Discorsi sulla Torà - 2 Noach -  · Ha detto il Testo: ‘Possa il Signore rendere esteso Jefet e...

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ת֣ ֹ דְ וֹלֽ הֶ ֵ֚ אַ ח֔ ֹ נ יקִ֛ ַ צ ישִׁ֥ אַ ח֗ ֹ נ יםִ֖ הֱ אָֽ ת־הֶ א יוָ֑ תֹ רֽ ֹ דְ הָ֖ יָ ה יםִ֥ מָ ׃ַ חֽ ֹ ־נֶ ַ הְ תִֽ ה

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Jonathan Pacifici

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5759 La Torre di Babele “E [ci] fu [in] tutta la Terra un’unica lingua ed unici propositi” (Genesi XI,1) Dopo aver narrato la storia della Creazione la Torà enumera, nella Parashà di Bereshit, le dieci generazioni che intercorrono tra Adam e Noah. La Mishnà, nel trattato di Avot, ci dice che queste dieci generazioni provocarono l’ira del Signore fino a che Egli non distrusse l’umanità con il diluvio. Per quanto il diluvio occupi la parte principale della nostra Parashà, ci occuperemo qui di un altro episodio fondamentale per il genere umano. Si tratta della “dispersione” che segue la costruzione della Torre costruita nella valle di Shinnar, narrata in un passo piuttosto oscuro che cercheremo di esaminare attraverso gli insegnamenti dei Maestri. Rashì, citando il Midrash Tanchumà, il Targum Jonathan ed il Talmud Jerushalmì Meghillà (1:9), ci rende subito partecipi del fatto che l’unica lingua parlata all’epoca era la “lingua sacra”, ossia l’ebraico, la lingua con la quale era stato creato il mondo. Se esaminano il primo verso della Torà ci rendiamo conto che esso dice “Bereshit Barà Elokim ET...”. Potremmo leggere: “In principio D-o creò ET”. L’articolo ET (il), generalmente riferito al cielo, è formato dalla prima e dall’ultima lettera dell’alfabeto ebraico. Da qui i Maestri imparano che la prima creazione di D-o sono state le lettere, attraverso le quali ha poi creato cielo e la terra. La “lingua sacra” quindi, come parte integrante della Creazione, come strumento della Creazione. Dire che tutto il mondo la parlava vuol dire che tutti si trovavano in condizione di partecipare alla Creazione del mondo attraverso l’ottemperanza al volere Divino espresso dalle lettere dell’alfabeto ebraico. In che cosa consisteva questa volontà Divina? Pur tenendo conto che la Torà e le sue leggi sono precedenti alla Creazione, in questo caso il volere Divino è espresso nelle “sette leggi dei Benè Noah” (le mizvot che l’intera umanità deve rispettare) e nel comando di crescere, moltiplicarsi e soprattutto riempire la terra. Le condizioni che si erano venute a creare nella Valle di Shinnar erano apparentemente del tutto favorevoli. Il “Seder Olam” ci offre un quadro della situazione: ci troviamo nel 1996 dalla Creazione (il conto degli anni parte secondo i più dalla immissione dell’anima nel corpo del primo essere umano), 340 anni dopo il diluvio. Noah ed i suoi figli erano ancora in vita ed Avram, che aveva 48 anni, aveva già riconosciuto il Signore come Unico Creatore. Dalla discendenza di Noah si erano formati 70 ceppi, progenitori delle 70 nazioni che compongono il mondo secondo i Maestri, e tutti risiedevano nel medesimo luogo, la Valle di Shinnar. Secondo i Maestri (che si appoggiano su uno dei primi versi della Parashà di “Vezot HaBerachà”, l’ultima) le 70 nazioni sono in rapporto alle 70 persone che compongono il nucleo familiare di Jacov che scende in Egitto. È come

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se ogni ebreo fosse Maestro di un intera nazione. In questo senso le 70 nazioni dovevano ascoltare gli insegnamenti dei Grandi della loro generazione: Noah, Shem ed Avram. Invece è Nimrod a prendere la guida. Nimrod, nipote di Cham il figlio di Noah, è ricordato dalla Torà per due motivi: • è il primo monarca, la prima persona alla quale viene riconosciuta

una autorità politica; • era un abile cacciatore. I Maestri spiegano: bisogna intendere l’abilità nel cacciare come l’abilità nell’ammaliare le persone con il linguaggio. Un cacciatore di consensi quindi, che convince la massa a sceglierlo come leader. Ma c’è un altro Midrash che completa il quadro. Nimrod aveva già sottomesso il mondo animale: egli si era impossessato delle vesti di pelle con cui D-o vestì Adam dopo la cacciata dall’Eden. Gli animali riconoscevano in lui il discendente diretto di Adam, perché indossava questi abiti di pelle (il midrash sottolinea che erano coperti di pelo). Nimrod deriva quindi la sua capacità persuasiva dalla capacità di cacciare, la capacità di cacciare dalla sottomissione degli animali e la sottomissione degli animali dalle vesti di Adam di cui si era impossessato. Che cosa propone Nimrod? La costruzione di una torre e specifica che essa deve prevenire la dispersione e la separazione delle genti. Questa torre arriva, nel progetto di Nimrod, fino al cielo. Sulla sua cima, poi, posiziona un idolo, per sfidare Idd-o: Egli ha decretato che l’uomo riempia la Terra, noi invece vogliamo stare tutti qua. La risposta Divina è forse uno degli atti che cambia più radicalmente la storia umana: la confusione delle lingue. Ogni popolo parlerà una lingua propria: in tutto settanta lingue. L’ebraico, la “lingua santa”, la “lingua distinta” rimarrà prerogativa della discendenza di Avram che si dissocia apertamente dal tentativo di Nimrod. Ma perché è così negativo l’approccio di Nimrod? Perché la Torà sottolinea la pericolosità della omogeneità. Non è così positivo avere intenti comuni ed una lingua comune se questo crea il non rispetto della diversità. L’abbattimento delle differenze linguistiche e culturali provoca la coesione di tutta l’umanità in progetti folli che pretendono di arrivare al cielo. Crea una idolatria che ha l’uomo e le sue capacità al suo centro. Una esaltazione delle capacità umane che porta alla messa in discussione dell’autorità Divina. D-o ha detto “riempite il mondo”, ma noi vogliamo rimanere qui e dimostriamo che possiamo sconfiggere D-o con la nostra torre. Questo tipo di umanità non può andare lontano, proprio a causa della sua stretta visione del mondo. La confusione delle lingue e la dispersione per tutto il pianeta sono la risposta a chi pensava che l’umanità potesse sfidare il Creatore. Nasce così il compito di chi si dissocia: Avram HaIvrì, Avram l’ebreo. Secondo l’etimologia della parola Ivrì (che ha nella radice il concetto di “al di là di”) i Maestri spiegano che è così chiamato perché tutto il

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mondo era da una parte e lui era dall’altra. A chi ha sfidato tutta l’umanità denunciando nella solitudine della diversità l’errore della massa va l’unica vera lingua “sacra”, “diversa”, “distinta”. La lingua con cui D-o crea quotidianamente il mondo. La tunica di Nimrod, simbolo del peccato di Adam, passerà secondo il Midrash ad Esav, il nostro gemello contrapposto. I discendenti di invece Avram vestiranno un altra veste storica. La veste che è il premio di Shem per aver coperto il padre nudo: il Tallit (Talled), la veste che porta il nome di D-o nei suoi angoli. La veste di chi deve portare il nome di D-o agli angoli del mondo. La Torà sarà data al mondo in ebraico ma anche nelle settanta altre lingue. Purtroppo ancora oggi il Nome del Signore è kiviahol (come se ciò fosse possibile) non unico. La presenza di settanta lingue fa sì che ognuno traduca il Suo Nome in modo diverso. Nimrod vive in una pianura, costruisce una torre e vuole salire, senza riuscirci al Cielo. Jacov si addormenta su un’altura e sogna una scala ben piantata in terra che giunge fino in Cielo ed il Signore è sulla cima della scala. Chi vive una vita piatta spiritualmente come la pianura di Shinnar costruisce torri di superbia destinate a crollare. Chi vive sul monte del Signore, un monte basso, alla portata di tutti, sogna una scala che abbia delle radici in terra nelle nostre buone azioni. Una scala che attraverso le nostre buone azioni salga fino al Cielo. Ma una scala del genere è solo un sogno per un giusto che sa sempre di non essere ancora pronto: persino in sogno Jacov si rifiuta di salire sulla scala. Quella scala parte dal luogo in cui poggia l’Arca che contiene la Torà. Quella scala rappresenterà la teshuvà, il ritorno di tutta l’umanità che parlerà di nuovo l’ebraico, la lingua del Sacro, la lingua del distinto, la lingua del diverso. “In quel giorno il Signore sarà unico ed il Suo Nome unico.”

5760 Cultura ebraica, cultura laica [1] “Possa il Signore rendere esteso Jefet e risieda nelle tende di Shem” (Genesi IX, 27) [2] “Non c’è differenza tra i Libri e Tefillin e le Mezuzot eccetto il fatto che i Libri possono essere scritti in ogni lingua, ed i Tefillin e le Mezuzot non vengono scritti altro che in Assiro (cioè in ebraico N.d.T.). Rabban Shimon ben Gamliel dice: ‘Anche per i Libri [i Saggi] non hanno permesso che vengano scritti in altra lingua [straniera] che il Grecò. “ (Mishnà, Meghillà I,8) [3] “Disse Rabbì Abbau a nome di Rabbì Jochanan: ‘L’Halachà segue [l’opinione] di Rabban Shimon ben Gamliel’. Ed ha detto Rabbì Jochanan: ‘Qual è la motivazione [dell’opinione] di Rabban Shimon ben

