Diritto Dell'Unione Daniele

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DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA di LUIGI DANIELE INTRODUZIONE – Le origini e lo sviluppo del processo d’integrazione europea Il processo d’integrazione europea si avvia subito dopo la II guerra mondiale e nasce sia per evitare conflitti interni che avrebbero potuto generare una nuova serie di scontri e di guerre, sia per contrapporsi maggiormente al blocco filo- sovietico che raggiunse ben presto una stabilità sotto il profilo economico, tramite il Comecon, ed una stabilità sotto il profilo militare, tramite la firma del Patto di Varsavia. L’integrazione europea segue due metodi: uno TRADIZIONALE ed uno più innovativo, definito come COMUNITARIO. Il metodo tradizionale si fonda sulla “cooperazione intergovernativa”, basata a sua volta su 3 principi: Prevalenza di organi di Stati: organi in cui siedono soggetti direttamente dipendenti nonché appartenenti al potere politico (e quindi al governo) dello Stato di appartenenza; Prevalenza del metodo decisionale dell’unanimità: ogni Stato quindi può porre il veto su una determinata decisione; Assenza o rarità di atti vincolanti ed obbligatori: vi sono per lo più atti raccomandatori. Seguendo il metodo tradizionale, la cooperazione intergovernativa si applicherà in 3 diversi campi: 1. CAMPO MILITARE: UEO (UNIONE EUROPA OCCIDENTALE): trattato di Bruxelles del 17 marzo 1948; vi parteciparono membri a pieno titolo, membri osservatori e membri partner. Organo fondamentale era il Consiglio, che decideva all’unanimità ed era composto da rappresentanti permanenti dei vari Stati. Attuò per un determinato periodo la PESC; NATO (ORGANIZZAZIONE DEL TRATTATO NORD ATLANTICO): trattato di Washington del 4 aprile 1949; organizzazione non solo europea sotto il profilo geografico, data la partecipazione di Stati Uniti e Canada. Organo principale: Consiglio del Nord Atlantico, cui partecipano i membri permanenti di ogni Stato, accompagnati dai ministri degli esteri e della difesa. Le decisioni vengono prese all’unanimità e non hanno carattere vincolante. 1

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DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA di LUIGI DANIELE

INTRODUZIONE – Le origini e lo sviluppo del processo d’integrazione europea

Il processo d’integrazione europea si avvia subito dopo la II guerra mondiale e nasce sia per evitare conflitti interni che avrebbero potuto generare una nuova serie di scontri e di guerre, sia per contrapporsi maggiormente al blocco filo-sovietico che raggiunse ben presto una stabilità sotto il profilo economico, tramite il Comecon, ed una stabilità sotto il profilo militare, tramite la firma del Patto di Varsavia.

L’integrazione europea segue due metodi: uno TRADIZIONALE ed uno più innovativo, definito come COMUNITARIO.

Il metodo tradizionale si fonda sulla “cooperazione intergovernativa”, basata a sua volta su 3 principi:

Prevalenza di organi di Stati: organi in cui siedono soggetti direttamente dipendenti nonché appartenenti al potere politico (e quindi al governo) dello Stato di appartenenza;

Prevalenza del metodo decisionale dell’unanimità: ogni Stato quindi può porre il veto su una determinata decisione;

Assenza o rarità di atti vincolanti ed obbligatori: vi sono per lo più atti raccomandatori.

Seguendo il metodo tradizionale, la cooperazione intergovernativa si applicherà in 3 diversi campi:

1. CAMPO MILITARE:

UEO (UNIONE EUROPA OCCIDENTALE): trattato di Bruxelles del 17 marzo 1948; vi parteciparono membri a pieno titolo, membri osservatori e membri partner. Organo fondamentale era il Consiglio, che decideva all’unanimità ed era composto da rappresentanti permanenti dei vari Stati. Attuò per un determinato periodo la PESC;

NATO (ORGANIZZAZIONE DEL TRATTATO NORD ATLANTICO): trattato di Washington del 4 aprile 1949; organizzazione non solo europea sotto il profilo geografico, data la partecipazione di Stati Uniti e Canada. Organo principale: Consiglio del Nord Atlantico, cui partecipano i membri permanenti di ogni Stato, accompagnati dai ministri degli esteri e della difesa. Le decisioni vengono prese all’unanimità e non hanno carattere vincolante.

2. CAMPO ECONOMICO: occorreva dare applicazione al piano Marshall, il piano di aiuti economici da parte degli USA nei confronti di un Europa distrutta dalla guerra.

OECE (ORGANIZZAZIONE EUROPEA PER LA COOPERAZIONE ECONOMICA): trattato di Parigi del 16 aprile 1948. Organo principale: Consiglio, formato da un rappresentante per ogni Stato. Esso decide all’unanimità o a maggioranza, qualora quest’ultima sia stata deliberata comunque da tutti gli Stati. Tra l’altro agli Stati contrari non si applica tale disciplina (NO CARATTERE VINCOLANTE). Esaurita la funzione originaria, l’OECE sarebbe dovuta diventare una zona di libero scambio, il che avvenne per alcuni Stati, tra cui AUS-SVI-UK-SVE-NOR-DAN-POR, i quali diedero vita all’AELE (ASSOCIAZIONE EUROPEA LIBERO SCAMBIO), anche detta EFTA. Altri Stati invece, tra cui GER-ITA-FRA-BEL-OLA-LUX decisero di ampliare la cooperazione e diedero vita alle 3 Comunità europee, alle quali aderiranno in seguito anche gli Stati dell’AELE. L’OECE, invece, si trasformerà con il trattato di Parigi del 1960 in OCSE (ORGANIZZAZIONE PER LA COOPERAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO).

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3. CAMPO POLITICO/SOCIALE/CULTURALE: nacque l’esigenza di collaborare e di unirsi anche sotto una serie di principi comuni, di salvaguardare alcuni interessi fondamentali e di favorire il progresso.

CONSIGLIO D’EUROPA: nacque con il trattato di Londra del 5 maggio 1949. Organo principale: Comitato dei ministri, formato dai ministri degli esteri dei vari Stati. Strumento d’azione del Comitato sono le Convenzioni internazionali, tra cui la più importante fra tutte è sicuramente la CONVENZIONE PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTA’ FONDAMENTALI firmata a Roma il 4 novembre del 1950 (nacque anche la Corte europea dei diritti dell’uomo).

Il metodo tradizionale, benché molto utile, presentava però delle importanti debolezze proprio nei suoi punti chiave. Ecco perché si decise di applicare un metodo più innovativo, definito come COMUNITARIO.

Il metodo comunitario si basa su 3 principi:

Presenza di organi di individui ≠dagli organi di Stati presenti nel metodo tradizionale: i soggetti rappresentano se stessi e sono indipendenti dallo Stato di appartenenza;

Prevalenza del metodo decisionale maggioritario e presenza di atti vincolanti ed obbligatori per tutti, anche per coloro in minoranza;

Presenza di un organo giurisdizionale di controllo di legittimità degli atti scaturenti dai vari organi.

PROFILO STORICO METODO COMUNITARIO

Il metodo comunitario ed il concetto di Europa fortemente legata sotto diversi profili nacque con la DICHIARAZIONE SCHUMAN del 9 maggio 1950. Schuman, l’allora ministro degli esteri francese, parlò nel suo discorso di “Europa dei piccoli passi”, un’Europa più unita e coesa nei fatti che nelle parole e propose di porre sotto il controllo di un’Alta Autorità, con potere vincolante ed indipendente, il settore carbo-siderurgico francese e tedesco. A tale accordo avrebbero potuto aderire anche altri Stati. In realtà la Francia mirava a diventare il partner ideale degli Stati Uniti, sostituendo così il Regno Unito. Inoltre gli USA premevano per un veloce riarmo tedesco per fronteggiare il blocco filo-sovietico, fatto preoccupante per la Francia, dato che proprio dal riarmo della Germania era partita la Seconda Guerra Mondiale. Si arrivò quindi nel 1951 al Trattato istitutivo della CECA (Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio), cui aderirono Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Olanda ed Italia (la quale non voleva rimanere fuori dagli stretti rapporti che sarebbero scaturiti da tale accordo). Si ebbe così il concetto di PICCOLA EUROPA.

La CECA prevedeva un mercato comune carbo-siderurgico e si presentava come un ENTE SOVRANNAZIONALE, ossia con potere di vincolare anche soggetti privati di quel settore. Presentava, inoltre, 4 istituzioni:

L’ALTA AUTORITA’, organo di individui (un membro per ogni Stato) con il compito di applicare il Trattato e con il potere di emanare atti vincolanti in tutti i loro elementi (direttive) o solo negli scopi (raccomandazioni);

il Consiglio Speciale dei Ministri, che contava un rappresentante per ogni Stato ed aveva funzione consultiva, con il solo potere di fornire PARERE VINCOLANTE su alcune materie all’Alta autorità;

l’Assemblea Comune, formata dai rappresentanti dei Parlamenti nazionali, che aveva funzione consultiva;

la Corte di Giustizia, organo adibito al controllo giurisdizionale degli atti dell’Alta autorità.

In seguito si cercò di attuare la medesima cooperazione anche nel settore della difesa, tramite la creazione della CED (Comunità Europea Difesa), all’interno della quale un’istituzione, definita come Commissione, avrebbe avuto lo stesso ruolo dell’ Alta Autorità. In realtà il trattato sulla CED non venne mai ratificato, specialmente dalla Francia. Non avendo un potere politico comune alle spalle, la CED non avrebbe mai potuto garantire in egual misura la difesa dei vari territori. Inoltre i singoli Stati avrebbero perso la propria sovranità, rinunciando al supremo potere di comando.

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Nella Conferenza di Messina del 1955 venne istituito un apposito Comitato con il compito di ampliare l’esperienza della CECA anche ad altri ambiti.

Nel 1957 si arrivò, dunque, alla firma dei Trattati di Roma, definiti come TRATTATI DELLA COMUNITA’ EUROPEA (TCE) con i quali vennero istituite la CEE (COMUNITA’ ECONOMICA EUROPEA) e la CEEA (COMUNITA’ EUROPEA PER L’ENERGIA ATOMICA, anche detta Euratom). Furono previste 4 istituzioni: la COMMISSIONE, corrispondente all’Alta Autorità della Ceca, il CONSIGLIO, con ampio potere normativo, l’ASSEMBLEA PARLAMENTARE e la CORTE DI GIUSTIZIA.

I due trattati istitutivi della CECA e della CEE erano ben diversi tra loro. Il trattato istitutivo della CECA era un trattato-legge, all’interno del quale era già prevista l’intera disciplina che, un organo amministrativo, ossia l’ALTA AUTORITA’, avrebbe semplicemente dovuto applicare. Il trattato della CEE, invece, era un trattato-quadro, ossia fissava semplicemente dei principi che, un organo legislativo, ossia il CONSIGLIO, avrebbe dovuto meglio disciplinare. Ecco perché anche la stessa Corte di Giustizia assunse due ruoli diversi: nei confronti della CECA era un giudice amministrativo, mentre verso la CEE si presentava come organo di controllo della conformità degli atti legislativi del Consiglio con il trattato-quadro.

In seguito si cercò di unificare le 3 Comunità, senza però mai riuscirci.

Già con i Trattati di Roma del 1957 si unificarono 2 istituzioni: l’Assemblea Parlamentare e la Corte di giustizia.

Con il Trattato di Bruxelles del 1965 si unificarono le altre 2: Commissione e Consiglio (sparì quindi l’Alta Autorità, sostituita in tutto e per tutto dalla Commissione).

Ovviamente, però, le istituzioni assumevano diversi ruoli di operatività a seconda della Comunità con la quale si rapportavano. Va, inoltre, ricordato che la CECA è scomparsa nel 2001, benché ci fosse la possibilità di rinnovarla.

ALLARGAMENTO DEI PAESI MEMBRI

Col passare del tempo il processo di integrazione ha coinvolto un numero sempre maggiore di Stati: si è passati dai 6 membri originari (Piccola Europa) a ben 27 Stati (gli ultimi dei quali sono stati la Romania e la Bulgaria nel 2007). Altri Paesi, inoltre, hanno lo status di “candidati” e sono la Turchia, la Croazia e la Repubblica indipendente di Macedonia.

PROBLEMA DEL DEFICIT DEMOCRATICO

Benché il metodo comunitario sia stato adottato sempre maggiormente dalla Comunità Europea , permane il mancato rispetto del principio della democrazia parlamentare: il Consiglio, che è l’organo di maggior rilievo, è formato dai rappresentanti dei governi degli Stati, non dei loro parlamenti. Sarebbe bastato dare maggior rilievo all’Assemblea Parlamentare, invece che al Consiglio.

Nel tempo, però, il ruolo ed i poteri dell’Assemblea Parlamentare sono notevolmente cresciuti.

PRIMA TAPPA = Nel 1970 e nel 1975 si sono avuti, rispettivamente, il Trattato di Lussemburgo e quello di Bruxelles, definiti come Trattati Bilancio: all’interno di essi è stato previsto il sistema delle RISORSE PROPRIE, ossia l’Europa gode di un proprio bilancio e non di singoli finanziamenti da parte degli Stati membri. Inoltre il Bilancio delle Comunità deve essere approvato non solo dal CONSIGLIO, ma anche dall’Assemblea Parlamentare, seppur in modo diverso. Si è osservato, infatti, che debba essere un organo rappresentativo del popolo a provvedere all’approvazione delle spese. In realtà sino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 2007, avvenuta nel dicembre 2009, il Consiglio poteva approvare SPESE OBBLIGATORIE E NON, mentre l’Assemblea poteva approvare solo le SPESE NON OBBLIGATORIE, potendo solo proporre delle modifiche alle SPESE OBBLIGATORIE e salvo il diritto di RIGETTARE L’INTERO BILANCIO X IMPORTANTI MOTIVI. Il trattato di Lisbona ha eliminato tale differenza.

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SECONDA TAPPA: si decise di dare applicazione ad una norma del TCE che prevedeva l’elezione a suffragio universale diretto dei parlamentari europei, diversamente da ciò che avveniva in precedenza, quando erano i Parlamenti nazionali a nominare i parlamentari europei.

TERZA TAPPA: nel 1986 venne firmato l’AUE (ATTO UNICO EUROPEO) con il quale:

L’Assemblea Parlamentare mutò il proprio nome in PARLAMENTO EUROPEO;

Venne introdotta la procedura del PARERE CONFORME: occorreva l’assenso del Parlamento x alcuni atti del Consiglio;

Venne introdotta la procedura di COOPERAZIONE: il Parlamento proponeva delle modifiche ad alcuni atti del Consiglio che, se NON ACCETTATE, avrebbero obbligato lo stesso a decidere all’UNANIMITA’.

QUARTA TAPPA: partendo dal progetto Spinelli del 1984, venne firmato il TRATTATO SULL’UNIONE EUROPEA (TUE) il 7 febbraio 1992 a Maastricht, il quale introdusse la PROCEDURA DI COODECISIONE: nessuna Istituzione avrebbe potuto imporre qualcosa ad un’altra.

Va sottolineato però che in due PILASTRI dell’Unione Europea, la PESC e la CGAI, il Parlamento ha conservato poteri molto limitati, almeno sino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.

LA RESIDUA ESISTENZA DEL METODO TRADIZIONALE

Nonostante l’ampliamento dei poteri del Parlamento Europeo, è sempre esistita una tendenza al metodo tradizionale. E’ sufficiente pensare alla nascita del CONSIGLIO EUROPEO nel 1961, nato per ovviare alle mancanze del Consiglio delle Comunità, incapace molto spesso di dare nuovi impulsi. Al Consiglio Europeo prendono parte i capi di Stato o di governo dei vari Paesi, accompagnati dai ministri degli esteri ed esso non è un organo delle Comunità, bensì dell’UNIONE. Le proprie deliberazioni avvengono all’unanimità, o al massimo PER CONSENSUS, ossia senza l’opposizione di alcuno.

Oppure possiamo sottolineare la continua opposizione di diversi Stati al metodo comunitario: la Francia nel 1965 decise di non partecipare più alle riunioni del Consiglio delle Comunità Europee, creando la cosiddetta CRISI DEL SEGGIO VUOTO. In quell’occasione fu necessario il COMPROMESSO DI LUSSEMBURGO del 1966, che garantì, agli Stati contrari ad una decisione del Consiglio per motivi d’interesse nazionale, una discussione più lunga per raggiungere un accordo. Col tempo ciò si trasformò in un vero e proprio diritto di veto, prima di cadere in desuetudine.

Poi vi fu il problema della MINORANZA DI BLOCCO, ossia del numero di voti utili per evitare la formazione della MAGGIORANZA QUALIFICATA e bloccare una determinata decisione. Si temeva, infatti, una scarsa salvaguardia dei diritti degli Stati contrari. Per tale motivo si decise, con il COMPROMESSO DI IOANNINA del 1994, che dinanzi ad una minoranza rilevante, benché non sufficiente ad evitare la formazione di una maggioranza qualificata, non si passasse subito al voto, ma si discutesse per un tempo ragionevole.

INTRODUZIONE DELL’UNIONE EUROPEA

Con il passare del tempo l’esigenza di aumentare i settori di cooperazione tra i vari Stati europei ha portato molto spesso alla modifica dei TCE. Nuove competenze furono attribuiti anche dall’AUE del 1986 e dal TUE del 1992.

Il tutto, però, è sempre stato assoggettato al metodo comunitario, SALVO CHE X ALCUNI ASPETTI, quali la POLITICA ESTERA: il TCE attribuiva competenza comunitaria solo agli scambi internazionali commerciali. Per quanto riguardava, invece, gli scambi di tipo NON commerciale occorreva che gli Stati stringessero tra loro accordi specifici. Questo fino a quando l’AUE non disciplinò la CPE (COOPERAZIONE NEL SETTORE DELLA POLITICA ESTERA). Inizialmente CPE e CEE avevano organi e ruoli indipendenti. Il TUE, però, trasformò la CPE in PESC (POLITICA ESTERA DI SICUREZZA

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COMUNE), creando un TERZO SETTORE, ossia la CGAI (COOPERAZIONE NEL SETTORE DELLA GIUSTIZIA E DEGLI AFFARI INTERNI).

3 CE + PESC + CGAI = sono i 3 pilastri dell’UNIONE EUROPEA, configurata come un tempio, il cui frontone è costituito dalle disposizioni comuni contenute nel TUE, mentre il basamento è costituito dalle disposizioni finali, specialmente quelle contenute negli articoli 48 e 49, inerenti rispettivamente le procedura di modifica dei trattati e l’adesione di nuovi Stati. I tre pilastri hanno istituzioni uniche: Consiglio, Parlamento e Commissione. Le ultime due, però, hanno scarsa importanza all’interno della PESC e della CGAI.

Con i trattati di Amsterdam (1996) e di Nizza (2001) molte materie del pilastro GAI (diritto d’asilo, visti, immigrazione) sono confluite nel primo pilastro e quindi sono state comunitarizzate. All’interno dei GAI rimane solo la COOPERAZIONE IN MATERIA DI POLIZIA E GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE.

Il metodo della maggioranza qualificata è stato introdotto anche nel II e III pilastro. All’interno di quest’ultimo è stata inserita anche la Corte di Giustizia.

NOTA BENE: col trattato di Lisbona è sparita del tutto la distinzione tra I & III PILASTRO, unificati nel TF (TRATTATO SUL FUNZIONAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA), mentre il II PILASTRO è rimasto indipendente (nuovo testo TUE).

EUROPA A GEOMETRIA VARIABILE

Il passaggio dal metodo tradizionale a quello comunitario ha fatto in modo che quest’ultimo, nel tempo, si modificasse notevolmente, accogliendo diverse soluzioni intergovernative:

1. L’accrescimento del ruolo del Consiglio Europeo.

2. Forme di COOPERAZIONE DIFFERENZIATA, che hanno creato il concetto di EUROPA A GEOMETRIA VARIABILE O EUROPA A PIU’ VELOCITA’: quando i Paesi membri si rendono conto che, per poter inglobare un nuovo settore nella competenza comunitaria, occorrerebbe la modifica di un trattato e quindi l’approvazione di tutti gli Stati membri e che alcuni di essi potrebbero non essere d’accordo, OPTANO per accordi tra i singoli Stati, ai quali più in là nel tempo potranno aderire tutti:

ESEMPIO 1 = ACCORDO DI SCHENGEN tra GER-FRA-BEL-OLA-LUS per eliminare i controlli alle frontiere e coordinare la politica d’immigrazione (la disciplina è stata integrata nel sistema dell’Unione Europea dopo il trattato di Amsterdam, MA non si applica a tutti (cooperazione rafforzata)gli Stati (es. Regno Unito);

ESEMPIO 2 = ACCORDO SULLA POLITICA SOCIALE, PROTOCOLLO ALLEGATO AL TUE. Solo 11 Paesi su 12 erano d’accordo a conferire tale potere, inerente la politica sociale, alle Comunità. Solo il Regno Unito si oppose. Il protocollo fu abrogato con il Trattato di Amsterdam e le nuove disposizioni si applicano a tutti gli Stati;

ESEMPIO 3 = UNIONE ECONOMICA E MONETARIA (UEM). Vi era la presenza di clausole di OPTING OUT che permisero a Danimarca e Regno Unito di non aderire;

ESEMPIO 4 = Esclusione delle misure comunitarie nel settore dei visti, dei diritti d’asilo, dell’immigrazione e della circolazione dei cittadini di Paesi terzi per quanto concerne 3 Stati: Regno Unito, Irlanda e Danimarca.

NOTA BENE: E’ stato il Trattato di Amsterdam a creare un istituto che permette l’adozione di iniziative d’integrazione comunitaria SOLO ad alcuni Stati. L’istituto è quello della COOPERAZIONE RAFFORZATA.

SVILUPPI DELL’INTEGRAZIONE: TRATTATO SULLA COSTITUZIONE EUROPEA

PERCORSO DI CREAZIONE DELL’UNIONE EUROPEA:

1986 = AUE = ATTO UNICO EUROPEO

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1992 = TUE = TRATTATO DELL’UNIONE EUROPEA DI MAASTRICHT

1997 = TRATTATO DI AMSTERDAM

2001 = TRATTATO DI NIZZA

Con il TUE si decise di stabilire in ciascun trattato quando si sarebbe riunita la prossima CIG (CONFERENZA INTERGOVERNATIVA) e quali temi si sarebbero trattati. Inoltre fu prevista la possibilità di allegare delle DICHIARAZIONI agli stessi trattati.

Col Trattato di Nizza si ebbero 2 dichiarazioni:

Dichiarazione relativa all’ALLARGAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA,inerente la composizione di organi ed istituzioni dopo l’ingresso di 10/12 nuovi Stati membri;

Dichiarazione relativa al futuro dell’Europa, la quale prevedeva che nel 2004 si sarebbe tenuta una CIG di revisione, ma che già nel 2001 a LAEKEN (Belgio)si sarebbe adottata una dichiarazione con iniziative appropriate.

Il Consiglio nel dicembre 2001 approvò la DICHIARAZIONE DI LAEKEN, la quale pose diverse domande di non facile risposta inerenti, per esempio, il ruolo del Parlamento Europeo. La suddetta dichiarazione stabilì di convocare una Convenzione, con membri dei Parlamenti nazionali, del Parlamento Europeo e della Commissione, oltre ai Capi di Stato, con il fine di dare delle risposte e di cercare delle SOLUZIONI.

La Convenzione avrebbe dovuto redigere il documento di partenza per le decisioni finali da parte della CIG e così fu: il 18 luglio 2003 venne trasmesso al Presidente del Consiglio Europeo il progetto di Trattato che istituisse una COSTITUZIONE EUROPEA.

La CIG del 2003 non raggiunse un accordo e sospese i lavori, ripresi poi nel 2004. Il Trattato in questione venne approvato il 29 ottobre 2004 a Roma e prevedeva una divisione in 4 PARTI (contraddistinte da numeri romani) ed in 488 ARTICOLI (contraddistinti da numeri arabi).

La I PARTE avrebbe avuto al suo interno NORME ETEROGENEE IN VARIE MATERIE;

La II PARTE avrebbe riprodotto fedelmente la CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA;

La III PARTE avrebbe contenuto un’unione ed un miglioramento del TCE e del TUE;

La IV PARTE avrebbe indicato NORME GENERALI E FINALI.

Infine ci sarebbero stati 36 PROTOCOLLI & 50 DICHIARAZIONI ALLEGATE.

Il Trattato Costituzionale, però, necessitava di una ratifica da parte degli Stati membri. Solo 18 lo ratificarono, mentre in alcuni Paesi (vedi la Francia) i referendum popolari ne bloccarono la ratifica.

A quel punto:

O si rinegoziava il trattato;

O si ratificava la sola I PARTE (IMPOSSIBILE PERCHE’ COLLEGATA ALLE ALTRE);

O il trattato entrava in vigore solo per gli Stati che lo avevano ratificato (IMPOSSIBILE PERCHE’ SI SAREBBE AVUTA UNA FRANTUMAZIONE DELL’EUROPA).

Si decise che fosse una nuova CIG a predisporre un NUOVO TESTO DI TRATTATO.

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Il Consiglio Europeo di Bruxelles del 21/22 giugno 2007 decise la convocazione di una CIG che incorporasse nel TUE e nel TCE le innovazione del trattato costituzionale, eliminando i motivi della mancata ratifica da parte di diversi Paesi.

Il Trattato di modifica si ebbe il 13 dicembre 2007 a LISBONA.

Vi furono, però, una serie di ELEMENTI DI CONTINUITA’ tra il trattato costituzionale ed il trattato di Lisbona ed altrettanti ELEMENTI DI DISCONTINUITA’.

ELEMENTI DI CONTINUITA’:

1. Il Consiglio Europeo è riconosciuto come vera e propria istituzione;

2. Il Presidente del Consiglio Europeo dura in carica 2 anni e mezzo;

3. NUOVA CARICA di ALTO RAPPRESENTANTE per gli affari esteri e la politica di sicurezza;

4. Riduzione del numero dei parlamentari europei e dei componenti della Commissione;

5. GENERALIZZAZIONE della procedura legislativa ordinaria (ex procedura di coodecisione);

6. Abolizione STRUTTURA A TRE PILASTRI.

ELEMENTI DI DISCONTINUITA’ = si procede ad una DE – costituzionalizzazione della riforma che numerose manifestazioni:

1. MANIFESTAZIONI DI CARATTERE FORMALE:

Concetto di UNICA Costituzione ABBANDONATO;

TUE & TCE vengono emendati, ma NON ABROGATI; restano 2 trattati: il TUE è riscritto completamente, mentre il TCE diventa TF (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) e contiene disposizioni meno importanti di quelle del TUE.

