Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I -...

62
Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico; il diritto penale come ambito del diritto pubblico; l’inflizione della pena come massima espressione del potere di ingerenza dello Stato nella sfera dei diritti individuali, posto che può implicare la privazione della libertà personale: per cui, eccezionalmente, tale potere non è esercitato da organi amministrativi (dal potere esecutivo), ma direttamente dal potere giudiziario (ne deriva che se contro un atto amministrativo è possibile il ricorso a un giudice, contro un provvedimento giudiziario penale è possibile il ricorso a un grado superiore di giudizio); illeciti amministrativi e illeciti penali (reati); - richiamo della nozione di divisione dei poteri (potere esecutivo, potere legislativo, potere giudiziario); potere esecutivo come potere di obbligare: è il potere originario dal punto di vista storico, il potere del sovrano, che solo successivamente diviene un potere attribuito dalla legge così come fissata dal Parlamento (e, in tal senso, diviene potere esecutivo della legge); è esercitato, oggi, dalle pubbliche amministrazioni, che in ambito statale hanno al loro vertice il Governo, quale autorità di natura politica; il potere giudiziario, in quanto potere indipendente dall’esecutivo, dirime il contenzioso tra il potere esecutivo e le persone (fisiche o giuridiche) oppure tra queste ultime; - la radicata incidenza nella nostra cultura di un modello (retributivo) della giustizia fondato sulla corrispettività dei comportamenti (positivo per positivo, negativo per negativo) o, in altre parole, sull’immagine della immagine della bilancia; - il ruolo pressoché esclusivo che mantiene nel sistema penale la condanna alla pena detentiva (art. 17 c.p.), come espressione di tale concetto della giustizia, posto che quest’ultimo esige una volta abbandonato il criterio del taglione un’unità di misura omogenea (la durata della permanenza in carcere) attraverso la quale costruire la corrispettività tra reato e pena. - il rapporto tra criminologia (conoscenza del fenomeno criminale con riguardo ai contesti di manifestazione dei singoli reati e alle caratteristiche personali degli autori), politica criminale (intesa come strategia complessiva di contrasto della criminalità, non riferita soltanto alla previsione di reati) e diritto penale: il rischio che il dare per scontata la caratterizzazione retributiva della giustizia (secondo cui tutto quel che c’è da fare nei confronti dei reati è prevedere ritorsioni per il caso della loro commissione) conduca a trascurare la conoscenza dei contesti in cui si producono i reati (criminologia) e la progettazione di strategie complessive di contrasto del fenomeno criminale (politica criminale) che non si riducano all’intervento penale (e a un intervento penale che utilizzi pressoché esclusivamente la condanna a pena detentiva); la tradizionale riduzione della politica criminale al diritto penale e a un diritto penale che, nel momento della condanna, resta incentrato sulla inflizione di una pena detentiva (v. art. 17 c.p., considerato il ruolo del tutto secondario assunto dalle condanne a mera pena pecuniaria) riflette, infatti, l’idea (retributiva) soggiacente al diritto penale tradizionale, secondo cui la pena (poena, cioè sofferenza) dovrebbe consistere in un corrispettivo rispetto al reato (negativo per negativo, danno per danno); impostazione, questa, che richiede una unità di misura omogenea idonea a rappresentare attraverso la pena la gravità di ciascun reato: unità di misura che viene a concretizzarsi nella durata dosabile in maniera aritmetica della detenzione inflitta (la cui persistente centralità, pertanto, non dipende da considerazioni attinenti alla sua efficienza preventiva, posto che da questo punto di vista

Transcript of Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I -...

Page 1: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi)

22.2

- diritto privato (o civile) e diritto pubblico; il diritto penale come ambito del diritto

pubblico; l’inflizione della pena come massima espressione del potere di ingerenza dello Stato

nella sfera dei diritti individuali, posto che può implicare la privazione della libertà personale:

per cui, eccezionalmente, tale potere non è esercitato da organi amministrativi (dal potere

esecutivo), ma direttamente dal potere giudiziario (ne deriva che se contro un atto

amministrativo è possibile il ricorso a un giudice, contro un provvedimento giudiziario penale è

possibile il ricorso a un grado superiore di giudizio);

illeciti amministrativi e illeciti penali (reati);

- richiamo della nozione di divisione dei poteri (potere esecutivo, potere legislativo, potere

giudiziario);

potere esecutivo come potere di obbligare: è il potere originario dal punto di vista storico, il potere

del sovrano, che solo successivamente diviene un potere attribuito dalla legge così come fissata dal

Parlamento (e, in tal senso, diviene potere esecutivo della legge);

è esercitato, oggi, dalle pubbliche amministrazioni, che in ambito statale hanno al loro vertice il

Governo, quale autorità di natura politica;

il potere giudiziario, in quanto potere indipendente dall’esecutivo, dirime il contenzioso tra il potere

esecutivo e le persone (fisiche o giuridiche) oppure tra queste ultime;

- la radicata incidenza nella nostra cultura di un modello (retributivo) della giustizia

fondato sulla corrispettività dei comportamenti (positivo per positivo, negativo per negativo) o, in

altre parole, sull’immagine della immagine della bilancia;

- il ruolo pressoché esclusivo che mantiene nel sistema penale la condanna alla pena detentiva (art. 17 c.p.), come espressione di tale concetto della giustizia, posto che quest’ultimo esige – una volta abbandonato il criterio del taglione – un’unità di misura omogenea (la durata della permanenza in carcere) attraverso la quale costruire la corrispettività tra reato e pena.

- il rapporto tra criminologia (conoscenza del fenomeno criminale con riguardo ai contesti

di manifestazione dei singoli reati e alle caratteristiche personali degli autori), politica criminale

(intesa come strategia complessiva di contrasto della criminalità, non riferita soltanto alla previsione

di reati) e diritto penale: il rischio che il dare per scontata la caratterizzazione retributiva della

giustizia (secondo cui tutto quel che c’è da fare nei confronti dei reati è prevedere ritorsioni per il

caso della loro commissione) conduca a trascurare la conoscenza dei contesti in cui si

producono i reati (criminologia) e la progettazione di strategie complessive di contrasto del

fenomeno criminale (politica criminale) che non si riducano all’intervento penale (e a un

intervento penale che utilizzi pressoché esclusivamente la condanna a pena detentiva);

la tradizionale riduzione della politica criminale al diritto penale e a un diritto penale che, nel

momento della condanna, resta incentrato sulla inflizione di una pena detentiva (v. art. 17 c.p.,

considerato il ruolo del tutto secondario assunto dalle condanne a mera pena pecuniaria) riflette,

infatti, l’idea (retributiva) soggiacente al diritto penale tradizionale, secondo cui la pena (poena, cioè

sofferenza) dovrebbe consistere in un corrispettivo rispetto al reato (negativo per negativo, danno per

danno); impostazione, questa, che richiede una unità di misura omogenea idonea a rappresentare

attraverso la pena la gravità di ciascun reato: unità di misura che viene a concretizzarsi nella durata –

dosabile in maniera aritmetica – della detenzione inflitta (la cui persistente centralità, pertanto, non

dipende da considerazioni attinenti alla sua efficienza preventiva, posto che da questo punto di vista

Page 2: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

2

si rivela addirittura controproducente, ma dal modello di giustizia retributiva che le fa da sfondo);

se ne deduce il fatto che la pena non è intesa, nel momento della condanna, come un progetto,

significativo per il suo destinatario e per il suo rapporto con la persona offesa e con la società, ma,

per l’appunto, come un corrispettivo essenzialmente riferito alla gravità del reato (v. infra il

commento all’art. 133 c.p.): così che solo dopo la sua inflizione si vorrebbe piegare la condanna (v.

infra) ad assumere effetti rieducativi, come richiede l’art. 27, comma 3, Cost.; del resto, il giudice che

condanna non applica la pena sulla base di una conoscenza della personalità dell’imputato, stante la

preclusione di perizie sulla medesima ai sensi dell’art. 220, comma 2, c.p.p. (la portata garantistica

di tale norma, rivolta a evitare che il giudice possa rimanere influenzato da simili perizie nella

valutazione dei fatti e delle responsabilità, potrebbe pur sempre rimanere salvaguardata ove le perizie

di cui s’è detto fossero ammesse solo dopo le conclusioni sulla colpevolezza e, dunque, ai soli fini

della determinazione della pena, secondo prospettiva del c.d. processo bifasico);

- gli effetti di questa situazione sulla tradizionale marginalità sia degli studi criminologici

sulle forme di manifestazione dei reati, sia della progettazione politico-criminale: come se si

desse per scontato che la risposta ai reati consista semplicemente nel prevedere dei corrispettivi

sanzionatòri, così che, ai fini giuridici, quegli studi e quella progettazione risulterebbero

sostanzialmente inutili;

il che continua a comportare, soprattutto, una forte disattenzione nei confronti della prevenzione

primaria, attinente al contrasto dei fattori (personali, economici, culturali, ecc.) che favoriscono la

criminalità ed attuata attraverso interventi che dunque, si collocano in una fase antecedente rispetto

all’adozione di condotte penalmente rilevanti);

- la carenza di una seria progettazione politico-criminale è peraltro favorita, altresì, dalla caduta

di ruolo, cui si assiste da anni non solo in Italia, del potere legislativo rispetto a quello esecutivo

e a quello giudiziario; il sostanziale controllo dei governi sui parlamenti e sulla stessa

elaborazione legislativa riduce, infatti, gli spazi di una progettazione politico-criminale di ampio

respiro e di lungo periodo, quale dovrebbe essere propria dell’iniziativa parlamentare, in favore di

proposte legislative legate a situazioni contingenti e proclivi a perseguire il consenso dell’opinione

pubblica (attraverso letture semplificate del fenomeno criminale da parte del mass-media) per

fini elettorali (il c.d. populismo penale): con ciò trovando incentivo, per esempio, il continuo

aumento delle pene edittali (soprattutto nei minimi, non gestibili dal giudice, così da precludere

l’applicabilità della sospensione condizionale, dell’affidamento in prova al servizio sociale o della

detenzione domiciliare), come pure il ricorso ai reati colposi di evento, l’esclusione del

giudizio di prevalenza ed equivalenza fra circostanze aggravanti e attenuanti o le restrizioni

nell’accesso ai c.d. benefici penitenziari;

- ne deriva, inoltre, il dilatarsi dei casi in cui la descrizione delle condotte penalmente

significative resta alquanto generica o ricorre a concetti-valvola che, di fatto, consegnano la

definizione dei confini di ciò che sia da ritenersi rilevante dal punto di vista penale alla

giurisprudenza; ma anche il dilatarsi dei casi in cui la giurisprudenza tende ad assumere un ruolo

di supplenza rispetto al legislatore, attraverso letture delle norme penali che sembrano

oltrepassare i confini dell’interpretazione, per collocarsi nell’ambito del ricorso all’analogia in

malam partem. Con una palese tensione tra il c.d. diritto vivente giurisprudenziale, da un lato, e i

principi di determinatezza delle fattispecie penali e di riserva di legge (v. infra), dall’altro;

- critica della nozione di giustizia (retributiva) fondata sul concetto di corrispettività, vale a dire

intesa come reciprocità dei comportamenti (come «bilancia»);

il rischio che il suddetto modello della giustizia fornisca un alibi all’agire negativo nei confronti

di chi sia giudicato negativamente (sia esso o meno colpevole);

Page 3: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

3

l’incidenza della medesima nozione di giustizia sul piano storico (per esempio, con riguardo alla

giustificazione della guerra) e nei rapporti sociali: esemplificazioni;

il rischio di un’interpretazione (fallimentare) della vita come continua eliminazione dal nostro

orizzonte delle realtà che giudichiamo negative in quanto ci pongono problemi;

l’alternativa costituita da una giustizia consistente nel rispondere con progetti positivi dinnanzi alle

realtà negative (o alle situazioni personali problematiche);

- la centralità che mantiene nel sistema penale, come già si accennava, la condanna alla

pena detentiva (art. 17 c.p.), come espressione di un concetto di giustizia tuttora incentrato

sull’idea di corrispettività (retribuzione);

- l’immagine alternativa della giustizia che emerge dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, come

agire in modo corrispondente alla dignità umana (al fine di «rimuovere gli ostacoli» che

«impediscono il pieno sviluppo della persona umana»: art. 3, secondo comma): la «dignità sociale»

di ciascuno, e dunque l’atteggiamento richiesto verso ciascun altro, non viene fatto dipendere, infatti,

dal giudizio sulle altrui «condizioni personali e sociali», ma dalla stessa esistenza in vita di ogni essere

umano (art. 3, primo comma) co. 1, quale fondamento del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.);

l’adempimento, conseguente, dei doveri come presupposto per la sussistenza dei diritti;

- i riflessi controproducenti di una visione retributiva della giustizia con riguardo alla

prevenzione dei reati:

a) l’indifferenza – già menzionata – della visione retributiva rispetto al ruolo centrale che

dovrebbe avere l’intervento sui fattori che favoriscono la criminalità, cioè l’intervento

precedente la commissione dei reati (prevenzione primaria);

i due livelli della prevenzione primaria:

- il livello educativo-culturale (attinente al radicamento, nel contesto sociale, dei valori che

si pongono in antitesi all’agire criminoso, coinvolgendo il ruolo delle famiglie e della scuola,

come altresì, per esempio, l’impegno nel volontariato, la partecipazione virtuosa alla vita politica,

l’espletamento in modo corretto e appassionato dei propri impegni di lavoro, e così via), ma anche

politico-sociale, attinente alla serietà e all’efficienza della presenza delle pubbliche istituzioni sul

territorio;

- il livello relativo alle norme giuridiche specificamente orientate a ostacolare l’operatività

dei menzionati fattori criminogenetici: norme che coinvolgono settori dell’ordinamento giuridico

diversi da quello penale (per esempio, relative al diritto dei mercati finanziari, al diritto tributario,

all’organizzazione dei servizi sociali, e così via;

i motivi delle resistenze constatabili rispetto a un’attuazione efficace della prevenzione primaria,

posto che essa incide su egoismi e interessi diffusi (si pensi all’eliminazione dei paradisi bancari per

ostacolare i traffici della criminalità organizzata, alla tracciabilità dei pagamenti, al ruolo

dell’infedeltà fiscale e della disponibilità di fondi neri, a una buona legge sugli appalti per arginare la

corruzione, all’importanza dei compiti assolti dai servizi sociali, ecc.);

in questo modo, il ricorso al diritto penale tradizionale – che colpisce a posteriori, e solo

sporadicamente (data l’incidenza della c.d. cifra oscura) la tenuta di condotte illecite o la causazione

di eventi offensivi – ha sovente fatto da alibi per la mancata attivazione di interventi idonei a

contrastare gli spazi di praticabilità in concreto delle condotte illecite;

b) la contemporanea disattenzione connessa al modello retributivo del punire (incentrato

sull’inflizione di un corrispettivo inteso come sofferenza) circa il contrasto degli interessi materiali

soggiacenti al reato e, segnatamente, dei profitti conseguiti in modo criminoso (esemplificazione

Page 4: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

4

con riguardo alla confisca dei profitti derivanti da reato, facoltativa ai sensi dell’art. 240 c.p. e

resa obbligatoria solo negli ultimi decenni in determinati ambiti del contrasto della criminalità

organizzata);

c) il nesso tra visione retributiva della giustizia e il modello «negativo» della prevenzione

generale e speciale, che fonda la prevenzione generale sull’intimidazione (o deterrenza) e la

prevenzione speciale sulla neutralizzazione e sull’intimidazione (quali fattori di natura coercitiva); (si

rammenti che la prevenzione generale consiste nel dissuadere la generalità della popolazione

dall’intento di commettere reati e la prevenzione speciale nell’evitare che chi abbia commesso reati

torni a commetterne).

le ragioni dell’inadeguatezza di tale modello:

l’intimidazione, non presupponendo alcuna interiorizzazione del rispetto delle norme, può funzionare

– come può accadere per esempio nel rapporto tra un genitore e un figlio – solo ove sussista un totale

dominio/controllo sui suoi destinatari: ma se tale controllo totale sussistesse, paradossalmente non vi

sarebbe bisogno di pene esemplari (come insegna lo Beccaria), perché già opererebbe in senso

generalpreventivo l’alta probabilità di essere scoperti; in ogni caso, tale possibilità di controllo totale

negli Stati democratici non è possibile e il rischio è che proprio lo Stato più debole, cioè quello che

ha scarse capacità di intercettare le attività criminose, usi la pena esemplare, ordinariamente nei

confronti dei trasgressori più deboli, per nascondere tale debolezza e riaffermare la sua presenza;

la neutralizzazione apparentemente parrebbe funzionare, mettendo l’agente di reato nella condizione

fisica di non poter nuocere: ma il problema è che se ci si limita a politiche di neutralizzazione, i posti

di lavoro criminale lasciati liberi dai soggetti neutralizzati saranno coperti da altri soggetti; la

criminalità va studiata anche secondo categorie economiche; finché ci sono opportunità appetibili di

trarre beneficio da attività criminose (non adeguatamente contrastate attraverso la prevenzione

primaria), queste verranno percorse e vi sarà chi tenterà di sfruttarle, posto che la domanda di accesso

ad attività criminose lucrative rischia di essere superiore all’offerta: almeno nella misura in cui non

operino nella società forti controspinte culturali nei confronti dei modelli comportamentali criminosi.

23.2

- la prevenzione generale e speciale intese in senso «positivo», orientate a tenere elevati i livelli

di consenso, cioè di adesione per scelta, al rispetto delle norme, e, dunque, a tenere elevata

l’autorevolezza del messaggio correlato ai precetti penali;

la prevenzione, dunque, dipende soprattutto dalla capacità dell’ordinamento giuridico di ottenere dai

cittadini un’adesione alle sue norme per scelta, e non per timore: in altre parole, non si fonda tanto su

fattori di coazione esterna, fondati sulla forza, bensì, soprattutto, sul consenso;

la contraddittorietà generalpreventiva della pena di morte secondo la riflessione di Cesare Beccaria

(l’inadeguatezza a fungere da criterio orientativo dei comportamenti in sede sociale di una pena

costruita nei suoi contenuti sul modello del reato);

in particolare, la prevenzione speciale positiva in quanto orientata al recupero – secondo la

terminologia dell’art. 27, co. 3, Cost. alla rieducazione – del condannato, cioè a far sì che la rinuncia

a delinquere per il futuro da parte dell’agente di reato dipenda da una scelta personale;

l’incidenza generalpreventiva di un’avvenuta rieducazione, in quanto fattore di riaffermazione/

ri-consolidamento dell’autorevolezza di una norma violata, che deriva, per l’appunto, da un avvenuto

recupero dell’agente di reato ai sensi dell’art. 27, co. 3, Cost.;

ciò anche in rapporto alla c.t. teoria delle associazioni differenziali in E. Sutherland: se è vero che

si tende ad agire secondo quanto è approvato nel gruppo in cui si cerca riconoscimento, il fatto che

membri di un gruppo pongano in discussione scelte di tipo criminoso può divenire «modello» per altri

Page 5: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

5

membri;

- il problema della possibilità di realizzare il consenso su alcuni criteri comportamentali di fondo

(ai fini della prevenzione primaria nel suo primo livello e della prevenzione generale positiva)

nelle società democratiche, pluralistiche e multiculturali;

l’esperienza morale come esperienza tipica e generalizzata degli esseri umani (essa consiste nella

consapevolezza del fatto non ci sono solo questioni rispetto alle quali si tratta di decidere, ma anche

questioni – quelle che di solito riferiamo agli interrogativi sul bene e sul giusto – rispetto alle quali si

tratta di comprendere);

il significato delle dichiarazioni dei diritti umani e dei principi costituzionali;

- le cinque critiche logico-razionali nei confronti dell’idea retributiva della giustizia:

1) la non quantificabilità della colpevolezza interiore (possiamo conoscere empiricamente soltanto

i fattori che incidono sull’uso della libertà, non l’uso stesso di quest’ultima);

2) il diritto penale non esaurisce il male presente nella società e, pertanto, non definisce il confine

tra bene e male (l’attribuzione di responsabilità penale non può servire a far sì che la società si

avverta come comunità dei “giusti”, col rischio di utilizzare il condannato come capro espiatorio del

male in essa presente)

3) la visione retributiva trascura il problema della corresponsabilità sociale rispetto ai fattori

che favoriscono la criminalità e, pertanto, il ruolo della prevenzione primaria (solo una società che

non si sente la società dei “giusti” – seconda critica – sarà disponibile ad assumere i sacrifici

necessari – terza critica – per fare prevenzione primaria);

1.3 (segue)

4) l’inadeguatezza della pena a «cancellare» la realtà del reato e l’improponibilità della

visione (idealistica) hegeliana della pena retributiva come negazione della negazione della legge;

5) l’inesistenza in natura di una pena corrispondente al reato, da considerarsi giusta in sé:

significativamente Hegel segnala la dipendenza materiale della pena retributiva da ciò che richiede la

società in una data epoca storica nei confronti del reato commesso: Hegel, infatti, considera

l’eguaglianza retributiva come meramente ideale (o «di valore»);

ne deriva l’insostenibilità della visione tradizionale secondo cui la pena retributiva, in quanto pena

(ritenuta) giusta, sarebbe in grado di fungere da argine al perseguimento delle finalità preventive (la

garanzia dell’individuo nei confronti della potestà punitiva statuale dipende, piuttosto, dall’opzione

per una prevenzione reintegratrice, piuttosto che intimidativa e neutralizzativa);

il problema per cui frequentemente s’è definita in dottrina come prevenzione generale positiva non

già, come s’è illustrato, la prevenzione orientata al consenso, bensì quanto viene proposto dalle

concezioni neo-retributive: il fatto, cioè, per cui la pena dovrebbe soddisfare quel bisogno emotivo

di reazione nei confronti dell’agente di reato che insorgerebbe nei cittadini per continuare a rendere

tabù nella loro psiche il rispetto delle norme trasgredite e, dunque, per reprimere l’impulso a emulare

le condotte criminose; si tratta di un’illustrazione della classica teoria retributiva utilizzando, in modo

discutibile, terminologie di tipo psicoanalitico; ma, a ben vedere, si tratta di quanto Hegel stesso finiva

per riconoscere, secondo quanto s’è visto nella quinta critica: la pena retributiva finisce per rendersi

espressione di supposti bisogni emotivi di reazione al reato riscontrabili nella società in una data

epoca storica;

Page 6: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

6

allo scopo di evitare questa confusione terminologica si potrebbe descrivere la prevenzione generale

orientata al consenso, secondo la prospettiva sopra illustrata, anche come prevenzione generale

reintegratrice;

- l’equivoco insito nel pensiero retributivo di Kant (e di Hegel): validità delle premesse: critica

della visione utilitaristica della prevenzione generale e speciale negativa, in quanto orientate a

utilizzare il condannato per fini di intimidazione (esemplarità) e di difesa sociale

(neutralizzazione); inaccettabilità, tuttavia, delle conclusioni di natura retributiva: Kant deriva dalle

sue premesse che si dovrebbe infliggere una pena giusta in quanto non motivata da finalità

strumentali di natura preventiva e ravvisa simile pena, addirittura, nel taglione; non avvertendo che

proprio il concepire la pena come corrispettivo comporta, come s’è visto, un orientamento

intimidativo (e neutralizzativo) della prevenzione; ma altresì non avvertendo che non esiste,

come si evince dalla quinta critica, alcuna pena giusta in sé;

la contraddittorietà, in ogni caso, del concepire, da parte di Kant, l’essere umano come «fine» e

dell’accogliere il taglione come criterio della pena giusta in sé;

si noti che le conclusioni di Kant, forse, sarebbero state diverse ove avesse potuto considerare,

all’epoca in cui scrisse, un’impostazione a sua volta diversa, cioè (come s’è descritto) di natura

positiva, della prevenzione generale e speciale;

- l’incidenza complessa del pensiero della Scuola Positiva, tra ottocento e novecento, quale

corrente antagonista alle impostazioni retributive la quale tuttavia, per la sua visione dell’uomo e

per i suoi effetti, non può risultare accettabile;

la visione deterministica del positivismo e la negazione dell’autonomia personale (dunque, della

libertà del volere);

la negazione del concetto di colpevolezza in favore del concetto di pericolosità;

la sostituzione della pena con la misura di sicurezza, secondo il principio «rieducare i rieducabili e

neutralizzare i non rieducabili» (sulla base di un concetto meccanicistico di rieducazione, che riduce

il condannato a oggetto dell’intervento statuale e che sfocia facilmente nella neutralizzazione);

l’utilizzazione delle idee positivistiche da parte dei regimi totalitari;

in particolare, l’approccio di Cesare Lombroso; la riconoscibilità al positivismo di aver comunque evidenziato l’incidenza di fattori criminogenetici

e l’obiettivo della rieducazione intesa in senso sociale (e non come mera emenda interiore);

le resistenze culturali (anche in Assemblea Costituente) all’accoglimento dell’idea rieducativa,

proprio per il timore dell’apertura al pensiero positivistico e alle ideologie dei paesi totalitari;

- la differenza strutturale tra la prevenzione speciale positiva come sopra illustrata, che valorizza e

non nega l’autonomia (la libertà) individuale, e la concezione rieducativa del positivismo;

potremmo riassumere il ruolo del riferimento alla libertà del volere (all’autonomia della persona) in

ambito penalistico nel modo seguente:

come libertà riferita al passato per giustificare la pena, nella visione retributiva; come libertà negata

nel positivismo;

come libertà riferita al futuro, da riconquistare attraverso nuove scelte personali, nella prevenzione

speciale positiva;

- profili storici dell’approccio al ruolo della pena e del carcere nel secondo dopoguerra:

- i limiti di un sistema che si è limitato a ipotizzare una trasformazione in senso rieducativo

del carcere, mantenendone la centralità senza mettere in discussione il modello retributivo della

giustizia con riguardo alla condanna;

- il ruolo dell’ordinamento penitenziario italiano del 1975 (v. infra), che introduce, fra

l’altro, l’idea di una pur contenuta modificabilità della pena, nella durata e nei modi, durante la fase

Page 7: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

7

esecutiva;

- il neoconservatorismo penale degli anni ’70-’90, con il connesso revival di

impostazioni retributive e orientate alla deterrenza;

- i segni recenti di apertura alla messa in discussione della modalità tradizionale del

condannare, nel solco di una risposta al reato intesa come «progetto» (o «percorso»), secondo la

prospettiva della giustizia riparativa (restorative justice);

2.3

- completiamo la riflessione sulla giustizia, evidenziando il rapporto fra concezioni della pena

e riferimenti di carattere teologico:

la visione retributiva della giustizia, infatti, ha cercato supporto, oltre che (come s’è visto) nel pensiero

di alcuni importanti filosofi, anche attraverso l’utilizzazione di supposti modelli religiosi: il che

costituisce un equivoco da chiarire:

la lettura corretta, nel contesto storico-culturale, delle pagine veterotestamentarie di natura legislativa

o nelle quali emergono concetti di violenza;

la giustizia divina da intendersi, al contrario, nella Bibbia come giustizia salvifica (tzedaka): sia

nell’Antico Testamento (esemplificazioni: i racconti di Adamo e di Caino),

sia nel Nuovo Testamento: la giustizia che si esprime in Gesù come spendita dell’amore dinnanzi al

male, la quale si rivela salvifica nella risurrezione; ciò che salva secondo il cristianesimo – vale a dire,

ciò che apre alla pienezza della vita, nonostante la morte – non è la croce in quanto sofferenza pagata

da Gesù a compensazione dei peccati (se fosse così, ben poco cambierebbe rispetto alla logica tutta

umana della giustizia retributiva, per cui il male dev’essere compensato da un altro male), ma è,

semmai, l’amore portato fino alla croce;

l’inutilizzabilità a fini retributivi del riferimento all’inferno, in quanto nozione che indica non una

pena, ma il fallimento (la separazione da Dio) connessa a una chiusura radicale nei confronti della

logica dell’amore, nonostante la disponibilità divina all’accoglienza e al perdono;

illustrazione dei due testi di lettura proposti, a scelta, con riguardo a questa materia: E. Wiesnet,

Pena e retribuzione. La riconciliazione tradita, Giuffré; L. Eusebi, La Chiesa e il problema della

pena. Sulla risposta al negativo come sfida giuridica e teologica, La Scuola.

si noti il parallelismo che può individuarsi tra la prospettazione biblica di una nozione salvifica della

giustizia non ispirata al modello del corrispettivo e l’immagine della giustizia desumibile dagli artt. 2

e 3 (v. supra) della Costituzione;

- nel solco già richiamato della giustizia riparativa, e anche sulla base di una rivisitazione circa

il rapporto del diritto penale col pensiero filosofico e teologico, con gli apporti degli studi

criminologici nonché con i principi costituzionali e ricompresi nelle dichiarazioni internazionali

dei diritti umani, può dunque constatarsi l’esigenza del passaggio da una visione della risposta al

reato intesa come corrispettivo (negativo per negativo) a una risposta al reato intesa come

progetto (come tale significativo anche per il destinatario dei provvedimenti penali e per il suo

rapporto con la società e con la vittima); ovvero come una facere, piuttosto che come un mero pati;

si noti, in particolare, che solo nell’ambito di un progetto la sanzione penale può prevedere un

impegno in favore della vittima (v. anche infra) e che, del pari, solo nell’ambito di un progetto

l’ordinamento giuridico può cercare di rimediare alle deprivazioni sociali che di fatto risultano aver

caratterizzato la vita di molti autori di reato;

il nostro sistema sanzionatorio penale, tuttavia, si configura, per così dire, come un sistema a

clessidra: tutti i reati confluiscono nella condanna a una pena detentiva (e/o pecuniaria), salva la

possibilità, solo dopo la condanna, di non applicare in tutto o in parte la condanna stessa nella forma

Page 8: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

8

detentiva (v. infra), promuovendo almeno in parte, attraverso l’ordinamento penitenziario, percorsi

di reintegrazione sociale;

sebbene, pertanto, l’art. 27, co. 3, Cost. esiga che le pene, sia nella loro definizione legislativa,

sia nella loro applicazione giudiziaria, debbano rispondere all’orientamento rieducativo, la pena

inflitta dal giudice al termine di un processo rimane di fatto concepita quale corrispettivo aritmetico

rispetto al reato commesso (salvo solo il rilievo attribuito a condotte post delictum ritenute

significative); rimane di conseguenza il fatto che la pena, in quel momento, non si configura

come un progetto significativo nel senso cui poco sopra s’è fatto riferimento;

le stesse condizioni personali dell’imputato rilevano solo se queste ultime siano tali da consentire

l’esclusione dell’imputabilità (o l’attenuante per seminfermità): ove ciò non avvenga, la persona del

condannato, in sostanza, non conta al momento della condanna, stante del resto l’art. 220, co. 2, c.p.p.

