzione:

-la misura, di carattere preventivo e cautelare, che non presuppone l’accertamento della violazione della legge (a meno che non sia

fondata sull’accertato pericolo della violazione stessa da parte del soggetto);

-la dichiarazione di nullità o la rimozione dell’atto invalido (il soggetto rimane infatti estraneo alla considerazione normativa, che

opera solo nei confronti dell’atto);

-la reintegrazione, in qualsiasi forma, dello stato di cose antecedente alla trasgressione (da cui esula qualsiasi finalità afflittiva).

Sanzione amministrativa- Misura afflittiva non consistente in una pena criminale o in una sanzione

civile, irrogata nell’esercizio di potestà amministrative come conseguenza di un comportamento

assunto da un soggetto in violazione di una norma o di un provvedimento amministrativo o,

comunque, irrogata al responsabile cui l’illecito sia imputato.

NB: può coinvolgere solo beni che la Cost non assoggetta ad una riserva di giurisdizione (che non incidono

dunque sulla libertà personale).

Principi generali delle sanzioni amministrative- Vanno ricercati nella legislazione ordinaria costituita dalla l.

689/1981 nella quale (in virtù della “depenalizzazione”- ossia la trasformazione dei fatti previsti come reati

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118

in illeciti amministrativi) sono contenuti principi di tipo garantistico modellati almeno parzialmente su quelli

penalistici.

1)Principio di legalità: a. l’art 25 co. 2 Cost comprende anche la legge regionale come riserva assoluta; b. la

l. 689/1981 art 9, co.2 ammette che una disposizione regionale preveda una sanzione amministrativa;

2)Principio di irretroattività: l’art 1 co. 1 l. 689/1981 a. sancisce che “nessuno può essere assoggettato a

sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della

violazione”; b. non prevede tuttavia il principio di retroattività della norma successiva più favorevole (come

invece prevede il cp);

3)Principio di divieto di analogia: art 1 l. 689/1981 a. pacifico con riguardo all’analogia in malam partem; b.

controverso con riguardo all’analogia in bonam partem (alla quale si appigliano coloro che sostengono la

“non codificata” retroattività della norma più favorevole).

Tassatività delle misure sanzionatorie- La sanzione amministrativa è il risultato dell’esercizio di un potere

amministrativo. I principi di tipicità e di nominatività dei poteri e dei provvedimenti trovano corrispondenza

nella tassatività delle misure sanzionatorie espressamente affermata dall’art 1 l. 689/1981. Il procedimento

amministrativo è differente da quello penale, in primis perché l’efficacia dei provvedimenti sanzionatori è

subordinata alla loro comunicazione al destinatario (art 21-bis l. 241/1990). Quanto al profilo soggettivo del

potere, dobbiamo ricordare che anche soggetti esterni all’organizzazione amministrativa in senso proprio

possano comminare sanzioni, quali, ad esempio, il giudice penale e il pretore (oggi sostituito dal Tribunale

competente).

Art 24 l. 689/1981: “qualora l’esistenza di un reato dipenda dall’accertamento di una violazione non costituente reato, e per questa

non sia stato effettuato il pagamento in misura ridotta, il giudice penale competente a conoscere del reato è pure competente a

decidere sulla predetta violazione e ad applicare con la sentenza di condanna la sanzione stabilita dalla legge per la violazione

stessa”. Al comma 5 si stabilisce che “il pretore, quando provvede con decreto penale, con lo stesso decreto applica, nei confronti dei

responsabili, la sanzione stabilita dalla legge per la violazione”.

Sanzioni amministrative e riforme costituzionali- La l. cost. 3/2001 di riforma del titolo V della II parte della

Costituzione non elenca le sanzioni tra le materie riservate allo Stato o alla potestà legislativa concorrente.

Tuttavia pare da ammettersi che la potestà sanzionatoria possa essere ricompresa, poiché strumentale alle

funzioni, nelle varie materie elencate dall’art 117 Cost o affidate per esclusione alle regioni. Si deve

concludere che la l. 689/1981, nella parte che eccede la materia “giurisdizione e norme processuali” (di

competenza legislativa statale) sia direttamente applicabile soltanto alle sanzioni relative alle materie

riservate alla potestà legislativa statale, e soltanto per quelle di legislazione concorrente, possa valere come

disciplina contenente principi fondamentali della materia.

Classificazione delle sanzioni amministrative:

a) Sanzioni ripristinatorie: colpiscono la res e mirano a reintegrare l’interesse pubblico leso;

b) Sanzioni afflittive (le sole sanzioni in senso proprio): si rivolgono direttamente all’autore

dell’illecito e mirano a punire il colpevole;

a. Sanzioni pecuniarie b. Sanzioni interdittive: incidono sull’attività del soggetto colpito;

c) Sanzioni disciplinari: sono oggetto di una specifica regolamentazione e si riferiscono ai soggetti

che si trovano in un peculiare rapporto con l’amministrazione (che può scaturire dall’appartenenza a

comunità stabili come le scuole, oppure a comunità occasionali quali gli ospedali, oppure ancora a

corpi organizzati come i collegi professionali e i corpi militari). Hanno inoltre particolare importanza le sanzioni disciplinari nella materia del rapporto di lavoro presso le pubbliche

amministrazioni: nonostante il d.lgs 165/2001 abbia introdotto una regolamentazione specifica in tema di responsabilità

disciplinare, si discute circa il fatto che il potere disciplinare si fondi su di una supremazia speciale dell’amministrazione

distinta rispetto alla situazione del datore di lavoro privato.

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Le sanzioni disciplinari incidono talora sul patrimonio, talora sull’esplicazione dell’attività per cui il

loro carattere comune è costituito dal fatto che conseguono alla violazione di prescrizioni relative ad

uno status, non invece alla natura dell’interesse leso, oppure più in generale alla materia interessata

(spesso si parla di sanzioni tributarie, previdenziali, edilizio-urbane e così via) giacchè in tal caso la

fattispecie che risulta caratterizzata è non già la sanzione bensì l’illecito e il disvalore

d) Sanzioni accessorie: come ad esempio alcune misure interdittive, originariamente penali, consistenti

nella privazione o nella sospensione di facoltà o diritti derivanti da provvedimenti della pa.

Tutela- la giurisprudenza ha generalmente adottato il principio secondo il quale sussisterebbe:

La giurisdizione ordinaria con riferimento alle misure afflittive (in quanto esulerebbero dall’area dei

poteri autoritativi e discrezionali conferiti alla pa per la cura degli interessi pubblici) In riferimento alle sanzioni pecuniarie, contro l’ordinanza di ingiunzione di pagamento e l’ordinanza che dispone la

confisca è possibile ricorso in opposizione davanti al tribunale del luogo in cui è commessa la violazione (entro 30 giorni

dalla notificazione del provvedimento).

La giurisdizione amministrativa con riferimento alle misure ripristinatorie – o alternative rispetto a

quelle ripristinatorie Le controversie relative alle misure in materia edilizia e urbanistica sono affidate in via esclusiva al giudice amministrativo.

Illecito amministrativo e riserva di legge- La violazione del precetto dà luogo all’illecito amministrativo, per

il quale la l. 689/1981 prevede una riserva di legge. L’integrazione dell’illecito costituisce per cui il

presupposto per l’adozione della sanzione: la sua descrizione è sottratta in via di principio alle fonti

secondarie, o comunque diverse dalla legge, e ciò per evidenti ragioni di garanzia a favore dei privati

NB: la giurisprudenza ammette però la possibilità che una legge configuri come illecita la violazione di

regolamenti, ovvero consente che fonti secondarie integrino i precetti normativi.

Esiste una stretta interdipendenza tra illecito e sanzioni, tanto che spesso il legislatore si occupa spesso di

illecito nella disciplina relativa alla sanzione.

Elemento psicologico- Si richiede il dolo o la colpa (la giurisprudenza, introducendo una sorta di inversione

dell’onere della prova, afferma che spetta al trasgressore la dimostrazione dell’assenza della colpa).

11. I poteri di ordinanza, i poteri di programmazione e di pianificazione, i poteri di imposizione dei vincoli,

i poteri di controllo.

Il potere di ordinanza, esercitabile nelle situazioni di necessità e urgenza, è caratterizzato dal fatto che la

legge non predetermina in modo compiuto il contenuto della statuizione in cui il potere può concretarsi

oppure ancora consente all’amministrazione stessa di esercitare un potere tipico in presenza di situazioni

diverse da quelle previste in via ordinaria o seguendo procedure differenti.

L’esercizio di tale potere dà luogo all’emanazione delle ordinanze di necessità e urgenza, non rispettando

dunque il principio di tipicità dei poteri amministrativi che impone la previa individuazione degli elementi

essenziali dei poteri a garanzia dei destinatari degli stessi. D’altro canto tali ordinanze sono previste proprio

per far fronte a situazioni che non possono essere risolte rispettando il normale ordine delle competenze e i

normali poteri.

La corte costituzionale ha peraltro fissato alcuni limiti nel rispetto dei quali la legge che riconosce il potere di

ordinanza è compatibile con la Costituzione:

- rispetto delle riserve di legge fissate dalla costituzione e dei principi dell’ordinamento generale

- necessità di una adeguata motivazione e di efficace pubblicazione

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- efficacia limitata nel tempo

Nelle materie non coperte da riserva di legge si riconosce in dottrina che l’ordinanza possa addirittura

derogare temporaneamente alla legislazione preesistente (da qui la tesi minoritaria secondo cui le ordinanze, almeno

quelle aventi contenuto generale, avrebbero addirittura forza di legge, pur essendo soggette al sindacato del giudice amministrativo –

onde non avrebbero “valore” di legge).

Tipi di ordinanze di necessità e urgenza:

ordinanze contingibili e urgenti del sindaco

ordinanze delle autorità di pubblica sicurezza

ordinanze che possono essere adottate nelle situazioni di emergenze sanitarie o di igiene pubblica (emanate dal sindaco se si tratta di emergenze a carattere esclusivamente locale; negli altri casi dallo Stato o dalle regioni in

ragione della dimensione dell’emergenza)

ordinanze adottate dall’organo politico (in deroga al principio secondo cui i provvedimenti sono

emanati dai dirigenti)

NB: i provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati aventi carattere cautelare e urgente sono

immediatamente efficaci, a prescindere dalla loro comunicazione ai destinatari (art. 21-bis l. 241/1990).

I provvedimenti d’urgenza- Le ordinanze di necessità e urgenza vanno distinte dai provvedimenti

d’urgenza, che sono atti tipici e nominati suscettibili di essere emanati sul presupposto dell’urgenza, ma che,

tuttavia, sono di contenuto predeterminato dal legislatore (ad es. requisizione in uso).

Esempio di rilievo è a)l’ordinanza (talora il termine ordinanza è impiegato per indicare gli ordini rivolti a una pluralità di persone)

che il Ministro dell’ambiente e del territorio può emanare per ingiungere a coloro che siano risultati responsabili di illecito

ambientale il ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica, ovvero di una somma a titolo di risarcimento per

equivalente pecuniario e il cui contenuto è determinato dall’amministrazione e non già dal giudice; b) atti dei commissari adottati con

riferimento alle opere strategiche anticrisi.

I poteri di pianificazione e di programmazione- La programmazione (cui è riconducibile anche la

pianificazione) indica il complesso di atti mediante i quali l’amministrazione, previa valutazione di una

situazione nella sua globalità, individua le misure coordinate (come le modalità di azione dei soggetti, anche privati

coinvolti, le risorse necessarie, i tempi di realizzazione ecc) per intervenire in un dato settore.

Di solito i piani hanno natura normativa e/o di atti a contenuto generale, sicchè non costituiscono esercizio di

poteri aventi una autonoma fisionomia. Vi è una notevole pluralità di piani previsti dalla legge per tutela di

svariati interessi pubblici. In particolare abbiamo pianificazioni urbanistiche: a) in senso proprio (che mirano a

contemperare i vari interessi territoriali); b) territoriali (attinenti a interessi differenziati, come il paesaggio, l’ambiente, la difesa

del suolo..ecc). Questa pluralità genera il problema dell’individuazione di criteri per la soluzione di eventuali

contrasti. Se un unico territorio è destinato ad ospitare più piani, predisposti da amministrazioni diverse e

per fini anche differenti, ben possono venire poste indicazioni contrastanti. I modelli di soluzione enucleabili

sono assai numerosi: a) gerarchia dei piani; b) criterio di competenza (i vari piani dovrebbero occuparsi di problemi

differenti evitando così qualsiasi contrasto); c) gerarchia degli interessi (esso si identifica come il modello migliore: quando

viene in evidenza un interesse di rango superiore la sua gestione prevale sulla pianificazione esistente attraverso il metodo dello

stralcio o della variante);

Vincolo amministrativo- La legge attribuisce all’amministrazione il potere di sottoporre alcuni beni immobili

(che presentano peculiari caratteristiche storiche, ambientali, urbanistiche e così via) a vincolo amministrativo, il quale, di

norma, è imposto mediante piano (in altre ipotesi esso deriva direttamente dalla legge). A seguito di tale

vincolo si produce una riduzione delle facoltà spettanti ai proprietari: in genere si tratta dell’imposizione di

obblighi di fare (conservare i beni, realizzare interventi) o di non fare (modificare o alterare l’immobile). Il vincolo può

essere assoluto, se impedisce di utilizzare il bene, oppure relativo.

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L’opposizione del vincolo amministrativo consegue all’accertamento della sussistenza nel bene di preesistenti caratteri definiti in

generale dalla legge (schema norma – fatto – effetto): ciò spiega perché di norma non sussista in capo ai privati il diritto a ottenere un

indenizzo (ad es. il vincolo paesaggistico, o il vincolo urbanistico conformativo).

Taluni vincoli comportano un’incisione a titolo particolare sui caratteri fondamentali del bene, così come

risultano dal regime posto dall’ordinamento per quella categoria di beni: paradigmatico è l’esempio dei

vincoli urbanistici a tempo indeterminato di inedificabilità assoluta o preordinata all’espropriazione che, in

ragione della loro indole sostanzialmente oblatoria, svuotando cioè la proprietà del suo contenuto essenziale

secondo lo schema norma – potere – effetto, debbono essere indennizzati.

I controlli amministrativi nei confronti dei privati- Un potere di controllo simile a quello tra le relazioni

interorganiche e intersoggettive (inteso cioè come attività strumentale di “verifica” di un comportamento

alla stregua di un dato parametro e preordinata all’adozione di una “misura”) ricorre anche nei rapporti

dell’amministrazione con i privati. In particolare si hanno esempi di atti che vengono rilasciati a seguito

dell’esito positivo di un controllo sull’attività da essi svolta, il quale presuppone, di norma, l’avvenuta

instaurazione di una peculiare relazione tra privato e amministrazione che può sorgere a seguito di un atto

autorizzatorio ovvero di segnalazione di inizio attività del privato. La tendenza alla liberalizzazione indica

anche un ripensamento dei controlli, e della relativa disciplina che è spesso disorganica e frammentaria.

Ispezioni- A livello europeo deve essere ricordata la raccomandazione 2001/331/CE del Parlamento europeo

e del Consiglio, del 4 aprile 2001 che stabilisce i criteri minimi per le ispezioni ambientali, mentre, sul piano

interno, l’art 25 d.lgs 33/2013 dispone che le pubbliche amministrazioni pubblicano sul proprio sito

istituzionale l’elenco delle tipologie di controllo a cui sono assoggettate le imprese in ragione della

dimensione e del settore di attività, indicando per ciascuna di esse i criteri e le relative modalità di

svolgimento, nonché l’elenco degli obblighi e degli adempimenti oggetto delle attività di controllo che le

imprese sono tenute a rispettare per ottemperare alle disposizioni normative.

Molto rilevante è la disciplina posta dall’art. 11 l.180/2011 (“Statuto delle imprese”) ai sensi del quale le certificazioni relative a

prodotti, processi e impianti rilasciate alle imprese dagli enti di normalizzazione a ciò autorizzati e da società professionali o da

professionisti abilitati sono addirittura sostitutive della verifica da parte della pa e delle autorità competenti, fatti salvi i profili penali.

Le pa non possono richiedere alle imprese, all’esito di procedimenti di verifica, adempimenti ulteriori rispetto ai requisiti minimi

pubblicati dalle camere di commercio, né irrogare sanzioni che non riguardino esclusivamente in rispetto dei requisiti medesimi.

12. I poteri strumentali e i poteri dichiarativi. Le dichiarazioni sostitutive.

L’amministrazione, in occasione dell’esercizio di potere, pone in essere atti che, pur essendo puntuali e

concreti, sono non già provvedimentali (e cioè già dotati di efficacia sul piano dell’ordinamento generale)

bensì strumentali ad altri poteri (pareri, proposte, atti di controllo, accertamenti, detti anche atti

dichiarativi).

L’effetto giuridico prodotto dall’esercizio di un potere (sia provvedimentale, sia non provvedimentale) può consistere non già in una

modificazione, costituzione o estinzione di situazioni giuridiche, ma nell’effetto dichiarativo, che non modifica la situazione

giuridica preesistente.

I caratteri degli atti di accertamento- L’efficacia dichiarativa, che discende dall’accertamento che viene

“esternato” dall’amministrazione, incide su una situazione giuridica preesistente a) rafforzandola

(preservandola ad esempio dal decorso del tempo: ad es. l’intimazione di pagamento), b) specificandone il contenuto (es.

l’iscrizione negli albi professionali) o c) affievolendola, impedendo così la realizzazione della situazione in una

certa direzione (ad es. la cancellazione di alcuni beni dagli elenchi dei beni pubblici).

Gli atti di certazione- Atti dichiarativi che hanno la funzione di attribuire certezza legale (valida erga omnes)

ad un dato (fatto, atto, stato, qualità o rapporto). Sono atti tipici e nominati e sono espressione di un potere

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certificativo che partecipa di molti caratteri di quello provvedimentale: la certezza, infatti, è un effetto che si

pone sul piano dell’ordinamento generale.

Si può discutere se la peculiare efficacia di questi atti (che non si limita a accertare una situazione già prefigurata dell’ordinamento)

consista A) in una novazione della fonte che già in precedenza riconosceva la situazione soggettiva; oppure se B) il provvedimento

sia dotato di una peculiare efficacia preclusiva, connessa al loro regime probatorio, che impedisce ad altri soggetti dell’ordinamento

di porre in discussione il risultato dell’accertamento (salvo esperire specifici procedimenti, quali ad es. la querela di falso). In oggni

caso essi non producono il mero consolidamento della situazione preesistente, ma riconoscono certezze legali attribuendo una qualità

giuridica secondo cui un atto, un fatto o un rapporto si considerano come avvenuti in un certo modo, anche indipendentemente dalla

conformità dell’accertamento alla situazione reale.

Le conoscenze acquisite dall’amministrazione sono spesso conservate e ordinate in appositi registri, albi,

liste, elenchi, casellari e così via. A tal proposito ricordiamo che anche altri atti di accertamento hanno

effetto di certezza: essa è però detta “notiziale” in quanto superabile con la prova contraria (diversamente

dagli atti di certazione).

I certificati- Sono documenti tipici rilasciati da un’amministrazione avente funzione di ricognizione,

riproduzione e partecipazione a terzi di stati, qualità personali e fatti contenuti in albi, elenchi o registri

pubblici o comunque accertati da soggetti titolari di funzioni pubbliche. Hanno normalmente i caratteri

dell’atto pubblico, essendo rilasciato da un pubblico ufficiale autorizzato a darvi pubblica fede, e fa piena

prova, fino a querela di falso, tanto in sede amministrativa quanto in sede giurisdizionale, di ciò che in esso è

dichiarato e della provenienza (mentre non hanno particolare valore probatorio eventuali giudizi in essi contenuti). Si parla

spesso di certificazioni, le quali in senso proprio sono le dichiarazioni di scienza esternate mediante certificato: tra certificazione e

certificato c’è dunque lo stesso rapporto che corre tra contenuto e contenente).

NB: i certificati rilasciati dalla pa in ordine a stati, qualità personali e fatti sono validi e utilizzabili solo nei

rapporti tra privati: questo è l’unico ambito in cui la circolazione è ammessa. Nei rapporti con gli organi

della pa e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono, invece, sempre sostituiti dalle

dichiarazioni sostitutive.

Gli attestati- Atti amministrativi sempre tipici, ma insuscettibili di creare la medesima certezza legale creata

da un atto di certazione, e che a differenza dei certificati, non mettono in circolazione una certezza creata da

un atto di certazione (es. attestato di benemerenza).

Le attestazioni atipiche- Atti amministrativi che, sul piano dell’ordinamento generale, creano, al più, una

presunzione (ad es. attestati di frequenza a corsi, di svolgimento di attività di studio e ricerca, ecc.).

Atti di notorietà- Atti formati su richiesta di un soggetto, da un pubblico ufficiale (es. notaio, sindaco) in base

alle dichiarazione simultanee rese in sua presenza e sotto giuramento da alcuni testimoni: da questi atti

risulta che la notizia di determinati fatti è diventata di pubblico dominio.

Le dichiarazioni sostitutive- Atto del privato capace di sostituire una certificazione pubblica producendone

lo stesso effetto giuridico.

Negli ultimi anni si è fatta sempre più pressante la duplice esigenza di alleggerire il carico di lavoro dei pubblici uffici e consentire al

privato di poter provare, nei suoi rapporti con l’amministrazione, determinati fatti, stati e qualità a prescindere dall’esibizione dei

relativi certificati, che addirittura non possono più essere utilizzati nei rapporti del cittadino con l’amministrazione. La risposta a

questa esigenza è stata individuata nell’istituto giuridico della dichiarazione sostitutiva, l’unico utilizzabile nei confronti

dell’amministrazione da parte del cittadino.

NB: le disposizioni che regolano tale istituto sono quelle in materia di documentazione amministrativa raccolte nel T.U. (d.lgs.

445/2000), il quale disciplina in particolare la produzione di atti e documenti agli organi della pa, nonchè ai gestori di pubblici servizi

nei rapporti tra loro e in quelli con l’utenza, e ai privati che vi consentano. Esso deve essere integrato con la disciplina posta dal

codice dell’amministrazione digitale di cui al d.lgs. 82/2005.

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Le dichiarazioni sostitutive si distinguono dai certificati in quanto: A) non provengono da un ente pubblico; B) sono destinate a

confluire soltanto in un singolo rapporto tra cittadino e amministrazione (mentre i certificati valgono in generale nei rapporti tra

privati); C) le dichiarazioni sostitutive hanno peraltro la stessa validità temporale degli atti che sostituiscono; D) non consistono in

una trascrizione del contenuto di un pubblico registro. La mancata accettazione della dichiarazione sostitutiva costituisce violazione

dei doveri d’ufficio. La legge attribuisce alla pa il compito di controllare la veridicità delle dichiarazioni sostitutive, il che avviene

mediante raffronto tra il contenuto delle stesse e quello degli atti di certazione.

Vi sono due tipi di dichiarazioni sostitutive:

a) Dichiarazione sostitutiva di certificazione: documento, sottoscritto dall’interessato (anche non in

presenza del funzionario amministrativo addetto), in sostituzione dei certificati (ad es. data e luogo

di nascita, residenza, cittadinanza, stato civile e di famiglia, nascita del figlio, posizione reddituale,

titolo di studio, qualifica professionale); in luogo della dichiarazione il cittadino può sempre

produrre il certificato o la copia autentica ovvero esibire un documento di identità che li attesti. La

loro sottoscrizione non deve essere più autenticata, indipendentemente dalle modalità di

presentazione.

b) Dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà: atto reso al funzionario competente, con cui il

privato comprova, nel proprio interesse e a titolo definitivo, tutti gli stati, fatti e qualità personali non

compresi nei pubblici registri, albi ed elenchi (e quindi non suscettibili di essere attestati con

dichiarazione sostitutiva di certificazioni), nonché stati, fatti e qualità personali relativi ad altri

soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza. Modalità di presentazione delle dichiarazioni a organi

dell’amministrazione o ai gestori o esercenti di pubblici servizi:

Dichiarazione sottoscritta dall’interessato in presenza del dipendente addetto;

Istanza inviata per posta unitamente a copia fotostatica di un documento di identità del

dichiarante;

NB: in entrambi i casi non è necessaria l’autenticazione (nel primo caso è sufficiente la

sottoscrizione). L’inesistenza della sottoscrizione è vizio non sanabile di nullità della dichiarazione e l’omessa

allegazione della copia del documento rende nullo l’atto per difetto di forma essenziale.

A seguito delle numerose novità introdotte dalla c.d. riforma Bassanini si pongono due problemi teorico-definitori: A) se esiste una

differenza tra le dichiarazioni sostitutive di certificazioni e i relativi certificati: in relazione al procedimento principale, le

dichiarazioni sostitutive di certificati hanno carattere definitivo, creano certezze giuridiche al pari degli atti certificativi che

sostituiscono e hanno validità temporale equiparata a quest’ultima; inoltre, posto che tali dichiarazioni non devono più essere

autenticate, la certezza giuridica creata quest’ultime non potrà più farsi risalire all’autenticazione ma all’equiparazione operata dal

legislatore. Quanto agli effetti, le dichiarazioni sostitutive sembrano essere uguali ai certificati. Tuttavia se si considera il

subprocedimento di controllo da parte della pa in merito alla veridicità delle dichiarazioni sostitutive presentate dai privati, si

segnala una profonda differenza: la certificazione amministrativa ha efficacia probatoria più ampia della corrispondente

dichiarazione, rispetto alla quale crea maggiore certezza giuridica, costituendone parametro di verifica. B) diversità tra dichiarazioni

sostitutive di certificazione e sostitutive dell’atto di notorietà: le dichiarazioni sostitutive di certificazioni sono sempre tipiche

(devono essere previste dalla legge per ipotesi tassative in quanto hanno quale presupposto necessario un atto amministrativo di

certazione, mentre le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà possono essere tipiche oppure atipiche (quando sono usate per

comprovare stati, fatti e qualità personali del dichiarante o di altri soggetti che possono anche non trovare posto in pubblici registri,

albi o elenchi in quanto carente il presupposto della certazione pubblica).

Il controllo sulle dichiarazioni sostitutive (di certificazione e di atto di notorietà) deve avvenire, anche a

campione (non sono dunque escluse altre modalità) e in tutti i casi in cui sorgano fondati dubbi sulla loro

veridicità: esso è effettuato A) consultando direttamente gli archivi dell’amministrazione certificante oppure

B) richiedendo alla medesima conferma scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei

registri. La recente normativa ha previsto che le dichiarazioni sostitutive possono essere utilizzate anche nei

rapporti tra privati che vi consentano: in tal caso l’amministrazione competente al rilascio della relativa

certificazione è tenuta a fornire su richiesta del privato e con il consenso del dichiarante non il certificato ma

conferma scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei dati custoditi.

Le certificazioni dei privati- Certificazioni prodotte da operatori privati specializzati che attengono alla

conformità di prodotti o di metodi di produzione a norme e standard tecnici (ad es. certificati di bilancio,

certificati di qualità Iso, International Organization for Standardization, certificazioni ambientali ecc.). In

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alcuni casi si tratta di certificazioni prodotte da imprese non controllate da soggetti pubblici, ma accreditate da organismi privati (ad

es. in Italia per l’Iso la competenza è del Sincert); in altre ipotesi, che interessano il diritto amministrativo, i certificatori devono

essere accreditati o autorizzati da organismi pubblici (es. Dop o Igp); infine vi sono casi in cui le certificazioni sono emanate da

organismi pubblici.

13. I poteri relativi ad atti amministrativi generali.

Gli atti amministrativi generali producono effetti nei confronti di una generalità di soggetti, titolari di quei

rapporti (sicchè si differenziano dagli atti plurimi, i quali interessano una pluralità di destinatari identificabili a priori), pur se

risultano privi di forza precettiva. (ad es. bandi di concorso, ordinanze del ministero della pubblica amministrazione per la

determinazione delle modalità di conferimento incarichi e supplenze, ecc).

Sono ricollegabili allo schema norma – potere – effetto: la legge non produce direttamente l’effetto, in

quanto attribuisce il relativo potere all’amministrazione. Essi non sono però caratterizzati dall’astrattezza in

quanto la produzione dell’effetto non necessita di un ulteriore esercizio di poteri. Sono sottratti alla disciplina

della partecipazione procedimentale e del diritto di accesso e, inoltre, come quelli normativi, non necessitano

di motivazione.

Si configura così un regime peculiare di tali atti, legislativamente previsto, anche se deve essere ricordato l’orientamento del

Consiglio di Stato ad avviso del quale la formalizzazione del potere regolamentare comporta “la correlativa riduzione dell’area dei

provvedimenti amministrativi generali a contenuto non normativo”.

Una delle differenze principali rispetto all’atto amministrativo normativo è che quest’ultimo, pur provenendo da una pubblica

amministrazione, è espressione di un potere (quello normativo) diverso da quello amministrativo. Esso non ammette dunque deroghe

mediante un atto amministrativo puntuale e concreto (principio di inderogabilità dei regolamenti), giacchè in tal caso si avrebbe la

prevalenza del potere amministrativo su quello normativo: tali poteri debbono restare oggettivamente distinti anche quando siano

riconducibili al medesimo soggetto. L’atto amministrativo che deroghi a un atto amministrativo normativo è dunque affetto da vizio

di legittimità.

14. Cenni ad alcune tra le più rilevanti vicende giuridiche il cui studio interessa il diritto amministrativo:

il decorso del tempo e la rinuncia.

Il decorso del tempo produce la nascita o la modifica di una serie di diritti ed è alla base degli istituti della

prescrizione e della decadenza.

Imprescrittibilità del potere- Il potere, in quanto attributo della soggettività, non è trasmissibile e non è

neppure prescrittibile a seguito del decorso del tempo. Esso, infatti, trascende i singoli rapporti: la

circolazione che esso non sia esercitato in un singolo caso e in un singolo rapporto può determinare la

decadenza limitatamente al caso o al rapporto considerati, ma non impedisce che lo stesso potere possa

essere esercitato in altri casi o in altri rapporti. Vige, infatti, la regola individuata dalla giurisprudenza secondo cui, anche

nell’ipotesi in cui sia scaduto il termine di novanta giorni per decidere un ricorso gerarchico proposto da un cittadino davanti ad

un’autorità amministrativa, non si consuma il potere di decidere il ricorso, sicchè l’amministrazione può emanare una decisione

tardiva.

Prescrittibilità del diritto- Il diritto soggettivo è invece soggetto a prescrizione, ove non esercitato per un

certo periodo di tempo. Una decisione particolarmente delicata si profila in ordine alla prescrizione nella materia delle sanzione

amministrative. In tema di abusi edilizi, la giurisprudenza ha ribadito che il potere sanzionatorio dell’amministrazione non è

soggetto a termini di prescrizione o di decadenza, ma imponendo a essa l’obbligo di motivazione in ordine alla scelta di procedere

comunque all’esercizio del potere, che deve essere giustificato sulla base della prevalenza del pubblico interesse alla repressione. E’

evidente la preoccupazione di conciliare il principio della non prescrittibilità della potestà pubblicistica con le esigenze del privato, al

quale è accordata una certa tutela nel momento della ponderazione dell’interesse pubblico.

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Inusucapibilità dei beni demaniali- Il tempo, unitamente all’esercizio di un diritto, è alla base dell’istituto

dell’usucapione dei diritti reali, ma per quanto attiene al diritto amministrativo non è ammesso l’acquisto per

usucapione di diritti sui beni demaniali.

Rinuncia- Negozio avente più propriamente effetto abdicativo cui può seguire un effetto traslativo (accrescimento della sfera altrui)

o estintivo (se la situazione abdicata non entra nella sfera di altro soggetto: si pensi alla rinunzia ad una sovvenzione). Il potere,

intrasmissibile e imprescrittibile, non può essere oggetto di un atto di rinunzia. Sono invece normalmente rinunciabili i diritti

soggettivi (es. diritto all’indennizzo nel caso dell’espropriazione) salvo che il legislatore non imponga un divieto a tutela

dell’interesse del titolare. Non sono rinunziabili le situazioni che ineriscono a interessi diversi da quelli del titolare (ad es

irrinunciabile l’ufficio di tutore) e i diritti di libertà, quanto trattasi in senso proprio di poteri. In tema dei crediti dei dipendenti aventi

causa nel rapporto di lavoro, si ricordi che l’amministrazione non può rinunciare alla prescrizione a alla relativa eccezione.

Irrinunciabilità dell’interesse legittimo- Non è possibile rinunciare agli interessi legittimi: avendo ad oggetto

tali interessi la pretesa alla legittimità dell’azione svolta dalla pa nell’esercizio di un potere, il loro titolare

non può disporne in quanto non può disporre del potere correlato, il quale produce effetti nei confronti dei

destinatari direttamente individuati dalla legge.

l’interesse legittimo segue il potere e il suo esercizio.

L’interesse può, invece, trasferirsi congiuntamente al rapporto sostanziale che corre con l’amministrazione. Al riguardo però bisogna

ricordare che l’interesse legittimo consiste in una serie di poteri (di partecipazione, di reazione e così via) esercitabili dal privato in

relazione allo svolgimento di un potere amministrativo: i poteri sono attribuiti a titolo originario, sicchè l’avente causa non esercita

poteri trasferiti da un altro soggetto ma proprio poteri.

Rinunciabilità dell’azione correlata e interesse legittimo- Ammissibile è invece la rinuncia allo strumento di

reazione processuale (esercizio potere di azione), così come possibile è la rinuncia al bene finale della vita o

la disposizione dello stesso (vendita del terreno in ordine al quale si è richiesto il permesso di costruire).

[il paragrafo 15 fa un rinvio al cap. VIII]

16. L’esercizio del potere: norme di azione, discrezionalità e merito.

Attribuzione di un potere- L’amministrazione deve in concreto agire in vista del perseguimento dell’interesse

che costituisce la ragione dell’attribuzione del potere (es. pubblica utilità nell’ipotesi di espropriazione,

selezione del miglior candidato nel caso concorso ecc.). Essa in teoria potrebbe essere lasciata “libera” di

scegliere le modalità di azione ritenute più consone nei singoli casi: talora essa stessa fissa in anticipo alcuni

criteri cui si atterrà nell’esercizio in concreto del potere; molto più spesso, tuttavia, le modalità sono

individuate in via generale e astratta mediante norme giuridiche.

Norme di azione- Norme che disciplinano le modalità attraverso le quali il potere deve essere esercitato.

Hanno ad oggetto l’azione dell’amministrazione e non l’individuazione di assetti intersoggettivi come,

invece, hanno le norme di relazione, dalle quali le norme di azione si distinguono anche sotto un altro

profilo: esse possono provenire non soltanto dalla legge (fonte dell’ordinamento generale) ma

dall’amministrazione stessa, la quale dispone di potere normativo. La predeterminazione delle modalità

d’azione riduce gli spazi di scelta dell’amministrazione: l’azione risulta in tutto o in parte “vincolata”.

Esistono, quindi, provvedimenti vincolati, il cui effetto giuridico non deriva direttamente dalla legge, ma pur

sempre dall’esercizio del potere, ancorché non sussista possibilità di scelta in ordine al contenuto del

provvedimento. Nei limiti in cui residuano “spazi di scelta”, si avrà azione discrezionale.

La discrezionalità amministrativa (c.d. pura)- E’ lo spazio di scelta che residua allorché la normativa di

azione non predetermini in modo completo tutti i comportamenti dell’amministrazione.

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La discrezionalità tecnica- E’ la possibilità di scelta che spetta all’amministrazione allorché sia chiamata a

qualificare fatti suscettibili di varia valutazione, e si riduce ad un attività di giudizio a contenuto scientifico.

Vi sono fatti c.d complessi che non possono essere giudicati semplicemente come esistenti o inesistenti e che

dunque non sono suscettibili di un mero accertamento (presupposto del pericolo, pregio artistico di un bene,

preparazione di un candidato). L’amministrazione dovrà dunque operare una valutazione, la quale, tuttavia, a

differenza delle ipotesi di discrezionalità pura, non viene effettuata alla luce di un interesse pubblico, bensì in

base a parametri tecnici e non implica una manifestazione di volontà ma soltanto un giudizio.

La discrezionalità deve essere rapportata alla funzione dell’atto amministrativo (e non all’atto né al potere).

Quando coesistono discrezionalità pura e discrezionalità tecnica si parla di discrezionalità mista. Le regole

che presidiano allo svolgimento della discrezionalità si evincono a contrario in occasione della rilevazione

della loro violazione, che dà luogo al vizio di eccesso di potere, e si riassumono nel principio di logicità-

congruità: la scelta deve risultare logica e congrua tenendo conto dell’interesse pubblico perseguito, degli

interessi secondari coinvolti e della misura del sacrificio ad essi arrecato. L’essenza della discrezionalità

risiede, quindi, nella ponderazione comparativa dei vari interessi.

Discrezionalità amministrativa e sviluppo sostenibile- L’art. 3-quater, d.lgs. 152/2006 prescrive che l’attività

della pa debba essere finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile dl principio dello sviluppo

sostenibile, per cui nell’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da

discrezionalità gli interessi alla tutela dell’ambiente de del patrimonio culturale devono essere oggetti di

prioritaria considerazione. Lo sviluppo sostenibile mira a garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle

generazioni attuali non comprometta la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future.

Il merito amministrativo- L’insieme delle soluzioni ipotizzabili come compatibili con il principio di

congruità in un caso determinato. E’ normalmente (salvo eccezioni fissate dalla legge) sottratto al sindacato

del giudice amministrativo e attribuito alla scelta esclusiva dell’amministrazione, la quale tra le pluralità di

scelte così individuate preferirà quella ritenuta più opportuna. si può dire che il merito costituisce la sfera

di attività riservata all’amministrazione sulla quale il giudice anche in ragione della sua “irresponsabilità”

politica non può incidere.

NB: neppure negli ambiti del merito e della scelta tecnica non sindacabile, la scelta dell’amministrazione è

“libera”: semplicemente essa non è pienamente sindacabile poiché risulta effettuata tra soluzioni tutte

ragionevoli.

17. Le fonti del diritto (in particolare quelle legislative) attinenti alle situazioni giuridiche.

Le fonti giuridiche sono i fatti e gli atti produttivi di norme giuridiche.(Molte fonti pongono norme di diritto

amministrativo e sono atti soggettivamente amministrativi, nel senso che sono posti in essere da autorità

amministrative.)

Le fonti del diritto amministrativo sono (secondo il criterio funzionale-oggettivo): A) le norme di relazione

(attribuiscono e riconoscono gli enti pubblici e le loro situazioni giuridiche); e in massima parte B) le norme

di azione (modalità di azione e di organizzazione amministrativa).

Riconoscimento dei soggetti dell’ordinamento, loro rapporti e fonti del diritto- Il riconoscimento dei soggetti

dell’ordinamento e la soluzione dei conflitti intersoggettivi spettano alla Costituzione, alla legge e agli atti

aventi forza di legge (decreti legge e d.lgs), in linea con il principio di legalità, il quale impone la

definizione legislativa del potere amministrativo nei suoi elementi essenziali (è infatti preferibile considerare la

legalità come “conformità”- giacché come “compatibilità”, poiché ciò comporterebbe il riconoscimento alla pa di un potere in via di

principio illimitato, non conferito dall’ordinamento). Oggi, molto spesso, la legge è “contrattualizzata” e parziale, nel senso che tende

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a perseguire gli interessi concreti e contingenti di gruppi organizzati e, comunque, si spinge ben oltre il limite dell’attribuzione di

situazioni giuridiche soggettive. Tuttavia, è indubbio che le situazioni giuridiche, essendo posizioni in cui l’ordinamento generale

pone i soggetti portatori di interesse, possono sorgere unicamente sulla base di norme giuridiche dei quell’ordinamento. Ciò

garantisce che tali norme di “relazione” siano prodotte da una fonte superiore alle parti in conflitto, ovvero da una fonte ad essa

equiparata. Anche norme facenti parte dell’ordinamento amministrativo, i regolamenti amministrativi talora concorrono a definire i

limiti delle situazioni soggettive e delle relazioni intersoggettive. Ciò può avvenire a condizione che una legge o un atto equiparato

conferiscano alla fonte secondaria la possibilità di disciplinare anche questi profili e, cioè, in pratica, di occuparsi di una materia

differente rispetto alla regolamentazione dell’esercizio dei poteri amministrativi. La fonte regolamentare, che può intervenire soltanto

se la Costituzione non imponga riserve assolute di legge, dovrebbe comunque occuparsi unicamente del completamento della

disciplina che ha oggetto rapporti intersoggettivi.

Il problema delle norme di relazione nella Costituzione- Utilizzando il criterio funzionale-oggettivo anche

nella Costituzione possono essere individuate norme direttamente attributive di poteri e diritti, le c.d norme

precettive. L’ordinamento tuttavia protegge il medesimo interesse con modalità diverse, a seconda dei

contesti in cui esso si colloca: molte norme, infatti, che qualificano come “diritti” interessi particolarmente

importanti, come ad esempio il diritto al lavoro o alla salute, sono da considerarsi, invece, come norme

programmatiche, le quali, rinviando ad un successivo intervento legislativo non proteggono direttamente i

diritti soggettivi. Emblematico è il caso del “diritto alla salute” (art. 32 Cost.) il quale è stato talvolta

considerato come fonte di diritto soggettivo direttamente azionabile dal titolare (es. danno biologico),

talvolta, invece, come norma che richiede un successivo intervento del legislatore che disciplina l’azione e

l’organizzazione amministrativa al fine di soddisfare la pretesa dei consociati, dando così origine a un

interesse legittimo.

18. Cenni ad alcuni riflessi della distinzione tra norme di relazione e norme di azione sui problemi della

difformità dell’atto dal paradigma normativo e del riparto di giurisdizione.

Norme di relazione, diritti soggettivi, autorità giudiziaria ordinaria- Le norme di relazione proteggono in

particolare i diritti soggettivi. Si può dunque dire che alla violazione di una norma di relazione consegue la

lesione di un diritto soggettivo. Poiché il giudice che tutela i diritti soggettivi è il giudice ordinario, come

affermato dalla costituzione, la stessa situazione può essere descritta affermando che il giudice ordinario

sindaca la violazione delle norme di relazione. Sul piano sostanziale va aggiunto che, ove l’amministrazione

agisca in violazione di una norma di relazione, essa pone in essere un comportamento che non è espressione

di un potere. Si pensi al caso di un provvedimento di esproprio emanato da un’amministrazione non competente: in tal caso, atteso

che nell’amministrazione procedente manca il potere e atteso che il potere è la giuridica possibilità di produrre effetti, si deve

concludere che l’atto emanato non produce gli effetti tipici del provvedimento il rispetto delle norme di relazione è condizione per

la produzione degli effetti.

Carenza di potere e nullità degli atti amministrativi- L’atto emanato in assenza di potere è qualificabile

come nullo, ed è, di norma, sindacabile dal giudice ordinario il giudice ordinario ha giurisdizione nei casi

in cui l’amministrazione abbia agito in carenza di potere, ponendo in essere un atto nullo, e cioè non

produttivo di effetti:

- art. 21-septies l. 241/1990 “E’ nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi

essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione”; - art. 133 d.lgs. 104/2010 contempla, invece, l’ipotesi di atto nullo adottato in violazione o elusione del giudicato,

devolvendoli alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo;

- Cass., sez. un., n. 12110/2013 spetta invece alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione di una controversia

originata dalla contestazione dell’atto con cui l’amministrazione abbia d’ufficio vagliato la nullità di propri precedenti

provvedimenti al fine di non dar corso ai relativi effetti. Norme di azione, interessi legittimi, giudice amministrativo- Poiché l’azione amministrativa è legittimamente

svolta quando sia posta in essere nel rispetto delle norme di azione e poiché l’interesse legittimo è la pretesa

alla legittimità dell’azione amministrativa, si può concludere che l’interesse legittimo è anche la pretesa

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all’osservanza delle norme di azione. Sotto il profilo processuale, la tutela dell’interesse legittimo (cioè il

sindacato sulla legittimità) è affidata al giudice amministrativo che ha una giurisdizione “generale di

legittimità”: atteso che l’interesse legittimo è leso dall’inosservanza di una norma di azione, è possibile

asserire che il giudice amministrativo sindaca la violazione delle norme di azione.

Cattivo esercizio del potere e illegittimità degli atti amministrativi- L’azione amministrativa che non rispetti

le norme di azione è sicuramente illegittima: tuttavia, ove siano rispettate le norme di relazione che

attribuiscono il potere, l’atto finale non è nullo, proprio perché sussiste per esso la giuridica possibilità di

produrre effetti. Gli effetti così prodotti sono tuttavia precari, nel senso che l’ordinamento non può tollerare

che siano equiparati in tutto a quelli che scaturiscono da un’azione legittima. L’atto è cioè emanato in una

situazione in cui il potere sussiste, ma è stato esercitato in modo non corretto: si può allora concludere che la

giurisdizione del giudice amministrativo si individua in base al canone del cattivo esercizio del potere

amministrativo. Il giudice che accerti la violazione delle norme di azione dovrà eliminare si l’atto, sia i suoi

effetti, emanando una decisione di annullamento. Il regime dell’atto posto in essere in violazione di norme di

azione è dunque l’annullabilità:

- art. 21-octies, l. 241/1990 “è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di

legge o viziato di eccesso di potere o da incompetenza”.

- art. 21-nonies, l. 241/1990 l’atto illegittimo può essere annullato in via di autotutela anche dalla

stessa amministrazione che lo ha emanato, la quale ha altresì normalmente il potere di convalidarlo.

Leggi regionali e disciplina della amministrazione- Le norme di azione, quanto alla provenienza soggettiva,

sono prodotte sia dalle fonti secondarie, sia dalle fonti primarie che si connotino, sotto il profilo oggettivo,

per il fatto di essere poste in vista della cura degli interessi pubblici e di non definire rapporti intersoggettivi.

Tra queste fonti vanno annoverate le leggi regionali, le quali anzi, almeno fin ora, hanno disciplinato soltanto

l’azione dell’amministrazione, mentre non hanno potuto occuparsi dei rapporti civili e della materia

processulae. La loro rilevanza è tuttavia aumentata in forza della modifica del titolo V della parte II della

Costituizione.

19. Le norme prodotte dalle fonti comunitarie.

I trattati comunitari e le fonti di provenienza comunitaria disciplinano ambiti rilevanti del diritto

amministrativo e, di conseguenza, agiscono come strumenti di armonizzazione, seppure parziale, del diritto

amministrativo dei paesi membri.

Tra tali fonti spiccano i regolamenti comunitari, atti di portata generale, obbligatori e direttamente applicabili

nei rapporti c.d. "verticali" tra pubblici poteri e cittadini, e le direttive comunitarie, vincolanti per lo Stato

membro in ordine al risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito

alla forma e ai mezzi per conseguire quel risultato. In entrambi i casi, organi comunitari, non facenti parte

dell'ordinamento dello stato italiano, producono norme in esso direttamente applicabili.

Rapporti tra fonti secondo le Corti- Secondo la corte di giustizia europea i rapporti tra fonti nazionali e

comunitarie sarebbero improntati al regime dell'integrazione: esse costituiscono un sistema integrato in cui

deve essere riconosciuto un primato alle fonti comunitarie; la Corte Costituzionale italiana, invece, ritiene i

due ordinamenti autonomi e distinti, anche se coordinati.

N.B.: si riconosce forza vincolante nell'ordinamento italiano anche alle qualificazioni operate dalle sentenze

della Corte di Giustizia Cee.

L'applicazione della norma comunitaria e la disapplicazione di quella nazionale è il meccanismo processuale

mediante il quale si esprime la prevalenza della normativa comunitaria sicché la norma regolamentare

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comunitaria finisce per costituire parametro di legittimità dell'atto amministrativo.

Il potere-dovere di disapplicazione riguarda anche il giudice amministrativo, Corte cost. n. 389/1989 ha

affermato la valenza dell'istituto della disapplicazione pure in relazione alle statuizioni contenute nelle

sentenze emanate dalla Corte di giustizia, nonché alle direttive comunitarie che contengano norme precise e

incondizionate (c.d. direttive self executing), ancorché lo Stato non abbia recepito le direttive o le abbia

recepite in modo inadeguato (Corte Cost n. 64/1990).

L'efficacia delle direttive immediatamente applicabili dalle nostre amministrazioni è solo verticale, nel senso

che si produce unicamente nei confronti dello Stato, mentre i cittadini non possono farle valere nei rapporti

con altri cittadini. Le altre direttive, invece, sono vincolanti soltanto a seguito della loro attuazione nel nostro

ordinamento (ma la norma interna in contrasto con il diritto dell'Unione non immediatamente efficace è

incostituzionale ex art 117 Cost. Corte cost n.28/2010).

Il dovere di disapplicare la normativa italiana confliggente con quella comunitaria è stato riconosciuto anche

in capo alla pubblica amministrazione (Corte giustizia CE, 22 luglio, 1989, causa 103/88 e Corte Cost n

389/1989) e all'autorità antitrust (Corte giustizia CE, 9 settembre 2003, causa C-198/01: in tal caso però non

può trattarsi di disapplicazione in malam partem, nel senso che essa non può portare all'applicazione di

sanzioni ai comportamenti pregressi imposti dalla normativa nazionale in contrasto con quella comunitaria).

La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha affermato che su questioni di illegittimità costituzionale

sollevate in sede di ricorso principale nei confronti di leggi regionali, sussiste la competenza della Corte

stessa a sindacarne l'eventuale contrasto con un regolamento comunitario. Cass n 20454/2005 ha inoltre

deciso che non sussiste la colpa nè responsabilità per danno ingiusto dell'amministrazione che applichi la

normativa italiana anzichè rilevarne e percepirne il contratto con una direttiva CE.

Laddove le fonti ora esaminate non attribuiscano poteri o diritti, esse debbono essere ascritte alla categoria

delle norme di azione, con tutte le conseguenze che ne derivano (sindacabilità da parte del giudice

amministrativo dell'atto da esse difforme e annullabilità dello stesso). Pertanto, il regime dell'atto

amministrativo conforme a una fonte interna disapplicabile perché in contrasto con la disciplina europea sarà

di nullità se la norma interna è attributiva del potere, mentre sarà di mera annullabilità nelle ipotesi in cui la

norma nazionale sia una semplice norma di azione (Cons. Stato, sez IV, n. 579/2005)

La giurisprudenza comunitaria (Corte giustizia CE, 29 aprile 1999, causa C-224/97) si è altresì occupata del

regime del provvedimento puntale e concreto contrastante con disposizioni europee direttamente applicabili

statuendo che esso deve essere disapplicato dal giudice, ancorchè divenuto inoppugnabile.

La giurisprudenza nazionale ritiene infine che l'atto che contrasti con direttive comunitarie non ancora attuate

sia viziato per eccesso di potere.

20. Le fonti soggettivamente amministrative: considerazioni generali

I regolamenti sono atti soggettivamente amministrativi, che sono emanati da organi amministrativi (dello

Stato, della regione e degli enti pubblici) titolari del potere normativo, consistente nella possibilità di

emanare norme generali e astratte. I procedimenti relativi sono sottratti all'applicazione del capo III, l.

241/1990 (v. art, 13, l. 241/1990), nonchè alla disposizione sulla motivazione dei provvedimenti

amministrativi (art 3, l. 241/1990). Esercitando il potere normativo, l'amministrazione può dunque dettare

parte della disciplina che essa stessa dovrà applicare nell'esercizio dei propri poteri amministrativi.

N.B.: la distinzione tra i poteri esercitati (normativi e amministrativi) consente di spiegare perchè il mancato

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rispetto delle norme conduca all'illegittimità dell'azione amministrativa.

Talora i regolamenti, in particolare quelli espressione di autonomie locali (polizia locale, edilizia ecc.),

invece di stabilire norme di azione relativamente all'attività futura dell'amministrazione (che dunque ne

sarebbe la destinataria immediata), incidano - in via generale- direttamente sulla situazione giuridica dei

privati riconducibili al loro campo soggettivo di applicazione. Tutto ciò solleva il delicato problema di

dovere individuare i limiti entro cui sia tollerabile una disciplina differenziata in ambito locale nella

conformazione di diritti o libertà radicati nell'ordinamento generale e coperti da riserva di legge.

L'attività normativa dell'amministrazione è soggetta, oltre che al principio di preferenza di legge, al principio

di legalità (Cons. Stato parere n 107/99), il quale, secondo l'accezione di conformità formale, impone che

ogni manifestazione di attività normativa trovi il proprio fondamento in una legge generale, che indichi

l'organo competente e le materie in ordine alle quali esso può esercitarla. Al riguardo si noti che, a differenza

di quanto accade per le fonti primarie, che costituiscono un sistema chiuso a livello costituzionale, le fonti

secondarie sono previste dalla legge. Ardua è l'individuazione dei caratteri degli atti normativi

soggettivamente amministrativi, tali da distinguerli da altri atti amministrativi. In particolare, la categoria

degli atti amministrativi generali spesso non è facilmente differenziabile da quella degli atti normativi, i

quali, secondo parte della dottrina e della giurisprudenza, sarebbero caratterizzati da astrattezza, inteso il

termine come indefinita ripetibilità dei precetti.