2. MANIFESTAZIONI DI CARATTERE TERMINOLOGICO:

I termini “costituzione” e “costituzionale” sono SOPPRESSI;

I simboli dell’Unione (bandiera, inno, ecc.) sono SOPPRESSI;

Il MINISTRO DEGLI ESTERI dell’UE è chiamato ALTO RAPPRESENTANTE;

Non figurano tra gli atti NE’ leggi NE’ leggi-quadro.

3. MANIFESTAZIONI DI CARATTERE CONTENUTISTICO:

NO al primato del DIRITTO dell’Unione Europea su quello degli altri Stati membri;

La II PARTE del Trattato Costituzionale, che avrebbe riprodotto la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea VIENE ELIMINATA, benché la stessa Carta sia riconosciuta al pari dei trattati;

L’Unione non può approvare leggi.

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Inoltre bisogna tener presente che si è dato ampio spazio alla possibilità che l’Unione Europea possa regredire, ossia tornare sui propri passi e si è impedito che le competenze della stessa si espandessero.

Contrariamente a ciò che dice il libro di testo, il Trattato di Lisbona è entrato in vigore il 1 dicembre 2009, dopo le ultime ratifiche da parte di Germania, Repubblica Ceca, Polonia ed Irlanda.

PARTE I – Il quadro istituzionale

Considerazione generali

La struttura dell’Unione Europea è abbastanza complessa. All’interno di essa operano organi che, per l’importanza del proprio operato, vengono definiti come ISTITUZIONI e sono:

Consiglio;

Parlamento Europeo;

Commissione;

Corte di giustizia.

Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona è stato istituzionalizzato anche un organo, esistente da tempo, che operava già all’interno dell’Unione, il CONSIGLIO EUROPEO. Inoltre il Trattato di Lisbona ha modificato il nome di alcune istituzioni: la Commissione è diventata COMMISSIONE EUROPEA, mentre la Corte di giustizia non è più delle Comunità, bensì dell’Unione.

Inoltre bisogna sottolineare che sia per le Comunità, quanto per l’Unione, vi è un QUADRO ISTITUZIONALE UNICO, garantito dall’art. 3 del TUE, che assicura il rispetto del primo principio cardine dell’Unione, ossia il PRINCIPIO DI COERENZA, il quale prevede che le azioni svolte dalle varie istituzioni siano tra loto COORDINATE. A conferma di tale principio vi è anche il COMMA 2 del suddetto art.3: il principio di coerenza assume maggior rilievo per quanto concerne l’AZIONE ESTERNA delle istituzioni. L’azione esterna, infatti, è composta da un lato dalle azioni e dalle politiche comunitarie aventi rilievo esterno (politica commerciale comune, politica di sviluppo ecc.), mentre da un altro lato prevede la Politica estera di sicurezza comune (PESC). Le due politiche non devono in alcun modo entrare in contrasto tra loro: responsabili per il rispetto del principio di coerenza sono il Consiglio e la Commissione.

Ad assicurare tale coerenza, inoltre, vi è, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’ALTO RAPPRESENTANTE PER GLI AFFARI ESTERI DELL’UNIONE EUROPEA, il quale è sia Presidente del Consiglio degli Affari Esteri, sia vicepresidente della Commissione. Egli garantirà, più di tutti, azioni che non entrino in contrasto tra loro in alcun modo.

Altro principio chiave dell’Unione è sicuramente il PRINCIPIODI ATTRIBUZIONE (detto anche dell’EQUILIBRIO ISTITUZIONALE), sancito dall’art. 5 del TUE e dall’art.7 COMMA 2 del TCE: ogni istituzione deve rispettare le attribuzioni di potere concesse alle altre istituzioni dai vari trattati e non deve compiere atti in contrasto con tale previsione, onde evitare di incorrere nel VIZIO D’ INCOMPETENZA DELL’ATTO, che ne decreterebbe l’illegittimità.

N.B. il principio qui in esame riguarda le diverse attribuzioni delle istituzioni e NON all’omonimo principio riguardante le Comunità Europee, il quale vieta alle stesse di occuparsi di materie non attribuite alla competenza delle stesse dal TCE.

Inoltre va segnalato un terzo principio, quello della LEALE COLLABORAZIONE, individuato dalla Corte di Giustizia nella propria giurisprudenza: le istituzioni devono collaborare lealmente tra di loro e con gli Stati membri.

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Infine vi è il PRINCIPIO DEL RISPETTO DELL’ACQUIS COMUNITARIO. Per acquis si intende il diritto comunitario ed in particolare gli atti delle istituzioni che si sono succeduti nel corso del tempo, oltre alla giurisprudenza della Corte di giustizia. Le istituzioni devono operare rispettando tale principio e quindi, in un certo senso, non possono regredire nel proprio operato, in quanto entrerebbero in contrasto con il precedente acquis. Anche gli Stati candidati ad entrare a far parte dell’Unione devono dimostrare di poter rispettare l’acquis comunitario. Alcuni problemi potrebbero sorgere tra il principio del rispetto dell’acquis ed il principio di sussidiarietà: quest’ultimo permetterebbe all’Unione di tornare sui suoi passi e di restringere l’ambito del proprio operato qualora ravvisasse la mancanza dei presupposti per dar luogo ad un’azione comunitaria. Il nuovo TF, inoltre, sembra deporre a favore di questa tesi, laddove è previsto che gli Stati membri esercitino nuovamente la loro competenza nel momento in cui l’Unione cessi di esercitare la propria.

RIASSUMENDO = i principi sono quattro:

Principio di coerenza: azioni delle istituzioni coordinate tra loro;

Principio d’attribuzione: l’azione delle istituzioni è vincolato all’attribuzione di competenza fatta dai trattati;

Principio di leale collaborazione: le istituzioni devono collaborare tra loro e con gli Stati membri;

Principio dell’acquis: si osserva il diritto comunitario dei trattati e della giurisprudenza;

Le Istituzioni, non contando il Consiglio Europeo da poco riconosciuto come tale, sono 5:

ISTITUZIONI POLITICHE CHE PARTECIPANO ALLA POLITICA ATTIVA DELL’UNIONE

CONSIGLIO;

COMMISSIONE EUROPEA;

PARLAMENTO EUROPEO;

ISTITUZIONI DI CONTROLLO, CHE CONTROLLANO L’OPERATO DELLE ISTITUZIONI POLITICHE

CORTE DI GIUSTIZIA, ORGANO GIURISDIZIONALE DI CONTROLLO;

CORTE DEI CONTI, CHE HA IL CONTROLLO CONTABILE SULLE ENTRATE E SULLE SPESE.

IL PARLAMENTO EUROPEO

Originariamente il Parlamento Europeo era denominato come Assemblea, in un primo momento, e come Assemblea parlamentare in un secondo. Nel 1986 con la firma dell’AUE ha acquisito il nome di Parlamento. I propri membri sono eletti a suffragio universale diretto da parte dei cittadini dell’Unione, di cui sono dei rappresentanti (come previsto dal Trattato di Lisbona). Inizialmente, invece, i membri del Parlamento venivano nominati dai Parlamenti nazionali.

Alla base dell’elezione vi è una procedura elettorale uniforme per tutti gli Stati membri, la quale prevede alcune regole fondamentali, quali quelle inerenti il regime di incompatibilità, il principio di un solo voto per ogni elettore, il periodo di svolgimento delle elezioni ed il periodo di spoglio delle schede. Il resto della disciplina è rimesso ad ogni Stato membro: l’Italia, per esempio, ha optato per un sistema proporzionale e per una divisione in cinque circoscrizioni. Il nuovo art. 190 par.4 del TCE ha previsto, inoltre, due fondamentali disposizioni: il sistema deve essere obbligatoriamente proporzionale, con scrutinio per l’elezione che deve essere di lista o uninominale preferenziale (è concessa la divisione degli Stati membri in circoscrizioni, ma sempre su base proporzionale); inoltre vi è il divieto del

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doppio mandato: è impossibile rivestire contemporaneamente la carica di parlamentare europeo e di parlamentare nazionale.

La durata del mandato è di 5 anni. Il numero totale di membri è pari a 751, suddivisi in base alla popolazione di ogni Stato membro. Originariamente dovevano essere, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, 750, ma l’Italia si oppose al fatto che Francia e Regno Unito avrebbero avuto più seggi e si optò per l’assegnazione del 751esimo allo Stato italiano.

Organo principale del PE è il Presidente, che dirige i lavori e rappresenta l’istituzione, assistito da 14 vice-presidenti e dall’Ufficio di presidenza. I parlamentari sono divisi in GRUPPI POLITICI, ognuno dei quali deve contare almeno 19 componenti provenienti almeno da 1/5 degli Stati membri. Presidente del PE e Presidenti dei gruppi danno vita alla Conferenza dei presidenti.

Il PE lavora in aula, dove partecipano tutti i membri, oppure in commissione. Vi sono due tipi di commissioni: quelle permanenti, previste dal regolamento parlamentare e che si ripartiscono le competenze affidate all’istituzione, e quelle temporanee d’inchiesta.

Il PE svolge DUE IMPORTANTI FUNZIONI: la funzione di CONTROLLO POLITICO e quella di PARTECIPAZIONE ALL’ADOZIONE DEGLI ATTI DELL’UNIONE (congiuntamente al Consiglio esercita la funzione legislativa e quella di bilancio). Inoltre è il Parlamento ad eleggere il Presidente della Commissione Europea.

FUNZIONE DI CONTROLLO POLITICO

I documenti attraverso i quali il PE viene a conoscenza ufficialmente dell’operato delle altre istituzioni sono:

RELAZIONE GENERALE ANNUALE, presentata dalla Commissione ed inerente i lavori della stessa;

Relazioni su specifici campi ricevute dalla Commissione;

RELAZIONE SCRITTA ANNUALE, presentata dal CONSIGLIO EUROPEO ed inerente la propria attività;

Informazioni circa la PESC, ricevute dalla Presidenza del Consiglio e dalla Commissione.

Il PE può reperire autonomamente informazioni tramite INTERROGAZIONI & AUDIZIONI. Con le interrogazioni un parlamentare europeo può chiedere conto del proprio operato alla Commissione e nella prassi anche al Consiglio. Alle sedute parlamentari possono prendere la parola su richiesta anche membri della Commissione e del Consiglio (audizioni).

Oltre ai suddetti canali istituzionali, vi è poi tutta una serie d’informazioni che il PE può ricevere dai singoli individui, i quali possono rivolgere:

PETIZIONI inerenti materie per cui sono competenti le Comunità. Possono rivolgere tali petizioni i cittadini dell’Unione o anche persone fisiche/giuridiche residenti negli Stati membri. Occorre dimostrare sempre il proprio interesse a ricorrere alla petizione da parte dell’autore;

RICORSO AL MEDIATORE EUROPEO: possono rivolgersi a questa carica, nominata dal PE, i medesimi soggetti che hanno il diritto di petizione, SOLO su casi che abbiano ad oggetto la CATTIVA AMMINISTRAZIONE NELL’AZIONE DELLE ISTITUZIONI O DEGLI ORGANI COMUNITARI. Il Mediatore, ricevuto il ricorso, effettua le proprie indagini e se ritiene fondato lo stesso, si rivolge all’istituzione interessata, la quale ha tre mesi per dare il proprio parere. Sulla base delle risposte, il Mediatore elabora una relazione finale che consegna all’istituzione interessata, al PE e di cui viene informato anche l’autore del ricorso;

DENUNCE d’infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto comunitario. Il PE può decidere per l’istituzione di una Commissione temporanea d’inchiesta, eccetto nel caso in cui i fatti siano

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pendenti dinanzi alla giurisdizione europea o dello Stato membro.

Il PE ha però POTERI SANZIONATORI SOLO nei confronti della Commissione, alla quale può votare la MOZIONE DI CENSURA. Essa non entra in discussione prima che siano trascorsi 3 giorni dal deposito della stessa, deve essere votato con scrutinio pubblico e approvata da almeno due terzi dei voti espressi. In caso di approvazione i membri della Commissione dovrebbero immediatamente abbandonare le loro funzioni: uso il condizionale perché ciò non si è mai verificato, se non nel caso di MINACCIA di ricorrere alla mozione di censura, che portò delle dimissioni della Commissione nel 1999.

Il PE non ha, invece, alcun potere sanzionatorio sul Consiglio: sembra quasi inconcepibile che l’organo eletto dal popolo non possa in alcun modo inficiare l’operato dell’organo esecutivo, anche se ciò è legittimo in forza del fatto che il Consiglio non ha approvazione popolare. Le due istituzioni sono pertanto ben distinte e pari-ordinate, come sottolineato dal Trattato di Lisbona.

Il Parlamento, però, per tutelare le proprie prerogative può ricorrere dinanzi alla Corte di Giustizia, sollevando il fatto che il Consiglio abbia operato senza rispettare il ruolo del Parlamento. Inizialmente al Parlamento non era concesso questo potere, garantito solo a partire dal giudizio positivo in proposito della Corte di Giustizia, poi estrinsecato nel Trattato di Nizza del 2001.

IL CONSIGLIO ED IL CONSIGLIO EUROPEO

Sia il Consiglio che il Consiglio europeo sono organi di stati in quanto composti da soggetti che rappresentano direttamente il proprio Stato membro. Ciò deriva da un’originaria applicazione del metodo tradizionale di cooperazione intergovernativa per il processo di integrazione europea.

Partiamo dal Consiglio, istituzione più longeva rispetto al Consiglio europeo, in quanto prevista dal TCE del 1957. Esso è composto da un componente per ogni Stato membro, il quale deve avere il potere di impegnare lo Stato al quale appartiene per quanto concerne le decisione da prendere. Occorre che tale soggetto sia un ministro, competente a seconda della materia all’ordine del giorno, o comunque un rappresentante regionale di rango ministeriale, il che avviene soprattutto per gli Stati federali (es. Germania). Per quanto riguarda l’Italia anche un Presidente di giunta regionale o di una Provincia autonoma potrebbe rappresentare lo Stato italiano, qualora fosse delegato dallo stesso Governo in sede di Conferenza Stato – Regioni e solo nelle materie in cui le regioni hanno competenza esclusiva.

Va segnalato, inoltre, che alle decisioni italiane in sede di Consiglio devono partecipare diversi organi dello Stato italiano, quali il Parlamento, le Regioni e le Province autonome, gli altri enti territoriali, le parti sociali e le categorie produttive: il Presidente del Consiglio italiano e/o il Ministro per le politiche comunitarie hanno l’OBBLIGO DI INFORMARE i suddetti per quanto concerne gli atti di matrice comunitaria da approvare in sede di Consiglio e i documenti preparatori. Inoltre occorre anche rispettare un obbligo di consultazione che varia a seconda dei soggetti interessati. Il Governo italiano, in sede di Consiglio, deve apporre una RISERVA DI ESAME PARLAMENTARE, lasciando 20 giorni al Parlamento italiano per discutere dell’atto comunitario in questione. Questo meccanismo può essere attivato su iniziativa dello stesso Parlamento, qualora esso abbia iniziato l’esame di un progetto attinente, o su iniziativa del Governo, qualora la materia trattata abbia particolare rilevanza politica, economica e sociale. Un simile strumento può essere adottato per la partecipazione delle Regioni, qualora l’atto comunitario riguardi una materia su cui hanno competenza esclusiva le stesse: in tal caso in sede di Conferenza Stato – Regioni va raggiunta un “intesa” col Governo italiano, altrimenti potrà essere richiesta una riserva di esame simile a quella parlamentare.

Il Consiglio, differentemente da altre istituzioni europee, non è un organo permanente, ossia esso si riunisce di volta in volta e con membri diversi: solitamente sono i ministri competente per materia all’ordine del giorno. Tuttavia è previsto dagli stessi TCE e TUE che alla riunione del Consiglio partecipino i Capi di Stato e di Governo, qualora si debba decidere su una grave infrazione da parte di uno Stato membro o sulla partecipazione di uno Stato all’UEM.

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Il Trattato di Lisbona, inoltre, ha previsto il CONSIGLIO AFFARI GENERALI & il CONSIGLIO AFFARI ESTERI. Il primo si occuperà di preparare le riunioni del Consiglio Europeo, mentre il secondo si occuperà di elaborare l’azione esterna dell’Unione, secondo quanto deliberato dal Consiglio Europeo e sarà presieduto dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

La PRESIDENZA del Consiglio è affidata, a turno, ad un rappresentante di uno Stato membro e dura sei mesi. Il soggetto in questione è anche presidente del Consiglio Europeo e rappresenta l’Unione, oltre ad avere altri compiti: riunire il Consiglio, sceglierne l’ordine del giorno, firmare gli atti dello stesso, avere un ruolo preponderante nella PESC.

L’art.205 del TCE disciplina i modi di deliberazione del Consiglio: essi sono la maggioranza semplice (o assoluta), la maggioranza qualificata e l’unanimità. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la regola è quella della maggioranza qualificata, salvo che i Trattati non prevedono diversamente, al contrario di ciò che avveniva in passato, quando la regola era quella della maggioranza semplice. Mentre la maggioranza semplice prevedere che per l’adozione di un atto occorre soltanto che i voti favorevoli siano in maggior numero rispetto a quelli sfavorevoli, nel computo della maggioranza qualificata la situazione si complica: tutto si basa su un sistema di ponderazione dei voti secondo cui il peso del voto di ogni Stato è determinato da un coefficiente. Il Trattato di Lisbona ha previsto che fino al 2014 si adotterà il sistema previsto dal Trattato di Nizza del 2001 ed inoltre ogni Stato potrà chiedere l’applicazione del vecchio metodo addirittura fino al 2017. Ma passiamo ad analizzare i due metodi, distinguendoli tra loro adoperando la terminologia VECCHIO E NUOVO metodo.

Il VECCHIO metodo prevedere che per il raggiungimento della maggioranza qualificata debbano ricorrere 3 condizioni:

1. Raggiungimento di una soglia minima di voti ponderati pari a 255 su 345 (gli Stati più grandi hanno 29 voti ciascuno,occorre il 73,91% dei voti favorevoli rispetto al totale);

2. Voto favorevole della maggioranza dei membri, almeno 14, se la deliberazione è stata proposta dalla Commissione. In caso contrario occorrono almeno 18 voti favorevoli;

3. Gli Stati membri che compongono la maggioranza qualificata devono rappresentare almeno il 62% della popolazione totale dell’Unione (criterio demografico). Tale criterio va rispettato solo su richiesta di un membro del Consiglio che ne chiede la verifica.

Il NUOVO metodo, invece, prevedrà:

1. Un QUORUM NUMERICO MINIMO,dato da 15 voti favorevoli (anziché 14) ed almeno l’approvazione del 55% del totale dei membri del Consiglio (rispetto al precedente 73,91%). Qualora il Consiglio non deliberi su proposta della Commissione o dell’Alto rappresentante occorrerà il 72% di voti favorevoli, per evitare che prevalgano gli interessi degli Stati e non quelli dell’Unione;

2. Un QUORUM DEMOGRAFICO MINIMO: gli Stati che compongono la maggioranza qualificata devono rappresentare non meno del 65% della popolazione totale dell’Unione. L’importanza di tale quorum è attenuata dalla MINORANZA DI BLOCCO, che dovrà essere costituita da almeno 4 Stati. Se ad opporsi saranno meno di 4, il provvedimento passerà comunque nonostante non si sia raggiunto il quorum demografico.

L’ultimo sistema di deliberazione è quello dell’UNANIMITA’, richiesto talune volte dagli stessi Trattati, il quale prevede che tutti i membri si esprimano a favore di un certo atto per la sua approvazione. Essi possono decidere anche di astenersi, in quanto l’astensione non risulta come voto contrario.

Distinzioni

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Il Consiglio non va in alcun modo confuso con le riunioni dei RAPPRESENTANTI DEGLI STATI MEMBRI, le quali il più delle volte coincidono con le riunioni del Consiglio, ma non sono assolutamente un’istituzione comunitaria. I trattati hanno voluto affidare alla competenza dei rappresentanti degli Stati membri alcuni temi quali la nomina dei giudici della Corte di giustizia o la sede delle Istituzioni.

Il Consiglio va, inoltre, distinto dal CONSIGLIO EUROPEO, organo nato per dare un maggior impulso allo stesso Consiglio. Esso ha assunto, pian piano nel tempo, sempre maggiore rilievo sino ad essere consacrato come Istituzione all’interno del Trattato di Lisbona. Originariamente era composto dal Presidente, coincidente con il Presidente del Consiglio in carica per 6 mesi, dal Presidente della Commissione, dai Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri, dai ministri degli Esteri degli stessi e da un membro della Commissione. Si potevano, quindi, distinguere due livelli: uno superiore del quale facevano parte i due presidenti del Consiglio e della Commissione e i Capi di Stato e di Governo, ed un livello inferiore che coadiuvava il lavoro del primo, composto dai ministri degli Esteri e dal rappresentante della Commissione. Col trattato di Lisbona anche la composizione è variata: il Presidente del Consiglio Europeo è eletto a maggioranza qualificata e dura in carica 2 anni e mezzo. Egli rappresenta l’Unione, coordina il lavoro del Consiglio Europeo ed ha un ruolo di rilievo nella PESC. Alle riunioni del Consiglio Europeo non è necessario che partecipino i Ministri degli Esteri, bensì solo e solamente i Capi di Stato e di Governo, il Presidente della Commissione e l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Il trattato di Lisbona ha,inoltre, previsto che anche l’operato del Consiglio Europeo sia soggetto al controllo giurisdizionale della Corte, dato che lo stesso è diventato una vera e propria istituzione comunitaria, benché conservi il ruolo di promotore dell’impulso necessario allo sviluppo dell’Unione e non possa in alcun modo legiferare.

Il Consiglio non va confuso neanche con il COREPER, COMITATO dei RAPPRESENTANTI PERMANENTI, il quale è composto da soggetti appartenenti ai vari Stati membri, ma di rango diplomatico e non ministeriale. Esso funge da organo preparatore dei lavori del Consiglio, ma il suo ruolo più importante è quello di FILTRO tra la Commissione ed il Consiglio. Le proposte della Commissione, infatti, devono essere dapprima visionate e relazionate dal COREPER, che può decidere di inserirle tra i punti “A” dell’ordine del giorno del Consiglio, ed in tal caso si provvederà all’approvazione delle stesse senza discussione (salvo il caso in cui la stessa non sia richiesta da un Paese membro), o tra i punti B dell’ordine del giorno, ed in tal caso saranno discusse dallo stesso Consiglio.

Il Trattato di Amsterdam aveva introdotto la figura del SEGRETARIO GENERALE del Consiglio, diventato col Trattato di Nizza ALTO RAPPRESENTANTE PER LA POLITICA ESTERA E DI SICUREZZA COMUNE (detto SIGNOR PESC), per garantire maggiore unitarietà all’azione esterna dell’Unione, mentre affidava al VICESEGRETARIO GENERALE i compiti relativi al funzionamento amministrativo del SEGRETARIATO GENERALE. Il Trattato di Lisbona ha istituito la figura dell’ALTO RAPPRESENTANTE DELL’UNIONE PER GLI AFFARI ESTERI E LA POLITICA DI SICUREZZA, con il compito di guidare la PESC, in qualità di mandatario dell’Unione, di presiedere il Consiglio Affari Esteri e di essere il vicepresidente della Commissione. Egli sarà nominato dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata (e rimosso allo stesso modo), previa approvazione del Presidente della Commissione, e durerà in carica, salvo revoca del mandato, per un periodo pari a quello dei membri della Commissione stessa.

Per concludere possiamo dire che il Consiglio (non quello europeo) funge da organo, insieme al Parlamento, per l’esecuzione della funzione legislativa e di Bilancio, conferendo incarichi di attuazione alla Commissione e definendo “indirizzi di massima”, dapprima delineati dal Consiglio Europeo.

LA COMMISSIONE

Anzitutto dobbiamo specificare che, a differenza del Consiglio, la Commissione è un organo di individui, formato cioè da soggetti che pur rappresentando il proprio Stato di appartenenza, portano nell’istituzione di cui fanno parte la loro personale esperienza e sono indipendenti ed autonomi rispetto ai Governi dei propri Paesi o a qualsivoglia altro organismo. L’art.213 del TCE stabiliva la composizione della Commissione, la quale doveva contare un componente

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per ogni Stato membro, incluso il Presidente, ossia 27 membri in totale. Già il progetto di Costituzione europea, però, aveva preannunciato la riduzione dei membri della Commissione: a turnazione,quindi, alcuni Stati membri avrebbero perso il proprio rappresentante. Il Trattato di Lisbona ha stabilito che si vada avanti fino al 2014 con la composizione odierna, mentre dopo tale date i componenti passeranno a due terzi del numero degli Stati membri, compresi il Presidente e l’Alto rappresentante (vicepresidente).

I membri della Commissione sono scelti in base alla propria competenza, alla propria professionalità e devono, come abbiamo già preannunciato, offrire garanzia d’indipendenza. Qualora violino i propri compiti, la Corte di Giustizia, su istanza del Consiglio e della Commissione, può pronunciare le dimissioni d’ufficio del componente o decidere la decadenza del diritto alla pensione, anche in seguito alla cessazione della carica.

Il mandato dei membri della Commissione dura 5 anni, di pari passo con il mandato dei parlamentari europei, in maniera tale che primo compito del nuovo Parlamento sia quello di nominare i componenti della Commissione. Il Trattato di Lisbona ha stabilito che la carica dell’intera Commissione o di alcuni membri possa cessare anticipatamente, per “dimissioni individuali o collettive”, per “decisione della Corte in base alla violazione degli obblighi a carico dei componenti, o per “mozione di censura” votata dal Parlamento europeo.