(v. infra): né ciò è smentito come subito si vedrà, nonostante le apparenze, dall’art. 133, co. 2, c.p.;

vi è dunque la necessità di introdurre nuove forme sanzionatorie che aprano alla dimensione

progettuale/riparativa già nel momento della condanna o anche attraverso strumenti di definizione

anticipata del processo (v. infra), superando la prospettiva di una risposta al reato costruita (quasi)

sempre, in sede di condanna, sulla detenzione;

8.3

- la determinazione della pena in sede di condanna ai sensi degli artt. 132 (che affida al giudice

una discrezionalità con obbligo di motivazione) e 133 c.p.;

i due parametri indicati dall’art. 133 c.p. circa la determinazione giudiziaria della pena: la

nozione di gravità del reato (co. 1) e l’ambiguità della nozione di capacità a delinquere (co. 2); il

«compromesso», in tal senso, fra utilizzo di elementi della «Scuola classica» e utilizzo di elementi

della «Scuola positiva»;

quattro profili critici riferibili all’art. 133 c.p., e in particolare al concetto di capacità a

delinquere:

a) indica gli indici da tenere in considerazione, ma non dice in che modo (cioè secondo

quali finalità);

b) non offre strumenti per acquisire dati riguardanti la personalità dell’imputato, come

invece richiederebbe, per molti dei suoi aspetti, il concetto di capacità a delinquere: l’art. 220, co.

2, c.p.p., infatti, non consente perizie sul carattere e sulla personalità dell’imputato nonché, in

genere, sulle qualità psichiche indipendenti da cause patologiche; da cui l’irrilevanza sostanziale

della personalità nel momento di inflizione della pena, salvo che ai fini di un’esclusione

dell’imputabilità (si noti che l’art. 220, co. 2, ha una motivazione garantistica, in quando

intende evitare che il giudice possa rimanere influenzato da simili perizie nella valutazione dei fatti

e delle responsabilità: tale sua finalità, tuttavia, potrebbe pur sempre rimanere salvaguardata ove le

perizie di cui s’è detto fossero ammesse solo dopo le conclusioni sulla colpevolezza e, dunque, ai

soli fini della determinazione della pena, secondo prospettiva del c.d. processo bifasico);

c) di quei dati, comunque, il giudice potrebbe tener conto solo dal punto di vista aritmetico, e

non secondo una logica progettuale (dal che la terminologia invalsa di «commisurazione» della

pena): avrebbe senso, in altre parole, tener conto della personalità e del contesto di vita

dell’imputato se il giudice avesse uno spazio di costruzione della risposta sanzionatoria che investa

i suoi contenuti;

Page 9: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

9

d) il concetto di «capacità a delinquere» rischia, infine, di permettere aumenti di pena

all’interno dello spazio edittale in forza di fattori (della personalità, del carattere o dell’ambiente

di vita del soggetto agente) estranei al fatto colpevole: rischia, cioè, di aprire a logiche

incostituzionali di c.d. colpa d’autore;

ne deriva che il giudice, per valutare la colpevolezza ai fini della determinazione della pena, può

utilizzare solo fattori personali o contestuali che abbiano inciso sul fatto commesso e siano pertinenti

rispetto alla responsabilità del soggetto agente nei confronti di quel fatto (si parla in tal senso di

colpevolezza «del fatto»);

potrebbe ammettersi, invece, l’utilizzo di fattori estranei al fatto (per esempio concernenti la salute)

in senso favorevole all’imputato, nella misura in cui ciò non rappresenti una discriminazione, ma

risponda a esigenze di garanzia del principio di uguaglianza inteso in senso sostanziale;

in questo senso, il concetto di capacità a delinquere ai fini della determinazione della pena va inteso

come riferito alla capacità a delinquere che può ritenersi espressa nel fatto di reato, e non come

capacità a delinquere intesa come previsione sulla capacità futura di commettere nuovi reati in base

alle caratteristiche personali del condannato (cioè come pericolosità);

l’intera problematica evidenzia, pertanto, gli intenti repressivi che erano propri del codice Rocco:

volti a permettere l’utilizzo da parte del giudice (anche) di valutazioni – svincolate dal fatto – inerenti

alla personalità del condannato, onde appesantire l’intervento sanzionatorio (al che si aggiungeva

l’applicabilità ulteriore (obbligatoria per i reati non lievi) di una misura di sicurezza da eseguirsi dopo

la pena);

si tratta di intenti repressivi che trovano conferma come subito vedremo, sempre attraverso il

«compromesso» tra Scuola classica e Scuola positiva, nel sistema del c.d. doppio binario, che

consente di aggiungere alla pena, per il soggetto imputabile ritenuto pericoloso, una misura di

sicurezza (sebbene tale possibilità, come subito diremo, sia oggi utilizzata molto raramente);

resta tuttavia un dato molto importante desumibile dall’art. 133 c.p.: tale norma ha riguardo, oltre che

alla gravità del fatto, soltanto a fattori soggettivamente orientati, concernenti, cioè, la persona del

soggetto giudicato colpevole, mentre non vengono in alcun modo contemplate valutazioni del giudice

riferite alla deterrenza, alla sicurezza sociale o al soddisfacimento di aspettative sanzionatorie, quale

ne sia la provenienza; ciò significa che devono rimanere rigorosamente escluse valutazioni da

parte del giudice, con riguardo alla pena da applicarsi nel caso concreto, che risultino di carattere

generalpreventivo (tali valutazioni, infatti, competono soltanto al legislatore nel momento in cui

definisce le pene edittali, e pur sempre secondo la prospettiva costituzionale di una prevenzione

generale reintegratrice);

- la determinazione, in sede di condanna, della pena pecuniaria, in rapporto ai problemi che essa

comporta rispetto al principio di uguaglianza ove sia applicata, come nell’ordinamento italiano,

secondo un’entità assoluta; la mitigazione molto parziale del problema attraverso le previsioni degli

artt. 133-bis e -ter c.p.;

- il ruolo delle pene accessorie e la relativa elencazione (art. 19 c.p.), che possono essere

applicate solo in aggiunta a una pena principale (art. 20 c.p.)

- le misure di sicurezza:

i presupposti per la loro applicabilità (le mds personali, detentive o non detentive, sono indicate all’art.

215 c.p.): commissione di un reato e pericolosità sociale del soggetto agente (artt. 202 e 203 c.p.),

secondo la prospettiva, propria del positivismo, di una misura tesa a rieducare e, fino a quando non

Page 10: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

10

sia venuta meno la pericolosità, a neutralizzare autori di reato ritenutipericolosi;

si consideri l’ultimo comma dell’art. 215 c.p.: «quando la legge stabilisce una misura di sicurezza

senza indicarne la specie, il giudice dispone che si applichi la libertà vigilata, a meno che, trattandosi

di un condannato per delitto, ritenga di disporre l’assegnazione di lui a una colonia agricola o ad una

casa di lavoro»;

il carattere indeterminato della durata delle misure di sicurezza, secondo la prospettiva propria

del positivismo, fino al venir meno della pericolosità (artt. 207 e 208 c.p.):

l’art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 52/2014, conv. in l. n. 81/2014, ha tuttavia previsto che «le misure

di sicurezza detentive non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista

per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima», secondo i criteri di cui

all’art. 278 c.p.p.;

- l’ambito applicativo delle misure di sicurezza:

a) la possibilità, secondo il codice del 1930, che la sentenza di condanna disponga, nei

confronti di soggetti imputabili, l’applicazione di una misura di sicurezza dopo l’esecuzione

della pena detentiva: o sulla base del giudizio di pericolosità operato dal giudice, o nei casi di

pericolosità presunta ai sensi dell’art. 204 c.p.;

l’avvenuta abrogazione dell’art. 204 c.p. e l’estrema rarità attuale del fatto che un giudice usi del suo

potere discrezionale per dichiarare la pericolosità di un condannato, disponendo l’esecuzione nei suoi

confronti, dopo la pena, di una misura di sicurezza (stante l’insostenibilità, in base all’art. 27, co. 3,

Cost, di una funzione retributiva della pena e rieducativa della sola misura di sicurezza; e stante,

altresì, l’esigenza di evitare che l’intervento sanzionatorio configuri un bis in idem sostanziale;

b) l’applicabilità della misura di sicurezza nei confronti dell’autore di reato non imputabile

(v. infra), cioè non capace di intendere e di volere ai sensi dell’art. 85 c.p. (e pertanto non

punibile), che sia ritenuto dal giudice socialmente pericoloso: il che costituisce l’ambito operativo

reale, oggi, delle misure di sicurezza;

c) l’applicabilità eccezionale, ex art. 202, co. 2, c.p., della misura di sicurezza nei

confronti di soggetti imputabili non autori di reato: artt. 49, co. 4, e 115, co. 2 e 4, c.p.

- le misure di sicurezza detentive per gli adulti non imputabilii:

in particolare, l’art. 222 c.p. prevede[va] nei confronti dell’autore di delitto doloso punibile con pena

detentiva non inferiore a due anni, ove prosciolto per infermità psichica, l’ospedale psichiatrico

giudiziario: l’art. 3-ter, co. 4, d.l. 211/2011, come in seguito ripetutamente modificato, ha peraltro

stabilito che «dal 31 marzo 2015 gli ospedali psichiatrici giudiziari sono chiusi e le misure di

sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell'assegnazione a casa di cura e custodia

sono eseguite esclusivamente all'interno delle strutture sanitarie di cui al comma 2 [le c.d. R.E.M.S.,

Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza], fermo restando che le persone che hanno

cessato di essere socialmente pericolose devono essere senza indugio dimesse e prese in carico, sul

territorio, dai Dipartimenti di salute mentale».

l’art. 3-ter, comma 4, del d.l. n. 211/2011, prevede peraltro, in conformità a Corte cost. n. 223/ 2003,

che il giudice può disporre il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (o in una casa di cura e

custodia per i semimputabili ex artt. 221 e 89 c.p.) – ora R.E.M.S. – solo quando «siano acquisiti

elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a

fare fronte alla pericolosità sociale»;

- la disciplina e l’ambito applicativo della libertà vigilata (artt. 228-230 c.p.);

Page 11: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

11

- le misure di sicurezza detentive per i minorenni (art. 36 d.P.R. 448/1988, in rapporto agli

artt. 223 e 228 c.p.): applicabilità delle prescrizioni comportamentali e della permanenza in

casa in luogo della libertà vigilata, e del collocamento in comunità in luogo del riformatorio

giudiziario (cioè di tre dei quattro provvedimenti che fingono anche da misure cautelari, ex artt. 19

ss. d.P.R. 448/1988);

9.3

torniamo dunque alla pena, e al momento della condanna:

- il mancato superamento della centralità che assume la pena detentiva, non essendosi addivenuti

a una diversificazione della gamma, limitatissima, delle pene principali; il momento della condanna,

come s’è visto, resta infatti incentrato sulla pena detentiva (essendo marginale l’applicazione di una

pena pecuniaria non congiunta a quella detentiva);

- la possibile diversificazione successiva – secondo il già menzionato un modello “a clessidra” –

della pena detentiva inflitta:

sia attraverso istituti che ne escludono l’esecuzione detentiva,

sia attraverso istituti che diversificano in certa misura l’esecuzione della medesima (v. infra);

la stessa esigenza di ridurre il sovraffollamento penitenziario imposta all’Italia dalla Corte europea

dei diritti dell’uomo (sentenza Torreggiani, dell’8 gennaio 2013) è stata perseguita agendo

essenzialmente sull’ambito applicativo delle misure alternative (v. infra) e sulla restrizione delle

condizioni di applicabilità della custodia cautelare, piuttosto che attraverso la via più naturale

costituita dall’introduzione di pene principali non detentive;

- gli strumenti attraverso i quali lo stesso giudice che condanna può evitare l’esecuzione della

pena detentiva inflitta:

a) la sospensione condizionale (artt. 163-168 c.p.): presupposti, criteri applicativi, effetti,

revoca; il maggior ambito applicativo dell’istituto (condanna detentiva fino a tre anni, invece che

fino a due, per l’autore di reato minorenne);

l’applicabilità della sospensione condizionale anche alle pene accessorie (v. supra);

il ragguaglio fra pena detentiva e pecuniaria ai sensi dell’art. 135 c.p. (250 euro corrispondono a

un giorno di pena detentiva) e la possibilità di sospendere la (sola) pena detentiva entro il limite di

durata previsto anche quando quel limite sarebbe superato a seguito del ragguaglio con la pena

pecuniaria aggiuntiva (art. 163, ultima parte dei commi 1, 2 e 3);

il regime particolarmente favorevole (sospensione per un solo anno) nel caso di condanna a pena non

superiore a un anno e avvenuta riparazione del danno (art. 163, co. 4, c.p.);

b) le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, (artt. 53-58 l. n. 689/1981, legge che

ha previsto, fra l’altro, un ampio provvedimento di depenalizzazione – cioè di trasformazione di

illeciti penali in illeciti amministrativi – e che comprende, inoltre, le norme riguardanti gli illeciti

amministrativi e le relative sanzioni): presupposti, criteri applicativi, revoca;

c) il perdono giudiziale relativo ai soli condannati minorenni (art. 169 c.p., come

riformulato quanto al primo comma dall’art. 19 r.d. n. 1404/1934, istitutivo del Tribunale per i

minorenni); si consideri che l’art. 97 c.p. fissa la soglia di imputabilità del minorenne a

quattordici anni e che l’art. 98, co. 1, c.p. e prevede l’applicazione in favore del medesimo di una

attenuante obbligatoria;

Page 12: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

12

- gli strumenti che permettono di non eseguire in forma detentiva la pena inflitta nella sentenza

di condanna attraverso la decisione del Tribunale di sorveglianza in merito all’applicabilità, fin

dall’inizio della fase esecutiva, delle misure alternative (v. infra) dell’affidamento in prova al

servizio sociale e della detenzione domiciliare (presupposta la sospensione dell’esecuzione prevista

dall’art. 656. co. 5, c.p.p.), oppure per residui di pena che rientrino dei limiti di applicabilità a esse

relativi:

a) l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 ord. penit.): presupposti e disciplina

(si consideri l’estensione dell’applicabilità dell’affidamento in prova per pene detentive, o residui

di pena, (da tre) fino a quattro anni, di cui al comma 3-bis dell’art. 47 ord. penit., aggiunto

dall’art. 3 d.l. n. 146/2013, conv. in l. n. 10/2014;

si noti che solo nel momento in cui la risposta al reato assume contenuti progettuali attraverso un

programma prescrittivo, come accade nell’affidamento in prova nonché – vedi infra – attraverso la

messa alla prova e le procedure di mediazione penale, può recuperarsi una dimensione riparativa, o

anche riconciliativa, del provvedimento penale nei confronti della persona offesa (cfr. art. 47, co.

7, ord. penit.; art. 28, co. 2, d.P.R. n. 448/1988), laddove la tradizionale pena detentiva non offre alla

vittima alcunché;

b) la detenzione domiciliare (art. 47-ter e ord. penit.), concernente, di regola, la pena detentiva

fino a quattro anni, quando sussistano particolari condizioni di età, salute, genitorialità;

l’esecuzione presso il domicilio, con eccezioni, delle pene detentive (o dei residui di pena) fino a

18 mesi (art. 1

l. n. 199/2010, previsione resa permanente dall’art. 5 d.l. n. 146/2013 conv. in l. n. 10/2014); artt.

47-quater (detenzione domiciliare e AIDS) e 47-quinquies (ulteriori benefici per le condannate

madri);

c) si rammenti che sono eseguibili in regime di semilibertà anche le pene dell’arresto e della

reclusione non superiore a 6 mesi, se non il condannato non è stato ammesso all’affidamento in

prova (art. 50, co. 1, ord. penit.);

- nell’ambito del sistema vigente – tuttora carcerocentrico in sede di condanna e operante secondo

il richiamato meccanismo a clessidra – assume peraltro un ruolo fondamentale l’ordinamento

penitenziario, del quale si richiamano di seguito alcune caratteristiche fondamentali:

- i principi dell’ordinamento penitenziario (l. n. 354/1975):

a) centralità del trattamento rieducativo individualizzato, avente per fine il reinserimento sociale;

b) possibile flessibilizzazione della pena detentiva in rapporto all’evolversi del trattamento – sia

con riguardo alla durata, sia con riguardo ala modalità di esecuzione – attraverso l’applicabilità

delle misure alternative;

15.3 (segue)

c) istituzione di un servizio sociale relativo all’amministrazione della giustizia, con il compito

di seguire il trattamento in carcere e l’esecuzione delle misure alternative;

d) giurisdizionalizzazione della fase esecutiva attraverso la creazione di un nuovo settore

della magistratura, costituita dal Tribunale di sorveglianza e dal Magistrato di sorveglianza;

Page 13: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

13

e) previsione di forme d’interazione fra carcere e società;

- le norme principali dell’ordinamento penitenziario:

il ruolo del «trattamento» individualizzato e l’obbligo relativo allo studio della personalità (in

contrapposizione al divieto di perizie sulla personalità e sul carattere durante il processo, ai sensi del

già citato art. 220, co. 2, c.p.p.);

si vedano a tal proposito, in particolare, gli artt. 1, primo e ultimo comma, e 13 ord. penit., nonché gli

artt. 27 (specie per quanto concerne il concetto di «riflessione sulle condotte poste in essere»), 28 e

29 reg. ord. penit. (d.P.R. n. 230/23000);

l’art. 1 reg. ord. penit. (d.P.R. 230/2000): i fini del trattamento, sia in rapporto ai condannati che

agli indagati o imputati che si trovino in custodia cautelare;

il rapporto fra l’obiettivo della rieducazione/risocializzazione e il presupposto costituito dalla

«modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari

e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale» (co. 2), laddove simile

mutamento (interiore) degli atteggiamenti personali del condannato definitivo non può che costituire

una scelta autonoma da parte del medesimo, la quale può essere favorita ma non coartata (secondo

una prospettiva del tutto diversa, dunque, da quella della Scuola positiva);

- la necessaria limitazione dei fini del trattamento al mero sostegno degli «interessi umani, culturali e

professionali» (co. 1) con riguardo ai detenuti in stato di custodia cautelare, non potendo questi

ultimi essere considerati colpevoli (v. art. 27, co. 2, Cost.);

gli elementi del trattamento ai sensi dell’art. 15 ord. penit.: istruzione,lavoro, religione, attività

culturali, ricreative e sportive, contatti col mondo esterno e rapporti con la famiglia;

15.3

ulteriori norme significative dell’ordinamento penitenziario:

- art. 17 ord. penit. - partecipazione del mondo “esterno” ad attività in carcere, in base

ad autorizzazione del magistrato di sorveglianza su parere del direttore del carcere;

- art. 19 ord. penit. - istruzione;

- artt. 20 e 21 ord. penit. - lavoro e lavoro esterno: sull’importanza fondamentale del lavoro ai

fini del trattamento rieducativo e sulla inadeguatezza dell’offerta in tal senso; presupposti e limiti

circa l’ammissione al lavoro esterno;

- artt. 30 e 30-ter ord. penit. - permessi e permessi-premio: il ruolo dei permessi-premio nel

quadro del trattamento; presupposti e limiti;

- le varie forme del diritto di reclamo – in merito alla violazione di suoi diritti ai sensi dell’art. 69,

co. 6, ord. penit. – da parte del detenuto (art. 35 ord. penit.) e, in particolare, il reclamo in

sede giurisdizionale previsto dall’art. 35-bis ord. penit., introdotto con d.l. n. 146/2013, conv.

in l. n. 10/2014;

- la flessibilizzazione della pena in sede esecutiva, attraverso le misure alternative:

a) la liberazione anticipata (art. 54 ord. penit.), in quanto unica misura incidente sulla durata

della pena (si tenga conto della norma temporanea di cui all’art. 4 d.l. n. 146/2013 conv. in l. n.

10/2014 che aveva previsto, con eccezioni, l’estensione per due anni della detrazione di pena da 45 a

75 giorni per semestre: liberazione anticipata speciale);

b) le misure alternative incidenti sulla modalità di esecuzione della pena:

oltre all’affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione domiciliare di cui già s’è detto,

Page 14: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

14

che sono applicabili anche in corso di esecuzione, in particolare per residui di pena inferiori a quattro

anni (e oltre al caso circoscritto di applicabilità ab initio della semilibertà), sono previste:

- la semilibertà (presupposti e regime: artt. 48 ss. ord. penit.), che di fatto presuppone per lo

più la precedente concessione di permessi premio, facenti parte del trattamento (art. 30-ter ord.

penit.), e

- la liberazione condizionale (artt. 176 ss. c.p.), ricompresa nel codice penale e qualificata

come causa di estinzione della pena, ma applicata dal Tribunale di Sorveglianza e operante, in

concreto, come una misura alternativa, sulla base del giudizio di sicuro ravvedimento; nella fase di

liberazione condizionale il condannato è sottoposto al regime della libertà vigilata (art. 230, co. 1,

n. 2, c.p.);

si considerino le condizioni di applicabilità di permessi-premio, lavoro esterno semilibertà e

liberazione condizionale nei confronti del condannato all’ergastolo (artt. 30-ter, co. 4, lett. d; 21, co.

1; 50, co. 5, ord. penit.; 176, co. 3, c.p.);

- i compiti della magistratura di sorveglianza: del magistrato di sorveglianza (competente,

fra l’altro, circa l’approvazione e le modifiche del programma di trattamento, la revoca delle

misure di sicurezza, i permessi, i reclami giurisdizionali, la liberazione anticipata: ex artt. 69 e 69-bis

ord. penit.) e del magistrato di sorveglianza (competente circa le misure alternative diverse dalla

liberazione anticipata e la liberazione condizionale, ex art. 70 ord. penit.);

- norme su servizio sociale e UEPE nonché, in particolare, sulle competenze di assistenti sociali

ed educatori (artt. 72, 80, 81, 82 ord. penit.); l’assistente volontario (art. 78 ord. penit.);

il rapporto complesso tra funzione di aiuto e funzione di controllo (che si esplica attraverso relazioni

all’autorità giudiziaria) degli operatori del servizio sociale (cfr. art. 47, co. 9 e 10, ord. penit.);

- l’art. 4-bis ord. penit.: presupposti diversificati, in funzione della gravità del reato

nonostante identiche entità di pena, circa l’accesso alle misure alternative, ai permessi-premio

e al lavoro all’esterno;

in particolare, i reati c.d. ostativi di cui al co. 1 di tale norma, che richiedono per l’applicazione dei

benefici penitenziari (tranne la liberazione anticipata), la collaborazione di giustizia, ove tuttora

suscettibile di risultare rilevante: il che muta in radice il ruolo delle misure alternative, trasformandole

in un incentivo per la collaborazione (che, in tal caso, non è semplicemente incentivata attraverso

norme premiali di riduzione della pena, come accade durante il processo, ma risulta tale per cui la sua

assenza produce il venir meno di diritti – l’accesso ai benefici penitenziari – ordinariamente

riconosciuti);

il che si rende drammatico, in particolare, nel caso dell’ergastolo – il c.d. ergastolo ostativo – poiché

l’esclusione dai benefici di cui sopra rende impossibile per l’ergastolano non solo qualsiasi

differenziazione del regime sanzionatorio, ma anche la possibilità stessa di poter pervenire, attraverso

la liberazione condizionale, al fine-pena (si rammenti in proposito che la Corte Europea dei Diritti

dell’Uomo esige che dopo un congruo numero di anni debba essere valutata la rieducazione

dell’ergastolano onde rendere possibile il fine pena);

l’esigenza, pertanto di restituire al Tribunale di Sorveglianza la possibilità di valutare se la mancata

collaborazione (che potrebbe derivare, per esempio, dal timore di ritorsioni nei confronti dei familiari)

costituisca o meno indice di mancata rieducazione;

- i problemi connessi all’art. art 41-bis ord. penit., che consente la sospensione per via

amministrativa dell’applicabilità delle norme dell’ordinamento penitenziario che si pongano in

contrasto, per gli autori di gravi reati, con esigenze di sicurezza e di ordine;

la motivazione fondata sull’esigenza di evitare la partecipazione ad attività criminose dall’interno del

carcere e i rischi di un’applicazione troppo estesa, o meramente retributiva, della suddetta facoltà (che

Page 15: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

15

potrebbe paradossalmente cementare, anche in condizione detentiva, la solidarietà tra appartenenti

a grandi associazioni criminose, implicando la rinuncia di fatto a perseguire intenti rieducativi);

16.3

- il sistema penale minorile:

richiamo del già citato art. 98 c.p., che prevede un’attenuante obbligatoria circa la pena applicabile

nei confronti del minorenne imputabile;

il dPR 448/1988 (processo penale minorile); i principi fondamentali di cui all’art. 1: la finalità

educativa, l’importanza riconosciuta alla personalità del minorenne, l’apertura del processo al

dialogo);

il ruolo esteso all’intera fase processuale dei servizi sociali minorili (art. 6 dPR 448/1988 e artt. 9

ss. d. lgs. 272/1988; l’inammissibilità della costituzione della parte civile (art. 10 dPR 448/88);

- le norme fondamentali di cui agli artt. 9 e 28 dPR 448/88:

a) l’obbligo di studio della personalità del minorenne (anche senza disporre una perizia in

modo formale), in senso opposto a quanto dispone per gli adulti l’art. 220, co. 2, c.p.p.;

b) la possibilità per il giudice di disporre durante il processo la messa alla prova del minorenne

sulla base di un programma predisposto dai Servizi sociali minorili (USSM), ai sensi dell’art. 27

delle norme di attuazione di cui al d.lgs. 272/1989, con estinzione del reato in caso di esito positivo

della prova medesima (art. 29 d.P.R. 448/1988); nel caso, invece, di esito negativo il procedimento

penale prosegue, fini alla sentenza;

con la messa alla prova, dunque, la risposta al reato può concretizzarsi interamente in un progetto,

posto che attraverso di essa si evita di giungere alla determinazione di una pena detentiva come

corrispettivo del reato e, pertanto, si abbandona davvero un’impostazione retributiva della giustizia;

l’assenza di limiti di gravità del reato per l’applicabilità della messa alla prova e la sua durata

ordinaria fino a un anno o fino a tre anni per reati più gravi;

la differenza strutturale della messa alla prova rispetto all’affidamento in prova al servizio sociale in

quanto misura alternativa applicata dopo la sentenza di condanna;

- l’estensione agli adulti (ex art. 5 l. n. 67/2014) della sospensione del procedimento con

messa alla prova, su richiesta dell’imputato (non implica ammissione di colpevolezza), con

riguardo a un ambito limitato di reati (in particolare, reati puniti con pena detentiva non superiore a

quattro anni): artt. 168-bis ss. c.p.; artt. 464-bis ss. c.p.p.; art. 141-bis s. att. c.p.p.;

la problematicità del disposto secondo cui la concessione è subordinate alla prestazione di lavoro di

pubblica utilità;

l’espressa menzione agli artt. 464-bis, co. 4, lett. c) e 141-ter, co. 3, att. c.p.p che il programma di

messa alla prova preveda «le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la

persona offesa»;

- il ricorso alla mediazione penale è stato finora abbastanza ampiamente sperimentato, pur

in mancanza di una norma specifica a tal proposito, nel sistema penale minorile, o come elemento

della messa alla prova (art. 28 d.P.R. n. 448/1988) o come fase di ulteriore studio della

personalità del minorenne (ex art. 9 d.P.R. n. 448/1988

l’importanza della mediazione penale, quale forma più avanzata della giustizia riparativa;

ratio e finalità degli strumenti di giustizia riparativa (restorative justice), anche in rapporto alla

Page 16: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

16

posizione della vittima del reato, la cui esigenza fondamentale sta nel vedere riconosciuta, fatta verità

non solo in senso storico-fattuale sul reato, l’ingiustizia di quanto accaduto: il che trova la risposta

più credibile ove l’addivenire a un tale giudizio possa realizzarsi attraverso lo stesso soggetto agente;

la mediazione penale consente di discutere secondo verità sul fatto di reato, cioè di rielaborare quanto

accaduto, poiché ciò che viene detto dalle persone che partecipano alla mediazione non è riferito al

giudice (evitandosi di violare in tal modo il principio nemo tenetur se detegere): l’ufficio di

mediazione riferisce al giudice, piuttosto, un giudizio sulla validità della mediazione medesima, che

ordinariamente si conclude con la proposta, da parte dello stesso soggetto ritenuto autore del reato, di

una condotta riparativa (consistente in un impegno personale, e non nel mero risarcimento del danno);

se con una auspicabile evoluzione in senso prescrittivo delle sanzioni penali, intese come progetto,

può prospettarsi il recupero di un dialogo con l’autore del reato (oggi impossibile) relativamente alla

configurazione della risposta sanzionatoria al reato (ferma la già avvenuta decisione sul fatto e sulla

responsabilità), con la mediazione diviene possibile recuperare la dimensione del dialogo già nello

stesso ambito temporale del processo (nel frattempo sospeso) e relativamente al reato stesso:

anticipandosi la rielaborazione critica del medesimo, ora prevista soltanto in sede di trattamento

penitenziario nella fase esecutiva della pena (v. supra), al momento stesso del processo; il che è

quanto dire anticipare a quel momento il conseguimento degli effetti di prevenzione generale positiva

e di risocializzazione;

sulla possibilità di una più ampia utilizzazione, per il futuro, della mediazione penale (come fattore

di cui il giudice possa tener conto nel determinare la pena, sia nel tipo che nel quantum, oppure anche

come fattore che possa consentire di non iniziare un processo penale);

- la sentenza di non luogo a procedere in ambito minorile per irrilevanza del fatto (art. 27

d.P.R. 448/1988), anche in rapporto ai problemi concernenti l’obbligo di esercizio dell’azione

penale da parte del pubblico ministero (ex art. 112 Cost.) e l’obbligo di denuncia delle notizie di

reato da parte di pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio (ex artt. 361 e 362 c.p.);

i presupposti della suddetta sentenza: fatto occasionale e tenue, nocumento della celebrazione del

processo rispetto alle esigenze educative del minorenne;

- l’introduzione nel codice penale (dunque, anche con riguardo agli adulti), avvenuta con d.lgs.

n. 28/2015, dell’art. 131-bis c.p. che prevede rispetto a un ambito di reati non particolarmente

gravi la non punibilità per particolare tenuità del fatto (riferita alle modalità della condotta e alla

esiguità del danno o del pericolo, ferma la non abitualità del comportamento), limitatamente a reati

per i quali la legge prevede una pena detentiva non superiore a quattro anni;

la differenza rispetto alla non procedibilità di cui all’art. 27 d.P.R. n. 448/1988;

la differenza fra irrilevanza o particolare tenuità del fatto (il reato può sussistere o sussiste) e fatto

inoffensivo (il reato non sussiste, mancando il requisito dell’offesa del bene tutelato);

- l’introduzione nel codice penale, ex art. 1, co. 1, l. n. 103/2017, dell’art. 162-ter c.p., che

prevede l’estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie (in sostanza, essenzialmente

risarcitorie), per soli reati perseguibili a querela non soggetta a remissione.