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Gamliel?’ Ha detto il Testo: ‘Possa il Signore rendere esteso Jefet e risieda nelle tende di Shem’. Le parole di Jefet siano nelle tende di Shem.” (TB Meghillà 9b) Il tema centrale della Parashà di questa settimana è senza dubbio il ‘mabbul’, il diluvio con il quale D-o ha sommerso il mondo nell’anno 1656 della Creazione (Seder haOlam). Alla fine della Parashà si parla poi di un secondo grande evento: la dispersione dell’anno 1996 dalla Creazione che ha seguito la confusione delle lingue che D-o ha operato nella valle di Shinnar. Questi due episodi, che sconvolgeranno drasticamente la storia dell’umanità, non vanno intesi solo come semplici punizioni che D-o ha scagliato sull’uomo: dovremmo invece soffermarci sulle grandi opportunità che abbiamo perso. “Nel seicentesimo anno della vita di Noach nel secondo mese, il diciassette del mese, in questo giorno, si spaccarono tutte le fonti del grande abisso e le cateratte del Cielo si aprirono” (Genesi VII, 11) Lo Zhoar commenta il verso dicendo che il senso del Testo va oltre il semplice fatto che nel diluvio l’acqua proveniva tanto dal cielo quanto dalle sorgenti sotterranee. Partendo dall’assunto che la parola “acqua” indica sempre “Torà”, lo Zhoar sostiene che “le cateratte del Cielo” si riferisca alla Torà Scritta che viene direttamente dal Cielo ed è immutabile. Invece “tutte le fonti del grande abisso” rappresentano la Torà Orale che nella sua pluralità è affidata all’uomo perché attraverso di essa sviluppi la saggezza della Torà Scritta. In quel momento della storia, dicono quindi i Maestri della mistica, c’era una grossa occasione: era un momento molto favorevole, un momento degno della rivelazione sia dall’Alto che dal basso. Se gli uomini fossero stati meritevoli avrebbero ricevuto allora la Torà. Invece l’umanità era dedita ad ogni sorta di immoralità e particolarmente al furto. Iddio, dicono i Saggi, non può sopportare il furto perché, rubando, l’uomo dichiara tutto il suo disprezzo verso il prossimo agendo egoisticamente. Quando gli uomini sono uniti, anche se sbagliano, la sentenza è meno grave. Eccoci quindi alla seconda occasione mancata della nostra Parashà. 340 anni dopo il diluvio (nell’anno 1996 dalla Creazione) tutti i discendenti di Noach si erano stanziati nella fertile valle di Shinnar. Noach era ancora vivo e così pure i suoi figli. Avram aveva 48 anni ed aveva già riconosciuto il Signore come Unico Creatore. Tutte le condizioni erano favorevoli: c’erano a disposizione dei grandi Maestri, la terra era fertile, tutti gli uomini erano assieme e soprattutto parlavano tutti l’ebraico, la Lingua Sacra con la quale D-o ha creato il mondo (cfr. Rashì). È invece Nimrod a prendere il potere e ad usare la comunione di lingua e mezzi come strumento di idolatria (cfr. Tb Sanedrhin 109a) in una folle impresa. Il Midrash (Pirkiè deRabbì Eliezer, Targum Jonathan) commenta la forma plurale che usa il Santo Benedetto Egli Sia annunciando la discesa (Genesi XI,7) dicendo che Egli si sarebbe rivolto ai settanta

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angeli che circondano il Suo trono, ordinandogli di diventare ognuno preposto ad una nazione diversa, mentre Israele sarebbe rimasto dominio privato del Signore. (cfr. Deuteronomio XXXII,9 e commenti in loco). Rav Josef Bechor Shor commenta in maniera leggermente diversa: le settanta nazioni avrebbero conosciuto tutte le lingue per poi dimenticarle (tranne la propria ovviamente) al momento della dispersione. Tale visione risulta molto interessante: le differenze tra le nazioni esistevano già, ma loro invece di vivere la ricchezza culturale che avevano, si appiattivano tutti verso una pericolosa mono-cultura. Secondo il Bechor Shor, la Lingua Sacra diviene quindi dominio del solo Ever, progenitore di Avraham. E da lui prende il nome: Ivrìt, ebraico dalla stessa radice di Ever. L’episodio della dispersione è particolarmente importante per il fatto che rappresenta la premessa del mondo così come lo conosciamo oggi. In effetti è poco dopo la dispersione, con l’avvento del terzo millennio che inizia con Avraham l’“Epoca della Torà”. La differenziazione delle lingue, parallela alla diversificazione di storia e sorte crea nel mondo degli schemi di rapporti che durano ancora oggi. Le settanta nazioni, parallele al numero degli ebrei che scendono con Jacov in Egitto, sono divise in tre gruppi secondo i figli di Noach. Don Izchak Abravanel spiega che ognuno dei figli diviene il progenitore delle popolazioni di un continente. Shem è padre dell’Asia, Jefet dell’Europa e Cham dell’Africa. In assoluto Shem viene ricordato come allusivo ad Israele (che pur non facendo parte del conto dei settanta popoli discende da Shem) mentre Jefet viene preso a simbolo di uno sei suoi figli: Yavan, la Grecia. I Saggi infatti interpretano la benedizione che Noach dà a Shem ed a Jefet per averlo coperto dopo la profanazione di Cham (secondo il Talmud, Tb Sanedrhin 70a Cham avrebbe castrato e/o sodomizzato Noach mentre era ubriaco) come da riferirsi a Israele (quella di Shem) ed alla Grecia (quella di Jefet). In particolare Shem/Israele viene benedetto con la spiritualità e i Batè Midrash, le Case di Studio che fanno sì che il nome del Signore sia benedetto. Jefet/Grecia vengono premiati con la bellezza, l’arte, la filosofia ed una qualche forma di condivisione della benedizione di Shem/Israele. Ma di che si tratta ? Il Talmud (TB Yomà 10a) sostiene che ciò si riferisca al re Ciro, discendente di Jefet, che ha permesso e favorito la ricostruzione del Santuario dopo la cattività babilonese. Diversa è la visione nel trattato di Meghillà (9a). Lì il Talmud legge l’espressione “yaft Elokim le-Yefet” non come “ Possa il Signore rendere esteso Jefet” ma come “Possa il Signore concedere bellezza a Jefet”. Questa diversa interpretazione della parola “yeft”, viene ricondotta ad uno specifico avvenimento storico.

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Il re egiziano Tolomeo ordinò a settantadue Saggi una traduzione della Torà in greco. Questi vennero reclusi in coppie e miracolosamente tutte le 36 versioni erano identiche. La cosa straordinaria è che tutti avevano modificato il testo negli stessi punti per evitare la profanazione del nome di D-o (con particolare attenzione all’eliminazione di alcune forme plurali riferite alla Divinità). Questa traduzione, meglio conosciuta come “dei Settanta”, introduce una seria questione che ancora fa discutere al giorno d’oggi: la traducibilità dell’ebraismo. La Mishnà [2] insegna che è permesso scrivere i libri della bibbia in qualsiasi lingua straniera e poi la Ghemarà precisa [3] che ciò è valido solo per il greco antico per via della sua particolare bellezza (che deriva dalla benedizione di Jefet). La bellezza, l’arte e la filosofia possono essere una vera benedizione e, per Jefet, lo sono. Esse però vanno indirizzate nello spirito della Torà. Esse devono essere strumento per l’elevazione dell’umanità. Arte, teatro, filosofia e soprattutto letteratura greca, tutto ciò ovvero che noi chiameremmo “cultura classica”, sono chiamate dai Maestri con l’appellativo di “chochmà Yevanit”, “Saggezza Greca”. La condivisione della benedizione spirituale di Shem da parte di Jefet è quindi da relegare nella sfera del testo della Torà scritta: è permesso tradurla in greco (mantenendo la sacralità del testo). Tefillin e Mezuzot restano però necessariamente in ebraico. Il messaggio è che il mondo classico e quello occidentale che ne deriva, possono conoscere nella loro lingua il testo biblico. Diverso è però per il mondo delle mizvot. Non si può tradurre una Mezuzà o i Tefillin. Le mizvot sono in ebraico. Sono patrimonio unico del popolo d’Israele. Le mizvot sono legate al mondo della azione e sono quindi comprensibili solo eseguendole perché si è precettati. E già hanno ampiamente spiegato i nostri Saggi che una persona che è obbligata ed esegue un precetto è superiore ad una che lo esegue volontariamente. Il senso della benedizione di Jefet dunque, è quello di poter condividere parte della saggezza d’Israele ma non parte della Torà. Anche i greci ed il mondo occidentale hanno tanta saggezza ma ciò non significa che hanno Torà! La Torà è l’immersione nel mondo delle mizvot, prerogativa del solo popolo d’Israele. Se la benedizione di Jefet è dunque anche il condividere parte di quella di Shem, è possibile dire anche il contrario? Dal Testo non sembrerebbe. La domanda è dunque se sia permissibile per un ebreo studiare la “Saggezza Greca”. A questo proposito c’è un interessantissimo passo nel Talmud che vale la pena di chiamare in causa.

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“Ben Damà, il figlio della sorella di Rabbì Ishmael chiese a Rabbì Ishmael: ‘Io ad esempio, che ho studiato tutta la Torà intera, mi è permesso studiare la “Saggezza Greca”? Leggi a proposito questo verso: ‘Non diparta questo libro della Torà dalla tua bocca, e mediterai su di esso giorno e notte’ (Giosuè I,8), esci e controlla un ora che non sia del giorno e non sia della notte e studia in essa la “Saggezza Greca”“ (TB Menachot 99b) Un primo approccio a questo passo talmudico sembrerebbe negare qualsiasi forma di interesse ebraico nella cultura classica, e nelle scienze. Evidentemente non è così. Ho avuto occasione qualche anno fa di sentire un affascinante lettura di questo passo da pare di Rav Roberto Della Rocca, Rabbino Capo di Venezia. In primo luogo, sostiene Rav Roberto Della Rocca, la domanda di Ben Damà è posta male: come può uno dire di aver studiato tutta la Torà intera? Abbiamo appena ricordato in occasione di Simchà Torà come il processo dello studio sia eterno, non si finisce mai di studiare Torà. Per questo motivo la risposta di Rabbì Ishmael è così dura. Se uno pensa che la Torà sia come un libro di filosofia, bello ed interessante ma che una volta finito si passa al prossimo, sbaglia di grosso. Se Ben Damà pensa di poter passare alla Cultura Greca perché ha esaurito lo studio della Torà, allora non gli è permesso! Della Torà evidentemente non ha capito nulla! Studiare la filosofia e le scienze è evidentemente permesso: si tratta solo di verificare che cos’è che spinge allo studio. Se lo studio scientifico o filosofico è finalizzato ad una migliore comprensione della Torà o alla esecuzione delle mizvot, allora è come se si stesse studiando Torà. Studiare medicina ad esempio: salvare la vita umana è una grandissima mizvà. È noto del resto che grandi maestri sono stati grandi medici (ad es. Rambam). Ma anche l’ingegneria, l’architettura, la biologia ed ogni altra scienza sono importanti se poste al servizio della Torà. L’errore è credere che per un ebreo ci possa essere una forma di saggezza che possa prescindere o staccarsi dalla Torà. Studiare filosofia greca come “Torà” sostitutiva è proibito nella maniera più categorica. Essa può essere uno strumento, mai il fine. Solo la Torà e le mizvot sono il fine ultimo della vita di un ebreo. Ed infatti dice il Pirkiè Avot a nome di Rabban Jochanan ben Zakai (II,9): “Se hai studiato molta Torà non te ne vantare perché è per questo che sei stato creato”. Le tende di Shem, ossia la Yeshivà di Shem nella quale studieranno Torà i patriarchi (sic!!!), e tutte le future Yeshivot di Israele sono i luoghi nei quali si materializza la benedizione di Noach. Nimrod, costruendo la Torre diceva “facciamoci un nome sicché non ci si disperda sulla faccia di tutta la Terra” (Genesi XI,4) . Il Talmud

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(Sanedrhin 109a) dice che “un nome” significa “un oggetto di idolatria”. La generazione della dispersione credeva di poter dare un nome univoco ad ogni cosa, abbattendo la differenza tra le lingue. C’è un idolatria del nome, del termine, della parola, nella valle di Shinnar. Noach ha invece detto: “Baruch A. Elokè Shem” (Genesi IX, 26) che generalmente traduciamo come “Benedetto sia il Signore Iddio di Shem”, ma che può essere anche letto come: “Benedetto sia il Signore Iddio del Nome (o dal Nome)”. Shem significa appunto “nome”. La Torà ci dice nella nostra Parashà che la differenza culturale è una grande ricchezza. Tutto sta nel mantenere la propria cultura nel rispetto di quella del prossimo. Sottolinea però che non tutte le culture sono degne di rispetto: la cultura di Nimrod che pretende di sostituire il Nome di D-o con il nome di un oggetto, la ‘cultura’ dei nazisti che pretendeva di sostituire i nomi umani con dei numeri, la cultura della Chiesa dell’evangelizzazione (pensiamo ai conquistadores) e delle conversioni forzate, che pretendeva di cancellare dei nomi e delle lingue dalla faccia della Terra; tutte queste ed altre purtroppo non sono degne di alcun rispetto. Concludendo la Parashà ci invita a materializzare la benedizione di Noach: attraverso lo studio della Torà e l’osservanza delle mizvot noi possiamo far sì che tutta l’umanità torni a chiamare Iddio con un unico termine, allora sì si potrà dire: “Benedetto sia il Signore Iddio del Nome”. “E sarà il Signore come Re su tutta la terra, in quel giorno sarà il Signore unico ed il Suo Nome unico” (Zecharià XIV,9)

