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EDIZIONE NAZIONALE ED EUROPEA DELLE OPERE DI ALESSANDRO MANZONI Estratto da: DISCORSO SOPRA ALCUNI PUNTI DELLA STORIA LONGOBARDICA IN ITALIA Premessa di Dario Mantovani A cura di Isabella Becherucci CENTRO NAZIONALE STUDI MANZONIANI MILANOΩ·Ω 2005

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EDIZIONE NAZIONALE

ED EUROPEA

DELLE OPERE DI ALESSANDRO MANZONI

Estratto da:

DISCORSO SOPRA ALCUNI PUNTI

DELLA STORIA LONGOBARDICA

IN ITALIA

Premessa di

Dario Mantovani

A cura di Isabella Becherucci

CENTRO NAZIONALE STUDI MANZONIANI

MILANOΩ·Ω2005

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1. Il principe Adelchi. Dal Codex Legum Langobardorum.Capitularia Regum Francorum, sec. X-XI.

Cava dei Tirreni (Salerno),Biblioteca del Monumento Nazionale.

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Le vocazioni del «Discorso»di

Dario Mantovani

1. Scelto Adelchi quale soggetto, Manzoni appoggiò la funzione

poetica su una paziente e originale indagine storica della dominazio-

ne longobarda in Italia, di cui il Discorso è il documento, «notabi-

le per finezza d’analisi e per grazia di esposizione», secondo il giudi-

zio non invecchiato di De Sanctis. Il risultato cui giunse era opposto

a quello allora più accreditato, che si leggeva negli Annali di Mu-

ratori ed era divulgato in Europa da Gibbon. Secondo Manzoni, lo

stabilimento dei Longobardi in varie regioni d’Italia, dopo la calata

di Alboino nel 568/569, non diede mai vita a un solo popolo, alla

mistione di vincitori e vinti, di Longobardi e Romani (o Latini o

Romanzi o Romanici o Italiani che dire si voglia) in una sola mas-

sa politica. La separazione su base etnica apriva, a sua volta, il

varco a cupi interrogativi sulla condizione imposta agli indigeni. Per

Manzoni, il silenzio improvvisamente calato sui vinti era il segna-

le della brutalità con cui era stato esercitato il diritto di conquista.

Su questo sfondo, l’idea che i Romani fossero reclutati come

arimanni nell’esercito longobardo gli appariva tanto lontana dal ve-

ro da poterla introdurre in poesia sotto forma di un generoso, ma

improbabile piano escogitato da Adelchi per resistere ai Franchi,

respinto da Desiderio appunto come «splendido sogno giovanil»

(prima stesura, Atto i, sc. ii, v. 425, in Adelchi 1998, p. 34).

Proprio in quanto parte «non ben legata all’azione, né storica» –

come sentenzia una nota a margine dell’autografo – Manzoni si ri-

solse poi ad espungere quest’utopica proposta persino dalla tragedia.

Fu eliminata allo stesso modo la prima scena del quinto atto, in cui

il disegno di aπrancare i Romani e trasformarli in «guerrier devo-

ti» faceva un’altra comparsa, discusso quale estremo rimedio fra i

Longobardi chiusi in Pavia assediata dall’esercito di Carlomagno,

che ormai scorreva per la pianura padana, dopo la rotta delle Chiuse.

Si delinea così, sotto specie di paradosso, un problema significa-

tivo. Stando alle risultanze dell’attuale storiografia sulla società ita-

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liana in età longobarda, il disegno di Adelchi non era aπatto un so-

gno, anzi era da tempo realtà. Da un secolo almeno, fra i Romani

e i Longobardi s’era compiuta – si aπerma oggi – una profonda

acculturazione, e una fusione etnica, economica, giuridica. In parti-

colare, quello che ad Adelchi stesso pareva un progetto fin troppo az-

zardato e a Manzoni, infine, un fuor d’opera, immaginare cioè di

rivestire d’armature i petti inermi dei Romani, arruolarli come ari-

manni nell’esercito longobardo, avveniva – a quanto pare – almeno

dall’età di Liutprando, se non di Cuniperto, alla fine del secolo VII.

Il Discorso aveva fra i suoi scopi quello di «giustificare lo spi-

rito storico del dramma», anche allora, come s’è detto, opposto a

quello che usciva «dalle più riputate storie moderne». Da questo

punto di vista, il nesso indissolubile che lo stringe all’invenzione

poetica garantisce al Discorso la medesima fortuna dell’Adelchi,del quale aiuterà sempre a comprendere la materia e l’idea; non a

caso, anche in queste pagine alcune riflessioni saranno svolte su que-

sto piano, che si potrebbe chiamare piano di scorrimento della tra-

gedia sul Discorso.Lo scopo primario che il Discorso si prefiggeva, tuttavia, era

un altro, rinnovare gli studi sull’alto Medioevo. L’obiettivo fu pie-

namente raggiunto. Pubblicata nel 1822, l’indagine manzoniana

sui Longobardi fece divampare una vigorosa discussione politica e

storiografica, in felice concomitanza con il rinnovamento romanti-

co della storia giuridica, specialmente tedesca.

Carlo Troya riconobbe che «Alessandro Manzoni fu il primo, e

ne ottenne gran lode, che osò dubitare, falsi parendogli [i fonda-menti della Storia d’Italia] e vana la speranza di trovare la ve-

ra nostra Storia, se non si mettesse prima in buon lume la condi-

zione civile de’ vinti Romani».

Resta oggi al Discorso solo questo pur onorevole primato? È

stato superato dalle ricerche ch’esso stesso ha promosso – destino

che non sarebbe comunque nemmeno troppo amaro, proprio perché

invocato – dovendosi alla fine proclamare la vittoria della visione

cui si opponeva?

Ci pare, al contrario, che il Discorso non abbia esaurito la sua

vocazione. Per mostrarlo, non occorre procedere alla disamina del

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problema storico sottostante, per distribuire meriti e torti – come

fece Fausto Nicolini che processò il Seicento dei Promessi sposi –,

se non per quel tanto che è indispensabile a chi si proponga one-

stamente di fare storia degli studi. A ricevere attenzione saranno

invece l’impianto argomentativo e l’impostazione dei problemi;

lungo il filo dell’intertestualità, verranno ripercorse anche le rela-

zioni privilegiate del Discorso con alcune opere della storiografia

illuminista, in primo luogo di Montesquieu e Sismondi, che furono

particolarmente presenti al Manzoni.

Accennare ad alcuni punti di metodo del Discorso e mostrare

quale contributo abbia oπerto e possa ancora dare alla corretta im-

postazione della questione longobarda, suggerire insomma quale sia

l’attualità storiografica del Discorso, è lo scopo di quest’invito

alla lettura.

2. L’accesso al Discorso non è immediato. Per entrare nel vivo,

bisogna trascorrere per un primo capitolo ingombro d’erudizione, che

fa parte a sé poiché oπre chiarimenti su alcuni argomenti controversi

toccati nelle compatte, ma disadorne Notizie storiche, dove i fatti

e gli antefatti rilevanti per la tragedia si trovano asseriti, ma non

dimostrati, avendovi il Manzoni «preso il metodo aπermativo, come

il più breve». È insomma un’appendice d’approfondimento, che,

posta a vestibolo del Discorso, sembra quasi sconsigliare l’ingresso

a chi non sia pronto a farsi carico di «tanta zavorra».

Il vero esordio è il secondo capitolo. È da qui che si sperimenta

la verità del giudizio desanctisiano (che, formulato a proposito della

seconda edizione del 1847, quasi raddoppiata in lunghezza, s’atta-

glia anche meglio alla versione del 1822, a cui è consigliabile quindi

accostarsi per prima, come a quella in cui la maggiore concentra-

zione mette più nitidamente in risalto le linee compositive): il Di-scorso è veramente scritto «con un brio e una naturalezza, una

precisione e un andamento analitico che nel più schietto stampo ita-

liano ricordano i modelli più stimati della prosa francese».

Nondimeno, soprattutto se si è assorbiti dal tentativo di compren-

dere un’argomentazione tutt’altro che elementare e filologicamente

disimpegnata, si può avere la sensazione che i capitoli si susseguano

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piuttosto accostati che collegati. È una sensazione che non resiste

a una rilettura attenta. La potenza persuasiva del Discorso, pri-

ma ancora d’essere alimentata dalla lettura radente dei documenti

e dalla sagacia del giudizio, si sprigiona proprio dal ‘congegno’,

ossia dalla scelta e dalla disposizione degli argomenti. Un unico

filo si dipana, infatti, dal secondo al quinto capitolo (il sesto, su

Carlomagno, potendosi invece considerare a sé stante).

Il punto di partenza, come si sa, è l’opinione, rintracciata in

Machiavelli (nell’edizione del 1847 viene scovato un antecedente

anche nella Cronaca di Giovanni Villani) e, nel XVIII secolo, in

Giannone, Muratori e Denina, che i Longobardi e i Romani si fos-

sero uniti in un solo popolo.

La critica mossa a quest’opinione era prima di tutto concettuale,

perché Manzoni deplorava che le formule usate per significare que-

sta fusione non avessero a fondamento, nella loro pur suggestiva ge-

nericità, criteri rigorosi. «Unità – osservava, con l’esigenza di pre-

cisione che aveva ereditato dagli ideologues – comprende senza

dubbio l’identità del nome e delle leggi» e, in particolare, partecipa-

zione di tutti i consociati al governo, senza distinzione di etnia.

Si tratta, come si vede, di un’impostazione giuridica per eccellen-

za: il metro preciso, l’unico valido per stabilire se vi sia o meno

unione di due popoli in uno solo è, per Manzoni, il diritto, anzi il

diritto pubblico. Solo l’eguaglianza dei diritti politici consente di

individuare un popolo in un gruppo stanziato su un medesimo terri-

torio. È una concezione formale molto antica, la stessa, a ben vede-

re, che presiede alla definizione di libertà politica in Aristotele (che

consiste «nell’essere governati e nel governare a turno») o che regge

il mito stoico della città cosmica, cui partecipano tutti gli uomini

in quanto dotati appunto d’una legge comune, che è poi la ragione

(«di conseguenza – conclude Marco Aurelio – siamo tutti concit-

tadini; perciò siamo tutti partecipi di una forma di governo»).

Tale è il rigore della definizione, che vi si sottomette anche la

composizione poetica. Nei versi in cui Adelchi «al confine del perir»,

cioè in Pavia assediata, ripropone il suo disegno d’unione fra Lon-

gobardi e Romani, la coalizione prevede – e non è l’unico punto in

cui il risultato dell’indagine storica filtra in poesia senza sbiadire

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– non solo l’arruolamento dei Latini nell’esercito, ma anche l’in-

gresso nell’assemblea deliberante; si configura dunque precisamente

come concessione dei diritti politici: «Ogni RomanoΩ/Ωche in nostro

ajuto sorgerà, divengaΩ/Ωcome un di noi: sia suo: libero seggaΩ/Ωnel

suo terren, nudra un cavallo, assistaΩ/Ωai consigli del popolo» (prima

stesura, Atto v, sc. i, vv. 96-100, in Adelchi 1998, p. 147).

Analogamente, il duca Guntigi, che vendutosi a Carlomagno

s’oppone al disegno d’unione, ribatte con altrettanto scrupolo (vv.

141-5, p. 151): «sappi che priaΩ/Ωche ad un Romano io di fratello

il nomeΩ/Ωdia, ch’io gli segga in parlamento al fiancoΩ/Ωvoglio morir

per la sua man e sappiΩ/Ωche Longobardo io nacqui», versi in cui la

progettata fusione (a superamento della separazione presente) è di

nuovo rappresentata in termini giuridici, come compartecipazione

alla funzione deliberativa, senza riguardo all’etnia.

Una simile nozione dev’essere stata ispirata al poeta dai resocon-

ti sull’assemblea elettorale documentata da Paolo Diacono, quella

che diede il regno a Clefi, descritta con parole che non potrebbero

più nettamente esprimere l’esclusivismo su base etnica: «Lango-

bardi vero aput Italiam omnes communi consilio Cleph, nobilissi-

mum de suis virum, in urbe Ticinensium sibi regem statuerunt»

(Hist. Lang. 2.31).

Posto il criterio, la verifica dei fatti procede rapida e implacabile.

Cade qui la fatidica domanda, che Manzoni traeva probabilmente

da Scipione Maπei (e che non a caso tornò in seguito a turbare il

massimo indagatore dell’età longobarda nel secolo passato, Gian

Piero Bognetti): «Si è mai citato, non dico fra i re, ma fra i duchi,

fra i giudici, fra i gastaldi, fra i gasindj reg j, fra gli u√ziali di

qualunque sorta del regno longobardico, il nome d’un personaggio

latino?». Inquadrata in questa verifica, si capisce anche l’insi-

stenza (che potrebbe altrimenti apparire formale) sull’appellativo

dei re legislatori, che si proclamavano rex gentis Langobardo-rum (e non anche degli indigeni), e sulla partecipazione dei soli

Longobardi alle assemblee che ricevevano per gairethinx le leggi.Sono appunto i segni della discriminante etnica quale regola di

attribuzione dei diritti politici, fondata a sua volta sul diritto di

conquista.

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L’avere adottato il metro del diritto è stato rimproverato a Man-

zoni, come se egli si fosse servito d’una misura artificiosa e troppo ri-

gida rispetto alla storia (che richiederebbe probabilmente il flessibile

regolo di Lesbo, che già Aristotele raccomandava ai giudici). Forse,

come si vedrà più avanti, è con qualche svantaggio, fra tanti progres-

si, che la medievistica più recente ha rinunciato, o quasi, a farne uso.

3. Dimostrato che conquistati e conquistatori non erano un solo

popolo, è eliminata una formula che gettava «una maledizione di

sterilità su tutta la storia del medio evo» (cap. ii), ossia impediva

anche il solo porsi di alcuni interrogativi cruciali. Il principale –

che è toccato nel medesimo secondo capitolo – è ovviamente quello

(giuridico anch’esso) della condizione personale dei Romani, dal

momento che non coincideva con quella degli arimanni.

Questo problema è distinto dal precedente – se le due popolazioni

formassero un unico popolo –, la cui risposta negativa ne è l’ante-

cedente logico (semplificando, il primo quesito attiene al diritto pub-

blico, il secondo al diritto privato). La precisazione occorre, perché

la discussione che infuriò nell’Ottocento, e tuttora non è placata,

verte essenzialmente sulla condizione personale dei Romani (se

schiavi dei Longobardi oppure liberi e, in quest’ultimo caso, secondo

quale diritto regolassero i loro rapporti privati e punissero i delitti).