23.3

- la competenza in materia penale del giudice di pace: principi (art. 2 d.lgs. 274/2000);

l’applicabilità di sole pene non detentive: permanenza domiciliare, lavoro di pubblica utilità

(con il consenso del condannato) e pena pecuniaria (artt. 52-54 d.lgs. 274/2000);

gli strumenti di definizione anticipata del processo:

Page 17: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

17

a) il tentativo di conciliazione finalizzato alla remissione della querela e il possibile ricorso,

per tale fine, alla mediazione penale (art. 29, co. 4); l’espressa previsione del fatto che le

dichiarazioni rese dalle parti nella fase di conciliazione «non possono essere utilizzate in alcun

modo ai fini della deliberazione»;

b) il non luogo a procedere in caso di tenuità del fatto (art. 34 d.lgs. n. 274/2000): dà luogo

a una improcedibilità come l’art. 27 d.P.R. n. 448/1988 in ambito minorile (v.infra), ma con

una definizione più complessa dei presupposti; il problema del ruolo attribuito, in proposito, alla

persona offesa;

c) la procedura riparativa (art. 35 d.lgs. n. 274/2000), possibile per qualsiasi reato di

competenza del giudice di pace, quale strumento che potrebbe trovare, in futuro, ambiti di

significativa utilizzazione anche nel diritto penale generale; l’eccessiva caratterizzazione

risarcitorio-restitutoria, piuttosto che riparativa, dei requisiti richiesti dalla norma richiamata e il

rischio di un’eccessiva dipendenza dal parere della persona offesa (cui si aggiunge la genericità dei

criteri valutativi assegnati al giudice);

- l’obbligo del giudice di pace di favorire in ogni caso la conciliazione, ex art. 2, co. 2, d.lgs.

n. 274/2000;

- la responsabilità amministrativa degli enti per reati commessi nel loro interesse o a

loro vantaggio (d.lgs. n. 231/2001): la ratio della previsione di una responsabilità degli enti con

riguardo agli illeciti penali commessi nel loro interesse o a loro vantaggio e i motivi della sua

configurazione come responsabilità «amministrativa» per reato (art. 1); la strategia intesa a creare

un interesse degli enti ad «autocontrollarsi», onde prevenire la commissione dei suddetti reati; gli

enti cui la normativa risulta applicabile (art. 1);

la competenza, rispetto a simile forma particolare di illecito amministrativo, della magistratura

penale (artt. 34-36);

il ruolo dei «modelli di organizzazione e di gestione» e dell’organo interno di vigilanza (art. 5); i

criteri di responsabilità dell’ente (art. 8);

la possibile esclusione della responsabilità dell’ente e i relativi requisiti: il diverso regime in rapporto

a condotte poste in essere da soggetti “apicali” (si richiede, fra l’altro, la prova da parte dell’ente che

tali soggetti abbiano commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di

gestione) o da soggetti “non apicali” (artt. 6 e 7);

le sanzioni applicabili: art. 9:

la sanzione pecuniaria per quote, applicata in ogni caso, (artt. 10-11) e le ipotesi della sua riduzione

(art. 12);

la particolare temibilità delle sanzioni interdittive, fino alla interdizione dall’esercizio dell’attività

(artt. 13-16);

la confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo o del profitto relativi al reato (art. 19);

le disposizioni in materia di delitti tentati (art. 26);

i reati di cui gli enti possono rispondere (artt. 24 ss.);

i principi garantistici del diritto penale:

il diritto penale, come già s’è detto (supra, all’inizio del corso), costituisce espressione

particolarmente delicata della potestà pubblica di obbligare, in quanto applicando “pene” si manifesta

come «arma a doppio taglio» (F. von Lizst), che tutela beni di rilievo giuridico, sacrificando a sua

volta beni giuridici fondamentali, come la libertà personale;

- da questa presa d’atto deriva la c.d. teoria del “bene giuridico”: elaborazione di matrice

liberal-garantistica, in quanto finalizzata a pre-selezionare i beni suscettibili di essere tutelati

Page 18: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

18

penalmente dal legislatore:

dovrà trattarsi esclusivamente dei beni fondamentali per la convivenza civile, cioè attinenti, in via

diretta o indiretta, alla salvaguardia dei diritti umani inviolabili e tali che la loro offesa risulti

suscettibile di un accertamento materiale;

per la suddetta funzione limitativa dei poteri coercitivi derllo Stato, in quella che costituisce la loro

massima espressione, la teoria del bene giuridico è stata fortemente avversata da parte dei regimi

totalitari;

si consideri, in questa medesima prospettiva, l’inadeguatezza della c.d. concezione metodologica del

bene giuridico elaborata in Italia all’epoca dell’introduzione del codice Rocco, nell’ambito del c.d.

orientamento tecnico-giuridico: tale concezione si configurava infatti come finalizzata alla mera

catalogazione a posteriori dei beni, o interessi, giuridici che il legislatore avesse (già) scelto di tutelare

penalmente;

il tentativo operato dal prof. Franco Bricola di identificare i beni giuridici penalmente tutelabili con

quelli di rango costituzionale, sulla base dell’art. 13 Cost.: se la pena incide su diritti costituzionali

del condannato, e in particolare sulla sua libertà, allora la previsione di un reato potrà riguardare, a

sua volta, soltanto la tutela di beni di rango costituzionale analogo a quello dei beni sui quali la pena

incide;

si noti che simile approccio ha il merito di rendere possibile sollevare la questione di costituzionalità

di un certo reato (per contrasto, in particolare, con l’art. 13 Cost.) nel caso in cui quel reato risultasse

tutelare un bene di rango eccessivamente modesto rispetto a quello del bene sul quale la sanzione

penale incide;

12.4

- la riflessione sul bene giuridico, peraltro, assume interesse non soltanto per il legislatore penale,

ma anche dopo le scelte che il medesimo abbia operato, e dunque per il giudice:

a) l’individuazione del bene tutelato dalla norma penale può infatti favorire, anzitutto, l’attività

interpretativa del giudice in senso restrittivo rispetto alla descrizione letterale della fattispecie di reato

(mentre non sarebbe ammissibile l’operazione opposta, vale a dire estendere l’ambito applicativo

della norma penale in considerazione di supposte esigenze ulteriori di tutela del bene giuridico cui

tale norma appresti tutela: posto che ciò si risolverebbe in una violazione del principio di legalità, sia

con riguardo al canone della determinatezza, sia, soprattutto, sotto il profilo del divieto di analogia:

v. infra); se ne deduce che la funzione selettiva dell’ambito del punibile correlata alla considerazione, in sede

di giudizio, del bene giuridico che una data fattispecie di reato intenda tutelare viene resa per gran

parte vana ove si affermi che simile fattispecie abbia carattere plurioffensivo, cioè miri a tutelare una

serie variegata e assai discrezionalmente dilatabile di beni: la categoria del reato plurioffensivo,

pertanto, andrebbe evitata o, comunque, utilizzata con estrema parsimonia;

b) in particolare, tuttavia, la riflessione sul bene giuridico rileva, con riguardo al giudice, affinché

possa trovare attuazione, in sede di giudizio, il principio di “offensività”:

tale principio esprime l’esigenza che il giudice non si limiti, per punire, a constatare l’essersi

verificato un accadimento storico corrispondente ai requisiti di una certa fattispecie di reato, ma

accerti anche l’effettiva offesa, in termini di lesione o messa in pericolo (v. infra), del bene giuridico

che il legislatore, attraverso quella fattispecie, intendeva tutelare;

il principio di offensività, tuttavia, non trova espressione esplicita nel codice penale italiano, a

differenza di quanto accede nei codici penali europei recenti, ed è stato desunto, nel nostro sistema

penale, attraverso due strade:

- o desumendolo direttamente dalla Costituzione e, in particolare, dall’art. 13 della medesima

Page 19: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

19

(il diritto penale non può produrre, attraverso la pena, un’offesa di beni fondamentali del cittadino,

e in particolare della libertà personale, se non si sia verificata effettivamente l’offesa, da

parte del cittadino, del bene tutelato dalla norma trasgredita);

- oppure individuando un appiglio codicistico positivo del suddetto principio facendo leva

sul conetto di inidoneità dell’azione di cui all’art. 49 c.p. (reato impossibile), che esclude il

configurarsi del reato: intendendo tale concetto non (o non soltanto) come inidoneità materiale

a cagionare l’evento in senso naturalistico (in antitesi all’idoneità degli atti richiesta dall’art.

56 c.p. per la configurabilità del tentativo), bensì (anche) come inidoneità a ledere il bene giuridico e,

dunque, come inoffensività (c.d. concezione realistica del reato);

deve rimaner per fermo, in ogni caso, che il giudice non può operare un giudizio di offensività riferito

a beni diversi da quello che il legislatore ha inteso tutelare mediante la fattispecie di reato della quale

si discuta, ma deve soltanto verificare che il fatto posto in essere dal soggetto agente in conformità ai

requisiti di tale fattispecie realizzi davvero l’offesa del bene giuridico che si voleva proteggere (p. es.:

non è offensivo il “furto” di pochi acini d’uva, perché non comporta una effettiva lesione del bene

costituito dal patrimonio; non sono offensive espressioni formalmente diffamatorie, se si sta

attribuendo in aula a qualche studente la commissione di un reato per ragioni di esemplificazione,

oppure se tali espressioni avvengono nel contesto di una rappresentazione teatrale, ciò non

comportando alcuna offesa dell’altrui onore);

la precisazione è importante perché alcuni regimi totalitari consentivano al giudice, attraverso

clausole generali inserite nei codici penali, di valutare ai fini della punibilità se un reato, poniamo un

omicidio politico, fosse da ritenersi non offensivo con riguardo a supposti interessi superiori dello

Stato o a concetti simili;

appare pertanto opportuno non utilizzare – con riguardo a fatti formalmente conformi alla descrizione

normativa della fattispecie, ma non risultanti offensivi del bene che la medesima abbia inteso tutelare – la qualifica, cui talora s’è fatto ricorso, di fatti inoffensivi conformi al tipo, in quanto tale

formula potrebbe lasciar intendere che si ammetta un giudizio sull’offensività riferito a

interessi diversi rispetto alla tutela di quel solo bene: è corretto affermare, piuttosto, che in

assenza di offensività manca il requisito stesso della tipicità del reato (v. infra), per cui il fatto non

è tipico;

- si consideri in ogni caso la differenza che sussiste fra fatto inoffensivo (manca il reato) e fatto

tenue ai sensi del cit. art. 131-bis c.p. (il reato sussiste ma non è punibile) oppure non procedibile

ai sensi degli artt. 35 d.lgs. n. 274/2000 o 27 d.P.R. 448/1988 (non viene proseguito l’iter

processuale): v. supra;

- il principio di legalità quale fondamentale principio liberal-garantistico che attiene alla tutela

del cittadino nei confronti della potestà punitiva statuale, espresso all’art. 25 Cost., oltre che

all’art. 1 c.p., nei suoi profili di:

1) riserva di legge, in forza della quale l’introduzione di norme penali è riservata al

potere legislativo, con esclusione sia di atti provenienti dal potere esecutivo (diversamente da quanto

accade negli altri settori del diritto, dove tali atti hanno un ruolo integrativo della legge, secondo la

gerarchia delle fonti), sia di un ruolo creativo del diritto da parte del potere giudiziario: ciò

in quanto, costituendo le sanzioni penali lo strumento di massima ingerenza dei poteri pubblici

nella sfera dei diritti dei cittadini, si vuole che la loro utilizzazione venga decisa dall’organo

massimamente rappresentativo dei cittadini stessi e vagliata secondo le procedure proprie del

dibattito parlamentare (è infatti esclusa anche la competenza in materia penale delle leggi regionali);

si consideri come questa impostazione che si rifà alla tradizione illuministica risulti oggi ampiamente

minata sia dalla disponibilità dei parlamenti a farsi interpreti di istanze demagogiche e di c.d.

populismo penale, sia dal marcato svuotamento dell’autonomia dei parlamenti stessi rispetto al ruolo

Page 20: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

20

dominante dei governi, sia dall’attivismo creativo giudiziario (il c.d. diritto vivente), che tende a

debordare rispetto alla funzione meramente interpretativa del diritto, con un ricorso sostanziale anche

a soluzioni di analogia in malam partem (v. infra): attivismo in parte favorito dalla scarsa qualità e

coerenza della odierna legislazione penale, nonché dall’ampio utilizzo, in essa, di terminologie

generiche o di c.d. concetti valvola (nonostante il principio di determinatezza, del quale subito

diremo);

la natura tendenzialmente assoluta e non meramente relativa della riserva di legge; la tradizionale

ammissione, tuttavia, che il divieto di prevedere norme penali non valga per i decreti legislativi e, più

problematicamente, per i decreti legge (in quanto atti del Governo aventi, a certe condizioni, forza di

legge);

il problema delle c.d. norme penali in bianco, attraverso le quali il legislatore penalizza la violazione

di provvedimenti provenienti da autorità amministrative o, comunque, si lascia a una fonte secondaria

(cioè non legislativa) la determinazione della condotta rilevante ai fini penali: l’esigenza, in proposito,

che sia quantomeno ben delineate la tipologia e le caratteristiche del provvedimento cui si dà rilievo

ai fini penali;

2) determinatezza (o precisione, o tassatività) delle fattispecie di reato, in forza della quale

si richiede che il legislatore descriva quest’ultima nel modo più preciso possibile, così che

ciascun cittadino possa sempre essere sempre in grado di individuare, al momento in cui tiene la

condotta, il confine tra ciò che sia da ritenersi lecito o illecito sul piano penale;

si veda a proposito della determinatezza anche quanto verrà indicato infra, circa le faratteristiche del

fatto tipico;

esemplificazioni circa fattispecie scarsamente determinate e di dubbia conformità al principio della

riserva di legge (in part., l’art. 650 c.p.);

3) divieto di analogia, espressamente previsto dall’art. 14 delle c.d. preleggi circa «le leggi

penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi», in deroga a quanto

comunemente previsto dal precedente art. 12, co. 2:

la nozione di «leggi penali», come norme incriminatrici o tali da consentire una risposta sanzionatoria

più sfavorevole: la rilevanza di principio del divieto, quale divieto a contenuto garantistico, nei soli

casi in cui l’analogia rilevi in malam partem;

la nozione di «leggi che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi»: il problema, in particolare,

dell’applicabilità per analogia delle cause di giustificazione; fermo che queste ultime – v. infra – non

sono norme penali nel senso appena indicato, ci si chiede se siano a loro volta norme che riflettono

regole generali o siano da annoverarsi tra quelle che fanno eccezione alle regole suddette: una risposta

in linea di principio affermativa deve tuttavia tener conto del fatto che un’applicazione estensiva delle

medesime implica l’indicazione per il futuro di un più ampio spazio di compromissione giustificata

di un certo bene, per cui, quantomeno, non possono ritenersi estensibili per analogia quegli elementi

della causa giustificativa che sono descritti in modo ben specificato dalla norma che la preveda);

4) irretroattività delle norme penali, cioè delle norme incriminatrici e in malam partem (art. 2,

co. 1 c.p.);

abrogazione e successione di norme penali; i problemi connessi al confine fra le due categorie e alle

diverse conseguenze che ne derivano: nel primo caso se il reato è stato commesso nella vigenza della

norma abrogata il soggetto agente non può essere punito e, se vi è stata condanna, ne cessano

l’esecuzione e gli altri effetti penali (art. 2, co. 2); nel secondo caso, se il reato è stato commesso

prima della modifica si applicano le disposizioni più favorevoli (art. 2, co. 4);

ove dunque una certa materia già rilevante ai fini penali sia regolata da nuove norme penali si tratta

di chiedersi se le vecchie norme siano state abrogate e ci si trovi di fronte a norme nuove da esse

autonome, nel qual caso i fatti commessi prima del passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina non

Page 21: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

21

potranno più essere puniti, o se invece tra le vecchie e le nuove norme vi sia una continuità di fondo

nella costruzione del reato, nel qual caso i fatti pregressi alla riforma rimarranno pur sempre punibili,

sebbene secondo la disciplina, fra le due, più favorevole;

si pongono peraltro due ulteriori problemi:

a) come ci si comporta quando successivamente alla commissione del fatto si sia avuto un

mutamento di fondo, in senso sfavorevole, nell’interpretazione giurisprudenziale della fattispecie

incriminatrice (scil., nel diritto vivente), per cui al momento del fatto il soggetto agente poteva ancora

far conto sull’irrilevanza penale del suo agire? la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto

che anche in questi casi debba valere, ai sensidell’art. 7 c.e.d.u. il principio di irretroattività: cfr. la

sentenza 14 aprile 2015 sul caso Contrada, secondo la quale non si sarebbe dovuto condannare

quest’ultimo autore per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all’epoca dei fatti (1979-

1988), il rilievo del concorso c.d. esterno ai fini del reato associativo «non era sufficientemente chiaro

e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale

che discendeva dagli atti compiuti»;

b) nel caso della successione di norma penale più favorevole l’art. 2, co. 4, prevede tuttavia che

ove già vi sia stata una condanna irrevocabile per fatti commessi nella vigenza della disciplina

pregressa la condanna stessa non possa venir meno (salva l’ipotesi, di cui al co. 3, nella quale

vi sia stata condanna a pena detentiva e la nuova disciplina preveda la sola pena pecuniaria,

ipotesi nella quale la pena detentiva si converte immediatamente in quella pecuniaria, secondo il

criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 c.p.); la scelta dell’intangibilità del giudicato nel caso di

successione di norme penali è tuttavia giustamente criticata in dottrina e ha trovato aperture nella

giurisprudenza della stessa Corte di giustizia UE; un possibile rimedio può essere costituito, in ogni

caso, dalla procedura di revisione del giudicato ai sensi dell’art. 673 c.p.p.;

c) si noti, peraltro, come si ponga altresì la questione, circa la quale si segnalano ancora una

volta sentenze significative delle Corti europee, inerente al rilievo che dovrebbe essere

attribuito, nei confronti del giudicato, ai mutamenti favorevoli nell’interpretazione

giurisprudenziale (anche a seguito di sentenze della Corte e.d.u.) di una data norma penale

l’inapplicabilità delle disposizioni richiamate dell’art. 2 c.p. alle leggi eccezionali o temporanee (art.

2, co. 5);

- i temi da ultimo considerati impongono altresì di affrontare l’interrogativo circa l’ammissibilità

di un sindacato da parte della Corte costituzionale su norme penali favorevoli (lo sono, per

esempio, le circostanze attenuanti o le cause di esclusione della punibilità: v. infra), cioè circa la

possibilità di sollevare una questione di legittimità costituzionale rispetto a simile tipologia di

norme; si pongono infatti, a prima vista, due questioni:

- quella concernente l’irrilevanza, comunque, della pronuncia nel processo a quo, posto che anche

nel caso di accoglimento del ricorso bisognerebbe pur sempre applicare, nel processo a quo, la

norma favorevole dichiarata incostituzionale, e ciò in forza del principio di irretroattività delle

innovazioni normative in malam partem;

- quello per cui un accoglimento del ricorso comporterebbe un’espansione dell’ambito del

punibile non avente base legislativa, in contrasto con il principio della riserva di legge;

l’esito di una totale sottrazione al giudizio della Corte costituzionale di simili norme appare tuttavia

inaccettabile (rimarrebbe escluso, per esempio, qualsiasi sindacato sulle norme di non punibilità

dell’aborto, come altresì, del resto, il sindacato su ipotetiche norme favorevoli di ingiustificato

privilegio); ne deriva che, per un verso, la rilevanza nel processo a quo potrebbe essere intesa come

rilevanza della questione in termini di principio, così che essa rileverebbe in quel processo se non si

dovesse rispettare il principio di irretroattività; mentre per il secondo profilo problematico appare

Page 22: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

22

ammissibile la dichiarazione di incostituzionalità quanto la norma di favore (rispetto alla scelta

legislativa di penalizzare in un dato modo un certo fatto illecito) non appaia ragionevole, violando in

tal modo il principio di uguaglianza: cioè quando la sua motivazione non possa essere riferita ad

alcuna esigenza costituzionalmente significativa;

13.4

- il principio di sussidiarietà o di extrema ratio del diritto penale:

la teoria del bene giuridico riflette sui beni che, in astratto, potrebbero o meno costituire oggetto di

tutela penale, ma non implica che per la tutela di quei beni (e comunque per ogni modalità di tutela

di quei beni) si debba fare ricorso al diritto penale;

in linea di principio, infatti, il ricorso al diritto penale deve ritenersi ammissibile solo quando altri

strumenti di tutela meno invasivi rispetto ai diritti individuali si manifestino insufficienti: ed è proprio

questa esigenza che risulta espressa dal principio di sussidiarietà o di extrema ratio del diritto penale;

appare peraltro piuttosto irrealistico – anche per esigenze di organicità e di messaggio del sistema,

come pure per esigenze relative agli strumenti d’indagine – che determinati profili di tutela relativi a

beni fondamentali possano fuoriuscire dall’ambito penale, almeno finché un diritto penale si dia: più

che di extrema ratio del ricorso al diritto penale in quanto tale, pertanto, si dovrà parlare di extrema

ratio (o sussidiarietà) del ricorso alla pena detentiva (potendosi ben ipotizzare, per il futuro,

sanzioni penali non detentive);

si noti che nella Costituzione è formalmente menzionato in solo caso con riguardo al quale si

fariferimento a una previsione penale: quello di cui all’art. 13, co. 4;

- ciò rimanda a quello che dovrebbe costituire l’impinato complessivo, ovvero la “piramide”,

della politica criminale, tale per cui si può passare a un livello successivo d’intervento, solo quando

quello precedente non appaia sufficiente:

a) i due livelli della “prevenzione primaria” (v. supra):

1. la dimensione politico-sociale ed educativo culturale;

2. l’intervento giuridico, attraverso norme non penali, sui fattori che favoriscono la riminalità;

b) la fase successiva alla commissione del fatto illecito:

3. la previsione di illeciti (e sanzioni) amministrativi;

4. la previsione di illeciti penali caratterizzati da sanzioni non detentive;

5. la previsione di illeciti penali caratterizzati da sanzioni detentive;

anche quando si ritenga, tuttavia, che le esigenze preventive richiedano il ricorso alla penadetentiva,

si dovranno comunque percorrere, per la tutela del bene interessato, anche i precedenti gradini della

piramide (il contrasto della criminalità organizzata richiede pur sempre prevenzione primaria, ecc.);

- il principio di frammentarietà: indica che non necessariamente il diritto penale tutela tutte

le possibili forme di aggressione di un dato bene; come pure, inoltre, che la sfera di ciò che

risulta penalmente antigiuridico risulta più ristretta rispetto a ciò che risulta antigiuridico rispetto

all’intero ordinamento (sul piano civile, amministrativo, ecc.) e altresì più ristretta, in ogni caso,

rispetto a quanto sia da considerarsi riprovevole sul piano morale (guai se si considerasse

riprovevole solo ciò che è penalmente vietato o che subisce una condanna penale!);

- il rapporto tra diritto penale interno e normative europee: effetti restrittivi e dilatativi

dell’ambito del punibile; il ruolo del diritto europeo ai sensi delle limitazioni alla sovranità

ammesse dall’art. 12 della Costituzione;

in particolare, la problematicità, in rapporto alla «riserva di legge», degli effetti dilatativi

dell’intervento penale e, segnatamente, delle richieste di penalizzazione nonché delle richieste

Page 23: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

23

sanzionatorie derivanti da atti normativi europei (in particolare, dalle direttive);

le previsioni in materia penale del Trattato di Lisbona (in part., l’art. 83: vedi materiali didattici

nella pagina web-docente UC): gli ambiti in cui è previsto un potere di intervento del diritto europeo

attraverso direttive, rispetto ad alcune forme di criminalità grave e ad ambiti nei quali si realizzino

provvedimenti di armonizzazione;

- la prima sentenza Taricco (è riportata anch’essa, con un commento, tra i suddetti materiali

didattici) della Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE, Grande Sezione, 8-9-2015)

che, di fatto, attribuiva al giudice nazionale il potere di disapplicare norme interne relative alla

prescrizione dei reati (art. 157 c.p.) ove non le ritenga nel loro complesso adeguate al dovere degli

Stati (desunto, in particolare, dall’art. 325 TFUE) di prevedere una tutela efficace degli interessi UE

(nel caso di specie rispetto alla prevenzione di delitti di frode tributaria che compromettano il

gettito dovuto alla UE), assegnando in tal modo al giudice poteri aventi, di fatto, natura legislativa;

ne derivava la violazione del divieto di retroattività di una disciplina più sfavorevole, ma soprattutto

la violazione dello stesso principio di divisione dei poteri: questioni sulle quali è stata

chiamata a pronunciarsi la Corte Costituzionale, prospettando la possibilità di far valere i c.d.

controlimiti attinenti ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale interno anche nei

confronti delle sentenze della CGUE (cui compete l’interpretazione autentica delle normative UE,

quali i Trattati e i Regolamenti, che hanno efficacia diretta negli ordinamenti dei singoli Stati e

sono dunque immediatamente applicabili dai giudici); la Corte costituzionale s’è pronunciata con

ord. n. 24/2017 (essa pure tra i materiali didattici) recependo pienamente, nella sostanza, le riserve

sopra enunciate nei confronti della sentenza Taricco e proponendone, in tal senso, una lettura

conforme ai principi costituzionali italiani e al principio di legalità riconosciuto dall’art. 49 della

Carta dei Diritti UE, ma rimettendo nuovamente la questione per una conferma o smentita di tale

lettura alla CGUE, che dovrà prossimamente pronunciarsi: senza dunque aver attivato (per ora) i c.d.

controlimiti. Su questa base la nuova sentenza della Corte e.d.u. (Grande Sezione) 5-12-2017 ha s’

ribadito il sussistere del summenzionato dovere di disapplicare da parte del giudice, ma «a meno

che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle

pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva

di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della

commissione del reato».