5761 Il diluvio ed il cambiamento climatico [1] "Ed uscì Noach ed i suoi figli e sua moglie e le mogli dei suoi figli con lui. Ogni animale, ogni brulicante ed ogni volatile, ogni cosa che brulica sulla terra secondo le loro famiglie uscirono dall'arca. E Noach costruì un altare per il Signore e prese da ogni bestia pura e da ogni volatile puro ed offrì olocausti sull'altare. Ed odorò il Signore il profumo gradito, e disse il Signore in cuor Suo: 'Non continuerò a distruggere ancora la terra per via dell'uomo, poiché l'istinto del cuore dell'uomo è male dalla sua infanzia e non continuerò ancora a colpire ogni vivente come ho fatto. Tutti i giorni della Terra saranno ancora semina e mietitura e freddo e caldo ed estate ed inverno, ed il giorno e la notte non cesseranno.'" (Genesi VIII, 19-22)

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L'uscita di Noach dall'Arca rappresenta l'ingresso in un nuovo mondo. Il Midrash (Yalkut Shimonì su Noach) sottolinea come Noach abbia visto tre mondi diversi: prima, durante e dopo il diluvio. Si tratta di mondi diversi nel clima e nella natura ma anche e soprattutto nello spirito e nel mondo delle mizvot e dunque nel rapporto tra l'uomo e l'Eterno.

Rabbì Ovadià Sforno spiega il senso dello strano verso con il quale Iddio assicura l'avvicendarsi delle stagioni: "Tutti i giorni della Terra saranno ancora semina e mietitura e freddo e caldo ed estate ed inverno, ed il giorno e la notte non cesseranno". Non cesseranno dal perseverare nello stesso modo innaturale nel quale li ho limitati a seguito del diluvio e cioè che il percorso del sole devii dalla linea equinoziale e che questo deviare provochi l'avvicendarsi di tutti questi tempi; poiché prima del diluvio il sole procedeva sempre sulla linea equinoziale e perciò era sempre primavera, ed in esso c'era grande giovamento alle fondamenta, ai vegetali ed ai viventi ed alla durata delle loro vite. Ed ha detto che ciò sarà 'Tutti i giorni della Terra' fino a quando non corregga Iddio Benedetto questo danno che vi è stato fatto con il diluvio come è detto 'La nuova terra che Io faccio' (Isaia LXVI, 22), poiché allora tornerà il percorso del sole sulla linea equinoziale come in passato..." (Sforno su Genesi VIII, 22)

Ed è lo stesso Sforno che spiega (Genesi VI, 13) che questo cambiamento climatico provocò un deterioramento dei frutti e quindi dell'alimentazione umana che fu causa della drastica riduzione della vita umana dopo il Diluvio. Fu questo il motivo per il quale fu permesso alla discendenza di Noach di cibarsi di carne, in modo da supplire in qualche modo al deterioramento dell'alimentazione umana. Come dicevamo però, non si tratta di sterili cambiamenti nella natura, bensì di una profonda rivoluzione nella natura umana e nella natura dei rapporti con il Creatore. Sforno, in linea con questi suoi commenti, legge anche la riflessione di D-o sulla natura dell'istinto dell'uomo: "poiché l'istinto del cuore dell'uomo è male dalla sua infanzia: poiché deteriorandosi il clima da qui in poi rispetto a quanto non fosse prima del diluvio, non illuminerà più in essi la forza razionale dall'infanzia come in principio in modo che si opponga al desiderio che si rafforza in essi sin dalla loro infanzia." (Sforno su Genesi VIII, 21).

Dunque assieme al cambiamento naturale avviene un cambiamento spirituale. Mentre prima del diluvio l'uomo nasceva con l'istinto del bene e quello del male, da dopo il diluvio l'uomo nasce con il solo istinto del male per poi acquisire l'istinto del bene a poco a poco con la crescita. (Radak in loco). Bisogna capire cosa ciò voglia dire. È evidente che non significa che i bambini sono cattivi. Essi non sono giuridicamente responsabili. Ossia è proprio l'assenza di raziocinio (istinto del bene) e la totale prevalenza degli istinti materiali (istinto del male) che rendono il bambino non responsabile delle proprie azioni. Questo cambiamento provoca la creazione di una classe (tutti gli umani fino al tredicesimo anno di età, o il dodicesimo per le donne)

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non punibile. Questo periodo deve essere inteso come un periodo di preparazione, un periodo nel quale acquisire gradualmente l'istinto del bene attraverso lo studio della Torà. Per questo lo studio della Torà dei bambini è particolarmente importante, perché, e lo abbiamo visto parlando dell'ultimo Rashì alla Torà, è fondamentale prepararsi a ricevere la Torà. I Saggi asseriscono provocatoriamente che quando, non sia mai, una casa prende fuoco di Shabbat, non c'è tempo di aprire lo Shulchan Aruch per vedere cosa sia permesso salvare dalle fiamme e cosa sia proibito. La vita è così. Non si può iniziare a studiare a tredici anni perché a tredici anni già si dovrebbe sapere cosa fare. Questo non significa che si debba rinunciare a studiare, Rabbi Akivà con la sua vita ci insegna che si è sempre in tempo, ma in assoluto è bene riflettere sull'importanza dell'educazione dei bambini. Questo studio della Torà è così importante che nei giorni penitenziali noi invochiamo come ultimo merito, qualora quello dei patriarchi e dei giusti non potessero difenderci, il merito dei 'bambini che studiano Torà che non hanno mai peccato'. Ossia punendo gli adulti Iddio deve tener presente che ci sono degli innocenti completi che si stanno preparando ad essere dei buoni adulti che potrebbero andarci di mezzo.

Il cambiamento climatico che segue il diluvio va letto nella stessa linea. Prima una primavera universale e un continuo equinozio: giorno e notte di identica durata. Poi le stagioni ed il variare della durata del giorno e della notte. Secondo i Saggi il giorno è un momento di Chesed, grazia Divina, laddove la notte è un momento di Din, di giudizio. Prima del diluvio non ha senso parlare di periodi né per quanto riguarda il corso dell'anno, né per la vita delle persone. Non ci sono momenti dell'anno nei quali è più forte la misericordia né momenti particolari per il giudizio, come abbiamo oggi. E così nella vita delle persone. La scorsa settimana abbiamo detto a proposito dell'offerta di Kain ed Evel che si trattava del korban Pesach. Prima del diluvio il mondo era sempre in primavera e quindi in una sorta di Pesach permanente. Ma Pesach nella sua grandezza non è un momento semplice. Pesach è in qualche modo il momento dell'anno in cui ci viene richiesta una consapevolezza particolare. Il mondo prima del diluvio è un mondo nel quale vige quel livello superiore particolare che chiamiamo 'Leil Shimurim', la notte dei sorvegliati o di coloro che sorvegliano. Dopo il diluvio l'umanità non è più ad un livello nel quale questo sia possibile. E così come dopo il peccato del Vitello le prime tavole non sono più adatte, allo stesso modo il clima del pre-diluvio non è più adatto al nuovo mondo. Il mondo che noi conosciamo è un mondo in cui ci sono momenti di grande consapevolezza come Pesach, ma anche momenti di profonda gioia come a Purim o di profondo ritorno come il periodo penitenziale. È un mondo nel quale anche la vita umana conosce l'epoca della preparazione e quella dell'esecuzione. Ed in questo senso non dimentichiamo l'importanza che ha Pesach nel quadro dell'educazione dei figli. I quattro figli non sono che la personificazione del fatto che a Pesach viene richiesta una consapevolezza collettiva e che tutti devono partecipare seppur secondo il proprio livello.

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Dunque i bambini vengono creati dopo il diluvio. Si tratta di una grande sfida anche per gli adulti, quella di saper impostare correttamente la prossima generazione. La generazione che viene cancellata dal diluvio discende spiritualmente e biologicamente da Kain. È una generazione che non conosce il concetto di primizie. Non conosce il dinamismo. Come può una generazione così vivere in un epoca che è un Pesach universale? Quello stesso Pesach nel quale Iddio stesso 'salta sulle colline' secondo l'allegoria del Cantico dei Cantici praticando Lui una distinzione tra Israele (primizia delle genti) e l'Egitto. Non dimentichiamo che questa era stata l'intuizione di Evel, ma Evel è stato assassinato. Ed è Noach che riprende le fila del discorso di Evel. La prima cosa che Noach fa uscendo dall'Arca, prima ancora di riprendere i rapporti coniugali come gli era stato ordinato (durante l'anno di permanenza nell'Arca i rapporti erano proibiti), presenta delle offerte sull'Altare di Evel.

"Ed è tradizione nota a tutti che il luogo nel quale costruì David e Shelomò l'Altare nell'aia di Aravnà è il luogo nel quale costruì Avraham l'Altare e legò su di esso Izchak. Ed è lo stesso luogo nel quale costruì Noach [l'Altare] quando uscì dall'Arca. Ed è lo stesso Altare sul quale offrì Kain ed Evel. E su di esso offrì il primo Uomo un offerta quando fu creato, e da lì fu creato. Hanno detto i Saggi: 'L'Uomo è stato creato dal luogo della sua espiazione'." (Rambam, Hilchot Bet HaBechirà II,2)

Noach, offrendo animali puri, compie quella selezione tra adatto e non adatto che è alla base del concetto di primizia. Offrire sull'Altare del Tempio, sede degli illustri precedenti citati da Maimonide, significa tornare alla natura stessa dell'uomo e capire che l'uomo è stato creato proprio perché avesse la capacità di espiare. Noach, in qualche modo, ridà una direzione al mondo dopo la morte di Evel. Dunque è necessario avere un Pesach ed un non - Pesach per poter spiegare ad un bambino la differenza che c'è tra una cosa e l'altra. E noi iniziamo il Seder insegnando ai bambini la differenza tra questa notte e le altre. Ciononostante aspiriamo ad un epoca che sia tutta un Pesach e nella quale la differenza tra bene e male venga ad assopirsi per la totale assenza di male. L'epoca nella quale secondo i nostri Saggi Iddio sgozzerà l'istinto del male. L'epoca nella quale la dicotomia tra bene e male che è in ognuno di noi sarà realmente uno strumento al servizio di D-o. In questa luce possiamo capire meglio una nota disputa rabbinica.

Nel trattato di Rosh HaShanà (10b) Rabbì Eliezer e Rabbì Jeoshua discutono sull'epoca della creazione del mondo e sull'epoca della redenzione futura. Rabbi Eliezer sostiene che in Tishrì fu creato il mondo ed averrà la redenzione finale mentre Rabbi Jeoshua dice che fu in Nissan. Forse è possibile conciliare queste due idee basandosi sul commento di Sforno secondo il quale il mondo tornerà ad essere una primavera universale, e quindi un Nissan, con l'avvento messianico. Forse quindi, dietro alla disputa sul calendario, si cela una più

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profonda certezza. Che il mondo possa tornare ad un epoca di primavera universale.