Cons. Stato ad. plen., n. 9/2012 ha valorizzato il requisito della indeterminabilità dei destinatari, rilevando

che è atto normativo quello i cui destinatari sono indeterminabili sia a priori che a posteriori (conseguenza

della generalità e astrattezza), mentre l'atto amministrativo generale ha destinatari indeterminabili a priori,

ma certamente determinabili a posteriori, in quanto è destinato a regolare un caso particolare, una vicenda

determinata, esaurita la quale vengono meno anche i suoi effetti.

Altri hanno individuato un criterio formale di distinzione tra atti normativi e atti amministrativi generali: solo

i primi sono sottoposti a un particolare iter procedimentale (l. 400/1998 per i regolamenti ministeriali),

ovvero, per quanto riguarda i regolamenti emanati dal Presidente della Repubblica, essi sono caratterizzati da

una peculiare forma che debbono recare (d.p.r. 1092/1985).

La scelta legislativa operata dalla l.400/1988 ha comportato un deciso aumento degli atti ministeriali emanati

al di fuori delle regole procedurali sopra richiamate, indotto dalla volontà dell'organo politico di sottrarsi ai

maggiori condizionamenti che esse comportano, sicchè il problema di sostanza continua a sussistere. In ogni

caso la natura normativa dell'atto soggettivamente amministrativo è innnegabile quando esso possieda i

caratteri formali e segua al procedimento che l'ordinamento fissa per quel particolare tipo di fonte.

Nei restanti casi, atteso che si ha vicenda innovativa nell'ordinamento sia in forza di una legge che a seguito

dell'esercizio di un potere (esempio: provvedimento che crea diritto) si deve distinguere: talora la vicenda è

prodotta direttamente dalla legge (norma-fatto-effetto); in altri casi essa richiede l'esercizio di poteri (ad

esempio amministrativi: norma-potere-effetto).

Qualora ricorra lo schema norma-potere-effetto, atti amministrativi generali e atti normativi presentano le

seguenti differenze:

solo gli atti normativi sono astratti (intendendo il carattere derivante dalla necessità di un ulteriore

esercizio di poteri ai fini della produzione dell'effetto); visto dalla parte dei destinatari dell'atto, essi

sono indeterminati

solo gli atti normativi sono espressione di un potere diverso da quello amministrativo: essi non

costituiscono esercizio di azione dell'amministrazione, ma ne disciplinano il futuro svolgimento.

Si hanno dubbi sui piani regolatori generali, che secondo parte di dottrina e giurisprudenza avrebbero natura

mista e i bandi militari, essendo controversa la legittimità delle leggi che li prevedono.

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Per un altro verso, come accennato, alcuni regolamenti, dotati di carattere precettivo, incidono direttamente

sulla situazione giuridica dei privati.

21. I regolamenti amministrativi

I regolamenti amministrativi si distinguono sotto il profilo del soggetto e dell'organo da cui provengono in:

regolamenti governativi, regolamenti ministeriali e regolamenti degli enti pubblici.

La disciplina dei regolamenti governativi è fissata dalla l. 400/1988, la quale ha superato molti dei problemi

che derivavano dalla vigenza della legge 100/1926. Per la loro emanazione la legge richiede la deliberazione

del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato. Emanati con decreto del Presidente della

Repubblica e sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei Conti, essi sono pubblicati nella Gazzetta

ufficiale e debbono essere espressamente denominati "regolamenti".

Ai sensi dell'art. 17 della l.400/1988 "la podestà regolamentare spetto allo Stato (soltanto) nelle materie di

legislazione esclusiva, salvo delega alle regioni".

L'art. 17 della l.400/1988 prevede diversi tipi di regolamenti governativi:

A. I regolamenti esecutivi rappresentano le fonti governative mediante le quali sono poste norme

di dettaglio rispetto alla legge o al decreto legislativo da eseguire;

B. I regolamenti attuativi e integrativi rispetto a leggi che pongono norme di principio,

possono essere adottati al di fuori delle materie riservate alla competenza regionale. Possono

sviluppare i principi posti dalla legge, introducendo elementi di integrazione.

C. I regolamenti indipendenti sono emanati per disciplinare le materie in cui ancora manchi la

disciplina da parte di leggi o atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie

comunque riservate alla legge (sono liberi da condizionamenti legislativi).

D. I regolamenti che disciplinano l'organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni

pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge (possono assumere sia i tratti dei

regolamenti di esecuzione, sia di quelli integrativi e attuativi).

E. I regolamenti di delegificazione (il termine indica l'attribuzione al potere regolamentare del

compito di disciplinare materie anche in deroga alla disciplina posta dalla legge) o "autorizzati"

(comma 2 dell'art 17), i quali possono essere adottati solo a seguito di una specifica previsione di

legge "Con dPR, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio di Stato,

sono emanati regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di

legge, prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi della Repubblica, autorizzando l'esercizio

della potestà regolamentare del governo, determinano norme generali regolatrici della materia e

dispongono l'abrogazione delle norme vigenti, con effetto dall'entrata in vigore delle norme

regolamentari". L'articolo chiarisce che l'effetto abrogante è da riferire alla legge che autorizza

l'emanazione e non al regolamento stesso, che determina solo lo spiegarsi del relativo effetto. I

regolamenti di delegificazione e organizzazione, introdotti dall'art 13, l.59/1997- che vale a

configurare una sorta di stabile riserva di regolamento, per quanto non sancita a livello

costituzionale- rappresentano oggi atti di importanza essenziale nel quadro delle fonti. Per

quanto riguarda i regolamenti di attuazione della normativa comunitaria, adottati sulla base di

una speciale procedura caratterizzata dall'intervento delle commissioni permanenti competenti

per materia delle Camere a seguito dell'emanazione della legge "comunitaria", che annualmente

viene approvata per adeguare alla disciplina comunitaria il diritto interno e che circoscrive i

limiti entro i quali è esercitabile il potere regolamentare. In particolare, spetta alla legge

introdurre eventuali sanzioni penali o amministrative, nonchè individuare le autorità pubbliche

cui affidare le funzioni amministrative inerenti all'applicazione della nuova disciplina. Oggi la

potestà normativa attuativa della disciplina comunitaria spetta alle regioni "nelle materie di loro

competenza" e nel rispetto "delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina

le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza" (117, c.5 Cost).

Page 132: Dispensa Di Amministrativo - 1

132

F. I regolamenti ministeriali e interministeriali, allorchè siano adottati con decreti

interministeriali in quanto attinenti a materia di competenza di più ministri.L'art 17, commi 3 e 4,

l.400/1988, prevede che i regolamenti ministeriali, i quali devono autoqualificarsi come tali e

non possono dettare norme contrarie ai regolamenti governativi, debbano trovare il fondamento

in una legge che espressamente conferisca il relativo potere al ministro ed essere attinenti alle

"materie di competenza del ministro". Essi vanno comunicati al Presidente del Consiglio dei

ministri prima della loro emanazione, sono sottoposti a parere obbligatorio del consiglio di Stato,

al visto della Corte dei Conti e alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

22. Le altre fonti secondarie; in particolare: statuti e regolamenti degli enti locali. I testi unici e le

funzioni normative delle autorità indipendenti.

L'autonomia normativa è riconosciuta ad altri enti pubblici, oltre che a Stato e regioni. Essa si estrinseca

mediante l'emanazione di statuti e regolamenti. L'autonomia statutaria e regolamentare degli enti locali è

stata espressamente riconosciuta dalla l. 142/1990 e succ. modific. (ora T.U. enti locali), secondo un modello

nel quale alla legge spetta dettare le linee fondamentali dell'organizzazione dell'ente, lasciando alle scelte

autonome la possibilità di arricchire e integrare tale disegno.

Nel quadro delle fonti, rapporto dello statuto con la legge non può essere colto richiamando meramente la

nozione di gerarchia, ma impone l'utilizzo di quella di competenza. Si tratta, infatti, di un atto espressione di

autonomia costituzionalmente riconosciuta, che deve unicamente osservare i principi costituzionali, senza

diretta ingerenza della legge statale o regionale negli ambiti non espressamente assoggettati alla disciplina

legislativa. La l. cost 3/2001, sostituendo l'originario art 114 Cost., sancisce che comuni, province e città

metropolitane sono enti autonomi "con propri statuti...secondi i principi fissati dalla costituzione"; si tratta

dunque del riconoscimento costituzionale di una riserva di normazione. Norme attuative della disciplina

costituzionale sono poste dalla l.131/2003, che tra l'altro dispone che il potere normativo-costituente nella

potestà statutaria e in quella regolamentare- è esercitato anche dalle unioni di comuni e dalle comunità

montane e isolane. Ai sensi dell'art 4 l.131/2005, in particolare, lo statuto, in armonia con la Costituzione e i

principi generali in materia di organizzazione pubblica, nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale di

attuazione dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, stabilisce i principi di

organizzazione e funzionamento dell'ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle

minoranze e le forme di partecipazione popolare.

La normazione degli enti locali non si esaurisce nello statuto, l'art 117,c. 6, Cost dispone che comuni,

province e città metropolitane hanno "potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e

dello svolgimento delle funzioni loro attribuite". L'art 4 l 131/2003 ribadisce che l'organizzazione degli enti

locali è disciplinata dai regolamenti nel rispetto delle norme statutarie; più in particolare, il c.4 chiarisce che

"la disciplina dell'organizzazione, dello svolgimento, e della gestione delle funzioni dei comuni, delle

province, e delle città metropolitane, inoltre, è riservata alla podestà regolamentare dell'ente locale,

nell'ambito della legislazione dello Stato o della Regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità,

secondo le rispettive competenze...".

La corte Cost n. 246/2006 ha chiarito l'assetto tra legge regionale e regolamenti ex art 117 c. 6: solo gli enti

medesimi possono adottare i regolamenti in esame, restando escluso qualsiasi potere sostitutivo o suppletivo

delle fonti regionali.

Non sono invece fonti del diritto le circolari, atti che pongono le c.d. norme interne e la prassi.

I testi unici raccolgono in un unico corpo le norme che disciplinano una certa materia. Essi non hanno

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133

carattere innovativo delle preesistenti fonti se, con il solo fine di raccogliere in un testo ufficiale le

disposizioni vigenti, sono formati da un'autorità che non dispone di podestà normativa (testi unici

"contemplativi" o "spontanei") e sono inquadrabili tra le mere fonti di cognizione. Ove compilati dal governo

o da altra amministrazione, i testi unici possono avere, all'interno dell'apparato amministrativo, valore

interpretativo delle norme raccolte e ordinate, comunque non vincolante. Rilevante è la disciplina di cui

all'art 17-bis, l.400/1988, ai sensi del quale il Governo provvede a raccogliere le disposizioni aventi forza di

legge regolanti materie e settori omogenei, operando anche il coordinamento formale del testo delle

disposizioni medesime. Il testo unico è deliberato dal Consiglio dei Ministri, previo parere del Consiglio di

Stato ed è emanato con decreto del presidente della Repubblica.

L'indicazione ricavabile dal T.U. rileva nell'ambito del rapporto di sovraordinazione che corre tra

l'amministrazione che ha curato la raccolta delle fonti e il soggetto chiamato ad applicarle e non in quanto

essa abbia carattere normativo.

I testi unici emanati da soggetti dotati di competenza normativa, ancorchè non modifichino le fonti raccolte,

hanno forza normativa, in questo caso si tratta di fonti di produzione: nelle ipotesi in cui i testi unici che

raccolgono leggi siano formati dal governo, occorre una legge di delegazione dell'esercizio del potere

legislativo.

L'art 20 l.59/1997, e succ. mod., prevede l'emanazione ogni anno di una legge per la semplificazione e il

riassetto normativo, che contempla il ricorso a decreti legislativi, cui possono affiancarsi, per le materie di

competenza statale, regolamenti governativi, per il "riassetto" normativo (non mero riordino, quindi c'è la

possibilità di introdurre innovazioni nella disciplina) e la codificazione. In sostanza si immagina la redazione

di "codici" relativamente a specifiche materie.

Accanto ai codici e ai testi unici appena analizzati ci sono i regolamenti governativi (art 17, c. 4-ter,

l.400/1988) con cui si provvede al riordino periodico delle norme regolamentari vigenti, alla ricognizione di

quelle implicitamente abrogate e alla espressa abrogazione di quelle obsolete, o che hanno esaurito la loro

funzione o che sono prive di effettivo contenuto normativo.

Infine la legge riconosce podestà normativa ad alcune autorità indipendenti (es Consob): la possibilità che le

autorità indipendenti emanino atti normativi, ad esclusione dei regolamenti delegati, è stata ammessa dal

Cons. Stato, sez VI, n 688/1996, tale scelta è stata soggetta a scritiche riguardanti legittimazione e

responsabilità politica.

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134

CAPITOLO VI: IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

1. Introduzione

Il provvedimento è l'atto amministrativo che produce vicende giuridiche in ordine alle situazioni giuridiche

di soggetti terzi.

L'emanazione del provvedimento finale è preceduta da un insieme di atti, fatti e attività che concorrono

all'emanazione del provvedimento stesso, confluenti nel procedimento amministrativo.

Il procedimento amministrativo è stato definito come "forma della funzione" (Benvenuti). La funzione è

costituita da una serie di atti e di attività "endorpocedimentali" attraverso cui si esplica il passaggio da

l'attribuzione del potere - come possibilità astratta di produrre effetti giuridici- alla concreta produzione

dell'effetto finale. Essa fa in qualche modo da tramite tra una situazione statica (il potere) e un'altra

situazione statica (l'effetto prodotto dall'atto), il procedimento amministrativo dà evidenza a questo

momento, rappresentando appunto la forma esteriore con la quale si manifesta il farsi dell'azione

amministrativa.

La più recente normativa pare volere configurare il procedimento come modulo nel cui interno far confluire

l'esercizio di più poteri provvedimentali, in particolare autorizzativi e concessori, tra di loro connessi in

quanto riferiti alla medesima attività del privato (esempio: la disciplina dello sportello unico).

In queste ipotesi, il procedimento si profila come istituto preordinato non soltanto ad acquisire e a censire

interessi secondari rispetto ad una finalità primaria, bensì a curare più interessi pubblici, considerati

unitariamente in un unico contesto. La scelta legislativa comporta evidenti vantaggi sul piano della

semplificazione amministrativa.

2. Cenni alle esperienze straniere e alla disciplina comunitaria

L'importanza del diritto dell'Unione Europea in materia procedimentale deriva sia dal fatto che gli organi

comunitari pongono in essere molteplici procedimenti destinati ad avere effeti nel nostro ordinamento, sia

dal fatto che sempre più numerose norme di origine europea condizionano l'azione dell'amministrazione

nazionale interferendo con la disciplina interna del procedimento. i principi comunitari sono in grado di

produrre influenze anche sugli ordinamenti nazionali: essi sono richiamati dall'art 1, l.241/1990.

Il procedimento amministrativo dell'UE è sopratutto configurato come modulo garantistico di tutela delle

situazioni giuridiche soggetive, all'interno del quale deve essere assicurato il diritto di difesa, altri importanti

principi sono quello inquisitorio, quello della tutela dell'affidamento del cittadino e quello della

proporzionalità della misura finale adottata. Lo stesso Trattato UE prevede alcuni importanti principi in

relazione alle decisioni, quali l'obbligo della motivazione e della notificazione degli atti, nonchè altri

rilevanti istituti (come il diritto di accesso), alcuni dei quali sono rafforzati in ragione della previsione

espressa nella Carta dei diritti fondamentali di Nizza.

L'interferenza tra procedimenti comunitari e nazionali, ovvero la partecipazione congiunta di

amministrazioni nazionali e europee è all'origine del problema della tutela giurisdizionale, atteso che, oltre ai

giudici nazionali, esiste anche una giurisdizione comunitaria, sicchè sorgono dubbi sulla competenza del

giudice. Al riguardo nella sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 3 dicembre 1992 (Causa

c-97/91) è stato deciso che il ricorso avverso il provvedimento nazionale deve essere proposto davanti al

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135

giudice nazionale, affermando dunque che il giudice comunitario non è competente a statuire sulla legittimità

di un atto emanato da un'autorità nazionale nemmeno nelle ipotesi in cui l'atto del quale si tratta si inserisca

nell'ambito di un iter decisionale comunitario. Un riflesso di questa decisione è che configura i pareri come

atti ad efficacia esterna, mentre la nostra dottrina li considera atti infraprocedimentali.

3. L'esperienza italiana: la legge 7 agosto 1990, n. 241 e il suo ambito di applicazione

La l. 7 agosto 1990, n.241 reca "nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di

accesso a documenti amministrativi". La legge italiana non contiene una disciplina esaustiva del

procedimento ma si limita a specificare alcuni principi e a disciplinare gli istituti più importanti, oltre che

aspetti che solo indirettamente riguardano il procedimento (esempio: diritto di accesso).

Un primo problema per l'interprete è quello della delimitazione dell'ambito di applicazione della legge:

secondo l'art 29 la disposizione della "legge si applicano alle amministrazioni statali e agli enti pubblici

nazionali". E' chiara l'influenza della recente riforma del titolo V della parte II della Costituzione che sembra

aprire la via allo sviluppo della disciplina regionale sul procedimento, ampliando le materie rientranti nella

podestà legislativa regionale. Il c.2, al riguardo, stabilisce che le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle

rispettive competenze, regolano le materie disciplinate dalla l.241 nel rispetto del sistema costituzionale e

delle garanzie del cittadino ne riguardi dell'azione amministrativa, cosi come definite dai principi stabiliti

dall l.241 medesima. Si percepisce lo sforzo operato dall'art 29, l. 241/1990 nella prospettiva

dell'allargamento del campo di applicazione della disciplina fino ad abbracciare i provvedimenti "gestiti"

dalle varie amministrazioni. La noma infatti dopo aver precisato al c.1 che la legge si applica altresì alle

società con totale o prevalente capitale pubblico limitatamente all'esercizio delle funzioni amministrative,

chiarisce che gli articoli relativi alle conseguenze del ritardo nella conclusione del procedimento, agli

accordi, alla tutela in materia di accesso, nonchè a efficacia, invalidità, revoca e recesso del provvedimento si

applicano a tutte le amministrazioni pubbliche. E' evidente la volontà di radicare quella disciplina ad alcuni

titoli di competenza legislativa nazionale, ad esempio "giurisdizione e norme processuali".

In modo ancora più chiaro, il c. 2-bis stabilisce che attengono ai livelli essenziali delle prestazioni di all'art

117, c.2, lettera m), Cost (materia di competenza statale) le disposizioni concernenti gli obblighi per la PA di

garantire la partecipazione dell'interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di concluderlo

entro il termine prefissato e di assicurare l'accesso alla documentazione amministrativa, nonchè quelle

relative alla durata massima dei procedimenti.

Ai sensi del c.2-ter, attengono altresì ai livelli essenziali delle prestazioni le disposizioni concernenti la

segnalazione di inizio attività e il silenzio assenso, salva la possibilità di individuare casi ulteriori in cui tali

disposizioni non si applicano. I livelli essenziali possono essere "incrementati": ai sensi del c.2-quarter nel

disciplinare i procedimenti amministrativi di loro competenza, regioni e enti locali possono prevedere livelli

ulteriori di tutela. Infine, ai sensi del c.2-quinquies, le regioni a statuto speciale e le province autonome di

Trento e Bolzano adeguano la propria legislazione alle disposizioni dell'art 29, secondo i rispettivi statuti e le

relative norme di attuazione.

Circa l'ambito oggettivo di applicazione della legge, l'attività amministrativa si caratterizza per il profilo

funzionale, per essere cioè diretta alla cura dell'interesse pubblico, si può quindi concludere che la legge sul

procedimento si applichi anche alla c.d. attività contrattuale della pubblica amministrazione. Infatti il

formarsi della volontà della PA è sempre un'attività orientata all'interesse pubblico e, come tale.

procedimentalizzata. La questione si intreccia strettamente con l'interpretazione della disposizione (art 1, c.

1-bis) secondo cui "la pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce

secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente"

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136

4. I principi enunciati dalla legge 241/1990

L'art 1, c.1, l.241/1990, afferma che l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge (principio

di legalità) ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza

secondo le modalità previste dalla l.241 e dalle altre disposizioni che disciplinano i singoli procedimenti,

nonchè dai principi dell'ordinamento dell'UE.

L'azione è economica quando il conseguimento degli obiettivi avvenga con il minor impiego possibile di

mezzi personali, finanziari e procedimentali.

L'economicità si traduce nell'esigenza del non aggravamento del procedimento se non per straordinarie e

motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria (art. 1 c.2).

L'efficacia è il rapporto tra obiettivi prefissati e obiettivi conseguiti ed esprime la necessità che

l'amministrazione, oltre al rispetto formale della legge, miri anche e soprattutto al perseguimento nel miglior

modo possibile delle finalità ad essa affidate.

La pubblicità è un carattere che costituisce conseguenza diretta della natura pubblica dell'amministrazione,

implica la necessaria preordinazione della sua attività alla soddisfazione degli interessi pubblici e richiede la

trasparenza dell'amministrazione e della sua azione (stretto legame con l'imparzialità).

Applicazione concreta dei criteri di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza è costituita dal diritto di

accesso ai documenti amministrativi, e, in senso lato, anche gli istituti della partecipazione al provvedimento

amministrativo e della motivazione del provvedimento etc.

Fortissimo impulso alla trasparenza è derivato dall'approvazione del d.lgs. 33/2013, che impone la

pubblicazione di un'ampia categoria di atti e di informazioni, in particolare l'art 35 mira a rendere davvero

trasparente l'operato dell'amministrazione ed ad agevolare la possibilità del cittadino di conoscere tutti i fatti

procedimentali. Ai sensi di tale norma, le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati relativi alle tipologie

di procedimento di propria competenza.

L'art 3-bis richiama il concetto di efficienza, è importante ricordare che ai sensi dell'art 3, d.lgs 82/2005 salvo

i casi in cui è prevista dalla normativa vigente una diversa modalità di comunicazione o di pubblicazione in

via telematica, le amministrazioni pubbliche e i gestori o esercenti di pubblici servi comunicano con il

cittadino che ne sia in possesso esclusivamente tramite il domicilio digitale dallo stesso dichiaratorio; per

altro verso, le istanze possono essere inviate anche per via telematica e comunque è disciplinato il fascicolo

informatico. Assai importante è il richiamo, da intendersi come "mobile", ai principi del diritto dell'UE, o

meglio quelli elaborati dalla Corte di giustizia (principi di proporzionalità, pubblicità, precauzione, tutela del

legittimo affidamento) e in parte sacrati nella Carta dei diritti dell'Unione Europea, ora inglobata nel Trattato

dell'Unione. Un ulteriore principio enucleabile dalla l.241/1990 è quello che potrebbe definirsi dall'azione in

via provvedimentale: ai sensi dell'art 2, l'amministrazione deve infatti concludere il procedimento "mediante

l'adozione di un provvedimento espresso". La regola soffre tuttavia importanti eccezioni desumibili dalla

stessa legge.

5. Le fasi del procedimento

Il procedimento deve seguire un particolare ordine nella successione degli atti e delle operazioni che lo

compongno:

a) fase preparatoria: atti che assolvono a una funzione preparatoria, rispetto all'emanazione del

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137

provvedimento finale

b) fase decisoria: fase in cui viene emanato l'atto o gli atti con efficacia costitutiva, nel senso che da essi

sgorga l'effetto finale sul piano dell'ordinamento generale ("efficacia").

c) fase integrativa dell'efficacia: fase eventuale, con la conseguenza che l'efficacia del provvedimento si

produce dopo la fase decisoria.

La distinzione in fasi, utile a fini classificatori e esplicativi, non deve far dimenticare che il procedimento

serve per decidere e che tale decisione deve avvenire in modo graduale e per momenti successivi: il

procedimento si configura come un continuum che non tollera suddivisioni artificiose.

La legge formalizza alcuni dei passaggi endorpcedimentali: l'art 11, l 241/1990, prevede che gli accordi che

l'amministrazione conclude con i privati siano preceduti da una "determinazione dell'organo che sarebbe

competente per l'adozione del provvedimento"; l'art 10.bis, nel caso di procedimento ad istanza di parte,

impone di comunicare agli istanti i "motivi che ostano all'accoglimento della domanda"; l'art 6 dà rilievo alle

risultanze dell'istruttoria; l'art 14-ter, la conferenza dei servizi si conclude con una determinazione motivata

dell'amministrazione procedente cui segue il provvedimento finale.

Gli atti endoprocedimentali trovano posto tra i due estremi del procedimento-l'iniziativa e l'integrazione

dell'efficacia, ove prevista, o l’emanazione del provvedimento finale e producono effetti rilevanti nel

procedimento: essi sono costitutivi dell'effetto endoprocedimentale che l'ordinamento collega ad essi. In

particolare, questi atti generano l'impulso alla progressione del procedimento e contribuiscono, inoltre, a

condizionare in vario modo la scelta finale o la produzione del suo effetto.

Fanno parte del procedimento gli atti di controllo, questi atti successivi al provvedimento ne condizionano

l'efficacia senza essere costitutivi dell'effetto, infatti l'efficacia va collegata al solo provvedimento, tuttavia

essa può essere paralizzata dall'effetto endorcedimentale prodotto sul controllo.

Il rilievo sulla natura procedimentale degli atti di controllo non è secondario poichè non trattandosi di un

procedimento autonomo, alla fase del controllo non si applica la disciplina dettata per i procedimenti

destinati a sfociare in un provvedimento.

L'illegittimità degli atti endoprocedimentali: effetti sul provvedimento finale

La conoscenza delle fasi in cui si articola il procedimento è importante perché l'illegittimità di uno degli atti

del procedimento determina in via derivata l'illegittimità del provvedimento finale, salvo che operi l'art.21

octies (v. Cap, VII, par.10). La circostanza che l'effetto in grado di incidere sulla situazione di soggetti terzi

si produca solo con il provvedimento chiarisce perché il terzo pregiudicato possa dolersi, e quindi esperire

un'azione davanti al giudice, unicamente a condizione che vi sia stata l'emanazione del provvedimento finale.

Tuttavia, in sede giurisdizionale, il terzo potrà far valere e dedurre anche i vizi che attengono agli atti

endoprocedimentali, poiché hanno concorso alla formazione del provvedimento che ha concluso il

procedimento. Anche la mancata adozione di un atto dovuto e l'alterazione dell'ordine procedurale danno

luogo ad illegittimità, che si riflette sul provvedimento finale, a sua volta illegittimo (es. Omissione di un

parere obbligatorio, cioè posticipazione di un parere rispetto all'emanazione del provvedimento finale).

Atti endoprocedimentali con effetti esterni

E' possibile che un atto endoprocedimentale possa produrre di per sé effetti esterni e che, se lesivo di

situazioni giuridiche soggettive, possa essere impugnato: per questo la giurisprudenza ritiene talora

immediatamente impugnabili alcuni di questi atti. Il fenomeno è spiegabile ricorrendo all'idea della riqualificazione degli atti e delle fattispecie giuridiche. Lo stesso atto può cioè

rilevare sia come atto del procedimento, sia come atto, avente effetti esterni, lesivo di posizione giuridiche di alcuni terzi. L'effetto

esterno può essere prodotto anche da un atto che determini l'arresto del procedimento, pur se configurabile, in astratto, come atto

endoprocedimentale: diviene allora impugnabile in quanto costituisce l'atto che formalizza la conclusione in senso negativo del

procedimento e che preclude al terzo la possibilità di ottenere l'utilità finale cui aspirava (es. Diniego di un nullaosta).

Va esaminato anche il caso della mancata emanazione di un atto della serie procedimentale, che comporta di fatto l'interruzione della

procedura amministrativa; questa sorta di archiviazione non formalizzata di norma determina il mancato rispetto del termine finale di

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conclusione del procedimento con un provvedimento espresso, sicché la fattispecie va inquadrata nella disciplina del silenzio rifiuto.

Con riferimento agli atti interni del procedimento, spesso la loro emanazione è preceduta da uno specifico

procedimento, sicché nell'alveo di uno stesso procedimento possono innestarsi anche più sub-procedimenti, i

quali costituiscono le serie di fasi preordinate all'emanazione di un atto che fa parte del procedimento

principale (es. Procedimento seguito per l'emanazione di un parere da parte di un organo collegiale).

6. Rapporti tra procedimenti amministrativi

Tra più procedimenti amministrativi possono sussistere molteplici rapporti.

Procedimento e sub-procedimenti

A volte il rapporto deriva dal fatto (evidenziato poco sopra) che alcuni procedimenti costituiscono una fase

di un procedimento principale. Questi procedimenti vengono definiti sub-procedimenti; non sono

procedimenti autonomi, cioè, essendo preordinati all'emanazione di un atto che costituisce uno degli elementi

della serie che conduce all'emanazione di un provvedimento, non sono autonomamente lesivi e capaci di

produrre un effetto sul piano dell'ordinamento generale. Va evidenziato come l'invalidità che dovesse

verificarsi in seno al sub-procedimento si riflette sul procedimento principale e quindi sull'atto finale.

Procedimenti connessi

I procedimenti si dicono invece connessi allorché l'atto conclusivo di un autonomo procedimento,

impugnabile in quanto tale ex se, condiziona l'esercizio del potere che si svolge nel corso di un altro

procedimento (connessione funzionale).

La connessione più importante è costituita dalla presupposizione: al fine di esercitare legittimamente un

potere, occorre la sussistenza di un certo atto che funge da presupposto di un altro procedimento in quanto

crea una qualità in un bene, cosa o persona che costituisce l'oggetto anche del successivo provvedere.

(es. Di rapporto di di presupposizione: 1. dichiarazione di pubblica utilità rispetto emanazione del decreto di

esproprio; 2. delibera di adozione di un piano regolatore rispetto all'adozione di misure di salvaguardia; 3.

determinazione di copertura di un posto rispetto al procedimento che si apre con il bando). Chiarimento in ordine al concetto di presupposto, nozione impiegata anche dal legislatore (art.3 l.241/1990). È una circostanza che,

pur non influendo sull'effetto giuridico finale, deve sussistere affinché il potere sia legittimamente esercitato (es. Situazione di

urgenza che è il presupposto dei provvedimenti contingibili). L'illegittimità dell'atto che funge da presupposto rispetto al successivo

procedimento può inficiare anche il provvedimento finale.

Il presupposto condizionante: l'esempio dei piani Spesso il condizionamento non si riduce al fatto che la legittimità dello svolgimento di un procedimento dipenda dalla sussistenza del

presupposto, costituito da un diverso provvedimento: l'atto che conclude il procedimento successivo deve, infatti, anche adeguarsi ed

uniformarsi alle qualificazioni operate dal primo provvedimento (es. Vincoli imposti dai piani urbanistici ai quali devono adeguarsi i

successivi permessi di costruire).

Mancanza di provvedimento e atto di diniego

In altri casi, l'assenza di un provvedimento, ovvero la conclusione con un atto di diniego di un procedimento,

impedisce la legittimità conclusione di un altro procedimento (es. Apertura di locali destinati all'esercizio di

una determinata attività consentita solo a coloro che siano iscritti ad un particolare albo).

Atti ostativi all'emanazione di un provvedimento

Vi sono ipotesi in cui la presenza di un atto, conclusivo di procedimento, osta all'emanazione di un certo

provvedimento: il rilascio di un provvedimento di concessione in sanatoria impedisce di concludere il

relativo procedimento sanzionatorio con la comminatoria della sanzione stessa.

La consecuzione

Va richiamata la situazione in cui, per svolgere una certa attività, il privato deve ottenere distinti

provvedimenti non connessi sotto il profilo giuridico, ma di fatto tutti attinenti al medesimo bene della vita.

In tali ipotesi il nesso tra i vari procedimenti non è di presupposizione, ma di consecuzione, nel senso che i

vari procedimenti corrono in parallelo, mentre la soddisfazione delle aspirazioni del privato è subordinata

alla conclusione dell'ultimo degli stessi. (es.caso di un intervento su di un immobile situato in una zona

soggetta a tutela paesistica, per il quale bisogna ottenere, oltre al titolo abilitativo previsto dalla disciplina

edilizia, anche l'autorizzazione relativa ai beni culturali e paesaggistici).

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La riduzione e l'accorpamento dei procedimenti L'art.20 c.4 lett. d l.59/1997 impegna il governo ad approvare regolamenti di delegificazione per ridurre il numero di procedimenti

amministrativi ed accorpare i procedimenti che si riferiscono alla stessa attività. In ordine ai procedimenti che riguardano la stessa

attività, la legge già prevede forme di raccordo e di semplificazione, affidate alla convocazione di conferenze di servizi, anche su

richiesta dell'interessato, quando l'attività del privato sia subordinata ad atti di consenso, comunque denominati, di competenza di p.a.

diverse (v. Cap,7 par. 2).

(es. Accorpamento procedimenti stessa attività: sportello unico relativo ai servizi, sportello unico per l'edilizia, autorizzazione

ambientale integrata).

7. L'iniziativa del procedimento amministrativo

Il procedimento si apre con l'iniziativa, che può essere ad istanza di parte, ovvero d'ufficio.

L'iniziativa ad istanza di parte

L'iniziativa ad istanza è caratterizzata dal fatto che il dovere di di procedere sorge a seguito (e solo a seguito)

dell'atto di impulso proveniente da un soggetto privato oppure da un soggetto pubblico diverso

dall'amministrazione cui è attribuito il potere, o da un organo differente da quello competente a provvedere.

In caso di silenzio-inadempimento (v.cap.VII par.3) il privato può nuovamente riproporre l'istanza ove ne

ricorrano i presupposti.

In particolare: a) La proposta

Negli ultimi due casi, l'istanza consiste in un atto amministrativo: più esattamente si deve parlare di richiesta

o di proposta. Quest'ultima è l'atto di iniziativa, avente anche contenuto valutativo, con cui si suggerisce

l'esplicazione di una certa attività. Può essere vincolante o non vincolante. Se vincolante, la proposta

comporta il dovere dell'amministrazione procedente di conformarsi alla stessa e, dunque, di far proprio il

contenuto dell'atto proposto. Se non vincolante, si ritiene sussistente la possibilità dell'amministrazione di

valutare l'opportunità di esercitare il potere o di non seguirla. Secondo la giurisprudenza è possibile sanare

mediante proposta tardiva il vizio che scaturisce dalla sua mancanza. Le proposte qui trattate non vanno

confuse con quelle che intervengono nella fase di decisione (v. Par. 12).

b) La richiesta

La richiesta in senso proprio è l'atto di iniziativa, consistente in una manifestazione di volontà, mediante il

quale un'autorità sollecita ad altro soggetto pubblico l'emanazione di un determinato atto amministrativo.

Un particolare esempio di richiesta che proviene da un organo di amministrazione attiva e si rivolge ad un

organo di amministrazione consultiva è la richiesta di parere, oggi disciplinata dall'art.16, l.241/1990.

Dalla richiesta si distingue la designazione, che consiste nella indicazione di uno o più nominativi

all'autorità competente a provvedere ad una nomina: tale atto come la proposta identifica il contenuto

dell'atto finale, ma a differenza di questa non è atto di iniziativa procedimentale.

c) L'istanza

L'istanza in senso proprio proviene dal solo cittadino ed è espressione della sua autonomia privata.

La richiesta e la proposta (provenienti da una amministrazione pubblica) conseguono all'esplicazione di un

potere pubblico e mirano alla cura di interessi pubblici, mentre l'istanza è posta in essere in funzione di

interessi particolari. La terminologia utilizzata dal legislatore non è tuttavia univoca, poiché impiega il termine richiesta anche nelle ipotesi di istanze di

privati. Per quanto attiene agli atti di iniziativa emanati da pa, spesso conclusivi di sub-procedimenti, si hanno esempi in cui la legge

invece di richiesta utilizza termini come segnalazioni e sollecitazioni. Le istanze sono quotidianamente protocollate. L'istanza può

essere inviata anche per via telematica: il mancato avvio del procedimento da parte del titolare dell'ufficio competente, comporta

responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare dello stesso.

Il fascicolo informatico

Le amministrazioni gestiscono i procedimenti amministrativi utilizzando le tecnologie dell'informazione e

della comunicazione nei casi e modi prevista dalla normativa vigente.

Raccolgono in un fascicolo informatico tutti i dati e i documenti, consultabile da altre amministrazioni.

In vista della cd. Dematerializzazione, ogni atto o documento può essere trasmesso alle amministrazioni con

l'uso delle tecnologie dell'informazione e comunicazione se formato e inviato nel rispetto della normativa

vigente.

Page 140: Dispensa Di Amministrativo - 1

140

Il dovere di procedere

Tutte le ipotesi di atti di iniziativa esaminate sopra, ad eccezione della proposta non vincolante, sono

caratterizzate dal fatto che sorge, quale effetto endoprocedimentale, il dovere per l'amministrazione di

procedere. Ciò è rilevante ai fini della formazione del silenzio, che presuppone il dovere di procedere, e

dell'eventuale tutela giurisdizionale. È fatto divieto alle pa di richiedere l'autenticazione della sottoscrizione delle domande per le partecipazioni a selezioni per

l'assunzione nelle pa, nonché ad esami per conseguimento di abilitazioni, diplomi o titoli culturali. La sottoscrizione di istanza da

produrre agli organi della pa o a gestori o esercenti di pubblici uffici può essere apposta in presenza del dipendente, e comunque non

è soggetta ad autenticazione ove l'istanza sia presentata unitamente a copia fotostatica di un documento di identità del sottoscrittore.

L'istanza e la copia fotostatica possono essere inviate per via telematica. Tutte le istanze e le dichiarazioni da presentare alla pa

possono essere inviate anche per fax e via telematica ( in questa ultima ipotesi esse sono valide se sottoscritte mediante firma digitale

basata su di un certificato qualificato e generata mediante dispositivo per la creazione di una firma sicura).

Per quanto attiene ai documenti, quelli da chiunque trasmessi alla pa tramite fax soddisfano il requisito della forma scritta e la loro

trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale.

L'istanza come rappresentazione degli interessi

Le istanze hanno un contenuto rappresentativo di interessi, svolgendo una funzione anticipatrice di quella

che la legge affida alle memorie e osservazioni che possono essere prodotte nel corso dell'istruttoria; talora la

legge prevede l'onere in capo al richiedente di allegare atti o documenti volti ad attestare il ricorrere di

determinati requisti, consentendo l'agevolazione nell'accertamento dei fatti e la verifica dei requisiti.

Tenendo conto che sulle istanze potrebbe formarsi il silenzio-assenso(cap.VII), questi atti del privato sono

destinati ad assumere una importanza sempre maggiore, costituendo una sorta di progetto di conformazione

dell'attività del privato che funge da base per la determinazione dell'effetto giuridico.

Istanza erronea, incompleta e sanabile

A fronte dell'istanza, l'amministrazione deve dar corso al procedimento, ma può anche rilevarne l'erroneità o

l'incompletezza; in queste ipotesi, prima di rigettare l'istanza, essa deve procedere alla richiesta della

rettifica, che introduce il principio della sanabilità delle istanze dei privati.

I contorni del dovere

Il dovere di procedere sorge non solo nei casi un cui la legge tipizzi l'istanza ma altresì nelle fattispecie nelle

quali ragioni di giustizia e di equità impongano l'adozione di un provvedimento. Più in particolare il

consiglio di stato fa riferimento all'istanza diretta ad ottenere un provvedimento favorevole (vi è dovere salvo

che la domanda sia manifestamente infondata) e all'istanza con cui il privato sollecita l'esercizio di poteri

sfavorevoli nei confronti di terzi.

La denuncia

In caso contrario l'atto del privato non si configura come istanza in senso proprio, bensì come mera

denuncia, con la quale si rappresenta una data situazione di fatto all'amministrazione, chiedendo l'adozione

di provvedimenti o più genericamente di misure senza tuttavia che l'ordinamento riconosca in capo a quel

privato un interesse protetto (es. Sollecitazione per l'adozione di un atto di autotutela).

Lo statuto del procedimento ad istanza di parte

Dal combinato disposto di una serie di articoli della l.241/1990 emerge una sorta di statuto dei procedimenti

ad istanza di parte. In particolare ad essi si applicano la disciplina dell'indennizzo da ritardo, l'art.10bis che

impone la comunicazione agli istanti dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza e l'art.20 che prevede

l'eventualità dell'indizione della conferenza di servizi e la possibilità di definizione del procedimento

mediante silenzio-assenso, purché non ricorrano i casi di esclusione.

L'iniziativa d'ufficio

E' prevista dall'ordinamento nelle ipotesi in cui il tipo di interessi pubblici affidati alla cura di

un'amministrazione esiga che questi si attivi automaticamente al ricorrere di alcuni presupposti,

indipendentemente dalla sollecitazione proveniente da soggetti esterni. Le segnalazioni devono normalmente

essere soggette ad una verifica, che attiene alla sufficienza del fatto rappresentato ai fini dell'attivazione del

procedimento. Il risultato di questa verifica non necessariamente deve essere formalizzato.

Page 141: Dispensa Di Amministrativo - 1

141

8. Il dovere di concludere il procedimento

L'individuazione dell'inizio del procedimento è importante perché solo con riferimento ad esso possiamo

stabilire il termine entro il quale il procedimento deve concludersi. L'art,2 l,241/1990 stabilisce che tale

termine decorre dall'inizio di ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda se il procedimento è

ad iniziativa di parte. Qualora sia previsto un termine perentorio per presentare l'istanza la tempestiva spedizione di quest0ultima mediante lettera

raccomandata con avviso di ricevimento sia equipollente alla presentazione della domanda e che la data di spedizione valga come

data di presentazione. Nel caso il procedimento inizi su richiesta o proposta di un soggetto pubblico, il termine decorre dalla data di

ricevimento della proposta o della richiesta, purché nel caso di quest'ultima essa sia sia completa e regolare. Se la domanda deve

essere corredata da documentazione, il termine comincia a decorrere dal momento in cui essa risulti completa.

Il termine per la conclusione del procedimento

Entra il termine stabilito il procedimento deve essere concluso. Il procedimento si conclude con l'emanazione

dell'ultimo atto della seria procedimentale, che non necessariamente coincide con il provvedimento. Fino a

che non si perfezione la cd fase integrativa dell'efficacia, il provvedimento non produce effetti, e quindi il

procedimento non può definirsi concluso.

Il dovere di emanare un provvedimento espresso e il provvedimento espresso in forma semplificata

All'art.2 il legislatore afferma che la pa ha il dovere di concludere il procedimento mediante l'adozione di un

provvedimento espresso. Di conseguenza, il termine si intende rispettato quando l'amministrazione, entro 30

giorni emani il provvedimento finale. Molti procedimenti possono concludersi con il meccanismo del

silenzio assenso, tuttavia se si ravvisano manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o

infondatezza della domanda, le pa concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in

forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto

ritenuto risolutivo. Questa disposizione introdotta nel 2012 (c.d. Anticorruzione) è destinata a ridurre lo

spettro dei casi in cui occorre adottare un provvedimento espresso di diniego pieno (cioè non semplificato).

Siamo davanti ad una modalità alternativa di estinzione del dovere di provvedere. È bene notare come la

disposizione parli di provvedimento semplificato e non di procedimento semplificato, per cui dovrebbe

essere applicate anche qui le garanzie prevista dalla l.241/1990 (compresa la comunicazione del preavviso di

diniego). Il provvedimento è certamente impugnabile e tendenzialmente soggetto al regime del

provvedimento classico, salvo il profilo di specialità individuato dalla norma, riferito alla motivazione.

...e la sua deroga

Con riferimento ai procedimenti ad istanza di parte l'art.20 ammette la possibilità che il procedimento sia

definito mediante silenzio-assenso. All'inerzia è collegata la produzione degli effetti corrispondenti a quelli

del provvedimento richiesto dalla parte. Il silenzio assenso può essere impedito emanando un

provvedimento di diniego. L'amministrazione ha quindi il dovere di provvedere in modo espresso soltanto

ove intenda rifiutare il provvedimento richiesto dal privato, potendo altrimenti restare inerte.

L'amministrazione ha il dovere di attivarsi qualora ritenga che la situazione che si realizzerebbe a seguito

della formazione del silenzio-assenso risulti in contrasto con l'interesse pubblico. L'art.20 tuttavia introduce

un'importante serie di eccezioni a questa regola (v.cap. VII), delimitandone l'ambito di applicazione.

In tali ipotesi, a fronte dell'inutile decorso del termine senza che l'amministrazione abbia emanato il

provvedimento salvi i casi di silenzio-rigetto, si forma il cd silenzio inadempimento, che non produce effetti

equipollenti a quelli di un provvedimento. Il cittadino a riguardo ha a disposizione più rimedi.

Vi è innanzitutto lo specifico strumento del ricorso avverso il silenzio, preordinato ad ottenere comunque un

provvedimento espresso; il giudice poi, in taluni casi, può pronunciarsi sulla fondatezza della domanda

(cap.X par.23). Le sentenze passate in giudicato che accolgono il ricorso proposto avverso il silenzio

inadempimento dell'amministrazione sono trasmesse alla corte dei conti.

Anche se l'amministrazione non decade dal potere di agire, il ritardo può causare a suo carico una

responsabilità civile ai sensi dell'art.2bis: le pa e i soggetti privati preposti all'esercizio di attività

amministrative sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato dall'inosservanza dolosa o colposa

del termine di conclusione del procedimento (cd danno da ritardo).

L'esercizio di poteri sostitutivi

L'art.2 disciplina poi importanti poteri sostitutivi , delineando un meccanismo, che può sfociare in una sorta

di avocazione o in commissariamento, attivabile su istanza di parte e gestito dalla dirigenza.

Page 142: Dispensa Di Amministrativo - 1

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L'organo di governo individua, nell'ambito delle figure apicali dell'amministrazione, il soggetto cui attribuire

il potere sostitutivo in caso di inerzia. È prevista pure una misura suppletiva; infatti nell'ipotesi di omessa

individuazione, il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale, o in mancanza, al dirigente

preposto all'ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente nell'amministrazione.

Il meccanismo è attivato su sollecitazione di parte: decorso inutilmente il termine per la conclusione del

procedimento, e senza che sia fissato un termine finale, il privato può rivolgersi al responsabile perché entro

un termine pari alla metà di quello originariamente previsto concluda direttamente il procedimento attraverso

le strutture competenti o con la nomina di un commissario. Stando alla lettera della norma, questa iniziativa non sospende i termini per proporre azioni giurisdizionali. Il responsabile della

sostituzione entro il 30 gennaio di ogni anno comunica all'organo di governo i procedimenti, suddivisi per tipologia e strutture

amministrative competenti, nei quali non è stato rispettato il termine di conclusione previsto dalla legge. Nei provvedimenti rilasciati

in ritardo su istanza di parte sono espressamente indicati il termine previsto dalla legge e quello effettivamente impiegato.

Ritardo e indennizzo

La disciplina di cui all'art.28 d.l.69/2013 ha introdotto l'istituto dell'indennizzo da mero ritardo, stabilendo

che nella comunicazione di avvio del procedimento e nelle informazioni sul procedimento pubblicate sui siti

Internet è fatta menzione del diritto all'indennizzo, nonché delle modalità e dei termini per conseguirlo e

sono indicati anche il soggetto cui è attribuito il potere sostitutivo e i termini a questo assegnati per la

conclusione del procedimento. La pa procedente, o in caso di procedimenti in cui intervengo più pa, quella

responsabile del ritardo e i soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative, in caso di

inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo corrispondono all'interessato, a

titolo di indennizzo per il mero ritardo, una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo con decorrenza

dalla data di scadenza del termine del procedimento, comunque complessivamente non superiore a 2mila E.

Le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento.

La disciplina si applica solo ai procedimenti iniziati ad istanza di parte, comunque con esclusione delle

ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici. In sede di prima applicazione la normativa riguarda

solo i procedimenti che interessano le imprese. Dal punto di vista procedurale l'istante è pero tenuto ad

azionare preventivamente il potere sostitutivo nel termine perentorio di venti giorni dalla scadenza del

termine di conclusione del procedimento. Nel caso di procedimenti in cui intervengono più pa, l'interessato

presenta istanza all'amministrazione procedente, che la trasmette tempestivamente al titolare del potere

sostitutivo dell'amministrazione responsabile del ritardo. Per quanto attiene alla tutela, nel caso in cui il

titolare del potere sostitutivo non emani il provvedimento nel termine previsto (metà di quello originario) o

non liquidi l'indennizzo maturato fino alla data della medesima liquidazione, l'istante può proporre ricorso

avverso il silenzio oppure, ricorrendone i presupposti, chiedere un provvedimento ingiuntivo. Se il ricorso è dichiarato inammissibile, il giudice con pronuncia immediatamente esecutiva, condanna il ricorrente a pagare in favore

del resistente una somma da due a quattro volte il contributo unificato. Il privato dunque prima di agire in via giurisdizionale, dovrà

essere sicuro che sussista l'obbligo dell'amministrazione di pronunciarsi sull'istanza.

La pronuncia di condanna a carico della amministrazione è comunicata alla corte dei conti al fine del

controllo di gestione sulla pa, al procuratore regionale della corte dei conti per le valutazioni di competenza,

e al titolare dell'azione disciplinare verso i dipendenti pubblici interessati dal procedimento amministrativo.

Questa è la disciplina immediatamente applicabile che potrebbe però essere modificata. Il dl 69/2013

aggiungendo un comma all'art.2bis della l.241/1990 stabilisce che il diritto ad ottenere un indennizzo per il

mero ritardo matura "alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge" o sulla base della legge, da un

regolamento emanato ai sensi dell'art.17 l.400/1988,. In poche parole si chiarisce che la nuova disciplina

dell'indennizzo da ritardo si applica, in via sperimentale e dalla data di entrata in vigore della legge di

conversione del decreto, ai procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività di

impresa iniziati successivamente a tale data e che gli oneri derivanti dal nuovo meccanismo restano a carico

degli stanziamenti ordinari di bilancio di ciascuna amministrazione interessata (decorsi diciotto mesi, sulla

base di un monitoraggio, con un regolamento saranno stabilite la conferma, la rimodulazione, con riguardo ai

procedimenti amministrativi esclusi, o la cessazione delle disposizioni).

Il ritardo come fonte di altra responsabilità

Il ritardo, attestato dalla pronuncia che condanna l'amministrazione a corrispondere l'indennizzo,

nell'emanazione dell'atto amministrativo rileva anche sotto il profilo della responsabilità del dipendente.

L'art.2c.9 stabilisce che la mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di

valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e

amministrativocontabile

Page 143: Dispensa Di Amministrativo - 1

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del dirigente del funzionario inadempiente. A ciò si aggiunge il fatto che l'ordinamento prevede la

responsabilità civile a carico dell'agente; infatti il privato può chiedere il risarcimento dei danni conseguenti

all'omissione o al ritardo nel compimento di atti o di operazioni cui l'impiegato sia tenuto per legge.

L'interessato, quando siano trascorsi sessanta giorni dalla data di presentazione dell'istanza deve notificare

una diffida alla pa e all'impiegato, a mezzo di ufficiale giudiziario. Decorsi inutilmente trenta giorni dalla

diffida egli può proporre l'azione volta ad ottenere il risarcimento. Tale procedura è prevista dalla legge anche nel caso di omissione o ritardo di atti (diversi dall'istanza iniziale) endoprocedimentali da

compiersi d'ufficio. In tale ipotesi la diffida è inefficace se non siano trascorsi 60 giorni dal compimento dell'atto che deve precedere

l'atto oggetto di diffida.

Il ritardo nei procedimenti è considerato rilevante anche ai fini della lotta alla corruzione: le amministrazioni

provvedono al monitoraggio periodico del rispetto dei tempi procedimentali attraverso la tempestiva

eliminazione delle anomalie. I risultati del monitoraggio sono consultabili sui siti web istituzionali.

L'art.328 c.p.

Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro 30 giorni dalla richiesta redatta in forma

scritta da chi vi abbia interessa non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del

ritardo è punito con la reclusione fino a 1 anno o con la multa fino a 1032 E. La norma sanziona anche il rifiuto quando esso attenga ad un atto identificato in relazione ad una delle finalità specificate dalla

norma stessa (ragioni di giustizia, sicurezza, ordine pubblico, igiene e sanità).

La disciplina è comunque destinata a mutare: la l.190/2012 contiene una delega al governo per adottare un

decreto legislativo per la disciplina organica degli illeciti e sanzioni correlati al superamento dei termini di

definizione dei procedimenti amministrativi.

Il termine di 30 giorni coincide con quello che risulta fissato dalla l.241/1990. La disciplina si completa

tuttavia con ulteriori sei regole.

a. per le amministrazioni statali può essere diversamente disposto con uno o più decreti del Pres. Consiglio

dei ministri. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono secondo i propri ordinamenti i termini nei procedimenti

di loro competenza. Il termine di 30 giorni vale solo ove essi non provvedano o la legge non indichi

espressamente un termine diverso;

b. il termine stabilito con decreto o dagli enti non può essere superiore a 90 giorni(limite alla discrezionalità);

c. in casi particolari (sostenibilità tempi profilo organizzativo, natura interessi, complessità procedimento) il

termine massimo è elevato a 180 giorni, occorre tuttavia la deliberazione del Consiglio dei ministri;

d. l'eccezione è costituita dai procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti

l'immigrazione, questi possono sforare anche il limite dei 180 giorni;

e. le autorità di garanzia e di vigilanza, fatto salvo quanto previsto da specifiche disposizioni, disciplinano in

conformità ai propri ordinamenti i termini relativi ai procedimenti di loro competenza, senza spazi di

intervento per il governo;

f. per i procedimenti di verifica o concernenti beni culturali e paesaggistici, e quelli in materia ambientale,

restano fermi i termini stabiliti dalla normativa speciale.

