Diritto DellUnione Europea

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3. I tre pilastri dell'Unione Europea Creati con il Trattato di Maastricht del 1992 , sono stati un modo di dividere le politiche dell'Unione Europea in tre aree fondamentali. Sono stati aboliti con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009 . A. Il primo riguardava le Comunità Europee CE ovvero un mercato comune europeo, l'unione economica e monetaria, una serie di altre competenze aggiunte nel tempo, oltre alla politica del carbone e dell'acciaio e quella atomica. B. Il secondo affrontava la Politica estera e di sicurezza comune PESC ossia la costruzione di una politica unica verso l'esterno. C. Il terzo, ovvero la Cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale GAI intendeva costruire uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia in cui vi sia collaborazione contro la criminalità a livello sovranazionale. Quadro normativo di riferimento attuale T.U.E. – Trattato sull’Unione Europea; T.F.U.E. – Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1° dicembre 2009), ha profondamente inciso sull’assetto politico ed istituzionale dell’ordinamento giuridico europeo. Il Trattato di Lisbona fa succedere l’Unione Europea alla Comunità Europea e porta ad una revisione del Trattato dell’Unione Europea e del Trattato CE; la denominazione di quest’ultimo è mutata in Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Il Trattato di Lisbona porta ad alcune modifiche, a volerne sottolineare le principali: o il terzo pilastro (GAI) viene definitivamente comunitarizzato; o la Carta dei Diritti di Nizza viene elevata a rango di trattato; o è prevista l’adesione alla CEDU dell’Unione in quanto tale; o il Parlamento avrà una maggiore incidenza sul processo decisionale, con ipotesi di codecisione e a maggioranza; o i parlamenti nazionali saranno più partecipi dell’azione dell’Unione PARTE PRIMA IL SISTEMA GIURIDICO DELL’UNIONE EUROPEA CAPITOLO I: LA STRUTTURA ISTITUZIONALE 1. LE ISTITUZIONI DELL’UNIONE Il Trattato di Lisbona del 2009 ha ridisegnato il quadro istituzionale dell’Unione Europea; nel nuovo assetto sono qualificate Istituzioni dell’Unione: 1

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Tesauro

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3. I tre pilastri dell'Unione Europea

Creati con il Trattato di Maastricht del 1992, sono stati un modo di dividere le politiche dell'Unione Europea in tre aree fondamentali. Sono stati aboliti con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009.

A. Il primo riguardava le Comunità Europee CE ovvero un mercato comune europeo, l'unione economica e monetaria, una serie di altre competenze aggiunte nel tempo, oltre alla politica del carbone e dell'acciaio e quella atomica.

B. Il secondo affrontava la Politica estera e di sicurezza comune PESC ossia la costruzione di una politica unica verso l'esterno.

C. Il terzo, ovvero la Cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale GAI intendeva costruire uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia in cui vi sia collaborazione contro la criminalità a livello sovranazionale.

Quadro normativo di riferimento attuale

T.U.E. – Trattato sull’Unione Europea;

T.F.U.E. – Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea

L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1° dicembre 2009), ha profondamente inciso sull’assetto politico ed istituzionale dell’ordinamento giuridico europeo.

Il Trattato di Lisbona fa succedere l’Unione Europea alla Comunità Europea e porta ad una revisione del Trattato dell’Unione Europea e del Trattato CE; la denominazione di quest’ultimo è mutata in Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.

Il Trattato di Lisbona porta ad alcune modifiche, a volerne sottolineare le principali:

o il terzo pilastro (GAI) viene definitivamente comunitarizzato;

o la Carta dei Diritti di Nizza viene elevata a rango di trattato;

o è prevista l’adesione alla CEDU dell’Unione in quanto tale;

o il Parlamento avrà una maggiore incidenza sul processo decisionale, con ipotesi di codecisione e a maggioranza;

o i parlamenti nazionali saranno più partecipi dell’azione dell’Unione

PARTE PRIMA

IL SISTEMA GIURIDICO DELL’UNIONE EUROPEA

CAPITOLO I: LA STRUTTURA ISTITUZIONALE 1. LE ISTITUZIONI DELL’UNIONE

Il Trattato di Lisbona del 2009 ha ridisegnato il quadro istituzionale dell’Unione Europea; nel nuovo assetto sono qualificate Istituzioni dell’Unione:

il Parlamento;

il Consiglio Europeo;

il Consiglio;

la Commissione;

la Corte di Giustizia;

la Corte dei Conti;

la BCE

In questa cornice sono state introdotte due nuove figure:

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o il Presidente del Consiglio Europeo;

o l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri.

2. IL PARLAMENTO EUROPEO

Il parlamento Europeo è composto dai rappresentati dei cittadini dell’Unione ( testo così modificato dal Lisbona).

Esso esercita congiuntamente al Consiglio la funzione legislative e quella di bilancio, nonché funzioni di controllo politiche e consultive ed elegge il Presidente della Commissione (Art. 14 TUE).

Originariamente Assemblea comune, poi Assemblea parlamentare europea, diviene Parlamento nel 1962 e poi in forza dell’Atto Unico del 1986.

Per molti anni fu composto da membri del Parlamento nazionale, da questi designati.

Prefigurata dai trattati istitutivi, l’elezione diretta fu decisa da un Atto del Consiglio del 1976 e realizzata con apposite leggi nazionali.

Le prime elezioni si sono svolte nel 1979.

Il numero dei membri nella legislatura 2009-2014 è di 736 membri.

Nella legislatura 2014-2019 non potrà essere superiore a 751.

Il Consiglio Europeo deliberando all’Unanimità su iniziativa e con l’approvazione del Parlamento europeo può modificare la composizione.

I Parlamentari hanno un mandato di cinque anni e sono divisi in gruppi politici e non in gruppi nazionali.

I Partiti politici, sono definiti a livello europeo (art. 10 TUE); le norme sul loro finanziamento sono stabilite dal Consiglio e dallo stesso Parlamento, attraverso la procedura legislativa ordinaria.

I Parlamentari si dividono in commissioni permanenti con competenza per materie.

Immunità e privilegi

I parlamentari non possono essere ricercati, detenuti o perseguiti per le loro opinioni o per i voti espressi nell’esercizio della loro funzione(immunità funzionale).

Per la durata del mandato godono sul territorio della nazione di origine delle stesse immunità di cui godono i Parlamentari nazionali.

Sul territorio degli altri Stati membri godono di immunità assoluta, esenti da provvedimenti di detenzione e da procedimenti giudiziari anche per atti compiuti al di fuori della loro funzione; questa immunità non opera in caso di

flagrante delitto. Al parlamento europeo è riconosciuta la facoltà di privare un parlamentare dell’immunità.

La procedura di voto.

Il Parlamento europeo delibera a maggioranza dei suffragi espressi.

Il quorum è raggiunto se sono presenti in aula un terzo dei membri; ciononostante, le delibere sono valide sempre a meno che non venga constatata la mancanza del numero legale.

In taluni casi è richiesta la maggioranza assoluta.

Maggioranza dei componenti e dei due terzi dei voti espressi: per approvazione della mozione di censura sull’operato della Commissione e per la constatazione del rischio evidente di violazione grave da parte di uno Stato

membro

Potere di controllo.

Tra Parlamento e commissione non c’è mai stato un rapporto di fiducia di tipo tradizionale quale può sussistere tra parlamento nazionale ed esecutivo.

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È vero però che nella prassi era stato introdotto il voto parlamentare al momento dell’entrata in funzione della Commissione.

Ora le nuove norme sulla nomina hanno superato tali prassi.

Il trattato di Lisbona ha introdotto significative novità.

Il Parlamento è chiamato a:

eleggere il Presidente della Commissione, proposto dal Consiglio Europeo; (art. 14 TUE);

esprimere un voto di approvazione del Presidente, dell’Alto Rappresentate per gli affari esteri e degli altri commissari collettivamente considerati i quali sono formalmente nominati solo successivamente dal Consiglio

Europeo.

Ricevere annualmente una relazione della Commissione sull’attività svolta da questa nell’anno;

Svolgere interrogazioni parlamentari alle quali la Commissione è tenuta a rispondere oralmente o per iscritto.

Ulteriori poteri del Parlamento sono:

Potere di censura sull’operato della Commissione, da approvare con la maggioranza dei 2/3 e la maggioranza dei membri; nel caso di approvazione della mozione la Commissione si dimette collettivamente e l’Alto

Rappresentate decade dalle funzioni che esercita nella Commissione;

Partecipa alla funzione normativa: partecipazione sempre più intensa al processo di formazione degli atti dell’Unione (artt. 289 e 294 TFUE) e di conclusione di accordi internazionali (Art. 218 TFUE). Questa

partecipazione si manifesta con modalità diverse a seconda dei casi e procedure previste.

Gode di un potere di pre-iniziativa legislativa può ex art. 225 TFUE chiedere alla Commissione di presentare proposte al Consiglio. La Commissione deve motivare l’eventuale rifiuto ad adempiere.

Adisce la Corte di Giustizia:

- per l’azione di annullamento :il Trattato di Nizza ha collocato il Parlamento Europeo sullo stesso piano della Commissione e del Consiglio dando ad esso la possibilità di adire la Corte di Giustizia per

l’azione di annullamento ex art. 263 TFUE

- per chiedere un parere sulla compatibilità di un accordo internazionale: ai sensi dell’art. 218 TFUE può essere richiesto tale parere; fatto che può avere un impatto notevole in caso di parere negativo

della Corte.

Potere di codecisione: il Trattato di Lisbona ha accresciuto il ruolo del parlamento estendendo la procedura di codecisione che ai sensi dell’art. 294 TFUE oggi è divenuta “procedura legislativa ordinaria”.

3. CONSIGLIO EUROPEO

Prima di trattare delle istituzioni in senso proprio, è opportuno considerare il Consiglio europeo, che non lo è – come si deduce dal silenzio dei trattati a riguardo – e non va confuso con il Consiglio tout court, che invece è una

istituzione comunitaria.

Il Consiglio europeo, invece, è nato parallelamente ma all’esterno della struttura istituzionale comunitaria, dalla prassi delle riunioni al vertice tra i capi di Stato e di governo degli Stati membri. Tale prassi trovò una prima

formalizzazione al vertice di Parigi nel 1974. L’esistenza del Consiglio europeo, inoltre, è stata sancita dall’Atto unico.

Si tratta, dunque, di una prassi che ha avuto il merito di dare al momento opportuno impulso nuovo ad alcuni sviluppi dell’integrazione e di costituire l’avallo politico indispensabile per intraprendere politiche nuove.

Il Tratto di Lisbona ha inserito il Consiglio europeo a pieno titolo tra le istituzioni dell’Unione. E’ composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri e dal suo presidente e dal Presidente della Commissione. La partecipazione del

Capo di Stato o del Governo dipende dalle norme nazionali. All’esigenza di raccordo con il Parlamento risponde la relazione del Presidente del Consiglio europeo al Parlamento dopo ciascuna riunione. Consiglio europeo si riunisce

due volte a semestre. Può deliberare a maggioranza qualificata o maggioranza semplice (per questioni procedurali e per adozione del suo regolamento interno). Novità rilevante è stabilità attribuita al Presidente, eletto dal Consiglio

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europeo a maggioranza qualificata per un periodo di due anni e mezzo, rinnovabile una volta e preclusivo di ogni mandato nazionale. Egli presiede e anima i lavori del Consiglio europeo, ne deve assicurare la preparazione e

continuità in collaborazione con presidente della Commissione. Si adopera per facilitare consenso e coesione in seno all’istituzione e presenta al Parlamento europeo relazione dopo ciascuna delle riunioni del Consiglio europeo.

Il Consiglio ha una funzione di indirizzo politico nel settore della politica estera e della sicurezza comune e nel settore della politica di sicurezza e di difesa comune. Ruolo anche di politica attiva: ad es quando decide sulle formazioni del Consiglio o sulla composizione del Parlamento europeo. Opera come organo di presidenza collegiale quando nomina il proprio Presidente e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. È inoltre garante

del rispetto dei principi fondamentali.

4. CONSIGLIO

Il Consiglio dell’Unione, già Consiglio dei Ministri, è composto dai rappresentanti di tutti gli Stati membri, scelti nell’ambito dei rispettivi governi, normalmente con il rango di ministri, in funzione della materia trattata.

Il Consiglio è un organo di Stati a composizione variabile e si riunisce in diverse formazioni (Es. agricoltura, ambiente, trasporti, ecc.). Il Consiglio “affari generali” assicura coerenza dei lavori delle varie formazioni e

rappresenta collegamento con Consiglio europeo, dovendo preparare i lavori di questo e confermandone pieno inserimento nel quadro istituzionale dell’Unione. Il Consiglio “affari esteri” elabora l’azione esterna dell’Unione secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo. La presidenza delle formazioni del Consiglio, tranne

quella “affari esteri”, è esercitata da gruppi predeterminati di tre Stati membri per un periodo di 18 mesi, secondo sistema di rotazione paritaria. Ciascuno dei tre stati esercita a turno la presidenza. Trattato di Lisbona introduce una programmazione articolata in 18 mesi, arco temporale + lungo rispetto a prima che rende possibile fissare obiettivi +

impegnativi.

In alcuni casi – espressamente previsti – i rappresentanti degli Stati membri si riuniscono e deliberano in quanto tali e non in quanto componenti del Consiglio. In queste ipotesi la deliberazione non è presa dall’istituzione comunitaria,

ma da un organo intergovernativo: è il caso, ad es., della nomina dei membri della Corte di giustizia.

Il Consiglio è assistito da un Segretariato generale, che ne rappresenta il supporto funzionale ed amministrativo. Tale organo ha una struttura articolata in varie direzioni generali e in un servizio giuridico.

Il COREPER (Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri) è composto dai rappresentanti diplomatici di tutti gli Stati membri accreditati presso l’Unione. È responsabile della preparazione del lavoro del Consiglio e della realizzazione dei compiti attribuiti dallo stesso. È organismo autonomo, con potere di adottare decisioni di procedura

nei casi previsti del regolamento interno. Coordina lavoro delle tante commissioni tecniche che preparano attività normativa del Consiglio e ne rappresenta il filtro politico. Trattato di Lisbona ha inoltre previsto istituzione di un

comitato permanente al fine di assicurare all’interno dell’Unione la promozione e il rafforzamento della cooperazione operativa in materia di sicurezza interna.

Al Consiglio è stato attribuito vasto potere normativo e di coordinamento, inoltre esercita, congiuntamente al Parlamento europeo, la funzione legislativa e di bilancio.

Il potere legislativo si manifesta con adozione di direttive e regolamenti, due principale espressioni dell’attività normativa.

Consiglio autorizza la Commissione a negoziare accordi internazionali, autorizza la firma e li conclude. I poteri del Consiglio rispondono al principio delle competenze di attribuzione; fa eccezione la competenza a norma dell’art. 352

TFUE che consente al Consiglio di adottare un atto normativo in materie non espressamente attribuite alla sfera di competenza dell’Unione, “ se un’azione dell’Unione appare necessaria, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai

trattati senza che questi abbiano previsto i poteri di azione”. Le deliberazioni del Consiglio sono prese a maggioranza qualificata. Maggioranza va calcolata con riferimento alla ponderazione dei voti per ciascun Stato membro. Fino al

2014 mantenuta la ponderazione prevista da regime antecedente in base al quale la soglia di validità delle delibere è di 255 voti favorevoli della maggioranza degli Stati membri quando adottate su proposta della Commissione; altri

casi è di 255 voti favorevoli di due terzi degli Stati membri con maggioranza qualificata che comprenda almeno il 62% della popolazione totale dell’Unione. A partire dal 1 novembre 2014 per maggioranza qualificata si intende almeno il

55% dei membri del Consiglio, con un minimo di quindici, che rappresentano numero di Stati membri che corrispondono almeno al 65% della popolazione dell’Unione. Cosi uguaglianza formale tra Stati, ognuno dei quali

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dispone di un voto, è coniugata con criterio della popolazione in modo che non prevalga maggioranza di soli piccoli Stati.

Regole cambiano quando non partecipino tutti gli Stati membri. Per maggioranza qualificata si intende almeno il 55% dei membri del Consiglio che tot. almeno il 65% della popolazione e la minoranza di blocco deve comprendere

almeno il numero minimo di membri del Consiglio che rappresentino oltre 35% della popolazione degli Stati membri partecipanti, + un altro membro.

Nel caso proposta non sia della Commissione o dell’Alto rappresentante, per maggioranza qualificata si intende almeno il 72% dei membri del Consiglio che totalizzano almeno il 65% della popolazione.

Per alcune deliberazioni è richiesta l’unanimità, astensione non ne impedisce l’adozione.

Essa è prevista ogni volta che Consiglio voglia discostarsi dalla posizione formalmente espressa dalla Commissione o quando sulla posizione del Consiglio stato voto negativo del Parlamento. Ipotesi in cui prevista unanimità

ulteriormente ridotte dal Trattato di Lisbona; riguardano ambito di Politica estera e di sicurezza comune o situazioni in cui il Consiglio è chiamato a deliberare in via generale o con limiti poco definiti ad es. :

provvedimenti “opportuni” per combattere discriminazioni

misure relative sicurezza o protezione sociale

talune azioni generali di politica ambientale

stipulazione di accordi internazionali nei settori in cui sul piano interno è prevista l’unanimità

5. COMMISSIONE

La Commissione è, al contrario del Consiglio, un organo di individui, nel senso che i suoi membri esercitano le loro funzioni in piena indipendenza nell’interesse generale della Comunità, e non accettano istruzioni da nessun governo.

Fino al 31 ottobre 2014, la Commissione sarà composta da un cittadino di ciascuno Stato membro, compreso il Presidente e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri. A decorrere dal 1 novembre 2014 il numero di membri potrebbe essere ridotto in modo da corrispondere soltanto ai due terzi del numero degli Stati membri. Il

mandato dei Commissari è rinnovabile ed è di 5 anni. La responsabilità di nomina del Presidente e dei membri della Commissione spetta al Consiglio europeo che:

propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di Presidente, proposta che deve essere approvata dal Parlamento con deliberazione a maggioranza dei membri che lo compongono

Consiglio europeo e Parlamento sono congiuntamente responsabili dell’intero processo

candidato eletto dal Parlamento europeo con delibera a maggioranza dei membri che lo compongono qualora candidato non ottenga maggioranza, il Consiglio europeo, con maggioranza qualificata, entro un

mese designa nuovo candidato

Consiglio procede poi all’adozione dell’elenco delle persone che intende nominare come commissari. Commissione nell’insieme sottoposta poi ad un voto di approvazione del Parlamento europeo.

Al Presidente è affidata l’organizzazione interna e il coordinamento dell’attività della Commissione. Il ruolo del Presidente ha assunto maggiore connotazione politica: definisce indirizzo politico della Commissione, ha potere

ampio nella strutturazione e ripartizione delle competenze ai Commissari; previa approvazione del collegio, nomina i vicepresidenti, ad eccezione dell’Alto rappresentante e può far rassegnare dimissioni ai membri della Commissione.

Ciascun commissario ha la responsabilità di un settore di attività e può adottare misure di gestione specifiche.

- La Commissione partecipa in modo sostanziale al processo di formazione delle norme; ha un autonomo potere di decisione in settori specificamente definiti dal Trattato e, qualora il Consiglio lo preveda, un potere delegato.

Il potere di proposta degli atti legislativi è esclusivo della Commissione, salvo che i trattati non dispongano diversamente. La proposta della Commissione (che può anche essere sollecitata dal Consiglio o dal Parlamento o da

cittadini unione in numero di almeno 1 milione) è il frutto di valutazioni tecniche, economiche e politiche. Progetto di proposta che viene esaminato dal servizio giuridico e da commissioni di esperti, anche esterni alla struttura; vengono

poi sentiti gli organismi di categoria e all’occorrenza le parti sociali; infine sottoposto all’approvazione collegiale.

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- Alla Commissione spetta l’esecuzione del Trattato e degli atti derivati, sotto profili del controllo sull’osservanza del diritto dell’Unione e dell’esecuzione in senso proprio.

Il potere di controllo vigila sull’applicazione dei trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei trattati e sull’applicazione del diritto dell’Unione europea sotto controllo della Corte di giustizia. È generale e si estrinseca

soprattutto nella verifica dell’osservanza degli obblighi da parte degli Stati membri.

A tal fine previsto meccanismo di contestazione delle infrazioni che Commissione attiva nei confronti dello Stato inadempiente.

Sotto profilo dell’esecuzione la Commissione esercita funzioni di coordinamento, esecuzione e di gestione alle condizioni stabilite dai trattati. La Commissione ha poi potere generale, nei limiti e alle condizioni fissate dal

Consiglio, di raccogliere tutte le informazioni e di procedere a tutte le verifiche necessarie per l’esecuzione dei compiti.

La Commissione infine ha un autonomo potere di decisione in alcune ipotesi tassativamente specificate: ad es. esenzioni individuali in materia di concorrenza, imprese pubbliche, aiuti di Stato e competenze relative al controllo

della Commissione sulla disciplina delle imprese pubbliche e delle imprese cui gli Stati abbiano attribuito diritti speciali o esclusivi.

6. L’ALTO RAPPRESENTANTE DELL’UNIONE PER GLI AFFARI ESTERI E LA POLITICA DI SICUREZZA

Nuova figura istituzionale introdotta dal Trattato di Lisbona. La nomina spetta al Consiglio europeo con delibera a maggioranza qualificata e con accordo del Presidente della Commissione. A differenza degli altri membri della

Commissione per lui non vale il divieto di sollecitare o di sollevare istruzioni da altre istruzioni agendo egli come mandatario del Consiglio. In caso di mozioni di censura le dimissioni investiranno soltanto la sua carica in

Commissione e non anche le funzione svolte in Consiglio. Soltanto Consiglio europeo può porre fine al suo mandato.

ha il compito di guidare la politica estera e di sicurezza comune, di contribuire con sue proposte a tale politica e di attuarla

assicura attuazione delle decisioni adottate dal Consiglio europeo e dal Consiglio

riveste un doppio ruolo, da un lato presiede il Consiglio nella formazione “affari esteri” e dall’altro fa parte della Commissione essendo uno dei vicepresidenti; in questo ruolo vigila sull’azione esterna, ha

responsabilità dello svolgimento dei compiti attribuiti alla Commissione nel settore relazioni esterne e del coordinamento con altri aspetti dell’azione esterna dell’Unione.

Nell’esercizio delle sue funzioni si avvale del servizio europeo per l’azione esterna.

7. LA CORTE DI GIUSTIZIA ( E IL TRIBUNALE) DELL’UNIONE EUROPEA

La Corte di Giustizia è l’istituzione a cui è attribuito il controllo giurisdizionale:

Sulla legittimità degli atti e dei comportamenti delle istituzioni comunitarie rispetto ai trattati;

Sull’interpretazione del diritto comunitario; e la compatibilità delle norme, degli atti amministrativi o delle prassi nazionali con i Trattati e gli atti di diritto comunitario derivato.

Comprende la Corte di giustizia, il Tribunale e i tribunali specializzati.

E’ composta da un giudice per Stato membro ed è assistita da avvocati generali (per ora 8). Ha sede a Lussemburgo ed è organo di individui.

Giudici e avvocati sono nominati di comune accordo dagli Stati membri per la durata di 6 anni, tra personalità che offrano tutte le garanzie dell’indipendenza e che riuniscano le condizioni per l’esercizio delle più alte funzioni

giurisdizionali, o che siano giuristi di notoria competenza. Il mandato può essere rinnovato. Trattato di Lisbona ha introdotto obbligo della previa consultazione di un comitato composto da 7 personalità tra ex membri della Corte di

giustizia e del Tribunale.

Il Presidente della Corte viene eletto tra i giudici per 3 anni. Egli dirige l’attività della Corte, presiede le udienze plenarie, designa il giudice relatore per ogni causa ed esercita tutte le competenze che il regolamento di procedura

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gli attribuisce. Di rilievo è la competenza in materia di provvedimenti cautelari e di urgenza, nonché di sospensione dell’esecuzione delle sentenze.

L’avvocato generale ha il compito di presentare pubblicamente conclusioni scritte e motivate nelle cause trattate dinanzi alla Corte. Tali conclusioni non riguardano tutte le cause, ma solo quelle che lo richiedono rispetto allo

Statuto della Corte. La Corte potrà escludere le conclusioni dell’avvocato generale, quando la causa non presenti nuovi punti di diritto. Il ruolo dell’avvocato generale è di amicus curiae, non di difensore di una parte ma del diritto. La Corte può sedere sia nella sua composizione plenaria, il c.d. gran plenum, ovvero nella composizione di piccolo plenum, denominato “grande sezione”; sia in sezioni di 5 o di 3 giudici. Per una maggiore flessibilità nel sistema, è

consentita la rimessione alle sezioni in ogni caso (salvo che la grande sezione non sia espressamente richiesta).

I casi di ricorso alla plenaria sono limitati alle cause promosse:

contro il Mediatore per mancanza delle condizioni necessarie o colpa grave;

contro i membri della Commissione per violazione degli obblighi connessi all’esercizio delle loro funzioni;

contro i membri della Corte dei Conti per mancanza dei requisiti previsti o violazione degli obblighi;

per l’importanza eccezionale del giudizio.

La Corte può deliberare validamente solo in numero dispari.

La Corte di giustizia nomina per un periodo di 6 anni il Cancelliere che si occupa della tenuta delle cause, della ricezione degli atti e dei documenti ad esse relativi e provvede all’amministrazione e alla gestione finanziaria della

Corte, sotto la responsabilità del Presidente.

TRIBUNALE DI PRIMO GRADO DELLE COMUNITA’ EUROPEE: L’Atto unico ha previsto che il Consiglio potesse con decisione unanime affiancare alla Corte un altro organo giurisdizionale. Tale previsione, ha trovato attuazione in una

decisione del 1988 con cui è stato istituito il Tribunale di primo grado delle Comunità europee. Le modifiche apportate del trattato di Maastricht hanno inciso sulla collocazione del nuovo organo nell’ambito del sistema

istituzionale comunitario.

Infatti, il Tribunale è divenuto parte integrante dell’apparato giurisdizionale comunitario. Il Trattato di Nizza e poi quello di Lisbona hanno completato questo percorso riconoscendo il ruolo di giurisdizione autonoma attribuito al

Tribunale.

Esso è composto da almeno un giudice per Stato membro, con requisiti analoghi a quelli dei membri della Corte e con le stesse modalità. Anch’esso ha sede a Lussemburgo.

Diversamente dalla Corte, il Tribunale non viene sistematicamente assistito dall’avvocato generale, il quale viene nominato solo quando il Tribunale siede in plenaria o allorché lo esigono le difficoltà in diritto ovvero la complessità

in fatto della causa.

La competenza del tribunale, limitata in un primo momento al contenzioso del personale e ai ricorsi individuali in materia di concorrenza, è stata estesa a tutti i ricorsi diretti.

Lo Statuto ha alterato il riparto di competenze tra Corte di giustizia e Tribunale:

Alla prima:

ricorsi di annullamento e in carenza presentati dalle istituzioni o dagli Stati riguardanti atti del Parlamento e del Consiglio

atti della Commissione in tema di cooperazione rafforzata

Al Tribunale:

tutti i ricorsi avverso gli atti della Commissione

questioni pregiudiziali, sia pure in materie specifiche indicate nello Statuto in questi casi il Tribunale potrà anche decidere di rinviare la decisione alla Corte, qualora ravvisi la necessità di una decisione di principio

tale da poter compromettere l’unità o la coerenza del diritto comunitario.

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È inoltre, previsto che la sentenza del tribunale possa essere sottoposta a riesame dinanzi la Corte di Giustizia, solo eccezionalmente e se sussistano gravi rischi che l’unità o la coerenza del diritto comunitario siano compromesse.

L’iniziativa è affidata all’avvocato generale.

Nell’ambito dei ricorsi diretti, le sentenze del tribunale possono essere impugnate dinanzi alla Corte solo per motivi di diritto. L’impugnazione spetta, oltre che alla parte soccombente, agli Stati membri e alle istituzioni (anche quando

non abbiano partecipato al giudizio di primo grado).

Il Consiglio ha introdotto una modifica significativa, sancendo la possibilità che il Tribunale decida anche con giudice unico. La sezione dinanzi alla quale la causa pende può all’unanimità assegnarla ad un giudice unico, salvo

opposizione di uno Stato membro o di un’istituzione comunitaria. È esclusa l’assegnazione ad un giudice unico quando la causa solleva questioni di legittimità di un atto a portata generale ovvero si verta in materia di

concorrenza, aiuti, organizzazione comune dei mercati.

Trattato di Nizza attribuito al Consiglio la facoltà di istituire camere giurisdizionali, chiamata tribunali specializzati dal Trattato di Lisbona, competenti a conoscere in primo grado talune categorie di ricorsi in materie specifiche.

8. BANCA CENTRALE EUROPEA

Il Trattato di Lisbona ha inserito tra le istituzioni a pieno titolo la Banca centrale europea(BCE).

Il Sistema europeo delle Banche centrali è composto dalla BCE e dalla banche centrali degli Stati membri. La BCE, con sede a Francoforte, ha un comitato esecutivo, composto da un Presidente, un vicepresidente e quattro membri,

nominati per 8 anni a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo, su raccomandazione del Consiglio e previa consultazione del Parlamento e del consiglio direttivo della BCE (comprende membri del comitato esecutivo ed i governatori delle banche centrali degli Stati membri). La banca centrale ha personalità giuridica ed ha il diritto

esclusivo di autorizzare l’emissione dell’euro. Nell’esercizio delle sue funzioni e nella gestione delle sue finanze gode di indipendenza. Nei settori di sua attribuzione è consultata su ogni progetto di atto dell’Unione e su ognuno a livello

nazionale. È tenuta a trasmettere a Parlamento, Consiglio e Commissione un rapporto annuale.

9. CORTE DEI CONTI

Istituita nel 1975, la Corte dei conti è ora compresa nel novero delle istituzioni.

Ha sede a Lussemburgo, è organo di individui ed è composta da un cittadino per Stato membro, designati dai rispettivi governi. I membri designati sono nominati dal Consiglio con deliberazione a maggioranza qualificata, previa

consultazione del Parlamento. I membri della Corte restano in carica 6 anni e il loro mandato è rinnovabile.

La Corte dei conti:

Assiste l’autorità di bilancio;

Assicura il controllo sulla gestione finanziaria dell’Unione: a tal fine esamina tutte le entrate e le spese dell’Unione e degli organismi da questa creati, tranne espressa esclusione.

L’affidabilità dei conti e la legittimità e la regolarità delle relative operazioni è attestata in una dichiarazione presentata al Consiglio ed al Parlamento. Alla chiusura dell’esercizio, la Corte dei conti presenta la relazione annuale.

Essa può istituire al suo interno delle sezioni competenti per specifiche categorie di relazioni o di pareri. Inoltre, è stato previsto un maggiore raccordo con le corrispondenti istituzione nazionali di controllo.

La Corte dei conti è legittimata ad agire dinanzi alla Corte di giustizia limitatamente alla difesa delle proprie prerogative. I suoi atti, in quanto non vincolanti, non sono impugnabili.

10. ALTRI ORGANI

1) Il Comitato economico e sociale (CES), organo consultivo di individui dell’Unione, composto dai rappresentanti di diverse categorie della vita economica e sociale (max 350). Trattato di Lisbona ha ampliato la composizione,

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includendovi i rappresentanti delle organizzazioni dei datori di lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori rapp della società civile. I membri sono nominati per 5 anni del Consiglio su proposte presentate da Stati membri previa

consultazione della Commissione ed eventualmente delle diverse organizzazioni rappresentative.

2) Il Comitato delle regioni, istituito dal Trattato di Maastricht è un organo consultivo di individui (max 350) i cui membri sono nominati dal Consiglio, su proposta degli Stati membri, per 5 anni rinnovabile. Essi sono indipendenti

dagli Stati membri ed agiscono nell’interesse generale della Comunità, ma nello stesso tempo devono essere titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una collettività regionale o locale.

Il Comitato delle regioni deve essere consultato nei casi previsti dal Trattato o quando il Consiglio, la Commissione o il Parlamento lo ritengano opportuno. Può anche formulare pareri di propria iniziativa (in materie quali la sanità, la

cultura, ecc.).

Tra novità introdotte dal Trattato di Lisbona vi è riconoscimento del potere di ricorso alla Corte di giustizia in particolare per denunciare la violazione del principio di sussidiarietà, qualora tale violazione sia dovuta ad atti

legislativi sui quali è richiesta la sua consultazione.

3) La Banca europea per gli investimenti è inserita da sempre nello scenario istituzionale comunitario, anche se non è mai stata compresa tra le istituzioni.

La Banca, dotata di personalità giuridica, opera sui mercati finanziari come un istituto di credito, anche se non ha fini di lucro e si muove nell’ottica dello sviluppo equilibrato del mercato comune. Essa facilita la realizzazione dei

programmi di investimento congiuntamente agli altri meccanismi finanziari dell’Unione.

4) Il Trattato di Maastricht ha introdotto la figura del Mediatore europeo, il cui ruolo è quello di difendere gli interessi dei cittadini nei confronti dell’autorità, la cui lesione non sarebbe traducibile in azioni giudiziarie.

Il Mediatore europeo, nominato dal Parlamento per la durata della legislatura, con mandato rinnovabile, è organo di individui ed esercita le sue funzioni in completa indipendenza. Egli riceve le denunce di qualsiasi cittadino

dell’Unione, o di qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia sede in uno Stato membro, relativamente ai casi di cattiva amministrazione delle istituzioni comunitarie, fatta eccezione per la Corte di giustizia e il tribunale

nell’esercizio della funzione giurisdizionale.

Sulla base di tale denuncia o anche di propria iniziativa, il Mediatore svolge le indagini che ritiene utili e, in caso di conclusione positiva, ne investe l’autorità interessata. Quest’ultima gli deve comunicare il proprio punto di vista

entro 3 mesi. All’esito della procedura il Mediatore trasmette una relazione al Parlamento europeo e all’istituzione interessata.

5) Vi sono, inoltre, alcune Agenzie, che hanno competenze per lo più tecniche e di supporto informativo per gli Stati membri e le istituzioni comunitarie. Rispondono ad una logica di decentralizzazione. Dipendono generalmente dalla

Commissione. Loro obiettivi possono essere molteplici.

6) Nel settore della cooperazione giudiziaria e di polizia vi è l’Eurojust ossia Unità europea di cooperazione giudiziaria. Competenze in materia di lotta alla criminalità organizzata. Agevola cooperazione con la Rete giudiziaria

europea nell’esecuzione delle rogatorie e delle domande di estradizione.

7) Europol compito di sostenere e potenziare l’azione delle autorità di polizia e di altri servizi incaricati dell’applicazione della legge degli Stati membri e reciproca collaborazione nella prevenzione e lotta contro

criminalità grave, terrorismo e forme di criminalità che ledono un interesse comune.

11. RUOLO DELLE ISTITUZIONI

A) Nel processo di formazione delle norme.

Il Trattato di Lisbona ha introdotto novità sostanziali quanto all’iter di procedura di formazione degli atti.

Infatti, a mente degli artt. 14 e 16 TUE la funzione legislativa è esercitata congiuntamente dal Consiglio e dal Parlamento.

Tale competenza può essere esercitata attraverso la procedura ordinaria ovvero attraverso procedure legislative speciali.

L’art. 48, n. 7 , 2° c. TUE (Quando il trattato sul funzionamento dell'Unione europea prevede che il Consiglio adotti atti legislativi secondo una procedura legislativa speciale, il Consiglio europeo può adottare una decisione che

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consenta l'adozione di tali atti secondo la procedura legislativa ordinaria) prevede una sorta di passerella tra la procedure speciali e quella ordinaria.

È previsto che il Consiglio Europeo, all’unanimità e previa approvazione del Parlamento europeo, adotti una delibera con la quale autorizzi la procedura ordinaria per la adozione di atti legislativi per i quali è prevista la procedura

speciale.

In questo caso è necessario che nessun Parlamento nazionale al quale la proposta va notificata si opponga.

Sono previste passerelle anche i relazione ad altre determinate materie, nonché nell’ambito delle cooperazioni rafforzate.

Le competenze attribuite dal Trattato alle singole Istituzioni fa risaltare con chiarezza che la funzione normativa è esercitata nella sostanza dal Consiglio, ma con la partecipazione sempre più significativa del Parlamento, il cui

apporto si è andato progressivamente accrescendo.

Un insieme di atti normativi che investono non solo la sfera giuridica degli Stati ma anche direttamente quella dei singoli, non può essere lasciato alla sola responsabilità di un Organo (il Consiglio) che è sola espressione degli

esecutivi dei paesi membri.

Si impone quindi che il Parlamento, investito della rappresentanza dei cittadini con il suffragio universale, e la Commissione, organo di mediazione e di filtro tecnico delle istanze politiche, assumano responsabilità forti anche

relativamente alle scelte normative.

Tutto ciò non esclude che la responsabilità principale per il conseguimento degli obiettivi che sono fissati con Trattati, e, quindi, di diritto internazionale, ricada ancora sugli Stati e, dunque, sul Consiglio.

Né va dimenticato che i membri del Consiglio, in quanto espressione dei rispettivi Governi nazionali, godono di una legittimazione originaria e diretta responsabilità nei confronti dei rispettivi Parlamenti.

a) La procedura legislativa ordinaria

È disciplinata dall’art. 294 TFUE.

È piuttosto complessa ed ha l’obiettivo di accentuare il dialogo tra le Istituzioni chiamate ad intervenire.

A. La Commissione presenta una proposta al Parlamento ed al Consiglio. (in casi previsti l’iniziativa può avere luogo attraverso un gruppo di Stati membri o del Parlamento Europeo);

B. Sulla proposta il Parlamento adotta la sua posizione che viene trasmessa al Consiglio.

C. Se il Consiglio approva la posizione del Parlamento, l’atto è adottato nella formulazione del Parlamento;

D. Se il Consiglio NON approva, esprime la sua posizione:

a. In prima lettura che comunica al Parlamento il quale deve essere informato dei motivi che sostengono tale posizione;

b. Inizia la seconda lettura : il Parlamento ha tre mesi di tempo per approvare la posizione del Consiglio, in tale caso l’atto si considera adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione

del Consiglio. Lo stesso dicasi se il Parlamento non si esprime nei tre mesi successivi.

Quadro cambia se:

E. Il Parlamento a maggioranza dei suoi membri dichiara:

a. di volere respingere la posizione del Consiglio, l’atto si considera non adottato

b. propone emendamenti, il Consiglio entro tre mesi può accoglierli tutti e l’atto si considera adottato nella formulazione corretta dagli emendamenti;

F. Nell’ipotesi in cui il Consiglio non approvi l’atto in questione viene attivato il Comitato di conciliazione (art. 294 TFUE) composto da un numero pari di membri delle due istituzioni, due ipotesi:

a. il Comitato di conciliazione riesce in 6 settimane a definire un progetto comune

b. se entro il termine non è stato approvato un progetto comune, l’atto proposto si considera definitivamente non adottato

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Qualora il Comitato approvi un progetto comune inizia la

a. Terza lettura, il progetto dovrà essere approvato definitivamente nelle 6 settimane successive.

La procedura legislativa ordinaria è stata ampiamente estesa dal Trattato di Lisbona.(v. pag. 69/70 per ipotesi)

b) Le procedure legislative speciali.

Art. 289 TFUE “Nei casi specifici previsti dai trattati, l'adozione di un regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del Parlamento europeo con la partecipazione del Consiglio o da parte di quest'ultimo con la partecipazione

del Parlamento europeo costituisce una procedura legislativa speciale “ .

Le modalità di partecipazione delle due istituzioni sono molteplici e di conseguenza sono numerose le procedure speciali contemplate dai trattati.

Più frequenti sono i casi in cui la delibera del Consiglio deve essere preceduta dalla consultazione del Parlamento, consultazione che non è vincolante ma è obbligatoria.

La consultazione previa del Parlamento assume il carattere di elemento sostanziale della validità dell’atto, che sarà viziato da nullità quando se ne riscontri l’omissione.

La consultazione rappresenta lo strumento di effettiva partecipazione del Parlamento al processo legislativo dell’Unione.

Il Parlamento deve avere espresso effettivamente la propria posizione non essendo sufficiente una semplice richiesta di parere da parte del Consiglio.

Ciò significa che quando il Trattato prevede la previa consultazione del Parlamento, il Consiglio non può adottare un atto che non rifletta esattamente la proposta della Commissione così come esaminata dal Parlamento.

La procedura risulta rispettata solo se il testo definitivo approvato dal Consiglio sia esattamente quello portato dalla Commissione al Parlamento per il previo parere.

c) La formazione degli atti nel settore della politica estera e di sicurezza comune

Per quanto riguarda gli atti di politica estera o di sicurezza comune il Trattato di Lisbona introduce significative novità sotto il profilo della formazione di alcuni di essi, in particolare delle decisioni.

È evidente la riduzione della funzione del Parlamento ad un ruolo meramente consultivo (art. 36 TUE) e la perdita del monopolio della Commissione per l’esercizio dell’iniziativa legislativa.

Infatti secondo l’art. 30 TUE “Ogni Stato membro, l'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, o l'alto rappresentante con l'appoggio della Commissione, possono sottoporre al Consiglio questioni relative alla politica estera e di sicurezza comune e possono presentare rispettivamente iniziative o proposte al

Consiglio.”

L’art. 31 impone una regola dell’unanimità per la adozione di qualunque tipo di decisione, con alcuni correttivi tesi a attenuare la rigidità di tale previsione.

Fra questi correttivi, quello per il quale la astensione non inficia la validità del voto, e l’introduzione della astensione costruttiva consistente nella possibilità per gli Stati membri di una dichiarazione che motivi il proprio non voto.

La regola dell’unanimità viene meno per gli atti di mera esecuzione o per quelli discendenti da atti adottati all’unanimità.

Quindi in base al secondo paragrafo dell’art. 31 TUE il Consiglio può deliberare su questi atti a maggioranza qualificata secondo il metodo del voto ponderato.

Segue: B) Nell’approvazione del Bilancio.

L’Unione Europea era in origine finanziata con contributi degli Stati membri.

L’art. 311, c.2° TFUE sancisce che il bilancio dell’Unione è finanziato integralmente con risorse proprie:

a. Prelievi, premi, importi supplementari o compensativi, dazi della tariffa doganale comune e altri dazi fissati sugli scambi con i paesi terzi;

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b. Una aliquota sull’imponibile IVA pari alla percentuale del PNL dello 0,30%;

c. Un’aliquota sul PNL da determinarsi anno per anno

d. L’importo totale delle risorse proprie non può comunque superare l’1,24% del totale del PNL degli Stati membri.

Le spese devono essere contenute entro i limiti delle risorse proprie e sono programmate su base pluriennale attraverso un quadro finanziario adottato dal Consiglio all’unanimità previa approvazione del Parlamento.

La Procedura di approvazione del Bilancio: È disciplinata dall’art. 314 TFUE.

Il Trattato di Lisbona ha statuito che il Parlamento Europeo assuma relativamente alla approvazione del bilancio, una posizione equiparata a quella del Consiglio.

In particolare, il Parlamento ed il Consiglio ricevono dalla Commissione una proposta contenente il progetto di bilancio entro il 1° settembre di ogni anno.

Il Consiglio adotta la sua posizione e la comunica in prima lettura al Parlamento che entro 42 giorni può approvare la posizione oppure restare tacito, in entrambe le ipotesi il bilancio è adottato.

Il Parlamento può, invece, proporre emendamenti con la maggioranza dei membri.

In tale ipotesi inizia la fase di conciliazione il Presidente del Parlamento, d’intesa con il Presidente del Consiglio, convoca il comitato di conciliazione, il quale è chiamato a riunirsi solo se entro 10 giorni il Consiglio non comunica di

approvare tutti gli emendamenti proposti dal Parlamento.

In caso negativo il Comitato si riunisce e ha il compito di giungere ad un accordo su un progetto comune.

Se entro 21 giorni tale accordo non si raggiunge, la Commissione deve presentare un nuovo progetto di bilancio.

Se l’accordo è raggiunto, Parlamento e Consiglio dispongono di 14 giorni per approvarlo.

Il bilancio si considera definitivamente approvato quando:

A. entrambe le istituzioni approvano il progetto comune;

B. il Parlamento approvato il progetto comune respinto dal Consiglio entro 14 giorni, deliberi, a maggioranza qualificata dei tre quinti dei membri che lo compongono, di confermare tutti gli emendamenti presentati.

Quando la procedura è stata espletata il Presidente del Parlamento constata che il bilancio è definitivamente adottato.

L’esecuzione del bilancio è curata dalla Commissione in cooperazione con Stati membri.

Segue C) Nella stipulazione di accordi internazionali.

L’Unione ex art. 47 del TUE ha la “capacità giuridica” può, dunque, stipulare accordi internazionali.

Il Trattato attribuisce espressamente all’Unione il potere di stipulare accordi tariffari e commerciali.

In una prima fase, in forza del principio di attribuzione delle competenze, si riteneva che in settori diversi da quelli espressamente previsti dai Trattati l’allora Comunità dovesse lasciare il campo agli Stati membri.

La prassi e la giurisprudenza hanno adottato una prospettiva più ampia riassunta nella formula del parallelismo tra competenze interne e competenza esterna, nel senso che la seconda si estende sino ai limiti di esercizio delle prime.

La premessa di questo orientamento è che l’art. 47 TUE comporta la possibilità di intrattenere rapporti contrattuali con i Paesi terzi nell’insieme dei settori disciplinati dai Trattati.

La portata della competenza è stata inoltre precisata nel senso che essa è esclusiva in tema di politica commerciale.

Tuttavia è il parallelismo delle competenze che funge da parametro nella verifica dell’estensione delle competenze, nel senso che va definita l’ampiezza della competenza esclusiva dell’Unione rispetto a quella concorrente condivisa

con gli Stati membri e a quella esclusiva che gli stessi si sono comunque riservati.

In definitiva i Trattati hanno consolidato i principi già enucleati dalla giurisprudenza della Corte e della conseguente prassi delle Istituzioni ribadendo l’ambito delle competenze dell’Unione e degli Stati membri, suddivise in esclusive,

concorrenti, riservate.

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Sulla stipulazione degli accordi internazionali il Parlamento è chiamato a formulare semplicemente un parere.

In casi di urgenza il Consiglio può fissare un termine per la formulazione di tale parere, decorso il quale può comunque deliberare.

È previsto che il Parlamento Europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare alla Corte di Giustizia un parere circa la compatibilità di un accordo con i Trattati.