Per quanto concerne la procedura di nomina della Commissione va sottolineato come in passato essa dipendesse dagli Stati membri che, di comune accordo, ne nominavano i componenti. Il Trattato di Nizza ha sostituito il “comune accordo”con un voto a maggioranza qualificata da parte del Consiglio. La procedura odierna comprende 5 fasi:

1. Designazione del Presidente della Commissione da parte del Consiglio che si esprime a maggioranza qualificata;

2. Approvazione del Parlamento Europeo per quanto riguarda il Presidente;

3. Designazione da parte del Consiglio, unitamente al Presidente della Commissione, degli altri componenti della stessa;

4. Approvazione da parte del Parlamento degli altri membri, la quale non avviene collettivamente, ma dopo audizioni separate per ciascuna persona. Il Parlamento potrebbe minacciare, qualora non sia d’accordo sulla nomina di uno o più componenti, di rigettare l’intera Commissione;

5. Il Consiglio approva a maggioranza qualificata l’intera Commissione e il suo Presidente.

Il Trattato di Lisbona ha modificato la parte relativa alla nomina del Presidente, stabilendo che sia il CONSIGLIO EUROPEO a proporre al Parlamento un candidato, deliberando a maggioranza qualificata. La proposta dovrà essere approvata dal Parlamento a maggioranza dei suoi componenti e nel caso in cui dovesse essere rigettata, il Consiglio Europeo dovrà proporre entro un mese un nuovo candidato. La restante parte di nomina ed approvazione dei componenti rimane invariata, salvo per il fatto che il ruolo del Consiglio sia sostituito da quello del Consiglio Europeo.

Il presidente della Commissione riveste un ruolo importantissimo all’interno dell’istituzione che presiede: questo lo si può anche dedurre dal procedimento di nomina separato rispetto a quello dei componenti di cui abbiamo già parlato. Egli coordina il lavoro della Commissione, stabilendone l’orientamento. Inoltre determina l’organizzazione interna della stessa e ripartisce le competenze durante il proprio mandato. Egli può anche obbligare, previa approvazione del collegio, un componente della Commissione stessa a rassegnare le dimissioni. Addirittura nella Convenzione sul futuro dell’Europa si era ipotizzata un’unione della cariche di Presidente del Consiglio Europeo e Presidente della Commissione. Così non è stato, anche se il Trattato di Lisbona non detta un’incompatibilità delle cariche. Il presidente della Commissione è parte, comunque, integrante del Consiglio Europeo.

La Commissione delibera a maggioranza dei suoi componenti. Essa si presenta suddivisa in varie DIREZIONI GENERALI, affidate a dei COMMISSARI.

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La Commissione riveste un ruolo chiave a livello europeo, detenendo alcuni fra i compiti più importanti. Essa è la “custode della legalità comunitaria” vigilando, sia secondo quanto disponeva il TCE sia secondo il Trattato di Lisbona, sull’applicazione dei trattati in un tutte le loro forme. Esercita, infatti, tale ruolo sia nei confronti degli Stati membri,tramite il ricorso per infrazione, sia nei confronti delle altre istituzioni sfruttando i ricorsi d’annullamento. Essa può agire anche verso persone fisiche e giuridiche che non rispettando le norme comunitarie (esempio: in tema di regole della concorrenza). Essa,inoltre, formula raccomandazioni e pareri nei campi in cui i trattati le attribuiscono competenza e partecipa anche alla formazione di atti del Consiglio e del Parlamento. Residua, inoltre, un parere decisionale autonomo su un ristretto numero di materie (esempio: nel campo del controllo degli aiuti di Stato alle imprese). Essa, infine, applica le norme che scaturiscono dal Consiglio (competenza di esecuzione).

LA CORTE DI GIUSTIZIA

Abbiamo già visto come l’istituzione della Corte di Giustizia nacque all’interno del TCE del 1957 e fu adoperata anche per quanto riguardava la CECA, con l’unificazione delle Istituzioni. Per Corte di giustizia, in realtà, si intende sia la Corte in senso proprio, sia il TRIBUNALE DI PRIMO GRADO & le CAMERE GIURISDIZIONALI. Il Trattato di Lisbona ha esplicitato la suddivisione, tracciando una netta differenza tra Corte – istituzione e Corte – giurisdizione: all’interno della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, infatti, ritroviamo la Corte di giustizia, il Tribunale ed i Tribunali specializzati (corrispondenti alle camere giurisdizionali di cui sopra).

Si tratta pur sempre di un organo di individui pienamente indipendenti, che decidono secondo coscienza, anche se la propria nomina dipende dal comune accordo tra gli Stati membri. I propri membri possono essere rimossi dalla propria carica su decisione unanime della stessa Corte.

La Corte di Giustizia è disciplinata sia all’interno del TCE, sia nel TUE, oltre che all’interno del Protocollo sullo Statuto della Corte di Giustizia allegato al TCE. Il regolamento di procedura della Corte, inoltre, è stabilito dalla Stessa, anche se necessita dell’approvazione a maggioranza qualificata del Consiglio.

La Corte di Giustizia è composta da un giudice per ogni Stato membro, tra cui viene eletto un presidente la cui carica rinnovabile dura per tre anni. Essi fanno parte del collegio giudicante. Accanto ai giudici figurano anche gli AVVOCATI GENERALI, i quali hanno il compito di suggerire alla Corte come andrebbe risolta una determinata causa. Il loro parere, però, non è in alcun modo vincolante, né tanto meno necessario nei casi in cui non vengano sollevate nuove questioni di diritto. Gli avvocati generali sono 8, 4 dei quali devono appartenere obbligatoriamente ai 4 Stati maggiori (Italia, Francia, Germania e Regno Unito), mentre gli altri 4 sono nominati a rotazione tra gli altri Stati membri. La NOMINA di giudici ed avvocati è decisa di <<comune accordo tra gli Stati membri>>, salvo il rispetto di quanto ha previsto il Trattato di Lisbona, ossia che prima della nomina, sulla candidatura si debba pronunciare un apposito comitato composto da ex giudici della Corte di Giustizia e del Tribunale di primo grado. Il MANDATO dura sei anni ed è rinnovabile, oltre ad essere previsto un rinnovo parziale ogni tre anni che riguarda la metà dei componenti.

La Corte di Giustizia si divide in:

Sezioni a tre giudici e Sezioni a cinque giudici: si tratta delle sezioni ordinarie; la distribuzione delle cause tra quelle a tre giudici e quella a cinque giudici dipende dall’importanza della causa stessa;

Grande Sezione: formata da 11 giudici, tra cui il Presidente ed i presidenti delle sezioni ordinarie a 5; essa si riunisce su richiesta di uno Stato membro o di un’istituzione;

Seduta plenaria: comprende tutti i giudici e si riunisce o quando la Corte ritiene la materia e la causa di notevole importanza, o per la rimozione del Mediatore Europeo, di un membro della Corte dei Conti o della Commissione.

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La procedura dinanzi alla Corte si suddivide in più fasi:

FASE SCRITTA, NECESSARIA: consiste nello scambio o nel deposito di memorie scritte;

FASE ORALE, NON SEMPRE NECESSARIA: comprende l’udienza con le parti e la lettura o il deposito delle conclusioni dell’avvocato generale.

DECISIONE DELLA CORTE IN CAMERA DI CONSIGLIO e lettura della decisione in pubblica udienza.

N.B. in taluni casi può essere adottata una procedura d’urgenza (specie quando si tratti di materie che appartenevano al III PILASTRO).

La funzione principale della Corte è quella giurisdizionale che esamineremo più avanti. Funzione secondaria è sicuramente quella consultiva: il parere della Corte, laddove richiesto da Consiglio,Parlamento, Commissione o Stato membro, è PARZIALMENTE VINCOLANTE, in quanto obbliga il richiedente, qualora la Corte abbia espresso parere negativo, a ricorrere ad una procedura di revisione lunga e faticosa.

IL TRIBUNALE DI PRIMO GRADO E LE CAMERE GIURISDIZIONALI

In origine la Corte di Giustizia venne concepita come organo di primo ed ultimo grado. Col passare del tempo, però, nacque la convinzione che istituire un altro tribunale di prima istanza avrebbe, da un lato abbreviato i tempi di decisione della Corte di Giustizia, mentre dall’altro avrebbe fatto in modo che la Corte non si trovasse sommersa di lavoro. Inoltre l’istituzione di un secondo tribunale avrebbe garantito una maggiore tutela giurisdizionale a livello comunitario. Per questo motivo venne istituito il TRIBUNALE DI PRIMO GRADO, disciplinato dal TCE ed in parte anche dallo Statuto della Corte di Giustizia. Il Tribunale, inoltre, avrebbe potuto adottare dei propri regolamenti di procedura, “di concerto” con la Corte di Giustizia e salvo approvazione a maggioranza qualificata del Consiglio. Il Trattato di Lisbona ha introdotto, inoltre, delle notevoli modifiche: è stata eliminata la dicitura “DI PRIMO GRADO”, in quanto il Tribunale fungerà da giudice d’impugnazione, e quindi di secondo grado, rispetto al Tribunale della funziona pubblica.

Sotto il profilo istituzionale il Tribunale, almeno inizialmente, appariva come un organo secondario ed ausiliario rispetto alla Corte. In seguito,invece, con il Trattato di Nizza del 2001 i due organi furono posti sullo stesso piano, anche se con compiti diversi, per quanto concerneva l’applicazione e l’interpretazione del diritto comunitario. Con il Trattato di Lisbona si è deciso che Corte di Giustizia e Tribunale siano organi pari – ordinati, facenti parte della medesima istituzione, la CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA.

Sotto il profilo giurisdizionale, invece, permane una notevole differenza: il Tribunale è comunque in una posizione di subordinazione rispetto alla Corte di Giustizia. Va precisato, però, che non si tratta di un doppio giudizio, in quanto chi si è rivolto al Tribunale, non sempre può far ricorso alla Corte. La stessa,infatti, non può entrare nel merito della faccenda, risolvendosi così in un unico grado la questione posta dinanzi al Tribunale. Si potrà far ricorso alla Corte solo per “MOTIVI DI DIRITTO”. La procedura, quindi, rispecchia più che altro un ricorso per Cassazione. Il termine per lo stesso è di due mesi dalla notifica della decisione.

I giudici del Tribunale vengono nominati, anch’essi, di comune accordo dagli Stati membri e sono 27, tanti quanti sono i Paesi dell’Unione Europea. Il mandato dura sei anni ed i giudici eleggono un presidente, in carica per tre anni. I

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requisiti di professionalità ed indipendenza sono i medesimi richiesti per i giudici della Corte. Non sussistono,invece, avvocati generali, anche se un giudice del tribunale può fungere da avvocato generale in casi estremi. Lo Statuto può prevedere, tra l’altro, l’assistenza di un avvocato generale a favore del Tribunale.

Il Tribunale si suddivide in sezioni ordinarie a 3 o a 5 giudici. E’ lo statuto a disporre quando lo stesso debba riunirsi in sezione plenaria, in Grande sezione o debba decidere attraverso un giudice unico.

Per quanto riguarda la competenza di primo grado del Tribunale, sussistono diversi aspetti complessi, dato che la disciplina ha subito notevoli cambiamenti con il passare del tempo. Anzitutto su alcune materie la Corte di Giustizia funge ancora da unico organo giudicante competente. Inoltre è stata istituita la prima delle camere giurisdizionali, ossia il TRIBUNALE DELLA FUNZIONE PUBBLICA, nei confronti del quale il Tribunale funge da organo di appello, di secondo grado.

Il Tribunale funge da organo di primo grado nei seguenti casi:

Ricorsi di persone fisiche e giuridiche CONTRO organi ed istituzioni ;

Ricorsi d’annullamento e per inazione proposti dai Paesi membri contro la Commissione;

Ricorsi d’annullamento proposti dagli Stati membri contro il Consiglio in caso di:

1. Decisioni inerenti aiuti di Stato alle imprese;

2. Atti adottati relativi a misure di difesa commerciale;

3. Atti d’esercizio da parte del Consiglio su competenze d’esecuzione.

Quindi ricorsi contro il Parlamento o contro il Parlamento ed il Consiglio inerenti la procedura di codecisione da parte di uno Stato membro rimangono di competenza in un unico grado della Corte di Giustizia.

Al Tribunale vi è, tra l’altro, la possibilità di attribuire una COMPETENZA PREGIUDIZIALE RISPETTO ALLA CORTE, anche se ancora questa possibilità rimane inapplicabile e difficile da attuare.

Secondo il Trattato di Nizza, infine, il Consiglio ha la possibilità di creare un ulteriore passaggio giurisdizionale: quello delle camere giurisdizionali. Esse sarebbero competenti in primo grado su determinate materie specifiche, in cui il Tribunale fungerebbe da organo di secondo grado. Ci si potrebbe rivolgere, infine, ma solo per determinati casi eccezionali alla Corte di Giustizia, avendo così un terzo grado.

Il Trattato di Lisbona ha deciso di definire le camere giurisdizionali come Tribunali SPECIALIZZATI che entrano in tutto e per tutto a far parte dell’istituzione Corte di Giustizia Europea. L’atto istitutivo di un Tribunale Specializzato sarà, tra l’altro, un regolamento e non una decisione, come è avvenuto sino ad ora.

Primo Tribunale Specializzato ad essere istituito è stato quello della Funzione Pubblica (TFP), composto da sette giudici nominati all’unanimità dal Consiglio, previa consultazione di un comitato apposito, ed aventi requisiti di professionalità ed indipendenza. Chiunque sia in possesso dei requisiti richiesti può proporre la propria candidatura.

Le decisione del Tribunale della Funzione Pubblica possono essere impugnate per soli motivi di diritto dinanzi al Tribunale. Solo se è a rischio l’unità e la coerenza del diritto comunitario ci si potrà rivolgere in terzo grado alla Corte di Giustizia. A proporre il riesame, tra l’altro, dovrà essere un avvocato generale. La Corte deciderà entro un mese se accogliere l’impugnazione o meno: in caso positivo deciderà tramite procedura d’urgenza.

LA CORTE DEI CONTI E GLI ALTRI ORGANI

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La Corte dei Conti è un organo di individui, di cui pertanto fanno parte soggetti che pur rappresentando uno Stato membro, sono del tutto indipendenti. Essa è composta da un cittadino per ogni Stato ed i suoi componenti sono nominati all’unanimità dal Consiglio, previa consultazione del Parlamento, per un mandato di 6 anni. Devono,ovviamente, avere gli stessi requisiti d’indipendenza dei componenti della Corte di Giustizia. Compito della Corte dei Conti è quello di vigilare sulla legittimità e sulla regolarità delle entrate e delle spese. Tale funzione di controllo si estrinseca nella presentazione al Parlamento di una dichiarazione che attesti legittimità,regolarità ed affidabilità dei conti, del bilancio e dalla relazione annuale che la Corte redige alla chiusura di ogni esercizio finanziario, che viene trasmessa alle Istituzioni e pubblicata sulla GU, contenente anche le risposte delle varie istituzioni alle osservazioni formulate dalla Corte sui propri bilanci.

Vi sono poi una serie di organi con ruolo consultivo. Essi sono pur sempre organi di individui, in quanto non legati a nessun mandato da parte dei Paesi rappresentati. Distinguiamo, per esempio, il CES, COMITATO ECONOMICO & SOCIALE, i cui 353 membri nominati dal Consiglio a maggioranza qualificata rappresentano le categorie produttive e sociali dell’intera Unione Europea. Vi è poi il COMITATO DELLE REGIONI, anch’esso composto da 353 membri nominati dal Consiglio, di cui fanno parte soggetti eletti a livello regionale nei vari Stati membri. I due suddetti comitati possono interagire con il Consiglio, la Commissione ed il Parlamento quando ciò è previsto dal TCE, fornendo dei pareri obbligatori e non vincolanti. Laddove, invece, sia stata un’istituzione delle suddette a chiedere un parere esso è soltanto facoltativo. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea ha previsto, inoltre, che il Comitato delle Regioni possa ricorrere dinanzi alla Corte di Giustizia qualora sia stato adottato un atto legislativo per il quale era obbligatorio chiedere un parere al Comitato.

Vi sono poi organi creati dal TUE in ambito dell’UEM. SI tratta della Banca Centrale Europea (BCE) e del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC). La BCE è composta da un Comitato esecutivo (presidente,vice presidente e 4 membri nominati dai Governi degli Stati membri di comune accordo su proposta del Consiglio) e da un Consiglio Direttivo, composto dai membri del Comitato esecutivo e dai Governatori delle Banche nazionali. Hanno poteri di regolamentazione sulle materie di propria competenza.

Altro organo è la Banca Europea degli Investimenti (BEI), che ha personalità giuridica propria e a cui partecipano gli Stati che ne sottoscrivono il capitale.

Vi sono poi tutta una serie di agenzie autonome/indipendenti, disciplinate anche all’interno del TF del Trattato di Lisbona (es. Ufficio di Armonizzazione a livello di mercato interno per il rilascio dei marchi comunitari).

PARTE II – LE PROCEDURE DECISIONALI

Per PROCEDURA DECISIONALE si intende la sequenza di atti e fatti richiesta dai trattati per fare in modo che l’Unione manifesti la propria volontà attraverso un determinato atto.

Le Procedure hanno anzitutto carattere INTERISTITUZIONALE, in quanto vengono poste in essere da diverse Istituzioni dell’Unione. Inoltre le procedure si distinguono per la loro VARIETA’, in quanto vi sono alcune delle stesse che vanno applicate per atti specifici, altre invece che vanno adottate per particolari atti (per esempio appartenenti al II e III pilastro). Per quanto concerne l’applicazione del TCE, invece, non sussisteva, almeno fino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, una differenziazione tra le procedure in merito al ruolo delle istituzioni o al tipo di atto da adottare. Fortunatamente il suddetto Trattato di Lisbona ha eliminato questo difetto, prevedendo per i soli “ATTI LEGISLATIVI” alcune particolari procedure, dette appunto PROCEDURE LEGISLATIVE:

PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA, che prevede l’adozione congiunta di un regolamento, una decisione o una direttiva da parte del Parlamento e del Consiglio, su proposta della Commissione. Tale procedura ha applicazione generale e corrisponde alla precedente PROCEDURA DI CODECISIONE;

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PROCEDURA LEGISLATIVA SPECIALE, la quale prevede l’adozione di una direttiva, di un regolamento o di una decisione da parte del Parlamento con la partecipazione del Consiglio o viceversa. Tale procedura, però, si applica soltanto NEI CASI SPECIFICI PREVISTI DAI TRATTATI. In tali casi, tra l’altro, l’iniziativa può partire anche dagli stessi Stati membri o dal Parlamento, così come dalla BCE o dalla BEI, o dalla stessa Corte di giustizia.

Nella distinzione tra le varie procedure d’applicazione generale pesa molto il ruolo del Parlamento, il quale ha un compito meramente consultivo per l’adozione di alcuni atti attraverso la PROCEDURA DI BASE ed un potere di codecisione nell’ambito della stessa PROCEDURA DI CODECISIONE. A seconda del modello di procedura da utilizzare, inoltre, si distinguono i vari modi di deliberazione delle varie istituzioni (esempio: in caso di procedura di codecisione il Consiglio può deliberare a maggioranza qualificata).

Per sapere quale modello di procedura applicare, occorre individuare la BASE GIURIDICA dell’atto, ossia da quale Trattato e da quale norma dello stesso le istituzioni traggono il potere di adottare quell’atto. Ovviamente individuare la base giuridica non è un procedimento semplice e molto spesso ha fatto in modo che sorgessero notevoli contrasti tra le varie istituzioni, sino a giungere ad un ricorso d’annullamento dinanzi alla Corte di Giustizia per due motivi fondamentali:

Il ricorrente ha interesse a far valere una diversa norma di un trattato o addirittura un diverso trattato come base giuridica in quanto, qualora si fosse preso spunto dalla norma alternativa rispetto a quella scelta dal Consiglio come base giuridica, si sarebbe applicato un diverso modello di procedura che avrebbe permesso al ricorrente di avere un ruolo fondamentale nell’adozione dell’atto (esempio: il Parlamento ricorre dinanzi alla Corte nei confronti del Consiglio perché magari la procedura utilizzata per l’adozione dell’atto ha richiesto semplicemente un “consultazione del Parlamento” , ispirata dalla base giuridica scelta dal Consiglio, mentre la base giuridica alternativa proposta dal Parlamento avrebbe previsto una partecipazione attiva del Parlamento e quindi una procedura di cooperazione = Caso Chernobyl 1990);

Il ricorrente ha interesse a far valere una diversa base giuridica ispiratrice di una differente procedura non perchè, come descritto in precedenza, avrebbe un ruolo più significativo nell’adozione dell’atto, ma semplicemente perché l’atto ricadrebbe in un settore di competenza diverso, maggiormente caratterizzato dal modello comunitario (esempio: la Commissione ricorre dinanzi alla Corte contro il Consiglio impugnando un atto in base all’erronea scelta della base giuridica Non perché avrebbe un ruolo maggiore nella procedura, ma magari perché usando la base giuridica alternativa il Consiglio avrebbe dovuto adottare una procedura di cooperazione, invece che deliberare all’unanimità = Caso Erasmus 1989).

La scelta della corretta BASE GIURIDICA dipende da due elementi che contraddistinguono l’atto da adottare: lo SCOPO ed il CONTENUTO, basandosi però su elementi oggettivi suscettibili di sindacato giurisdizionale e non sulla convinzione soggettiva dell’istituzione che adotta una determinata procedura.

Se un atto presenta una pluralità di scopi e di contenuti, andrà preso in considerazione il CENTRO DI GRAVITA’ dell’atto, non tenendo conto di scopi o contenuti secondari ed accessori.

Se poi i vari scopi e contenuti sono sullo stesso piano, ossia sono tutti di particolare importanza e nessuno è secondario o accessorio rispetto ad un altro, andrà scelta una BASE GIURIDICA PLURIMA, fondata su diverse norme anche di diversi trattati: qualora, però, ciò porti a modelli di procedura da applicare totalmente diversi, andrà scelta la base giuridica tenendo conto del fatto che la disposizione di portata più GENERALE andrà preferita a quella di portata più specifica e non potrà essere scelta una base giuridica che pregiudichi il ruolo di partecipazione del Parlamento Europeo.

Bisogna inoltre precisare che, qualora l’istituzione competente decida con ATTO DI PRIMO GRADO di disciplinare gli elementi essenziali di una materia e di affidare ad un ATTO DI SECONDO GRADO le disposizione di attuazione, non è

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necessario che il secondo atto rispetti la procedura del primo, potendo decidere l’istituzione di affidare l’applicazione della disciplina alla Commissione o di utilizzare essa stessa una procedura semplificata.

PROCEDURA DI BASE

L’art. 250 del TCE è uno degli articoli più longevi del Trattato relativi alla procedura decisionale. Inizialmente, in realtà, quella descritta dall’articolo suddetto era l’unica procedura che, in relazione ad altre disposizioni del TCE, definiva il modo di deliberazione del Consiglio o prescriveva la consultazione o meno del Parlamento. Ecco perché la procedura dell’art. 250 viene definita come PROCEDURA DI BASE, sulla modificazione della quale sono sorte le altre procedure. Spesso viene definita come PROCEDURA DI CONSULTAZIONE, in riferimento al ruolo che il Parlamento assume all’interno di questa procedura (un ruolo consultivo appunto), ma la denominazione può essere accettata solo se si tiene conto che tale consultazione non è sempre prevista (esempio: adozione di misure di politica commerciale).

La PROCEDURA DI BASE si apre con la proposta della Commissione, unico organo che possiede tale facoltà. E’ la Commissione, infatti, la portatrice dell’interesse generale della Comunità a cui fa da contrappeso il ruolo decisionale del Consiglio, che rappresenta gli Stati membri. Anche il Trattato di Lisbona ha ribadito l’esclusività di iniziativa della Commissione. Tuttavia altri organi possono rivolgersi alla Commissione per sollecitare proposte da portare dinanzi al Consiglio. Primo fra tutti è il Parlamento: in realtà la Commissione non ha l’obbligo di presentare la proposta di matrice parlamentare al Consiglio, ma è doveroso ricordare che un continuo rifiuto della stessa potrebbe indurre il Parlamento a votare o anche solo a minacciare una “mozione di sfiducia” che comporterebbe le dimissioni forzate della Commissione. Anche il Consiglio stesso può invitare la Commissione a fargli determinate proposte su un tema particolare. Ed analogo potere di sollecitazione possiede il Consiglio Europeo. Il Trattato di Lisbona, inoltre, ha introdotto la possibilità per un milione di cittadini di sottoporre all’attenzione della Commissione una particolare proposta, che la stessa può decidere di ignorare senza andare incontro ad alcuna conseguenza.

Le proposte della Commissione, tra l’altro, prima di giungere dinanzi al Consiglio, passano dal filtro costituito dal COREPER.

L’art 250 TCE prevede, inoltre, che il Consiglio possa emendare la proposta della Commissione, apportando così delle notevoli modifiche: dobbiamo, però, prestare attenzione al termine “emendamenti”, che non possono del tutto stravolgere il testo e gli obiettivi della proposta. La modifica, tra l’altro, può avvenire solo e solamente all’UNANIMITA’. La possibilità di emendare la proposta, tuttavia, potrebbe portare ad una situazione di paralisi in quanto il Consiglio potrebbe non approvare la proposta, ma potrebbe trovarsi anche a non poterla modificare perché uno o più membri sono magari d’accordo con la proposta originaria della Commissione. In tal caso il membro della Commissione presente in Consiglio può decidere di modificare la proposta per garantire una più semplice approvazione, o può d’altro canto decidere di ritirare totalmente la stessa.

Abbiamo visto, inoltre, come in taluni casi specificati dal TCE (non direttamente dall’art.250) sia necessario che il Consiglio consulti il Parlamento Europeo o addirittura altri organi prima di approvare l’atto. Ne deve,quindi, chiedere il parere. Distinguiamo 3 tipi di pareri:

1. Parere FACOLTATIVO: il Consiglio può chiederlo come non chiederlo al Parlamento. Tuttavia, una volta fornito, il parere non ha effetto vincolante;

2. Parere CONSULTIVO: il Consiglio è obbligato, in taluni casi specifici, a chiedere un parere al Parlamento. Tuttavia neanche in questo caso il parere è vincolante ed il Consiglio può discostarsene;

3. Parere CONFORME: introdotto dall’AUE, tale parere deve obbligatoriamente essere chiesto al Parlamento ed il Consiglio non può decidere diversamente da ciò che il parere suggerisce. Si ha, quindi, una specie di divisione del potere decisorio, una specie di procedura di codecisione, anche se in quest’ultima il Parlamento può partecipare alla formazione dell’atto, mentre in questo caso può solo approvare o respingere l’atto in questione. Il Trattato di Lisbona, infatti, ha eliminato la dicitura “pare conforme” e ha previsto “una forma di

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approvazione del Parlamento”.

Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha collaborato ad accrescere l’importanza della consultazione del Parlamento da parte del Consiglio, ovviamente quando ciò sia previsto dal TCE. Occorre, secondo quanto previsto dalla Corte, che la consultazione sia effettiva e regolare: il parere non deve essere stato semplicemente chiesto, ma anche emesso dal Parlamento (esempio: caso Roquette Freres, adozione di un regolamento senza aver sentito il parere del Parlamento). Il TCE permette al Consiglio di stabilire un tempo massimo per l’emanazione del parere, ma solo in materia di accordi internazionali. In tutti gli altri casi non può essere stabilito un termine massimo entro il quale il Parlamento deve esprimersi. Questo potrebbe indurci a pensare che, per un proprio capriccio, il Parlamento possa non emettere tale parere, il che però non è possibile dato che uno dei principi base su cui è fondata la Comunità Europea (ed anche l’UNIONE) è quello della leale collaborazione, il che comporta che il Parlamento debba esprimersi entro un tempo ragionevole. Inoltre se il Parlamento ha emesso il proprio parere ed il Consiglio provvede, solo in un secondo momento, ad emendare la proposta della Commissione (o magari la Commissione stessa ritira la prima proposta e ne formula una simile, ma non uguale), il Consiglio è tenuto a chiedere una seconda consultazione al Parlamento. Il Trattato di Lisbona ha confermato questo orientamento.

PROCEDURA DI COOPERAZIONE

Introdotta tramite l’art.252 all’interno del TCE dall’AUE del 1986, la procedura di cooperazione ha segnato un notevo passo in avanti per l’aumento dei poteri parlamentari. Il TUE del 1992 ed in seguito anche il Trattato di Amsterdam ne hanno ridotto il campo di applicazione: essa è sopravvissuta, infatti, solo nel campo dell’UEM. Il Trattato di Lisbona, infine, l’ha eliminata definitivamente.

La procedura di cooperazione prevede una DOPPIA LETTURA, da parte del Parlamento e del Consiglio, della proposta proveniente dalla Commissione: non è altro, quindi, che una variante della procedura di base. Il Parlamento, infatti, provvede ad una prima lettura della proposta e fornisce un parere (consultivo) sulla stessa. Segue a ciò la prima lettura del Consiglio che approva a maggioranza qualificata una posizione comune sulla proposta in questione. Si passa quindi alla seconda lettura del Parlamento che può decidere se:

1. Approvare la posizione comune od omettere di pronunciarsi entro il termine di tre mesi;

2. Respingere la posizione comune a maggioranza assoluta dei suoi componenti;

3. Proporre degli emendamenti alla posizione comune (sempre a maggioranza assoluta dei suoi componenti).

Nell’ultimo caso la questione torna dinanzi alla Commissione, la quale può decidere di accogliere gli emendamenti proposti dal Parlamento o di motivarne il rifiuto, restituendo la proposta RIESAMINATA al Consiglio.

Il Consiglio può anch’esso optare per diverse soluzioni, a seconda della decisione del Parlamento:

1. Può adottare definitivamente l’atto sulla base dell’approvazione del Parlamento o dell’omissione di pronunciarsi;

2. Può approvare l’atto nel caso di rigetto, ma all’UNANIMITA’;

3. Può, nel caso di emendamenti alla posizione comune:

Approvare la proposta riesaminata dalla Commissione a MAGGIORANZA QUALIFICATA;

Approvare gli emendamenti parlamentari, non accolti dalla Commissione, all’UNANIMITA’;

Modificare la proposta riesaminata all’UNANIMITA’.

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Come possiamo notare, quindi, in questa procedura di cooperazione il ruolo del Parlamento è notevolmente accresciuto rispetto al passato, anche se in realtà non può far altro che provocare la votazione all’unanimità dell’atto da parte del Consiglio. Il Consiglio stesso continua ad essere l’unica istituzione ad avere un ruolo decisionale. Mentre chi esce da tale procedura davvero sconfitta è la Commissione, la quale può solo approvare o meno gli emendamenti del Parlamento, ma non può in alcun modo modificare essa stessa la proposta. Qualora tra l’altro il Consiglio voglia dar ragione al Parlamento e torto alla Commissione lo può tranquillamente fare nel corso della seconda fase.

PROCEDURA DI CODECISIONE

La Procedura di Codecisione è stata introdotta dal TUE del 1992 e la sua portata è stata estesa dal Trattato di Amsterdam del 1996. Essa pian piano ha sostituito totalmente la procedura di cooperazione, di cui tra l’altro rappresenta un’ evoluzione. Dalla procedura di codecisione non scaturiscono più atti del Consiglio, in cui il Parlamento ha solo un ruolo consultivo, ma atti congiunti del Parlamento e del Consiglio: è il mezzo che garantisce al Parlamento di partecipare attivamente al procedimento legislativo.

Anche la procedura di codecisione si basa su un procedimento di doppia lettura, anche se la seconda può essere totalmente evitata. Tutto parte dalla proposta della Commissione, consegnata questa volta sia al Parlamento che al Consiglio. Inizia così la prima fase: il Parlamento provvede alla prima lettura formulando un parere (consultivo). Poi tocca alla prima lettura del Consiglio, con la quale la procedura potrebbe tranquillamente terminare in caso di approvazione della proposta e degli eventuali emendamenti parlamentari. In caso contrario il Consiglio delibera a maggioranza qualificata una POSIZIONE COMUNE. Inizia la SECONDA FASE. Il Parlamento procede alla seconda lettura, al termine della quale può:

1. Approvare la posizione comune od omettere di pronunciarsi entro il termine di tre mesi;

2. Respingere la posizione comune a maggioranza assoluta dei suoi componenti;

3. Proporre degli emendamenti alla posizione comune (sempre a maggioranza assoluta dei suoi componenti).

Nel primo caso (approvazione od omissione di pronuncia) l’atto si considera ADOTTATO.

Nel secondo caso l’atto si considera NON ADOTTATO.

Nel terzo caso la proposta torna alla Commissione che emette un PARERE (non una proposta riesaminata). Il Consiglio in tal caso può decidere a maggioranza qualificata se:

Approvare tutti gli emendamenti parlamentari (nel caso in cui la Commissione fosse contraria occorre l’UNANIMITA’) e l’atto si considera APPROVATO;

Non approvare tutti gli emendamenti ed aprire la TERZA FASE.

Nella Terza Fase viene convocato un COMITATO DI CONCILIAZIONE composto da rappresentanti parlamentari e rappresentanti del Consiglio (o loro delegati) e viene elaborato un PROGETTO COMUNE, in collaborazione con la Commissione. Se entro 6 settimane non viene elaborato alcun progetto, l’atto si considera NON ADOTTATO. Se invece viene elaborato un progetto in tal senso si passa alla TERZA LETTURA, in cui Parlamento e Consiglio devono approvare il progetto (il Consiglio a maggioranza qualificata) per adottare l’atto, altrimenti si considererà NON ADOTTATO.

Analizziamo il ruolo delle istituzioni: il Parlamento ha acquisito, senza dubbio, un notevole potere. Esso è, infatti, attivo nel procedimento legislativo e senza il proprio consenso l’atto non può essere adottato in alcuna maniera.

Il ruolo del Consiglio,invece, rimane lo stesso seppur il Parlamento sia posto sullo stesso piano.

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La Commissione, invece, ne esce del tutto sconfitta. L’organo che dovrebbe rappresentare l’interesse delle comunità ha solo il compito di formulare la proposta e la possibilità di ritirarla sino alla seconda lettura. In terza lettura non può più ritirare la suddetta e funge, all’interno del Comitato di conciliazione, solo da paciere tra Parlamento e Consiglio.

Abbiamo visto, inoltre, che il Consiglio può deliberare il più delle volte a maggioranza qualificata. Il Trattato di Amsterdam dapprima, ed il Trattato di Nizza del 2001 in un secondo momento hanno reso necessario il voto all’unanimità del Consiglio.

Inoltre, il Trattato di Lisbona ha sostituito la procedura di codecisione con la PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA, estendendone il campo di applicazione. La procedura rimane la medesima, con l’unica differenza che il Parlamento in prima lettura non può emettere un parere consultivo, ma prendere, come era già previsto per il Consiglio, una posizione comune. In tal modo le due istituzioni sono del tutto parificate, poste sullo stesso piano.

PROCEDURE DEL SECONDO E TERZO PILASTRO

Abbiamo potuto notare come all’interno del PRIMO PILASTRO si sia notevolmente diffuso il metodo comunitario: il ruolo degli organi di individui è sempre più importante, le decisioni sono vincolanti, il metodo maggioritario viene sempre più tenuto in considerazione, gli atti sono soggetti al controllo di legittimità giurisdizionale della Corte di Giustizia. All’interno del SECONDO & TERZO PILASTRO, invece, il metodo comunitario è stato per molto tempo assente. Solo il Trattato di Amsterdam e quello di Nizza hanno permesso una lieve contaminazione della PESC e di ciò che resta della CGAI (COOPERAZIONE NEL SETTORE DELLA GIUSTIZIA E DEGLI AFFARI INTERNI),oggi ridotta alla sola COOPERAZIONE DI POLIZIA E GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE.

Tuttavia, nonostante gli sforzi degli ultimi 15 anni, esistono ancora differenze notevoli tra I PILASTRO da un lato e gli altri due dall’altro. Le decisione del Consiglio sono prese per lo più all’unanimità e quando è prevista la maggioranza qualificata si tratta soltanto di decisioni di secondo grado. Sono, tra l’altro, presenti clausole di salvaguardia che fanno in modo che gli Stati membri possano causare una votazione all’unanimità. Inoltre un’altra istituzione, il Consiglio Europeo, è del tutto orientato ad un metodo tradizionale. Esso riveste un ruolo cardine all’interno della PESC. I ruoli di Parlamento e Commissione sono del tutto irrisori, mentre la competenza della Corte di Giustizia è quasi del tutto assente.

Analizziamo ora le sostanziali differenze rispetto al PRIMO PILASTRO.

Se analizziamo il II PILASTRO, quello della PESC (Titolo V del TUE), notiamo come importanza rilevante abbia in tal settore il Consiglio Europeo, il quale oltre a dettare i principi e gli orientamenti generali, provvede anche a formulare le strategie comuni. Il Trattato di Lisbona, che istituzionalizza il Consiglio Europeo, ne conferma il ruolo preminente nell’ambito della PESC: esso detta orientamenti generali, ma prende anche DECISIONI su interessi ed obiettivi strategici dell’Unione, deliberando sempre all’unanimità.

Anche le deliberazioni dello stesso Consiglio (non Europeo) sono prese all’unanimità in ambito PESC e tra l’altro è previsto un ulteriore istituto, quello dell’ASTENSIONE COSTRUTTIVA. Noi sappiamo che una delibera del Consiglio dovrebbe avere carattere vincolante nei confronti di tutti gli Stati membri, anche di quelli che si sono astenuti dal pronunciarsi. Questa novità, invece, permette agli astenuti di non vincolare il proprio Paese, ma di accettare comunque la decisione del Consiglio, vincolandosi a non ostacolarla. Qualora, però, gli astenuti fossero superiori ad un terzo, l’atto risulterebbe NON ADOTTATO. Il Trattato di Lisbona ha lasciato tutto invariato, tranne per il fatto che l’atto risulta NON ADOTTATO solo nel momento in cui ad astenersi siano un terzo dei componenti che rappresentano un terzo della popolazione dell’Unione, in osservanza del nuovo metodo di calcolo della maggioranza qualificata.

E’ previsto, tuttavia, in contrasto con quanto abbiamo sostenuto finora, che il Consiglio possa deliberare in ambito PESC anche a maggioranza qualificata. Questo, però, è possibile solo nell’ipotesi in cui manchi la proposta della Commissione, ossia sempre in ambito PESC e solo nei seguenti casi:

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Approvazione di un’azione comune, di una posizione comune o di una strategia comune;

Adozione di decisione relative all’attuazione di un’azione comune o di una posizione comune;

Nomina di un rappresentante speciale.

Come possiamo notare, però, si tratta pur sempre di atti di secondo grado: l’adozione di strategie comuni da parte del Consiglio proviene dall’approvazione unanime delle stesse strategie da parte del Consiglio Europeo. Anche nel secondo case, l’attuazione di azioni o posizioni comuni dipende dal voto unanime, questa volta però del Consiglio. Anche la nomina di un rappresentante speciale si può dedurre che provenga dalla necessità sancita da decisioni comuni unanimi precedenti.

Il Trattato di Lisbona ha previsto, inoltre, un’ulteriore possibilità di votazione a maggioranza qualificata. Essa riguarda i casi in cui il Consiglio adotta una decisione che definisce un’azione o una posizione dell’Unione su proposta dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, su richiesta specifica rivolta a quest’ultimo dal Consiglio Europeo. Anche in tal caso si presume, anzi è certo, che il Consiglio Europeo abbia deliberato all’unanimità.

Va aggiunto, infine, che la possibilità di deliberare a maggioranza qualificata può essere evitata tramite la CLAUSOLA DI SALVAGUARDA A FAVORE DEGLI STATI MEMBRI: se un membro del Consiglio, nell’interesse della politica nazionale dello Stato di appartenenza, si oppone all’adozione di una decisione che richiede una votazione a maggioranza qualificata, il Consiglio potrà, sempre a maggioranza qualificata, deferire la decisione sulla questione al Consiglio Europeo che deciderà all’unanimità.

Il ruolo della Commissione, invece, nell’ambito PESC è del tutto irrilevante: essa conserva un potere di proposta, ma non esclusivo in quanto concesso anche agli Stati membri. Il ruolo del Parlamento è del tutto inesistente: esso non è contattato neanche in via consultiva, se non per le sole scelte fondamentali della PESC.

All’interno del TERZO PILASTRO ritrovavamo prima la CGAI, COOPERAZIONE NEL SETTORE DELLA GIUSTIZIA E DEGLI AFFARI INTERNI. Le disposizioni relative ai visti, al diritto d’asilo, all’immigrazione ed alla cooperazione giudiziaria in materia civile, sono poi state comunitarizzate e sono confluite, quindi, nel PRIMO PILASTRO. Nel terzo, infatti, è rimasta solo la COOPERAZIONE DI POLIZIA E GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE.

Nel terzo pilastro, comunque, ritroviamo alcune differenze sostanziali rispetto al primo che abbiamo già analizzato in ambito PESC. Non viene, in realtà, riconosciuto un ruolo specifico al Consiglio Europeo, mentre analoga è la disciplina del Consiglio. Si fa una netta distinzione tra casi che richiedono l’unanimità e casi in cui si delibera a maggioranza qualificata. Occorre l’unanimità, che è la regola di base, per quattro tipi di atti:

Posizioni comuni;

Decisioni – quadro;

Decisioni;

Convenzioni tra gli Stati membri.

A maggioranza qualificata sono invece deliberate soltanto le misure di attuazione delle decisioni.

Il potere di proposta della Commissione è, anche qui, condiviso con gli Stati membri.

Il potere del Parlamento, invece, è notevolmente accresciuto rispetto al SECONDO PILASTRO, ma pur sempre inferiore rispetto al pilastro comunitario. Il Consiglio, infatti, deve sempre consultare il Parlamento Europeo, tranne in caso di adozione di posizioni comuni. Il Parlamento, però, deve esprimere tale parere entro il termine fissato dal Consiglio, oltre il quale, qualora il Parlamento non si sia pronunciato, il Consiglio può deliberare.

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NOTA BENE: IL TRATTATO DI LISBONA FARA’ CONFLUIRE LE MATERIE DEL TERZO PILASTRO ALL’INTERNO DEL PRIMO PILASTRO, QUELLO COMUNITARIO. CRESCERANNO DI CONSEGUENZA I RUOLI DELLA COMMISSIONE E DEL PARLAMENTO (VEDI PAGINA 117/118).

COOPERAZIONE RAFFORZATA

L’istituto della Cooperazione rafforzata è stato introdotto dal Trattato di Amsterdam del 1996 ed inizialmente era previsto solo all’interno del PRIMO & TERZO PILASTRO. In seguito, invece venne introdotto dal Trattato di Nizza all’interno anche della PESC. Tramite tale istituto è possibile che alcuni Stati membri possano instaurare tra loro forme di cooperazione non condivise da tutti i Paesi dell’UE. Ciò in realtà è possibile SOLO NEL RISPETTO di alcuni requisiti della cooperazione, che deve:

Essere diretta a promuovere obiettivi dell’Unione e della Comunità;

Rispettare i Trattati;

Rispettare l’Acquis, ossia il diritto comunitario;

Rimanere nell’ambito delle competenze dell’Unione o della Comunità;

Non recare danno al mercato interno;

Riunire almeno 8 Stati membri;

Non recare pregiudizio agli altri Stati;

Essere aperta a tutti;

Essere l’unica via percorribile, perché impossibile sarebbe l’accordo fra tutti gli Stati.

Occorre, tuttavia, un’autorizzazione a procedere alla COOPERAZIONE RAFFORZATA.

In ambito PESC la richiesta è avanzata al Consiglio, che sentita la Commissione ed informato il Parlamento, decide a MAGGIORANZA QUALIFICATA, sempre che non vi sia opposizione da parte di uno Stato membro per interesse nazionale.

In ambito degli altri due pilastri la richiesta di cooperazione va fatta alla Commissione, che provvede a formulare una proposta. Su questa si pronuncerà il Consiglio a maggioranza qualificata, sentito il parere del Parlamento. Un membro del Consiglio può chiedere, tra l’altro, che la proposta venga esaminata dal Consiglio Europeo, che però non potrà concedere esso stesso l’autorizzazione. Inoltre se la Commissione inizialmente non dovesse consegnare la proposta al Consiglio, potrebbero farlo 8 Stati membri al suo posto.

Il Trattato di Lisbona ha confermato l’istituto della cooperazione rafforzata, introducendo anche quello della cooperazione strutturata permanente in ambito di PESD (POLITICA EUROPEA DI SICUREZZA E DIFESA), un ramo della PESC. SI tratterà di una cooperazione di tipo militare, permanente e non solo momentanea come alcune missioni.

PROCEDURA PER LA CONCLUSIONE DI ACCORDI INTERNAZIONALI

Particolare attenzione merita la procedura di negoziazione e di conclusione di accordi internazionali da parte della COMUNITA’ EUROPEA con Stati terzi o organizzazioni internazionali. Il negoziato può essere avviato solo dopo che il Consiglio, a maggioranza qualificata, ha autorizzato la Commissione a trattare. Dopo la negoziazione, occorre per la FIRMA, la CONCLUSIONE, l’APPLICAZIONE PROVVISORIA e la SOSPENSIONE che il Consiglio deliberi allo stesso modo. Esso deve sentire a livello consultivo il Parlamento: il parere fornito, assume il carattere di PARERE CONFORME, qualora si tratti:

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Accordi di associazione;

Accordi con notevoli ripercussioni sul bilancio della Comunità;

Accordi di cooperazione;

Accordi che modificano un atto adottato a norma dell’art.251 TCE.

Consiglio, Parlamento, Commissione e qualsiasi Stato membro possono domandare alla Corte di Giustizia se l’accordo entrerebbe o meno in contrasto con il trattato.

Anche l’Unione può concludere accordi a livello internazione, seppur con piccole diversità, in quanto un ruolo preponderante è rivestito dalla Presidenza del Consiglio. (vedi pagina 121)

Il Trattato di Lisbona ha unificato le procedure per la Comunità e per l’Unione, prevedendo però in ambito PESC un ruolo centrale dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Sarà egli ad avviare i negoziati ed a sottoporli all’attenzione del Consiglio, che delibererà all’unanimità senza neanche consultare il Parlamento.

PARTE III – L’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA

Il complesso di norme contenute nel TCE e nel TUE costituiscono un ordinamento autonomo rispetto agli ordinamenti interni degli Stati membri e rispetto al diritto internazionale?

E’ da questo quesito che dobbiamo partire per capire quanto il diritto comunitario influisca sul diritto dei Paesi membri e sulla vita dei cittadini dell’Unione. Per quanto concerne tutto il contenuto del TCE, la Corte di giustizia ha affermato, in più di un’occasione, che il diritto comunitario non solo risulta a se stante rispetto agli ordinamenti interni agli Stati in quanto ne limita la sovranità seppur solo in alcuni settori, ma che vive come ordinamento autonomo anche nei confronti di coloro che a tali norme sono sottoposti, in particolare rispetto ai cittadini (Sentenza Van Gend & Loos del 1963 e sentenza Costa c.ENEL del 1964).

Un’analoga affermazione giurisprudenziale non si ha invece per quanto riguarda l’Unione Europea. Le discipline del II e del III pilastro, infatti, sembrano delineare più che un ordinamento fuso con quello comunitario, un nuovo ramo dell’ordinamento internazionale. Il Trattato di Lisbona, eliminando la struttura a pilastri e riconoscendo l’Unione Europea come persona giuridica in forza della soppressione della CE, ha riconosciuto il diritto dell’Unione come omnicomprensivo, come un grande unico ordinamento.

Come ogni ordinamento, anche quello comunitario ha un sistema di fonti di produzione del diritto. Distinguiamo, a tal proposito, fonti primarie e fonti secondarie. Sono fonti di diritto primario il TCE e le altre fonti che il TCE riconosce di pari natura. Sono, invece, fonti di diritto secondario tutti gli atti che le istituzioni possono adottare in forza dello stesso TCE. Tra i due livelli figurano anche fonti intermedie, che prevalgono sul diritto secondario.

Tra le fonti di diritto secondario o derivato troviamo tutta una serie di atti, molto spesso diversi tra loro: regolamenti, direttive e decisioni. Non è previsto un ordine gerarchico, tuttavia è lo stesso TCE a prevedere che vadano adottati in situazioni diverse, o meglio viene specificato quale tipo di atto andrà adottato in determinate discipline.

Un’ulteriore distinzione è quella tra atti di PRIMO GRADO ed atti di SECONDO GRADO: tra questi vi è una differenza del tutto gerarchica. Quelli di secondo grado sono, infatti, subordinati ai primi. Non possono né abrogare né entrare in contrasto con quelli di primo grado e devono rispettarne i principi di base, altrimenti l’atto di secondo grado potrebbe essere annullato.

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Gli atti di diritto derivato possono, tra l’altro, essere distinti in base all’istituzione dalla quale provengono: Parlamento congiuntamente con il Consiglio, Commissione o solo Consiglio. In genere, però, la Commissione può emanare atti solo in forza di una delega concessa dalle altre due istituzioni: l’atto in tal caso non dovrà eccedere la delega, rispettandone i principi ed il campo di operatività.

L’eventuale conflitto tra atti indipendenti di diverse istituzioni dovrà risolversi, in mancanza di una norma specifica, ricollegandosi alla base giuridica dell’atto ed analizzando quale istituzione fosse idonea ad emanare quel determinato atto. Il Trattato di Lisbona ha introdotto una differenziazione tra atti giuridici che spiegheremo più avanti.

FONTI DI DIRITTO PRIMARIO

Abbiamo già detto che fonte primaria per eccellenza è sicuramente il TCE, come emendato dai trattati di revisione e di adesione che si sono succeduti nel tempo. Sono, inoltre, fonti primarie anche i Protocolli allegati agli stessi Trattati, non solo quelli riferiti al TCE, ma anche quelli inerenti la CECA (fino a che è stata in vigore) e la CEEA. Inoltre, dopo una qualsiasi revisione dei trattati, solitamente vengono allegate delle DICHIARAZIONI, che possono essere di due tipi:

Dichiarazioni della Conferenza, ossia di tutti gli Stati membri, che hanno funzione interpretativa delle disposizioni dei trattati;

Dichiarazioni di uno o più Paesi membri, che possono essere prese in considerazione dall’interprete, ma sottolineando che esse non provengono da tutti gli Stati.

Nello studio del TCE, almeno sotto il punto di vista tecnico, ci si domanda quale sia la NATURA GIURIDICA dello stesso. Una risposta univoca è impossibile, ma sono state seguite due tesi diverse. La prima vede il TCE come un TRATTATO INTERNAZIONALE: la struttura degli articoli, i procedimenti seguiti, i destinatari dell’atto (gli Stati membri) che mantengono una propria autonomia (sovranità) sono tutti fattori che riconducono il TCE ad un atto costitutivo di un’organizzazione sovrannazionale. La seconda tesi, invece, vede il TCE come una vera e propria CARTA COSTITUZIONALE: il fatto che la disciplina contenuta nel trattato sia inderogabile dagli Stati membri se non tramite revisione dello stesso e l’operatività giurisdizionale di cui gode la Corte di Giustizia manifesterebbero, infatti, una tendenza ad una carta costituzionale di tipo statuale. E’ vero, però, che alle spalle del Trattato non vi è un unico Stato europeo di cui il trattato costituisca la carta fondamentale. Potremmo concludere che la natura giuridica del TCE si può ritrovare a metà strada tra le due definizioni appena date, essendo il TCE stesso una figura in corso di trasformazione.

Anche la Corte di Giustizia, tuttavia, tratta il TCE come una carta costituzionale. Essa tende sempre ad un’interpretazione estensiva sia delle norme inerenti le quattro libertà di circolazione (merci, persone, capitali e servizi), sia delle norme che attribuiscono competenze alla CE. Al contrario la Corte tende ad interpretare restrittivamente tutte quelle norme che garantiscono agli Stati membri di trattare le stesse materie in maniera parallela. Tra l’altro va sottolineato come la Corte, tra i propri criteri interpretativi, adoperi quello dell’EFFETTO UTILE, interpretando una norma sempre nel modo che più riconosce alla stessa la maggiore effettività possibile.