Interruzione e sospensione dei termini

I termini possono essere interrotti o sospesi. Nel primo caso, l'art.10bis, in riferimento a procedimenti ad

istanza di parte, stabilisce che prima della formale adozione di un provvedimento negativo l'amministrazione

comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Questa

comunicazione interrompe i termini che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle

osservazioni, o in mancanza, dalla scadenza del termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione

attribuito agli istanti per presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. Tale disciplina non si applica alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di

istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali. Un'interpretazione sistematica della legge sembrerebbe consentire una mera

sospensione dei termini ove la comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza non abbia alimentato alcun

contraddittorio e non determinato nessun arricchimento istruttorio.

Con riferimento alla sospensione l'art.2 c.7 dispone che i termini possono essere sospesi, per una volta sola e

per un periodo non superiore a 30 giorni, per l'acquisizione di informazioni o certificazioni relative ai fatti

non attestati in documenti già in possesso della pa o non direttamente acquisibili presso altre pa.

Si cerca di limitare in tutti i modi la sospensione; a ciò v aggiunto che l'art.2 afferma l'applicabilità delle

disposizioni relative all'indizione della conferenza di servizi decisoria.

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Il principio tempus regit actum

nel nostro ordinamento vige il principio tempus regit actum: ogni atto deve essere disciplinato dalla

normativa vigente al momento in cui esso è posto in essere. Il principio vale anche per il provvedimento

finale, quindi, nell'ipotesi in cui la sua emanazione richieda ai sensi della normativa sopravvenuta l'esistenza

di atti endoprocedimentali non previsti dalla legge precedente e non sussistenti, l'amministrazione dovrà

rifiutarsi di emanarlo (fatta salva l'ipotesi di integrazione).

Mutamento della disciplina relativa a requisiti e presupposti

il problema dei requisiti e dei presupposti sostanziali previsti per l'emanazione di un provvedimento è delicato, in particolare la

questione riguarda il rilascio di permessi di costruire: nelle more della conclusione del procedimento può ad esempio mutare il piano

regolatore generale al quale i permessi devono essere conformi, con la conseguenza che, a rigor di logica, l'amministrazione

dovrebbe emanare un provvedimento di diniego. La giurisprudenza ha tuttavia introdotto un temperamento in relazione alle ipotesi in

cui vi sia un contenzione davanti alla giurisdizione amministrativa.

La teoria del ius superveniens

quando, successivamente all'accoglimento del ricorso della parte e all'annullamento di un atto di diniego della pa, siano mutate le

regole urbanistiche si ritiene applicabile da parte dell'amministrazione la disciplina sopravvenuta, anche se sfavorevole per il

cittadino vittorioso; tuttavia per individuare la disciplina sopravvenuta applicabile occorre far riferimento alla data della notificazione

della sentenza di accoglimento del ricorso. Resterebbero quindi inopponibili al privato le variazioni normative sopravvenute dopo la

notificazione della sentenza mentre devono essere prese in considerazione quelle emanate prima di quel momento.

Il consiglio di stato ha poi aggiunto che: il ricorrente che abbia ottenuto l'annullamento del diniego di concessione edilizia ma che

risulti sfavorito dalla nuova disciplina urbanistica sopravvenuta prima della notificazione della sentenza ha un interesse qualificato a

richiedere una variante del piano. Oggi il ricorrente vittorioso, esistendo i presupposti, può agire per il risarcimento dei danni patiti a

seguito dell'illegittimo diniego. Nell'ipotesi in cui il jus superveniens intervenga nella fase procedimentale di controllo, la tesi seguita

è quella per cui, non avendo in essa il provvedimento ancora acquisito efficacia, l'organo di controllo deve tenere conto della

legislazione vigente al momento in cui sta espletando la sua attività.

9. Il responsabile del procedimento

La legge disciplina la figura del responsabile del procedimento che svolge importanti compiti sia in

relazione alla fase di avvio dell'azione amministrativa sia allo svolgimento del procedimento nel suo

complesso.

L'individuazione del responsabile del procedimento

L'art.4 stabilisce che le pa sono tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di loro

competenza l'unità organizzativa responsabile dell'istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale,

nonché del provvedimento finale. Tale determinazione potrebbe poter avvenire con qualsiasi atto purché pubblicato; tuttavia

il consiglio di stato ha ritenuto che essa debba avvenire con atto regolamentare.

Dopo aver determinato le singole unità organizzative competenti, sorge l'obbligo ad individuare all'interno di

ciascuna di esse il responsabile del procedimento, persona fisica che agirà in concreto.

L'art.5 afferma che il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altri addetti la

responsabilità dell'istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il procedimento, nonché dell'adozione del

provvedimento finale. Il secondo comma prevede inoltre che qualora l'assegnazione non fosse effettuata è

considerato responsabile il funzionario preposto all'unità organizzativa.

I compiti

dalla lettura della normativa vigente emerge un profilo di guida del procedimento, coordinatore

dell'istruttoria e organo di impulso. Il responsabile è inoltre il punto di riferimento sia per i privati che

per le amministrazioni coinvolte. I compiti sono indicati nel particolare dall'art.6.

Valutazione condizioni di ammissibilità, requisiti di legittimazione e presupposti per l'emanazione del

provvedimento (attività preliminare all'esame nel merito e di delibazione in ordine alla sussistenza di

requisiti); svolge funzioni anche istruttorie: accerta d'ufficio i fatti, dispone il compimento degli atti,

acquisisce i documenti e adotta le misure per un corretto svolgimento dell'istruttoria. Chiede il rilascio di

dichiarazioni e la rettifica di quest'ultime o di istanze erronee od incomplete. Questo istituto chiamato

regolarizzazione delle domande dei privati è molto importante: la pa può ammettere il cittadino a correggere

gli errori materiali in cui sia incorso nonché a completare la documentazione incompleta o non conforme

(nel caso di concorso la regolarizzazione non può essere ritenuta violazione della par condicio).

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Per la regolarizzazione delle dichiarazioni sostitutive v. Cap. V par. 12.

Il responsabile ha compiti di impulso del procedimento: propone l'indizione o ,avendone la competenza,

indice le conferenze di servizi. Se non è competente per l'adozione del provvedimento finale trasmette gli

atti all'organo competente, altrimenti emana egli stesso il provvedimento. La comunicazione dei motivi

ostativi all'accoglimento prima della formazione adozione di un provvedimento negativo la effettua il

responsabile del procedimento. L'organo competente per l'adozione del provv. Finale ove diverso dal

responsabile del procedimento non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria se non indicandone la

motivazione nel provvedimento finale. In tema di sportello unico il procedimento si svolge normalmente in via telematica presso la struttura.

Il responsabile del procedimento come interfaccia della pa nei confronti del cittadino

da quanto esposto sopra è evidente come il responsabile del procedimento sia il soggetto della pa che

instaura il dialogo con i soggetti interessati al procedimento, mediante la comunicazione dell'avvio del

procedimento, prosegue nella fase della partecipazione e anche dopo l'emanazione del provvedimento finale

mediante la comunicazione, la pubblicazione e le notificazioni previste dall'ordinamento.

Il concetto di unità organizzativa responsabile

Bisogna stabilire che cosa si intende con unità organizzativa responsabile, l'espressione non viene infatti utilizzata in maniera

univoca. Qualora il procedimento si articoli in più fasi si potrebbe ipotizzare la presenza di più responsabili, tuttavia L'art.2 c.1 d.lgs.

165/2001 stabilisce che le pa sono ordinate secondo il criterio della trasparenza dell'azione amministrativa anche attraverso

l'istituzione di apposite strutture per le informazioni ai cittadini e di attribuzione ad un unico ufficio, per ciascun procedimento, della

responsabilità complessiva dello stesso.

L'art.4 l.241 consente alle pa di individuare l'unità responsabile, così, nei casi in cui il procedimento si articoli in più amministrazioni,

si è ritenuto che dovrebbero essere individuati più responsabili. Si ricordi che possono essere stretti degli accordi tra pa per ovviare a

questo tipo di problemi.

L'art.5 nell'occuparsi del responsabile dell'unità organizzativa, utilizza l'espressione "dirigente dell'unità organizzativa". Ciò però non

implica che responsabile di ciascun procedimento sia per forza un dipendente con qualifica dirigenziale, potrà essere anche un

dipendente non dirigente e di conseguenza non competente all'emanazione del provvedimento finale. È quindi consentito che il

responsabile del procedimento sia un soggetto diverso dall'organo con competenza esterna.

Unità responsabili dell'istruttoria ed unità competenti all'emanazione dell'atto finale

L'art. 4 dispone che le pa devono individuare per ciascun tipo di procedimento le unità organizzative

responsabili dell'istruttoria nonché del provvedimento finale. Bisogna capire se ci debba essere o meno

identità tra le unità responsabili dell'istruttoria e quelle deputate all'adozione dell'atto terminale.

La competenza a emanare l'atto finale è eteronomamente prevista in modo vincolante dalla legge cui spetta

stabilire gli organi aventi rilevanza esterna. È quindi possibile che le unità responsabili del procedimento

siano anche quelle non competenti ad emanare l'atto. Ciò rispecchia bene la potestà di autorganizzazione

della pa. Bisogna però tenere presente che il responsabile del tipo di procedimento coincide con l'organo

competente ad emanare l'atto nei casi di mancata individuazione dell'unità organizzativa da parte della pa,

mentre se la pa si attiva ad indicare unità responsabili diverse da quelle competenti non ci sarà identità tra

queste. In tema di sportello unico per l'edilizia il responsabile dl procedimento formula una proposta di provvedimento finale.

La coincidenza tra responsabile del procedimento e dirigente in senso proprio dell'unità organizzativa,

organo a cui la legislazione attribuisce la competenza ad emanare atti amministrativi aventi effetti esterni è

spesso peraltro prevista dalle stesse fonti (regolamenti e leggi regionali).

C'è quindi una sorta di discrezionalità che non ci conduce però ad affermare che il responsabile

dell'istruttoria coincida con l'organo competente ad adottare il provvedimento.

Questa soluzione di non coincidenza apre la via alla configurazione di un nuovo tipo di relazione

interorganica, basata sulla indipendenza ed autonomia tra le due figure pur sottostando un rapporto di

dipendenza lavorativa. Il responsabile del procedimento deve svolgere attività di supervisione, conduzione,

sollecitazione e collegamento.

L'individuazione del responsabile non comporta l'automatica attrazione in capo ad egli della responsabilità

civile, penale e disciplinare, che rimane pertanto soggetta alle regole vigenti. D'altro canto il responsabile

potrebbe sempre commettere il reato ex 328 cp allorché rimanga inerte nella promozione del procedimento e

nel compimento degli atti che la legga affida alla sua competenza. Ove il responsabile abbia correttamente agito

dovrebbe potersi individuare il soggetto che ha effettivamente rallentato o bloccato il procedimento.

L'organo competente per l'adozione del provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del

procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del

procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale. La disposizione intende far

riferimento alla valutazione dei fatti oggetto dell'istruttoria, se diversa da quella del responsabile va motivata

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da parte del dirigente. La norma non obbliga il responsabile a predisporre una bozza ma nella prassi è stato

molto spesso così, giacché non è escluso che la disposizione venga interpretata come impositiva di un dovere

in capo al responsabile di delineare una sorta di proposta di decisione.

10. La comunicazione dell'avvio del procedimento

L'avvio del procedimento deve essere comunicato ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento è

destinato a produrre effetti diretti, a quelli che per legge debbono intervenirvi e ai soggetti diversi dai diretti

destinatari, che siano individuati o facilmente individuabili qualora dal provvedimento possa loro derivare un

pregiudizio.

Identificazione dei destinatari

Riguardo all'identificazione dei destinatari dell'atto e dei soggetti che devono intervenire per legge non si

pongono particolari questioni. I destinatari sono infatti i soggetti nella cui sfera giuridica è destinata a

prodursi la vicenda tipica determinata dall'esercizio del potere; sono i titolari di interessi legittimi oppositivi

o pretensivi. I soggetti che per legge devono intervenire sono in linea di massima enti pubblici.

La determinazione dei soggetti individuati o facilmente individuabili

Maggiori problemi sorgono in relazione ai soggetti individuati o facilmente individuabili ai quali potrebbe

derivare un pregiudizio. I soggetti devono essere facilmente individuabili, evitando all'amministrazione

defatiganti ricerche. Si tratta di quei soggetti che sarebbero legittimati ad impugnare il provvedimento

favorevole (cd controinteressati sostanziali) nei confronti del destinatario in quanto pregiudicati dal

provvedimento stesso, poiché portatori di un interesse legittimo.

(es. proprietario del fondo vicino a quello il cui proprietario ha richiesto un permesso edilizio. Il vicino sarà

beneficiato se il procedimento si concluderà con un diniego e pregiudicato in caso di provvedimento

favorevole.)

L'adempimento materiale della comunicazione di avvio del procedimento

La comunicazione dell'avvio è un compito del responsabile del procedimento, deve essere fatta mediante

comunicazione personale (notifica, comunicazione a mezzo messo comunale, raccomandata con avviso di

ricevimento, ricevuta), può anche essere effettuata in modalità differenti stabilite di volta in volta

dall'amministrazione, quando la comunicazione personale non sia possibile o particolarmente gravosa.

Il termine entro cui comunicare l'avvio del procedimento

La legge non stabilisce entro quale termine, a partire dal momento della ricezione dell'istanza di parte, la comunicazione debba essere

effettuata. Tale adempimento va comunque compiuto senza ritardo ed entro un termine ragionevole tenute presenti le circostanze.

Il contenuto della comunicazione di avvio del procedimento

La comunicazione deve contenere i seguenti elementi: amministrazione competente; oggetto del

procedimento; ufficio e persona responsabile del procedimento; data entro la quale deve concludersi il

procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia dell'amministrazione. Nei procedimenti ad iniziativa di

parte, la data di presentazione della relativa istanza; l'ufficio in cui si può prendere visione degli atti. La comunicazione va effettuata anche nei procedimenti ad istanza di parte nonostante il privato sia a conoscenza della pendenza del

procedimento: questo perché la comunicazione fornisce ulteriori ed utili informazioni ed indicazioni.

L'istituto della comunicazione è strettamente legato alla partecipazione al procedimento, perché consente

agli interessati di conoscere la pendenza di un procedimento che li vede coinvolti.

Nella comunicazione va menzionato il diritto all'indennizzo, comprese le modalità e i termini per

conseguirlo, viene inoltre indicato il soggetto titolare del potere sostitutivo e i termini a questo assegnati per

la conclusione del procedimento. La comunicazione non è necessaria nei casi di sub procedimenti che

confluiscano nel solco di un procedimento principale.

Le eccezioni al dovere di comunicare l'avvio del procedimento

L'art.13 esclude che le disposizioni del capo IV (compreso l'obbligo di comunicazione d'avvio del

procedimento) si applichino nei confronti dell'attività della pa diretta all'emanazione di atti normativi,

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amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, nonché ai procedimenti tributari.

L'art.7 c.1precisa che l'avvio in esame deve essere comunicato quando non sussistano ragioni di

impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento. Tali ragioni devono essere

evidenziate dall'amministrazione nella motivazione.

Categoria dei procedimenti senza obbligo di comunicazione dell'avvio

si può legittimamente derogare all'obbligo di comunicazione nel caso di procedimenti finalizzati all'occupazione d'urgenza delle aree

destinate alla costruzione di opere pubbliche e di ingiunzioni di demolizione o di sospensione di lavori nonché nei casi di

provvedimenti vincolati. In questo modo si è proceduto alla definizione in via generale di intere categorie di procedimenti

caratterizzati da esigenze di celerità.

I provvedimenti cautelari e la comunicazione di avvio del procedimento

L'art.7 c.2 l.241/1990 si occupa dei provvedimenti cautelari e consente all'amministrazione la loro adozione

anche prima della effettuazione della comunicazione dell'avvio del procedimento. Bisogna ritenere che

l'amministrazione possa adottare anche atti che anticipano gli effetti finali del provvedimento.

A differenza dell'ipotesi al c.1 qui l'amministrazione può soltanto differire nel tempo la comunicazione,

comunque richiesta. I provvedimenti cautelari sono posti a garanzia della futura determinazione contenuta nel provvedimento

finale assicurando che la sua adozione non sia inutile (es. sospensione di azioni che potrebbero frustrare l'effettività di una decisione

finale). L'ordinamento prevede limitati e tassativi provvedimenti che possono essere emanati a fini cautelari, quali le misure di

salvaguardia (tali atti impongono l'anticipazione a fini cautelari degli effetti normalmente definitivi di un piano urbanistico).

Non è semplice distinguere il campo di applicazione dei due commi: le situazioni disciplinate sembrano diverse, tuttavia le misure

cautelari sono normalmente adottate in via d'urgenza. Il tratto distintivo potrebbe essere nel fatto che nei provvedimenti cautelari,

caratterizzati da temporaneità degli effetti, l'esclusione della possibilità per i privati di conoscere la pendenza del procedimento è

strumentale non solo a ragioni di urgenza, ma altresì all'esigenza di non ostacolare o compromettere l'azione amministrativa. Non è

esclusa l'applicabilità del c.2 anche alle ipotesi di provvedimenti emanati in cui sussiste un 'esigenza di celerità, la norma esordisce

richiamando “le” e non “la” situazione in cui sussistano le ragioni di impedimento. L'esercizio del potere cautelare comporta un

ampliamento delle garanzie e delle opportunità di partecipazione del privato.

I procedimenti riservati

La dottrina ha evidenziato l'esistenza di altri procedimenti cd riservati, in ordine ai quali non dovrebbe

essere ammessa la partecipazione, alla quale è preordinata la comunicazione del procedimento. In questi casi

comunicazione e partecipazione potrebbero frustrare gli interessi curati dall'amministrazione ovvero la

riservatezza dei terzi. L'unico indice normativo che potrebbe giustificare la sussistenza di procedimenti riservati parrebbe

rinvenirsi nella disciplina sull'accesso (art.24).

La comunicazione di avvio del procedimento nella giurisprudenza

La giurisprudenza prima dell'introduzione dell'art.21 octies ha spesso interpretato in senso restrittivo la

norma che configura l'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento: essa ha talora escluso la sussistenza

dell'obbligo nelle ipotesi di attività vincolata, ritenendo che per certi procedimenti non sia rilevante o utile il

contraddittorio Cosi si finisce però per introdurre ulteriori requisiti non richiesti, trova così conferma la configurabilità della

partecipazione e quindi la necessità della comunicazione dell'avvio del procedimento anche nei procedimenti vincolati. Secondo il

consiglio di stato la norme sulla comunicazione dell'avvio del procedimento si applicano anche ai procedimenti relativi alla

dichiarazione di pubblica utilità implicita.

Omissione della comunicazione: le conseguenze

L'omissione della comunicazione configura una ipotesi di illegittimità, che può essere fatta valere solo dal

soggetto nel cui interesse la comunicazione è prevista (art.8c.4). Si vuole evitare che l'atto finale venga

caducato aprendo il via ad una ripetizione del procedimento, su iniziativa di chi faccia valere un vizio che

abbia pregiudicato la situazione di un altro soggetto. In caso di omissione trova applicazione l'art.21 octies

c.2 secondo cui il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione di

avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento

non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La norma dequota la rilevanza del vizio di

omessa comunicazione quando la partecipazione sarebbe stata inutile e ciò indipendentemente dal fatto

che si tratti di un procedimento in cui l'amministrazione dispone di poteri vincolati o discrezionali.

11. L'istruttoria procedimentale

L'istruttoria è la fase del procedimento funzionalmente volta all'accertamento dei fatti e dei presupposti del

provvedimento e alla acquisizione e valutazione degli interessi implicati dall'esercizio del potere. È condotta

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dal responsabile del procedimento. La decisione finale deve essere preceduta da una adeguata conoscenza

della realtà esterna. L'art.6 dispone ancora che l'organo competente per l'adozione del provvedimento finale

non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria se non indicandone la motivazione nel provvedimento

finale (v. par.9).

Nozione di fatti ed interessi L'istruttoria serve per acquisire interessi e verificare fatti. La distinzione è chiara in teoria, i fatti sono eventi gli interessi sono

aspirazioni, si complica un po' nella realtà delle cose, in quanto scorre tra loro una certa correlazione. L'accertamento dei fatti

consente dunque all'amministrazione di acquisire la conoscenza circa l'esistenza e il valore di un interesse, e correlativamente a presa

in considerazione di un interesse può rilevare l'esistenza di fatti importanti.

Acquisizione dei fatti ed acquisizione degli interessi

L'attività conoscitiva in senso proprio si svolge mediante una serie di operazioni i cui risultati vengono

attestati da dichiarazioni di scienza, acquisite al procedimento. I dati di fatto rilevanti possono essere

individuati dall'amministrazione oppure rappresentati dai terzi attraverso la partecipazione. Essi sono spesso

attestati da documenti, certificazioni o dichiarazioni esibiti all'amministrazione. Gli interessi vengono

introdotti nel procedimento attraverso l'iniziativa dell'amministrazione procedente, l'acquisizione delle

determinazioni altri soggetti pubblici, la indizione della conferenza di servizi e la partecipazione

procedimentale.

11.1 L'oggetto dell'attività istruttoria

Nel nostro ordinamento amministrativo vige il principio inquisitorio, in forza del quale l'amministrazione

non è, in linea di massima, vincolata dalle allegazioni dei fatti contenute nelle istanze e nelle richieste ad essa

rivolte.

L'oggetto dell'istruttoria ed il problema dell'estensione dell'attività conoscitiva

Ciò pone il problema dell'oggetto dell'attività istruttoria. L'analisi della sua estensione porta a due soluzioni

contrapposte: da un lato l'acquisizione del massimo numero di fatti, dall'altro quella secondo cui le uniche circostanze da accertare

sono quelle espressamente indicate dal legislatore. La prima pecca di imprecisione mentre la seconda soluzione tende a ridurre il

margine di scelta dell'amministrazione.

L'attività conoscitiva in relazione ai presupposti dell'agire

Il legislatore individua le situazioni di fatto che costituiscono i presupposti dell'agire attraverso modalità

diverse: talora definendo i fatti stessi con precisione, in altre ipotesi utilizzando categorie più generiche.

Attività conoscitiva e situazioni di fatto

Quando la norma identifica esattamente la situazione di fatto o la categoria dei fatti rilevanti

l'amministrazione dovrà accertare la corrispondenza tra situazione di fatto e indicazione normativa.

Attività conoscitiva e interesse pubblico

Qualora invece la norma indichi esclusivamente l'interesse pubblico da soddisfare, l'istruttoria dovrà

rivolgersi alla individuazione di una realtà di fatto che appaia idonea a configurare l'esistenza

dell'interesse pubblico stesso.

L'ordinamento può effettuare una scelta che preclude la valutazione e la comparazione di interessi attraverso

l'attribuzione di un potere vincolato; qualora venga assegnato un potere discrezionale, lo spettro di interessi

da considerare dipende dalle concrete situazioni. Spettro degli interessi e partecipazione procedimentale

Lo spettro degli interessi rilevanti in seno al procedimento può essere ricavato a contrario esaminando la disciplina della

partecipazione, che appunto è finalizzata a consentire l'introduzione degli interessi rappresentati dai soggetti legittimati: ove questi

non si attivino essa non è però esonerata dal dovere di evidenziare autonomamente gli interessi rilevanti, al fine di garantire il buon

andamento e l'imparzialità dell'azione amministrativa.

L'attività di selezione e di evidenziazione dei fatti e degli interessi non è priva di limiti e, in quanto tale, deve

essere adeguatamente motivata. Essa deve in primo luogo rispettare il principio di non aggravamento del

procedimento. È inoltre importante il riferimento al criterio della pertinenza all'oggetto del procedimento

(art.10). Non vanno infine dimenticati i canoni di logicità e congruità che devono guidare anche la decisione

in ordine all'estensione dell'attività istruttoria.

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11.2 Le modalità di acquisizione degli interessi e la conferenza di servizi cd istruttoria

Gli interessi rilevanti sono acquisiti al procedimento sia attraverso l'iniziativa dell'amministrazione sia a

seguito dell'iniziativa dei soggetti titolari degli interessi stessi. Gli interessi affidati alla cura delle pa, devono

talvolta essere necessariamente acquisiti, perché così dispone la legge. Le vie per la loro rappresentazione nel

corso del procedimento sono tre. L'amministrazione procedente può richiedere all'amministrazione cui è

imputato l'interesse pubblico da acquisire di esprimere la propria determinazione; ovvero può indire una

conferenza di servizi per l'esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti nel procedimento; oppure

infine l'amministrazione portatrice dell'interesse pubblico secondario può partecipare al procedimento ai

sensi dell'art.9 che consente di intervenire nel corso del procedimento anche ai soggetti portatori di interessi

pubblici.

La partecipazione al procedimento

Qui è sufficiente notare ce la norma apre la via all'esternazione non tipizzata degli interessi pubblici

La conferenza di servizi

Per ora è sufficiente rilevare come in sede istruttoria sia possibile acquisire gli interessi pubblici rilevanti in

un'unica soluzione: l'art.14 prevede infatti che qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari

interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, l'amministrazione procedente può indire una

conferenza di servizi. L'individuazione degli interessi rilevanti avviene a priori, in sede di convocazione della

conferenza, identificando i partecipanti; la manifestazione del punto di vista delle amministrazioni avviene

contestualmente ed in forma orale. La conferenza è indetta dal responsabile del procedimento e consiste in

una riunione di persone fisiche in rappresentanza delle rispettive amministrazioni, ciascuna delle quali

esprime il punto di vista dell'amministrazione rappresentata che confluisce in una determinazione conclusiva.

Infungibilità degli strumenti di acquisizione degli interessi pubblici

Le tre possibilità individuate in precedenza non sono perfettamente equivalenti quanto al tipo di interessi che

consentono di introdurre nel corso del procedimento. Con la partecipazione possono essere rappresentati

interessi da parte di soggetti pubblici solo nel caso in cui dal procedimento possa derivar loro un pregiudizio.

11.3 La partecipazione procedimentale

La partecipazione è uno degli strumenti più importanti previsti dalla l.241/1990, il cui principio trova

sostegno anche in fonti sovranazionali, in particolare l'art.6 Cedu.

Legittimazione alla partecipazione

Ai sensi degli art. 7 e 9 della l.241 sono legittimati all'intervento nel procedimento i soggetti nei confronti dei

quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti , i soggetti che per legge debbono

intervenire nel procedimento e i soggetti che possono subire un pregiudizio dal provvedimento purché

individuati o facilmente individuabili. Possono inoltre intervenire nel procedimento i portatori di interessi

pubblici o privai, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati (essi sono in

realtà interessi collettivi che la legge chiama interessi diffusi).

La differenza tra le categorie indicate all'art.7 e quelle indicate all'art.9 riguarda in primis la modalità con cui

i soggetti acquisiscono la conoscenza della pendenza di un procedimento nel quale intervenire: i primi

mediante comunicazione dell'avvio del procedimento, i secondi attraverso vie differenti. I soggetti di cui

all'art.7 sono titolari di un interesse legittimo (qualificato e differenziato), quelli contemplati all'art.9 hanno

un interesse differenziato ma non qualificato. La differenziazione è legata alla necessità che sussista un

pregiudizio. Non è poi necessario a differenza dell'art.7 che gli intervenienti siano individuati o facilmente

individuabili al momento in cui prende avvio il procedimento, questo perché l'art.7 prevede un dovere di

comunicazione di avvio del procedimento in capo all'amministrazione, il quale non può comportare un

aggravio eccessivo per l'amministrazione stessa, mentre la partecipazione dell'art.9 è indipendente dal

ricevimento dell'avviso del procedimento.

Partecipazione negli enti locali

Gli statuti degli enti locali possono ampliare la cerchia dei soggetti titolari del potere di partecipazione. In tal senso la disciplina

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locale prevede numerosi strumenti ed istituti di partecipazione ulteriori: consultazione, istanze, petizioni, proposte, referendum,

azioni popolari, diritto di accesso e di informazione dei cittadini.

Inoltre i comuni e le provincie potrebbero introdurre forme di istruttoria pubblica orale e aperta a tutti gli interessati per raccogliere

elementi rilevanti.

La dottrina ha spesso utilizzato la nozione di parti del procedimento, mutuando la terminologia

processualistica. Si sono così individuate parti necessarie (art.7) e parti eventuali (art.9). Tuttavia il concetto

di parte non può essere riferito in senso proprio alla funzione amministrativa: gli intervenienti non svolgono

nessuna funzione amministrativa, in quanto il potere è attribuito solo alla pa. I soggetti finali possono tutti

alla stessa stregua concorrere alla formazione della miglior decisione finale. Il grado di rilevanza del loro

apporto dipende dal materiale istruttorio che sono in grado di rappresentare nel procedimento: sotto questo

profilo l'unica differenza tra le due categorie sta nel dovere dell'amministrazione di attivarsi (art.7) o non

(art.9) per agevolare la loro partecipazione mediante comunicazione di avvio del procedimento.

Unica vera parte necessaria è l'amministrazione, o meglio, quella procedente: per quanto attiene agli altri

soggetti pubblici che debbono per legge partecipare al procedimento, molto spesso la legge prevede gli

strumenti per superare la loro inerzia (art. 14 e 16 l.241).

11.4 L'ambito di applicazione della disciplina sulla partecipazione procedimentale

Ai sensi dell'art.13 le norme contenute nel capo sulla partecipazione al procedimento amministrativo non si

applicano ai procedimenti volti all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di

pianificazione e di programmazione nonché a quelli tributari. La ratio consiste nel sottrarre atti di vasta portata e

di applicazione generalizzata alla ingerenza costituita dalla partecipazione di molteplici soggetti. In ordine agli atti

amministrativi generali si può osservare che essi non sembrano in grado di ledere e pregiudicare qualcuno

in particolare o non comportano la ponderazione di interessi che si appuntino su soggetti peculiari. Non per

questo la partecipazione ai procedimenti diretti all'adozione degli atti generali sarebbe infruttuosa.

L'unica categoria di procedimenti in relazione ai quali l'esclusione della partecipazione non pare creare

problemi particolari è costituita da quelli preordinati all'emanazione di atti normativi. Sussiste infatti una

pluralità formale e sostanziale di fonti che non ammette una regolamentazione generale e unitaria poiché

molte di esse risultano già soggette a leggi particolareggiate ed esaustive.

11.5 Aspetti strutturali e funzionali della partecipazione

Contenuto della partecipazione

La partecipazione al procedimento consiste nel diritto di prendere visione dei relativi atti e nella

presentazione di memorie scritte e documenti, che l'amministrazione ha il dovere di valutare ove siano

pertinenti all'oggetto del procedimento (art.10). Si tratta quindi di una partecipazione essenzialmente

documentale anche se non è esclusa la possibilità di un'istruttoria pubblica orale.

Per la categoria di soggetti ex art.7 la comunicazione di avvio del procedimento è atto strumentale e

necessario a garantirne la partecipazione; in secondo luogo l'esercizio di presa visione dei documenti

consente una miglior conoscenza del procedimento.

Funzione collaborativa della partecipazione

La funzione del procedimento è quella di consentire la miglior cura dell'interesse pubblico, si deve quindi

considerare la partecipazione come strumentale alla più congrua decisione finale in vista dell'interesse

pubblico: ha cioè una funzione collaborativa. Il soggetto che partecipa interviene certamente per tutelare la propria

posizione, tuttavia sul piano della teoria generale, il concetto di manifestazione indica un fatto capace di rivelare un altro fatto

giuridicamente rilevante.

Il contraddittorio di cui all'art.10 bis

Un discorso diverso richiede l'istituto della presentazione delle comunicazioni che l'art.10bis prevede con

riferimento a procedimenti ad istanza di parte allorché l'amministrazione abbia comunicato i motivi ostativi

all'accoglimento dell'istanza: esso è infatti espressione del principio del giusto procedimento, ed è

preordinato ad instaurare un contraddittorio con l'istante che tenta di convincere l'amministrazione a mutare

segno al provvedimento finale. La norma prevede che nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del

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procedimento prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli

istanti i motivi ostativi. Tra questi motivi non possono essere addotti inadempienze o ritardi attribuibili

all'amministrazione. La disciplina non si applica alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e

assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali.

Si tratta di una sorta di seconda comunicazione volta a suscitare un vero e proprio contraddittorio scevro di

valenze collaborative, sulla base di un progetto di decisione e non già relativo alla sola fase istruttoria: entro

il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per

iscritto le loro osservazioni eventualmente corredate da documenti.

L'atto, volto a stimolare l'introduzione di elementi preordinati a far superare i fattori ostativi, ha valenza

endoprocedimentale e, come tale, non appare impugnabile in via autonoma. Il termine di dieci giorni

dovrebbe essere sospeso ove il privato abbia proposto istanza di accesso, volto ad ottenere i dati e gli

elementi necessari onde poter partecipare in modo proficuo e informato, ma la legge tace sul punto. Il

cittadino è sicuramente interessato a partecipare anche se un freno potrebbe derivare dal timore di rivelare

elementi che potrebbe mantenere in serbo per impugnare il provvedimento di diniego e che, se offerti

all'amministrazione, potrebbero indurla a motivare diversamente il diniego. La norma lascia aperti molti

dubbi. Essa non riguarda tutti gli interessati, ma solo chi ha proposto istanza, e quindi frustra la posizione dei

controinteressati sostanziali. La disposizione non è coerente con il disposto dell'art.20 per cui nei

procedimenti ad istanza di parte si forma il silenzio assenso ove l'amministrazione non comunichi entro il

termine di trenta giorni il provvedimento di diniego. In ogni caso è possibile valutare il comportamento

complessivo dell'amministrazione ai fini della sua responsabilità. Ci si può infine interrogare sulle

conseguenze della mancata osservanza dell'art.10bis: il discorso va condotto tenendo conto della disciplina di

cui all'art.21 octies. Occorre osservare che la norma non dovrebbe trovare applicazione nella parte in cui si

riferisce alla comunicazione d'avvio del procedimento, per sua natura diversa dalla comunicazione di cui

all'art.10bis.

Verifica da parte della pa dei fatti rappresentati in sede di partecipazione

I fatti rappresentati dagli intervenienti non possono in linea di principio essere accettati acriticamente. Ogni

rappresentazione implica una selezione dei fatti, con la conseguenza che l'amministrazione può essere

chiamata ad estendere l'ambito oggettivo della realtà indagata, onde ricercare i fatti implicati in quella

rappresentazione.

Partecipazione e attività vincolata

Anche in ordine ai provvedimenti vincolati la partecipazione può essere assai utile e rilevante: non sarà

utilizzabile dall'amministrazione in quanto veicolo di introduzione di interessi, bensì come ausilio, per

meglio individuare la sussistenza dei fatti e dei presupposti che devono comunque essere accertati o valutati

al fine di provvedere.

Partecipazione come veicolo di introduzione di soluzioni alternative

Con la partecipazione è possibile introdurre anche ipotesi di soluzioni, le quali vanno ad arricchire il quadro

delle possibilità all'interno del quale l'amministrazione opererà la scelta finale. Questo tipo di intervento implica

un'attività e una capacità di elaborazione che solo alcuni privati possono possedere.

11.6 Partecipazione al procedimento, interessi procedimentali e loro tutela

Bisogna innanzitutto considerare la nozione di interessi procedimentali: trattasi di interessi strumentali ad

altre posizioni soggettive, che attengono a fatti procedimentali e che investono comportamenti della

amministrazione e soltanto indirettamente beni della vita.

La previsione generale della possibilità di partecipare al procedimento contenuta nella l.241 non soddisfa il

requisito della qualificazione tradizionalmente richiesta per il sorgere dell'interesse legittimo, che si fonda su

una relazione giuridicamente protetta che preesiste alla partecipazione stessa e che legittima l'esercizio

dell'azione processuale. Il pericolo di una partecipazione disarmata scaturisce non solo dall'eventuale

mancato riconoscimento della successiva legittimazione processuale ad impugnare il provvedimento

definitivo, bensì soprattutto dall'assenza di strumenti di tutela peculiari per gli interessi procedimentali nel

corso del procedimento stesso. (si pensi alla mancata valutazione di una memoria pertinente: l'annullamento dell'atto finale

comporterebbe la riapertura del procedimento onde consentire l'acquisizione della memoria ovvero la sua valutazione da parte

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dell'amministrazione, che potrebbe in ipotesi non mutare la propria scelta perché in ipotesi la memoria non apporta alcun contributo

rilevante).

La soluzione più apprezzabile non è però recepita dal legislatore, sarebbe cioè quella di prevedere per gli

interessi procedimentali forme di tutela immediate, non necessariamente giurisdizionali, ovvero meccanismi

procedimentali in grado di assicurare la possibilità di intervenire nel concreto farsi della scelta.

La legge in ogni caso si è mossa nel senso della limitazione dell'incidenza della violazione delle norme

procedimentali stabilendo al art.21octies che non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di

norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia

palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

11.7 Il diritto di accesso ai documenti amministrativi

La partecipazione offre la possibilità ai soggetti legittimati di presentare memorie scritte e documenti nonché

di prendere visione degli atti del procedimento. L'accesso ai documenti è dunque una delle facoltà che si

riassumono nell'istituto partecipativo.

L'autonomia del diritto di accesso

L'accesso ha una sua autonomia rispetto al procedimento, cioè il relativo potere può essere esercitato pure a

provvedimento concluso e non necessariamente è preordinato alla conoscenza dei documenti amministrativi

in via strumentale rispetto alla partecipazione.

Possiamo parlare di accesso endoprocedimentale, esercitato all'interno del procedimento, e di accesso

esoprocedimentale, relativo agli atti di un procedimento concluso.

Per quanto riguarda l'accesso collegato alla partecipazione, i soggetti legittimati ad esercitare il diritto di

accesso sono tutti quelli che abbiano titolo a partecipare al procedimento. Le situazioni giuridiche

legittimanti all'accesso a fini partecipativi non sono soltanto gli interessi legittimati ma anche i meri interessi

procedimentali. Negli altri casi l'art.22 indica quali soggetti legittimati tutti i soggetti privati, compresi quelli

portatori di interessi pubblici o diffusi che abbiano un interesse diretto concreto e attuale corrispondente ad

una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso. Ai sensi dell'art.

24 non sono ammissibili istanze di accesso preordinate a un controllo generalizzato dell'operato delle pa.

Le situazioni giuridiche soggettive legittimanti all'accesso

Una cosa è la situazione di base, cioè quella legittimante l'accesso, altro è la qualificazione del cd diritto di

accesso che può essere esercitato in quanto si sia appunto titolari della situazione legittimante. La natura

della pretesa a prendere visione dei documenti e ad estrarre copia cioè, non va confusa con la situazione

sottostante che deve sussistere affinché quella pretesa possa essere esercitata. A fronte del potere

amministrativo, la posizione del privato che esercita la pretesa all'accesso si atteggia a interesse legittimo.

Il cd diritto di accesso non sarebbe volto a fornire utilità finali, ma ad offrire al titolare dell'interesse poteri di

natura procedimentale volti in senso strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante.

Strumentale sarebbe anche l'azione giurisdizionale correlata, volta ad assicurare, al tempo stesso, la tutela

dell'interesse ma anche la certezza dei rapporti amministrativi e delle posizioni giuridiche di terzi

controinteressati. Onde evitare che l'istituto si traduca in una sorta di azione popolare, essere titolare di una

situazione giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente per esercitare il diritto di accesso, essendo

necessario che la documentazione chi si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale,

impedendone o ostacolandone il soddisfacimento, sicché occorre avere riguardo al documento cui si intende

accedere, per verificarne l'incidenza, anche potenziale, sull'interesse di cui il soggetto è portatore.

Legittimazione all'accesso e t.u. Enti locali

L'art.10 TU enti locali si occupa dell'accesso ai documenti degli enti locali e prevede l'obbligo per questi di dettare norme

regolamentari per assicurare ai cittadini l'informazione sullo stato egli atti e delle procedure e sull'ordine di esame delle domande che

li riguardino; il regolamento deve inoltre assicurare il diritto dei cittadini di accedere, in generale, alle informazioni di cui è in

possesso l'amministrazione.

Soggetti passivi del diritto di accesso

Il diritto di accesso si esercita nei confronti delle pa, delle aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e

dei gestori di pubblici servizi, nonché dei privati limitatamente alla loro attività di pubblico interesse

disciplinata dal diritto nazionale o dell'UE (art.22 c.1 lett.e l.241).

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Il diritto di accesso nei confronti delle Autorità di garanzia e di vigilanza si esercita nell'ambito dei rispettivi

ordinamenti. Un'ipotesi particolare di diritto di accesso è disciplinata dall'art.3 l.57/2001 con riferimento agli atti che concludono i

procedimenti di valutazione, constatazione e liquidazione dei danni: l'accesso da pare di chi abbia stipulato contrai di assicurazione

che lo riguardi si esperisce nei confronti delle imprese di assicurazione operanti nel ramo RCA auto. Se entro 660 giorni non è messo

in condizione di prendere visione degli atti l'interessato può rivolgersi all'Invass al fine di vedere garantito il proprio diritto.

La legge si occupa poi della figura dei contro interessati.

Oggetto del diritto di accesso: i documenti amministrativi

Sotto il profilo oggettivo, il diritto di accesso riguarda i documenti amministrativi di cui l'art.22 l.241,

fornisce una definizione ampia: è considerata tale ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica,

elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi a uno specifico

procedimento, detenuti da una pa e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura

pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale. Quindi non solo atti scritti su supporto cartaceo,

né solo provvedimenti finali ( ma anche atti interni o endoprocedimentali), né unicamente atti amministrativi

( tra gli atti utilizzati rientrano pure gli atti dei privati che confluiscono nel procedimento es. referto medico).

L'istanza di accesso

La richiesta di accesso, rivolta all'amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene, deve essere

motivata, indicare gli estremi del documento cioè gli elementi che ne consentano l'individuazione e far

constatare l'identità del richiedente. Essa dovrà poi giustificare la necessarietà del dato quando la sua

conoscenza sia strumentale alla difesa dei propri interessi giuridici o la sua indispensabilità nel caso di

documenti contenenti dati sensibili e giudiziari. Il diritto è esercitabile fino a quando la pa ha l'obbligo di

detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere.

Molto rilevante è il cd accesso telematico regolato dagli art.52 d.lgs.82/2005, art.41 d.lgs.82/2005 e art. 13

d.p.r. 184/2006. Tale strumento è stato tuttavia valorizzato in particolare dall'art. 1 c.30 l.190/2012 ed è

destinato ad acquisire una sempre più crescente importanza nei rapporti cittadino amministrazione.

La norma dispone che le amministrazioni, nel rispetto della disciplina del diritto di accesso ai documenti

amministrativi, hanno l'obbligo di rendere accessibili in ogni momento agli interessati, tramite strumenti di di

identificazione informatica, le informazioni relative ai provvedimenti e procedimenti amministrativi che li

riguardano, ivi comprese quelle relative allo stato della procedura, ai relativi tempi e allo specifico ufficio

competente in ogni singola fase.

Accesso informale

Se in base alla natura del documento richiesto non risulti l'esistenza di controinteressati allora il diritto di

accesso può essere esercitato in via informale mediante richiesta, anche verbale, all'ufficio amministrativo.

Essa viene esaminata immediatamente e senza formalità, accolta mediante indicazione della pubblicazione

contenente le notizie, esibizione del documento, estrazione di copie, altre modalità idonee.

Accesso formale

Se si riscontra l'esistenza di controinteressati, e quindi non è possibile l'accoglimento immediato in via

informale, o sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente, sulla sua identità, sui suoi poteri

rappresentativi, sulla sussistenza dell'interesse, sull'accessibilità del documento o sull'esistenza di

controinteressati, l'amministrazione invita l'interessato a presentare richiesta d'accesso formale. La disciplina

prevede la nomina di un responsabile del procedimento di accesso. La richiesta formale presentata ad amministrazione diversa da quelle competente genere in capo a questa il dovere di trasmettere la

domanda a quella competente. Ove la richiesta sia irregolare o incompleta l'amministrazione deve darne comunicazione entro dieci

giorni al richiedente a mezzo raccomandata od altro idoneo ad accertare la ricezione e i termini ricominciano a decorrere dalla

presentazione della richiesta perfezionata.

Determinazioni della pa sulla richiesta di accesso

A seguito della domanda di accesso l'amministrazione può:

a. invitare il richiedente a presentare istanza formale (in caso di richiesta informale non accoglibile);

b. rifiutare l'accesso (in ipotesi di carenza di legittimazione del richiedente e relativa motivazione);

c. differire l'accesso (l'accesso non può essere negato ove sia sufficiente ricorrere al potere di differimento);

d. limitare la portata dell'accesso (consentendolo solo ad alcune parti del documento);

e. accogliere l'istanza.

Mentre il rifiuto, il differimento e la limitazione devono essere motivati, la legge non stabilisce nulla in

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154

merito all'accoglimento. L'art.7 d.p.r. 184/2006 dispone che l'atto di accoglimento della richiesta contiene

l'indicazione dell'ufficio presso cui rivolgersi, nonché di un congruo periodo di tempo, comunque non

inferiore a quindici giorni, per prendere visione e ottenere copia dei documenti.

Con riferimento all'inerzia della pa l'art.25 l.241 dispone che trascorsi inutilmente 30 giorni dalla richiesta di

accesso senza aver ottenuto pronuncia da parte della pa, questa si intende respinta.

Esercizio del diritto di accesso

In caso di accoglimento il diritto di accesso si esercita durato il periodo indicato (mai inferiore a 15 giorni),

mediante esame gratuito ed estrazione di copia del documento (salve disposizioni vigenti in materia di bolli).

L'esame è effettuato dal richiedente o da persona da lui incaricata, con eventuale accompagnamento di altra

persona previa comunicazione delle generalità. L'esame avviene presso l'ufficio indicato nell'atto di

accoglimento.

Documenti sottratti all'accesso

Non tutti i documenti sono suscettibili di essere conosciuti dai cittadini ( è uno dei casi in cui

l'amministrazione rifiuta l'accesso). L'art.24 l.241 prevede che il diritto non possa essere esercitato nei

confronti di documenti protetti da segreto di stato, di segreto o di divulgazione previsti espressamente

dall'ordinamento(v.capXpar.23), nei procedimenti tributari, nei confronti dell'attività della pa diretta a

emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione e nei

procedimenti selettivi nei confronti di quei documenti contenenti informazioni di carattere psico attitudinale.

Spetta comunque alle singole pa individuare le categorie di documenti sottratti all'accesso ai sensi di tale

disciplina. Il c.6 rinvia inoltre ad un regolamento governativo per l'individuazione di casi di esclusione per

esigenze di tutela della sicurezza, difesa nazionale, politica monetaria, e ordine pubblico, quando inoltre

riguardino contrattazione collettiva nazionale o la riservatezza di persone fisiche o giuridiche.

Concetto di riservatezza e i controinteressati

Alcuni problemi nascono in quanto il fatto di ostendere un documento potrebbe incidere sulla posizione di

terzi. La l.241 distingue infatti tra interessati (titolari di una situazione giuridicamente tutelata e collegata al

documento cui è richiesta l'accesso) e controinteressati ( dal cui esercizio altrui dell'accesso vedrebbero

compromesso il loro diritto alla riservatezza).

Con il termine riservatezza si suole indicare quel complesso di dati, notizie e fatti che riguardano la sfera

privata della persona e della sua intimità personale.

Accesso civico

Nella direzione dell'aumento della trasparenza si muove la disciplina dettata dalla normativa anticorruzione.

Il d.lgs.33/2013 ha introdotto nel nostro ordinamento il cd accesso civico. La richiesta di accesso civico non

è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente, che non deve essere

motivata; è gratuita e va presentata al responsabile della trasparenza che si pronuncia sulla stessa.

L'amministrazione entro 30 giorni procede alla pubblicazione nel sito del documento richiesto e lo trasmette

contestualmente al richiedente, ovvero comunica l'avvenuta pubblicazione e ne trasmette collegamento

ipertestuale. In caso di ritardo il richiedente può ricorrere al titolare del potere sostitutivo che verificata la

sussistenza dell'obbligo di pubblicazione è obbligato ad adempiere ai doveri sopraelencati.

È sempre possibile infine la via della tutela giurisdizionale utilizzando il rimedio del ricorso in tema di

accesso mentre in generale spetta al responsabile della trasparenza controllare e assicurare la regolare

attuazione dell'accesso civico. Anche con riferimento all'accesso civico si pone il problema della riservatezza

dei dati.

Il diritto di accesso disciplinato dal codice della privacy

Detto ciò si rileva come la l.241 rinvia alla disciplina d.lgs.196/2003 che con riferimento alla riservatezza ha

riorganizzato ed innovato la normativa in materia di tutela dei dati personali (cd codice in materia di

protezione dei dati personali o codice della privacy).

Il diritto di accesso disciplinato dal codice della privacy: a) l'accesso ai propri dati personali

Ai sensi dell'art.7 di tale codice l'interessato ha diritto di ottenere dai soggetti pubblici la conferma del fatto che essi detengano dati

personali che lo riguardano, nonché la loro comunicazione in forma intelligibile. Ha diritto ad ottenere l'indicazione della

provenienza dei dati, delle finalità e delle modalità di trattamento, della logica applicata se avviene con strumenti elettronici, degli

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estremi dei soggetti responsabili nelle operazioni di trattamento, e dei soggetti a cui tali dati potrebbero essere comunicati.

È un vero e proprio diritto di accesso regolato al di fuori della l.241.

Una volta conosciuti i dati personali detenuti da un ente pubblico, l'interessato ha diritto di ottenerne l'aggiornamento, la rettifica,

l'integrazione, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima, la mera conservazione. Ha diritto inoltre, per motivi legittimi, di

opporsi al trattamento dei dati che lo riguardano, nonché al trattamento finalizzato all'invio di materiale pubblicitario.

L'art.8 prevede che tali diritti non possono essere esercitati se il trattamento di questi avviene ad opera di soggetti pubblici, per

esclusive finalità inerenti alla politica monetaria, al sistema dei pagamenti, al controllo degli intermediari e dei mercati finanziari.

Gli artt. 9-10 disciplinano le modalità di esercizio di questa tipologia di diritto di accesso, che si segnalano per la loro informalità e

per la semplificazione delle forme di comunicazione salvo che la richiesta di accesso sia rivolta ad un esercente una professione

sanitaria o a un organismo sanitario, nel qual caso la comunicazione deve avvenire solo per il tramite di un medico designato .

b) l'accesso ai dati personali di soggetti terzi

Questo vero e proprio diritto di accesso (quello diretto ad ottenere la comunicazione intelligibile dei propri

dati personali) non può essere utilizzato allorché l'esibizione documentale comporti anche la conoscenza di

dati personali di soggetti terzi rispetto al richiedente. Il c.5 art.10 tuttavia prevede una deroga, l'accesso non

può riguardare dati relativi a terzi salvo che la scomposizione dei dati trattati o la privazione di alcuni

elementi renda incomprensibili i dati personali relativi all'interessato. Tuttavia l'.art.19 c.3 del codice afferma

che la comunicazione e la diffusione di dati personali da parte di pa a soggetti pubblici o privati sono

ammesse unicamente quando sono previste da una norma di leggo o regolamento. Disposizione importante

perché ritiene sufficiente ai fini della comunicazione e della diffusione di dati, l'esistenza di una o legge e di

regolamenti. Questi ultimi sono identificabili nella l.241, nelle leggi adottate dalle regioni e nei regolamenti

attuativi di cui si son dotati diversi enti pubblici. La disciplina dell'accesso in tali casi è nuovamente

costituita dalla l.241. L'art.59 del codice privacy precisa infatti che i presupposti, le modalità, i limiti per

l'esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi contenenti dati personali, e la loro relativa tutela

giurisdizionale restano disciplinati dalla legge 241/1990 e dalla sue successive modificazioni, e considera di

rilevante interesse pubblico le attività finalizzate all'applicazione di tale disciplina.

Diritto di accesso e tutela della riservatezza

Riprendiamo ora il discorso del rapporto tra diritto di accesso e tutela della riservatezza. Esso nasce perché le

pa devono normalmente prendere in considerazione le esigenze di tutela dei terzi quando devono rispondere

ad un'istanza di accesso.