- il ruolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e della relativa Corte;

il problema dell’interpretazione delle norme interne secondo la CEDU in base all’interpretazione

che ne dia la CorteEDU e la questione di costituzionalità che si ritiene proponibile in caso di

incompatibilità ai sensi dell’art. 117 Cost. (salvo il principio di resistenza ove quell’interpretazione

risulti incompatibile con principi costituzionali fondamentali);

introduzione alla teoria del reato e ai suoi elementi:

a) fatto tipico, costituito dalla condotta, dall’eventuale evento naturalistico e dagli altri elementi

richiesti dalla norma incriminatrice, nonché (v. supra) dall’effettiva offesa del bene giuridico che la

norma incriminatrice intende tutelare

la descrizione normativa del fatto tipico deve essere conforme al principio di materialità, cioè deve

riferirsi a fattori (condotte, eventi, stati soggettivi, ecc.) che abbiano una proiezione nel mondo esterno

e risultino suscettibili di accertamento: non può dunque avere per oggetto giudizi morali o mere

condizioni personali, il che condurrebbe a un’inaccettabile c.d. colpa d’autore, svincolata

dall’effettiva offesa di beni giuridici;

il fatto tipico si distingue in

Page 24: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

24

- fatto tipico oggettivo (condotta, causalità, evento, offesa del bene giuridico, ecc.) e

- fatto tipico soggettivo, che è costituito dalla natura dolosa o colposa (v. infra) del fatto medesimo;

invero, il codice Rocco prevedeva anche casi non richiedenti il profilo soggettivo e, in particolare

(rispetto ad alcuni almeno degli elementi essenziali del fatto tipico oggettivo), casi di responsabilità

senza dolo e senza colpa, cioè di responsabilità oggettiva (ai sensi dell’art. 43, co. 3, c.p.): ma simili

fattispecie di reato sono da considerarsi oggi incostituzionali a seguito dell’avvenuto riconoscimento

del rango costituzionale che assume il principio di colpevolezza (v. infra) e vanno reinterpretate in

conformità a quest’ultimo;

b) antigiuridicità penale, che si sostanzia nell’assenza di cause di giustificazione (v. infra);

c) colpevolezza, consistente nella attribuibilità (o rimproverabilità) personale del fatto medesimo,

cioè nella circostanza che il soggetto agente fosse in grado di dominare il fatto medesimo;

la nozione di rimproverabilità personale onde definire il concetto di colpevolezza potrebbe

risultare equivoca, in quanto potrebbe indurre a fondare la colpevolezza su giudizi circa lo stile di vita

o altre caratteristiche meramente personali di quel soggetto (e dunque, sulla c.d. colpa d’autore),

aprendo al recepimento, nell’attribuire la colpevolezza, a indebite considerazioni emotive o prima

facie di prevenzionegenerale;

ai fini della colpevolezza risultano necessari, come vedremo, il sussistere del dolo o della colpa,

l’imputabilità, la conoscibilità del divieto e l’esigibilità della condotta;

il dolo e la colpa dunque (v. infra), quali elementi necessari ai fini del giudizio di colpevolezza,

costituiscono oggi anche elementi indispensabili del fatto tipico, in quanto necessitante in ogni caso

della componente soggettiva;

le diverse tipologie di reato:

- con riguardo alla configurazione del fatto tipico oggettivo, abbiamo:

- reati di pura condotta e

- reati con evento naturalistico, che possono configurarsi a condotta libera

(causalmente orientati) o a condotta vincolata, cioè descritta dal legislatore;

si noti bene che l’offesa del bene tutelato – da molti definito evento in senso giuridico – deve

sussistere sia con riguardo ai reati con evento naturalistico, sia con riguardo ai reati di pura condotta;

- con riguardo alla condotta, i reati si distinguono, inoltre, in

reati attivi (o commissivi) e reati omissivi (consistenti nell’astensione da un dovere di attivarsi) i

reati omissivi si distinguono in tre tipologie:

a) reati omissivi propri (di pura condotta omissiva), descritti come tali dalla norma

incriminatrice (p. es., l’omissione di soccorso);

b) reati nei quali la stessa norma incriminatrice prevede che l’evento naturalistico sia causato

da una condotta omissiva;

c) reati omissivi impropri, che vengono creati dall’art. 40, co. 2, c.p., ai sensi del quale

non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, in

rapporto a singoli reati previsti in forma commissiva;

l’art. 40, co. 2, c.p., costituisce, peraltro, una delle norme più problematiche della parte generale del

codice penale, data la sua genericità (in palese contrasto con il principio di determinatezza);

Page 25: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

25

ne derivano molteplici interrogativi, riguardanti in particolare:

a) le tipologie di reato in cui il reato omissivo improprio sia configurabile (essendo stato

concepito, originariamente, avendo presenti i delitti contro la vita e contro l’incolumità personale); b) la sua riferibilità, secondo l’impianto originario del codice, ai soli reati con evento

naturalistico nonché, in particolare, ai soli reati a condotta libera, cioè che non prevedano specifiche

modalità della condotta; si constata, tuttavia, la non rara applicazione giurisprudenziale dell’art. 40.

co. 2, c.p. anche a reati di pura condotta, specie nell’ambito del diritto penale economico;

c) l’ulteriore riferibilità originaria del reato omissivo improprio a condotte direttamente

impeditive dell’evento e non al contrasto diretto di un comportamento causale altrui (salvo il

caso in cui ciò costituisca un contenuto esplicito dell’obbligo);

d) la ricostruzione delle fonti dell’obbligo di impedire (sia esso un obbligo di protezione

nei confronti di qualcuno o un obbligo di controllo rispetto a determinate fonti di pericolo): in

proposito vi sono ottime ragioni che consigliano di mantenere, per ragioni di legalità,

l’individuazione delle fonti dell’obbligo nella legge o nel contratto, evitando il riferimento troppo

generico a c.d. posizioni di garanzia; si consideri, in proposito, che il passaggio da un approccio

formale a un approccio sostanziale nella lettura di una data fattispecie non risulta accettabile

quando viene a costituire un’estensione dell’ambito del punibile, in contrasto con il principio di

legalità (e in particolare con la riserva di legge): come può accadere mediante il passaggio da una

definizione delle fonti dell’obbligo di impedire fondata sulla legge o sul contratto a una definizione

fondata su meno precisabili posizioni di garanzia; ben diverso è il caso, invece, nel quale il

passaggio dall’approccio formale a quello sostanziale comporti una restrizione in senso

garantistico dell’ambito del punibile, come avviene attraverso il riconoscimento (v. supra) del

principio di offensività;

e) la non configurabilità di ogni obbligo avente significato di prevenzione come un

obbligo di impedire l’evento ai sensi dell’art. 40, co. 2, c.p. (occorre in proposito che

quest’ultima finalità emerga in modo chiaro dalla norma che istituisce l’obbligo e che siano

attribuiti al soggetto obbligato i poteri o i mezzi necessari a impedire: non sarebbe di certo

accettabile, infatti, che la moltiplicazione, negli ultimi anni, dei soggetti cui vengono attribuiti

doveri finalizzati a prevenire finisca per dilatare la sfera applicativa del reato omissivo improprio);

- con riguardo al bene giuridico tutelato i reati si distinguono in:

- reati di danno, che comportano la lesione del bene giuridico tutelato, e

- reati di pericolo, implicanti una tutela anticipata del medesimo bene: comportano,

infatti, non già la lesione, ma la messa in pericolo del bene giuridico tutelato;

i reati di pericolo si distinguono in:

- reati di pericolo concreto, nei quali si richiede al giudice di accertare che si sia

effettivamente determinato un pericolo (non un danno!) nel caso concreto per il bene oggetto di

tutela;

- reati di pericolo astratto, attraverso i quali il legislatore non richiede al giudice un

accertamento del pericolo, in quanto sussiste una base scientifica adeguata per ritenere che il fatto

risulti sempre pericoloso rispetto al bene tutelato;

- reati di pericolo presunto, da ritenersi incostituzionali perché puniscono sempre,

prevedendolo come reato, un certo fatto, senza alcuna prova scientifica che esso metta

effettivamente in pericolo nel caso concreto il bene tutelato e senza richiedere al giudice uno

specifico accertamento a tal proposito (posto che, invece, la sanzione penale incide in modo

certo su beni fondamentali del condannato);

esemplificazione in materia di incendio (art. 423 c.p.): tale delitto, posto a tutela della pubblica

incolumità (non del patrimonio!), veniva tradizionalmente utilizzato, con riguardo al secondo comma

(incendio di cosa propria), come modello di un reato di pericolo concreto (in quanto la norma precisa

Page 26: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

26

in tal caso «se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità») e, con riguardo al primo comma

(incendio di cosa altrui), come modello di un reato di pericolo presunto, non essendo esplicitamente

richiesta, in tale diverso caso, alcun accertamento da parte del giudice circa il determinarsi in concreto

di un pericolo;

stante l’incostituzionalità di principio dei reati di pericolo presunto, si è peraltro addivenuti a una

lettura dello stesso art. 423, co. 1, c.p., la quale ravvisa nel cagionare un incendio non un mero

appiccare il fuoco, bensì il produrre un fuoco di caratteristiche tali da manifestarsi oggettivamente

pericoloso per l’incolumità personale: tesi questa fatta propria in due occasioni dalla stessa Corte

costituzionale (n. 286/1974 e n. 71/1979), che ha per l’appunto richiesto, ai fini dello stesso art. 423,

co. 1, c.p., un evento idoneo a creare una situazione di pericolo per la pubblica incolumità (sebbene

utilizzando l’avverbio potenzialmente, piuttosto che l’avverbio concretamente: tuttavia, una

interpretazione teleologica costituzionalmente orientata conduce a esigere il realizzarsi effettivo del

pericolo);

si noti altresì che la distinzione fra reati di pura condotta e reati con evento naturalistico non

coincide affatto con la distinzione fra reati di danno e reati di pericolo (che attiene al bene

tutelato): posto che possono ben darsi reati con evento naturalistico, come ancora una volta il

cagionare un incendio ai sensi del cit. art. 423 c.p., che costituiscono reati di pericolo (per quanto

concerne l’incendio, nei confronti della pubblica incolumità);

- con riguardo alla catalogazione legislativa, i reati si distinguono in due categorie, le quali si

riconoscono in modo formale a seconda del tipo di pene previste (v. art. 17 c.p.): delitti, sanzionati con l’ergastolo, la reclusione o la multa, i quali richiedono il dolo, salvo che sia

prevista espressamente l’ipotesi colposa (v. art. 42, co. 2 c.p.) e

contravvenzioni, sanzionate con l’arresto o l’ammenda, le quali sono sempre punibili sia per dolo

che per colpa (v. art. 42, co. 4, c.p.);

nel codice penale i delitti sono previsti nel libro II, mentre le contravvenzioni nel libro III;

19.4

- operata una visione sintetica degli elementi del reato, si tratta ora di ripercorrerli secondo il percorso

accertativo proprio del processo, che muove a ritroso dall’evento (prendiamo in considerazione, per

semplificare, il modello di un reato con evento naturalistico, ma quanto si dirà vale, in linea di

principio, anche con riguardo all’evento in senso giuridico, cioè all’offesa del bene tutelato, che deve

pur sempre sussistere anche nei reati di pura condotta);

il giudice dovrà dunque verificare, in primo luogo, se l’evento sia stato causato da unacondotta

umana (o, comunque, da un fattore naturalistiao a sua volta attivato da una condotta umana): posto

che, ovviamente, è solo di tale eventualità che si occupa il diritto penale; il giudice dovrà dunque

accertare il sussistere di un nesso di causalità tra l’evento stesso e una tale condotta;

simile problematica, si osservi, riguarderà soprattutto i reati colposi, come dimostra l’esperienza

giurisprudenziale: posto, infatti, che la condotta dolosa mira a immutare, affinché si producal’evento,

un contesto situazionale nel quale, altrimenti, l’evento stesso pressoché certamente non si produrrebbe,

è quasi impossibile che, ove l’evento si sia prodotto e vi sia stato il dolo di produrlo, possano esservi

dei dubbi sulla causalità della condotta; mentre ove l’evento si sia prodotto, ma nessuna condotta sia

stata prescelta proprio per produrlo (cioè non vi sia dolo intenzionale), può darsi assai più facilmente

il dubbio che l’evento sia stato prodotto, piuttosto che dalla condotta pericolosa (colposa) che sia stata

posta in essere, da qualche altra sequenza causale;

successivamente, il giudice dovrà interrogarsi, come vedremo, circa la prospettiva mentale che abbia

dato causa alla condotta produttiva dell’evento, interrogandosi, dunque, in merito a un secondo nesso

causale, nel cui ambito la condotta non costituisce più l’antecedente, bensì il conseguente rispetto alla

Page 27: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

27

prospettiva mentale;

- il codice penale esige all’art. 40, co. 1, che sussista il nesso di causalità tra condotta ed evento, ma

non ne dà la definizione; questa va pertanto ricavata alla luce della nozione di causalità valida in

ambito scientifico;

in tal senso la definizione del nesso di causalità risulta espressa dalla formula della condicio sine qua

non (si può dire che B è stato causato da A ove, senza A, B non si sarebbe prodotto);

(a sua volta, la causalità di una condotta omissiva potrà essere affermata quando in assenza

dell’omissione, vale a dire ove fosse stato posto in essere il comportamento dovuto, l’evento non si

sarebbe verificato:

la formula della condicio sine qua non, tuttavia, costituisce solo la definizione del nesso di causalità,

ma non ci dice nulla circa l’effettivo sussistere di quel nesso; a questo fine sarà necessario, pertanto,

disporre di un criterio idoneo ad accertare che sussistano effettivamente le condizioni indicate dalla

formula suddetta, cioè che davvero, eliminato l’antecedente, il conseguente sarebbe venuto meno

(giudizio ipotetico controfattuale);

un criterio che è dato, nel nostro caso, dalla riconducibilità dell’ipotesi causale formulata dal giudice

nel caso concreto a regolarità già note, cioè a generalizzazioni (leggi scientifiche) che ricolleghino

elementi ripetibili dell’antecedente al verificarsi di elementi ripetibili del conseguente: così da potersi

concludere che il conseguente si è verificato in quanto s’è verificato l’antecedente e che, eliminando

quest’ultimo, quel conseguente non si sarebbe realizzato (modello della sussunzione sotto leggi

scientifiche);

tuttavia non disponiamo, in molti casi, di leggi scientifiche universali (del tipo “tutte le volte che A,

allora B”), ma di sole leggi statistiche (del tipo “tutte le volte che A, B si verifica in una certa

percentuale di casi); le leggi statistiche, però, non consentono di raggiungere il necessario livello di

prova oltre ogni ragionevole dubbio del nesso causale: se tra A e B intercorre solo una legge

statistica, A è idoneo a cagionare B ma non è detto che lo abbia cagionato, perché B potrebbe essere

stato prodotto da un antecedente causale diverso (problema della pluralità delle cause); il che

evidenzia, fra l’altro, la non validità a risolvere il problema causale delle vecchie teorie della c.d.

causalità adeguata, fondate sul riscontro della mera idoneità causale della condotta (cioè della sua

pericolosità ex ante);

dunque, va affermata la tendenziale necessità del ricorso, circa la prova del nesso causale, a leggi

universali, posto che ove la condotta sia legata all’evento da una legge soltanto statistica (meglio, ove

condotta ed evento siano sussumibili sotto una legge meramente statistica), l’evento potrebbe essere

stato prodotto anche da una condotta diversa;

ove nondimeno si utilizzino leggi statistiche (che siano quantomeno espressive di una idoneità

statistica elevata), dovrà di conseguenza escludersi, per conseguire un livello di prova oltre ogni

ragionevole dubbio, che abbia agito una condotta diversa da quella cui si riferisca quella specifica

legge statistica, cioè dovrà escludersi qualsiasi eventuale fattore causale alternativo (come affermato

da C s.u. 11-9-2002, Franzese): fine per il quale il giudice potrà utilizzare due criteri:

- quello storico (domandandosi quale dei potenziali fattori causali alternativi si sia

effettivamente verificato) e

- quello consistente nella migliore descrizione possibile dell’evento (meglio è descritto l’evento,

più si restringe il ventaglio degli antecedenti causali plausibili); nondimeno, l’attendibilità oltre ogni ragionevole dubbio della prova così conseguita rimane pur

sempre problematica in relazione alla possibilità che possano aver operato nel caso concreto,

causando l’evento, fattori causali non noti;

la condotta, tuttavia, che si sia provato costituire condicio sine qua non dell’evento rappresenta, di

Page 28: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

28

quest’ultimo, soltanto una condizione necessaria (cioè sine qua non), la quale onde produrre l’evento

medesimo ha agito nel contesto di altri fattori causali necessari; si tratta del c.d. problema delle

concause, sia di carattere fisico-naturalistico, sia consistenti, spesso, in altre condotte umane,

contemporanee o, soprattutto, antecedenti (fino, per paradosso, al ruolo pur sempre causale della

madre, ma anche del padre…, che ha messo al mondo l’autore del reato): l’insieme di tutti i fattori

necessari per il prodursi di un evento ne individua la condizione sufficiente, che in termini assoluti

non è ricostruibile (bisognerebbe poter spiegare l’universo fin dalle sue origini…);

a questo punto, dunque, diventa indispensabile domandarsi quale debba essere, nel quadro delle molte

condotte umane che siano state antecedenti causali dell’evento, la condotta penalmente rilevante: la

condotta, cioè, che sia da ritenersi rilevante ai fini della c.d. imputazione oggettiva, comune alla

responsabilità per dolo e per colpa:

di questo problema il codice penale si manifesta consapevole all’art. 41 c.p., il cui co. 2 prevede che

«le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità [cioè la rilevanza di condotte causali

pregresse] quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento». Tale norma, tuttavia, ha

suscitato sempre difficoltà interpretative, dato l’utilizzo del concetto, in sé contraddittorio, di cause

da sole sufficienti (essa, del resto, sembra comprensibile solo alla luce di quanto immediatamente

preciseremo nel testo, cioè solo ove venga riferita ai casi in cui l’evento lesivo, pur causalmente

riconducibile alla condotta di un certo soggetto, rappresenti il concretizzarsi di un rischio

radicalmente diverso da quello che tale soggetto abbia attivato: si pensi all’ipotesi in cui A cagioni il

ferimento di B in un incidente stradale senza porlo in pericolo di vita, ma poi B deceda in ospedale

per un incendio, per una trasfusione infetta o per un errore medico);

simile condotta penalmente rilevante non potrà che essere una condotta illecita: non tuttavia una

qualsiasi condotta illecita, bensì una condotta che abbia violato una regola finalizzata a impedire

il verificarsi dell’evento (sovente definita quale regola cautelare o, in senso lato, di diligenza) e che,

in tal senso, abbia prodotto un rischio non consentito di causazione dell’evento stesso (per cui

l’evento prodottosi risulta rilevante ai fini penali se costituisce la concretizzazione dello specifico

rischio illecito attivato dalla condotta):

ciò vale, come s’è detto, per la forma base del rimprovero soggettivo, cioè per la colpa, ma anche

rispetto al dolo: la volontà soggettiva di produrre un evento in sé rilevante ai fini penali non

rileverebbe ove fosse perseguita – per quanto l’ipotesi costituisca un caso poco realistico – attivando

una condotta del tutto lecita: si pensi all’esempio classico del nipote che, col fine di vedere morto lo

zio ricco da cui vorrebbe ereditare, gli consigli di fare un viaggio in aereo piuttosto che in treno, per

vederlo morto nel caso in cui l’aereo precipiti, come poi, incredibilmente, accade;

20.4

dobbiamo constatare che le condotte umane hanno struttura finalistica:

- ciascuna condotta umana cosciente e volontaria (v. art. 42, co. 1, c.p.) è conseguenza di una

prospettiva mentale finalistica (cioè dell’instaurarsi attuale nella mente dell’intento di perseguire

un certo risultato), orientata o a una modifica del mondo esterno o alla modifica di una condizione

soggettiva (quale si realizza, poniamo, attraverso la condotta dello studiare);

ciò secondo lo schema PX–>C–>X (prospettiva mentale, condotta, risultato oggetto della

prospettiva mentale);

si noti che le prospettive mentali (le intenzioni) sono realtà, sebbene realtà di tipo non empirico

(non constatabili sul piano di un mero accertamento materiale): può dirsi, anzi, che costituiscono le

realtà più significative della vicenda umana, posto che tutto ciò che gli esseri umani hanno

Page 29: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

29

realizzato, nel bene e nel male, lungo la storia costituisce l’effetto di prospettive mentali e di

condotte scelte e adottate per conseguire l’oggetto di tali prospettive;

- la produzione di eventi voluti e non voluti:

lo schema della responsabilità dolosa: (PX=E C X=E) e lo

schema della responsabilità colposa: (PX C↓E X);

nella prima l’oggetto della prospettiva mentale è proprio l’evento penalmente rilevante causato

dalla condotta;

nella seconda, l’oggetto della prospettiva mentale è un risultato diverso (x) dall’evento penalmente

rilevante (E), ma la condotta C cagiona l’evento E come risultato non voluto (deve trattarsi, come

vedremo, di una condotta che crea un rischio non consentito della causazione di E, vale a dire che

viola una regola finalizzata a evitare l’evento E);

si noti che si collocano nel secondo schema anche le figure del dolo diretto e (del dolo eventuale (v.

infra), figure, queste ultime, di creazione dottrinale e giurisprudenziale (cioè non previste dal codice

penale) nelle quali l’evento, in realtà, non è voluto (non è oggetto di intenzione); il che rappresenta,

specie per il dolo eventuale, una palese forzatura di quanto stabilito all’art. 43 c.p. e, in tal modo, del

principio costituzionale di legalità (artt. 25 Cost. e 1 c.p.);

- sulla base di quanto s’è detto, può essere utile illustrare l’iter motivazionale complessivo del

comportamento umano, vale a dire il concatenarsi delle triadi prospettiva-condotta-evento;

ciascuna catena PX C X (prospettiva mentale, condotta, evento) costituisce, nel suo insieme, la

condotta (CA) derivante da una prospettiva mentale antecedente (PA) e orientata a un evento

ulteriore (EA), catena questa che, a sua volta, costituisce la condotta CB derivante da una prospettiva

antecedente PB e orientata a un evento ulteriore EB, e così via (a sua volta la condotta C può essere

suddistinta in ulteriori catene del tipo PX C X, fin quando la condotta non potrà più essere

suddistinta essendo venuta a coincidere con un mero movimento corporeo); tutto questo secondo il

seguente schema:

si consideri che, talora, la norma penale dà rilievo a prospettive pregresse – alla prospettiva della

prospettiva – quali moventi o motivi (per esempio ai fini di determinate circostanze aggravanti o

attenuanti o ai fini dell’art. 133 c.p.), oppure come fine ulteriore necessario per il configurarsi del

reato (casi di dolo specifico);

la categoria del dolo specifico concerne, in tal senso, i casi in cui la norma penale richiede, per il

configurarsi del fatto tipico, che la condotta risulti finalizzata a un certo scopo ulteriore rispetto alla

causazione dell’evento naturalistico (o rispetto alla condotta, ove si tratti di un reato di pura condotta),

senza necessità, tuttavia, che tale scopo si realizzi;

Page 30: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

30

lo schema appena illustrato consente fra l’altro di riflettere sulla troppo scarsa attenzione dedicata dal

diritto penale all’interrogativo circa il perché si determini una data prospettiva mentale, da perseguirsi

secondo un dato progetto causale (per lo più il diritto penale si limita a ricostruire per esclusione le

prospettive mentali che abbiano operato, senza interrogarsi ulteriormente: salvo solo il caso estremo

costituito dall’esclusione dell’imputabilità);

il profilo psicologico del reato:

- la coscienza e volontà della condotta ai sensi dell’art. 42, co. 1, c.p., come requisito generale di

tutti i reati ed espressione – esso pure – del necessario carattere personale della responsabilità

penale (ex art. 27, co. 1, Cost.): requisito che non attiene alla colpevolezza, bensì allo stesso

fatto tipico soggettivo, e che non va confuso con la rappresentazione (o previsione) e la volizione

dell’evento (scil., del fatto tipico), di cui all’art. 43, in quanto elementi del dolo (sebbene il primo

sussista anche nel caso di colpa cosciente);

la tendenza, non condivisibile, a normativizzare le nozioni di coscienza e volontà della condotta in

riferimento ad atti inconsapevoli (c.d. automatici o riflessi), ma che, si suppone, l’agente avrebbe

potuto dominare; in ogni caso, la suitas non sarebbe da riferirsi a valutazioni, che devono rimanere

successive, concernenti la colpa, bensì dovrebbe semmai comportare, quantomeno, che la condotta di

cui si discuta rimanga causalmente correlata a una pregressa condotta (davvero) cosciente e volontaria

di tale soggetto.

- la previsione del possibile realizzarsi dell’evento quale caratteristica sia del dolo che della colpa

con previsione, o cosciente (sussistendo, invece, nella colpa incosciente la mera prevedibilità

dell’evento): si noti che l’art. 43 c.p. (come anche l’art. 61, n. 3), non parla ai fini della colpa cosciente

di (mera) rappresentazione del rischio, cioè di mera rappresentazione del carattere pericoloso della

condotta (cioè del rischio a essa riferibile), ma di rappresentazione (previsione) dell’evento come

possibile esito della condotta: evento che, dunque, dev’essere stato oggetto di rappresentazione ai fini

della colpa cosciente secondo le caratteristiche concrete essenziali del suo realizzarsi (sulla

problematicità di un simile accertamento v. infra);

- il reato doloso in rapporto a quello colposo (introduzione); le definizioni del reato colposo (o

contro l’intenzione) e del reato doloso (o secondo l’intenzione), nell’art. 43 c.p.;

in particolare, la definizione del dolo nell’art. 43 c.p., fondata sulla rappresentazione e sulla

volizione dell’evento; è la volizione, peraltro, che costituisce elemento caratteristico del dolo, in

quanto la rappresentazione dell’evento, come già si diceva, può essere presente anche nella colpa, nel

qual caso si tratterà di colpa cosciente (sui profili problematici relativi all’accertamento del profilo

rappresentativo v. infra);

- richiamando quanto già s’è detto supra circa la struttura finalistica delle condotte umane,

per valutare se una condotta di cui si sia già comprovata la causalità rispetto al prodursi

dell’evento penalmente significativo risulti dolosa o colposa (o anche caratterizzata da dolo

diretto o da dolo eventuale), vale a dire per accertare l’elemento soggettivo del reato, il giudice

dovrà interrogarsi preliminarmente – come già sappiamo – su quale sia stata la prospettiva

mentale (P) che abbia dato causa alla condotta (C) produttiva dell’evento (E) e dunque, in

particolare, se tale prospettiva abbia avuto per oggetto un evento X qualsiasi (PX) o proprio

l’evento E (PE): caso, quest’ultimo, in cui la condotta potrà dirsi caratterizzata dal dolo

intenzionale;

in particolare, pertanto, l’accertamento della volizione (ovvero dell’intenzionalità) nel dolo,

richiederà di prendere in considerazione il nesso causale tra la condotta (C) e la prospettiva (P) che,

per l’appunto le abbia dato causa, tendendo conto del fatto che mentre nell’accertamento del nesso di

Page 31: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

31

causalità tra la condotta (C) e l’evento (E) la condotta stessa costituisce l’antecedente (rispetto

all’evento), nell’accertamento dell’elemento soggettivo la condotta costituisce il conseguente,

rispetto alla prospettiva mentale (P); come, allora, il giudice potrà accertare quale sia stata la prospettiva (P) che abbia dato causa alla

condotta (C) e, in particolare, se tale prospettiva sia stata proprio quella di cagionare l’evento (E): o, in altre parole, il giudice come dovrà condurre l’accertamento del dolo intenzionale (o del suo non

sussistere)?

a tal proposito va segnalata innanzitutto l’inadeguatezza del riferimento generico, circa

l’accertamento del dolo (intenzionale), a massime di esperienza, cioè a regolarità riguardanti il

comportamento umano in rapporto alla presenza di un dato fattore (del tipo: chi ha subìto un torto, si

vendica): regolarità, si noti, che comunque saranno sempre di tipo statistico, stante la capacità di

autodeterminazione degli esseri umani (per cui, a differenza delle leggi scientifiche riscontrabili tra

accadimenti naturalistici, il fatto che una massima di esperienza possa essere smentita in un certo

numero di casi non la falsifica: è contemporaneamente vero, per esempio, sia che vi sono persone le

quali avendo subìto un torto si vendicano, sia che si sono persone le quali avendo subìto un torto non

si vendicano):

il rischio, infatti, è quello di trascurare, facendo riferimento per l’accertamento del dolo a massime di

esperienza (è, in effetti, abbastanza facile reperire massime di esperienza utili all’ipotesi accusatoria),

fattori rilevanti nel caso concreto che le smentiscano; per esempio, se A ha travolto, in automobile, B

e risulta che A avesse subìto in precedenza dei torti da B, si potrebbe essere indotti a concludere che

la condotta di A è stata dolosa, in forza della massima di cui sopra: quando invece l’attenta

considerazione dell’intero contesto situazionale potrebbe condurre a conclusioni diverse;

in realtà, per accertare che proprio una certa prospettiva mentale P abbia dato causa alla condotta C

e, quindi, per accertare il dolo intenzionale (cioè che la prospettiva P fosse proprio quella di cagionale

l’evento E verificatosi), si dovrà escludere ogni diversa prospettiva mentale che possa

plausibilmente aver dato causa alla condotta: il che può avvenire solo attraverso la descrizione

più accurata possibile del contesto in cui la condotta è stata tenuta (meglio, infatti, vienedescritto

tale contesto, più si riduce il ventaglio delle prospettive rispetto ad esso plausibili);

si pone, con ciò, una problematica simile a quella già considerata in materia di causalità, con riguardo

alla pluralità delle cause (v. supra): salvo che nel nostro caso, a differenza di quello richiamato, non

sarà utilizzabile, in aggiunta, il criterio storico: circa l’accertamento della causalità tra condotta ed

evento, infatti, si discute di un conseguente (l’evento) e di un antecedente (la condotta ipotizzata

causale) che si sono entrambi verificati, e si tratta di stabile se tra di essi c’è stato un nesso causale,

laddove invece circa l’accertamento del dolo è dato solo il conseguente, rappresentato dalla condotta,

e si tratta di individuare l’antecedente, vale a dire quale prospettiva mentale abbia dato causa alla

condotta stessa);

- constateremo più oltre, dopo aver analizzato la responsabilità per colpa, come giurisprudenza

e dottrina abbiano ritenuto di poter ravvisare il dolo non soltanto secondo i requisiti appena

descritti secondo la formulazione dell’art. 43, co. 1, c.p. (dolo intenzionale), ma anche in due

situazioni (di

c.d. dolo diretto e dolo eventuale, o indiretto) nelle quali l’evento, in realtà, non è voluto (non è

oggetto di intenzione): con una palese forzatura, almeno per quanto concerne il dolo eventuale, di

quanto previsto dal citato art. 43, co. 1, c.p. e, in tal modo, del principio costituzionale di legalità (artt.