In realtà, Manzoni si astenne quasi dal pronunciarsi sulla que-

stione privatistica: è precisamente a questo punto, infatti, che for-

mulò la famosa esortazione alla storia (in cui Vladimiro Arangio

Ruiz ha colto l’eco dell’esortazione a liberare l’Italia dalle mani

dei barbari che chiude il Principe di Machiavelli), prefiggendo a

«qualche acuto ed insistente ingegno l’impresa di trovare la storia

patria di quei secoli», ossia «le istituzioni e i costumi, […] lo

stato generale delle nazioni».

In particolare, non appartiene alla prima edizione del Discorso,quella uscita congiunta all’Adelchi nel 1822, un esame dei due

(ora) controversissimi luoghi di Paolo Diacono (Hist. Lang. 2.32

e 3.16) condotto al fine di trarne notizia sulla condizione giuridica

degli indigeni (se ridotti a schiavi o lasciati liberi, e sottoposti a

quale forma di tributo o confisca).

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Un’ampia discussione in questa prospettiva si trova, invece, nel-

l’Appendice al capitolo iv della ristampa nelle Opere Varie, usci-

ta venticinque anni più tardi. È la disamina delle interpretazioni

avanzate dalla storiografia italiana successivamente alla prima edi-

zione del Discorso, e per suo sprone, principalmente da Carlo Bau-

di di Vesme e Spirito Fossati, da Carlo Troya e da Gino Capponi.

Manzoni, che in un primo tempo s’era astenuto dal pronunciarsi

in termini positivi sulla questione della condizione personale degli

indigeni, raccolse egli stesso la propria esortazione, fu attirato nella

controversia dopo averla suscitata. La sua idea – diversa da quella

d’ogni altro interprete – era che, all’indomani stesso della conqui-

sta, i Longobardi avessero imposto il tributo d’un terzo dei prodotti

agricoli ai latifondisti. Durante il decennio di anarchia ducale, ne

avrebbero poi confiscato i beni e uccisi molti, riducendo gli altri a

schiavi (tributari). Il destino della restante popolazione, priva dibeni e per lo più allo sbando, sarebbe stato infine deciso sotto il

regno di Autari (584-590), durante il quale i Romani furono ri-

partiti sotto i Longobardi, con il dovere del mantenimento di questi

hospites (insomma servi della gleba) sulle terre confiscate.

L’occasione di quest’esegesi, come s’è accennato, fu la riedizione

del 1847 e, del resto, sarebbe stata impensabile senza il sostrato della

discussione che ferveva in quegli anni, culminata nel Discorso di

Carlo Troya del 1841, riedito proprio a Milano nel 1844, con le acute

osservazioni del patrizio Francesco Rezzonico, futuro rappresentante

di Como nel governo provvisorio dopo le Cinque Giornate. Sarebbe,

tuttavia, inesatto ritenere (come ha fatto anche uno studioso attento

come Umberto Pirotti) che Manzoni non avesse concepito un’idea

netta della condizione personale dei Romani già negli anni Venti:

ma è meglio cercarla, invece che nel Discorso, nella tragedia.

Bastino due luoghi: il primo, già citato, è quello in cui Adelchi,

nella scena i poi cancellata dell’Atto v, propone di restituire ai

Romani, che prenderanno le armi con i Longobardi, la libertà e il

diritto di proprietà, di cui erano stati evidentemente privati («sia

suo: libero seggaΩ/Ωnel suo terren»), oltre ad oπrire loro la parte-

cipazione all’esercito («nudra un cavallo») e la condivisione dei di-

ritti politici («assistaΩ/Ωai consigli del popolo»). È segno che il

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«servo sudor» che imperla le fronti dei Romani chini sui solchi nel

primo Coro era inteso in senso letterale. Una seconda citazione è

utile, perché mostra meglio di ogni altro punto la capacità di volge-

re in poesia l’interpretazione delle fonti, senza perdere in precisione

storica. Nell’Atto iii, quando ancora si crede che i Franchi debba-

no rinunciare a scendere in Italia perché la munizione delle Chiuse

pare insormontabile, Adelchi, tutt’altro che trionfante, paventa già

la prossima impresa nella quale il padre intende guidare la sua gen-

te, l’invasione del ducato di Roma e il regolamento di conti con il

Papa Adriano: «l’anticaΩ/Ωnostr’arte è questa – lamenta Adel-

chiΩ–: ne’ palagi il focoΩ/Ωporremo e ne’ tuguri: uccisi i primi,Ω/Ωi

signori del suolo, e quanti a casoΩ/Ωnell’asce nostre ad inciampar

verranno,Ω/Ωfia servo il resto, e tra di noi diviso» (Atto iii, sc. 1,

vv. 67-72). Si ha qui la trasposizione poetica dell’Historia Lan-gobardorum (2.32): «Multi nobilium Romanorum ob cupidita-

tem interfecti sunt, reliqui per hospites divisi […] tributari

e√ciuntur». È anticipata in un verso l’interpretazione tributari= schiavi, che sarà meticolosamente difesa in molte pagine di dot-

trina nell’Appendice al cap. iii del 1847.

4. La schiavitù degli indigeni era un’interpretazione senz’altro

distante da quella degli scrittori, da Machiavelli a Giannone a

Muratori, che dipingevano gli Italiani e i Longobardi aπratellati

e, di conseguenza, non avrebbero potuto nemmeno concepire l’asser-

vimento dei primi ai secondi. Non che l’opinione ‘continuista’

tenesse il campo da sola, come la presentazione manzoniana po-

trebbe far credere. Che la dominazione longobarda avesse segnato

una cesura violenta nella storia municipale tardoantica era stato in-

fatti vigorosamente sostenuto, in tempi relativamente recenti, dal

canonico Mario Lupo, nel Codex diplomaticus Civitatis etEcclesiae Bergomatis (1784-1799). Ancora nel 1823, quando

Antonio Pagnoncelli pubblicò le sue ricerche Sull’antichissimaorigine e successione dei governi municipali nelle cittàitaliane, l’anno seguente l’uscita del Discorso (che l’avvocatobergamasco non dà vista di conoscere), la durezza della conquista

longobarda era anzi definita un pregiudizio comune, contro il qua-

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le era necessario trovare argomenti (per inciso, quelli che addusse

Pagnoncelli riscossero il plauso di Savigny).

Vero è, tuttavia, che all’inizio dell’Ottocento l’opinione favore-

vole ai Longobardi aveva acquisito un maggiore prestigio. Un esem-

pio può servire a chiarire i rapporti tra le forze in campo. Nella

compendiosa Storia del regno dei Goti e dei Longobardi inItalia, apparsa in tre tomi tra il 1825 e il 1826 a firma di Giovanni

Tamassia (ascendente dell’omonimo storico del diritto che a caval-

lo di Otto e Novecento contribuì, da protagonista, al rinnovamento

degli studi sull’età longobarda), i governi barbarici sono presentati

in una luce molto favorevole (l’Adelchi, curiosamente, è citato con

onore senza che l’opinione manzoniana, tuttavia, faccia breccia nel

testo). Con l’opuscolo, Tamassia si propone, dichiaratamente, di

divulgare le pagine di Gibbon dedicate a Goti e Longobardi, che, a

loro volta, dipendono ampiamente da Muratori (e da Giannone). È

la testimonianza di come le idee dell’erudito modenese avessero

guadagnato, per la fama del suo autore e per il tramite di un’ope-

ra altrettanto influente come il Decline and Fall (ritradotto in

francese, si noti, nel 1812 dal Guizot), un’udienza più vasta rispetto

all’opinione secondo la quale si vedeva nell’invasione barbarica una

crisi di civiltà, ch’era l’idea, invece, difesa da Lupo.

Quando Manzoni si accingeva a sostenerla, l’opinione ‘cata-

strofista’ aveva, tuttavia, il solido appoggio di Jean Charles Léonard

Simonde de Sismondi, che è il vero ispiratore latente del Discorso.Il silenzio sul nome dello scrittore, di famiglia pisana, esule per

motivi religiosi (è menzionato solo nell’edizione del ’47 e per ri-

volgergli una critica su un punto marginale, l’identificazione degli

scabini franchi con gli sculdasci longobardi, critica, per di più, già

enunciata da Savigny: si veda l’Appendice al cap. iii), è compen-

sato dalle numerose coincidenze, anche espressive, che pongono in

stretto contatto non solo il Discorso, ma persino l’Adelchi con

l’Histoire des Républiques italiennes du moyen âge. Basti

ricordare, come ha segnalato acutamente Giuseppe Nava, che la

frase assurta a emblema del Discorso, «una immensa moltitudine

d’uomini, una serie di generazioni, che passa sulla terra, sulla sua

terra, inosservata, senza lasciarci traccia, è un tristo ma impor-

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tante fenomeno», ricalca il ritratto che l’Histoire fa dei nobili

romani sotto gli ultimi imperatori: «ils n’étoient pas fait pour

laisser de traces après eux», «ils passaient inaperçus sur la terre»

(cap. i, p. 18: ed. Zurigo, Gessner, 1807).

L’opera, edita fra il 1807 e il 1818, prima a Zurigo quindi a

Parigi (e tradotta in italiano a partire dal 1817, anno in cui finì

anche all’Indice), fornì a Manzoni gli elementi per il carattere del

personaggio di Carmagnola e influì sull’interpretazione del Seicento

accolta nei Promessi sposi, oltre ad avere dato esplicito spunto,

com’è noto, alle Osservazioni sulla morale cattolica, destina-

te a difendere la Chiesa dalle accuse del cap. cxxvii. Era dunque

un libro centrale nella meditazione, e nell’invenzione artistica, di

Manzoni negli anni del Discorso. Del resto, proprio nell’accin-

gersi a confutarne le opinioni in merito all’influenza deleteria del-

la religione cattolica sul carattere degli Italiani, Manzoni aveva

voluto attestare la sua «stima per tant’altre parti d’un’opera» che

si distingueva non solo per «le laboriose e esatte ricerche», ma per

l’originalità dell’impostazione, che è poi la medesima impostazio-

ne che anima il Discorso, per «l’intento di rappresentare, per

quanto si può, in una storia lo stato dell’intera società di cui porta

il nome» (Osservazioni sulla morale cattolica, Al lettore).Dopo quest’attestato, non sorprende trovare già nell’Histoire pres-

soché tutti gli elementi che formano la visione manzoniana sulla

condizione degli indigeni sotto i Longobardi.

È del Sismondi, infatti, l’aπermazione ‘iconoclasta’ che i due

popoli non si unirono mai (si mantennero anzi separati da quel re-

ciproco odio che, nella tragedia, Desiderio dichiara invalicabile bar-

riera fra oppressi e oppressori): «Les Lombards ne s’allièrent point

aux Italiens, comme avoient fait les Goths, leurs prédécesseurs. A

leur établissement dans le pays, ils avoient abusé de leur victoire

d’une manière plus cruelle et une haine plus violente séparoit les

deux nations. Elle se conserva longtems encore après la chute de la

Monarchie de Pavie» (cap. i, p. 30).

Anche il secondo caposaldo dell’interpretazione manzoniana si

trova nell’Histoire des Républiques italiennes. La condizione

dei Romani sotto i Longobardi era ricavata dal Sismondi, quasi

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per deduzione, dal regime sociale dei popoli barbari (o meglio,

semibarbari), la cui economia si basava sulla coltivazione autar-

chica della terra, senza sbocco di mercato. Per nazioni così orga-

nizzate, che facevano della proprietà immobiliare il vero attributo

della libertà, la conquista d’un territorio portò sempre – questa è

la tesi – alla confisca dei beni, e all’asservimento, degli antichi

proprietari: «Un Peuple cultivateur peut aussi être conquis par un

Peuple demi-barbare, et cultivateur comme lui. Si le premier est

esclave, et excessivement corrompu; si le second est libre, le nombre

des vainqueurs peut être infiniment moindre que celui des vaincus.

Alors les premiers abuseront du droit de la victoire; ils s’attribue-

ront la propriété des terres de la nation dépouillée, et ils réduiront

les cultivateurs de la condition de propriétaires à celle de métayers»

(cap. ii, p. 76; nell’ed. Bruxelles 1838, p. 53, la frase prosegue:

«peut-être même à celle de serfs de la glèbe»).

Questo paradigma, per Sismondi, spiegava la dinamica dell’as-

soggettamento dei Romani, già esausti, da parte dei Longobardi,

sotto i quali «les laboureurs leurs vassaux, qu’ils avoient dépossédés,

et qu’ils forçoient à travailler pour leur compte, et à leur livrer le

tiers de leurs récoltes, étoient dans une condition approchante de

l’esclavage» (p. 79). Proprio a questo punto, per sostanziare la

propria interpretazione, Sismondi richiamava il passo dell’Histo-ria Langobardorum (2.32), che abbiamo trovato incastonato

nell’Adelchi (Atto iii, sc. i, vv. 67-72).

Se fra le interpretazioni dei due autori corre una diπerenza, è

nel rapporto fra confisca e schiavitù da una parte e tributo del terzo

del raccolto dall’altra, sistemi che Sismondi accoglieva entrambi

senza sospetto, mentre Manzoni evidentemente fin d’allora vi av-

vertiva una contraddizione (non a caso il verso dell’Adelchi tace

del tributo). Quest’antitesi, giuridica ancora una volta, fra la con-

dizione di schiavi e il definire ‘loro’ il raccolto («in qual maniera

quel suarum frugum sarebbe potuto convenire ai Romani diven-

tati lavoratori servili»?) diede luogo alla lunga Appendice aggiunta

al capitolo iv nell’edizione del 1847, che risolve la contraddizione

attribuendo l’imposizione del tributo e la riduzione in schiavitù a

due successive, distinte fasi della conquista.

le vocazioni del «discorso» 15

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Nel 1822, la ritrosia di Manzoni a pronunciarsi positivamente

sulla condizione dei Romani nel Discorso («Erano essi […] invera servitù? Ma in qual grado?»), a confronto con la nettezza

con la quale contemporaneamente li definisce schiavi nella poesia, è

segno che l’idea enunciata da Sismondi, pur esatta, gli sembrasse

da rifinire nei particolari e da passare al vaglio della documen-

tazione (sul punto, come s’è visto, Sismondi procede piuttosto enphilosophe che secondo il metodo dei Benedettini). È appunto il

riesame che poté compiere venticinque anni dopo, sulla base delle

fonti che nel frattempo altri, aderendo alla sua esortazione, erano

venuti raccogliendo.

Tuttavia, sui punti essenziali, ossia la distinzione dei due popoli

e la riduzione in schiavitù dei Romani, l’Histoire e il Discorso già

concordano senza residui. Altre coincidenze incontreremo nel séguito.