Titolare del diritto alla riservatezza e diritto di accesso lesivo della privacy

Il d.p.r. 184/2006 impone all'amministrazione di comunicare ai soggetti controinteressati individuati la

richiesta di accesso, prevedendo che costoro possano presentare motivata opposizione alla richiesta entro il

termine di 10 giorni, decorso il quale l'amministrazione provvede sulla richiesta. Come visto

precedentemente, qualora l'amministrazione ravvisi l'esistenza di controinteressati non può concedere

l'accesso informale ma solo quello scritta formale (ulteriore tutela per i controinteressati).

È molto importante la l.241 in quanto , quando l'accesso a documenti potrebbe confliggere con esigenze di

riservatezza di soggetti terzi, il codice della privacy fa esplicito riferimento ad essa; che in sostanza richiede

all'amministrazione di effettuare una ponderazione tra interessi contrapposti.

La l.241 dispone al riguardo che deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti

amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici,

spettando dunque all'amministrazione la relativa valutazione.

c) l'accesso ai dati sensibili e giudiziari

L'art.24 c,7 l.241 prevede poi che nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è

consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile. Il codice della privacy rinvia alla 241 anche in

questo caso, l'amministrazione cui è rimesso il giudizio sull'indispensabilità deve dunque applicare l'art.24

c.7.

d) l'accesso ai dati super sensibili

Se si tratta di atti idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale l'accesso è consentito solo nei termini

previsti dall'art.60 d.lgs.196/2003 (art.24c.7): il trattamento dei cd dati super sensibili è dunque consentito se

la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare è di rango almeno pari al diritto dell'interessato,

è cioè un diritto della personalità o un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile. Spetterà ancora una

volta all'amministrazione decidere in merito.

Diritti di accesso e pluralità delle situazioni giuridiche soggettive ad essi correlate

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Alla luce della disciplina della l.241 e del codice della privacy si configurano più tipologie di accesso:

a. accesso esoprocedimentale volto alla conoscenza dei soli dati personali del richiedente (regolato dal c.

privacy);

b. accesso esoprocedimentale volto alla conoscenza dei dati personali di soggetti terzi rispetto all'istante;

c. accesso esoprocedimentale volto alla conoscenza di dati sensibili e giudiziari;

d. accesso esoprocedimentale volto alla conoscenza di dati super sensibili;

e. accesso endoprocedimentale. A tale pluralità di forme di accesso corrisponderebbe simmetricamente pluralità di situazione giuridiche soggettive: nel primo tipo di

accesso la titolarità di un diritto soggettivo; nelle altre ipotesi l'istante sarebbe titolare di un interesse legittimo. Ricordiamo però che

l'ad.plen. 6/2006 ha deciso che l'accesso sarebbe una posizione strumentale rispetto ad altre situazioni giuridiche.

La tutela giurisdizionale dei diritto di accesso: a) nel codice del processo amm. e nella l. 241

La disciplina del diritto di accesso è completata dalla previsione di particolari forme di tutela.

Il d. lgs.104/2010 assegna al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, la tutela

giurisdizionale contro le determinazioni concernenti il diritto di accesso e nei casi di rifiuto (tar in primo

grado e Consiglio di stato in appello). La legge prevede un processo abbreviato e l'art.116 d.lgs.104 dispone

che l'azione può anche essere proposta in pendenza di un ricorso. Tale rito si applica anche all'accesso civico.

L'art.25 c.4 l.241, con specifico riferimento ai casi di rifiuto, espresso o tacito, e di differimento, consente

altresì al richiedente di chiedere di riesaminare la determinazione negativa nel termine di trenta giorni al

difensore civico (se agisce contro enti locali o regionali) o se agisce contro amministrazioni statali alla

commissione per l'accesso ai documenti amministrativi di cui all'art.27, inoltrando comunque la richiesta

pure presso l'amministrazione resistente. Scaduto infruttuosamente tale termine il ricorso si intende respinto.

Se invece tali organi ritengano illegittimo il diniego o il differimento, ne informano il richiedente e lo

comunicano all'autorità disponente e , ove questa non emani il provvedimento confermativo motivato entro

30 giorni dal ricevimento della comunicazione, l'accesso è consentito.

L'inerzia mantenuta sulla sollecitazione del difensore ha il significato di assenso. Nell'ipotesi in cui si sia rivolto al difensore civico il richiedente potrà adire il giudice amministrativo entro trenta giorni dal

ricevimento dell'esito dell'istanza. La legge cerca quindi di favorire questo strumento di tutela non giurisdizionale assicurando al

privato che il suo impiego non preclude l'azione dinanzi al giudice. Legge prevede poi che quando la Cada (commissione accesso

documenti amministrativi) è chiamata a decidere in merito ad una fattispecie cui l'accesso è negato o differito per motivi inerenti ai

dati personali riferenti terzi, debba essere richiesto parere obbligatorio e non vincolante del garante per la protezione dei dati

personali, chiamato a pronunciarsi nel termine di dieci giorni, decorso inutilmente il quale il parere si intende reso (art.25 c.4).

b) nel codice della privacy

Il codice della privacy affida invece la tutela del diritto di accesso volto ad ottenere la comunicazione in

forma intelligibile dei propri dati personali al Garante del trattamento dei dati personali o al giudice ordinario

(art.145 cod. privacy). Il giudice ordinario dispone di pieni poteri di cognizione e di condanna, anche al

risarcimento del danno. La presentazione del ricorso al garante rende improponibile un'ulteriore domanda dinanzi l'autorità

giudiziaria tra le stesse parti e per il medesimo oggetto. Qualora il ricorso al garante interessi l'accesso a documenti amministrativi il

garante chiede il parere, obbligatorio e non vincolante, della Cada e tale richiesta sospende il termine per la pronuncia sino

all'acquisizione del parere, e comunque per non oltre 15 giorni. Decorso inutilmente il termine il garante adotta la propria decisione.

La Commissione per l'accesso ai documenti

La l.241 istituisce presso la Presidenza del Consiglio una commissione per l'accesso ai documenti, nominata

con decreto del Pres. Repubblica, su proposta del Pres. Del Consiglio, sentito il Consiglio dei Ministri e

presieduta dal sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio. Tale commissione vigila affinché venga

attuato il principio di piena conoscibilità dell'azione amministrativa, redige una relazione annuale sulla

trasparenza dell'amministrazione e propone al governo le modificazioni normative necessarie per realizzare

la garanzia del diritto di accesso.

11,8. Procedimento, atti dichiarativi e valutazioni

Affinchè i fatti diventino rilevanti nel procedimento devono essere accertati dall’amministrazione procedente

o da altre. In questo modo l’amministrazione pone in essere atti dichiarativi, cioè atti costituiti da

dichiarazione di scienza che conseguono a un procedimento costituito da un insieme di atti e operazioni

finalizzati ad apprendere.

Gli accertamenti

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Possiamo ricordare gli accertamenti, dichiarazioni relative a fatti semplici meramente constatanti; alcuni

hanno la funzione di attribuire certezze legali con valore erga omnes (atti di certazione) mentre in altri casi il

riconoscimento formale di un certo modo di essere di una situazione ha rilievo ai fini dell’esercizio del

potere amministrativo.

Valutazioni tecniche

Anche le valutazioni tecniche vengono ad esistere per apprendere la sussistenza di un fatto ma a differenza

degli accertamenti riguardano fatti complessi quando non è possibile la valutazione sul criterio sussistenza-

insussistenza ma ne serva una che esuli dalla discrezionalità. Tali categorie di atti sono caratterizzate dal fatto che a seguito della loro emanazione, la situazione, il rapporto e il fatto

non vengono innovati ma hanno sempre la funziona di riconoscere formalmente una particolare condizione o un modo

di essere giuridico di un bene, di un rapporto o di un soggetto.

Atti dichiarativi e procedimento amministrativo

In relazione al procedimento sono fondamentali gli atti di accertamento della sussistenza dei fatti che sono il

presupposto per l’emanazione di un provvedimento, sono esercizio di poteri strumentali e producono quindi

solo effetti endoprocedimentali (attengono al procedere dell’azione verso la sua conclusione). Tali atti

rappresentano un momento del procedimento che sfocia nel provvedimento e quindi il relazione al quale il

cittadino sarà titolare di un interesse legittimo.

Valutazioni tecniche e procedimento amministrativo

Per qualificare un fatto complesso è necessario attuare un attività di valutazione formulando un giudizio

estimativo; se la valutazione rappresenta un momento del procedimento allora sarà anche in questo caso un

potere strumentale rispetto all’emanazione del provvedimento e ha effetti endoprocedimentali. A queste si

riferisce l’art. 17 della l.241/1990 (applicabile anche in caso di accertamenti) il quale prevede che “ove per

disposizione espressa di legge o di regolamento sia previsto che per l'adozione di un provvedimento debbano

essere preventivamente acquisite le valutazioni tecniche di organi od enti appositi e tali organi ed enti non

provvedano o non rappresentino esigenze istruttorie di competenza dell'amministrazione procedente nei

termini prefissati dalla disposizione stessa o, in mancanza, entro novanta giorni dal ricevimento della

richiesta, il responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche ad altri organi

dell'amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica

equipollenti, ovvero ad istituti universitari.” Tale disciplina non si applica però in caso di valutazioni che

debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della

salute dei cittadini che sono interessi pubblici assolutamente rilevanti e per i quali non si può prescindere

dalla valutazione degli organi preposti alla loro tutela. In questo ultimo caso le valutazioni tecniche vengono realizzate tramite V.I.A (valutazione di impatto ambientale) ai

sensi dell’art. 14-ter, l. 241/1990 al fine di impedire il sacrifico di alcuni interessi critici.

Inoltre al comma 3 l’art.17, l.241/1990 definisce che nel caso in cui l'ente od argano adito abbia

rappresentato esigenze istruttorie all'amministrazione procedente il termine può essere sospeso per una sola

volta e la valutazione deve essere prodotta entro 15 giorni dalla ricezione dei nuovi elementi.

Riserva di valutazione tecnica?

La disciplina dell’art. 17 mira quindi a evitare che si proceda senza che sia valutata la presenza di un

presupposto previsto dalla legge, valutazione che non è di competenza dell’amministrazione procedente che

non può quindi sostituirsi agli organi o agli uffici tecnici. Quindi può ritenersi come sussistente una riserva di

valutazione tecnica in capo ad alcuni organi o enti la cui valutazione non è sostituibile né dall’azione privata

né da quella dell’amministrazione. La dottrina si è pronunciata contro la sussistenza di una riserva di valutazione tecnica poichè definirebbe in capo

all’amministrazione un potere generale in contrasto con il principio di legalità.

Non è chiaro però il punto se tale riserva operi anche nei confronti del giudice chiamato a sindacare sulla

legittimità del provvedimento basato sulla valutazione: il problema di limite al sindacato si pone solo in

relazione alla verifica di un fatto che sia suscettibile di varie valutazioni. Se il presupposto è semplice il

giudice deve verificarne la sussistenza, mentre se è complesso e vi è possibilità di scelta si ritiene che il

giudice amministrativo possa operare una valutazione esterna, esaminando cioè la logicità dell’operazione

fatta dall’amministrazione. Secondo alcune pronunce, richiamando il principio del giusto processo, il giudice

può spingersi anche oltre il mero controllo formale avvalendosi di regole e conoscenze tecniche. In questo senso si lascia al giudice la possibilità di poter verificare l’attendibilità delle operazioni tecniche distinguendo

tra sindacato forte e sindacato debole: il primo comporta la sovrapposizione della valutazione del giudice a quella della

PA, mentre il secondo, intrinseco, è relativo ai fatti complessi. Ma la piena sindacabilità delle valutazioni tecniche è

lasciata al giudice ordinario il quale deve giudicare controversie in cui si deduce la violazione di un diritto soggettivo

che non può essere subordinato a scelte amministrative. In relazione alla riserva di valutazione e al sindacato

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giurisdizionale, è consentito al giudice di ricorrere a uno dei soggetti indicati dall’art.17, l.241/1990 per lo svolgimento

dell’attività istruttoria.

L’art.2, l.241/1990 conferma la riserva quando esclude che per i casi previsti dall’art. 17 possano applicarsi i

meccanismi di semplificazione previsti per limitare la sospensione, cioè istituti per sbloccare la situazione; è

quindi compito dell’amministrazione fissare termini per cui, se dovesse mancare la valutazione dell’organo

primo coinvolto, questa potrebbe essere acquisita da altri organismi.

Le attività istruttorie dirette all’accertamento dei fatti

La regola è che l’istruttoria è condotta dal responsabile del procedimento, che deve accertare i fatti

compiendo gli atti necessari, ma questi può anche utilizzare uffici di altre amministrazioni. L’ordinamento permette però un eccezione alla regola generale, e cioè che una parte dell’attività istruttoria sia svolta

dal privato secondo quanto previsto dall’art. 3, c.2, d.lgs. 123/1998 secondo cui possono essere stipulate convenzioni

“le cui obbligazioni hanno carattere privatistico per lo svolgimento di attività istruttorie”.

Natura dei poteri istruttori

In relazione ai poteri istruttori non è chiaro se questi siano implicati dalla titolarità a provvedere ovvero

richiedano una norma di legge che li attribuisca in modo separato:

1. per quanto riguarda i poteri che incidono sui cittadini si ritiene che non siano impliciti quelli che

consentono di incidere sulla loro sfera giuridica (soprattutto in merito a inchieste e ispezioni). In tema

c’è principio di tipicità e di nominatività per i poteri che incidono sulla sfera giuridica dei terzi devono

essere espressamente conferiti dalla legge.

2. vi sono poi poteri che non incidono sui diritti dei cittadini, e che sfociano in atti dichiarativi, e che si

possono ritenere connaturati al potere di disporre.

Rinnovazione e completamento dell’istruttoria

Per conoscere l’amministrazione utilizza numerosi strumenti e alcuni degli atti istruttori sono previsti dalla

legge come obbligatori. Talvolta però l’istruttoria non si esaurisce negli atti obbligatori poichè

l’amministrazione potrebbe aver bisogno di ulteriori elementi: il soggetto pubblico ha quindi la facoltà di

disporre il completamento o la rinnovazione dell’istruttoria non soddisfacente.

Principio inquisitorio e mezzi istruttori; divieto di aggravamento del procedimento

Il principio inquisitorio è applicabile alla scelta dei mezzi istruttori che l’amministrazione può utilizzare per

venire a conoscenza di fatti rilevanti.

Ma è posto comunque un limite alla discrezionalità dell’amministrazione in relazione alla natura e

all’estensione dei mezzi istruttori attraverso il principio di non aggravamento del procedimento.

Libera valutazione delle risultanze istruttorie I risultati dei mezzi istruttori possono essere liberamente valutati da parte dall’amministrazione: infatti può verificare,

ad esempio, la veridicità delle dichiarazioni rese chiedendo l’esibizione di documenti di identità o di riconoscimento in

corso di validità (art. 45 TU in materia di documentazione amministrativa). Un eccezione a tale potere è dato dalle

certificazioni che sono valide erga omnes e quindi vincolanti anche nei confronti dell’amministrazione.

Mezzi istruttori: documenti, certificati, autocertificazioni

I fatti semplici sono rappresentati nel procedimento tramite:

2. l’esibizione di documenti di identità o di riconoscimento in corso di validità;

3. acquisizione diretta (d’ufficio) di documenti e di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni

oggetto di dichiarazioni sostitutive; ai sensi dell’art. 2, c. 7, l.241/1990 i termini procedimentali possono

essere sospesi una sola volta per l’acquisizione di informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o

qualità non attestati in documenti già in possesso o direttamente acquisibili dalla PA. A riguardo l’art. 18, l.241/1990 afferma che “I documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi, necessari per

l'istruttoria del procedimento, sono acquisiti d'ufficio quando sono in possesso dell'amministrazione procedente, ovvero

sono detenuti, istituzionalmente, da altre pubbliche amministrazioni. L'amministrazione procedente può richiedere agli

interessati i soli elementi necessari per la ricerca dei documenti:” è introdotto l’onere a carico del cittadino di indicare

l’amministrazione competente e gli elementi indispensabili per il reperimento delle informazioni.

“Parimenti sono accertati d'ufficio dal responsabile del procedimento i fatti, gli stati e le qualità che la stessa

amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione è tenuta a certificare.” L’art. 43 del TU chiarisce che

l’acquisizione avviene unicamente per via telematica ed è quindi necessaria la predisposizione di adeguati strumenti di

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159

comunicazione: l’art. 18 l.241/1990 sancisce che è compito delle amministrazioni munirsi degli strumenti necessari per

l’applicazione delle regole in materia di autocertificazioni.

La realizzazione di tale rete di comunicazione tra amministrazioni è fondamentale per la corretta applicazione dell’art.

18 e la creazione del sistema pubblico di connettività.

4. produzione di documenti o autocertificazioni: atti relativi a stati, qualità personali o fatti non possono

essere usati e il cittadino deve quindi munirsi delle dichiarazioni sostitutive e l’amministrazione acquisisce

d’ufficio le relative informazioni (art. 40, d.p.r. 445/2000) In luogo dei documenti originali possono essere presentate copie autenticate ai sensi dell’art. 18 TU in materia di

documentazione.

La differenza tra dichiarazioni sostitutive e autocertificazioni sta nel fatto che le prime, sostituendo un

certificato, contengono dati contenuti nei pubblici registri, mentre le seconde attengono a situazioni non

contenute in atti e quindi paiono avere un contenuto più esteso.

Incidenza dell’autocertificazione sui poteri istruttori

L’aumento dei casi in cui il privato è chiamato a certificare il possesso di determinati requisiti o la

conformità dei proprio progetti alle prescrizioni normative e tecniche ha mutato l’oggetto dell’istruttoria

della PA, la quale accerta a campione la completezza e la regolarità delle dichiarazioni, e ha comportato

inoltre una riduzione del campo di applicazione del principio inquisitorio.

Inchieste e ispezioni

Tra i procedimenti volti ad accertare i fatti possono ricordarsi le inchieste e le ispezioni, che hanno ad

oggetto accadimenti ovvero beni di pertinenza di soggetti terzi; sono operazioni destinate a raccogliere

informazioni e dati di fatto necessari per provvedere e danno luogo a atti di accertamento.

L’inchiesta amministrativa (diversa da quella prevista dall’art. 82 Cost.) è un istituto che mira

all’acquisizione di scienza relativa a un evento straordinario che non può essere conosciuto mediante la

normale attività ispettiva e si conclude con una relazione. L’inchiesta è svolta da un organo ad hoc, di regola

collegiale, il quale dovrà porre in essere una determinata attività conoscitiva in relazione a un oggetto entro

un termine fissato; è servente nei confronti del procedimento principale, ma può avere carattere meramente

conoscitivo e non può essere strumentale nei confronti del procedimento.

L’ ispezione è un insieme di atti, di operazioni o di procedimenti mirati ad acquisizioni di scienza che ha a

oggetto situazioni o comportamenti e che avviene in un luogo esterno rispetto alla sede dell’amministrazione. Mira di regola a verificare la conformità alla legge e ai regolamenti di comportamenti e coinvolge beni e situazioni che

sono nella disponibilità di terzi; avviene in un luogo esterno e quindi, pur essendo strumentale a poteri diversi e relativa

a beni differenti, può essere ricondotta a unità sul piano del privato in ragione della necessità di tutelare il domicilio del

soggetto che la subisce.

L’ispezione è un atto interno che l’amministrazione rivolge all’ufficio competente che dovrà compiere

l’ispezione attribuendo quindi la legittimità a procedere all’ispezione nel caso concreto; qui il vero

destinatario è il soggetto che è “sottoposto” a ispezione. L’operazione si conclude con la redazione di una

relazione o rapporto o verbale. E’ dubbia la possibilità che questa possa essere usata successivamente in sede

processuale. L’ispezione è spesso strumentale a procedimenti di controllo ma non è escluso che sia disposta anche al di fuori di

queste situazioni: art. 6, c.1, lett. b) l.241/1990 dice che il responsabile del procedimento accerta di ufficio i fatti,

disponendo il compimento degli atti all'uopo necessari, e adotta ogni misura per l'adeguato e sollecito svolgimento

dell'istruttoria senza specificare in ordine alla natura del procedimento in corso. Trattandosi di un attività autoritativa

che incide sulla sfera giuridica di terzi è necessario che vi sia una legge che attribuisca tale potere.

La distinzione tra inchiesta e ispezione è netta nella teoria ma nella pratica i due istituti possono confondersi.

La fase consultiva: i pareri

Terminata l’attività istruttoria deve procedersi all’analisi del materiale così raccolto.

In alcune ipotesi la valutazione è lasciata a appositi uffici e organi, di norma collegiali e distinti da quelli che

svolgono l’attività di amministrazione attiva, dotati di particolare preparazione e competenza tecnica,

confluendo così in un ulteriore fase istruttoria costituita dal subprocedimento consultivo. Gli atti tramite i

quali viene esercitata quest’attività hanno contenuto di giudizio e sono detti pareri. Il giudizio di regola

attiene solo a valutazioni tecniche ma può investire anche l’apprezzamento di interessi pubblici. Devono però distinguersi dai pareri in senso stretto i:

1. pareri note: hanno la funzione di rappresentare il punto di vista o gli interessi dell’amministrazione che li emana;

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160

2. pareri dei consulenti ed esperti: resi da consulenti o esperti privati i quali non svolgono funzione consultiva;

3. parere di regolarità tecnica e contabile della proposta di deliberazione: inserito nelle deliberazioni dei comuni e

delle province è equiparabile ai controlli

Categorie di pareri

I pareri si distinguono in:

5. pareri obbligatori se l’acquisizione è prescritta dalla legge ma l’obbligatorietà non attiene al fatto che

l’organo consultivo sia tenuto a rendere il parere;

6. pareri facoltativi, non sono previsti dalla legge e l’amministrazione può richiederli purchè non

comportino un ingiustificato aggravamento del procedimento;

7. pareri conformi, pareri che lasciano all’amministrazione attiva la possibilità di decidere se provvedere o

meno, ma se provvede non può disattenderli;

8. pareri semivincolanti, che possono essere disattesi con l’adozione di un provvedimento da un organo

diverso da quello che di norma emanarlo impegnandone la responsabilità;

9. pareri vincolanti, cioè pareri obbligatori che non possono essere disattesi dall’amministrazione a meno

che non li ritenga illegittimi. Problema della natura dei pareri vincolanti Quest’ultima categoria ha creato numerose perplessità in dottrina. Se il parere deve essere espressione di un attività

consultiva nel caso di specie non può essere qualificato come parere avendo natura decisoria dato che

l’amministrazione non può discostarsene. Ma ritenendo che pertenga a una fase preparatoria rispetto a quella a cui si

collegano gli effetti esterni, si può qualificare come parere perchè incapace di produrre direttamente effetti (Travi). Ma

dal punto di vista sostanziale un parere che non lascia libertà di scelta in capo all’amministrazione non esprime

consulenza ma definisce la decisione preliminarmente; inoltre dal punto di vista procedimentale dovrebbe concludersi

che i pareri vincolanti determinano il contenuto delle decisioni e li si dovrebbe quindi ricondurli nell’ambito degli atti

decisori.

Il subprocedimento consultivo Il subprocedimento comincia con la richiesta di parere, che consiste nella formulazione di un quesito a cui segue lo

studio del problema e la discussione con la redazione e la comunicazione all’autorità richiedente. Il parere completa il

quadro istruttorio e quindi qualora l’amministrazione attiva di disattendere il parere dovrà adeguatamente giustificare

tale scelta (art. 3, l.241/1990).

Il procedimento consultivo è disciplinato dall’art. 16, l. 241/1990 e dalle successive modificazioni. Il parere

obbligatorio deve essere reso entro 20 giorni, nel caso di pareri facoltativi gli organi devono comunicare

entro quale termine il parere sarà reso, comunque non superiore ai 20 giorni dal ricevimento della richiesta.

La disciplina distingue a seconda che il parere sia obbligatorio o facoltativo: se è decorso il termine senza

che sia comunicato il parere obbligatorio ovvero senza che l’organo adito abbia rappresentato esigenze

istruttorie (parere reso obbligatoriamente entro 15 giorni dal ricevimento dei nuovi elementi)

l’amministrazione ha la facoltà di procedere indipendentemente dal parere; se è decorso il termine senza che

venga comunicato il parere facoltativo l’amministrazione deve procedere.

Nel primo caso c’è quindi mera facoltà dell’amministrazione la quale può attendere un parere tardivo ovvero

la possibilità di trasformare un parere obbligatorio in facoltativo. La ratio è quella di permettere la

prosecuzione del procedimento rinvenuta nel principio di non aggravamento del procedimento. Salvo il caso

di mancata richiesta del parere, il responsabile del procedimento non può essere chiamato a rispondere di

danni derivanti dal mancato parere; norma non applicabile nei casi in cui il parere debba essere reso da

amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriali e della salute dei cittadini. Nel caso in cui non venga rispettato il termine per il parere in materia ambientale e sanitaria non è concepibile che il

procedimento resti sospeso nell’attesa della risposta ma è possibile impiegare il rimedio processuale costituito dal

ricorso in cassazione.

I pareri del consiglio di stato Le richieste di pareri al consiglio di stato sono effettuate dagli organi di governo che esercitano le funzioni di indirizzo

politico-amministrativo (art.1, c.1, lett.f), d.lgs. 165/2001). L’art. 17, l. 127/1997 definisce i casi in cui la richiesta è

obbligatoria e abroga ogni diversa disposizione di legge che prevede i pareri del consiglio di stato come obbligatori ma

secondo Cons. Stato sez. I, n. 530/1998 l’abrogazione non riguarda i pareri vincolanti

Distinzione tra pareri, valutazioni tecniche e nullaosta

Dal punto di vista teorico la differenza è netta: il parere è espressione di funzione consultiva; le valutazioni

tecniche attengono a uno o più presupposti dell’agire che devono essere valutati nel corso dell’istruttoria; il

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nullaosta è un atto dell’amministrazione emanato in vista di un interesse differente da quello curato

dall’amministrazione procedente.

La fase decisoria: il rinvio

Completata la fase istruttoria il procedimento va verso la sua conclusione che può avvenire anche con atti

differenti, ovvero con un mero fatto (silenzio).

Procedimento mediante la conferenza di servizi

Quando l’amministrazione procedente deve acquisire intere, concerti, nullaosta o assensi di altre

amministrazioni deve seguire regole ben precise: l’amministrazione deve chiedere tali atti e qualora non li

riceva entro 30 giorni deve indire una conferenza di servizi decisoria.

La fase integrativa dell’efficacia

La produzione dell’efficacia del provvedimento, cioè l’attitudine a essere fonte di vicende giuridiche e a

qualificare situazioni e rapporti, è subordinata al compimento di determinate azioni. A quel punto si

perfeziona la fattispecie essendo integrate tutte le circostanze che l’ordinamento ha previsto per l’esistenza

del provvedimento.

Il provvedimento può essere dunque perfetto ma non efficace. Per gli atti non condizionati da ulteriori

operazioni l’efficacia si produce immediatamente, al momento in cui l’atto è posto in essere. Ex art. 21-

quarter i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente salvo che sia diversamente

stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo: l’efficacia può essere sospesa per gravi ragioni e per il

tempo strettamente necessario dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla

legge. Il termine della sospensione deve essere previsto dall’atto stesso e può essere prorogato o differito per

una sola volta e ridotto per sopravvenute esigenze. L’efficacia va poi distinta dall’esecutorietà che consiste

nell’attitudine dell’atto ad essere portato ad esecuzione anche coattivamente. Ulteriormente diversa è poi la

validità dell’atto che dipende dalla conformità alla norma dell’atto e dell’attività amministrativa posta in

essere: un atto può essere quindi legittimo ma inefficace, ovvero illegittimo (invalido) ma efficace.

Provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati

Le operazione di partecipazione condizionano l’efficacia degli atti recettizi, cioè quegli atti che diventano

efficaci solo nel momento in cui pervengono nella sfera di conoscibilità del destinatario.

Sono recettizi gli atti normativi, i provvedimenti giuridici della sfera giuridica (ex art. 21-bis, l.241/1990):

tali atti acquistano efficacia nei confronti di ciascun destinatario con la comunicazione personale. Ex art. 3, d.lgs. 82/2005 le amministrazioni comunicano con il cittadino che ne sia in possesso esclusivamente tramite il

domicilio digitale dello stesso.

La comunicazione è costitutiva di efficacia e apre l’esecuzione ai sensi dell’art. 21-quarter. Se per il numero dei destinatari la comunicazione è gravosa l’amministrazione provvede mediante forme di pubblicità

idonee: la norma fa intendere quindi che l’efficacia si produce nei confronti di ciascuno in un momento differente.

La regola relativa ai provvedimenti limitativi si spiega con la necessità di permettere ai destinatari di attivare

rimedi giurisdizionali e giustiziali; la disposizione prevede un eccezione rimessa alla scelta

dell’amministrazione e un’altra che ha però carattere legale.

- Il provvedimento limitativo della sfera giuridica del privato può contenere una clausola di immediata

efficacia (a prescindere della conoscenza del privato);

- i provvedimenti limitativi che hanno carattere cautelare e urgente sono immediatamente efficaci sulla base

della loro natura e dei presupposti che li legittimano. I termini della comunicazione rilevano anche ai fini dei termini di impugnazione e del procedimento.

La disciplina relativa alla l. 241/1990 va integrata con quella prevista dal d.lgs. 33/2013 che condiziona

l’acquisto di efficacia di alcune categorie di atti alla pubblicazione. Le misure di partecipazione che

condizionano l’efficacia di un provvedimento sono elementi costitutivi degli effetti che non si producono

fino a che non sono completate ma decorre dal momento in cui la situazione di conoscibilità è avvenuta. I

vizi e le irregolarità sulle modalità di partecipazione non si trasmettono agli atti che produrrà comunque i

suoi effetti

Il controllo preventivo e successivo

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C’è controllo preventivo se l’efficacia viene sospesa in attesa dell’esito del controllo. La tendenza della

legislazione è quella di ridurre l’ambito degli atti sottoposti al controllo preventivo poichè paralizza l’azione

amministrativa. Ma il controllo può anche svolgersi successivamente alla produzione degli effetti e si ha

quindi il caso del controllo successivo che non impedisce l’efficacia del provvedimento e funge da

condizione risolutiva se viene pronunciato l’annullamento. Il controllo dà luogo a un subprocedimento, che

consta di varie fasi: trasmissione dell’atto all’organo di controllo; istruttoria dell’atto da controllare; adozione

della misura e comunicazione dell’atto di controllo. Il potere di controllo deve essere esercitato entro un

certo termine e può essere esercitato una sola volta.

L’annullamento dell’atto soggetto a controllo preventivo di legittimità In tema di misure repressive bisogna fare riferimento all’annullamento dell’atto sottoposto a controllo preventivo: non

può definirsi un annullamento in quanto questo comporta l’eliminazione degli effetti che nel caso però di controllo

preventivo non si sono ancora prodotti. Inoltre non è un provvedimento ma un atto endoprocedimentale, e non può

essere inteso come un procedimento autonomo. Il decorso del termine per proporre impugnazione nei confronti di un

atto sottoposto a controllo non decorre dal momento in cui l’atto è stato emanato ma la giurisprudenza sul punto è

divisa.

Altri modi finalizzati a portare atti giuridici nella sfera di conoscibilità del destinatario

I più comuni mezzi di partecipazioni sono:

10. la pubblicazione nei confronti della generalità degli individui sulla Gazzetta Ufficiali;

11. la pubblicità destinata alla generalità di individui che consiste nella predisposizione di appositi

documenti che sono permanentemente disponibili;

12. la comunicazione individuale rivolta a un destinatario preciso e può avvenire mediante trasmissione

con piego raccomandato e avviso di ricevimento;

13. la convocazione che consiste nell’invito al destinatario a recarsi per ricevere un documento presso un

ufficio. Alcune operazioni vengono realizzate mediante determinate procedure ad opera di particolari soggetti: sono

le notificazioni caratterizzate dall’interposizione tra autore e destinatario dell’atto, di un soggetto terzo

denominato agente notificare, il quale documenta il ricevimento dell’atto. Ai sensi dell’art 10, c.5, l.265/1999 permette alle amministrazioni di avvalersi del mezzo posta.

Gli strumenti di comunicazione telematici La recente legislazione ha tenuto conto dei nuovi strumenti di comunicazione: l’art. 16, c.5, l.241/1990 consente la

comunicazione del dispositivo favorevole all’amministrazione telegraficamente; l’art. 6 l.412/1991 ammette che le

comunicazioni tra amministrazioni avvengano tramite telefax; l’art. 14 TU stabilisce che il documento informatico

inviato tramite via telematica si ritiene inviato e pervenuto al destinatario se trasmesso all’indirizzo elettronico da

questo indicato; l’art. 7, c. 3, l.664/1986 consente che l’avvocatura dello stato si avvalga dei mezzi telematici per la

trasmissione degli atti relativi agli affari contenziosi, consultivi e amministrativi.

Rilevante è l’istituto della trasparenza e ai sensi dell’art. 23 d.lgs. 33/2013 le pubbliche amministrazioni

pubblicano e aggiornano ogni 6 mesi gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico

e dai dirigenti.

L’inosservanza dell’art. 3 l. 241/1990

L’art 3 sancisce l’obbligo per l’amministrazione di indicare in ogni atto notificato il termine e l’autorità a cui

ricorrere. La giurisprudenza ha ritenuto la violazione di tale norma mera irregolarità che non può determinare

l’illegittimità dell’atto. Tale vizio consente però l’applicazione dell’errore scusabile con la conseguenza che

qualora il destinatario dell’atto avesse adito il giudice incompetente o avesse lasciato decorrere i termini

potrebbe beneficiare della rimessione in termini e quindi la possibilità di riproporre l’azione giurisdizionale.

La semplificazione procedimentale

La normativa circa la semplificazione amministrativa è introdotta dalla l. 59/1997 e di recente è stata intesa

come una leva per lo sviluppo in periodo di crisi con lo scopo di ridurre gli oneri amministrativi per cittadini

e imprese. (Gli oneri sono i costi degli adempimenti cui cittadini e imprese sono tenuti nei confronti delle

pubbliche amministrazioni nell’ambito del procedimento amministrativo, compreso qualunque adempimento

comportante raccolta, elaborazione, trasmissione di informazioni e documenti.)

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La l. 108/2011 prevede che negli atti normativi o nei provvedimenti amministrativi a carattere generale che

regolano l’esercizio di poteri autorizzatori e l’accesso ai servizi pubblici non possono essere introdotti nuovi

oneri a carico di cittadini, imprese e soggetti privati senza contestualmente eliminare o ridurre alcuni dei già

previsti.

La semplificazione procedimentale

La semplificazione del procedimento è il punto a cui mira l’ordinamento e quindi oggetto della legge che

annualmente mira al riassetto normativo; dal punto di vista organizzativo è stato istituito un comitato

interministeriale per l’indirizzo e la qualità strategica delle politiche di semplificazione.

Le fonti della semplificazione sono da rintracciare in decreti legislativi e fonti regolamentari di

delegificazione consegnando alla fonte amministrativa soggettiva parte della disciplina: in questo si assiste a

un depotenziamento della centralità del parlamento e il rafforzamento del secondo e concorrente polo

normativo.

L’oggetto della semplificazione sono le fasi procedimentali, l’adeguamento alle nuove tecnologie, la

riduzione dei termini. La legge 127/1991 si occupa anche di altri aspetti come la conferenza di servizi e la disciplina dei pareri e la

documentazione amministrativa.

La l. 241/1990 e la semplificazione Già questa legge si era occupata della semplificazione negli argomenti appena citati definendo negli artt. 14 e ss. come

istituti di semplificazione la conferenza di servizi, gli accordi tra amministrazioni, la prefissione di termini e

meccanismi per consentire di ottenere in termini certi pareri e valutazioni tecniche, l’autocertificazione, la

liberalizzazione di attività private e il silenzio assenso.

Nel procedimento amministrativo sono fondamentali sia “l’ansia di provvedere” sia le esigenze di matrice

pubblicistica volte a garantire la partecipazione e l’apporto degli interessati dall’azione ma la semplificazione

che viene realizzata dal legislatore riguarda essenzialmente il primo aspetto ma deve trovarsi una soluzione

al conflitto di tali interessi, entrambi rilevanti. Ad oggi notiamo una prevalenza del principio della speditezza

rispetto ai valori di garanzia, pubblicità e completezza dell’istruttoria: i principi di economicità, efficienza,

efficacia e speditezza spingono ai margini l’istruttoria e il procedimento e attirano al centro la decisione la

quale diventa l’elemento più importante dell’azione amministrativa.

La rapida conclusione del procedimento e gli interessi dei terzi L’interesse dei cittadini è fatto salvo garantendo la rapida conclusione del procedimento ma la semplificazione riguarda

solo i privati interessati all’effetto finale mentre pregiudica spesso i terzi che hanno interessi coinvolti. La normativa

prevede che i provvedimenti conclusivi dei procedimenti amministrativi sono adottati in via esclusiva da un

commissariato di governo che vi provvede previe apposite conferenze di servizi.

Nei limiti in cui la semplificazione verrà realizzata deve notarsi un mutamento del ruolo istituzionale

dell’amministrazione: rappresenterà la struttura responsabile e garante del conseguimento di un risultato.

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CAPITOLO VII

LA CONCLUSIONE DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO: IL

PROVVEDIMENTO E GLI ACCORDI AMMINISTRATIVI

La decisione

L’amministrazione conclude il procedimento con la decisione. La fase decisoria può essere costituita da una

serie di atti, da un atto proveniente da un unico organo (monocratico o collegiale) ovvero da un accordo. Se

la fase decisoria consiste nell’emanazione di atti o deliberazioni preliminari si assiste all’adozione di un atto

che per produrre i suoi effetti deve essere esternato a opera di un altro organo: l’atto del primo organo è

quindi determinativo del contenuto del provvedimento ma privo di effetti. L’organo chiamato a recepire la deliberazione o l’atto dispone del potere minimo di verificare la sussistenza dei

presupposti previsti dalla legge per l’emanazione dell’atto ovvero può riguardare la verifica di compatibilità di questa

con l’interesse di cui la prima è portatrice. La legge permette all’amministrazione di intervenire con un atto formale che

non rientri però in quelli dell’istruttoria ma che condiziona la decisione finale: in mancanza del consenso

dell’amministrazione che cura l’interesse il procedimento non può concludersi in senso positivo, come nel caso del

nullaosta, atto endoprocedimentale con cui un amministrazione dichiara che nulla si oppone all’adozione di un altro

provvedimento.

Un altro modello è quello della decisione su proposta: questa proposta, endoprocedimentale si colloca prima

della decisione finale ed è diverso dall’atto di iniziativa procedimentale. Si tratta di un atto di impulso

procedimentale necessario perchè il provvedimento finale possa essere emanato e indicativo del contenuto;

l’organo ha sempre il potere di rifiutare l’adozione dell’atto finale ma non può modificare il contenuto della

proposta.

Determinazione preliminare e atto finale; atto complesso Nell’atto complesso le manifestazioni di volontà attinenti alla fase decisoria e con unico fine si fondono in un medesimo

atto, e quindi le amministrazioni non si limitano ad accogliere o respingere la determinazione altrui poichè la trattativa

investe il contenuto dell’atto. L’interdipendenza tra le parti comporta che sia sufficiente l'illegittimità di una di queste

per determinarne l’annullabilità. Ma non è facile trovare una distinzione tra l’atto complesso e atti simili: proposta più

decreto con le medesime finalità.

L’atto complesso in senso proprio comprende anche gli accordi tra amministrazioni.

Concerto e intesa

Il concerto è un istituto che si riscontra nelle relazioni tra organi dello stesso ente: l’autorità concertante

elabora uno schema di provvedimento e lo trasmette all’autorità concertata che è in posizione di parità, fatto

salvo che la prima ha il potere di iniziativa. Il consenso della seconda autorità condiziona l’emanazione del

provvedimento e deve essere espresso tramite atto che non si fonde con quello dell’amministrazione

procedente che è l’unica ad adottare l’atto finale.

L’intesa è raggiunta da enti differenti e a tutti si imputa l’effetto: un amministrazione chiede l’intesa ad un

altra il cui consenso condiziona l’atto finale.

Determinazione e accordo, comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda; risultanze

dell’istruttoria e determinazione conclusiva della conferenza di servizi

Ci sono molti casi in cui la legge dà evidenza a momenti endoprocedimentali collegati con la decisione

finale:

-art. 11, l.241/1990 prevede che gli accordi che l’amministrazione conclude con i privati siano preceduti da

una determinazione dell’organo che sarebbe competente all’adozione del provvedimento.

- art. 10 bis in caso di procedimenti su istanza di parte impone di comunicare i motivi che ostano

all’accoglimento delle domanda volendo sollecitare gli istanti medesimi affinchè presentino osservazioni

- l’art. 6 stabilisce che l’organo che emana il provvedimento finale, se diverso dal responsabile del

procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria.

La conferenza dei servizi c.d. decisoria

La legge ritiene importante l’intervento delle altre amministrazioni per la definizione del procedimento ma

ammette che atti determinativi e condizionanti possano essere sostituiti dalla determinazione assunta nella

conferenza dei servizi. La conferenza decisoria è definita dall’art. 14, c. 2, l. 241/1990 e differisce in parte

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165

alla conferenza istruttoria; può essere adottata per acquisire intese, concerti, nullaosta o assensi di altre

amministrazioni e se ricorrono queste evenienza:

- avendo richiesti gli atti l’amministrazione non li ottenga nei 30 giorni previsti dall’amministrazione a cui

erano stati richiesti, in questo caso l’indizione è obbligatoria;

- l’indizione è facoltativa se nel termine sia intervenuto il dissenso di una delle amministrazioni ovvero nei

casi in cui sia consentito all’amministrazione procedente di provveder in assenza delle determinazioni delle

altre amministrazioni.

La legge fissa il termine per l’indizione ma anche quello della convocazione della conferenza.

L’art.14-ter stabilisce che la determinazione finale sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione,

concessione, nullaosta o atto di assenso denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti. E’ incerto se la conferenza possa sostituire anche i pareri ma l’opinione negativa si basa sul fatto che i pareri sono

espressione di una funzione consultiva e sono preparatori rispetto alle determinazioni.

Finalità delle conferenze di servizi

La conferenza di servizi tende all’accordo tra amministrazioni ma non dà luogo a un organo collegiale ma

ogni rappresentante partecipa nell’esercizio delle funzioni amministrative e gli effetti si producono sulle

singole amministrazione e non sulla conferenza; la struttura è variabile. Questa conclusione deriva dall’analisi del dato positivo: l’art. 15, l. 241/1990 afferma che anche al di fuori delle ipotesi

previste dall’art. 14 le amministrazioni possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in

collaborazione di attività di interesse comune.

Secondo quanto previsto dall’art. 14-ter anche se una delle amministrazioni convocate alla conferenza è

dissenziente l’amministrazione procedente può comunque adottare la determinazione conclusiva di

procedimento finale: la conferenza tende all’accordo ma permette il raggiungimento della decisione finale

anche se manca. Analoga disciplina si applica nel caso in cui sia inutilmente decorso il termine per

l’adozione della decisione conclusiva realizzando un alterazione dell’ordine delle competenze. La

determinazione conclusiva sostituisce le manifestazioni di interesse con cui le amministrazioni rappresentano

il loro punto di vista.

Conferenze decisorie

Le conferenze decisorie, sia quelle obbligatorie che quelle facoltative, possono essere definite interne.

L’analisi della disciplina consente di osservare che:

- nei procedimenti caratterizzati dalla necessità di risolvere problemi complessi è probabile che le

amministrazioni non trovino un accordo entro i termini fissati e quindi la conferenza finisce per diventare la

modalità ordinaria di esercizio del potere per i procedimenti ordinari;

- in caso di dissenso sulla richiesta l’indizione è facoltativa perchè l’amministrazione procedente potrebbe

condividere le ragioni del dissenso e quindi valutare inopportuno il ricorso a tela modalità di decisione.

Ma la disciplina prevede anche conferenze esterne che possono essere convocate dall’amministrazione

competente per l’adozione del provvedimento finale quando l’attività del privato è subordinata a atti di

consenso. E’ attribuita anche al privato la facoltà di indire la conferenza per indurre le amministrazioni a

esercitare in un unica soluzioni i vari poteri. Secondo quanto previsto dall’art. 20 l’indizione della conferenza

preclude la formazione del silenzio-assenso, non è quindi un mezzo utilizzato da chi abbia proposto istanza

per un provvedimento favorevole. La conferenza esterna risponde a esigenze di raccordo tra diversi episodi di esercizio di poteri provvedimentali e di

semplificazione a favore del cittadino.

La conferenza può essere convocata per l’esame contestuale di interessi coinvolti in procedimenti connessi:

può essere richiesta da una qualsiasi amministrazione o da quella che cura l’interesse prevalente ovvero da

qualsiasi altra amministrazione coinvolta. In questo caso si tratta di una conferenza istruttoria sia pur

interprocedimentale, quindi una conferenza esterna istruttoria. La legge prevede ulteriori tipi di conferenze: quella che può essere convocata dal concedente in caso di affidamento di

concessione di lavori pubblici, cioè quella relativa a istanze o progetti preliminari. La conferenza si esprime entro 30

giorni dalla data di richiesta e le informazioni fornite possono essere modificate o integrate solo se emergono

successivamente nuovi elementi significativi.

Il procedimento della conferenza di servizi

L’art. 14-ter definisce regole affinchè la conferenza si svolga in maniera da condurre alla rapida e positiva

conclusione del subprocedimento. Stabilisce che:

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166

- previo accordo tra le amministrazioni coinvolte, la conferenza di servizi è convocata e svolta avvalendosi

degli strumenti informatici disponibili secondo i termini e le modalità previste;

- la prima riunione è convocata entro 15 giorni ovvero in caso di particolare complessità entro 30 giorni dalla

data di indizione;

- la conferenza assume le determinazioni relative all’organizzazione dei propri lavori a maggioranza dei

presenti e può svolgersi in via telematica;

- la convocazione deve arrivare almeno 5 giorni prima della data fissata, se le amministrazioni non possono

partecipare possono chiedere che si svolga in una data diversa che deve essere fissata nei 10 giorni

successivi alla prima. E’ prevista un eccezione e quindi la convocazione può avvenire nei 15 giorni

successivi se la richiesta viene da un autorità preposta alla tutela del patrimonio culturale;

- viene stabilito il termine per l’adozione della decisione e i lavori non possono superare i 90 giorni;

- Ogni amministrazione partecipa con un unico rappresentante legittimo dell’organo competente a esprimere

in maniera vincolante la volontà su tutte le decisioni di competenza della stessa;

- in sede di conferenza possono essere richieste ulteriori documentazioni forniti entro 30 giorni. Nulla dice circa la possibilità di partecipazione dei soggetti privati: la disciplina fa riferimento alle amministrazioni e

non è concepibile una partecipazione nè che il soggetto si unisca al voto. A seguito delle innovazioni introdotte con la l.

69/2009 per cui anche i soggetti proponenti possono essere convocati e possono partecipare i concessionari e i gestori di

pubblici servizi: sono soggetti che non hanno diritto di voto ma possono esprimere la loro opinione. Per quanto riguarda

i privati possono partecipare solo quelli che sono destinatari delle provvedimento finale o dei suoi effetti.

Il superamento di inerzia, non collaborazione e dissenso

La legge introduce meccanismi volti a garantire la conclusione del procedimento superando inerzia o

l’assenza dei soggetti coinvolti.

Una volta convocata la conferenza si considera acquisito il consenso dell’amministrazione il cui

rappresentante non abbia espresso definitivamente la volontà dell’amministrazione rappresentata (art.14-ter,

c. 7 superamento della presenza non collaborativa). Ai sensi del c. 6-bis la determinazione motivata di

conclusione del procedimento, adottata alla fine della conferenza, sostituisce ogni autorizzazione,

concessione, nullaosta di competenza delle amministrazioni invitate ma risultate assenti: caso di silenzio-

assenso. La mancata partecipazione delle amministrazioni rileva ai fini della responsabilità dirigenziale e amministrativa. Resta

salvo il diritto del privato di dimostrare il danno derivante dalla mancata osservanza del termine di conclusione del

procedimento.

La stessa disciplina si applica in caso di inerzia o mancato rispetto dei termini previsti e infine anche ai casi

di dissenso (manifestato nella conferenza motivandolo).

L’amministrazione procedente non deve adottare la motivazione sulla base del criterio della maggioranza ma

deve prendere in considerazione le posizioni rilevanti espresse in sede di conferenza. Gli atti indicati nell’art. 14 non sono condizione necessaria per la conclusione del processo ma mediante la conferenza è

possibile superare il dissenso delle altre amministrazioni.

Il c. 3 dell’art. 14-quarter introduce deroghe ai meccanismi di semplificazione nel caso in cui dissenso sia

espresso da una regione o da una provincia autonoma in una delle materie di propria competenza al fine di

raggiungere un accordo entro 30 giorni dalla data di rimessione della questione alla delibera del Consiglio

dei Ministri: viene indetta una riunione del consiglio dei ministri a cui partecipa la regione/provincia

autonoma interessata attraverso un rappresentante legittimato ad esprimere in maniera vincolante la volontà

dell’amministrazione, i partecipanti devono indicare una soluzione condivisa; se l’intesa non è raggiunta nei

30 giorni viene indetta una nuova riunione; se manca nuovamente l’accordo le trattative sono finalizzate alla

risoluzione dei punti di dissenso; se l’intesa manca ancora allora la decisione viene presa con la

partecipazione dei presidenti delle regioni o delle provincie autonome interessate. Un meccanismo analogo si

applica nel caso di dissenso di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del

patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità. Una disciplina particolare è dettata per la valutazione di impatto ambientale (v.i.a.) attraverso una disciplina volta a

verifica in via preventiva la compatibilità ambientale di opere e progetti: deve essere acquisita dalla conferenza di

servizi; in caso di via statale può adire direttamente il consiglio dei ministri. Di particolare rilievo è la disciplina

prevista dall’art. 14-ter, c. 5, l. 241/1990 per cui se è intervenuta la via, la disciplina di dissenso si applica solo alle

amministrazioni preposte alla tutela dell’ambiente ecc.

In alcuni casi le conferenze di servizi sono obbligatorie.

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167

Silenzio significativo, silenzio-inadempimento, silenzio-rigetto, silenzio devolutivo

Il silenzio è l’inerzia dell’amministrazione. Il nostro ordinamento conosce vari tipi di silenzio ma la regola

generale da applicare è quella del silenzio-assenso, salvo disposizioni contrarie. La figura del silenzio è nata per ovviare all’inerzia dell’amministrazione che segue al ricorso del privato. Fino al 1971 il

ricorso avverso atti amministrativi era rimesso esclusivamente al giudice amministrativo e quindi la giurisprudenza, per

rispondere alla necessità dei cittadini di poter proporre ricorso avverso l’amministrazione rimasta inerte, ha elaborato la

figura del silenzio-rigetto: decorso un certo termine senza che l’amministrazione si sia pronunciata, il privato può

notificare un atto di diffida intimando di pronunciarsi entro un certo termine allo spirare del quale il ricorso si ritiene

rigettato. Dal punto di vista giustiziale si sposta sul punto di vista sostanziale: modificare il rimedio all’inerzia volto ad

ottenere il rilascio di un provvedimento favorevole. Il fine era quello di dare rilevanza giuridica all’inerzia

dell’amministrazione per consentire l’azione giurisdizionale. L’istituto nasce come elaborazione giurisdizionale

inizialmente applicando il via analogica l’art. 25, t.u. 3/1957 e ritenendo che il silenzio si formi a 30 giorni da quando è

stata presentata la diffida; il privato può quindi impugnare il silenzio nei termini di decadenza. Il legislatore è infine

intervenuto avverso il silenzio disciplinando il ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione riferibile all’ipotesi di

silenzio-inadempimento.

Silenzio significativo, in particolare silenzio-assenso

Nell’ipotesi di silenzio significativo, l’ordinamento collega allo spirare del termine effetti equipollenti

all’emanazione di un provvedimento favorevole ovvero di diniego (silenzio-assenso ovvero silenzio

diniego). L’ordinamento collega all’inerzia un determinato valore provvedimentale.

Il silenzio significativo è di origine legislativa e gli effetti che produce sono quelli che si avrebbero nel caso di

provvedimento espresso. I casi più importanti sono costituiti dal silenzio assenso, istituto che rappresenta un rimedio

all’inerzia dell’amministrazione che si risolve in un vantaggio per il privato che ha presentato istanza: è un risultato

favorevole sul piano sostanziale mentre negli altri casi il risultato è quello di poter proporre ricorso al giudice.

Silenzio diniego

Pochi sono i casi di silenzio diniego con fattispecie disciplinata dall’art. 53, c. 10, d.lgs. 165/2001 per cui

l’autorizzazione richiesta da dipendenti pubblici all’amministrazione di appartenenza ai fini dello

svolgimento di incarichi retribuiti si intende negata quando è trascorso inutilmente il termine di 30 giorni per

provvedere. Un altra ipotesi è prevista dall’art. 25 l. 241/1990 in materia di accesso ai documenti

amministrativi ma non è congruente con il principio del contraddittorio ingenerato dal preannuncio di

diniego di cui all’art. 10-bis, l. 241/1990.