CAPITOLO II: LE NORME

1. LE NORME CONVENZIONALI

Norme primarie del sistema giuridico dell’Unione sono le norme convenzionali contenute nei Trattati Istitutivi delle Comunità e negli accordi che successivamente sono stati stipulati per modificare o integrare tali Trattati. Norme

primarie il Trattato sull’Unione europea ed il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

Sullo stesso piano di norme primarie vanno considerati gli Atti del Consiglio che abbisognano di procedure costituzionali recettizie (ratifica).

Queste norme primarie, congiuntamente ai principi generali di diritto internazionale di fonte consuetudinaria sono state riferite alla nozione di Costituzione della Comunità Europea.

Quale che sia l’espressione usata tali norme regolano in via primaria la vita di relazione all’interno dell’Unione creando situazioni giuridiche soggettive in capo agli Stati membri, alle Istituzioni europee, ai singoli.

Le stesse norme primarie attribuiscono portata normativa agli atti delle istituzioni (ex 249, oggi 288 TUE) che, ponendosi al secondo livello, formano il diritto europeo derivato.

Principali normative convenzionali che si sono susseguite nel tempo sono:

A. CECA:Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (1952) : Obiettivo: creare tra i paesi membri un'interdipendenza nel settore del carbone e dell'acciaio

B. Trattati di Roma - trattati CEE e EURATOM (1958) Obiettivo: istituire la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea dell'energia atomica (Euratom). Principali novità: estensione dell'integrazione europea alla cooperazione economica generale

C. Trattato di fusione - trattato di Bruxelles (1967) Principali novità: creazione di un'unica Commissione e di un unico Consiglio per le tre Comunità europee (CEE, Euratom, CECA). È stato abrogato dal trattato di Amsterdam.

D. Atto unico europeo (1986) obiettivo accelerare il processo decisionale in vista della realizzazione del mercato unico.

E. Trattato sull'Unione europea - trattato di Maastricht (1993) Obiettivo: preparare la creazione dell'Unione monetaria europea e gettare le basi per un'unione politica (cittadinanza, politica estera e di sicurezza comune). Principali novità istituzione dell'Unione europea e introduzione della procedura di codecisione, che conferisce al Parlamento maggiori poteri nel processo decisionale. Nuove forme di cooperazione tra i governi dell'UE, ad esempio in materia di giustizia e affari interni.

F. Trattato di Amsterdam (1999) Principali novità: modifica, rinumerazione e consolidamento dei trattati UE e CE. Processo decisionale più trasparente (più ampio ricorso alla procedura di codecisione).

G. Trattato di Nizza (2003) Principali novità: metodi per modificare la composizione della Commissione e ridefinizione del sistema di voto in seno al Consiglio.

H. Trattato di Lisbona (2009) Principali novità: maggiori poteri per il Parlamento europeo, modifica delle procedure di voto del Consiglio, iniziativa dei cittadini, un presidente permanente del Consiglio europeo, l'istituzione di un alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e di un servizio diplomatico dell'UE.

Ne deriva che i criteri ermeneutici ed il regime giuridico sono quelli usati per i normali accordi internazionali.

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Tuttavia i Trattati dell’Unione rivelano caratteristiche specifiche ed ulteriori rispetto al genus cui appartengono:

In primo luogo: contengono la definizione di un complesso istituzionale destinato ad esercitare le competenze attribuite all’ente;

In secondo luogo:pur definendo l’Unione quale organismo sovranazionale a finalità non universale ma con competenza di attribuzione, l’ampiezza e l’incisività delle competenze, cosi come le modalità e i mezzi attribuiti per il loro esercizio, vanno senza dubbio ad di là del modello tradizionale di organizzazione

internazionale. Invero i Trattati contenevano sin dall’origine un potenziale di sviluppo verso un complesso integrato di Stati capaci di realizzare scopi ambiziosi. Tali scopi si sono consolidati con l’Atto unico del 1986 e

con il Trattato di Maastricht con la prefigurazione, insieme con il mercato unico e l’unione economica e monetaria anche di un’Unione Europea.

In terzo luogo: le norme primarie convenzionali e quelle derivate hanno forza ed incidenza diretta sulla situazione giuridica soggettiva, oltre che della stessa Unione e degli Stati membri anche dei singoli.

In quarto luogo: hanno dotato l’Unione di un meccanismo di controllo giurisdizionale imperniato sulla Corte di Giustizia che ha competenza non solo sulla legittimità dell’esercizio delle competenze attribuite, ma anche

sull’armonia del sistema giuridico complessivo composto da norme internazionali, norme dell’Unione e norme nazionali.

Tutto ciò comporta che le norme dell’Unione vanno interpretate teleologicamente nel senso più favorevole al perseguimento dei processi di integrazione.

La lettura deve cioè ispirarsi alla reale volontà sottesa alle norme ed allo scopo da queste perseguito.

La sfera di applicazione del diritto dell’Unione coincide con quella dell’insieme dei diritti nazionali.

Va precisato che l’art. 355 TFUE non esclude che le norme possano produrre effetti anche fuori del territorio dell’Unione.

2. REVISIONE DEI TRATTATI E DIRITTO DI RECESSO

La revisione dei trattati dell’Unione è disciplinata dall’art. 48 del TUE che prevede una procedura ordinaria e due semplificate:

1. Procedura di revisione ordinaria: può essere attivata da uno Stato membro, dal Parlamento o dalla Commissione. I progetti presentati possono essere diretti ad accrescere o ridurre le competenze attribuite.

a. I progetti sono trasmessi al Consiglio Europeo e trasmessi ai parlamenti nazionali, consultati il Parlamento Europeo, all’occorrenza la commissione o la BCE nel settore monetario.

b. Il Presidente del Consiglio Europeo, qualora la Istituzione che presiede abbia adottato a maggioranza semplice una decisione favorevole convoca una <<convenzione>> dei rappresentati dei Parlamenti

Nazionali, dei Capi di Stato o governo, del Parlamento Europeo e della Commissione

c. Il Consiglio Europeo può, nondimeno, decidere di non convocare la convenzione;

d. La convenzione è tenuta ad esaminare i progetti ed ad adottare una raccomandazione che invia ad una conferenza dei rappresentati degli Stati.

e. La conferenza ha lo scopo di stabilire di <<comune accordo>> le modifiche da apportare ai trattati che dovranno poi essere ratificati dai Parlamenti nazionali.

2. le procedure semplificate attribuiscono un ruolo preminente al Consiglio Europeo ed escludono la convocazione della convenzione e della conferenza:

a. la prima procedura semplificata è prevista solo per la modifica della parte terza del TFUE, essa contempla solo l’ipotesi di riduzione delle competenze in tale parte contenute;

b. la seconda procedura semplificata contempla a sua volta due ipotesi, attivabili per iniziativa del Consiglio Europeo con delibera unanime e previa approvazione del Parlamento Europeo:

i. la prima ipotesi concerne la possibilità che il Consiglio adotti a maggioranza qualificata al posto dell’unanimità richiesta nelle decisioni della parte V del TUE o per il TFUE;

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ii. la seconda ipotesi riguarda la possibilità per il Consiglio di adottare atti legislativi secondo la procedura ordinaria e non secondo procedura legislativa speciale.

Le procedure di revisione dei Trattati dell’Unione sono caratterizzate da una dialettica complessa tra le Istituzioni, esse, peraltro, confermano la normale natura internazionale dei Trattati.

La natura internazionalistica dei Trattati è confermata anche dal diritto di recesso, disciplinato dall’art. 50 TUE che prevede una procedura dettagliata.

Si apre con un negoziato volto a definire le modalità del recesso e si conclude con la procedura di cui all’art. 218 TFUE, laddove però lo Stato recedente non parteciperà ai negoziati dalla parte dell’UE.

3. RIPARTIZIONE DI COMPETENZA TRA L’UNIONE E GLI STATI MEMBRI: PRINCIPIO DELLE COMPETENZE DI ATTRIBUZIONE, DI SUSSIDIARIETA’ E DI PROPORZIONALITA’

I trattati istitutivi non avevano previsto una ripartizione di competenze tra Comunità e Stati membri.

Erano le norme materiali che stabilivano se nel settore da esse disciplinato godevano di competenza esclusiva tale da precludere l’intervento dello Stato membro.

Nel Trattato di Lisbona il Titolo I della Parte I del TFUE è dedicato espressamente alle <<Categorie e settori di competenza dell’Unione>>.

1. Principio delle competenze di attribuzione :

a. l’art. 5, 1° comma delimita l’esercizio delle competenze sul principio di attribuzione, vincolando l’esercizio di tali attribuzioni ai principi di proporzionalità e sussidiarietà

b. l’art. 5, 2° comma ribadisce che l’Unione agisce nel rispetto dei limiti e delle competenze ed essa attribuite dagli Stati; norma che da un lato ribadisce la volontà degli Stati membri di definire che spetta ad essi soltanto attribuire poteri all’Unione, dall’altro opera come norma di rinvio a tutti i

trattati stipulati.

c. L’art. 352 – norma di chiusura o clausola di flessibilità- tuttavia amplia implicitamente la sfera di azione dell’Unione fornendo una base giuridica al formale ampliamento delle competenze seppure

non espressamente previste. Questa norma attribuisce al Consiglio il potere di deliberare all’unanimità, su proposta della Commissione e previa approvazione del parlamento, le disposizioni del caso quando un’azione, pure non prevista, si renda necessaria per raggiungere obiettivi fissati

dai trattati.

La norma in esame sembra riecheggiare la dottrina dei poteri impliciti in base alla quale uno Stato federale si vede riconosciuta l’attribuzione di nuove competenze nella misura necessaria al

raggiungimento dei fini statutari.

Ma, al contrario, l’art. 352 TFUE prevede espressamente una formale procedura per l’integrazione dei trattati.

Pertanto l’ambito di azione dell’Unione non è illimitato.

Inoltre l’ultima parte dell’art. 5, 2° comma. prevede che <<Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione dai Trattati appartiene agli Stati membri>>.

Ai sensi dell’art. 2 TFUE le competenze dell’Unione si distinguono in esclusive e concorrenti:

Nei settori di competenza esclusiva è stabilito che solo l’Unione europea può emanare atti giuridicamente vincolanti, ma è specificato che gli Stati membri, previa

autorizzazione, possono legiferare autonomamente oppure dare attuazione agli atti dell’Unione. I settori di competenza esclusiva sono espressamente elencati <<unione doganale, definizione delle regole di concorrenza; politica monetaria dell’euro; politica

commerciale comune>>, inoltre la competenza esclusiva si estende agli accordi internazionali contemplati in atti secondari.

Nei settori di competenza concorrente essi possono essere oggetto di attività legislativa sia da parte dell’Unione sia da parte degli Stati membri, nondimeno l’esercizio della

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competenza statale è costruito in termini residuali, in quanto è espressamente affermato che la competenza statale può essere esercitata solo qualora le istituzioni non abbiano fatto uso della propria. I settori di competenza concorrente sono <<mercato interno; politica sociale per quanto di competenza, coesione economica, agricoltura e pesca,

ambiente, protezione dei consumatori.

2. Principio di sussidiarietà : l’enunciazione del principio si trova non a caso dopo quello di attribuzione a conferma della funzione di criterio flessibile attraverso il quale l’esercizio (non la competenza) di

determinate competenze viene spostato in capo all’Unione o lasciato agli Stati membri. L’intervento dell’Unione nelle materie di competenza non esclusiva è costruito in termini negativi, vincolato cioè al

verificarsi di due condizioni:

a. Che l’azione dell’Unione sia più adeguata di quella realizzabile a livello Statale;

b. Che gli obiettivi perseguiti non possano essere sufficientemente realizzati con azione singola degli Stati membri.

3. Principio di proporzionalità : impone di graduare, nell’esercizio delle competenze sia esclusive che concorrenti, i mezzi prescelti rispetto all’obiettivo. Il principio di proporzionalità impone che l’esercizio di

una determinata competenza risponda a tre requisiti:

a. Utilità e pertinenza : per la realizzazione dell’obiettivo;

b. Necessari età ed indispensabilità : ovvero quando per il raggiungimento dello scopo possano essere utilizzati altri mezzi la competenza dovrà essere esercitata secondo il criterio della sostituibilità

( direttiva al posto di un regolamento);

c. Nesso logico tra azione esercitata e obiettivo : è il cosiddetto criterio della casualità.

Il Trattato di Lisbona ha introdotto vincoli procedimentali in tema di principi di sussidiarietà e di proporzionalità.

Infatti il Protocollo aggiuntivo attribuisce ai Parlamenti nazionali un ruolo autonomo di controllo del rispetto del principio di sussidiarietà e proporzionalità ex ante ed ex post.

1. ex ante : la Commissione è tenuta a trasmettere ogni sua proposta al Consiglio contemporaneamente al parlamento nazionale ed europeo, motivata alla luce dei principi di sussidiarietà e proporzionalità.

Ogni parlamento nazionale può, entro otto settimane, presentare un parere motivato ai Presidenti di Parlamento, Commissione e Consiglio, con ragioni per le quali la proposta è ritenuta non conforme al

principio di sussidiarietà(allarme preventivo)

La commissione può tuttavia decidere, motivando, di non modificare la proposta.

2. ex post: nell’ipotesi in cui l’atto venga adottato il Parlamento nazionale, attraverso il suo Governo può presentare ricorso per violazione del principio di sussidiarietà realizzando così controllo successivo

attraverso l’organo giurisdizionale dell’Unione.

4. I PRINCIPI DEL DIRITTO DELL’UNIONE

Nella prassi dell’Unione l’applicazione dei principi è di non poco rilievo.

A volte si tratta solo di criteri ermeneutici, ma il più delle volte sono utilizzati al fine di individuare i limiti dell’esercizio dei poteri o per determinare la legittimità di un atto o di un comportamento di una istituzione o di uno

Stato membro.

In ogni caso si tratta di veri e propri parametri di legittimità, dunque, di norme idonee a creare diritti ed obblighi.

Le diverse espressioni utilizzate sembrano sminuire la portata di tali principi sottolineandone l’origine esterna al sistema giuridico dell’Unione.

Invece si tratta di principi propri del diritto dell’Unione a tutti gli effetti a titolo originario, l’unica distinzione possibile è semmai tra principi enunciati nei trattati e principi che sono il risultato della mera rilevazione del giudice.

Rilevante applicazione nella giurisprudenza della Corte hanno trovato alcuni principi specifici:

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1. certezza del diritto : il principale profilo riguarda la trasparenza dell’azione amministrativa, nel senso che la normativa dell’Unione deve essere chiara e la sua applicazione prevedibile. Lo stesso dicasi per l’attività

richiesta alle amministrazioni degli Stati membri. A questo principio si è fatto riferimento anche in relazione al termine ragionevole (due mesi) dato alla Commissione per pronunciarsi sugli aiuti di Stato.

2. legittimo affidamento : è un aspetto ulteriore del principio di certezza del diritto, utilizzabile come parametro di legittimità degli atti. In generale viene invocato nell’ipotesi di modificazione improvvisa di una disciplina , ovvero nel caso in cui l’amministrazione abbia fatto sorgere nell’interessato un aspettativa ragionevolmente

fondata sulla congruità dei comportamenti.

3. proporzionalità : consente di verificare la legittimità di un atto in base alla sua idoneità, necessità e logicità rispetto ai risultati che si vogliono conseguire.

4. dell’effetto utile : è collegato a quello della proporzionalità, consente di valutare un atto relativamente all’effetto prodotto

5. di precauzione : la Corte ha definito tale principio nel senso che esso deve informare gli atti della U.E. che debbono sempre prevedere l’adozione di misure atte a prevenire rischi per la sicurezza e la salute, oltre che

per l’ambiente

6. di leale collaborazione : è affermazione di principio molto ampia il cui uso frequente porta a diversi significati:

a. leale collaborazioni degli Organi nazionali nei confronti delle Istituzioni UE: è il caso:

i. in primo luogo come obbligo di facilitare le istituzioni stesse nell’assolvimento dei loro compiti, ad esempio nelle obbligazioni connesse ad una direttiva, nell’esecuzione di una

decisione o delle sentenze della corte, del dovere di astensione quando è iniziata una procedura;

ii. in secondo luogo del dovere di cooperazione delle autorità nazionali per la realizzazione di obiettivi del Trattato persino in carenza del legislatore dell’Unione;

iii. in terzo luogo il dovere di collaborazione degli Stati membri per garantire piena efficacia alla effettività del sistema giuridico dell’Unione

b. leale collaborazione tra Stati membri sia per la soluzioni di problemi specifici sia come connotazione dei rapporti tra istituzioni e Stati membri: è stato utilizzato per affermare un obbligo di cooperazione tra Stati membri in funzione di una più corretta applicazione del diritto dell’Unione

c. obbligo di cooperazione delle Istituzioni dell’Unione nei confronti degli Stati membri: la Corte ha rilevato l’obbligo per la Commissione di prestare la massima collaborazione agli Organi nazionali in

quanto il dovere di leale collaborazione non è a senso unico, ma agisce in senso biunivoco.

Il Trattato di Lisbona richiamato espressamente il principio di leale collaborazione all’art.4 TUE.

5. PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA

Il principio di uguaglianza trova riconoscimento nella forma di un divieto di discriminazione fondato sulla nazionalità (art. 18 TUE) con applicazioni specifiche riguardo alle 4 libertà sancite dal trattato: libera circolazione delle merci,

delle persone, dei servizi e dei capitali.

Nel trattato originario il principio di eguaglianza trova riferimento solo in funzione degli obiettivi di integrazione economica.

È stata l’evoluzione giurisprudenziale successiva che ha radicalmente mutato il quadro.

Oggi l’affermazione del principio di uguaglianza rappresenta uno dei principi fondamentali del diritto dell’Unione, costante riferimento della giurisprudenza della Corte di Giustizia.

In proposito è significativo che in relazione alla Direttiva 2000/78/CE Consiglio 2000, con la quale si stabilisce un quadro generale di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, la Corte di giustizia abbia

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sottolineato che non è tale direttiva a sancire il principio di parità di trattamento, principio che invece trova la sua fonte originaria nelle varie convenzioni internazionali e nelle tradizioni costituzionali degli Stati membri.

Le conseguenze tratte dalla giurisprudenza sono due:

il principio di non discriminazione è principio generale del diritto dell’Unione, sancito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che, con il Trattato di Lisbona, assume lo stesso valore giuridico dei trattati.

Il principio è provvisto di effetto diretto e prescinde dalle condizioni di applicabilità della direttiva, tanto da imporre al giudice nazionale la sua applicazione in luogo di una legge nazionale configgente.

Nel merito il divieto di discriminazione impone che è vietata ogni disparità di trattamento arbitraria.

Pertanto è legittimo trattare in modo diverso situazioni diverse.

Sono illegittime, altresì, le violazioni palesi del principio di uguaglianza, e bensì quelle dissimulate o indirette.

Specificatamente la giurisprudenza europea si è soffermata sulla retribuzione di genere per affermare il principio della parità ( in condizioni uguali o paragonabili) come un generale principio di uguaglianza.

In definitiva la Corte ha inteso affermare, in materia di parità uomo – donna, un principio di uguaglianza sostanziale e non meramente formale. La giurisprudenza in materia di parità uomo-donna nella vicenda del rapporto di lavoro ne

è la testimonianza più significativa.

6. LA TUTELA DEI DIRITTI E LA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA

L’attenzione della giurisprudenza al principio di eguaglianza ed alla sua applicazione, scollegata da una espressione normativa, sempre più espressione del diritto fondamentale della persona è parte di una considerazione più ampia in

materia di diritti e di libertà fondamentali.

I trattati dell’Unione non contenevano alcuna disposizione in materia, anzi le previsioni riconoscevano diritti all’individuo solo quale protagonista economico e non come persona.

Nei primi anni sessanta la Corte affermò la propria incompetenza a garantire il rispetto di norme interne in tema di diritti umani, anche quando queste avessero il vigore di norme costituzionali.

Successivamente la Corte cambia orientamento affermando il primato e l’inevitabile interferenza della normativa dell’Unione con i diritti umani.

La Corte afferma che i diritti fondamentali dell’uomo quali risultano dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri e dalla CEDU, fanno parte dei principi giuridici generali di essa è garante.

In sostanza la Corte si è riservata il compito di verificare il rispetto dei diritti fondamentali, beninteso nelle situazioni in cui rileva la disciplina dell’Unione.

Infatti il Controllo della Corte investe: gli atti dell’unione; gli atti o i comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione; le giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale.

Fra i diritti fondamentali che la Corte ha richiamato vanno ricordati: il diritto di proprietà; il diritto del libero esercizio di una attività economica; l’irretroattività di norme penali; il ne bis in idem; la previsione legale dei reati e pene; il

rispetto del diritto della difesa ed il principio del contraddittorio; il diritto ad un processo equo e in tempi ragionevoli, ecc.

Un cenno specifico merita il riconoscimento del diritto alla tutela giurisdizionale piena ed effettiva come garantito dagli artt, 6 e 13 CEDU.

La giurisprudenza ha sviluppato il principio della effettività della tutela giurisdizionale facendone derivare;

A. il principio di equivalenza: la tutela delle norme dell’Unione deve essere almeno pari a quella garantita dalle norme nazionali;

B. il principio dell’effettività: il sistema nazionale dei rimedi giurisdizionale deve essere tale da non rendere impossibile o eccessivamente gravoso l’esercizio dei diritti attribuiti al singolo da norme dell’Unione.

Un punto di svolta è stato l’art. 6, n. 2 del Trattato di Maastricht in base al quale è affermato che l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali garantiti dalla CEDU e quali risultano dalle tradizioni costituzionali degli stati membri.

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Page 19: Diritto DellUnione Europea

La giurisprudenza ha compensato ampiamente sia la mancanza di una disposizione materiale, sia il fatto che l’Unione in quanto tale non era parte della CEDU.

Adesione dell’Unione alla Convenzione si sarebbe realizzata , secondo la Corte, solo attraverso una modifica del Trattato. Comunque la mancata adesione dell’Unione alla CEDU non ha comportato conseguenze di rilievo difatti non vi sono mai state divergenze rilevanti tra Corte di giustizia e Corte di Strasburgo riguardo alla valutazione dei

diritti fondamentali.

Nel 1999 Consiglio europeo di Colonia delibera predisposizione di una “Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea”. In occasione del Consiglio europeo di Nizza del 2000 la Carta è solennemente proclamata senza che ad

essa sia conferito valore giuridico vincolante e deferendo decisione sul suo status alla successiva Conferenza.

La soluzione della questione arriva solo con il Trattato di Lisbona che attribuisce alla Carta di Nizza lo stesso valore giuridico dei Trattati. Essa resta autonoma, ha contribuito a rafforzare la solida giurisprudenza della Corte di giustizia

e ha rappresentato un passo in avanti nel processo di integrazione.

7. IL DIRITTO DELL’UNIONE DERIVATO

Il sistema normativo dell’Unione comprende un ventaglio di atti giuridici adottati dalle Istituzioni dell’Unione, nei limiti delle competenze e con gli effetti che i Trattati sanciscono.

Questo insieme di atti si definisce diritto derivato, nel senso che essi derivano dai Trattati, dai quali traggono forza cogente.

È ovvio che essi non possono avere l’effetto di restringere o modificare la portata dei trattati da cui derivano o della giurisprudenza relativa.

Viene in luce l’art. 288 del TFUE che sancisce la tipologia degli atti a mezzo dei quali le istituzioni dell’Unione esercitano le competenze loro attribuite: REGOLAMENTI, DECISIONI, DIRETTIVE, nonché RACCOMANDAZIONI e

PARERI.

Il Trattato di Lisbona, all’art. 289 TFUE, introduce per regolamenti, direttive e decisioni una distinzione formale tra atti legislativi e atti non legislativi, distinzione che dipende esclusivamente dalla procedura con la quale sono

adottati.

A. Atti legislativi: (art. 289, c.1): regolamenti, direttive e decisioni sono adottati con procedura legislativa, sia essa ordinaria o speciale;

B. Atti delegati non legislativi: (art. 290, c.1) , regolamenti, direttive e decisioni sono adottati in base a delega contenuta nell’atto legislativo, che affida alla Commissione il potere di emanare questi atti delegati,

non legislativi, ma di portata generale che integrano elementi dell’atto legislativo. Questi atti assumono l’attributo di delegati, per distinguerli da quelli che derivano da procedura legislativa. Gli atti delegati sono

soggetti al potere di controllo di Parlamento e Consiglio che possono revocare la delega.

C. Atti di esecuzione: (art. 291, c. 2) regolamenti direttive e decisioni assumono la denominazione <<di esecuzione>>. Si tratta di atti meramente esecutivi degli atti legislativi. Si distinguono dagli atti delegati

perché:

a. destinati ad operare all’interno degli Stati membri;

b. il controllo sull’esercizio delle competenze di esecuzione è affidato agli Stati membri secondo modalità stabilite dal Parlamento europeo e dal Consiglio mediante atti adottati con procedura

ordinaria(art. 291, c. 3)

8. GLI ATTI VINCOLANTI: REGOLAMENTI, DECISIONI E DIRETTIVE

Il Regolamento.

Esso rappresenta nell’Ordinamento dell’Unione l’equivalente della legge negli ordinamenti statali.

Portata generale: La natura normativa trova fondamento nei caratteri precipui che lo qualificano, al pari della legge il regolamento ha portata generale ed astratta, si rivolge a soggetti non determinati e limitati.

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È statuito dall’art. 288, c.1 “Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri “.

A nulla rileva se sia identificabile o meno il destinatario e se il regolamento sia suscettibile di applicazione solo uno o più stati, ciò che lo qualifica come atto legislativo è che i suoi effetti riguardino categorie

astrattamente considerate.

Impugnabilità: Considerato che, ai sensi dell’art. 263, c.4, (ex 230 i singoli, persone fisiche o Giuridiche possono impugnare solo atti regolamentari che “ li riguardino direttamente e individualmente e non

comportino alcuna misura di esecuzione”, la portata generale è spesso sottoposta alla verifica della Corte di Giustizia sotto il profilo della sua impugnabilità da parte dei singoli medesimi.

La natura dell’atto deve essere valutata in relazione alla sostanza, non alla forma, cioè riguardo agli effetti.

Obbligatorietà: Altra caratteristica è data dall’obbligatorietà, ciò vuol dire che i destinatari sono tenuti a dare applicazione completa ed integrale al regolamento con conseguente illegittimità di una sua applicazione

parziale.

Il carattere obbligatorio del regolamento preclude allo Stato la possibilità di formulare opposizioni o riserve.

Naturalmente proprio il carattere astratto e generale della norma comporta che il regolamento possa prevedere deleghe ai sensi dell’art. 290, c.1 alla Commissione di atti che lo completino.

Applicabilità: Il regolamento è ”direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”.

Conoscibilità: Il regolamento deve essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione. La mancata pubblicazione non influisce sulla validità dell’atto, ma ne impedisce la produzione di effetti obbligatori sino a

quando non venga pubblicato.

La decisione.

È, al pari del Regolamento, atto obbligatorio in tutti i suoi elementi.

Se designa i destinatari è obbligatorio solo nei confronti di questi.

Si differenzia per il fatto che esso il più delle volte si riferisce a specifici destinatari ed è dunque, privo di quella portata generale e astratta.

La decisione, nella similitudine con gli ordinamenti interni, corrisponde in sostanza all’atto amministrativo, strumento utilizzato dall’Unione quando chiamata ad applicare il diritto a singole fattispecie concrete che creano,

estinguono o modificano situazioni giuridiche soggettive.

La decisione può avere quale destinatari tanto gli Stati, quanto persone fisiche o giuridiche.

Talvolta le decisioni hanno valenza generale, si tratta in questi casi di decisioni con le quali il Consiglio autorizza l’avvio di negoziati per accordi internazionali.

Impugnabilità: per gli effetti dell’art. 263, c. 4, non pone alcun problema, salvo verifica della sostanza.

Obblighi: quando impone obblighi di pagamento per i singoli assume le vesti di titolo esecutivo (art. 299). L’unica condizione è l’apposizione della formula esecutiva da parte dell’autorità nazionale che il governo ha destinato a tale

funzione (in Italia è il Ministero degli Esteri).

La procedura esecutiva sarà a cura degli organi nazionali, così come il controllo di regolarità sarà dei giudici nazionali.

La sospensione dell’esecuzione potrà aver luogo solo per decisione della Corte di Giustizia.

Conoscibilità: la decisione deve essere notificata ai destinatari. È richiesta invece la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione per le decisioni che non designino i destinatari.

La direttiva.

Secondo l’art. 288, c.3 ° “La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”.

Anch’essa non ha portata generale, ma vincola solo lo Stato o gli Stati che ne sono destinatari.

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Page 21: Diritto DellUnione Europea

Non diversamente da regolamento e decisioni, la direttiva produce effetti obbligatori, che cede in capo agli Stati membri.

L’obbligo è di risultato, ed è di adottare tutte le misure necessarie a conseguire gli obiettivo posti, investe lo Stato e tutti i suoi organi.

Dunque, la direttiva si limita a fissare il risultato, lasciando agli Organi dello Stato destinatario, la forma ed i mezzi per attuare l’obiettivo fissato.

Tuttavia questo non sta a significare che tali disposizioni siano meno cogenti delle altre due, né attenua la conseguenze sfavorevoli per lo Stato inadempiente.

La Corte di Giustizia ha stabilito che l’esatta e puntuale attuazione di una direttiva è tanto più importante in quanto le misure di attuazione sono lasciate alla discrezione degli Stati.

In questo contesto anche il termine per l’entrata in vigore degli obiettivi posti è tassativo.

Lo Stato che abbia difficoltà di attuazione ha un solo rimedio, chiedere all’Istituzioni una proroga del termine.

D’altro canto lo Stati può dare applicazione alla direttiva anticipatamente, ma questo non vincola gli altri destinatari, né costituisce termine per invocare il legittimo affidamento da parte di singoli soggetti quando altri Stati non abbiano

adempiuto.

Nella prassi, la caratteristica della direttiva di fissare gli obiettivi lasciando allo Stato il solo obbligo di risultato è venuta meno e non pochi sono i casi di direttive che non lasciano spazio all’autonomia degli Stati.

Si parla di direttive dettagliate , la loro rilevanza si manifesta soprattutto nell’impatto con gli ordinamenti nazionali e la sfera giuridica dei singoli, in quanto possono assumere la stessa portata ed efficacia dei regolamenti.

In dottrina c’è chi parla di illegittimità della direttiva dettagliata, proprio a ragione della sua natura sostanzialmente regolamentare.

9. GLI ATTI NON VINCOLANTI: RACCOMANDAZIONI E PARERI

Previsti dall’art. 288 TFUE: potere di adottare tali atti, data natura non vincolante, è riconosciuto a tutte le istituzioni dell’Unione. Ruolo privilegiato alla Commissione che formula raccomandazioni o pareri quando il Trattato

espressamente lo preveda oppure quando lo ritenga necessario la Comm. stessa.

Raccomandazioni e pareri non facilmente distinguibili: le prime normalmente diretta agli Stati membri e prevedono invito a conformarsi ad un certo comportamento, i pareri sono atto con cui le stesse istituzioni o altri organi

dell’Unione fanno conoscere loro punto di vista su determinata materia.

Assenza di carattere vincolante non esclude comunque la produzione di effetti giuridici; i giudici nazionali devono tenerne conto ai fini dell’interpretazione di norme nazionali o di altri atti vincolanti dell’Unione.

Il Trattato non impone la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale ma normalmente comunque pubblicati per facilitarne conoscenza ed efficacia.

10. ELEMENTI COMUNI AGLI ATTI DELL’UNIONE: MOTIVAZIONE, BASE GIURIDICA, EFFICACIA NEL TEMPO

Motivazione.

Recita l’art. 296, c. 2° “Gli atti giuridici sono motivati e fanno riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste o pareri previsti dai trattati”.

Perché l’obbligo sia adempiuto è, dunque, necessario che l’atto contenga la specificazione degli elementi di fatto e di diritto sui quali l’istituzione si è fondata.

La mancanza di motivazione rende l’atto annullabile ex art. 263, 2° c. per “violazione delle forme sostanziali”.

L’esigenza cui corrisponde l’obbligo in parola, è, da un lato, di far conoscere agli Stati membri ed ai singoli il modo in cui l’Istituzione ha applicato il trattato, dall’altro, di consentire alla Corte e al Tribunale di esercitare il proprio

controllo giurisdizionale.

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Quando si tratti di precetti che arrecano pregiudizi o danni personali, l’obbligo di motivazione si intende integrato da quello di comunicazione all’interessato, sicché questi possa eventualmente adire le tutele giurisdizionali.

L’indagine sulla congruità delle motivazioni investe non solo il tenore letterale, ma anche il contesto normativo e fattuale nel quale si colloca, mentre non è necessario che siano specificati tutti gli elementi di fatto e di diritto.

L’obbligo di motivazione non richiede l’adozione di formule particolari, essendo sufficiente che dal tenore dell’atto si evincano le ragioni di fatto e di diritto che lo sostengono.

Così, ad esempio, in relazione al principio di sussidiarietà non è necessario che esso sia espressamente menzionato, essendo sufficiente che l’atto dia conto delle ragioni per le quali l’Istituzione dell’Unione ha ritenuta più efficace la

propria azione rispetto a quella dei singoli Stati membri.

Il difetto e la carenza di motivazioni, sono vizi che si traducono nella violazione di forme sostanziali, sanzionata dall’art. 263, c. 2°.

Il vizio di motivazione deve essere sollevato d’ufficio integrando motivi di “ordine pubblico”.

Base Giuridica.

È necessario che l’atto faccia espresso riferimento ad una o a più specifiche norme del trattato, norme primarie, cioè alla <<base giuridica>>.

La scelta deve essere operata in base agli elementi oggettivi e qualificanti dell’atto che siano suscettibili di controllo giurisdizionale.

Quando il provvedimento investe più settori, bisogna ricercare il c.d. <<centro gravitazionale>> per qualificare l’atto in termini di diritto.

Il richiamo ad una norma di diritto primario assume rilievo in base a tre distinti profili:

A. 1° profilo attiene alle competenze dell’Unione, che sono informate al principio delle competenze di attribuzione;

B. 2° profilo attiene al riparto delle competenze tra le diverse istituzioni. È evidente che ragione e certezza del diritto pretendono che non si degradi in una confusione dei ruoli.

C. 3° profilo è quello procedimentale, nella misura in cui la scelta dell’una o dell’altra base giuridica implichi una procedura di formazione del consenso e un diverso coinvolgimento del parlamento. Ne consegue la

connotazione in senso più o meno democratico dell’esercizio della funzione normativa.

L’omissione della base giuridica, altresì, rileva sotto il profilo della categoria cui l’atto appartiene e persino della sua efficacia vincolante.

L’efficacia vincolante riveste importanza in sé , in quanto si tutela all’esigenza di certezza e tutela giurisdizionale, in quanto l’atto in cui sia omessa la base giuridica può rappresentare ai suoi destinatari una situazione non

perfettamente chiara in relazione alla stessa obbligatorietà.

Efficacia nel tempo.

L’atto entra in vigore nella data dallo stesso specificata ovvero, in mancanza, dal ventesimo giorno della sua pubblicazione.

Il momento della effettiva diffusione della Gazzetta è diverso da quello formalmente indicato come data di pubblicazione; vale ad ogni effetto, in particolare sotto il profilo del termine per l’impugnazione, il momento della

effettiva diffusione.

Certezza del diritto e legittimo affidamento pongono il divieto di retroattività dell’atto.

L’efficacia retroattiva è ipotizzabile solo in via eccezionale quando ciò sia imposto dall’obiettivo da realizzare, fermo la salvaguardia del legittimo affidamento degli interessati.

In questo caso la motivazione dovrà essere necessariamente integrata dalle ragioni che giustificano l’efficacia retroattiva.

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Interpretazione.

Le versioni degli atti (23) dell’Unione fanno tutte egualmente fede.

Quando siano possibili più interpretazioni, va privilegiata quella che consente di salvaguardare l’effetto utile della norma.

12. DIRITTO DELL’UNIONE E DIRITTO INTERNO

- Le norme dei trattati istitutivi e tutte le modificazioni e integrazioni convenzionali successive, hanno con il nostro ordinamento stesso impatto di ogni altra normativa internazionale pattizia. Per l’Italia, la prassi prevede la legge di

autorizzazione del presidente della Repubblica alla ratifica e l’ordine di esecuzione, l’uno e l’altro normalmente oggetto di un unico testo legislativo, la legge di adattamento.

- viceversa per il diritto comunitario derivato non si richiede la procedura speciale di adattamento, ma che si pongano eventualmente in essere provvedimenti nazionali, leggi o atti amministrativi, che gli stessi atti comunitari

prefigurano o impongono ai fini della loro puntuale e tempestiva attuazione.

Occorre verificare di volta in volta, in base alla forma e alla sostanza dell’atto comunitario, quale sia l’impatto sui sistemi giuridici nazionali e quali siano gli interventi formali eventualmente richiesti o imposti agli Stati membri.

- il regolamento è direttamente applicabile in ciascuno Stato membro. L’atto è destinato a produrre i suoi effetti senza che sia necessario un intervento formale di una qualche autorità nazionale, ove non richiesto dallo stesso

regolamento. L’eventuale atto interno sarebbe contrario al trattato, perché può rappresentare un ostacolo o comunque ritardare l’applicazione del regolamento in modo uniforme in tutta la comunità.

La giurisprudenza non ha mancato di collegare il divieto per gli Stati di produrre l’atto comunitario anche alla competenza esclusiva della corte di giustizia quanto al controllo giurisdizionale dell’atto.

- Le direttive sono esse stesse ad imporre allo Stato membro di adottare gli atti necessari alla loro puntuale attuazione. In Italia il tema dell’attuazione legislativa e/o amministrativa è da sempre un tema dolente. Per ovviare almeno in parte a tale inconveniente è stata introdotta la legge comunitaria annuale , che riunisce tutte le misure

occorrenti a dare attuazione ad atti comunitari e/o alle pronunce della Corte.

A tal fine entro il 31 gennaio di ogni anno il governo deve presentare un disegno di legge, indicando le misure che sono necessarie per adeguare l’ordinamento nazionale al diritto comunitario:

a) disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti in contrasto con gli obblighi comunitari

b) disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali oggetto di procedure d’infrazione avviate dalla commissione delle comunità europee nei confronti dell’Italia

c) disposizioni di attuazione di atti comunitari

d) disposizioni che autorizzano il governo ad attuare in via regolamentare le direttive

e) disposizioni necessarie a dare esecuzione trattati internazionali conclusi nel quadro delle relazioni esterne dell’unione europea

f) disposizioni che individuano i principi fondamentali nel rispetto dei quali le regioni e le province esercitano propria competenza normativa

g) disposizioni che, nelle materie di competenza legislativa delle regioni, conferiscono delega al governo per l’emanazione dei decreti legislativi

h) disposizioni emanate nell’esercizio del potere sostitutivo statale in caso di inadempienza delle regioni.

13. EFFETTO DIRETTO DELLE NORME DELL’UNIONE

I due caratteri fondamentali del diritto comunitario, che soprattutto ne qualificano il rapporto con il diritto nazionale sono: l’effetto diretto ed il primato.

L’effetto diretto è l’idoneità della norma comunitaria[primaria, ovvero derivata e completa] a creare diritti ed obblighi in capo ai singoli, persone fisiche e giuridiche, senza che lo Stato eserciti la funzione diaframmatica consistente nel porre in essere una qualche procedura formale. In termini pratici l’effetto diretto si risolve:

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a. nella possibilità per il singolo di far valere direttamente davanti al giudice nazionale la posizione giuridica soggettiva vantata in forza della norma comunitaria;

b. per l’amministrazione di far si che il singolo adempia agli obblighi sanciti dalla norma comunitaria, ovvero goda direttamente dei diritti in essa sanciti

Dell’effetto diretto sono provviste tutte le disposizioni comunitarie sufficientemente chiare e precise e la cui applicazione non richieda ulteriori atti, comunitari o nazionali, di esecuzione o comunque di integrazione.

Non è necessario, perché l’effetto si produca in capo ai singoli, che le norme siano ad essi formalmente destinate.

Sono provviste di effetti diretto anche le norme indirizzate agli Stati che impongono ad essi obblighi di fare o non fare. Ad esempio, sono provviste di effetto diretto le norme del Trattato che hanno realizzato il mercato comune

imponendo agli Stati l’abolizione delle barriere alla libera circolazione di merci, capitali e persone.

La giurisprudenza sull’effetto diretto è nata con riguardo ad una norma, oggi art. 30 TFUE, che era rivolta esplicitamente ai soli Stati membri, nella celebre sentenza Van Gend en Loos , laddove la Corte rilevò che il Trattato non si è limitato alla creazione di obblighi reciproci degli Stati, ma ha inteso realizzare un <<ordinamento giuridico di

nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro

cittadini>>.

Ebbene, all’epoca non erano molti coloro che intravedevano un diritto dei singoli dietro una norma internazionale che nella sua formulazione originaria, art. 12 TCE(poi 25), si limitava ad obbligare esplicitamente i soli gli Stati membri dall’astenersi dall’imporre vincoli doganali. Singoli che, peraltro, non erano neppure menzionati nella

norma.

Il singolo, dunque, può far valere il suo diritto derivante da una norma comunitaria davanti al giudice nazionale.

È appena il caso di chiarire che la norma comunitaria provvista di effetto diretto obbliga alla sua applicazione non solo il giudice nazionale, ma anche tutti gli organi dell’amministrazione.

Come più volte sancito dalla Corte di Giustizia e dalla Corte Costituzionale, sarebbe contraddittorio, ammettere la giustiziabilità delle norme comunitarie e non l’obbligo dell’amministrazione di darne applicazione.

I requisiti richiesti per l’effetto diretto sono quelli individuati nella pronuncia sull’art. 30 sentenza Van Gend en Loos , : la norma deve essere chiara, precisa, suscettibile di applicazione immediata.

Queste caratteristiche possono essere presenti:

a. negli articoli dei Trattati;

b. nei Regolamenti, quando regolino direttamente una fattispecie, senza che occorra alcun provvedimento ulteriore;

c. nelle decisioni, sia quelle rivolte ai singoli, sia quelle rivolte agli Stati membri.

d. direttive: più complesso il problema quando si tratti delle disposizioni contenute in una direttiva.

Invero, nella prassi non mancano direttive che contengono disposizioni con le caratteristiche tipiche delle norme provviste di effetto diretto, cioè: precise e non condizionate per la loro applicabilità ad alcun intervento dell’autorità

nazionale.

L’ipotesi non va identificata con le direttive c.d. dettagliate, in quanto per l’effetto diretto non rileva il grado di dettaglio, bensì che la norma non sia condizionata per la sua applicazione ad alcun atto dell’autorità nazionale.

Ovviamente il problema dell’effetto diretto si pone solo per quelle direttive che non siano state attuate nel tempo prescritto ovvero abbiano avuto attuazione non corretta.

L’attribuzione dell’effetto diretto a queste direttive si fonda sulle stesse argomentazioni utilizzate per le norme del trattato rivolte agli Stati membri:

A. un preciso obbligo dello Stato cui corrisponde un diritto del singolo;

B. l’art. 288 non esclude espressamente che atti diversi dal regolamento producano gli stessi effetti;

C. la portata delle obbligazioni imposta allo Stato sarebbe ridotta se i singolo non potessero farne valere l’efficacia.

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Ne consegue che, ancora una volta facendo prevalere la sostanza sulla forma, bisogna esaminare caso per caso, per verificare se la natura, lo spirito e la lettera della disposizione consentano di riconoscere l’effetto immediato.

Peraltro non si può trascurare un elemento che emerge dalla prassi, cioè che l’effetto diretto, più che come qualità intrinseca della direttiva, risulta collegato ad un intento pedagogico, addirittura sanzionatorio nei confronti dello

Stato negligente o ritardatario.

In tale prospettiva, l’effetto diretto è stato concepito, e, di fatto, lo è, come una vera e propria sanzione per lo Stato inadempiente, nella misura in cui attribuisce al giudice nazionale, eventualmente coadiuvato da quello europeo, il

compito sostitutivo del legislatore di realizzare comunque lo scopo della direttiva.

Ciò è ben chiaro quando si osservino le implicazioni dell’effetto diretto attribuito ad una direttiva incondizionata inattuata.

L’effetto diretto verticale:Le disposizioni provviste di effetto diretto di una direttiva non tempestivamente o correttamente trasposta possono essere fatte valere dal singolo solo nei confronti dello Stato non anche di altri individui, proprio perché l’effetto diretto è ricondotto non ad una qualità intrinseca dell’atto ma all’esigenza di

impedire che lo Stato inadempiente possa opporre al singolo, giovandosene, il proprio inadempimento.

La stessa giurisprudenza ha invece escluso l’effetto diretto orizzontale, cioè la possibilità per il singolo di far valere la norma anche nei confronti di soggetti privati, siano essi persone fisiche o giuridiche.

L’argomento utilizzato dalla giurisprudenza è fondato sulla formulazione dell’art. 288 TFUE, in base al quale la direttiva vincola solo lo Stato cui è rivolta.

La Corte di Giustizia ha rilevato che estendere l’effetto diretto anche ai rapporti tra singoli significherebbe riconoscere in capo alla Comunità il potere di emanare norme che facciano sorgere con effetto immediato obblighi a carico dei singoli, mentre tale competenza le spetta solo laddove, per il principio della competenza di attribuzioni, sia

attribuito il potere di adottare regolamenti.

L’effetto diretto verticale è, in via di principio, solo unilaterale, nel senso che al singolo che fa valere il proprio diritto lo Stato non può opporre la propria inadempienza.

Relativamente all’ipotesi di una direttiva che comporti un obbligo per il singolo, lo Stato non può opporlo al singolo prima della trasposizione, non potendo la direttiva, in base all’art. 288 TFUE, porre obblighi in capo ai singoli.

La costruzione che limita l’effetto diretto alla dimensione verticale è da sempre alquanto contestata. Le discriminazioni che esso suscettibile di produrre e di fatto produce sono evidenti. Nel caso ad esempio di un rapporto di lavoro, cui inerisca una direttiva comunitaria in parte provvista d’effetto diretto, sarà favorito, sotto il profilo della

tutela giurisdizionale, dipendente dell’ente pubblico rispetto al dipendente di un’azienda privata poiché solo nei confronti del datore di lavoro pubblico potrà farsi valere la direttiva.