Mi pare giusto ricordare in conclusione che il nostro Rabbi David Prato disse ("Dal Pergamo della Comunità Israelitica di Roma", discorso per Pesach) che i giovani sono la primavera delle comunità. Si può forse capire Pesach senza bambini? I bambini non si vergognano di fare domande, questo è lo spirito della primavera. Non c'è definizione di Pesach che dia la Torà senza citare la necessità di rispondere ai figli. Nello stesso spirito direi che per far avanzare la primavera universale dobbiamo investire sui giovani che sono la primavera delle comunità e che allo stesso tempo i meno giovani debbano imparare dai giovani come ci si prepara a ricevere la Torà.

E non è mai troppo tardi.

5763 La sessualità e l’ebraismo “E venne a lui la colomba sul far della sera, ed ecco un ramo di ulivo strappato nella sua bocca, e seppe Noach che le acque erano calate dalla terra.” (Genesi VIII,11) “Ed ha detto Rabbì Jermiah ben Elazar: Che significa quanto è scritto ‘ed ecco un ramo di ulivo strappato nella sua bocca’? Disse la colomba dinanzi al Santo Benedetto Egli Sia: ‘Padrone del mondo! Possano essere i miei alimenti amari come l’ulivo e dipendenti dalla Tua Mano e che non siano dolci come il miele e dipendenti dalle mani di carne e sangue.’” (TB Eruvin 18b) La Parashà di questa settimana è segnata da uno dei più tragici eventi della storia dell’umanità. Il diluvio. Il diluvio segna in maniera categorica il fallimento dell’umanità tanto che D-o ne decreta la distruzione e solo un manipolo di uomini, Noach e la sua famiglia, vengono traghettati, o meglio vengono chiamati a traghettare il mondo, verso tempi migliori. Rav Mordechai Elon shlita affronta in Techelet Mordechai il nocciolo della questione. Perché l’umanità si porta addosso la distruzione? Immoralità sessuale. Il Talmud lo espone chiaramente (Sanedrhin 57a, 108b) e Rashì in loco: “La generazione del diluvio furono puniti per i rapporti proibiti come è scritto: ‘E videro i figli di D-o le figlie dell’uomo quando esse sono belle e presero per loro donne da tutto ciò che scelsero. (Genesi VI,2)” Secondo Rashì si tratta dei giudici, dei principi, dei potenti insomma che prendevano le donne ‘quando esse sono belle’, ossia nel loro matrimonio. Si tratta di una sorta di ius primae noctis primordiale. Ed infatti tanto Rashì che il Ramban sono concordi nel dire che questa è la violenza di cui parla il testo. L’immoralità sessuale alimenta se stessa e così intende Rashì ‘da tutto ciò che scelsero’ “persino le

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sposate, persino l’uomo e la bestia”. Si passa dall’adulterio, all’omosessualità fino ai rapporti con gli animali. Questo atteggiamento non rimane condotta dei soli leaders della generazione ma si trasmette. “E vide Iddio la terra ed ecco che era corrotta poiché aveva corrotto ogni carne la sua via sulla terra.” (Genesi VI,12) che il Talmud intende (TB Sanedrhin 108): “Ogni carne – ciò insegna che si accoppiarono bestie con animali ed animali con bestie e tutti con l’uomo e l’uomo con tutti.” Il Talmud in Succà 52b insegna che l’organo sessuale umano: ‘se lo si sazia è affamato e se lo si affama è sazio’ che Ramban (su Deuteronomio XXIX,18) interpreta come ad insegnare che il mero desiderio sessuale può solo rafforzarsi e che non solo credendo di saziarlo lo si affama, ma che anzi così facendo lo si affama anche di ciò che generalmente non cercherebbe: l’omosessualità. Il Bet HaLevì si chiede come mai tale condotta deviante affligge anche il mondo animale e vegetale che sono notoriamente privi di istinto del male e spiega che la forza della routine nel peccato può cambiare il mondo. L’uomo che si abitua a peccare diviene insensibile al rimprovero, egli crea una sorta di seconda natura, natura del peccato. Questa influisce ovviamente sul prossimo ma anche sul mondo animale e vegetale giacché questi sono creati come strumenti per l’uomo. L’uomo ha il potere di innalzare il mondo ma anche di ridurlo in rovina come spiega il Sefer HaChiuch. È l’influenza che ogni nostra azione ha sul mondo che decreta la distruzione dell’intero pianeta. Da qui il Bet HaLevì spiega uno strano passo talmudico (TB Chagghigà 15) in cui si dice che il giusto merita la propria parte e quella del proprio compagno nel Mondo Futuro e così anche il malvagio quella propria e quella del proprio compagno nel Gheinom. Spiega il Bet HaLevì che proprio per via dell’influenza che si ha sul prossimo si verrà premiati per quella parte delle buone azioni dei nostri fratelli che sono risultato della nostra buona influenza e che viceversa verremo puniti per la parte che abbiamo nella colpa del prossimo. In un mondo che si avvia alla distruzione per aver rinunciato alla discriminante Divina instillata in ogni uomo e per aver scelto la componente bestiale che è in ognuno di noi, nasce un uomo già circonciso. Noach. Lemech, padre di Noach, capisce che è il segno di una sorta di redenzione e lo chiama Noach, dalla radice di consolazione. Il Techelet Mordechai chiama l’Arca di Noach, l’Arca della ‘Ishiut’, del rapporto di coppia, del matrimonio, di quel modello che si contrappone al solo sesso ‘min’ maschile/femminile e che propone la dimensione ‘ish’ uomo/donna. Ebbene gli animali che salgono sull’arca sono caratterizzati dall’essere ‘hish veishà’, ‘uomo e donna’ (sic!) termine alquanto insolito per degli animali che invece indica generalmente l’aspetto legale dell’unione. In TB Sanedrhin 108b ciò viene interpretato come un riferimento al fatto che Noach fece passare tutti gli animali dinanzi all’arca e che questa fece entrare solo quelli che non si erano macchiati di rapporti proibiti. E per quanto concerne

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l’uomo Iddio ordina separatamente l’ingresso nell’Arca a Noach ed ai suoi figli ed alla moglie di Noach e le sue nuore. Rashì in loco (X,18) dice in proposito “Gli uomini da soli e le donne da sole, da qui che gli furono proibiti i rapporti sessuali.” Attraverso l’astensione dalla vita coniugale nel corso del diluvio i superstiti vengono chiamati non solo ad avere sensibilità nei confronti di un mondo che viene cancellato, ma anche ad indicare il fatto che l’istinto sessuale è alla mercé dell’uomo e non viceversa. Secondo i Saggi nelle specie animali furono creati separatamente maschi e femmine. Solo l’uomo fu creato uomo e donna assieme, in una sol carne poi separata. Per questo solo per l’uomo vale il termine di ‘devekut’, attaccamento. Infatti l’attaccamento alla donna è segnalato appena dopo la creazione di questa come il corso “naturale” della vita dell’uomo ‘che lascia suo padre e sua madre e si attacca a sua moglie’. Solo due rapporti prevedono devekut. Uomo/donna e uomo/D-o. È infatti detto ‘E voi siete attaccati al Signore vostro D-o’. (Deuteronomio IV,4) Non si possono scollegare questi due ‘attaccamenti’, ed è monumentale in proposito Rav Elon shlita in Techelet Mordechai (Noach pp.19-20): “Quando si crea un diluvio del genere, ogni uomo deve creare per se stesso un’Arca, un Arca di ‘Ishiut’. ‘Ishiut’ non è sesso. Il sesso è l’impulso animale semplice che è in ogni creatura – nell’uomo come nell’asino o nell’albero - di trovare la propria soddisfazione sessuale. Presso l’uomo, diversamente rispetto alle altre creature, c’è necessità di un legame spirituale completo che va oltre il legame sessuale, del quale il legame sessuale è solo una parte (per quanto importante e santa!). Il rivoltare questa essenza spirituale/Divina di attaccamento (devekut) tra uomo, donna e D-o, in soddisfazione, in impulso, è la distruzione dell’immagine Divina che è nell’uomo. Non troverai impulso più egocentrico dell’impulso sessuale-naturale, e non troverai rapporto più altruista e nobile dell’’Ishiut’. Non c’è sfruttamento più rude dello sfruttamento delle ‘figlie dell’uomo’ nella terra solo per via delle tue necessità-impulsi egocentrici e non c’è cosa più eccelsa della capacità di innalzare persino le tua necessità più egoistica in un obbligo halachico, non per la tua soddisfazione e per il riempimento del tuo desiderio ma per l’obbligo ‘onatà’ [il termine con il quale la Torà indica in Esodo XXI,10 l’obbligo del marito di rispondere alle esigenze sessuali della moglie], e della ‘sippukà’ [lett. soddisfazione, necessità: Rav Elon ricorda che il termine ‘sippukaichi’, le tue necessità, nella Ketubà è l’obbligo halachico di intrattenere rapporti sessuali] di colei verso la quale sei obbligato al ‘E saranno una sola carne’. Non una sola anima, un sol cuore, ma persino la carne. La stessa cosa nella quale l’uomo è sempre egoista in essa, anch’essa può essere uno. È dunque la halachà a trasformare l’istinto animale in precetto e santità. Non siamo più animali nel momento in cui mettiamo per iscritto nella Ketubà che la vita coniugale è un obbligo che esige da noi la Torà con tanto di responsabilità connesse e non una violenza degli istinti sulla nostra anima.