Silenzio assenso

Molto più rilevante è il campo di applicazione del silenzio assenso introdotto con il d.l. 35/2005 che

costituisce la regola del nostro ordinamento per i procedimenti ad istanza di parte, salvo le eccezioni

previste. Il presupposto è dato da una valutazione astratta preliminare della compatibilità dell’interesse

privato con l’interesse pubblico. L’art. 20, l. 241/1990 afferma che “Fatta salva l'applicazione dell'articolo

19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio

dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità

di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel termine il

provvedimento di diniego.” Il campo di applicazione concede quindi con i procedimenti a istanza di parte. Il

c.4 definisce le eccezioni per cui non si forma il silenzio assenso ma il silenzio inadempimento salvi i casi di

silenzio-rigetto: “Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il

patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l'immigrazione,

l'asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa comunitaria impone

l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge qualifica il silenzio

dell'amministrazione come rigetto dell'istanza, nonché agli atti e procedimenti individuati con uno o più

decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di

concerto con i Ministri competenti.”

L’introduzione del meccanismo di silenzio assenso ha creato numerose critiche in dottrina poichè è divenuto la regola in

caso di inerzia: ex art. 97 Cost. si potrebbe concludere che il procedimento deve essere caratterizzato da un adeguata

fase istruttoria che viene però eliminata dal silenzio. L’introduzione di tale strumento dovrebbe avvenire con maggiore

cautela tanto che la Corte Cost., n. 393/1992 ha dichiarato incostituzionale la disciplina posta dalla l. 179/1992

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rilevando che il meccanismo del silenzio assenso avrebbe eliminato la fase istruttoria e la conseguente valutazione

discrezionale necessaria per i procedimenti del tipo disciplinato.

Al fine di evitare la formazione del silenzio l’amministrazione può operare utilizzando 3 modi diversi, due

dei quali disciplinati dall’art. 20.

14. può provvedere espressamente, fermo il principio di cui all’art. 2 in forza del quale

l’amministrazione ha il potere/dovere di provvedere con atto espresso.

15. ai sensi dell’art. 20 c. 1 può comunicare un provvedimento di diniego nel termine previsto dall’art. 2

ma la legge crea numerosi problemi interpretativi legati all’applicazione introdotta dall’art. 10-bis il quale

afferma che “Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente,

prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i

motivi che ostano all'accoglimento della domanda. La comunicazione di cui al primo periodo interrompe i

termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione

delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo.” Quindi prima di

di comunicare il diniego l’amministrazione deve comunicare il preavviso di diniego che interrompe i

termini. Ma non è sostenibile che l’amministrazione che abbia preannunciato il diniego per evitare la

formazione del silenzio assenso debba affrettarsi a provvedere nel minor termine residuo prima dello

spirare dei 30 giorni calcolati dall’inizio del procedimento in luogo del nuovo termine di ulteriori 30 giorni

poichè si avrebbe uno svuotamento dell’art. 10-bis.

16. l’amministrazione infine entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza può convocare una

conferenza di servizi. A seguito della formazione del silenzio assenso, l’amministrazione può assumere determinazioni in via di

autotutela (potere discrezionale) ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies.

In relazione al silenzio assenso può predicarsi poi una questione di legittimità-illegittimità: vi sono infatti elementi che

incidono sulla legittimità e quindi presupposto per la formazione del silenzio è la conformità della domanda alla legge.

Ma non è semplice distinguere tra presupposti e requisiti di esistenza e presupposti e requisiti di validità: i presupposti e

i requisiti di esistenza devono essere fissati dalla legge che è l’unica chiamata a determinare i requisiti la cui sussistenza

consente di ritenere esistente una situazione giuridica dell’ordinamento generale.

Si è poi discusso per vedere se nelle ipotesi di silenzio significativo permanga in capo all’amministrazione il dovere di

comunicare l’inizio del procedimento e di svolgere l’istruttoria con la conseguenza che in mancanza il silenzio sarebbe

illegittimo. La risposta è negativa in quanto i principi generali fanno capo ad un procedimento e la mancanza di un

provvedimento finale è coperto dal silenzio che copre anche eventuali carenze procedimentali.

In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni il privato è punito con la sanzione prevista dall’art.

483 c.p. e non è poi ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti alla legge o la sanatoria prevista

dagli artt. 19 e 20. La dichiarazione mendace o la falsa attestazione non permettono la formazione del

silenzio.

Silenzio inadempimento

Questo è un mero fatto e il suo campo di applicazione si ricava dall’art. 2 in combinato disposto con l’art. 20,

e quindi l’ambito in cui operano le eccezioni del silenzio-assenso e concerne le ipotesi in cui

l’amministrazione deve provvedere con un atto e ometta di provvedere a conclusione di procedimenti

riguardanti patrimonio culturale paesaggistico ecc nei casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione

di provvedimenti amministrativi formali, nonchè in relazione a procedimenti individuati con uno o più

decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.

Si tratta di ipotesi che hanno a che fare con interessi critici. L’articolo di riferimento fissa che trascorso il

termine fissato per la conclusione del procedimento può ritenersi formato il silenzio e quindi da questo

momento può proporsi ricorso per ottenere la pronuncia con cui il giudice ordina all’amministrazione di

provvedere entro un termine non superiore a 30 giorni. Il ricorso può essere proposto finchè perdura

l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini per provvedere (sono quindi

ammessi provvedimenti tardivi).

Silenzio rigetto

Il silenzio rigetto si forma nei casi in cui l’amministrazione sia rimasta inerte a seguito di un ricorso. La

disciplina è quella stabilita dal d.p.r. 1199/1971 il quale afferma che il ricorso si ritiene respinto trascorsi 90

giorni dalla presentazione del ricorso.

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Silenzio devolutivo

E’ disciplinato dagli artt. 16-17 l. 241/1990 e afferma che l’inutile il decorso del termine consente al soggetto

pubblico procedente di completare il procedimento anche senza un parere obbligatorio ovvero di rivolgersi

ad un altra amministrazione per ottenere una valutazione.

La segnalazione certificata di inizio attività

Diversa è la disciplina della dinamica giuridica realizzata mediante l’istituto della dichiarazione di inizio

attività (d.i.a) ex art. 19, l. 241/1990 facendo riferimento alla denuncia.

Dichiarazione di inizio attività e liberalizzazione

Con tale denuncia si elimina l’intermediazione di un potere amministrativo per l’esplicazione dell’attività

privata che trova quindi piena legittimazione nella legge che fissa il regime.

Con il nuovo art. 19 vengono introdotti poteri qualificati di autotutela delineando un regime analogo a quello

che si avrebbe se il potere autorizzatorio fosse stato mantenuto. Tale istituto è stato rinominato in

segnalazione certificata di inizio attività (Scia) sostituendo il precedente. La Dia era un istituto a efficacia

differita nel senso che l’attività non poteva iniziare subito dopo la dichiarazione ma con la disciplina delle

liberalizzazioni si chiarisce che la figura è compatibile con la liberalizzazione stessa.

Disciplina della segnalazione certificata di inizio attività

Con la modifica dell’art. 19 si è introdotto un meccanismo che prevede la sostituzione con una segnalazione

di un ampio spettro di provvedimenti: ogni atto di autorizzazione, licenza, permesso, nullaosta, comprese le

domande di iscrizione agli albi, il cui rilascio dipenda dalla verifica del possesso dei requisiti e presupposti di

legge o da atti amministrativi e non sia previsto alcun limite complessivo o specifici strumenti di

programmazione settoriale per il rilascio degli stessi. La segnalazione va corredata dalle dichiarazioni

sostitutive di certificazione.

Tali attestazioni sono corredate da elaborati tecnici necessari per consentire la verifica di competenza

dell’amministrazione: se è prevista l’acquisizione di atti o pareri di organi appositi o l’esecuzione di verifiche

preventive queste sono sostituite da autocertificazioni o certificati richiamati dallo stesso art. 19; la segnalazione può

essere presentata mediante posta con raccomandata con avviso di ricevimento. Più ampio sembrerebbe il campo di

applicazione dell’art. 20 che fa riferimento ai procedimenti su istanza di parte.

Con riferimento alle segnalazioni di inizio attività sono previste comunque delle eccezioni dal c. 1 dell’art.

19: casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici, culturali ecc; casi relative a attività economiche a

prevalente carattere finanziario (comprese quelle regolate dal TUB).

Quindi il privato che voglia ottenere un provvedimento di consenso può limitarsi a presentare la segnalazione

iniziando immediatamente l’attività (differenza con la precedente disciplina): è l’ultimo onere del privato che

non deve avanzare una domanda ma porre in essere un attività informativa cui è subordinato l’esercizio del

diritto.

Il ruolo dell’amministrazione è quindi mutato: è chiamata a svolgere una funzione di controllo successivo,

cioè in un momento in cui l’attività già si svolge lecitamente. L’amministrazione competente se accerta la

carenza dei requisiti nel termine di 60 giorni dal ricevimento della segnalazione adotta motivati

provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di esse

salvo che l’interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività e i suoi effetti entro un

termine fissato. L’amministrazione esercita quindi un potere d’ufficio di verifica e di controllo che può

sfociare nell’invito a conformare l’attività ovvero nel divieto di prosecuzione dell’attività cui segue la

rimozione degli effetti ma non è chiaro se ciò comporti l’emanazione di un ordine al privato ovvero una

misura di autotutela. Il potere di verifica è un vero e proprio potere amministrativo. La dottrina era divisa ritenendo che il carattere

vincolante dell’attività ne escluderebbe la qualificazione in termini di esercizio di un potere.

Autotutela

La prospettiva di un effettiva liberalizzazione dell’attività del privato risulta frustata dall’autotutela che

l’amministrazione può esercitare investendo la Scia. L’autotutela è però configura come un provvedimento

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di secondo grado che incide sugli atti amministrativi ma qui ricorre un atto del privato che viene equiparato a

un provvedimento.

Sulla base di questa sembra più corretto affermare che l’autotutela segue agli interessi consolidatisi dopo i 60

giorni ma il c. 4 per rafforzare la stabilità del privato afferma che decorso il termine di 60 giorni per

l’adozione del provvedimento di divieto o di ordine l’amministrazione può intervenire solo in presenza del

pericolo di un danno per il patrimonio artistico, culturale, per l’ambiente, per la salute e per la sicurezza

pubblica. In questo modo trascorso il termine il privato sarebbe sottratto a condizionamenti pubblicistici di

qualunque tipo. Ma la norma non è chiara e quindi il diritto di autotutela potrebbe permanere ( Corte Cost. n.

188/2012). Ma così come accade nel caso del silenzio assenso, la posizione del privato rimarrebbe esposta al

rischio di autotutela quindi ai sensi del c.3 l’amministrazione può sempre e in ogni tempo adottare

provvedimenti in esame. La ricostruzione dell’istituto oscilla tra il polo dell’atto privato in ottica di

liberalizzazione e quello del meccanismo caratterizzato dalla formazione di un assenso provvedimentale

mediante il silenzio.

Si è tentato di assicurare tutela al terzo pregiudicato dall’attività oggetto di dichiarazione: il terzo può contestare davanti

al giudice la dichiarazione del privato conferendole rilevanza pubblica ovvero censurando il mancato esercizio che la

legge conferisce all’ente. Ma vengono coinvolte tre categorie di interessi (richiedente, pubblico e del terzo): la

soddisfazione del primo comporta una piena liberalizzazione, mentre la soddisfazione degli altri due spinge a un

avvicinamento al modello del provvedimento.

Il diritto dell’UE mira a ridurre le barriere all’accesso ai mercati e quindi i regimi autorizzatori sono

giustificati solo in casi particolari, la Scia è quindi consentita come strumento perchè non costituisce una

barriera preventiva e per essere compatibile con il diritto europeo deve essere intesa come una dichiarazione

privata che apre la via a controlli successivi. Ma la fattispecie è più complessa poichè l’inerzia oltre il

termine previsto per l’esercizio preclude l’esercizio del potere.

l’art. 21, c. 2, l.241/1990 stabilisce che “Le sanzioni attualmente previste in caso di svolgimento dell'attività in carenza

dell'atto di assenso dell'amministrazione o in difformità di esso si applicano anche nei riguardi di coloro i quali diano

inizio all'attività ai sensi degli articoli 19 e 20 in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la

normativa vigente.” e non sono previsti termini.

Scia e normativa sulla liberalizzazioni

La normativa introduce un regime caratterizzato da vincoli pubblicistici e viene largamente utilizzato lo

strumento delle segnalazioni di attività di cui all’art. 19 l. 241/1990: la segnalazione è quindi un istituto

ordinario dell’attività liberalizzata.

5. L’atto amministrativo e il provvedimento amministrativo: osservazioni generali.

Tradizionalmente l’atto amministrativo è definito come qualsiasi manifestazione di volontà, giudizio o

conoscenza proveniente da una pubblica amministrazione nell’esercizio di una potestà amministrativa.

Nell’ambito degli atti amministrativi riveste però peculiare importanza il provvedimento, atto con cui si

chiude il procedimento amministrativo. Esso è emanato dall’organo competente, può essere anche collegiale

e in tal caso si differenzia da quello emanato dall’organo monocratico soltanto perché è preceduto da un

procedimento più complesso, dove gli interessi rilevanti sono introdotti dai componenti del collegio all’atto

della decisione.

Definizione di provvedimento amministrativo

Soltanto il provvedimento è dotato di effetti sul piano dell’ordinamento generale. La distinzione tra

provvedimenti e altri atti amministrativi corrisponde a quella fra atti aventi effetti sul piano dell’ordinamento

generale e atti non suscettibili di produrli. Non si vuole negare agli atti non provvedimentali un effetto

giuridico, tuttavia esso si esaurisce in un ambito per così dire interno alla sfera dell’amministrazione, perché

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essi non sono suscettibili di incidere su situazioni giuridiche di terzi. Tali atti hanno funzione strumentale e

accessoria rispetto ai provvedimenti.

L’amministrazione pone in essere anche comportamenti giuridicamente rilevanti che non sono atti

amministrativi in senso proprio (non sono atti giuridici), salvo che ravvisino manifestazioni, dichiarazioni o

pronunce di volontà, desiderio o rappresentazione: si tratta di operazioni materiali (in esecuzione di atti o

doveri scaturenti da norme) e di misure di partecipazione volte a atti nella sfera di conoscibilità dei terzi.

Il provvedimento è tipico e nominato e i suoi effetti non sono retroattivi, atteso che, di norma, la possibilità

di produrre effetti per il passato è riconosciuta solo al legislatore. Nel capitolo V si sono esaminati i vari

provvedimenti in ragione del tipo di effetti prodotti; sono ipotizzabili anche differenti classificazioni (che si

sommano a quella già accennata, che dal punto di vista soggettivo, distingue tra provvedimenti semplici e

complessi), fondate ad esempio sulla platea dei destinatari. Una categoria particolare, individuata dalla

dottrina (Greco) è quella dei provvedimenti costitutivi di rapporti privati. Sul particolare indirizzo

giurisprudenziale, il quale ammette la sindacabilità da parte del giudice amministrativo degli atti di alcuni

soggetti privati, sembrano concordare le massime magistrature ordinaria e amministrativa e in parte è anche

recepito dalla legge.

Secondo tale indirizzo spetta alla giurisdizione amministrativa decidere le controversie in tema di: gare di appalto indette da

concessionari di opere pubbliche, o da soggetti tenuti ad osservare le norme pubblicistiche sugli appalti,, scelta del contraente da

parte di società concessionaria di servizi pubblici, atti emanati da scuole legalmente riconosciute. In quei casi, oltre l’esigenza di

garantire al privato una “adeguata protezione”, viene concordemente affermato che l’attività amministrativa esercitata dal privato è

caratterizzata dal necessario perseguimento dell’interesse pubblico.

Nozione di pubblica amministrazione e atto amministrativo

La nozione di amministrazione dal punto di vista formale pare trascendere i limiti di una definizione in senso

soggettivo, per comprendere al suo interno anche l’attività di soggetti privati che esercitano in vario modo

funzioni pubbliche. Ma ciò non vuol dire ancora che quegli atti siano atti amministrativi. Quasi mai la

giurisprudenza adotta per essi tale qualifica, preferendo parlare di attività; essa non ha torto perché ai fini

della sottoposizione alla giurisdizione, la Costituzione usa l’espressione “atti della pubblica

amministrazione” e non è dimostrabile che essi necessariamente coincidano con gli atti amministrativi veri e

propri.

Basti pensare ai regolamenti, in ordine ai quali si ammette la impugnabilità giurisdizionale ai sensi dell’art.113 Cost., e che atti

amministrativi puntuali e concreti non sono. Resta da chiarire quali siano i limiti entro i quali tali atti dei privati siano da considerare

ammissibili. Se la discrezionalità comporta ponderazione di interessi pubblici, essa dev’essere riservata ai soggetti pubblici. Trattasi

in conclusione di atti solo equiparabili agli atti amministrativi.

L’interpretazione del provvedimento

Mediante l’interpretazione del provvedimento si perviene alla giuridica qualificazione dello stesso, del suo

contenuto e dei suoi effetti. Esso è composto di norma da una intestazione, nella quale è indicata l’autorità

emanante, da un preambolo, in cui sono enunciate le circostanze di fatto e quelle di diritto, dalla

motivazione, la quale indica le ragioni giuridiche e i presupposti di fatto del provvedere (talora essa non si

distingue dal preambolo, v. par.12) e dal dispositivo, il quale rappresenta la parte percettiva del

provvedimento e contiene la concreta statuizione posta in essere dall’amministrazione. Il provvedimento è

poi datato e sottoscritto, indicando anche il luogo della sua sottoscrizione. Una certa rilevanza presentano

anche gli elementi estrinseci, quali atti preparatori, concomitanti e successivi, mentre non riveste importanza

decisiva la denominazione data all’atto. Si applicano comunque agli atti amministrativi alcune norme poste

dal cod. civ. per l’interpretazione del contratto: art.1362 intenzione del soggetto e comportamento

complessivo; art.1363 clausole che si interpretano l’una per mezzo delle altre; art.1364 per quanto siano

generali le espressioni usate nell’atto, esso non si riferisce che agli oggetti suoi propri; art.1367 le

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disposizione devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto; art.1366 (applicato solo da

una parte della giurisprudenza) il contratto si deve interpretare secondo buona fede. Non trovano invece

applicazione le norme relative all’interpretazione dell’atto in senso contrario all’autore della clausola, ovvero

quelle che, in caso di oscurità dell’atto, impongono di interpretarlo nel senso meno gravoso per l’obbligato se

è a titolo gratuito, o nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti se è a titolo

oneroso: questo criterio ermeneutico confligge con l’esigenza che l’atto persegua l’interesse pubblico.

Non è poi ammissibile l’interpretazione autentica vincolante per i terzi da parte dell’amministrazione

autrice dell’atto: possibilità questa riconosciuta solo al legislatore, mentre in ambito amministrativo gli atti

sono in linea di massima irretroattivi. L’interpretazione, fornita dall’amministrazione, difforme dal

provvedimento interpretato vale dunque come provvedimento nuovo e modificativo, avente valore solo per il

futuro, mentre l’interpretazione autentica conforme al provvedimento originario in realtà conferma

l’operatività dell’atto interpretato.

6. Provvedimento amministrativo e incisione sulle situazioni soggettive

La volontà oggettivata nel provvedimento

Componente fondamentale del provvedimento è la volontà intesa come volontà procedimentale.

La legge assegna il provvedimento ad una figura soggettiva, ai fini della imputazione formale dello stesso.

Imputazione psicologica e imputazione giuridica non sono coincidenti, onde la volizione della persona fisica

è cosa diversa da quella che si suole chiamare “volontà” dell’atto, obbiettiva, spersonalizzata, da questo

promanante e frutto di interpretazione.

Provvedimento e incisione di situazioni soggettive

Il provvedimento è un atto di “disposizione” in ordine all’interesse pubblico che l’amministrazione deve

perseguire e che si correla con l’incisione di altrui situazioni soggettive. Questa caratteristica è spesso

considerata essenziale è avrebbe come maggiore manifestazione, quando la situazione incisa sia un diritto, la

sua estinzione a prescindere dalla volontà del destinatario, accompagnata dal sorgere di un interesse legittimo

al suo riacquisto ove il provvedimento non sia conforme alla legge.

La vicenda tuttavia non si pone come diretta conseguenza dell’emanazione del provvedimento in sé, che però ne costituisce il

presupposto necessario, ma in quanto il provvedimento è estrinsecazione di un potere rivolto al perseguimento del pubblico interesse,

e questo potere è per definizione autoritativo. Pertanto, una volta esercitato, esso opera comunque nei confronti delle situazioni

soggepuò verificarsittive, indipendentemente dal modo di esercizio del potere. Fino a quando la legittimità del provvedimento non sia

accertata con pronunzia di annullamento, esso continua ad esplicare i suoi effetti al pari del provvedimento valido.

Vi sono provvedimenti numerosi e importanti, cui sono collegati dall’ordinamento effetti vantaggiosi per i

loro destinatari, che anzi sono in genere rilasciati su richiesta degli interessati. Allora, là dove vengono

prodotti effetti favorevoli e dove il provvedimento incontra il consenso degli interessati, non dovrebbe

potersi parlare di provvedimenti amministrativi, a meno di abbandonare la tesi della necessaria incisione

autoritativa di altrui situazioni soggettive per la configurabilità del provvedimento stesso.

Senonché è stato sostenuto che, anche dove essi determinano effetti favorevoli, una incidenza negativa si abbia nei riguardi di altri

soggetti. Per quanto riguarda in particolare le concessioni, verrebbero infatti da esse coinvolti non soltanto gli interessi (in senso

favorevole) del destinatario, ma anche quelli (in senso sfavorevole) di terzi, mediante la sottrazione ad essi di una utilitas. E il

discorso di ritiene possa valere anche per le autorizzazioni. È necessario però fare una distinzione: vi sono certamente atti

autorizzatori e concessori che per il loro carattere esclusivamente personale non implicano alcuna sottrazione di utilitates a terzi. Ma

anche dove la sottrazione di utilitates può verificarsi, essa è legata non all’atto di autorizzazione o di concessione, i cui effetti non

possono che essere favorevoli, bensì, per i terzi interessati cui esse non sono state rilasciate a conclusione del procedimento

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amministrativo, da un provvedimento espresso. Senza tenere conto dei casi in cui di fatto non esistono terzi interessati, non essendo

sempre configurabile una loro necessaria presenza.

L’autoritatività quale caratteristica del provvedimento

L’autoritatività è cioè connotazione del potere comunque rivolto alla cura dei pubblici interessi e

preordinato alla produzione di effetti giuridici in capo ai terzi, ed è propria di ogni provvedimento

amministrativo con cui tale potere si esercita, indipendentemente dalla natura favorevole o sfavorevole degli

effetti.

7. Unilateralità, tipicità e nominatività del potere.

Unilateralità del provvedimento

Il provvedimento è sempre caratterizzato dal perseguimento unilaterale di interessi pubblici e dalla

produzione unilaterale di vicende giuridiche sul piano dell’ordinamento generale in ordine a situazioni

giuridiche dei privati. La possibilità per l’amministrazione di produrre in un caso puntuale e concreto una

vicenda giuridica presuppone che il legislatore abbia ritenuto prevalente l’interesse pubblico rispetto a quello

privato, attribuendo il potere all’amministrazione, descrivendo gli elementi in cui esso si articola, destinati a

trasfondersi nel provvedimento e individuando il tipo di effetto prodotto sulla situazione giuridica del

destinatario dell’atto.

Tipicità e nominatività del provvedimento

Da qui nasce l’esigenza di una previa definizione del tipo di vicenda giuridica prodotto dell’esercizio del

potere: in ciò consiste la tipicità del provvedimento amministrativo. Essa, diretta espressione del principio di

legalità, pare dunque in primo luogo correlata agli effetti di modificazione delle situazioni giuridiche

soggettive di terzi. La pubblica amministrazione, per conseguire gli effetti tipici, può inoltre ricorrere

soltanto agli schemi individuati in generale dalla legge. È questo il c.d. principio di nominatività, il quale,

sembra dover essere riferito al provvedimento e al potere.

La distinzione tra nominatività e tipicità si percepisce con maggior chiarezza ove si pensi alle ordinanze di

necessità e urgenza, atti nominati (perché previsti dall’ordinamento), ma i cui effetti non sono

compiutamente predefiniti dalla legge. L’ordinamento generale appresta in ogni caso due tipi di limiti a

garanzia dei privati: da un alto la predefinizione dei tipi di vicende giuridiche che possono essere prodotte

dall’amministrazione (tipicità); dall’altro, la predeterminazione degli elementi del potere che può essere

esercitato per conseguire quegli effetti (nominatività).

Per gli atti amministrativi non provvedimentali si propone la questione dell’individuazione di caratteri comuni a quelli che presenta il

provvedimento. Essi talora presentano un certo tasso di atipicità. Tuttavia la volontà di ridurre le scelte discrezionali

dell’amministrazione ha talora condotto ad una forte tipizzazione delle modalità di azione amministrativa, il che si riflette anche nella

predeterminazione degli atti infraprocedimentali. La ragione della tendenziale tipicità degli atti non provvedimentali è ben diversa da

quella che impone la tipicità dei provvedimenti: non si tratta di una garanzia a favore delle posizioni giuridiche dei soggetti

dell’ordinamento incise direttamente dal provvedimento, bensì di una garanzia in vista della congrua finalizzazione dell’attività

amministrativa.

Gli atti non autoritativi di cui all’art. 1, c. 1-bis, l. 241/1990

Oggi l’art. 1, c.1-bis, l. 241/1990, dispone che la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura

non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente.

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La norma ha suscitato molteplici riflessioni in dottrina, alcune delle quali favorevoli a considerare come atti

non autoritativi quelli che, essendo ampliativi della sfera giuridica del destinatario, sono in grado di produrre

effetti soltanto subordinatamente al consenso del destinatario.

Secondo alcuni gli atti non autoritativi sarebbero di indole privatistica, mentre secondo altri sarebbero consensuali, ma non

necessariamente di natura privata (sicché vi rientrerebbero anche gli accordi).

A contrario, sarebbero veri provvedimenti autoritativi soltanto quelli limitativi della sfera giuridica dei

privati. Questa tesi non appare condivisibile, atteso che l’autoritatività sembra far perno sull’unilateralità

della gestione dell’interesse pubblico, che ricorre anche nei provvedimenti ampliativi. D’altro canto, non è

senza significato che l’art.1 parli di atti e non già di provvedimenti, mentre in altre disposizioni definisce

come “provvedimenti” atti chiaramente dotati di effetti ampliativi della sfera giuridica del destinatario. Ove

così non fosse, tutta la disciplina sul provvedimento posta dal capo IV-bis della legge dovrebbe applicarsi

soltanto a quelli limitativi della sfera giuridica dei destinatari; tuttavia nei casi in cui vuole far riferimento

soltanto a questa categoria, la legge lo dice espressamente.

La locuzione “atti non autoritativi”, dunque, dovrebbe essere identificata con la categoria degli “atti non

provvedimentali”, mentre nel concetto di provvedimento rientrano anche quelli ampliativi della sfera

giuridica del cittadino.

Gli atti non autoritativi, in conclusione, sono quelli che non costituiscono espressione di un potere

amministrativo in quanto l’ordinamento ha conformato in senso privatistico un certo ambito di rapporti che

vede coinvolte le pubbliche amministrazioni.

8. Gli elementi essenziali del provvedimento e le clausole accessorie.

Ai sensi dell’art. 21-septies, l. 241/1990, è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi

essenziali. L’articolo disvela che esistono elementi essenziali del provvedimento, ma non si dà cura di

riferire quali essi siano. La loro individuazione è rimessa all’elaborazione della giurisprudenza e della

dottrina. Essi rappresentano i limiti del potere attribuito all’amministrazione di cui il provvedimento è

espressione e in assenza dei quali esso non prende vita. Ove l’amministrazione non rispetti la norma

attributiva del potere nella parte in cui ne individua un limite, il potere stesso non può ritenersi esistente in

capo ad essa, manca la possibilità di produrre effetti e la situazione giuridica non si verifica.

Il tema è strettamente legato a quello del regime del provvedimento non conforme a paradigma normativo, proprio perché l’assenza

di un elemento essenziale coincide con la violazione di una norma che, a sua volta, determina la nullità dell’atto.

Gli elementi del provvedimento tradizionalmente considerati essenziali sono: il soggetto, il contenuto del

dispositivo, l’oggetto, la finalità e la forma.

Il soggetto

Il potere è conferito ad un soggetto pubblico dotato di personalità giuridica, individuabile alla stregua dei

criteri descritti nella parte relativa all’organizzazione. La violazione della norma relativa ai limiti soggettivi

del potere determina la nullità del provvedimento (esempio: emanazione provvedimento da parte di un ente diverso da

quello cui la legge attribuisce il potere relativo).

Lo svolgimento da parte di un’autorità di una potestà spettante ad altro ente dà luogo ad un atto che non

produce effetti: parte della dottrina parla di straripamento di potere o di incompetenza assoluta, situazione

comunque da distinguere nettamente dall’ipotesi di incompetenza relativa. L’art. 21-septies esprime lo stesso

concetto impiegando un’altra locuzione, in quanto afferma che è nullo l’atto viziato da difetto assoluto di

attribuzione.

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175

Il contenuto del provvedimento

Il potere consiste nella possibilità di produrre una determinata vicenda giuridica: è questo il contenuto

dispositivo del potere. La dottrina distingue tra contenuto necessario, contenuto accidentale e contenuto

implicito o naturale del provvedimento. L’insieme delle disposizioni, dette anche clausole accessorie, che la

volontà dell’amministrazione può introdurre nell’atto, in aggiunta a quelle che ne costituiscono il contenuto

necessario, costituiscono il contenuto eventuale o accidentale dell’atto (condizione, termine, modo).

La possibilità che il provvedimento contenga tali disposizioni dipende dalla esistenza di discrezionalità; anche in tali ipotesi, la

vicenda giuridica che trova la propria fonte nell’atto, non muta, trattandosi pur sempre di nascita, modificazione o estinzione di

situazioni giuridiche: variano però le modalità e le condizioni particolari cui è subordinato l’effetto. Ove invece l’effetto muti, non si

tratta di contenuto accidentale del provvedimento permissivo, bensì della combinazione di due provvedimenti, di cui dovrà peraltro

valutarsi la legittimità.

Sono opponibili ai provvedimenti le condizioni, sempre che l’amministrazione disponga di discrezionalità: è

dunque possibile subordinate la produzione (condizione sospensiva) o la cessazione dell’effetto (condizione

risolutiva) al verificarsi di un avvenimento futuro e incerto. In ordine al “termine” va notato che spesso la

limitazione temporale all’efficacia di un atto deriva direttamente dalla legge, sicché non si può parlare di

contenuto accidentale. Per quanto attiene al modo, l’opinione negativa in ordine alla sua apponibilità ai

provvedimenti si giustifica in quanto esso è proprio dei soli atti di liberalità.

L’illegittimità della clausola o l’apposizione di clausole non consentite non rende illegittimo il

provvedimento nella sua interezza nei casi in cui si tratti di atti dovuti: la tendenza è dunque quella di far

salvo, in quanto possibile, il provvedimento, rendendo ammissibile l’annullamento parziale dell’atto.

Altra questione è quella del contenuto negativo del provvedimento: a seguito dell’istanza del privato volta ad

ottenere un certo provvedimento favorevole, l’amministrazione, ritenendo di non poter accogliere tale

domanda, emana un provvedimento con il quale esercita il potere, ma in senso negativo, rifiutando cioè il

rilascio dell’atto. Pur se il contenuto del provvedimento di rifiuto è nel senso di non produrre l’effetto

tipico, esso pregiudica comunque l’aspettativa del destinatario.

La circostanza che un effetto si sia prodotto è dimostrato dal fatto che il privato destinatario può impugnare il provvedimento di

rifiuto. Tale effetto è quanto meno di carattere preclusivo: il privato che, dopo l’emanazione di un provvedimento negativo, non

abbia proceduto ad impugnarlo, non ha più titolo a richiedere una nuova manifestazione di volontà dell’amministrazione in ordine

alla medesima situazione di fatto e di diritto, sicché l’amministrazione stessa, a fronte di una nuova istanza, può emanare un atto con

il quale rifiuta legittimamente di provvedere.

L’oggetto del provvedimento

L’oggetto è il termine passivo della vicenda che verrà a prodursi a seguito dell’azione amministrativa: esso

deve essere lecito, possibile, determinato o determinabile. L’oggetto può di volta in volta essere il bene, la

situazione giuridica o l’attività destinati a subire gli effetti giuridici prodotti dal provvedimento.

La finalità

Il potere e il corrispondente provvedimento sono infine caratterizzati dalla preordinazione alla cura

dell’interesse pubblico che è risultato vincente nel giudizio di bilanciamento tra valori diversi, risolto dalla

norma di relazione (finalità o causa del potere). Con riferimento ai vizi “funzionali” del provvedimento, la

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giurisprudenza tende ad utilizzare soprattutto la categoria dell’illegittimità; è dunque raro che un atto viziato

venga qualificato come nullo.

La forma del provvedimento

La legge attributiva del potere può inoltre prevedere che l’atto debba rivestire una certa forma a pena di

nullità. Di norma si tratta della forma scritta, anche se non mancano esempi di esternazioni dell’atto in forma

orale (è il caso di alcune intimidazioni) o comunque non scritte (si pensi alle segnalazioni manuali dei vigili:

la segnaletica stradale costituisce invece una modalità di pubblicazione delle ordinanze adottate

dall’amministrazione in tema di disciplina della circolazione).

Non si confonda poi la forma dell’atto con la forma di pubblicità, costituita ad esempio dalla documentazione o verbalizzazione.

Essa non è infatti la vesta formale dell’atto e consiste in un acclaramento storico contemporaneo mediante il quale vengono narrati i

fatti e le operazioni dell’organo in funzione di documentazione e di esternazione. L’atto verbalizzato è dunque distinto dall’atto di

verbalizzazione. Peraltro, atteso che la verbalizzazione serve per esternare l’atto verbalizzato non suscettibile di essere provato con

altri elementi, deve considerarsi che ciò che è nella verbalizzazione si considera nell’atto verbalizzato. Il vizio della verbalizzazione

equivale quindi a vizio dell’atto verbalizzato, salvi i casi in cui l’atto esista indipendentemente dalla verbalizzazione (avente allora

solo funzione di riproduzione e di certezza notiziale), onde esso potrebbe essere provato per altra via. Le parti che intervengono nella

formazione dell’atto verbalizzato hanno il diritto di far verbalizzare le proprie dichiarazioni. In caso di verbalizzazione infedele, non

è possibile, neppure con l’accordo delle parti o degli intervenuti alla deliberazione, correggere l’atto verbalizzato, ma occorrerà

procedere ad una rinnovazione o integrazione, atti a loro volta bisognosi di nuova verbalizzazione. Il verbale, redatto dal soggetto

competente deve essere approvato dai presenti, operazione spesso effettuata nella seduta successiva dell’organo collegiale, in

funzione di controllo. In questa sede possono essere inserite a verbale correzioni, precisazioni e aggiunte alla verbalizzazione,

procedendo così ad una rettifica da parte dei presenti.

Il provvedimento può talora risultare per implicito da un altro provvedimento o da un comportamento: in

simili casi l’atto viene pur sempre esteriorizzato, anche se soltanto in forma indiretta, e tanto basta per

differenziare l’atto implicito rispetto alle ipotesi in cui si ha una manifestazione tacita di volontà (silenzio),

ove manca del tutto un comportamento positivo.

L’atto per il quale sia richiesta una forma scritta non può legittimamente desumersi da un comportamento, né

da altro atto, laddove il primo debba avere espressamente un certo contenuto.

L’atto implicito va poi distinto da altre fattispecie nelle quali una previsione di legge collega espressamente a un certo atto la

produzione di effetti tipici di un diverso provvedimento. In queste ipotesi, l’atto implicito è previsto non solo nella prospettiva di

difesa del singolo direttamente interessato dal comportamento dell’amministrazione, bensì soprattutto in un’ottica sostanziale di

collegamento ad uno stesso episodio di attività amministrativa di una serie di effetti propri di diversi poteri, a vantaggio

dell’amministrazione e della snellezza del suo agire.

Il documento amministrativo informatico

L’art. 3, l. 39/1993, stabilisce che gli atti amministrativi vengano di norma predisposti tramite sistemi

informativi automatizzati: si tratta del c.d. atto amministrativo informatico. La disciplina del documento

informatico è contenuta negli artt. 20 e ss., d.lgs. 82/2005. Il documento informatico, la memorizzazione su

supporto informatico e la trasmissione con strumenti telematici sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di

legge se conformi alle disposizioni del codice dell’amministrazione digitale. Qualora sottoscritto con forma

avanzata, digitale o qualificata, il documento informatico fa inoltre piena prova, fino a querela di falso, della

provenienza della dichiarazione da chi l’ha sottoscritto. Per la formazione, gestione e sottoscrizione di

documenti informatici aventi rilevanza esclusivamente interna ciascuna amministrazione può adottare, nella

propria autonomia organizzativa, regole diverse da quelle stabilite in generale dal codice.

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La firma elettronica e la firma digitale

La legge prevede in sostanza varie tipologie di firme: la firma elettronica per così dire leggera, meno sicura e

che attribuisce al documento la validità dell’atto autografo (ma non dà garanzia che chi la utilizza sia titolare

della firma), la firma elettronica avanzata (insieme di dati in forma elettronica allegati oppure connessi a un

documento informatico che consentono l’identificazione del firmatario del documento e garantiscono la

connessione univoca al firmatario); la firma elettronica qualificata (firma elettronica avanzata basata su un

certificato qualificato e realizzata mediante un dispositivo sicuro per la creazione della firma) e la firma

digitale. Anche la firma digitale è un particolare tipo di firma elettronica avanzata: essa è basata su un

sistema di chiavi crittografiche ed è il risultato di una procedura informatica che consente al sottoscrittore e

al destinatario, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità del

documento informatico o di un insieme di documenti informatici. Essa viene certificata da appositi

certificatori.

L’interessato è titolare di una coppia di chiavi crittografiche asimmetriche, il cui impiego consente di rendere manifeste (e di

verificare) provenienza e integrità del documento. La chiave, costituita da codici, è dunque l’elemento che consente di criptare e

decriptare un documento. Nel caso di coppie asimmetriche, per la cifratura e decifratura dei documenti sono necessarie due chiavi

diverse tra loro: una prima chiave è privata perché è destinata ad essere conosciuta ed utilizzata soltanto dal soggetto titolare; l’altra,

sempre riferita al titolare, è però pubblica in quanto destinata ad essere divulgata e viene inserita in uno specifico elenco. Le due

chiavi sono correlate, ma nessuno può risalire da quella pubblica a quella privata. Il sistema si basa sulla pratica impossibilità di

computare la funzione di decodifica a partire dalla chiave pubblica per chi non sia in possesso della chiave privata; la chiave

pubblica, invece, deve essere facilmente computabile. Ciò garantisce la segretezza, ma non la provenienza del messaggio. A questi

fini, il mittente, prima di inviarlo, applica la propria chiave privata: viene dunque decodificato un messaggio che nessuno ha ancora

codificato. Successivamente lo codifica con la chiave pubblica del destinatario cui viene inviato; costui lo decodificherà con la

propria chiave privata ottenendo un messaggio non ancora leggibile. Dovrà allora applicare la funzione di codifica pubblica del

mittente per recuperare il messaggio e accertarsi che provenga dal mittente. Ai sensi dell’art. 24, l’apposizione di una firma digitale

sostituisce l’apposizione di sigilli, punzoni, timbri, contrassegni e marchi di qualsiasi genere.

I documenti sottoscritti con firma elettronica avanzata, firma qualificata e firma digitale hanno comunque lo

stesso valore legale di scrittura privata. I documenti trasmessi da chiunque a una pubblica amministrazione

con qualsiasi mezzo telematico o informatico idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il

requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale;

inoltre, il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al

proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all’indirizzo elettronico da questo

dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore.

A proposito di firma di documenti predisposti tramite strumenti informatici, ricordiamo che, ai sensi dell’art 2, d.lgs 39/1993, la

firma autografa può essere sostituita dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile sul documento prodotto dal

sistema automatizzato.

Le determinazioni

Col termine determinazioni, ci si riferisce nella prassi agli atti dirigenziali. Di particolare rilievo sono quelli

che comportano impegni di spesa. Questo potere spetta infatti ai dirigenti (vedi art.4, d.lgs. 165/2001 e art.3,

d.lgs. 279/1997); nell’ordinamento degli enti locali, paiono però sussistere ipotesi in cui spetta agli organi

elettivi la competenza esclusiva ad assumere atti che comportino impegno di spesa. In tale ipotesi, la

determinazione chiude la fase amministrativa che genera l’obbligazione e apre quella (contabile) di

attuazione del suo contenuto. Essa costituisce quindi il momento iniziale del procedimento contabile

destinato a sfociare nel pagamento della spesa da parte della tesoriera.

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L’impegno può pure essere inteso come effetto contabile: in quanto tale, consegue all’operazione di registrazione da parte dei

competenti uffici di ragioneria del provvedimento che comporta la spesa. Spesso costituisce clausola esplicita del provvedimento.

Esso comporta la costituzione di un vincolo sul bilancio e, quindi, l’accantonamento della relativa somma e la riduzione della

disponibilità finanziaria, nonché la legittimazione del dirigente responsabile alla successiva fase dell’ordinazione. L’impegno in

quanto tale non condiziona il perfezionarsi dell’obbligazione, né crea un diritto sulla somma in capo al creditore, che invece nasce dal

provvedimento costitutivo dell’obbligo dell’amministrazione.

In taluni casi l’impegno costituisce l’unico contenuto della determinazione in quanto l’obbligazione di pagare la somma non

scaturisce dal provvedimento medesimo, bensì, ad esempio, direttamente dalla legge (impegno legislativo) o da una sentenza

(impegni giudiziali). Gli impegni possono poi derivare dall’approvazione dei contratti stipulati da organi statali. Il mancato o

l’illegittimo impegno non libera l’amministrazione, sotto il profilo civilistico, dall’adempimento dell’obbligazione. La validità

dell’impegno è subordinata alla sussistenza di un’obbligazione giuridicamente perfezionata: esso può riferirsi solo all’esercizio in

corso.

Le altre fasi del procedimento contabile sono la liquidazione (che consiste nella precisa determinazione della somma, certa o liquida,

da pagare), l’ordinazione del pagamento rivolto alla tesoriera e consistente nell’emissione dei titoli di pagamento, e il pagamento.

Le determinazioni di impegno di spesa sono registrate dagli appositi uffici di ragioneria; il vincolo di destinazione sulla somma si

produce solo a seguito della registrazione.

9. Difformità del provvedimento dal paradigma normativo: la nullità e l’illiceità del provvedimento

amministrativo.

Le conseguenze che l’ordinamento prevede con riferimento ai casi in cui il provvedimento sia difforme dal

paradigma normativo variano a seconda del tipo di norma non rispettata:

- il provvedimento emanato in violazione delle norme attributive del potere è nullo;

- ove invece esso sia difforme dalle norme di azione che disciplinano l’esercizio del potere va

qualificato come annullabile, fatta salva l’applicazione dell’art. 21-octies, l. 241/1990.

La dottrina amministrativistica riconduce nullità e annullabilità nell’ambito della categoria della invalidità,

consistente nella difformità dell’atto dalla normativa che lo disciplina.

L’art. 21-septies, l. 241/1990 si occupa della nullità tipizzando alcuni casi in cui ricorre. Esso, peraltro, non

ne detta il regime compiuto, sicché questo va mutato da quello codicistico: assenza di effetti, insanabilità,

rilevabilità d’ufficio e in qualunque tempo, possibilità di conversione dell’atto. Tale disciplina va combinata

con quella processuale relativa all’azione volta all’accertamento della nullità.

Mancanza di elementi essenziali

La prima categoria di nullità presa in considerazione dalla norma è quella “strutturale”: è nullo il

provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali. Tali elementi non sono indicati dal

legislatore, ma vanno ricavati dalla norma attributiva del potere.

La legge non fa alcun cenno alla categoria dell’atto illecito e di quello inesistente. Per quanto riguarda l’inesistenza va osservato che

si tratta di una categoria elaborata soprattutto dalla dottrina: essa conseguirebbe ad un vizio più radicale dell’atto, il quale non

sarebbe neppure rilevante giuridicamente.

Difetto assoluto di attribuzione e carenza di potere astratto..

I tentativi di individuare casi concreti in cui venga violata una norma delimitativa del potere sono destinati a

risultare poco fruttuosi: le ipotesi configurabili sono in sostanza scolastiche e a esse va probabilmente riferita

la nullità (o l’”inesistenza”). Con riferimento a uno di questi casi, quello relativo a vizio attinente al profilo

soggettivo, l’art. 21-septies, individuando una specifica ipotesi di nullità, parla al riguardo di difetto assoluto

di attribuzione.

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…carenza di potere in concreto

La questione del contrasto con una norma di relazione sorge piuttosto nella situazione di carenza di potere in

concreto. Il problema si colloca al confine tra il piano sostanziale e quello processuale: secondo la

giurisprudenza, il criterio di discriminazione tra la giurisdizione del giudice amministrativo e quella del

giudice ordinario si fonda sulla contrapposizione tra “cattivo esercizio del potere” e “carenza di potere”.

Nel secondo caso, poiché il privato è titolare di un diritto, dovrebbe sussistere la giurisdizione del giudice

ordinario. Passando al piano sostanziale, alla diversità di situazioni corrisponde una differenza in ordine al

tipo di regime applicabile all’atto emanato. Il potere non esiste e l’effetto non si produce quando

l’amministrazione agisce violando una norma attributiva del potere. Per contro, l’incisione di altrui situazioni

soggettive è di norma da collegare all’esercizio di un potere. La mancanza di potere può presentarsi sia come

carenza “in astratto”, sia come carenza di potere “in concreto”. In tal caso, tuttavia, il potere non manca

totalmente: sia pur ridotta, un’estrinsecazione del potere sussiste, perché “in astratto” esso c’è, in quanto le

norme attributive del potere sono state osservate, e ciò basta perché il suo esercizio mantenga quel tanto di

autoritatività che gli consente di esplicare effetti giuridici. La formula dell’inesistenza “in concreto” del

potere deve dunque essere intesa soprattutto non già per quanto esprime letteralmente, ma come rivelatrice

dell’esistenza di un potere in astratto che, anche se male esercitato, produce pur sempre un effetto (si pensi al

decreto di espropriazione per ogni altro verso conforme all’ordinamento, emanato però dopo la scadenza del

termine fissato ai sensi di legge nella dichiarazione di pubblica utilità).

In ogni caso, sul piano sostanziale, in questa ipotesi il regime del provvedimento si riconduce in senso

proprio a quello che è stato denominato in dottrina con il termine “illiceità”.

E questa l’unica ipotesi di atto posto in essere in violazione di norme di relazione che trova un abbozzo di disciplina positiva

differente da quella ricavabile dall’art. 21-septies, l. 241/1990, che non ne fa cenno (ma che appunto si interessa di nullità; vi è chi

considera questa omissione come conferma della scomparsa o dell’inesistenza dell’istituto, riassorbito nell’annullabilità).

L’atto lesivo di norme di relazione, perché emanato in carenza di potere in concreto produce dunque effetti, anche indipendentemente

dall’esecuzione materiale dell0atto illecito, e infatti esso è causa di responsabilità in capo all’amministrazione per risarcimento del

danno. L’atto non è però annullabile dal giudice ordinario, né dal giudice amministrativo, la cui giurisdizione è esclusa dalla assenza

di un interesse legittimo. Il rimedio è costituito dalla disapplicazione. In dottrina si è evidenziata l’ipotesi di atto illecito che sia tale

solo in quanto anche illegittimo perché lesivo di interessi legittimi: l’illegittimità dell’atto diventa quindi un presupposto dell’illiceità.

In conclusione può dirsi che la disapplicazione sta all’atto illecito come l’annullamento sta all’atto

illegittimo.

Le altre due ipotesi di nullità

L’art. 133, d.lgs. 104/2010 (cod. del processo amministrativo) stabilisce una terza ipotesi di nullità con

riferimento al provvedimento adottato in violazione o elusione del giudicato. La norma codifica in tal modo

un precedente orientamento giurisprudenziale e precisa che “le questioni inerenti alla nullità dei

provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato sono attribuite alla giurisdizione

esclusiva del giudice amministrativo”. L’art. 114, c.4, lett. c) dello stesso codice si occupa poi degli atti in

violazione o elusione di sentenze non ancora passate in giudicato, stabilendo che essi sono considerati dal

giudice “inefficaci”.

Altri esempi di atti nulli sono stati forniti dal giudice amministrativo in ordine agli atti di assunzione dei pubblici impiegati senza

l’esperimento del concorso.

Il problema della qualificazione dell’atto non conforme al paradigma normativo non si pone ogniqualvolta la

nullità sia prevista espressamente dalla legge: a queste ipotesi si riferisce l’art. 21-septies quando afferma che

l’atto è pure nullo “negli altri casi espressamente previsti dalla legge” (quarta ipotesi di nullità).

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Si è detto che al cospetto di un atto nullo, il privato dovrebbe essere titolare di un diritto soggettivo, sicché la

cognizione della questione spetterebbe al giudice ordinario. Parte della giurisprudenza ritiene tuttavia

possibile che, a fronte di un atto nullo, sussista un interesse legittimo, così radicandosi la giurisdizione del

giudice amministrativo. Questa soluzione parrebbe sposata dal codice del processo amministrativo, che

disciplina l’azione di nullità dinnanzi al giudice amministrativo senza riferirsi alla sola giurisdizione

esclusiva e, quindi, dando per presupposto che il privato sia titolare di interessi legittimi; seguendo questa

impostazione, di atti nulli conoscerebbe il giudice ordinario o quello amministrativo a seconda che essi

ledano un diritto o un interesse legittimo. Si è però notato che il codice si riferisce alle sole nullità previste

dalla legge, nelle quali di solito un potere in astratto potrebbe esistere, sicché la nullità si configura

soprattutto come una risposta estrema dell’ordinamento a una grave difformità del paradigma normativo

piuttosto che il risvolto dell’assenza del potere.

10. Segue: l’illegittimità del provvedimento amministrativo.

L’atto emanato nel rispetto delle norme attributive del potere ma in difformità di quelle di azione è in linea di

principio affetto da illegittimità ed è sottoposto al regime dell’annullabilità. L’atto annullabile rispetta le

norme che riconoscono la possibilità di produrre effetti e per questa ragione produce gli stessi effetti dell’atto

legittimo; tuttavia questi effetti sono precari, in quanto l’ordinamento prevede strumenti giurisdizionali per

eliminarli, contestualmente all’atto che lo pone in essere.

L’atto illegittimo è inoltre annullabile da parte della stessa amministrazione in via di autotutela, ovvero in sede di controllo o di

decisione di ricorsi amministrativi; esso può poi essere disapplicato dal giudice ordinario chiamato a verificarne la legittimità. Il

provvedimento illegittimo può essere convalidato. La giurisprudenza comunitaria, infine, ha ammesso la disapplicabilità del

provvedimento amministrativo in contrasto con la disciplina comunitaria direttamente applicabile.

Il regime dell’atto annullabile si ricava dall’art. 21-octies, l. 241/1990, si sensi del quale è “annullabile il

provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da

incompetenza”. L’art. 21-nonies, invece, si occupa dell’annullamento d’ufficio dell’atto illegittimo e della

sua convalida.

Tipi di illegittimità: l’illegittimità può essere di quattro tipi: originaria, derivata, parziale.

A) Originaria

L’illegittimità si determina con riferimento alla normativa in vigore al momento della perfezione dell’atto. In

caso di accoglimento di un ricorso esperito avverso un diniego di provvedimento, l’amministrazione, in sede

di esecuzione del giudicato, è tenuta ad applicare la normativa vigente al momento in cui la decisione è stata

notificata.

B) Sopravvenuta

Invece la normativa sopravvenuta successivamente all’emanazione del provvedimento in generale non incide

sulla validità dello stesso. Il mutato quadro normativo può aprire piuttosto la via all’adozione di

provvedimenti di riesame. Tuttavia un caso certo di illegittimità sopravvenuta si riscontra nelle rare ipotesi in

cui la legge retroattiva incida su atti già emanati e, originariamente, conformi al paradigma normativo, ma

risultanti ormai in contrasto con la nuova disciplina. Non si tratta, se non in apparenza, di illegittimità

sopravvenuta nell’ipotesi di sentenza della Corte costituzionale che abbia dichiarato l’illegittimità di norme

sul cui fondamento sia stato emanato un provvedimento e ancora in quella dell’annullamento dell’atto che

funge da presupposto di un altro atto.

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C) Derivata

L’ipotesi di annullamento dell’atto che costituisce il presupposto di altro atto dà luogo altresì ad un caso di

illegittimità derivata. È incerto se l’annullamento dell’atto presupposto travolga automaticamente gli atti

successivi. Non è un caso che dall’illegittimità caducante si distingua l’illegittimità meramente invalidante

dell’atto successivo, il quale deve essere impugnato o annullato autonomamente.