Solo a partire dal momento della sua corretta trasposizione il singolo sarà in grado di conoscere adeguatamente e con certezza la portata dei diritti che gli sono conferiti dalla direttiva e dunque di ricorrere o meno al giudice.

La giurisprudenza sull’effetto diretto solo verticale delle direttive pone qualche problema. Non mancano poi le pronunce della stessa corte di giustizia nelle quali di fatto è stato attribuito l’effetto diretto orizzontale ad una

direttiva, ad esempio quella sulla parità uomo donna sull’accesso e le condizioni di lavoro.

Per quanto riguarda le norme comunitarie prive di effetto diretto: il problema non si pone per le norme dei trattati e convenzionali quando il loro vigore si collega all’adattamento in ciascun paese membro nè non si pone per i

regolamenti e le decisioni.

Diverso il caso delle direttive. Se trasposta la direttiva un parametro di legittimità dell’atto di trasposizione utilizzabile anche dal singolo in giudizio. Quando viceversa la direttiva non sia stata trasposta essa non potrà essere utilizzata in

quanto tale dal singolo, se non nei confronti dello Stato o di un ente pubblico. La direttiva non trasposta può costituire un parametro di legittimità del comportamento di uno Stato, nonché di una legge o di un atto

amministrativo, come tale utilizzabile dalla Commissione e dalla Corte di giustizia nel contesto di una procedura d’infrazione.

In definitiva una direttiva, anche se sprovvista di effetto diretto, alla scadenza del termine stabilito e pur se non trasposta entro tale termine condiziona la normativa nazionale. Ne consegue che quella direttiva costituisce un

parametro di legittimità della legge nazionale con essa contrastante rilevabile a mezzo di una procedura d’infrazione.

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14. L’OBBLIGO D’INTERPRETAZIONE CONFORME AL DIRITTO DELL’UNIONE

Il mancato riconoscimento dell’effetto orizzontale delle direttive è stato in parte superato dalla giurisprudenza comunitaria che ha estrapolato il canone dell’ obbligo di interpretazione conforme che impone a tutti gli organi

nazionali, ma soprattutto al giudice, di interpretare la norma interna in modo quanto più possibile compatibile con le prescrizioni del diritto comunitario.

La Corte di Giustizia ha più volte dichiarato che spetta ai giudici nazionali interpretare <<il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima>>,

ricostruendo l’obbligo cedente in capo allo Stato mediante lettura congiunta degli artt. 4, n. 3 [obbligo di leale collaborazione] e 288, 3° comma [vincolo per lo Stato della direttiva ].

Di conseguenza i giudici nazionali, sebbene non possano immediatamente applicare in una controversia tra privati le disposizioni di una direttiva, devono in ogni caso individuare, tra tutti i significati possibili della norma interna da

applicare al caso, quello che appaia maggiormente conforme all’oggetto ed allo scopo della direttiva.

Essi debbono cioè utilizzare il metodo teleologico.

In tal modo si realizza un effetto orizzontale indiretto delle direttive, le cui disposizioni sono applicate ai rapporti tra privati attraverso l’interpretazione conforme della norma interna teleologicamente orientata alla realizzazione dei

risultati prescritti dalla direttiva.

La Corte, inoltre, ha ampliato la portata dell’obbligo di interpretazione conforme a prescindere che si tratti di <<norme interne precedenti o successive alla direttiva>>, dichiarando, ancora, che l’obbligo teleologico riguarda di

fatto tutto l’ordinamento.

Tuttavia sono stati individuati limiti all’applicazione generalizzata del principio in questione.

Innanzitutto resta l’impossibilità di far derivare un obbligo del singolo dall’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme ad una direttiva non trasposta; nonché di determinare o aggravare la responsabilità penale dei

singoli che la violano.

Quando non sia possibile l’interpretazione conforme resta aperto il problema delle direttive prive di effetto diretto e non ancora recepite.

Occorre considerare infatti che la direttiva non trasposta resta pur sempre un atto comunitario valido ed idoneo a produrre effetti giuridici, e può costituire parametro della compatibilità delle norme interne con la normativa

comunitaria.

Questo ha trovato conferma nella Corte di Giustizia da sempre ancorata al testo dell’art. 288 del TFUE.

Proprio dalla previsione testuale dell’obbligo cedente sullo Stato si è fatto derivare la considerazione che la direttiva individua come destinatario tutti gli organi dello Stato unitariamente considerato, quindi, anche i giudici che,

nell’ambito delle loro funzioni, dovrebbero contribuire alla realizzazione dell’effetto utile.

In particolare la Corte ha rilevato che la direttiva, pur se sprovvista di efficacia diretta, allo scadere dei termini di recepimento ha l’effetto di far entrare nell’ambito di applicazione del diritto dell’unione la normativa nazionale di cui

trattasi nella causa principale che affronta una materia disciplinata dalla stessa direttiva.

In definitiva, l’alternativa alla disapplicazione della norma interna incompatibile è, nell’ordinamento italiano, il rinvio alla Corte costituzionale in quanto il contrasto tra la normativa interna e quella comunitaria è costruito come una

questione di legittimità costituzionale.

In conclusione, nel caso in cui il risultato prescritto dalla direttiva non si possa conseguire con mezzi giudiziari, resta inalterato l’effetto verticale ed il diritto del singolo al risarcimento del danno.

15. IL PRIMATO DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA SUL DIRITTO INTERNO

L’effetto diretto si collega strettamente al primato o prevalenza delle norme comunitarie sulle norme interne contrastanti con i diritto comunitario, sia precedenti che successive e quale ne sia il rango, anche costituzionale.

La conseguenza pratica è che la norma interna contrastante con quella comunitaria non può essere applicata, o, meglio, deve essere disapplicata.

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È costante orientamento giurisprudenziale che il giudice nazionale ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario.

Non solo, la giurisprudenza comunitaria ha finanche affermato l’obbligo per l’amministrazione, ove consentito, di non dare seguito ad un atto amministrativo configgente con l’ordinamento comunitario.

Così riaffermando che il principio della preminenza del diritto comunitario impone non solo al giudice ma allo Stato membro inteso nel suo insieme di dare pieno effetto alla norma comunitaria.

La Corte di Giustizia è prevenuta abbastanza presto alla affermazione della PREVALENZA DELLE NORME COMUNITARIE SU QUELLE NAZIONALI quale riconoscimento complementare all’effetto diretto.

Non altrettanto si può dire di alcune giurisdizioni nazionali che a quel risultato sono perlopiù pervenute con grande travaglio intellettuale percorrendo strade anche diverse da quella segnata dalla corte: è il caso della Corte

Costituzionale italiana.

Innanzitutto quando la legge comunitaria è successiva a quella nazionale con essa configgente, per il principio che da sempre disciplina la successione delle leggi nel tempo, lex posterior derogat priori, prevale rispetto alla norma

interna.

Stesso rango norma interna e comunitaria: Il problema sorgeva per le norme nazionali successive alla norma comunitaria, in quanto, inizialmente il rango assegnato alla norma comunitaria era quello di legge ordinaria con la quale si ratificava il trattato. Ne scaturirono posizioni dialettiche tra Corte di Giustizia e Giudice delle leggi Italiano.

Tale dialettica risale ai primi anni sessanta, quando la legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica fu contestata avanti il giudice a quo sotto il profilo costituzionale e del conflitto con il diritto comunitario. La Corte

costituzionale affermò che andava applicato il principio della successione delle leggi nel tempo. La Corte di Giustizia, invece, nella sentenza Costa, enunciava una posizione antitetica, ribadendo i principi e la prospettiva affermati nella sentenza Van Gend en Loos, in particolare che il Trattato ha istituito un ordinamento giuridico

proprio, integrato da quello nazionale, e perciò non è possibile opporre ad una norma comunitaria una norma interna successiva. Il contrasto tra Corte di Giustizia e Corte Costituzionale era netto.

Questione di legittimità Costituzione della norma interna in conflitto con norma europea: In seguito la Corte costituzionale si è progressivamente avvicinata, se non proprio ai principi del primato assoluto della Corte di

Giustizia, almeno al risultato, cioè quello dell’effetto diretto e del primato quali elementi intrinseci delle norme comunitarie. Infatti, se nella sentenza Costa la Corte Costituzionale aveva affermato la prevalenza della legge

italiana successiva, dopo una decina di anni ebbe a stabilire con le sentenze:

A. Frontini: sviluppando un ragionamento già contenuto in una sentenza del 1965, affermò la separazione tra i due ordinamenti, riconoscendoli autonomi e distinti. Ne consegue che dove c’è competenza in base

al Trattato, lo Stato deve astenersi dal pregiudicare l’immediata applicazione dei regolamenti. Inoltre mentre individuava nell’art. 11 la fonte costituzionale che legittimava la parziale rinuncia alla sovranità,

riconosceva la immediata vincolatività dei regolamenti ex 288 TFUE.

B. Industrie chimiche : nella successiva sentenza il Giudice delle leggi affrontò il problema del conflitto tra un regolamento comunitario ed una legge interna posteriore con esso configgente. Considerandolo come

problema di esercizio delle competenze e, dunque, riconducibile all’art. 11 Cost. la Corte ne trasse il convincimento che la legge interna dovesse superare il vaglio della legittimità costituzionale.

La soluzione Industrie chimiche non ebbe molti consensi, né dalla dottrina, né dalla giurisprudenza interna.

La reazione della Corte di Giustizia venne con la sentenza Simmenthal. La Corte di Giustizia fu adita in via pregiudiziale dal giudice italiano per sapere se l’obbligo di attivare previamente il giudizio di legittimità

costituzionale di una norma successiva in conflitto con regolamento non ledesse a sua volta l’esigenza di dare immediata ed uniforme applicazione al regolamento stesso in tutti gli Stati membri.

La Corte di giustizia fornì una risposta chiara ed articolata, affermò:

A. Che l’effetto diretto ed il primato impongono che sia data applicazione immediata;

B. Che le norme interne successive incompatibili non si formano validamente;

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C. Che il sistema di controllo giurisdizionale fondato sulla cooperazione tra giudice comunitario e giudice costituzionale verrebbe meno se non ci fosse l’obbligo di dare immediata applicazione alle leggi comunitarie

e si dovesse aspettare l’esito del procedimento di verifica costituzionale.

La Corte costituzionale nella sentenza Granital, 1984 rimeditò la propria posizione. Punto di partenza fu ancora una volta l’affermazione che i due ordinamenti sono distinti e tra loro autonomi anche se coordinati in quanto in

forza dell’art. 11 Cost. sono state trasferite alle istituzioni comunitarie le competenze relative a materie determinate. L’attribuzione delle competenze all’Unione comporta che l’atto normativo europeo posto in essere

nell’esercizio di quelle competenze attribuite ex art. 11 Cost. impedisce alla norma interna eventualmente contrastante(anteriore o successiva) di venire in rilievo ai fini della disciplina del rapporto sul quale si controverte.

Ne consegue che il contrasto fa si che la norma interna non sia suscettibile di annullamento, ma semplicemente sia disapplicata. Dalla sentenza derivano due conseguenze:

1) non ponendosi più una questione di costituzionalità, ma di irrilevanza della norma interna, il giudice applica direttamente la norma comunitaria provvista di effetto diretto, disapplicando la normativa nazionale;

2) il potere del giudice opera solo nell’ipotesi che la norma derivata sia completa e provvista di effetto diretto; quando si tratti, infatti, di norma derivata incompleta viene in rilievo per la disciplina del rapporto la

disciplina interna e, se in conflitto, deve essere sottoposto al vaglio di legittimità costituzionale in relazione all’art. 11 Cost.

La Corte costituzionale ha lasciato che non si sottragga alla sua verifica due ipotesi:

- quella di un’eventuale conflitto della norma comunitaria, con i principi fondamentali del nostro ordinamento e con i diritti inalienabili della persona umana;

- quella di norme interne che si assumono dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del trattato o il nucleo essenziale dei suoi principi

In una successiva occasione di giudizio in via principale tra lo Stato e una Regione, la corte costituzionale ha precisato che nell’ipotesi di contrasto con la norma comunitaria provvista di effetto diretto, la soluzione dell’inammissibilità, potrebbe generare gravi incertezze applicative e un’evidente lesione del principio della certezza e della chiarezza

normativa.

La sentenza Granital ha rappresentato una svolta nella riflessione sul complesso rapporto tra norme interne e norme comunitarie. Qualche divergenza di fondo è rimasta, ma prevalenza diritto comunitario è stata affermata in modo

chiaro. Non si è mancato di rilevare il ruolo della Corte di giustizia dell’interpretazione e nell’applicazione del diritto comunitario. Si è rilevata l’immediata applicabilità, in luogo delle norme nazionali confliggenti, delle norme

comunitarie così come interpretate nelle sentenze della corte pronunciate a seguito di rinvio pregiudiziale, nonché all’esito di una procedura d’infrazione.

Da ricordare la giurisprudenza della corte costituzionale che ha limitato l’ammissibilità del referendum abrogativo delle norme che si collegano ad impegni comunitari, escludendola in relazione alla legge di adattamento e poi anche

in relazione a tutte quelle leggi che direttamente o indirettamente segnano l’adempimento del paese ad obblighi comunitari.

La posizione della Corte di giustizia è stata riaffermata in numerose occasioni. Tra quelle più significative la sentenza Factortame dove ha puntualmente affermato che la norma interna che sia di ostacolo alla protezione giurisdizionale

effettiva di un diritto che il singolo vanta in forza del diritto comunitario deve essere disapplicata dal giudice nazionale.

CAPITOLO III: LA TUTELA GIURISDIZIONALE

1. LA TUTELA GIURISDIZIONALE NEL SISTEMA DELL’UNIONE

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La specificità del sistema dell’Unione non risiede tanto nel modo di essere del rapporto tra norme ed ordinamenti di natura ed origine diversa quanto nel meccanismo di tutela giurisdizionale.

Si tratta di un meccanismo che non ha precedenti sia sotto il profilo funzionale e delle articolazioni del sistema, sia sotto il profilo degli effetti che esso produce sulla posizione giuridica soggettiva dei destinatari: le Istituzioni europee,

gli Stati membri, i singoli, persone fisiche o giuridiche.

Non a caso il sistema di controllo giurisdizionale è stato l’elemento fondamentale di quel modo di essere della Comunità che l’ha fatta definire <<Comunità di diritto>>.

Alla realizzazione di questo risultato ha contribuito il giudice dell’Unione che ha garantito la tutela delle posizioni giuridiche su cui incide il diritto comunitario indipendentemente da una sintonia con il diritto nazionale.

È significativo che il Trattato di Lisbona, all’art. 19, abbia espressamente richiamato il principio della tutela giurisdizionale , ribadendo l’obbligo per gli Stati membri di stabilire i rimedi necessari per assicurarne l’osservanza.

Il Trattato di Lisbona ha mantenuto inalterato il previgente sistema giudiziario, estendendolo al settore della cooperazione di polizia giudiziaria in materia penale, con la sola differenza terminologica di Tutela giurisdizionale

dell’Unione, piuttosto che Comunitaria.

In conseguenza dell’abolizione della struttura a pilastri delineata da Maastricht, il giudice dell’Unione ha acquisito una competenza generale in relazione al diritto dell’Unione.

Le nuove attribuzioni entreranno in vigore dopo un periodo transitorio di cinque anni.

Il sistema giurisdizionale si articola su due piani procedurali:

A. controllo diretto : è esercitato dalla Corte di Giustizia e/o dal Tribunale, o dai Tribunali Speciali; è attivato dalle Istituzioni, dagli Stati membri, dai singoli ( legittimati attivi);

B. controllo indiretto o della procedura pregiudiziale : è fondato sulla cooperazione tra giudice nazionale e giudice dell’Unione attraverso il rinvio pregiudiziale del nazionale a quello dell’Unione che si risolve

attraverso il controllo indiretto della Corte. Si tratta insomma dell’incidente preliminare europeo con il quale il Giudice nazionale sospende un giudizio in attesa che la Corte di Giustizia dia una interpretazione della

norma. La decisione spetta al giudice nazionale. L’art. 256 del TFUE, prevede che tale competenza pregiudiziale possa essere attribuita anche al Tribunale per materie specifiche da definire con Statuto della

Corte, al momento però è inalterata la competenza della Corte.

2. IL CONTROLLO DIRETTO SULLA LEGITTIMITÀ DI ATTI E COMPORTAMENTI DELLE ISTITUZIONI. L’AZIONE DI ANNULLAMENTO.

Il controllo giurisdizionale diretto sulla legittimità degli atti dell’Unione è attribuito alla competenza esclusiva della Corte di Giustizia dell’Unione europea la quale comprende la Corte di giustizia, il Tribunale e i Tribunali specializzati

(denominazione introdotta dal Trattato di Lisbona).

Il controllo si realizza attraverso più procedure con effetti diversi: azione di annullamento; azione in carenza; eccezione incidentale d’invalidità; l’azione per danni da responsabilità extracontrattuale dell’Unione; il contenzioso in materia di personale.

Il Tribunale è competente a conoscere dei ricorsi individuali, dei ricorsi presentati dagli Stati membri, e dei ricorsi proposti contro le decisioni dei tribunali specializzati.

L’art. 51 dello Statuto ha devoluto alla cognizione della Corte di giustizia solo i ricorsi di annullamento ed in carenza promossi contro gli atti o le inattività del Parlamento e del Consiglio, nonché della Commissione.

Il Tribunale risulta essere ora competente a conoscere molte delle materie, in funzione di organo di prima istanza, in particolare:

1) dei ricorsi diretti proposti dalla persone fisiche o giuridiche

2) dei ricorsi proposti dagli Stati membri contro la commissione

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3) dei ricorsi proposti dagli Stati membri contro il consiglio in relazione agli atti adottati nell’ambito degli aiuti di Stato, le misure di difesa commerciale “dumping”

4) ricorsi diretti ottenere il risarcimento dei danni causati dalle istituzioni dell’unione europea o dai loro dipendenti

5) di ricorsi fondati su contratti stipulati dall’Unione Europea che prevedono espressamente la competenza del tribunale

6) di ricorsi in materia di marchio comunitario

7) delle impugnazioni contro le decisioni dei tribunali specializzati

Le sentenze e le ordinanze del tribunale sono impugnabili dinanzi la Corte di giustizia per i soli motivi di diritto.

L’azione di annullamento.

È regolata dall’art. 263 TFUE , essa consiste nell’impugnazione mediante ricorso di un atto che si pretende viziato e pregiudizievole.

È immediata la similitudine tra giudice europeo e giudice amministrativo.

Atti impugnabili

Sono gli atti legislativi , gli atti del Consiglio, della Commissione e della BCE; gli atti del Parlamento europeo e del Consiglio Europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi (anche un provvedimento a caratteri

interno purché idoneo a produrre effetti giuridici in capo a terzi).

In relazione all’art. 263, in base al quale è posto il principio generale del controllo giurisdizionale di ogni atto adottato da un organismo comunitario destinato a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi, il Tribunale esercita un

controllo di legittimità sugli atti degli organi dell’Unione.

L’espressa esclusione delle raccomandazioni e dei pareri starebbe ad indicare che sono impugnabili solo gli atti vincolanti che sono regolamenti, direttive e decisioni.

Tuttavia la giurisprudenza della Corte è ispirata al criterio del privilegio della sostanza sulla forma.

Pertanto, qualunque sia la natura dell’atto e indipendentemente dal nomen iuris e dalle modalità di comunicazione ai destinatari, l’ammissibilità della sua impugnazione è legata all’efficacia vincolante dell’atto ed alla sua efficacia nei

confronti dei terzi.

La formula utilizzata dalla Corte al riguardo è illuminate “ l’azione di annullamento deve potersi esperire nei confronti di qualsiasi provvedimento adottato dalle istituzioni (indipendentemente dalla sua natura o forma) che

miri a produrre effetti giuridici“ .

L’approccio sostanziale comporta un onere per i destinatari che sono tenuti allo stesso approccio sostanziale nel decidere, quando l’atto appare lesivo dei diritti dei singoli, se impugnarlo o meno e nel verificare la legittimazione a

farlo.

Invero una denominazione dell’atto all’apparenza innocua può nascondere un atto che <<mira a produrre effetti giuridici>> con la conseguenza che quando se ne vogliano evitare gli effetti deve essere impugnato.

Impugnabili sono gli atti definitivi.

Sotto questo profilo non sono impugnabili gli atti preparatori in quanto e nella misura in cui, presi isolatamente, non modificano la posizione giuridica del destinatario.

Ad esempio non è impugnabile, in quanto atto preparatorio, la comunicazione della Commissione alle imprese che segna l’apertura dell’inchiesta nei loro confronti in materia di concorrenza.

Viceversa, è impugnabile l’atto con cui la Commissione comunica di avere archiviato definitivamente una denuncia per violazione delle norme sulla concorrenza.

Sono altresì impugnabili gli atti che autorizzano o approvano la conclusione di un accordo.

Del pari sono ricompresi tra gli atti impugnabili anche quelli adottati dal Parlamento se ed in quanto anch’essi idonei a produrre effetti vincolanti per i terzi.

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Soltanto con il trattato di Lisbona è stato esteso il controllo della Corte sugli atti adottati dal Consiglio europeo, nonché dagli organi e organismi dell’Unione, a condizione che essi siano produttivi di effetti giuridici nei confronti di

terzi.

Legittimati attivi.

Legittimati ad impugnare gli atti dell’Unione sono:

A. Gli Stati membri, sempre e comunque, anche quando si tratti di atti diretti ad altri Stati ovvero ad individui. La legittimazione è attribuita unicamente allo Stato, non anche alle sue articolazioni, quali le regioni o i comuni.

B. Regioni e Comuni possono impugnare atti in quanto persone giuridiche, solo avanti il Tribunale ed alle condizioni di cui all’art. 263, c. 4° “Qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre, alle condizioni previste al

primo e secondo comma, un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente e individualmente, e contro gli atti regolamentari che la riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura d'esecuzione “ . Legittimati all’impugnazione sono altresì il Consiglio, la Commissione e il Parlamento.

C. La Corte dei Conti, la BCE e il Comitato delle Regioni (da Lisbona) sono legittimati ad agire solo <<per salvaguardare le proprie prerogative>>, art. 263, c. 3° “La Corte è competente, alle stesse condizioni, a

pronunciarsi sui ricorsi che la Corte dei conti, la Banca centrale europea ed il Comitato delle regioni propongono per salvaguardare le proprie prerogative “ .

D. Molto singolarmente è prevista l’azione di annullamento per violazione del diritto , su ricorso del Governatore della Banca Centrale di uno Stato membro, ovvero del Consiglio Direttivo della BCE relativamente alla

rimozione dello stesso governatore, il tutto ai sensi del Protocollo SEBC , art. 14.2. “… Un governatore può essere sollevato dall'incarico solo se non soddisfa più alle condizioni richieste per l'espletamento delle sue

funzioni o si è reso colpevole di gravi mancanze. Una decisione in questo senso può essere portata dinanzi alla Corte di giustizia dal governatore interessato o dal consiglio direttivo, per violazione del trattato o di qualsiasi

regola di diritto relativa all'applicazione del medesimo...“ .

E. I singolo, persone fisiche o giuridiche, associazioni , in primo grado davanti il Tribunale, in secondo per motivi di diritto avanti la Corte. La nozione di persona giuridica è molto ampia e prescinde dalle qualificazioni di ciascun

diritto nazionale. Può agire anche uno Stato terzo, quando ricorrano le condizioni di cui all’art. 263.

a. Il singolo, tuttavia non è legittimato ad impugnare tutti gli atti. In primo luogo può impugnare le decisioni a lui specificatamente indirizzate; in secondo luogo può impugnare atti di cui non sia il

formale destinatario, anche regolamenti, alla condizioni che tali atti lo riguardino direttamente ed individualmente, cioè che sia destinatario sostanziale dell’atto e che vi sia un nesso di causalità tra

la situazione individuale e la misura adottata. Lo scopo è di evitare che le Istituzioni adottino atti che incidano individualmente sulla posizione del singolo senza che questi abbia un rimedio

giurisdizionale. Non è impugnabile, al contrario un regolamento che pure consentendo diindividuare i destinatari sia adottato in forza di una situazione obiettiva in fatto e in diritto.

i. Direttamente riguardato: la giurisprudenza ha stabilito che ciò si verifica quando non è richiesta alcuna misura di esecuzione per l’attuazione dell’atto, né nazionale né

dell’Unione, quando, cioè, incida direttamente sulla posizione giuridica del singolo senza che, ai fini della sua applicazione, sia necessaria una ulteriore attività normativa. Nel caso

contrario tale carattere deve considerarsi assente.

ii. Individualità: è ribadito che il carattere sussiste solo quando il ricorrente può sostenere che il provvedimento lo tocchi a causa di determinate qualità personali o di particolari

circostanze atte a distinguerlo dalla generalità.

b. Associazioni rappresentative d’interessi diffusi: i criteri restrittivi della “direttamente riguardato”, “individualità” e “modifica dei diritti acquistati dal singolo“ hanno trovato applicazione in relazione

alle associazioni, per la cui legittimazione non è sufficiente la circostanza che tutelino interessi generali, occorre, invece, che i soggetti rappresentati siano direttamente ed individualmente

<<riguardati>> dall’atto.

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i. Modifica dei diritti acquistati dal singolo: la Corte ha precisato che un atto che riguardi un gruppo di soggetti individuati o individuabili può essere impugnato quando modifichi i diritti

acquistati dal singolo prima della sua adozione

Quanto precisato vale anche per le Direttive che hanno normalmente una portata generale, in particolare occorre verificare se si tratta di una decisione dissimulata e se il singolo ne possa essere riguardato direttamente ed

individualmente.

Nonostante più di una critica, l’orientamento della Corte sui requisiti della rilevanza diretta ed individuale dell’atto per il singolo ai fini dell’impugnabilità è rimasto invariato.

Anche rispetto al rilievo che tale orientamento avrebbe potuto comportare una riduzione nella protezione giurisdizionale la Corte aveva comunque confermato il suo orientamento, limitandosi a al rilievo che l’estensione

della legittimazione attiva delle persone fisiche e giuridiche avrebbe richiesto una modifica del Trattato.

Il Trattato di Lisbona ha realizzato la revisione delle condizioni di ricevibilità del ricorso di annullamento proposto dal singolo, persona fisica o giuridica, sancendo il diritto di impugnare gli atti regolamentari che li riguardano

direttamente e non contengano alcuna misura di esecuzione. Art. 263, c. 4° TFUE.

E’ ripresa in questo modo una novità che era prevista dal progetto di Trattato Costituzionale, fallito per mano referendaria, anche se non è dato sapere a cosa si riferisca l’espressione <<atti regolamentari>>.

Questa tipologia di atti era stata espressamente prevista nel Progetto di Trattato Costituzionale, ma abbandonata dal Trattato di Lisbona che si limita ad affermare che gli atti (regolamento, direttiva e decisione) adottati in base alla

procedura legislativa ordinaria o speciale, sono atti legislativi.

Si deve, dunque, ritenere che gli <<atti regolamentari>> ai quali si riferisce la norma siano quelli di carattere generale adottati secondo procedure diverse da quella legislativa.

Si aggiunga che l’art. 263, c. 5°, dispone che gli atti che istituiscono Organi dell’Unione possono a loro interno prevedere condizioni e modalità specifiche relative ai ricorsi proposti da persone fisiche o giuridiche contro atti di

detti organi destinati a produrre effetti giuridici nei loro confronti.

Il termine per l’impugnazione è di due mesi a decorrere dalla pubblicazione dell’atto, peraltro nel caso di atti pubblicati il termine decorre dalla data in cui la Gazzetta Ufficiale è stata effettivamente diffusa, cosa che non

sempre corrisponde con la data ufficiale.

Il termine decorre, altresì, dalla data di notificazioni per gli atti che prevedano tale obbligo (decisioni), ovvero, quale criterio residuale e subordinato, dal giorno in cui il ricorrente ne ha avuto la effettiva conoscenza.

I Vizi.

Sono quelli del contenzioso amministrativo: incompetenza; violazione delle forme sostanziali; violazione[di legge] delle norme dei Trattati o di quelle relative alla loro applicazione; sviamento di potere.

1) L’incompetenza.

Spesso rimane assorbita dalla <<violazione di legge>>, comprende sia l’incompetenza relativa dell’Istituzione che ha adottato l’atto, sia l’incompetenza assoluta dell’Unione in quanto tale.

2) La violazione delle forme sostanziali.

Comprende, in particolare, il difetto di motivazione nonché l’errata base giuridica.

Relativamente alla errata base giuridica è patologia dell’atto di non trascurabile rilievo e presta profili più generali che investono lo stesso equilibrio delle istituzioni. Si pensi, ad esempio ad un atto che poteva essere adottato a

maggioranza(207) e che invece è stato basato sull’unanimità (352).

3) La violazione di legge.

Comprende la violazione delle norme dei Trattati e di diritto derivato dell’Unione.

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Inoltre essa comprende anche i principi generali consolidatisi nella giurisprudenza della Corte: proporzionalità, non discriminazione, legittimo affidamento, rispetto dei diritti della difesa.

La violazione di legge riguarda, infine, anche le norme internazionali convenzionali e quelli consuetudinarie internazionali generalmente riconosciute.

Relativamente alle norme convenzionali la giurisprudenza richiede che siano provviste di effetto diretto.

Ciò ha riguardato le norme GATT (Accordo sulle tariffe ed il Commercio) che data la loro peculiare flessibilità non potevano costituire parametro di legittimità.

4) Lo sviamento di potere.

Si verifica quando l’amministrazione, nell’ambito della discrezionalità di cui gode, esercita un determinato potere allo scopo di raggiungere fini diversi da quelli per il quale il potere è stato conferito.

Lo sviamento deve risultare da indizi <<obiettivi, pertinenti e concordanti>>.

Lo sviamento di potere comprende anche lo sviamento di procedura ,cioè quando una determinata procedura sia utilizzata a fini diversi da quelli per i quali è stata istituita.

Le misure cautelari.

Il ricorso proposto al giudice dell’Unione non ha effetto sospensivo.

Tuttavia, l’art. 278 TFUE prevede la possibilità di chiedere alla Corte, in via cautelare, la sospensione dell’atto impugnato.

La Corte può, inoltre, ordinare misure provvisorie, diverse dalla sospensione, che ritiene necessarie.

La misura viene decisa dal Presidente della Corte che, eccezionalmente, può investire anche il plenum .

L’ordinanza cautelare del Presidente del Tribunale è impugnabile dinanzi alla Corte.

Quanto alle condizioni che giustificano un provvedimento cautelare non si discostano da quelle di qualunque ordinamento: accessorietà e strumentalità della misura rispetto al giudizio principale, fumus boni iuris o l’apparenza del diritto, irreparabilità del danno scaturente dall’esecuzione del provvedimento impugnato o periculum in mora,

bilanciamento degli interessi a confronto .

L’accoglimento del ricorso da luogo all’annullamento dell’atto impugnato con effetto ex tunc.

In casi eccezionali è prevista la facoltà della Corte di dichiarare che l’annullamento è con effetto ex nunc.

3. L’AZIONE IN CARENZA

Il ricorso in carenza è uno strumento che tende a porre rimedio giudiziale alla illegittima inattività di una Istituzione dell’Unione o della BCE.

Esso consente di metter in discussione il comportamento del Parlamento europeo, del Consiglio Europeo, del Consiglio e della Commissione, nonché della BCE, allorché tali Istituzioni e Organi, in violazione del Trattato, si

astengano dal pronunciarsi.

L’art. 265, TFUE prefigura uno strumento d’impugnazione autonomo rispetto a quello disciplinato dal 263.

Il ricorso in carenza riguarda non l’ipotesi di un rifiuto, perché si tratta comunque di un provvedimento, ma l’illegittima assenza di decisione e tende ad una contestazione dell’inerzia dell’istituzione.

L’introduzione del ricorso davanti la Corte è subordinata ad una fase amministrativa preliminare.

Invero, perché il ricorso sia ricevibile c’è bisogno che gli Stati membri e le altre Istituzioni dell’Unione (legittimate attive) abbiano messo in mora l’Istituzione o l’Organi cui rimproverano l’inerzia.

Tale messa in mora deve avere luogo dopo un <<termine ragionevole>> in cui sia possibile apprezzare l’inerzia.

Dal momento della messa in mora, l’Istituzione dispone di un periodo di due mesi per prendere posizione, decorso invano il quale l’autore della messa in mora può introdurre il ricorso, a sua volta entro due mesi.

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Quando invece l’Istituzione rifiuti espressamente di prendere posizione, oppure adotti l’atto voluto dal richiedente o adotti un qualche provvedimento sia pure diverso da quello sollecitato, questo è impugnabile, se difforme dalla

richiesta, non più con l’azione in carenza, ma con quella di annullamento.

L’assenza di decisione deve essere attuale e permanente.

Legittimati attivi sono gli Stati membri e le Istituzioni dell’Unione.

Si è discusso se l’astensione debba necessariamente riferirsi all’adozione di atti vincolanti, ma il dibattito è privo di interesse , infatti, non si comprende quale possa essere il vantaggio di una azione in carenza per atti privi di

vincolatività.

I singoli, persone fisiche o giuridiche, possono proporre ricorso in carenza ex art. 265, c. 3°, quando l’Istituzione abbia omesso di “emanare un atto che non sia una raccomandazione o un parere “(quindi un atto vincolativo).

A differenza delle istituzioni il singolo può agire in carenza solo quando l’istituzione abbia omesso di emanare nei suoi confronti un atto.

Si poi discusso se l’omissione debba riferirsi ad un atto in cui il ricorrente sia formalmente il destinatario, ovvero debba accogliersi una lettura più ampia.

La Corte, dopo una prima fase di molta prudenza, ha ammesso un parallelismo tra l’impugnazione di atti che investono direttamente ed individualmente il ricorrente che non ne sia il destinatario (art. 263, 4°) e l’analoga

condizione relativa all’azione in carenza (265, 3°).

Nell’ambito della procedura fondata sull’art. 265, il ricorrente, Stato membro o singolo, ha anche la possibilità di chiedere ex art. 279 TFUE, provvedimenti provvisori.

4. L’ECCEZIONE D’INVALIDITÀ

L’art. 277 TFUE recita “Nell'eventualità di una controversia che metta in causa un atto di portata generale adottato da un'istituzione, organo o organismo dell'Unione, ciascuna parte può, anche dopo lo spirare del termine previsto all'articolo 263, sesto comma, valersi dei motivi previsti all'articolo 263, secondo comma, per invocare dinanzi alla Corte di giustizia dell'Unione europea l'inapplicabilità dell'atto stesso “ ; esso prefigura l’eccezione di invalidità. Si tratta di un’eccezione incidentale che le parti possono sollevare nel corso di una procedura già attivata per altri

motivi, al fine di far dichiarare alla Corte l’inapplicabilità dell’atto su cui si verte e questo anche dopo che sia spirato il termine d’impugnazione previsto.

La similitudine che richiama l’ipotesi è quella dell’eccezione di invalidità di un regolamento in occasione dell’impugnazione di un atto di esecuzione di quello stesso regolamento e come motivo dell’invalidità dall’atto

impugnato.

Se è necessario che l’eccezione di invalidità sia incidentale rispetto a procedura già pendente, è altresì indispensabile che vi sia uno stretto collegamento tra l’atto impugnato e quello di cui si chiede incidentalmente la illegittimità.

Ne deriva, logicamente, che l’irricevibilità del ricorso di annullamento comporta la automatica caducazione dell’eccezione proposta ex art. 277.

Nel Trattato CE l’eccezione di invalidità era formalmente limitata ai regolamenti, mentre nel TFUE è stata estesa a tutti gli atti di portata generale.

L’eccezione è estesa altresì anche a quegli atti che pure avendo natura e nome iuris diversi, producano gli stessi effetti generali.

L’eccezione di invalidità è collegata all’impossibilità per i singoli ex art. 263 di agire per l’annullamento di portata generale.

Tuttavia questo non implica che i <<ricorrenti privilegiati>>(Stati membri e Istituzioni) sia sempre impedito di formulare tale eccezione.

Non lo vieta la lettera che fa riferimento a <<ciascuna parte>>; non la ratio che è quella di evitare che un atto viziato possa costituire la base giuridica valida per altri atti; non la giurisprudenza che la ammette sia pure limitatamente al

caso in cui sia contestato un regolamento nel contesto di una azione di annullamento proposta contro un altro regolamento.

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È evidente che allo Stato membro, come al singolo, è preclusa l’eccezione di invalidità rispetto ad una decisione individuale di cui sia il destinatario.

È stato ribadito dalla giurisprudenza della Corte che lo Stato non può eccepire in via incidentale l’illegittimità di una decisione di cui sia destinatario in una procedura per inadempimento e che l’unica eccezione ammissibile riguarda

l’ipotesi di un atto viziato in modo così grave ed evidente da essere inesistente.

L’effetto di eventuale accoglimento dell’eccezione d’invalidità è l’inapplicabilità dell’atto e non il suo annullamento.

5. L’AZIONE DI RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE

La competenza della Corte di Giustizia in materia di responsabilità extracontrattuale e di risarcimento del relativo danno è statuita dall’art. 268 TFUE, collegata alla funzione di controllo sulla legittimità degli atti dell’Unione.

La disciplina è prevista dall’art. 340, 2° c. TFUE, il quale si limita a imporre all’Unione di risarcire, conformemente ai principi generali, i danni causati dalle sue Istituzioni ovvero dagli agenti nell’esercizio delle loro funzioni.

Il 3° comma estende questa disciplina ai danni causati dalla BCE e dai suoi agenti nell’esercizio delle funzioni.

La disciplina ed il contenzioso meritano attenzione a cominciare dalle condizioni di ricevibilità.

A. La competenza è della Corte di Giustizia e sussiste solo quando il danno sia stato cagionato da una Istituzione dell’Unione o da un suo agente, dalla BCE o da suo agente. È competenza esclusiva.

B. La competenza appartiene ai giudici nazionali quando risulti che il danno allegato sia stato prodotto da organismi nazionali, sia pure in applicazione di normativa dell’Unione.

In relazione alla competenza e ricevibilità ed al sottile distinguo delle regole sovresposte, la Corte ha elaborato il criterio della competenza efficiente in base al quale è il giudice nazionale a dovere essere adito qualora sia nelle

condizioni di statuire utilmente.

Più in generale si dovrebbe far ricorso all’azione di risarcimento per danno extracontrattuali in termini residuali rispetto ai mezzi predisposti per l’annullamento di misure ed atti nazionali.

Tali mezzi debbono assicurare al singolo di restare comunque indenne dalle conseguenze dannose dell’illegittimità dell’atto.

Quando, ad esempio, i mezzi interni assicurano l’annullamento dell’atto o anche la restituzione delle somme indebitamente versate, ma non anche il risarcimento del danno, è esperibile la procedura ex artt. 268 e 340, c. 2°

TFUE

Tuttavia, quello che la giurisprudenza ha inteso evitare con le sue pronunce, è che l’azione di responsabilità sia utilizzata per conseguire lo stesso risultato che avrebbe potuto essere raggiunto utilmente con una azione diversa.

L’azione per danni non può essere il mezzo per neutralizzare gli effetti di un atto lesivo, quando tale obiettivo possa essere utilmente raggiunto attraverso una normale azione di annullamento.

In questo senso la ratio della sentenza Plaumann.

Infatti, se è vero che il presupposto dell’accertamento della responsabilità e della correlata risarcibilità del danno è il controllo della legittimità dell’atto lesivo, è anche vero che in tale sede il controllo non è pieno.

A ciò va aggiunto che la dichiarazione di illegittimità resta puramente incidentale e non produce gli effetti propri dell’azione di annullamento.

Le condizioni della responsabilità extracontrattuale e del conseguente obbligo risarcitorio sono state precisate dalla Corte:

A. illiceità del comportamento dell’istituzione;

B. danno effettivo;

C. nesso di causalità tra comportamento illecito e danno arrecato.

Inoltre, nell’ipotesi che un danno derivi da un atto normativo che implica scelte di politica economica, la responsabilità per danno sussiste solo in caso di violazione grave di una norma superiore intesa a tutelare i singoli.

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Il danno poi deve essere individuale, non è ammissibile un’azione per responsabilità extracontrattuale quando l’atto investe categorie generalizzate di operatori economici e le conseguenze risultano molto attenuate per i singoli.

Quanto, infine, al danno risarcibile, la cui prova incombe sul ricorrente, esso deve essere <<speciale>> oltre che <<certo>> ed <<attuale>>.

La Corte ha avuto modo di precisare che sono risarcibili sia il pregiudizio materiale che quello morale, sia il danno emergente (la conseguenza diretta) sia il lucro cessante (il mancato guadagno).

Inoltre è riconosciuta la svalutazione monetaria, nonché gli interessi moratori fissati, senza riferimento al tasso legale vigente nello Stato membro del ricorrente, nella misura del 6-8%, e comunque in misura mai superiore a quanto

richiesto.

7. L’IMPUGNAZIONE DELLA SENTENZA DEL TRIBUNALE

L’art. 256 del TFUE prevede che tutte le azioni siano trattate in primo grado dal Tribunale, fatta eccezione per i rinvii pregiudiziali (almeno fino a quando non sarà applicato l’art. 256, c. 3°).

Il Tribunale ha ormai assunto il ruolo di giudice di primo grado a competenza generale, mentre relativamente alle decisioni adottate dalle camere giurisdizionali esercita la funzione di giudice di secondo grado.

La competenza del Tribunale riguarda anche i ricorsi individuali contro atti adottati da altri organi istituiti da atti dell’Unione di diritto derivato.

Il trasferimento delle competenze al Tribunale va letto sotto un duplice profilo. Il primo è quello dell’istituzione di un doppio grado di giurisdizione; il secondo riguarda l’attenzione ai fatti, alle esigenze istruttorie ed ai relativi strumenti

processuali.

Ciò ha comportato per la Corte due risultati, da un lato una riduzione del numero delle cause, dall’altro una accentuazione del suo ruolo di “giudice costituzionale “ in senso lato, cioè custode dell’uniformità di applicazione del

diritto dell’Unione.

La cognizione del Tribunale, dunque, si sostituisce in primo grado alle competenze che il Trattato attribuiva alla Corte rispetto alle azioni attivate da ricorsi individuali e, in taluni casi, dagli Stati membri: di annullamento (art. 263); in

carenza (art. 265); di responsabilità extracontrattuale (art. 268).

È possibile che Corte e Tribunale siano chiamati a decidere contemporaneamente si ricorsi aventi lo stesso oggetto.

Come ad esempio quando si verta su decisione della Commissione su aiuti pubblici alle imprese, impugnabile dagli Stati membri davanti alla Corte, dalle singole imprese dinanzi al tribunale.

In tale ipotesi la norma dello Statuto della Corte consente varie soluzioni:

Il tribunale potrà sospendere la procedura ed attenere la pronuncia della Corte, soluzione che rischia di pregiudicare la tutela del singolo, in quanto non avrebbe alcuna possibilità di interloquire nel procedimento

avanti la Corte.

Il tribunale potrà decidere di spogliarsi della causa, declinando la propria competenza e lasciare sia la Corte a decidere, in tal caso, anche il processo avviato dal privato verrebbe ad essere deciso dalla Corte, ma, come è

evidente, verrebbe leso il diritto di doppia tutela assicurato odiernamente.

Può accadere che sia la Corte a sospendere la sua procedura, in tal caso si continuerà davanti al Tribunale, questa soluzione assicura alle parti il doppio grado di giudizio.

Sospensione e declinatoria sono, in linea di principio generale, considerati istituti incompatibili con il procedimento di urgenza.

L’impugnazione della sentenza di primo grado può essere proposta entro due mesi dalle parti, principali ed intervenute.

Una posizione privilegiata è assicurata agli Stati ed alle Istituzioni, i quali possono impugnare sempre una sentenza del Tribunale.

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L’impugnazione deve essere diretta a rimediare agli errori in diritto della sentenza di primo grado, essa non può limitarsi ad una mera riproposizione della domanda, ma deve indicare espressamente i punti della sentenza

impugnata di cui si chiede l’annullamento perché viziati.

Si tratta, quindi, non di un giudizio di appello, bensì di cassazione.

I vizi censurabili sono:

L’incompetenza del Tribunale;

I vizi di procedura che hanno causato pregiudizio;

La violazione in diritto dell’Unione.

L’errore in diritto deve comprendere non solo l’errore nell’interpretazione o identificazione della norma applicata, ma anche l’errore nella qualificazione giuridica dei fatti.

La funzione latu sensu nomofilattica della Corte richiede una rigorosa delimitazione del giudizio sui fatti, area di decisione del Tribunale, rispetto al diritto, sul quale opera il controllo di secondo grado della Corte.

Altro elemento è il vizio di motivazione della sentenza impugnata.

La mancata previsione nell’elencazione dei vizi censurabili, non lo esclude come ipotesi di violazione del diritto dell’Unione.

La contraddittorietà, come la insufficienza, risolvendosi nella violazione dell’obbligo del Tribunale di motivare le proprie pronunce, rappresenta un errore di diritto, invocabile in giudizio di impugnazione davanti la Corte.

8. LA REVOCAZIONE, IL RIESAME, IL RINVIO

La Revocazione.

Lo Statuto della Corte prevede l’istituto della revocazione della sentenza, applicabile alle pronunce sia del Tribunale che della Corte entro il termine di dieci anni dalla data della sentenza.

Non si tratta di impugnazione, ma di un mezzo straordinario di ricorso.

Condizione indispensabile è la scoperta dopo la sentenza di elementi di fatto nuovi, anteriori alla sentenza e tali che, se conosciuti e apprezzati dal giudice, avrebbero potuto condurre ad una diversa soluzione della controversia.

L’opposizione

Avverso la sentenza pronunciata in contumacia da proporsi entro un mese dalla notifica della sentenza. Segue lo stesso rito di quello ordinario.

Il Riesame.

È istituto di difficile classificazione giuridica, esso riguarda le sentenze del Tribunale.

Più precisamente, l’art. 256, par. 2 e 3 del TFUE, prevede che le decisioni emesse dal Tribunale su ricorsi proposti avverso le decisioni delle camere giurisdizionali, nonché le decisioni emesse su questioni pregiudiziali, possono

eccezionalmente essere oggetto di riesame da parte della Corte.

Si tratta di una procedura di urgenza che trova applicazione sia nei ricorsi diretti che in quelli indiretti, quando sussistano gravi rischi per l’unità e coerenza del diritto dell’Unione.

In attuazione dell’art. 256, lo Statuto ha affidato al primo avvocato generale l’iniziativa di proporre alla Corte il riesame della decisione del tribunale.