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Questi messaggi non provengono da un epoca ancestrale e non sono validi solo per il mondo distrutto. L’Arca traghetta con Noach il concetto di ‘Ishiut’, di rapporto legale di coppia. Noach prova ad affidare il compito di vedetta al corvo, che però non lo accetta non allontanandosi mai dall’Arca. Rashì ci dice (citando TB Sanedrhin 108b) che era sospettoso della propria compagna. Non si fidava. Non si fidava a lasciare il proprio partner. Il Midrash dice che essendoci una sola coppia di corvi (come ogni coppia di animali impuri) non si poteva rischiare lo sfaldamento di questa, perché saranno i corvi che porteranno da mangiare al Profeta Elia nella sua fuga nel deserto. Il corvo con la sua sfiducia nel rapporto di coppia diviene animale solo, e ricorderà ad Elia che non ci si può isolare. Che ‘non è bene che l’uomo sia solo’. Di contro la colomba è per definizione l’animale fedele al proprio partner. Rashì sul Cantico dei Cantici (IV,1) dice che si tratta di una fedeltà incondizionata che giunge fino al martirio. E la preoccupazione della colomba per la qualità del proprio sostentamento sembra tratta proprio dallo spirito della Ketubbà. Mezoneichi, i tuoi alimenti. Il Radak sostiene che la colomba è da sempre strumento di comunicazione a distanza, e che essa conosce la via del ritorno. Dunque la colomba è anche il prototipo della capacità di saper fare ritorno, teshuvà. È l’avere un ruolo ed un utilità come messo che salva la colomba dall’essere mangiata dall’uomo. Spiega così il Radak quanto detto in Shabbat (49a) che la colomba è protetta dalle proprie ali, ossia dal proprio ruolo, dal proprio compito. Straordinarie sono le circostanze di questo insegnamento: “...una volta decretò il governo [romano] un decreto su Israele, che chiunque mettesse i Tefillin gli fosse piantato un chiodo in testa. Elishà li metteva ed usciva al mercato. Lo vide un ispettore e [Elishà] corse via, e questi gli corse appresso. Avendolo raggiunto [Elishà] se li tolse dal capo e li tenne in mano. Gli disse: ‘Che hai nella tua mano?’ Disse lui: ‘ali di colomba’, aprì la mano e vi si trovarono ali di colomba, da qui lo chiamarono Elishà il padrone delle Ali...” La Ghemarà prosegue e si chiede come mai disse proprio ali di colomba. Egli ragionò dicendo che la Keneset Israel, l’Assemblea d’Israele, è paragonata alla colomba e come la colomba è protetta dalle proprie ali così Israele è protetto dalle mizvot. Le Tosafot ci spiegano qual’è la differenza tra le ali della colomba e quelle degli altri volatili e dicono che mentre gli altri volatili quando sono stanchi si fermano su una roccia, la colomba si riposa con un ala e vola con l’altra. Così anche Israele non conosce riposo dalle mizvot ma passa di mizvà in mizvà. Israele è salvato continuamente dal proprio ruolo. I Tefilin sono dunque simbolo di attaccamento a D-o ma sono anche ricordo del fatto che è il corpo umano nella sua materialità che va santificato. Il passo talmudico in questione si apre con l’insegnamento di Rabbì Jannai che vuole che i Tefillin necessitino un corpo pulito. La pulizia in senso lato del corpo e della materia in generale è l’unico prerequisito per l’attaccamento a D-o. Secondo il Midrash la colomba prese il ramo di ulivo nel Giardino dell’Eden. Si chiede il Ramban come fece Noach a

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stabilire che le acque erano scese se l’ulivo fu preso dall’Eden e non da questo mondo. Risponde che le porte del Giardino furono chiuse per tutta la durata del diluvio e solo dopo che le acque furono calate queste vennero riaperte. Il ramo di ulivo dell’Eden testimonia il fatto che la distruzione non è altro che il risultato della chiusura delle porte del Giardino, della separazione e lontananza tra D-o e l’uomo. In un mondo corretto le porte sono aperte e Noach sa che è veramente finito il diluvio solo quando capisce che Iddio ha riaperto i propri cancelli, quei cancelli che noi uomini con il nostro comportamento avevamo chiuso. E ricorderemo che i Saggi insegnano che nel Terzo Santuario, possa essere costruito presto ed ai nostri giorni, la porta del cortile interno si aprirà da sola vedendo Israele che giunge a festeggiare lo Shabbat ed il Capomese. Il diluvio è, nella visione dello Zohar, anche il preludio al mondo della Torà e le fonti dell’abisso e le cataratte del cielo [il diluvio è sia dall’alto che dal basso] diventano un modo per indicare le acque superiori e quelle inferiori, il mondo celeste e quello dell’uomo. Il diluvio è l’incapacità di ricongiungere in maniera sana le due acque. Nel trattato di Chagghigà troviamo (15a): “Hanno insegnato i Maestri: ‘Accadde che Rabbì Jeoshua ben Channanià si trovasse su uno scalino del Monte del Tempio [nel Santuario] e lo vide Ben Zomà e non si alzò dinanzi a lui [in segno di rispetto come dovuto]. Disse lui: ‘Da dove e per dove Ben Zomà? [A che stai pensando?] Disse lui: ‘Stavo guardando [lo spazio] che c’è tra le acque superiori e le acque inferiori e non c’è tra di esse che tre dita solamente come è detto (Genesi I,2) ‘E lo Spirito di D-o aleggiava sulle acque’, come una colomba che aleggia sui suoi figli e non li tocca’. Disse Rabbì Jeoshua ai suoi discepoli: ‘Ben Zomà è ancora fuori! Il fatto che ‘E lo Spirito di D-o aleggiava sulle acque’ quando era? Il primo giorno. E la separazione è stata il secondo giorno come è scritto (Genesi I, 6-8) ‘...e separi [il firmamento] tra acque ed acque’. Ed allora quant’è [la distanza tra le acque]? Ha detto Rav Achà bar Jacov: ‘Come un capello’ ed i Saggi dicono: ‘Come [lo spazio che c’è] tra due traversine di un ponte’. Mar Zutra e secondo alcuni Rav Asì dice: ‘come [lo spazio] tra due manti stesi uno sull’altro’ e c’è chi dice come [lo spazio] tra due bicchieri rovesciati messi uno sull’altro.” Spiega il Rav Desler (Michtav MeEliau V,474) che ad un esame profondo non c’è separazione tra acque superiori ed acque inferiori. Le acque inferiori rappresentano il mondo dell’uomo e la sua materialità, ossia la ‘contrazione’ di D-o che rende possibile il mondo. Esse rappresentano il fatto che Iddio si ‘nasconde’ e ci lascia liberi di scegliere. Ma l’inferiorità e l’essere la dimensione del nascosto di questo mondo sono funzionali alla rivelazione del mondo celeste. Dal punto di vista della verità superiore il mondo umano è una discesa in funzione di una successiva salita e come diceva il Rav Menachem Mendel Schnersohn z’l, ogni discesa funzionale ad una salita è salita stessa. Queste tre dita di distanza non ci sono dice Rabbì Jeoshua. C’è aderenza. La colomba non aleggia sui piccoli, li nutre, li protegge e se non li tocca, di certo non rimane a tre dita di distanza.

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La distanza tra le acque, tra noi e la nostra Torà e D-o e la sua Torà può essere quella di un capello, il capello che indica come abbiamo visto più volte la sconfitta dell’istinto del male della sessualità. Può essere lo spazio tra due traversine di un ponte se si capisce che la Torà è l’unico ponte che collega l’uomo al suo Creatore. Può essere lo spazio tra due manti se si capisce che ammantandosi con il Talled si fa esattamente quello che ha fatto Iddio quando si è ammantato con la Luce ed ha creato il mondo. Può essere lo spazio tra due bicchieri che si rovesciano uno nell’altro se si capisce che versando assieme il vino della Birkat Hamazon e quello delle Sheva Berachot come di norma al termine di un pasto nuziale si afferma che anche il cibo ed il sesso, che sono le attività che ci accomunano agli animali, possono distinguerci da essi e santificarci come ricorda sempre il mio Maestro Rav Chajm Della Rocca shlita,. Noi ebrei non ci limitiamo al sesso degli animali. Noi facciamo i kidushin. La santificazione. Nella sesta benedizione del matrimonio viene detto: ‘Che possiate essere abbondantemente rallegrati oh amici amati come ti ha rallegrato la tua creazione nel Giardino dell’Eden in antico’. Dice il Naziv di Volozin: “Sono chiamati amici del Santo Benedetto Egli Sia perché si occupano della costruzione del mondo divenendo un uomo completo”. Se questo è il mondo della separazione, tra spirito e materia, tra D-o e uomo e c’è chi, con i migliori intenti come Ben Zomà, misura le distanze, ci vuole Rabbì Jeoshua per dirci che la distanza non c’è. E che le acque separate il secondo giorno possono ricongiungersi in ogni momento attraverso il nostro attaccamento alla Torà. Noi possiamo cambiare il corso stesso della Creazione se siamo veramente amici di D-o. Vale la pena di riflettere. Rabbì Jeoshua scardina la tesi di Ben Zomà con un voluto errore nella propria. Il discorso di Rabbì Jeoshua non ha senso. Rabbì Jeoshua parla di un ‘Yom Rishon’ Primo Giorno che non esiste, non c’è mai stato. La Torà parla di ‘Yom Echad’, Giorno Uno. Non ha senso parlare di cronologie su quanto dice la Torà del giorno uno: il Tempo ancora non c’era. Ed è qui il punto di Rabbì Jeoshua, se mi parli del giorno ‘Uno’ ti devi ricordare che questo trascende. Si è primi quando c’è un secondo, ma noi possiamo far sì che non ci sia questo giorno secondo di separazione e se noi impariamo a ricomporre le acque allora sì ‘In quel giorno sarà il Signore Unico ed il Suo Nome Unico.’ E noi potremo riportare il mondo all’Unicità di quel giorno uno (che non è primo) che è poi secondo i Saggi preludio del giorno di Kippur. Ed ancora Ben Zomà è assorto in pensieri eccelsi nel Santuario, ma è seduto per terra. Nulla lo esime dal rispetto per il proprio Maestro. Se si volesse veramente innalzare dovrebbe cominciare con l’alzarsi da terra e dare il dovuto rispetto alla Torà ed a chi la rappresenta. Se non capisce che non ci sono neanche tre dita di distanza tra i più alti studi della Torà e la semplice regola di alzarsi dinanzi al Maestro, Ben Zomà è ancora fuori dalla comprensione profonda. L’Attaccamento, la Devekut, sono lo scopo della vita umana. Ma come ci si attacca a D-o? Facendo le mizvot. E forse ancora di più,

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attaccandosi ai Saggi, ‘Attaccati alla polvere dei loro piedi’ dice il Pirkè Avot. Non c’è bisogno di meditazioni trascendentali, basta la polvere dei loro piedi, basta vedere come si allacciano le scarpe. L’ebreo ha l’occasione di attaccarsi a D-o in ogni momento attraverso le mizvot. C’è una mizvà che più delle altre simboleggia questo attaccamento. I Tefillin. I Tefillin sono le ali di colomba, quelle ali che ci proteggono e ci insegnano a legare assieme cielo e terra. Spiega il Gaon di Vilna [Kol Mevasser] che si tratta di due mizvot che vanno fatte assieme ed infatti non si deve parlare tra l’apposizione dei due tefillin. Essi simboleggiano cuore ed intelletto, pratica e pensiero, acque inferiori ed acque superiori e ci consentono ogni giorno di legarci a D-o. È per questo che il Talmud (TB Berachot 47a) non trova altra definizione valida per un ‘am haarez’, un uomo della terra, un ignorante, che un ebreo che non metta i tefillin. Non mettere i Tefillin la mattina significa aver rinunciato a quella parte di Cielo che è in ognuno di noi ed aver scelto di essere uomo della terra. Dice il Baal Shem Tov che quando si mettono i Tefillin l’anima vorrebbe staccarsi dal corpo ed è per questo che ci leghiamo con essi, per non volare via. Quanta profondità in queste parole. Mentre si lega a D-o l’ebreo deve ricordare che il suo posto è qui sulla Terra, è da qui che può legare cielo e terra con i lacci dei Tefillin. Come avevamo detto nelle scorse settimane l’esperienza delle feste non si esaurisce ma anzi ci lancia in un nuovo anno pieno di sfide e di salite al servizio di D-o. E così anche questa settimana abbiamo proseguito lo studio dello Shemà che ci ha accompagnato da Rosh Hashanà. Se Bereshit era ‘veshinnantam’, ‘lo insegnerai-ripeterai ai tuoi figli’, Noach è ‘Ukshartam’, ‘E le legherai’. ‘E le legherai come segno sul tuo braccio e come frontale tra i tuoi occhi’ (Deuteronomio VI,8) L’imperativo di legarci a D-o in ogni nostra azione, anche e soprattutto nella vita sessuale. La sfida di legare anima e corpo, cielo e terra, acque superiori ed acque inferiori. La promessa di legare assieme i due pezzi apparentemente separati del secondo giorno della creazione e far tornare il primo giorno ad essere giorno ‘Unico’, nel giorno in cui il Signore sarà Unico ed il Suo Nome Unico.