5. Le questioni a cui Manzoni è votato non sono, ovviamente, di

natura giuridica: il diritto è soltanto il mezzo per impostarle

correttamente. I problemi sensibili sono di ordine etico ovvero, per

ricorrere a un’espressione crociana, gli sono dettati dalla sollecitu-

dine morale. L’intreccio fra i due ordini di problemi (giuridici e

morali) e la subordinazione dei primi ai secondi costituiscono il

meccanismo che muove il Discorso. Quando Manzoni, dopo avere

sgombrato il campo dalla falsa idea dell’unità di conquistatori e

conquistati (sul piano del diritto pubblico), s’interroga sulla

condizione personale (nel diritto privato) dei Romani soggetti ai

Longobardi, in realtà è già entrato, anche se il lettore può non

avvedersene, nel secondo e cruciale tema del Discorso, ossia quale

giudizio si deve dare al ruolo svolto dai Papi nella caduta del regno,

tema che compare come titolo del solo capitolo v. È questo, in realtà,

sebbene quasi dissolto nella trama espositiva, il tema dominante del

Discorso, cui tutti gli altri sono subordinati.

Come aveva notato Giorgio Falco, la pagina delle Istorie Fio-rentine da cui Manzoni prende l’abbrivio («Erano stati i Lon-

gobardi dugento trentadue anni in Italia, e di già non ritenevano

di forestieri altro che il nome»: cap. xi), nel presentare la societàromano-barbarica in una luce favorevole sottendeva un giudizio ne-

16 dario mantovani

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gativo sulla politica temporale della Santa Sede, che aveva impedi-

to l’unificazione politica dell’Italia e fatto spesso ricorso, in propria

difesa, allo straniero («il qual modo di procedere dura ancora in

questi nostri tempi; il che ha tenuto e tiene la Italia disunita e in-

ferma»: Istorie fiorentine, cap. ix). Sotto il governo dei Longo-

bardi, l’Italia era stata prossima all’unità e la chiamata dei Fran-

chi da parte di Adriano rappresentava perciò nel più alto grado la

responsabilità della Chiesa nella disgregazione della patria. Il Di-scorso cerca di sciogliere il doppio nodo stretto da Machiavelli.

Il biasimo della politica papale «è sempre fondat[o] – può os-

servare Manzoni dopo avere sciolto il primo nodo – sul supposto

che i Longobardi vivessero in una comune concittadinanza con gli

Italiani» (cap. v).La dimostrazione che i due popoli erano, al contrario, rimasti

divisi rappresentava tuttavia solo la prima parte del ragionamento,

quella che consentiva di sbloccarlo, ma non di arrivare alla solu-

zione. Ancora si trattava di stabilire in che condizione fossero te-

nuti i Romani, perché sarebbe stato arduo giustificare l’operato dei

Papi qualora nel regno longobardo – a prescindere dalla mancata

convergenza in un solo popolo – si fosse comunque stabilita «una

certa quale equità […] una certa giustizia» (cap. i), ossia unacondizione che potesse «diminuire i dolori» della moltitudine dei

conquistati (cap. v).Precisamente a questo si volge allora Manzoni, a dimostrare le

catastrofiche conseguenze della conquista e a indicare nel Papa il na-

turale catalizzatore delle speranze di «sollievo» della popolazione

italica. Ancora una volta – e nel punto cruciale – l’interpretazione

del Discorso s’incontra con quella dell’Histoire des Républi-ques italiennes du moyen âge di Sismondi. «La longue inimi-

tié des Lombards avec les Romains et les Grecs, fut aussi la cause

de la chute de leur Monarchie» (cap. i, pp. 32 ss). Per Manzoni,

l’impero d’Oriente, che nominalmente manteneva la sovranità nelle

regioni lasciate libere dai Longobardi, non era «forte né retto da

ordini o da uomini migliori di quelli che avevano lasciato invadere

l’altra parte d’Italia»; l’unica «speranza di sollievo, se non di

risorgimento» per i Romani «era tutta riposta nei Pontefici». Così

le vocazioni del «discorso» 17

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per Sismondi: «Les Papes encourageoient les Romains à la défense

de leur patrie […] Plus les Romains se voyoient négligés par les

Empereurs, plus ils s’attachoient aux Papes, qui, pendant cette

période, étoient eux-mêmes presque tous Romains de naissance, et

ornés de vertus que les ont fait admettre pour la plupart dans le

catalogue des Saints» (cap. iii, pp. 136 ss). L’accenno alla nascita

romana dei pontefici risuona addirittura, ci pare, nella prima stesura

dell’Adelchi: Adriano è «figlio di Roma, ei non comanda ai vin-

ti,Ω/Ωai suoi fratelli antichi a quelli ond’ebbeΩ/Ωogni poter comanda»

(Atto i, sc. 1, vv. 216-8, in Adelchi 1998, p. 21).

Quando Sismondi scrive, pensando alla diaspora dei Romani in

fuga dalle regioni invase dai Longobardi, che si rifugiano nell’e-

sarcato, nella Pentapoli, nel ducato di Roma: «L’indépendance de

ces Provinces que les Grecs abandonnoient presque à elles-memes,

leur petitesse, et les dangers continuels auxquels elles étoient expo-

sées, faisoient renaître ensuite l’amour de la patrie dans le coeur

de tous leurs habitans» (cap. i, p. 31), prefigura, se non c’ingan-

niamo, Adelchi: «Ei (il pontefice) sa che in tuttiΩ/Ωgl’itali cor

pietà, rispetto accende, e desio di vendetta» (Atto i, sc. i, vv. 231-

3, in Adelchi 1998, p. 22).

6. Se la corrispondenza con l’Histoire attenua l’originalità del

Discorso – ammesso che questa sia una categoria di giudizio perti-

nente – permette, tuttavia, di apprezzarne meglio l’assetto. L’inte-

ro Discorso, s’è visto, inclina verso la questione del giudizio (etico)sulla chiamata dei Franchi da parte dei Papi (è il quesito suscitato

da Machiavelli, che da parte sua lo poneva ovviamente in chiave

politica). Da Sismondi, Manzoni ricava alcuni elementi per la ri-

sposta: le due etnie rimangono divise, i Romani sono ridotti in

schiavitù; il Papa diventa il punto di riferimento sia per quanti so-

no scampati alla furia barbara, e si sono rifugiati nelle regioni in

mano bizantina (almeno nominalmente), sia per quanti la subiscono

in occasione delle ripetute scorrerie in quelle stesse regioni. Pertanto,

la chiamata dei Franchi è un rimedio giustificabile, anzi giusto

(senza peraltro implicare, proprio per la sua natura morale, l’aval-

lo del temporalismo: l’azione secolare della Chiesa, nell’Adelchi

18 dario mantovani

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e nel Discorso, è un male tollerato, se e in quanto può comporta-

re provvidenzialmente un aiuto a chi non abbia altri difensori).

Rispetto a Sismondi, Manzoni si preoccupa di dare al proprio

assunto una dimostrazione più solida. A quest’approfondimento –

oltre alla confidenza con le fonti, che lo tratteneva da conclusioni

aπrettate – lo spingeva l’esigenza di rovesciare l’opinione che ave-

va preso piede nel Settecento italiano (ed europeo, tramite Gibbon,

ma vi avevano contribuito già Grozio e poi Montesquieu, tessendo

l’elogio della legislazione longobarda), e che reputava felice, o al-

meno non triste, lo stato dei Romani sotto i barbari. L’equanimità

del regno longobardo s’opponeva a un giudizio favorevole sull’ope-

rato dei Papi che ne avevano promosso la caduta. Che poi, come s’è

visto, già altre voci si fossero levate contro la riabilitazione dei Lon-

gobardi – non solo quella di Mario Lupo, ma anche voci nell’am-

bito della storiografia napoletana che si interrogava sulle radici me-

dievali della società politica meridionale, come quella di Francesco

Maria Galanti nella Nuova descrizione storica e geograficadelle Sicilie, che biasimava il cattivo «spirito pubblico dominan-

te, ch’è l’opera del governo de’ barbari» – Manzoni forse non lo

sapeva, o comunque non le riteneva voci all’altezza del dibattito.

Ecco finalmente chiarita la funzione argomentativa svolta nel

Discorso dal tema della condizione personale dei Romani: accer-

tare che tale condizione fosse la schiavitù avrebbe significato che la

reazione dei pontefici fu encomiabile. Il tema è aπrontato dunque

da Manzoni non come questione autonoma (come tenderà poi sempre

più a divenire, specialmente nella storiografia giuridica), bensì come

parte integrante della discussione sull’atteggiamento di Adriano I.

Proprio l’inadeguatezza, tuttavia, a sostenere la funzione assegna-

ta spiega l’esigenza di dare al Discorso un ulteriore sviluppo

argomentativo.

Manzoni, come s’è visto, si astiene (almeno in prosa) da con-

clusioni in positivo sulla condizione degli indigeni sottomessi (la-

sciando intendere che si trattasse di schiavitù, ma invocando nuovi

studi sulla questione). Di conseguenza, l’indagine deve prendere al-

tre vie, non senza avere fatto leva, come fenomeno eloquente,

sull’«ignoranza stessa in cui siamo dello stato degli Italiani già

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soggetti ai Longobardi» (cap. v). Il famoso «silenzio» della storia

su un’immensa moltitudine d’uomini – che in genere, attraverso il

facile collegamento con i Promessi sposi, assurge a simbolo della

pietà verso gli umili – è quindi addotto nel Discorso come indizio

del degrado della condizione in cui i Romani erano caduti sotto i

Longobardi.

Questa lettura, che emerge già dall’impianto del Discorso nel-

la sua veste definitiva, è confermata da un brano della prima ste-

sura, quella cui il Ghisalberti ha imposto il nome di Abbozzo.Considerato che il motivo del silenzio non sempre è stato bene inteso,

vale la pena di riportarlo: «Forse una ragione del silenzio tenuto

sugli italiani soggetti ai longobardi si è che nelle stragi che i

longobardi ne fecero a varie riprese pare che avessero quasi cura di

uccidere i nobili, i primi, i gran proprietarj, dimodochè quel che ne

rimase era quasi la pura plebe, e le ricchezze, i possessi si trova-

vano forse presso i soli vincitori. L’industria non era che mancante

e limitatissima, e le dottrine aπatto perdute».

Un argomento e silentio – perché di questo, appunto, si tratta

– non può tuttavia sorreggere da solo una teoria. Di positivi, però,

non ne venivano in soccorso molti: forse il più impressionante par-

ve a Manzoni – come già, a dire il vero, a Mario Lupo – quello

dei massacri compiuti dai Longobardi sotto Clefi e sotto i duchi al-

l’inizio del loro stanziamento, massacri che, trascorsi meno di due

secoli, si ripeterono a Sinigaglia, Urbino e Blera, a dimostrare qua-

si la loro coessenzialità al «sistema longobardo di conquista» (cap.

v; tema che ancora una volta presuppone le riflessioni sismondiane

sulle «conséquences de la conquête»).

Alla confirmatio, le regole retoriche chiedono di fare seguire la

confutatio. Ecco dunque la critica degli argomenti addotti come

testimoni della bontà dei Longobardi, specialmente quelli avanzati

nell’Istoria civile di Giannone (che è il principale bersaglio nella

polemica sul ruolo del papato), oltre che da Muratori (il quale, per

il fatto di ricollegare la prosapia estense ai Longobardi e di

sostenerne le pretese territoriali in lite con la Chiesa, dev’essere im-

plicitamente sembrato al Manzoni un giudice non del tutto impar-

ziale, come sarebbe parso più tardi a Carlo Troya). Le prove del-

20 dario mantovani

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la clemenza longobarda – clemenza che, al di là d’ogni pronostico

sull’unificazione politica dell’Italia, avrebbe comunque tolto ogni

giustificazione alla chiamata dei Franchi – erano principalmente

due, la concessione ai vinti di vivere secondo il proprio diritto (os-

sia il diritto romano), e il quadro di prosperità dipinto da Paolo

Diacono per l’età di Autari.

Questi due temi diverranno i principali campi di battaglia per la

successiva storiografia, ma sono introdotti da Manzoni in una pro-

spettiva del tutto diversa, tangenziale o, per meglio dire, sono aπron-

tati dal punto di vista della confutazione e non della dimostrazione.

In questa prospettiva, poterono essere almeno in parte disinnescati,

trattati con maggiore souplesse. Così, Manzoni non è costretto a

porsi una domanda fondamentale, quale fosse il rapporto fra lo sta-

to di schiavitù nel quale i Romani a suo parere erano caduti e la

concessione di vivere secondo il diritto (privato) romano, che pre-

supponeva, viceversa, che fossero soggetti giuridici, e dotati di un

patrimonio. Inoltre, data la medesima premessa, quale senso avesse

il riconoscimento dei matrimoni misti e della filiazione legittima.

È su√ciente, al suo scopo, smentire che il permesso di vivere se-

condo il diritto romano fosse un segno di clemenza da parte degli

invasori. Agli indigeni fu concesso di continuare a vivere secondo il

proprio diritto – conclude Manzoni – solo perché «posti in salvo i

privilegi della conquista, le relazioni fra conquistato e conquistato

diventavano indiπerenti ai padroni». È una spiegazione cui Man-

zoni stesso dava una qualche importanza, definendola addirittura

«la sola conclusione» del suo discorso (e poco importa che fosse sta-

to in realtà preceduto su questa strada da Donato Antonio d’Asti,

nei due libri sull’uso e l’autorità della ragion Civile – cioè del di-

ritto romano – nelle province dell’impero Occidentale, pubblicati a

Napoli nel 1751). Questa considerazione – sia detto per inciso – è

esatta, poiché è dettata dalla consapevolezza che il diritto antico è

ordine quasi autarchico delle relazioni fra i consociati e non dev’es-

sere confuso con le legislazioni dei tempi moderni – Manzoni vi-

veva nell’età delle codificazioni – in cui «l’esercizio della sovranità

si considera come un’amministrazione avente per fine la giustizia

e l’utile pubblico» (la distinzione non a caso fu sùbito raccolta da

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Luigi Blanch, nella Storia della legislazione nei suoi rapporticon la scienza e la società del 1835, che sviluppa interessanti

relazioni fra il sistema di conquista e gli ordinamenti sociali del-

l’alto Medioevo).

Analogamente, il famoso passo della Historia Langobardo-rum (3.16) che descrive il regno di Autari come età dell’oro, non

viene esaminato nella sua parte più enigmatica, quella relativa al

trattamento dei Romani, che è toccata solo in via di praeteritio,nel senso che quelle «parole di colore oscuro» vengono usate per get-

tare sul resto del passo un sospetto di inattendibilità o comunque

una luce sinistra.