La proposta deve essere presentata entro un mese dalla pronuncia del tribunale, la Corte deve decidere entro un mese.

Nell’ipotesi che la Corte di giustizia costati che la decisione del Tribunale pregiudichi l’unità e coerenza del diritto dell’Unione, rinvia la causa al Tribunale che è vincolato ai punti di diritti decisi dalla Corte.

Il Rinvio.

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È strettamente correlato al trasferimento di alcune, limitate, competenze pregiudiziali dalla Corte al Tribunale.

Questo istituto troverà piena applicazione solo verranno effettivamente affidate al Tribunale siffatte competenze.

Specificatamente, l’art. 256, par. 3, del TFUE, attribuisce al Tribunale la facoltà di disporre un rinvio alla Corte<<ove ritenga che la causa richieda una decisione di principio che potrebbe compromettere l’unità o la coerenza del diritto

dell’Unione>>.

Tale rimedio è subordinato alla sussistenza delle stesse condizioni eccezionali previste per il riesame, ma è altresì soggetto al potere discrezionale del Tribunale.

9. IL CONTROLLO GIURISDIZIONALE. LA PROCEDURA D’INFRAZIONE

Il controllo della Corte sulla puntuale applicazione mira a garantire l’armonia del sistema giuridico dell’Unione considerato nel suo insieme.

La procedura d’infrazione si collega al ruolo attribuito alla Commissione di custode della corretta applicazione da parte degli Stati dei Trattati e degli atti dell’Unione (art. 17, Trattato U.E.).

È sostanzialmente diretta a porre termine alla violazione del diritto dell’Unione.

Quanto alla natura della infrazione, essa consiste nella violazione di una qualsiasi obbligazione che incomba su di uno Stato membro.

È vero che l’art. 258 si riferisce agli <<obblighi incombenti in virtù dei Trattati>>, ma è chiaro che si tratta di tutti gli obblighi che derivano dal sistema giuridico europeo considerato.

L’inadempimento può consistere in un comportamento o in un atto normativo o in una pratica amministrativa o, più spesso, nell’aver omesso di dare formale attuazione agli obblighi derivanti da un atto dell’Unione.

Una ipotesi particolare di inadempimento è quella della mancata esecuzione di una sentenza della Corte, ciò rappresenta una violazione dell’art. 260 TFUE.

La procedura d’infrazione ha in primo luogo una fase precontenziosa:

Lettera di messa in mora: avendo la Commissione in sede di controllo sistematico rilevato un inadempimento ha luogo una fase precontenziosa, prevista dall’art. 258 TFUE, essa consiste in una lettera di

messa in mora che è una prima contestazione degli addebiti .

Osservazioni: Lo Stato membro cui è indirizzata la lettera di messa in mora può rispondere alla censura della Commissione, facendo valere gli argomenti di diritto e fatto che ritiene opportuni.

Parere motivato: la Commissione, se non ritiene adeguate le osservazioni invia allo Stato membro un parere motivato nel quale sono specificate le infrazioni e gli elementi in fatto e diritto che sostengono la

contestazione, specificando altresì il termine entro cui lo Stato è tenuto ad adeguarsi.

La lettera di messa in mora ed il parere motivato costituiscono passaggi obbligati della procedura d’infrazione, in quanto definiscono l’oggetto della controversia e soddisfano l’esigenza del contraddittorio.

Ricorso

Se entro il termine fissato lo Stato membro non adempie a quanto richiesto, la Commissione può presentare (è una facoltà) un ricorso alla Corte di Giustizia.

Nel ricorso i motivi di doglianza devono corrispondere a quelli indicati nella fase precontenziosa.

L’inadempimento deve essere rigorosamente provato dalla Commissione e non può essere fondato su presunzioni.

Non è previsto un termine per la presentazione del ricorso da parte della Commissione, che conserva un’ampia discrezionalità.

Più in generale va considerato che la Commissione, secondo una consolidata giurisprudenza non ha un obbligo di attivare e proseguire la procedura d’infrazione ma solo una facoltà.

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La facoltà della Commissione è determinata dalla scadenza del termine concesso nel parere motivato, se quel termine è trascorso invano, sussiste e permane l’interesse della Commissione a portare lo Stato davanti la Corte di

giustizia.

L’adempimento tardivo dello Stato membro rispetto al termine, sia esso intervenuto prima dell’introduzione del ricorso o durante il giudizio, non determina automaticamente il venir meno dell’interesse all’azione.

Infatti, proprio a motivo della possibilità che la sentenza di accertamento d’infrazione possa fondare una eventuale responsabilità dello Stato inadempiente nei confronti dell’Unione, degli altri Stati membri e soprattutto dei singoli, la Corte ha sempre respinto l’eccezione d’irricevibilità del ricorso della Commissione fondata sull’adempimento tardivo

dello Stato.

Misure cautelari.

La Corte ha affermato la propria competenza ad adottare misure cautelari in virtù dell’art. 279 TFUE anche nell’ambito della procedura d’infrazione.

Si è così superata qualche perplessità dovuta al fatto che tali misure si risolvono in un ordine di sospendere l’applicazione di una legge o di un atto amministrativo nazionali.

Inoltre la Corte ha anche sospeso l’applicazione di una normativa nazionale inaudita altera parte in attesa dell’ordinanza conclusiva del procedimento cautelare.

L’ordinanza cautelare della Corte finisce con l’avere, ed in fatto ha avuto, una portata più incisiva ed efficace rispetto alla sentenza definitiva.

La sentenza, infatti, ai sensi dell’art. 260 lascia agli Stati membri o all’amministrazione dell’Unione di provvedere a trarne le conseguenze.

Inoltre, la prassi non conosce casi di inosservanza delle ordinanze cautelari della Corte, mentre ben si conoscono quelli di ritardi nell’ottemperanza delle sentenze.

La procedura d’infrazione è condotta nei confronti dello Stato membro, unico interlocutore riconosciuto dal diritto dell’Unione.

D’altra parte i comportamenti rilevanti al di la della dimensione nazionale, sono da sempre imputati allo Stato in quanto tale.

Il problema evocato è di qualche interesse soprattutto in relazione ad infrazioni che investono competenze commesse da articolazioni dello Stato, come ad esempio le Regioni.

Tuttavia, lo Stato non può invocare a sua esimente competenze affidate dal proprio ordinamento ad Ente espressione della sua articolazione territoriale.

In definitiva è sempre lo Stato membro ad essere dichiarato responsabile ex art. 258 TFUE, senza che rilevi la circostanza che la violazione sia imputabile al potere legislativo, esecutivo o giudiziario.

Così come è irrilevante una crisi di governo ovvero la sospensione dei lavori parlamentari a causa dello scioglimento delle camere. La Corte ha precisato che possibile evocare la forza maggiore per giustificare difficoltà temporanee di adempimento, ma solo per il periodo strettamente necessario ad un’amministrazione diligente per porvi rimedio.

Oltre alla procedura d’infrazione, in virtù dell’art. 259 la stessa procedura può essere attivata da uno Stato membro per veder riconosciuto l’inadempimento di un altro Stato membro. Nella fase precontenziosa lo Stato investe la

Commissione della sua doglianza; all’istituzione competono gli stessi adempimenti della procedura normale. Vi sono poi specifiche ipotesi di inadempimento per i quali si prevede una procedura accelerata, dove la Commissione e gli

Stati membri possono adire direttamente la Corte. Per esempio in materia di aiuti di Stato, in materia di ravvicinamento delle legislazioni.

10. EFFETTI DELLA SENTENZA DI INADEMPIMENTO E SANZIONE PECUNIARIA

Gli effetti della pronuncia di infrazione sono prefigurati dall’art. 260 TFUE.

La sentenza testualmente <<riconosce>> che lo Stato è inadempiente rispetto ad una o più obbligazioni.

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Si tratta, dunque, di una sentenza meramente <<dichiarativa>>, non esistendo la possibilità di attuare in forma coattiva la pronuncia della Corte.

D’altra parte è formalmente escluso ex art. 344 che l’inadempimento riconosciuto con sentenza della Corte possa dar luogo ad una qualsiasi azione di altri Stati membri al di fuori dei meccanismi dell’Unione espressamente previsti.

Ciò posto, gli Stati dichiarati inadempienti sono comunque tenuti a prendere i provvedimenti per l’esecuzione.

La giurisprudenza ha statuito che la pronuncia che accerti l’incompatibilità con i Trattati di una legge nazionale, comporta per lo Stato l’obbligo di modificarla, nonché l’obbligo per i giudici di garantire l’osservanza della norma

europea così come interpretata dalla Corte, determinando anche i diritti che i singoli ne traggono.

In sostanza, l’incompatibilità di una norma nazionale può essere definitivamente rimossa solo con disposizioni vincolanti che abbiano lo stesso valore giuridico e lo stesso rango di quelle riconosciute in contrasto con

l’ordinamento dell’Unione.

Il TFUE non fissa alcun termine per l’esecuzione della sentenza, è tuttavia palmare l’esigenza, al fine di garantire l’unità e coerenza del sistema dell’Unione, di applicazione immediata ed uniforme.

Nella versione precedente al Trattato di Maastricht la mancata o non corretta applicazione della sentenza era configurabile quale <<normale inadempimento>> e, come tale, passibile a sua volta di procedura d’infrazione.

Era questa l’ipotesi della << doppia condanna>>.

Il Trattato di Maastricht ha aggiunto la previsione di una <<sanzione pecuniaria>>.

Il Trattato di Lisbona ha aggiunto una ulteriore novità, prevedendo che la <<Commissione possa direttamente richiedere nel primo ricorso alla Corte ex art. 258 TFUE, di condannare lo Stato inadempiente al pagamento di una

sanzione pecuniaria[cifra forfettaria]>>.

È, questa ultima, procedura accelerata limitata ai soli casi in cui lo Stato non abbia trasposto correttamente una direttiva adottata secondo la procedura legislativa, restando escluse tutte le altre violazioni del diritto europeo.

11. CONTROLLO GIURISDIZIONALE. FUNZIONE ED OGGETTO DEL RINVIO PREGIUDIZIALE

Nel sistema di controllo giurisdizionale un rilievo decisivo ha assunto la cooperazione tra Corte di Giustizia e giudice nazionale, definito <<giudice comune>> o <<giudice naturale>> del <<diritto dell’Unione>>.

Per comprendere il ruolo del giudice nazionale, occorre partire dalla considerazione che l’applicazione della norme e degli atti dell’Unione è per molta parte demandata agli Stati membri.

Gran parte delle situazioni giuridiche disciplinate direttamente o indirettamente da norme dell’Unione è regolata ed ha pratica rilevanza sul piano interno.

Nella patologia dei rapporti giuridici a dare applicazione del diritto dell’Unione, direttamente, ovvero nella forma dell’atto nazionale imposto da norma europea, è principalmente il giudice nazionale.

È, dunque, chiaro che i giudici di 27 paesi diversi, operanti in sistemi giuridici differenti, chiamati ad applicare in via diretta o mediata il diritto dell’’Unione, possono trovare oggettive difficoltà di uniformità ed univocità di

interpretazione.

È nella prospettiva di applicazione uniforme del diritto dell’Unione che va messo a fuoco l’istituto del rinvio pregiudiziale prefigurato all’art. 267 TFUE, che dà al giudice nazionale la facoltà, e se di ultima istanza l’obbligo, di

chiedere alla Corte di giustizia una pronuncia sull’interpretazione ovvero sulla validità di una norma dell’Unione quando tale pronuncia sia necessaria per risolvere la controversia di cui è stato investito.

Così, di fronte alla possibile o accertata rilevanza di una norma dell’Unione per la risoluzione della controversia, può essere utile o necessario al giudice nazionale, prima di decidere, di avere una risposta ai seguenti possibili

interrogativi:

1. Rinvio pregiudiziale di interpretazione: quale è la corretta interpretazione e con essa la portata di una norma dell’Unione;

2. Rinvio pregiudiziale di validità:se la norma dell’Unione sia valida ed efficace.

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Il meccanismo non è nuovo, è lo stesso che attua il giudice a quo nel rinvio pregiudiziale di legittimità costituzionale.

L’art. 267 del TFUE ha attribuito alla Corte di Giustizia una competenza generale in materia pregiudiziale.

La Corte è anche competente a pronunciarsi in relazione alle disposizioni dell’Accordo sullo Spazio Economico Europeo (SEE) .

L’incidente comunitario pregiudiziale realizza tre funzioni essenziali e risponde a specifico oggetto.

1. [NOMOFILASSI]Prima funzione essenziale: del rinvio pregiudiziale è di realizzare un’interpretazione e, quindi, una applicazione uniforme del diritto dell’Unione in tutti i Paesi membri. È pertanto indispensabile che le

norme dell’Unione ricevano la stessa chiave di lettura e le stesse possibilità di applicazione, che vi sia, quindi, da parte della Corte una interpretazione centralizzata in funzione nomofilattica.

2. [SINDACATO DI LEGITTIMITÀ DELLE NORME INTERNE DEGLI STATI MEMBRI]Seconda funzione essenziale: del rinvio pregiudiziale è di verificare la legittimità di una legge nazionale o di un atto o prassi amministrativa rispetto

al diritto dell’Unione. Il meccanismo è complesso e propone diversi dubbi, in quanto il giudice nazionale accerta la legittimità o meno di una legge nazionale sulla scorta di un’interpretazione del diritto dell’Unione

da parte della Corte di Giustizia. Nei fatti, almeno sotto il profilo tecnico, non ci sono molte difficoltà operative, in quanto il meccanismo è simile a quello che si adotta per il rinvio pregiudiziale alla Corte

Costituzionale.

Da subito il controllo della Corte sulla legittimità di norme, atti e prassi amministrative nazionali, anche se indiretto, è stato momento fondamentale del sistema di tutela dei diritti che il singolo vanta in forza del

diritto dell’Unione.

Rilevanza a questo proposito assunse la sentenza Van Gend en Loos a proposito della disposizione che vieta agli Stati membri di introdurre negli scambi intracomunitari nuovi dazi o tasse equivalenti, di cui si assumeva

la violazione da parte dei Paesi Bassi.

L’obiezione era che per sindacare le infrazioni delle norme nazionali incompatibili il Trattato aveva predisposto come rimedio specifico la procedura d’infrazione ex artt. 258 e 259, sicché il singolo non poteva

pretendere di giungere allo stesso risultato provocando un rinvio pregiudiziale del giudice nazionale.

La Corte rispose che limitare la possibilità di far valere la violazione di una norma dell’Unione equivaleva a lasciare i diritti dei singoli privi di tutela giurisdizionale diretta.

La vigilanza dei singoli, interessati alla salvaguardia dei loro diritti, costituisce invece un efficace controllo che si aggiunge a quello degli artt. 258 e 259, effettuato dalla Commissione.

Va sottolineato che spesso, sbagliando, il giudice nazionale formula la propria richiesta in termini di legittimità della norma nazionale rispetto a normativa dell’Unione.

In questi casi la Corte, precisato che non è competente a dichiarare essa stessa l’incompatibilità della norma interna, provvede a riformulare il quesito in forma di “domanda interpretativa” e risponde così al reale

quesito posto dal giudice .

Quando singolo ritiene di subire un pregiudizio per effetto dell’applicazione di una norma o di una prassi nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione, può far valere tale incompatibilità in due modi. Il primo è la segnalazione alla Commissione che deciderà se attivare o meno la procedura d’infrazione; secondo chiedere

al giudice nazionale di procedere al rinvio pregiudiziale di interpretazione ex art. 267.

3. [SINDACATO DI LEGITTIMITÀ DEL DIRITTO DELL’UNIONE]Terza funzione essenziale: del rinvio pregiudiziale consiste nel complesso sistema di controllo giurisdizionale per verificare la legittimità degli atti dell’Unione. Tanto accade proprio in quanto le amministrazioni nazionali sono spesso chiamate a dare applicazione del Diritto

dell’Unione.

Succede, allora, che dinanzi al giudice nazionale, in funzione di giudice comune , sia messa in discussione o la norma giuridica dell’Unione ovvero la base giuridica dell’atto dell’Unione o del comportamento

dell’amministrazione nazionale.

Lo scopo può essere di farne valere l’illegittimità, ovvero di accertare definitivamente la legittimità contestata, in entrambi i casi chiamando in causa, attraverso il rinvio pregiudiziale, la Corte di Giustizia.

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La competenza della Corte di Giustizia è esclusiva rispetto al controllo sulla legittimità degli atti dell’Unione, in particolare nel senso che solo la Corte può dichiarare l’eventuale illegittimità dell’atto, mentre il giudice

nazionale può solo confermare la legittimità.

È fatta salva la procedura nazionale di natura cautelare, nella quale il giudice nazionale può sospendere l’applicazione di un atto interno di attuazione di un atto dell’Unione con l’obbligo del rinvio pregiudiziale alla

Corte di Giustizia.

L’ipotesi di rinvio pregiudiziale va collegata logicamente e sistematicamente alle procedure di controllo diretto, quali l’azione di annullamento, l’eccezione di invalidità, l’azione di responsabilità.

Ciò vuol dire che il rinvio pregiudiziale di validità completa il sistema dei rimedi giurisdizionali predisposti per la tutela dei diritti del singolo rispetto agli atti predisposti dalle istituzioni.

Difatti, la pregiudiziale di validità, colma la <<lacuna>> esistente nel sistema determinata dalla circostanza che al singolo è preclusa l’azione diretta di annullamento di un atto dell’Unione a portata generale.

Invece, quando ad un atto vincolante generale sia stata data attuazione sul piano interno, il singolo potrà impugnare la misura interna dinanzi al giudice nazionale, facendone valere la presunta illegittimità.

4. Oggetto : del rinvio pregiudiziale è quanto mai ampio, si tratta di tutto il sistema giuridico dell’Unione.

12. CONDIZIONI SOGGETTIVE ED OGGETTIVE DEL RINVIO PREGIUDIZIALE

Il rinvio pregiudiziale può essere deciso da qualunque giudice nazionale, amministrativo, penale, civile, tributario o del lavoro, purché si tratti della giurisdizione di uno Stato membro.

La nozione di giurisdizione ai sensi dell’art, 267 TFUE è nozione di diritto dell’Unione, sicché la sua attribuzione all’organo può non corrispondere alla qualificazione che ne abbia dato l’ordinamento dello Stato, essa va definita e

la sua sussistenza va determinata dalla Corte di giustizia.

In generale, nell’applicazione dei criteri di discrimine, c’è l’intento di dare la possibilità all’organo cui sia stata attribuita la definizione di una controversia di utilizzare il rinvio pregiudiziale in nome dell’esigenza dell’applicazione

uniforme del diritto dell’’Unione.

Sono stati esclusi dalla nozione di giurisdizione ai sensi dell’art. 267, la pubblica accusa; gli arbitri, ma non la giurisdizione nazionale sull’impugnazione del lodo arbitrale; gli ordini professionali, quando non rendano decisioni

giurisdizionali.

Per ciò che concerne il sistema italiano:

è stata negata la qualità di giurisdizione al Tribunale in sede di volontaria giurisdizione.

È stata accordata la qualifica di giurisdizione al Consiglio di Stato, in particolare quando è chiamato a dare il suo parere in sede di ricorso straordinario al Capo dello Stato.

Per la Corte dei conti si è fatta valere l’esigenza di verificare il contesto funzionale, in particolare in alcuni casi può essere riconosciuta la funzione giurisdizionale, mentre in altri esercita solo una funzione di valutazione e

controllo contabile successiva dell’attività amministrativa.

Specifico è il problema della Corte Costituzionale.

o Dal tenore letterale e dalla logica sembra potersi dire che l’art. 267 TFUE disponga che il rinvio competa al giudice della controversia. Il giudice costituzionale non è giudice della controversia,

mentre lo è il giudice a quo. La pregiudiziale europea precede quella di costituzionalità in quanto la pronuncia della Corte di Giustizia, incidendo sull’applicabilità della norma potrebbe decretare

l’infondatezza o l’irrilevanza del giudizio di legittimità costituzionale.

o Diversa è ipotesi in cui il giudice costituzionale è quello che definisce la causa, come nei casi di giudizio di legittimità costituzionale in via principale e di conflitto di attribuzioni tra Stato e regioni, laddove di recente la Corte Costituzionale ha espressamente riconosciuto nei giudizi di legittimità proposti in via principale la sua competenza a proporre una questione pregiudiziale alla Corte di

Giustizia ex art. 267 TFUE.

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13. SEGUE: FACOLTÀ ED OBBLIGO DI RINVIO

Facoltà

Il Giudice nazionale che non sia di ultima istanza ha la facoltà di sottoporre alla Corte di Giustizia un quesito pregiudiziale ogni volta che lo reputi indispensabile per giudicare la controversia dinanzi ad esso pendente.

Il Giudice che ha rivolto il quesito, inteso quale organo, deve essere lo stesso che ne riceverà la risposta, nel senso che questa deve essere necessaria per la decisione di quell’organo giurisdizionale.

Il problema si è posto in sede di procedura d’urgenza ex art. 700 c.p.c. rispetto al rinvio operato da un Pretore, ipotesi nella quale il giudice cautelare, una volta preso il provvedimento, rinviava le parti ad un giudice diverso

spogliandosi della causa.

Il problema oggi è ridimensionato dalla riforma del processo civile, considerato che di norma il giudice cautelare è anche il giudice di merito.

Obbligo:

Quando si tratta di un giudice di ultima istanza, Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e Corte costituzionale, quest’ultima limitatamente all’ipotesi di giudizio in via principale, tutti intesi nel senso del giudice le cui sentenze non

siano soggette ad impugnazione, questi ha l’obbligo di operare il rinvio.

Tale differenza trova giustificazione nel fatto che una pronuncia erronea del giudice di ultima istanza comporta la lesione definitiva del diritto del singolo e, conseguentemente, la mancata applicazione della norma dell’Unione.

L’obbligo di rinvio pregiudiziale può in alcuni casi venir meno, quando la questione sia materialmente identica ad una già sollevata e già decisa dalla corte, ovvero vi sia comunque una giurisprudenza costante sul punto.

Corte di giustizia ha di recente espressamente riconosciuto che gli Stati membri sono tenuti a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto dell’Unione riconducibili ad organi giudiziari, ed in particolare quando omettono

di ottemperare all’obbligo di rinvio pregiudiziale.

Nell’ipotesi poi di omesso rinvio alla Corte di giustizia da parte di una giurisdizione nazionale di ultima istanza si potrebbe prefigurare una violazione dei diritti fondamentali ad un equo processo e ad un giudice precostituito per

legge.

L’obbligo di rinvio è poi assoluto nel rinvio pregiudiziale di validità, ricorre anche quando l’invalidità sia stata dichiarata per un atto del tutto analogo.

La Corte può seguire una procedura semplificata sulle domande pregiudiziali, possibile in tre ipotesi:

- la questione sia identica ad una già definita

- sia desumibile con chiarezza dalla giurisprudenza

- la soluzione non alimenti alcun ragionevole dubbio

Questa ipotesi si affianca un procedimento pregiudiziale d’urgenza applicato esclusivamente nei settori relativi allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia.

La decisione del rinvio solo del giudice che può operarlo anche d’ufficio. Sebbene nella maggior parte dei casi siano le parti a sollecitare l’invio è pur sempre il giudice che provvede alla formulazione dei quesiti da sottoporre alla

Corte.

14. SEGUE: GIUDIZIO CAUTELARE NAZIONALE E RINVIO PREGIUDIZIALE

Occorre richiamare l’attenzione su alcune pronunce pregiudiziali di grande interesse, in cui la Corte si è soffermata sulla tutela cautelare che giudici interni devono apprestare a diritti vantati dai singoli in forza di norme dell’Unione.

- La prima ipotesi è quella del diritto vantato sulla base di una norma dell’Unione e negato dalla legge o dall’atto amministrativo nazionale. Tale ipotesi è stata prospettata alla Corte dal giudice inglese, davanti al quale la società Factortame deducendo l’incompatibilità comunitaria di una norma nazionale, chiedeva che, in attesa della pronuncia, la sua applicazione fosse sospesa.

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La camera dei Lords, sul rilievo che il sistema inglese non consente al giudice di sospendere l’applicazione di una legge di cui non sia stata accertata definitivamente l’illegittimità, chiedeva alla Corte se in base al diritto dell’Unione questo potere doveva essergli viceversa riconosciuto; risposta della Corte è stata positiva.

- seconda ipotesi riguarda il potere del giudice nazionale sospendere in via cautelare l’applicazione della normativa nazionale a ragione della pretesa illegittimità dell’atto dell’Unione di cui l’atto impugnato rappresenta la misura interna di attuazione. Nella sostanza si tratta per il giudice nazionale di sospendere l’applicazione di un atto dell’Unione.

La giurisprudenza riconosce al giudice nazionale eccezionalmente di esercitare in via cautelare il potere in questione, purché operi un rinvio alla corte di giustizia affinché si pronunci sulla validità dell’atto.

15. SEGUE: GLI EFFETTI DELLA SENTENZA PREGIUDIZIALE

1. La sentenza interpretativa della Corte vincola il giudice a quo , tenuto a dare applicazione della norma dell’Unione così come interpretata dalla Corte, all’occorrenza lasciando inapplicata la norma nazionale

contrastante.

a. Effetto: Tale sentenza deve essere considerata anche al di fuori del contesto processuale che l’ha provocata, proprio perché si pronuncia sui punti di diritto. Altri giudici, nonché le amministrazioni

nazionali, saranno tenuti a fare applicazione delle norme così come interpretate dalla Corte, determinando anche i diritti di cui i singoli possono godere. Ciò non esclude, però, la possibilità di un

altro rinvio pregiudiziale.

2. Sospensione in attesa di pronuncia della Corte di altro giudice su stesso quesito : La Corte di Cassazione aveva in passato precisato che il giudice che ritenesse necessaria l’interpretazione di una norma comunitaria

avesse quale unico mezzo quello del rinvio pregiudiziale e che gli fosse preclusa la semplice sospensiva del processo ex art. 295 c.p.c. in attesa della sentenza della Corte di Giustizia su rinvio pregiudiziale di altro giudice relativamente allo stesso quesito. Più recentemente la sospensione è stata ritenuta ammissibile.

3. Sentenza di validità dell’Atto dell’Unione: quando la Corte si pronuncia nel senso della validità dell’atto dell’Unione, si ha un effetto diverso dalla sentenza interpretativa.

a. Effetto: è strettamente limitato al caso ed ai motivi specifici della censura, la formula di rito della sentenza contiene la locuzione<<non sono emersi elementi idonei a inficiare la validità dell’atto>>

4. Sentenza di invalidità dell’Atto dell’Unione: quando la sentenza è di invalidità, si produce lo stesso effetto di una sentenza di annullamento, dunque l’effetto di cosa giudicata sia formale che sostanziale.

a. Effetto: l’istituzione che ha posto in essere l’atto invalidato potrà solo adottare un atto diverso che tenga conto dei motivi che hanno indotto la Corte a dichiarare l’invalidità dell’atto impugnato.

5. Effetti nel tempo: normalmente si tratta di una efficacia ex tunc in quanto la pronuncia definisce la portata della norma dell’Unione così come avrebbe dovuto essere intesa ed applicata sin dall’inizio.

a. Similitudine fra annullamento ed invalidità per l’effetto ex nunc: La giurisprudenza ha tuttavia esteso alle pronunce pregiudiziali la facoltà di dichiararne l’efficacia ex nunc prevista dall’art. 264

per le sole sentenze di annullamento. La Corte ha considerato , dunque, possibile limitare gli effetti nel tempo di una declaratoria di invalidità per <<esigenze di certezza del diritto>>.

Richiamando il principio generale della certezza del diritto la Corte ha altresì limitato nel tempo gli effetti di sentenze pregiudiziali interpretative. L’ipotesi di effetti ex nunc della sentenza interpretativa resta comunque eccezionale.

La Corte vi ha fatto ricorso solo in presenza di circostanze specifiche e ben precise; il rischio di gravi ripercussioni economiche dovute all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base della normativa nazionale fino ad allora ritenuta valida; un comportamento non conforme alla normativa dell’Unione dovuto ad un’obiettiva incertezza sulla portata delle disposizioni dell’Unione.

16. I PARERI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA

La Corte di giustizia può rendere anche pareri.

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Essa è competente a rendere pareri, ex art. 218 del TFUE in ordine alla compatibilità con il Trattato di accordi <<previsti>> fra l’Unione e Paesi terzi o organizzazioni internazionali quando vi sia richiesta del Parlamento, del

Consiglio, della Commissione o di uno Stato membro.

Il parere della Corte è preventivo, anche se non è definito un termine a quo, infatti è sufficiente, affinché la domanda di parere sia ricevibile, che l’oggetto sia noto e anche se i negoziati siano ancora in fase iniziale.

L’ipotesi in esame, pur definita come competenza consultiva, va, più correttamente, collocata fra i procedimenti di controllo di legittimità degli atti dell’Unione.

Infatti, la verifica preventiva non ha portata molto diversa da quella successiva di legittimità attivata con azione diretta ex art. 263, ovvero con rinvio pregiudiziale di validità ex art. 267.

Lo scopo del parere, in definitiva, è quello di evitare che i dubbi di compatibilità con i Trattati si traducano in un successivo contenzioso.

Se la Corte si pronuncia nel senso dell’incompatibilità l’accordo non potrà entrare in vigore.

Ne consegue che, se permane l’interesse e la volontà di stipularlo, esso dovrà essere modificato.

In caso di parere positivo la stessa giurisprudenza dell’Unione ha comunque ammesso la possibilità di un controllo successivo dell’accordo ex art. 263.

17. SANZIONI PER VIOLAZIONI DEL DIRITTO DELL’UNIONE E OBBLIGHI RISARCITORI NEI CONFRONTI DEL SINGOLO

I Trattati di Roma non prevedevano alcuna sanzione per il caso di violazione degli obblighi comunitari da parte di Stati membri, limitandosi a predisporre le procedure per l’accertamento giurisdizionale delle infrazioni.

Perdita di finanziamento UE.

La prassi ha individuato meccanismo che consentono di collegare a talune infrazioni misure di tipo sanzionatorio.

In particolare, in ipotesi di violazione lo Stato membro perde il diritto ad un finanziamento dell’Unione.

Conformemente la normativa sui fondi strutturali subordina l’attribuzione dei finanziamenti alla condizione che le azioni da finanziare siano realizzate in modo conforme alla disciplina dell’Unione, ad esempio nella concorrenza,

nella protezione dell’ambiente, negli appalti pubblici.

Il limite di tali rimedi era nella portata ridotta, in quanto riguardano solo azioni collegate ad una attività finanziata dall’Unione e non le infrazioni degli Stati membri in genere.

Sanzione pecuniaria ex art. 260

Il problema della sanzione per le infrazioni comunitarie si pone in particolare rispetto all’ipotesi di mancata o non corretta trasposizione delle direttive.

Gli inadempimenti degli Stati , infatti, implicano sempre due lesioni:

1. la parità di trattamento all’interno dell’Unione;

2. la solidarietà dell’Unione.

Un rimedio è stato introdotto dal Trattato di Maastricht attraverso una modifica dell’art. 260 che prevede la possibilità di sanzione pecuniaria per l’ipotesi di perdurante inadempimento.

Al riguardo è fondata qualche perplessità sulla natura deterrente di una tale misura, che rimane comunque di ispirazione internazionalistica.

L’azione di risarcimento del danno del singolo.

In una diversa prospettiva si inquadra la giurisprudenza che ha affermato il diritto del singolo al risarcimento del danno patrimoniale per aver subito l’effetto dell’inadempimento dello Stato membro.

Tale prospettiva è quella che fa leva sui mezzi predisposti dal sistema per rafforzare l’effettività delle norme dell’Unione attraverso una tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche create dalle norme dell’Unione in capo ai

singoli.

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Va segnalata quella giurisprudenza che respinge l’eccezione di irricevibilità del ricorso o di cessata materia del contendere quando, nel corso del giudizio, o comunque dopo la scadenza dei termini fissati, lo Stato membro metta

fine all’infrazione contestatagli.

Infatti, la risposta della Corte è che la pronuncia che riconosce l’inadempimento può costituire presupposto o titolo per un’eventuale azione di risarcimento del danno subito dal singolo.

In altri termini l’interesse a proseguire il giudizio, può ben consistere nello Stabilire con sentenza il presupposto dell’eventuale responsabilità dello Stato nei confronti del singolo.

Tale giurisprudenza si è definitivamente consacrata nella sentenza Francovich , relative alle conseguenze della mancata attuazione di una direttiva.

Si trattava di una direttiva che, a tutela dei lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro, imponeva agli Stati di istituire un meccanismo di garanzia per i crediti retributivi maturati; direttiva che l’Italia non aveva trasposto.

Il giudice a quo chiedeva alla Corte se i singoli potessero far valere direttamente i benefici della direttiva, nonché pretendere comunque dallo Stato il risarcimento del danno subito.

La Corte ha enunciato, con la formula più volte utilizzata, il principio richiesto dal giudice <<sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto

comunitario… >>.

Affermata l’esistenza del principio di responsabilità, la Corte ha stabilito le condizioni per darne attuazione:

1. che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore di singoli;

2. che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva;

3. sussista un nesso di causalità tra violazione dell’obbligo e danno subito.

Uno dei principali punti da approfondire dopo Francovich era se la responsabilità patrimoniale dello Stato nei confronti dei singoli potesse essere evocata e fatta valere soltanto in presenza di una violazione di norme prive di effetto diretto, per essere queste in particolare non invocabili da parte del singolo dinanzi al giudice o anche quando la violazione riguardasse norme aventi effetto diretto e dunque invocabili dinanzi al giudice.

Le disposizioni della direttiva evocate nella Francovich lasciava gli Stati membri un ampio margine di discrezionalità quanto alla predisposizione di un sistema istituzionale di garanzia compresa l’identificazione del soggetto debitore.

La Corte è quindi pervenuta alla conclusione della non invocabilità delle disposizioni della direttiva dinanzi al giudice nazionale qualora come nella specie l’Italia, non avesse provveduto all’identificazione del soggetto debitore.

Quando la norma è invece provvista di effetto diretto, la tutela a favore del singolo non solo c’è già, ma è direttamente azionabile dallo stesso singolo, con la conseguenza che resta solo da accompagnare questa tutela sostanziale e processuale con quel minus che è la tutela patrimoniale.

L’inadempimento del legislatore interno.

Altro tema delicato riguarda la possibilità di estendere l’azione di risarcimento del danno proposta dal singolo alla violazione dell’obbligo dell’Unione dovuta specificatamente all’attività o alla inattività del legislatore.

Orbene, all’individuazione del fondamento della responsabilità in un principio generale che vuole risarcito il danno ingiusto, vanno collegate due implicazioni.

La prima è che no rileva a quale organo nazionale sia imputabile la violazione.

La seconda è quella per cui l’esigenza di applicazione uniforme delle norme dell’Unione impedisce che l’esistenza e la portata dell’obbligo al risarcimento per violazione di norme europee dipenda dal riparto di competenze interne allo

Stato.

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Va poi aggiunta una considerazione, è vero che l’attività legislativa è la massima espressione della sovranità dello Stato, ma nell’esercizio dei poteri sovrani che gli Stati possono procedere e di fatto hanno proceduto a limitare la

propria libertà attribuendo determinate competenze normative alle istituzioni dell’Unione.

Nel momento in cui tali istituzioni creano precisi vincoli per i legislatori nazionali, questi sono tenuti a rispettare i limiti che essi stessi si sono impegnati a rispettare.

Legislatore nazionale che non osserva un obbligo imposto allo scopo di realizzare diritti in capo ai singoli e dunque impedendo che quei diritti vengono ad esistenza, non può esservi ragione di negare il diritto dei singoli ad agire per

risarcimento del danno subito.

Il principio trova applicazione anche nell’ipotesi in cui la violazione del diritto dell’unione derivi dalla decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado.

La Corte ha poi precisato che le condizioni della responsabilità degli Stati membri e dell’Unione devono essere le stesse, a parità di situazioni, accomunando legislatore nazionale a quello dell’Unione anche nell’ipotesi in cui non vi

sia alcun potere discrezionale.

Le tre condizioni della responsabilità patrimoniale dello Stato.

1. la norma violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli.

2. la violazione sia grave e manifesta;

3. vi sia un nesso causale tra violazione e danno

18. RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE DEGLI STATI MEMBRI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

Le ricadute della giurisprudenza dell’Unione in tema di responsabilità extracontrattuale degli Stati membri nell’ordinamento italiano meritano qualche attenzione.

La Corte di Cassazione:

in un primo tempo sulla premessa che il diritto dell’Unione non può che imporre un risultato agli Stati, mentre spetta all’ordinamento interno la qualificazione della posizione giuridica soggettiva dei singoli, ha

rilevato che la funzione legislativa è sottratta a qualsiasi sindacato giurisdizionale; la conseguenza è che non si può configurare la responsabilità da illecito ex art. 2043 di fronte all’attività o inattività del legislatore; né si può configurare un diritto del singolo al risarcimento del danno per mancata attuazione di una direttiva, ma

solo un diritto ad essere indennizzati delle diminuzioni patrimoniali subite.

l’evoluzione successiva ritorna sulla posizione ammettendo la risarcibilità del danno, più specificatamente la decisione assunta dalla Corte di Cassazione, fondandosi sull’esigenza della sintonia tra principi comunitari e diritto interno, rileva che la fattispecie è riconducibile al dettato ex art. 2043 e che il credito dei lavoratori ha

natura risarcitoria , trovando origine diretta nella responsabilità dello Stato per inadempimento.

L’attenzione si è poi focalizzata sulla responsabilità del giudice.

La Corte di giustizia ha chiarito nella sentenza Köbler che la cosa giudicata non è di ostacolo al riconoscimento della responsabilità extracontrattuale dello Stato.

In relazione alla legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati, la Corte si è pronunciata nel senso che è incompatibile con il diritto dell’Unione una legislazione nazionale che escluda o limiti la responsabilità del giudice alle sole ipotesi di dolo o colpa grave e che escluda in maniera generale la responsabilità del giudice di ultimo grado per

l’interpretazione delle norme e dei fatti.

19. CENNI SULLA PROCEDURA

Il procedimento dinanzi al Tribunale e alla Corte di Giustizia è regolato dalle conferenti norme dei Trattati, dal Protocollo sullo Statuto della Corte di Giustizia, dai rispettivi regolamenti di procedura.

Il procedimento prevede una fase scritta e una fase orale, prima che si proceda alla decisione; vi è poi qualche differenza a seconda che si tratti di azione diretta o di rinvio pregiudiziale.

1) Azioni dirette.

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Nelle azioni dirette, dinanzi al Tribunale o alla Corte, annullamento, carenza, responsabilità extracontrattuale, la procedura è attivata con ricorso da presentarsi entro il termine indicato per ciascuna azione dal TFUE.

A tale termine, per il passato, andava aggiunto un certo periodo diverso per ciascun Paese membro; oggi, per tutti i Paesi membri, il periodo è di dieci giorni.

Il ricorso contiene l’indicazione delle parti, e dei difensori, l’esposizione dell’oggetto della controversia, dei mezzi dedotti e delle prove che si offrono, nonché la esatta enunciazione della domanda.

Il ricorso è redatto nella lingua del ricorrente, a meno che il convenuto non sia uno Stato membro, nel qual caso si utilizza la lingua dello Stato.

Il ricorso viene inviato alla cancelleria della Corte che provvede alla pubblicazione dell’essenziale sulla Gazzetta ufficiale nonché alla notifica alla controparte.

Entro un mese la controparte può presentare un controricorso.

Le parti hanno anche diritto a presentare una replica ed una contro replica nel termine di un mese. I termini possono essere prorogati, su richiesta delle parti, dal Presidente del Tribunale o dalla Corte.

Nei ricorsi diretti le parti debbono farsi rappresentare da un avvocato abilitato al patrocinio.

2) La procedura pregiudiziale.

Inizia, viceversa, davanti il giudice nazionale, con la sospensione del procedimento e la remissione di un’ordinanza alla Corte di Giustizia con i quesiti – d’interpretazione o di validità del diritto dell’Unione – che richiedono una

risposta ai fini della decisione.

L’ordinanza va trasmessa direttamente (non per via diplomatica) per posta alla cancelleria della Corte a Lussemburgo.

La cancelleria provvede alla traduzione dell’ordinanza e la trasmette, oltre che alle parti, anche alla Commissione, e alle altre Istituzioni interessate e agli Stati membri o nel caso anche non membri.

Tutti i soggetti raggiunti dall’ordinanza possono presentare osservazioni scritte entro due mesi e comunque partecipare all’udienza per manifestare la propria posizione oralmente.

La lingua della procedura è quella del giudice del rinvio.

Il ritiro della domanda di pronuncia pregiudiziale da parte del giudice rimettente porta alla cancellazione della causa dal ruolo.

Nelle procedure pregiudiziali le parti possono farsi rappresentare, oltre che dagli avvocati, anche, in alcune procedure speciali, da commercialisti, consulenti del lavoro, purché siano rispettate le leggi valide nei sistemi

giuridici di appartenenza.

Gli Stati membri possono intervenire in tutte le procedure.

Nelle procedure pregiudiziali la Commissione svolge il ruolo di amicus curiae.

La fase orale.

La fase orale comprende la presentazione di una relazione da parte del giudice relatore, l’audizione degli agenti, consulenti ed avvocati e, se del caso, dei testi e dei periti, infine le conclusioni dell’avvocato generale.

La fase orale termina con la lettura, in udienza pubblica., del dispositivo delle conclusioni dell’avvocato generale, nella lingua di quest’ultimo.

Il dispositivo della sentenza della Corte o del Tribunale viene letto in udienza pubblica nella lingua di procedura.

La procedura accelerata.

Con le modifiche intervenute nei regolamenti di procedura della Corte e del Tribunale si è introdotta la possibilità di una procedura accelerata, su domanda di una delle parti e quando lo richieda la particolare urgenza del caso.

Di rilievo è che il contraddittorio scritto si riduce ad una memoria, che è possibile integrare le prove anche nel corso dell’udienza orale e che l’avvocato generale è solo sentito.

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PARTE SECONDA

IL MERCATO INTERNO

CAPITOLO IV: LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI

1. LA CENTRALITÀ DEL MERCATO INTERNO NEL SISTEMA DELL’UNIONE. INTEGRAZIONE NEGATIVA E POSITIVA

Indiscussa è la centralità del mercato comune delle merci e dei fattori della produzione (lavoro, servizi e capitali).

La Corte ha più volte ribadito che gli articoli del Trattato relativi alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali sono norme fondamentali per la Comunità ed è vietato qualsiasi ostacolo, anche di minore

importanza, a detta libertà.

Eppure l’espressione non ha mai ricevuto una specifica definizione nel Trattato.

Ne troviamo una in una sentenza della Corte di Giustizia, dove si rileva che la nozione di mercato comune…mira ad eliminare ogni intralcio per gli scambi intercomunitari al fine di fondere i mercati nazionali in un mercato unico il più

possibile simile ad un vero e proprio mercato interno.

Definizione simile si ritrova all’art. 26 TFUE.

Bisogna precisare che le espressioni mercato comune, mercato interno e mercato unico si equivalgono.

La realizzazione del mercato unico era prefigurata all’art. 2 del Trattato di Roma come lo strumento atto a:

1. promuovere lo sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme della Comunità e

2. perseguire, più in generale, i compiti della Comunità enunciati dallo stesso articolo.

Quindi gli Stati membri devono svilupparsi armoniosamente, ma anche ravvicinarsi gradualmente.

Integrazione negativa.

La gradualità del processo di integrazione ha fatto sì che in un primo momento si sia dato spazio soprattutto alla dimensione negativa dell’integrazione fra i mercati e fra le attività economiche.

Infatti si è posto l’accento sull’eliminazione delle barriere e sulle regole di concorrenza, poste dagli Stati membri.

Appare chiara, in proposito, l’inversione del criterio che tradizionalmente informa le norma internazionali convenzionali, non più il favor per la libertà degli Stati contraenti, ma al contrario un favor per le limitazioni a tali

libertà.

Integrazione positiva.

Nei secondi anni Ottanta, con la pubblicazione del libro bianco sul mercato interno e poi la stipulazione dell’Atto Unico, si è aperta la strada alla seconda fase del processo di integrazione, ossia la sua dimensione positiva.

Le modifiche apportate dall’Atto Unico sono:

- sul piano delle modalità decisionali, sostituisce, in ipotesi significative, il criterio di maggioranza a quello dell’unanimità;

- prefigura in taluni temi lo strumento del regolamento in luogo della direttiva;

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- prevede che il Consiglio, quando non vi sia armonizzazione, possa far applicare il criterio del mutuo riconoscimento delle normative nazionali in determinati settori;

- infine, importanti sono le iniziative dell’Atto Unico circa le c.d. politiche di accompagnamento che incrementano le competenze comunitarie.

Il Trattato di Maastricht ha poi introdotto, come strumenti per raggiungere l’obiettivo dello sviluppo armonioso della Comunità, un’unione economica e monetaria, e diverse politiche comuni orizzontali.

2. LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI

Il processo di liberalizzazione, che era previsto si concludesse il 31/12/1969, fu già compiutamente realizzato a partire dal giugno 1968 dai sei Stati allora membri.

La disciplina si articola in tre distinti momenti, che investono:

1. l’unione doganale , cioè l’abolizione di dazi e tasse di effetto equivalente ai dazi doganali all’interno del mercato comune, e la fissazione di una tariffa doganale comune per gli scambi coi Paesi terzi(artt. Da 28 a 32

TFUE);

2. divieto d’imposizioni fiscali interne agli Stati membri che siano discriminatorie per i prodotti importati (art.110);

3. abolizione delle restrizioni quantitative agli scambi intracomunitari e delle misure di effetto equivalente, nonché l’abolizione dei monopoli commerciali (artt. da 34 a 37).

Nozione di merce.

La nozione di merce comprende tutti i prodotti valutabili in danaro e quindi idonei ad essere oggetto di transazioni commerciali (tale definizione è stata data dalla Corte chiamata a rispondere se rientrassero in tale nozione gli oggetti

d’interesse artistico, storico, etc.: la risposta fu positiva).

Sono compresi nella nozione anche le monete non aventi più corso legale ed addirittura i rifiuti.

I prodotti che riguardano la sicurezza in senso stretto (armi, munizioni e materiale bellico), inseriti in uno specifico elenco predisposto dal Consiglio, soggiacciono alla previsione dell’art.346 del Trattato e sono quindi, fuori dalla sfera

di applicazione materiale delle norme disciplinanti la libera circolazione delle merci.