Il TCE può essere modificato in base alla PROCEDURA DI REVISIONE contenuta all’interno dell’art.48 TUE. La procedura presenta due fasi: una PREPARATORIA, cui partecipano le istituzioni dell’Unione ed una DELIBERATIVA, cui partecipano gli Stati membri. La fase preparatoria si apre con la consegna al Consiglio di un progetto di revisione da parte di uno Stato membro o della Commissione. Il Consiglio deve esprimere parere favorevole alla convocazione di una CIG per la discussione della revisione, sentito però il Parlamento Europeo. Qualora il parere sia favorevole, il Presidente del Consiglio convoca la CIG (CONFERENZA INTERGOVERNATIVA) e si passa alla fase deliberativa: le decisioni andrebbero prese all’unanimità e senza che ad esse partecipi alcuna delle istituzioni dell’Unione. L’esito della CIG configura un nuovo trattato, che i Paesi membri devono ratificare. Nella prassi, però, anche all’interno della fase deliberativa gioca un ruolo chiave il Consiglio Europeo, il quale si esprime sul trattato prima che questo venga

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sottoposto alla firma dei rappresentanti degli Stati membri. Il Trattato di Lisbona ha modificato anche la procedura di revisione: è previsto, infatti, che il Consiglio si pronunci a maggioranza semplice su una proposta di revisione proveniente o da uno Stato membro, o dal Parlamento o dalla Commissione e che convochi una CONVENZIONE all’interno della quale siedono anche rappresentanti delle istituzioni (è stato preso spunto dalla Convenzione sul futuro dell’Europa): essa esprimerà una raccomandazione sulla proposta di revisione, della quale la CIG che deciderà dovrà tener conto.

Il potere di revisione, tra l’altro, sembra essere, a norma dell’art.48, illimitato. Più volte, però, la Corte di Giustizia ha sancito come inviolabili alcuni principi comunitari, quali quelli inerenti la libera circolazione o la concorrenza, o comunque i principi generali del diritto comunitario.

Il Trattato di Lisbona, accanto alla procedura di revisione ordinaria, ha introdotto due PROCEDURE SEMPLIFICATE DI REVISIONE: la seconda di queste prevede l’aumento dei casi di decisione a maggioranza semplificata da parte del Consiglio e del Consiglio Europeo, ed i casi di procedura legislativa ordinaria. Le modifiche saranno adottate con decisione all’unanimità del Consiglio, tenendo conto del parere conforme del Parlamento e senza ratifica dei Parlamenti nazionali.

Un altro procedimento di revisione dei trattati lo ritroviamo all’interno dell’art.49 del TUE, il quale disciplina l’ADESIONE di nuovi Stati. Può presentare domanda di adesione all’Unione ogni Stato europeo in senso geografico e che rispetti, al proprio interno, principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto. La procedura è anch’essa suddivisa in due fasi, la prima delle quali è sicuramente più rilevante rispetto alla procedura di revisione trattata dall’art.48 TUE, in quanto la domanda di adesione deve essere approvata all’unanimità dal Consiglio, previa consultazione della Commissione e parere conforme del Parlamento. Occorre, quindi, il consenso del Parlamento e del Consiglio per accettare tale adesione. Solo nella seconda fase gli Stati membri si occupano di modificare i trattati in base all’adesione dei nuovi Paesi, ma si tratta di modifiche minori. Anche tale procedura, nella prassi, ha subito notevoli modifiche: le due fasi si svolgono contemporaneamente e tutta la procedura è seguita e coordinata dal Consiglio Europeo. Inoltre la prima fase è preceduta da negoziati pre-adesione, all’interno dei quali gli Stati candidati devono dimostrare di rispondere ad alcuni criteri (criteri politici, economici, criteri relativi all’acquis comunitario). Solo in un secondo momento si può passare alla prima fase. Il Trattato di Lisbona ha mantenuto questa procedura, prevedendo soltanto come innovazione che sia il Consiglio Europeo a dettare i criteri da rispettare, di cui le istituzioni devono tener conto. Inoltre è stato introdotto il diritto di recesso unilaterale da parte di uno Stato membro.

Va sottolineato come, se considerassimo il TCE come un semplice trattato internazionale, gli Stati membri potrebbero anche non attenersi al dettaglio della procedura di revisione per modificarlo, ma basterebbe l’accordo unanime. Nell’ottica, invece, di carta costituzionale risulta necessaria l’osservazione dell’art.48 TUE per la modifica del TCE. La Corte di Giustizia non si è mai potuta pronunciare sull’argomento, ma seguendo la sua giurisprudenza possiamo notare come si orienterebbe verso l’impossibilità della modifica nella mancata osservanza dell’art.48 TUE.

Infine dobbiamo analizzare come il TCE sia mutato dal momento in cui è entrato in vigore il TUE. Tra essi non vi è mai stato un rapporto gerarchico, ma bisogna riconoscere che con l’entrata in vigore del TUE, il TCE ha perso la natura di carta fondamentale autonoma, in quanto è entrato a far parte di un complesso di trattati, di cui è il più importante, che fanno parte del TUE. Il Trattato di Lisbona ha sottolineato ancora maggiormente questa dipendenza, attuando una differenziazione tra TUE, in cui sono comprese le norme più importanti, e TF (trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) che ha sostituito il TCE, il quale reca norme di minore importanza. I due trattati (TUE & TF), tuttavia, hanno pari natura giuridica.

PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO

Abbiamo già definito le FONTI INTERMEDIE, quelle cioè che si trovano a metà strada tra fonti primarie e fonti secondarie. Tra queste rientrano, sicuramente, i PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO, la cui tipologia è abbastanza ampia.

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Una prima categoria è costituita dai PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO COMUNITARIO, i quali vengono espressi, esplicitamente o implicitamente, all’interno del TCE e godono di una notevole importanza. Un esempio è dato dal PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE, tutelato all’interno di diversi articoli del TCE e che non permette agli Stati membri di attuare distinzioni di alcun tipo tra gli stessi cittadini. La Corte di Giustizia, inoltre, ha fatto in modo che alle discriminazioni palesi si aggiungessero le discriminazioni occulte, ossia quelle che pur essendo basati su principi diversi, portano comunque allo stesso risultato di quelle palesi configurando una vera e propria discriminazione. Il principio di non discriminazione gode, tra l’altro, di una propria AUTONOMIA, nel senso che può essere applicato anche in situazione non specificatamente previste dalle norme del TCE. La Corte di Giustizia ha, invece, respinto il fatto che nel campo di applicazione del suddetto principio rientrino le DISCRIMINAZIONI ALLA ROVESCIA, ossia quelle nate quando un principio comunitario entra a far parte del diritto interno di uno Stato membro: un cittadino di un Paese dell’Unione non può evocare la discriminazione attuata nei propri confronti perché magari un cittadino comunitario di un diverso Stato membro gode di un più vantaggioso diritto. La Corte ha, infatti, previsto che sia il legislatore interno a sanare le differenze, perché in contrasto con il principio di eguaglianza rispetto ad altri cittadini comunitari.

Altri principi generali del diritto comunitario sono, senza dubbio, quello della LIBERA CIRCOLAZIONE e quello della TUTELA GIURISDIZIONALE EFFETTIVA. Anch’essi rappresentano fonti intermedie e per tal motivo prevalgono sulle fonti secondarie, ma non sui trattati, che costituiscono fonti primarie.

Una seconda categoria di fonti intermedie è costituita dai PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO COMUNI AGLI ORDINAMENTI DEGLI STATI MEMBRI. In tal caso, quindi, si tratta di principi accolti a livello comunitario dopo un esame parallelo degli ordinamenti nazionali. Tra i principi comuni ritroviamo:

Principio di LEGALITA’, secondo cui ogni potere esercitato dalle istituzioni deve trovare nei trattati la propria fonte legittimante;

Principio della CERTEZZA DEL DIRITTO, in base al quale chi è tenuto al rispetto di una norma giuridica deve essere messo nella condizione di conoscerla e poterla rispettare;

Principio del LEGITTIMO AFFIDAMENTO, che impone alle modifiche normative improvvise di essere giustificate da un interesse generale;

Principio del CONTRADDITTORIO, secondo cui l’autorità comunitaria che intende assumere un provvedimento nei confronti di un singolo deve concedergli di esprimere il proprio punto di vista;

Principio di PROPORZIONALITA’, in base al quale l’autorità può limitare diritti dei singoli SOLO nel raggiungimento di un interesse pubblico e prevedendo atti necessari a tal fine, che non facciano subire ai singoli sacrifici superflui.

Tra i principi generali del diritto comuni agli ordinamenti degli Stati membri vi è una particolare categoria che merita una trattazione separata, ossia quella della PROTEZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UOMO. In origine il Trattato non sanciva l’intangibilità di tali diritti. Nel 1973, con la sentenza Frontini, la Corte Costituzionale italiana decide che non possono essere ammessi all’interno del nostro ordinamento principi comunitari che entrino in contrasto con i diritti fondamentali dell’uomo tutelati all’interno della nostra carta costituzionale. La Corte Costituzionale sottolinea di non potersi esprimere sulla legittimità dell’atto comunitario, in quanto non rientra nelle proprie competenze a norma dell’art.134 della Costituzione italiana, ma potrà esprimersi a favore dell’incostituzionalità della legge di ratifica del Trattato e dell’ordine di esecuzione in essa contenuto. La Corte, quindi, minaccia di dichiarare incostituzionale e quindi di disapplicare l’intero trattato. Nel 1974 anche la Corte costituzionale tedesca attua una decisione simile, addirittura spingendosi oltre e sindacando sulla legittimità dell’atto comunitario perché in contrasto con la costituzione federale tedesca. Le due decisioni rischiano, a quel punto, di minare l’intero sistema di diritto comunitario. La Dichiarazione Comune del PE, del Consiglio e della Commissione del 1977 sancisce

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il rispetto dei diritti fondamentali, ma non è in alcun modo un atto di valore giuridico, e pertanto risulta inidoneo a produrre effetti. E’ semplicemente una presa di posizione, a favore della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo, da parte delle istituzioni. Con la sentenza NOLD del 1974 la Corte di Giustizia aveva però già previsto che i diritti fondamentali venissero tutelati all’interno dell’ordinamento comunitario in quanto rientranti nei principi generali del diritto, di cui fonte di ispirazione erano le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ed i trattati internazionali sui diritti dell’uomo.

Le tradizioni costituzionali comuni ed i trattati internazionali di cui parla la Corte di Giustizia, però, non hanno valore normativo immediato e pertanto non vincolano la Corte, anche per quanto riguarda la CONVENZIONE EUROPEA PER LA SALVAGUARDI DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTA’ FONDAMENTALI, firmata a Roma nel 1950. Benché la Corte si sia espressa più volte a favore della Convenzione, questo non basta a renderla vincolante nei confronti della Comunità. Il Trattato di Lisbona ha previsto, infatti, che l’Unione aderisca alla Convenzione, mantenendo però inalterate le proprie competenze definite nei trattati.

Il fatto di considerare il diritto fondamentali come rientranti nei principi generali del diritto comunitario, infatti, dava ampio spazio al ruolo della Corte di Giustizia, che poteva, in maniera del tutto flessibile, dare maggior rilievo a determinati diritti fondamentali, escludendone degli altri, data l’assenza di un documento scritto che fosse un atto normativo al quale fare riferimento. Ecco che quindi nel 1999 si decide di promuovere l’elaborazione di una CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA, che riassuma tutti quelli che sono i diritti fondamentali accolti a livello comunitario. Alla realizzazione di un così importante documento partecipano i rappresentanti degli Stati, ma anche quelli delle istituzioni comunitarie. La CARTA viene proclamata dai Presidenti di Commissione, PE e Consiglio in occasione del Consiglio Europeo di Nizza del 2000. I tre presidenti non perdono occasione per emendarla anche in occasione della firma del Trattato di Lisbona. Tale CARTA ha, più che un valore normativo, un valore documentale, in quanto appare come un riassunto di quelli che sono i diritti fondamentali, prendendo spunto anche dalla Convenzione di Roma del 1950. Viene prevista anche una CLAUSOLA DI COMPATIBILITA’, che garantisca, qualora la CARTA stessa non sia sufficiente, l’applicazione di altri documenti internazionali (es. CONVENZIONE di Roma del 1950) che meglio salvaguardino determinati diritti. Contrariamente, però, agli auspici iniziali, la Carta è priva di un proprio valore normativo quale FONTE AUTONOMA DEL DIRITTO: essa è più che altro uno strumento interpretativo. Il progetto di Costituzione dell’Unione prevedeva la completa adesione alla Convenzione di Roma del 1950, il che non è avvenuto, neanche con il Trattato di Lisbona.

FUNZIONE DEI PRINCIPI GENERALI

Ma qual è la funzione dei principi generali del diritto?

Essi fungono anzitutto da CRITERI INTERPRETATIVI delle altre fonti del diritto comunitario: tanto i trattati quanto gli atti delle istituzioni devono essere interpretati il più coerentemente possibile con i principi generali.

Inoltre i principi generali sono il PARAMETRO DI LEGITTIMITA’ PER GLI ATTI DELLE ISTITUZIONI: essi possono essere annullati o invalidati per violazione di un principio comunitario di diritto.

I principi generali operano anche come PARAMETRODI LEGITTIMITA’ PER ALCUNI COMPORTAMENTI DEGLI STATI MEMBRI: i Paesi dell’Unione, infatti, anche nell’applicare le norme di un trattato o dell’atto di un’istituzione devono rispettare tali principi ed i diritti fondamentali. Ovviamente per contestare ad un Paese membro la violazione di un principio occorre un COLLEGAMENTO TRA IL COMPORTAMENTO DELLO STATO MEMBRO ED IL DIRITTO COMUNITARIO: la violazione, in poche parole, deve scaturire dall’attuazione, da parte dello Stato in questione, di un atto comunitario o quantomeno il comportamento deve riguardare un settore di competenza comunitaria, altrimenti la Corte di Giustizia non potrà esercitare la propria competenza per assicurare l’osservanza di tali principi (esempio: sentenza Grogan 1991).

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Solo in caso di “rischio di violazione grave” o di “violazione grave e persistente” di un principio generale può mancare il collegamento tra comportamento degli Stati membri e diritto comunitario.

Il rispetto dei principi generali vale anche per le materie del II e dell’ex III pilastro.

IL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE E GLI ACCORDI INTERNAZIONALI

La Comunità, avendo personalità giuridica, è un vero e proprio SOGGETTO DI DIRITTO INTERNAZIONALE e come tale può stringere accordi con Stati terzi ed entrare a far parte di organizzazioni sovrannazionali. Lo stesso non si poteva dire dell’Unione, che non era qualificata come persona giuridica all’interno di nessun trattato e nei settori non comunitari (II & III pilastro) non poteva stringere autonomamente accordi. Il Trattato di Lisbona ha sopperito a tale mancanza qualificando l’Unione come persona giuridica. Ovviamente sia la Comunità dapprima, che l’Unione oggi hanno il dovere di rispettare il diritto internazionale generale, salvo andare incontro a spiacevoli inconvenienti nei confronti degli Stati terzi con cui vi erano degli accordi. Va sottolineato che un Paese membro, tuttavia, non può in alcun modo pretendere nei propri confronti il rispetto di un accordo di diritto internazionale, in quanto esso fa parte dell’Unione ed è quindi sottoposto a disciplina comunitaria.

Va ricordato, inoltre, che la funzione del diritto internazionale generale è la medesima dei principi generali del diritto comunitario: esso serve, infatti, come criterio interpretativo, nel senso che una norma comunitaria va applicata tenendo presente quelli che sono gli accordi internazionali stipulati dalla Comunità o, prossimamente, dall’Unione.

Gli accordi internazionali con Stati terzi che risultano essere più rilevanti rispetto all’ordinamento comunitario sono di tre tipi:

1. Accordi internazionali conclusi da Stati membri;

2. Accordi internazionali conclusi dalla Comunità;

3. Accordi internazionali conclusi da Stati membri e Comunità (accordi misti);

Partiamo dai primi: ACCORDI INTERNAZIONALI CONCLUSI DA STATI MEMBRI.

Essi continuano a vincolare lo Stato membro nei confronti dello Stato terzo innanzitutto se l’accordo internazionale è stato stipulato prima di un Trattato. Secondariamente il TCE ha riconosciuto, tramite una clausola di compatibilità, che il Paese membro contraente dell’accordo internazionale è tenuto a rispettare tanto tale accordo, quanto il trattato comunitario. Addirittura se la materia oggetto del suddetto accordo rientra nella competenza comunitaria, non solo lo Stato membro interessato, ma l’intera Comunità saranno tenuti a rispettarlo. Lo Stato membro, tra l’altro, può sottrarsi alla disciplina comunitaria SOLO nella misura in cui ciò sia utile al rispetto dell’accordo.

Passiamo ai secondi: ACCORDI INTERNAZIONALI CONCLUSI DALLA COMUNITA’.

Anche la Comunità, come abbiamo visto, godendo di personalità giuridica può concludere autonomamente degli accordi con Stati terzi o organizzazioni internazionali, benché essa abbia pur sempre un limite di competenza esterna dettato dagli stessi trattati.

Analizziamo i terzi: ACCORDI MISTI

Inizialmente alcuni Stati terzi non riconoscevano come persona giuridica la Comunità ed occorreva la partecipazione dei vari Stati membri alla stipulazione di accordi internazionali. Oggi, invece, gli accordi misti vengono stipulati sempre più frequentemente, specie riguardo a materie oggetto di competenza concorrente tra Stati membri e Comunità.

Sotto il profilo del VALORE GIURIDICO gli accordi internazionali sono VINCOLANTI per le istituzioni comunitarie e per gli Stati membri: ciò significa che né le une, né gli altri, né tanto meno entrambi congiuntamente potranno adottare

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atti che non rispettino gli accordi conclusi dalla Comunità. Ciò significa che anche gli accordi internazionali fungono da PARAMETRO DI LEGITTIMITA’ degli atti delle istituzioni. Questo è senza dubbio vero ma NON SEMPRE. Esistono taluni accordi internazionali che non possono fungere da parametro di legittimità per via della loro flessibilità: un esempio considerevole è l’ACCORDO ISTITUTIVO DELL’OMC (ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEL COMMERCIO), che la Corte di Giustizia non può usare come parametro di legittimità di atti comunitari, almeno che gli atti stessi SIANO ADOTTATI PER DARE ESECUZIONE AGLI OBBLIGHI DERIVANTI DA TALI ACCORDI oppure RICHIAMINO ESPRESSAMENTE DETERMINATE DISPOSIZIONE DELL’ACCORDO OMC. Un altro esempio è dato dalla Convenzione delle NAZIONI UNITE di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare.

GLI ATTI DELLE ISTITUZIONI

Gli atti delle istituzioni possiamo distinguerli in TIPICI ed ATIPICI.

Sono classificabili come atti tipici tutti quelli contemplati direttamente dall’art.249 TCE.

Per atti atipici, invece, si intendono quegli atti che pur non corrispondendo a quanto previsto dall’art.249 TCE, hanno la stessa denominazione.

Un esempio di atto tipico è il BILANCIO della Comunità, atto produttivo di effetti vincolanti, tanto da poter essere impugnato dinanzi alla Corte di Giustizia.

Un esempio di atto atipico è dato dal potere del Consiglio di deliberare l’istituzione di camere giurisdizionali di primo grado tramite DECISIONI, non corrispondenti alle decisioni di cui parla l’art.249.

Accanto agli atti atipici, inoltre, ritroviamo tutta una serie di atti che si sono affermati nella prassi, specie per opera della Commissione in tema di concorrenza ed aiuti di stato alle imprese. La Commissione, infatti, per orientare i comportamenti di imprese (per la concorrenza) e di Stati membri (per gli aiuti di Stato) pubblica delle Comunicazioni (anche dette linee direttive, orientamenti) per comunicare come attuare le norme contenute nel trattato in riferimento a specifiche fattispecie. Le comunicazioni, in realtà, NON HANNO VALORE NORMATIVO, ma sono pur sempre atti della Commissione, da cui la stessa non può discostarsi nell’analisi di casi singoli.

Gli atti tipici di cui parla l’art.249 TCE sono cinque: DIRETTIVE, REGOLAMENTI, DECISIONI, PARERI E RACCOMANDAZIONI.

Sono ATTI VINCOLANTI, con i quali le istituzioni pongono nuovi obblighi a carico dei destinatari, le decisioni, le direttive e i regolamenti.

Sono ATTI NON VINCOLANTI i pareri e le raccomandazioni, con cui l’istituzione mira ad ottenere che i destinatari si orientino spontaneamente verso una linea guida conforme all’interesse generale comunitario.

Tra gli atti vincolanti dobbiamo poi distinguere quelli di natura AMMINISTRATIVA, ossia le decisioni, che hanno portata individuale, da quelli di natura NORMATIVA, ossia i regolamenti e le direttive, che hanno portata generale ed introducono nuove norme o ne abrogano/modificano delle altre.

Molto spesso sono gli stessi trattati a prevedere quale tipo di atto l’istituzione, per assolvere il proprio compito, debba adottare. Altrettanto soventemente il trattato nulla prevede circa la natura dell’atto, lasciando ampio spazio all’autonomia dell’istituzione.

REGOLAMENTI

Il regolamento è un ATTO VINCOLANTE NORMATIVO. Esso, quindi, ha portata generale ed introduce nuove norme (o le abroga/modifica) all’interno dell’ordinamento comunitario e quindi degli Stati membri.

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Esso è previsto dall’art.249 TCE comma 2 e pertanto è un ATTO TIPICO. Il regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile negli Stati membri. Riassumiamone, quindi, le caratteristiche:

PORTATA GENERALE: ha natura normativa e non è rivolto a soggetti specifici in funzione della loro situazione individuale. Può capitare che sia rivolto ad un numero stretto di soggetti all’interno dell’Unione, ma non per questo perde la propria portata generale. Qualora avesse portata individuale, qualsivoglia persona fisica e giuridica potrebbe impugnarlo dinanzi alla Corte di Giustizia attraverso un ricorso d’annullamento.

OBBLIGATORIETA’ INTEGRALE: il regolamento va applicato nella sua interezza. Gli Stati membri non possono decidere di applicarne una parte, lasciando il resto inapplicato. Non è possibile, quindi, l’applicazione parziale;

DIRETTA APPLICABILITA’, la quale presenta due profili distinti:

1. L’ADATTAMENTO DEGLI ORDINAMENTI INTERNI AGLI STATI MEMBRI: il regolamento, sin dall’emanazione dello stesso, si adatta automaticamente agli ordinamenti nazionali degli Stati membri. Gli Stati, pur volendo, non possono ratificarlo tramite una legge interna, perché in tal modo non farebbero altro che trasformarlo in un provvedimento interno. Diverso è il caso in cui lo stesso regolamento preveda che siano gli Stati membri ad adottare provvedimenti nazionali INTEGRATIVI;

2. EFFICACIA DIRETTA: il regolamento produce effetti diretti nei confronti non solo degli Stati membri, ma anche dei singoli, a cui attribuisce diritti che i giudici nazionali devono tutelare.

Il regolamento deve rispettare dei requisiti formali: deve essere MOTIVATO e fare RIFERIMENTO A PROPOSTE E PARERI PREVISTI OBBLIGATORIAMENTE. Esso è firmato dal Presidente del Consiglio e dal Presidente del Parlamento, qualora l’atto provenga dalle due istituzioni; solo dal Presidente del Consiglio, qualora il regolamento scaturisca dal solo Consiglio. E’ pubblicato nella GAZZETTA UFFICIALE DELL’UNIONE EUROPEA (ex GUCE) ed entra in vigore 20 giorni dopo la pubblicazione, salvo diversa previsione.

DIRETTIVE

La direttiva è un ATTO TIPICO, in quanto previsto dal terzo comma dell’art.249 TCE, VINCOLANTE NORMATIVO, in quanto introduce nuove norme (o le abroga/modifica) all’interno dell’ordinamento comunitario e quindi degli Stati membri.

Essa vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, mentre resta agli organi nazionali la competenza in merito alla forma ed ai mezzi.

Notiamo, quindi, come la direttiva abbia portata individuale e non generale, in quanto rivolta a destinatari definiti. Talune volte, però, la direttiva può essere rivolta a tutti i Paesi membri, ed in tal caso si parla di DIRETTIVA GENERALE.

Tuttavia le misure di attuazione delle direttive hanno portata generale ed è per tal motivo che la direttiva rappresenta uno STRUMENTO DI NORMAZIONE IN DUE FASI. La PRIMA FASE si ha a livello comunitario, dove vengono fissati principi ed obiettivi generali, mentre la SECONDA FASE è decentrata a livello nazionale, dove spetta allo Stato membro attuare la disciplina contenuta nella direttiva.

Anche la direttiva ha dei caratteri propri, così come abbiamo visto per il regolamento. Tra questi figura l’OBBLIGATORIETA’ INTEGRALE: pur imponendo solo e solamente un obbligo di risultato, la direttiva deve essere attuata totalmente e non è suscettibile di applicazione parziale.

Abbiamo visto che i regolamenti, oltre al suddetto carattere, presentavano anche quello della DIRETTA APPLICABILITA’ sotto due diversi punti di vista: sotto il profilo dell’adattamento immediato agli ordinamenti interni e sotto il profilo dell’efficacia diretta, essendo possibile attuare gli stessi anche in mancanza di misure di attuazione. E’

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facile capire che, in linee generali, la direttiva non gode di applicabilità diretta perché non può avere un adattamento immediato, data la necessità d’intervento dei legislatori nazionali. Per quanto riguarda il secondo profilo, però, dobbiamo chiarire che ANCHE la direttiva può avere EFFICACIA DIRETTA, che però differentemente da ciò che avviene per i regolamenti, non è presunta, ma deve soddisfare alcune condizioni temporali e sostanziali individuate dalla Corte di Giustizia.

Ogni Stato membro, infatti, ha l’OBBLIGO DI ATTUAZIONE della direttiva: esso può evitare di applicarla all’interno dell’ordinamento nazionale solo qualora riesca a dimostrare che la propria legge interna si ispiri già autonomamente alla normativa prevista dalla direttiva.

Inoltre l’obbligo di attuazione va adempiuto entro un determinato TERMINE previsto dalla stessa direttiva, che può variare da pochi mesi ad anni, a seconda delle difficoltà che l’adattamento agli ordinamenti interni potrebbe incontrare. Il termine, però, è perentorio e non è possibile addurre giustificazioni di alcun tipo. In pendenza del termine, però, lo Stato membro non può in alcun modo adottare provvedimenti legislativi in contrasto con la direttiva o che possano ostacolarne l’attuazione (OBBLIGO DI STANDSTILL o di NON AGGRAVAMENTO).