Dopo la prova e la confutazione, la sequenza retorica attende la

perorazione. Ne fa la funzione il quinto capitolo, intitolato Dellaparte che ebbero i papi nella caduta della dinastia longo-barda (dove la parola dinastia anticipa già la risposta minimiz-

zante), che chiude il Discorso con la richiesta di assoluzione (per-

ché solamente dai Papi i Romani vessati potevano aspettarsi «una

speranza di sollievo, se non di risorgimento»).

L’accuratezza della disposizione può forse giustificare l’impres-

sione di Falco: «Pure fra meravigliosi tesori di finezza e d’intel-

ligenza, il Discorso ci dà più d’una volta il senso di un astratto

giuoco intellettuale, di una sottilissima sofistica, che rimane assai

lontana dalla ricchezza e dalla persuasiva vitalità della storia».

Più semplicemente, il Discorso è uno straordinario esempio di

scrittura retorica applicata alla storiografia. Bene avrebbe figurato

nella analisi che Hayden White ha proposto delle principali forme

di coscienza storica nel XIX secolo, a conferma che il contenuto

profondo dell’opera storica è poetico o almeno linguistico (e non stu-

pirebbe se il tropo dominante del Discorso fosse quello dell’«iro-

nia che sta bene a tanta ragione»).

7. La negazione della bontà morale dei Longobardi è, come si è vi-

sto, un elemento essenziale alla logica del Discorso, e ne costitui-

sce ‘retoricamente’ la confutatio.Questo ruolo portante rende a priori non verosimile l’ipotesi,

avanzata in uno studio giustamente celebrato di Aurelia Accame

22 dario mantovani

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Bobbio, secondo cui, in una prima fase delle sue ricerche, Manzoni

avrebbe, al contrario, creduto a «una mitigazione della dura oppres-

sione originaria», a un «qualche riconoscimento di diritti ai vinti

con relativa limitazione di quelli dei vincitori», a qualche indizio

documentabile insomma di quella che poi avrebbe chiamato ironi-

camente la «bontà» dei Longobardi.

In realtà, se questa fosse stata l’idea di partenza, tutta la traiet-

toria argomentativa, la tesi stessa del Discorso sarebbe stata in-

teramente modificata. Se al tempo di Desiderio fosse già stata con-

seguita «una certa quale equità» fra vinti e vincitori, per usare

parole manzoniane, quale giustificazione avrebbe avuto la chiama-

ta dei Franchi da parte del Papa, che è il punto in cui si raccol-

gono tutti i fili del Discorso?Nei manoscritti del Discorso, di fatto, non v’è traccia di un

simile ripensamento: la presunta clemenza dei Longobardi è una

credenza invariabilmente contestata.

Quest’accertamento, tuttavia, non fornisce ancora la prova riso-

lutiva, poiché la prima stesura, quella battezzata Abbozzo dal

Ghisalberti, fu preparata piuttosto tardi: stando a due testimo-

nianze del carteggio, probabilmente fra il 21 settembre e il 3 no-

vembre 1821. La prosa delle idee storiche è, quindi, posteriore ai

versi della tragedia (prescindendo dalla revisione). Stante la se-

quenza cronologica Adelchi-Discorso, resterebbe perciò ancora lo

spazio per ipotizzare, com’è stato ipotizzato, che il cambiamento

di opinione sia occorso durante la composizione dell’Adelchi.Per fare cadere quest’ipotesi – che, come s’è detto, è resa già in-

verosimile dal ruolo cardinale che la negazione della «bontà» lon-

gobarda riveste rispetto alla tesi sostenuta nel Discorso – non è

necessario appellarsi al carteggio, che pure invia segnali tutto som-

mato già eloquenti. L’insoddisfazione di Manzoni per «le caractère

du protagoniste», aπetto da «une couleur romanesque», espressa a

tragedia compiuta il 3 novembre 1821 in una lettera al Fauriel

(Carteggio Manzoni-Fauriel, 67) e posta in relazione con

l’infondatezza dei dati storici di partenza, è infatti più che bilan-

ciata dalle lettere precedenti, da cui risulta che le idee di fondo del

Discorso, persino alcuni argomenti, erano già definiti ancor pri-

le vocazioni del «discorso» 23

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ma di cominciare la tragedia, e la di√denza verso la vulgata

storiografica – se così si può definire l’opinione di Muratori e di

Gibbon – fu un precoce, anzi preliminare acquisto (il documento

fondamentale è la lettera del 17 ottobre 1820 al Fauriel, CarteggioManzoni-Fauriel, 63). I confronti eseguiti sopra hanno del resto

mostrato che gli elementi necessari a comporre il sistema manzonia-

no erano già presenti nel Sismondi ed è quindi di√cile immaginare

un’evoluzione interna.

Il piano di verifica più sicuro è oπerto, tuttavia, dalla tragedia

stessa. Che la crudeltà del regime longobardo fosse una convinzione

acquisita fin dall’inizio dell’Adelchi, esce irrefutabilmente dai luo-

ghi della prima stesura della tragedia, già ricordati, relativi alla

condizione personale degli indigeni sotto i Longobardi. Lungi dal

lasciar trapelare una visione edulcorata della conquista, fin dalla

prima stesura la tragedia rappresenta i Romani in uno stato di vera

servitù. Al contrario del movimento ipotizzato dalla Accame Bob-

bio, secondo cui Manzoni sarebbe passato da un’iniziale adesione

all’idea d’una qualche clemenza della dominazione longobarda a un

giudizio più cupo, il confronto fra la tragedia (composta per pri-

ma) e il Discorso ha mostrato, si ricorderà, che la tragedia espri-

me con ancor maggiore risolutezza (com’è consentito dalla diversità

dei generi letterari) la nozione della brutalità dei vincitori e della

permanente oppressione degli indigeni, lasciati nella condizione di

«cultor soggetti», cioè di schiavi destinati ai lavori agricoli.

In fondo, a chiarire quale fosse stata sempre l’idea di Manzo-

ni, basterebbe la fulminante postilla da lui lasciata sulla Disser-

tazione 23 delle Antichità italiche, là dove Muratori aπerma che

sotto il governo dei Longobardi «non mancavano le rugiade della

contentezza». La postilla fa la sua strada fino al Discorso, dove

diventa: «Le rugiade del medio evo! Dio ne scampi l’erbe dei no-

stri nemici».Più delicato è il secondo profilo su cui la Accame Bobbio ha con

finezza costruito l’idea che la crisi dell’Adelchi, cioè il passag-

gio dalla prima alla seconda stesura, sia stata provocata da un

approfondimento dell’analisi storica dell’età longobarda. L’altro

dato storico sul quale Manzoni avrebbe poggiato la prima stesura

24 dario mantovani

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dell’Adelchi, per poi trovarlo fragile, sarebbe stato la convinzione

che «la nascente coscienza nazionale italiana, orientata a ricono-

scere quale suo centro e capo ideale il pontefice romano, fosse l’o-

rigine prima della debolezza del regno longobardo».

Non c’è dubbio, e l’analisi delle varianti condotta sistematica-

mente da Isabella Becherucci ne ha svelato anche la dinamica, che

la revisione, per non dire il rifacimento dell’Adelchi, a partire dal-

la scena i dell’Atto v, sia consistita principalmente nella soppres-

sione dello «splendido giovanil sogno» del protagonista di chiamare

alle armi, accanto ai Longobardi, i Romani sottomessi, promettendo

loro libertà, proprietà, parità di diritti. Di fatto, come nelle cronache

contemporanee, nella stesura definitiva gli Italiani scompaiono quasi

dalla scena, per ritirarsi nel primo Coro. Parallelamente, s’assiste

al potenziamento del ruolo assegnato al tradimento dei duchi, tema

peraltro già ben presente fin dall’esordio.

Il problema resta, tuttavia, se queste variazioni debbano attri-

buirsi a un mutamento della ricostruzione storica, cioè se il Di-scorso, per dir così, abbia reagito sull’Adelchi, ovvero se dipen-

dano da ragioni d’ordine diverso.

Non è il caso di esporre qui le molte evidenze che s’oppongono

alla prima ipotesi, ossia alla spiegazione oπerta dalla Accame

Bobbio. Basti segnalare che il dato storico che si vorrebbe caduto,

ossia l’ostilità nutrita dalla popolazione italica verso i Longobar-

di e il suo favore per Carlo, è ancora presente in quanto tale nel-

la tragedia definitiva. Nell’allocuzione che Carlomagno rivolge a

Conti e Vescovi prima di lanciarli a superare le Chiuse, la popo-

lazione italica è infatti ancora rappresentata come partigiana dei

Franchi e in loro attesa: «Là nella bella Italia, in mezzo ai

campiΩ/Ωondeggianti di spighe, e ne’ fruttetiΩ/Ωcarchi di poma ai

padri nostri ignote;Ω/Ωfra i tempii antichi e gli atrii, in quella ter-

raΩ/Ωrallegrata dai canti, al sol diletta,Ω/Ωche i signori del mondo

in sen racchiude,Ω/Ωe i martiri di Dio; dove il supremoΩ/ Pastore

alza le palme, e benediceΩ/Ωle nostre insegne; ove nemica abbia-

moΩ/Ωuna piccola gente, e questa ancoraΩ/Ωtra sè divisa, e mezza

mia; la stessaΩ/Ωgente su cui due volte il mio gran padreΩ/Ωcorse;

una gente che si scioglie. Il restoΩ/Ωtutto è per noi, tutto ci aspetta»

le vocazioni del «discorso» 25

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(Atto ii, sc. v, vv. 347-60). Il dato storico dell’ostilità italica

verso i Longobardi non è dunque mai stato rifiutato da Manzoni:

gli Italiani (il «resto») sono dalla parte dei Franchi, li aspettano.

Quest’accenno, pur minimo, acquista tanto più significato se,

come viene spontaneo, lo si collega ai famosi versi dell’Atto i: «Di-

menticastiΩ/Ωche ogni nostro travaglio è gioja a questaΩ/Ωitalica ge-

nia, che diradataΩ/Ωdagli avi nostri, che divisa in branchi,Ω/ nove-

rata col brando, al suol ricurva,Ω/Ωche d’arme ignuda, che di capi

scema,Ω/Ωancor, dopo due secoli, siccomeΩ/Ωil primo giorno, odia,

sopporta e spera?» (vv. 58-65, Adelchi 1998, p. 9). Questa parte

figurava ancora nella seconda stesura e fu soppressa solo in séguito

alla censura (e sembra improbabile che Manzoni vi abbia provve-

duto spontaneamente). È la prova che il dato storico dell’ostilità

italica non era caduto col progredire delle ricerche storiche.

Di più. Il Discorso, scritto quando il processo di revisione del-

l’Adelchi era stato già avviato con la riscrittura dell’Atto v e

aveva quindi preso ormai la sua direzione, contiene aπermazioni co-

me queste: la «speranza, pei Romani, era tutta riposta nei pon-

tefici»; «a quest’uomo adunque si dovevano rivolgere tutti i voti, e

tutti gli sguardi de’ suoi concittadini, e così infatti avveniva». So-

no proposizioni che fanno il pari con i versi che si trovavano nella

prima redazione dell’Adelchi: «Le maniΩ/Ωei leva al cielo, e mil-

le mani al cieloΩ/Ωson levate in un punto: il suo desioΩ/Ωdiviene il

prego delle genti: ei parla,Ω/Ωe la terra risponde» (Atto i, sc. i, vv.

192-6, Adelchi 1998, pp. 19-20). Se questi versi sono stati poi

soppressi, ma il Discorso, posteriore, contiene quelle proposizioni,

significa che l’espunzione non è stata determinata da un mutamento

della visione storica.

La ragione – senza volere invadere il campo altrui – sembra da

ricercare piuttosto in ragioni drammaturgiche, che in un révire-ment storiografico. Che la di√coltà sia stata poetica, e non storica,

non significa, beninteso, che ad entrare in crisi sia stato il sistema

tragico di Manzoni, le regole che presiedevano ai componimenti mi-

sti di storia e invenzione. La sua fedeltà non conosce tentennamen-

ti durante i mesi in cui era dedito all’Adelchi, nemmeno nella let-

tera al Fauriel del 21 febbraio 1821, dove è parso a qualcuno di

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intravederne i segnali (Carteggio Manzoni-Fauriel, 65): «le

beau principe que tout ce qui est vague, incertain, fabuleux, confus

est poetique de sa nature, et que lorsque on ne sait rien sur un sujet

il faut en parler en vers», sono frasi pronunciate sotto il segno del-

l’ironia e, rovesciate come devono essere, riaπermano il solito prin-

cipio che la poesia non deve mettersi in concorrenza con la storia.

Non fu dunque la teoria a essere ripensata; le di√coltà sorsero

nell’esecuzione. Il fatto stesso che la crisi sia intervenuta da un

momento all’altro, nel corso della composizione della scena i del-

l’Atto v, lasciata incompiuta, ne è un sintomo.

La nota con cui l’autore abbandonò la scena, «scartare tutto e

rifar l’atto in modo più conforme alla storia», non significa certo

che egli si fosse ricreduto sulla storicità degli eventi che era anda-

to narrando. Il «sogno» di Adelchi di unire in un solo popolo Lon-

gobardi e Romani non apparteneva, infatti, a quei «fatti materia-

li ed esterni» che, secondo il canone manzoniano, il poeta è tenuto

a rispettare. Atteneva, invece, a quelle «intenzioni e tendenze» dei

personaggi operanti, che costituiscono il campo dell’invenzione poe-

tica. L’estremo rimedio pensato da Adelchi per sconfiggere i Fran-

chi, non avendo avuto sbocco sul piano degli eventi storici, era per-

ciò fin dall’inizio condannato a rimanere intentato, sentimento

interno, nobile espansione che definisce il carattere del protagonista,

senza potere tuttavia incidere sul corso reale degli avvenimenti, pe-

na lo stravolgimento del canone che regola i componimenti misti.

L’esigenza di rifare l’atto in modo più conforme alla storia si-

gnifica quindi che Manzoni, inoltratosi nella scena i dell’Atto v,dove il disegno era di nuovo riproposto da Adelchi e persino appro-

vato da Desiderio, ritenne insostenibile, sul piano compositivo, as-

segnare tanto sviluppo a un motivo che doveva poi riuscire ininfluen-

te sull’esito dell’azione (per inciso, la caratterizzazione psicologica

di Adelchi e il contrasto con il padre trovano un sorprendente mo-

dello in una tragedia di Angelo Maria Ricci, l’Italiade, pubbli-

cata giusto nel 1819, opera nella quale la Becherucci ha ricono-

sciuto una fonte prossima dell’ispirazione manzoniana). L’atto

doveva pertanto essere riscritto con maggiore aderenza ai fatti sto-

rici o, se si vuole, eliminando quelle espansioni del carattere dei pro-

le vocazioni del «discorso» 27

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tagonisti che (pur legittime in quanto luogo dell’invenzione poeti-

ca) più di√cilmente avrebbero potuto essere raccordate, com’era ine-

ludibile, con la sequenza dei fatti storici, che costituiscono il bina-

rio lungo il quale scorre la tragedia.