Quando non sono oggetto di specifica disciplina sulla politica agricola comunitaria, anche i prodotti agricoli e della pesca rientrano nella disciplina del mercato comune.

Le sostanze radioattive, i medicinali ad uso umano e veterinario sono soggetti a particolari discipline.

Sfera territoriale.

La sfera d’applicazione territoriale della disciplina coincide con quella di applicazione del Trattato, dunque col territorio degli Stati membri; le eccezioni e specificità riguardano alcune zone insulari che interessano la Francia (i

dipartimenti d’oltremare), la Spagna (le Canarie) ed il Portogallo (Madeira e Azzorre): rispetto a tali territori, il Consiglio può adottare misure specifiche dirette a stabilire le condizioni di applicazione del Trattato.

I paesi d’oltremare soggiacciono a un regime particolare disciplinato da una decisione del Consiglio.

Il campo di applicazione territoriale, relativo alla circolazione delle merci, va distinto dal territorio doganale della Comunità(che è il territorio entro il quale trova applicazione la normativa doganale comunitaria).

Destinatari.

Le norme che disciplinano il mercato comune sono rivolte in generale agli Stati membri, nel senso che impongono a questi degli obblighi che ruotano attorno alla liberalizzazione degli scambi in merci, persone, servizi e capitali.

I singoli beneficiano dell’effetto diretto che accompagna gran parte delle norme relative alla liberalizzazione degli scambi(quindi sono titolari di diritti che possono far valere direttamente dinanzi ai giudici).

Quanto ai divieti, la Corte ha precisato che il comportamento del singoli (es. un accordo tra imprese) deve essere valutato alla luce delle regole di concorrenza, mentre le norme sulla libera circolazione delle merci si riferiscono solo

alle normative ed alle pratiche amministrative adottate dagli Stati membri e dalle istituzioni comunitarie.

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3. L’UNIONE DOGANALE

Ai sensi dell’art.28 del Trattato l’Unione Doganale comporta l’abolizione, nell’ambito degli scambi intracomunitari, dei dazi doganali e delle tasse di effetto equivalente, nonché l’adozione di una tariffa doganale comune per gli

scambi con i Paesi terzi.

Già nel GATT si possono rinvenire le nozioni di:

1. zona di libero scambio: insieme dei territori doganali nel quali si aboliscono i dazi e altre misure limitatamente ai prodotti originari del Paesi aderenti;

2. unione doganale :all’abolizione dei dazi e delle altre restrizioni commerciali si aggiunge l’uniformità sostanziale dei dazi applicati agli scambi con i Paesi terzi.

Tuttavia, rispetto a questa concezione, l’idea di unione doganale realizzata nell’Unione è ancora più avanzata (non a caso è definita perfetta), in quanto rilevano altresì:

1. il beneficio della libera circolazione, salvo eccezioni, anche per i prodotti originari di Paesi terzi una volta importati nell’area comunitaria;

2. regime di preferenza per i prodotti comunitari;

3. disciplina doganale complessiva uniforme, che si avvale anche di un meccanismo di interpretazione giudiziaria centralizzata;

4. destinazione al bilancio comunitario delle entrate della tariffa doganale comune.

Un confronto significativo da fare è con lo Spazio Economico Europeo realizzato a partire dal 1994 con i Paesi dell’EFTA.

Tale Spazio, rientra a tutti gli effetti nell’ipotesi e nella nozione di zona di libero scambio e non in quella di Unione Doganale, nella misura in cui gli scambi riguardano i soli prodotti originari dei Paesi membri.

Origine delle merci.

Approfondiamo, allora, cosa si intende per “Paese d’origine”.

Ovviamente è il posto in cui il prodotto è fabbricato.

Se si tratta di produzione complessa, ai fini dell’individuazione dell’origine, Paese d’origine del prodotto è quello in cui si è avuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, è il criterio dello stadio produttivo determinante.

Il criterio è dunque lo stadio produttivo determinante, cioè della trasformazione economicamente e merceologicamente rilevante[in materia di prodotti ittici, poi, è stato stabilito il criterio della bandiera della nave; in

caso di bottino realizzato da più navi di diversa nazionalità, il criterio è quello della nave cui si possa imputare il momento essenziale della battuta o della campagna di pesca].

Regime di libera pratica

I prodotti originari di Paesi terzi, che siano stati regolarmente importati in un qualsiasi Paese comunitario, sono in regime di libera pratica, godendo, salvo eccezioni, della stessa libertà di circolazione delle merci originarie degli Stati

membri. Ogni prodotto, poi, viene provvisto di un documento doganale unico.

4. ABOLIZIONE DEI DAZI DOGANALI E DELLE TASSE DI EFFETTO EQUIVALENTE

L’abolizione dei dazi doganali e delle tasse di effetto equivalente è alla base del regime di libera circolazione delle merci, ed è sancita dall’art. 30 del TFUE.

E’ una norma fondamentale del sistema comunitario ed è provvista di effetto diretto.

I dazi doganali all’esportazione sono stati aboliti il 31 dicembre 1961, mentre quelli all’importazione dovevano essere aboliti nel 1969(alla fine della disciplina transitoria), ma lo sono stati di fatto già nel luglio dell’anno precedente, con

una decisione c.d. di accelerazione.

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Nozione di tassa di effetto equivalente.

La nozione di tassa di effetto equivalente ad un dazio doganale è stata oggetto di una vasta giurisprudenza che ne ha definito gli elementi essenziali: essa si configura come un onere pecuniario direttamente o indirettamente collegato all’importazione o all’esportazione di un prodotto; pur non essendo un dazio, comporta gli stessi effetti restrittivi

sugli scambi intracomunitari

In ogni caso deve trattarsi di:

1. un onere pecuniario (altrimenti sarebbe una misura rientrante nel divieto ex art. 34- restrizioni quantitative all’importazioni);

2. deve colpire il prodotto in ragione dell’importazione o esportazione, rendendola più onerosa ovvero aggravandone gli adempimenti amministrativi-burocratici.

Viceversa, non ha importanza il momento in cui viene imposto tale onere, che può essere anche successivo a quello del passaggio della frontiera, così come il suo ammontare, che può essere

anche minimo.

Al riguardo, inoltre, non rileva neanche il soggetto beneficiario, che può anche non essere lo Stato, così come anche al finalità che si vuole perseguire.

Le disposizioni di cui agli artt. 28[Unione doganale] e 30 [divieto di dazi e tasse effetto equivalente] TFUE possono essere invocate dal singolo in ragione dell’importazione di un prodotto proveniente da un altro Stato membro.

Non rileva che l’introduzione del prodotto sia in una parte del territorio (es. Regioni), piuttosto che nell’insieme del territorio statale, né che l’onere colpisca anche i prodotti provenienti da altre regioni dello stesso Stato membro(ad

esempio è stata vietato il dazio di mare che riguardava i prodotti introdotti nei territori francesi d’oltremare, perché i prodotti erano provenienti da altre parti del territorio dello Stato membro).

Va escluso che tale divieto possa essere attuato anche nei confronti dei paesi terzi, ma gli Stati membri non hanno comunque completa autonomia, perché tale onore tributario rientra nella politica commerciale comune e al

sistema della Tariffa Doganale Comune(che ha disposto il divieto agli stati membri di elevare o introdurre unilateralmente le tasse esistenti dalla sua entrata in vigore-1968-, salvo talune eccezioni e deroghe introdotte dalla

Comunità e comunque uniformi).

Le deroghe al divieto sono molto limitate:

un’ipotesi è quella di un onere pecuniario richiesto dall’amministrazione per un servizio prestato in favore e/o nell’interesse dell’importatore o esportatore; ma si deve trattare di un servizio reso individualmente,

effettivamente prestato dall’amministrazione, in tal caso esso ha carattere di vero e proprio corrispettivo(e dunque deve essere proporzionato alla qualità e al costo del servizio);

altra ipotesi è quella di oneri pecuniari, imposti da convenzioni internazionali, per favorire la libera circolazione delle merci. Nella stessa logica rientra anche le ipotesi dei montanti compensativi monetari istituiti nell’ambito della politica agricola comune, in quanto oggetto di misure comunitarie destinate a

compensare l’instabilità monetaria.

Altra ipotesi è quella in cui l’onere è parte di un sistema generale di tributi interni, che colpisca con uguali criteri e sistematicamente sia il prodotto importato che quello nazionale.

5. IL DIVIETO DI IMPOSIZIONI FISCALI DISCRIMINATORIE

Il divieto di imporre dazi doganali deve essere integrato con l’art. 110 del TFUE, il quale vieta di applicare tributi interni che siano discriminatori per i prodotti importati.

Ovviamente l’imposizione tributaria, pur restando nella sfera di libertà degli Stati membri, deve conservare un carattere di assoluta neutralità tra prodotti nazionali e prodotti importati, cosicché l’attraversamento del confine non costituisca l’occasione per oneri tributari più gravosi: tale divieto appare complementare ai divieti ex artt. 28-30 del

TFUE, poiché mira ad evitare che questi siano aggirati attraverso lo strumento tributario.

I definitiva l’art. 110 mira a garantire la libera circolazione delle merci in condizione di neutralità fiscale rispetto alla concorrenza tra prodotti nazionali e prodotti di altri paesi comunitari.

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Il divieto comprende qualsiasi onere pecuniario di natura tributaria imposto dallo Stato o da un ente pubblico o territoriale, indipendentemente dal beneficiario che può anche non essere lo Stato.

Il divieto va inteso operante anche se il prodotto si trovi in regime di libera pratica provenendo da un Paese terzo.

L’art. 110 è applicabile sia alle imposte indirette che alle imposte dirette.

Una tassa incompatibile a tale disposizione è vietata solo per la misura in cui colpisce le merci importate più di quelle nazionali.

Non deve però farsi confusione col divieto di tasse di effetto equivalente: i due divieti non possono applicarsi cumulativamente, poiché danno luogo a regimi sostanzialmente diversi.

Ad esempio, le tasse d’effetto equivalente, le quali colpiscono il prodotto in ragione della sua importazione o esportazione, vanno semplicemente abolite, mentre le imposte interne ex art. 110 vanno applicate in modo da

escludere qualsiasi discriminazione tra prodotti nazionali e prodotti importati.

Quindi l’ipotesi del tributo interno ha come condizione fondamentale la generalità e l’astrattezza dell’onere.

Deve trattarsi di onere tributario.

L’elemento della discriminazione rileva in quei tributi che abbiano l’effetto di scoraggiare l’importazione di merci originarie di altri Stati membri a vantaggio dei prodotti nazionali come ad es.:

tassazione molto elevata per le vetture che superano un certo livello di potenza fiscale, cosicché all’onere soggiacciono solo le vetture importate;

tributo che colpisce solo l’uso del prodotto, quando questo sia importato solo per quell’uso.

Un’ imposta dovuta dal trasportatore del prodotto, applicate a secondo se si tratti di trasporto nazionale ovvero internazionale, in modo che il primo sia esente da imposta

Un regime di agevolazioni o esenzioni fiscali che favorisca i prodotti nazionali

Un sistema di dilazioni di pagamento dell’imposta di cui possano beneficiare i soli produttori nazionali

Un sistema di tassazione differenziato di un determinato prodotto

Insomma il criterio decisivo è costituito dall’incidenza effettiva del tributo sul prodotto nazionale e sul prodotto importato.

Inoltre, al fine di qualificare esattamente l’onere si dovrà osservare se:

- il gettito è destinato a finanziare attività che giovano specificamente ed esclusivamente al prodotto nazionale tassato, e la compensazione è totale - è tassa di effetto equivalente in violazione del divieto ex

art. 28 TFUE-

- o se i benefici compensano solo parzialmente l’onere che grava sui prodotti nazionali e quindi l’imposta va a discriminare i prodotti importati, al pari di quando la compensazione è totale; la tassa rientra nel divieto

di discriminazione fiscale dell’art.110

Prodotti similari e concorrenti.

La similarità.

Recita l’art. 110, c. 1:. “uno Stato membro non può applicare ai prodotti degli altri Stati membri tributi interni superiori a quelli applicati ai prodotti nazionali similari”.

Da tale comma appare chiaro il primo termine di paragone, ossia i prodotti devono essere similari, cioè devono avere proprietà analoghe e rispondono alle stesse esigenze, in base a un criterio non di identità ma di analogia.

Bisogna far riferimento a una serie di altri fattori, quali la fabbricazione, il gusto, il tenore alcolico per le bevande, nonché l’idoneità a rispondere agli stessi bisogni del consumatore.

Tra i prodotti nazionali, poi, vanno intesi anche quelli per cui non esiste una produzione nazionale, ma un mercato dell’usato.

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La concorrenza.

Inoltre, ex art. 110, c. 2: “uno Stato membro non può applicare, ai prodotti degli altri Stati membri tributi interni volti a proteggere indirettamente altre produzioni” .

Ossia non si fa più riferimento ai soli prodotti similari, ma si amplia il raggio d’azione e si parla di prodotti concorrenti.

Ad esempio in tema di bevande alcoliche si è affermata l’illegittimità di una tassazione di un vino importato, leggero e di basso costo, più elevata di quella applicata sulla birra, tipica nazionale.

Relativamente all’apparente contiguità con il divieto di restrizioni quantitative alle importazioni ex art.34, o ancora al divieto di misure di effetto equivalente ex articolo 30 bisogna dire che la disposizione ex art. 34 è una norma di

portata generale.

Quindi si applica in via del tutto residuale rispetto alle disposizione ex artt. 28 ; 30 e 110.

Nel caso di tasse parafiscali può rilevare anche rispetto alla disciplina degli aiuti di Stato, tassa che comunque va a incidere sulla concorrenza e sugli scambi.

Aiuti di Stato

Una tassazione che introduca vantaggi per i prodotti nazionali sarà sottoposta al controllo della Commissione, e più in generale agli artt.107 e 108, del TFUE, relativi agli aiuti di Stato, sia sotto il profilo sostanziale che procedurale.

Sarà il giudice nazionale che dovrà valutare la compatibilità della tassa rispetto anche a norme del Trattato diverse dagli artt.107 e 108, così da non precludere a questi la possibilità di valutarla rispetto all’art. 110 o ad altre

disposizioni.

Per ciò che concerne la ripetizione di somme percepite dalle amministrazioni nazionali a titolo di tributo ovvero dazio doganale in violazione delle disposizioni TFUE[ristorni], la giurisprudenza ha stabilito che è contro il Diritto

dell’Unione un sistema di rimborso fondato sulla presunzione della ripercussione e che ponga a carico del contribuente la prova del contrario.

6. RESTRIZIONI QUANTITATIVE E MISURE DI EFFETTO EQUIVALENTE. L’ORIENTAMENTO ORIGINARIO DELLA COMMISSIONE.

Fondamentale nella disciplina del mercato comune delle merci è il divieto di restrizioni quantitative degli scambi e di qualsiasi misura di effetto equivalente, divieto che investe sia le importazioni (art. 34)

che le esportazioni (art. 35).

In particolare, rileva l’ipotesi delle misure di effetto equivalente che comprende quella gamma molto ampia di provvedimenti che hanno effetti protezionistici, rappresentando cosi un ostacolo oggettivo agli scambi

intracomunitari.

Nessuna questione interpretativa pongono le restrizioni quantitative, che sono evidentemente quelle misure che limitano l’importazione o esportazione al di là di una certa quantità, o anche in assoluto.

In un primo tempo, la nozione di misura di effetto equivalente si riferiva solo alle misure distintamente applicabili ai prodotti nazionali ed a quelli importati (infatti tali misure venivano definite distintamente applicabili); a seguito di una direttiva del 1969 (70/50) tale nozione fu ampliata comprendendovi ogni atto posto in essere da un’autorità

pubblica che, pur non vincolante sul piano giuridico, potesse indurre i destinatari ad una scelta di acquisto in favore del prodotto nazionale.

Ma la novità più rilevante di tale direttiva fu che tra le misure vietate vennero inserite anche quelle che, pur se applicabili indistintamente ai prodotti nazionali ed a quelli importati [che la Commissione considerava ammissibili], producevano sulla libera circolazione effetti restrittivi al di là di quelli propri di una regolamentazione commerciale

(c.d. effetti sproporzionati rispetto al fine perseguito).

Comunque, la Commissione, con questa direttiva, non vietava le misure indistintamente applicabili, in quanto i loro effetti restrittivi venivano considerati <<normalmente inerenti alla disparità delle disposizioni nazionali>>; in altri

termini essi, per la Commissione, erano la conseguenza fisiologica della mancata armonizzazione.

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7. LA NOZIONE DI MISURA DI EFFETTO EQUIVALENTE NELLA GIURISPRUDENZA

La nozione, molto ampia nella giurisprudenza, di misura di effetto equivalente, vuole dare un effetto funzionale all’art.34 del TFUE.

E’ bene precisare che stiamo parlando di una disposizione fondamentale per l’economia del sistema dell’Unione, che ha, infatti, effetto diretto.

Nella sentenza DASSONVILLE (1988), la Corte ha enunciato una nozione di misura di effetto equivalente ancora oggi pienamente valida.

Con riferimento ad una disposizione nazionale che subordinava l’importazione di un whisky al fatto che fosse esibito un certificato rilasciato dal Paese esportatore, la Corte rilevò che un operatore che avesse importato quel prodotto

da un Paese diverso, in cui però il whisky si trovava in libera pratica ed in cui non veniva richiesto quello stesso certificato, incontrava oneri superiori a quelli che incombevano sull’importatore diretto.

La famosa formula Dassonville sancisce ancora oggi che : “ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza gli scambi intracomunitari, va considerata come una

misura d’effetto equivalente a restrizioni quantitative”.

Il divieto ha portata generale.

Esso non è quindi condizionato ad una riduzione effettiva degli scambi, ma s’impone per il solo fatto che la misura rappresenti anche potenzialmente un aggravio non giustificato per gli operatori commerciali.

Quindi l’aggravio non deve essere dimostrato, in quanto basta l’effetto potenziale di ostacolo alle importazioni.

Ancora, non è necessario che il provvedimento nazionale riduca sensibilmente gli scambi intracomunitari, ricadendo nel divieto anche una misura che si esaurisca in un ostacolo lieve ed anche quando vi siano altre possibilità di

smercio del prodotto importato.

Pur trattandosi di un divieto indirizzato agli Stati membri, esso può investire anche i comportamenti dei privati, nella misura in cui questi non possono in via convenzionale (sulla base di un accordo tra imprese che ostacoli gli scambi

intracomunitari) derogare alle disposizioni del Trattato sulla libera circolazione delle merci.

Ovviamente le misure restrittive devono essere misure statali o comunque imputabili alle p.a., i comportamenti dei singoli rilevano sul piano della concorrenza.

Il comportamento dello Stato può venire in rilievo in relazione ad atti posti in essere da privati.

Ad esempio la lettura congiunta degli artt. 4,TUE[divieto di discriminazione]e 34 del TFUE porta a rilevare un preciso obbligo per lo Stato di impedire che i privati creino ostacoli indebiti alla libera circolazione delle merci.

Obbligo la cui osservanza è sottoposta al controllo della Corte.

Inoltre, il comportamento dello Stato può rilevare sotto il doppio profilo della libera circolazione delle merci e di altre norme del Trattato, ad esempio in tema di tutela della concorrenza in particolare del divieto di aiuti pubblici alle

imprese.

Le istituzioni comunitarie, infine, sono tenute a rispettare il divieto di ostacolare gli scambi con misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative.

8. LE MISURE DISTINTAMENTE APPLICABILI

Tra le misure d’effetto equivalente, bisogna anzitutto considerare le misure distintamente applicabili ai prodotti nazionali ed ai prodotti importati, quelle cioè che subordinano la

commercializzazione di questi ultimi a condizioni diverse o più onerose rispetto a quelle applicabili ai primi.

Vengono a tal proposito in rilievo:

I controlli, ad esempio quelli sanitari. Tali controlli, se operati in modo sistematico, costituiscono misure vietate ex art. 34, salvo se non rientrano nelle deroghe ex art. 36.

Le misure che impongono una documentazione specifica per l’importazione o esportazione del prodotto, ad esempio una licenza o un certificato di conformità, insomma facciano riferimento a qualsiasi formalità

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burocratica che ha un effetto dissuasivo;

Operatori in regime di distribuzione selettiva è un’altra ipotesi, riguarda le misure che favoriscono la canalizzazione delle importazioni attraverso determinati operatori in regime di distribuzione selettiva, così da

scoraggiare o impedire le cd. importazioni parallele, che sono il simbolo della realizzazione effettiva di un libero a comune mercato delle merci. Ad esempio nella pronuncia Dassonville sono state dichiarate

illegittime ex art.34 le misure disposte dall’amministrazione italiana per aggravare gli adempimenti e gli oneri di immatricolazione delle autovetture importate non dagli importatori c.d. ufficiali designati dalle case

produttrici, ma da operatori c.d. paralleli liberi da vincoli contrattuali con le case.

9. LE MISURE INDISTINTAMENTE APPLICABILI

Normative sui prezzi.

Vi sono poi delle misure che pur se neutre rispetto al rapporto tra prodotti nazionali e prodotti importati, possono produrre, di fatto, una riduzione delle importazioni. Si tratta delle misure definite indistintamente applicabili.

Alcuni esempi riguardano le discipline dei prezzi applicate in presenza di certe condizioni.

Ad esempio quando viene stabilito un prezzo massimo di rivendita, può accadere che il prodotto importato risulti fuori mercato, nel senso che il suo smercio viene reso impossibile o più difficile rispetto a quello dei prodotti

nazionali.

Oppure, ancora, quando vengono fissati dei prezzi che da un lato vogliono favorire l’industria e la ricerca nazionale attraverso una considerazione dei fattori di costo che sfavorisca i prodotti importati; dall’altro non considerano le

spese e gli oneri relativi all’importazione tra gli elementi che contribuiscono alla determinazione del prezzo.

10. SEGUE: NORMATIVE SULLA QUALITÀ E LA PRESENTAZIONE DEL PRODOTTO

Altra ipotesi di misure indistintamente applicabili riguarda le normative sulla qualità e presentazione del prodotto, per le quali si è affermato il principio per cui un prodotto legittimamente commercializzato in uno Stato membro

può essere importato e commercializzato, senza ostacoli, anche negli altri Stati membri (principio del mutuo riconoscimento).

Tale principio muove dal presupposto che, in assenza di disciplina comunitaria di armonizzazione, le legislazioni nazionali relative alle condizioni di commercializzazione di determinati prodotti possono essere diverse, il che non

esclude che siano ugualmente rispettose della salute o delle esigenze del consumatore.

Ne consegue che uno Stato deve accettare i prodotti importati anche quando le specifiche tecniche prescritte per i prodotti nazionali non siano state effettuate, ma il livello di protezione dell’utilizzatore sia equivalente, o che gli

stessi prodotti siano sottoposti a controlli equivalenti già negli stessi Stati membri.

Comunque questi intralci c.d. ostacoli tecnici si tollerano solo in vista della soddisfazione di esigenze imperative, relative all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute, etc.

Caso tipico del genere è quello di CASSIS DE DIJON, avente ad oggetto l’importazione in Germania di un liquore francese: il giudice tedesco era chiamato a verificare la compatibilità con l’art. 34 di una normativa nazionale relativa

alle bevande alcoliche, nel punto in cui fissava in via del tutto generale (perciò anche per i prodotti nazionali) un livello minimo di contenuto alcolico, affinché certe categorie di bevande potessero essere commercializzate come

tali in Germania.

Di qui la Corte di Giustizia precisò che gli intralci alla libera circolazione delle merci, derivanti da disparità delle legislazioni nazionali, sono ammessi solo se perseguono uno scopo d’interesse generale atto a prevalere sulle

esigenze della libera circolazione.

Il controllo sulle normative nazionali deve esercitarsi a livello comunitario.

11. NORMATIVE SULLE MODALITÀ DI COMMERCIALIZZAZIONE

Meno facile è l’applicazione della formula Dassonville per quelle misure nazionali indistintamente applicabili che non abbiano ad oggetto i prodotti, bensì le modalità dell’attività commerciale: chi, come, dove e quando poter vendere.

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Si tratta di misure che possono produrre eventuali riduzioni delle importazioni, ma solo in quanto abbiano causato altrettante riduzioni delle vendite, sia dei prodotti nazionali, sia di quelli importati. La giurisprudenza, in un primo

momento ha largheggiato nell’applicazione della formula Dassonville anche in questo settore specifico, destando un po’ di confusione negli operatori che si sono sentiti autorizzati a contestare ogni genere di misura che andasse a

limitare l’attività commerciale, perdendo di vista la natura dell’art. 34, ed in particolare la dimensione comunitaria e non anche solo nazionale.

Se ne è, ad esempio, esclusa l’applicazione quando le misure nazionali non avevano ad oggetto gli scambi, e comunque consentivano modalità di vendita alternative.

Una seconda ipotesi riguarda un altro tipo di misure nazionali, dove era presenta un potenziale effetto restrittivo delle importazioni come conseguenza di una delimitazione degli orari dell’attività di vendita, la giurisprudenza aveva affermato la legittimità delle misure ove non eccedano il contesto degli effetti propri di una normativa commerciale.

Si tratta della giurisprudenza riguardante l’apertura domenicale dei negozi, la quale non va a sfavorire la commercializzazione dei prodotti importati più di quella dei prodotti nazionali.

Si è invece applicata la formula Dassonville per le discipline nazionali limitative dei sistemi di pubblicità e promozione delle vendite, le quali possono costringere l’operatore a mutamenti onerosi delle strategie commerciali.

In alcune precisazioni successive, la Corte non ha più annoverato nella nozione di misura di effetto equivalente quelle normative applicabili a tutti gli operatori che svolgono attività commerciali in un determinato Stato membro, e

che investono allo stesso modo la commercializzazione sia dei prodotti nazionali sia di quelli importati.

Nella sentenza KECK-HUNERMUND del 1993,la Corte chiarisce che misure relative alle modalità dell’attività commerciale e non al prodotto, non collegate in alcun modo con la diversità delle legislazioni nazionali e

insuscettibili di rendere, direttamente o indirettamente, nella forma o nella sostanza, l’accesso al mercato meno facile per i prodotti importati, non rientrano tra le misure a effetto equivalente a restrizioni quantitative di cui alla

formula Dassonville.

Resta quindi del tutto inalterato il criteri di mutuo riconoscimento, mentre si è sgombrato il campo dell’art.34 da normative nazionali che non investono affatto gli scambi o l’integrazione dei mercati.

12. RESTRIZIONI QUANTITATIVE ALLE ESPORTAZIONI

L’art. 35 TFUE vieta le restrizioni quantitative alle esportazioni, così come le misure di effetto equivalente.

Quanto è stato detto in tema di restrizioni delle importazioni può valere, in linea generale, anche per gli ostacoli alle esportazioni.

Ciò vale per l’effetto diretto, per la nozione di merce e per l’origine del prodotto che può essere di paese terzo purché in regime di libera pratica.

Va sottolineato che il divieto riguarda solo le esportazioni verso i Paesi membri e non quelle verso i Paesi terzi che restano fuori del campo di azione della norma.

Tuttavia la giurisprudenza sulle misure di effetto equivalente alle restrizioni quantitative alle esportazioni non è speculare a quella sulle misure restrittive alle importazioni.

La giurisprudenza fino ad oggi ha limitato la portata dell’art. 35 TFUE a quelle misure che hanno per oggetto o per effetto quello di restringere specificamente le correnti di esportazione.

Questo orientamento ha resistito benché sia stato posto da più parti il problema di mantenere la sintonia di interpretazione tra l’art. 34(restrizioni quantitative all’importazione)e l’art. 35 (restrizioni quantitative

all’esportazione).

13. LE DEROGHE AL DIVIETO DI MISURE DI EFFETTO EQUIVALENTE

L’art.36[deroghe] configura le ipotesi nelle quali uno Stato può adottare o mantenere misure comprese nei divieti ex art. 34[restrizioni alle importazioni] e 35[restrizioni alle esportazioni].

Si tratta di ipotesi motivate da ragioni di moralità pubblica, pubblica sicurezza, ordine pubblico, tutela della salute o del patrimonio, ecc.

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La tutela di queste esigenze non deve in ogni caso costituire mezzo di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata.

L’art. 36 rappresentando una deroga al principio fondamentale dell’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione delle merci.

1. IN PRIMO LUOGO,è una norma di stretta interpretazione, essa,cioè, non può essere estesa a ipotesi diverse da quelle tassativamente prefigurate.

2. IN SECONDO LUOGO, con tale norma non si è inteso riservare agli Stati membri una competenza esclusiva in determinate materie ( difesa della salute, pubblica sicurezza, ordine pubblico, etc) ma voleva solo

consentire una deroga al principio della libera circolazione in vista delle esigenze prefigurate dal Trattato.

E’ chiaro che se, in vista di queste esigenze, la Comunità ha già adottato direttive di armonizzazione non trasposte dagli Stati, le deroghe non saranno più consentite.

In altri termini, quando la Comunità detta uno standard che deve essere adottato da tutti gli Stati membri, l’accento si deve porre sullo Stato esportatore, con la conseguenza che un prodotto commercializzato in uno stato membro, conforme agli standards voluti dalla normativa comunitaria uniforme, non può subire alcuna

restrizione ex art.36.

3. IN TERZO LUOGO le misure prese dallo Stato membro per la tutela delle esigenze prefigurate dall’art. 36, debbono sempre ispirarsi al principio di proporzionalità, ed il controllo della Commissione verterà proprio

sull’accertamento di conformità delle misure al principio suddetto. Dunque, l’esercizio della facoltà di deroga deve limitarsi a quanto strettamente necessario al perseguimento degli scopi previsti.

Quanto all’ipotesi della tutela della moralità pubblica, è stata riconosciuta la potestà di uno Strato di impedire l’importazione di oggetti osceni o indecenti, fermo restando che sarà ciascuno Stato a determinare le esigenze di

moralità da soddisfare.

Bisogna però precisare che uno Stato non può vietare l’importazione di taluni prodotti se nel suo territorio non esiste un divieto assoluto di fabbricazione e commercializzazione degli stessi.

Per l’ipotesi di pubblica sicurezza esemplare è il caso Campus Oil, in cui si discuteva circa un obbligo imposto agli importatori di prodotti petroliferi di rifornirsi presso una raffineria nazionale fino a una certa quota del fabbisogno ai

prezzi prestabiliti, non avendo quella raffineria la possibilità di praticare prezzi competitivi, pur essendo essa strategica per la tutela degli interessi nazionali.

L’obbligo è stato considerato rientrante nelle deroghe dell’art. 36, con la precisazione che la quantità di prodotto interessato al sistema di pubblica sicurezza non può superare né il limite di approvvigionamento minimo

corrispondente alla sicurezza comune, né il livello necessario di disponibilità per il caso di crisi.

In Italia si era cercato di giustificare i maggiori oneri documentali e amministrativi prescritti per l’immatricolazione delle autovetture d’importazione parallela rispetto a quelle importate dai distributori ufficiali, invocando l’ordine

pubblico.

Ma è stato fatto cadere ogni fondamento a tali motivi, perché il traffico illecito di autovetture può essere ostacolato con mezzi diversi da questo.

Tra gli interessi di cui all’art. 36, la salute e la vita delle persone sono al primo posto.

In linea di massima viene lasciata ampia discrezionalità agli Stati per le norme e divieti posti per la difesa di questi interessi, ovviamente, però, graverà sugli stessi l’obbligo di dimostrare l’effettività del rischio.

14. LE RESTRIZIONI AGLI SCAMBI CONNESSE ALLA TUTELA DELLA PROPRIETÀ INDUSTRIALE E COMMERCIALE

Dallo stesso art. 36 sono previste deroghe per la tutela della proprietà industriale e commerciale.

Questo è un settore “difficile”, poiché è regolato da una disciplina ispirata al principio della territorialità, principio concettualmente agli antipodi rispetto all’idea del mercato comune.

La proprietà individuale.

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Lo sforzo giuridico è consistito nel trovare un equilibrio tra tutela della proprietà intellettuale e il mercato comune informato dal principio della libertà degli scambi.

La proprietà intellettuale designa “quell’insieme di diritti riconosciuti da un ordinamento per la tutela del brevetto, del marchio, del diritto di autore etc.; il titolare di tale diritto ha facoltà esclusive opponibili erga omnes, in ordine

alla produzione e alla commercializzazione dei beni cui inerisce”.

Il conferimento di un’esclusiva territoriale, porta a uno regime di monopolio che può contrastare con l’idea di mercato comune.

Per un lungo periodo è stata la Corte a disegnare i contorni del regime comunitario della proprietà intellettuale.

Nell’assolvere tale compito essa si è fondata su due gruppi di disposizioni:

1. le norme riguardanti la libertà di circolazione delle merci;

2. le norme sulla concorrenza.

Nel settore della proprietà intellettuale gli artt. 34 e 36 si configurano come un limite all’applicazione delle normative interne, lo schema concettuale può essere così sintetizzato:

le restrizioni degli scambi risultanti dall’applicazione dei diritti di proprietà intellettuale ricadono automaticamente nel campo di applicazione dell’art.34; la verifica di compatibilità con il diritto comunitario

delle norme nazionali sulla proprietà intellettuale deve essere ricondotta nell’ambito dell’art. 36;

La deroga di cui all’art. 36 consente di giustificare soltanto norme interne che siano indispensabili per tutelare l’oggetto specifico dei diritti di proprietà intellettuale. Spetta, in ultima analisi, alla Corte definire

qual è l’oggetto in questione, nonché dettare i criteri in base ai quali valutare se le norme nazionali siano o meno indispensabili. Le necessarie valutazioni di fatto spettano alle autorità (amministrative o giurisdizionali)

nazionali.

L’art. 36 precisa che tali divieti non debbano comportare una discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata agli scambi intracomunitari.

Il diritto di brevetto

Nel diritto di brevetto l’oggetto specifico della proprietà industriale è la garanzia data al titolare, per ricompensare lo sforzo creativo, di valersene in via esclusiva per l’immissione di beni industriali sia direttamente, sia concedendo

licenze a terzi.

Ovviamente il diritto in esame non può valere quando la prima immissione in commercio avvenga in un mercato dove il prodotto non è brevettabile: in tal caso il titolare non può che accettare le regole della libera circolazione.

Diritto di marchio

Per ciò che concerne la definizione dell’oggetto nel diritto di marchio, esso prima si è individuato nella garanzia per il titolare di un diritto esclusivo di servirsi del marchio per la prima immissione di un prodotto sul mercato.

Successivamente alla sentenza Hag II, la Corte ha individuato la funzione che il marchio assolve nella tutela del consumatore posto a garanzia della qualità dei prodotti.

Diritto d’autore.

Relativamente al diritto d’autore e ai diritti connessi, è stato riconosciuto che le diverse forme di tutela della proprietà letteraria ed artistica rientrano nell’ambito della deroga ex art. 36 in ordine alla proprietà industriale e

commerciale.

In particolare la Corte ha sempre escluso che gli articoli 34 e 36 possano essere invocati per opporsi all’applicazione di norme nazionali che stabiliscono in quali casi possa essere riconosciuto un diritto di proprietà intellettuale.

La costituzione di tale diritto è rimessa all’ordinamento interno, con la conseguenza che le regole adottate da uno stato membro in tale materia debbono ritenersi rientrare in linea di principio nell’ambito della specifica deroga ex

art.36.

Il principio dell’esaurimento.

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Definizione.

L’autonomia degli Stati non è assoluta.

Difatti, la Corte ha stabilito che:

i diritti di proprietà intellettuale, in presenza di talune condizioni , sono soggetti ad esaurimento ;

le norme sui diritti di proprietà intellettuale, comunque, non possono avere contenuto o effetto discriminatori.

Il principio dell’esaurimento costituisce, dunque, un limite al diritto di esclusiva che l'ordinamento riconosce ai titolari di diritti di proprietà intellettuale e industriale.

I titolari di brevetti, marchi di impresa, modelli e disegni, gli autori di opere di ingegno e i titolari di diritti connessi al diritto di autore hanno un diritto di esclusiva per lo sfruttamento economico di tali beni immateriali.

Ma, secondo il principio dell’esaurimento, tale diritto viene meno quando i prodotti nei quali il bene immateriale è incorporato o al quale è affisso sono posti in vendita per la prima volta dal titolare stesso del diritto o con il suo

consenso.

Il principio dell’esaurimento implica che il titolare non può opporsi all’importazione o commercializzazione di prodotti messi in commercio nello Stato d’esportazione da lui stesso o col suo consenso.

Questo per evitare che il titolare possa determinare, con la costituzione di diritti paralleli, una compartimentazione dei mercati ed impedire la circolazione dei prodotti nella Comunità.

La delimitazione della portata del principio di esaurimento.

La giurisprudenza ha poi precisato la portata del principio dell’esaurimento.

Ad esempio, in materia di brevetti se ne è esclusa l’applicazione quando il prodotto sia stato commercializzato senza il consenso effettivo del titolare del brevetto a meno che non abbia acconsentito alla

commercializzazione in uno stato in cui il prodotto non è brevettabile.

Per le opere artistiche, letterarie che possono essere non solo vendute ma anche noleggiate, la giurisprudenza ha affermato che la riscossione dei diritti d’autore in funzione alle vendite non costituisce una remunerazione

sufficiente, e quindi una normativa che preveda una quota, spettante al titolare del diritto, dei profitti realizzati tramite il noleggio è giustificata.

1. In materia di marchi, in un primo momento il principio dell’esaurimento è stato collegato alla mera origine comune del diritto, senza distinguere tra successiva cessione volontaria e non volontaria. Tale orientamento

è mutato con la sentenza HAG II, che ha precisato che nell’ipotesi di due o più diritti di marchio aventi la stessa origine, ma la cui partizione sia avvenuta senza il consenso del titolare originario ed in capo a soggetti a lui del tutto indipendenti, ciascun titolare si può opporre all’importazione del prodotto di marchio uguale o

confondibile.

L’applicabilità del principio dell’esaurimento.

E’ bene precisare che il principio dell’esaurimento è applicabile in tutti i casi di cessione del diritto in quanto ad essere decisivo non è il consenso del titolare originario, ma la perdita da parte sua del controllo sulla qualità del

prodotto.

Per il caso di riconfezionamento di medicinali, il titolare del diritto di marchio si può opporre solo quando sia riconosciuto che l’esercizio del diritto di marchio non miri ad isolare artificialmente i mercati, quando il

riconfezionamento può alterare lo stato originario del prodotto e quando sulla nuova confezione non se ne specifica l’autore.

La giurisprudenza riassunta la ritroviamo nell’art.7 della direttiva sul riavvicinamento delle legislazioni nazionali sui marchi.

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15. I MONOPOLI COMMERCIALI

L’art. 37 del TFUE sancisce il principio del riordino dei monopoli nazionali di carattere commerciale, fino all’eliminazione di qualsiasi discriminazione fra cittadini comunitari circa le condizioni relative

all’approvvigionamento e agli sbocchi.

L’obbligo di procedere al riassetto dei monopoli riguarda qualsiasi organismo dello Stato, attraverso cui questo controlli, diriga o influenzi sensibilmente, direttamente o indirettamente, gli scambi tra Paesi membri.

Deve trattarsi di un monopolio che si estende nell’intero territorio nazionale e che attenga a scambi di merci; in caso contrario si è fuori dal campo di applicazione dell’art.37.

Il riordino progressivo dei monopoli doveva consentire agli Stati membri di realizzare l’obiettivo dell’eliminazione di qualsiasi discriminazione entro e non oltre il periodo transitorio( 31/12/1969).

L’obiettivo era quello di evitare eventuali perturbazioni nel tessuto economico e sociale.

Ma, le oggettive difficoltà, non consentono di determinare a priori i momenti intermedi in cui i singoli ostacoli vanno eliminati, come è confermato anche dal tipo di strumento, la raccomandazione, di cui la Commissione si serve per

sollecitare il riordino.

Ci si è chiesti se l’art. 37 imponga l’eliminazione dei monopoli commerciali in quanto tali, o solo di quelli che comportano una discriminazione.

In questi termini il problema è mal posto, perché dipende sia dal tipo di monopolio, sia dall’estensione e dalla sua compatibilità con le norme comunitarie.

L’eliminazione progressiva dei monopoli commerciali imposta dall’att. 37 TFUE pone il problema del rapporto tra tale obbligazione e quella contenuta nell’art. 106[Imprese Pubbliche e Titolari di diritti esclusivi divieto di misure che

possano ostacolare la libertà degli scambi].

Quest’ultima è sicuramente più ampia, perché mira all’eliminazione di qualsiasi misura che, adottata nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese titolari di diritti esclusivi o speciali, sia contraria al trattato e in particolare

alle norme sulla concorrenza.

Logica vorrebbe che l’art. 37, una volta raggiunto il suo scopo di eliminare i monopoli che recano pregiudizio alla libertà degli scambi di merci, rientrasse nella norma più ampia dell’art. 106.

Il Trattato di Amsterdam ha risolto la questione eliminando il carattere della gradualità del riordino nei monopoli commerciali, ma mantenendo la disposizione distinta dall’art. 106.

CAPITOLO V: LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE E DEI CAPITALI

1. LE PERSONE DESTINATARIE

La realizzazione del mercato comune, quale prefigurata dall’art. 2 del TUE, implica l’eliminazione fra gli Stati membri degli ostacoli, oltre che agli scambi commerciali, anche alla circolazione di persone, servizi e capitali.

In particolare, la libera circolazione delle persone è oggetto di un principio che rende possibile ai cittadini dell’Unione l’esercizio di un’attività, di carattere subordinato o autonomo, senza riguardo per i confini nazionali.

All’inizio il trattato non riguardava la persona in quanto tale, ma in quanto soggetto che esercita un’attività economica rilevante o comunque a tale soggetto collegata, ad esempio per vincoli familiari.

Troviamo dunque, tre gruppi di norme, che corrispondono a tre principali ipotesi:

- lavoro subordinato ( artt. 45-48)

- lavoro autonomo localizzato stabilmente nel territorio di uno Stato membro (artt. 49-55)

- prestazione di servizi, che si risolve in un’attività economica prestata occasionalmente in uno Stato membro diverso da quello di stabilimento (art. 56-62)

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La disciplina della libera circolazione delle persone si articola in modo differente a secondo delle tre ipotesi, ciò però non inficia che, sotto certi aspetti, sia unitaria.

La Corte ha ampliato il più possibile la sfera di soggetti ammessi a beneficiare della libera circolazione, andando ben al di là delle ipotesi tipiche.

A ciò si aggiunga che lo stesso diritto derivato ha finito col riconoscere a tutti i cittadini dell’Unione, sebbene con talune limitazioni, un diritto di soggiorno generalizzato e, dunque, un diritto di circolare anche in assenza di

un’attività lavorativa.

Una direttiva recente ha razionalizzato i precedenti strumenti comunitari che trattavano separatamente le varie figure di lavoratore subordinato, lavoratore autonomo, studente e persone inattive, disciplinando in un unico testo

legislativo il diritto dei cittadini dell’Unione europea e dei loro familiari di circolare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri.

La libertà di circolazione e di soggiorno, e più in generale lo status dei cittadini dei Paesi membri dell’Unione, sono da sempre e restano collegati al divieto di discriminazioni in base alla nazionalità sancito dall’art. 18 del TFUE[divieto di

discriminazione in base alla nazionalità].

Tale disposizione va letta e applicata in combinato con l’art. 21 TFUE , che sancisce il diritto di tutti i cittadini comunitari alla libera circolazione e al soggiorno nell’intero territorio dell’ Unione e senza alcun riferimento alla

valenza economica dell’attività svolta.

Il giudice comunitario ha ulteriormente valorizzato l’art.21, riconoscendo anche al genitore cittadino di uno Stato terzo che abbia la custodia del figlio avente la cittadinanza europea il diritto di soggiornare con quest’ultimo nello

Stato membro ospitante.

La Corte arriva a questa conclusione mettendo in chiara evidenza che il rifiuto della domanda di permesso di soggiorno presentata dalla madre che esercita la custodia del minore, priverebbe di qualsiasi effetto utile il diritto di

soggiorno di quest’ultimo.

2. LA CITTADINANZA EUROPEA

Non esiste, né potrebbe esistere una nozione europea di cittadinanza, le norme dell’Unione che ne prescrivono il possesso come presupposto soggettivo per la loro applicazione, in realtà rinviano alla legge nazionale dello Stato la

cui cittadinanza viene posta a fondamento del diritto invocato.

Tale rinvio al diritto nazionale è stato operato espressamente anche nel Trattato, dove si definisce cittadino dell’Unione <<chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro>> art. 20 TFUE.

Ciò non significa che la competenza degli Stati membri in materia sia assoluta, in quanto deve esercitarsi entro i limiti definiti dal diritto dell’Unione, così come interpretato dalla Corte di Giustizia.

Né, tantomeno, che i diritti riconosciuti dal Trattato siano necessariamente riservati ai cittadini dell’Unione.

La Corte ha, infatti, precisato che il diritto dell’Unione non si oppone a che gli Stati membri concedano il diritto di elettorato attivo e passivo per le elezioni del Parlamento Europeo a persone che possiedano stretti legami personali,

famigliari, economici con esso pur non essendo loro cittadini o cittadini dell’Unione residenti sul loro territorio.

Ciò premesso, gli sviluppi in materia sono piuttosto significativi.

La giurisprudenza, sulla premessa che lo status di cittadino dell’’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale e che il Trattato non esige che i cittadini dell’Unione svolgano un’attività lavorativa per poter godere dei diritti

previsti dalla cittadinanza dell’Unione, ha chiarito che l’art. 21 TFUE è provvisto di effetto diretto e attribuisce al cittadino dell’Unione un diritto allo stesso trattamento giuridico nell’esercizio della libertà di circolazione e

soggiorno.

Tale diritto è invocabile oltre che nei confronti dello Stato ospitante anche nei confronti dello Stato di appartenenza.

La Corte ha, peraltro, evidenziato che tale diritto di circolazione e soggiorno, ex art. 21 TFUE, non è diritto assoluto, essendo attribuito subordinatamente ed alle condizioni poste dal Trattato e dalle relative disposizioni di attuazione.

Tali limiti e condizioni, cui gli Stati membri possono subordinare l’esercizio del diritto in esame, devono però rispondere al principio di proporzionalità.

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In altri termini, eventuali limitazioni non possono andare al di la di quanto è appropriato e necessario per l’attuazione dello scopo perseguito, restando al giudice nazionale quello di assicurare il rispetto di tale principio.

Inoltre, la Corte ha rilevato che i presupposti del godimento dei diritti del cittadino dell’Unione in materia di circolazione, sono ancorati all’ambito di applicazione ratione materiae.