5764 Nimrod e l’idolatria “E Cush generò Nimrod, egli iniziò ad essere forte nella terra. Egli era forte nella caccia dinanzi al Signore, per questo verrà detto: ‘Come Nimrod, forte nella caccia davanti al Signore’.” (Genesi X, 8-9) “ad essere forte: per far ribellare tutto il mondo contro il Santo Benedetto Egli Sia con la congiura della generazione della dispersione.” (Rashì in loco)

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Si fa un gran parlare di globalizzazione, di quanto il mondo sia sempre più un unico grande villaggio globale. La nostra Parashà ci porta in un mondo lontano (ma poi così tanto?) nel quale tutta l’umanità era riunita in una grande valle, che ha dato i natali al mondo civilizzato così come noi lo conosciamo. È il mondo della “generazione della dispersione”, la generazione di coloro che volevano costruire una Torre che preservasse la loro unità e che furono invece dispersi ai quattro angoli della terra, separati ora non solo dalla distanza geografica ma anche da quella culturale della confusione delle lingue. La storia è nota, ma troppo spesso la leggiamo di corsa, immersi nei grandiosi eventi della Creazione e del Diluvio, ed appena prima di iniziare con Avraham la storia d’Israele. Ed invece è una Parashà fondamentale il cui approfondimento è imprescindibile per il nostro mondo, così piccolo e globalizzato ma allo stesso tempo così scisso e frammentato. Cosa successe effettivamente in quella Valle di Shinnar quattromila anni fa ? Il primo fatto degno di nota è la nascita di un personaggio singolare. Si tratta di uno dei figli di Cush, figlio di Cham, nipote di Noach. Cham mette su una bella famigliola sulla quale poi torneremo. “Ed i figli di Cham: Cush e Mizraim e Put e Kenaan. Ed i figli di Cush: Sevà e Chavilà e Savtà e Raamà e Savtechà; ed i figli di Raamà: Sheva e Dedan.” (Genesi X,7) In modo assai sorprendente riprende il Testo: “E Cush generò Nimrod…”. Tale stranezza non sfugge al Chizkuni: “Il fatto che non ha contato Nimrod con il resto dei suoi fratelli è per mostrare le sue azioni isolatamente.” Nimrod è quello che verrebbe definito un uomo nuovo. Uno che non viene neppure contato assieme ai propri fratelli giacché rappresenta la nascita di qualcosa di nuovo. “…egli inizò ad essere forte nella terra. Egli era forte nella caccia dinanzi al Signore, per questo verrà detto: ‘Come Nimrod, forte nella caccia davanti al Signore’.” (Genesi X, 8-9) Secondo i Saggi questa forza è da intendere come l’esercizio del dominio politico ed in modo particolare il fatto che Nimrod diviene il primo re della storia. “…poiché fino a che sorse lui non ci fu uomo il cui cuore lo spingesse a dominare il popolo attraverso la propria forza, per questo ha detto [il verso] : ‘…nella terra’.” (Radak in loco). Ma non è la forza bruta della violenza, apparentemente, a caratterizzare Nimrod, quanto la forza della caccia. L’insostituibile Rashì ci dice che egli “cacciava la mente delle creature con la sua bocca e le portava a ribellarsi al Luogo.” Nimrod come cacciatore di consensi dotato di una particolare abilità oratoria è colui che attraverso la sua forza convince la sua generazione a ribellarsi a D-o, appena dopo il terribile diluvio. La forza in questione non è dunque una forza coercitiva, almeno non nel senso comune del termine. Nimrod non forza gli altri. Forza se

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stesso, ed infatti dice Rashì nello spiegare il senso della fine del verso, “per questo verrà detto: ‘Come Nimrod, forte nella caccia davanti al Signore’.”: “di ogni uomo che fa del male con forza, che conosce il suo Creatore e che intende ribellarsi contro di Lui, verrà detto: ‘Come Nimrod, forte nella caccia’“. Dunque la ghevurà, la forza di Nimrod è una forza autodistruttiva. La forza di cui si deve armare colui che è malvagio non per caso, per maleducazione o comunque con attenuanti. Di colui che conosce il suo Creatore e che intende ribellarsi contro di Lui. Ed è monumentale il commento del Marhal di Praga in Gur Ariè su quanto dice Rashì: “Il senso semplice del Testo è che era un re risoluto; in ogni modo il fatto che lo Scritto ricorda la sua risolutezza e la sua forza dinanzi al Signore, significa che egli faceva ribellare contro il Santo Benedetto Egli sia, giacchè non è inerente la forza dinanzi al Signore, ed egli iniziò ad essere forte dinanzi al Signore in luogo della più degna sottomissione. Questo indica che la sua risolutezza, la risolutezza nella rivolta è una questione di idolatria, e che per mezzo di ciò egli faceva ribellare contro il Santo Benedetto Egli Sia, e per questo è chiamato forte nella caccia, giacché il forte nella caccia è caratterizzato dall’inganno e dal raggiro e non procede per la via semplice e retta. E questa era anche la loro fede. E dal fatto che è scritto ‘dinanzi al Signore’ viene a dire che non era solo forte nella caccia come gli altri forti cacciatori, ma anche raggiratore nelle questioni Divine fino a che faceva ribellare le creature contro di Lui, benedetto Sia. E così anche di Esav è detto “uomo di caccia”, contrariamente a Jacov che è “semplice”; da ciò saprai che il cacciatore è ingannatore e raggiratore rispetto al retto.” Nimrord è colui che applica la strategia del raggiro tipica della caccia nelle questioni teologico-culturali. Ed ecco Ibn Ezra dirci che Nimrod costruiva altari e vi offriva olocausti al Signore. Ed in effetti il regno di Nimrod è un regno apparentemente ineccepibile. Non è un regno apparentemente idolatra ed a prima vista non si capisce da dove tiri fuori il Marhal l’idea dell’idolatria. Sì, il Midrash ci dice che erano idolatri, ma l’idolatria non sembra interessare più di tanto se lo stesso Ibn Ezra ci dice che Nimrod sacrificava al Signore. Nimrod è un re risoluto, molto più carismatico ed ammaliatore che non prevaricatore con un chiaro programma politico. “Orsù costruiamo per noi una città ed una torre e la sua cima in cielo e facciamoci un nome, affinché non ci si disperda sulla faccia di tutta la terra.” (Genesi XI, 4) Lavori pubblici, grandi lavori pubblici, grandi opere. E che male c’è? Non è forse un bene, anzi un precetto l’operosità umana? Non è la Torà a dirci (Bereshit Rabbà XI,7) “Tutto quanto è stato creato nei sei giorni dell’operosità richiede operosità”? L’ebraismo fa del lavoro umano uno

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dei pilastri della vita, Nimrod non ne può fare il suo programma di governo? Don Izchak Abravanel dice che la questione della costruzione è in realtà la forma visibile della filosofia che li accompagnava, quella del lavoro umano, della amministrazione politica della statalizzazione, della modernizzazione. Chiudiamo gli occhi e cerchiamo di immaginarli, i nostri progenitori. Perché in quella valle c’era gente che faceva concorsi per un posto da ingegnere nella costruzione e nei giornali non si parlava di altro che della costruzione di una torre che per definizione, come dice Rav Mordechai Elon shlita, non deve finire mai. Per la prima volta in questi versi l’umanità è chiamata “benè Adam”, i figli di Adam. Rav Elon spiega che questo ci richiama alla principale occupazione di Adam: dare nomi agli elementi del creato. Il nome, lo abbiamo detto più volte, rappresenta l’obiettivo, l’aspirazione. Adam e noi con lui, è preposto a dare un senso, uno scopo, agli elementi del creato, a dare i nomi. Nella valle di Shinnar sono tutti ad adoperarsi per un opera che non può e che non deve finire, perché essa è ciò che ci consente di farci un nome. L’uomo rinuncia al suo mandato Divino di dare un senso al mondo attraverso il suo utilizzo degli elementi del creato nel bene e cerca il proprio senso in quel lavoro che invece è solo strumento e mai obiettivo. Ce lo spiega Rabbì Izchak Aramà nel suo Akedat Izchak: “Gli uomini di quella generazione …decretarono nella loro mente che il loro obbiettivo specifico era l’unione politica e che questo è il più alto degli obbiettivi dell’umanità e loro non peccarono nel pensar ciò, quanto nel sedersi lì e nel vedere questa questione come un obbiettivo a sé e non lo fecero come percorso per un obbiettivo più grande di questo che è la questione del successo spirituale.” In questo mondo dove di globale c’è solo la materialità dell’incapacità di sapersi definire per ciò che si è piuttosto che per ciò che si fa, viene stravolta l’immagine Divina che è impressa nell’uomo. E la brutalità del sistema-torre dove si conta per il piano in cui si ha l’ufficio è espressa in maniera tremenda dal Midrash (Pirkè DeRabbì Eliezer su Bereshit XI,1) : “…se cadeva un uomo e moriva non se ne curavano, ma se cadeva un mattone si sedevano e piangevano e dicevano: ‘Ohi a noi, quando ne salirà uno al suo posto?’.” Ed è in questa città dove si erge la torre dell’indifferenza che si aggira un uomo, Avraham nostro padre, che va predicando che c’è un “manigh laBirà”, c’è Chi conduce la Capitale, e con buona pace del mondo intero che è al suo servizio, non si tratta di Nimrod. Ed è quasi una fotografia della situazione il Midrash in Yalkut Shimonì che così commenta il verso dei Salmi (XXVI,4) “Non sono stato con le persone bugiarde….”

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“Parla di Avraham. Non sono stato con le persone bugiarde, questi sono gli uomini della Torre. Vennero e dissero ad Avraham: ‘Vieni ed aiutaci giacché tu sei forte e costruiremo una torre che arrivi in Cielo.’ Disse: ‘Avete lasciato: ‘La torre della forza è il Nome del Signore (Proverbi XVIII,10) e voi dite ‘facciamoci un nome’ ? Ma pensiamoci un attimo. Sapevano tutti chi era Avraham. Sapevano tutti che era l’unico che aveva fede nel D-o unico in un epoca che aveva lasciato il Signore per il culto degli elementi della natura, prima come strumento (errato) per servire Iddio e poi per idolatria vera e propria come spiega il Maimonide. Che vogliono da Avraham? Vogliono il timbro di kasherut. Vogliono avere da Avraham l’avvallo a quanto stanno facendo. Sanno che Avraham è forte e risoluto se con ciò intendiamo la consapevolezza del potere enorme interno all’uomo in quanto tale. Non hanno capito che Avraham ha già intuito che la potenzialità dell’uomo è mirata a farne un servo di D-o e non un re degli altri e di se stesso. Quanto è forte la critica di Avraham verso la società nella quale vive: ‘Avete lasciato: ‘La torre della forza è il Nome del Signore (Proverbi XVIII,10) e voi dite ‘facciamoci un nome’ ? Voi costruite una torre per trovare voi stessi attraverso la vostra forza ma non avete capito che fino a quando ripudiate la verità e cioè che Iddio ha instillato la forza nell’uomo affinché questi sappia dominare il proprio istinto e contribuire alla ricomposizione del Nome di D-o, non avete capito nulla. ‘La torre della forza è il Nome del Signore, in Esso corre il Giusto ed è fortificato.’ E’ uno scontro tra due mondi. Il noto midrash ci dipinge Avraham nella sua ricerca del D-o unico, che giunto alla conclusione che gli idoli di suo padre Terach sono solo dei pezzi di legno, li brucia per poi lasciarne uno solo con la torcia in mano. Quando viene Terach e chiede spiegazioni Avraham incolpa l’idolo, al che Terach dice: ‘Figlio folle, e che questi hanno forza o spirito vivente che posso fare tutto ciò, non li ho forse fatti io dal legno?’ Disse lui: ‘Ascoltino le tue orecchie quello che dice la tua bocca: e se non c’è forza in essi perché mi hai detto: il mio dio ha creato il cielo e la terra’? Meno noto è il resto del Midrash come viene riportato da Rabbenu Bechaje su Genesi XV,7. Un Terach confuso dal figlio che scardina il sistema nel quale il divino è ciò che intaglio io nel legno e con cui magari decoro la grande torre, conduce il figlio ribelle dal grande re Nimrod per una ramanzina e magari qualche lezione di filosofia prima di essere buttato nel fuoco con il quale voleva distruggere il loro mondo idolatra.