La nota che castiga l’analoga scena ii dell’Atto i, «ommettere

tutta la parte cancellata non ben legata all’azione, né storica»,

esplicita precisamente questo pensiero: il difetto del proposito d’A-

delchi non era la sua mancanza di fondamento storico, trattandosi

appunto di moto d’animo lasciato alla creazione poetica, bensì la

sua sterilità rispetto al crescere dei fatti, il non potersi legare al-

l’azione, la quale doveva necessariamente procedere tenendo conto

di ciò che era storico.

Il rapporto fra esterno (fatti storici) e interno (intenzioni dei

personaggi) è ben esemplificato dal monologo di Adelchi che, nel-

l’Atto v definitivo (vv. 58-98), ci pare recuperi almeno in parte la

funzione della porzione soppressa. Com’è noto, la tradizione stori-

ca più attendibile (della quale è testimone, per esempio, un’episto-

la di Adriano a Carlomagno) voleva che Adelchi fosse riuscito a

fuggire da Verona prima della sua resa e avesse trovato rifugio a

Bisanzio, da dove preparò una spedizione per combattere i Franchi,

nella quale trovò infine la morte. Nella tragedia, il fatto storico

viene rappresentato adottando il punto di vista interno del perso-

naggio, assistendo al formarsi della sua deliberazione e passando

in rassegna le possibili azioni alternative, lungo una linea che, sem-

pre sul registro della nobiltà d’animo, conduce dall’orgoglio verso

l’altruismo. Dapprima Adelchi prende in considerazione l’idea di

una sortita che lo metta faccia a faccia con il nemico e con una

onorevole morte: «Più d’un compagno troverò, s’io grido:Ω/Ωusciam

costoro ad incontrar; mostriamoΩ/Ωche non è ver che a tutto i Lon-

gobardiΩ/Ωantepongon la vita; e… se non altro, morrem».

Da questo impetuoso proposito lo storna un primo moto di

altruismo, che s’esprime nello scrupolo di coinvolgere altri Longo-

bardi nella morte: «Che pensi?Ω/ΩNella tua rovinaΩ/Ωperchè quei

prodi strascinar? Se nullaΩ/Ωti resta a far quaggiù, non puoi tu soloΩ/

morir? Nol puoi?». Il pensiero della nobile morte solitaria sembra

sedurlo: «Sento che l’alma in questoΩ/Ωpensier riposa alfine: ei mi

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sorride,Ω/Ωcome l’amico che sul volto recaΩ/Ωuna lieta novella. Uscir

di questaΩ/Ωignobil calca che mi preme; il risoΩ/Ωnon veder del nemi-

co; e questo pesoΩ/Ωd’ira, di dubbio e di pietà, gittarlo!… / Tu,

brando mio, che del destino altruiΩ/Ωtante volte hai deciso, e tu, secu-

raΩ/Ωmano avvezza a trattarlo… e in un momentoΩ/Ωtutto è finito».

Improvvisamente si riscuote anche dal pensiero di immolarsi da

solo, avverte l’empietà del desiderio, in quanto ribellione ai disegni

preparati da Dio per l’uomo: «Ah sciagurato!Ω/ΩPerchè menti a te

stesso? Il mormorioΩ/Ωdi questi vermi ti stordisce; il soloΩ/Ωpensier

di starti a un vincitor dinanziΩ/Ωvince ogni tua virtù; l’ansia di

questaΩ/Ωora t’aπrange, e fa gridarti: è troppo!Ω/ΩE aπrontar Dio

potresti? e dirgli: io vengoΩ/Ωsenza aspettar che tu mi chiami; il

postoΩ/Ωche m’assegnasti, era di√cil troppo;Ω/Ωe l’ho deserto!».

Andare incontro alla morte sicura, fuggendo al proprio destino,

non è solo empio, significa anche togliere a chi rimane, al padre

prigioniero di Carlomagno, ogni pur tenue speranza di libertà e ri-

vincita: «per compagnia fino alla tomba, al padreΩ/Ωlasciar questa

memoria; il tuo supremoΩ/Ωdisperato sospir legargli! Al vento,Ω/

empio pensier. – L’animo tuo ripiglia, Adelchi; uom sii».

Solo a questo punto compare finalmente il fatto storico, la fuga

verso Costantinopoli, che era il punto d’arrivo ineludibile, quello

della realtà eπettuale, ma che compare finalmente illuminato nel suo

significato morale dalla riflessione che lo ha preceduto: «T’oπre un

asiloΩ/Ωil greco imperador. Sì; per sua boccaΩ/Ωte l’oπre Iddio: gra-

to l’accetta: il soloΩ/Ωsaggio partito, il solo degno è questo.Ω/ΩCon-

serva al padre la sua speme: ei possaΩ/Ωreduce almeno e vincitor so-

gnarti,Ω/Ωinfrangitor de’ ceppi suoi, non tintoΩ/Ωdel sangue sparso

disperando» (non è rilevante che poi, nell’eseguire il suo proposi-

to, Adelchi cada prigioniero dei Franchi: quest’infrazione – ne-

cessaria per allestire l’incontro supremo fra i tre caratteri, Adelchi

morente, Desiderio prigioniero e Carlomagno vincitore – è, infatti,

esplicitamente dichiarata da Manzoni nelle Notizie Storiche).Questo raccordo fra storia e invenzione, qui riuscito nei termini

ragionevoli d’un dilemma personale, dovette invece sembrare fallito

a Manzoni mentre componeva la scena ben più complessa del pia-

no d’Adelchi di unire Longobardi e Romani. Per il fatto di svol-

le vocazioni del «discorso» 29

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gersi non solo nel chiuso di un monologo, ma di coinvolgere e muo-

vere molti personaggi, senza potere tuttavia sfociare sul piano del-

la storia, questo disegno faticava a legarsi all’azione, che dalla sto-

ria, dai fatti eπettivamente accaduti, necessariamente dipendeva.

È bene a questo punto rientrare nei limiti stretti che il regola-

mento di confini o, meglio, di competenza impone a chi scrive. A

uscirne, per esprimere dubbi sulle ragioni della crisi dell’Adelchi,ha spinto la coerenza del Discorso, che non ammette facilmente

modifiche di uno o dell’altro dei suoi elementi costitutivi. Inoltre,

sia pure ridotte nella loro funzione, le tracce delle opinioni storiche

sottostanti alla prima stesura ricompaiono identiche sia nel secon-

do Adelchi, sia nel Discorso. Se questi dubbi appaiono fondati,

è bene lasciare ad altre competenze e sensibilità di approfondire le

ragioni poetiche che (in dialettica forse con l’evolversi della situa-

zione politica contemporanea, nel drammatico anno che vide sfiori-

re la speranza di insurrezione lombarda cui inneggia Marzo 1821)spinsero Manzoni a mettere la sordina sulla popolazione italica

sottomessa. Sia consentito solo, quasi a proteggersi dall’audacia

della sortita, porsi sotto lo scudo del Fauriel, che, nella Préfacedu traducteur all’edizione francese della tragedia, intendeva la

«couleur romanesque», lamentata da Manzoni nella lettera del 3

novembre dalla quale siamo partiti, precisamente come difetto di

legame con le azioni: «le caractère que M. Manzoni a donné à son

héros […] n’est pas en rapport avec ses actions, ni par conséquent

historiquement vrai». È la spiegazione che ci pare ancora la più

convincente.

8. Il Discorso vero e proprio abbraccia dunque i capitoli dal se-

condo al quinto, che si svolgono in una sequenza argomentativa fitta

e riconoscibile. I Longobardi e i Romani rimasero due popoli di-

stinti (cap. ii) u si pone perciò la questione del trattamento (cle-

mente oppure crudele) riservato ai RomaniΩu il silenzio delle fon-

ti sulla condizione degli indigeni non consente di farsene un’idea

precisa (anche se è di per sé stesso indizio di catastrofe)Ωu d’altra

parte (cap. iii), la concessione della legge romana non è un atto di

clemenza, e non è credibile la descrizione di Paolo Diacono d’un’età

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dell’oro (cap. iv), è anzi verosimile che i Romani fossero anga-

riatiΩu dunque i Papi che hanno causato la caduta della dinastia,

e con questo oπerto ai Romani una speranza di sollievo, sono enco-

miabili (cap. v).In questa struttura, il sesto e ultimo capitolo rappresenta un’e-

gressio, posta quasi a bilanciare simmetricamente il capitolo d’e-

sordio, appendice delle Notizie Storiche e quindi anch’esso sgan-

ciato dalla struttura portante del Discorso. Lo conferma l’assenza

dall’Abbozzo, in cui è annunciato, ma non svolto.

Il capitolo conclusivo s’interroga sulla «cagione generale della fa-

cile conquista di Carlo», cioè sulla causa profonda, e√ciente, essen-

do le altre, quali il tradimento di alcuni duchi, solo un epifenome-

no. La «libertà signorile» dei Longobardi ossia, vichianamente, la

struttura federativa del regno, la divisione in duchee senza solida

struttura centrale, rendeva il potere regio assai dipendente dalle qua-

lità personali del re, dalle sue azioni e dal suo carattere. Fu dunque

la personalità eccezionale di Carlomagno a fare la diπerenza: la sua

volontà «nel manifestarsi annunziava una determinazione, una ir-

removibilità, una profondità di pensiero e una passione tale, che le

altre s’accorgevano di non avere altrettanto da opporle». È la ra-

zionalizzazione dei diversi caratteri della tragedia: la monolitica

volontà di Carlo – che è stata a volte rimproverata a Manzoni co-

me un difetto artistico – era l’arma capace di vincere la sensibilità

romantica di Adelchi e il cieco orgoglio di Desiderio.

Anche in questo caso, la spiegazione era già nell’Histoire di Si-

smondi: «Charlemagne est un des plus grands caractères du moyen

âge […] En eπet Charlemagne éteignit en quelque sorte son siè-

cle; il parut seul sur la scène» (cap. i, pp. 34 e 38; nell’ed. Bruxel-

les 1838, il motivo, curiosamente, è amplificato: «il avait concentré

tous les intérêts de l’Europe sur un seul théâtre; il les avait fait dé-

pendre d’une seule volonté; il avait renfermé ses vaste projets dans

une seule tête, il avait accoutumé ses contemporains à attendre l’im-

pulsion qu’il leur donnerait, plutôt qu’à se combiner avec lui»).

In questo punto, oltre che in Sismondi, l’opinione di Manzoni

trovava corrispondenza in un altro dei libri che il Discorso sottende,

l’Esprit des lois di Montesquieu, nel cui libro xxxi, al cap. xviii

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che prende il nome da Carlomagno, si può leggere: «Charlemagne

[…] mit un tel tempérement dans les ordres de l’Etat, qu’ils

furent contrebalancés, et qu’il resta le maître. Tout fut uni par la

force de son génie» (ed. Parigi 1979, sull’ed. 1757).

Anche in questo caso, il giudizio storico prende forma in versi,

nelle orgogliose parole di Carlomagno: «al voler mioΩ/Ωogni voler

piegò; Francia non ebbeΩ/Ωpiù che un aπar; tutta si mosse» (Atto

ii, sc. 1, vv. 27-9) e in quelle meste di Adelchi: «ei che su un popol

regnaΩ/Ωd’un sol voler, saldo, gittato in uno,Ω/Ωsiccome il ferro del

suo brando; e in pugnoΩ/Ωcome il brando lo tiensi» (Atto iii, sc. 1,

vv. 49-52).

9. Proprio l’Esprit des lois dà modo di aπrontare un problema

importante per la comprensione del Discorso, poiché apre uno

spiraglio sulle letture che possono avere indirizzato Manzoni a

cercare nel Medioevo le origini della storia nazionale, senza voler

sottovalutare gli spiriti amici che, nei mesi parigini che precedono

l’inizio dell’Adelchi, lo confortarono nel suo orientamento, il

Fauriel e l’allievo Augustin Thierry, sull’influenza del quale

soprattutto si è appuntato lo sguardo, seguendo l’amplificazione che

Sainte-Beuve fece della lettera di Manzoni al Fauriel del 17 ottobre

1820, nella quale il giovane giornalista è rievocato intento a con-

sultare le cronache del Medioevo francese.

Il tema della conquista e della relazione fra invasori e indigeni

era, in eπetti, ben più antico dell’interesse che vi portavano i nuo-

vi storici liberali dell’età della Restaurazione o del breve dibattito

accesosi nel 1818 sul «Conciliatore». La discussione rimontava al

secolo anteriore (per tacere delle premesse nella Francogallia di

François Hotmann) ed è simboleggiata dall’Histoire de l’anciengouvernement de la France (1727) del conte Henri de Bou-

lainvilliers e dall’Histoire critique de l’établissement de lamonarchie française dans les Gaules (1734) dell’abate Jean-

Baptiste Dubos. Per Boulainvilliers, i privilegi della nobiltà sul

terzo stato si fondavano sulla vittoria dei Franchi e sulla sotto-

missione dei Gallo-Romani. Dubos replicava che i Franchi nel V

secolo non avevano invaso la Gallia, ma v’erano entrati come al-

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leati, non come nemici dei Romani: di conseguenza, la distinzione

fra nobili e roturiers non trovava legittimazione nella conquista,

ma era sorta quattro secoli più tardi, con il feudalesimo, lo smem-

bramento della sovranità e la trasformazione degli u√ci in signorie.

Il tema, e non solo per opera dei due eponimi, ebbe fortuna straor-

dinaria nel Settecento: Claude Nicolet, cui si deve una recente rein-

terpretazione del ruolo di germanesimo e romanità nell’ideologia

nazionale francese, ha censito ben settantacinque pubblicazioni sul

tema anteriori al 1800. Se la Rivoluzione, l’abbattimento della mo-

narchia e la scomparsa della nobiltà sembrarono mettere fine alla

materia stessa del contendere, il contenzioso riprese già nel 1804,

con l’opera commissionata da Napoleone al conte di Montlosier.

Dopo il 1815, con la Restaurazione, la polemica tornò ad infiam-

marsi, a sostegno di passioni politiche diametralmente opposte, del-

le pretese ultraaristocratiche e delle rivendicazioni del terzo stato.