Cioè si tratta di diritti condizionati all’esercizio effettivo della libera circolazione, con la conseguenza che ad essi non si può attribuire una valenza autonoma, rispetto ai diritti che Trattati e diritto derivato riconoscono in quanto

collegati alle 4 libertà fondamentali che di volta in volta vengono in rilievo.

Lo status di cittadino europeo attribuisce una serie di diritti, oltre quello di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri,art. 21.

È il caso di aggiungere che il Trattato di Lisbona ha ribadito ed ampliato la nozione di cittadinanza europea, rafforzando, tra l’altro, gli strumenti di democrazia partecipativa.

3. LA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE DEI CITTADINI DI PAESI TERZI

Il pieno diritto di circolazione, inteso come diritto di attraversare le frontiere intracomunitarie senza controlli, rimane collegato all’adozione di disposizioni comuni sui controlli alle frontiere esterne.

Le difficoltà che permangono alla libera circolazione delle persone sono attualmente dovute ai controlli di polizia effettuati alla frontiera.

Si tratta di una questione collegata alla più generale politica di immigrazione, oltre che alla lotta alla criminalità e al terrorismo.

Non a caso la cooperazione degli Stati membri in materia è iniziata al di fuori del sistema comunitario, attraverso le iniziative dei governi e delle autorità preposte alla tutela dell’ordine pubblico e/o dell’immigrazione.

Gli sviluppi più importanti si sono avuti con gli accordi di Schengen,le cui problematiche sono state affrontate per la prima volta nel contesto dell’Unione, quale prefigurata dal Trattato di Maastricht, all’interno del terzo pilastro,

dunque quale cooperazione in materia di giustizia e affari interni.

Il Trattato di Amsterdam ha poi inciso in maniera significativa su tale materia, sia in maniera formale che sostanziale, trasferendo la materia dei visti, dell’asilo, dell’immigrazione e altre politiche connesse con la circolazione delle

persone nel Titolo IV del TCE e lasciando nel Titolo VI del TUE solo uno dei settori prima rientranti nell’ambito della cooperazione in materia di giustizia e affari interni.

Il rischio di sovrapposizioni tra gli accordi di Schengen da un lato, il Titolo IV TCE ed il Titolo VI TUE è stato evitato grazie all’integrazione nell’Unione Europea degli accordi di Schengen e di tutti gli atti adottati.

In tale modo tutte le realizzazioni compiute sono state incorporate come <<acquis di Schengen>> nel sistema dell’Unione.

Effetto non secondario dell’integrazione dell’acquis Schengen nel sistema comunitario era rappresentato dall’estensione delle competenze del Parlamento Europeo e della Corte di Giustizia.

Va ricordato che i tredici Stati membri, ad eccezione di Regno Unito ed Irlanda, erano autorizzati tra loro a istituire una cooperazione rafforzata in materia.

Si può dire che l’integrazione dell’acquis Schengen decisa ad Amsterdam permetteva di superare il rischio di sovrapposizioni tra strumenti interni ed esterni all’Unione, ma non riusciva ad individuare una soluzione capace di

garantire una disciplina comune in relazione all’ingresso ed al trattamento dei cittadini di Paesi terzi.

Il quadro complessivo è stato notevolmente semplificato dal Trattato di Lisbona, in virtù di due previsioni:

la prima concerne il futuro, impone che l’acquis Schengen e le ulteriori misure adottate nel suo campo di applicazioni debbano essere accettate integralmente da tutti gli Stati canditati all’adesione;

la seconda concernente il presente, sopprime la tradizionale struttura a tre pilastri dell’Unione, eliminando le distinzioni tra primo e terzo pilastro.

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Quest’ultima novità comporta, di fatto, la comunitarizzazione della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, che <<ritorna>> ad essere disciplinata insieme alle politiche concernenti i visti, l’asilo, l’immigrazione ed altre

politiche connesse alla libera circolazione delle persone.

Nel nuovo Titolo V(artt. 67 e segg.) del TFUE, dedicato allo <<spazio di libertà, sicurezza e giustizia>>, confluiscono le politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e immigrazione, la cooperazione giudiziaria in materia civile e

quella in materia penale, la cooperazione di polizia.

Ciò è espressione di una più generale consapevolezza delle dirette implicazioni di queste materie sulla circolazione delle persone nel territorio dell’Unione.

Di particolare rilievo, per la circolazione dei cittadini di Paesi terzi, appare la precisazione di portata generale che <<l’Unione si fonda sul rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di

diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze>>.

Si tratta di <<valori comuni agli Stati membri>> e propri di una società caratterizzata dal <<pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra uomini e donne>>.

Dalla enunciazione di tali principi si ricava che la tutela dei diritti umani nell’Unione europea non dipende dal possesso della cittadinanza dell’Unione.

Relativamente ai controlli alle frontiere , all’asilo e all’immigrazione, nel TFUE si precisa che obiettivi dell’Unione sono: garantire l’assenza di qualsiasi controllo sulle persone, a prescindere dalla nazionalità all’atto

dell’attraversamento delle frontiere interne, garantire il controllo delle persone e la sorveglianza efficace delle frontiere esterne, ed instaurare, progressivamente, un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne.

L’art. 80 TFUE precisa che queste politiche sono governate dal principio di solidarietà ed equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri, anche relativamente al piano finanziario.

La politica comune di immigrazione deve assicurare la gestione efficace dei flussi migratori, l’equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri, nonché la prevenzione ed il contrasto

rafforzato dell’immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani.

In conclusione il trattato di Lisbona appare sicuramente foriero di sviluppi positivi nella direzione di un’effettiva integrazione tra Stati membri dell’Unione, ma in attesa di tale evoluzione c’è da dire che tuttora gli Stati membri

possono sempre decidere la reintroduzione di normali controlli alle frontiere nazionali per esigenze di ordine pubblico o di sicurezza nazionale e previa consultazione con gli altri Pesi membri.

4. LA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI

L’art. 45 TFUE assicura la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione.

La libera circolazione dei lavoratori implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. L’art. 45, 3°

comma, sancisce i diritti del lavoratore comunitario, e comprendono:

1. l’accesso al lavoro in un altro Stato membro;

2. il diritto di prendervi dimora;

3. quello di spostarsi liberamente;

4. quello di rimanervi anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro.

Il termine lavoratore(art.45) e l’espressione attività subordinata(Regolamento n. 1612/68) sono nozioni da interpretare in modo restrittivo.

La giurisprudenza del lavoratore dà questa definizione: “deve considerarsi lavoratore la persona che, per un certo tempo, esegue a favore di un’altra e sotto la direzione di questa prestazioni in contropartita delle quali percepisce una remunerazione. Una volta cessato il rapporto, l’interessato perde la qualità di lavoratore, fermo restando tuttavia che, da un lato, questa qualifica può produrre taluni effetti dopo la cessazione del rapporto di lavoro e che, dall’altro, una

persona all’effettiva ricerca di un impiego deve pur essere qualificata come lavoratore”.

La nozione comunitaria di lavoratore subordinato implica che:

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1. Cittadinanza dell’Unione: Deve trattarsi di un cittadino di un Paese membro, vi è un rimando al diritto nazionale in materia di cittadinanza.

Tale requisito, invece, non e richiesto ai familiari del lavoratore che siano cittadini di un Paese terzo, in quanto ad essi è consentito, ma solo in quanto familiari di un lavoratore comunitario, di beneficiare della disciplina della libera circolazione del lavoratori, per il resto a cittadini dei Paesi terzi è vietata la libera circolazione,

salvo accordi tra il Paese d’origine e la Comunità(es. gli accordi stipulati con alcuni Paesi del mediterraneo).

L’ Atto di adesione firmato ad Atene il 16 aprile 2003 consente ai vecchi Stati membri di limitare l’applicazione delle norme in materia di libera circolazione dei lavoratori nei confronti dei nuovi Stati membri per un periodo massimo di sette anni anche se essi beneficiano di un regime di preferenza rispetto a lavoratori di Paesi terzi.

2. Luogo del rapporto subordinato : La prestazione deve svolgersi in uno Stato membro diverso da quello di origine del lavoratore.

Il rapporto di lavoro deve essere localizzato in territorio dell’Unione o comunque presentare un legame stretto con quest’ultimo.

Più in generale le norme sulla libera circolazione si applicano a tutti i cittadini comunitari che ne usufruiscano.

Ne consegue che è un diritto che il singolo può opporre al proprio Stato di appartenenza, quando è da esso che abbai ricevuto un trattamento deteriore per il sol fatto di avere lavorato in un altro stato membro o

comunque tale da dissuaderlo dall’avvalersi di tale libertà di circolazione.

Non è escluso che si verifichino delle situazioni di discriminazione a danno dei cittadini del Paese membro interessato, ipotesi definita di discriminazione alla rovescia e che può trovar rimedio solo attraverso

l’eventuale applicazione delle norme nazionali poste a tutela del principio di eguaglianza.

Con una la legge comunitaria del 2004 è stata garantita la parità di trattamento dei cittadini italiani con quelli di altri Paesi membri.

3. Natura subordinata del rapporto : l’attività lavorativa svolta deve avere natura subordinata.

Oltre al rapporto di subordinazione, è necessaria la circostanza che si tratti di un’attività lavorativa effettiva e dotata di una certa consistenza.

Quindi non rientrano in tale disciplina le attività ridotte e precarie, così tanto da presentarsi come accessorie e marginali.

Sono ritenute rilevanti anche talune ipotesi di confine come il tirocinio professionale retribuito, un corso di studi sancito da diploma professionale che sia collegato alla precedente attività lavorativa svolta nello Stato

ospite(etc)

Non è stato escluso il vincolo di subordinazione , salvo l’accertamento del giudice nazionale, nel lavoro svolto dal coniuge dell’unico titolare dell’impresa. Anche l’attività sportiva è stata compresa nella disciplina

comunitaria sulla libera circolazione dei lavoratori, quando ricorrono le condizioni già citate.

5. IL DIRITTO DI INGRESSO E DI SOGGIORNO

Il diritto di ingresso.

L’accesso al lavoro in uno Stato membro diverso da quello di origine ed il conseguente diritto di soggiornarvi presuppone il diritto di ingresso nel territorio di tale Stato.

Tale diritto deriva dal Trattato ,nonché, all’occorrenza, dalle disposizioni del diritto comunitario derivato e può essere condizionato esclusivamente al possesso di una carta di identità o di un passaporto valido.

Non sono ammessi controlli che integrino una prassi sistematica, che per ciò stesso diventa un ostacolo arbitrario alla circolazione delle persone; lo stesso dicasi per i visti di ingresso o l’apposizione di un timbro sul passaporto.

Il semplice controllo amministrativo è ammesso a condizione che non sia discriminatorio.

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Il diritto di soggiorno

Il diritto di ingresso in un altro Paese membro comporta il diritto di soggiornarvi almeno 3 mesi, col beneficio del diritto all’eguaglianza di trattamento con i cittadini dello Stato ospite (es. diritto al risarcimento del danno che la

legge nazionale riserva ai cittadini, il diritto a sovvenzioni in occasione della nascita di un figlio).

Del diritto di soggiorno (oltre il limite dei tre mesi) possono beneficiare i lavoratori dipendenti, con i rispettivi familiari, le persone che si stabiliscono in un altro Paese membro per esercitarvi un’attività economica.

Con l’entrata in vigore della direttiva 2004/38 tale diritto è attribuito a tutti i cittadini dell’Unione, unitamente ai loro familiari, a condizione però che essi dispongano di risorse economiche sufficienti e di un’assicurazione malattia.

Tale direttiva introduce anche la figura del diritto di soggiorno permanente di cui beneficeranno il cittadino dell’Unione ed i suoi familiari che avranno soggiornato legalmente ed in via continuativa per 5 anni nello Stato

membro ospitante.

Per familiare vanno intesi, oltre il coniuge ed i discendenti e ascendenti diretti, anche il partner che ha contratto unione registrata secondo la legislazione di uno Stato membro.

Alcune direttive hanno esteso il diritto di soggiorno anche ai soggetti non “economicamente attivi”; tali direttive valgono ad integrare i “limiti e le condizioni” cui è sottoposto l’esercizio del diritto di soggiorno, che dunque finisce

con l’essere attribuito al cittadino dell’Unione in quanto tale.

Carta di soggiorno e sua abolizione.

Il diritto di soggiorno deriva evidentemente dalla situazione in cui versa il beneficiario, mentre non è decisivo il possesso della carta di soggiorno, che pure viene rilasciata dallo Stato ospite per almeno 5 anni e con rinnovo

automatico.

La Carta di soggiorno, inoltre, si distingue nettamente dal “permesso” di soggiorno attraverso il quale lo Stato esercita il suo potere in ordine all’ammissione dello straniero non comunitario e ha due conseguenze:

il cittadino dell’Unione ha un vero e proprio diritto alla carta di soggiorno, quando ne ricorrano le condizioni;

il mancato possesso della carta di soggiorno non può provocare provvedimenti sproporzionati quali l’espulsione o altro provvedimento sanzionatorio che si traduca in un ostacolo alla libera circolazione.

La direttiva 2004/58 interviene anche su tale profilo della libera circolazione dei lavoratori dell’Unione, abolendo la carta di soggiorno e sostituendola con un attestato di iscrizione che potrà essere richiesto soltanto se gli Stati

membri lo richiederanno e che comunque troverà applicazione unicamente per soggiorni di durata superiore a tre mesi.

6. IL REGIME DELLA LIBERA CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI

L’art.45 del Trattato chiarisce che la libertà di circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità relativamente a tutte le condizioni di lavoro.

I diritti che derivano dalle disposizioni del Trattato o da normative derivate riguardano e possono dunque essere invocati dai lavoratori, ma niente esclude che possano essere invocati anche dai datori di lavoro.

La libertà di circolazione dei lavoratori si risolve, dunque, nel generale divieto di discriminazione in base alla nazionalità.

Tale divieto tende non solo a garantire al lavoratore che abbia una nazionalità diversa da quella dello Stato ospitante un trattamento non diverso da quello riservato ai cittadini, ma impedisce anche il verificarsi di condizioni

concorrenziali a svantaggio dei lavoratori nazionali.

La libertà di circolazione è stata compiutamente realizzata con:

1. la direttiva del Consiglio 68/360 che ha eliminato le restrizioni all’ingresso e al soggiorno dei lavoratori e delle loro famiglie in Paesi diversi da quelli d’origine;

2. il regolamento n.1612/68 sostanzialmente è la normativa d’attuazione del principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità.

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Relativamente alle condizioni di accesso al lavoro non vi può essere un precedenza o una priorità dei lavoratori nazionali rispetto a quelli di altri Paesi comunitari.

Va poi precisato che la disciplina della circolazione dei lavoratori comprende non solo la persona che si reca in un altro Paese membro in risposta ad un’offerta di lavoro ma si estende anche a colui che si limita a spostarsi per cercare

lavoro.

L’applicazione del principio della parità di trattamento nell’accesso al lavoro vieta anche le discriminazioni dissimulate.

Al riguardo, i possibili elementi discriminatori sono i più vari, dal requisito della residenza a quello del titolo di studio ,alla conoscenza della lingua locale.

La giurisprudenza è sempre stata attenta ad accertare l’obiettivo sostanziale della parità di trattamento, verificando di volta in volta se la diversità di trattamento sia arbitraria e, quindi, dissimuli una discriminazione.

Il principio del trattamento nazionale ha poi trovato numerose applicazioni relativamente alle condizioni di esercizio dell’attività lavorativa, relative alla retribuzione, allo stato di disoccupazione, alla cessazione del rapporto

di lavoro.

Sono compresi nella parità di trattamento anche tutti i vantaggi sociali e fiscali attribuiti ai lavoratori nazionali (es. un prestito agevolato in occasione della nascita di un figlio, riduzioni sulla tariffe ferroviarie, un’indennità di

disoccupazione per i giovani).

Il regolamento n.1612/68 sancisce all’art.8 il principio della parità di trattamento anche in relazione ai diritti sindacali, in particolare l’iscrizione alle organizzazioni sindacali.

Un altro aspetto di grande rilevanza della libertà di circolazione dei lavoratori è quello del trattamento riservato alla famiglia del lavoratore ed alle condizione per l’integrazione dei suoi componenti nello Stato ospitante.

Il regolamento 1612/68 attribuisce al coniuge ed ai figli minori o ancora a carico del lavoratore una serie di diritti destinati a mantenere l’unità familiare ed a facilitarne l’integrazione quali:

diritto di soggiornare e di esercitare un’attività lavorativa;

diritto di accedere a professioni sottoposte a regole professionali specifiche;

godere dei benefici in vigore nello Stato ospite in tema di istruzione a favore dei cittadini.

L’art.45 n.3,lett. D,del TFUE garantisce i diritti del lavoratore e dei suoi familiari nel periodo seguente alla cessazione del rapporto di lavoro.

Le condizioni per conservare il diritto di risiedere nel Paese ospite sono:

il raggiungimento dell’età pensionabile nello Stato ospitante;

che siano stati colpiti da incapacità lavorativa permanente dopo avervi soggiornato per oltre due anni;

dopo tre anni di soggiorno, lavorino in un altro Stato membro, ma facciano ritorno nello Stato ospitante almeno una volta alla settimana.

In caso di licenziamento il lavoratore comunitario ha diritto alla stessa assistenza che gli uffici del lavoro dello Stato in cui era occupato prestano ai loro cittadini nella ricerca di un nuovo posto di lavoro.

Nel caso la cessazione del rapporto di lavoro sia dovuta alla sopravvenuta inabilità del lavoratore, quando abbia maturato un certo periodo di anzianità o per il raggiungimento dei limiti massimi dell’attività lavorativa, al lavoratore

spetta il trattamento previdenziale e pensionistico previsto dalla legge locale.

In definitiva, il trattamento non discriminatorio ha natura di trattamento minimo, nel senso che è possibile l’applicazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali più favorevoli, in quanto

estendano agli stranieri diritti e vantaggi non contemplati nel Trattato e nel regolamento n.1612/68.

7. IL SISTEMA DI SICUREZZA SOCIALE GARANTITO AI LAVORATORI MIGRANTI

La normativa sulla sicurezza sociale dei lavoratori migranti costituisce un corollario indispensabile alla libertà di circolazione.

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Il fondamento di una tale normativa è costituito dall’art.48 del TFUE, in base al quale “il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura ordinaria, adottano in materia di sicurezza sociale le misure necessarie

per l’instaurazione delle libera circolazione dei lavoratori, attuando in particolare un sistema che consenta di assicurare ai lavoratori migranti e ai loro aventi diritto: a) il cumulo di tutti i periodi presi in considerazione dalle varie

legislazioni nazionali, sia per il sorgere e la conservazione del diritto alle prestazioni sia per il calcolo di queste, b) il pagamento delle prestazioni alle persone residenti nei territori degli Stati membri”.

La normativa di attuazione.

La normativa di attuazione dell’art.48 è essenzialmente contenuta nel regolamento n.1408/71 e nel regolamento n.574/72 aventi come scopo principale il coordinamento delle diverse normative nazionali in materia.

In mancanza di una disciplina comune, da un lato gli Stati membri continuano a disciplinare autonomamente i rispettivi sistemi previdenziali; dall’altro, nell’esercizio di tale autonomia, gli Stati membri devono rispettare il diritto

comunitario.

Il regolamento n.1408/71 si applica ai lavoratori subordinati o autonomi che sono soggetti alla legislazione di uno o più Stati membri e che siano cittadini di uno stato membro, nonché ai loro familiari e ai loro “superstiti”.

La Corte di Giustizia ha precisato che “una persona possiede la qualità di lavoratore ai sensi del regolamento n.1408/71 quando è assicurata, sia pure contro un solo rischio, in forza di un’assicurazione obbligatoria o facoltativa”.

Il coordinamento effettuato in virtù del regolamento predetto è fondato su 3 principi essenziali:

1. la parità di trattamento tra lavoratori che beneficiano della libertà di circolazione e cittadini della Stato membro di cui si tratta. In base a questo principio, dunque, non è ammessa alcuna discriminazione tra

cittadini e altri lavoratori comunitari.

2. la lex fori determinazione della legge applicabile; costituisce il principio dell’unicità della legge applicabile, identificata con quella dello Stato in cui viene svolta l’attività lavorativa

3. la totalizzazione dei periodi assicurativi . garantisce al lavoratore che sia stato soggetto alle leggi di due o più Stati membri, il cumulo dei periodi assicurativi maturati in forza delle leggi di ciascuno degli Stati in

questione.

8. LE LIMITAZIONI ALLA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE

Deroga per la Pubblica Amministrazione.

La disciplina comunitaria relativa alla libera circolazione dei lavoratori non si applica al pubblico impiego: “Agli impieghi nella pubblica amministrazione”, art.45,n.4,del TFUE.

Per pubblica amministrazione si intende l’insieme di quegli impieghi che implicano una partecipazione diretta o indiretta all’esercizio di poteri pubblici, nonché le funzioni che hanno ad oggetto la tutela di interessi generali dello

Stato o di enti pubblici.

La giurisprudenza ha dato alla deroga in esame una interpretazione molto restrittiva, fissando la necessità di valutare caso per caso quando tale deroga vada applicata, nonché di verificare la sussistenza del particolare vincolo di

solidarietà e fedeltà nei confronti dello Stato che caratterizza il rapporto di pubblico impiego.

Deroga per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza o per ragioni sanitarie.

Il diritto del lavoratore alla libera circolazione, in particolare all’ingresso ed al soggiorno, può essere limitato o negato per ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza o per ragioni sanitarie, art. 45, n. 3 TFUE e Direttiva 2004/38/CE.

Lo status di cittadino dell’Unione ha imposto una interpretazione molto restrittiva delle deroghe in parola.

La giurisprudenza ha precisato i limiti che gli Stati membri devono rispettare nella definizione delle esigenze di ordine pubblico.

Anzitutto l’applicazione della misura restrittiva non può avere finalità economiche o comunque non connesse alle esigenze di ordine pubblico riconosciute in una società democratica.

La Direttiva 2004/38/CE precisa inoltre che i provvedimenti restrittivi della libertà di circolazione possono essere

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collegati esclusivamente ad un comportamento personale e specifico del soggetto, mentre non possono essere fondati sulla semplice esistenza di precedenti penali o come deterrente per altri stranieri.

I motivi di ordine pubblico posti a fondamento della misura restrittiva devono essere portati a conoscenza del lavoratore, affinché egli si possa ben rendere conto del contenuto e degli effetti della misura e possa dunque

provvedere ad una difesa adeguata.

Quanto alle ragioni sanitarie la Direttiva 2004/38/CE indica le varie patologie che possono giustificare il rifiuto di ingresso e/o di rilascio del permesso di soggiorno, precisando, tuttavia, che il sopraggiungere della malattia dopo i

tre mesi successivi all’arrivo non consente allo Stato membro di procedere all’allontanamento dal proprio territorio.

La giurisprudenza, d’altronde, aveva già precisato che la norma rende possibile il rifiuto dell’accesso o del soggiorno nel territorio a persone il cui ingresso o soggiorno costituirebbe, in quanto tale, un pericolo per la salute pubblica.

9. LA LIBERTÀ DI STABILIMENTO. CAMPO DI APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA

Il diritto di stabilimento, disciplinato dagli articoli da 49 a 55 del TFUE, investe qualsiasi attività economica svolta in regime di non subordinazione e in modo stabile.

Di questo diritto beneficiano sia le persone fisiche che siano in possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri, sia le persone giuridiche.

Per queste ultime va fatta qualche ulteriore precisazione.

L’art.54 stabilisce che esse sono equiparate alle persone fisiche aventi la cittadinanza di uno Stato membro se costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale all’interno della Comunità.

Quindi la società che voglia aprire una sede secondaria in un altro Paese comunitario deve già avere un centro d’attività all’interno della Comunità.

Il Trattato prevede, peraltro, una importante eccezione al beneficio della libertà di stabilimento relativamente a quelle attività che nello Stato ospite “partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri” (art.51).

In particolare la Corte ha subito precisato che l’eccezione non può avere una portata che vada al di là dello scopo per la quale è stata prevista.

L’occasione fu una controversia che riguardava la professione di avvocato, rispetto alla quale non era mancato chi ne sosteneva il carattere “pubblico” e dunque l’esclusione in toto dalla sfera di applicazione della libertà di stabilimento.

La Corte tenne a precisare che l’art. 51 del Trattato consente agli Stati membri di precludere l’accesso a quelle attività che ,considerate in sé stesse, costituiscono una partecipazione diretta e specifica all’esercizio dei pubblici

poteri.

Ciò però non si verifica rispetto alle attività di consulenza ed assistenza legale o della rappresentanza e della difesa delle parti in giudizio svolte da un avvocato.

10. STABILIMENTO A TITOLO PRINCIPALE E A TITOLO SECONDARIO

La libertà di stabilimento riguarda sia “l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese” (art.49 comma 2°),sia l’apertura di agenzie, succursali o filiali.

In definitiva tratta di due ipotesi:

L’esercizio di un’attività professionale o più in generale di un’attività economicamente rilevante in un Paese comunitario diverso da quello di origine;

L’apertura di un centro secondario di attività in un Paese comunitario diverso da quello di origine.

Per quanto riguarda le persone giuridiche, la situazione è più complessa, specie quando si tratta di società non di nuova costituzione.

Una siffatta condizione comporta una serie di difficoltà, atteso che, quanto meno in quegli Stati membri in cui è proprio il criterio della sede ufficiale effettiva a determinare la nazionalità della società, il trasferimento di detta sede in un altro Stato membro può risultare incompatibile con il mantenimento della personalità giuridica di cui la società

gode ai sensi dell’ordinamento giuridico dello Stato membro di costituzione.

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In tali condizioni, l’esercizio della libertà di stabilimento a titolo principale finisce per essere puramente teorico.

Allo stato attuale del diritto dell’Unione, un Paese membro dispone della facoltà di definire sia il criterio di collegamento richiesto ad una società affinché possa ritenersi costituita ai sensi del suo diritto nazionale, e a tale titolo possa beneficiare del diritto di stabilimento riconosciuto dal Trattato, sia quello necessario per continuare a

mantenere detto status.

Lo stesso art.49 comma 1 prevede inoltre l’ipotesi che il soggetto sposti solo una parte secondaria della sua attività in un altro Paese comunitario, cioè lo stabilimento che si realizza con la creazione rispettivamente di agenzie, succursali

o filiali.

Il Trattato menziona, quindi, per l’esercizio dello stabilimento secondario gli strumenti della filiale, della agenzia e della succursale.

Al riguardo va precisato che mentre per filiale va intesa una persona giuridica controllata dalla società madre, ma costituita secondo il diritto del Paese ospite e dotata pertanto di autonomia, le agenzie e le succursali non sono

persone giuridiche autonome rispetto alla società madre.

Inoltre il diritto di stabilimento a titolo secondario è accordato non solo alle persone giuridiche, ma anche alle persone fisiche, purché si tratti di cittadini di uno Stato membro stabiliti in un altro Stato membro.

In altre parole, uno Stato membro non può negare ad un cittadino di un altro Stato membro l’apertura di uno studio o di un ufficio sul proprio territorio, e ciò sebbene a tale divieto soggiacciono i propri cittadini.

In tale ipotesi dunque agli Stati membri non è concesso applicare agli stranieri comunitari le stesse limitazioni applicate ai cittadini, in quanto l’effetto restrittivo che ne conseguirebbe sarebbe sproporzionato, risolvendosi in fatto nell’impossibilità per i cittadini dell’Unione di avvalersi di un diritto fondamentale garantito dal Trattato per stabilirsi

in un altro Stato membro, se non rinunciando al precedente stabilimento.

11. IL REGIME DEL DIRITTO DI STABILIMENTO

A) IL PRINCIPIO DEL TRATTAMENTO NAZIONALE

Il contenuto materiale della normativa che sancisce e disciplina la libertà di stabilimento ruota intorno al principio del trattamento nazionale.

Questo significa che ai cittadini degli Stati membri, nonché alle persone giuridiche, che si stabiliscono anche solo in via secondaria in un altro Stato membro,l’art.49 intende garantire lo stesso trattamento riservato ai cittadini,

vietando anzitutto ogni discriminazione in senso soggettivo (che sia cioè fondata sulla nazionalità) o nuova misura che sottoponga lo stabilimento dei cittadini degli Stati membri ad una disciplina più rigorosa di quella riservata ai

propri cittadini.

Lo stesso Trattato ha previsto, inoltre ,l’adozione di direttive per la soppressione delle restrizioni esistenti (art.50);l’adozione di direttive volte a coordinare le disposizioni nazionali relative all’accesso alle attività non salariate

e al loro esercizio (art.53 n.2);nonché di direttive sul reciproco riconoscimento dei diplomi (art.53 n.1).

Tuttavia l’obiettivo della libertà di stabilimento va perseguito negli Stati membri indipendentemente dalla vigenza o meno di una normativa ad hoc .

Quest’ultima è prevista solo per facilitare l’esercizio effettivo di tale libertà, mentre la semplice eliminazione degli ostacoli al regime di libertà di stabilimento è oggetto, a partire dalla scadenza del periodo transitorio, di un obbligo

preciso e incondizionato, che non richiede alcuna specificazione normativa.

Pertanto l’art.49,una volta scaduto il periodo transitorio ,ha potuto essere utilmente invocato dai singoli in quanto norma provvista di effetto diretto (come affermato nella celebre sentenza Reyners).

Spetta, pertanto, alle autorità nazionali fare in modo che la libertà di stabilimento sia garantita quando sussistano le condiziona di applicazione dell’art.49,anche e nonostante l’assenza di direttive di coordinamento ai sensi dell’art.53.

E’ così che la Corte ha riconosciuto ad un avvocato belga il diritto di stabilirsi ed esercitare in Francia, atteso che il diploma conseguito dall’interessato nel Paese di origine era stato dichiarato equivalente dall’autorità competente

dello Stato di stabilimento, sebbene solo a fini accademici e non a fini civili.

Il principio del trattamento nazionale ha dunque una portata molto ampia e anzitutto mira ad evitare qualsiasi

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discriminazione che sia fondata sulla nazionalità, comportando così l’illegittimità di qualsiasi misura che colpisca lo straniero in quanto tale.

E ciò vale anche per normative nazionali che si applichino solo ai cittadini di altri Stati membri.

12. SEGUE: B) OLTRE IL TRATTAMENTO NAZIONALE

La regola del trattamento nazionale non può condurre alla negazione del diritto di stabilimento quale conferito dallo stesso Trattato, con la conseguenza che il diritto di costituire una pluralità di centri di attività nell’insieme dell’Unione

prevale sull’eguaglianza di trattamento nei casi in cui la normativa nazionale preveda l’unicità della sede.

Inoltre, va precisato che il regime della libertà di stabilimento intende eliminare anche quelle discriminazioni che comportano in fatto una discriminazione a danno degli stranieri.

Ciò significa che è vietata anche ogni altra forma dissimulata di discriminazione.

Si tratta in sostanza delle ipotesi in cui una normativa preclude in fatto al cittadino di un altro Paese membro di godere della libertà di stabilimento, in quanto ne condiziona l’esercizio al possesso di certi requisiti che sono propri

del cittadino e non di altri.

È quanto si verifica o si può verificare, anzitutto, attraverso il criterio della residenza o attraverso talune condizioni imposte alle società, condizioni che rischiano di sfavorire le società “straniere” rispetto a quelle costituite secondo il

diritto nazionale o, ancora, con i titoli di studio.

13. LE MISURE DESTINATE A FACILITARE LA LIBERTÀ DI STABILIMENTO: LA DIRETTIVA 2005/36/CE SUL RICONOSCIMENTO DELLE QUALIFICHE PROFESSIONALI.

Nonostante gli sviluppi giurisprudenziali, le direttive previste dall’art. 53 TFUE, intese al reciproco riconoscimento dei titoli di studio e professionali restano necessarie per facilitare l’accesso e l’esercizio di molte attività autonome, con

particolare riferimento a quelle rientranti nelle professioni liberali.

Per alcuni mestieri e professioni, il cui esercizio in taluni Stati membri è subordinato ad una formale qualifica professionale sono state adottate numerose direttive in materia, definite misure <<transitorie>>, in attesa della piena

e diretta efficacia dell’art. 53 TFUE, ma, nella sostanza, misure destinate ad essere definitive.

Il criterio in generale che informa tali direttive è quello per cui quando lo Stato di stabilimento richiede, per l’esercizio di un’attività, il possesso di una qualifica professionale formale che in altri Stati membri non è richiesta, è sufficiente che il soggetto interessato provi di avere svolto effettivamente quell’attività nel Paese di origine per il periodo fissato

dalla direttiva.

Ciò vuol dire che ogni Stato di stabilimento può chiedere all’interessato di esibire un’attestazione, rilasciata dallo Stato di provenienza, comprovante l’esercizio dell’attività di cui trattasi, ma non può definire condizioni di accesso tali

da rendere inutile tale attestazione.

Per molte professioni lo scenario è cambiato con la direttiva 2005/36/CE, c.d. Zappalà, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali.

Essa ha consolidato in un unico testo legislativo ben quindici direttive, fra le quali dodici settoriali, riguardanti le professioni di medico, infermiere, odontoiatra, veterinario, ostetrica, farmacista e architetto; tre che riguardavano il

riconoscimento delle altre attività professionali.

In dettaglio la direttiva 2005/36/CE si applica a tutti i cittadini di uno Stato membro che intendono esercitare una professione regolamentata in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito le loro qualifiche

professionali.

Essa stabilisce che ciascuno Stato membro è tenuto a riconoscere, sulla base dei criteri fissati dalla direttiva in parola, il diritto di accedere a una professione, come subordinato o autonomo, a qualsiasi cittadino dell’Unione in possesso di

un titolo che lo legittima a svolgere la medesima attività in un altro Stato membro.

In concreto, il riconoscimento delle qualifiche professionali da parte dello Stato membro ospitante consente al beneficiario di accedere alla stessa professione per la quale è qualificato nello Stato membro di origine e di esercitarla

alle stesse condizioni dei cittadini dello Stato membro ospitante.

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Impianto della direttiva ricalca la classica distinzione tra prestazione dei servizi, su base temporanea ed occasionale, e libertà di stabilimento, concernente invece lavoro autonomo prestato in maniera stabile.

In relazione alla prima ogni cittadino dell’Unione, legalmente stabilito in uno Stato membro, può svolgere la propria attività di servizi in un altro Stato membro con il proprio titolo professionale di origine senza dover chiedere il

riconoscimento delle qualifiche che possiede.

Il prestatore deve provare di aver esercitato la propria attività professionale nello Stato di stabilimento per almeno due anni nel corso dei 10 anni che precedono la prestazione di servizi, se in tale Stato membro la professione in

questione non è regolamentata.

Il divieto di restrizioni riguarda anche l’applicazione di normative nazionali che subordinano lo svolgimento di attività professionali al rispetto o al compimento di talune formalità legali.

Nell’ipotesi in cui professionista intende invece svolgere la propria attività avvalendosi della libertà di stabilimento, problemi marginali si pongono per talune professioni già oggetto di direttive settoriali.

Diverso il caso delle professioni per le quali non esistono disposizioni di armonizzazione della relativa formazione. La direttiva stabilisce un sistema di riconoscimento basato sul criterio c.d. “dell’equivalenza delle qualifiche”.

Se in uno Stato membro ospitante l’accesso ad una professione o il suo esercizio sono regolamentati, l’autorità competente di tale Stato consente l’accesso a detta professione e il suo esercizio alle stesse condizioni previste per i cittadini nazionali, purché richiedente possegga titolo di formazione, rilasciata da un altro Stato membro, che attesti

un livello di formazione almeno equivalente al livello immediatamente inferiore a quello richiesto dallo Stato membro ospitante.

Se, al contrario, nello Stato membro d’origine del richiedente l’accesso ad una professione o il suo esercizio non sono regolamentati, richiedente è tenuto a dimostrare di possedere non solo titolo di formazione, ma anche due anni di

esperienza professionale a tempo pieno, maturata nel corso dei 10 anni precedenti.

La direttiva raggruppa le qualifiche professionali in cinque livelli che si distinguono essenzialmente per la durata del percorso formativo richiesto per l’accesso alla professione nel paese di origine del richiedente: attestato di

competenza, il certificato, il diploma di formazione breve, il diploma di formazione di durata minima di tre anni ed inferiore a quattro anni, il diploma di formazione durata minima di quattro anni.

14. SEGUE: LA DIRETTIVA 2006/123/CE RELATIVA AI SERVIZI NEL MERCATO INTERNO

Tra le direttive intese ad agevolare la libertà di stabilimento merita particolare attenzione la direttiva 2006/123/CE, nota come <<direttiva servizi>>.

Essa si inserisce nel quadro delle azioni volte a rendere l’Unione europea caratterizzata da una economia in crescita esponenziale.

La direttiva mira ad eliminare gli ostacoli ancora presenti nel mercato interno che, di fatto, impediscono alle attività a carattere autonomo di circolare liberamente tra gli Stati membri, sia utilizzando la libertà di stabilimento, sia

sfruttando la libertà di prestazione dei servizi.

La direttiva non si limita però ad agevolare le sole due attività menzionate, essa intende, nel contempo, rafforzare i diritti dei destinatari che da un mercato in libera concorrenza non possono che trarre vantaggi.

La direttiva stabilisce un quadro giuridico generale valido per qualsiasi attività di servizi fornita dietro corrispettivo economico, ad eccezione delle attività espressamente escluse.

La direttiva, in altre parole, ha un carattere orizzontale, nel senso che non riguarda una sola categoria o un settore particolare di servizi, ma abbraccia tutte le possibili attività di servizi esistenti o che potrebbero esistere in futuro.

Purtroppo, come sempre quando si parla di Unione, alle dichiarazioni auliche non corrispondono poi i fatti.

Dopo lunghe discussioni la direttiva non tocca molte e significative attività che restano escluse espressamente, fra esse: i servizi finanziari, audiovisivi, i servizi sanitari, le attività di azzardo, i servizi delle agenzie di lavoro interinale, i

servizi forniti da notai ed ufficiali giudiziari.

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Insomma sono escluse tutte quelle attività che costituiscono veri e propri monopoli, scardinati i quali i diritti dei destinatari trarrebbero sicuro giovamento.

La direttiva si compone di disposizioni comuni, riguardanti sia la libertà di stabilimento che la libertà di prestazione dei servizi, e di disposizioni dettate invece con riguardo unicamente all’una o all’altra libertà. Tra le disposizioni

comuni figurano quelle volte a semplificare le procedure e le formalità amministrative, che costituiscono uno degli ostacoli più significativi all’accesso ed all’esercizio di un’attività di servizi in un altro Stato membro.

La direttiva quindi richiede agli Stati membri di istituire degli sportelli unici, rendere possibile l’espletamento delle procedure e formalità amministrative a distanza e per via elettronica, ad accettare documenti rilasciati da un altro

Stato membro che abbiano finalità equivalenti.

Gli Stati membri hanno l’obbligo di prestarsi assistenza reciproca e di cooperazione al fine di garantire un controllo efficace dei prestatori e dei loro servizi nonché di evitare la moltiplicazione di tali controlli.

La cooperazione amministrativa si traduce nel diritto di uno Stato membro di richiedere informazioni, verifiche, ispezioni o indagine ad un altro Stato membro. È previsto un meccanismo di allerta in cui uno Stato membro è tenuto

ad informare prontamente la Commissione e gli altri Stati membri interessati di qualunque comportamento di un prestatore di servizi che potrebbe provocare un pregiudizio grave alla salute o alla sicurezza delle persone o

all’ambiente.

La direttiva prevede inoltre una serie di misure intese a promuovere la qualità dei servizi e ad aumentare il livello di informazione e di trasparenza del mercato con riguardo alla persona del prestatore ed all’attività da questi svolta.

Riguardo alle disposizioni concernenti esclusivamente lo stabilimento del prestatore in uno Stato membro diverso da quello di origine:

rispetto ai regimi di autorizzazione, la direttiva ribadisce che risultano ammissibili solo nei casi in cui un controllo posteriore non sarebbe efficace a causa dell’impossibilità di constatare le carenze dei servizi interessati.

Agli Stati membri è pertanto consentito subordinare l’accesso ad un’attività di servizi e il suo esercizio ad un regime di autorizzazione soltanto qualora questo risulti non discriminatorio, giustificato da motivazioni di interesse generale e

proporzionato rispetto all’obiettivo perseguito.

Quanto alla procedura di rilascio dell’autorizzazione la direttiva prescrive che essa sia chiara, resa pubblica e tale da garantire ai richiedenti che la loro domanda sia trattata con la massima obiettività, imparzialità e sollecitudine.

Con riguardo ai requisiti nazionali spesso imposti agli operatori economici ed in grado di ostacolare o di impedire l’esercizio della libertà di stabilimento la direttiva distingue fra quelli da ritenere assolutamente vietati e quelli che

possono essere mantenuti in vigore al ricorrere certe condizioni.

- Tra i requisiti vietati: i requisiti discriminatori, fondati sulla cittadinanza o per le società sull’ubicazione della sede legale; il divieto di avere stabilimenti in più di uno Stato membro o di essere iscritti in registri o albi in diversi stati

membri; le restrizioni della libertà di scegliere tra essere stabilito a titolo principale o a titolo secondario; applicazione caso per caso di una verifica di natura economica che subordina rilascio di un’autorizzazione alla prova dell’esistenza

di un bisogno economico o di una domanda di mercato; l’obbligo di presentare una garanzia finanziaria o di sottoscrivere un’assicurazione presso un altro prestatore o presso un organismo sul territorio Stato membro in cui

prestatore intende stabilirsi.

- Per quanto riguarda i requisiti che possono essere mantenuti in vigore o anche essere istituiti purché risultino non discriminatori, giustificati da un motivo imperativo di interesse generale e proporzionati, di otto tipologie sono: Le restrizioni quantitative e territoriali sotto forma di restrizioni fissate in funzione della popolazione o di una distanza geografica minima tra prestatori; gli obblighi per il prestatore di avere un determinato statuto giuridico; gli obblighi

relativi alla detenzione del capitale di una società; i requisiti che riservano l’accesso ad alcune attività di servizi a prestatori particolari a motivo della natura specifica dell’attività; il divieto di disporre di più stabilimenti sullo stesso

territorio nazionale; i requisiti che stabiliscono numero minimo dei dipendenti; le tariffe obbligatorie minime e/o massime che il prestatore deve rispettare; l’obbligo per il prestatore di fornire, insieme al suo servizio, altri servizi

specifici.

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15. LE DIRETTIVE IN MATERIA SOCIETARIA

Per la materia societaria l’art. 50 TFUE attribuisce al Parlamento Europeo, al Consiglio, alla Commissione il compito di coordinare ove occorra ed <<al fine di renderle equivalenti>>, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle

società a tutela degli interessi dei soci e dei terzi.

Lo sforzo di coordinamento e di armonizzazione del diritto societario ha portato all’adozione di numerose direttive su: fusione, struttura della società e aspetti specifici di non poco rilievo.

Dopo lunga riflessione è stato adottato un regolamento che definisce lo Statuto della Società Europea.

Il modello è facoltativo e si aggiunge a quelli nazionali, destinato in particolare alle imprese che operando in due o più Paesi membri, vogliono un regime giuridico unitario per le diverse articolazioni.

Di sicuro rilievo è anche la direttiva concernente le OPA (offerte pubbliche di acquisto),che si colloca in un contesto di coordinamento, più generale ed in corso di realizzazione, delle garanzie a tutela dei soci e dei terzi.

16. LA LIBERA PRESTAZIONE DEI SERVIZI. CAMPO DI APPLICAZIONE PERSONALE E MATERIALE DELLA DISCIPLINA

La libertà di circolazione dei lavoratori autonomi e delle società è completata dalla disciplina sulla libera prestazione dei servizi prevista dagli artt. 56-62 del TFUE.

Campo di applicazione materiale.

A differenza dello stabilimento, che si traduce nel diritto dei cittadini e delle società di uno Stato membro di esercitare in modo continuo e permanente la propria attività in un altro Stato membro, la prestazione dei servizi

comporta l’esercizio solo temporaneo ed occasionale di un’attività non salariata in un altro Stato membro.

Occorre al riguardo tener presente che la posizione dei cittadini che si avvalgono della libera prestazione dei servizi non è paragonabile a quella dei soggetti stabiliti, poiché nel complesso gli obblighi imposti a questi ultimi sono ben

più rigidi di quelli che gravano sui primi.

La disciplina dei servizi prevista dal Trattato è piuttosto sintetica e affida alle istituzioni comunitarie il compito di emanare i provvedimenti necessari ad attuare o facilitare la realizzazione della liberalizzazione.

L’art. 56 prevede che le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno della Comunità siano progressivamente soppresse nel corso del periodo transitorio nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in

un Paese della Comunità diverso da quello del destinatario della prestazione.

Lo scopo è di consentire al prestatario di un servizio di esercitare, a titolo temporaneo, la sua attività nello Stato in cui la prestazione è fornita, alle stesse condizioni che tale Stato impone ai propri cittadini.

Beneficiari della disciplina sui servizi sono i cittadini aventi la nazionalità di uno Stato membro e stabiliti “in un Paese della Comunità”(art. 56).

L’art. 56, c. 2° prevede che la libertà di prestazione di servizi possa essere estesa, con procedura legislativa ordinaria, anche a cittadini di Paesi terzi. Tale ipotesi non si è realizzata.

Tra i prestatori che beneficiano della libertà in parola vi sono anche le persone giuridiche, costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi sede sociale, l’amministrazione o il centro dell’attività principale

nell’Unione, in virtù del richiamo operato dall’art. 62 all’art. 54 del TFUE, concernente lo stabilimento di società.

Ai sensi dell’art. 58 n. 1 sono tuttavia escluse dal campo d’applicazione materiale della disciplina sui servizi le attività relative al settore dei trasporti.

Una parziale eccezione è inoltre prevista in merito ai servizi bancari, assicurativi e finanziari in genere, per essi è stato infatti previsto un processo di liberalizzazione specifico, da attuarsi in armonia con la liberalizzazione

progressiva della circolazione dei capitali.

Infine, come per lo stabilimento, sono ammesse le restrizioni dovute a ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza o sanitarie.

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17. NOZIONE E CARATTERISTICHE DELLA PRESTAZIONE DI SERVIZI

Definizione di servizio.

Il “servizio”, come risulta dagli artt. 56 e 57,si identifica con un’attività non subordinata fornita, normalmente contro remunerazione, da un prestatore stabilito in uno Stato membro diverso da quello in cui la prestazione deve essere

eseguita.