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“Che fece Terach? Andò da Nimrod e gli disse: ‘Mio figlio ha bruciato il mio dio ed il tuo dio con il fuoco!” Su Avraham pende ora l’accusa di deicidio. Avraham è scomodo perché mi sta dicendo che fino a quando faccio dell’uomo D-o (o di D-o l’uomo) sono fuori strada. “Mandò Nimrod a cercare Avraham. Disse lui: ‘Perché hai fatto ciò?’ Disse lui: ‘Io non ho fatto ciò, ma il più grande [degli idoli]’. Disse lui Nimrod: ‘E che hanno spirito vivente che possono fare ciò?’ Disse lui: ‘Ascoltino le tue orecchie quello che tu parli con la bocca: e se non hanno forza perché lasciate Colui che ha creato il Cielo e la Terra e vi inchinate al legno?!” Si ripropone la stessa scenetta, ma Nimrod, il teorico del sistema-torre non ha da chi fuggire come Terach e si rivela per quello che è. La sua risposta ad Avraham è la risposta che cova in fondo a tutti coloro che ripudiano il D-o unico incorporeo, immateriale, Santo nel senso di distinto, diverso e in nessun modo paragonabile all’uomo. È la risposta di coloro che fanno le acrobazie filosofiche per dimostrare che Iddio è in pezzi di legno o pietra o carne. “Disse lui [Nimrod]: ‘Sono io che ho creato il cielo e la terra con la mia forza!’“ È lo stesso Nimrod che secondo Ibn Ezrà offriva sull’altare al Signore, lo stesso che fa del raggiro la sua teologia e che pensa che un bel pezzo di legno [che io ho intagliato] dinanzi al quale mi inchino, può permettermi di continuare a pensare ‘Sono io che ho creato il cielo e la terra con la mia forza!’ Noi pensiamo sempre che la discrepanza dell’idolatria sia prostrarsi ad una statua nonostante questa sia opera delle mie mani. Non capiamo che la radice dell’idolatria è piegarsi dinanzi alla statua perché opera delle mie mani. ‘Mio figlio ha bruciato il mio dio ed il tuo dio con il fuoco!” Perché mio figlio ha bruciato l’idea che il divino è nel mio pezzo di legno e nella tua torre. Perché mio figlio sostiene che non è dal nostro lavoro che troviamo definizione ma piuttosto da quanto siamo capaci di definire ed indirizzare il mondo al servizio di D-o , e non al servizio del mio io. Perché mio figlio dice che dovemmo cominciare a chiamare con dei nomi e non a cercare di farcene uno! È Avraham che insegna al mondo il concetto di timore di D-o, quello che Rav Elon shlita definisce come il timore che il mio Io diventi dio. È lo stesso Avraham che rovescia la torre nel dire che sono più in alto quanto più mi lego a chi è in basso. È quell’Avraham del quale è detto “Poichè ho detto: ‘Il mondo si costruirà sul chesed...”. È sulla bontà dell’assistenza al prossimo di quell’Avraham che sa mettere in attesa il

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Signore quando ha degli ospiti alla porta, che si regge il mondo. E questa è la chiave del discorso. Che siamo veramente uomini nel senso pieno e santo del termine quando capiamo che il nostro compito è quello di servire Iddio, non di divenire noi stessi un dio o di fare di dio un uomo, o un’opera umana. Perché lo stesso Avraham ha insegnato al mondo la fiducia nel D-o unico dando ai viandanti da mangiare, per poi rifiutare il loro ringraziamento invitandoli a ‘benedire Colui del quale abbiamo mangiato.’ Purché in quel mondo di filosofi dell’idolatria dell’uomo e di gente che cercava Iddio nei raggiri della costruzione della Torre, l’unico che parla veramente con D-o è colui che nello scegliere tra il parlare con l’Eterno e ricevere degli ospiti, sceglie senza il minimo dubbio di accogliere lo straniero. Rav Elon shlita nota: Quattro figli ha Cham, colui che vuole recidere la radice sacra di Noach: Cush, Mizraim, Put e Kenaan. Put, secondo il Midrash ( Bereshit Rabbà XXXVII,2) sparisce tra le genti. Con gli altri tre abbiamo un conto aperto. Mizraim , l’Egitto come regno del male e della schiavitù, e Kenaan i cui figli profanano la Terra del Signore bruciando i bambini nel fuoco per servire divinità di legno. Noi usciamo dall’Egitto ed entriamo in Erez Kenaan, perché dobbiamo imparare quanto dice la Torà nella Parashà di Acharè Mot (Levitico XVIII,3) “come le azioni della terra d’Egitto…e come le azioni della Terra di Kenaan…non farete”. Ma anche con Cush e suo figlio Nimrod il conto è aperto. Fino a quando non sapremo ricondurre il mondo al servizio globale, rispettoso delle differenze, del Signore. Allora Iddio restituirà la lingua sacra universale, l’ebraico del popolo d’Israele e della Torà, a tutto il mondo come preannuncia il profeta Zefanià: “Allora farò voltare ai popoli una lingua chiara nel chiamare tutti nel Nome del Signore e nel servirlo assieme. Dal di là dei fiumi di Cush... porteranno la mia offerta.” (III,9-10) E noi lo vediamo così Avraham nostro padre, aivrì, colui che viene dal di là del fiume: ad insegnare Torà ad Eliezer figlio di Nimrod (Targum Jonathan ben Uziel XIV,14) e prima tra le anime fatte da Avraham a Charan. Ad insegnare al figlio di Nimrod che non posso farmi un nome, ma chiamando nel Nome di D-o posso creare l’anima di ognuno al quale ho insegnato una lettera della Torà. La redenzione di Cush e del mondo intero è iniziata lì.

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5767 I tre mondi di Noah e quelli nostri Il Midrash (Yalkut Shimonì) afferma che Noach vide tre mondi: il mondo prima del diluvio, il mondo durante il diluvio ed il mondo dopo il diluvio. Come in passato abbiamo visto ciò si riferisce in primo luogo alla diversità climatica di questi tre periodi. Ricorderemo che secondo il grande maestro italiano Ovadià Sforno, il mondo prima del diluvio era in uno stato di costante primavera. Lo stesso Sforno ci ricorda che prima del diluvio i bambini avevano la stessa maturità, nel senso della stessa presenza di istinto del bene ed istinto del male, degli adulti. È solo dopo il diluvio che i bambini vengono privati dell’istinto del bene e lo acquistano gradualmente con la crescita. A mio modesto avviso è possibile seguire la traccia dei tre mondi di Noach per capire anche il percorso dell’ebreo nella sua vita.

1. Potremmo dire che il mondo prima del diluvio è comparabile all’infanzia dell’ebreo. Si tratta di un mondo in cui Noach è definito “un uomo perfettamente integro”, è un mondo fatto di buoni, Noach e la sua famiglia, e cattivi, il resto dell’umanità che viene sterminata dal diluvio. È un mondo di perenne primavera, in cui il valore energetico del cibo è estremamente superiore a quello del cibo del nostro mondo. È un mondo sostanzialmente semplice. È il periodo dell’infanzia dell’ebreo, nel quale non ci sono doveri, e si è in una condizione di assoluta purità.

2. Al compimento del tredicesimo anno di età (il dodicesimo per le bambine) si diviene responsabili del proprio comportamento, tenuti all’osservanza delle mizvot e come tali membri a pieno titolo della società adulta. Dopo il bar mizvà si è capaci di intendere e volere, si è responsabili delle proprie azioni dinanzi agli uomini, giacché il Tribunale Divino non punisce fino al compimento del ventesimo anno di età. Quella che va dai tredici ai venti anni è una delle fasi più delicate della vita umana. Grandi cambiamenti avvengono attorno all’adolescente, un vero e proprio diluvio. Potremmo paragonare questa fase della vita al mondo del diluvio. In questo momento l’ebreo è chiamato a costruirsi la sua arca, a rendersi stagno dai tumulti del mondo che ci assalgono ed a lasciar fuori l’istinto del male (Og re di Bashan che si attacca all’arca nel Midrash) ed a farsi provviste per se e per coloro che gli sono attorno. La delicatezza di questa fase è apprezzabile in uno dei suoi più dirompenti aspetti: la sessualità. Noach e tutti coloro che erano con lui nell’arca vengono comandati dal Santo Benedetto Egli Sia di astenersi dai rapporti sessuali per tutti i dodici mesi del diluvio. Questa richiesta è in effetti parallela nella vita dell’adolescente. Il momento che marca l’inizio della vita adulta, il bar-bat mizvà coincide in effetti con lo sviluppo sessuale. I Maestri ci insegnano però che non è questa ancora l’età per contrarre matrimonio. “a diciotto anni per la Chuppà” è scritto nel tratto di

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Avot, dicendoci anche che è tollerabile un lieve rinvio per questioni economiche e di studi. Siamo allora prossimi ai venti anni.

3. A venti anni l’ebreo è pronto per costruire una famiglia, è un adulto a tutti gli effetti, dinanzi a D. e non solo davanti agli uomini. È il momento in cui Noach esce dall’arca e viene invitato a riprendere la coabitazione con sua moglie. E qui la vita si rivela nella sua complessità. Quello che una volta era un giusto integro diviene un uomo della terra. Il lavoro e la ricerca degli alimenti rappresentano la grande sfida dell’uomo adulto che si deve confrontare anche con le proprie mancanze, i propri difetti e le proprie sconfitte. Con rapporti a volta conflittuali con i figli e via dicendo.

Il mondo dopo il diluvio è un mondo di stagioni, e queste stagioni le troviamo anche nella vita dell’uomo.