È in questa cornice che si inquadra – e al tempo stesso si ridi-

mensiona la pur certa influenza che essa esercitò su Manzoni – l’o-

pera degli storici dottrinari, come Thierry e Guizot. Niente, in-

somma, era nuovo nel 1820.

S’aggiunga che, a diπerenza del Thierry, nella cui interpreta-

zione della storia nazionale l’elemento razziale riveste un ruolo rag-

guardevole, in Manzoni la contrapposizione fra Germani e Roma-

ni – per quanto possa sorprendere chi consideri la fortuna cui era

destinata – non compare in quanto tale o è marginale, poiché la

divisione sociale, seguìta all’invasione, è da lui ridotta a conse-

guenza della conquista in sé, quasi senza attribuirle coloritura di

scontro di civiltà o di etnia.

Per constatare la prossimità dell’ispirazione manzoniana con il

tema della conquista così come era stato impostato nel Settecento

francese, basti questo squarcio di una Dissertation di Boulainvil-

liers: «Il est certain que dans le droit commun tous les hommes sont

nés égaux; la violence a établi les distinctions de la liberté et de

l’esclavage, de la noblesse et de la roture. Mais quoique cette ori-

gine soit vicieuse, il y a si longtemps que l’usage en est établi dans

le monde qu’il a acquis la force d’une loi naturelle». La loi na-turelle di Boulainvilliers è al tempo stesso legge ‘fisica’ e diritto

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naturale, e richiama alla mente il famoso lamento d’Adelchi: «non

restaΩ/Ωche far torto, o patirlo. Una feroceΩ/Ωforza il mondo pos-

siede, e fa nomarsiΩ/Ωdritto» (Atto v, sc. viii, vv. 352-4).

Nella versione del 1847, il Discorso contiene del resto un rias-

sunto piuttosto dettagliato del trattato di Dubos, che fa pensare a

una conoscenza di prima mano. Nella prima versione, al posto di

questo compendio, si trova solo un accenno, il che giustifica una

diversa ipotesi.

Come ha mostrato Nicolet, la schematizzazione del dibattito e

il luogo comune storiografico di opporre i due systèmes di Bou-

lainvilliers e Dubos dipendono quasi esclusivamente dalla lettura

che ne diede Montesquieu, nella sesta e ultima parte dell’Espritdes lois (ed è significativo che uno dei primi scritti del Thierry

sia una lunga rilettura dell’Esprit, ospitata dal «Censeur euro-

péen» del 1818). Il termine «sistema», che nella prima edizione del

Discorso qualifica la teoria di Dubos, è la spia che anche la

conoscenza che Manzoni aveva del dibattito settecentesco dipendeva

da Montesquieu. Ma un’altra e curiosa criptocitazione è ancora

più rivelatrice del debito, anche stilistico, verso l’opera di Montes-

quieu e anche dell’attenzione con cui Manzoni aveva letto le pagine

aspre che il barone aveva dedicato proprio all’abate Dubos.

Al cap. xxv del libro xxx, dedicato per l’appunto alla nobles-se française (De l’Esprit des lois, ed. Parigi 1979, sull’ed.

1757), Montesquieu censura l’opinione di Dubos, secondo cui non

vi sarebbe stato che un solo ordine di cittadini fra i Franchi (il che

equivaleva a negare che i nobili potessero vantare la propria origi-

ne in quel popolo). Fra le prove male interpretate da Dubos, vi è

una notizia tratta da una vita di Ludovico il Pio (il terzo figlio

di Carlomagno e Ildegarda), in cui uno schiavo aπrancato, Ebone,

si lamenta d’essere stato reso solo libero e non nobile. La notizia

implica evidentemente che esistevano diπerenze di rango. Dubos non

s’arrendeva all’evidenza, supponendo che forse Ebone non era sta-

to schiavo fra i Franchi, ma presso un’altra gente che conosceva la

distinzione fra ordini, sconosciuta ai primi. Per prepararci al con-

fronto, leggiamo l’argomento di Dubos e il commento di Monte-

squieu: «“Peut-être aussi, ajoute-t-il [Dubos] encore, qu’Hébon

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n’avait point été esclave dans la nation des Francs, mais dans la

nation saxonne, ou dans une autre nation germanique, où les ci-

toyens étaient divisés en plusieurs ordres”. Donc, à cause du peut-être de M. l’abbé Dubos, il n’y aura point eu de noblesse dans la

nation des Francs. Mais il n’a jamais plus mal appliqué de peut-être» (di fatto – dimostra facilmente Montesquieu – dalla stessa

cronaca da cui era tratta la notizia risultava che Ebone era stato

schiavo dei Franchi).La medesima struttura espressiva ricorre nel cap. iii del Di-

scorso. Manzoni si pone a contestare un’opinione della Storiadella Letteratura di Tiraboschi: «“Dovevansi dunque essere,

dic’egli [Tiraboschi], e tribunali e giudici italiani, che agli Ita-

liani rendesser giustizia nelle cause che si oπerivano ad esamina-

re”. Non fu forse mai scritto un dunque tanto precipitato!».

Nel passaggio da un ‘forse’ a un ‘dunque’, la pagina di Man-

zoni ricalca quella di Montesquieu, persino nell’uso del corsivo. Su-

bito dopo, del resto, appone la firma, poiché il passo prosegue ci-

tando l’Esprit, questa volta esplicitamente: «e non si può leggerlo

senza maraviglia; poiché dopo la pubblicazione dello Spirito del-le Leggi, non pare che fosse lecito passare per dir così a canto,

senza avvertirlo, a quel fatto capitale delle dominazioni barbariche,

la riunione del poter militare e del giudiziario in un solo u√cio, e

nelle stesse persone».

Un legame intertestuale di tanta intensità conferma quanto fosse

presente a Manzoni il dibattito settecentesco, prima ancora che con-

temporaneo, sulle conseguenze dello stabilimento barbarico in Francia.

D’altra parte, questo rimando tenace, sotterraneo e poi dichia-

rato, all’Esprit des lois rivela la spiccata componente ‘filosofica’

del Discorso. Coincidenze ed eccentricità saranno da misurare te-

nendo conto d’un appunto autografo del Manzoni – che opportu-

namente Luca Badini Confalonieri ha riproposto di recente all’at-

tenzione – che avverte: «Nel secolo scorso cominciò la moda della

storia trattata filosoficamente […] Tutti gli scrittori più o meno

considerano le diverse epoche storiche dal punto di vista del secolo

decimottavo […] Montesquieu ha notato questo difetto (Liv. xxx)e quello che è più singolare è ch’egli stesso non ne è esente».

le vocazioni del «discorso» 35

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10. La forte curvatura polemica della prosa manzoniana, che in-

dirizza i suoi argomenti verso l’assoluzione (etica) del papato per

l’intervento che provocò la caduta del regno longobardo, e la

derivazione di alcuni di questi argomenti da opere della tradizio-

ne politica italiana e francese, di cui mantenevano il sapore,

predisponevano il Discorso a suscitare un vigoroso dibattito in cui

storiografia e ideologia sarebbero state più che mai interferenti. A

maggior ragione era inevitabile che ciò accadesse nel venticinquen-

nio che trascorse tra l’uscita della prima edizione e il 1847,

periodo nel quale era operante la tendenza alla politicizzazione di

ogni discussione culturale.

Le linee di questo dibattito, in cui la difesa manzoniana della

politica papale divenne bandiera del neoguelfismo, sono state più

volte ripercorse, secondo l’interpretazione proposta da De Sanctis e

fissata da Croce. Dopo gli studi definitivi di Falco e Tabacco sul-

la ‘questione longobarda’, si attende ora a riportarne alla luce le

sfumature, per esempio il contributo dell’erudizione subalpina. Non

ci soπermeremo perciò sui contenuti politici della rivisitazione man-

zoniana della vicenda longobarda e sulla sua ricezione ‘militante’.

Basti, qui, accennare che Manzoni non sembra sostenere, nell’A-delchi e nel Discorso, disegni temporalistici, ma piuttosto consi-

deri il ruolo secolare della Chiesa giustificabile solo dove non vi fos-

sero state alternative praticabili.

In questa sede interessa invece sottolineare che, raggiunto l’api-

ce negli anni Quaranta con la pubblicazione dell’opera di Carlo

Troya, Della condizione de’ Romani vinti da’ Longobardi(uscita a Napoli nel 1841 e ristampata a Milano nel 1844) e con

la seconda edizione del Discorso manzoniano, la discussione, pur

mantenendo molti dei suoi caratteri originari, abbandonò progres-

sivamente il terreno della storiografia politica, anzi militante – i

cui esponenti, da Manzoni a Balbo, da Capponi a Rezzonico, da

Troya a Bianchi Giovini erano anche a vario titolo honoratioresimplicati nelle vicende risorgimentali – per trasferirsi su quello più

pacato della storiografia giuridica (non senza importanti prosecu-

zioni nel contiguo campo della storia politica d’indirizzo economico-

giuridico di Carlo Cipolla e Gioacchino Volpe). Si può anzi dire

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che la questione longobarda abbia rappresentato forse il tema prin-

cipe intorno al quale, subito dopo l’Unità d’Italia, la storia del

diritto italiano a√nò i propri metodi e stabilì i propri compiti.

Il ponte di passaggio fra queste due fasi è senz’altro l’opera

giovanile di Francesco Schupfer, Delle istituzioni politichelongobardiche, del 1863. L’opera riepiloga con cristallina chia-

rezza il dibattito svoltosi in Italia e in Germania nei quarant’an-

ni trascorsi dalla pubblicazione del Discorso, depurandolo tuttavia

dalle sue scorie ideologiche (non dalla contrapposizione fra roma-

nità e germanesimo, assurta anzi a principio dominante). Schupfer

conclude che i Romani, sotto i Longobardi, erano esclusi dal governo

e dai diritti politici; conservavano tuttavia la libertà e la proprietà,

e applicavano il diritto romano nella famiglia e nei rapporti pa-

trimoniali fra loro; i municipi erano altresì estinti come comunità

sovrane, ma mantenevano vestigia delle pristine istituzioni, ridotte

alle funzioni amministrative.

Da allora in poi, le istituzioni longobarde rimasero a lungo te-

ma elettivo della storia del diritto italiano, ormai fattasi discipli-

na accademica. A raccomandarlo come tale era il fatto di costitui-

re terreno comune fra la storia italiana e quella tedesca: era perciò

l’interfaccia ideale per la ricezione in Italia dei metodi elaborati

dalla scuola giuridica germanistica, cui la neonata scuola italiana

cercava di adeguarsi, superando l’esperienza dei trattati di storia

della legislazione, tributari del metodo sociologico di Vico e Gian-

none. La doppia appartenenza, italiana e tedesca, del tema longo-

bardo era rispecchiata dalla vicenda personale di Schupfer, che era

nato in Veneto nel 1833 come suddito dell’Impero e aveva compiu-

to i suoi studi a Innsbruck. Era stato dunque formato dai giuristi

tedeschi che, nel solco tracciato da Eichorn, andavano cercando nel

primo Medioevo le ragioni dell’originalità del diritto tedesco e le

premesse per la sua vitalità anche dopo la ricezione in Germania

del diritto romano come ius commune. La ricezione, ai loro oc-

chi, si legittimava proprio perché in precedenza, nel Medioevo bar-

barico, il diritto germanico era stato a sua volta recepito in Italia

e aveva quindi potuto influire più tardi sulla rielaborazione dotta

del diritto romano che, a partire dall’XI secolo, le università ita-

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liane avevano restituito all’Europa. Uno schema, come suggerisce

Emanuele Conte, che, dopo il superamento del dualismo germanesi-

mo vs romanità, a√ora ancora oggi nella polarità prassi vs teoria.

Se Schupfer era dunque in posizione privilegiata per operare

quest’avvicinamento, le condizioni perché si realizzasse erano sta-

te preparate dal Discorso. Come l’impulso dapprima fornito alla

discussione ideologica in Italia scaturiva dalla struttura polemica

del Discorso, così la sua vocazione a favorire dopo l’Unità la

nascita della storia giuridica era iscritta nella forte componente

giuridica, emersa più volte nel corso dell’analisi. Non a caso, nel

presentare i risultati principali della discussione, Schupfer ripro-

duce testualmente intere pagine del Discorso, di cui certifica così

la piena validità sotto il profilo tecnico-giuridico.

11. Sarebbe, del resto, un errore assumere come indizio di isolamento

dalle correnti più vive della cultura giuridica coeva la mancata

conoscenza da parte di Manzoni, nel 1822, della Geschichte desrömischen Rechts im Mittelalter di Friedrich Carl von Savi-

gny, il principale ispiratore del rinnovamento (neoclassico e) roman-

tico della scienza giuridica tedesca. I primi due volumi (relativi

all’alto Medioevo) erano usciti ad Heidelberg nel 1815 e nel 1816.

L’opera intendeva porre come base della storia del diritto civile lo

studio della condizione giuridica dei Romani negli Stati sorti dopo

la caduta dell’impero Romano occidentale, ossia innanzitutto lo

studio «delle sorti loro generali e della proprietà fondiaria; poi e

principalmente quello del politico ordinamento sotto cui vivevano»,

quindi gli stessi argomenti del Discorso, di cui condivide persino

l’ispirazione. «Nulla è più attraente – dichiarava Savigny – nella

storia dell’uman genere di quei periodi in cui le forze e attitudini

di nazioni diverse si fondono e creano per così dire nuove forme

diΩ vita […] Ma se il modo e le ragioni di questa mescolanza

sono ancor poco studiate, l’esito felice d’ogni simile indagine dee

necessariamente essere fecondo di utili insegnamenti» (trad. it. di

Emanuele Bollati).

La lacuna, di cui Manzoni fece contrita ammenda nella riedizio-

ne del 1847, trova in realtà corrispondenza (e giustificazione) nella

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cronologia della diπusione della Geschichte di Savigny fra il pub-

blico colto italiano (documentata specialmente da Laura Moscati).

Benché non fossero mancati precoci contatti fra il Savigny e alcu-

ni intellettuali italiani, cui s’era rivolto per documenti d’archivio

e informazioni bibliografiche a servizio della redazione dell’opera,

notizia e fama della Geschichte cominciarono seriamente a diπon-

dersi solo alla fine degli anni Venti e nel decennio successivo. Prin-

cipale incentivo alla lettura fu una serie di articoli pubblicata

sull’«Antologia» di Vieusseux, fra il 1828 e il 1832, dal giovane

giurista Pietro Capei, il più stretto referente toscano del Savigny

(al quale, di rimando, faceva notare l’assenza del Giannone fra i

suoi autori). È per questo tramite che della Geschichte ebbero no-

tizia, per esempio, Mazzini e Troya. Sull’altro fronte, sempre nel

1828, si interessò a promuoverne una traduzione in italiano Anto-

nio Salvotti, l’inquisitore dei processi del Ventuno, che di Savigny

era stato allievo a Landshut. L’incarico, infine disatteso, fu dato

proprio a Paride Zajotti, un’altra figura che variamente incrocia

il cammino di Manzoni e nella quale si riconosce («oggi che l’in-

terdizione risorgimentale è prescritta», celiò Dionisotti) uno dei

maggiori critici letterari del suo tempo. Per tacere del suo ruolo di

inquisitore, il suo intervento sui Promessi sposi, che esprime elo-

gi per l’autore e riserve sul genere, costituisce il contributo forse

più significativo al dibattito sul romanzo storico che attraversò il

mondo letterario italiano intorno al 1830.