Caratteristiche della prestazione di servizi.

1. Prestazione dietro retribuzione In primo luogo occorre che si tratti di una prestazione effettuata, almeno in via di principio, dietro retribuzione che va identificata con il corrispettivo della prestazione.

Prestazione del servizio e suo pagamento possono anche non essere contestuali, ma, come per le prestazioni assicurative, pagate con notevole anticipo rispetto alla prestazione che avviene anni dopo.

Inoltre, l’art. 57 del Trattato non richiede che il corrispettivo sia pagato direttamente da coloro che usufruiscono del servizio. Per es. : prestazione mediche dispensate in ambito ospedaliero o meno.

2. Nozione di servizio formulata in negativo :In secondo luogo, la nozione di servizio è definita in modo residuale; lo stesso art. 57 ne contiene infatti una formulazione al negativo, in quanto si riferisce alle prestazioni che non siano regolate dalle disposizioni sulla circolazione delle merci, dei capitali e delle

persone. In sostanza, la nozione di servizio comprende ogni attività economicamente rilevante che si traduca principalmente in una prestazione e non in uno scambio di beni.

3. Carattere transfrontaliero : In terzo luogo è necessario il carattere transfrontaliero della prestazione, nel senso che il prestatore deve essere stabilito in un Paese diverso da quello in cui risiede il destinatario o che,

comunque, deve trattarsi di una situazione i cui elementi non si esauriscano all’interno di un solo Stato membro.

Il caso tipico è, ad esempio, quello del libero professionista che svolge un’attività di consulenza o di progettazione in uno Stato membro diverso da quello in cui ha il suo studio, dell’albergatore che ospita turisti stranieri, delle trasmissioni televisive che raggiungono telespettatori in Stato diverso da quello di emissione.

Le ipotesi in cui si traduce il carattere transfrontaliero della prestazione sono numerose:

può aversi uno spostamento del prestatore del servizio in uno Stato membro diverso da quello in cui è stabilito ed in particolare nel Paese del destinatario (ad es. medico che va a curare un paziente

che risiede in un altro Paese membro);

può aversi uno spostamento del destinatario del servizio nello Stato in cui è stabilito il prestatore (ad es. turista che usufruisce di tutti i servizi);

né il prestatore né il destinatario si spostano in uno Stato membro diverso da quello in cui sono stabiliti: a spostarsi è solo il servizio (ad es. servizi finanziari, bancari e assicurativi);

può aversi che il destinatario della prestazione e il prestatore del servizio sono stabiliti nello stesso Stato membro ed è solo il prestatore a spostarsi ovvero si spostano entrambi ed insieme per

raggiungere il luogo in cui la prestazione deve essere eseguita (ad es. gruppi di turisti, destinatari del servizio, e delle rispettive guide, prestatori del servizio, provenienti da uno stesso Stato di origine

si spostano insieme per raggiungere il luogo in cui la prestazione deve essere eseguita).

18. IL REGIME DELLA LIBERA PRESTAZIONE DEI SERVIZI

A) LE MISURE DISCRIMINATORIE DISTINTAMENTE APPLICABILI

La disciplina materiale della libera prestazione dei servizi è anzitutto fondata sul divieto di discriminazioni in base alla nazionalità.

Il Trattato tuttavia non si limita a prescrivere il principio del trattamento nazionale; ed infatti l’art. 56.1 non vieta unicamente le discriminazioni basate sulla nazionalità, ma più in generale le “restrizioni alla libera prestazione dei

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servizi all’interno della Comunità nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in un Paese della Comunità che non sia quello del destinatario della prestazione”.

A ciò si aggiunga che in base all’art. 61, fino a quando permangono negli Stati membri restrizioni alla libera prestazione dei servizi, “ciascuno degli Stati membri le applica senza distinzione di nazionalità o di residenza a tutti i

prestatori di servizi contemplati dall’art. 56.1”.

Il tenore di queste prescrizioni si spiega con il fatto che rispetto alla libera prestazione di servizi il divieto di discriminazione in base alla nazionalità, o, nel caso di persone giuridiche, della sede, non gioca un ruolo decisivo

come avviene nel caso del diritto di stabilimento.

Tenuto conto, infatti che l’attraversamento delle frontiere non sia accompagna ad uno stabile insediamento, il principio del trattamento nazionale rischierebbe di tradursi in restrizioni ultronee rispetto a tale caratteristica della

prestazione dei servizi.

Quanto ai tempi e ai modi della liberalizzazione, anche in materia di servizi il Trattato aveva previsto la consueta gradualità, nel senso che tale obiettivo doveva essere raggiunto entro la fine del periodo transitorio.

Era previsto il consueto obbligo di standstill ,imposto agli Stati membri, nonché il compito affidato alle istituzioni comunitarie di adottare, da un lato, un Programma Generale e direttive volte ad eliminare le restrizioni esistenti;

dall’altro, direttive per il riavvicinamento di disposizioni nazionali ed il reciproco riconoscimento dei diplomi.

L’assenza d’intervento normativo ritardava tuttavia i tempi della liberalizzazione, impedendo così ai cittadini comunitari la possibilità di avvalersi della libertà in questione.

In tale contesto ,è stata, pertanto, la giurisprudenza della Corte a rivelarsi determinante.

Nella sentenza Van Binsbergen la Corte rilevò infatti che l’applicazione dell’art. 56 non è più sottoposta ad alcuna condizione; ne consegue che gli art. 56 e 57 “hanno efficacia diretta e possono venir fatti valere dinanzi ai giudici

nazionali, almeno nella parte in cui impongono la soppressione di tutte le discriminazioni che colpiscono il prestatore di un servizio a causa della sua nazionalità o della sua residenza in una Stato diverso da quello in cui il servizio viene

fornito”.

Il secondo aspetto importante del regime di libera prestazione dei servizi è dato dalla portata sostanziale e non solo formale del divieto di restrizioni discriminatorie.

Ciò vuol dire che sono vietate anche quelle restrizioni che colpiscono anche i cittadini o le società nazionali, ma che in fatto si risolvono in una restrizione per gli stranieri spesso più vistosa.

Tipico è il requisito della residenza.

Inoltre, la giurisprudenza è orientata nel senso che costituiscono una violazione degli artt. 56 e 57 “non solo le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza del prestatore, ma anche qualsiasi forma di discriminazione

dissimulata” .

Ad esempio l’obbligo di versare la quota di contributi a carico del datore di lavoro che effettui una prestazione di servizi, in quanto esteso alle imprese stabilite in un altro Paese comunitario e quivi sottoposte agli obblighi

contributivi dei datori di lavoro.

In tale ipotesi, infatti, il pagamento di tali contributi si risolve in un onere economico supplementare per i datori di lavoro stranieri, essendo questi ultimi comunque tenuti al pagamento dei medesimi contributi già nel Paese di

stabilimento.

19. B) LE MISURE DISCRIMINATORIE INDISTINTAMENTE APPLICABILI

Le restrizioni alla libertà di prestazioni dei servizi all’interno del mercato comune non si esauriscono con le violazioni del divieto di discriminazione.

In altre parole il disposto degli artt. 56 e 57 non può significare che tutta la legislazione nazionale, applicabile ai cittadini di uno Stato membro, e relativa normalmente all’attività permanente delle persone in esso stabilite, possa

essere applicata integralmente e allo stesso modo alle attività di carattere temporaneo esercitate da persone stabilite in altri Stati membri.

In questo senso l’applicazione del principio di libera prestazione dei servizi può pertanto tradursi in una situazione di

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maggior favore formale per i prestatori o destinatari stranieri rispetto ai cittadini e alle società del Paese in cui la prestazione è fornita.

In definitiva è incompatibile con l’art. 56 qualsiasi restrizione imposta per il motivo che il prestatore è stabilito in uno Stato membro diverso da quello nel quale la prestazione viene fornita.

Ed, infatti, come precisato nella sentenza Sager, l’art. 56 richiede “la soppressione di qualsiasi restrizione, anche qualora essa si applichi indistintamente ai prestatori nazionali ed a quelli degli altri Stati membri, allorché essa sia

tale da vietare o da ostacolare in altro modo le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro ove fornisce legittimamente servizi analoghi”.

Sulla base di tale approccio sono state dichiarate in contrasto con la disciplina in questione, ad esempio, le normative che richiedono il possesso di una particolare qualifica professionale alle guide che si spostano in un altro Stato

membro insieme a gruppi di turisti, gli uni e gli altri provenienti da uno stesso Stato membro.

20. C) LE CONDIZIONI SPECIFICHE IMPOSTE AL PRESTATORE GIUSTIFICATE DALL’INTERESSE GENERALE

Va anzitutto sottolineato che tra le misure distintamente e indistintamente applicabili c’è una differenza sostanziale sul piano delle eccezioni consentite.

Le prime (misure distintamente applicabili),infatti, sono compatibili solo se possono farsi rientrare in una deroga espressamente prefigurata dal Trattato; ad es dall’art. 52 cui rinvia l’art. 62, per motivi di ordine pubblico, pubblica

sicurezza e sanità.

Le seconde (misure indistintamente applicabili),invece, la Corte ha comunque insistito sul carattere eccezionale delle possibilità di deroga apportabili alla libera prestazione dei servizi.

Essa ha infatti affermato che la libertà in questione può essere limitata unicamente:

da normative giustificate dall’interesse generale e che si applichino ad ogni persona o impresa che eserciti un’attività sul territorio dello Stato ospitante;

nella misura in cui tale interesse non sia già salvaguardato da regole alle quali il prestatore è sottoposto nello Stato membro in cui è stabilito;

infine, se le normative in questione sono obiettivamente necessarie per il raggiungimento dello scopo perseguito.

La Corte ha, in definitiva, applicato anche alla materia dei servizi la formula Cassis de Dijon utilizzata in tema di misure restrittive degli scambi di merci.

Nella sentenza Gouda, peraltro, la Corte ha operato una utile ricognizione, esemplificativa, “delle esigenze imperative connesse all’interesse generale” in relazione alle quali misure restrittive sono state riconosciute

compatibili con il diritto comunitario:

le norme che tutelano la proprietà intellettuale, i lavoratori e i consumatori; conservazione del patrimonio storico-artistico nazionale; valorizzazione delle ricchezze archeologiche storiche e artistiche. Es vedi libro

pagg. 603-606.

21. LA LIBERA CIRCOLAZIONE DEI CAPITALI: LA DISCIPLINA DEL TRATTATO DI ROMA E LE DIRETTIVE DI ATTUAZIONE

Nella generale enunciazione dell’art. 3 del TUE, sia prima che dopo le modificazioni apportate dal Trattato di Maastricht, la libera circolazione dei capitali ha sempre trovato collocazione accanto alla circolazione delle persone e

dei servizi, nell’unica previsione della lettera c).

Lo stesso dicasi per l’art. 14,in cui la circolazione dei capitali è uno degli elementi dello “spazio senza frontiere interne”.

Il Trattato di Maastricht ha modificato sensibilmente la disciplina originaria dei movimenti dei capitali e dei pagamenti.

Ciò non può sorprendere più di tanto, atteso che la previsione di una unione monetaria e di un rafforzato coordinamento delle politiche economiche ha ovviamente inciso profondamente in quei settori del mercato comune

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che maggiormente risentivano della significativa autonomia che il Trattato di Roma aveva lasciato ai singoli Stati membri in tema di politica economica e soprattutto monetaria.

Le due nozioni di movimenti di capitali e di pagamenti sono diverse.

La prima si riferisce alle operazioni finanziarie che si traducono in un investimento ovvero in un allocazione di risorse senza collegamento alcuno con una prestazione ovvero con scambi di beni o servizi; la seconda comprende

precisamente le controprestazioni in denaro degli scambi di beni o di servizi.

Significativa è la sentenza Luisi e Carbone, dove la Corte ,dopo aver precisato che anche il turista che si sposti in un altro Paese ed è per ciò stesso destinatario di servizi, deve poter beneficiare della liberalizzazione, ne dedusse che i

trasferimenti di valuta per scopi turistici rientravano nella previsione sui trasferimenti di valuta corrispondenti e necessari all’esercizio della libertà di prestazione di servizi e dunque liberalizzati.

La Corte ha, in seguito, finito col dare una lettura più ampia e sistematica dell’intera disciplina dei movimenti di capitali, precisandone lo scopo di garantire la più ampia libertà possibile e dunque di eliminare tutti gli ostacoli,

anche quelli che, pur non esaurendosi in formali autorizzazioni valutarie e non pregiudicando l’operazione, costituiscono pur sempre un intralcio alla libera circolazione dei capitali.

22. SEGUE: LA DISCIPLINA ATTUALE

La liberalizzazione completa dei movimenti dei capitali si è realizzata con la direttiva n. 361/1988 che ha enunciato in termini generali ed incondizionati il principio di libertà dei movimenti dei capitali con la sola eccezione riguardante

l’acquisto di case secondarie, oggetto di possibili restrizioni (la c.d. deroga danese).

Significativo era poi l’art. 7 della direttiva che sanciva l’impegno degli Stati membri ad applicare lo stesso grado di liberalizzazione anche ai movimenti di capitali con i Paesi terzi.

Il Trattato di Maastricht ha definitivamente sancito l’assetto raggiunto, perfezionandolo sotto il profilo sistematico in modo anche più razionale, in particolare mettendo insieme capitali e pagamenti fino ad allora disciplinati in settori

diversi.

Il capo quarto del Trattato dedicato a “Capitali e pagamenti” sancisce ,infatti, che “nell’ambito delle disposizioni previste nel presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati

membri e Paesi terzi”. La stessa formula è utilizzata subito dopo per i pagamenti (art. 56 n. 2).

Il principio sancito dall’art. 56 è dunque che sono abolite anche tutte le restrizioni indirette o dissimulate in misure in apparenza indistintamente applicabili.

In breve, sono da considerare restrizioni non consentite ai movimenti di capitali tutte quelle misure che di diritto o di fatto scoraggiano investimenti o altri tipi di movimenti di capitali ( come i prestiti) in altri Paesi membri.

Le uniche deroghe ammesse a questo principio fondamentale di libera circolazione sono quelle contemplate dagli artt.57 e 58.

La prima deroga (c.d. grandfather clause) si riferisce alle restrizioni nazionali o comunitarie e relative a investimenti diretti nei rapporti con gli Stati terzi;

La seconda deroga ( c.d. exception clause), invece, salvaguarda alcune prerogative degli Stati membri in materia tributaria, fiscale, di vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie, di controllo amministrativo o

statistico, di ordine pubblico o di pubblica sicurezza.

Le misure di controllo degli Stati membri non possono ,perciò, avere l’effetto di ostacolare i movimenti di capitali conformi al diritto comunitario.

A quest’ultimo proposito, si rileva che la prassi di alcuni Stati membri di subordinare ad una previa autorizzazione o addirittura di vietare del tutto i trasferimenti intracomunitari di valuta, ad esempio di banconote, era già

incompatibile con la richiamata direttiva, così come oggi è incompatibile con l’art. 58 del Trattato a meno che al dovuto test di proporzionalità non risulti effettivamente necessaria ai fini di ordine pubblico o di sicurezza.

Un’ipotesi particolare che ha dato luogo ad uno specifico contenzioso è quella relativa alla c.d. golden share che in sostanza è un diritto di veto che lo Stato - azionista conserva per sé rispetto a talune deliberazioni di gestione della

società ritenute rilevanti per gli interessi generali del Paese.

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Resta ferma, peraltro, la circostanza che la libera circolazione dei capitali è strettamente funzionale all’esercizio effettivo delle altre libertà e, in particolare, del diritto di stabilimento, che secondo la Corte si dovrebbe ritenere

prevalente quando l’acquisto di partecipazioni conferisce la possibilità di esercitare una influenza determinante sulle decisioni dell’impresa.

Il Trattato prevede poi delle misure di salvaguardia comunitarie. Per il caso che movimenti di capitali con Paesi terzi causino o minaccino di causare difficoltà gravi per il funzionamento dell’Unione economica e monetaria, il Consiglio

può adottare misure nei confronti di Paesi terzi, a maggioranza qualificata, su proposta della Commissione e consultata la Banca centrale europea (art. 59),nonché eventuali misure di urgenza collegate alle più generali misure rientranti nella politica estera e di sicurezza comune di cui all’art. 301 del Trattato. In proposito uno Stato membro può adottare unilateralmente misure solo se urgenti e salvo diversa delibera successiva del Consiglio (art. 59 n.2).

Infine un forte impulso al processo di realizzazione di un mercato unico dei capitali è stato di recente dato dall’adozione di un complesso piano di regolamentazione dei servizi finanziari (c.d. PASF) il quale comprende

disposizioni di regolamentazione dei servizi di investimento, dei settori bancario e assicurativo, nonché importanti proposte di riforma del diritto societario finalizzate a rimuovere le barriere esistenti agli investimenti e alla raccolta di

capitali, a fornire informazioni adeguate agli investitori e rendere effettivo il controllo di società e mercati.

CAPITOLO VI: LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA APPLICABILE ALLE IMPRESE

1. IL REGIME DELLA CONCORRENZA NELL’UNIONE EUROPEA

I valori cui si ispira il sistema comunitario sono quelli “liberali” dell’economia di mercato.

Il regime della concorrenza disegnato dai Trattati è funzionale all’obiettivo di unificare i diversi mercati nazionali in un unico mercato dell’Unione.

La politica di tutela della concorrenza non rimane isolata rispetto ad altri valori ed altre politiche pure promosse dall’Unione tra le quali, come indicato dall’art. 3 par. 3 La politica di coesione sociale, di ricerca e sviluppo e quella

ambientale.

Ne consegue la possibilità di accordare deroghe quando le restrizioni si rivelino idonee a contribuire allo sviluppo armonioso delle attività economiche dell’Unione.

Il sistema che attribuiva alla sola Commissione la competenza a concedere esenzioni è stato modificato con l’attribuzione della competenza anche alle autorità di concorrenza e alle giurisdizioni degli Stati membri; introduzione di un regime c.d. di eccezione legale, in base ai quali intese restrittive della concorrenza sono lecite e valide ab initio

laddove siano soddisfatte le condizioni previste dal n.3.

Nel campo degli aiuti di Stato l’azione dell’unione si è sviluppata con strumenti diretti e indiretti. Alcuni riguardano comportamenti delle imprese che tende ad evitare che siano vanificati gli effetti della libera circolazione delle merci e

dei servizi o alterate le condizioni di concorrenza. Altri mirano ad evitare la concentrazione di potere economico e commerciale. Altri sono diretti a far sì che le imprese di un determinato Stato membro non si vengano a trovare in

una situazione privilegiata per effetto di una politica di intervento pubblico.

Gli Stati membri sono tenuti a non mantenere e adottare misure legislative o regolamentari suscettibili di eliminare l’effetto utile delle norme sulla concorrenza applicabili alle imprese. Inoltre la disposizione dell’art. 106, stabilisce che

gli Stati membri non adottano nei confronti delle imprese pubbliche o titolari di diritti esclusivi alcuna misura contraria alle norme del trattato. Completano la disciplina della concorrenza le norme sugli aiuti di Stato (art.107-

109).

La nostra ricognizione sul regime comunitario della concorrenza si basa sulle norme destinate all’imprese, norme relative alle imprese pubbliche e norme sugli aiuti.

La sfera di applicazione materiale delle norme comunitarie sulla concorrenza si estende a tutte le attività economicamente rilevanti che non siano espressamente sottratte.

Sono sottoposte a tale disciplina le attività di produzione dei beni, quelle di prestazione di servizi, comprese quelle del settore bancario, delle assicurazioni e dei trasporti.

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Possono, invece, non rientrare nella sfera di applicazione dell’art. 101 del TFUE, gli accordi collettivi di lavoro che si prefissino obiettivi socialmente rilevanti.

Inoltre possono essere sottratte all’applicazione della disciplina in parola le attività di produzione e commercio dei prodotti agricoli nella misura in cui tale esclusione sia funzionale al perseguimento di obiettivi di politica agricola

comune.

È, infine, sottratto il settore della difesa e della sicurezza nazionale.

Le norme del Trattato specificatamente indirizzate alle imprese sono quelle di cui:

1.all’art. 101 : intese tra imprese.

2.all’art. 102 : abuso di posizione dominante.

Sono norme provviste di effetto diretto, azionabili dal singolo avanti il giudice nazionale.

2. LA NOZIONE DI IMPRESA

La nozione comunitaria di impresa comprende qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, che svolga un’attività economicamente rilevante, industriale, commerciale, di servizi, compreso lo sfruttamento di opere di ingegno o

l’esercizio di una professione liberale.

Ai fini dell’applicazione dell’art. 101, la nozione di gruppo, considerato complessivamente e nelle singole articolazioni, risulta rilevante ai fini della sussistenza di una posizione dominante.

Per la sussistenza di una posizione dominante è necessario che la società sia interamente posseduta da altra società e che oltre al controllo totalitario, vi siano collegamenti funzionali nella composizione degli organi societari, con , ad

esempio, la presenza di stesse persone negli organi di controllo.

Ai fini dell’applicazione delle norme sulla concorrenza non è rilevante la forma giuridica assunta dall’impresa o le modalità di finanziamento, ne che vi sia assenza di fine di lucro.

Viceversa sono escluse le attività svolte da ente che concorra a svolgere un pubblico servizio di carattere sociale.

Esclusioni: un organismo di previdenza sociale di categoria, la cui attività è ispirata al principio di solidarietà a livello nazionale ed è esercitata senza fini di lucro; ente che gestisce il sistema sanitario nazionale di un Paese; ente

incaricato di gestire il servizio di controllo della navigazione aerea.

3. OGGETTO E CONDIZIONI DI APPLICABILITÀ DEL DIVIETO DI CUI ALL’ART.101: ACCORDO, LA PRATICA CONCORDATA, LA DECISIONE DI ASSOCIAZIONE D’IMPRESE

Ai sensi dell’art. 101 TFUE sono vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto di

impedire, restringere, falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune.

Insomma l’articolo vieta tutti quei comportamenti o accordi di due o più imprese finalizzati ad alterare la libera concorrenza sul mercato interno.

Intesa

L’intesa rilevante ai fini della disciplina comunitaria riguarda i rapporti concorrenziali tra imprese, sia che queste si trovino allo stesso stadio di produzione o commercializzazione e intendano dividersi il mercato (rapporti orizzontali), sia che si trovino a stadi diversi della produzione e commercializzazione, ad esempio, azienda produttrice e azienda che commercializza lo stesso prodotto (rapporti verticali).

Essa può assumere qualsiasi forma, e anche essere implicita. La nozione di intesa comprende tutti quei comportamenti di due o più imprese finalizzati a realizzare iniziative comunque idonee ad alterare la concorrenza.

Ipotesi di intesa rilevante sono: accordo, pratica concordata e decisione di associazione di imprese.

Accordo

Nozione di accordo è molto ampia e privilegia la sostanza rispetto alla forma. E’ sufficiente che sia stata manifestata l’intenzione comune di due o più imprese indipendenti di comportarsi sul mercato in un modo piuttosto che in un

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altro. Può trattarsi di accordo sia scritto che verbale, non necessario che l’accordo si traduca in un vero e proprio contratto.

Decisioni di associazioni di imprese.

Le aziende non stipulano direttamente accordi, ma partecipi di una associazione, ne seguono le decisioni, le quali ultime hanno l’effetto di alterare la concorrenza.

Il termine decisioni, va letto in modo sostanziale, comprende sia le raccomandazioni, sia gli accordi.

Tutte le aziende sono responsabili solidalmente, a meno che non dimostrino di essersi esplicitamente opposti alla decisione relativa alla pratica vietata.

Pratica concordata.

Consiste in una qualsiasi forma di comportamento coordinato tra imprese che rappresenti una cooperazione consapevole a danno della concorrenza.

La Corte di Giustizia ha precisato che i criteri del coordinamento non richiedono l’elaborazione di un piano, ma vanno intesi ala luce della ratio del Trattato in materia di concorrenza secondo la quale ogni operatore economico

deve autonomamente determinare la propria condotta nel mercato comune.

I compiti di accertamento. Commissione e Giudice nazionale

Il compito di accertare la pratica vietata è affidato sia alla Commissione che al Giudice nazionale.

In particolare la Commissione, ai sensi dell’art. 105 TFUE, sulla base di elementi di fatto e anche su presunzioni , nonché con qualunque altro mezzo di prova deve provare la sussistenza della violazione.

Allorché abbia accertato il comportamento vietato, propone ex art. 105, c.1 , i mezzi per farvi fronte.

Qualora non sia posto termine all’infrazione, la Commissione constata l’infrazione con decisione motivata e può autorizzare gli Stati membri ad adottare le misure necessarie.

Gli elementi che rilevano ai fini dell’art. 101 sono:

a) pregiudizio al commercio tra Stati membri;

b) alterazione delle condizioni di concorrenza del mercato interno.

Le regole di concorrenza si applicano, in presenza di una normativa nazionale, solo nella misura in cui quest’ultima lasci sussistere la possibilità di comportamenti autonomi delle imprese.

4. LE CONDIZIONI DEL DIVIETO, PREGIUDIZIO AL COMMERCIO INTRACOMUNITARIO

Secondo la Corte di Giustizia è SUSCETTIBILE DI PREGIUDICARE GLI SCAMBI INTRACOMUNITARI l’accordo che eserciti un’influenza diretta o indiretta, attuale o potenziale sulle correnti di scambio in misura che potrebbe nuocere al

mercato unico.

La disciplina comunitaria si applica alle intese che interessino il territorio dell’Unione complessivamente considerato.

Va segnalato però che anche accordi nazionali possono pregiudicare il commercio intracomunitario, nella misura in cui chiudono il mercato nazionale o rendano maggiormente difficile il penetrarvi.

L’accertamento del pregiudizio va operato caso per caso.

Per aversi l’ipotesi di cui all’art. 101 è comunque sufficiente che il pregiudizio sia potenziale e che investa direttamente o indirettamente il volume degli scambi, i prezzi praticati, la qualità dei prodotti o dei servizi.

A seguito del Regolamento 1/2003, la Commissione ha fornito i parametri di interpretazione della nozione di pregiudizio al commercio.

Si esclude un pregiudizio al commercio laddove:

la quota di mercato detenuta dalle parti su qualsiasi mercato non sia superiore al 5%;

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nel caso di intese orizzontali (imprese dello stesso settore), quando il fatturato comunitario annuo delle imprese interessate non sia superiore ai 40 milioni di euro;

nel caso di intese verticali(operano sullo stesso prodotto nelle diverse fasi di produzione e distribuzione) quando il fatturato comunitario annuo delle imprese interessate non sia superiore ai 40 milioni di euro.

5. L’ALTERAZIONE DELLE CONDIZIONI DI CONCORRENZA. PORTATA TERRITORIALE DEL DIVIETO

Per stabilire se un’intesa ricada nell’ambito di applicazione del divieto ex art. 101, occorre procedere ad uno scrutinio articolato in due fasi successive.

In una prima fase si dovrà verificare se intesa comporti, per il suo oggetto, una restrizione della concorrenza.

Se l’intesa ha la finalità di restringere la concorrenza, è sempre vietata.

Se, invece, l’intesa ha un oggetto che non è anticoncorrenziale, occorre considerare gli effetti che essa in concreto è idonea a produrre.

L’intesa sarà considerata vietata qualora emerga che essa è suscettibile di restringere la concorrenza in modo sensibile.

Il forza di questo schema saranno considerate vietate, le intese che, non hanno altra funzione se non quella di restringere la libertà di concorrenza tra le parti, ovvero tra le parti ed i terzi concorrenti in modo ritenuto

incompatibile con il mercato comune.

Per contro dovrà ritenersi che non abbiano oggetto anticompetitivo le intese che sono idonee a svolgere una più complessa funzione: ciò vale per le clausole che fanno parte integrante del contenuto di un determinato contratto e

che contribuiscono a determinare l’assetto e l’equilibrio dei rapporti giuridici tra le parti.

Non violano, ad esempio, l’art. 101 n.1, per il loro oggetto salvo che non risultino, in funzione di circostanze concrete, effetti anticompetitivi:

- il patto di non concorrenza inserito nel contratto di cessione di azienda in quanto può ritenersi necessario ad assicurare l’effettività della cessione

- la clausola di approvvigionamento esclusivo e la clausola di non concorrenza inserito in un contratto di franchising, in quanto necessari a far sì che tale contratto possa pienamente realizzare la sua funzione tipica

- La clausola di non contestazione inserita in un contratto di licenza di brevetto, in quanto determinante per l’equilibrio di un accordo che non ha né l’oggetto, né l’effetto di impedire di restringere o di falsare il gioco della

concorrenza

In sintesi, l’analisi dell’oggetto è destinata a valutare, in astratto, la funzione obiettiva di una determinata pattuizione nel contesto contrattuale in cui si inserisce.

L’analisi dell’effetto viceversa, mira stabilire se, in concreto, un’intesa che non ha oggetto anticompetitivo sia comunque idonea, per la specifica situazione di mercato in cui viene ad operare, a restringere in modo sensibile la

concorrenza nel mercato comune. Gli effetti devono prodursi all’interno del Mercato Comune.

6. LA REGOLA DE MINIMIS

Sono escluse dal divieto ex art. 101 quelle intese aventi effetti minimi sul mercato comune.

Tuttavia, non si può escludere che un’intesa anche se minima possa essere incompatibile con il mercato unico.

La Commissione, al proposito, ha differenziato le soglie di sensibilità relative alle quote di mercato detenute dalle imprese partecipanti:

- se si tratta di accordi tra imprese concorrenti effettive o potenziali su uno dei mercati rilevanti la soglia applicabile fissata al 10%

- se si tratta invece di accordi tra imprese non concorrenti la soglia è del 15%

- qualora risulti difficile determinare se l’accordo si è concluso tra concorrenti o non concorrenti è prevista la soglia del 10%.

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L’art. 101 è comunque applicabile sempre quando l’accordo sia suscettibile di provocare effetti distorsivi della concorrenza.

7. IPOTESI TIPIZZATE DI INTESA. GLI ACCORDI DI DISTRIBUZIONE

L’art. 101, indica ipotesi tipizzate.

a) intese volte a regolare i prezzi o altre condizioni di vendita;

b) intese volte a limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti;

c) intese volte a ripartire i mercati e le fonti di approvvigionamento;

d) intese che applicano nei rapporti commerciali condizioni diverse.

La regola generale è che il mercato comune non può essere ripartito né alterato.

Nella sentenza Consten e Grunding, relativa ad un accordo di distribuzione esclusiva in Francia, la Corte affermò il principio che un accordo inteso a mantenere artificialmente dei mercati nazionali distinti è, come tale, diretto a

falsare il mercato.

Alla luce di tale sentenza, rientrano nel divieto ex art. 101, quegli accordi di distribuzione esclusiva che stabiliscano una protezione territoriale assoluta a favore del distributore.

È invece lecito il sistema di distribuzione selettiva quando sia caratterizzato dall’obiettivo di riservare la vendita dei propri prodotti solo ad alcuni rivenditori scelti in base a criteri oggettivi d’ordine qualitativo. Esso può divenire un

elemento importante per il mantenimento dell’immagine di marchio di prestigio e quindi per la reputazione commerciale del prodotto.

Per quanto riguarda la selezione dei distributori è ritenuto invece incompatibile con l’art. 101 la selezione c.d quantitativa, cioè la selezione che, oltre a prevedere criteri oggettivi di qualificazione dei distributori, limita altresì

numero totale degli operatori ammessi ad agire all’interno di determinate aree territoriali.

Più volte è stato ribadito che un sistema di distribuzione che riduca o escluda la possibilità di importazioni parallele integra una delle ipotesi vietate dall’art. 101 in particolare quando dall’intesa risulti idoneità produrre una

ripartizione dei mercati e quindi un pregiudizio agli scambi tra Stati membri.

Un problema peculiare si pone in relazione alle modalità di sfruttamento dei diritti sulla proprietà intellettuale: nella materia ha prevalso ed è stato applicato il criterio del c.d esaurimento comunitario, nel senso che in via di principio il

diritto di esclusiva termina con lo sfruttamento (messa sul mercato, contratto di licenza) in un paese membro laddove avvenga con il legittimo consenso del titolare del diritto.

Una volta quindi che il prodotto sia stato legalmente commercializzato in uno Stato membro non può essere impedita la circolazione e quindi la rivendita negli altri Stati membri.

8. LA NULLITÀ DEGLI ACCORDI VIETATI

L’art. 101, n.2, stabilisce che gli accordi vietati sono nulli.

Tale nullità è assoluta, nel senso che il giudice o l’organo amministrativo possono rilevarla anche d’ufficio.

La nullità ha efficacia ex tunc, l’accordo resta privo di effetto tra le parti ed è inopponibile a terzi, con l’ulteriore conseguenza che sono travolti da nullità tutti gli effetti passati e futuri.

La nullità del contratto, o delle sole clausole vietate, può essere accertata dal giudice nazionale, in quanto si tratta di norme provviste di effetto diretto, oppure dalla Commissione che al riguardo gode di ampi poteri di indagine.

In genere è l’impresa concorrente che ha subito il pregiudizio a richiamare l’attenzione della Commissione o del giudice nazionale.

In tal caso il ricorrente può far valere il suo diritto sia attraverso un esposto alla Commissione, sia con una azione avanti il giudice nazionale.; sia percorrendo contestualmente le due strade.

Quanto al diritto del singolo al risarcimento del danno, la possibilità del suo esercizio in sede giudiziaria è considerato un elemento che rafforza l’operatività delle norme e che perciò stesso contribuisce al mantenimento di un’effettiva

concorrenza.

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9. LE ESENZIONI INDIVIDUALI EX ART. 101, n. 3

La possibilità di esenzione alle intese vietate ex art. 101 comma 1°, si fondano sugli elementi indicati nel successivo comma 3°, essi debbono essere tutti presenti:

1. intese che contribuiscono a migliorare la produzione o la distribuzione oppure a promuovere il progresso tecnico o economico;

2. intese che garantiscono ai consumatori una congrua parte dell’utile;

3. le restrizioni di cui sopra devono essere necessarie al raggiungimento degli obiettivi;

4. le intese o pratiche non debbono giungere al risultato di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti.

Il regolamento 1/2003 prevede che le intese vietate al n. 1, ma rispondenti alle condizioni di cui al n. 3 dello stesso art. 101, sono lecite dall’inizio e non necessitano di decisione preventiva.

La competenza ad accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 101/3 è stata attribuita, alla Commissione, al giudice nazionale, all’Autorità nazionale della concorrenza.

Tuttavia alla sola Commissione la competenza d’Ufficio a valutare la compatibilità di un’intesa con il diritto antitrust.

10. LE ESENZIONI PER CATEGORIA

In passato l’attribuzione alla Commissione della competenza esclusiva a concedere delle esenzioni ai sensi dell’art. 101 n.3 aveva posto gravi problemi di funzionalità del sistema in considerazione del numero sempre crescente di

accordi notificati.

Per fare fronte alle suddette difficoltà il Consiglio aveva autorizzato la Commissione ad emanare dei regolamenti che concedevano l’esenzione dal divieto ex art. 101 a determinate categorie di accordi.

Fra quelli attualmente in vigore, di rilievo sono regolamento relativo alle restrizioni verticali, i regolamenti di trasferimento di tecnologia, di specializzazione e di ricerca e sviluppo, quelli adottati nel settore del trasporto aereo,

del trasporto marittimo e delle assicurazioni.

Nel quadro normativo precedente all’adozione del regolamento 1/2003 gli accordi che soddisfacevano le condizioni indicate nei regolamenti di esenzione beneficiavano automaticamente dell’esenzione senza che fosse necessario

procedere alla loro notifica. Erano invece soggette all’obbligo di notifica le intese che non rientravano nelle categorie ivi disciplinate.

Con il passaggio al regime di eccezione legale lo strumento del regolamento di esenzione ha cambiato natura acquisendo una natura solo dichiarativa. I regolamenti rappresentano lo strumento di orientamento

dell’applicazione del diritto comunitario a livello nazionale, forniscono certezza giuridica e garantiscono l’uniforme applicazione dell’art. 101 n.3 .

Sulla base dell’impostazione seguita fino al 1999 ogni regolamento conteneva un elenco sia delle clausole contrattuali che potevano beneficiare dell’esenzione per categoria, c.d. white list, sia di quelle che escludevano

l’applicabilità del beneficio, c.d. black list: l’accordo che le prevedeva poteva dunque essere eventualmente esentato solo a seguito dell’adozione di una decisione ad hoc.

Una modifica sotto molti aspetti anche radicale, dell’approccio fino ad allora seguito dalla Commissione con riguardo l’esenzione per categoria, ha caratterizzato anzitutto la riforma in materia di accordi verticali.

Sulla base di questo, il regolamento 2790/1999 ha previsto un regime legale di esenzione per tutti gli accordi verticali, a condizione che la quota di mercato detenuta dal fornitore non superi il 30%, questo perché tali accordi

sono ritenuti idonei a incrementare l’efficienza economica di una catena produttiva.

Resta salva la possibilità della Commissione di revocare il beneficio quando l’accordo produca effetti gravemente distorsivi.

11. INTESE VIETATE E INTESE AUTORIZZATE

Sono state enucleate tra le molteplici ipotesi di intese vietate e non, i seguenti casi:

a) intese vietate: rientrano una serie di accordi che hanno una spiccata valenza anticompetitiva:

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a. fra le intese orizzontali, i cartelli, le collusioni sui prezzi di vendita, o su volumi e quote di mercato; inoltre le intese, che pur disciplinando apparentemente forme di cooperazione fra imprese, si

configurano in realtà per il loro specifico contenuto o per le circostanze economiche in cui vengono attuate, come meri cartelli fra imprese concorrenti.

b. fra le intese verticali, sono vietati gli accordi che ostacolano gli scambi all’interno del mercato comune.

b) Intese autorizzate: vi rientra un’ampia tipologia di accordi orizzontali e verticali. Tra i primi: accordi di specializzazione, accordi per la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie di prodotto o di processo produttivo,

accordi per la produzione in comune di determinati prodotti o servizi che richiedono impegni in termini di risorse, accordi inerenti allo sfruttamento di diritti di proprietà intellettuale. Quanto agli accordi verticali autorizzati: accordi di agenzia, di concessione esclusiva di vendita, di fornitura esclusiva, di distribuzione

selettiva, di subfornitura.

12. L’ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE

L’art. 102 TFUE sancisce l’incompatibilità col mercato comune dello sfruttamento abusivo di posizione dominante, da parte di una o più imprese, sul mercato comune o su una parte significativa di esso.

Non è vietato detenere una posizione dominante, ma abusarne tanto da alterare le normali condizioni di mercato e della concorrenza.

La posizione dominante consiste in una posizione di potenza economica grazie alla quale l’impresa è in grado di ostacolare il permanere di una concorrenza effettiva ed ha la possibilità di avere comportamenti non condizionati dai

concorrenti, dai clienti e dai consumatori.

Si distingue dal monopolio in quanto non esclude il permanere di una certa concorrenza; così come dall’oligopolio in quanto il suo comportamento non è condiviso e condizionato reciprocamente da altre imprese.

In via generale l’impresa in posizione dominante riduce il grado di concorrenza anche quando il comportamento è non censurabile, ciò significa che uno stesso comportamento è pienamente legittimo se posto in essere da azienda

non in posizione dominate, mentre può essere illegittimo se compiuto da impresa in posizione dominante.

La posizione dominante è un dato relativo, in quanto va misurato rispetto al c.d. mercato interno che va definito:

da un punto di vista geografico: comprende l’area in cui le imprese vendono o acquistano prodotti e servizi, ed in cui le condizioni di concorrenza sono omogenee;

da un punto di vista del prodotto: comprende tutti i prodotti e servizi fungibili e sostituibili

Occorre fare riferimento non solo al mercato del prodotto in discussione, ma anche a quello dei prodotti equivalenti.

Indizi inducono a rilevare l’esistenza di una posizione dominante sono numerosi e di diversa natura. La quota di mercato è senza dubbio l’elemento di grande rilievo così come possono esserlo rapporto con le quote rispettive delle imprese concorrenti più importanti, vantaggio tecnologico rispetto ai concorrenti, una rete di distribuzione efficiente, l’assenza di concorrenza potenziale.

La situazione va comunque valutata sulla base di un insieme di elementi di fatto e di diritto concomitanti.

Altro profilo rilevante è costituito dalle barriere all’ingresso che possono facilitare l’acquisizione o il consolidamento della posizione dominante.

Le barriere possono derivare da vincoli legali, prassi amministrative, privative industriali o intellettuali etc.

Secondo la Commissione e la giurisprudenza sussiste anche la posizione dominante collettiva, che ha luogo quando più imprese sufficientemente collegate fra loro detengano quote rilevanti di mercato.

13. LA NOZIONE DI SFRUTTAMENTO ABUSIVO

Lo sfruttamento abusivo della posizione dominante ha luogo quando, praticando misure diverse da quelle normali, una azienda incida sulla struttura del mercato alterando il profilo della libera concorrenza.

La Corte di Giustizia nel caso Continental Can ha affermato che l’abuso può derivare anche dal semplice consolidarsi della posizione dominante, anche quando questo avvenga senza colpa o dolo.

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La posizione dominante è abusiva per il solo fatto che determina una modifica in negativo dell’offerta ledendo gravemente il diritto del consumatore.

Può consistere in un comportamento che mira ad escludere dal mercato ovvero marginalizzare un’impresa concorrente; una politica commerciale che pregiudica direttamente i consumatori.

La giurisprudenza ha altresì precisato che oggetto di censura può anche essere un abuso di posizione dominante che attua i suoi effetti su un mercato diverso da quello dominato.

Particolare rilievo ha l’ipotesi di abuso che ruota intorno alla politica dei prezzi. Ad esempio il fatto di praticare prezzi eccessivi e privi di rapporto con il valore economico della prestazione fornita; la pratica di prezzi inferiori alla media

dei costi variabili; l’applicazione di prezzi discriminatori da parte dell’impresa in posizione dominante, vale a dire prezzi differenziati per prestazioni identiche o prezzi uguali per prestazioni diverse.

Altro esempio di abuso quello dell’esclusiva di fornitura che l’impresa dominante impone ai clienti.

Una specifica ipotesi di abuso è quella del rifiuto di fornire un prodotto se non congiuntamente ad un altro che non gli sia oggettivamente connesso per natura o secondo gli usi commerciali.

Problema particolare è quello posto nel caso Magill delle guide programmi radiotelevisivi, del rapporto tra sfruttamento abusivo di una posizione dominante e sfruttamento dei diritti d’autore. Es. pag 704.

Viene quindi estesa ai diritti di proprietà intellettuale la dottrina delle c.d. essential facilities per cui l’impresa in posizione dominante, titolare di un’infrastruttura essenziale per l’esercizio dell’attività economica, non può rifiutarne

l’accesso o l’utilizzo ad imprese concorrenti. Si pensi al caso delle rete ferroviaria, elettrica o telefonica.

La giurisprudenza è stata molto prudente nell’accogliere tale teoria precisando che una violazione dell’art. 102 potrebbe individuarsi unicamente nell’ipotesi che per il concorrente non vi sia alcuna alternativa possibile all’utilizzo

della infrastruttura in questione e che non sarebbe economicamente e/o tecnicamente ragionevole una sua duplicazione.

14. APPLICAZIONE CUMULATIVA DEGLI ARTT. 101 E 102. CONSEGUENZE DELL’ACCERTAMENTO DI UN ABUSO

Questione di grande rilievo è quella dell’applicazione cumulativa degli artt. 101 e 102, ad esempio quando la situazione di soggezione di più imprese rispetto ad un’altra dominante venga formalizzata con un accordo.

Se è vero che sono disposizioni tra loro collegate e complementari, investono però profili diversi della stessa situazione economica e hanno presupposti di applicazione e disciplina non perfettamente analoghi.

E’ stato precisato dal Tribunale che l’applicabilità dell’art.102 non era esclusa né da una pregressa decisione individuale di esenzione né da un esenzione per categoria.

La giurisprudenza è nel senso che l’accertamento dell’abuso apre la strada ai rimedi giurisdizionali previsti negli Stati membri, ad esempio un’azione di risarcimento del danno ovvero, in caso di contratti, l’azione diretta a far dichiarare

la nullità.

15. LA PROCEDURA DI APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 101 E 102. LA DENUNCIA, LE INDAGINI PRELIMINARI, LA PROCEDURA FORMALE

L’intervento della Commissione può essere sollecitato con un esposto denuncia.

Legittimati sono gli Stati membri e i singoli, persone fisiche e giuridiche che vi abbiano interesse.

La procedura di verifica può essere iniziata anche d’ufficio dalla Commissione.

Se, sulla base degli elementi di prova, la Commissione ritiene che non sussistano motivi per una sua azione, invia una lettera al richiedente indicando i motivi della sua valutazione e fissando un termine per eventuali osservazioni.

Se il richiedente non presenta osservazioni, o se non sono accolte, la Commissione adotta una decisione formale di rigetto della denuncia.

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La Commissione ha il diritto di assegnare diversi gradi di priorità alle denunce che le sono presentate.

La Commissione può archiviare una denuncia quando la fattispecie è già all’esame dell’Autorità di concorrenza di uno Stato, in questo caso indica al ricorrente quale sia l’autorità procedente.

Sulla base delle risultanze dell’indagine preliminare, la Commissione da avvio alla fase formale della procedura, che si svolge in contraddittorio.

La fase formale ha inizio con l’invio alle imprese interessate degli addebiti, con gli elementi del fatto e la valutazione giuridica, precisando se il comportamento è passibile di ammenda.

Le imprese possono accedere alla visione dei fascicoli che le riguardano e, se lo richiedono, possono essere sentite dalla Commissione procedente.

16. SEGUE: POTERI DI CONTROLLO DELLA COMMISSIONE E DIRITTI DEI SINGOLI

La Commissione gode di ampi poteri di indagine.

Può chiedere ed ha il diritto di ottenere le informazioni che ritiene necessarie ed utili, sia dai governi dei paesi membri sia dalle imprese o dalle associazioni di imprese coinvolte o ancora da terzi.

La Commissione può assumere direttamente la decisione di richiesta di informazioni senza il previo invio di una domanda.

Si prevede la possibilità di comminare sanzioni e penalità di mora non solo per informazioni inesatte, ma anche per informazioni fuorvianti fornite in risposta ad una domanda o a una decisione della Commissione.

Può procedere alle necessarie verifiche anche presso le sedi delle imprese interessate.