D) Parziale

L’illegittimità parziale si riscontra allorché solo una parte del contenuto sia illegittimo, sicché soltanto essa

sarà oggetto di annullamento, salvo che eliminandola non sia più possibile configurare come tale l’atto

amministrativo: la restante parte resta in vigore, determinando comunque un cambiamento del contenuto

originario dell’atto (modificazione).

Il provvedimento non annullabile

Ai sensi dell’art. 21-octies, l. 241/1990, il provvedimento difforme dal paradigma normativo non è in taluni

casi annullabile. Ciò accade quando esso sia adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla

forma degli atti ma, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo

non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Il provvedimento amministrativo, inoltre, non è annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del

procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non

avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Si discute se la disposizione abbia natura processuale (sicché escluderebbe l’annullabilità da parte del

giudice) o sostanziale, per cui l’atto non sarebbe più qualificabile, sul piano sostanziale, come illegittimo. La

seconda tesi pare la più coerente con la collocazione della norma in una legge sul procedimento: resterebbe

così fermo il principio per cui annullabile è solo un atto illegittimo.

Rimane da chiarire perché un atto difforme al paradigma normativo possa essere considerato valido. Si

potrebbe immaginare che esso sia tale perché originariamente idoneo a conseguire lo scopo, secondo il

modello ricavabile a contrario dell’art. 156, c.2, cpc.

La non annullabilità non sarebbe però legata al raggiungimento dello scopo avuto di mira dalla specifica norma violata; l’atto non

annullabile ha piuttosto raggiunto lo scopo inteso nel senso assai più ampio della presenza del contenuto che avrebbe dovuto avere.

L’atto è in tal modo non solo pienamente efficace, ma altresì non illegittimo.

I problemi di compatibilità con la Costituzione

Ammettendo che il privato sia titolare di un interesse legittimo, si dovrebbe però concludere che la legge

241/1990 nega la facoltà di reazione processuale, in contrasto con il principio costituzionale espresso dagli

artt. 24 e 113 Cost.

Invero, si è sostenuto che la disciplina costituzionale possa ritenersi rispettata in quanto alla violazione della norma procedimentale o

di forma l’ordinamento potrebbero ricollegare sanzioni differenti rispetto all’annullamento del provvedimento (risarcibilità della

lesione dell’interesse legittimo: ma se il provvedimento non poteva essere differente da quello assunto, è difficile immaginare un

danno).

Vi è una chiara difformità rispetta al paradigma normativo, quanto meno guardando alla dinamica de

esercizio del potere. Si potrebbe allora pensare che essa verrebbe sanata dal provvedimento finale che

raggiunge lo scopo voluto dalla legge e, cioè, ha il contenuto che l’ordinamento aveva indicato o che non

poteva non essere individuato.

Page 182: Dispensa Di Amministrativo - 1

182

In altri termini, l’elemento che vale a recuperare l’illegittimità procedimentale è precisamente il provvedimento, che, al momento

della sua emanazione, sotto quel profilo, non può che “nascere” legittimo, in quanto sana un procedimento illegittimo ed esclude la

lesione di interessi legittimi. Né sembra che cambi la situazione il fatto che l’amministrazione, per recuperare il provvedimento

emanato senza comunicazione d’avvio del procedimento, debba “dimostrare in giudizio” che non avrebbe potuto avere contenuto

diverso. Si assiste dunque ad una convalida sui generis, che prescinde dalla dimostrazione della sussistenza di un interesse pubblico,

atteso che è l’ordinamento stesso a riconoscere che la corrispondenza del contenuto concreto con quello che avrebbe dovuto essere

adottato è sufficiente ai fini del recupero della legittimità.

La legittimità del provvedimento verrà poi “svelata” nel corso del giudizio, che per certi versi rappresenterà

la continuazione del procedimento: è questa un’ulteriore conseguenza della disciplina, nel senso che essa

accentua i poteri del giudice individuando nel processo la sede in cui si deciderà se alla violazione di una

norma consegue o meno l’illegittimità dell’atto. La prospettiva di un ripensamento dell’amministrazione è

unicamente affidata all’esercizio del potere di revoca. Alla luce di tale disciplina occorre osservare che:

-il legislatore avrebbe fatto meglio ad abrogare le incombenze procedimentali ritenute non rilevanti;

-la soluzione prescelta determina un forte disincentivo per il privato ad impugnare i provvedimenti:

nonostante abbia “ragione” tali atti potrebbero non essere annullati dal giudice;

-l’impressione è che l’art. 21-octies, dequoti il significato complessivo della l. 241/1990 come fonte che

contiene le basilari “regole del gioco” tra privato e amministrazione;

-in altri settori dell’ordinamento non vi è graduazione tra i vizi di violazione di legge;

-tra i vizi che possono essere “salvati” con il meccanismo dell’art. 21.octies, l. 241/1990 non compare

l’incompetenza;

-norme internazionali e comunitarie in materia ambientale prevedono che la partecipazione procedimentale

debba essere assistita da tutela giurisdizionale.

Le due ipotesi disciplinate dall’art. 21-octies

Vi è una differenza tra le due ipotesi disciplinate dal c.2: la prima concerne i vizi procedimentali (es. vizio

della motivazione) e di forma (es. errata indicazione del num di protocollo), richiede che l’attività sia

vincolata e che sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in

concreto adottato; la seconda consente di salvare il provvedimento dall’annullamento a seguito della

dimostrazione in sede processuale dell’immutabilità del suo contenuto dispositivo quando sia mancata la

comunicazione dell’avvio del procedimento; essa dunque si applica anche ai provvedimenti discrezionali.

(Non mancano, invero, decisioni favorevoli ad una lettura unitaria delle due ipotesi contemplate dalla norma.)

L’area della illegittimità del provvedimento si configura a “geometria variabile” (a seconda della natura del

potere esercitato):

a) con riferimento all’attività discrezionale: scelta irrazionale o incongrua ovvero violazione di legge;

b) nel caso di vizio per omessa comunicazione di avvio, il “recupero” dell’atto può però avvenire anche

se l’atto è discrezionale, rendendo in sostanza irrilevante quello specifico vizio;

c) con riferimento all’attività discrezionale e vincolata: mancato rispetto delle norme sulla competenza,

indipendentemente dal fatto che il contenuto potesse essere o meno diverso da quello in concreto

adottato;

d) con riferimento all’attività vincolata, debbono ricorrere due requisiti: violazione di una norma di

azione sulla forma o sul procedimento e prova che il contenuto del provvedimento avrebbe potuto

essere diverso da quello in concreto adottato.

Page 183: Dispensa Di Amministrativo - 1

183

11. i vizi di legittimità del provvedimento amministrativo.

I vizi di legittimità degli atti amministrativi, e cioè le concrete cause della legittimità degli stessi, sono:

l’incompetenza, la violazione di legge e l’eccesso di potere. Ognuno di questi vizi comporta l’annullabilità

dell’atto.

Illegittimità: violazione di norme d’azione

I vizi conseguono alla violazione di norme d’azione e, cioè, delle disposizioni che attengono alla modalità di

esercizio di un potere. La discrezionalità esiste nei limiti in cui l’ordinamento non predefinisce in via

generale tutte quelle modalità, onde spetta all’amministrazione offrire una soluzione adeguata

L’incompetenza relativa

Si suole denominare incompetenza il vizio che consegue alla violazione della norma di azione che definisce

la competenza dell’organo e, cioè, il quantum di funzioni spettante all’organo. A tale vizio non si applica

l’art. 21-octies, l. 241/1990.

L’incompetenza assoluta

Non dà pertanto luogo al vizio di incompetenza la violazione di una norma di relazione attinente

all’elemento soggettivo: in tal caso – talora definito in dottrina come “incompetenza assoluta”,

contrapponendola alla “incompetenza relativa” che consegue alla violazione di norme di azione – l’atto

sarà addirittura nullo per carenza di potere. Non la violazione di tutte le norme che riguardano il soggetto che

esercita il potere danno luogo a incompetenza; ciò accade solo se tali norme definiscono la competenza, non

già nelle ipotesi in cui esse disciplinino aspetti differenti.

Tipi di incompetenza

L’incompetenza può aversi per materia, per valore, per grado o per territorio. Quest’ultima ricorre soltanto

allorché un soggetto eserciti una competenza di un altro organo dello stesso ente che disponga però di

diversa competenza territoriale, mentre ove si eserciti la competenza spettante ad organo di altro ente

territoriale la conseguenza sarà la nullità dell’atto. Secondo parte della dottrina, l’incompetenza territoria

darebbe luogo in ogni caso a nullità.

La violazione di legge

Il vizio di violazione di legge sussiste allorché si violi una qualsiasi altra norma di azione generale e stratta

che non attenga alla competenza e sempre che non trovi applicazione l’art. 21-octies, l. 241/1990. Il vizio

ricorre in tutti i casi in cui sia violata una norma di azione, indipendentemente dal fatto che essa sia

contenuta nella legge in senso formale, ovvero in altra fonte. La violazione di legge può ricorrere sia nel caso

di mancata applicazione della norma, sia nell’ipotesi di falsa applicazione della stessa.

L’astensione dei funzionari incompatibili e in situazione di conflitto di interessi

Ai fini della sua validità, il provvedimento deve essere adottato da organi amministrativi composti da

soggetti che non abbiano interessi tali da compromettere, anche potenzialmente, la possibilità di una

decisione imparziale. Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri,

le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di

conflitto di interessi. Con riferimento ai piani urbanistici (art. 78 T.U. enti locali), durante “l’accertamento

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184

giurisdizionale” dello stato di “correlazione immediata e diretta tra contenuto della deliberazione e specifici

interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”, è sospesa la validità delel relative

disposizioni del piano urbanistico medesimo.

L’eccesso di potere

Il vizio di eccesso di potere è il risvolto patologico della discrezionalità. Esso sussiste dunque quando la

facoltà di scelta spettante all’amministrazione non è correttamente esercitata. L’eccesso di potere nasce dalla

violazione di quelle prescrizioni che presiedono allo svolgimento della funzione che non sono ravvisabili in

via preventiva e astratta. Tali regole si sostanziano nel principio di logicità-congruità applicato al caso

concreto. Il giudizio di logicità-congruità va effettuato tenendo conto dell’interesse primario da perseguire,

degli interessi secondari coinvolti e della situazione di fatto. Il principio di logicità-congruità racchiude

dunque anche quello di proporzionalità, il quale, a sua volta, è pure presente nell’ordinamento dell’Unione

europea e viene richiamato da parte della giurisprudenza quale parametro di legittimità di alcuni atti

amministrativi delle autorità nazionali.

Rapporto tra eccesso di potere e straripamento di potere

Da questa definizione discendono alcuni corollari. In primo luogo, eccesso di potere non significa straripamento di potere, che

darebbe luogo a nullità dell’atto.

Ambito di operatività dell’eccesso di potere

L’eccesso di potere è predicabile soltanto con riferimento agli atti discrezionali. Un sindacato di congruità e

di ragionevolezza delle valutazioni operate è però compiuto dal giudice amministrativo anche con

riferimento alla discrezionalità c.d. tecnica, nel senso di ritenere illegittima la valutazione di un presupposto

che sia manifestamente illogica.

Lo sviamento

Classica forma dell’eccesso di potere è lo sviamento, che ricorre allorché l’amministrazione persegua un

fine differente da quello per il quale il potere le è stato conferito. La giurisprudenza tende a ricondurre allo

sviamento tutti i vizi funzionali dell’atto, anche quelli che, in linea teorica, darebbero luogo alla nullità

dell’atto.

Le figure sintomatiche dell’eccesso di potere

La giurisprudenza ha poi elaborato una serie di figure, dette figure sintomatiche, le quali sono appunto

sintono del non corretto esercizio del potere in vista del suo fine. Esse forniscono una sorta di catalogo delle

situazioni in cui l’atto può risultare viziato per eccesso di potere. Trattandosi di sintomi, occorre verificare se

a tali situazioni si accompagni la divergenza tra fine perseguito e fine prefissato all’amministrazione

(sviamento).

Tipi di figure sintomatiche

Alcune figure sintomatiche: violazione della prassi, manifesta ingiustizia (sproporzione tra sanzione e

illecito), contraddittorietà tra più parti dello stesso atto o tra più atti, disparità di trattamento tra situazioni

simili, travisamento dei fatti, incompletezza e difetto dell’istruttoria, inosservanza dei limiti, dei parametri di

riferimento e dei criteri prefissati per lo svolgimento futuro dell’azione.

Difetto di motivazione e carenza di motivazione

Ricorre eccesso di potere allorché la motivazione sia insufficiente, incongrua, contraddittoria, apodittica,

dubbiosa, illogica e perplessa. In tali ipotesi si parla di difetto di motivazione.

Page 185: Dispensa Di Amministrativo - 1

185

L’assenza di motivazione (detta anche carenza di motivazione) dà luogo al vizio di violazione di legge,

atteso che la motivazione è obbligatoria ex art. 3, l. 241/1990. Spesso la stessa situazione può dar luogo al

vizio di violazione di legge e a quello di eccesso di potere.

Violazione di circolari, ordini, istruzioni, prassi

Costituiscono figure di eccesso di potere anche le violazioni di circolari, di ordini e di istruzioni di servizio e

il mancato rispetto della prassi amministrativa. Tali atti e fatti non pongono norme giuridiche: in caso

contrario la loro violazione darebbe luogo ad una violazione di legge.

La circolare

La circolare è un atto non avente carattere normativo, mediante la quale l’amministrazione fornisce

indicazioni in via generale e astratta in ordine alle modalità con cui dovranno comportarsi in futuro i propri

dipendenti e i propri uffici. La circolare ha efficacia solo “interna” all’amministrazione, non ha rilevanza

determinante nella genesi dei provvedimenti e non produce effetti direttamente in capo ai cittadini, i quali,

infatti, non possono impugnarla autonomamente.

Il termine “circolare” deriva dalla modalità con cui in passato gli ordini militari erano comunicati agli ufficiali del comando. Quando

è stato trasposto nell’ambito dell’amministrazione, il termine è stato impiegato per indicare l’atto rivolto da un organo sopraordinato

a tutti gli organi sottoordinati nell’esercizio di poteri di direttiva, indirizzo e coordinamento. La moderna circolare è una neutra

“misura di conoscenza” in grado di avere contenuto interpretativo o informativo. Oltre a questi esempi, che attengono a circolari

inviate da un organo o un ufficio ad altri organi o uffici dello stesso ente, esistono poi circolari intersoggettive, indirizzate a enti

diversi dall’autorità emanante, spesso in funzione di coordinamento: ove non costituiscano esercizio di poteri attribuiti all’ente

emanante, esse sono prive di forza cogente.

La prassi

La prassi amministrativa è il comportamento costantemente tenuto da un’amministrazione nell’esercizio di

un potere. Non si tratta di una fonte di diritto (lo è invece la consuetudine, che differentemente dalla prassi, è

il risultato del comportamento di una certa generalità di consociati ed è caratterizzata dalla opinio juris et

necessitatis. L’inosservanza della prassi non dà dunque luogo a violazione di legge, ma può essere sintomo

di eccesso di potere.

Ordini e istruzioni: le c.d. norme interne

Analogo discorso può essere fatto in relazione alle norme interne, nei limiti in cui esse esistano e siano

autonome rispetto a quello poste da circolari: si tratta di quelle norme non operanti per ‘ordinamento

generale, non aventi la natura di norme giuridiche e destinate a disciplinare soltanto i rapporti interni, sicché

la loro violazione non dà luogo al vizio di violazione di legge, ma al più è sintomo di eccesso di potere.

12. La motivazione di provvedimenti e atti amministrativi.

Un’importante requisito di validità, comune tra l’altro ad atti provvedimentali e ad alcuni di quelli non

provvedimentali, è la motivazione.

Il dovere di motivazione

Nel nostro ordinamento il dovere di motivazione è stato introdotto dall’art. 3, c.1, l. 241/1990, secondo cui

“ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo

svolgimento dei pubblici concorsi e il personale, deve essere motivato”. Fanno eccezione gli atti normativi e

gli atti a contenuto generale.

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La motivazione deve indicare “i presupposti di fato e le ragioni giuridiche che hanno determinato la

decisione amministrativa, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”. La legge raggruppa in un’unica

definizione sia ciò che parte dalla dottrina qualificativa in precedenza come motivazione in senso stretto

(identificazione dei motivi), sia la c.d. giustificazione (indicazione dei presupposti dell’agire), sicchè anche i

provvedimenti vincolati debbono essere motivati.

La motivazione per relationem

Ai sensi dell’art.3, l. 241/1990, il dovere di motivare è soddisfatto se il provvedimento richiama altro atto che

contenga esplicita motivazione e questo sia reso disponibile (motivazione per relationem). Secondo parte

della giurisprudenza, è sufficiente che il documento sia reso disponibile e, cioè, che sia suscettibile di essere

acquisito utilizzando l’istituto dell’accesso, escludendo così la necessità che venga allegato. La motivazione

deve comunque essere formata contestualmente all’adozione della decisione.

L’obbligo di motivazione dei meri atti

Se l’obbligo di motivazione stabilito dall’art.3, l. 241/1990 riguarda i solo provvedimenti, ciò non significa

ovviamente che gli atti amministrativi non provvedimentali non debbano essere motivati. Riguardo ad essi

nulla è innovato: e dunque continuano a dovere essere motivati gli atti riguardo ai quali dottrina e

giurisprudenza avevano più o meno concordemente sostenuto la necessità di motivazione. Ma sono pur oggi

ammissibili atti non provvedimentali non motivati, anche se la ratio della motivazione (consistente nel

sindacato di opinione pubblica come controllo sociale sulla non trasparenza dell’operato della pubblica

amministrazione) e il principio di trasparenza tendono a restringere ulteriormente l’ambito degli atti sottratti

all’obbligo di motivazione.

Ad esempio secondo la giurisprudenza tradizionale del Consiglio di Stato non andrebbe motivata l’attribuzione del punteggio nei

pubblici concorsi, trattandosi di attività non provvedimentale, ma di giudizio. Solo dagli atti provvedimentali scaturiscono effetti

rilevanti sul piano dell’ordinamento generale, consistenti nella modificazione, costituzione o estinzione di situazioni giuridiche

soggettive. La motivazione, in queste ipotesi, soddisfa l’esigenza che siano esplicitate le ragioni per cui tale vicenda inersoggettiva è

prodotta e deve giustificare le modalità e i mezzi concreti scelti dall’amministrazione per perseguire l’interesse pubblico affidato alle

sue cure. La prospettiva è, dunque, ancora quella della incisione diretta di situazioni giuridiche rilevanti sul piano dell’ordinamento

generale. L’eventuale motivazione di atti non provvedimentali esplicita all’esterno la congruità di scelte, valutazioni o determinazioni

che non coinvolgono direttamente situazioni giuridiche, avendo un esclusivo rilievo infraprocedimentale.

L’an e il quomodo della motivazione

Se la legge ha risolto il problema del “se” motivare (la carenza di motivazione configura oggi violazione di

legge!), rimane aperta la questione del “come” motivare: la motivazione, oltre che esistente, deve risultare

sufficiente per sottrarsi alle censure di eccesso di potere precedentemente indicate, chiarendo i fatti che

giustificano la “decisione” amministrativa adottata. In particolare, l’amministrazione dovrà puntualmente

motivare se disattende le rappresentazioni dei privati interessati e deve dar conto delle risultanze istruttorie.

Da questo punto di vista di giustifica l’esclusione del dovere di motivare per gli atti normativi e per quelli

amministrativi generali.

La motivazione degli atti a contenuto generale

L’esclusione del dovere di motivazione degli atti a contenuto generale non impedisce peraltro che, quando in

essi siano contenute clausole specifiche di peculiare applicazione, queste possano essere considerate

provvedimentali, e quindi debbano essere motivate. Ai fini del requisito della motivazione, è pur sempre

necessaria un’attenta interpretazione dell’atto stesso.

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13. I vizi di merito

Abbiamo definito il merito amministrativo come l’insieme delle soluzioni compatibili con il canone di

congruità-logicità che regola l’azione discrezionale, distinguibili e “graduabili” tra di loro soltanto

utilizzando criteri di opportunità e di convenienza.

L’inopportunità

L’illegittimità per vizi di merito, secondo la tesi tradizionale, si verifica nei casi in cui la scelta discrezionale

confligge con tali criteri non giuridici.

Di regola l’inopportunità del provvedimento è irrilevante, nel senso che la legge si limita a richiedere che la

scelta discrezionale sia legittima alla stregua del canone di congruità-logicità, ossia non risulti viziata per

eccesso di potere. Talora, tuttavia, l’inopportunità assume rilevanza perché l’ordinamento prevede la sua

sindacabilità e, dunque, la sostituzione della valutazione di un terzo a quella compiuta dall’amministrazione.

I mezzi predisposti sono: il controllo di merito (ormai superato), gli interventi in via di autotutela, i ricorsi

amministrativi e i ricorsi giurisdizionali nell’ambito della giurisdizione di merito.

Il regime dell’atto viziato per vizi di merito è tradizionalmente considerato l’annullabilità. La l. 241/1990 nel

disciplinare l’annullamento d’ufficio, tace della possibilità di annullare atti viziati nel merito e, anzi ammette

l’annullabilità dei soli atti illegittimi. Il provvedimento “viziato” nel merito, sempre che sia a efficacia

durevole, è piuttosto assoggettato alla disciplina di cui all’art.21-quinquies, in forza del quale è revocabile il

provvedimento a seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.

14. Procedimenti di riesame dell’atto illegittimo: conferma, annullamento, riforma, convalida.

I provvedimenti c.d. “di secondo grado” sono caratterizzati dal fatto di essere espressione di autotutela e di

avere a oggetto altri e precedenti provvedimenti amministrativi o fatti equipollenti.

Impiegando un criterio funzionale si distinguono:

- poteri di riesame, sotto il profilo della validità, di precedenti provvedimenti o di fatti equipollenti;

- poteri di revisione, incidenti sull’efficacia e sull’esecuzione di precedenti atti.

Il procedimento di riesame può avere esiti differenti: conferma della legittimità, riscontro dell’illegittimità

(ma sanabile) dell’atto, riscontro dell’illegittimità non sanabile dello stesso. Indipendentemente dalla misura

adottata, l’amministrazione deve comunque dar conto in ogni caso della sussistenza di un interesse pubblico

specifico che la giustifichi.

L’atto confermativo

Il provvedimento che viene adottato allorché l’amministrazione verifichi l’insussistenza di vizi nell’atto

sottoposto a riesame viene tradizionalmente definito come atto di conferma o atto confermativo.

All’atto confermativo in senso proprio può essere accostato il rifiuto preliminare: trattasi del rifiuto di porre

in essere un procedimento che costituisca esercizio della funzione; tale atto, non impugnabile, consegue ad

un’attività preliminare volta alla verifica dell’esistenza dei presupposti dell’esercizio del potere. Simile al

rifiuto preliminare è poi il silenzio non significativo serbato su di una istanza in ordine alla quale non sussiste

l’obbligo di provvedere. Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o

infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un

provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico

riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo. Il rifiuto preliminare si distingue infine dal

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188

provvedimento di rifiuto dell’atto richiesto dal cittadino che costituisce esercizio di un potere e, in quanto

tale, è impugnabile.

L’annullamento in sede di autotutela

L’annullamento d’ufficio è il provvedimento mediante il quale si elimina un atto invalido e vengono rimossi

ex tunc (ossia retroattivamente e, dunque, a partire dal momento dell’emanazione) gli effetti prodotti,

ancorché questi consistano nella costituzione di un diritto soggettivo in capo al destinatario. Ai sensi

dell’art.21-nonies, c.1, l. 241/1990, il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato

d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli

interessi dei destinatari e dei controinteressati.

A differenza dell’annullamento posto in essere dal giudice amministrativo, che è previsto in vista della tutela

delle situazioni giuridiche dei privati, l’annullamento d’ufficio ha la funzione di tutelare l’interesse pubblico:

accanto alla illegittimità dell’atto, occorre anche la sussistenza di un interesse pubblico che giustifichi

l’eliminazione dell’atto medesimo e dei suoi effetti. Dal punto di vista procedimentale, al fine di agire

legittimamente, occorre dare comunicazione agli interessati dell’avvio del procedimento di autotutela. Il

potere è esercitabile d’ufficio ma, nella prassi, è spesso preceduto dall’invito all’autotutela da parte del

privato. Sussisterebbero poi altre situazioni in cui l’annullamento stesso sarebbe doveroso, quindi non

discrezionale, e indipendentemente dalla valutazione di interessi pubblici e privati, assumendo caratteri assai

prossimi all’esercizio di una funzione di controllo: ipotesi di illegittimità dell’atto dichiarata da una sentenza

del giudice ordinario passata in giudicato, o da un’autorità di controllo cui non competa la potestà di

annullamento o nell’ipotesi di atto consequenziale rispetto ad un atto presupposto annullato.

La giurisprudenza amministrativa ha affermato che pure nell’ipotesi di violazione di norme di diritto dell’Unione europea trovino

applicazione i principi di cui alla l. 241/1990 sicché la sola illegittimità dell’atto non è sufficiente a giustificare l’annullamento

dell’atto, che rimane momento finale di un procedimento ad attivazione non doverosa.

Presupposti dell’annullamento

I presupposti per esercitare il potere generale di annullamento d’ufficio sono costituiti dall’illegittimità del

provvedimento e dalla sussistenza di ragioni di interesse pubblico. Pertanto l’amministrazione deve valutare

se l’eliminazione del provvedimento invalido sia conforme con l’interesse pubblico, anche tenendo conto

degli interessi nel frattempo sorti sia in capo ai destinatari dell’atto, sia in capo ai controinteressati.

Va comunque osservato che la giurisprudenza talora escludeva l’applicabilità del principio generale secondo cui l’annullamento deve

essere sorretto da attuali ragioni di interesse pubblico quando esso non incidesse su un affidamento consolidato del privato. Tali

orientamenti paiono però oggi in contrasto con la lettera della norma. Non pare inoltre che possa essere annullato un atto al quale si

applichi l’art. 21-octies, l. 241/1990, atteso che l’amministrazione ha mostrato di volerlo sanare, emanandolo.

Strutturalmente diverso dall’annullamento in via di autotutela è la verifica d’ufficio e in via di autotutela

della nullità di un proprio precedente provvedimento al fine di non dar corso ai relativi effetti (tale atto di

accertamento infatti non avrebbe carattere autoritativo e presuppone un atto non già illegittimo, ma nullo). Di

rilievo è la precisazione secondo cui l’annullamento va posto in essere entro un termine ragionevole,

decorso il quale i suoi effetti vanno dunque considerati consolidati: è questa un’ulteriore applicazione del

principio della tutela del legittimo affidamento. Dal sistema e dalla lettera dell’art. 21-nonies, l. 241/1990 è

altresì possibile ricavare, tra annullamento e convalida, una preferenza per la convalida.

Differenza tra rifiuto di annullamento d’ufficio (non impugnabile) e convalida: solo nel secondo caso si elimina il vizio, con la

conseguenza che l’atto originario, a differenza di ciò che accade nella prima ipotesi, non è impugnabile dinanzi al giudice

amministrativo.

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189

L’efficacia dell’annullamento

La produzione degli effetti retroattivi dell’annullamento potrebbe essere impedita dall’esistenza di situazioni

già consolidate non suscettibili di rimozione o la cui rimozione confliggerebbe con il principio di buona fede

o di affidamento ingenerato in capo a chi, sul presupposto della legittimità dell’atto, vi abbia dato

esecuzione. Per esempio l’annullamento di un decreto di esproprio pronunciato quando l’opera sia già stata

completata: in questo caso sorgo l’obbligo di risarcire il danno patito dal privato; oppure si pensi

all’annullamento di una procedura concorsuale alla quale sia seguita la nomina del vincitore e la prestazione

del suo servizio: in questo caso non è consentito all’amministrazione di ripetere le somme percepite dal

dipendente.

In dottrina (Falcon) si sostiene che l’amministrazione potrebbe limitare o graduare gli effetti retroattivi.

Questa tesi pare trovar conferma nella sentenza del Cons. Stato, sez. VI, n.2755/2011 che, a livello di obiter

dictum, chiarisce che la disciplina sostanziale non dispone “l’inevitabilità della retroattività degli effetti

dell’annullamento di un atto in sede amministrativa..”. Secondo la Cassazione, l’annullamento d’ufficio di un

provvedimento favorevole potrebbe aprire la via al risarcimento a favore del soggetto che abbia fatto

affidamento su quell’atto. Discussa è la sorte degli atti che seguono il provvedimento annullato e di cui lo

stesso costituisce presupposto: essi sono affetti da legittimità derivata. Secondo un indirizzo dottrinale e

giurisprudenziale, la caducazione dell’atto presupposto, nelle ipotesi in cui il nesso sia particolarmente

evidente, determinerebbe l’automatica caducazione degli atti consequenziali. Un effetto caducante

automatico potrebbe ravvisarsi nell’ipotesi in cui l’atto annullato costituisca non solo un presupposto di

validità nell’atto successivo, ma addirittura un suo presupposto di esistenza.

La convalescenza

Il potere di annullamento può essere esercitato entro un termine ragionevole; l’eccessivo decorso del tempo,

rapportato all’affidamento ingenerato nei terzi, può dunque causare l’illegittimità del relativo atto. In questa

ipotesi ricorre la figura della convalescenza dell’atto per decorso del tempo, la quale impedisce appunto

l’annullamento d’ufficio di atti illegittimi qualora essi abbiano prodotto i loro effetti per un periodo

adeguatamente lungo.

Titolarità del potere di annullamento

Il potere di annullamento spetta all’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge (la

medesima competenza dovrebbe sussistere in ordine alla convalida)

La riforma

Ove la parte annullata sia sostituita da altro contenuto si ha la figura della riforma, avente efficacia ex nunc.

Questa è la riforma “sostitutiva”; esiste altresì la riforma “aggiuntiva” che consiste nell’introduzione di

ulteriori contenuti a quello originario. Il ministro non può riformare i provvedimenti di competenza dei

dirigenti.

Il potere governativo di annullamento

L’ordinamento prevede poi il potere del governo di procedere in ogni tempo all’annullamento degli atti di

ogni amministrazione. La possibilità di procedere a siffatto annullamento rispecchia la posizione del governo

che si colloca al vertice dell’apparato amministrativo. Il potere in esame ha carattere straordinario e può

essere esercitato a tutela dell’unità dell’ordinamento, sicché non è sufficiente qualsiasi illegittimità, ma

occorre un vizio particolarmente grave dell’atto la cui permanenza in vita sia giudicata incompatibile con il

sistema nel suo complesso e non già con i soli interessi della pubblica amministrazione che lo ha emanato.

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190

La convalida

La convalida è un provvedimento di riesame a contenuto conservativo: ai sensi dell’art. 21-nonies, l.

241/1990, l’amministrazione ha possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le

ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. Il relativo potere è applicazione del principio

della conservazione dei valori giuridici. L’amministrazione rimuove il vizio che inficia il provvedimento di

primo grado e pone in essere una dichiarazione che espressamente riconosce il vizio ed esprime la volontà di

eliminarlo, sempreché tale vizio sia suscettibile di essere rimosso (ad esempio è convalidabile

l’incompetenza, ma non lo è l’atto emanato in assenza di presupposti che ne avrebbero consentito la legittima

adozione, o l’atto viziato per eccesso di potere sotto forma di sviamento).

Gli effetti della convalida retroagiscono al momento dell’emanazione dell’atto convalidato.

La sanatoria

Dalla convalida si distingue la sanatoria in senso stretto, la quale ricorre allorché il vizio dipende dalla

mancanza, nel corso del procedimento, di un atto endoprocedimentale la cui adozione spetta a soggetto

diverso dall’amministrazione competente ad emanare il provvedimento finale. L’atto può essere sanato da un

intervento tardivo che dà luogo ad una sostanziale inversione dell’ordine procedimentale: ciò vale per le

istanze degli interessati, per i nulla osta e per le autorizzazioni, mentre il potere non può intervenire

successivamente, se la sua funzione è quella di fornire valutazioni prima della decisione finale.

15. Conversione, inoppugnabilità, acquiescenza, ratifica, rettifica e rinnovazione del provvedimento.

La conversione

La conversione è istituto che riguarda gli atti nulli. Essa opera ex tunc in base al principio della

conservazione dei valori giuridici. Si ammette talora in dottrina e in giurisprudenza la possibilità della

conversione anche di atti annullabili. In tali casi si verifica un fenomeno più complesso, costituito

dall’annullamento dell’atto originario e dalla sua sostituzione con altro atto di cui sussistono nel primo tutti i

requisiti. Gli effetti di tale atto opererebbero ex tunc: tuttavia tale retroattività non corrisponde ad alcun

principio giuridico. Si può al più parlare, nei casi consentiti, di retrodatazione degli effetti.

L’inoppugnabilità

L’inoppugnabilità è la condizione in cui l’atto viene a trovarsi ove siano decorsi i termini per impugnarlo.

L’atto inoppugnabile va distinto da quello convalidato: vero è che anche la inoppugnabilità comporta

l’inattaccabilità dell’atto, ma la differenza deriva dal fatto che, in questo caso, la figura opera solo sul piano

giudiziale; di conseguenza l’atto inoppugnabile è pur sempre annullabile d’ufficio e disapplicabile dal

giudice ordinario. L’inoppugnabilità, inoltre, non è un carattere “assoluto” del provvedimento: questo può

non essere più impugnabile per un soggetto perché i relativi termini sono decorsi nei suoi confronti e

viceversa ancora impugnabile per altri che non ne sono venuti a conoscenza.

L’inoppugnabilità non concerne neppure l’efficacia del provvedimento né verso l’amministrazione, che ha sempre la disponibilità del

perseguimento del pubblico interesse, né verso il privato, essendo la efficacia dell’atto indipendente dalla conoscenza che ne abbia il

destinatario.

L’acquiescenza

L’acquiescenza è l’accettazione spontanea e volontaria, da parte di chi potrebbe impugnarlo, delle

conseguenze dell’atto e, quindi, della situazione da esso determinata. Il comportamento acquiescente deve

desumersi da fatti univoci, chiari e concordanti; esso presuppone la conoscenza del provvedimento e

l’avvenuta sua emanazione. L’acquiescenza, a differenza della convalida, non produce effetti erga omnes:

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essa osta infatti alla proposizione del ricorso amministrativo o giurisdizionale da parte del solo soggetto che

l’ha prestata.

Discussi sono l’effetto e la struttura dell’acquiescenza: la tesi che ravvisa un riconoscimento della legittimità

e l’accettazione degli effetti del provvedimento è esposta alla critica secondo cui tale riconoscimento è

irrilevante e non incide sulla validità del provvedimento, i cui effetti sono indisponibili per i destinatari. Pare

che l’acquiescenza non possa essere definita come accettazione degli effetti per i motivi appena citati: essa

opera allora sul piano processuale e si differenzia dalla rinuncia in quanto richiede un comportamento attivo

incompatibile con la proposizione del ricorso, sicché la sua analisi va riportata nell’ambito dello studio delle

cause che impediscono l’esercizio dell’azione processuale.

La ratifica

L’istituto della ratifica ricorre allorché sussista una legittimazione straordinaria di un organo ad emanare a

titolo provvisorio e in una situazione di urgenza un provvedimento che rientra nella competenza di un altro

organo, il quale, ratificando, fa proprio quel provvedimento originariamente legittimo.

La rettifica

Pure la rettifica, secondo la maggioranza della dottrina, non riguarda provvedimenti viziati, ma atti

irregolari, e consiste nell’eliminazione dell’errore.

La rinnovazione

Differente dalla convalida è infine la rinnovazione del provvedimento annullato, che consiste

nell’emanazione di un nuovo atto, avente dunque effetti ex nunc, con la ripetizione della procedura a partire

dall’atto endoprocedimentale viziato. La rinnovazione è possibile sempreché l’atto precedente non sia stato

annullato per ragioni di ordine sostanziale.

16. L’efficacia del provvedimento amministrativo: limiti spaziali e limiti temporali.

La produzione degli effetti sul piano dell’ordinamento generale (efficacia: essa può essere costitutiva,

dichiarativa, preclusiva) è subordinata alla sussistenza di tutti gli elementi rilevanti per tale produzione,

elementi che non coincidono necessariamente con quello di esistenza del provvedimento.

Mentre l’atto inesistente è senz’altro inefficace, il provvedimento emanato in situazione di carenza di potere in concreto, viceversa,

pur non producendo la vicenda giuridica prevista dall’ordinamento, è all’origine di alcuni effetti.

L’efficacia incontra limiti territoriali: essi corrispondono di norma a quelli della competenza dell’autorità;

non mancano tuttavia eccezioni, come nel caso del passaporto rilasciato dalla questura ed efficace su tutto il

territorio nazionale. L’efficacia del provvedimento può essere subordinata al compimento di determinate

operazioni, al verificarsi di alcune circostanze o all’emanazione di ulteriori atti rispetto all’adozione del

provvedimento in sé. L’atto può dunque essere perfetto ma non efficace, ovvero efficace ma annullabile, in

quanto, pur ricorrendo tutti i requisiti e gli elementi di efficacia, l’atto o il procedimento che lo precede non è

conforme al paradigma normativo.

L’efficacia del provvedimento incontra non solo limiti spaziali, ma anche temporali, nel senso che, pur

sussistendo il principio secondo cui gli atti di norma producono effetti al momento in cui sono venuti in

essere, non mancano esempi di atti ad efficacia differita o ad efficacia retroattiva. I primi sono quelli la cui

operatività è subordinata al completarsi della fattispecie operativa. L’efficacia può essere sospesa e

sussistono altre circostanze che, pur non essendo legate al compimento di atti e operazioni facenti parte del

procedimento, dal pari condizionano lo spiegarsi dell’efficacia: si pensi al decorso del termine iniziale di

efficacia, eventualmente indicato nel provvedimento o direttamente dalla legge. Il maturare del termine ha

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carattere costitutivo dell’effetto, nel senso che l’effetto stesso si produce dal momento del verificarsi della

circostanza. Discorso solo in parte analogo può essere condotto in ordine alla condizione sospensiva, fatto

futuro e incerto al verificarsi del quale si producono gli effetti.

La retroattività di atti amministrativi

L’atto amministrativo è di regola irretroattivo. Si riconosce tuttavia che l’efficacia di alcuni atti si spieghi

prima del fatto che ne è causa e, cioè, del perfezionarsi della fattispecie. Esistono in primo luogo atti

retroattivi per natura (annullamento, annullamento parziale, convalida: a seguito della caducazione di un atto

non possono ad esso sopravvivere le situazioni sorte per effetto della sua emanazione). Al di fuori di queste

ipotesi, la retroattività è ammessa solo se l’atto produce effetti favorevoli per il destinatario e non sussistono

controinteressati, ovvero se vi è il consenso dell’interessato.

La retrodatazione di atti amministrativi

Diversa dalla retroattività del provvedimento è la retrodatazione, conferita ad atti adottati “ora per allora” e,

cioè, ad atti che l’amministrazione sarebbe stata tenuta ad emanare, ma che non adottò tempestivamente,

dunque in un contesto normativo o in una situazione di fatto differenti rispetto a quelli attuali.

L’amministrazione procede a riportare la decorrenza degli effetti dell’atto al momento in cui essi avrebbero

dovuto dispiegarsi, anche se l’atto stesso è stato emanato in seguito.

Atti a efficacia istantanea e a efficacia durevole

Occorre poi distinguere, sempre in tema di limiti temporali d’efficacia, gli atti ad efficacia istantanea, in

cui l’effetto si produce, esaurendosi, in un dato momento e riguarda un singolo accadimento o fatto storico o

una isolata situazione, e atti a efficacia durevole o prolungata (è il caso dei piani urbanistici e delle

concessioni di servizio e di alcune autorizzazioni), che attengono ad una pluralità di comportamenti

considerati come una categoria unitaria.

La distinzione è importante perché si ritiene che solo per i secondi si ponga il problema delle vicende, le quali non possono che

riguardare l’efficacia durevole. Questa infatti non può venire meno per differenti motivi come l’estinzione dell’oggetto, il maturare

del termine finale, il realizzarsi della condizione risolutiva, l’estinzione del rapporto instaurato con l’atto e così via. Pure la

sospensione, configurandosi come differimento, può investire un atto a efficacia istantanea prima della sua esecuzione.

17. I procedimenti di revisione: sospensione, proroga, revoca e ritiro del provvedimento

amministrativo

L’efficacia può essere condizionata dall’adozione di procedimenti di revisione- di secondo grado-, ossia

provvedimenti amministrativi aventi ad oggetto l’efficacia di altri provvedimenti amministrativi. Prima di

analizzare tali atti occorre tuttavia accennare all’eseguibiltà, la quale consiste nella effettiva attitudine del

provvedimento ad essere eseguito.

Tipico atto che incide sull’eseguibilità e sull’efficacia è la sospensione amministrativa che è il

provvedimento con il quale viene temporaneamente paralizzata l’efficacia o l’eseguibiltà di un

provvedimento efficace, sia esso ampliativo o limitativo della sfera del destinatario, in caso di gravi ragioni

e per il tempo strettamente necessario da parte dello stesso organo che lo ha emanato o da diverso organo

previsto dalla legge. Il termine della sospensione può essere prorogato o differito una sola vota, nonchè

ridotto. La norma parla di efficacia e di esecuzione: in sostanza l’amministrazione può sospendere l’efficacia

dei provvedimenti che:

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-non richiedono esecuzione

-la cui esecuzione non sia ancora iniziata

ovvero sospendere le eventuali procedure esecutive dei provvedimenti la cui esecuzione sia già stata avviata

ma non sia ancora stata portata a termine.

La proroga

La proroga è il provvedimento con cui si protrae ad un momento successivo il termine finale di efficacia di

un provvedimento durevole. La proroga in senso proprio va adottata prima della scadenza del provvedimento

di primo grado. Qualora venga emanata successivamente si tratta in realtà di rinnovazione, la quale consiste

in un nuovo atto, identico al precedente scaduto, autonomamente impugnabile, la cui legittimità va valutata

al momento della sua adozione.

La revoca

La revoca è il provvedimento che fa venire meno la vigenza degli effetti di un atto a conclusione di un

procedimento volto a verificare se i risultati cui si è pervenuti attraverso il precedente provvedimento

meritino di essere conservati. Più in particolare ai sensi dell’art21-quinquies, l.241/1990 per sopravvenuti

motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione

dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere

revocato.

In dottrina si parla anche di revoca (da altri detta anche revoca-sanzione o decadenza) per indicare il provvedimento di natura

sanzionatoria che l’amministrazione pone in essere a seguito della violazione di un obbligo dell’interessato. Manca rispetto alla

revoca in senso proprio la valutazione degli interessi pubblici.

Oggetto della revoca ed indennizzo

Alla radice del potere generale di revoca in senso proprio si profilano dunque più situazioni: può accadere

per esempio che siano sopravvenuti motivi di interesse pubblico o siano mutate le circostanze di fatto

esistenti al momento dell’adozione del provvedimento di primo grado e cosí via. La revoca, la quale si badi,

incide sull’efficacia dell’atto e non sull’atto è dunque strettamente collegata al problema delle

sopravvenienze che incidono sull’efficacia di un atto legittimo, al principio della constante rispondenza dei

rapporti amministrativi all’interesse pubblico e al tema della tutela legittima dell’interesse privato. La

connessione con il tema della sopravvenienza, e, comunque l’applicazione del principio dei provvedimenti

amministrativi spiegano perché essa abbia effetti ex nunc ai sensi dell’art 21-quinquies.

Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha

l’obbligo di provvedere al loro indennizzo. Il comma 1-bis si occupa della quantificazione dell’indennizzo

con specifico riferimento ai casi in cui la revoca di un atto a efficacia durevole o istantanea riguardi un atto

originariamente non compatibile con l’interesse pubblico e incida su rapporti negoziali.

L’indennizzo è parametrato al solo danno emergente, il che non significa che coincida con esso, potendo

risultare inferiore. Si esclude comunque il lucro cessante, che può essere conseguito soltanto dimostrando la

presenza di un illecito. L’indennizzo tiene inoltre conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da

parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo all’interesse pubblico sia dell’eventuale

concorso dei contraenti o di altri soggetti “all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con

l’interesse pubblico”. Prospettabile è poi l’ipotesi di indennizzo liquidato a terzi che abbiano instaurato

rapporti con un concessionario e che risultino pregiudicati dalla revoca della concessione che pure

direttamente non li riguarda, ma che è il presupposto dei contratti stipulati con il concessionario: la legge,

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infatti, al momento di individuare i beneficiari dell’indennizzo fa generico riferimento agli “interessati” e

accenna al concorso di “altri soggetti”.

È evidente la valenza moralizzatrice della disposizione, che è stata introdotta nel 2007, dopo che la riforma

della legge 241/1990 avvenuta nel 2005 aveva finalmente positivizzato il diritto all’indennizzo: il c. 10bis

mira infatti a responsabilizzare il privato il quale spesso, vera parte “forte” di una negoziazione effettiva con

l’amministrazione, non deve in tal caso avere chances di ulteriormente avvantaggiarsi nell’ipotesi di

ripensamento del soggetto pubblico.

Generalmente ammessa è la revocabilità dell’efficacia degli atti dai quali siano sorti diritti soggettivi, ancorchè debba essere valutato

l’affidamento del titolare: un caso di questo genere si ebbe quando fu revocata la concessione di illuminazione a gas a seguito

dell’introduzione dell’energia elettrica.

Competenza in materia di revoca

Figura simile alla revoca e ‘ quella del recesso dagli accordi: è l’ipotesi disciplinata dall’art 21-sexies-

l.241/1990 secondo cui il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione è ammesso nei casi

previsti dalla legge o dal contratto: in questo caso infatti, comunque relativo a contratti e non provvedimenti,

non rilevano i motivi di interesse pubblico e si rinvia ai capi tipizzati dalla legge o dall’autonomia delle parti.

La rimozione

Si parla di revoca per indicare anche la diversa ipotesi ( definita in dottrina rimozione o abrogazione) in cui

con un provvedimento vincolato viene fatta cessare la permanenza della vigenza di atti legittimi ad efficacia

prolungata allorche’ venga meno uno dei presupposti specifici sul fondamento dei quali tali erano stati

emanati. La rimozione, che non esclude la revoca, ha efficacia a partire dal momento in cui si realizza la

situazione di contrarietà al diritto della perdurante vigenza dell’atto di primo grado.

Il ritiro

Va infine ricordato che ai sensi dell’art 123 Cost., lo statuto delle regione regola tra l’altro l’esercizio del

“referendum su provvedimenti amministrativi della regione”; l’esito del referendum può consistere nel ritiro

del provvedimento con efficacia ex nunc.

La dottrina e la giurisprudenza conoscono più in generale la figura del mero ritiro dell’atto non efficace

che diversamente dall’annullamento d’ufficio e dalla revoca non è subordinato all’esistenza di un interesse

pubblico, concreto e attuale o alla considerazione delle posizioni soggettive coinvolte.

18. Esecutività ed esecutorietà del provvedimento amministrativo

L’esecutività

l’idoneità del provvedimento –legittimo o illegittimo- a produrre autonomamente e immediatamente i propri

effetti allorche’ l’atto sia ritenuto efficace è detta esecutività.

Va peró notato che la legge 241/1990 all’art 21-quater, indica con il termine esecutività il carattere

dell’eseguibilità e, cioè, la sua idoneità non a produrre effetti, ma a essere eseguito senza necessità di

precostituire titoli esecutivi giudiziari. La norma disciplina poi l’esecuzione del provvedimento, stabilendo

che, se efficace, esso va eseguito immediatamente.

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L’esecutorietà

In ogni caso al di la’ di etichette terminologiche è indubbio che il provvedimento necessiti di esecuzione: con

il termine esecutorietà del provvedimento si indica allora la possibilità che essa sia compiuta, in quanto

espressione di autotutela, direttamente e coattivamente dalla pubblica amministrazione, senza dover ricorrere

previamente ad un giudice: nel rispetto del principio di legalità, allorchè il contenuto del provvedimento

comporti un obbligo di dare o consegnare, a fronte del rifiuto del privato l’amministrazione può conseguire i

risultato pratico ( ad es. spossessamento del bene oggetto di un’occupazione d’urgenza).

L’art 21-ter, l.241/1990 dispone al riguardo che, nei casi e con le modalità stabilite dalla legge, le

pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi

nei loro confronti. Il riferimento alla diffida vale a introdurre una sorta di procedimentalizzazione

dell’esercizio del potere di esecutorietà. Si noti che l’esecutorietà è rimessa alla scelta del soggetto pubblico:

in mancanza di determinazione in tal senso l’attuazione del provvedimento potrà avvenire solamente in sede

giurisdizionale.

I mezzi dell’esecutorietà

L’art 21-ter dispone altresí che il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità

dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato. Molteplici sono i mezzi attraverso i quali l’esecutorietà si

manifesta nel nostro ordinamento. Nelle ipotesi in cui il provvedimento costituisca obblighi di fare

infungibili, l’amministrazione può procedere alla coercizione diretta, se ammessa dalla legge e se

compatibile con il valori costituzionali, ovvero può minacciare e infliggere sanzioni per ottenere la

esecuzione spontanea.

Ove l’obbligo di fare consisti in una prestazione fungibile può essere prevista l’esecuzione d’ufficio:

l’amministrazione esegue direttamente, con propri mezzi ma a spese del terzo, l’attività richiesta.

Nei casi di obblighi di dare relativi a somme di denaro, la legge contempla due ipotesi: l’esecuzione forzata

edittoriale e il procedimento caratterizzato dall’ingiunzione.

19. Gli accordi amministrativi

Il contratto di diritto pubblico

In dottrina è fiorito un interessante dibattito, tuttora in corso, in ordine alla configurabilità di un contratto

pubblico stipulato tra amministrazioni o tra amministrazione a privati, ovvero alla possibilità di qualificare

come contratti di diritto privato alcune fattispecie caratterizzate dall’attinenza a beni, servizi e funzioni

pubbliche. Le principali questioni attengono ai profili soggettivi e oggettivi del rapporto e alla natura

dell’attività amministrativa. Sotto l’aspetto soggettivo si dubitavano aspetti quali l’ammissibilità di un

negozio tra parti che si collocano su posizioni qualitativamente diverse e quindi non legittimate ad impiegare

lo strumento contrattuale che presuppone la parità tra di esse o il fatto che l’attività e i beni di diritto

pubblico non sarebbero suscettibili di costituire oggetto di un contratto di diritto comune. Ciò nonostante,

anche in passato la realtà giuridica offriva svariati esempi di moduli pattizi coinvolgenti amministrazioni e

privati: la spiegazione di tali fenomeni fu fornita osservando come in queste occasioni l’amministrazione si

spogliasse della veste di autorità e si presentasse come un mero contraente, stipulando un negozio di diritto

privato accessivo al provvedimento unilaterale con il quale si disponeva dell’interesse pubblico.

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Gli accordi nella l. 241/1990

L’attuale normativa, e in particolare la l.241/1990 consente che le amministrazioni pubbliche possano

sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse

comune. Inoltre, la legge sul procedimento amministravo, dispone all’art 11 che l’amministrazione

procedente può concludere senza pregiudizio dei diritti di terzi, e in ogni caso, nel perseguimento di un

pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto essenziale del

provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo.

L’accordo si caratterizza per il necessario coinvolgimento di profili diversi da quelli patrimoniali, in

particolare dall’esercizio di potere amministrativo.

Il potere amministrativo, in quanto possibilità di produrre effetti giuridici in vista di interessi pubblici, rientra nella titolarietà

esclusiva della pubblica amministrazione. Esso dunque non può costituire materia di negoziazione con terzi.

20. Gli accordi tra amministrazione e privati ex art. 11, l. 7 agosto 1990 n. 241

Tipologie di accordi

Due sono le tipologie di accordi tra amministrazione e privati: gli accordi sostitutivi di provvedimento e gli

accordi integrativi del provvedimento ( determinativi del contenuto del provvedimento stesso).

Le differenze essenziali in ordine alla disciplina tra i due modelli sono le seguenti: mentre l’accordo

sostitutivo tiene luogo del provvedimento, l’accordo determinativo non elimina la necessità del

provvedimento nel quale confluisce, sicchè il procedimento si conclude pur sempre con un classico

provvedimento unilaterale produttivo di effetti, onde l’accordo ha effetti solo interinali; inoltre, soltanto gli

accordi sostitutivi sono soggetti ai medesimi controlli previsti per i provvedimenti, mentre nel caso di

accordi determinativi del contenuto discrezionale, il controllo, ove previsto, avrà ad oggetto il

provvedimento finale.

Pur senza tacere queste rilevanti differenze importanti tratti della disciplina di questi accordi possono essere

analizzati in modo unitario. Quanto alla possibile qualificazione di tali accordi come contratti, le maggiori

perplessità in ordine a tale soluzione nascono non tanto dalla circostanza che i negozi in esame hanno ad

oggetto l’esercizio del potere, quanto all’incompatibilità del regime cui sono assoggettati con il modello

civilistico di contratto.