Va detto, tuttavia, che il primo incontro documentato fra Man-

zoni e Savigny fu un incontro personale e precedette la divulgazione

letteraria della Geschichte in Italia. Avvenne in casa Vieusseux,

nel settembre 1827, proprio il mese in cui la «Biblioteca italiana»

pubblicava la prima puntata della recensione di Zajotti al romanzo.

A Firenze, Savigny era di sosta durante il suo secondo viaggio per

le Università italiane, mentre Manzoni, preceduto dal successo

strepitoso della Ventisettana, pubblicata in giugno, vi era arrivato

a fine agosto, e di qui scriveva a Grossi dei «settantun lenzuolo da

risciaquare, e un’acqua come Arno» (Lettere, 265). In quei gior-

ni, anche Leopardi ebbe modo di incontrare il giurista tedesco e di

giudicarlo «tanto buono quanto dotto e grande».

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Il ritardo manifestato da Manzoni nel 1822 rispetto alla nuova

scuola storica tedesca, di cui è simbolo la mancata citazione della

Geschichte, era dunque il ritardo dell’intera cultura giuridica ita-liana, invischiata nella transizione dal diritto comune alle nuove

codificazioni, in una fase di passaggio, che il continuo rivolgimen-

to di sovranità e dominazioni e quindi di ordinamenti giuridici, ren-

deva sussultoria e ancora più estenuante. È la situazione d’arre-

tratezza che lo stesso Savigny andava riscontrando nei suoi viaggi

per le Università italiane. L’incontro del 1827 con Savigny, pro-

piziato da Giovanni Piero Vieusseux, ci mostra semmai un Man-

zoni all’avanguardia nella cerchia di intellettuali che s’accingeva

a rendere nota la Geschichte al pubblico italiano.

Quando Manzoni si volse a rivedere il Discorso, intorno al 1845,l’influenza della Storia di Savigny sulla cultura italiana era un

fatto acquisito. Fra il 1844 e il ’45, l’opera di Savigny usciva a

Firenze in versione italiana, condotta sulla traduzione (parziale)

francese. Nel 1849, la serie degli articoli di ragguaglio pubblicati

da Capei erano riuniti in un Compendio. Dieci anni più tardi,

fra il 1854 e il 1857, usciva la traduzione integrale di Emanuele

Bollati, che tiene conto nelle note del dibattito suscitato da Manzoni

e oπre in appendice un ampio saggio di Johannes Merkel sul diritto

longobardo (che esamina specialmente la scuola lombardista pavese).

L’influenza dell’opera è, per ammissione dello stesso Manzoni,

tuttavia pressoché nulla anche sulla nuova edizione del Discorso:una nota al capitolo iii avverte che dopo la lettura della «dotta e

insigne Storia del Diritto romano nel medio evo del Signor

De Savigny» tutto ciò che gli parve di poter fare fu di riprodurre

il capitolo «il meno corretto, come il più incorreggibile».

La elegante fin de non recevoir non deve fare perdere di vista

due cose.

Innanzitutto, che con essa il Manzoni difendeva il merito di ave-

re autonomamente approfondito, nella prima edizione, il senso del-

la sopravvivenza del diritto romano sotto la dominazione longobar-

da, quando quel senso gli sembrava non fosse stato ancora

«proposto, né cercato». Il capitolo, lasciato inalterato, rimaneva in-

somma a rivendicare il primato.

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Inoltre, pur senza scendere in lizza con il nome di Savigny, la

seconda edizione, a ben vedere, contiene ugualmente una lunga con-

futazione della teoria savigniana sulla continuazione dei municipi

romani sotto il governo longobardo. Questa teoria, infatti, era sta-

ta sostenuta nel 1830 dal Romagnosi, che l’aveva ripresa proprio

dalla Geschichte (nel 1823 era stata proposta anche dal Pa-

gnoncelli, che vi era tuttavia giunto indipendentemente dalla Ge-schichte, di cui dichiara di conoscere solo un ristretto apparso su

una rivista ginevrina: menzione, questa, dell’opera savignana che

dovrebbe annoverarsi fra le più precoci nella nostra letteratura). La

lunga Appendice aggiunta nel 1847 al terzo capitolo del Discor-so, in cui Manzoni confuta le ragioni portate dal Romagnosi nel

trattato Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento per dimo-

strare che, sotto i Longobardi, gli Italiani conservarono i loro mu-

nicipi ed ebbero giudici della loro nazione – la cui importanza ha

attratto per altri versi l’attenzione di Donato Valli – può dunque

considerarsi anche una critica indiretta al libro di Savigny, a cui

Romagnosi si rifaceva.

Va aggiunto, per chiarire il rapporto fra le tesi del Discorso e

quelle della Geschichte, che se divergono nel punto fondamentale

(i Romani furono probabilmente schiavi per Manzoni, liberi per

Savigny) e per quanto riguarda la continuità della costituzione mu-

nicipale (interrotta dall’invasione secondo Manzoni, conservata se-

condo Savigny), esse sono molto vicine nell’aπermare la sopravvi-

venza del diritto romano, su cui verteva quel capitolo terzo del

Discorso, che Manzoni lasciò inalterato.

Entrambi gli scrittori traevano dalle leggi longobarde, in parti-

colare da Liut. 91 e 127, la prova che gli indigeni continuarono a

vivere secondo il diritto romano. Naturalmente, questa facoltà si ad-

dice meglio a individui lasciati liberi e titolari di un patrimonio, co-

me Savigny riteneva fossero i Romani, piuttosto che a degli schia-

vi, come Manzoni sospettava fossero stati resi. S’è già avuto modo

di osservare, tuttavia, che, grazie alla struttura argomentativa del

Discorso, questa contraddizione non deflagra: infatti, la facoltà di

vivere secondo il proprio diritto vi è esaminata in negativo, per smen-

tire che la concessione fosse da ascrivere alla «bontà morale» dei

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Longobardi, trattandosi invece, secondo Manzoni, di un riflesso del-

l’indiπerenza, mai mutata, degli invasori per la sorte dei vinti.

Se in questo punto il Discorso si salva solo per virtù dialetti-

ca, altrove bisogna riconoscere che Manzoni si dimostra, invece,

persino più sagace dell’illustre giurista in questo confronto a di-

stanza. I dubbi che Manzoni esprimeva sulla pertinenza italiana

della Lex Romana Utinensis, che Savigny adduceva come pro-

va regina della continuazione della municipalità romana sotto i

Longobardi, sono stati infatti confermati dalla scoperta di altri ma-

noscritti, che accreditano l’ipotesi della provenienza del testo dalla

Rezia, l’odierno cantone dei Grigioni, tant’è che oggi si preferisce

chiamarla Lex Romana Curiensis.In definitiva, anche a paragone della Geschichte di Savigny,

rispetto alla quale nasce indipendente, il Discorso mostra un do-

minio dei fenomeni giuridici più che adeguato se commisurato alle

condizioni della coeva cultura italiana, che erano invece, in gene-

rale, piuttosto arretrate. Sono proprio tali condizioni culturali che

resero più facile accogliere dapprima la vocazione ideologica del Di-scorso, la cui forte carica giuridica, tuttavia, dissodava al con-

tempo anche il terreno per la rinascita, dopo l’Unità, degli studi

di diritto, di cui l’opera di Schupfer fu l’araldo.

12. Lungo la linea di studio avviata da Schupfer, si succedettero

alcune delle personalità che hanno illustrato la storia del diritto

italiano: alla fine dell’Ottocento, Pasquale Del Giudice, Nino Ta-

massia, Francesco Brandileone, Augusto Gaudenzi; nel Novecen-

to, Enrico Besta, Pier Silverio Leicht, Guido Astuti, Gian Piero

Bognetti, Adriano Cavanna, per ricordarne solo alcune. Nel corso

del XX secolo il baricentro dell’italianistica si è, tuttavia, sposta-

to progressivamente verso la modernità e ora sotto la lente è sem-

mai l’estremo opposto della storia giuridica nazionale, l’età dei Co-

dici. In un certo senso, come a metà del XIX secolo la figura di

Schupfer simboleggia la ricezione della questione longobarda come

tema all’ordine del giorno per i giuristi, così a metà del XX quel-

la di Gian Piero Bognetti incarna la riconsegna dell’età longo-

barda alla medievistica.

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È una disciplina, quest’ultima, ovviamente ben lontana dall’e-

rudizione risorgimentale screziata di ideologia. Dotatasi di nuove

categorie antropologiche, capace di approfondire fonti e intenzioni

della tradizione scritta sul regno longobardo, attenta alle compo-

nenti religiose e culturali dell’identità dei popoli in migrazione, e

soprattutto disposta a includere nelle fonti l’evidenza archeologica

e le testimonianze artistiche, la medievistica odierna ha superato lo

schematismo unità/divisione sotto cui era impostata la questione

longobarda nel XIX secolo.

Il metodo etno-sociologico ha infranto la base scientifica del mi-

to moderno del conflitto fra Romani e Germani quale origine delle

nazioni occidentali e tolto fiato alle strumentalizzazioni, anche in

chiave razzista, cui quel mito s’è talvolta prestato. In chiave di

«etnogenesi», il concetto di civiltà longobarda (e a maggior ragio-

ne germanica) appare oggi da scomporre in uno spettro di compo-

nenti, alcune delle quali oltretutto di provenienza bizantina e as-

sorbite dai Longobardi durante la stanza pannonica in qualità di

federati dell’Impero. Portate in Italia dagli invasori, queste carat-

teristiche si sono legate a quelle del (di per sé variegato) sostrato

indigeno romanico e agli influssi provenienti dal circuito mediter-

raneo. L’identità dell’Italia altomedievale ha origine dall’incontro,

su un piede di pari dignità, di questi fattori.

Che durante i due secoli del regno longobardo si siano verificati

fenomeni di intensa acculturazione fra invasori e sostrato indigeno

è evidente a livello linguistico, e della cultura giuridica e artistica.

I fenomeni sono noti: i Longobardi assunsero il latino come lin-

gua, almeno a partire dall’VIII secolo; la legislazione longobar-

da, pur essendo rielaborazione delle cawarfide tribali, lascia tra-

pelare la conoscenza e il riuso di fonti giuridiche romane, oltre che

di altre genti germaniche; l’architettura assorbì influenze anche

orientali. Sul piano religioso, i Longobardi, come si sa, abbando-

narono il paganesimo e, ripudiando prima l’arianesimo e poi

l’eresia dei Tre Capitoli, si convertirono al cristianesimo della

Chiesa di Roma: il sinodo pavese in cui fu respinta la dottrina tri-

capitolina è del 698, dunque poco più di un secolo dopo l’ingresso

dei Longobardi in Italia, in tempo per spiegare molti eπetti. È no-

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to che la maggior parte dei monasteri di origine anteriore al Mil-

le è di fondazione longobarda.

L’acculturazione non fu comunque a senso unico, del tipo Grae-cia capta ferum victorem cepit. L’onomastica segnala l’inte-

grazione reciproca e dai documenti privati è impossibile distingue-

re l’etnia solo in base ai nomi. Nemmeno i materiali di corredo

sembrano più oπrire un criterio sicuro di identificazione etnica de-

gli inumati.

In questo quadro interculturale, si ritiene oggi – per venire a un

punto particolarmente sensibile – che i Romani fossero stati inclu-

si come arimanni nell’esercito longobardo almeno dall’età di Liut-

prando e forse già alla fine del VII secolo, durante il regno di

Cuniperto. Non occorre sottolineare le implicazioni dirompenti di

un simile fenomeno. Il regno dei Longobardi in Italia fu «una ge-

rarchia militare capillarmente distribuita sul territorio» – per usare

la formula proposta da Giovanni Tabacco nel saggio fondamentale

sugli ‘esercitali’ – e questa caratteristica impronta di sé tutte le

manifestazioni del regno. L’editto di Rotari, e le altre leggi, ad

esempio, furono emesse in un’assemblea generale dell’esercito (il che

non stupirà peraltro chi ricordi che la principale assemblea politica

della Roma repubblicana, che votava leggi ed eleggeva magistrati,

ossia il comizio centuriato, era precisamente l’exercitus). L’in-

gresso degli indigeni fra gli armati implicherebbe una trasformazio-

ne profonda dell’ordine sociale e il superamento della fase che vede-

va i Longobardi come popolo armato e dominatore sul suolo italico.

Lo «splendido sogno giovanil» di Adelchi, chiamare appunto i

Romani alle armi per fare fronte comune con i Longobardi contro

i Franchi, sarebbe dunque stato realizzato dalla storia, e quasi un

secolo prima della fine del Regno. Eccoci così tornati al paradosso,

da cui abbiamo preso l’avvio, della storia che supera la poesia.

Ai nostri fini, non occorre discutere se l’assimilazione dei Ro-

mani agli arimanni sia realmente avvenuta (ipotesi che dipende in

buona parte da una discutibile interpretazione in senso territoriale

delle leggi di Astolfo del 750: Ai. 2-3). È su√ciente ammettere

che l’impostazione manzoniana si precludeva a priori di ricono-

scere le metamorfosi subite dalla società romano-barbarica per eπet-

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to del prolungato contatto fra invasori e vinti, specialmente all’in-

terno delle città, come l’archeologia urbana tende oggi a dimostrare.

Proprio per il fine dimostrativo che si prefiggeva, valutare

l’operato dei Papi nel periodo dell’ultima dinastia longobarda, il

Discorso tende infatti a rendere inerte il fattore tempo. Le condi-

zioni della conquista non mutano nell’arco dei due secoli di stan-

ziamento e non conoscono miglioramento. Questa sottrazione alla

storia del suo movimento (che getta «quasi una maledizione di ste-

rilità», se è consentito servirsi di queste parole contro il loro autore)

è esplicitamente teorizzata da Manzoni fin dal primo momento in

cui espose al Fauriel il proprio progetto, nell’ottobre del 1820

(Carteggio Manzoni-Fauriel, 63): «je trouve que depuis Ma-

chiavel jusqu’à Denina et après, tous s’accordent à régarder les

Lombards comme des Italiens, et ce là par l’excellente raison que

leur établissement en Italie a duré plus de deux siècle. Les Turcs

à ce compte doivent être bien Grecs», argomento per assurdo ripreso

alla lettera nel secondo capitolo del Discorso, con il quale viene

accantonata la multiforme acculturazione prodotta invece in quei

secoli (e almeno in parte già discernibile al tempo di Manzoni).