Secondo quanto abbiamo detto la scelta delle forme e dei mezzi per attuare la direttiva spetta agli Stati ai quali è rivolta; tuttavia tale scelta non è libera, in quanto è necessario che il legislatore nazionale tenga conto della gerarchia delle fonti di diritto interna: egli non può in alcun modo attuare la direttiva tramite mezzi inefficaci (se per esempio la direttiva interviene su una materia già disciplinata da legge ordinaria, occorrerà una successiva legge ordinaria per attuarla e non un semplice regolamento, che sarebbe di grado gerarchico inferiore).

Capita, tuttavia, che la stessa direttiva non descriva solo il risultato da raggiungere, ma anche i mezzi e le forme per farlo: si tratta delle cosiddette DIRETTIVE DETTAGLIATE, molto spesso paragonate impropriamente ai regolamenti.

Anche la direttiva deve rispettare determinati REQUISITI: deve essere anch’essa motivata. Tuttavia è previsto che SOLO le direttive adottate congiuntamente da Parlamento e Consiglio, o quelle adottate solo dal Consiglio o solo dalla Commissione e rivolte a tutti gli Stati membri vadano pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, ed entrano in vigore dopo venti giorni, salvo diverso termine previsto. Le altre direttive sono notificate direttamente ai destinatari ed entrano in vigore con la notificazione.

DECISIONI

Le decisioni sono ATTI TIPICI, in quanto previsti dal quarto comma dell’art.249 TCE, ed ATTI VINCOLANTI AMMINISTRATIVI. Così come i regolamenti e le direttive, anche le decisioni sono vincolanti nella loro interezza (obbligatorietà integrale). Hanno, invece, a differenza dei regolamenti, portata individuale, potendo vincolare NON SOLO singoli Stati membri, ma anche singoli soggetti all’interno dell’Unione.

Le decisioni rivolte agli Stati membri possono imporre OBBLIGHI DI FACERE (e l’attuazione è uguale a quella delle direttive, seppur venga lasciato un ambito di operatività più ristretto rispetto alle stesse), oppure OBBLIGHI DI NON FACERE, imponendo dei divieti.

Le decisioni possono essere, inoltre, rivolte ai singoli. I casi più importanti li ritroviamo quando la Commissione impone le proprie decisioni nell’ambito della disciplina della concorrenza, comminando sanzioni il più delle volte pecuniarie (sanzioni, quindi, amministrative). La decisione costituisce titolo esecutivo e sarà possibile ottenere l’esecuzione forzata.

I requisiti formali sono gli stessi previsti per le direttive rivolte solo ad alcuni Stati membri: vengono notificate ai destinatari ed hanno efficacia in virtù della notifica.

GLI ATTI DEL SECONDO E TERZO PILASTRO

Cominciamo analizzando quelli che sono gli atti del III pilastro. L’art.34 TUE elenca quattro tipi di atti:

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1. POSIZIONI COMUNI: definiscono l’orientamento, le linee direttrici dell’Unione in merito ad una questione specifica;

2. DECISIONI QUADRO: servono, così come le direttive comunitarie, per ravvicinare le normative degli Stati membri. Anch’esse, al pari delle direttive comunitarie, obbligano i destinatari nel risultato, non nei mezzi e nella forma, che vengono lasciati all’autonomia degli Stati destinatari dell’atto. Al contrario delle direttive, però, per le quali il problema è stato risolto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, NON HANNO EFFICACIA DIRETTA;

3. DECISIONI: sono vincolanti e non hanno efficacia diretta. Hanno, invece, obbligatorietà integrale, altrimenti sarebbero uguali alle decisioni-quadro. Mentre per le decisioni-quadro l’attuazione è affidata agli Stati membri, in questo caso l’attuazione è nelle mani del Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata. Possono perseguire qualsiasi obiettivo, tranne ravvicinare le normative degli Stati membri, per il cui compito esistono già le decisioni-quadro;

4. CONVENZIONI: il Consiglio ne approva il testo, ma spetta agli Stati membri entro un determinato tempo ratificarle secondo le rispettive norme costituzionali. Basta che a ratificarle siano la metà degli Stati membri, nei confronti dei quali le convenzioni vengono applicate.

NOTA BENE: sono tutti atti del CONSIGLIO.

NOTA BENE 2: anche all’interno del III PILASTRO c’è la possibilità di concludere accordi internazionali.

Passiamo ad analizzare gli atti del II pilastro, quelli relativi alla PESC. In tal caso, però, gli atti si differenziano notevolmente da quelli comunitari. Sono previste 4 categorie:

1. STRATEGIE COMUNI (art.13 TUE): si tratta di atti di altissima politica decisi dal Consiglio Europeo su proposta del Consiglio, che provvederà, oltretutto, ad attuarli. Costituiscono le linee guida su cui l’Unione deve muoversi nel settore della politica estera;

2. AZIONI COMUNI (art.14 TUE): esse affrontano situazioni specifiche in cui è necessario un intervento dell’Unione. Si estrinsecano in azioni concrete, differentemente dai pareri comuni. Sono vincolanti per tutti gli Stati membri. Atto del Consiglio;

3. PARERI COMUNI (art.15 TUE): definiscono l’approccio dell’Unione ad una questione geografica o tematica. Non sono vincolanti e non riguardano questioni operative. Atto del Consiglio;

4. ACCORDI INTERNAZIONALI (art.24 TUE).

ATTI DELLE ISTITUZIONI NEL TRATTATO DI LISBONA

Già da tempo si avvertiva il bisogno di una differenziazione del sistema delle fonti del diritto dell’Unione Europea. Occorreva, infatti, distinguere le istituzioni incaricate di emanare atti amministrativi, da quelle addette all’emanazione di atti normativi. Bisognava fare una distinzione tra le diverse procedure decisionali, optando per quelle maggiormente complesse per gli atti legislativi (procedura di codecisione) e garantendo procedure semplificate agli atti amministrativi. La Costituzione europea avrebbe garantito una perfetta distinzione, ma come ben sappiamo il progetto è stato abbandonato.

Il Trattato di Lisbona non ha modificato la tipologia di atti giuridici delle istituzioni, che resta quella dell’art.249 TCE, ma ha introdotto una distinzione tra ATTI LEGISLATIVI E ATTI NON LEGISLATIVI. In realtà la categoria degli atti NON legislativi è molto eterogenea: ne fanno parte atti che a livello interno avrebbero assunto la forma di atti amministrativi, tanto quanto ne fanno parte atti che nel nostro ordinamento interno avrebbero assunto la forma di atti costituzionali (es. le decisioni del Consiglio circa la composizione del Parlamento Europeo). Il Trattato ha, inoltre,

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disciplinato gli atti di secondo grado, distinguendone le funzioni rispetto a quelli di primo ed ha, infatti, introdotto la distinzione tra ATTI DELEGATI ed ATTI DI ESECUZIONE. Tutti gli atti, comunque, sono stati semplificati sotto il profilo della tipologia per via della soppressione della struttura a pilastri.

Abbiamo già detto che non saranno introdotto nuovi atti, ma semplicemente la distinzione tra ATTI LEGISLATIVI e ATTI NON LEGISLATIVI. Il nuovo art.288 TF ha sostituito in tutto e per tutto l’art.249 TCE, ma la denominazione degli atti rimane la stessa, così come la loro funzione (salvo per le DECISIONI, per le quali sarà prevista ANCHE una portata generale = decisioni generali): ciò che cambia è solo il procedimento legislativo d’adozione dell’atto. Solo gli atti adottati mediante procedura legislativa sono atti legislativi. Gli atti adottati con altra procedura, pur avendo il nome di decisioni, regolamenti e direttive non sono atti legislativi.

Per distinguere gli atti legislativi dagli atti non legislativi bisogna anzitutto servirsi di un CRITERIO ISTITUZIONALE: solo dal Parlamento congiuntamente con il Consiglio, o da uno soltanto di essi, può pervenire un atto legislativo. Gli atti della Commissione e quelli del Consiglio Europeo saranno di per se atti non legislativi.

Per distinguere, invece, tra gli atti del Consiglio e/o del Parlamento quelli legislativi e quelli che legislativi non sono, occorre rifarsi alla base giuridica dell’atto, la quale stabilisce quale procedura debba essere utilizzata: è comunque un dato di fatto che la maggior parte degli atti di queste due istituzioni saranno legislativi.

SI può anche notare se l’adozione di un atto è prevista dai trattati o da altro atto delle istituzioni. Nel secondo caso si tratta di atti giuridici DI SECONDO GRADO e pertanto non si può parlare di atti legislativi (essi sono emanati dalla Commissione e raramente dal Consiglio tramite procedura semplificata non legislativa). Tra l’altro bisogna precisare che gli atti di secondo grado devono essere etichettati come ATTI DELEGATI O ATTI D’ESECUZIONE.

Tra l’altro se si tratta di atto legislativo i lavori del Consiglio vanno svolti in seduta pubblica e quindi ciascuna sessione è divisa in due parti: l’una in cui si trattano gli atti legislativi e l’altra per attività non legislativa. Solo in caso di atti legislativi i parlamenti nazionali esercitano un potere di controllo per il rispetto del principio di sussidiarietà ed i ricorsi d’annullamento di persone fisiche e giuridiche presentati per atti legislativi saranno più severi rispetto a quelli inerenti atti regolamentari.

Per quanto concerne gli atti di secondo grado, ossia quegli atti che scaturiscono da un precedente atto legislativo, abbiamo già detto che possono essere di due tipi: delegati e d’esecuzione. Gli atti delegati modificano determinati elementi NON ESSENZIALI di un atto legislativo. Essi possono essere emanati dalla Commissione sulla base di un ATTO LEGISLATIVO DI DELEGA del Parlamento o del Consiglio, all’interno del quale sono previsti la portata, la durata, i contenuti e gli obiettivi ai quali la Commissione deve attenersi, oltre che la fissazione delle condizioni alle quali la delega deve attenersi. Ciò comporta un potere di controllo degli organi deleganti sull’organo delegato (la Commissione appunto), tale da poter comportare la revoca della stessa delega o l’impedimento di entrare in vigore dell’atto stesso. Si potranno, pertanto, avere direttive o regolamenti delegati (la dicitura "delegato" deve essere sempre contenuta). L’altro tipo di atti di secondo grado che abbiamo sono gli atti d’esecuzione, ideati per dare esecuzione ad ATTI VINCOLANTI DELL’UNIONE EUROPEA. Il potere di esecuzione sarà dato alla Commissione e solo in casi eccezionali al Consiglio (in ambito PESC), e tra l’altro solo nel caso in cui serva un’attuazione uniforme, altrimenti a ciò sopperiranno gli Stati membri. Questi ultimi, inoltre, in caso di attuazione da parte della Commissione potranno esercitare un potere di controllo sulla stessa, tramite regole e principi stabiliti dal PE e dal Consiglio.

Il nuovo regime di atti giuridici è dato dalla fusione, operata dal Trattato di Lisbona, del I pilastro con il III. Spariscono quindi tutte le categorie di atti previste all’interno del III pilastro, nel quale ora è possibile emanare direttive e regolamenti. Il trattato ha, invece, mantenuto la differenza di atti per quanto riguarda la PESC, prevedendo però anche qui una semplificazione: vi sono, infatti, gli ORIENTAMENTI GENERALI, atti del Consiglio che corrispondono alle vecchie “strategie comuni” e le DECISIONI PESC, che possono equivalere alle vecchie “azioni comuni/posizioni comuni” oppure essere atti di 2° grado di esecuzione. In ambito PESC, comunque, non figurano atti legislativi.

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L’ADATTAMENTO DELL’ORDINAMENTO ITALIANO AL DIRITTO COMUNITARIO

All’interno del nostro ordinamento tutti i trattati si presentano come semplici trattati internazionali, ai quali l’Italia ha dato esecuzione tramite leggi ordinarie del Parlamento: l’ORDINE DI ESECUZIONE infatti è stato recepito in tal modo. Una gran parte della politica e della giurisprudenza avrebbe preferito, invece, una norma costituzionale per dar applicazione al processo d’integrazione comunitario, come del resto hanno fatto diversi Stati come la Francia. In realtà l’adesione dell’Italia dapprima alla Comunità ed in seguito all’Unione si è sempre poggiata sul testo dell’art.11 della nostra Costituzione, il quale prevede che <<l’Italia, in condizioni di parità con gli altri Stati, consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni, promuovendo le organizzazioni sovrannazionali volte a tale scopo>>. Tale tesi è stata appoggiata anche dalla Corte Costituzionale, la quale ha sottolineato che l’art.11 non è solo una norma che abilita ad accettare limitazioni di sovranità, ma anche una norma procedurale che consente di NON MODIFICARE la Costituzione.

Più difficile, all’interno del nostro ordinamento, è stata l’attuazione del diritto comunitario secondario, specie con riferimento alle direttive, le quali come ben sappiamo prevedono un intervento dello Stato membro. Inizialmente, nel nostro Paese, si ricorreva allo strumento della DELEGA LEGISLATIVA AL GOVERNO: il Parlamento, con legge, provvedeva a delegare al Governo il compito di emanare decreti legislativi per l’attuazione di un certo numero di atti comunitari, ma ciò comportava tempi troppo lunghi. Per tal motivo, nel 1989 venne emanata la L.86, detta Legge La Pergola, sostituita recentemente dalla L.11/2005. La Legge La Pergola ha introdotto un nuovo meccanismo annuale: ogni anno il Parlamento italiano approva una LEGGE COMUNITARIA che conforma l’ordinamento italiano a quello comunitario (oggi anche le regioni adoperano questo metodo delle leggi comunitarie regionali). Sono previsti TRE METODI PRINCIPALI attraverso cui opera la legge comunitaria:

1. METODO DELL’ATTUAZIONE DIRETTA: è la stessa legge comunitaria ad abrogare o modificare disposizioni vigenti perché in contrasto con gli obblighi di emanazione di atti comunitari o perché disposizioni statali vigenti sono oggetto di procedura d’infrazione da parte della Commissione;

2. METODO DELLA DELEGA LEGISLATIVA AL GOVERNO: la legge comunitaria funge da legge delega alla quale il Governo deve ispirarsi nell’emanazione di un decreto legislativo delegato;

3. METODO DELL’ATTUAZIONE IN VIA REGOLAMENTARE ED AMMINISTRATIVA: si procede alla delegificazione di una determinata materia, dapprima disciplinata da legge dello Stato italiano benché NON CI FOSSE RISERVA DI LEGGE, ed in seguito a ciò disciplinata da un semplice regolamento, quindi da una fonte di rango inferiore.

Per quanto concerne le Regioni, invece, la modifica del Titolo V Parte II della Costituzione avvenuta nel 2001 ha previsto che tra le materie di competenza concorrente tra Stato e regioni, ed in alcuni casi tra le materie di competenza esclusiva delle regioni, rientri l’attuazione del diritto comunitario. Le regioni, quindi, secondo il nuovo testo dell’art.117 della Costituzione, possono dare immediata applicazione alle direttive comunitarie, grazie anche alla L.11/2005, senza tra l’altro, come invece prevedeva la legge La Pergola, un parere preventivo dello Stato. Questo non esclude che, in materia di competenza concorrente, sia lo Stato a fissare i principi fondamentali di attuazione, mentre le regioni si occupano della disciplina specifica. Inoltre lo Stato ha anche, in forza sempre dell’art.117 Cost. V comma, un potere sostitutivo nel caso di inadempimento regionale, che opera tramite una “sostituzione preventiva”, prendendo provvedimenti che opereranno solo a partire dalla scadenza del periodo entro cui le regioni avrebbero dovuto provvedere all’attuazione degli atti comunitari, oppure tramite una “sostituzione successiva”, concedendo alle regioni di potersi ancora adeguare al diritto comunitario autonomamente, almeno prima dell’intervento del Consiglio dei Ministri.

PARTE IV – DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA E SOGGETTI DEGLI ORDINAMENTI INTERNI

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L’intero complesso di norme dell’ordinamento comunitario, cioè derivante dal TCE, riconosce come titolari di soggettività giuridica non solo gli Stati membri, ma anche le stesse persone fisiche e giuridiche appartenenti a tali Stati, il che comporta che le norme comunitarie presentano due dimensioni: una INTERNAZIONALE ed una INTERNA. A livello internazionalistico la Comunità (oggi l’Unione) attraverso le sue istituzioni può far valere diritti ed obblighi nei confronti degli Stati membri o delle altre istituzioni. In caso di controversi si può sfociare in procedimenti giudiziari di soluzione. Sotto il profilo interno, invece, molto spesso troviamo contrapposti tra loro soggetti privati (rapporti orizzontali) o un soggetto pubblico ed uno privato (rapporti verticali). Il diritto comunitario interviene su tali rapporti soventemente tramite la disciplina dei rapporti stessi: i regolamenti, per esempio, essendo direttamente applicabili disciplinano un’intera materia sostituendosi alle norme interne preesistenti (EFFETTO DI SOSTITUZIONE). Altre volte, invece, il diritto comunitario si limita ad impedire l’applicazione di norme interne contrarie a principi e regole comunitarie (EFFETTO DI OPPOSIZIONE). In tali casi la norma comunitaria, si suol dire, che produce effetti diretti, ossia gode di EFFICACIA DIRETTA negli ordinamenti nazionali, il che implica che un soggetto nei cui confronti la norma produce effetti può pretenderne il rispetto da parte dell’altro soggetto (EFFICACIA DIRETTA IN SENSO SOSTANZIALE). Nel caso in cui l’altro soggetto non rispetti tale diritto, l’efficacia diretta comporta anche l’INVOCABILITA’ IN GIUDIZIO: i soggetti lesi possono chiedere al giudice nazionale l’applicazione in giudizio della norma stessa. Non dobbiamo confondere, in questi casi, l’EFFICACIA DIRETTA con l’APPLICABILITA’ DIRETTA: quest’ultima comporta, infatti, che gli ordinamenti nazionali si adeguino automaticamente al diritto comunitario, senza l’intervento degli Stati membri, il che avviene per i soli regolamenti. L’efficacia diretta si configura, al contrario, anche per quanto concerne le direttive e le decisioni, sebbene solo in taluni casi.

L’efficacia diretta, tra l’altro, non è l’unica forma con cui le norme comunitarie assumono rilevanza normativa interna: la giurisprudenza ha individuato, infatti, altre due forme di EFFICACIA INDIRETTA. Quando, infatti, un atto comunitario non ha efficacia diretta, ha pur sempre due caratteristiche fondamentali: obbliga i giudici nazionali ad un’INTERPRETAZIONE CONFORME al diritto comunitario e nello stesso tempo fornisce ai singoli la possibilità di chiedere il RISARCIMENTO DEL DANNO a carico degli Stati membri che non hanno permesso al diritto comunitario di operare all’interno dell’ordinamento nazionale.

PRESUPPOSTI DELL’EFFICACIA DIRETTA

Si è già detto che le norme comunitarie non godono tutte di efficacia diretta. Il giudice nazionale, tra l’altro, per risolvere una controversia deve verificare d’ufficio se la norma da applicare abbia le caratteristiche per produrre effetti diretti, avvalendosi, se lo ritiene opportuno, del RINVIO PREGIUDIZIALE, essendo questo tema competenza della Corte di Giustizia.

Le caratteristiche che la Corte tende a verificare sono quelle della SUFFICIENTE PRECISIONE e dell’INCONDIZIONATEZZA DELLA NORMA.

Il presupposto della SUFFICIENTE PRECISIONE riguarda la formulazione della norma, la quale deve contenere un precetto sufficiente a garantire la massima comprensione ai destinatari (principio della certezza del diritto) ed ai giudici che la devono applicare. Ciò richiede che la norma comunitaria specifichi:

IL TITOLARE DELL’OBBLIGO;

IL TITOLARE DEL DIRITTO;

IL CONTENUTO DEL DIRITTO-OBBLIGO DELLA NORMA.

Tra l’altro il requisito della sufficiente precisione deve inerire anche al contenuto del diritto che si intende azionare, perché magari una stessa norma è sufficientemente precisa un fine, ma non per un altro.

Altro presupposto è quello dell’INCONDIZIONATEZZA DELLA NORMA, il quale riguarda l’assenza di clausole che subordinino l’applicazione della norma ad un intervento dello Stato membro o di un’istituzione comunitaria. Non

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rileva, tra l’altro, che la norma sia DESTINATA FORMALMENTE agli Stati membri o alle istituzioni: anche in tal caso potrebbe avere efficacia diretta, in quanto non è escluso che i singoli siano interessati all’attuazione della norma.

Concludendo possiamo dire che anche le norme che non godono di efficacia diretta già all’origine possono comunque avere un’efficacia indiretta tramite il rispetto dei suddetti requisiti.

Ovviamente, però, bisogna distinguere le fonti da cui le norme possono scaturire.

Alcune disposizioni dei trattati, infatti, si rivolgono direttamente ai singoli (esempio: norme in materia di concorrenza) e pertanto hanno da subito efficacia diretta, senza bisogno di ulteriori riflessioni. Va, però, ricordato che, anche se le norme dei trattati sono rivolte agli Stati membri, qualora siano “sufficientemente precise” ed “incondizionate” possono produrre effetti diretti, come abbiamo precedentemente detto.

Il problema dell’efficacia diretta si pone anche riguardo agli “accordi internazionali” conclusi dall’Unione con Stati terzi. I singoli, infatti, potrebbero aver interesse affinché vengano rispettate delle norme che comportano regimi favorevoli agli stessi. La Corte di Giustizia, in tal caso, rivolgerà la propria attenzione al contesto dell’accordo internazionale per verificarne l’efficacia diretta, svolgendo un’analisi dapprima sulla NATURA e sulla STRUTTURA dell’accordo internazionale, che devono permettere di riconoscere effetti diretti alle proprie norme, ed in un secondo momento verificando che le stesse rispettino i caratteri della sufficiente precisione e dell’incondizionatezza (è il caso degli Accordi OMC, cui la Corte non ha riconosciuto, per natura e struttura degli accordi stessi, la possibilità di far nascere diritti nei singoli in forza del diritto comunitario, ma solo limitatamente al proprio diritto nazionale, in quanto è competenza degli Stati membri far operare tali accordi a livello nazionale).

Per quanto concerne i REGOLAMENTI il problema dell’efficacia diretta ha scarsa importanza. Essi godono, infatti, dell’applicabilità diretta, la quale abbraccia anche l’efficacia diretta. I regolamenti, quindi, operano da subito all’interno degli Stati membri producendo diritti in capo ai singoli, tutelabili dagli stessi. Una leggera attenuazione è subita da tale principio nel caso di regolamenti che prevedono provvedimenti nazionali di attuazione ed esecuzione: in tal caso andrà verificata la sufficiente precisione e l’incondizionatezza. I regolamenti producono effetti diretti sia nei rapporti orizzontali che in quelli verticali.

IL CASO DELLE DIRETTIVE E DELLE DECISIONI

Sappiamo bene che le DIRETTIVE non hanno di per sé, come invece avviene per i regolamenti, efficacia diretta, in quanto occorre l’intervento dello Stato membro per attuarle e far assumere alle stesse un valore normativo all’interno dell’ordinamento nazionale. Tuttavia anche le direttive possono avere efficacia diretta, rispettando pur sempre i presupposti sostanziali della sufficiente precisione e dell’incondizionatezza, questo però quando sia già scaduto il termine temporale per l’attuazione, da parte del Paese membro, della direttiva. Prima di allora, infatti, il singolo non può pretendere di vantare diritti in base alla direttiva in quanto è stata la stessa istituzione che l’ha emanata a prevedere che abbia efficacia solo a partire dall’emanazione dell’atto attuativo da parte dello Stato. Dopo la scadenza del termine di attuazione, invece, il singolo può benissimo pretendere l’applicazione di un atto, la direttiva appunto, che farebbe nascere dei diritti in capo allo stesso. Unico caso di efficacia diretta anticipata si ha nel momento in cui uno Stato membro abbia già attuato completamente una direttiva europea, ma l’abbia fatto in maniera errata prima del termine di scadenza: ricordiamo, infatti, che il termine per l’attuazione è previsto nell’interesse degli Stati membri e per tal motivo essi possono attuare le direttive anche prima della scadenza. Qualora, però, ciò si sia verificato ma non correttamente, perché magari lo Stato non ha applicato totalmente la direttiva, il singolo potrà pretendere l’attuazione completa anche se non è scaduto il termine. La prima differenza che ritroviamo, quindi, tra regolamenti e direttive circa l’efficacia diretta sta proprio nell’EFFICACIA TEMPORALE.

La seconda differenza, invece, è inerente alla PORTATA SOGGETTIVA dell’efficacia diretta di una direttiva. Essa, infatti, ha solo una portata verticale, ossia si riferisce solo ai rapporti che esistono tra un singolo ed un’autorità (fosse anche una semplice autorità amministrativa e non legislativa di uno Stato), in quanto il singolo potrà agire nei confronti del

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Paese membro in forza del fatto che spettava ad esso attuare la disciplina contenuta nell’atto comunitario. Non avrà, al contrario, efficacia diretta orizzontale, ossia non produrrà effetti nei rapporti tra privati, in quanto un singolo non potrà in alcun modo imputare all’altro la mancata attuazione della direttiva. Quindi le direttive non possono avere efficacia diretta quanto comporterebbero effetti sfavorevoli in capo ad altri privati. Questo però non sempre è vero, perché non sempre conduce a classificare la fattispecie come un’ipotesi di efficacia orizzontale diretta. Vi sono, infatti, sporadici casi in cui la direttiva inattuata produce effetti anche nei rapporti tra privati, ma deve trattarsi o di rapporti TRIANGOLARI, in cui quindi, oltre ai privati stessi, figura anche un’autorità dello Stato o di PROCEDURE COMUNITARIE DI CONTROLLO che, riguardando adempimenti specifici a carico dei soli Stati membri, non creano obblighi né diritti per i singoli e possono essere applicate dai giudici SENZA CHE SI POSSA PARLARE DI EFFICACIA ORIZZONTALE. Una terza ipotesi di possibilità di attribuire ad una direttiva inattuata efficacia diretta seppur comporti degli effetti sfavorevoli per i singoli la ritroviamo nel caso di SUCCESSIONE DI NORME INTERNE: noi sappiamo che, solitamente, una legge più recente su una determinata materia abroga la legge più longeva sulla stessa materia. Ma che succede se la nuova legge entra in contrasto con una direttiva?tale contrasto, infatti, non produrrebbe altro che l’effetto di far applicare una precedente legge dello stesso Stato, il che potrebbe comportare effetti sfavorevoli in capo ai singoli, ma di certo non per colpa di un atto comunitario, ma semplicemente per l’applicazione di una vecchia legge dello Stato. Questa possibilità è stata esclusa, però, dalla Corte di Giustizia in merito alla Sentenza Berlusconi del 2005: la Corte ha chiarito che una direttiva non potrebbe avere come effetto la disapplicazione di una legge interna che comporti un aggravamento delle responsabilità penali degli imputati.