25 Cost. e 1 c.p.);

26.4

il reato colposo:

Page 32: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

32

- gli elementi descritti in precedenza come requisiti necessari dell’imputazione oggettiva (v.

supra), costituiscono la base per la seconda forma di manifestazione del fatto tipico soggettivo, che

è quella colposa;

la responsabilità per colpa richiede, infatti, che l’evento lesivo prodottosi costituisca la conseguenza

non voluta di una condotta la quale abbia creato il rischio non consentito della sua causazione,

così che il rimprovero di colpa consiste, essenzialmente, nel non aver ottemperato, trovandosi nella

condizione di poterlo fare, allo standard comportamentale richiesto, nell’ambito di una certa

attività, onde evitare il prodursi dell’evento offensivo determinatosi;

- su questa base, emerge quella che possiamo definire un’aporia di fondo con riguardo allo schema

del reato colposo di evento, vale a dire una contraddittorietà del medesimo sia dal punto di vista

della razionalità preventiva, sia rispetto al principio di colpevolezza: il reato colposo, infatti,

colpisce il soggetto più sfortunato fra molti trasgressori egualmente rimproverabili, vale a dire il

solo soggetto la cui condotta antidoverosa (e pericolosa) sfocia effettivamente nel prodursi

dell’evento lesivo;

ciò non può produrre una prevenzione efficace, in quanto il soggetto che agisce in tal modo farà

ampiamente conto, oltre che sull’incidenza della cifra oscura (cioè sulla possibilità, che caratterizza

tutti i reati, di non essere individuato come trasgressore), sull’alta probabilità che l’evento lesivo non

si realizzi;

ma ciò si pone altresì in contrasto con il principio di colpevolezza, dato che non appare accettabile

il fatto per cui, a parità di condotta colpevole (di c.d. disvalore della condotta), l’assenza di

conseguenze penali – non essendosi verificato l’evento lesivo – o il configurarsi di conseguenze

penali talora drammatiche – ove l’evento lesivo si sia verificato – venga a dipendere dal caso:

potrebbe in tal senso parlarsi di una responsabilità oggettiva mascherata:

il problema risultava meno grave fino ad alcuni anni orsono, perché il reato colposo di evento non

conduceva mai, in pratica, a scontare una pena detentiva: ma oggi, in alcuni ambiti (relativi soprattutto

alla circolazione stradale e all’infortunistica sul lavoro) non è più così, posto che in essi il reato

colposo può comportare detenzioni di lunga durata;

- vi sarebbe pertanto l’esigenza di operare, piuttosto, un intervento anticipato rispetto al momento

in cui una certa condotta pericolosa cagioni un evento lesivo, vale a dire un intervento riferito già

alla realizzazione delle condotte pericolose, attraverso sanzioni amministrative o sanzioni penali

non detentive (si pensi, per l’appunto, alle sanzioni concernenti la violazione delle norme sulla

circolazione stradale o delle norme intese alla prevenzione degli infortuni sul lavoro);

risulta peraltro disfunzionale a questo fine la mancanza di un apparato di pene principali non detentive

(si consideri che l’alternativa tra competenza amministrativa oppure penale circa l’accertamento e la

sanzione di illeciti non sanzionati in modo detentivo dipende soprattutto da considerazioni

concernenti l’opportunità dell’affidare o meno alla pubblica amministrazione la gestione di

determinati contenziosi, vale a dire circa la sussistenza o meno della necessità di fare pur sempre

affidamento, per una data materia, ai maggiori poteri di indagine e alla peculiare indipendenza della

magistratura);

- alla luce di quanto s’è detto emerge una vere e propria c.d. schizofrenia del legislatore penale,

che ha agito negli ultimi decenni in modo ambivalente: ha sì introdotto, infatti, talune discipline

finalizzate all’intervento diretto sulle condotte pericolose (cioè di c.d. prevenzione anticipata), ma

nel contempo ha progressivamente enfatizzato, in alcuni settori, il livello della pena applicabile nel

caso della produzione di un evento non voluto, come accade nelle ipotesi aggravate dell’omicidio

colposo e delle lesioni colpose o in quelle dell’omicidio stradale e delle lesioni stradali (v. infra): fino

a livelli di pena vicini a quelli propri dell’omicidio doloso;

- ciò premesso, ai fini della colpa occorre

Page 33: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

33

1. in primo luogo, che il soggetto cui venga addebitata l’illiceità della condotta sia un

soggetto competente a contrastare il prodursi dell’evento lesivo nei confronti della persona

offesa: un soggetto, dunque, che possa essere individuato come garante rispetto alla gestione del

rischio che si sia risolto a danno della specifica persona offesa (il datore di lavoro in un’impresa di

nettezza urbana, pur dovendo governare i fattori di rischio derivanti, per i lavoratori,

dall’espletamento delle loro mansioni, non può essere ritenuto competente rispetto al mal

funzionamento di un cancello presso uno dei tanti luoghi di raccolta dei rifiuti, ove ne sia derivato

un danno per il lavoratore; e sebbene, per esempio, fossero presenti in un cantiere fattori di

rischio che, in effetti, si sarebbero dovuti annullare o controllare, ma ciò non può comportare

la responsabilità del titolare di quel cantiere rispetto a danni che si siano prodotti verso chi,

poniamo, si sia introdotto nottetempo nel cantiere stesso, avendo forzato il cancello d’ingresso:

esempi, questi, tratti dalla giurisprudenza della Cassazione);

sempre ai fini della colpa, occorre altresì

2. che l’evento non voluto rilevante sul piano penale costituisca l’effetto, ex art. 43 c.p.,

- o della violazione di una regola finalizzata a evitarlo scritta («inosservanza di leggi,

regolamenti, ordini o discipline»): c.d. colpa specifica;

- oppure della violazione di una regola finalizzata a evitarlo non scritta (negligenza o

imprudenza o imperizia): c.d. colpa generica;

l’evento penalmente rilevante dovrà configurarsi, in tal modo, come effetto della creazione di un

rischio non consentito del suo prodursi, attraverso la violazione di una regola scritta o non scritta

finalizzata a evitarlo;

considerato che una condotta potrà dirsi rischiosa rispetto al prodursi di un evento ove risulti idonea,

secondo un giudizio ex ante, a determinarlo (salvo il problema – v. infra – dell’entità del rischio

rilevante);

su questa base, ai fini dell’imputazione soggettiva della colpa risulterà necessario:

2.1. che il rischio dovesse essere percepito e, in particolare, che l’evento dovesse essere preveduto

da parte del soggetto agente, al pari di come l’avrebbe dovuto prevedere (secondo un iter causale

analogo a quello che abbia cagionato l’evento) qualsiasi individuo il quale avesse intrapreso una

condotta come quella di cui si discuta, nelle medesime circostanze e nelle medesime condizioni

soggettive (a parte le inadeguatezze a lui rimproverabili) in cui si sia trovato il soggetto agente:

il primo elemento del rimprovero di colpa, dunque, è dato dal fatto che il soggetto agente avrebbe

dovuto prevedere il verificarsi dell’evento;

2.2. ciò peraltro non risulta sufficiente: occorrerà altresì, affinché quel rischio possa dirsi non

consentito, che il soggetto agente avrebbe dovuto evitare di tenere la condotta: posto che correre

certi livelli di rischio non di rado è permesso dall’ordinamento e, in certi casi, è doveroso (si pensi a

un’operazione chirurgica certamente rischiosa, ma necessaria per cercare di salvare il malato);

non basta dunque, ai fini della colpa, che il possibile verificarsi di un evento offensivo come esito

della tenuta di una data condotta si dovesse prevedere o che, addirittura, sia stato effettivamente

previsto: vi sono molti casi, infatti, nei quali un agire pur implicante rischi è consentito o addirittura

doveroso;

in altre parole, non è sufficiente, ai fini del rimprovero di colpa, la prevedibilità dell’evento,

proprio perché il rischio di cui si doveva essere consapevoli potrebbe risultare consentito: per cui

è necessario domandarsi, altresì, se la condotta dovesse o meno essere evitata;

Page 34: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

34

in questo senso, il rimprovero di colpa consiste nel non aver ottemperato ai criteri comportamentali

richiesti per una certa attività onde evitare che da essa derivino eventi lesivi, vale a dire nell’aver agito

sebbene un dato evento lesivo si dovesse prevedere come conseguenza possibile della condotta, in un

contesto nel quale la condotta avrebbe dovuto essere evitata (sempre che il soggetto – v. supra – fosse

competente rispetto alla gestione del rischio nei confronti della persona offesa);

il rimprovero di colpa, pertanto, ha contenuto prioritariamente normativo, e non psicologico (come

invece il dolo), consistendo in un giudizio: quello di non aver rispettato lo standard comportamentale

richiesto per una determinata attività (ma si vedano, infra, le considerazioni sulla c.d. doppia misura

della colpa);

2.3. ma come si può rispondere alla domanda se, da parte del soggetto agente, l’evento dovesse

essere preveduto e la condotta dovesse essere evitata?

2.3.1. la risposta è più semplice quando sussista, rispetto alla condotta della quale si discuta, una

regola di diligenza scritta, cioè positivizzata (colpa specifica, cui si riferisce l’art. 43 c.p. avendo

riguardo a leggi, regolamenti, ordini o discipline): regola la quale rende palese il rischio connesso

alla tenuta di una determinata condotta e segnala entro che limiti, o con quali modalità, quest’ultima

possa essere tenuta; in tal caso, infatti, si tratterà di confrontare la condotta posta in essere dal soggetto

agente con quella espressamente richiesta (senza che l’osservanza di quest’ultima esoneri, peraltro,

da eventuali doveri comportamentali ulteriori, suscettibili di rilievo in termini di colpa generica);

appaiono alquanto discutibili, tuttavia, norme cautelari così generiche – come per esempio l’art. 141,

co. 1, d.lgs. n. 285/1982 (cod. strad.) – da rendere praticamente impossibile al soggetto agente il poter

far conto sulla correttezza della propria condotta (si consideri la problematica interazione tra la norma

richiamata – secondo cui «è obbligo del conducente regolare la velocità del veicolo in modo che,

avuto riguardo alle caratteristiche, allo stato ed al carico del veicolo stesso, alle caratteristiche e

alle condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra circostanza di qualsiasi natura, sia evitato

ogni pericolo [!] per la sicurezza delle persone e delle cose ed ogni altra causa di disordine per la

circolazione» – e le altre norme del cod. strad. che indicano limiti precisi);

resta aperto, nondimeno, il problema della scarsa determinatezza che caratterizza le fonti della regola

scritta richiamate nell’art. 43 c.p.: il che prospetta una violazione sostanziale, circa la delimitazione

della responsabilità penale colposa anche specifica, del principio di riserva di legge;

2.3.2. l’accertamento è, invece, più problematico quando una regola di diligenza positivizzata non

sia disponibile (colpa generica, cui fa riferimento l’art. 43 c.p. avendo riguardo a negligenza,

imprudenza, imperizia), posto che in tale ipotesi il comportamento dovuto nella situazione concreta

dovrà inevitabilmente essere ricostruito a posteriori dal giudice;

2.3.2.1. a tal fine potrà dirsi, anzitutto, che l’evento doveva essere previsto quando fosse possibile

prevederlo (prevedibilità dell’evento); quando, dunque, fosse prevedibile: ma da parte di chi?

tradizionalmente, a tal proposito, di dice: da parte (dal punto di vista) dell’agente modello (l’ homo

eiusdem professionis vel condicionis), espressione che tuttavia va usata con cautela in quanto troppo

facilmente utilizzabile per riferire il giudizio a un soggetto ideale che sa sempre prevedere tutto e sa

sempre scongiurare qualsiasi evento offensivo; col pericolo che si operi una valutazione non riferita

al contesto situazionale concreto in cui abbia operato il soggetto agente e alle sue reali condizioni,

bensì alla luce di tutto quanto sia stato conosciuto a posteriori e di una regola comportamentale creata,

essa pure, a posteriori dal giudice;

appare dunque necessario precisare che quel giudizio andrà effettuato sulla base delle conoscenze

note e delle prassi comportamentali riconosciute come valide, all’epoca della condotta, nella

cerchia di coloro che svolgono l’attività o la professione della quale si discuta, avendo riguardo

Page 35: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

35

al contesto effettivo in cui abbia agito l’agente concreto e alle sue caratteristiche personali: escludendo

il rilievo dei soli fattori che siano a lui direttamente rimproverabili;

l’espressione agente modello può dunque essere utilizzata solo se intesa come riassuntiva dei requisiti

appena indicati;

non sarà sufficiente, per esempio, che si affermi la prevedibilità (o addirittura la previsione) dell’evento

conseguente a una data condotta in base al solo fatto che il soggetto agente rivesta una certa posizione

(per esempio quella di imprenditore), supponendo che abbia acquisito tutte le conoscenze, talvolta

innumerevoli, teoricamente riferibili a quella posizione: rispetto a conoscenze non ordinarie sitratterà

di domandarsi, piuttosto, se vi siano stati nel contesto concreto segnali idonei a indurre un

professionista serio del medesimo settore ad acquisire o approfondire certe conoscenze di carattere

particolare;

non potrà giungersi, peraltro, ad affermare che il giudizio sulla prevedibilità debba essere effettuato

dal punto di vista dell’agente concreto (che potrebbe non esser stato in grado di prevedere l’evento

proprio in ragione di un suo comportamento antidoveroso: si pensi a un medico che da anni non curi

il suo aggiornamento): ove così si affermasse, infatti, verrebbe meno il carattere stesso di giudizio

normativo proprio del rimprovero di colpa, cioè volto a riscontrare l’eventuale contrasto della condotta

con uno standard comportamentale socialmente richiesto;

nel senso descritto, si cerca dunque di avvicinare quanto più possibile il criterio di accertamento della

colpa generica a quello della colpa specifica (si rammenti ciò che s’è detto in rapporto alla

responsabilità medica), onde evitare accertamenti della colpa del tutto indeterminati;

2.3.2.2. si tratterà, poi, di rispondere al quesito circa il sussistere o meno del dovere di evitare la tenuta

della condotta (evitabilità della condotta), vale a dire circa il sussistere o meno, alla luce del contesto

concreto, del dovere di astenersi da una condotta pericolosa, nell’assenza di una regola scritta (come

si osservava supra, infatti, la circostanza per cui taluno agisca pur potendo prevedere o

prevedendo che la sua condotta possa talora cagionare un evento lesivo – cioè potendosi rendere

conto, o rendendosi conto, del carattere rischioso del suo agire – non implica ancora la colpa, perché

sussistono rischi consentiti e, anzi, rischi che è doveroso correre: altrimenti i chirurghi non

opererebbero mai…: ai fini della colpa, pertanto, ci si dovrà interrogare, per l’appunto, anche sulla

evitabilità della condotta);

deve osservarsi che tale giudizio – il quale andrà esso pure effettuato dal punto di vista di cui s’è detto

in rapporto al giudizio di prevedibilità – risulta meno problematico quando rischi e benefici

riguardino il medesimo individuo, potendosi operare in tal caso un bilanciamento fra gli stessi (si

pensi ai rischi e ai benefici prevedibili, per il medesimo paziente, di un difficile intervento chirurgico);

quel giudizio, invece, risulterà assai più problematico quando rischi e benefici riguardino individui

diversi: in quest’ultima ipotesi, infatti, si pone il problema se davvero il criterio della diligenza riferito

alla responsabilità colposa possa consistere nel criterio del c.d. rischio zero, cioè dalla esclusione ex

ante di qualsiasi rischio, benché minimo (il che solleva il problema generale del rischio minimo

significativo ai fini della responsabilità colposa);

a quest’ultimo proposito l’auspicio è che delle esigenze meramente precauzionali si occupi in via

diretta il legislatore, vietando espressamente quelle condotte che, sebbene a rischio statistico (una

tantum) molto basso, si ritenga non debbano essere comunque tenute (sulla base del c.d. principio di

precauzione), data la gravità degli effetti che ne potrebbero derivare; il che vale a maggior ragione

per quelle condotte la cui stessa pericolosità resti dubbia, in quanto non scientificamente provata pur

in presenza di elementi che la rendano plausibile;

2.4. non è tuttavia sufficiente, onde ascrivere la responsabilità per colpa, aver accertato secondo i

criteri summenzionati l’avvenuta violazione di una regola (scritta o non scritta) finalizzata a evitare

l’evento; bisognerà domandarsi, in effetti, non solo se il soggetto agente abbia disatteso lo

Page 36: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

36

standard comportamentale oggettivamente richiesto per una data attività, ma anche se quel

soggetto sia stato soggettivamente in grado di ottemperare a quello standard nel caso concreto

(salva l’irrilevanza scusante di cause addebitabili alla sua colpevolezza): si pensi al caso del medico

che sia costretto a rientrare in sala operatoria dopo un lunghissimo intervento chirurgico in stato di

grande stanchezza (stante l’urgenza e l’accidentale indisponibilità di altri medici in grado di affrontare

quel caso), con riguardo a un errore dovuto proprio a tale incolpevole condizione; oppure al caso in

cui le pregresse e ormai immodificabili condizioni culturali di un dato soggetto non gli abbiano

consentito di adeguarsi al comportamento dovuto; oppure al problema dei tassi di fallimento nella

percezione di segnali che avrebbero richiesto l’approfondimento di determinate conoscenze;

si tratta della problematica comunemente indicata come doppia misura (oggettiva e soggettiva) della

colpa, problematica negli ultimi anni giustamente valorizzata onde contrastare le tendenze, di cui s’è

detto, a operare presunzioni nell’accertamento della prevedibilità e dell’evitabilità dell’evento;

si noti, peraltro, che la corretta ricostruzione della colpa generica secondo quanto sopra s’è evidenziato

(riferendo, cioè, i giudizi di prevedibilità dell’evento e di evitabilità della condotta al contesto effettivo,

situazionale e personale, in cui abbia agito l’agente concreto – escluso soltanto il rilievo di fattori del

cui sussistere lo stesso soggetto agente risulti responsabile – potrebbe stemperare, almeno in certa

misura, la questione;

quest’ultima si configura particolarmente delicata, invece, con riguardo alla colpa specifica, posto che

in quest’ultimo caso la regola scritta risulta espressa non con riguardo alle peculiarità della situazione

concreta in cui si sia trovato ad agire un determinato soggetto, bensì in termini generali;

il tema della doppia misura della colpa esige che siano tracciati in modo non strumentale i confini della

c.d. colpa per assunzione, cioè della colpa dipendente dall’aver assunto un’attività o un compito

nonostante la consapevolezza del non possedere competenze adeguate a quelle richieste per il loro

svolgimento. È chiaro, infatti, che potrebbe risultare facile aggirare la problematica della doppia misura

della colpa presumendo nel soggetto agente la coscienza di tale inadeguatezza o non considerando

un’eventuale impossibilità dell’astensione;

3. ciò considerato, deve altresì rilevarsi che ai fini della responsabilità per colpa non è sufficiente che

risulti causale la condotta posta in essere fisicamente dal soggetto attivo, come richiesto dall’art. 40,

co. 1, ma altresì che risulti causale la violazione della regola finalizzata a evitare l’evento, come

richiesto dall’art. 43 c.p. a proposito del reato colposo: norma la quale richiede – è la c.d. causalità

della colpa – che l’evento si sia verificato «a causa di negligenza o imprudenza o imperizia ovvero

per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline», cioè che l’evento si sia verificato come

conseguenza causale della violazione di una regola – nel primo gruppo di casi non scritta, nel

secondo scritta (v. supra) – finalizzata a evitarlo;

pertanto si potrà dire (applicando la formula della condicio sine qua non) che la causalità di tale

violazione sussiste quando nel caso in cui la violazione non ci fosse stata – cioè nel caso in cui la

regola suddetta fosse stata rispettata – l’evento non si sarebbe verificato;

mentre non sussisterà la causalità della suddetta violazione, e quindi non sussisterà il reato, quando

anche nel caso in cui la violazione non ci fosse stata – cioè anche nel caso in cui la regola suddetta

fosse stata rispettata – l’evento si sarebbe verificato ugualmente: in altre parole quando l’evento non

sarebbe stato evitabile nemmeno tenendo il comportamento doveroso, cioè il comportamento

alternativo lecito; dunque, dovrà accertarsi, attraverso il giudizio controfattuale tipico della prova

relativa alla causalità, se l’evento si sarebbe o meno verificato ove fosse stato tenuto il comportamento

doveroso, cioè il comportamento alternativo lecito;

in altre parole, necessita che sia provata l’evitabilità dell’evento attraverso il rispetto della regola

Page 37: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

37

che il soggetto agente avrebbe dovuto rispettare (in questo caso, dunque, non viene in gioco

l’evitabilità della condotta, di cui supra 2.3.2.2., bensì l’evitabilità dell’evento);

la prova della causalità penalmente significativa richiederà sempre, in questo senso, un giudizio

controfattuale riferito al comportamento alternativo lecito (non è decisivo il fatto che guidare

un’automobile sia stato causa di una lesione, bensì il fatto che lo sia stato, per esempio, il superamento

del limite di velocità: e ciò lo si potrà affermare ove si provi che, nel caso in cui il limite fosse stato

rispettato, l’evento non si sarebbe prodotto, mentre non lo si potrà affermare nel caso in cui l’evento

si sarebbe prodotto ugualmente anche rispettando quel limite: ad esempio perché una persona si sia

immessa sulla carreggiata immediatamente prima del sopraggiungere di un’automobile, rendendo

vano l’effetto di qualsiasi frenata; del pari, la responsabilità colposa del medico che pure abbia agito

in modo antigiuridico dovrà essere esclusa ove l’evento dannoso per il paziente si sarebbe prodotto

anche se il medico avesse tenuto il comportamento corretto);

non basta, si noti, che sia risultata causale la violazione di una regola qualsiasi, ma necessita che sia

risultata causale la violazione proprio di una regola finalizzata a evitare l’evento: se Tizio

tenendo la sinistra nella guida di un veicolo fa schizzare un sassolino che acceca una persona, la sua

violazione è sì risultata causale, ma non costituisce la violazione di una regola finalizzata a evitare

quel tipo di eventi; se il medico violando il consenso, sebbene rispettando la lex artis (v. supra), ha

operato essendone derivato un danno per il malato ha del pari posto in essere una trasgressione che è

risultata causale, non costituente, tuttavia, la violazione di una regola finalizzata a evitare un danno

alla salute;

si consideri inoltre che, diversamente dai casi in cui una condotta può essere tenuta se si rispettano

certe regole, nei casi in cui una condotta non dev’essere essere mai tenuta (p. es. sparare a una

persona) il giudizio sulla causalità della condotta coincide con il giudizio sulla causalità della colpa:

chiedersi, infatti, che cosa sarebbe avvenuto se si fosse tenuto il comportamento alternativo lecito

coincide, in quel caso, con il chiedersi che cosa sarebbe avvenuto se non si fosse tenuta la condotta

stessa, in quanto sempre illecita;

va peraltro evidenziato un elemento contraddittorio nella ricostruzione della c.d. causalità della

colpa: mentre il giudizio controfattuale nel caso di prova della causalità relativa alla condotta deve

attestare oltre ogni ragionevole dubbio che in assenza della condotta (attiva od omissiva) l’evento

non si sarebbe realizzato, nel giudizio controfattuale relativo al comportamento alternativo lecito in

tema di reati commissivi colposi si è soliti ritenere sufficiente, per affermare la responsabilità per

colpa, il fatto che tenendo il comportamento alternativo lecito vi sarebbe stata una significativa

probabilità di non realizzazione dell’evento offensivo (un indirizzo dottrinale che può considerarsi

particolarmente sensibile ha richiesto il sussistere di una probabilità superiore, per lo meno, al 50%);

la razionalità di una simile diversità di valutazione, tuttavia, sfugge: tanto più ove si consideri che è

piuttosto facile descrivere un medesimo comportamento sia come omissivo, sia come commissivo

colposo per mancato rispetto di un certo adempimento (secondo la visione tradizionale, del resto,

finirebbe per essere più garantito nell’ipotesi della causazione di un danno, poniamo, il medico che

abbia omesso in radice di visitare il malato, contravvenendo ai suoi doveri, rispetto al medico che

abbia correttamente visitato il medesimo e, successivamente, abbia attivato la terapia necessaria, ma

compiendo un errore nel corso della sua esecuzione).

27.4

si rammenti che l’imputazione del reato per colpa solleva molte ulteriori problematiche particolari; fra

di esse, per esempio:

- il tema relativo alla differenziazione delle responsabilità nell’ambito di equipe o di

Page 38: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

38

collegi (consigli di amministrazione, collegi peritali, ecc.);

- il tema dell’affidamento che possa essere legittimamente riposto, senza ulteriore verifica,

nella correttezza di comportamenti altrui;

- il tema della c.d. colpa di organizzazione, cioè della rilevanza ai fini del prodursi di un

evento offensivo non voluto di carenze organizzative o strutturali a molte del comportamento

posto in esse dal soggetto che abbia tenuto la condotta immediatamente lesiva (si pensi

all’inadeguatezza di una diagnosi medica per la obsolescenza dei macchinari disponibili);

- il tema della delega di funzioni, da parte del soggetto titolare di obblighi nell’ambito di

una organizzazione complessa;

- veniamo ora al problema, già evidenziato, costituito dalla introduzione, senza una base

normativa, delle figure del dolo diretto e del dolo eventuale, riferite a particolari situazioni in cui

l’evento, anche se preveduto, non è voluto, al pari di quanto accade nella colpa cosciente;

1. meno problematica risulta la figura del dolo diretto, essendo essa chiaramente caratterizzata da

uno stato psicologico diverso dal dolo intenzionale, ma anche dalla colpa cosciente; il dolo

diretto si caratterizza, infatti, per la certezza oggettiva oltre ogni ragionevole dubbio e per la

cognizione soggettiva nei medesimi termini del realizzarsi dell’evento non voluto (il criterio è quello

della certezza oltre ogni ragionevole dubbio, non quello dell’alta probabilità!);

nel dolo diretto, dunque, il soggetto agente non è semplicemente consapevole di esporre taluno, con

la sua condotta, a un certo rischio (come nella colpa cosciente), ma è pienamente disposto, per

raggiungere lo scopo della sua condotta, a pagare il prezzo costituito dal verificarsi (certo) dell’evento

lesivo in sé non voluto;

2. le cose stanno in modo assai diverso per il dolo eventuale, che vorrebbe individuare un

elemento aggiuntivo rispetto alla rappresentazione in termini di possibilità (e non di certezza) di un

evento non voluto propria della colpa cosciente, in modo da far sì che una condotta avente le

caratteristiche di quest’ultima sia punita non a titolo di colpa, ma a titolo di dolo: elemento

aggiuntivo la cui individuazione si è rivelata oltremodo incerta;

l’estensione del dolo alla figura eventuale è stata inizialmente riferita ad eventi (per lo più di sangue)

derivanti da condotte di base illecite (del tipo, rapinatore che per darsi alla fuga spara all’impazzata,

o “punta” ad alta velocità una pattuglia di polizia, provocando la lesione o la morte della vittima quale

fatto per sé non voluto ed ex ante incerto;

successivamente si è avuta un’estensione del ricorso a tale categoria nell’ambito penale economico, in

quanto talora la giurisprudenza non voleva limitare la punibilità di delitti economici al solo caso in cui

risultasse provato il dolo intenzionale o diretto (si rammenti, infatti, che ai sensi dell’art. 42, co. 2 e

4, c.p. i delitti sono puniti, di regola, solo per dolo, a meno che sia espressamente prevista la loro

punibilità anche per colpa (come accade per omicidio e lesioni), mentre le contravvenzioni sono

sempre punite sia per dolo che per colpa);

come già si osservava, in anni recenti il dolo eventuale è stato utilizzato, tuttavia, anche in rapporto a

omicidio e lesioni, con conseguenze sanzionatorie molto pesanti: tendenza, questa, ora contrastata dalla

cit. sentenza della Cassazione a sezioni unite sul caso ThyssenKrupp (v. infra);

si consideri, peraltro, che il dolo eventuale non rappresenta una forma diminuita del dolo, ma

individua i requisiti sufficienti per punire a titolo di dolo: così che la definizione del dolo eventuale,

nella misura in cui tale figura viva in giurisprudenza e dottrina, viene a costituire la vera definizione

del dolo, in quanto indica gli elementi bastanti perché un delitto sia punibile per dolo;

- il darsi, anche nel dolo eventuale come nella colpa (e di per sé anche nel dolo diretto), di una

condotta che non è stata prescelta al fine di cagionare l’evento offensivo penalmente rilevante; solo

nel caso di dolo intenzionale, infatti, la condotta è prescelta al fine di cagionare l’evento e, pertanto,

Page 39: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

39

fra quelle che possano avere un’idoneità elevata a conseguire tale scopo (caratterizzandosi dunque per

altro livello di pericolosità): laddove invece nel contesto della colpa (soprattutto) cosciente, ma anche

in quello del dolo eventuale, la condotta che cagiona l’evento non voluto manifesta, di regola, una

modesta idoneità ex ante a cagionarlo, non essendo stata prescelta per quel fine (potrebbe darsi più

facilmente una condotta caratterizzata da un alto livello di pericolosità nella colpa incosciente, posto

che il soggetto che agisce, in tal caso, non è di regola consapevole del rischio che sta producendo);

sono dunque rari i casi ricompresi nel dolo eventuale in cui davvero sussista un’alta probabilità di

causazione dell’evento (sebbene sovente si ravvisi – v. infra – in tale alta probabilità una caratteristica

di tale categoria);

- l’inadeguatezza delle teorie tradizionali della rappresentazione e del consenso a delimitare la

categoria del dolo eventuale:

la teoria della rappresentazione ha riguardo all’entità probabilistica del rischio di causazione

dell’evento ovvero, di fatto, al giudizio sul tipo di rischio attivato (in termini di riprovevolezza sociale,

ecc.); essa dà luogo a una normativizzazione della responsabilità dolosa o, in altre prole, alla perdita

di qualsiasi differenza qualitativa tra dolo e colpa (la differenza fra dolo e colpa finirebbe per

diventare meramente quantitativa, cioè fondata solo sulla diversa gravità del rischio, e la definizione

del dolo eventuale finirebbe per costituire la vera definizione del dolo: tutto ciò dimentica che il dolo

costituisce uno stato psicologico, mentre la colpa ha natura prioritariamente normativa, in quanto

giudizio di inottemperanza rispetto al comportamento dovuto); le caratteristiche oggettive del rischio

non hanno a che fare con i profili attinenti alla prova dell’elemento soggettivo e, pertanto, della

colpevolezza: un rischio grave, infatti, può essere attivato sia con dolo, sia con colpa;

la teoria del consenso ha riguardo a un elemento di approvazione interiore della possibilità che si

determini l’evento offensivo, elemento che si vorrebbe costituire una sorta di analogo della volizione;

la nozione di consenso, tuttavia, risulta inadeguata a individuare uno stato psicologico effettivo che

differenzi il dolo eventuale dalla colpa cosciente, lasciando in tal modo aperta – come evidenzia la

formula classica, a lungo dominante in giurisprudenza, dell’accettazione del rischio – la più ampia

discrezionalità in sede giurisprudenziale (di per sé, tutti coloro che agiscono in colpa cosciente,

accettano di produrre un rischio): così che, pur quanto si dichiari di optare per la teoria del consenso,

onde evitare la critica di appiattire il dolo sull’elemento rappresentativo, si finisce facilmente per

adoperare nel giudizio in concreto valutazioni pur sempre riferite al giudizio sul tipo di rischio

cagionato, cioè riferite, in realtà, alla teoria della rappresentazione;

- considerato quanto sin qui detto in rapporto all’accertamento dell’elemento rappresentativo

(la previsione dell’evento) e circa i criteri tradizionali di ricostruzione del dolo eventuale, deve

constatarsi come si sia determinato in giurisprudenza, finora, un troppo facile passaggio,

attraverso criteri presuntivi od oltremodo discrezionali, dalla constatazione della colpa

incosciente, all’attribuzione della colpa cosciente e, di qui, all’attribuzione del dolo eventuale

(specie ove si ricorra, per quest’ultima categoria, alla nozione tradizionale di accettazione del

rischio);

ciò, per quanto riguarda il primo passaggio, in conseguenza della maggior propensione a logiche

presuntive dell’accertamento concernente l’elemento rappresentativo rispetto a quello

concernente l’elemento volitivo: circa la prova dell’elemento rappresentativo, infatti, appare

inevitabile – ferma in ogni caso la necessità di tener conto di tutti i dati del caso concreto – un certo

grado di generalizzazione (del tipo: presenti certe caratteristiche del caso concreto, solitamente una

persona con le caratteristiche del soggetto agente si rappresenta la possibilità che tendendo una certa

condotta ne derivi un dato evento offensivo): infatti, non potendosi cogliere direttamente quanto un

determinato individuo si sia rappresentato nella propria mente; è facile, su questa via, scivolare verso

vere e proprie presunzioni, espresse attraverso formule di stile (“non poteva non sapere”) o desumendo

Page 40: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

40

automaticamente la rappresentazione dell’evento dalla presenza di elementi sintomatici (i c.d.