13. Di fronte alle nuove categorie interpretative, la qualificazione

giuridica dei fenomeni sembra essere giudicata oggi poco proficua.

Proprio per la sua natura prescrittiva, la legislazione tende a proiet-

tare un’immagine schematica della società, che non garantisce di

riflettere le nuance del sostrato sociale. Non stupisce, perciò, che la

medievistica odierna di√di delle possibili schematizzazioni. In que-

sto cambio di paradigma, si misura la distanza rispetto al Discorsodi Manzoni, che invece inquadrava il rapporto fra Longobardi e

Romani impiegando quasi esclusivamente le categorie del diritto. Il

saggio manzoniano sembrerebbe dunque avere esaurito la propria

vocazione ad alimentare il processo storiografico.

In realtà, il ricorso alla qualificazione giuridica in funzione del-

la comprensione del passato continua ad essere necessario. Il dirit-

to (nel nostro caso il diritto longobardo), infatti, descrive i feno-

meni secondo categorie proprie della società che esso ordina. Questa

funzione di autorappresentazione è ben nota e non conviene insi-

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stervi. Vale la pena però di ricordare che uno fra gli studiosi odierni

dell’età longobarda più sensibili al problema giuridico ha supposto

che la rimozione del passato longobardo, che si riscontra nella

memoria municipale e nazionale, sia da ricollegare, in misura

rilevante, al prevalere del diritto romano su quello longobardo nel

corso del XII secolo. «Il diritto longobardo – scrive Stefano Gaspar-

ri nel saggio su oblio e memoria – aveva rappresentato il canale

attraverso il quale la tradizione civile del regno e della sua popo-

lazione libera si era perpetuata attraverso i secoli, in età carolin-

gia e postcarolingia». Questa spiegazione presuppone l’importan-

za fondamentale del diritto nella costruzione e nella conservazione

di un’identità, dal punto di vista stesso della società coeva.

Posta questa premessa, sarebbe fuori luogo inoltrarsi in percorsi

di revisione. È bene tuttavia accennare a qualche testo e problema,

che possa se non altro suggerire l’attualità dell’impostazione man-

zoniana, che consiste proprio nell’additare l’importanza del dirit-

to come strumento di analisi storica.

Fra gli argomenti da sempre addotti a favore dell’integrazione

fra Longobardi e Romani vi sono i matrimoni misti, quale fenomeno

che può, nel tempo, aver prodotto una fusione etnica. Manzoni trova-

va quest’argomento in Muratori e lo confutava con un ragionamen-

to giuridico incontrovertibile: «Quell’egregio scrittore non si ram-

mentò che, in quelle stesse leggi longobardiche che furono ristampate

e commentate da lui, sta scritto: “Se un Romano avrà sposato una

Longobarda […], questa è diventata romana, e i figli che nasce-

ranno da un tal matrimonio, siano romani, e seguano la legge del

padre”. Sicchè questo fatto non serve ad altro che a somministrarci

una testimonianza della separazione de’ due popoli» (cap. 2).La norma cui allude Manzoni è la legge 127, emessa da Liut-

prando nel diciannovesimo anno di regno, ossia nel 731. Poiché, ol-

tre al precetto, è importante la sua lettera, conviene riprodurla: «Si

quis romanus homo mulierem langobardam tolerit, et mundium ex

ea fecerit, et post eius decessum ad alium ambolaverit maritum sine

volontatem heredum prioris mariti, faida et anagrip non requira-

tur. quia posteûs romanum maritum se copolavit, et ipse ex ea mun-

dio fecit, romana eπecta est, et filii, qui de eo matrimonio nascun-

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tur, secundum legem patris romani fiunt et legem patris vivunt;

ideo faida et anagrip menime conponere devit, qui eam postea to-

lit, sicut nec de alia romana» (ossia: se un Romano avrà sposato

una Longobarda e ne avrà acquistato il mundio e dopo la morte di

lui ella sarà passata ad un nuovo matrimonio senza l’assenso de-

gli eredi del primo marito, non è dovuta [la composizione per]la faida e per l’unione illecita. Infatti, essendosi unita in coniugio

con un marito romano, e avendo costui acquistato il mundio, è di-

ventata romana e i figli che nascono da un tal matrimonio, secon-

do la legge del padre sono romani, e vivono secondo la legge del pa-

dre; perciò chi l’ha presa successivamente in moglie non deve

assolutamente pagare per la faida e l’unione illecita, così come non

dovrebbe se sposasse un’altra romana).

Il senso è chiaro. La vedova, secondo l’editto di Rotari (188),

poteva risposarsi solo con il consenso degli eredi del primo marito

(in specie, i figli); altrimenti, l’unione era illecita e il secondo

marito sarebbe stato esposto alla vendetta dei parenti, cui poteva

sottrarsi con la composizione pecuniaria.

Rispetto alla norma generale posta da Rotari, il caso aπronta-

to da Liutprando presentava una particolarità: in primo matrimo-

nio, la donna s’era unita a un Romano. Il connubio e l’acquisto

del mundio, chiarisce Liutprando, l’hanno resa Romana e pure i

figli legittimi seguono la cittadinanza del padre e vivono secondo il

diritto romano. Ecco perché non si applica la norma del diritto di

famiglia longobardo.

Questa disposizione, oltre che per il suo contenuto, è eloquente

per la sua forma. A diπerenza di quanto spesso si ritiene, il suo

carattere non è innovativo. Si tratta, come la semplice lettura di-

mostra meglio di qualunque parafrasi, di una norma emessa per eli-

minare un dubbio sorto su una questione molto specifica. Del resto,

per loro natura, le integrazioni che i re successivi apportano all’e-

ditto di Rotari sono spesso suscitate dall’esigenza di chiarire dub-

bi applicativi (come i prologhi non mancano di protestare).

Due sono le implicazioni fondamentali. Innanzitutto, che al tem-

po di Liutprando permaneva una precisa distinzione fra nazioni,

su base giuridica. In secondo luogo, che la vigenza del diritto ro-

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mano non è posta, bensì presupposta dalla norma di Liutprando.

La coesistenza parallela dei due ordinamenti risaliva ai re suoi pre-

decessori, e quindi a Rotari, e si era trasmessa formalmente im-

mutata a lui, che, nel risolvere un caso singolo, la dà per scontata.

Questo significa che, quand’anche vi fossero stati numerosi

matrimoni misti – la dimensione del fenomeno, per inciso, è scono-

sciuta: un inconveniente non trascurabile per qualunque ricostru-

zione che aspiri ad essere realistica – essi avrebbero avuto

certamente l’eπetto di mettere in comune il corredo genetico delle

due popolazioni (che, in entrambi i casi, era già di per sé molto

variegato). Questo sul piano della natura. Dal punto di vista del-

l’identità culturale, tuttavia, il diritto manteneva una precisa di-

stinzione; i figli seguivano la condizione giuridica del padre. Dun-

que i figli erano qualificati o come Longobardi o come Romani, con

una qualificazione alternativa, che ovviamente prescindeva dal

crossing over biologico (o dai reciproci scambi culturali). Per con-

verso, la distinzione formale operava come fattore di conservazione

delle rispettive identità culturali. Basti ricordare – come trapela

anche dalla norma di Liutprando – che il diritto determinava la

struttura stessa della famiglia, oltre a regolare l’accesso al potere

politico. Passando dalle dichiarazioni di principio alla realtà, una

nota carta piacentina del 758 (CDL, ii 130) conserva il ricordo

di una certa Gunderada, honesta femina, donna di rango, che di-

chiara esplicitamente d’essere Romana mulier. La carta – il cui

contenuto non è immune da contaminazioni con la prassi longobar-

da – non attesta solo la persistente distinzione etnica, ma sembra

confermare anche il principio espresso da Liut. 127. Se i nomi dei

protagonisti – pur con tutte le cautele – raccontano qualcosa, è pro-

babile che sia stato il matrimonio con Domninus a trasformare

Gunderada in Romana.La discussione, naturalmente, porterebbe troppo lontano e do-

vrebbe del resto coinvolgere lo stesso versante giuridico, poiché an-

che fra gli storici del diritto non v’è identità di vedute su una que-

stione fondamentale, se l’editto longobardo fosse divenuto (almeno

a partire da Liutprando) territoriale (l’argomento a favore della

territorialità dedotto a contrario dall’espressione «si quis Lango-

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bardus», che ricorre solo in alcune norme di Liutprando, così che

le altre sarebbero destinate a Longobardi e Romani, ci pare peral-

tro assolutamente reversibile). Le due posizioni sono entrambe vi-

tali, tanto da essere ancora accolte in autorevoli ricostruzioni d’in-

sieme, come quelle di Antonio Padoa Schioppa e di Ennio Cortese.

Resta, tuttavia, che in linea di principio la distinzione è nitida,

così come l’aveva vista Manzoni.

Sia consentito, per concludere, menzionare una celebre charta do-nationis, da cui risulta che la distinzione su base giuridica non fos-se solo un principio legislativo, ma trovasse rispondenza nella realtà.

Il 6 dicembre 767, in Vico Bisbetuni, otto persone, un subdia-

cono e sette laici, donarono ad Anselperga – l’Ansberga manzo-

niana, figlia di Desiderio e sorella d’Ermengarda, moglie di Car-

lomagno poi ripudiata – abbadessa del monastero di S. Salvatore

a Brescia («que domnus Desiderius rex a fundamenti edificauet»)

una porzione di terreno (altri interpretano i diritti di pesca) in Rio

Torto, nel modenese (CDL, ii 212). Uno degli otto donanti, Be-

nenato figlio di Stefano, nella sottoscrizione fa annotare: «iuxta le-

ge sua Langobardorum recepit launechit manetia par uno», ossia

dà atto di aver ricevuto il ‘corrispettivo’ simbolico che era necessa-

rio per la validità della donazione (non rileva qui che, secondo Liut.

73, le donazioni pro anima alla chiesa, ai luoghi santi e xeno-

dochi fossero eccezionalmente ritenute irrevocabili anche senza lau-nigild o thingatio).

Se ne ricava, perciò, che gli altri sette donanti – che non men-

zionano il launigild né dichiarano di vivere secondo la legge lon-

gobarda – non fossero Longobardi e che vivessero secondo una di-

versa lex, ossia il diritto romano, il che è avvalorato dal fatto che

la donazione contiene una clausola di irrevocabilità di tradizione

romana (che il solo a dichiarare la propria appartenenza sia il

Longobardo non è da interpretare come un riflesso di superiorità:

corrisponde al fatto che, degli otto, egli fosse l’unico che, secondo

il proprio diritto, era tenuto a un comportamento aggiuntivo – dare

ricevuta del launigild – per conferire validità alla donazione).

Ecco attestata, al tempo di Adelchi, la persistente distinzione, su

base giuridica, degli invasori e dei vinti.

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Che poi Romani e Longobardi, in Vico Bisbetuni, appaiano

coinvolti in un atto di beneficenza e aπratellati da un’unica fede,

è una di quelle constatazioni che raccomandano di congiungere lo

studio (indispensabile) del diritto a quello (altrettanto necessario)

della società, se si vuole raggiungere una comprensione integrale del-

l’età longobarda.

14. Il tentativo di scomporre le parti del Discorso, di indicarne

alcune fonti d’ispirazione prossime o mediate, di ribadirne il valo-

re per la comprensione della storia letteraria dell’Adelchi, di sug-

gerirne la duplice, duratura vocazione ad alimentare la storiografia

politico-ideologica e quella giuridica, aveva un solo intento: quello

di invitare alla lettura di un testo che, proprio per il contenuto tec-

nico e per i suoi presupposti, può opporre qualche resistenza, che

vale però la pena di vincere. Ogni lettore potrà sperimentare, in-

fatti, che, prima d’ogni altro insegnamento, il Discorso oπre l’e-

sempio di come una seria indagine storiografica si concilî con la

grazia dell’espressione.

nota bibliografica

Sono qui elencate, in ordine alfabetico, le opere citate nella Pre-messa, ripartite per argomento. In relazione ai temi di interessestoriografico ancora attuale, sono aggiunti, in ordine cronologi-co, alcuni titoli per un primo orientamento bibliografico.

edizioni

Per la prima stesura dell’Adelchi, il testo di riferimento è: Adel-chi, edizione critica a cura di I. Becherucci, Firenze, Accademiadella Crusca, 1998 (Adelchi 1998). Per l’edizione definitiva, del1847: Poesie e tragedie, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, Mila-no, Mondadori, 1957, in Tutte le opere, vol. i.

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Per le lettere di Manzoni: Tutte le lettere, a cura di C. Arieti. Conun’aggiunta di lettere inedite o disperse, a cura di D. Isella, Mi-lano, Adelphi, 1986, voll. 3 (Lettere, seguìto dal numero della let-tera). In particolare, per il carteggio con Fauriel: Carteggio Ales-sandro Manzoni - Claude Fauriel, a cura di I. Botta. Premessa di E.Raimondi, Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2000.Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di Alessandro Man-zoni, vol. 27 (Carteggio Manzoni-Fauriel).

Le leggi longobarde sono citate secondo l’editio minor riveduta,Edictus ceteraeque Langobardorum leges cum constitutionibus et pactis prin-cipum Beneventanorum ex maiore editione monumentis Germaniae insertacorrectiores recudi curavit Fridericus Bluhme, Hanoverae, impensisBibliopolii Hahniani, 1869 (Ai. = Astolfo; Liut. = Liutprando,seguìti dal numero della legge). Per una trad. it.: Le leggi deiLongobardi: storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura diC. Azzara e S. Gasparri, Milano, La Storia, 1992.

Le chartae citate sono edite in L. Schiaparelli, Codice Diplomati-co Longobardo, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo,vol. ii, 1933 (CDL).

Per Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, si veda l’edizione a cu-ra di L. Capo, [Milano], Fondazione Lorenzo Valla /ArnoldoMondadori Editore, 1992 (Hist. Lang.).

storiografia preunitaria suilongobardi in italia

C. Baudi di Vesme - S. Fossati, Vicende della proprietà in Italia dal-la caduta dell’imperio romano fino allo stabilimento dei feudi, «Memoriedella Reale Accademia delle Scienze di Torino», xxxix (1836).

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