Per quanto attiene al rilievo secondo cui l’amministrazione, stipulando un accordo, “spende” potere

autoritativo, occorre inserire l’art.11 in un quadro di riferimento più generale: l’esercizio del potere dà luogo

all’emanazione di atti o di accordi, mentre ove agisca in modo non autoritativo, l’amministrazione è soggetta

alle norme di diritto privato di cui all’art. 1, c.1-bis l.241/1990. Quest’ultima norma, dunque, non rileva in

tema di accordi.

Il regime giuridico dell’accordo ex art.11

A differenza di quanto accade nelle fattispecie contrattuali, l’interesse affidato alla cura di una delle due parti

– il soggetto pubblico- assume all’interno dell’accordo un ruolo del tutto differente rispetto a quello del

privato: l’accordo deve essere stipulato “in ogni caso nel perseguimento dell’interesse pubblico” e “per

sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo”.

La rilevanza dell’interesse pubblico consente di qualificare l’accordo come atto appartenente al diritto pubbico. Dall’esame dell’art

11, l. 241/1990 la dottrina ha tratto numerosi spunti a favore della tesi della natura pubblica dell’accordo.

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Gli accordi debbono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto salvo che la legge disponga

diversamente; essi debbono essere motivati; l’amministrazione può recedere unilateralmente dall’accordo

per sopravvenuti motivi di pubblico interesse corrispondendo un indennizzo. Il regime è complessivamente

pubblicistico, ma va ricordato che agli accordi si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del

codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. Uno spazio importante per il rinvio

ai profili civilistici si profila poi in relazione alla disciplina del rapporto scaturente dall’accordo. Se risulta

inapplicabile l’art. 1373 c.c. sul recesso, sembra invece ammissibile il rinvio ai principi che impongono alle

parti di comportarsi secondo buona fede e, con riferimento alle situazioni in cui vi sia un inadempimento

degli obblighi assunti, a quelli in tema di risoluzione per inadempimento, per sopravvenuta impossibilità o

eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.

L’accordo è strettamente legato al tema della partecipazione: esso può infatti essere concluso “in

accoglimento di osservazioni e proposte”. Va aggiunto che ai sensi del c. 4-bis in tutti i casi in cui una

pubblica amministrazione conclude accordi, la stipulazione è preceduta da una determinazione dell’organo

che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento.

Il recesso pubblicistico dall’accordo

Ulteriore e rilevante aspetto della disciplina degli accordi è costituito dalla previsione del potere in capo

all’amministrazione di recedere unilateralmente, “salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un

indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatesi in danno del privato”.

Si ritiene che il recesso incida, sciogliendoli, sui rapporti piuttosto che sugli atti: l’atto originario non diviene illegittimo, ma

illegittima o inopportuna è la permanenza del rapporto da esso costituito.

Caratteri dell’accordo integrativo

L’accordo integrativo è un accordo endoprocedimentale destinato a riversarsi nel provvedimento finale.

Esso, ammissibile soltanto nell’ipotesi in cui il provvedimento sia discrezionale , fa sorgere un vincolo tra le

parti : in particolare l’amministrazione è tenuta ad emanare un provvedimento corrispondente al tenore

dell’accordo. Il provvedimento non è revocabile, almeno per quella parte che corrisponde all’accordo in

ordine alla quale si può esercitare il potere di recesso.

Caratteri dell’accordo sostitutivo

Piu complesso il discorso attinente all’accordo sostitutivo,in ordine al quale è più necessaria la previsione

di legge delle ipotesi in cui è possibile concluderlo: esso elimina la necessità di emanare un provvedimento.

Tra i pochissimi esempi di accordo sostitutivo espressamente previsti dalla legislazione italiana- ma, come visto, l’istituto ha

carattere generale- ricordiamo l’accordo di cessione che produce effetti del decreto di esproprio.

In conclusione va ribadito che la indubbia accresciuta considerazione degli interessi dei privati, realizzata

dalla recente normativa sul procedimento amministrativo, non pare comunque in grado di eliminare il

carattere di necessaria preordinazione alla cura di interessi pubblici dell’azione amministrativa.

L’accordo sostitutivo poi è strumento che non elimina l’eventualità che il provvedimento sia emanato nel

caso in cui l’accordo stesso non venga stipulato.

Ogni volta in cui l’amministrazione voglia concordare con il privato l’esercizio del potere deve rispettare la disciplina di cui

all’art.11, l.241/1990 anche se la prassi offre ancora numerosi esempi di convenzioni atipiche, sottratte alla garanzia di cui alla norma

citata. Non rientrano poi nella previsione di cui all’art 11 quelle forme negoziali alle quali l’amministrazione ricorre per addivenire

ad effetti pratici analoghi a quelli conseguibili con provvedimento.

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21. I contratti di programma e gli accordi tra amministratori

Il termine “contratto di programma” è polisenso. Esso può essere impiegato per indicare gli atti mediante i

quali soggetti pubblici e privati in sostanza raggiungono intese mirate al conseguimento di obiettivi comuni.

In questo senso il contratto di programma si contrappone all’accordo di programma che in linea di massima

coinvolge soltanto soggetti pubblici. Introdotte poi dalla recente normativa (l.62/1996) sono le attività la

programmazione negoziata che coinvolgono una molteplicità di soggetti privati e pubblici: essa individia

quali specifici strumenti, le intese istituzionali di programma, gli accordi di programma quadro, i patti

territoriali, i contratti di programma e i contratti d’area.

La differenza tra gli accordi sostitutivi e le figure di programmazione negoziata è netta sotto il profilo

sostanziale: a differenza di quanto accade per gli accordi sostitutivi, legati alla partecipazione procedimentale

di un privato in una situazione di soggezione, gli altri strumenti servono per concordare azioni comuni tra

soggetti sostanzialmente collocati sullo stesso piano e particolarmente qualificati.

Gli accordi tra amministrazioni

Gli accordi tra amministrazioni sono impiegati come strumenti per concordare lo svolgimento di attività in

comune in un contesto in cui la frammentazione dei poteri richiede costantemente misure di raccordo e di

semplificazione. Non a caso, la norma che stabilisce il potere di concludere accordi tra le amministrazioni è

inserita nel capo relativo alla semplificazione procedimentale. Gli accordi sono sottoscritti con firma digitale

con firma elettronica avanzata ovvero con altra firma elettronica qualificata, pena la nullità degli stessi.

Uno dei problemi principali che riguardano tali modelli negoziali attiene alle conseguenze del dissenso espresso da una delle parti

interessate. L’ordinamento prevede talora strumenti per superare siffatto dissenso, affidando in particolare allo stato poteri sostitutivi

da esercitarsi secondo modalità garantistiche in caso di mancato raggiungimento dell’accordo. Si veda per esempio l’art 8, l.59/1997

secondo il quale “qualora nel termine di quarantacinque giorni dalla prima consultazione l’intesa non sia raggiunta “, gli atti sono

adottati con deliberazione del consiglio dei ministri, previo parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Nel

caso in cui la legge non prevede un criterio per risolvere il conflitto è poi ipotizzabile l’impugnazione del rifiuto dell’intesa, ovvero

nei casi di rapporto Stato-Regioni l’elevazione di un conflitto davanti alla corte costituzionale. Particolare rilievo assume oggi l’art 3

d.lgs. 281/1997, che si occupa della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e

Bolzano . Tale norma detta la disciplina da applicare a tutti i procedimenti in cui la legislazione preveda un’intesa nella Conferenza

Stato-regioni, stabilendo che l’intesa si perfeziona con l’espressione dell’assenso del governo e dei presidenti delle regioni e delle

province autonome: essa aggiunge che qualora l’intesa non sia raggiunta entro trenta giorni dalla prima seduta della conferenza, il

consiglio dei ministri provvede con deliberazione motivata.

Tipologie di accordi tra amministrazioni

Va poi operata una distinzione tra gli accordi che si inseriscono all’interno di un procedimento

amministrativo che sfocia nell’adozione di un formale atto finale (adottato dunque “previa intesa” ) e quelli

che invece hanno una rilevanza autonoma. Può osservarsi che nella prima tipologia di accordi l’ordinamento

si preoccupa di prevedere strumenti per il mancato raggiungimento dell’intesa, atteso che esiste

un’amministrazione procedente titolare di un interesse primario, laddove nel secondo caso quando manchi

un’amministrazione titolare di un interesse primario, lo stallo va superato soprattutto sul piano dei rapporti

“politici” tra i due soggetti.

Discusso è il problema della necessità che, successivamente all’intesa e all’accordo, le amministrazioni

interessate debbano formalizzare tali negozi mediante un atto di adesione. La soluzione preferibile è quella

negativa: la necessità di approvazione è prevista da singole norme con riferimento a specifiche figure pattizie

e non già dall’art. 15, l. 241/1990 che costituisce la fonte generale del potere di stipulare accordi.

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199

22. in particolare: gli accordi di programma

Particolari accordi tra amministrazioni, destinati ad essere approvati da un provvedimento amministrativo

formale, sono gli accordi di programma, dai quali derivano obblighi reciproci alle parti interessate e

coinvolte nella realizzazione di complessi interventi. La figura è prevista da molteplici normative ma trova il

piú importante esempio di disciplina nell’art 34 T.U. Rispetto alla norma base di cui all’art 15 l. 241/ 1990,

gli accordi di programma di cui al T.U. si caratterizzano per la specificità dell’oggetto, per il carattere

fortemente discrezionale che li permea e per il loro contenuto di regolamentazione dell’esercizio dei poteri

delle amministrazioni interessate, nonché per un notevole grado di dettaglio della disciplina cui sono

assoggettati!

Page 200: Dispensa Di Amministrativo - 1

200

CAP.8: OBBLIGAZIONI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E

DIRITTO COMUNE

1. Il regime delle obbligazioni pubbliche tra diritto comune e deviazioni pubblicistiche

Contratto, fatto illecito, legge e altri fatti o atti di cui all’art 1173 c.c. sono fonti di obbligazioni anche per la

pubblica amministrazione.

Con riferimento alle obbligazioni a carico dell’amministrazione si parla talora in dottrina di obbligazioni

pubbliche. Tale accezione appare però ambigua, atteso che le obbligazioni, comunque sorte, sono sottoposte

alla disciplina privatistica.

Si consideri tuttavia che la sottoposizione delle obbligazioni che fanno capo all’amministrazione al diritto

comune conosce importanti deroghe sotto almeno due profili:da un lato, quelle scaturenti da accordi

amministrativi sono soggette alla disciplina di cui all’art 11, l, 241/1990; dall’altro sotto il profilo

processuale, le controversie relative ad alcune obbligazioni in materie devolute alla giurisdizione esclusiva

del giudice amministrativo sono sottratte alla cognizione del giudice ordinario.

2. i contratti della pubblica amministrazione.

L’amministrazione ha la capacità giuridica di stipulare contratti di diritto privato, fatte salve le eccezioni

stabilite dalla legge; essa, però, può agire utilizzando gli strumenti privatistici soltanto nei casi in cui vi sia

attinenza con le finalità pubbliche.

L’attività contrattuale è disciplinata in primo luogo dal diritto privato, ma è altresì sottoposta a regole di

diritto amministrativo.

L’espressione evidenza pubblica, utilizzata per descrivere il procedimento amministrativo che accompagna

la conclusione dei contratti della pubblica amministrazione, indica appunto il fatto che questa fase deve

svolgersi in modo da esternare l’iter seguito dall’amministrazione, anche al fine di consentirne il sindacato

alla luce del criterio della cura dell’interesse pubblico.

Tale procedura è caratterizzata dalla presenza di atti amministrativi mediante i quali l’amministrazione rende

note le ragioni di pubblico interesse che giustificano in particolare l’intenzione di contrattare, la scelta della

controparte e la formazione del consenso.

In attuazione delle direttive comunitarie 2004/18/CE e 2004/17/CE è stato approvato il d.lgs. 163/2006,c.d

Codice dei contratti pubblici relativi ai lavori, servizi e forniture che ha riunificato in un unico corpo

normativo la disciplina relativa alle tre diverse tipologie di contratti tendenzialmente omnicomprensiva (

alcune ipotesi rimangono tuttavia escluse dal suo campo di apllicazione). Modifiche alla trama normativa

sono state introdotte dal d.l 70/2010, mentre a livello europeo sono state presentate importanti proposte di

direttive.

Tra le novità introdotte dal codice meritano un cenno la previsione di indicare nel bando di gara o nel capitolo d’oneri le modalità di

ponderazione e valutazone prescelti; la regolamentazione dell’avvalimento; la disciplina dei sistemi dinamici di acquisizione e quella

delle aste elettroniche.

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201

Disciplina dell’evidenza pubblica e riforma costituzionale

Occorre ricordare che la più volte citata riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione non ricomprende la materia in

esame tra quella rientranti nella potestà legislativa esclusiva statale o nella potestà legislativa concorrente. Corte

cost.401/2007 ha peraltro rutenuto sostanzialmente immune da censure il Codice dei contratti ritenendo decisiva, ai fini

dell’individuazione della fonte competente, la considerazione del fine in vista del quale la fonte regola la materia.

In tal modo sono state salvate dalla Consulta la gran parte delle disposizioni contenute nel Codice dei contratti pubblici,

riconducendo le stesse alla competenza statale in materia della “tutela della concorrenza”e inglobando nel concetto di concorrenza sia

gli interventi “per” sia quelli “nel” mercato.

Secondo la corte occorre registrare il definitivo superamento della concezione c.d “contabilistica”, che

qualificava tale normativa interna come posta esclusivamente nell’interesse dell’amministrazione, anche ai

fini della formazione della sua corretta volontà negoziale.

Muta dunque il profilo funzionale dell’evidenza pubblic, che da disciplina posta a presidio dell’interesse

pubblico diventa una regolamentazione che protegge anche gli interessi delle imprese.

Le tre anime della disciplina del codice dei contratti e il suo contenuto

Accanto a questa prima matrice comunitaria, nella disciplina dei contratti della pubblica amministrazione si

rinvengono anche altre due anime: il codice infatti richiama la l. 241/1990e all’ultimo comma dell’art 3

precisa che “per quanto non espressamente previsto nel presente codice, l’attività contrattuale dei soggetti di

cui all’art 1 si svolge nel rispetto altresì delle disposizioni stabilite dal codice civile”. Il decreto contiene

disposizioni comuni a tutte e tre le tipologie contrattuali (lavori, forniture, servizi) e altre, invece, riservate a

ciascun singolo settore. Sono molti i valori che affiorano dalla lettura della disciplina tra cui spiccano: la

concorrenza, la tutela del buon uso delle risorse pubbliche, la trasparenza e la lotta alla corruzione. Per

quanto attiene al contenimento delle spese, la disciplina si caratterizza anche per la tipologia di conseguenze-

nullità del contratto- prevista in caso di violazione delle relative regole, nonché per il fatto che sull’altare

delle convenienza economica, viene sacrificata la stabilità del rapporto contrattuale, nel senso che

ricorrendo talune condizioni, l’amministrazione può recedere dai contratti stipulati precedentemente.

Il d.l. 95/202 prevede che sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa, i contratti

stipulati dalle amministrazioni in violazione del dovere di:

-ricorrere alle convenzioni stipulate dal ministero del tesoro con le quali l’impresa prescelta si impegna ad accettare, sino a

concorrenza della quantità massima complessiva stabilita dalla convenzione e ai prezzi e condizioni ivi previsti, ordinativi di

fornitura di beni e servizi deliberati dalle amministrazioni dello Stato, ovvero di utilizzare i relativi parametri di prezzo-qualità, come

limiti massimi per l’acquisto di beni e servizi comparabili oggetto delle stesse,

-approvvigionarsi attraverso gli strumenti di acquisto messi a disposizione di Consip SPA;

Le amministrazioni pubbliche sono inoltre tenute ad approvvigionarsi attraverso gli accordi quadro messi a disposizione da Consip

SPA relativamente ad alcune categorie merceologiche ( energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra-rete, combustibili per

il riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile), ovvero a seguire procedure utilizzando sistemi telematici di negoziazione sul

mercato elettronico e sul sistema dinamico di acquisizione: anche i contratti stipulati in violazione di tale obbligo costituiscono

illecito disciplinare e sono causa di responsabilità per danno erariale.

In generale poi le amministrazioni pubbliche che abbiano validamente stipulato un contratto di fornitura o di servizi hanno poi diritto

di recedere in qualsiasi tempo dal contratto nel rispetto di determinate condizioni quali comunicazione formale all’appaltatore non

inferiore a 15 giorni e previo pagamento delle prestazioni già eseguite.

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202

Ai sensi dell’art 53 del codice dei contratti pubblici, i lavori pubblici possono essere realizzati

esclusivamente mediante contratto di appalto o di concessione, fatto salvo il caso dei lavori in economia,

ammessi sino all’importo di 200.000 euro. Pure consentita è la locazione finanziaria.

In ambito comunitario, gli appalti pubblici di lavori sono stati oggetto di numerose direttive: possiamo ricordare la 93/37/CEE e la

97/52/Ce.

Gli appalti di lavori

L’appalto di lavori pubblici si distingue dal corrispondente contratto privatistico per la natura pubblica di

uno dei due contraenti e perché ha ad oggetto la realizzazione di opere pubbliche.

Secondo la formulazione dell’art 3 del codice dei contratti pubblici, esso è il contratto a titolo oneroso

concluso in forma scritta tra un operatore economico e una stazione appaltante o un ente aggiudicatore ,

avente per oggetto la sola esecuzione dei lavori pubblici, ovvero congiuntamente la progettazione esecutiva e

l’esecuzione, ovvero ancora – relativamente a infrastrutture strategiche e insediamenti produttivi-

l’esecuzione con qualsiasi mezzo, di un ‘opera con le esigenze specificate dalla stazione appaltante o

dall’ente aggiudicatore, sulla base del progetto preliminare posto a base di gara.

Rispetto alla figura privatistica l’appalto di lavori pubblici è tradizionalmente assoggettato ad una disciplina derogatoria relativa ai

seguenti aspetti:

1- presenza di un direttore dei lavori svolgente funzioni di controllo e vigilanza

2- 2- peculiari regole di contabiltà

3- regime delle riserve

4- sussistenza della possibilità dell’amministrazione di apportare varianti ai progetti originali, oggi limitata dall’art 132 del

codice dei contratti pubblici a pochi casi tassativi

5- istituto del collaudo

6- il sistema del “prezzo chiuso” : questo meccanismo consiste nell’aumento di una percentuale fissata con decreto del

ministro dei lavori pubblici da applicarsi, nel casi in cui la differenza tra il tasso di inflazione reale e quello programmato

nell’anno precedente sia superiore al 2%, all’importo dei lavori ancora da eseguire per ogni anno intero previsto per

l’ultimazione dei lavori stessi.

La normativa si presenta poi per i seguenti aspetti:

- la previsione di una Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici ( organismo collegiale composto da 5 membri, nominati di

concerto dai presidenti di Camera e Senato che resta in carica 5 anni e che svolge tra le altre la funzione di accertamento e

di vigilanza;

- l’istituzione di una commissione per la soluzione delle controversie presso l’autorità che su istanza delle parti svolge

compiti di composizione della lite in tempi non superiori a venti giorni

- la disciplina della conferenza di servizi

- l’introduzione del principio dell’obbligatorietà della programmazione dei lavori pubblici

- per quanto riguarda gli appalti di valore superiore a 150.000 euro l’istituzione di un sistema di qualificazione degli

esecutori dei lavori . l’attestazione di questa qualificazione (rilasciata dalla SOA) costituisce condizione necessaria e

sufficiente per la dimostrazione dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria.

- La disciplina minuziosa di progettazione e direzione dei lavori

- La disciplina tassativa delle varianti in corso d’opera

- La discipilna dell’arbitrato

- La disciplina del subappalto ( ammesso per le categorie e nei limiti fissati dalla legge)

La legislazione vigente contempla poi controlli particolari per la tutela nei confronti del fenomeno mafioso e corruttivo Ai sensi

dell’art 1, l. 190/2012 . un cenno merita infine la disciplina delle offerte anomale che prevede l’esclusione discrezionale delle

offerte che presentino un ribasso superiore al valore individuabile sulla base di un complesso calcolo matematico di cui all’art 8.

Procedure d’appalto e poteri della pubblica amministrazione

Il d.lgs 163/2006 riconosce alla parte pubblica che abbia stipulato contratti relativi all’esecuzione di

contratti di appalto una serie di poteri peculiari e tassativi.

Page 203: Dispensa Di Amministrativo - 1

203

L’amministrazione può per esempio risolvere il contratto per grave inadempimento, grave irregolarità e grave ritardo.

Secondo la giurisprudenza l’atto con il quale l’amministrazione esercita queste facoltà non ha natura

provvedimentale, sicchè la giurisdizione sulle relative controversie spetta al giudice ordinario. L’art 14

del codice dei contratti pubblici disciplina anche i contratti misti in base al criterio della accessorietà/

prevalenza.

La disposizione rileva in ordine alla disciplina del c.d. global service, contratto avente ad oggetto la

manutenzione del patrimonio pubblico immobiliare. natura di appalto misto ha anche il

teleriscaldamento. La corte costituzionale ha inoltre deciso che l’esecuzione da parte dei privati delle

opere di urbanizzazione eccedenti la soglia comunitaria deve rispettare i principi della concorrenza.

Gli appalti di forniture

Gli appalti ai sensi dell’art 54 sono affidati mediante procedura aperta o ristretta e in casi eccezionali

negoziata con o senza pubblicazione del bando. Per quanto attiene ai criteri di scelta è previsto l’impiego del

sistema del prezzo più basso o della offerta economicamente più vantaggiosa.

Gli appalti di forniture sono disciplinati dall’art 3 c9 del codice dei contratti pubblici che li definisce

come “contratti a titolo oneroso aventi per oggetto l’acquisto, la locazione finanziaria, la locazione,

l’acquisto a riscatto con o senza opzioni per l’acquisto di prodotti”. Le forniture sono aggiudicate con il

criterio del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Gli appalti di servizi

Gli appalti di servizi hanno ad oggetto le prestazioni indicate in due appositi allegati (2A e 2B; i servizi

compresi nel primo sono assoggettati a tutte le norme sugli appalti, quelli inclusi nel secondo solo ad

alcune disposizioni in tema di trasparenza e pubblicità ). Tradizionalmente la differenza tra un appalto di

lavori e di servizi sta nel fatto che soltanto nel primo caso vi è la trasformazione fisica della res oggetto del

contratto. La differenza tra un appalto si servizi e di forniture risiede invece nel fatto che l’attività oggetto

del primo consiste in un facere e non in un dare.

Contratti attivi e passivi

Gli appalti disciplinati dal codice dei contratti rientrano nella categoria dei contratti passivi e si

differenziano da quelli attivi (quelli cioeè mediante cui l’amministrazione si procura entrate).

Contratti atipici

Alcune tipologie contrattuali infine, non essendo ordinariamente utilizzabili dai privati nell’esercizio della

loro autonomia privata, sono assoggettate ad una disciplina di specie quanto alla formazione, al

perfezionamento, alle vicende del rapporto contrattuale e alle tutela.

2.1 Le principali scansioni del procedimento ad evidenza pubblica: la deliberazione di contrattare e il

progetto di contratto

il procedimento ad evidenza pubblica si apre con la determinazione di contrattare (o a contrattare),

ovvero con la predisposizione di un progetto di contratto; tali atti predeterminano il contenuto del contratto

e la spesa prevista e individuano altresí la modalità di scelta del contraente.

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204

I capitolati

Le fasi del procedimento sono oggi fissate dall’art 11 d.lgs 163/2006 del codice dei contratti pubblici. Il progetto di contratto deve

essere corredato dai “capitoli d’oneri” e deve contenere le clausole ritenute essenziali.

I capitolati generali definiscono le condizioni che possono applicarsi indistintamente a un determinato

genere di lavoro, appalto o contratto e le forme da seguirsi per le gare.

La giurisprudenza tradizionalmente riconosce loro carattere non normativo sicchè la fonte della loro efficacia risiede nell’adesione ad

essi prestata dalla parti. La violazione di tali capitolari pertanto non da luogo al vizio di violazione della legge . essi possono essere

derogati dal contratto e disattesi dall’amministrazione, purchè ciò avvenga con congrua motivazione.

Anche ai capitolari speciali (o capitoli speciali) la dottrina e la giurisprudenza riconoscono carattere non

normativo. Essi riguardano le condizioni che si riferiscono più particolarmente all’oggetto proprio del

contratto e,quindi, pongono parte della regolamentazione dello specifico rapporto contrattuale. La

determinazione a contrattare e il progetto possono essere soggetti a controlli e pareri.

Essi inoltre sono considerati tradizionalmente atti amministrativi interni, non rilevanti per i terzi, e come tali

non impugnabili o revocabili dall’amministrazione.

Negli enti locali la determinazione di contrattare, inoltre, non rimane un atto interno, almeno nel senso che deve essere formalizzata

in una apposita determinazione del responsabile del procedimento di spesa indicante il fine che con il contratto si intende perseguir,

l’oggetto del contratto, la sua forma e le clausole ritenute essenziali, nonché le modalità di scelta del contraente.

Per quanto attiene all’amministrazione statale tradizionalmente la legislazione non parla di determinazione di contrattare: ad essa

però corrisponde, salvo espressa diversa disposizione, il progetto o schema di contratto predisposto dai competenti organio altro atto

giuridico autonomo avente analoga funzione, in cui cioè si concretizza la decisione di addivenire alla conclusione di un contratto.

Il parere obbligatorio del Consiglio di Stato è previsto soltanto “sugli schemi generali di contratto-tipo,

accordi e convenzioni predisposti da uno o più ministri”.

Una funzione consultiva in ordine alla stesura di schemi di capitolati e nelle questioni relative alla

progettazione e all’esecuzione delle opere pubbliche è svolta sia dall’avvocatura della Stato, sia dal

Consiglio Superiore dei lavori pubblici. In particolare il parere obbligatorio di tale ultimo organo è richiesto

per tutti i progetti per tutti i progetti di lavori pubblici di competenza statale di importo superiore a 25 milioni

di euro, nonché sui progetti di altre stazioni appaltanti che siano amministrazioni. Il controllo della Corte dei

Conti non è più richiesto sul progetto di contratto.

L’approvazione del progetto definitivo equivale a dichiarazione di pubblica utilità, indifferibiltà e urgenza

dei lavori. Sempre con riferimento alle opere pubbliche va notato che la progettazione si articola in

progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva (art. 93: è però consentita l’omissione di uno dei due

primi livelli di progettazione purchè quello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il livello

omesso). La progettazione è curata di norma dagli uffici tecnici dell’amministrazione ma ove ciò non sia

possibile è da soggetti privati esterni all’attività amministrativa.

2.2 La scelta del contraente e l’aggiudicazione: procedure aperte e ristrette

la seconda fase del procedimento ad evidenza pubblica è costituita dalla scelta del contraente. Le modalità

con cui tale scelta può essere effettuata sono:

-l’asta pubblica

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205

-la licitazione privata

-la trattativa privata

-l’appalto concorso

Il d.lgs. 163/2006 adeguandosi alla terminologia comunitaria parla invece di procedure aperte, procedure

ristrette, procedure negoziate e dialogo competitivo.

Il dialogo competitivo è volto a definire le soluzioni preferibili relativamente agli appalti complessi, qualora le amministrazioni

ritengano che il ricorso alla procedura aperta o ristretta non permetta l’aggiudicazione dell’appalto.

Vanno pure ricordati: il sistema dinamico di acquisizione interamente elettronico ( esso concerne unicamente forniture di beni e

servizi –non lavori- standardizzate e tipizzate; le centrali di committenza (art 33 esse acquisiscono lavori, forniture o servizi destinati

ad altre amministrazioni) .

Asta pubblica, licitazione privata, procedure aperte e ristrette

L’asta pubblica è il pubblico incanto aperto a tutti gli interessati che posseggano i requisiti fissati nel bando,

mentre la licitazione privata è la gara caratterizzata dal fatto che ad essa sono invitate a partecipare soltanto

le ditte- in questo senso è “privata”- che, in base ad una valutazione preliminare, sono ritenute idonee a

concludere il contratto.

Si tratta di due modelli di gara analoghi fatto salvo il profilo della individuazione dei partecipanti alla gara.

La procedura è infatti ristretta nella gara privata e aperta in quella pubblica.

La struttura della gara comunque – simile in entrambe le ipotesi- è caratterizzata dalla presenza del bando di

gara- o avviso d’asta- nell’asta pubblica e dall’invito, indirizzato solo agli interessati, nella licitazione. Tali

atti debbono indicare le caratteristiche del contratto, il tipo di procedura seguita per l’aggiudicazione, i

requisiti per essere ammessi, i termini e le modalità da seguire per la presentazione delle offerte.

I bandi e gli avvisi d’asta debbono essere pubblicati anche su uno o più siti informatici individuati con d.p.c.m

Con riferimento ai contratti più rilevanti va ancora osservato che ai fini di limitare la discrezionalità nella

scelta della rosa dei possibili concorrenti la legge ha introdotto una fase di preselezione nelle procedure

ristrette; l’amministrazione non procede direttamente all’invito, ma pubblica un bando indicando i “requisiti

di qualificazione”; le imprese interessate possono far richiesta di essere invitate alla licitazione; soltanto a

questo punto l’amministrazione procede con l’invito.

È chiaro che in tal modo si attenuano le differenze rispetto all’asta pubblica, salvo il fatto che

l’amministrazione conosce in anticipo le ditte che parteciperanno alla gara, trattandosi di quelle che ne hanno

fatto richiesta; nella licitazione inoltre la verifica dei requisiti soggettivi viene effettuata al momento della

pre-qualifica.

I soggetti ammessi alle gare per affidamento di contratti pubblici ai sensi del d;lgs 163/2006 sono non solo imprese e società, ma

anche

-consorzi tra società cooperative e tra imprese artigiane

-consorzi stabili

-consorzi concorrenti

-soggetti che abbiano stipulato il “contratto di gruppo di interesse economico”

-gli operatori economici stabiliti in altri Stati menbri

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206

-raggruppamenti temporanei costituiti ai soli fini della partecipazione all’appalto dai predetti soggetti che conferiscono mandato

collettivo speciale con rappresentanza ad uno di essi ( capogruppo) il quale esprime l’offerta in nome e per conto anche dei mandanti.

La giurisprudenza ha talora riconosciuto alla norma valenza non tassativa, qualificando come contraenti anche le Onlus, le

fondazioni, le Università e gli enti di ricerca.

In linea di principio gli appalti possono essere stipulati anche tra amministrazioni. La corte costituzionale nel 2012 sottolinea che

sfuggono dal campo di applicazione del diritto dell’Unione europea sugli appalti i contratti che “istituiscono una cooperazione tra

enti pubblici finalizzata a garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi”, a condizione che

essi siano:

-stipulati esclusivamente tra enti pubblici

-che nessun operatore privato sia posto in una posizione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti

-che la cooperazione sia retta unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obbiettivi di interesse pubblico

In tema di cooperazione tra enti pubblici la disciplina sugli appalti si pone come integrativa rispetto a quella posta dall’art 15,

l.241/1990 nel senso che là dove non ricorrano le condizioni sopra individuat, le amministrazioni pur teoricamente legittimate a

stipulare accordi debbono rispettare la disciplina degli appalti.

Si è parlato di raggruppamento. In via generale, esso può essere orizzontale se costituito ai fini della ripartizione dello stesso lavoro

tra più imprese, ovvero verticale. L’ultima figura ricorre quando il bando presenti lavori di categorie differenti e il raggruppamento

sia costituito da una o piû imprese che abbiano i requisiti per realizzare il lavoro della categoria prevalente, ed ad imprese

ragguppate, di norma maggiormente specializzate, per il lavoro o la parte d’opera “scorporabile”. L’offerta delle imprese raggruppate

determina la loro responsabilità solidale nei confronti dell’amministrazione. I criteri di partecipazione alle gare devono essere tali da

non escludere le piccole o medie imprese.

Bando e invito hanno rilevanza sul piano negoziale nel senso che sono assimilabili all’invito ad offrire. secondo quanto disposto

dalla normativa sulla contabilità dello Stato, i sistemi d’asta sono il metodo delle candele vergini; quello delle offerte segretein busta

chiusa da confrontarsi con un parametro stabilito dall’amministrazione; infine il mezzo del pubblico banditore (l’incanto è

effettuato a viva voce e l’asta dura fin quando non è dichiarata chiusa dal banditore).

Per quanto riguarda la licitazione, si può procedere con una lettera-invito ovvero con una offerta-contratto.

Nel caso in cui il bando di gara sia in contrasto con la legge, il contraente deve immediatamente impugnare il bando ove contenga

disposizioni lesive, in deroga al principio secondo può impugnare soltanto chi abbia legttimamente partecipato alla gara. Va

comunque notato che parte delle giurisprudenza ammette la disapplicabilità d’ufficio del bando.

Il problema è delicato ove ci si collochi nella prospettiva dell’amministrazione: può essa non applicare un bando (o un capitolato) che

ritenga in contrasto con una legge e quindi ad esempio ammettere un concorrente che non sia in possesso di un requisito

illegittimamente richiesto dal bando?la giurisprudenza sul punto è divisa. Secondo una prima tesi l’amministrazione non può

disapplicare il bando, avendo soltanto il potere di annullarlo in via di autotutela , unico mezzo con cui l’atto illegittimo può essere

rimosso dall’amministrazione. In questo modo, ove non vengano esercitati poteri di autotutela , prevale il bando sulla legge, con il

rischio che l’eventuale impugnativa del soggetto pregiudicato che censuri l’illegittimità del bando , vada a buon fine, determinando la

caducazione della gara nel suo complesso. Diverso è l’orientamento ad avviso del quale l’amministrazione può interpretare le

clausole del bando in senso estensivo.

Per quanto attiene al bando in contrasto con il diritto dell’Unione Europea, in particolare nel caso in ci il bando non sia stato

impugnato tempestivamente e il ricorso, che ne invochi l’incompatibiltà con il diritto europeo investa solo l’atto di esclusione, la

corte di Giustizia con la sentenza del 27 febbraio 2001 ha stabilito che la normativa europea sugli appalti va interpretata nel senso che

impone ai giudici gli obblighi di dichiarare ricevibili i mitivi di diritto basati sull’incompatibilità del bando d gara con il diritto

dell’unione europea , anche ricorrendo alla possibilità di disapplicare le norme nazionale processuali di decadenza. In sostanza spetta

al giudice verificare se, nel caso concreto l’applicazione del termine possa portare o meno a una violazione del diritto europeo.

L’aggiudicazione

L’aggiudicazione è l’atto amministrativo con cui viene accertato e proclamato il vincitore da parte dal

soggetto che presiede la celebrazione dell’asta o la commissione di valutazione delle offerte in sede di

licitazione privata. Si parla di aggiudicazione provvisoria nei casi in cui l’aggiudicazione debba essere

Page 207: Dispensa Di Amministrativo - 1

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eseguita da una fase di “approvazione’ del verbale di aggiudicazione ovvero della verifica dei requisiti da

parte dell’aggiudicatario.

2.3 Appalto integrato, procedura negoziata e servizi in economia

L’appalto concorso e l’appalto integrato

L’appalto concorso viene utilizzato nei casi tassativamente indicati dalla legge, quando l’amministrazione

in base a prestabilite norme di massima, richiede ai privati di presentare i progetti tecnici e le condizioni alle

quali essi siano disposti ad eseguirli.

La recente legislazione tende a ridurre il campo di applicazione dell’istituto in esame. In particolare nel d.lgs

163/2006 esso non viene più menzionato tra i metodi di scelta del contraente. Il c.2 dell’art 53 d.lgs.

163/2006 definisce invece l’appalto integrato prevedendo che l’appalto di lavori pubblici possa avere ad

oggetto non soltanto l’esecuzione ma anche la progettazione esecutiva dei lavori sulla base del progetto

preliminare dell’amministrazione. Nell’ipotesi in cui il concorso abbia solo ad oggetto la presentazione dei

progetti, si rientra nel metodo del “concorso di idee” ,sistema affermatosi nella prassi ed ora espressamente

disciplinato.

La trattativa privata o procedura negoziata

Nella trattativa privata l’amministrazione dispone di una maggiore discrezionalità nella scelta del privato

contraente, il procedimento amministrativo risulta molto più snello rispetto alle altre figure e manca

l’aggiudicazione.

Nella procedura negoziata è prevista una procedura distinta a seconda che sia necessaria la pubblicazione di

un bando di gara.

Per gli appalti aventi ad oggetto la sola esecuzione di lavori di importo inferiore a un milione e

cinquecentomila euro, le stazioni appaltanti hanno poi facoltà, senza procedere a pubblicazione di bando, di

invitare e presentare offerta ad almeno venti concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in

relazione ai lavori oggetto di appalto.

La semplicità e l’informalità della procedura comportano minori garanzie per i privati interessati. La

giurisprudenza riconosce peraltro la sussistenza di interessi legittimi nelle ipotesi in cui la determinazione di

procedere in tal senso venga ad incidere su rapporti obbligatori preesistenti o su situazioni di affidamento

scaturenti dal comportamento dell’amministrazione. Questo accade in particolare quando essa abbia

proceduto ad indire una previa gara informale, per determinare il soggetto con cui trattare.

Il consiglio di Stato ha riconosciuto la legittimazione ad impugnare la deliberazione di stipulare il contratto a

trattativa privata in capo ad ogni imprenditore operante nel settore che aspiri a partecipare alla gara.

Servizi, forniture e lavori in economia; il cottimo

per quanto riguarda lavori, servizi e forniture l’ art 125 del d.lgs. 163/2006 e ss. vieta di usare le acquisizioni

in economia di importo superiore a 200.000 euro: le acquisizioni si effettuano in amministrazione diretta o

per cottimi

2.4 Stipulazione, approvazione, controllo ed esecuzione del contratto

le altre fasi della procedura ad evidenza pubblica, successive alla deliberazione a contrattare e alla scelta del

contraente, sono costituite dalla stipulazione, dall’approvazione e dal controllo.

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208

La stipulazione

In relazione alla stipulazione , va osservato, che i contratti della pubblica amministrazione debbono sempre

essere conclusi per iscritto, anche se non attengono ai bene immobili, a pena di nullità con atto pubblico

notarile informatico, ovvero in modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione

appaltante o mediante scrittura privata.

L’aggiudicazione non equivale ad accettazione dell’offerta, sicchè il vincolo sorge soltanto con la stipula del

contratto, che avviene entro sessanta giorni dall’aggiudicazione definitiva.

Il d.lgs. 53/2010 esercitando la delega conferita dall’art 44, l. 88/2009, ha dato attuazione alla direttiva

66/2007/Ce. Essa mira a garantire che il ricorso giurisdizionale proponibile dinanzi al giudice amministrativo

da chi contesta l’aggiudicazione possa venir notificato prima della stipula del contratto. Ciò si traduce

nell’istituto dello stand-still: la conclusione del contratto non può avvenire prima dello scadere di un termine

(sospensivo) decorrente dal giorno successivo alla data in cui la decisione di aggiudicazione ê stata inviata

agli interessati. Ai fini di una tempestiva comunicazione, l’art 79 u.c, codice dei contratti, stabilisce che il

bando o l’avviso con cui si indice la gara o l’invito nelle procedure senza bando fissano l’obbligo del

candidato o concorrente di indicare, nell’atto di presentazione della candidatura o dell’offerta il domicilio

eletto per le comunicazioni.

La regola della sospensione soffre alcune tassative eccezioni:

-presenza di una sola offerta

-appalto aggiudicato sulla base di un accordo quadro o basato su sistemi dinamici di acquisizione

-oppure acquisto effettuato attraverso il mercato elettronico

-esecuzione d’urgenza in casi specifici

Un secondo stand-still period impedisce la stipula o l’esecuzione del contratto nel caso di proposizione di un

ricorso. Il d.lgs. 53/2010, in particolare, introduce il divieto per la stazione appaltante di stipulare il contratto,

ma unicamente in caso di proposizione di un ricorso avverso l’aggiudicazione definitiva che contenga anche

la domanda cautelare.

Con riferimento alle amministrazioni che si avvalgono del patrocinio dell’avvocatura dello Stato, la notifica del ricorso deve essere

effettuata anche alla sede reale dell’amministrazione appaltante. La violazione della regola integra una “violazione grave” che apre la

via alla dichiarazione di inefficacia del contratto.

Secondo la previsione normativa, il divieto opera per venti giorni a condizione che, entro tale termine,

intervenga la pronuncia del provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della

sentenza di primo grado. Ove detti provvedimenti assunti dopo il termine di sospensione viene prolungato.

La regola generale è quella secondo cui la stipulazione del contratto ha luogo entro il termine di sessanta

giorni dal momento in cui l’aggiudicazione diventa efficace, salvo diverso termine previsto nel bando o

nell’invito ad offrire, oppure salva l’ipotesi di differimento espressamente concordata con l’aggiudicatari.

L’approvazione

L’esecuzione del contratto cosí concluso può essere subordinata ad approvazione da parte della competente

autorità.

Page 209: Dispensa Di Amministrativo - 1

209

Il contratto claudicante

L’amministrazione si trova in tal modo in una posizione di preminenza, che dà luogo a una situazione in cui

all’obbligo del privato, scaturente dalla conclusione del regolare contratto, non si contrappone un analogo

vincolo per l’amministrazione, la quale anzi dispone di alcuni poteri –come quello di approvazione del

contratto- il cui esercizio potrebbe impedire l’eseguibilità del contratto stesso.

Si parla in dottrina di contratto claudicante proprio per indicare la supremazia dell’amministrazione nella fase successiva alla

espressione del consenso, ma antecedente all’approvazione del contratto già concluso.

Una analoga posizione di supremazia può essere ravvisata in altre situazioni. In primo luogo ciò accade in relazione alla alla fase

successiva alla c.d. aggiudicazione provvisoria ove prevista (questa consiste nell’adesione all’offerta del privato):. Altro esempio: la

scelta dell’amministrazione di impedire che il contratto acquisti efficacia rifiutando l’approvazione dei risultati della gara nel

momento immediatamente successivo all’aggiudicazione.

Il rifiuto di approvazione del contratto concluso è riconosciuto legittimo dalla giurisprudenza quando sia

giustificato dalla presenza di vizi di legittimità presenti nella procedura o dalla inesistenza della copertura

finanziaria, ovvero dalla sussistenza di gravi motivi di interesse pubblico – si pensi al verificarsi di

sopravvenienze- oppure ancora dall’incongruità dell’offerta o dall’eccessiva onerosità del prezzo.

In tema di approvazione dei contratti già stipulati il codice dei contratti pubblici all’art 12, stabilisce che, una

volta decorso il termine previsto dai singoli ordinamenti o, in mancanza, quello di trenta giorni, il contratto si

intende approvato.

I decreti di approvazione dei contratti dello Stato sono inviati agli uffici centrali del bilancio per la registrazione dell’impegno di

spesa stesso e, nei casi previsti dalla legge, sono sottoposti a controllo preventivo della Corte dei Conti fase questa che, fimo alla sua

conclusione, impedisce al contratto di divenire esecutivo.

2.5 Concessione e Appalti nei settori speciali

Il codice dei contratti pubblici disciplina anche la concessione e gli appalti dei settori c.c speciali. La

concessione, utilizzabile soltanto quanto abbia ad oggetto, oltre alla esecuzione, anche la gestione delle

opere è affidata mediante procedura aperta o ristretta con il metodo dell’offerta economicamente più

vantaggiosa (art. 144). Tale metodo, oltre al prezzo, prende in considerazione una serie di elementi variabili

in relazione all’opera.

Caratteri della concessione di lavori pubblici

La concessione di costruzione e la concessione di costruzione ad esercizio, già disciplinata con l.

1137/1929 (ora abrogata) ha dovuto recentemente confrontarsi con la direttiva comunitaria , preoccupata di

evitare che uno strumento nato per consentire ai privati di sostituirsi all’amministrazione nella realizzazione

complessiva di opere di sua competenza, si trasformasse in un mezzo per eludere la più rigida disciplina

comunitaria in materia di appalti.

Le legge ha cosí tendenzialmente e progressivamente equiparato la concessione dell’appalto. Sotto altro aspetto, è stata eliminata la

figura della concessione di “committenza”.

Le concessioni di lavori pubblici sono contratti a titolo oneroso, conclusi in forma scritta, aventi ad oggetto

l’esecuzione, ovvero la progettazione esecutiva e l’esecuzione, ovvero la progettazione definitiva, la

progettazione esecutiva e l’esecuzione di lavori pubblici o di pubblica utilità, e di lavori ad essi

strutturalmente e direttamente collegati, nonchê la loro gestione funzionale ed economica, che presentano le

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210

stesse caratteristiche di un appalto pubblico di lavori, ad eccezione del fatto che il corrispettivo dei lavori

consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera o in tale diritto accompagnato da un prezzo. La durata della

concessione può essere superiore a trenta anni quando sia necessario assicurare il perseguimento

dell’equilibrio economico-finanziario degli investimenti.

Si consideri che la possibilità che l’amministrazione revochi la concessione per motivi di pubblico interesse è espressamente previsto

dall’art. 158.

Non vi è unanimità di vedute in dottrina sul concetto di gestione o esercizio dell’opera.

La concessione di costruzione e gestione è stata considerata da dottrina e giurisprudenza come comprensiva di attività diverse “che

vanno dalla mera manutenzione dell’opera alla più complessa attività necessaria per consentire all’opera di essere utilizzata per il fine

cui è destinata” senza presentare il profilo dell’erogazione del servizio. La gestione deve dunque essere distinta sia

dall’”utilizzazione” della stessa, sia dalla “erogazione” di servizi pubblici correlati all’ipiego di opere.

La commissione delle comunità europee, con comunicazione interpretativa del 12 aprile 2000, ha precisato

che nel diritto dell’Unione Europea il carattere peculiare della concessione di lavori sarebbe costituito dal

trasferimento al concessionario dell’alea relativa alla gestione dell’opera: non si tratta dunque del rischio

tipicamente imprenditoriale ma del rischio di mercato.

Il codice dei contratti pubblici disciplina anche:

1. il leasing

contratto avente ad oggetto la prestazione di servizi finanziari e l’esecuzione di lavori, utilizzabile per la

realizzazione, l’acquisizione e il completamento di opere pubbliche e di pubblica utilità. Dietro versamento

di canone periodico, il bene viene concesso in godimento da un locatore al committente pubblico/ locatario,

che può riscattarlo dopo un certo numero di anni. L’amministrazione, di conseguenza, non deve sostenere

immediatamente tutta la spesa e il bene entra nel patrimonio dell’ente solo al momento del riscatto.

La disciplina non chiarisce nettamente se debba essere posta in essere una doppia gara ( per scegliere sia il locatore finanziatore che il

realizzatore ) ovvero un’unica procedura. Quest’ultima opzione sembra comunque quella da dover seguire: in sostanza partecipano

alla gara congiuntamente finanziatore e realizzatore.

2. Il contratto di disponibiltà

mediante il quale sono affidate ad un privato ( individuato secondo il criterio dell’offerta

economicamente più vantaggiosa) la costruzione e la messa a disposizione a favore dell’amministrazione

aggiudicatrice di un’opera di proprietà privata destinata all;esercizio di un pubblico servizio, a fronte di un

corrispettivo. È lo stesso fornitore del bene a concederlo all’utente a fronte del canone periodico, senza che

quell’utente – il soggetto pubblico- incorra nei rischi tipici derivanti dall’assunzione della qualità di

proprietario. L’affidatario infatti assume il rischio della costruzione e della gestione tecnica dell’opera per il

periodo di messa a disposizione dell’amministrazione aggiudicatrice. L’amministrazione corrisponde un

canone da versare soltanto in corrispondenza alla effettva disponibiltà dell’opera.

3. Il contratto di sponsorizzazione

Si tratta di una figura con cui l’amministrazione mira a ottenere un risparmio di spesa, mentre il privato

sponsor punta alla valorizzazione del proprio logo/marchio/immagine durante lo svolgimento di determinate

attività. L’acquisizione o la realizzazione di lavori, servizi e forniture, a cura e spesa dello sponsor, è sottratta

al regime ordinario del codice, dovendosi semplicemente farsi applicazione degli obblighi di trasparenza e

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211

pubblicità. Questa è la c.d sponsorizzazione tecnica che si distingue dalla pura nella quale lo sponsor si

impegna esclusivamente al riconoscimento di un contributo.

4. Lo strumento di project financing

Si tratta di una tecnica di finanziamento per l’esecuzione delle opere pubbliche caratterizzata dal ricorso al

finanziamento dei privati (art. 153 e ss) . Qui il finanziamento attiene al progetto piuttosto che al soggetto

che lo realizza. L’istituto si applica in quanto compatibile anche alla concessione di servizi.

Premesso che è stata disciplinata la possibilità di coinvolgere i privati nella programmazione di opere pubbliche, la normativa

presente differenti ipotesi:

a) gara monofase, previo bando, per scegliere il promotore che promuove il miglior progetto preliminare (a questo punto inizia una fase

di “negoziazione” con l’aggiudicatario: il progetto può essere modificato in base alle indicazioni della stazione appaltante; in caso di

mancato consenso, l’amministrazione si rivolge progressivamente ai concorrenti successivi in graduatoria; la concessione viene

stipulata solamente dopo l’approvazione del progetto preliminare a seguito dell’accettazione delle modifiche progettuali

b) gara bifasica, sulla base di bandi (per scegliere il progetto e sulla base di questo il potenziale concessionario) con diritto di prelazione

in favore del promotore prescelto

c) previa pubblicazione di un avviso in cui l’amministrazione rende nota la possibilità di proporre interventi, inseriti nell’elenco annuale

delle opere, realizzabili con capitali privati; l’amministrazione può dichiarare di pubblico interesse le proposte sollecitate dalla

pubblica amministrazione dalla pubblicazione dell’avviso; si innesta a questo punto una doppia gara, assoggettata ad una disciplina

variabile a seconda che il progetto preliminare richieda o meno modifiche.

Al fine di garantire la separazione finanziaria e giuridica dell’iniziativa, l’art 156 disciplina la figura della società di progetto (

società di scopo che riceve il finanziamento, lo destina alla realizzazione delle opere, incassa i ricavi di gestione e rimborsa i

finanziatori).

I soggetti aggiudicatari della concessione sono obbligati ad appaltare a terzi una percentuale minima del trenta per cento dei lavori

oggetto della concessione stessa.

Va infine ricordato che all’art 176 il Codice introduce tra l’altro la possibilità che la realizzazione delle infrastrutture sia oggetto di

affidamento unitario a contraente generale ( general contractor) e cioè un soggetto dotato di adeguata esperienza,qualificazione e

capacità organizzativa.

Gli appalti degli ex settori pubblici

Per lungo tempo la normativa comunitaria ha escluso dal proprio ambito di applicazione gli appalti relativi ai

settori di gas, dell’energia termica, dell’acqua, dell’elettricità, dei trasporti, dei servizi postali e dello

sfruttamento di area geografica di rilevanza comunitaria ( c.d. settori esclusi).

Con la direttiva 38/1993 l’Unione Europea ha proceduto a dettare un’organica disciplina di tali appalti. Il

principio cardine che occorre richiamare è quello in forza del quale ove si sia realizzata la liberalizzazione

del mercato, occorre esporre il medesimo alle regole della concorrenza.

In relazione a questi settori,la parte terza del codice individua il proprio ambito soggettivo di applicazione

anche con riferimento alle imprese pubbliche e a peculiari soggetti privati che operano nei settori sopra

indicati. La gara può essere avviata- e le offerte sono acquisite e selezionate- non solo sulla base del

tradizionale bando, ma anche a seguito di un avviso periodico o sulla base di un sistema di qualificazione

istituito e gestito dall’ente aggiudicatore.

2.6 Interessi legittimi, vizi del procedimento amministrativo e riflessi sulla validità del contratto

Gli atti compiuti dall’amministrazione in vista della conclusione del contratto sono sempre finalizzati al

perseguimento di interessi pubblici: è questo che impone di qualificare in modo diverso l’attività contrattuale

dell’amministrazione rispetto a quella dei privati.

Procedimento a evidenza pubblica e interessi legittimi

Problematica si presenta la questione della configurabilità di interessi legittimi a fronte dell’emanazione

degli atti del procedimento ad evidenza pubblica, posto che gli interessi legittimi sono correlati normalmente

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all’esercizio di tradizionali poteri amministrativi destinati ad incidere sulle posizioni giuridiche dei privati in

modo unilaterale. L’effetto dell’atto deve essere peraltro valutato nel caso concreto: un atto del procedimento

ad evidenza pubblica può incidere direttamente sulle situazioni giuridiche degli interessati ( si pensi

all’esclusione dall’invito alla partecipazione ad una licitazione privata di alcuni soggetti), sicchè, da questo

punto di vista, la questione deve essere impostata e risolta alla stregua dell’agire provvedimentale.

La delibera a concludere un contratto a trattativa privata, che pregiudica l’interesse protetto dell’imprenditore

il quale aspira a partecipare alla gara, e l’aggiudicazione o l’approvazione del contratto, possono quindi

essere lesivi di interessi legittimi e quindi venire autonomamente impugnati.