Per quanto concerne le DECISIONI, invece, si presume che valga la stessa disciplina riservata alle direttive in merito all’efficacia diretta che esse possono avere nel caso in cui siano rimaste inattuate. La Corte di Giustizia, però, non ha mai avuto la possibilità di esprimersi in merito alla possibilità di un’efficacia diretta orizzontale.

L’OBBLIGO D’INTERPRETAZIONE CONFORME

Nelle ipotesi in cui sia impossibile considerare che un atto comunitario abbia efficacia diretta, vi è sempre la possibilità, come abbia già detto, di valutare un’efficacia INDIRETTA dell’atto stesso.

Prima forma di EFFICACIA INDIRETTA la ritroviamo nell’OBBLIGO D’INTERPRETAZIONE CONFORME: i giudici degli Stati membri, infatti, sono tenuti ad interpretare il diritto per poterlo applicare, ove possibile, nel maggior rispetto del diritto comunitario (questo in base all’obbligo di leale collaborazione). I giudici, quindi, sono obbligati a fare il possibile affinché una direttiva raggiunga il risultato voluto. Quindi, se nel caso di direttiva che abbia diretta efficacia il giudice disapplica la norma interna configgente con quella comunitaria, nel caso di interpretazione conforme il giudice applica la norma interna, ma lo fa nella maniera più vicina possibile alla normativa comunitaria NON DOTATA DI DIRETTA EFFICACIA. Questo avviene SIA nel caso in cui il giudice si trovi ad applicare la legge interna di attuazione della direttiva, che magari lo Stato non ha provveduto a far aderire completamente a quanto voluto dall’atto comunitario, SIA nel caso si tratti di applicare norme interne più antiche senza riferimento diretto alla direttiva: in tal caso, infatti, si dovrebbe presumere che il diritto interno è sempre conforme a quello comunitario.

Va chiarito che l’obbligo di interpretazione conforme incontra alcuni LIMITI.

Il primo limite è dato dal fatto che l’obbligo di interpretazione conforme permane solo se vi è un margine di discrezionalità nella scelta dell’interpretazione da parte del giudice: se, infatti, la disciplina interna è inequivocabilmente CONTRARIA alla direttiva e quest’ultima non gode di efficacia diretta, il giudice dovrà applicare la norma interna, in quanto non può la direttiva ASSUMERE IL VALORE DI FONDAMENTO CONTRA LEGEM DEL DIRITTO NAZIONALE.

Il secondo limite deriva dal fatto che l’obbligo d’interpretazione conforme esiste solo DOPO LA SCADENZA DEL TERMINE DI ATTUAZIONE.

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Le direttive, inoltre, ed è questo il terzo limite, sebbene siano inattuate anche dopo la scadenza del termine di attuazione, non possono in alcun modo essere interpretate avendo l’effetto di AGGRAVARE LA RESPONSABILITA’ PENALE DEGLI INDIVIDUI. Non può, quindi, il giudice applicare una norma interna interpretandola secondo il senso della direttiva comunitaria ed aggravare nello stesso tempo, tramite tale interpretazione, la responsabilità penale dell’individuo.

L’obbligo di interpretazione conforme, inoltre, come sostenuto dalla Corte di Giustizia esiste anche nei confronti delle decisioni-quadro prese all’interno del III pilastro dell’Unione, nonostante esse NON abbiano efficacia diretta per espressa volontà del legislatore comunitario.

IL RISARCIMENTO DEL DANNO

Non vi è dubbio che qualora uno Stato membro non ottemperi ai propri doveri di attuazione di una direttiva che sia direttamente efficace, esso debba il risarcimento del danno ai soggetti lesi in capo ai quali sarebbe sorto un diritto.

Nel caso di direttiva inattuata priva di efficacia diretta il diritto al risarcimento del danno permane, ma costituisce un diritto in se stesso, non un diritto derivato da uno principale.

Ovviamente perché il diritto al risarcimento sorga occorre che si verifichino tre condizioni:

1. La norma violata deve essere diretta a conferire diritti ai singoli danneggiati;

2. La violazione deve essere grave e manifesta;

3. Tra violazione e danno vi deve essere un nesso di causalità, mentre non è necessario l’elemento psicologico (dolo o colpa).

Gli organi interni ad uno Stato che possono, con il loro comportamento commissivo od omissivo, causare la responsabilità per danno di uno Stato membro NON SONO SOLO gli organi legislativi, bensì anche le autorità fiscali, gli enti locali ed addirittura il potere giudiziario, potere che al pari degli altri, secondo la Corte di Giustizia (sentenza Kobler 2003), deve garantire il rispetto del diritto comunitario.

LA TUTELA PROCESSUALE DEI DIRITTI DI ORIGINE COMUNITARIA

Abbiamo visto che le norme comunitarie possono essere invocate dai singoli, dinanzi ai giudici nazionali, per il rispetto dei diritti in esse contenuti. La fonte che regola gli ASPETTI PROCESSUALI, ossia quelli attinenti all’esercizio in giudizio dei diritti comunitari, è, in linea generale, lo Stato membro e solo talune volte possono intervenire le istituzioni comunitarie con atti d’armonizzazione. Questo principio prende il nome di AUTONOMIA PROCESSUALE DEGLI STATI MEMBRI ed incontra alcuni limiti sia nel PRINCIPIO DI EQUIVALENZA, secondo cui le modalità con cui far valere il proprio diritto di matrice comunitaria non devono essere meno favorevoli rispetto a quelle con cui far valere diritti che sorgono dall’ordinamento interno, sia nel PRINCIPIO DI EFFETTIVITA’, secondo cui non si deve rendere particolarmente difficile o addirittura impossibile l’esercizio del diritto stesso.

Per quanto concerne i termini di prescrizione o di decadenza previsti all’interno degli Stati membri, la Corte di Giustizia ha stabilito che essi possano decorrere solo dal momento in cui la disciplina comunitaria è stata completamente trasposta all’interno dell’ordinamento, e non dal momento in cui si è verificato il fatto o dal momento in cui il diritto poteva essere esercitato, come se si fosse trattato di diritto nascente da norme interne.

IL PRIMATO DEL DIRITTO COMUNITARIO

Il fatto che il diritto comunitario produca effetti diretti all’interno degli ordinamenti nazionali degli Stati membri ci permette di capire molto facilmente che potrebbero nascere delle incompatibilità tra norme comunitarie e norme del diritto interno, sia che si tratti di norma interna emanata anteriormente rispetto all’atto comunitario, sia che si tratti

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di norma interna successiva. Tali conflitti sono risolti da un principio giurisprudenziale della Corte di giustizia definito come PRINCIPIO DEL PRIMATO COMUNITARIO, secondo cui i giudici nazionali, nell’ambito di qualsivoglia causa, ravvisata l’incompatibilità tra norme, dovrebbero disapplicare il diritto interno e dar luogo all’applicazione di quello comunitario. Tutto ciò, sotto un profilo logico, è comprensibile data l’efficacia diretta di cui sono dotati gran parte degli atti comunitari: l’Unione deve garantire, al di la del rango della norma interna da disapplicare, un’omogeneità di applicazione del diritto comunitario ed in alcun modo potrebbe permettere che una norma venga applicata differentemente in diversi Paesi membri. A tracciare le linee guida del principio del primato fu la Corte di Giustizia con la Sentenza Costa c. ENEL del 1964. In un’altra sentenza, inoltre, la Corte precisò anche che qualsivoglia giudice avrebbe dovuto disapplicare il diritto interno, senza attendere che a far ciò fosse l’organo legislativo o un organo giurisdizionale di più alto livello (Sentenza Simmenthal del 1978). La Corte, inoltre, in tale sentenza delineò l’ordinamento comunitario come un ordinamento addirittura di rango superiore rispetto a quelli interni ai Paesi membri, sottolineando quindi che una norma incompatibile con il diritto comunitario non solo non sarebbe dovuta essere applicata, ma sarebbe dovuta scomparire dall’ordinamento nazionale. La Corte costituzionale italiana nella Sentenza Granital del 1984 si rifiutò di accettare una simile impostazione di quasi abrogazione implicita delle norme nazionali e la stessa Corte di Giustizia nella sentenza IN.CO.GE del 1990 è tornata sui suoi passi ed ha respinto tale idea.

Il giudice nazionale, inoltre, ha la possibilità di sospendere l’applicazione di una norma interna emanando dei provvedimenti provvisori, in attesa che sia definitivamente accertata, tramite il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, l’incompatibilità della norma interna con il diritto comunitario.

Tutto ciò, comunque, non esime il legislatore nazionale dal compito di abrogare la norma interna incompatibile, garantendo agli interessati la certezza di potersi rivolgere al diritto comunitario.

LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE ITALIANA

La Corte Costituzionale italiana è stato uno degli organi a livello europeo che ha accettato con maggiori difficoltà il principio del Primato del diritto comunitario.

Inizialmente la Corte Costituzionale, dando un’esatta interpretazione della carta costituzionale, si focalizza sulla legge di esecuzione del Trattato del 1957, sottolineando che essa ha il rango di legge ordinaria e che potrebbe in qualsiasi momento, per effetto del principio cronologico, essere abrogata da una legge interna successiva in contrasto con essa. La Corte, infatti, esclude che la norma in contrasto con il diritto comunitario sia incostituzionale per violazione indiretta dell’art.11 della Costituzione, in quanto esso stesso non fa riferimenti particolari alla legge sul Trattato, in quanto anteriore, né tanto meno le attribuisce un particolare valore.

Nasce quindi il contrasto con la Corte di Giustizia, la quale afferma che il diritto comunitario debba sempre prevalere su quello interno degli Stati membri e che il giudice debba disapplicare il diritto interno.

Con la sentenza I.C.I.C. del 1976 la Corte costituzionale fa un primo passo in avanti verso la Corte di Giustizia, valorizzando maggiormente l’art.11 Cost. e sottolineando che in casi d’incompatibilità tra diritti interno e diritto comunitario, la norma interna è incostituzionale per contrasto con il suddetto articolo 11. Riassumendo, quindi, qualora la legge interna sia anteriore all’atto comunitario, prevarrà quest’ultimo per il principio si successione delle leggi ed il giudice dovrà disapplicare la norma interna. Qualora invece avvenga il contrario, il giudice dovrà rimettere la decisione nelle mani della Corte Costituzionale che deciderà per l’abrogazione della norma interna. Ben presto, però, si intuisce che la tale operatività non garantisce un’immediata applicazione del diritto comunitario, prevedendo tempi troppo lunghi per l’abrogazione di norme interne.

Il sopravvenire della Sentenza Simmenthal da parte della Corte di Giustizia, in cui si afferma anche un grado gerarchico superiore dell’ordinamento comunitario, infastidisce la Corte Costituzionale che, sorprendentemente nella sentenza Granital del 1984 ritiene inammissibile la questione, non dichiarando l’incostituzionalità di una norma

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interna rispetto all’articolo 11, bensì prevedendo l’operatività del CRITERIO DI COMPETENZA, secondo cui ordinamento italiano ed ordinamento comunitario devono essere coordinati, ma permangono due ordinamenti distinti. Il giudice, quindi, dovrà esaminare se la materia prospettata nella questione specifica ricade, in forza del Trattato, nelle materie di competenza comunitaria o meno: qualora dovesse ravvisare che su quella materia avesse competenza la CE, allora dovrà semplicemente disapplicare la norma interna e dar luogo a quella comunitaria. In caso contrario, dovrà applicare la norma di diritto italiano.

La Corte di Giustizia non vede di buon occhio la soluzione prospettata dalla Corte Costituzionale italiana, ma la deve accettare: sa bene, infatti, che un regolamento comunitario non può in alcun modo abrogare, modificare o invalidare una norma di diritto interno.

La Corte Costituzionale, inoltre, mantiene una COMPETENZA RESIDUA, ed impedisce pertanto al giudice di disapplicare la norma interna favorendo quella comunitaria, in due occasioni specifiche.

La PRIMA IPOTESI riguarda l’eventualità di una NORMA COMUNITARIA IN CONTRASTO CON I PRINCIPI FONDAMENTALI DELL’ORDINAMENTO COSTITUZIONALE ITALIANO E CON I DIRITTI DELL’UOMO. Nella sentenza Frontini del 1973 la Corte Costituzionale sottolinea come in tal caso il giudice a quo debba SOLLEVARE LA QUESTIONE DI COSTITUZIONALITA’ DEL TRATTATO, minacciando di dichiararne l’incostituzionalità. La Corte, tuttavia, non vieta al giudice del caso concreto di rivolgersi preventivamente, in caso di violazione dei diritti dell’uomo, alla Corte di Giustizia, tramite il ricorso pregiudiziale, in quanto quest’ultima potrebbe dichiarare la stessa norma comunitaria contraria ai diritti dell’uomo condivisi dalla CE.

La SECONDA IPOTESI riguarda, invece, il caso in cui la Corte Costituzionale debba intervenire perché norme di legge interne SONO DIRETTE AD IMPEDIRE IL RISPETTO DEI PRINCIPI FONDAMENTALI DEL TRATTATO: si tratta di casi in cui il legislatore italiano ha rimosso, seppur parzialmente, tramite un proprio atto legislativo alcuni dei limiti di sovranità previsti dal Trattato. In tal caso dovrebbe dichiarare l’incostituzionalità del suddetto atto.

Va sottolineato, infine, come con la revisione del Titolo V Parte II della Costituzione avvenuta nel 2001, sia stato definitivamente consacrato il Principio del PRIMATO COMUNITARIO, prevedendo all’art.117 cost. nel suo nuovo testo che la potestà legislativa esercitata da Stato e Regioni rispetti, oltre agli altri vincoli, anche quelli imposti dall’ORDINAMENTO COMUNITARIO.

PARTE V – IL SISTEMA DI TUTELA GIURISDIZIONALE

CONSIDERAZIONI GENERALI

E’ previsto all’interno dell’ordinamento comunitario un sistema di tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche sorte grazie al diritto comunitario.

Tale sistema è ripartito tra la competenza DIRETTA del giudice comunitario e quella generale del giudice nazionale.

Gli organi giurisdizionali comunitari hanno competenza in caso di:

RICORSI PER INFRAZIONE: proposti contro uno Stato membro accusato di aver violato le norme del Trattato;

RICORSI D’ANNULLAMENTO: con cui si contesta la legittimità degli atti delle istituzioni;

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RICORSI IN CARENZA: con cui si contesta l’illegittima omissione di un’istituzione;

RICORSI PER RISARCIMENTO: in cui si contesta la responsabilità extracontrattuale delle istituzioni;

ALTRE MATERIE MINORIS GENERIS: controversie tra istituzioni e dipendenti; controversie riguardanti la BEI; ECCEZIONE DI INVALIDITA’ su un regolamento; altre competenze consultive.

Al di fuori di tutto ciò vige, invece, la competenza del giudice nazionale, al quale i singoli possono rivolgersi per pretendere il rispetto di un proprio diritto di matrice comunitaria.

Vi è poi uno strumento di raccordo, ideato per garantire l’uniformità del diritto comunitario, che consiste nel RINVIO PREGIUDIZIALE di cui all’art.234 TCE, in forza del quale il giudice nazionale può, o addirittura è obbligato in taluni casi, rivolgersi al giudice comunitario per chiedere come debba essere applicata una determinata norma comunitaria.

Il sistema di tutela giurisdizionale di cui abbiamo parlato, inoltre, deve essere un sistema di TUTELA EFFETTIVA: nessuna lacuna del sistema stesso potrebbe, infatti, impedire ad un singolo di far rispettare un diritto attribuitogli da un atto comunitario. Qualora non dovesse bastare l’intervento del giudice comunitario, infatti, toccherà al giudice nazionale sanare le lacune esistenti, anche qualora egli debba ricorrere ad un’interpretazione estensiva, ma anche manipolativa, di una norma già esistente.

Per quanto concerne, invece, il SECONDO e TERZO PILASTRO, non esiste un sistema così avanzato di controllo giurisdizionale, o meglio all’interno del pilastro PESC non esiste, mentre all’interno del pilastro relativo alla COOPERAZIONE DI POLIZIA E GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE, alla Corte di Giustizia sono attribuite alcune competenze.

RICORSO PER INFRAZIONE

Il ricorso per infrazione era disciplinato, prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, dagli articoli 226 e 227 del TCE, oltre che dall’art.228 TCE in caso di accoglimento del ricorso. OGGETTO del ricorso è la presunta violazione, da parte di uno Stato membro, del Trattato o degli atti adottati in base allo stesso (esempio: attuazione delle direttive). Per Stato membro, tra l’altro, non si intendono solo gli organi governativi dello Stato in questione, ma anche quelli indipendenti rispetto ad esso (Parlamento e Magistratura), tanto quanto le articolazioni in cui è organizzato il potere pubblico (forze di polizia, uffici fiscali ecc.), tanto quanto gli enti territoriali. Non è necessario, tra l’altro, dimostrare la presenza di un elemento psicologico dello Stato membro (dolo o colpa) e tanto meno lo Stato in questione può addurre delle giustificazioni per il proprio comportamento.

Il procedimento di ricorso può essere proposto dalla Commissione (art.226), organo garante della legalità comunitaria, o da un altro Stato membro (art.227); ai singoli, quindi, è precluso il ricorso alla Corte di Giustizia.

Sono previste due fasi del ricorso: la prima è una fase PRECONTENZIOSA PRELIMINARE, nella quale si apre un confronto tra il ricorrente ed il destinatario del ricorso circa il rispetto degli obblighi del trattato, il che potrebbe evitare il ricorso alla Corte; la seconda fase, invece, è CONTENZIOSA e si svolge dinanzi alla Corte, portando così ad una decisione giudiziaria.

Nel caso in cui sia la Commissione a dare avvio al procedimento di ricorso, la fase PRECONTENZIOSA si articola in più momenti:

1. La Commissione invia allo Stato membro una LETTERA DI MESSA IN MORA, in cui riferisce di alcuni comportamenti contrari al Trattato e lo invita a presentare le proprie osservazioni;

2. Lo Stato presenta le proprie osservazioni, in mancanza delle quali la Commissione può andare avanti;

3. La Commissione emette un PARERE MOTIVATO con il quale addebita allo Stato membro determinate

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violazioni intimandogli di provvedere alla rimozione delle stesse entro un determinato TERMINE, dopo il quale sarà comunque l’organo competente, la Corte di Giustizia, ad esprimersi.

Talune volte, tra l’altro, non è neanche necessaria la fase precontenziosa, ad esempio in tema di aiuti degli Stati membri alle imprese: in tal caso la Commissione intima al Paese membro di cessare tale comportamento e qualora ciò non avvenga, si rivolge direttamente alla Corte.

Il passaggio alla FASE CONTENZIOSA può avvenire solo dopo che è scaduto il termine per il ricorso, e tra l’altro la possibilità di adire la Corte è a discrezione della Commissione. Una volta aperta tale fase, però, anche qualora lo Stato membro si adegui, il procedimento va avanti, almeno che non sia la stessa Commissione a ritirare il ricorso. La sentenza della Corte è una sentenza di MERO ACCERTAMENTO della violazione, che non impone alcuna condanna. Lo Stato, tuttavia, è tenuto a prendere provvedimenti per la rimozione della violazione in questione. Qualora non lo faccia, la Commissione potrà avviare un secondo procedimento d’infrazione, passando sempre dalla fase precontenziosa, ma esprimendo nel proprio parere motivato una somma forfettaria o una penalità da addebitare allo Stato membro. La Corte, quindi, emetterà una vera e propria sentenza di condanna. Il Trattato di Lisbona, peraltro, ha previsto una maggiore celerità del secondo procedimento, prevedendo che la Commissione possa saltare la fase precontenziosa.

Quando, invece, è uno Stato membro ad avviare il procedimento d’infrazione, esso deve obbligatoriamente rivolgersi alla Commissione, la quale seguirà l’iter sopra descritto. Qualora, però, la Commissione non emetta il PARERE MOTIVATO entro tre mesi, lo Stato ricorrente potrà rivolgersi direttamente alla Corte di Giustizia. L’eventuale secondo ricorso, benché potrà essere avviato sempre dal Paese ricorrente, prevederà sempre che a chiedere la comminazione di una sanzione pecuniaria sia solo la Commissione.

RICORSO D’ANNULLAMENTO

All’interno del sistema comunitario ritroviamo diversi mezzi con cui la Corte può effettuare un controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni:

Ricorsi d’annullamento;

Eccezione d’invalidità;

Questioni pregiudiziali di validità;

Controllo a titolo incidentale nell’ambito di un ricorso per risarcimento dei danni extracontrattuali, in quanto il riconoscimento degli stessi presuppone l’invalidità dell’atto.

Il RICORSO D’ANNULLAMENTO era disciplinato, prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, dagli artt.230 e ss. del TCE e costituisce la forma principale di controllo giurisdizionale di legittimità degli atti delle istituzioni.

Per definire gli ATTI IMPUGNABILI l’art.230 fa riferimento a 3 criteri: AUTORE, TIPO & EFFETTI.

Per quanto concerne l’AUTORE, possono essere impugnati:

Gli atti congiunti del Parlamento e del Consiglio (quelli adottati con procedura di codecisione);

Gli atti del Consiglio;

Gli atti del Parlamento (impugnabili solo dopo l’aumento dei poteri parlamentari);

Gli atti della Commissione;

Gli atti della Banca Centrale Europea.

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Solo tali istituzioni, quindi, hanno legittimazione passiva all’interno del ricorso d’annullamento.

Per quanto riguarda il TIPO di atti, invece, vanno presi in considerazione:

I Regolamenti;

Le Direttive;

Le Decisioni;

Gli Atti atipici.

Sono esclusi, dunque, i pareri e le raccomandazioni.

Sotto il profilo degli EFFETTI, invece, va tenuto conto del fatto che sono atti impugnabili solo quelli SUSCETTIBILI DI CREARE EFFETTI GIURIDICI OBBLIGATORI, e questo lo possiamo dedurre sia dall’esclusione di pareri e raccomandazioni, sia dal fatto che gli atti del solo Parlamento Europeo impugnabili sono quelli destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. Gli unici dubbi che permangono riguardano gli atti atipici, di cui non è presente una definizione e che quindi dovranno essere valutati volta per volta.

Il Trattato di Lisbona, modificando le stesse istituzioni ed i rispettivi atti, ha previsto che siano impugnabili:

Gli atti LEGISLATIVI del Consiglio, del Parlamento o assunti da entrambi;

Gli atti del Consiglio, della Commissione e della BCE, esclusi pareri e raccomandazioni;

Gli atti del PE e del Consiglio Europeo destinati a produrre effetti giuridici verso terzi;

Gli atti di organi ed organismi dell’Unione destinati a produrre effetti giuridici verso terzi.

Per quanto riguarda i SOGGETTI LEGITTIMATI ATTIVAMENTE a proporre il ricorso, essi si possono distinguere in tre categorie:

1. Ricorrenti PRIVILEGIATI = si tratta del Parlamento, del Consiglio, della Commissione e degli Stati membri (intendendosi per Stati membri i soli organi governativi e non anche gli esecutivi di regioni e province; per tal motivo la regione che vorrà impugnare un atto, dovrà rivolgersi al Governo dello Stato membro, anche obbligandolo all’interno della Conferenza Stato-Regioni, deliberando a maggioranza assoluta. Resta il fatto, però, che il ricorso debba essere presentato dal Governo dello Stato membro.) Essi possono impugnare qualsiasi atto impugnabile a norma dell’art.230 e non devono dimostrare alcun interesse a ricorrere;

2. Ricorrenti INTERMEDI = si tratta della Corte dei Conti Europea e della BCE; essi, però, devono dimostrare che tramite l’atto impugnato ci sia stata una violazione di competenza o sia stato pregiudicato l’esercizio dei compiti ad essi affidati. Il Trattato di Lisbona ha ampliato tale categoria, aggiungendo il Comitato delle Regioni;

3. Ricorrenti NON PRIVILEGIATI = si tratta di persone fisiche e giuridiche dell’Unione, le quali possono impugnare l’atto in due casi distinti:

Impugnando una decisione presa NEI PROPRI CONFRONTI, cioè una decisione in cui il ricorrente sia destinatario dell’atto e quindi deve dimostrare solo l’interesse a ricorrere (la posizione del ricorrente è pregiudicata dall’atto);

Impugnando un atto di cui NON E’ DIRETTAMENTE destinatario il ricorrente, ma che lo riguarda direttamente ed individualmente (deve dimostrare, benché non sia il destinatario, di avere un interesse diretto ed individuale). Conviene, in tal caso, fare una netta distinzione tra UNA DECISIONE RIVOLTA AD ALTRE PERSONE

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FISICHE E GIURIDICHE, ed in tal caso l’onere probatorio che il ricorrente deve superare non è eccessivo, dovendo dimostrare solo un proprio interesse qualificato all’annullamento dell’atto, & un REGOLAMENTO O UNA DECISIONE RIVOLTA AD UNO O PIU’ STATI MEMBRI, ed in tal caso l’onere probatorio che il ricorrente non privilegiato deve superare è maggiore del precedente, in quanto l’interesse diretto potrà essere superato dimostrando che il ricorrente è pregiudicato direttamente dall’attuazione che lo Stato membro darà a quel regolamento o a quella decisione, mentre l’interesse individuale è un vero e proprio scoglio, in quanto il ricorrente non basta che dimostri di essere colpito direttamente dall’atto al pari di tutti i soggetti che, per esempio, appartengono alla sua stessa categoria, ma occorre dimostrare che l’atto produca effetti giuridici SOLTANTO SULLA POSIZIONE INDIVIDUALE del ricorrente, per esempio procedendo allo SMASCHERAMENTO DELL’ATTO, che, seppur formalmente destinato allo Stato membro, tende a colpire proprio il ricorrente, oppure dimostrando che l’atto riguarda individualmente il ricorrente o fa espresso riferimento ad esso, oppure dimostrando che l’istituzione autrice dell’atto avrebbe dovuto prendere in considerazione la posizione giuridica di determinati soggetti, tra cui il ricorrente.