“segnali” o “campanelli d’allarme”); se dunque è problematico l’accertamento della prevedibilità (v.

supra), lo è anche l’accertamento della previsione (o rappresentazione);

circa il secondo passaggio (che implica transitare dall’imputazione colposa a quella dolosa), in

conseguenza dell’incertezza, relativa al confine tra colpa cosciente e dolo eventuale, che s’è dimostrata

aperta a valutazioni giudiziarie oltremodo discrezionali;

- per opporsi a simili tendenze – rimanendo fermo il fatto che la figura del dolo eventuale non ha

un riscontro di diritto positivo, in palese contrasto col principio costituzionale di legalità, ma preso

atto che tale figura nondimeno sussiste nella prassi giudiziaria penale – deve constatarsi che l’unico

stato psicologico davvero diverso dalla volizione dell’evento (dolo intenzionale) e dalla mera

previsione del suo possibile realizzarsi (colpa cosciente) è quello in cui il soggetto agente è

disposto, per realizzare i suoi fini, non soltanto a produrre un rischio di causazione dell’evento

offensivo, ma a produrre l’evento stesso; ciò si realizza senza dubbio, come già s’è detto, nel caso

del dolo c.d. diretto (in cui il soggetto non agisce al fine di cagionare l’evento offensivo, ma

quest’ultimo risulta, oltre ogni ragionevole dubbio, conseguenza certa della sua condotta e come tale

viene rappresentato dal soggetto che agisce); il medesimo stato psicologico può tuttavia

riscontrarsi anche quando sussistono le condizioni della (prima) formula di Frank (giurista

tedesco attivo tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento): il soggetto agente era consapevole

della pericolosità della sua condotta, non era certo del verificarsi dell’evento (altrimenti si

tratterebbe di dolo diretto), ma vi sono gli elementi per ritenere oltre ogni ragionevole dubbio

che avrebbe continuato ad agire anche nel caso in cui fosse stato certo di produrre l’evento

offensivo (o, meglio, non vi è alcun elemento il quale possa deporre nel senso che dinnanzi al

verificarsi certo dell’evento il soggetto agente avrebbe rinunciato a tenere la sua condotta);

se, dunque, la categoria del dolo eventuale viene di fatto utilizzata, l’unica definizione che consente

di circoscriverne i confini, limitandone l’ambito applicativo, è quella rappresentata dalla formula di

Frank; formula che si fonda su un giudizio ipotetico controfattuale (come avviene in merito alla

causalità), ma è intesa a cogliere una condizione psicologica reale;

la formula di Frank, già fatta valere in dottrina, è stata utilizzata da Cass. sez. unite 26-11-2009, n.

12433, in tema di dolo eventuale e ricettazione (v. infra), nonché da altre sentenze successive della

Cassazione; in senso ampiamente conforme alla medesima impostazione muove, con ampio apparato

argomentativo, Cassazione sez. unite 24 aprile 2014 (ThyssenKrupp), cit.: come già si diceva, tale

sentenza si oppone molto fermamente ai processi di normativizzazione del dolo, e, in tal senso, alle

impostazioni fondate sulle teorie della rappresentazione e su formule indeterminate come quelle

proprie delle teorie del consenso, ribadendo che il dolo si fonda sul «momento volitivo»; in tale quadro,

essa riconosce il ruolo fondamentale della formula di Frank: cade tuttavia in un equivoco quando

afferma che tale formula non può costituire l’unico indicatore del dolo eventuale, e ciò poiché non

sempre il giudizio controfattuale da essa espresso offrirebbe risultati evidenti, così che ad essa

dovrebbero affiancarsi altri indizi (di cui fornisce esemplificazioni al n. 51); l’equivoco sta nel fatto

che qualsiasi definizione di concetti non suscettibili di immediata accertabilità empirica necessita di

criteri finalizzati a valutare se nel caso concreto sussistano i requisiti richiesti dalla definizione stessa

(come s’è visto anche per la formula della condicio sine qua non in quanto definizione della causalità,

definizione la quale necessita, perché possa dirsi che ne sussistano i presupposti nel caso concreto, del

ricorso al criterio del riferimento a leggi scientifiche): per cui gli indizi ulteriori di cui parla la sentenza

delle Sezioni Unite non costituiscono affatto indicatori del dolo eventuale che si affiancano alla

formula di Frank, ma criteri cui è necessario fare riferimento per verificare se si realizzino i presupposti

di tale formula in quanto unica possibile definizione del dolo eventuale: cioè per verificare se sussistano

elementi i quali consentano di concludere in modo univoco (oltre ogni ragionevole dubbio, vale adire

senza l’emergere di alcun fattore il quale deponga in senso contrario) che il soggetto avrebbe agito

anche nella certezza di realizzare l’evento non voluto.

Page 41: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

41

- deve evidenziarsi, peraltro, la non configurabilità del dolo eventuale nei reati omissivi

impropri quanto l’omissione non abbia avuto un fine dal quale sia derivato il rischio che il

soggetto abbia omesso di contrastare (quando, cioè, il rischio sia insorto indipendentemente dalla

condotta omissiva dell’imputato: esempio del vigile del fuoco che non sia intervenuto in una stanza in

fiamme nonostante dovesse o dei genitori che per motivazioni religiose non si siano attivati per la

trasfusione di sangue necessaria alla sopravvivenza della figlia minorenne); deve, infatti, essere

ritenuto requisito minimo del dolo eventuale – anche nel caso in cui, per ipotesi, sussistano i requisiti

di cui alla formula di Frank – il fatto che il rischio per la persona offesa sia insorto quale costo di

un fine perseguito con la sua condotta dal soggetto agente;

3.5

- si consideri inoltre – circa gli elementi del fatto tipico i quali, nei reati dolosi, devono costituire,

per l’appunto, oggetto del dolo – che l’elemento intenzionale di una data fattispecie

criminosa riguarda soltanto (oltre alla volontà di tenere la condotta, ai sensi dell’art. 42, co. 1,

c.p.) l’evento inteso in senso naturalistico (ai sensi dell’art. 43 c.p.) e, quando richiesto, il fine

oggetto del dolo specifico (solo l’evento e tale fine costituiscono, infatti, gli scopi perseguiti

attraverso la condotta):

gli altri elementi della fattispecie (per esempio un’eventuale qualifica soggettiva) e la stessa offesa

del bene tutelato (in termini di danno, o in termini di pericolo) devono costituire invece – anche

quando sussista, nei termini predetti, il dolo intenzionale e affinché si possa parlare di dolo

intenzionale – oggetto di una rappresentazione certa e dunque, potremmo dire, di una

rappresentazione in termini di dolo diretto;

si rammenti che l’offesa del bene tutelato – evento in senso giuridico – deve essere presente anche

nei reati di pura condotta, nei quali il dolo viene tendenzialmente a coincidere con la volontà di tenere

la condotta, ferma restando, peraltro, la necessità che sussista la consapevolezza di offendere, in tal

modo, quel bene;

- il dolo risulta escluso, ovviamente, nel caso di errore di fatto, vale a dire nel caso in cui il reato

è commesso a seguito dell’erronea percezione o valutazione di un dato della realtà rilevante ai fini

del reato medesimo (mi impossesso di una cosa altrui, credendola mia; durante alla caccia, sparo

verso un cespuglio che vedo muoversi credendo di colpire della selvaggina, mentre dietro il

cespuglio c’era una persona);

la disciplina dell’errore di fatto (art. 47, co. 1, c.p.): tale errore scusaquando non sia dovuto a colpa

(per negligenza, ecc.), nel qual caso si risponde a titolo di colpa purché il delitto colposo sia previsto

dalla legge;

ove l’errore sia scusato, residua la responsabilità (co. 2) per un eventuale reato diverso (se p. es. non

sono punito per peculato, in seguito a un errore sulla mia qualifica di pubblico ufficiale, ma sussistono

i requisiti di una appropriazione indebita, ne rispondo);

si noti che sia l’errore di diritto, sia l’errore di fatto, investono elementi della fattispecie integratrice,

per cui sono entrambi errori sul fatto;

- la disciplina (analoga a quella concernente l’errore di fatto) in tema di erronea

supposizione dell’esistenza di una causa (nel codice circostanza) di esclusione della pena (v.

infra), ex art. 59, co. 4, c.p. (si rammenti il caso Re Cecconi);

la disciplina (implicante essa pure una responsabilità analoga) del c.d. eccesso colposo di cui all’art.

55 c.p., relativo ad alcune cause di giustificazione: la distinzione tra eccesso effettivamente colposo

(p.es., la persona in legittima difesa credeva, per un errore di valutazione del contesto, di reagire in

modo proporzionato) ed eccesso doloso (quella medesima persona era pienamente consapevole di

reagire in modo sproporzionato);

Page 42: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

42

queste normative, che riprendono la disciplina dell’errore di fatto, configurano insieme a quest’ultima,

ipotesi di c.d. colpa impropria;

- l’art. 5 c.p., relativo all’errore di diritto su norma penale, cioè all’errore circa il sussistere, o

circa l’interpretazione, di una fattispecie penale (e dunque di un divieto penalmente signbificativo):

norma la quale prevedeva l’irrilevanza in ogni caso, secondo il brocardo ignorantia legis non

excusat, dell’errore di diritto, anche ove l’errore non fosse dovuto a colpa e risultasse, pertanto,

inevitabile; la Corte costituzionale, tuttavia, ha sancito con la sentenza n. 364/1988

l’incostituzionalitàdell’art. 5 c.p., nella parte in cui precedentemente non escludeva la

punibilità ove l’errore risultasse inevitabile (cioè non colposo) e ciò per contrasto con il

principio di colpevolezza: riconosciuto proprio in tale sentenza come desumibile dall’art. 27, co.

1, Cost.;

la sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale (seguita dalla sentenza n. 1085/1988), infatti, ha

riconosciuto per la prima volta l’operatività nell’ordinamento penale italiano del principio di

colpevolezza ricavandolo dall’art. 27, co. 1, della Costituzione (secondo cui «la responsabilità

penale è personale»):

con tale sentenza, infatti, la Corte costituzionale ha stabilito che la responsabilità personale (cioè

tipica degli esseri umani) è solo la responsabilità colpevole, vale a dire quella che presuppone la

dominabilità del fatto (v. supra) da parte del soggetto agente, ovvero la sua rimproverabilità (mentre

la responsabilità che attribuiamo ai fattori fisico-naturalistici, o anche agli animali, viene a coincidere

con la mera efficacia causale del loro operare);

circa le conseguenze del riconoscimento, nel nostro ordinamento penale, del principio di colpevolezza

torneremo tra poco;

- si consideri la diversa rilevanza dell’errore colposo di diritto (che secondo

l’impostazione dominante lascia sussistere la responsabilità a titolo di dolo) e dell’errore colposo

di fatto (punibile ex art. 47, co. 1, c.p. solo a titolo di colpa):

il permanente profilo di contraddittorietà di questo assetto normativo in rapporto al principio di

colpevolezza, il quale dovrebbe esigere, come diremo, non soltanto che per punire sia

necessaria, almeno, la colpa, ma anche che non si risponda per dolo quando sussista nel

soggetto agente la sola colpa (come avviene nel caso dell’art. 5, ma anche nelle ipotesi, pur

reinterpretate come si dirà poco oltre, di cui agli artt. 116 e 117 c.p.);

piuttosto che concludere nel senso, pur sempre, della responsabilità per dolo nei casi di errore di

diritto colposi (che non è affatto detto siano in ogni caso strutturalmente più gravi degli errori di fatto

colposi), sarebbe preferibile prevedere un’inversione dell’onere della prova, addebitando alla difesa

la dimostrazione della circostanza che un errore colposo sulla norma penale vi sia effettivamente

stato, così che in tal caso si risponda solo per colpa, al pari di quanto previsto per l’errore di fatto,

purché il delitto colposo sia previsto dalla legge;

- l’errore di diritto su norma extrapenale (art. 47, ult. co., c.p.) cioè su una norma non

penale richiamata dalla fattispecie incriminatrice o su un concetto che trova la sua definizione al di

fuori del codice penale: dinnanzi al disposto dell’art. 47, ult. co., c.p., per cui simile errore

risulterebbe sempre scusabile (perfino senza specificazioni con riguardo all’errore colposo), la

giurisprudenza ha introdotto la distinzione fra norme extrapenali integratrici o non integratrici

della fattispecie penale, ritenendo di poter estende all’errore su una norma ritenuta integratrice la

disciplina di cui all’art. 5

c.p. e, di fatto, giudicando sempre le norme extrapenali come integratrici (secondo una vera e propria

abrogazione di fatto della norma in esame);

da dottrina, di conseguenza, ha cercato in vario modo di rendere non soltanto fittizio il distinguo, per

Page 43: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

43

esempio sostenendo che siano da considerarsi su norma integratrice gli errori che cadano su un

concetto il quale entri effettivamente a far parte della fattispecie penale (p. es. quello di proprietà),

mentre su norma non integratrice gli errori che investano i criteri applicativi di quel concetto (p. es. i

modi di acquisto della proprietà);

- tornando all’avvenuto riconoscimento nel nostro ordinamento del principio di colpevolezza,

si consideri come da ciò derivi che tutti i requisiti necessari perché si configuri un reato o perché

un reato sia punito più severamente devono costituire oggetto, quantomeno, della forma meno

grave dell’imputazione soggettiva, che è quella colposa:

vale a dire, ne deriva l’incostituzionalità della responsabilità senza colpevolezza e, in particolare,

della responsabilità oggettiva:

già s’è detto, infatti, che il codice Rocco prevedeva ipotesi di responsabilità senza colpevolezza e, in

particolare, di responsabilità oggettiva, cioè fondata sul mero nesso di causalità tra condotta ed

evento, senza dolo né colpa: come si evince dall’art. 42, co. 3, c.p.;

ipotesi, queste, riconducibili per lo più alla logica del c.d. versari in re illicita, secondo la quale ove

si sia voluta, anche a titolo di concorso, la commissione di un reato pur modesto, ogni ulteriore

conseguenza non voluta di quel fatto viene posta a carico del soggetto agente sulla base del solo

rapporto causale con la condotta che il medesimo abbia tenuto; le ipotesi di responsabilità oggettiva, dunque, dovranno essere re-interpretate, oggi, richiedendo almeno la colpa (generica) del soggetto agente rispetto alla verificazione dell’evento non voluto, cioè la sua prevedibilità (dato che il dovere di evitare la tenuta della condotta, trattandosi di una condotta di base penalmente illecita, deve ritenersi scontato);

si è resa necessaria, pertanto, una rilettura in base al principio di colpevolezza delle ipotesi di

responsabilità oggettiva presenti nel codice Rocco, rilettura che esige, quantomeno, il sussistere della

colpa in rapporto al prodursi dell’evento non voluto, e dunque, come s’è detto, la sua prevedibilità;

restano, peraltro, tutte le problematicità correlate a quest’ultimo concetto (v. supra): in particolare,

ove essa fosse interpretata con prevedibilità in astratto o riferita a livelli statistici minimi si avrebbe

una vera e propria frode delle etichette, con il perdurare di fatto della responsabilità oggettiva;

peraltro, come già si accennava, il riconoscimento del principio di colpevolezza dovrebbe esigere un

passo ulteriore, non ancora acquisito: non soltanto, cioè, che non si possa rispondere di un reato doloso

sulla base della mera responsabilità oggettiva, ma anche che non si possa rispondere di un reato

doloso sulla base di una mera responsabilità colposa;

passiamo dunque a considerare alcune ipotesi di responsabilità oggettiva presenti nella parte generale

del codice Rocco e che, dunque, hanno necessitano di una rivisitazione onde evitare il contrasto con

il principio di colpevolezza:

- la preterintenzione ex artt. 43 c.p., della quale l’unica fattispecie codicistica è costituita

dall’omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.);

la formale configurazione della preterintenzione, all’art. 43 c.p., come terza tipologia dell’elemento

soggettivo, pur essendo stata tradizionalmente intesa, nel passato, come fattispecie implicante una

responsabilità oggettiva rispetto al prodursi dell’evento non voluto, date le condotte dolose di base;

nell’omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.), premesso infatti il dolo di realizzare i delitti di

percosse o lesioni, si attribuiva la responsabilità per l’eventuale prodursi della morte sulla base del

mero nesso di causalità tra quest’ultima e le condotte dirette a produrre percosse o lesioni,

l’esigenza, conseguente, che per evitare il contrasto col principio di colpevolezza sia constatabile,

quantomeno, la colpa rispetto all’evento non voluto, vale a dire la sua «prevedibilità» (posto che

l’ulteriore elemento costituito dalla «evitabilità» della condotta base è difficilmente discutibile,

trattandosi di una condotta che produce un delitto base doloso); ciò vale anche con riguardo all’evento

Page 44: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

44

rilevante nell’ambito dei delitti aggravati dall’evento, dei quali si dirà più specificamente infra;

vanno peraltro richiamati, come anche poco sopra già si accennava, i problemi riferibili al concetto

di prevedibilità, anche per quanto concerne il livello della prevedibilità rilevante: vi è il pericolo,

infatti, di vere e proprie presunzioni della medesima, che ricondurrebbero, di fatto, alla responsabilità

oggettiva: p. es., ove si giunga ad affermare che tutte le volte in cui si attinga il corpo di un’altra

persona sarebbe sempre prevedibile una possibile lesione; oppure che «la disposizione di cui all’art.

43 assorbe la prevedibilità di (un) evento più grave nell’intenzione di risultato» (così una sentenza

della Cassazione nel 2006); ed è anche per questo che di recente autorevole dottrina ha richiesto ai

fini di un rispetto non soltanto formale del principio di colpevolezza con riguardo all’art. 584 c.p. che

sussista non la mera prevedibilità, bensì la previsione dell’evento morte;

- la disciplina concernente il concorso di persone di cui all’art. 116 c.p. (reato diverso da

quello voluto da taluno dei concorrenti), ai sensi della quale ove Tizio e Caio concorrano

volontariamente in un reato (p. es. un furto in abitazione), ma poi Tizio compia volontariamente

un reato più grave non voluto da Caio (p. es. un omicidio all’interno di quella abitazione) anche

Caio ne risponde sulla base della mera responsabilità oggettiva, cioè per il solo fatto che abbia

dato un contributo causale (comunque necessario) al prodursi dell’evento più grave (essendo

prevista soltanto, in quel caso, un’attenuante obbligatoria);

anche in questo caso, pertanto, sarà oggi necessario richiedere la prevedibilità (o, meglio ancora, la

previsione: v. infra, sub art. 117 c.p.), cioè che il soggetto (Caio) il quale non voleva l’evento più

grave lo potesse almeno prevedere (o lo abbia preveduto); sebbene pur operando questo passo in

avanti rispetto alla mera responsabilità oggettiva, resti il fatto che si fa rispondere di un reato doloso

(quello voluto da Tizio) un soggetto (Caio) che rispetto ad esso si trova al massimo in colpa: il che,

come si accennava supra, appare contraddittorio rispetto a un recepimento non riduttivo del principio

di colpevolezza;

- la disciplina concernente essa pure il concorso di persone di cui all’art. 117 c.p. (mutamento

del titolo del reato per taluno dei concorrenti), per cui, secondo la sua lettura tradizionale

(v. in contrario infra), ove un soggetto sappia di commettere un reato in concorso con un altro

soggetto (p. es. un’appropriazione indebita), ma poi in funzione della qualifica a lui non nota (p.

es. di pubblico ufficiale) dell’altro soggetto quel reato si configuri in realtà più grave (divenendo, nel

nostro esempio, un peculato), anche il primo soggetto ne risponde sulla base di una mera

responsabilità meramente oggettiva (salva un’attenuante facoltativa);

pure in questo caso va oggi richiesta, pertanto, almeno la prevedibilità del mutamento della qualifica

dell’altro concorrente: col riproporsi degli interogativi già evidenziati con riguardo all’art. 116; alcuni

Autori, tuttavia, sono giunti opportunamente a ritenere, data la rigorosità così palesemente

eccessiva di questa disciplina, che il soggetto non qualificato risponda secondo le regole generali,

vale a dire solo se sia effettivamente a conoscenza della qualifica dell’altro soggetto; del pari, s’è

richiesto per l’applicabilità dell’art. 117 c.p. che debba essere comunque il soggetto qualificato, e non

l’altro concorrente, a realizzare la condotta tipica (nel caso in cui la condotta tipica, e non un mero

apporto accessorio, fosse invece realizzata dal soggetto non qualificato si applicherebbero le regole

generali);

4.5

(segue) - l’adeguamento al principio di colpevolezza, realizzato nel 1990 con una espressa modifica

legislativa, del regime di rilevanza soggettiva delle circostanze aggravanti (art. 59, co. 2, c.p.), le

quali, in precedenza, rilevavano oggettivamente, mentre ora devono risultare conoscibili (rilevano

solo se conosciute o ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa);

- la permanente rilevanza oggettiva (perché in bonam partem) delle circostanze attenuanti e

delle cause (o circostanze) di esclusione della punibilità: art. 59, co. 1, c.p.);

Page 45: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

45

- la discutibile irrilevanza delle circostanze non solo aggravanti, ma anche attenuanti,

ritenute per errore esistenti (putative): mentre, come già s’è detto, le cause (circostanze)

putative (cioè erroneamente supposte) di esclusione della pena rilevano ai sensi dell’art. 59, co. 4.,

c.p.).

- le condizioni oggettive di punibilità relative al caso per cui ai fini della punibilità del reato la

legge richiede il verificarsi di una condizione il cui verificarsi rileva anche se non voluto (art. 44

c.p.): possono tuttavia ritenersi non coperte dal principio di colpevolezza, e pertanto

rilevare oggettivamente (invero la norma, tuttavia, esclude solo il rilievo del dolo) solo se estrinseche

al reato, cioè tali che dal loro sussistere o meno non dipenda la lesione del bene giuridico protetto dal

reato cui si riferiscono (in quanto rispondenti a mere valutazioni politico-criminali del

legislatore circa l’opportunità di punire); ed è questo, per l’appunto, il criterio cui si deve ricorrere

per stabilire se un determinato fattore menzionato dalla norma incriminatrice come necessario per

punire debba essere ritenuto condizione di punibilità o elemento del reato (coperto dal dolo);

condizioni che, dunque, debbano considerarsi intrinseche al reato (tali, cioè, che dal loro sussistere o

meno dipenda la lesione del bene giuridico protetto) costituiscono a tutti gli effetti elementi della

fattispecie di reato e necessitano, pertanto, di essere coperti dal dolo o dalla colpa, in conformità al

principio di colpevolezza;

esemplificazione con riguardo al ruolo del pubblico scandalo rispetto al delitto di incesto (art. 564

c.p.) e al ruolo della dichiarazione di fallimento con riguardo ai delitti di bancarotta (artt. 216 e 217

l.fall.);

- l’imputabilità (artt. 85-98 c.p.): problemi relativi alla definizione e all’accertamento;

l’inadeguatezza di un’interpretazione letterale, che si rivelerebbe oltremodo restrittiva, della formula

di cui all’art. 85 costituita dall’incapacità d’intendere e di volere; il necessario riferimento al pur

problematico concetto di una capacità normale;

in particolare, l’esclusione dell’imputabilità per vizio totale di mente ed età inferiore a quattordici

anni (artt. 88 e 97 c.p.) o inferiore al 18 anni per immaturità (art. 98 c.p.); il carattere non esaustivo

del riferimento esplicito a tali condizioni e l’apertura alla rilevanza di forme psicotiche gravi;

la problematicità dell’accertamento del vizio di mente;

la non punibilità del soggetto inimputabile autore di reato (per mancanza di colpevolezza), ma

l’applicabilità nei suoi confronti, ove giudicato socialmente pericoloso, di una misura di sicurezza:

v. supra; l’irrilevanza ai fini della non imputabilità del vizio parziale di mente, che comporta, invece, una

diminuzione di pena (art. 89 c.p.);

10.5

le presunzioni (o finzioni) di imputabilità, concernenti l’ubriachezza e l’assunzione di stupefacenti

(artt. 91-95 c.p.) e il loro contrasto con il principio di colpevolezza (eluso dall’impostazione superata

che considerava l’imputabilità indipendente dalla colpevolezza);

in particolare, l’irrilevanza circa il giudizio sull’imputabilità dell’aver agito in stato di ubriachezza

(o assunzione di stupefacenti) volontaria o colposa (art. 92 c.p.), oppure abituale (art. 94 c.p.),

addirittura con pena aumentata in quest’ultimo caso; fatta salva l’esclusione totale o parziale dell’imputabilità ove venga riconosciuta la cronica intossicazione (art. 95 c.p.) e, totale, nelle ipotesi ben rare di caso fortuito o forza maggiore (art. 91 c.p.);

le difficoltà frapposte al superamento delle presunzioni di imputabilità con riguardo, in particolare, ai

reati colposi e dunque, per esempio, al fenomeno degli incidenti stradali del sabato sera (con cenni

Page 46: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

46

sul rapporto con i reati di omicidio/lesioni colposi e omicidio stradale); l’esigenza, anche in questi

casi, di intervenire piuttosto con provvedimenti adeguati in senso preventivo nel momento in cui si

assumano lucidamente alcool o stupefacenti sapendo che, successivamente, ci si metterà alla guida;

gli artt. 87 e 92, co. 2, circa lo stato preordinato di incapacità di intendere e di volere (actio libera

in causa), i quali, di per sé, non si pongono in contrasto con il principio di colpevolezza, poiché

assumono che il soggetto abbia deciso lucidamente di commettere il reato doloso prima di assumere

alcol o stupefacenti (ma si sarebbe meglio gestita la problematica sulla base dei principi generali,

evitando una disposizione che potrebbe favorire presunzioni circa l’intento doloso);

la norma che dichiara irrilevanti ai fini dell’imputabilità gli stati emotivi o passionali (art. 90 c.p.):

assunto peraltro che una componente emotiva e appetitiva esiste in tutte le condotte umane, si può

giungere a non escludere il rilievo dei suddetti stati quando assumano carattere patologico (con ciò

ritornando alla regola generale in tema di imputabilità);

- il rilievo onde poter escludere la colpevolezza della categoria costituita dall’inesigibilità

(consistente nell’impossibilità di richiedere al soggetto che si trova in una certa condizione

quanto si può richiedere, generalmente, ad altri soggetti): v. supra;

- i casi della aberratio ictus (offesa arrecata a persona diversa da quella voluta: art. 82 c.p.) e

della aberratio delicti (reato diverso da quello voluto: art. 83 c.p.) in quanto norme previste dal

codice Rocco in senso (discutibilmente) derogatorio rispetto all’applicabilità delle regole

generali nelle ipotesi ivi contemplate;

i profili di responsabilità oggettiva nell’art. 82 c.p. (ai sensi di tale norma il soggetto agente risponde,

poniamo, di un omicidio doloso, piuttosto che del concorso fra un omicidio tentato e un omicidio

colposo);

la responsabilità a titolo di colpa per l’evento non voluto nell’art. 83 c.p. (il codice Rocco riteneva

che si dovesse punire per colpa anche in assenza di una prevedibilità dell’evento non voluto,

configurando in tal senso un’ipotesi di responsabilità oggettiva: oggi in conformità al principio di

colpevolezza si dovrà comunque richiedere il sussistere effettivo della colpa);

la aberratio ictus plurilesiva (art. 82, co. 2, c.p.), che propone un’ipotesi di cumulo giuridico delle

pene (pena per il reato più grave aumentata fino alla metà);

la aberratio delicti plurilesiva (art. 83, co. 2, c.p.), che prevede l’applicabilità delle norme sul

concorso di persone (la norma si riferisce al caso in cui si verifichi anche «l’evento voluto»: appare

tuttavia illogico non considerare rilevante pure il tentativo riferito all’evento voluto, così da evitare

l’incongruenza della sua punizione fuori dal caso di aberratio e della sua non punizione ove si

accompagni a un evento colposo non voluto: ma non può negarsi che in tal modo si perviene a forzare

in malam partem il dato normativo testuale);