Annullamento degli atti di gara ad effetti sul contratto

A seguito dell’annullamento degli atti amministrativi e dei loro effetti si producono conseguenze che si

riverberano sulla validità del contratto.

Secondo la giurisprudenza più risalente del giudice ordinario, l’annullamento con effetto ex tunc degli atti amministrativi emanati in

vista della conclusione del contratto incide sulla sua validità in quanto priva l’amministrazione della legittimazione e della capacità

stessa a contrattare, determinando l’annullabilita1 del contratto. Siffatto annullamento può essere pronunciato solo su richiesta

dell’amministrazione,la quale ai sensi dell’art 1441 c.c. sarebbe l’unica parte interessata. Altra tesi è quella secondo la quale il

contratto che viene stipulato a seguito di un’aggiudicazione illegittima sarebbe destinato alla caducazione automatica.

Si è anche sostenuto che il contratto risulterebbe affetto di inefficacia sopravvenuta relativa: al fine di tutelare i terzi in buona fede,

si è invocata l’applicazione analogica degli art 23 e 25 c.c, che con riferimento alle associazioni e alle fondazioni, fanno salvi i diritti

acquisiti dai terzi in buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione . Il Consiglio di Stato ha spostato la tesi

della nullità, osservando come l’aggiudicazione abbia la duplica natura di atto amministrativo conclusivo della procedura ad

evidenza pubblica e di accettazione della proposta,con la conseguenza che la sua demolizione priva il contratto dell’elemento

essenziale dell’accordo.

Si dibatteva poi in ordine all’individuazione del giudice cui spettasse la giurisdizione sulle controversie

attinenti alla sorte del contratto. Il d.lgs. 53/2010 ha risolto il problema riconducendo sul piano processuale

alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione delle controversie che attengono

anche alla sorte del contratto a seguito di annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione, mentre sul piano

sostanziale prevede che il contratto possa in questi casi essere dichiarato inefficace dal giudice.

Si discute se, invece, l’annullamento dell’aggiudicazione in via di autotutela ad opera dell’amministrazione

determini l’inefficacia automatica del contratto. Il tema si intreccia con quello più generale dei poteri di cui

eventualmente dispone l’amministrazione per incidere sul rapporto negoziale unilateralmente. Al riguardo va

ricordato che il recesso unilaterale dai pubblici contratti della pubblica amministrazione è ammesso nei casi

previsti dalla legge o dal contratto. L’art 21-quinquies complica il quadro di riferimento, atteso che,

menzionando la revoca di atti amministrativi che incida su rapporti negoziali, sembrerebbe indurre ad

ammettere che l’amministrazione, anche dopo la stipula del contratto, possa revocare l’aggiudicazione, cosí

sciogliendosi automaticamente dai vincoli contrattuali, fatto salvo l’obbligo di corrispondere un indennizzo.

L’art 21-quinquies si ritiene rinvii alle ipotesi in cui la revoca incide sui rapporti negoziali senza introdurre in

generale il relativo potere. L’interpretazione preferibile è dunque quella che, in tema di contratti, limita

l’applicazione della disposizione di cui all’art. 21-quinquies ai casi di revoca già disciplinati dalla legge.

Ritornando sulla possibilità che l’annullamento in via di autotutela dell’aggiudicazione dopo la stipula del

contratto incida sul contratto stesso, si pone il problema della sorte del negozio, non direttamente interessato

dal vizio che colpisce solo l’atto presupposto di aggiudicazione. La giurisprudenza ha sposato la tesi della

caducazione automatica del contratto secondo il principio simul stabunt, simul cadent.

Dal punto di vista processuale, la corte di cassazione a sezione unite ha statuito la regola secondo cui

appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche le controversie relative

all’inefficacia del contratto come conseguenza dell’annullamento in via di autotutela dell’aggiudicazione.

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3. Gestione d’affari, arricchimento senza causa e pagamento di indebito

Tra le fonti dell’obbligazione si ricorda:

La gestione d’affari disciplinata dall’art. 2028-2032 c.c. ove è previsto l’obbligo in capo a chi, scientemente

e “senza esservi obbligato, assume la gestione di un affare altrui”, di continuare la gestione stessa e di

condurla a termine finchè l’interessato non sia in grado di provvedervi da sé. Questi , qualora la gestione “sia

utilmente iniziata”, ha l’obbligo di adempiere le obbligazioni che il gestore abbia assunto in suo nome e deve

tenerlo indenne di quelle da lui assunte in nome proprio, rimborsandogli altresì le spese necessarie o utili.

L’istituto può applicarsi all’amministrazione nell’ipotesi in cui un terzo gestisca affari di spettanza del

soggetto pubblico, purchè non si tratti di pubbliche potestà. Tali fattispecie dovrebbero essere integralmente

disciplinate dalla normativa privatistica : tuttavia la giurisprudenza ha introdotto la regola secondo cui

l’utilità della gestione deve essere accertata con un atto di riconoscimento da parte dell’amministrazione , a

differenza di quanto accade nell’ipotesi in cui l’azione sia esperita tra privati.

Le limitazioni introdotte all’istituto ora richiamato contribuiscono a spiegare la maggiore diffusione che ha

conosciuto quello dell’arricchimento senza causa , o actio in rem verso, disciplinato dal c.c. agli art. 2041 e

2042 c.c. prescrivendosi in particolare che “chi , senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra

persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione

patrimoniale”. L’arricchimento consiste nel vantaggio che può essere rappresentato da un incremento del

patrimonio, da un risparmio di spesa o dalla mancata perdita di beni.

Le ipotesi che qui interessano riguardano il caso in cui il soggetto arricchito è l’amministrazione, mentre

risultano assoggettati alla disciplina comune i casi di arricchimento del privato determinati da un’azione

amministrativa.

Si pensi alla situazione in cui un professionista svolga prestazioni a favore di un ente pubblico in assenza di

formale incarico, all’esecuzione di attività continuative al servizio di un ente senza investitura ,

all’esecuzione di un contratto non ancora approvato ovvero nullo: in tutte queste ipotesi manca un

fondamento giuridico che giustifichi lo spostamento patrimoniale e l’arricchimento dell’amministrazione, e

dunque può farsi questione di indennizzo a favore di terzo.

L’istituto dell’arricchimento senza causa trova anche applicazione nell’ipotesi di cui all’art. 194 T.U.E.L. , ai

sensi del quale gli enti locali hanno la possibilità di riconoscere i debiti fuori bilancio( quelli maturati senza

che sia stato adottato l’atto contabile di impegno) derivanti da acquisizione di beni e servizi senza delibera

autorizzata o impegno contabile, purchè siano accertati e dimostrati l’utilità e l’arricchimento per l’ente

nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza. L’obbligazione assunta dal

dipendente è imputabile all’ente , almeno per la parte riconoscibile come debito fuori bilancio.

La giurisprudenza individua un ulteriore presupposto per l’esercizio dell’actio de in rem verso nei confronti

dell’amministrazione , costituito dal riconoscimento esplicito o implicito dell’utilità dell’opera da parte del

soggetto pubblico, riconoscimento che può derivare anche dall’utilizzazione concreta dell’attività e

dell’opera.

In tal modo la fattispecie muta rispetto a quella disciplinata dal c.c. con riferimento ai consueti rapporti

interprivati , la quale non prevede affatto siffatto presupposto , ritenuto dalla giurisprudenza ora una

condizione dell’azione, ora un elemento integrativo della fattispecie.

Infine occorre accennare al pagamento di indebito ( indebito oggettivo), che trova applicazione nelle ipotesi

in cui l’amministrazione abbia disposto a favore dei propri dipendenti il pagamento di somme in eccedenza

rispetto a quelle che avrebbe dovuto versare. L’art. 2033 c.c. prescrive che “chi eseguito un pagamento non

dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”.

La giurisprudenza ha progressivamente introdotto il principio della tutela dell’affidamento nel privato in

buona fede : più precisamente la legittimità della scelta dell’amministrazione di agire per la ripetizione

dell’indebito viene valutata anche alla stregua di questo affidamento; per altro verso , la ripetizione delle

somme pagate indebitamente da alcune amministrazioni trova una propria peculiare disciplina , la quale

rende rilevante l’elemento psicologico del beneficiato.

Nella prassi amministrativa si è imposto un peculiare istituto, denominato riconoscimento di debito. Esso

viene utilizzato allorché, a seguito della realizzazione di opere o dell’effettuazione di servizi da parte di

un’impresa al di fuori del contesto contrattuale , derivi un vantaggio per l’amministrazione. L’atto di

riconoscimento di debito è ritenuto legittimo dalla giurisprudenza contabile, quando a fronte della esecuzione

dei lavori o all’effettuazione di prestazioni, dimostrata l’impossibilità di ricorrere ai normali schemi

contrattuali, l’amministrazione valuti autonomamente l’utilità dell’opera o del servizio effettuati dal privato e

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214

motivi congruamente al riguardo. Il riconoscimento di debito consente il legittimo impegno di spesa.

4. La responsabilità civile dell’amministrazione e dei suoi agenti: l’art. 28 Cost. e la responsabilità

extracontrattuale

Il problema della responsabilità della pubblica amministrazione , da quando è stata ammessa nei confronti

del cittadino anche per l’attività di diritto pubblico da essa posta in essere, si è sempre e ovunque rivelato di

difficile soluzione. Si tratta infatti di conciliare la necessità di tutelare i cittadini di fronte agli illeciti dannosi

perpretati dai pubblici poteri, secondo i principi dello stato di diritto , con quella di salvaguardare le

pubbliche finanze da risarcimenti insostenibili, causati da interventi capaci di recare pregiudizio a collettività

talvolta assai vaste. Se poi si considera che quegli illeciti sono di fatto opera delle persone fisiche inserite a

vario titolo nella organizzazione degli enti pubblici , ci si trova di fronte ad un’ulteriore difficoltà : quella di

evitare preoccupazioni paralizzanti dovute a rischi eccessivi .

La Cost. del 48 pone per la prima volta disposizioni concernenti la responsabilità dell’amministrazione e dei

suoi agenti.

L’art. 28 cost. recita “ I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente

responsabili , secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti” e

aggiunge “In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.

Affinché l’obbligo di risarcimento sorga in capo alla pubblica amministrazione , occorre , oltre alla presenza

degli elementi di cui all’art. 2043 c.c e cioè, condotta dolosa o colposa- danno ingiusto- nesso di causalità tra

condotta e danno, anche che tra la p.a. e l’agente intercorra un rapporto di servizio.

In tema di natura giuridica di tale tipo di responsabilità due teorie si contendono il campo, principalmente ,

essendo secondo alcuni quella della p.a. una responsabilità diretta,in considerazione dell’immedesimazione

organica tra organo e ente, secondo altri una responsabilità indiretta o per fatto altrui( del funzionario) ex art.

2049 c.c.

5. La disciplina posta dal legislatore ordinario: il t.u. impiegati civili dello Stato

Il legislatore ordinario ha incluso un intero capo dedicato alla responsabilità nel t.u. imp. Civ. dello Stato

d.p.r. 3/57 le cui disposizioni sono state successivamente estese a tutti i soggetti contemplati nell’art. 28 Cost.

e non sono state modificate in punto di responsabilità dal d.lgs. 165/01.

Sotto la rubrica “responsabilità verso terzi” l’art. 22 sancisce la personale responsabilità dell’impiegato che

cagioni ad altri un danno ingiusto definendo ingiusto il danno “derivante da ogni violazione dei diritti dei

terzi commessa con dolo o colpa grave”.

Appare chiaro che questa disciplina è rivolta ad alleggerire in genere la responsabilità civile dei funzionari e

dipendenti pubblici , discostandosi da quella comune attraverso la sostituzione del requisito della colpa, di

cui all’art. 2043 c.c. con quello della colpa grave , di assai più difficile prova da parte del terzo danneggiato.

6. I riflessi di tale disciplina su dottrina e giurisprudenza: la responsabilità diretta della pubblica

amministrazione e la responsabilità dei suoi funzionari e dipendenti.

In tema di responsabilità della p.a. era diffusa in passato una tesi, che favoriva l’applicazione dell’art. 2043

c.c che annovera tra gli elementi quello soggettivo della colpa , quella dell’uomo medio che è un grado più

attenuato di colpa. E questa veniva richiesta soltanto ove si trattasse di attività c.d. materiale dell’ente

pubblico, non invece, sulle orme di un precedente indirizzo non soltanto giurisprudenziale, quando il danno

immediatamente derivasse da un atto amministrativo o dalla sua esecuzione.

Siffatto orientamento è stato abbandonato con la importante sentenza n. 500/99 delle S.U. della Corte di

cassazione ove è chiaramente affermato che , in tema di responsabilità della p.a., il giudice deve effettuare

una indagine estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente, ma alla p.a. intesa come

apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo( lesivo

dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità , di correttezza e di

buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice

ordinario, può valutare , in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità.

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Ove l’ente pubblico sia stato ritenuto responsabile ex art. 2043 c.c del danno arrecato al terzo, il funzionario

o il dipendente , ai sensi dell’art. 18 del d.p.r. 3/57, dovrà a sua volta ristorare il danno subito dall’ente ( c.d.

azione di rivalsa), in quanto da lui cagionato in violazione degli obblighi di servizio, salvo che egli abbia

agito per ordine che era obbligato a eseguire.

Alla luce delle considerazioni sopra svolte, risulta assai più conveniente per il terzo danneggiato rivolgersi

direttamente all’ente pubblico per essere risarcito ex art. 2043 c.c. sia sotto il profilo probatorio e quindi

della probabilità di esito favorevole del giudizio, sia sotto il profilo della solvibilità del debitore . inoltre , una

volta risarcito il terzo, la p.a. agirà contro il dipendente .

Mentre la responsabilità dell’amministrazione per i danni cagionati da attività provvedimentale è giudicata

dal g.a. , quella del dipendente spetta alla giurisdizione del g.o.

In altri termini, riguardo al medesimo illecito civile esistono,in relazione alla posizione della p.a. e a quella

dell’agente, due discipline alternative assai diverse dal lato sostanziale e dal lato processuale, la cui

applicazione è rimessa all’arbitrio del terzo danneggiato e tali da condurre a esiti dei relativi giudizi

profondamente difformi.

7. I recenti indirizzi ampliativi della responsabilità della p.a. La responsabilità precontrattuale

Negli anni recenti, pur rimanendo immutati i lineamenti fondamentali della responsabilità della p.a. sopra

descritti, si sono potuti riscontrare in giurisprudenza alcuni ripensamenti rivolti in parte ad una più razionale

applicazione dei principi ormai consolidati, e in parte ad una revisione di posizioni da sempre oggetto di

critiche in dottrina.

La giurisprudenza per es. estende agli enti pubblici alcune norme del c.c. che presentano particolari ipotesi di

illecito, tra cui l’art. 2051 c.c.( resp. Per danni da cose in custodia), l’art. 2052, 2053, 2054, 2055 ecc.

Un importante segnale è costituito dall’ammissione, nei confronti degli enti pubblici, dell’istituto della

responsabilità precontrattuale per violazione dell’art. 1337 c.c. ( dovere di buona fede nelle trattative e

nella formazione del contratto) e dell’art. 1338 c.c. ( sul dovere di comunicazione dell’invalidità del

contratto). Avverso questa estensione veniva affermato in giurisprudenza che il sindacato sulle modalità di conduzione

delle trattative e sulla condotta della p.a. fino al momento dell’approvazione , ove prevista, del contratto da

parte dell’organo di controllo, necessaria ai fini del sorgere dell’obbligazione , avrebbe costituito una

indebita ingerenza nell’esercizio dei poteri discrezionali ad essa attribuiti, senza considerare che dove esiste

mala fede si è al di fuori di qualsiasi legittima scelta di soluzioni possibili e dunque di esercizio di

discrezionalità.

Tuttavia tale responsabilità viene esclusa nell’ipotesi in cui il privato abbia dato esecuzione non richiesta ad

un negozio con l’amministrazione invalido in base a disposizioni generali da presumersi note all’interessato

, e quindi non a seguito di formale stipulazione, dall’altro, con riguardo al procedimento amministrativo

strumentale alla scelta del contraente. A seguito dell’entrata in vigore della l. 205/00, la giurisprudenza

amministrativa, in base alla teoria del “contatto amministrativo qualificato”ammette in tali casi la

responsabilità, spesso definita come contrattuale.

8. Il problema del risarcimento degli interessi legittimi

Assai controverso è il tema del risarcimento degli interessi legittimi. In passato la giurisprudenza da sempre aveva negato tale tipo di risarcimento, sia sulla base

dell’interpretazione letterale dell’art. 28Cost. che dell’art. 2043 c.c.

Dal punto di vista legislativo invece, la l. 142/92, recependo una direttiva comunitaria, che imponeva agli

stati membri di dotarsi di strumenti di tutela idonei ad accordare un risarcimento danni alle persone lese dalla

violazione delle norme sugli appalti , ha per primo introdotto tale principio.

Oggi, l’art. 35 , 5 co. D.llgs. 80/98 come sostituito dalla l. 205/00,abroga l’art. 13 della l. 142/92 e ogni altra

disposizione che prevede la devoluzione al g.o. delle controversie sul risarcimento del danno conseguente

all’annullamento di atti amministrativi. Fino al recente passato, in tema di risarcibilità del danno derivante da lesione di interesse legittimo, operava

la distinzione di alcune ipotesi.

L’annullamento giurisdizionale di atto amministrativo che comprimesse illegittimamente un diritto

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216

consolidato, eliminando la causa di compressione del diritto, apriva la via, in presenza di altri elementi

dell’illecito, al risarcimento del danno patito dal privato per il periodo di indebita limitazione della sua

situazione di diritto soggettivo. Il risarcimento derivava tuttavia, in tal caso dalla lesione non già

dell’interesse legittimo, bensì del diritto.

Analogo discorso valeva nel caso in cui un diritto si fosse costituito o ne fosse stato reso possibile l’esercizio

in capo ad un privato mediante un provvedimento amministrativo, poi annullato , facendolo così

illegittimamente venire meno.

Nell’ipotesi di lesione di diritti in “attesa di espansione”, nonostante il precedente orientamento negativo

della giurisprudenza , non sussistevano ostacoli insormontabili ad ammettere il risarcimento del danno patito

dal privato anche in tal caso: il pregiudizio del privato a seguito del ritardato rilascio del provvedimento che

già in precedenza l’amministrazione avrebbe dovuto e potuto rilasciare è pur sempre correlato alla violazione

di un diritto , seppure in attesa di espansione , e non già dell’interesse legittimo, la cui lesione di per sé non è

sufficiente ai fini del risarcimento. Occorre considerare che l’ordinamento risolve i conflitti intersoggettivi fornendo tutela ad interessi ( diritti

soggettivi) dei privati , la cui lesione integra la fattispecie di cui all’art. 2043 c.c. , ma non è affatto escluso

che altri interessi meritevoli di tutela , correlati a beni della vita particolarmente importanti , possano essere

individuati come protetti e che la loro lesione apra la via al risarcimento .

Tali interessi vivono sul piano dell’ordinamento generale , indipendentemente dall’azione amministrativa e

sono protetti da norme diverse da quelle che disciplinano l’attività amministrativa : essi sono risarcibili,

come tali, ex art. 2043 c.c.

Finalmente, la corte di cassazione , con la sent. 500/99 , ha riconosciuto la risarcibilità del danno derivante

da lesione di interesse legittimo, affermando che “ potrà pervenirsi al risarcimento soltanto se l’attività

illegittima della p.a. abbia determinato la lesione di un bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo

il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega e che risulti meritevole di protezione alla

stregua dell’ordinamento” e precisa che “ il diritto al risarcimento del danno è distinto dalla posizione

giuridica soggettiva la cui lesione è fonte di danno ingiusto che può avere , indifferentemente, natura di

diritto soggettivo o di interesse comunque rilevante per l’ordinamento”, onde la relativa questione si presenta

come questione di merito, perché la situazione soggettiva lesa non deve essere valutata ai fini della

giurisdizione.

L’atto lesivo di interessi meritevoli di tutela risarcibili e collegati ad interessi legittimi, illecito perché causa

di danno ingiusto , è tale soltanto se risulta anche illegittimo , sicchè tale illegittimità diventa un presupposto

dell’illiceità.

Ora l’art. 35, 4 co. Dlg. 80/98 , come mod. dalla l. 205/00 consente al g.a. , nell’ambito della sua

giurisdizione , di “conoscere anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche

attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli diritti patrimoniali consequenziali”.

Pertanto è da ritenere che la pronuncia di annullamento , tanto nei casi di giurisdizione esclusiva che in quelli

di giurisdizione di legittimità, sia pregiudiziale rispetto a quella di risarcimento del danno, non essendo

possibile da parte del g.a. l’accertamento incidentale dell’atto non impugnato nei termini di decadenza(60

gg). tale indirizzo era stato recepito anche da giurisprudenza del g.o. con riferimento a questioni ancora

rientranti nella sua giurisdizione , fermi restando tutti i requisiti dell’illecito civile.

Più in generale la recente riforma introdotta dalla legge 205/00 sembra aver eliminato la giurisdizione del

g.o. anche con riferimento a situazioni di mancata impugnazione tempestiva dell’atto, e a prescindere dal

carattere consequenziale della tutela risarcitoria.

Le sez.un. , con specifico riferimento alle pretese risarcitorie azionate dinanzi al g.a. , hanno affermato che

spetta al g.a. conoscere delle questioni attinenti al risarcimento del danno derivante dall’emanazione dell’atto

amministrativo .

La lettura che del sistema ha dato la corte cost. n. 204/04 conferma la concentrazione in capo al g.a. delle

questioni risarcitorie connesse all’attività provvedimentale dell’amministrazione .

Sembra sussistere un agiurisdizione del g.a. anchein tema di risarcimento del danno derivante da silenzio

della p.a. così come dal ritardo.( che si qualifica come contrattuale ). Inoltre un problema di situazione

risarcibile a fronte di attività discrezionale si delinea anche con riferimento all’attività degli organi nazionali

volta a recepire la normativa comunitaria.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia ammette infatti la responsabilità dello Stato per danni causati al

singolo da violazione del diritto comunitario.

Page 217: Dispensa Di Amministrativo - 1

217

9. La responsabilità contrattuale della p.a.

La responsabilità civile concerne l’illecito collegato all’emanazione di un provvedimento, ed essa è stata

tradizionalmente inquadrata nella c..d. responsabilità extracontrattuale , ossia in quella che ha come fonte un

fatto illecito , costituito, secondo la tradizionale definizione, dalla violazione del generale obbligo del

neminem laedere. Tuttavia oggi la tesi è sottoposta a critica.

Diversa è la responsabilità contrattuale , fondata sulla violazione di un rapporto obbligatorio già vincolante

tra le parti, sorto in virtù di un contratto, ex lege. Esiste un campo vastissimo peculiare della responsabilità contrattuale come quello dei servizi pubblici, in cui

l’obbligazione sorge , oltre che ad opera della legge, ad opera di atti della p.a.

Se dunque l’inadempimento fa sorgere la responsabilità in capo alla sola amministrazione , unica obbligata,

risulta irrilevante la distinzione tra responsabilità diretta e indiretta, propria della responsabilità

extracontrattuale. Il funzionario rimane estraneo al rapporto tra p.a. e terzo contraente .

Tuttavia in giurisprudenza si è ammesso il concorso delle responsabilità contrattuale ed extracontrattuale ,

che possono coesistere nell’ipotesi in cui, dopo attenta valutazione della reale portata degli obblighi

contrattuali, la condotta produttiva del danno sia riconducibile all’esecuzione del contratto, ma , sia pure da

essa occasionata, la condotta stessa sia estranea all’adempimento e vada sussulta, per violazione del diritto

assoluto, nella fattispecie dell’illecito extracontrattuale.

Per quanto riguarda invece il titolo di responsabilità da imputare alla p.a. in caso di emanazione di

provvedimento amministrativo, si discute se si tratti di responsabilità precontrattuale , contrattuale e

extracontrattuale. La soluzione seguita dalla sent. 500/99 della Cass. È quella di ritenere la resp. in esame di

natura extracontrattuale , che in genere si riferisce alle situazioni in cui non preesiste u n rapporto particolare

tra danneggiato e danneggiante .

Di recente si prospetta un nuovo tipo di responsabilità definita da contatto amministrativo qualificato,

derivante dalla lesione degli obblighi di protezione esistenti in capo all’amministrazione . la sussistenza di un

contatto tra p.a. e privato comporta il sorgere di alcuni obblighi “senza protezione”in capo alla p.a., la cui

violazione determina una responsabilità per alcuni versi assoggettata al regime di cui all’art. 12198 c.c.

quanto al riparto dell’onere della prova relativo all’elemento psicologico e al termine di prescrizione.

10. La responsabilità amministrativa e responsabilità contabile

La responsabilità amministrativa dei dipendenti verso l’amministrazione si inquadra nel più vasto istituto

della responsabilità e dell’illecito di cui è conseguenza.

Con la locuzione “responsabilità amministrativa”si suole però intendere soltanto quel tipo di responsabilità

civile in cui incorre il soggetto persona fisica avente un rapporto di servizio con l’ente pubblico, il quale, in

violazione di doveri da tale rapporto derivanti , abbia cagionato un danno alla sua pubblica amministrazione.

In proposito la dottrina più attenta qualifica questo tipo di responsabilità come civile-amministrativa.

Considerando gli aspetti sostanziali di questa responsabilità amministrativa , quale, in via generale si

configura per gli impiegati dello Stato, essa ha le sue fonti negli art. 82,83, r.d. 2240/1923 recante

disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità dello Stato , nell’art. 52 del t.u. delle

leggi sulla Corte dei conti, e negli art 18,19, e 20 del t.u. impiegati civili dello stato.

L’art. 82 prevede che “L’impiegato, che per azione o omissione, anche solo colposa, nell’esercizio delle sue

funzioni, cagioni danno allo stato , è tenuto a risarcirlo. Quando l’azione o l’omissione è dovuta al fatto di

più impiegati, ciascuno risponde per la parte che vi ha presa, tenuto conto delle attribuzioni e dei doveri

d’ufficio, tranne che dimostri di aver agito per ordine superiore che era obbligato ad eseguire”.

L’art. 83 assoggetta a sua volta i dipendenti alla giurisdizione della corte dei conti.

Il rapporto di servizio è alla radice della responsabilità di cui si tratta, anche se l’art. 1 l. 20/94 sembra

estendere la giurisdizione della corte dei conti a controversie nelle quali un tale rapporto non sussiste con

l’amministrazione danneggiata.

Ma esso non comporta soltanto l’esercizio di funzioni pubbliche , bensì postula che il soggetto sia inserito

nell’apparato della p.a . per il conseguimento di un fine pubblico; non basta quindi l’esplicazione di una

attività afferente agli scopi dell’amministrazione , ma occorre anche la partecipazione del rapporto allo

svolgimento dei modi di azione propri di questa, estrinsecativo della potestà che ad essa compete, o

comunque,allo svolgimento di attività ad essa imputabili, cosicché ne derivi una posizione di appartenenza

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latu sensu del soggetto stesso dell’amministrazione pubblica.

L’esistenza del rapporto di servizio non è l’unico elemento della fattispecie da cui scaturisce la responsabilità

amministrativa : infatti, ve ne sono altri quali la violazione dei doveri od obblighi di servizio, che costituisce

, nell’illecito, il comportamento , il fatto; l’elemento psicologico; il danno; il nesso di causalità tra il fatto e il

danno.

Quanto all’elemento psicologico , ora è richiesta la colpa grave. In tal modo così si riducono le possibilità

dell’amministrazione di ristoro del danno cagionato dal dipendente mediante la violazione di un dovere

d’ufficio.

Quanto al danno , va ricordata l’estensione della nozione che affiora nella giurisprudenza della corte dei

conti in rapporto ad un danno all’economia nazionale.

Essa , richiamato il concetto tradizionale di danno patrimoniale, individua le caratteristiche della nuova

figura di danno “connessa alla violazione di norme di tutela aventi per oggetto , non già beni materiali che

costituiscono il patrimonio in senso proprio del soggetto-persona ( Stato o enti pubblici), ma l’interesse ad

utilità non suscettibili di godimento ripartito e quindi riferibili a tutti i membri indifferenziati della

collettività”. Quanto al nesso di causalità si tratta di appurare il rapporto di causazione che intercorre tra l’inadempimento,

costituito dalla trasgressione , per azione o omissione, di uno o più obblighi, dovere e modalità di

comportamento derivanti del rapporto di servizi e il danno subito dall’amministrazione.

La corte dei conti fa prevalente riferimento al principio di causalità adeguata, valutando perciò ex ante se la

causa è stata idonea a produrre l’effetto, ma senza tenere conto degli effetti straordinari o atipici della

condotta tenuta.

La più recente legislazione in materia di responsabilità amministrativa è caratterizzata dalla progressiva

omogeneizzazione e unificazione nei riguardi di tutti i dipendenti ad essa soggetti, che in precedenza

avevano un trattamento notevolmente diverso rispetto a quello dei dipendenti dello stato: segnatamente i

dipendenti degli enti locali, originariamente soggetti alla giurisdizione del g.o.

Con la l. 20/94 e la l. 639/96 è stata introdotta una disciplina della responsabilità amministrativa uniforme

per tutti i soggetti sottoposti alla giurisdizione della corte dei conti .

Rispetto al passato, le novità introdotte sono:

a) il carattere personale della responsabilità stessa e la trasmissibilità del debito agli eredi secondo le

leggi vigenti nei casi di illecito arricchimento del dante causa edi conseguente indebito arricchimento degli

eredi stessi:

b) la responsabilità imputata esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole , nel caso di

deliberazioni di organi collegiali;

c) la limitazione della responsabilità ai fatti ed alle omissioni commesse con dolo o colpa grave;

d) la condanna a ciascuno per la parte che vi ha preso, valutate le singole responsabilità, da parte della

corte dei conti, se il fatto dannoso è causato da più persone : i soli concorrenti che abbiano conseguito un

illecito arricchimento o abbiano agito con dolo sono però responsabili solidalmente;

e) la circostanza che “la corte dei conti giudica sulla responsabilità amministrativa degli amministratori

e dipendenti pubblici anche quando il danno sia stato cagionato ad amministrazioni ed enti diversi da quelli

di appartenenza”;

f) la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, in ogni caso in 5 anni, decorrenti dalla data in

cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua

scoperta.

Una particolare specie di responsabilità amministrativa è infine la responsabilità contabile, che riguarda solo

gli agenti che maneggiano denaro e valori pubblici e che sono tenuti al rendiconto , cioè all’obbligo di

documentare i risultati della gestione effettuata , e , quindi , di rendere conto dei beni e dei valori di cui

abbiano disposto, dimostrando le diverse operazioni svolte nel corso della gestione.

I contabili, che hanno l’obbligo strumentale della custodia dei valori loro assegnati, si distinguono in

contabili di diritto e i contabili di fatto. Gli agenti contabili si distinguono in agenti della riscossione , agenti

pagatori di oggetti e beni pubblici.

Gli elementi della responsabilità contabile sono analoghi a quelli della responsabilità amministrativa , ai

quali si aggiunge però la qualifica di agente contabile.

I conti degli agenti contabili , al compimento del procedimento di “rendimento del conto”, debbono essere

presentati alla corte dei conti. Per quanto attiene all’amministrazione statale , entro due mesi successivi alla

chiusura dell’esercizio finanziario, i conti sono trasmessi alla competente ragioneria dello Stato e sono

trasmessi alla corte dei conti entro due mesi successivi.

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219

Il giudizio di conto si instaura necessariamente con la presentazione del conto giudiziale , indipendentemente

dall’esistenza di una controversia.

Ai sensi dell’art. 2 della l. 20/94 , decorsi 5 anni dal deposito del conto senza che sia stata depositata presso

la segreteria della corte dei conti, la relazione su di esso o siano state elevate eventuali contestazioni, il

giudizio sul conto si estingue. La norma aggiunge che rimane ferma la responsabilità amministrativa e

contabile a carico dell’agente.

11. Obbligazioni e servizi pubblici

All’amministrazione fanno capo rilevanti obbligazioni nell’ambito dei pubblici servizi: in tali ipotesi il

rapporto obbligatorio, attinente alla concreta prestazione fornita al cittadino considerato come utente, si

inserisce in un contesto più ampio, segnato dal dovere dell’amministrazione di assicurare prestazioni di

servizi a favore della collettività. L’evoluzione dei compiti e delle funzioni dello Stato, soprattutto a seguito dell’avvento dello Stato

pluriclasse e del conseguente aumento delle esigenze alle quali occorreva dare risposta , ha progressivamente

determinato una incisiva crescita delle dimensioni dell’intervento dello Stato nella società e nell’economia,

in funzione di ausilio ai cittadini e di riequilibrio economico e sociale (Stato sociale).

La Cost. pur non occupandosi espressamente ( ad eccezione dell’art. 43) di servizi pubblici, ha dato ulteriore

impulso a questo processo, garantendo diritti in capo ai cittadini ed impegnando , con una serie di norme

molto importanti( artt. 3, 4, 32, 34,35,38), lo Stato legislatore e i soggetti istituzionali a svolgere attività

pubbliche al fine di assicurare loro l’eguaglianza sostanziale.

L’intervento pubblico diviene così, oltre che doveroso, essenziale in settori determinanti della vita

consociata: esso non elimina necessariamente la presenza privata che, anzi, proprio nell’ambito del servizio

pubblico, può trovare un rilevante spazio d’azione. L’attività di prestazione dei servizi ai cittadini ha ormai

acquisito un rilievo così importante da affiancarsi a pieno titolo alla tradizionale attività che si svolge

mediante provvedimenti autoritativi, connotando il ruolo della moderna amministrazione. Il tema dei servizi

pubblici si caratterizza così come un vero crocevia di problematiche amministrative. In dottrina si

sottolineano:

- l’aspetto organizzativo, atteso che l’amministrazione deve garantire la soddisfazione di alcuni

bisogni apprestando le strutture necessarie ed individuando le modalità di erogazione dei servizi più idonee;

- il punto di vista economico, nel senso che la scelta delle attività da elevare a servizio pubblico onde

soddisfare alcuni bisogni, e, di conseguenza, la scelta in ordine al tipo di organizzazione del servizio, dipende

dall’entità delle risorse economiche disponibili, reperite ora mediante prelievo tributario, ora facendo pagare

un corrispettivo per il servizio reso;

- il problema delle posizioni giuridiche dei cittadini utenti;

- il tema delle autonomie territoriali, in quanto esse, sia per il loro carattere di enti a fini generali, sia

per la forte vocazione verso il sociale che da sempre manifestano, sia per la vicinanza ai bisogni, sono

coinvolte in modo assai rilevante nell’attività di erogazione dei servizi;

- il rapporto pubblico-privato.

Il servizio pubblico è la complessa relazione che si instaura tra soggetto pubblico, che organizza una offerta

pubblica di prestazioni, rendendola doverosa ed utenti. Tale relazione ha dunque ad oggetto le prestazioni di cui l’amministrazione, predefinendone i caratteri

attraverso la individuazione del programma di servizio, garantisce, direttamente o indirettamente,

l’erogazione , al fine di soddisfare in modo continuativo i bisogni della collettività di riferimento, in capo al

quale sorge di conseguenza una aspettativa giuridicamente rilevante.

Il servizio è dunque “pubblico” in quanto reso al pubblico e per la soddisfazione dei bisogni della collettività

, nonché in ragione del fatto che un soggetto pubblico lo assume come doveroso. Non è invece servizio

pubblico quello reso alla p.a., ovvero l’attività alla quale non corrisponda una specifica pretesa degli utenti( è

il caso della gestione dell’opera pubblica).

Il servizio pubblico è assunto dal soggetto pubblico con legge o con atto generale , rendendo doverosa la

conseguente attività. Questo momento non può che essere riservato all’autorità pubblica perché consegue ad

una valutazione dei bisogni riservata al soggetto pubblico. Ai sensi dell’art. 42 T.U.E.L. , l’assunzione dei

pubblici servizi locali è di competenza del consiglio dell’ente locale ; in ordine al servizio d’istruzione

scolastica, l’assunzione dello stesso trova il proprio fondamento nella cost. e nella legge ordinaria, mentre la

programmazione avviene anche mediante la definizione dei programmi scolastici.

Page 220: Dispensa Di Amministrativo - 1

220

Nel servizio pubblico sono dunque presenti anche momenti provvedimentali, sicchè non è corretto ritenere

che esso consista semplicemente in un’attività materiale: nella predefinizione e attuazione del rapporto tra

utente ed ente vengono cioè in evidenza atti e fatti di varia natura: legislativi, amministrativi autoritativi,

operazioni materiali e pure contratti di diritto comune.( contratti di utenza).

Alla fase dell’assunzione del servizio segue quella della sua erogazione, e cioè, la concreta attività volta a

fornire prestazioni ai cittadini. In proposito l’ordinamento prevede forme tipizzate di gestione, contemplando

spesso anche l’intervento di soggetti privati. Tale intervento non elimina il carattere pubblico del servizio,

che è tale in quanto oggetto di un atto di assunzione da parte di un soggetto pubblico(lo stato mediante legge

o altro ente pubblico) , anche se, in ipotesi, l’unica forma di gestione prevista fosse l’affidamento ad un

privato: d’altro canto il privato che eroga il servizio deve rispettare gli stessi limiti e gli stessi criteri

predefiniti in sede di assunzione del servizio.

Di recente si è introdotto l’impiego del “contratto di servizio” quale strumento per disciplinare i rapporti tra

amministrazione e soggetto esercente : il d.lgs. 422/97 dispone , ad es. che l’esercizio dei servizi di trasporto

pubblico regionale e locale, con qualsiasi modalità effettuati e in qualunque forma affidati, è regolato

“mediante contratti di servizio di durata non superiore a nove anni”; essi trovano applicazione pure nel

settore dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Si è visto che le forme di gestione del servizio pubblico sono tipizzate dal legislatore: in alcuni casi

l’amministrazione si avvale della propria organizzazione , in altre si rivolge all’esterno.

Per quanto riguarda i servizi pubblici locali che rientrano nella titolarità di comuni e province , aventi per

oggetto la produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo

economico e civile delle comunità locali, gli art. 112 e ss. T.U.E.L. , distinguono nettamente tra i servizi a

rilevanza economica e servizi privi di tale rilevanza( non è affatto semplice individuare un criterio

distintivo). Tra i primi saranno probabilmente da annoverare i servizi dell’energia elettrica , del trasporto,

della raccolta rifiuti e del ciclo delle acque. L’erogazione del servizio avviene secondo le disciplina di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione

europea, con “conferimento della titolarità del servizio”:

a) a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza

pubblica;

b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso

l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;

c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del

capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la

società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano.

Accanto all’affidamento mediante gara a società di capitali, la legge prevede l’affidamento a società

pubbliche, secondo il modello dell’in house providing , compatibile con il diritto comunitario, e secondo lo

schema della società mista ove l’assenza di concorrenza quanto alla scelta del gestore viene compensata con

la gara per la scelta del socio privato. In vista della piena realizzazione del principio di concorrenza per il mercato, la legge, che fa comunque salve

le disposizioni previste per i singoli settori e quelle nazionali di attuazione delle direttive comunitarie,

prevede il principio generale della separazione tra proprietà della rete , gestione della stessa e erogazione del

servizio, garantendo in ogni caso l’accesso alla rete dei sogetti legittimati all’erogazione del servizio. La

corte cost. con sent. N. 272/04 , inquadrando la disciplina statale in tema di servizi pubblici locali

nell’ambito della materia “tutela della concorrenza”, ha “salvato” le norme del T.U. che garantiscono la

concorrenza in ordine ai rapporti relativi al regime delle gare o delle modalità di gestione e conferimento dei

servizi.

La Corte ha però censurato la legge per illegittima compressione dell’autonomia regionale , nella parte in cui

stabilisce, dettagliatamente e con tecnica autoapplicativa , i vari criteri di base ai quali la gara viene

aggiudicata, introducendo prescrizioni “integrative della disciplina di settore”.

Per quanto invece attiene ai servizi pubblici privi di rilevanza economica, la sent. citata, sottolineando che in

questo ambito l’intervento della legge statale non può essere riferito ad esigenze di tutela della libertà di

concorrenza, ha individuato una ulteriore illegittima compressione dell’autonomia regionale e locale,

dichiarando incostituzionale l’intera normativa di cui all’art. 113 – bis del T.U.E.L.( che accanto ad

affidamenti diretti, contemplava la gestione in economia).

In sostanza , in questi ambiti, la disciplina è oggi rimessa alle fonti regionali e locali, anche se non pare

radicalmente escluso uno spazio di intervento del legislatore statale fondato sull’art. 117, 2 co. Lett. m) in

materia di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni”. Una delle conseguenze di questo nuovo

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quadro sarà quello della differenziazione e ampliamento delle forme di gestione, potendosi immaginare il

ricorso a consorzi , concessioni, fondazioni ecc.

Gli affidamenti diretti per i servizi privi di rilevanza economica, in passato( cioè prima della sent. n. 272/04)

potevano avvenire a favore dei seguenti soggetti:

- istituzione, organismo strumentale dell’ente locale per l’esercizio di servizi sociali, dotato di

autonomia gestionale;

- aziende speciali , ente pubblico strumentale dotato di personalità giuridica , di autonomia

imprenditoriale e di proprio statuto. - Società a capitale interamente pubblico.

Molteplici sono la classificazioni che possono essere operate dei servizi pubblici.

La Cost. parla di servizi pubblici esenziali: l’art. 43 Cost. si occupa della riserva operata con legge allo Stato

, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti di determinate attività ed individua, quale oggetto

della riserva stessa, le imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali. Con riferimento agli enti locali la legge si riferisce ai servizi indispensabili e a quelli ritenuti necessari per lo

sviluppo della comunità( art. 149 T.U.E.L.). essi sono finanziati dalle entrate fiscali, le quali integrano

comunque la contribuzione erariale per l’erogazione dei servizi indispensabili. Allorché lo Stato e le regioni

prevedano per legge casi di gratuità nei servizi di competenza dei comuni e delle province, ovvero fissino

prezzi e tariffe inferiori al costo effettivo della prestazione , essi debbono garantire agli enti locali al costo

effettivo della prestazione, essi debbono garantire agli enti locali risorse finanziarie compensative.

I servizi sociali sono caratterizzati dai seguenti: finalizzazione alla tutela e alla promozione del benessere

della persona, doverosità della predisposizione degli apparati pubblici necessari per la loro gestione e assenza

del divieto per i privati di svolgere siffatta attività.

La l. 328/00, legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, pone ora

una disciplina completa della materia, considerando unitariamente i differenti servizi oggetto delle discipline

settoriali e precisando che per “interventi e servizi sociali”si intendono tutte le attività previste dall’art. 128

del d.lgs. 112/98.

Nella normativa più recente è comparsa la definizione di servizio universale , “ insieme minimo definito di

servizi di qualità determinata , accessibili a tutti gli utenti a prescindere dalla loro ubicazione geografica, e a

un prezzo accessibile.

Sulla scorta dell’influenza esercitata dal diritto comunitario si è avviato nel nostro paese il processo di

liberalizzazione di alcuni mercati. Il fenomeno ha alcune connessioni con la tematica dei servizi pubblici ,

nel senso che le attività liberalizzate in passato erano gestite in situazioni di monopolio da concessionari di

pubblico servizio, laddove la liberalizzazione comporta l’apertura alla concorrenza. Nel caso di servizi a rete

il completamento della liberalizzazione impone l’uso comune della infrastruttura, separando gestione della

rete da gestione del servizio.

Il tema della liberalizzazione si intreccia infine con la problematica della privatizzazione : la l. 474/94

stabilisce che le dismissioni delle partecipazioni azionarie dello stato e degli enti pubblici nelle società in

mano pubblica operanti nel settore delle difesa, trasporti, telecomunicazioni ecc. sono subordinate alla

creazione di organismi indipendenti per la regolarizzazione delle tariffe e il controllo della qualità dei servizi

di rilevante interesse pubblico.

La dottrina è impegnata nella individuazione dei principi giuridici applicabili ai settori dei servizi pubblici:

accanto a quelli della continuità, tipicità dei modelli di gestione e di eguaglianza sono stati indicati quello di

economicità e della qualità.

Quanto al principio di economicità si è notato che l’art. 114 tuel afferma che anche i servizi sociali debbono

essere erogati rispettando il criterio dell’economicità , principio che per i servizi organizzati in forma di

impresa deriva direttamente dall’art. 43 cost. In ordine ai principi di qualità, tutela e partecipazione, occorre ricordare che il decreto 286/1999 che ha

introdotto il sistema dei controlli interni, impone l’erogazione di servizi pubblici secondo modalità che

promuovano il miglioramento della qualità e assicurino la tutela dei cittadini e degli utenti e la loro

partecipazione nelle forme, anche associative riconosciute dalla legge alle inerenti procedure di valutazione e

definizione degli standard qualitativi. In conclusione si ricorda che l’art. 35del d.lgs. 80/98, così come modificato dall’art. 7 della l. 205/00,( alla

luce della sent. Corte cost. n. 204/04) che devolve alla giurisdizione esclusiva del G. a. “ le controversie in

materia di pubblici servizi , escluse quelle concernenti indennità, canoni e altri corrispettivi , ovvero relative

a provvedimenti adottati dalla p.a. o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo

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disciplinato dalla l. 241/90, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e

controllo nei confronti del gestore , nonché afferenti alla vigilanza sul credito, assicurazione e del mercato

mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di cui alla l. 481/85” .

Tale nozione di pubblico servizio ricomprende anche attività 8 vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e

mercato mobiliare)che non rientrano in quella sopra fornita.

Rispetto alla formulazione originaria della norma, l’intervento della corte cost. ha determinato un notevole

ridimensionamento dell’ambito della sua applicazione.

12. Servizi pubblici e tutela delle situazioni soggettive

Mediante l’assunzione e la programmazione del servizio pubblico , inteso il termine in senso proprio ,

l’amministrazione assume il dovere di garantire il servizio.

Assunzione e programmazione sono atti preordinati a conferire diritti a singoli (utenti) , aventi ad oggetto la

prestazione che costituisce il servizio pubblico.

Spesso la determinazione degli utenti è rimessa alla scelta dell’amministrazione ; in tali casi , invece,

l’ordinamento già prefigura i soggetti ai quali dovrà essere attribuito il diritto di credito alla prestazione,

impegnando in tale direzione legislatore e amministrazione . Le prestazioni possono essere rese indistintamente a tutti gli interessati , ovvero ai singoli utenti che ne

facciano richiesta. In questo secondo caso , l’erogazione dei servizi , a domanda individuale, presuppone

l’instaurazione di contratti di utenza pubblica, i quali sono configurati sul modello del contratto per

adesione. Oggi con riferimento ai servizi di carattere imprenditoriale , si afferma la natura contrattuale. Dal punto di

vista della situazione giuridica dell’utente , in caso di stipula del contratto, con “ammissione”dell’utente al

servizio sorge un diritto soggettivo in capo al privato, con la conseguenza che l’eventuale inadempimento

dell’amministrazione origina responsabilità contrattuale.

La questione riguarda invece l’aspirazione dell’utente ad ottenere prestazioni che la p.a. ha il dovere di

erogare alla collettività precedentemente all’eventuale stipulazione di un contratto o all’atto di ammissione, e

in relazione, alle scelte concrete di organizzazione del servizio. Si pensi alle prestazioni sanitarie: la

giurisprudenza oscilla tra l’affermazione della sussistenza di un diritto soggettivoe il riconoscimento di un

interesse legittimo al corretto esercizio del potere amministrativo di organizzazione del servizio.

Alcuni parlano di un diritto finanziariamente condizionato in quanto molte prestazioni, oggetto di servizi

pubblici, sono condizionate dai limiti dell’organizzazione del servizio pubblico stesso. La protezione del

cittadino è in tal caso realizzata attraverso il ricorso alla tutela propria dell’interesse legittimo, che si

completa con la responsabilità contrattuale o extracontrattuale per lesione di interessi legittimi .

Riconoscendo la sussistenza di obblighi di servizio, l’ordinamento consente di configurare veri e propri

diritti soggettivi aventi ad oggetto le prestazioni di servizio pubblico.

13. Adempimento delle obbligazioni pubbliche e responsabilità patrimoniale dell’amministrazione. Si richiamano alcuni principi del diritto comune in tema di adempimento delle obbligazioni pubbliche e di

responsabilità patrimoniale dell’amministrazione.

Talune obbligazioni non hanno ad oggetto una somma di denaro, mentre altre, le più importanti, hanno

carattere patrimoniale. Queste ultime sono soggette non solo alla disciplina del diritto comune, ma anche a

quella pubblicistica relativa al pagamento di somme di denaro da parte dell’amministrazione. Le disposizioni

sulla contabilità pubblica, oltre a porre il principio secondo cui tutte le spese debbono trovare copertura,

prevedono un minuzioso procedimento che inizia con la comunicazione agli uffici di ragioneria dell’atto dal

quale deriva l’obbligo di pagare una somma di denaro , per la registrazione dell’impegno, e si chiude con il

pagamento della somma.

Le più importanti deroghe alle regole civilistiche, che caratterizzano la disciplina delle obbligazioni

pubbliche aventi ad oggetto somme di denaro, riguardano il luogo e il tempo dell’adempimento.

Dal punto di vista del luogo dell’adempimento, invero dottrina e giurisprudenza sono divise: secondo una

opinione, i pagamenti debbono essere eseguiti secondo le regole civilistiche ( domicilio del creditore al

tempo della scadenza), mentre altra e prevalente tesi ritiene che il luogo dell’adempimento sia costituito dalla

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sede degli uffici di tesoreria.

In ordine al tempo dell’adempimento, ricordando che i crediti producono interessi dal momento in cui essi

sono liquidi ed esigibili, va osservato che di recente la giurisprudenza, pur con alcune oscillazioni, ha

abbandonato l’indirizzo , in precedenza seguito, secondo cui i debiti diventerebbero liquidi ed esigibili solo a

conclusione del procedimento contabile, e quindi al momento dell’emissione del mandato di pagamento. Si è

così affermato che l’esaurimento della procedura di erogazione della spesa non condiziona il sorgere degli

interessi.( soprattutto per quelli moratori, attivabili a seguito di messa in mora).

La disciplina del procedimento contabile stabilisce ora che i pagamenti avvengano “nel tempo stabilito dalle

leggi, dai regolamenti e dagli atti amministrativi generali”: in ogni caso alla scadenza del termine per il

pagamento, il credito liquido si deve quindi ritenere senz’altro esigibile. Il dlgs 231/02 stabilisce

l’automatica decorrenza degli interessi moratori dal giorno successivo alla data di scadenza , salvo che il

debitore non dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato dall’impossibilità della

prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Ai sensi di tale decreto( che definisce la misura degli

interessi moratori e stabilisce il diritto del creditore di esigere un risarcimento ragionevole per i costi di

recupero sostenuti a causa del ritardo), per transazione commerciale si intende qualunque contratto tra

imprese o tra imprese e p.a. che comporti “la consegna di merci o la prestazione di servizi , contro

pagamento di un prezzo”. Le parti, nella propria libertà contrattuale, possono stabilire un termine superiore

rispetto a quello legale a condizione che le diverse pattuizioni siano stabilite per iscritto e rispettino i limiti

concordati nell’ambito di accordi sottoscritti, presso il ministero delle attività produttive , dalle

organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale della produzione , della trasformazione e

della distribuzione per categorie di prodotti deteriorabili specifici.

Altra regola peculiare applicabile all’amministrazione è quella relativa alla possibilità , riconosciuta in favore

dello Stato, ma non del privato, di operare compensazioni tra propri crediti e debiti: in virtù del principio

dell’integrità del bilancio( che impone all’amministrazione l’acquisizione delle entrate per il loro ammontare

complessivo) , il privato non può infatti operare una compensazione di un proprio debito con un credito

vantato nei confronti dello stato.

Si ritiene inapplicabile alla p.a. l’art. 1181 c.c. sicchè il creditore privato non può rifiutare un adempimento

parziale della p.a. , il che può avvenire quando in bilancio non sia stanziata una somma sufficiente a pagare

l’intero debito.

Un istituto peculiare del diritto pubblico è costituito dal c.d. fermo amministrativo, disciplinato dall’art. 69 l.

cont. Stato: “ qualora un’amministrazione dello Stato che abbia, a qualsiasi titolo, ragione di credito verso

aventi diritto a somme dovute da altre amministrazioni, richieda la sospensione del pagamento, questa deve

essere eseguita in attesa del provvedimento definitivo”. L’amministrazione creditrice verso un creditore di

altra amministrazione chiede la sospensione provvisoria dei pagamenti dovuti dall’amministrazione debitrice

, senza la necessità di utilizzare lo strumento del pignoramento o del sequestro.

Dopo l’accertamento dell’esistenza del debito nei confronti del terzo da parte dell’amministrazione statale,

con provvedimento definitivo potrà avvenire l’effettivo incameramento delle somme dovute dallo Stato.