Partendo da ciò vorrei provare a definire alcune sfide che mi sembrano centrali per un ragazzo/a che compie il suo bar/bat mizvà ai giorni nostri. La società che ci circonda ha dei seri problemi con la sua sessualità. La proiezione di valori consumistici nella sfera del rapporto di coppia, rende le relazioni episodi con data di scadenza. Ciò è particolarmente vero per gli adolescenti. La Torà crede nel rapporto matrimoniale come unico veicolo per la realizzazione del progetto Divino per l’umanità e vede nella vita sessuale della coppia uno dei più grandi precetti della sua Halachà. Al contempo la Torà chiede rispetto, purità, amore e tanto altro. Il rapporto sessuale è nella coppia ebraica il coronamento di un percorso continuo, un percorso che i coniugi devo affrontare assieme nel rispetto delle leggi della purità familiare. Sono conscio del fatto che non sono questi discorsi che si facevano una volta ai Bar Mizvà, per pudore, per non anticipare i tempi e per mille altri motivi. Ma come insegnano i nostri Maestri, Amalek si infila nelle intercapedini che noi lasciamo tra una generazione e l’altra e noi non possiamo permetterci, per pudore, di lasciare il palco agli Amalek di turno. Ad un Bar Mizvà di oggi che viene bombardato attraverso ogni media con messaggi che gli presentano una sessualità distorta, noi abbiamo l’obbligo di spiegare quella che è la via della Torà. Se fuori c’è il diluvio noi dobbiamo aiutare i nostri Bar Mizvà a costruire la loro arca, a renderla stagna, ed a sopravvivere ad un mondo che si autodistrugge, allora come oggi, anche sulla base dell’immoralità sessuale. Bisogna aiutarli a lasciare fuori quegli Og che rapiscono le figlie degli uomini e che cercarono di rapire Sarà nostra madre. (cfr. Midrash). L’altra grande sfida di un adolescente ebreo oggi è la alyà, la salita verso Erez Israel.

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Poco sappiamo della collocazione geografica di Noach prima del diluvio, sappiamo invece che dopo il diluvio egli costì un altare a Jerushalaim (Rambam) e che Shem suo figlio ne divenne re. (Malkizedek re di Shallem è Shem figlio di Noach). Usciti dall’arca, finita la scuola, verso i diciotto, venti anni, i nostri ragazzi hanno oggi un’opportunità che generazioni di ebrei hanno solo sognato: salire in Israele. Solo in Erez Israel un ebreo può vivere pienamente la sua vita ed essere parte del piano di D. per un mondo migliore. Ciò è senz’altro vero per ogni fascia di età, ma c’è un momento, nella vita dell’uomo di oggi, in cui determinate scelte sono più facili. È certo più facile per un ragazzo di venti anni venire a studiare in Israele che non organizzare una relocation di una famiglia intera, per quanto anche questo andrebbe fatto. Sono questi due argomenti, che mi sembrano particolarmente importanti, ma ce ne sono senz’altro altri. Credo sia arrivato il momento di capire, a livello familiare e comunitario, che i nostri ragazzi sono molto diversi da quelli di una volta. Capiscono il mondo di oggi meglio di quanto non lo facciano persone anziane. È però dalle generazioni che li hanno preceduti che debbono apprendere quei valori che non scadono, e che sopravvivono ad ogni cambiamento. Per fare questo le generazioni si debbono parlare, con onestà, con rispetto e con tanta tanta pazienza. E forse è a questo che il profeta pensava dicendo “e farà tornare il cuore dei padri verso i figli ed il cuore dei figli ai loro padri”.

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5769 Schiavi e schiavitù “E disse: ‘Maledetto sia Kenaan, schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli’” (Genesi IX, 25) “...tutti gli schiavi vengono chiamati con il nome di Kenaan, dal momento che è scritto di lui ‘schiavo degli schiavi’.” (Rashì 22b) Immediatamente dopo il diluvio, nell’episodio dell’ubriacamento di Noach, la Torà introduce in maniera alquanto singolare il concetto di schiavitù. Noach maledice Kenaan (che secondo la maggior parte dei commentatori lo ha evirato) con la maledizione della schiavitù. Ma che cos’è la schiavitù? È necessario ricordare che la risposta a questa domanda non è cosa secondaria per un popolo che nasce in condizione di schiavitù ed è altresì interessante notare che uno dei primi set di regole che vengono dati dopo l’uscita dall’Egitto sono le regole degli schiavi. La halachà conosce fondamentalmene due tipi diversi di schiavo: eved ivrì ed eved kenaanì. Lo schiavo ebreo e lo schiavo canaaneo. L’eved ivrì è un ebreo che si vende, o meglio che vende il proprio lavoro, generalmente per sei anni (ed in alcuni casi fino al giubileo). Le condizioni dello schiavo ebreo sono molto diverse da quelle dello schiavo nell’immaginario collettivo. Non può essere utilizzato per lavori pesanti, degradanti, inutili e/o ben definiti. (Rambam, regole degli schiavi I,6). Lo schiavo ebreo deve godere delle stesse condizioni del padrone: mangiare lo stesso cibo, dormire nello stesso tipo di letto, vestire gli stessi abiti, ed abitare nello stesso tipo di abitazione. Inoltre egli ha diritto ad una liquidazione e non è cedibile a terzi. In caso di morte del padrone non passa in eredità (tranne in casi estremi). Nel Talmud (Kidhushin 16a) i Saggi discutono se il padrone ha su di lui kinian haguf , proprietà della persona, o se viste le condizioni non proprio denigratorie, la proprietà del padrone non vada intesa che simile a quella che si ha su un debito. L’eved ivrì può riscattarsi infatti in ogni momento pagando al padrone la differenza (ossia il valore del tempo residuo del suo servizio). D’altra parte egli può decidere di non terminare il suo rapporto col padrone al termine dei sei anni e, dopo la cerimonia della foratura dell’orecchio prevista dalla Torà, può restare al servizio del padrone fino al giubileo. Esistono tre tipi di eved ivrì:

• Un ebreo che ha rubato e non ha di che risarcire può essere venduto dal tribunale nella misura necessaria a restituire il suo debito. A questa categoria si applica la liberazione automatica dopo sei anni. Questa regola vale solo per gli uomini: il tribunale non ha l’autorità di vendere una donna.

• Un ebreo che, in ristrettezze economiche, decide di vendersi (o meglio, come abbiamo visto, di vendere il proprio lavoro). In

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questo caso la vendita può eccedere i sei anni, non viene “forato”, e non riceve liquidazione.

• Un ebreo che si vende ad un gentile. In questo caso i parenti hanno l’obbligo di riscattarlo.

Vediamo quindi che più di vera e propria schiavitù, si tratta qui al massimo di un prestare servizio. Rav Mordechai Elon shlita spiega che l’idea che c’è dietro il concetto di eved ivrì è che esistono nella società delle persone che non sono in grado di gestirsi economicamente. Queste vanno affiancate da famiglie stabili sia economicamente che spiritualmente che possono dargli quella stabilità e serenità per provare a trovare il loro percorso. Le regole dell’eved ivrì vengono quindi a definire i rapporti tra queste persone e chi li prenderà a servizio. Va comunque sottolineato che le regole dell’eved ivrì sono in vigore solo quando lo è il giubileo e che quindi oggi non sono applicabili. L’eved kenaanì, lo schiavo canaaneo, è invece un gentile che si vende (o che viene venduto da un altro gentile che lo possedeva) ad un ebreo. Il termine schiavo canaaneo, deriva dal nostro verso fonte, che è appunto il verso che introduce il concetto stesso di schiavitù, come abbia visto dal commento di Rashì. In questo caso l’ebreo non ha piena proprietà dello schiavo fintanto che questi è gentile (non c’è kinian haguf) e non diviene quindi un eved kenaanì, fino a quando non si converte (ovviamente volontariamente) all’ebraismo, e si circoncide ed immerge nel mikwè con l’intenzione di divenire eved kenaanì. Attraverso questo processo, che, ripetiamo, deve essere assolutamente spontaneo e volontario, lo schiavo divene soggetto alle mizvot come una donna: è ossia esente dai quei precetti positivi legati ad un tempo prciso, le cosiddette mizvot asè she hazeman gheraman. In questo caso l’everd kenaanì è considerato proprietà del padrone e può essere venduto ed utilizzato per lavori umili per quanto il Rambam codifica che comunque deve essere trattato con rispetto. E già la Torà ha stabilito che nel caso in cui lo schiavo venga picchiato duramente, questi diviene automaticamente libero e che se viene ucciso dal padrone, questi viene processato come omicida e può essere condannato a morte se ci sono gli estremi (estremamente rari in ogni caso).

Possiamo dunque dire che entrambe le categorie hanno in comune il fondamentale rispetto che la Torà richiede nei confronti di chiunque indipendentemente dal suo status. Possiamo anche distinguere i due casi e dire che in realtà il caso dell’eved ivrì è fondamentalmente l’impalcatura legale che regola l’integrazione nalla società di persone che si trovano in condizioni precarie. Rimane da capire il senso dell’eved kenaanì.

Rav Mordechai Elon shlita, spiegando i versi della nostra Parashà sottolinea come Kenaan sia schiavo delle poprie pulsioni: quelle stesse pulsioni sessualmente devianti che Iddio ha voluto cancellare con il

Page 32: Discorsi sulla Torà - 2 Noach -  · Ha detto il Testo: ‘Possa il Signore rendere esteso Jefet e risieda nelle tende di Shem’. Le parole di Jefet siano nelle tende di Shem.”

Jonathan Pacifici - Commenti alla Parashat Noach - www.torah.it 30

diluvio. Egli minaccia il progetto di santità coniuguale che Noach traghetta con l’Arca. Egli deve essere sottomesso allora a Shem in modo da poter educarsi e liberarsi da se stesso in primis. In maniera straordinaria Israele diviene schiavo in Terra di Cham (l’Egitto) e deve conquistare ed ereditare la Terra di Kenaan. (Cham è il padre di Kenaan). Egitto e Kenaan sono proprio quei modelli di immoralità sessuale dalla quale Iddio ci ordina di separarci nel nostro entrare in Erez Kenaan, allorquando veniamo chimati a trasformare questa in Erez Isreael. Il percorso dell’eved kenaanì, è allora il percorso della sottomissione dell’istinto alla santità e la sua trasformazione in strumento di mizvà. La partita aperta che abbiamo con Egitto (Cham) e Kenaan verte proprio sulla purità sessuale: basti ricordare Josef con la moglie di Putifar, Josef che mostra il contratto nuziale al padre Jacov, di come il Faraone vuole sedurre Shifrà e Puà e dei suoi piani per le bimbe ebree che, al contrario dei maschi, non vuole gettare nel Nilo. Il midrash sottolinea più volte il lavoro instancabile delle ebree per mantenere la purità del nucleo familiare in Egitto, ed abbiamo anche visto in passato che Amram è colui che insegna in Egitto le regole relative al matrimonio. Così anche in Erez Israel, lo abbiamo visto recentemente, la grande caduta del re Salomone è proprio nel suo legarsi in matrimonio con la figlia del Faraone! Non è quindi un caso che l’eved kenaanì debba fare la milà che sancisce il ripudio dell’immoralità sessuale e conoscere quella condizione giuridica della donna ebrea che è alla base della casa ebraica. È allora straordinario notare che il Talmud tratta le regole degli schiavi proprio nel trattato di Kiddushin, il trattato che si occupa del matrimonio nella sua santità! Al mondo della lussuria di coloro che sono schiavi dei propri istinti la Torà contrappone il mondo del rispetto e della santità. Ed ecco allora Isaia descrivere in maniera sublime nella nostra Haftarà il rapporto di coppia tra Israele ed il Signore che non ha paragone se non nella pudicizia, purità e santità della coppia ebraica.