- il secondo elemento del reato, costituito dall’antigiuridicità in quanto assenza di cause di

giustificazione (o scriminanti), le quali rendono lecito il fatto cui si riferiscono sulla base di un

bilanciamento, e dunque di una scelta opertata dall’ordinamento giuridico, fra beni in conflitto;

l’inquadramento dell’antigiuridicità come categoria autonoma rispetto al fatto tipico e alla

colpevolezza nell’ambito della teoria tripartita del reato ha una funzione anche didattica: rendendo

chiaramente percepibile, rispetto alla pregressa concezione bipartita (elemento oggettivo ed elemento

soggettivo) che quando operi una causa di giustificazione si realizza pur sempre un evento offensivo,

così che si dovrebbe comunque agire al meglio per prevenirlo; di per sé, tuttavia, potrebbe dirsi che

in presenza di una causa di giustificazione il soggetto agente non viola con il suo agire, in realtà,

alcuna regola finalizzata ad evitare l’evento, potendosi di conseguenza escludere lo stesso fatto tipico;

Page 47: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

47

- la legittima difesa (art. 52 c.p.) rispetto alla condotta in atto di un soggetto aggressore, la quale

dia luogo al pericolo attuale di un’offesa ingiusta nei confronti di un qualsiasi diritto proprio od

altrui, e purché la difesa sia proporzionata all’offesa; sempre che il soggetto sia stato costretto a

commettere il fatto giustificato per la necessità di difendere tale diritto;

il requisito, comune a legittima difesa e stato di necessità, della proporzione tra quanto si tutela e

quanto si sacrifica;

richiamo della disciplina concernente l’eccesso colposo (art. 55 c.p.): v. supra;

- il problematico inquadramento giuridico dello stato di necessità (art. 54 c.p.), quale norma

che lascia impunita una condotta offensiva posta in essere nei confronti di un soggetto non

aggressore, vale a dire innocente: per cui ha un ambito applicativo più ristretto rispetto alla

legittima difesa, in quanto riferito, salva sempre la proporzionalità, al solo «pericolo attuale di

un danno grave alla persona» (si consideri anche l’ulteriore requisito dell’inevitabilità altrimenti);

l’ipotesi nella quale il soggetto attivo agisce per salvare se stesso appare inquadrabile più come causa

di esclusione della colpevolezza che come causa di giustificazione;

diversamente il c.d. soccorso di necessità (che sia realizza in favore di un terzo), specie conriguardo

all’ipotesi della condotta posta in essere privilegiando la tutela di un bene preminente rispetto a un

altro bene entrambi riferibili a una medesima persona (è il caso del medico che agisce per la

salvaguardia della vita o della salute in situazioni nelle quali il paziente non è in grado di prestare il

proprio consenso);

risulta invece delicatissima, e dai confini molto problematici, l’intervento in favore di un terzo, ma a

danno di un altro soggetto: in tal caso colui che agisce, non essendo egli stesso in pericolo, opera una

scelta, quanto alla tutela, fra altri soggetti (di certo l’art. 54 c.p., in simili casi, non potrebbe essere

applicato senza delimitazioni implicite);

- il consenso dell’avente diritto, rispetto alla compromissione di beni disponibili (art. 50 c.p.);

cenni sulle altre cause di giustificazione di applicabilità generale previste agli artt. 50 ss. c.p.;

si consideri, in ogni caso, che cause di giustificazione sono previste altresì con riguardo a reati

specifici (esemplificazioni riferite alla libertà di cronaca, ai sensi dell’art. 596 c.p. e dell’art. 21 Cost.);

11.5

circa la legittima difesa si considerino altresì le discutibili modifiche introdotte nell’anno 2006,

attraverso i commi 2 e 3 dell’art. 52 c.p., circa la proporzionalità della reazione con «un’arma

legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo» nel caso di violazione del domicilio o di luoghi in cui

sia esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale;

tali nuove norme, in ogni caso, non introducono affatto la libertà del ricorso alle armi contro chi si

introduca nel domicilio, richiedendo il fine di difendere «la propria o la altrui incolumità» oppure il

sussistere del «pericolo d’aggressione» rispetto alla difesa di beni propri od altrui, e sempre che non vi

sia desistenza»;

i rischi della incentivazione del ricorso alle armi per fini di difesa domiciliare;

- la differente ratio delle diverse situazioni di esclusione della punibilità (ovvero, secondo la

terminologia utilizzata dal codice penale, delle diverse circostanze che escludono la pena):

a) cause di giustificazione, le quali rendono il fatto lecito (non antigiuridico), presupponendo

una scelta operata dall’ordinamento giuridico tra beni in conflitto (nel nostro caso, da un lato,

l’onore/reputazione e, dall’altro, l’interesse sociale alla trasparenza della pubblica amministrazione,

all’emergere dei fatti costituenti reato e, in genere, alla libera manifestazione del pensiero);

b) cause di esclusione della colpevolezza, in presenza delle quali il fatto resta illecito, ma

si configura non colpevole, per mancanza di imputabilità del soggetto agente oppure per

Page 48: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

48

inesigibilità, in situazioni particolari, del comportamento ordinariamente richiesto (cfr. l’art. 384

c.p.);

c) cause di non punibilità in senso stretto, in presenza delle quali il fatto resta illecito e

colpevole, ma non è punibile in forza di una valutazione di non opportunità dell’intervento penale

in un dato contesto (come nel caso della non punibilità ex art. 649, co. 1, concernente i delitti contro il

patrimonio commessi nei confronti dei congiunti ivi indicati);

in quest’ultima categoria sono da ricomprendersi anche le cause di non punibilità di natura premiale

(cioè quelle correlate a un comportamento post delictum, come un’eventuale collaborazione di

giustizia, che il diritto penale intenda promuovere);

la diversa rilevanza delle suddette cause di non punibilità nel concorso di persone, ai sensi dell’art.

119 c.p.: si applicano rispetto a tutti i concorrenti solo le cause di non punibilità aventi natura oggettiva,

quali sono senza dubbio le cause di giustificazione; mentre si applicano soltanto al concorrente cui si

riferiscano le cause di non punibilità aventi natura soggettiva, quali sono quelle che escludono la

colpevolezza; circa la qualifica oggettiva o soggettiva delle cause di non punibilità in senso stretto si

afferma per lo più che debba operarsi una valutazione specificamente riferita a ciascuna di esse;

la già menzionata (v. supra) rilevanza oggettiva delle cause di esclusione della punibilità, ex art.

59, co. 1, c.p., e la disciplina (analoga a quella concernente l’errore di fatto) in tema di erronea

supposizione dell’esistenza di una causa di esclusione della punibilità, ex art. 59, co. 4, c.p.;

critica dell’opinione per cui la distinzione fra le tre diverse categorie di non punibilità richiamate supra

rileverebbe non soltanto, come già s’era detto, con riguardo all’art. 119 c.p. in rapporto al concorso

di persone, ma anche con riguardo all’art. 59, commi 1 e 4, c.p.; secondo tale opinione, infatti, il co.

1 di tale articolo non sarebbe applicabile alle cause di esclusione della colpevolezza e il co. 4 non

sarebbe applicabile alle cause di non punibilità in senso stretto, poiché verrebbe meno, in tali casi, la

ratio della non punibilità: si tratterebbe, peraltro, di una forzatura in malam partem del principio di

legalità, che violerebbe in particolare il divieto di analogia (l’art. 59 c.p. non fa distinzione fra le

situazioni di non punibilità);

- il delitto tentato (art. 56, co. 1, c.p.), riferito ai soli delitti posti in essere con dolo (v. infra):

la differenza tra tentativo compiuto (la condotta idonea è stata portata a termine) e tentativo

incompiuto (l’esecuzione della condotta già idonea ha subito un’interruzione non spontanea:

diversamente, si tratterebbe di desistenza volontaria, che esclude la punibilità del tentativo: v. infra);

la necessità, per quanto concerne il tentativo incompiuto, di definire i requisiti minimi perché una

condotta che pure non abbia causato l’evento naturalistico costituente reato risulti, tuttavia,

penalmente rilevante: il confronto con il distinguo tra atti (ancora) preparatori ed atti (già) esecutivi

di cui al codice Zanardelli del 1889;

i requisiti del codice vigente fondati sui concetti di:

a) idoneità degli atti, da valutarsi ex ante (dato che ex post, nel delitto tentato, gli atti

dimostrano di essere stati oggettivamente inidonei); la nozione di idoneità deve tener conto del fatto che se gli atti compiuti fino al momento

dell’interruzione non spontanea della condotta fossero valutati di per sé solirisulterebbero sempre

(ancora) inidonei: si pone conseguentemente il delicato problema di una considerazione degli atti

idonei alla luce dell’intero contesto in cui sono inseriti e degli sviluppi prevedibili;

si evidenzia, comunque, in dottrina che deve sussistere un pericolo rilevante di realizzazione

dell’evento, in termini non di mera possibilità, ma di probabilità (più probabile che non); si richiede,

Page 49: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

49

in altre parole, una significativa entità del rischio prodotto (problemativa, questa, invece ampiamente

irrisolta, come in precedenza si osservava, rispetto al reato colposo);

si tratterà, inoltre, di domandarsi da quale punto di vista vada riguardata l’idoneità: se da quello del

solo soggetto agente (giudizio c.d. a base parziale) oppure da quello di ciò che comunque era già noto

ad altri e, in particolare, alla vittima (giudizio a c.d. base totale): ciò che poteva risultare idoneo al

soggetto agente, infatti, potrebbe essere già stato reso oggettivamente inidoneo dalla vittima

potenziale, configurando in tal modo un reato impossibile; l’impostazione oggettivistica del codice e

dell’art. 49 c.p. (vedi infra) sembra orientare in quest’ultimo senso, non accolto, peraltro, dalla

giurisprudenza;

b) direzione non equivoca (o univocità) degli atti, tale per cui gli atti siano spiegabili

esclusivamente in rapporto alla produzione dell’evento, senza che residuino altre finalità plausibili

degli stessi; si tratta di un giudizio che andrebbe condotto in base alle caratteristiche meramente

oggettive del contesto di realizzazione della condotta, in modo da evitare che esso si sovrapponga a

quello, successivo, sul dolo;

la compatibilità del tentativo, ex art. 56 c.p., con soli delitti, in quanto puniti a titolo di dolo;

l’incompatibilità con il tentativo, riconosciuta dalla giurisprudenza, del dolo eventuale (stante il

requisito di cui alla definizione normativa, degli atti diretti in modo…: formula che, per sé,

escluderebbe anche il dolo diretto, di cui tuttavia la giurisprudenza invece ammette, talora

estendendone inaccettabilmente i limiti, la compatibilità con dolo eventuale);

la motivazione premiale, onde cercare di scongiurare fino all’ultimo il realizzarsi dell’evento

offensivo, della non punibilità del tentativo a seguito di desistenza volontaria, ex art. 56, co. 2, c.p.;

se invece la desistenza non è tale si configura, sussistendone i requisiti, il tentativo incompiuto;

la differenza con il recesso attivo, ex art. 56, co. 3, c.p. (implicante l’impedimento dell’evento a

seguito di una condotta già completata), che comporta, invece, una diminuzione di pena rispetto a

quella prevista per il tentativo: perplessità di tale differenza circa le scelte sanzionatorie;

la differenza, altresì, con la circostanza attenuante del ravvedimento post delictum di cui all’art. 62

n. 6 c.p.

- il reato impossibile (per inidoneità dell’azione o inesistenza dell’oggetto), ex art. 49, co. 2.

c.p.): non punibilità (salvo che sussistano i presupposti di un reato diverso: co. 3) e applicabilità

di una misura di sicurezza (co. 4), sebbene non sussista il reato;

ciò configura una ipotesi di c.d. quasi reato, al pari di quanto previsto dall’art. 115 c.p., che sancisce

in materia di concorso di persone la non punibilità, salvo esplicite eccezioni, del mero accordo: anche

in tal caso infatti, come pure in quello dell’istigazione accolta senza commissione del reato, oppure

anche non accolta ove si tratti di delitto, è applicabile una misura di sicurezza;

si rammenti (v. supra) l’utilizzazione che s’è proposta dell’art. 49 c.p. come ancoramento di diritto

positivo del principio di offensività, intendendosi in tal senso l’inidoneità come inoffensività rispetto

al bene tutelato (posto che la non punibilità della condotta inidonea nel significato tradizionale è già

desumibile, a contrariis, dall’art. 56 c.p.);

- la non punibilità del reato putativo, cioè erroneamente supposto (art. 49, co. 1, c.p.), come pure

(v. supra) dell’aggravante putativa (art. 59, co. 3): non si è puniti se si ritiene erroneamente – sia

per ragioni di diritto che per ragioni di fatto – di aver commesso un reato, o dato luogo a

un’aggravante, che invece non sussistono;

- le circostanze attenuanti e aggravanti del reato;

le tipologie delle circostanze a) frazionarie; b) autonome (mutamento del tipo di pena) o indipendenti

Page 50: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

50

(ambito edittale distinto da quello previsto per il reato base); e le diverse modalità della loro incidenza

in sede di determinazione della pena in senso lato;

le circostanze comuni (artt. 61 e 62 c.p.) e le circostanze riferite a specifiche tipologie di reato;

la reintroduzione, avvenuta con d.lgs.lt. n. 288/1944 (e con le modifiche di cui alla l. n. 251/2005),

delle attenuanti generiche (art. 62-bis c.p.); richiami all’art. 59 c.p.: la rilevanza oggettiva delle circostanze attenuanti e l’esigenza della

conoscibilità per le aggravanti; l’irrilevanza dell’erronea supposizione dell’esistenza delle circostanze

sia aggravanti che attenuanti (con effetti, nel secondo caso, sfavorevoli all’imputato);

il giudizio di equivalenza o prevalenza fra circostanze eterogenee, ex art. 69 c.p. (cioè nel caso di

concorso tra circostanze aggravanti e attenuanti), e la riforma estensiva di tale regime, con d.l. n.

99/1974, anche alle circostanze autonome o indipendenti, che in precedenza ne erano escluse;

secondo tale giudizio – che non dipende dal confronto fra il numero di attenuanti o aggravanti – il

giudice può valutare fra loro equivalenti le aggravanti e le attenuanti disapplicandole, oppure ritenere

prevalenti le une o le altre, disapplicando quelle soccombenti;

la grande importanza di simile giudizio, che ha consegnato al giudice un’ampia discrezionalità a fini

di mitigazione delle scelte sanzionatorie molto severe del codice Rocco (essendosi constatata nel

1974, ma fino ad oggi la situazione non è mutata, l’impossibilità politica di una riforma complessiva

del codice Rocco);

va peraltro segnalato come da vari anni si sia tornati discutibilmente a precludere tale giudizio,

sovente in un’ottica di c.d. populismo penale, rispetto alle circostanze aggravanti relative a specifici

reati, in deroga alla regolamentazione generale prevista dall’art. 69 c.p.: rendendo dunque rispetto ad

essi il regime sanzionatorio assai più severo;

del pari, si rende da anni manifesta una tendenza all’abuso nella previsione legislativa di circostanze

aggravanti, il cui regime complessivo appare oggi disorganico e quasi ingovernabile (si consideri, in

proposito, il ruolo del tutto marginale delle circostanze in altri ordinamenti penali europei);

un ulteriore elemento mitigativo delle suddette asperità sanzionatorie si è avuto con l’assimilazione

giurisprudenziale ai delitti circostanziati dei c.d. delitti aggravati dall’evento: si tratta di quei delitti che si caratterizzano, come accade nella preterintenzione (v. supra), per un reato

doloso base e per una pena autonoma (o un ambito edittale autonomo) nel caso che da quel reato derivi

un evento ulteriore, ancorché non voluto;

nell’ambito del codice Rocco la causazione del suddetto evento era inquadrata come rilevante in

termini di responsabilità oggettiva, ma, conformemente a quanto s’è detto circa l’omicidio

preterintenzionale, oggi dovrà ritenersi richiesta, circa la responsabilità relativa alla causazione di tale

evento, almeno la prevedibilità (o la stessa previsione);

i delitti aggravati dall’evento in un primo tempo erano stati intesi quale istituto autonomo, così che

l’evento aggravante non era identificato come una circostanza; avendoli considerati poi, invece, come

aggravanti, s’è resa possibile anche rispetto ad essi, e dunque in presenza dell’evento aggravante,

l’applicabilità del giudizio di equivalenza e di prevalenza ai sensi dell’art. 69 c.p., che rende dunque

possibile, ove sussistanto una o più attenuanti, di tornare ad applicare il reato base (o addirittura di

applicare il reato base attenuato, nel caso di attenuante/i prevalenti);

17.5

il concorso di circostanze fra loro omogenee e la problematica introduzione del concetto di

circostanze a effetto speciale (artt. 63 c.p.); l’aumento o la diminuzione frazionaria non

specificamente determinati e i limiti degli aumenti in caso di concorso fra circostanze (artt. 64 ss. cp.)

l’abolizione, con il già citato d.l. n. 99/1974, degli aumenti obbligatori di pena in caso di recidiva

(art. 99 c.p.); si noti che Corte cost. n. 185/2015 ha fatto cadere il caso di recidiva reiterata

obbligatoria, successivamente reintrodotto, di cui all’art. 99 co. 5. c.p.;

Page 51: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

51

i motivi che rendono comunque discutibile, in rapporto al principio della colpevolezza riferita al fatto,

la rilevanza (pur non obbligatoria) della recidiva circa la determinazione della pena;

la dichiarata incostituzionalità (Corte cost. n. 249/2010) dell’art. 61, co. 11-bis, c.p., introdotto nel

2008, concernente «l’aver il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio

nazionale»;

si rammenti, in proposito l’altro intervento attuato con il d.l. n. 99/1974 (provvedimento rivolto,

nell’impossibilità di addivenire a una riforma organica del codice penale, ad ampliare con finalità

mitigative, la discrezionalità giudiziaria), vale a dire l’estensione del cumulo giuridico al concorso

formale e al reato continuato fra reati eterogenei, ex art. 81 c.p. (v. infra);

la rilevanza delle circostanze attenuanti e aggravanti nel concorso di persone (art. 118 c.p.)

- il concorso di persone:

reati a concorso eventuale e a concorso necessario (questi ultimi prevedono talora la punibilità di tutti

i concorrenti, come nella corruzione o nell’associazione per delinquere, talora la punibilità di uno

soltanto fra di essi, venendo considerato l’altro come vittima, come nel caso della concussione o

dell’estorsione);

la scelta, discutibile, del codice italiano di punire tutti i concorrenti secondo il medesimo ambito

edittale previsto per il reato commesso (equiparazione dei concorrenti), senza distinzioni edittali

riferite al tipo di apporto (come invece avviene in altri ordinamenti);

il rilievo di c.d. condotte atipiche;

il contributo di natura materiale oppure morale (istigazione);

l’esigenza cardine, per individuare la condotta rilevante ai fini del concorso di persone, rappresentata

dal fatto che essa risulti causale rispetto alla realizzazione in concreto del reato:

- la connessa problematica relativa all’individuazione della condotta partecipativa rilevante; è

necessario, come s’è detto, che essa risulti causale rispetto alla realizzazione in concreto del

reato, stanti i rischi derivanti sotto il profilo del principio di legalità dal prospettare la sufficienza di

criteri meno stringenti fondati sulle nozioni generiche di agevolazione o rinforzo; resta peraltro

problematica la circostanza per cui nel concorso di persone la causalità è riferita al reato così come

realizzatosi hic et nunc, manifestandosi per molti versi dipendente, pertanto, dalla modalità di

descrizione del fatto: ciò in quanto, trattandosi di un reato cui concorrono più persone, il giudizio

controfattuale relativo alla condotta del partecipe non potrà riferirsi all’esclusione tout court

del realizzarsi del fatto medesimo (che potrebbe essere realizzato comunque dagli altri

concorrenti), ma assumerà una forma di questo tipo: senza l’apporto X il fatto non si sarebbe

realizzato in quel dato modo, per cui la risposta viene a dipendere dalla maggiore o minore

specificazione descrittiva del fatto medesimo;

- l’esigenza che la condotta rilevante ai fini del concorso di persone, sebbene possa risultare

atipica (cioè da sola non ricomprensibile in una data fattispecie incriminatrice), abbia pur sempre

attivato un rischio non consentito in relazione al prodursi dell’evento: in altre parole, che essa si

configuri pur sempre ex ante, nel contesto in cui viene tenuta, come violazione di una regola rivolta

ad evitare il prodursi del fatto (al pari di quanto s’è detto per la condotta nei reati monosoggettivi):

la necessità che sia accertato, in tutti i concorrenti in un delitto doloso, del dolo relativo al realizzarsi

del fatto tipico;

l’attenuante riferita al contributo di minima importanza (art. 114 c.p.), rappresentato da un

contributo ex post pur sempre causale, ma ex ante facilmente sostituibile e tale da non aver prodotto,

Page 52: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

52

già di per sé, un rischio elevato di verificazione dell’evento;

la fattispecie di cooperazione colposa (art. 113 c.p.), che richiede pur sempre, ai fini della punibilità,

una condotta la quale già di per sé costituisca la violazione di una regola cautelare finalizzata a evitare

l’evento;

l’irrilevanza circa il concorso di persone, salve esplicite eccezioni, del mero accordo, ai sensi

dell’art. 115 c.p. (come pure dell’istigazione, ove il reato non sia stato commesso): v. già supra;

in tali casi, come pure in quello dell’istigazione non accolta, è applicabile una misura di sicurezza

(ipotesi di c.d. “quasi reato”, in parallelo con l’art. 49 c.p.);

richiami alla disciplina particolare, già discussa, di cui agli artt.116 e 117 c.p.

- introduzione alle problematiche di ambito biogiuridico aventi rilievo penale:

la rilevanza delle diverse fasi della vita ai fini del diritto penale:

in particolare, il permanente sussistere di illeciti penali in materia di interruzione della gravidanza e

l’inquadramento delle ipotesi (v. infra) di non punibilità, in quello che, tuttavia, dovrebbe rimanere

un contesto di prevenzione dell’aborto;

i delitti in materia di aborto:

- art. 593-bis c.p., introdotto dal d.lgs. n. 21/2018 (già art. 17 l. n. 194/1978): aborto colposo,

punibile solo con riguardo alla condotta di un soggetto diverso dalla madre;

- art. 593-ter c.p., introdotto dal d.lgs. n. 21/2018 (già art. 18 l. n. 194/1978): interruzione

della gravidanza su donna non consenziente (co. 1) e aborto preterintenzionale (co. 2 e 4: si

noti, con riguardo al co. 4 concernente l’ipotesi in cui derivi anche la morte della donna, la

disomogeneità sanzionatoria rispetto all’art. 584 c.p.);

- art. 19 l. n. 194/1978: aborto su donna consenziente, ove sia compiuto al di fuori dei requisiti

e delle procedure che non lo puniscono ai sensi della legge in esame; tale delitto è

sanzionato penalmente con la reclusione nei confronti di chi pratica l’aborto sulla donna e, ora,

come illecito amministrativo con riguardo alla donna (co. 2): la legge in tal caso prevedeva

tuttavia, rispetto alla donna, un delitto punito con la multa fino a euro 51, ma il provvedimento

generale di trasformazione in illeciti amministrativi (cioè di depenalizzazione), salve esplicite

eccezioni, dei reati esterni al codice penale puniti con la sola pena pecuniaria posto in essere dal

d.lgs. n. 8/2016 ha fatto sì che questa trasformazione si realizzasse – senza che il legislatore, è da

ritenersi, ne abbia avuto consapevolezza

– anche con riguardo al delitto previsto dall’art. 19, co. 2, con riguardo alla donna: e a questo

punto, stante il criterio di conversione tra pena pecuniaria e sanzione amministrativa previsto dal

suddetto provvedimento, l’illecito risulta sanzionato rispetto alla donna con una sanzione

pecuniaria amministrativa da 5000 a 10000 euro; l’inopportunità, in ogni caso, del fatto che

venga prevista, nell’ipotesi di cui s’è discusso, una sanzione avente natura pecuniaria, la quale

finisce per rappresentare una «monetizzazione» dell’atto abortivo (piuttosto, si preveda un

obbligo di altra natura);

- profili nuovi concernenti la tutela della vita umana:

il bene giuridico vita umana: la nozione di vita dell’individuo umano (e di qualsiasi specie vivente)

quale sequenza esistenziale autonoma, continua e coordinata;

in particolare, il concetto di autonomia come non necessità, per la prosecuzione del percorso

Page 53: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

53

esistenziale, di alcun ulteriore impulso (o stimolo) dall’esterno: la sequenza esistenziale, in altre

parole, procede, dal momento in cui ha inizio, per forza propria e secondo un programma a essa

interno (espresso dall’informazione genetica propria di ciascun individuo, egualmente presente in

ciascuna delle sue cellule fin dalla prima di esse, cioè dallo zigote), potendo essere soltanto interrotta

(per ragioni patologiche o per il venir meno delle condizioni ambientali o di alimentazione che ne

rendono possibile la prosecuzione);

il concetto di continuità indica, a sua volta, che lo svolgersi di tale sequenza è unitario, non può

interrompersi e riprendere, e non consente di individuare stacchi qualitativi;

il concetto di coordinamento attiene invece all’interazione fra le diverse tipologie cellulari e, dunque,

tra i diversi organi, del corpo, assicurata dell’informazione genetica;

la nozione di morte (la fine della vita umana) come cessazione del coordinamento sistemico

dell’organismo, momento identificato, dopo la dinamica cellulare delle primissime fasi della vita

embrionale, nella morte cerebrale (o encefalica) completa (relativa, cioè, sia agli emisferi che al

tronco- encefalo);

la differenza radicale tra la morte cerebrale e le situazioni di coma;

il possibile prelievo di organi, a certe condizioni, dopo la morte cerebrale;

l’evolversi delle cognizioni relative agli stati di minima coscienza e agli stati di coma c.d. vegetativi;

il sussistere delle suddette condizioni che definiscono il sussistere di una vita individuale dal momento

della fecondazione (o concepimento), con la quale, dunque, si ha l’inizio della vita di un nuovo

essere umano; tale inizio, cioè l’attivarsi della suddetta sequenza, può peraltro realizzarsi anche

altrimenti: si pensi al separarsi in fase precocissima di una cellula o di un piccolo gruppo di cellule

ancor totipotenti (lo sono le prime otto cellule) dall’embrione, con il che prende avvio la vita di un

gemello monozigote; oppure si pensi (pur non essendo eticamente accettabile: v. infra) a un processo

di clonazione;

la vita come uno svolgimento esistenziale unitario dal suo inizio, che non consente di scindere

dimensione biologica (meramente corporea) e una dimensione metabiologica (come se la psiche fosse

una realtà svincolata dal corpo e calata dall’esterno in esso, secondo quanto ritenevano le antiche

impostazioni dualiste (si pensi a Cartesio): in realtà la sequenza esistenziale è unitaria ed esprime nel

corso del tempo sia capacità fisiche che psichiche: alcune si perfezionano solo a una certa epoca, altre

si perdono precocemente (si pensi alla capacità di costruire organi e tessuti in fase prenatale o alla

capacità di elaborazione linguistica nei primi anni di vita);

la tutela giuridica della vita umana prenatale come espressione della tutela dei diritti inviolabili

dell’uomo, che risulta correlata all’esistenza in vita, sulla base degli artt. 2 e 3 della Costituzione

(l’irrilevanza, già richiamata supra, di un giudizio sulle «condizioni personali e sociali» di un

individuo, e dunque sulle capacità o qualità che sia in grado di manifestare in un dato momento della

sua vita, ai fini della sua dignità sociale, cioè del rispetto dei suoi diritti inviolabili nei rapporti con

gli altri);

il rilievo giuridico della vita umana anche prenatale, in base alla Dichiarazione universale dei diritti

del fanciullo (Preambolo, punto 3): «considerato che il fanciullo, a causa della sua immaturità fisica

e intellettuale, ha bisogno di una particolare protezione e di cure speciali, compresa una adeguata

protezione giuridica, sia prima che dopo la nascita»): il fatto, dunque, che un individuo nella parte

iniziale della sua vita non abbia ancor acquisito talune capacità dell’adulto non lo rende minore nella

dignità, ma anzi lo rende titolare di un maggior diritto alla tutela;

le vicende relative alla fase iniziale della vita umana;

Page 54: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

54

la struttura della legge n. 194/1978: premesse e considerazioni generali;

i principi affermati all’art. 1: «lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio», «l’interruzione

volontaria della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite»;

il concepito non solo come oggetto di tutela, ma anche come soggetto di diritti (si veda l’art. 1 l. n.