La Commissione deve informare l’Autorità nazionale della concorrenza dello Stato membro in cui si trovano le aziende sottoposte ad indagine.

La Commissione può anche accedere ai domicili privati del personale di aziende sottoposte ad indagine per violazione dei divieti ex art. 101 e 102, ma deve emettere motivata ordinanza e presentarla al giudice nazionale

perché questi autorizzi la visita ispettiva.

Nel procedere alla verifica del carattere non arbitrario o sproporzionato dell’ordinanza ispettiva, il giudice nazionale deve tenere conto della gravità della presunta infrazione, della rilevanza della prova cercata, della natura del

coinvolgimento e della probabilità di trovare i documenti cercati.

I funzionari e gli agenti della Commissione hanno ampi poteri, ma non possono chiedere spiegazioni su fatti e documenti relativi all’oggetto e allo scopo dell’accertamento, ne procedere all’apposizione dei sigilli.

L’esercizio dei poteri di controllo da parte della Commissione è stato spesso esaminato sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali.

Premesso che le modalità con cui si realizza la collaborazione tra la Commissione e le autorità nazionali sono regolate dal diritto dello Stato membro interessato, resta che l’autorità devono da un lato, assicurare l’efficacia dell’azione

della Commissione e dall’altro verificare che l’intervento non sia né arbitrario né sproporzionato.

Per quanto riguarda la tutela dei diritti della difesa, se è vero che la Commissione è solo un organo amministrativo e non giudiziario, così come la procedura di accertamento che essa svolge, è pur vero che anche in un procedimento di

tale natura vanno rispettate le garanzie procedimentali contemplate dal diritto comunitario. Si tratta di un procedimento che può concludersi con l’applicazione di una sanzione e comunque con una lesione degli interessi

dell’impresa.

Certi diritti devono essere tutelati anche nel corso di indagini e di procedure precontenziose, quali quelle in tema di violazione delle norme sulla concorrenza nei quali l’onere di provare la violazione è a carico della Commissione.

17. SEGUE: LE DECISIONI DELLA COMMISSIONE. I POTERI SANZIONATORI

Il regolamento 1/2003 individua i quattro tipi di decisione che la Commissione può assumere a seguito dell’avvio di una procedura formale per l’applicazione degli articoli 101 e 102 del Trattato.

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Le decisioni in particolare sono: 1) decisioni di constatazione ed eliminazione delle infrazioni; 2) decisioni che rendono obbligatori impegni presentati dalle parti; 3) decisioni di constatazione di inapplicabilità dei divieti di cui agli

articoli 101 e 102 per ragioni di interesse pubblico comunitario; 4) decisioni di adozione di misure cautelari

1) La Commissione, al termine del procedimento, quando abbia constato una infrazione, può adottare una decisione che obblighi l’impresa a porre fine all’infrazione e ,se del caso, commina un’ammenda che può arrivare fino al 1% del

fatturato dell’anno precedente.

La Commissione può imporre l’adozione di rimedi comportamentali o strutturali, proporzionati all’ infrazione commessa e necessari a far cessare effettivamente l’infrazione.

La Commissione ha poi introdotto, esclusivamente con riguardo ai procedimenti avviati nei confronti di cartelli, una speciale procedura di transazione. In forza di tale procedura le imprese che ne facciano richiesta possono decidere di

riconoscere la loro partecipazione ad un intesa anticompetitiva e la loro responsabilità per i fatti contestati. Come ricompensa, la Commissione potrà ridurre del 10% l’importo dell’ammenda da irrogare.

2) Laddove le parti presentino degli impegni al fine di rimuovere le preoccupazioni espresse nella valutazione preliminare dalla Commissione, il regolamento ha introdotto la possibilità per quest’ultima di adottare una decisione

di accettazione degli impegni proposti. Tale decisione rende impegni vincolanti per le parti e pone termine al procedimento.

3) Il regolamento esclude la possibilità per le imprese di ottenere dalla Commissione, dietro notifica, decisioni di compatibilità dei propri accordi o comportamenti con l’articolo 101 del trattato. Tuttavia è prevista la possibilità

eccezionale della Commissione, per ragioni di interesse pubblico comunitario, d’ufficio di stabilire mediante decisione che gli articoli 101 e 102 non siano applicabili a determinate condotte anticompetitive.

La Commissione si è impegnata a fornire orientamenti su questioni nuove relative all’applicazione degli articoli 101 e 102 con una dichiarazione scritta ( lettera di orientamento).

4) Il regolamento ha disciplinato la possibilità per la Commissione di adottare misure cautelari. In particolare i provvedimenti cautelari devono essere adottate soltanto in caso di indiscussa urgenza, per far fronte ad una

situazione tale da causare un danno grave e irreparabile; devono avere carattere provvisorio e cautelare, ed essere conformi al principio di proporzionalità; devono garantire il rispetto dei diritti di difesa. Il pregiudizio dev’essere

attuale e non un eventuale ed aleatorio.

Per quanto riguarda i poteri sanzionatori la Commissione può infliggere sanzioni fino al 10% del fatturato realizzato durante l’esercizio sociale precedente. L’ammenda va determinata su due parametri, la gravità e la durata della

violazione: nell’ipotesi in cui guadagni illeciti siano ingenti la commissione può aumentare l’importo della sanzione.

Altri elementi vanno considerati quali intenzionalità, i precedenti dell’impresa, contesto economico in cui si colloca la violazione. È prevista invece la riduzione della sanzione o anche una totale immunità per quelle imprese che abbiano

dato un contributo significativo all’avvio di una indagine o alla sua definizione.

Particolare rilevanza assumono le modifiche in materia di sanzioni alle associazioni di imprese. L’ammenda a carico dell’associazione non può eccedere il limite massimo del 10% del fatturato totale di ciascun membro attivo sul

mercato interessato dalla violazione posta in essere dall’associazione stessa.

18. IL CONTROLLO SULLE CONCENTRAZIONI

Una concentrazione si realizza quando un’impresa si fonde con un'altra, ovvero ne acquisisce il controllo.

Si ha altresì concentrazione quando due o più imprese creano un’impresa comune da entrambe controllata.

Le norme comunitarie sulle concentrazioni hanno lo scopo di evitare che i processi di concentrazione tra imprese producano una riduzione sostanziale della concorrenza attraverso , in particolare, la creazione o il consolidamento e

il rafforzamento di una posizione dominante.

L’ipotesi di concentrazione tra imprese è stata considerata come rilevante fino al varo del regolamento 4064/89 ora sostituito dal regolamento 139/2004.

Ben noto è il caso Continental Can dove per la prima volta fu fatto valere che l’articolo 102 potesse comprendere un’ipotesi di acquisizione del controllo di imprese concorrenti da parte di un’impresa in posizione dominante.

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In un’altra occasione poi la Corte ha riconosciuto la possibilità di fare applicazione dell’art. 101 nel caso dell’acquisto da parte di un’impresa di una partecipazione anche minoritaria in una impresa concorrente ritenendo che tale

operazione potesse comportare un condizionamento delle strategie commerciali dell’impresa controllata.

Il regolamento 139/2004 si applica alle concentrazioni che abbiano una dimensione comunitaria i cui criteri sono legati al fatturato delle imprese interessate dall’operazione. Ai sensi dell’articolo 1 del regolamento, si ha riguardo ad

un fatturato a livello mondiale di oltre 5 miliardi di euro e ad un fatturato, raggiunto da almeno due delle imprese interessate, che superi nella Comunità i 250 milioni di euro.

Il regolamento considera dimensione comunitaria un’operazione di concentrazione qualora, pur non essendo raggiunte le suddette soglie:

- il fatturato totale realizzato a livello mondiale da tutte le imprese interessate sia superiore a 2,5 miliardi di euro

- in ciascuno di almeno tre Stati membri fatturato totale realizzato dall’insieme delle imprese interessate è superiore a 100 milioni di euro

- in ciascuno degli stessi tre Stati membri, il fatturato totale realizzato individualmente da almeno due delle imprese interessate sia superiore a 25 milioni di euro

- il fatturato totale realizzato individualmente nella Comunità da almeno due delle imprese interessate è superiore a 100 milioni di euro

Il regolamento ha introdotto condizioni di maggiore flessibilità in relazione ai criteri ed alle procedure di rinvio. In particolare può essere oggetto di rinvio ad un’autorità nazionale una concentrazione che incide in misura

significativa sulla concorrenza nel mercato all’interno dello Stato membro interessato.

L’art.22 prevede la possibilità di un rinvio da parte di una o più autorità nazionali alla Commissione di operazioni che, pur non raggiungendo le soglie di fatturato fissate dall’art. 1, siano suscettibili di incidere in maniera significativa sulla concorrenza nel territorio dello Stato membro o degli Stati membri che effettuano la richiesta ed abbiano

impatto sul commercio intracomunitario.

Il regolamento definisce l’operazione di concentrazione sottoposto alla sua disciplina. Si tratta in particolare:

a) dell’ipotesi di fusione tra due o più imprese prima indipendenti;

b) dell’ipotesi di acquisto del controllo totale o parziale di una o più imprese da parte di soggetti che controllano già un’impresa o da parte di una o più imprese;

c) dell’ipotesi di costituzione di un’impresa comune che esercita stabilmente tutte le funzioni di un’entità economica autonoma.

Le operazioni di concentrazione di dimensione comunitaria vanno obbligatoriamente notificate alla Commissione. La notifica a effetti sospensivi e l’operazione non può essere realizzata fino a che non intervenga la decisione di

compatibilità o siano decorsi termini per adottarla.

Commissione apre la procedura di verifica entro 25 giorni e deve poi concludersi entro 90 giorni lavorativi dalla decisione di avvio dell’istruttoria trascorsi i quali l’operazione va considerata compatibile.

Nel caso di mancata notifica, anche nel caso in cui le imprese procedono all’operazione nonostante la decisione negativa, la Commissione dispone di un potere sanzionatorio: alle parti può essere inflitta l’ammenda fino a 10% del

fatturato totale dell’impresa interessata. Inoltre la Commissione ha potere di ordinare lo scioglimento dell’entità risultante dall’operazione.

La maggior parte dei casi la notifica è preceduta da un incontro con la Commissione che ha lo scopo di informare quest’ultima dei negoziati in corso, di individuare gli elementi di conoscenza necessari per un corretto controllo e di

avere un primo scambio di idee sulle questioni più rilevanti.

All’esito della prima fase, la Commissione decide se la concentrazione compatibile con il mercato comune; oppure che non rientra nella sfera di applicazione del regolamento; oppure che va aperta la seconda fase della procedura di

controllo in quanto sono necessari ulteriori approfondimenti.

La Commissione può anche decidere di rimettere la trattazione del caso, o parte di esso, all’autorità nazionale di concorrenza.

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Seconda fase si apre con la decisione con cui la Commissione comunica alle parti che sulla base degli elementi in suo possesso, la concentrazione solleva seri dubbi di compatibilità con il mercato comune. Commissione deve

comunicare per iscritto le sue obiezioni alle parti notificanti, impartendo un termine per la presentazione di osservazioni. Le parti notificanti, nonché le altre parti interessate, hanno il diritto e l’onere di rispondere, sia con

memorie scritte, sia partecipando ad una audizione orale.

Quando la Commissione ritiene concentrazione incompatibile è ancora possibile autorizzarla qualora le parti propongano rimedi sufficienti.

Quanto al criterio sostanziale di valutazione delle concentrazioni è stato sostanzialmente ridefinito dal regolamento 139/2004, ed è espresso con la formula “ riduzione sostanziale della concorrenza”.

Il nuovo test è basato su valutazioni di natura economica e permette di vietare tutte le concentrazioni che hanno effetti anticompetitivi, ovvero che determinano l’aumento dei prezzi e diminuiscono la scelta dei consumatori o

l’innovazione. Il nuovo criterio di valutazione deve essere interpretato alla luce e nei limiti di quanto precisato nel considerando 25, in cui con riferimento alla nozione di ostacolo significativo ad una concorrenza effettiva, si precisa

che tale nozione dovrebbe essere interpretata come riguardante, al di là del concetto di posizione dominante, solo gli effetti anticoncorrenziali di una concentrazione risultanti dal comportamento non coordinato di imprese che non

avrebbero una posizione dominante sul mercato in questione.

Ne consegue che l’ambito di applicazione del divieto continua ad essere definito misura largamente prevalente in corrispondenza della nozione di dominanza e che l’utilizzo del nuovo criterio di valutazione si configura in linea di

principio come una ipotesi residuale.

Il regolamento 139/2004 consente di vietare anche un’operazione di concentrazione che dia luogo alla creazione di una posizione dominante collettiva, quella di una situazione in cui due o più imprese indipendenti sono,

relativamente ad uno specifico mercato, unite da vincoli economici tali da detenere insieme una posizione dominante rispetto ad altri operatori sullo stesso mercato.

Particolare rilevanza assume considerando 29, che espressamente indica l’opportunità di una valutazione delle concentrazioni che tenga conto degli eventuali incrementi di efficienza generati da una concentrazione, prevedendo che spetta alle imprese l’onere di addurre, motivare e documentare l’esistenza o la probabilità di tali incrementi, così

come la loro idoneità a compensare qualunque possibile pregiudizio concorrenziale.

All’esito della procedura, progetto di decisione viene trasmesso alle autorità di concorrenza di Stati membri e discusso dal comitato consultivo. La decisione viene infine pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione.

Una procedura semplificata di esame è prevista per determinate categorie di concentrazioni che sono generalmente ritenute non problematiche per la concorrenza:

a) due o più imprese acquisiscono congiuntamente il controllo di un’impresa comune che non svolge alcuna attività o solo un’attività di minima entità

b) acquisiscono il controllo esclusivo o congiunto di una impresa, e nessuna delle parti opera nel medesimo mercato del prodotto

c) due o più imprese procedono ad una fusione, o una o più imprese acquisiscono controllo esclusivo o congiunto di un’altra impresa, ma la loro quota congiunta non è superiore al 15% in caso di rapporti orizzontali o al 25% in caso di

rapporti verticali

d) una parte acquisisce il controllo esclusivo dell’impresa di cui detiene già controllo congiunto.

19. TUTELA DELLA CONCORRENZA TRA DIRITTO DELL’UNIONE E DIRITTO NAZIONALE

Il regolamento 1/2003 interviene a disciplinare la materia dei rapporti tra normativa comunitaria e normative nazionali di concorrenza, prevedendo a carico di giudici e autorità nazionali l’esplicito obbligo di applicazione del

diritto comunitario ai comportamenti d’impresa che siano tali da incidere sui scambi tra Stati membri.

L’obbligo è diretto anche a garantire che i procedimenti delle autorità nazionali di concorrenza siano soggetti alle procedure di informazione e consultazione preventiva della Commissione, lasciando in questo modo aperta la

possibilità di un’applicazione parallela delle legislazioni nazionali.

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Relativamente alle intese questa possibilità è soggetta a un vincolo di convergenza che preclude l’applicazione di norme nazionali di concorrenza più severe ad accordi, decisioni e pratiche concordate suscettibili di influenzare gli scambi intracomunitari, ma che non integrino una violazione dell’articolo 101 del Trattato. Se così non fosse, uno

stesso accordo potrebbe risultare trattato in maniera diversa a seconda del regime nazionale in cui è valutato, dunque risulterebbe compromessa l’esigenza di applicazione uniforme del diritto comunitario. Portata del vincolo di

convergenza è limitata alle sole fattispecie d’intesa.

Esso non preclude l’applicabilità di discipline nazionali più severe là dove queste abbiano ad oggetto condotte unilaterali d’impresa, come tali non rientranti nell’ambito di applicazione dell’articolo 101.

La espressa possibilità per l’autorità nazionali competenti in materia di concorrenza di fare diretta applicazione degli articoli 101 e 102 del Trattato è un passaggio di grande rilievo ai fini del processo di decentramento.

I giudici e le amministrazioni nazionali possono e anzi devono fare applicazione delle norme provviste di effetto diretto incluse le norme del trattato che qui sono in questione. Tali norme sono evocabili direttamente davanti al

giudice e, in caso di conflitto tra norma comunitaria e norma nazionale, la seconda va disapplicata.

L’idea di un’apposita abilitazione interna ad applicare direttamente le norme comunitarie appare priva di senso logico e sotto il profilo della teoria giuridica generale, assolutamente errata.

I giudici e le amministrazioni nazionali costituiscono infatti l’essenza del decentramento dell’applicazione di tutte le norme comunitarie e quelle sulla concorrenza non fanno eccezione.

Inoltre regolamento 1/2003 mantiene in capo alla Commissione un ruolo rilevante nella determinazione della politica comunitaria della concorrenza.

L’autorità nazionali sono competenti ad applicare gli articoli 101 e 102 del trattato in casi individuali, quindi escluso che tale autorità abbiano potere di adottare atti generali, quali regolamenti di esenzione per categoria.

I poteri attribuiti alle autorità nazionali coincidono con quelli della Commissione tranne che per le decisioni di constatazione di inapplicabilità: ordinare la cessazione dell’infrazione, disporre misure cautelari, accettare impegni,

comminare ammende, penalità di mora o altra sanzione.

A fronte di questa equivalenza di poteri, le autorità nazionali continuano a svolgere un ruolo diverso rispetto alla Commissione:

- in primo luogo perché all’istituzione comunitaria resta la competenza esclusiva di orientamento della politica antitrust comunitaria

- in secondo luogo perché l’avvio di un procedimento da parte della Commissione per l’adozione della decisione, priva tutte le autorità nazionali garante della concorrenza della competenza ad applicare gli articoli 101 e 102.

In particolare una volta che la Commissione abbia avviato un procedimento, l’autorità non possono più iniziare un loro procedimento sullo stesso caso ovvero devono chiudere il procedimento.

Di grande rilievo pratico è la definizione delle rispettive sfere di azione e di competenza della commissione e del giudice nazionale. La competenza dei tribunali nazionali, concorrente con quella della commissione, deriva

dall’efficacia diretta dei divieti sanciti dagli articoli 101 e 102 che incidono direttamente sulla posizione giuridica dei privati e attribuiscono loro diritti ed obblighi che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare.

La decisione del giudice nazionale non vincola la commissione che resta libera di decidere eventualmente in modo diverso. In forza del principio di leale collaborazione con le istituzioni comunitarie giudice nazionale deve astenersi

dal prendere provvedimenti idonei a compromettere la realizzazione del trattato ed evitare l’adozione di provvedimenti in contrasto con decisioni della Commissione.

20. LA COOPERAZIONE TRA COMMISSIONE, AUTORITÀ E GIUDICI NAZIONALI NELL’APPLICAZIONE DEL DIRITTO EUROPEO DELLA CONCORRENZA

Il sistema di applicazione delle regole della concorrenza comunitaria comprende anche la rete delle autorità di concorrenza composta dalle istituzioni pubbliche dei Paesi membri.

Il regolamento 1/2003 prevede che l’autorità nazionali hanno l’obbligo di informare preventivamente la Commissione sull’esito di procedimenti attivati e prima di adottare taluni tipi di decisione.

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Un accordo o una pratica abusiva sono di pertinenza della rete se pregiudicano il commercio tra gli Stati membri.

Se il caso è stato identificato di pertinenza della rete, il primo obbligo consiste nell’informare la Commissione dell’avvio del procedimento.

La comunicazione conferisce un periodo di attribuzione del caso di 2 mesi entro il quale ciascuna autorità deve valutare se desidera intervenire.

Laddove possibile la preferenza è accordata all’intervento della singola autorità.

L’intervento della Commissione sarà ritenuto necessario quando l’accordo o la pratica incida sulla concorrenza di 3 o più Stati membri, oppure quando un caso sia strettamente collegato con altre disposizioni comunitarie, per la cui

applicazione la commissione ha competenza esclusiva o si trova meglio posizionata.

Si possono verificare tre situazioni diverse. In primo luogo è possibile che una o più autorità decidano di agire in parallelo a quella che ha comunicato il caso per prima: sarà possibile individuare un’autorità responsabile del coordinamento delle misure di indagine. In secondo luogo, l’autorità che ha comunicato originariamente le

informazioni alla rete decide di chiudere procedimento in quanto un altra autorità intende occuparsi del caso. Infine la commissione può avocare a sé il caso e dunque privare l’autorità nazionale della sua competenza.

L’art. 11 del Regolamento 1/2003 prevede che l’avvio di un procedimento da parte della Commissione priva le autorità nazionali della competenza ad applicare gli artt. 101 e 102.

Se l’autorità nazionale sta già trattando il caso, la Commissione lo avocherà a se.

L’articolo 12 del regolamento stabilisce che la commissione e le autorità nazionali hanno la facoltà di scambiare ed utilizzare come mezzo di prova qualsiasi elemento di fatto e di diritto, comprese le informazioni riservate, a

condizione che siano state legalmente raccolte dall’autorità trasmittente.

Il principio del segreto d’ufficio comporta che i segreti aziendali e le altre informazioni riservate appartenenti ad imprese non possono essere divulgati all’esterno della rete.

Nel caso di scambio d’informazioni fornite a un’autorità di concorrenza nell’ambito di un programma di clemenza, al fine di preservare l’efficacia di tali programmi nell’individuazione dei cartelli e incentivi alla collaborazione da parte delle imprese coinvolte, la Comunicazione della Commissione, prevede, in deroga a quanto consentito dall’articolo 12, che in questi casi le informazioni trasmesse alla rete non possono essere utilizzate dagli altri membri per avviare

proprie indagini.

L’art.22 del Regolamento, consente l’autorità nazionale, di raccogliere informazioni in base alla legislazione interna per conto di un’altra autorità. La richiesta di assistenza deve essere formale, scritte e motivata.

In particolare viene in rilievo in maniera specifica l’obbligo di leale collaborazione tra le istituzioni comunitarie e i giudici nazionali chiamati alla reciproca assistenza nell’applicazione delle regole antitrust.

CAPITOLO VII: LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA APPLICABILE AGLI STATI

1. MISURE STATALI E EFFETTO ANTICONCORRENZIALE

La disciplina dell’Unione sulla concorrenza non regola solo i comportamenti tra imprese, ma può investire anche taluni comportamenti degli Stati.

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In base alla lettura congiunta degli artt. 4, n.3 TUE e 101 TFUE, nonché sull’art.3 n.3 TUE, la Corte di Giustizia ha fondato l’obbligo per gli Stati membri di non adottare o mantenere misure che possano rendere inefficaci le norme

di concorrenza applicabili alle imprese.

La Corte ha sintetizzato la sua giurisprudenza con la formula secondo cui è precluso agli Stati membri di imporre, agevolare o rafforzare la conclusione di accordi in contrasto con l’articolo 101 TFUE; nonché di privare del carattere

pubblico una normativa, attribuendo ai privati la responsabilità di adottare decisioni di interventi in materia economica.

Le condizioni perché una legislazione nazionale possa essere sottoposta alla verifica di compatibilità con il diritto dell’Unione sono, l’esistenza di un accordo vietato dall’art. 101 e l’esistenza di una misura statale che ne impone o

agevola la conclusione ovvero ne impone l’osservanza o ancora ne estende o ne rafforza gli effetti.

Gli articoli 101 102 restano invece applicabili nelle ipotesi in cui la normativa nazionale lasci sussistere la possibilità di una concorrenza che possa essere ostacolata, ristretta o falsata da comportamenti autonomi delle imprese.

Resta da chiarire se una normativa nazionale del tutto scollegata da un effettivo e palese comportamento delle imprese possono determinare una violazione del diritto dell’unione. Il riferimento è a quelle normative che

producono sulle condizioni di concorrenza l’effetto pari o equivalente a quello di un’intesa vietata, ma senza che un comportamento anticoncorrenziali delle imprese si colleghi in qualche modo alla misura statale in questione.

Risposta della corte è stata nel senso che l’incompatibilità della normativa statale resta ancorata alla presenza di un comportamento delle imprese, non importa se favorito, rafforzato o addirittura imposto dalla normativa stessa.

È utile ricordare che lo stesso articolo 101 non considera incompatibile con il mercato comune ogni alterazione della concorrenza, ma solo quelle alterazioni che siano il risultato di un comportamento delle imprese. È necessario quindi che l’effetto anticoncorrenziale di una normativa statale sia in qualche modo collegato ad un comportamento delle

imprese e ne costituisca la diretta o indiretta copertura, sia cioè collegato al dettato dell’articolo 101.

Quando quest’ultimo collegamento non sussiste, non rimangono che il parametro dell’articolo 4 e il principio generale della concorrenza libera e non falsata.

Il primo impone si un dovere di collaborazione, ma si tratta di un dovere che, se collegato ad una norma materiale che a sua volta impone un obbligo, non ha una sua autonomia rispetto all’osservanza di quell’obbligo. Ne consegue che è un parametro che ancora una volta non può essere utilizzato in assenza di un comportamento delle imprese.

A sua volta l’obiettivo della creazione del regime che garantisca la concorrenza non falsata è collegato alle condizioni e ai ritmi previsti dai trattati. La conseguenza è che non è sufficiente il principio quale parametro per valutare la

legittimità delle condotte rilevanti, ma occorre riferirsi agli articoli 101-109. Ancora una volta risulta indispensabile il comportamento delle imprese.

Situazione ad oggi è tuttavia mutata notevolmente. L’articolo 119 prevede che l’azione di Stati membri comprenda l’adozione di una politica economica fondata sullo stretto coordinamento delle politiche dell’insieme degli Stati membri e condotta in conformità al principio dell’economia di mercato aperta alla libera concorrenza. Inoltre

l’articolo 120 ripete ancora una volta il vincolo degli Stati membri di agire nel rispetto dei principi dell’economia di mercato aperta alla libera concorrenza.

Per quanto riguarda la legittimità del comportamento delle imprese nel caso in cui il comportamento anticoncorrenziali sia consentito o agevolato dalla misura statale o sia addirittura imposto:

- quando la normativa nazionale lascia sufficiente autonomia all’impresa, il comportamento di questa resta sottoposto alla disciplina degli articoli 101 e 102 ed è passabile di censura e di sanzione, salvo graduarne la misura e

far valere anche la responsabilità dello Stato

- quando la normativa nazionale impone alle imprese un comportamento in violazione delle norme comunitarie sulla concorrenza, tale comportamento non può essere sanzionato, mancando presupposto per l’applicazione degli

articoli 101 e 102, con la conseguenza che sarà eventualmente solo lo Stato a rispondere.

2. MISURE STATALI ED IMPRESE PUBBLICHE

L’art. 106 vieta agli Stati membri di adottare nei confronti delle imprese pubbliche o imprese titolari di diritto esclusivi, misure che siano contrarie al Trattato, specialmente al divieto di discriminazione in base alla nazionalità e

alle norme sulla concorrenza.

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L’art. 106, c. 2° sancisce che le imprese incaricate della gestione dei servizi di interesse economico generale possono essere sottratte alle regole della concorrenza, nei limiti in cui si renda necessario all’adempimento della loro

funzione.

Lo scopo della norma è di conciliare l’interesse dell’Unione per le regole della concorrenza con le esigenze di politica economica degli Stati membri.

Le violazioni più frequenti al Trattato nell’intervento pubblico sono quelle che si risolvono in ostacoli agli scambi ed alla libera prestazione di servizi e nell’abuso di posizione dominante.

La giurisprudenza è costante nel senso che, mentre la creazione da parte dello Stato membro di una posizione dominante tramite l’attribuzione di diritti esclusivi non è incompatibile con l’articolo 106, non è consentito invece

adottare o mantenere in vigore misure che possano pregiudicare l’effetto utile dello stesso art. 106.

Ormai incontestata è l’illegittimità dei diritti esclusivi che abbiano ad oggetto l’importazione o la commercializzazione di beni o servizi; il diritto esclusivo per importazione di tabacchi o di apparecchi terminali di telecomunicazioni.

Più complessa e incerta è la questione se ed entro quali limiti l’articolo 106 induca a ritenere illegittimi i diritti esclusivi di produzione di beni o servizi: la giurisprudenza si fonda sulla premessa che gli Stati membri non possono

pregiudicare l’effetto utile delle norme a cui di volta in volta l’articolo 106 n.1 rinvia.

Il fatto di poter leggere congiuntamente l’articolo 106 n.1 e n.2 significa che la concessione e il mantenimento di diritti esclusivi sono sostanzialmente leciti solo rispetto ad imprese che svolgono un ruolo di interesse generale o

servizio pubblico esclusivamente nella misura in cui i limiti alla concorrenza che derivano siano funzionali all’assolvimento di quegli stessi obblighi di servizio pubblico.

Così ad esempio, si è considerato giustificato il monopolio legale del servizio postale ordinario, in quanto costituisce un servizio di interesse generale che necessariamente deve coprire anche settori non redditizi.

Invece si è rilevata l’incompatibilità del monopolio del servizio di corriere espresso, in quanto l’esclusione della concorrenza che ne consegue non è giustificabile in base a motivi di interesse generale.

3. IL POTERE DI CONTROLLO DELLA COMMISSIONE EX ART. 106 N.3 TFUE

L’art. 106 , n. 3° , recita : “La Commissione vigila sull'applicazione delle disposizioni del presente articolo rivolgendo, ove occorra, agli Stati membri, opportune direttive o decisioni “

Esso attribuisce alla Commissione poteri di controllo.

Le decisioni e le direttive che la Commissione può adottare sono atti vincolanti, devono pertanto essere impugnati nei termini di rito e possono dare luogo ad una procedura di infrazione per inadempimento.

Il potere attribuito alla Commissione dall’art. 106 n.3 è stato oggetto di numerose discussioni soprattutto riguardo due questioni:

1) Rapporto tra poteri della Commissione e quelli normativi del Consiglio: innanzitutto si specifica che , a norma dell’art. 106 n.3, la competenza attribuita alla Commissione si limita alle direttive e alle decisioni necessarie al fine di espletare il dovere di vigilanza. Diversamente la competenza attribuita dall’articolo 109 al Consiglio, gli consente di

stabilire tutti i regolamenti utili ai fini dell’applicazione degli artt. 107 e 108 TFUE.

In seguito la Corte ha rilevato la portata generale dei poteri attribuiti al Consiglio sottolineando in particolare la competenza ad adottare tutti i regolamenti e le direttive utili ai fini dell’applicazione delle norme sulla concorrenza.

Viceversa l’art. 106 riguarda l’ipotesi di misure statali adottate dagli Stati membri nei confronti delle imprese con le quali sussistono relazioni economiche particolari, con la conseguenza che le direttive e le decisioni di cui al n. 3 sono

finalizzate esclusivamente al controllo di tali misure.

Ciò significa che la competenza della Commissione è più ristretta e specifica di quella conferita al Consiglio. Solo di recente si è finito col riconoscere l’esistenza di una sovrapposizione e dunque l’eventualità che il Consiglio eserciti le competenze con riguardo al tema specifico delle imprese titolari di diritti esclusivi, non precludendo comunque alla

Commissione di esercitare poteri che le derivano dall’art.106 n.3 .

2) Rapporto tra potere della Commissione di adottare direttive nel contesto regolato dall’art. 106 e quello di avviare una procedura d’infrazione ex art. 258.

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La Corte ha affermato che la Commissione ha il potere di precisare in generale le obbligazioni che derivano dal trattato. E consegue che l’atto previsto dall’art. 106 n. 3, senza prendere in considerazione la posizione particolare in

cui si trovano i singoli Stati, concretizza gli obblighi che sono loro imposti. Tale orientamento è stato successivamente confermato e si può considerare consolidato.

La Corte ha infine riconosciuto che la Commissione ha in forza dell’articolo 106 n.3, il potere di accertare e dichiarare incompatibilità rispetto diritto comunitario di una normativa statale e di indicare i provvedimenti necessari per eliminare la violazione: né più né meno di quanto contenuto in un parere motivato all’interno della procedura

d’infrazione.

La giurisprudenza ha quindi esteso al controllo relativo alle imprese pubbliche il tipo di procedura previsto espressamente dall’articolo 108 in tema di controllo sugli aiuti pubblici alle imprese, ipotesi che costituisce una

deroga all’articolo 258.

Inoltre non si può pretendere dalla Commissione di motivare in modo specifico la scelta tra l’esercizio dei poteri di cui all’art. 106 n.3 e la procedura d’infrazione di cui all’art. 258.

4. GLI AIUTI PUBBLICI ALLE IMPRESE

Le norme comunitarie sugli aiuti di Stato sono dirette ad evitare che il sostegno finanziario pubblico possa alterare la competizione.

Secondo l’art. 107 sono incompatibili con il mercato comune gli aiuti concessi dagli Stati sotto forma di qualsiasi utilità che, favorendo talune imprese, alterino o minaccino di alterare la concorrenza.

Il principio sul quale si fonda il disposto è che gli aiuti di stato sono incompatibili con il mercato comune, cosicché vanno sottoposti ad un sistema obbligatorio di autorizzazione previa.

L’art. 108 disciplina la procedura di controllo preventivo della compatibilità di aiuti nuovi, nonché quella di controllo permanente su quelli esistenti.

L’art. 109, infine, prefigura il potere del Consiglio di fissare in via generale, con regolamento, le condizioni di applicazione dell’art. 108, nonché le categorie di aiuti che possono essere dichiarati compatibili.

Solo tardivamente il Consiglio ha esercitato questa competenza adottando il regolamento n.994/98 e n.659/99. Essi affermano l’esigenza che il processo di produzione delle norme di diritto derivato non sia unicamente affidato ad atti

della Commissione, ma avvenga mediante atti regolamentari assunti dal Consiglio.

Il regolamento 994/98 abilita la Commissione ad adottare appositi regolamenti di esecuzione finalizzati a disciplinare taluni interventi di sostegno pubblico dell’economia.

Nel 2008 la Commissione ha adottato il regolamento generale di esenzione per categoria n.800/2008 che in parte sostituisce precedenti regolamenti e introduce nuove categorie di aiuto esentabili. Tra le categorie che non

beneficiavano dell’esenzione: gli aiuti per la tutela ambientale, per l’innovazione, la ricerca e lo sviluppo a favore delle grandi imprese, gli aiuti per le imprese di nuova creazione da parte di imprenditrici donne.

Il regolamento 659/99 procede ad un riordino organico dei principi e regole procedurali.

L’importanza di questi atti normativi del Consiglio non deve portare a sottovalutare grande ruolo svolto dalla Commissione e dal giudice dell’Unione che hanno saputo dare concreta ed efficace attuazione alle disposizioni del

Trattato in materia di aiuti di Stato.

5. LA NOZIONE DI AIUTO OGGETTO DEL DIVIETO GENERALE

Art.107: “sono incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che favorendo talune imprese o

talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza.”

La nozione è dunque molto ampia.

In linea generale può considerarsi aiuto di Stato ogni forma di vantaggio economicamente apprezzabile fatta ad una impresa mediante intervento pubblico.

Vi rientra qualsiasi misura direttamente o indirettamente capace di produrre per l’impresa un beneficio economico.

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Il Trattato non distingue gli interventi a seconda della loro causa o del loro scopo, ma li definisce in funzione dei loro effetti.

L’aiuto designa non solo le prestazioni positive come le sovvenzioni, ma anche interventi che alleviano gli oneri che gravano sul bilancio di una impresa.

Gli aiuti incompatibili sono quelli concessi dagli Stati, e sono considerati tali non solo quelli erogati direttamente, ma anche quelli erogati da Ente terzo formalmente distinto dallo Stato.

1. La forma dell’aiuto: è irrilevante, può essere tanto una legge quanto un atto amministrativo, neppure è esclusa la forma privatistica.

Tra le ipotesi più rilevanti vanno annoverate le assunzioni di partecipazione dello Stato o di un ente pubblico nelle imprese. Il controllo può portare alla dichiarazione di incompatibilità quando l’apporto pubblico non

corrisponde a quello di investitore privato che operi un conferimento di capitali in normali condizioni di un’economia di mercato.

Quindi per esempio una holding pubblica può si sopportare e ripianare le perdite di una controllata, ma solo quando si possa prevedere un miglioramento della redditività; costituiscono aiuti incompatibili i

conferimenti di capitale che prescindono da qualsiasi prospettiva di redditività anche a lungo termine.

Nell’ipotesi di operazioni di privatizzazione di imprese pubbliche la commissione verifica:

- che la privatizzazione non si accompagni ad interventi finanziari dell’azionista pubblico volti a riequilibrare la situazione patrimoniale e finanziaria dell’impresa ceduta

- che il prezzo di cessione rifletta correttamente il valore delle attività privatizzate e non comporti un indebito vantaggio per il soggetto acquirente

Sempre con riferimento al rapporto tra lo Stato e le imprese pubbliche sono state adottate alcune normative per assicurarne la trasparenza.

La prima direttiva imponeva agli Stati membri di comunicare periodicamente i dati relativi alle relazioni con imprese pubbliche, successivamente la commissione ha modificato e integrato la direttiva.

La Corte ha escluso dalla nozione di aiuto l’ipotesi di erogazione di risorse pubbliche a esclusivo compenso degli oneri aggiuntivi di servizio pubblico, in quanto inidonea a favorire l’impresa beneficiaria e ad alterare le condizioni concorrenziali. Di conseguenza l’erogazione non va neppure notificata ed è sottratta al controllo

preventivo della commissione, restando soggetta solo controllo successivo del giudice nazionale ed all’occorrenza della corte attraverso rinvio pregiudiziale.

La corte nella sentenza Altmark ha precisato le condizioni che devono ricorrere perché la compensazione degli oneri di servizio pubblico possa sottrarsi alla qualificazione di aiuto:

a) l’impresa beneficiaria deve effettivamente essere stata incaricata dall’assolvimento di obblighi di servizio pubblico

b) criteri di calcolo della compensazione devono essere determinati in via generale preventiva e trasparente

c) La compensazione non deve eccedere quanto necessario per coprire costi

d) quando la scelta dell’impresa non sia stata operata con procedura di appalto pubblico, la compensazione deve essere determinata sulla base dei costi di un’impresa media

2. Per quanto concerne l’origine dell’aiuto, va rilevato che l’aiuto deve poter essere imputato allo Stato.

L’imputabilità è sicura quando l’aiuto sia stato concesso da un ente pubblico o direttamente dall’amministrazione ma anche dal soggetto privato sottoposto a controllo pubblico. Meno pacifico se l’aiuto

concesso da un soggetto distinto dallo Stato debba anche essere a carico dello Stato. La giurisprudenza su questo aspetto non è stata sempre lineare anche se commissione e corte hanno la tendenza a cercare

comunque un legame tra le risorse impiegate e un’articolazione dell’apparato statale.

In definitiva due sono i presupposti della nozione di aiuto ai sensi e per gli effetti dell’art. 107 sotto il profilo dell’origine dell’aiuto:

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- Deve trattarsi di risorse statali, cioè strumenti finanziari che siano nella disponibilità delle autorità pubbliche per essere destinate a sostenere le imprese e che lo Stato possa controllare l’utilizzazione e la

destinazione

- la misura deve essere imputabile allo Stato ovvero ad una sua articolazione

3. Beneficiario dell’aiuto deve essere un’impresa, cioè qualsiasi entità che eserciti un’attività economicamente rilevante e sia presente nel mercato dei beni e dei servizi. Sono esclusi gli enti che non

esercitano attività economiche ad esempio gli enti di ricerca, le università o le scuole di formazione.

4. Condizione della rilevanza dell’aiuto che esso favorisca talune imprese ovvero talune produzioni rispetto ad altre che si trovino nella stessa situazione di fatto e giuridica, si parla di selettività.

Occorre di volta in volta verificare se la misura può essere giustificato in base ad una logica di sviluppo del sistema economico nel suo insieme ovvero rappresenti una deviazione rispetto all’assetto del sistema diretta

ridurre gli oneri finanziari a vantaggio di specifici attori.

5. La valutazione degli effetti dell’aiuto è facilitata dalla presunzione che in ogni caso un aiuto produce effetti distorsivi. L’aiuto inoltre sottrae risorse pubbliche ad altre destinazioni e più in generale alimenta la cultura

dell’assistenzialismo.

6. Anche in materia di aiuti di Stato vale il criterio de minimis. Scarsa consistenza dell’aiuto o la dimensione modesta dell’impresa beneficiaria non possono far escludere a priori la possibilità che siano influenzati gli

scambi tra paesi membri.

6. LE DEROGHE AL PRINCIPIO DI INCOMPATIBILITÀ DEGLI AIUTI DI STATO

Sono statuite dall’art. 107 del TFUE, si suddividono in deroghe de iure e deroghe sottoposte alla valutazione della Commissione o del Consiglio.

Quelle de iure sono riconducibili:

agli aiuti concessi ai singoli consumatori;

quelli conferito per rimediare a calamità naturali;

quelli concessi alla economia delle Regioni tedesche dopo la riunificazione.

Quelle sottoposte alla valutazione della Commissione o del Consiglio sono:

aiuti per lo sviluppo di regioni con basso tenore di vita;

aiuti per la realizzazione di un progetto comune o per rimediare a un grave turbamento dell’economia in uno Stato membro;

aiuti per lo sviluppo di talune attività o talune regioni;

aiuti destinati alla cultura ed alla conservazione di beni culturali.

Dalla prassi della Commissione possono trarsi due principi che ne hanno informato l’azione relativamente alle deroghe:

a) principio della contropartita: l’aiuto è compatibile se non è possibile realizzare diversamente l’obiettivo di interesse comunitario;

b) principio della trasparenza: impone di verificare natura e portata dell’aiuto rispetto agli scambi intracomunitari ed alla concorrenza sulla base di tutti gli elementi necessari.

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Tra le ipotesi di deroga al principio di incompatibilità per molti aspetti sono di grande rilievo quelle che riguardano gli aiuti regionali. Tra i fattori considerati ai fini della valutazione compatibilità vi sono il tasso, la struttura e le tendenze

della disoccupazione, i saldi migratori, la pressione demografica, la densità della popolazione ed altre variabili geografiche economiche e socio strutturali.

Particolarmente importanti sono anche le deroghe concesse dalla Commissione sulla base degli Orientamenti sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione di imprese in difficoltà. Gli aiuti per il salvataggio possono essere autorizzati solo in casi eccezionali connotati da gravi difficoltà sociali; che siano concessi sotto forma di garanzia dei crediti o di crediti rimborsabili gravati da un tasso d’interesse equivalente a quello di mercato; gli aiuti siano limitati a quanto necessario per mantenere l’impresa in attività; lo Stato si impegni a presentare alla commissione un piano

di ristrutturazione, piano di liquidazione o la prova che il prestito è stato integralmente rimborsato.

Da menzionare è la disciplina comunitaria relativa all’aiuti settoriali che sono ammessi quando consentano di ripristinare condizioni di efficienza e di competitività a lungo termine.

7. LA PROCEDURA DI CONTROLLO DI COMPATIBILITA’ DEGLI AIUTI

Lo scopo del controllo preventivo statuito dall’art. 108 è quello di evitare che un pregiudizio distorsivo delle regole della concorrenza abbia a consumarsi.

Gli stati membri hanno, dunque, due obblighi:

a) l’obbligo di notifica alla Commissione del progetto di aiuto o di modifica dello stesso;

b) l’obbligo di standstill (arresto) di non dare corso al progetto di aiuto prima che la Commissione si sia pronunciata.

Il divieto di attuare il provvedimento è provvisto di effetto diretto.

Pertanto, il singolo che subisca un pregiudizio dall’aiuto erogato può far valere dinanzi al giudice nazionale, anche in via cautelare, il contrasto con il diritto comunitario.

In ogni caso, il singolo può far valere l’illegittimità degli atti di esecuzione del provvedimento.

Ne consegue:

che il giudice, se adito per il rispetto dell’art. 108, c. 3, deve tutelare i singoli rispetto al previo obbligo di notifica alla Commissione. Egli ha il potere di accertare se l’aiuto concesso rientri nella nozione comunitaria e,

se del caso, può operare un rinvio pregiudiziale alla Corte in caso di dubbio interpretativo. Tuttavia, né il giudice, né la Corte sono competenti a valutare nel merito la compatibilità dell’aiuto in quanto tale compito

spetta in prima battuta esclusivamente alla Commissione sotto controllo della Corte.

L’inosservanza dell’obbligo di notifica e/o di sospensione dell’erogazione dell’aiuto determina la sua illegittimità insanabile; viceversa non ne determina di per sé l’incompatibilità sostanziale con il mercato

comune.

La pretesa della commissione di considerare di per sé illegittimi aiuti eseguiti in violazione dell’obbligo di notifica e/o di standstill , senza bisogno di seguire la procedura di controllo, è stata respinta dalla corte, con la

conseguenza che la commissione ha l’obbligo di procedere in ogni caso alla verifica della compatibilità dell’aiuto.

La procedura di controllo si articola in due fasi:

1.la prima fase consiste in un esame sommario del progetto di aiuto. Tale fase deve concludersi rapidamente, la Corte fissa in due mesi il tempo massimo. Essa non integra l’obbligo di trasparenza, data la sommarietà della

valutazione.

2.la seconda fase, cioè la procedura di controllo, consiste in un esame approfondito della natura ed implicazioni del progetto. Tale fase è accompagnata da garanzie di pubblicità e di rito alquanto rigorose.

Regime relativo agli aiuti fin qui considerato si riferisce agli aiuti nuovi, cioè decisi ex novo.

Per gli aiuti già esistenti l’art. 108 del Trattato prefigura un esame permanente della Commissione, che può anche proporre modifiche allo Stato erogatore e all’occorrenza aprire nuovamente la procedura in contraddittorio.

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La differenza fondamentale rispetto ai nuovi aiuti è costituita dal fatto che per tutta la durata del controllo non vige l’obbligo di standstill.

Quando la commissione dichiara l’aiuto incompatibile con il mercato comune all’esito della procedura, essa ne può imporre allo Stato membro la soppressione ovvero prescrive determinate modificazioni al progetto notificato.

Se l’aiuto è stato in tutto o in parte erogato, la commissione può imporre allo Stato membro di esigerne la restituzione, che ha dunque lo scopo di eliminare la distorsione di concorrenza causata dall’aiuto illegittimo.

Molto spesso si verificano difficoltà nel recupero. Tuttavia va ricordato il principio secondo cui lo Stato non può porre a giustificazione del proprio inadempimento disposizioni o pratiche o situazioni interne.

È stato più volte ribadito che può essere presa in considerazione esclusivamente una impossibilità assoluta di eseguire correttamente la decisione. In ogni caso quando lo Stato incontri delle difficoltà, dovrà consultare la

commissione e con essa convenire eventuali rimedi anche in funzione del dovere di collaborazione.

Il recupero dell’aiuto deve comunque realizzarsi attraverso i mezzi e le procedure vigenti negli Stati membri sempre che non sia reso praticamente impossibile il recupero stesso.

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