40/2004, ai sensi del quale «la legge … assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il

concepito»: quest’ultimo termine, fra l’altro, esplicita la tutela della vita umana prenatale dal

momento della fecondazione);

il problema, ovviamente, non è dato dalla rinuncia a utilizzare la previsione di una pena detentiva nei

confronti della donna per fini di prevenzione dell’aborto, punto sul quale può esservi amplissimo

consenso; si tratta, piuttosto, di domandarsi se sussista effettivamente un intento di prevenzione

dell’aborto, dato che le relazioni ministeriali annuali sulla legge 194 indicano, attualmente,

un’incidenza di quasi centomila aborti legali per anno, con una somma dal 1978 ad oggi – in anni

passati il numero delle donne in età fertile era assai maggiore di quello attuale – di quasi sei milioni

di interruzioni della gravidanza (si tenga conto di molte interruzioni ripetute la parte della medesima

donna);

le ipotesi di non punibilità:

cenni di carattere comparato: il modello dei «termini», proposto in alcuni contesti soprattutto

anglosassoni (nessuna rilevanza del concepito e totale autodeterminazione entro una certa epoca della

gravidanza) e il modello misto, seguito anche dalla normativa italiana (rilevanza di termini, requisiti

e procedure); una strategia alternativa si sarebbe potuta fondare sulla promozione di un sistema

normativo fortemente orientato all’aiuto nei confronti della donna in gravidanza;

i requisiti rilevanti ai fini della non punibilità, secondo la legge n. 194/1978:

in particolare, la necessità, in ogni caso (a parte le ipotesi molto rare di pericolo per la vita della

donna) del pericolo per la salute fisica o psichica della donna, derivante

a) nei primi novanta giorni di gravidanza (come pericolo serio), ai sensi dell’art. 4 l. n. 194/1978,

da uno dei quattro sotto-requisiti cui ivi la legge attribuisce rilievo;

b) dopo il novantesimo giorno e fino al momento in cui il feto potrebbe sopravvivere a un

parto prematuro (come pericolo grave), ai sensi dell’art. 6 l. 194/1978, da «accertati processi

patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro»;

ciò significa che i sotto-requisiti, nei primi novanta giorni, e i processi patologici, dopo il

novantesimo giorno, non assumono rilievo in modo autonomo, ma solo se ne deriva un pericolo

(serio o grave) per la salute fisica o psichica della donna riferito alla prosecuzione della gravidanza;

c) dal momento, invece, in cui il feto potrebbe sopravvivere a un parto prematuro (art. 7, co. 3, l.

n. 194/1978) – possibilità che inizia a darsi, oggi, dalla ventunesima settimana di gestazione – può

essere indotto un parto pretermine nel solo caso di pericolo di vita per la donna, adottando

tuttavia «ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto»;

- le contraddizioni circa l’inquadramento giuridico delle ipotesi di non punibilità dell’aborto:

inquadramento il quale appare esser stato ricercato, sulla premessa della sentenza n. 27/1975 della

Corte costituzionale (che aveva dichiarato l’incostituzionalità dei reati di aborto previsti nel codice

penale del 1930, nell’ambito dei delitti contro la «integrità e la sanità della stirpe»), attraverso un

riferimento estensivo allo stato di necessità (art. 54 c.p.: v. supra), in quanto unica norma che consente

Page 55: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

55

di non punire un atto deliberatamente offensivo posto in essere nei confronti di un non aggressore (di

qui il requisito del «pericolo per la salute fisica o psichica»);

dello stato di necessità, tuttavia, manca nel caso in esame (oltre all’attualità del pericolo, problema

secondario) il requisito fondamentale della proporzionalità (v. art. 54 c.p.) fra quanto si sacrifica e

quanto si tutela: non sussistendo proporzione tra il bene vita e il bene salute (nella l. n. 194/1978,

anche «psichica»);

tale problema fu presente alla sentenza n. 27/1975 della Corte costituzionale, che però ebbe a

superarlo proponendo una discriminazione priva di supporto razionale tra il rango del bene vita prima

e dopo la nascita (affermò che il concepito «persona deve ancora diventare»), sulla base di un

riferimento implicito, del tutto improprio, all’art. 1 cod. civ. (concernente l’acquisto dalla nascita della

capacità giuridica): tale norma, infatti, non ha riguardo ai diritti umani inviolabili (che ex artt. 2 e 3

Cost. dipendono dalla mera esistenza in vita di un dato individuo), ma all’insieme dei diritti diversi

da quelli inviolabili, soprattutto di natura patrimoniale;

un orientamento, quest’ultimo, che impone di riflettere sui rischi (constatabili non soltanto con

riguardo alla vita prenatale) di c.d. flessibilizzazione dei diritti inviolabili, suscettibile di minare

l’impianto complessivo, concepito settant’anni orsono, inerente alla tutela intangibile dei diritti

umani; (si consideri, peraltro, che Corte cost. n. 27/1975 aveva richiesto a fini della non punibilità un

pericolo grave e medicalmente accertato per la vita o la salute della donna, senza menzione della

salute psichica);

- l’aborto farmacologico: il ricorso ospedaliero alla c.d. pillola RU 486: problemi;

in particolare, i rischi connessi a una utilizzazione illegale extraospedaliera del farmaco;

si considerino, altresì, i riflessi in merito alla offuscata percezione del fatto abortivo da parte della

donna e alla radicale riduzione dell’impatto psicologico dell’induzione dell’aborto per il medico e gli

altri operatori sanitari;

- l’abortività precoce: la possibile incidenza abortiva precoce della c.d. pillola del giorno dopo e

della pillola dei cinque giorni dopo (e l’analoga incidenza da tempo nota, della spirale o iud);

a seconda del momento del ciclo femminile in cui viene assunta, infatti, tale pillola può bloccare

l’ovulazione, ove questa non sia ancora avvenuta, oppure può agire dopo che l’ovulazione sia

avvenuta e l’ovulo sia stato fecondato dallo spermatozoo, impedendo che l’embrione in tal modo

formatosi possa annidarsi nella parete dell’utero (ciò in quanto tale pillola provoca una irritazione

della parete uterina, oltre a una riduzione nella motilità delle tube): così da agire, in questo caso, non

come un contraccettivo, ma come uno strumento abortivo precoce;

l’offuscamento del problema che si è avuto proponendo una modifica terminologica fuorviante circa

i confini della gravidanza, sovente definita negli ultimi anni non più come la fase ricompresa tra il

concepimento e il parto, ma come la fase ricompresa tra l’annidamento dell’embrione in utero e il

parto: così s’è potuto affermare che la pillola del giorno dopo non interrompe mai la gravidanza in

tal senso definita, lasciando credere che il suo effetto sia sempre contraccettivo, come invece non è;

l’embrione, infatti, esiste dalla fecondazione e, anzi, alla conclusione dell’annidamento manifesta già

una struttura estremamente complessa, con tre strati cellulari e con la visibilità delle strutture nervose

proprie della c.d. stria primitiva;

24.5

- il problema eugenetico, inerente alla utilizzazione per finalità abortive di dati genetici acquisiti

precocemente, a vita già in atto, attraverso la diagnosi prenatale;

l’esigenza che l’enorme incremento della possibilità di acquisizione di dati genetici, anche in

un’epoca esistenziale molto precoce, resti utilizzata per fini terapeutici e non per fini di selezione

(cioè di screening eugenetico);

l’incidenza statistica nient’affatto trascurabile dell’amniocentesi rispetto all’induzione di un aborto

Page 56: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

56

spontaneo;

(v. anche infra la problematica analoga della diagnosi preimpiantatoria su embrioni);

- il ruolo di prevenzione rispetto all’aborto (prevenzione primaria) che compete al colloquio con

la donna (di cui all’art. 5, co. 1, l. 194/1978), in quanto finalizzato a «rimuovere le cause» che la

porterebbero a interrompere la gravidanza», offrendole «tutti gli aiuti necessari sia durante la

gravidanza sia dopo il parto»;

si tratta, soprattutto, di lasciar percepire alla donna, specie rispetto a messaggi in altro senso, che la

prosecuzione della gravidanza sarebbe comunque stimata (e supportata) dalle istituzioni pubbliche;

come pure di evitare che la donna identifichi emotivamente nell’aborto uno strumento idoneo, per

così dire, a riportare indietro le lancette dell’orologio: si tratta dunque di far sì che la donna possa

riuscire a prendere atto, realisticamente e senza rimozioni, della realtà nuova costituita dalla

gravidanza: anche quale possibile opportunità;

va altresì presa in esame l’incidenza, sovente trascurata, di conseguenze psichiche negative

dell’aborto per la donna, rilevabili anche a lunga distanza: come evidenziato, fra l’altro, nella terza

e quarta edizione del Manuale internazionale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM);

deve altresì essere data informazione circa il diritto fondamentale della donna di poter partorire

nell’anonimato, in modo da non assumere il ruolo genitoriale (art. 30, co. 1, d.P.R. 396/2000, ord.

stato civile), così che il bambino – salvo un breve spazio temporale per un eventuale ripensamento –

sarà adottato;

l’esigenza che la donna, in tal caso, sia rispettata e stimata nella sua scelta spesso dolorosa, in quanto

ha dato al bambino la vita senza chiedere nulla in cambio;

l’importanza, dunque, del suddetto diritto a fini di prevenzione dell’aborto (come pure di

pericolosissimi parti clandestini, seguiti, poi, dalla eliminazione del neonato: si rammenti del resto,

per evitare simile esito, che il neonato può essere lasciato anonimamente nelle culle protette (le c.d.

“ruote”) presenti ormai nel perimetro esterno di molti ospedali;

vi è la necessità inoltre, da parte degli operatori del consultorio o del centro socio-sanitario, di offrire

aiuto alla donna sul piano sociale (bisogni abitativi, economici, tutela dei diritti, ecc.), attraverso un

impegno concreto di tipo organizzativo (che non si limiti, cioè, a dare mere informazioni, che la

donna, in quel contesto, ben difficilmente sarebbe in grado di gestire);

va anche rimarcato che, nel quadro dell’impegno preventivo, può assumere un ruolo importante la

collaborazione con il volontariato sociale (per esempio, con i Centri di aiuto alla vita): anche per

quanto concerne possibilità di aiuto sul piano economico, possibilità prevista a livello istituzionale

solo da alcune regioni;

la finalità preventiva del colloquio, peraltro, finisce per essere depotenziata, di fatto, dalla possibilità

per la donna di potersi rivolgere direttamente a un medico di fiducia (art. 5, co. 2, l. 194/1978), col

rischio del venir meno, in tal modo, di qualsiasi effettivo impegno di aiuto alla donna e di prevenzione

dell’aborto (sebbene il medico stesso debba valutare con la donna le circostanze che la porterebbero

a interrompere la gravidanza e a informarla sugli aiuti sociali che potrebbe ricevere);

la mancata previsione, non condivisibile, di una specifica fase di colloquio in relazione ai casi in cui

l’interruzione della gravidanza non è punibile dopo il novantesimo giorno: la donna si rivolge

direttamente alla struttura sanitaria, ove devono essere accertati i processi patologici rilevanti e la loro

incidenza in termini di pericolo grave per la salute della donna (art. 7, co. 1, l. n. 194/1978);

si consideri anche la posizione in cui si viene a trovare il padre del concepito, che partecipa al

Page 57: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

57

colloquio solo se la donna lo permette; ciò ha un effetto ambivalente: da un lato il padre può trovarsi

nella condizione di non poter neppure esprimere un parere o fornire aiuto, mentre dall’altro gli è

consentita in tal modo una facile deresponsabilizzazione rispetto all’aborto, che può riferire a una

decisione della donna nella quale non è coinvolto;

[è disponibile su questi temi, tra i materiali didattici, il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica,

del 2005, sul tema dell’aiuto alla donna in gravidanza]

- la procedura autorizzativa circa l’interruzione della gravidanza nei primi novanta giorni, sia a

seguito di colloquio presso un consultorio o un centro socio-sanitario, sia a seguito di colloquio presso

il medico di fiducia (art. 5, co. 3 e 4, l. n. 194/1978): il ruolo anche accertativo del medico rispetto

alla sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge;

aborto e donna minorenne, nei primi novanta giorni: normativa e problematiche (art. 12 l. n.

194/1978); il ruolo dei genitori (o del tutore) e la procedura davanti al giudice di pace nel caso di

dissenso;

l’esigenza di evitare che la ragazza giovane subisca un’induzione di fatto, da parte della famiglia o

del suo contesto di vita, a interrompere la gravidanza;

aborto e donna interdetta (art. 13 l. n. 194/1978);

la non praticabilità, in qualsiasi caso, dell’aborto senza il consenso della donna (artt. 12, co. 1, e

13, co. 2, l. n. 194/1978);

- l’obiezione di coscienza di cui all’art. 9 l. n. 194/1978 e il suo riferimento a tutte le procedure e

attività «specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza»:

l’interpretazione di tale concetto sulla base della nozione di rilevanza causale; la configurazione da

parte della legge di due categorie distinte a priori – non obiettori e obiettori – tra i medici e gli altri

professionisti sanitari operanti nell’ambito del servizio sanitario pubblico;

la collocazione giuridica dell’obiezione di coscienza: il suo fondamento come diritto costituzionale

(inquadrabile come causa di giustificazione), ove riferita all’intento di non derogare alla tutela della

vita umana o di altri diritti umani inviolabili;

quando l’ordinamento giuridico richieda, per qualsiasi ragione, a chi rivesta un certo ruolo la

disponibilità a tenere condotte lesive di un diritto inviolabile non può obbligare: per cui non può

prevedere l’obbligo di svolgere un’attività implicante quel ruolo ove tale attività abbia come elemento

caratterizzante la possibile tenuta di tali condotte (si pensi alle forze armate); quando invece si tratti

di un’attività o professione (è il caso delle professioni sanitarie) per le quali la suddetta possibilità

non costituisce elemento caratterizzante dovrà sempre ammettersi l’obiezione di coscienza (il cui

diritto, in questo caso, non dipende da una mera scelta legislativa, ma è desumibile direttamente dalla

Costituzione);

- le problematiche etiche e giuridiche connesse alla generazione umana extracorporea

(fecondazione in vitro) e la l. n. 40/2004 (c.d. procreazione medicalmente assistita);

l’esigenza di considerare, rispetto alle tecniche di fecondazione in vitro,

a) sia la questione relativa alla tutela dell’embrione fuori dal corpo femminile,

b) sia la questione in gran parte nuova concernente i “criteri” della generazione umana,

rispetto alla quale emergono esigenze di tutela riferibili a un bene che può essere identificato

in alcune condizioni essenziali di umanità della generazione (si pensi, alle problematiche

estreme della clonazione o della gravidanza artificiale):

Page 58: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

58

a) la possibilità, da alcuni decenni, della generazione e, dunque, del sussistere di embrioni umani

al di fuori del corpo femminile;

la non praticabilità di un proseguimento al di fuori del corpo femminile dell’esistenza degli embrioni

generati in vitro; la necessità, a tal fine, che gli stessi siano trasferiti nell’utero di una donna e i

problemi connessi alle chance minoritarie di annidamento per ciascun tentativo;

il riconoscimento dell’embrione come soggetto di diritti tutelato dal concepimento, ex art. 1, co.1,

l. n. 40/2004 (v. supra);

la rilevanza penale della vita umana nella fase postnatale attraverso i delitti di omicidio e infanticidio

in condizioni di abbandono materiale e morale (art. 578 c.p.), durante la gravidanza attraverso i delitti

di aborto e nella fase embrionale al di fuori del corpo femminile attraverso il divieto della

soppressione di embrioni umani previsto e sanzionato come delitto dall’art. 14, co. 1 e 6, l. n.

40/2004;

b) la necessità di considerare, ben più pressantemente rispetto al passato, il problema costituito

dai criteri di umanità della generazione, posto che le tecniche di fecondazione in vitro

estendono in maniera rilevantissima le modalità attraverso le quali si rende possibile realizzare

l’avvio di una nuova vita umana;

si rende fra l’altro non eludibile, in tal senso, una riflessione circa le caratteristiche proprie del

procreare umano:

se esso debba identificarsi sempre più col diritto di chiedere, da parte di chiunque (coppia

eterosessuale od omosessuale, persona singola), l’applicazione di una qualsiasi modalità tecnicamente

idonea a generare: quale che sia la provenienza dei gameti, oppure ricorrendo a una surrogazione di

maternità (il c.d. utero in affitto o procreazione per altri), oppure programmando una selezione

precoce tra molti embrioni che si sia deciso di generare (v. infra), oppure attraverso una clonazione,

oppure, tra qualche decennio, attraverso la sostituzione del ruolo gestazionale di una donna mediante

un utero artificiale (ectogenesi), ecc.: e ciò solo in base al fatto che ci si dica disposti ad accudire il

nuovo nato (con ciò sovrapponendosi, fra l’altro, i profili del procreare e dell’adottare),

oppure se il procreare umano, che pure necessita della dimensione biologica, costituisca in primis,

come riterremmo, un atto relazionale di due persone generanti (necessariamente di sesso diverso), che

le coinvolge (anche nella loro corporeità);

i limiti di un approccio della Corte costituzionale che sembra argomentare, nelle sentenze recenti sulla

legge n. 40/2004, con riguardo prevalente al desiderio del figlio, inquadrato come elemento del diritto

alla salute;

la riflessione della Chiesa cattolica sul legame fra sessualità e generazione;

la distinzione, nella materia in esame, tra quanto è oggetto di regole giuridiche e la riflessione affidata

alla responsabilità di ciascun individuo;

- l’impianto della legge n. 40/2004, che nella stesura originaria intendeva garantire a ogni

embrione generato (non più di tre per ogni ciclo di stimolazione ovarica) quantomeno la possibilità di

proseguire nel suo iter esistenziale, evitando la generazione di embrioni sovrannumerari (il cui

destino è la morte o la crioconservazione) rispetto a quelli trasferiti in utero e, nel contempo,

evitando stimolazioni ormonali particolarmente pesanti nei confronti della donna; come pure

mantenendo il ricorso alla c.d. procreazione medicalmente assistita (pma) nell’ambito, e attraverso

i gameti, di una coppia stabile, limitatamente al caso di sterilità o infertilità;

le vicende relative al trasferimento degli embrioni nell’utero della donna; il problema del venir meno

di un’indicazione numerica precisa circa il numero degli embrioni generabili, a seguito della sent.

n. 151/2009 Corte cost. che ha inciso sul testo dell’art. 14, co. 2 (ora tale norma richiede che il ricorso

alla pma non deve «creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario», essendo

Page 59: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

59

venute meno le ulteriori parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a

tre»); pare tuttora deducibile, peraltro, dall’impianto dell’art. 14 la non programmabilità ex ante della

generazione di embrioni destinati alla crioconservazione;

il problema degli embrioni eventualmente non trasferiti, che, ai sensi della stessa giurisprudenza della

Corte costituzionale, devono essere crioconservati;

le permanenti preclusioni penalmente sanzionate previste dalla legge n. 40/2004 (si vedano in

particolare gli artt. 12, 13 e 14): accesso non meramente discrezionale, finalità procreativa, divieto di

clonazione, di ectogenesi (v. supra), di maternità surrogata, di ibridazione uomo-animale, ecc.

in particolare, il divieto di ricerca clinica e sperimentale a danno dell’embrione: «la ricerca clinica e

sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità

esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo

sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative» (art. 13, co.

2, l. n. 40/2004);

l’avvenuta abrogazione del divieto di fecondazione eterologa, con sentenza della Corte cost. n.

162/2014: tecnica attraverso la quale la generazione avviene attraverso i gameti di due soggetti tra i

quali non sussiste una relazione (almeno uno di tali soggetti mette a disposizioni gameti prelevati dal

suo corpo, al di fuori di fuori di una relazione con l’altro soggetto generante);

la questione della diagnosi preimpiantatoria su embrioni, che implica la generazione di più

embrioni, in un contesto di possibile trasmissione di malattie genetiche, e il successivo prelievo di

cellule ancor totipotenti (come tali suscettibili, fra l’altro, di evolvere in un ulteriore individuo) da

ciascuno degli embrioni generati, onde effettuare uno screening genetico: con successiva esclusione

dal trasferimento in utero, e la conseguente estinzione (ma Corte cost. n. 229/2015 ne esige la

crioconservazione ad oltranza), degli embrioni con caratteristiche genetiche indesiderate (si

richiamino le considerazioni precedentemente svolte sul problema eugenetico);

la estrema problematicità etica di una simile procedura, che implica fin dall’inizio la decisione di

generare embrioni destinati a essere esclusi dal procedere nella loro vita, cioè la programmazione a

priori di una selezione fra di essi (simile procedimento, in altre parole, non consente di procreare un

figlio sicuramente sano, bensì opera attraverso la generazione di più embrioni fra i quali si programma

fin dall’inizio una selezione, che avviene a vita già iniziata);

l’apertura a tale tecnica (che comporta, peraltro, un numero significativo di falsi positivi e falsi

negativi) desumibile dalle sentenze nn. 96 e 229/2015 Corte cost. (anche in rapporto

all’interpretazione del divieto di selezione eugenetica degli embrioni, previsto dall’art. 13, co. 3b,

legge n. 40/2004);

la permanente rilevanza che, per sé, dovrebbe mantenere rispetto all’utilizzabilità di tale tecnica il già

citato divieto di ricerca clinica e di sperimentazione a danno di ciascun singolo embrione, di cui all’art.

13, co. 2, l. n. 40/2004;

- va infine constatata una scarsa informazione sulla rilevazione naturale della fertilità

femminile, circa la quale esiste, per esempio, un apposito “centro” presso la Facoltà di medicina

(il policlinico Gemelli) della Università Cattolica a Roma ([email protected]);

25.5

- il rapporto tra medico e paziente e le problematiche del fine-vita:

la permanente dignità del malato anche quando non possa più recuperare condizioni ordinarie di vita

e rappresenti, sul piano economico, un costo per la società;

la nozione di proporzionalità dell’intervento terapeutico;

Page 60: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

60

il ruolo della medicina palliativa, intesa al contrasto della sofferenza e a contrastare qualsiasi forma

di abbandono del malato grave;

l’inaccettabilità del c.d. accanimento terapeutico, ma anche delle prospettive eutanasiche (il rischio

connesso a queste ultime di pressioni, nei confronti di soggetti «deboli» che non possono recuperare

condizioni di piena efficienza, verso la rinuncia alle terapie);

si tratta, dunque, di riflettere sui limiti di utilizzazione, in determinate condizioni di malattia avanzata,

delle risorse tecniche oggi disponibili, e non di ipotizzare interventi eutanasici;

il ruolo del consenso nell’attività medica;

la necessità di considerare, in ogni caso, l’incidenza psicologica della condizione di malattia in merito

alle decisioni del malato (sovente, la prima risposta a una notizia sfavorevole inattesa circa la salute

è costituita dalla rimozione, con il rifiuto delle proposta terapeutica: per cui il paziente necessita di

vicinanza, anche da parte del medico, nell’elaborare il suo nuovo stato); del pari, il rifiuto delle terapie

può talvolta costituire un appello a non essere abbandonato, vale a dire una protesta contro

l’abbandono;

- commento della legge n. 219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di

disposizioni anticipate di trattamento): il riferimento della legge alle scelte concernenti i trattamenti

sanitari e non a forme di collaborazione del medico per la morte;

il ruolo fondamentale dell’informazione, specie con riguardo alle disposizioni anticipate di

trattamento, come altresì delle cure palliative e del sostegno nei confronti del malato;

si rimanda al testo di commento della nuova legge ricompreso fra i materiali didattici nella pagina

web docente in unicatt.it;

- analisi critica dell’ordinanza 14-2-2018 della Corte d’assise di Milano che solleva una questione

di legittimità costituzionale circa l’art. 580 c.p. (con riguardo all’aiuto materiale al suicidio),

argomentando in base alla legge n. 219/2017 (la quale tuttavia ha per oggetto esclusivo, come si

diceva, le decisioni sui trattamenti sanitari e non legittima affatto il diritto a un’altrui collaborazione

per la morte);

- il concorso di reati (artt. 71 ss. c.p.):

unità e pluralità delle condotte: la condotta resta unica, e dunque unico il reato, se i comportamenti

posti in essere si realizzano in un medesimo contesto spazio-temporale (se per esempio Tizio sottrae

più cose materiali da un supermercato caricandole progressivamente su un automezzo);

se tuttavia una medesima condotta provoca più lesioni del bene vita o del bene incolumità si ritiene

da sempre che vengano a configurarsi più reati;

concorso materiale (omogeneo o eterogeneo): più reati con più azioni;

concorso formale (omogeneo o eterogeneo). Più reati posti in essere con un’unica azione;

concorso materiale e reato continuato, ex art. 81, co. 2, c.p.: più reati fra loro collegati da un

“medesimo disegno criminoso”;

ambito di applicabilità del cumulo giuridico (pena per il reato in concreto più grave, aumentabile dal

giudice fino al triplo, purché non si superi il livello del cumulo materiale) e del cumulo materiale,

consistente nella sommatoria – salvi i limiti di cui subito diremo – delle pene (oggi applicabile al solo

concorso materiale non caratterizzato da continuazione); la riforma, in proposito, attuata con d.l. n.

99/1974 (v. anche infra, in materia di circostanze), che ha esteso la disciplina del cumulo giuridico

anche al reato continuato omogeneo e al concorso formale;

i limiti massimi di pena nel caso di concorso di reati ex artt. 71 ss. c.p.;

il concorso apparente di norme penali e il principio di specialità (art. 15 c.p.);

Page 61: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

61

l’interpretazione del concetto di “stessa materia” di cui all’art. 15 c.p.: norme riferibili – secondo

l’orientamento della dottrina – alla medesima situazione di fatto oppure – in un senso che ridurrebbe

moltissimo la riconoscibilità di un concorso solo apparente – alla tutela del medesimo bene

giuridico);

l’ulteriore criterio giurisprudenziale dell’assorbimento o consunzione, anche in rapporto al c.d.

antefatto o postfatto non punibile.

- le diverse modalità della confisca dei profitti provenienti da reato nel sistema penale:

a) la confisca diretta, definita all’art. 240, co. 1, c.p. come misura di sicurezza patrimoniale

e considerata in genere da tale norma come facoltativa (in rapporto al prodotto o al profitto del

reato), ma resa obbligatoria negli ultimi decenni rispetto a svariate tipologie criminose (p.es., art.

416-bis, co. 7); viene considerata confisca diretta anche quella del danaro che non consista nelle

medesime specie monetarie provenienti dal reato, sempre che sussista la prova della

derivazione da reato dell’entità di denaro sottoposto a confisca;

b) la confisca nella forma per equivalente, che non richiede il sussistere del nesso causale tra i

beni (equivalenti) confiscati e il reato commesso e da molti autori considerata una nuova forma di

vera e propria pena patrimoniale autonoma (i suoi possibili contenuti necessiterebbero peraltro

di una maggiore determinatezza); si vedano p. es. l’artt. 644, co. 6, c.p. e, in materia di delitti

contro la pubblica amministrazione e l’art. 322-ter c.p. (si consideri a quest’ultimo proposito la

problematica sovrapposizione tra questa disposizione e l’oggetto della riparazione pecuniaria ex

art. 322-quater c.p., introdotta nel 2015, dovuta dal p.u. o incaricato di p.s. in favore della p.a. di

appartenenza)

c) la confisca c.d. allargata di cui, ora, all’art. 240-bis c.p. (introdotto dall’art. 6 d.lgs. n.

21/2018, con cui è stato abrogato il corrispondente art. 12-sexies d.l. n. 306/1992 conv. con l. n.

356/1992), che non richiede la prova del nesso causale tra il profitto e il reato, facendo derivare

dalla mancata giustificazione della legittima provenienza, da parte di chi sia stato condannato per i

delitti gravi ivi previsti, dei beni di cui abbia la disponibilità in valore sproporzionato al reddito o

all’attività economica (secondo una sostanziale inversione dell’onere della prova): confisca essa pure

applicabile, ai sensi del secondo co., anche per equivalente; il riferimento all’attività economica è

importante onde evitare l’applicazione della norma nel caso in cui i beni abbiano provenienza

lecita, ma non risultino in conseguenza di (mera) evasione fiscale;

si consideri altresì, in proposito, la disposizione (ora prevista all’art. 578-bis c.p.p., introdotto dal

d.lgs. n. 21/2018), secondo cui «quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal

primo comma dell'articolo 240-bis c.p. e da altre disposizioni di legge, il giudice di appello o la corte

di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono

sull'impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità

dell'imputato;

si noti come, invece, fosse stato dichiarato incostituzionale l’art. 12-quinquies, co. 2, d.l. n. 306/1992,

cit., che qualificava come reato autonomo la mancata giustificazione dei beni di cui sopra da parte di

chi fosse sottoposto a procedimento penale per una serie di gravi reati: ciò poiché in tal caso alla

mancata giustificazione non conseguiva, come invece ex art. 12-sexies, una conseguenza (soltanto)

patrimoniale del reato per cui un dato soggetto veniva condannato, bensì il configurarsi di un reato

autonomo e, pertanto, di un’inversione dell’onere della prova, dalla quale veniva fatta dipendere (non

soltanto una mera conseguenza patrimoniale, bensì) una restrizione della libertà personale;

d) la confisca come misura di prevenzione (ma si discute sulla sua natura effettiva) prevista

Page 62: Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) il ... 2018 - diritto... · Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi) 22.2 - diritto privato (o civile) e diritto pubblico;

62

dall’art. 24 d.lgs. n. 159/2011 (codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), sul

presupposto del previo sequestro di cui al precedente art. 20, fondato sulla sproporzione (v. supra) o

su sufficienti indizi della provenienza illecita dei beni di cui si abbia la disponibilità: la confisca

consegue, anche in questo caso, alla mancata giustificazione della provenienza legittima di tali beni;

in sintesi, dunque, si può oggi addivenire, rispetto ai reati gravi richiamati dalla norme suddette, sia

alla confisca (in vari casi anche per equivalente) dei profitti provenienti dai medesimi, ove vi sia stata

condanna, sia, sempre in caso di condanna, alla confisca dei beni di cui il condannato abbia la

disponibilità in modo sproporzionato, nel caso in cui non sia in grado di giustificarne la provenienza

legittima, sia alla confisca degli stessi beni nell’ambito di un procedimento di prevenzione, sempre

nel caso in cui l’interessato non sia in grado di giustificarne la provenienza legittima.

- quanto detto impone un richiamo alle misure di prevenzione (e dunque, in particolare, al cit.

d.lgs. n. 159/2011: si segnalano gli artt. 1-6, 8, 15, 16, 18-20, 24, 25, 31-34, 67, 71), quali

provvedimenti che – diversamente dalle pene e, di regola, dalle misure di sicurezza – non

presuppongono la commissione di un reato;

il problema degli elementi di fatto che siano idonei a costituire un presupposto sufficientemente

determinato per attestare la pericolosità dei destinatari, evitando di sconfinare in giudizi di mero

sospetto o inerenti alla personalità; gli interrogativi correlati di costituzionalità;

le misure di prevenzione personali applicabili dall’autorità amministrativa di polizia (questore):

avviso orale, foglio di via obbligatorio;

…e dall’autorità giudiziaria (tribunale): sorveglianza speciale, divieto ed obbligo di soggiorno;

la distinzione fra misure di prevenzione di carattere personale e di carattere patrimoniale:

l’autonomia, introdotta nel 2009, tra le due categorie; il ruolo, a tale proposito, della legge n. 646/1982

(c.d. Rognoni - La Torre), con finalità di contrasto della criminalità di tipo mafioso;