Le difficoltà appena descritte nel dimostrare l’interesse diretto ed individuale ed il fatto che i regolamenti che non richiedono alcun atto attuativo da parte degli Stati membri renderebbero impossibile il ricorso da parte di persone fisiche e giuridiche, ha spinto nel tempo sia i ricorrenti che la stessa Corte ha chiedere una modifica dell’art.230 che preveda una maggiore facilità per proporre il ricorso. Il Trattato di Lisbona ha accolto tali richieste prevedendo che le condizioni di ricevibilità dei ricorsi individuali siano meno severe nel caso di impugnazione di atti regolamentari che non comportano alcuna misura di esecuzione, essendo sufficienti dimostrare l’interesse diretto; in caso, però, di atti regolamentari non legislativi che dovranno essere seguiti da atti di esecuzione, occorrerà rispettare le suddette condizioni originarie (dimostrazione dell’interesse non solo diretto, ma anche individuale).

Tornando a parlare del ricorso d’annullamento, dobbiamo evidenziare quali sono i VIZI DI LEGITTIMITA’ che possono essere fatti valere nell’ambito del ricorso stesso, ossia:

INCOMPETENZA;

VIOLAZIONE DELLE FORME SOSTANZIALI;

VIOLAZIONE DELLE NORME DEL TRATTATO O DI REGOLE DI DIRITTO RELATIVE ALLA SUA APPLICAZIONE;

SVIAMENTO DI POTERE.

Analizziamo nel dettaglio i vizi da cui può essere affetto l’atto.

L’INCOMPETENZA può essere sia interna che esterna. E’ interna qualora l’istituzione autrice dell’atto non potesse proprio emanarlo, in quanto competenza di altra istituzione; è esterna qualora né quella istituzione, né nessun altra potessero emanare quell’atto, che non è di competenza comunitaria ma semmai degli Stati membri.

La VIOLAZIONE DELLE FORME SOSTANZIALI può riguardare o il procedimento con cui è stato emanato l’atto, viziato perché non rispettato o rispettato parzialmente (può darsi per caso che non sia stata sentita la parte interessata prima di adottare l’atto, come invece era previsto), oppure l’assenza o l’insufficienza della motivazione fornita dall’atto, particolarmente importante in caso di decisioni destinate ad avere effetti individuali.

La VIOLAZIONE DELLE NORME DEL TRATTATO O DI REGOLE DI DIRITTO RELATIVE ALLA SUA APPLICAZIONE rappresenta il vizio più frequentemente invocato: la violazione consiste nel fatto che l’atto entra in contrasto con una norma gerarchicamente superiore, ossia appartenente al trattato o ad una sua regola di applicazione.

Lo SVIAMENTO DI POTERE, invece, si ha nel momento in cui un’istituzione adotta un atto che aveva il potere di adottare, ma perseguendo un fine diverso da quello per cui il potere le era stato conferito.

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Per quanto concerne il termine entro il quale promuovere il ricorso, esso è di 2 mesi a partire dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, qualora l’atto sia sottoposto a tale regime di pubblicità, a partire dalla notificazione, ma solo per quanto riguarda il destinatario della notifica, o a partire dalla data in cui il ricorrente ha avuto conoscenza dell’atto.

Per quanto concerne, invece, l’efficacia delle sentenze di annullamento, esse comportano che l’atto sia dichiarato nulla erga omnes e la nullità retroagisca al momento in cui è stato emanato l’atto. La Corte, solo per quanto riguarda alcuni atti ed in particolar modo i regolamenti, può decidere che l’atto sia nullo solo nei confronti del ricorrente o solo a partire da un momento successivo all’emanazione della sentenza e quindi non abbia efficacia retroattiva.

Il controllo che la Corte svolge è un controllo di mera legittimità dell’atto e solo per quanto concerne i regolamenti del Consiglio e del Parlamento, o del solo Consiglio la Corte può avere competenza di merito, limitata al riesame delle sanzioni.

Va sottolineato, infine, che il Trattato di Lisbona, avendo soppresso la differenza preesistente tra III e I pilastro, ha fatto in modo che il ricorso d’annullamento sia proponibile anche per quanto concerne gli atti di Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. La Corte, al contrario, non ha competenza in ambito PESC, anche secondo il Trattato di Lisbona, salvo il caso nel cui un atto PESC riguardi una materia di competenza comunitaria.

Abbiamo più volte citato, all’interno del paragrafo, l’art.230 TCE: va evidenziato che esso è stato sostituito, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, dall’art.263 TF.

RICORSO IN CARENZA

Il RICORSO IN CARENZA riguarda tutte quelle situazioni in cui a carico di un’istituzione vi è un obbligo di agire e l’istituzione sia colpevole di aver omesso illegittimamente tale azione. Presupposti quindi di tale ricorso sono:

L’esistenza di un OBBLIGO DI AGIRE a carico di un’istituzione;

La VIOLAZIONE di tale obbligo.

E’ giusto sottolineare che quando un’azione è rimessa alla semplice discrezionalità dell’istituzione il ricorso deve essere rigettato.

Il ricorso, inoltre, può essere presentato solo se il ricorrente HA RICHIESTO ALL’ISTITUZIONE DI AGIRE, seppur tardivamente e previo sollecito, e sia SCADUTO IL TERMINE DI DUE MESI DALLA RICHIESTA. Quindi anche in questo caso è prevista una FASE PRECONTENZIOSA, nella quale viene inviata all’istituzione interessata una richiesta di agire (denominata come DIFFIDA O MESSA IN MORA) dalla quale deve evincersi con chiarezza la minaccia di avviare un ricorso in carenza e l’atto di cui è richiesta l’adozione. L’istituzione, invece, deve assumere una posizione definitiva, che può scaturire anche da un rifiuto espresso e motivato di emanare quell’atto o da un atto non coincidente con la richiesta. In tal caso tale atto sarebbe impugnabile a norma dell’art.230 TCE (art.263 TF), ma non tramite un ricorso per carenza. Se invece decorrono due mesi dalla richiesta e l’istituzione non prende una posizione definitiva, il richiedente può presentare ricorso e si passa alla FASE CONTENZIOSA.

Hanno legittimazione passiva, in tali ricorsi, il PE, il Consiglio, la Commissione e la BCE e di recente, grazie al Trattato di Lisbona, anche gli organi ed organismi dell’UE che si astengono dal pronunciarsi.

Hanno, invece, legittimazione attiva:

RICORRENTI PRIVILEGIATI: Stati membri ed altre Istituzioni (ivi compresa la Corte dei Conti), i quali non devono dimostrare l’interesse a ricorrere;

BCE, che può ricorrere solo nei settori di propria competenza;

RICORRENTI NON PRIVILEGIATI: persone fisiche e giuridiche possono ricorrere contro l’omissione di una

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decisione destinata al ricorrente, o contro l’omissione di un regolamento o di una decisione di cui il ricorrente non è il destinatario, ma nei confronti della quale egli ha un interesse diretto ed individuale, proprio come avviene per l’ex art.230.

La sentenza che scaturisce dal ricorso in carenza è una sentenza di ACCERTAMENTO, che obbliga l’istituzione ad agire, ma non prevede un obbligo specifico di facere né tanto meno la stessa Corte può adottare l’atto omesso.

RICORSO PER RISARCIMENTO DANNI

Cominciamo col dire che i danni cagionati dalle istituzioni comunitarie o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni devono essere risarciti dalla Comunità (oggi Unione) e su tali controversie è competente a giudicare la Corte di Giustizia. Questo vale per la sola responsabilità extracontrattuale, mentre per quella contrattuale può essere inserita una clausola all’interno dei vari contratti che dia competenza alla Corte di Giustizia.

La Corte ha più volte precisato che il ricorso per risarcimento danni è notevolmente differente dal ricorso d’annullamento e dal ricorso in carenza, in quanto non mira ad ottenere l’eliminazione degli effetti giuridici di un atto o di un comportamento omissivo, bensì, avendo una propria autonomia data dal Trattato, mira proprio al risarcimento del danno causato dalle istituzioni nell’esercizio dei loro compiti.

Il ricorso per risarcimento, tuttavia, ha carattere RESIDUALE qualora dinanzi al giudice nazionale si possa attivare un’azione analoga che miri allo stesso fine e porti allo stesso risultato.

I presupposti della responsabilità extracontrattuale della Comunità (ribadiamo oggi dell’Unione) non sono sanciti dal Trattato, ma sono da ricercare all’interno dei principi generali comuni ai diritti degli Stati membri e secondo la Corte di Giustizia sono:

Danno effettivo;

Nesso di causalità tra danno e comportamento delle istituzioni;

Illegittimità del comportamento stesso.

Nel caso di atti normativi (es. regolamenti) implicanti scelte di politica economica, occorre inoltre dimostrare:

Che la norma violata conferisse diritti ai singoli;

Che si tratti di violazione grave e manifesta.

Il diritto al risarcimento danni si PRESCRIVE nel termine di 5 anni a partire dal momento in cui ha avuto luogo il fatto che ha originato il diritto al risarcimento.

COMPETENZA PREGIUDIZIALE: CONCETTI GENERALI

La competenza pregiudiziale della Corte di Giustizia è attribuita alla stessa dall’ex art.234 TCE: qualora un giudice nazionale di un qualsivoglia Stato membro, nell’esercizio delle proprie funzioni ravvisi un dubbio su una norma comunitaria a cui non sa fornire autonomamente una soluzione, egli deve rimettere la decisione circa l’interpretazione o l’applicazione di tale norma nelle mani del giudice comunitario. La Corte di Giustizia, d’altro canto, non può entrare nel merito della questione prospettata dinanzi al giudice nazionale, ma deve semplicemente risolvere il dubbio dello stesso, in quanto la causa è iniziata e deve finire dinanzi ad un tribunale nazionale. La competenza pregiudiziale, quindi, appare come una competenza INDIRETTA, in quanto le parti interessate in causa non si sono rivolte loro stesse alla Corte, ed appare anche come una competenza LIMITATA, potendo la Corte decidere solo sulle questioni comunitarie e solo su quelle che il giudice nazionale le ha prospettato.

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La risoluzione del dubbio del giudice nazionale da parte della Corte assume, quindi, una doppia valenza: essa aiuta non solo il giudice, evitando che egli applichi erroneamente il diritto comunitario, ma anche l’applicazione uniforme del diritto stesso all’interno degli Stati membri, tenuto conto anche del carattere dell’efficacia diretta di cui godono la maggior parte degli atti comunitari. Garantisce quindi una corretta applicazione degli atti comunitari.

Tra l’altro va ricordato che il Trattato di Lisbona ha fatto in modo che anche per ciò che concerne la Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale si possa applicare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea, ponendo quindi sotto il controllo giurisdizionale della stessa l’ex terzo pilastro, ora confluito in quello comunitario.

Va tenuto conto, inoltre, del fatto che il giudice nazionale non potrebbe in alcun modo, se non nel caso in cui ne sia fermamente convinto, evitare il rinvio pregiudiziale pregiudicando i diritti dei singoli affinché il diritto dell’Unione venga applicato in maniera effettiva.

AMMISSIBILITA’ E RILEVANZA DELLA QUESTIONE PREGIUDIZIALE

Il meccanismo della collaborazione pregiudiziale si configura, è giusto il caso di dirlo, come un meccanismo di collaborazione e non come uno strumento gerarchico: il giudice nazionale non è un subordinato del giudice comunitario e ciò spiega perché la Corte non eserciti alcun tipo di controllo sulla competenza del giudice nazionale o sulla regolarità del giudizio.

La Corte, invece, ha previsto dei particolari requisiti inerenti il contenuto del provvedimento di rinvio, all’interno del quale il giudice nazionale deve specificare “quali siano le questioni sollevate ed in quale ambito di fatto e di diritto si vadano ad inserire”.

Inizialmente la Corte non verificava la NECESSITA’ DI RINVIO e la RILEVANZA DELLE QUESTIONI di diritto comunitario rispetto alla risoluzione del caso pendente dinanzi al giudice nazionale. Un uso improprio del rinvio pregiudiziale, invece, ha spinto col tempo la Corte a dare rilievo a tali requisiti impedendo così che le vengano prospettate ipotesi di:

CONTROVERSIE FITTIZIE, in cui le parti sono d’accordo sull’interpretazione di una norma comunitaria, ma pretendono una pronuncia della Corte che come sappiamo ha efficacia erga omnes;

QUESTIONI MANIFESTAMENTE IRRILEVANTI, in cui la norma oggetto del rinvio pregiudiziale è manifestamente inapplicabile al caso concreto;

QUESTIONI PURAMENTE IPOTETICHE, che non rispondono ad un concreto bisogno del giudice nazionale in vista della soluzione della controversia.

NOZIONE DI GIURISDIZIONE

L’organo autore del rinvio pregiudiziale deve essere un organo di GIURISDIZIONE di uno degli Stati membri. Deve quindi svolgere anzitutto una FUNZIONE GIURISDIZIONALE, cioè deve essere chiamato a statuire nell’ambito di un procedimento destinato a risolversi con una pronuncia giurisdizionale (la Corte di Giustizia ha negato che ad effettuare il rinvio pregiudiziale sia, per esempio, la CORTE DEI CONTI o l’AUTORITA’ GARANTE DELLE CONCORRENZA E DEL MERCATO.

Devono, inoltre, essere verificati altri requisiti, quali l’ORIGINE LEGALE DELL’ORGANO, per cui non possono rivolgersi alla Corte gli arbitri a cui le parti abbiano affidato la risoluzione di una controversia, o l’indipendenza dell’organo stesso.

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FACOLTA’ ED OBBLIGO DI RINVIO

La posizione dei giudici nazionali in riferimento al rinvio pregiudiziale varia a seconda che essi emettano decisioni contro le quali le parti possono appellarsi, o si tratti di giudici di ultima istanza, qualificati come tale nel momento in cui sarebbe impossibile per le parti avere una diversa soluzione del caso in questione.

Nel caso, quindi, di giudice NON di ultima istanza, il rinvio è oggetto di una FACOLTA’, mentre nel caso contrario si tratta di un OBBLIGO. Va sottolineato, quindi, che il giudice NON di ultima istanza può anche non effettuare il rinvio pregiudiziale, o può farlo nel momento che egli ritiene più opportuno. Inoltre va chiarito che anche il giudice di ultima istanza può rifiutarsi, anche qualora le parti lo richiedano, di effettuare il rinvio pregiudiziale (FACOLTA’ DI RINVIO ANCHE PER I GIUDICI DI ULTIMA ISTANZA) qualora ravvisi che:

La questione sia identica ad altra già prospettata da un giudice nazionale del proprio Paese o di altro Paese membro e a cui la Corte ha già dato una soluzione d’interpretazione;

La risposta alla questione si può dedurre dalla giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia;

La corretta applicazione della norma di diritto comunitario in questione sia tanto palese da non lasciare il minimo dubbio (IPOTESI DELL’ATTO CHIARO): in tal caso, però, il giudice di ultima istanza deve verificare che la soluzione che egli intende adottare si imporrebbe anche ai giudici di altro Stato membro e che egli stesso stia tenendo conto del fatto che il diritto comunitario e quello interno potrebbero non coincidere.

Ultimamente, tra l’altro, la stessa Corte di Giustizia ha previsto che sussista un OBBLIGO DI RINVIO anche per i giudici di NON ultima istanza, almeno quando ritiene INVALIDO un atto delle istituzioni e le parti lo ritengano parimenti invalido. In tal caso, tra l’altro, il giudice di NON ultima istanza avrà l’obbligo di rinvio anche qualora la Corte si sia pronunciata a riguardo.

OGGETTO DELLE QUESTIONI PREGIUDIZIALI

La competenza pregiudiziale della Corte di Giustizia può riguarda QUESTIONI D’INTERPRETAZIONE & QUESTIONI DI INVALIDITA’.

Le questioni pregiudiziali d’INTERPRETAZIONE possono riguardare sia il TRATTATO, sia GLI ATTI COMPIUTI DALLE ISTITUZIONI COMUNITARIE E DALLA BCE. Per trattato si intendeva il TCE, oggi confluito nel TF. La portata degli atti, invece, è notevole, in quanto si tratta di tutti gli atti comunitari (regolamenti, decisioni, direttive, pareri, raccomandazioni), inclusi gli atti atipici, gli accordi internazionali e gli atti privi di efficacia diretta. Sembrano escluse solo e solamente le convenzioni concluse tra gli stessi Stati membri.

La Corte tuttavia NON PUO’ applicare essa stessa il diritto comunitario, dovendo risolvere solo il dubbio del giudice nazionale: essa deve INTERPRETARE e NON APPLICARE. Essa, inoltre, non può interpretare il diritto nazionale del giudice remittente e non può pronunciarsi sull’incompatibilità di una norma nazionale con una comunitaria: questi sono tutti compiti che restano al giudice nazionale.

Un USO ALTERNATIVO DEL RINVIO PREGIUDIZIALE si può avere qualora il giudice nazionale chieda alla Corte un giudizio sulla compatibilità di norme interne con il diritto comunitario: la Corte, in tal caso, pur essendo incompetente a riguardo, non dichiara la questione del tutto inammissibile e traccia delle linee guida per il giudice nazionale, in maniera tale che egli capisca se la norma interna è compatibile o meno con quella comunitaria, e si possa comportare di conseguenza.

Le questioni pregiudiziali di VALIDITA’possono riguardare SOLTANTO gli atti compiuti da istituzioni comunitarie o dalla BCE, in quanto tale controllo va ad integrarsi con quello che la Corte esercita attraverso i ricorsi d’annullamento, l’eccezione d’invalidità e l’azione di risarcimento danni da responsabilità extracontrattuale. Tutti gli atti oggetto del

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rinvio pregiudiziale sono gli stessi previsti per il ricorso d’annullamento, così come i motivi d’invalidità. Non trovano, invece, applicazione il quarto ed il quinto comma dell’ex art.230 (vatteli a vedere stronzo).

Il rinvio in questione è obbligatorio anche per i giudici di NON ultima istanza, qualora le motivazioni addotte dalle parti siano ritenute FONDATE dal giudice.

IL VALORE DELLE SENTENZE PREGIUDIZIALI

Le sentenze emesse dalla Corte di Giustizia in merito ad un rinvio pregiudiziale vincolano anzitutto il giudice remittente, il quale non può discostarsi dall’interpretazione fornita dalla Corte su cui egli stesso aveva chiesto chiarimenti. La sentenza, inoltre, assume, coma abbiamo già accennato, un valore generale, in quanto sarebbe inutile per altri giudici nazionali sottoporre all’attenzione della Corte casi che abbiano ad oggetto l’interpretazione della stessa norma comunitaria. Le sentenze, inoltre, hanno valore RETROATTIVO, in quanto vanno a spiegare come una norma sarebbe dovuto essere interpretata già dalla propria emanazione ed è per tal motivo che va applicata tale interpretazione anche all’interno di cause pendenti o comunque di cause che ancora possono essere promosse da coloro che, dall’interpretazione o dall’invalidità stabilita dalla Corte di Giustizia, possono trarre un vantaggio. Tuttavia bisogna comunque salvaguardare il PRINCIPIO GENERALE DELLA CERTEZZA DEL DIRITTO: un soggetto che non abbia agito entro il termine previsto dall’ordinamento per tutelare un proprio interesse non può, una volta scaduto il termine, invocare una sentenza pregiudiziale della Corte. Quest’ultima, tra l’altro, talune volte ha previsto che fosse limitata nel tempo la portata delle proprie sentenze, ossia che esse non retroagissero troppo, rischiando di ledere la certezza del diritto.

PARTE VI – LE COMPETENZE DELL’UNIONE EUROPEA

CONSIDERAZIONI GENERALI IN MATERIA DI COMPETENZA: IL PRINCIPIO D’ATTRIBUZIONE

L’art.5 TCE prevedeva, prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il cosiddetto PRINCIPIO DI ATTRIBUZIONE, secondo cui la Comunità Europea poteva agire nei limiti di quanto previsto dal TCE e per raggiungere fini da esso indicati. Il problema che si pone, specialmente in materia comunitaria, è quello dell’allargamento sempre maggiore delle competenze comunitarie, che riduce tra l’altro quelle che sono le competenze degli Stati membri. Se per quanto riguardava, infatti, gli altri due pilastri le decisioni seguivano il metodo intergovernativo, affidando così alle decisioni unanimi del Consiglio le politiche PESC e CGAI, per quanto concerneva il campo comunitario si rischiava, e si rischia, un’attribuzione di poteri eccessiva alla Comunità, la quale non è, come gli Stati membri, un ente a finalità generali che possa perseguire qualsiasi scopo, ma un ente a finalità specifiche e tale dovrebbe rimanere. Il Trattato di Lisbona ha enfatizzato ancora maggiormente il principio di attribuzione, sottolineando come i poteri dell’Unione derivino solo e solamente da un’attribuzione degli Stati membri. Tuttavia la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha ammesso che la Comunità potesse essere competente anche in casi in cui l’esercizio di un potere non attribuitole fosse necessario per raggiungere obiettivi propri della Comunità (TEORIA DEI POTERI IMPLICITI). Tale teoria ha trovato applicazione in ambito di accordi internazionali in materia di trasporti, nonostante non ci fosse un’esplicita previsione al riguardo. Sotto un diverso profilo, però, l’art.308 TCE prevedeva, in deroga al principio della competenza d’attribuzione, che qualora un’AZIONE fosse stata NECESSARIA ed al contempo ci fosse una MANCATA PREVISIONE DI POTERI D’AZIONE ADEGUATI DA PARTE DEL TRATTATO, la Comunità avrebbe potuto, previa delibera unanime del Consiglio su proposta della Commissione e sentito il Parlamento, ASSUMERE NUOVI POTERI senza passare dalla revisione del Trattato e quindi dagli Stati membri. L’art.308 TCE, però, era e rimane (nel nuovo art.352 TF) una norma RESIDUALE, che tra l’altro non consentiva deviazioni o deroghe rispetto al Trattato, ma semplicemente di intervenire in settori non menzionati dallo stesso.

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VARI TIPI DI COMPETENZA COMUNITARIA

L’art.5 TCE di cui abbiamo parlato, tra l’altro, non attribuisce pari natura a tutte le competenze attribuite dal Trattato alla Comunità: essa prevede una distinzione tra Competenze ESCLUSIVE e competenze CONCORRENTI (o RIPARTITE).

In caso di COMPETENZA ESCLUSIVA DELLA COMUNITA’ (oggi UNIONE), la competenza degli Stati membri è pari a zero: essi non possono disciplinare quelle particolari materie, ed i loro interventi hanno carattere transitorio.

In caso di COMPETENZA CONCORRENTE, invece, sia la Comunità (Unione) che gli Stati membri possono agire all’interno di una certa materia. L’aumento di interventi in quell’ambito da parte della Comunità, però, fa diminuire costantemente l’intervento degli Stati, in quanto ad esse è precluso intervenire per ostacolare la realizzazione degli scopi del Trattato (ex art.10 TCE).

Il Trattato di Lisbona ha, però, previsto che la competenza degli Stati membri non possa del tutto essere svuotata all’interno di un determinato settore. L’Unione, infatti, può operare solo per quanto riguarda gli elementi di quel settore previsti dal Trattato, non all’interno dell’INTERO settore. La disciplina residua, quindi, rimane in mano agli Stati membri.

In realtà, però, il TCE non precisa se una determinata competenza comunitaria sia Esclusiva o Concorrente. Spetta sempre all’interprete dedurlo, guardando più che altro agli scopi perseguiti dal Trattato.

Si considera di competenza esclusiva, ad esempio, il settore della POLITICA COMMERCIALE COMUNE, in quanto se esso fosse lasciato agli Stati membri, essi garantirebbero i propri interessi nell’ambito commerciale e non quelli della collettività. Si è discusso, invece, per lungo tempo se il settore della politica agricola, quello della pesca e quello del mercato interno volto a garantire uno spazio senza frontiere, fossero di competenza esclusiva o meno della Comunità. Il Trattato di Lisbona ha chiarito ogni dubbio, specificando che essi sono settori di competenza concorrente.

Accanto, tra l’altro, alle competenze esclusive ed a quelle concorrenti, figura un TERZO TIPO DI COMPETENZE, costituite dalle competenze di COORDINAMENTO, SOSTEGNO E COMPLEMENTO in cui l’Unione svolge un’azione parallela a quella degli Stati membri, SENZA SOSTITUIRSI ALLA LORO COMPETENZA IN TALI SETTORI: ciò significa che, secondo il Trattato di Lisbona, l’Unione non potrà avocare a se il potere di decidere e disciplinare determinate materie, che resteranno in mano agli Stati.

Il Trattato di Lisbona, in sintesi, ha individuato le materie di COMPETENZA ESCLUSIVA dell’Unione (unione doganale, regole di concorrenza, politica monetaria, conservazione risorse biologiche del mare, politica commerciale comune), le materie di COMPETENZA CONCORRENTE tra Stati membri ed Unione, in cui i Paesi esercitano la loro competenza nella misura in cui l’Unione non ha esercitato la propria, ed ha infine previsto i settori oggetto di COMPETENZA, DI SOSTEGNO O DI COMPLEMENTE in cui l’Unione svolge un’azione parallela senza sostituirsi agli Stati membri.

PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’

Il PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’ era previsto dall’art.5 TCE, oggi sostituito dall’art.5 TUE modificato dal Trattato di Lisbona, e prevedeva che nei settori di competenza NON esclusiva della Comunità, essa intervenisse solo e soltanto nel caso in cui potesse garantire un’azione a livello comunitario migliore rispetto a quella che avrebbero potuto offrire gli Stati membri.

Il principio di SUSSIDIARIETA’ si trova ad un livello superiore rispetto a quello di ATTRIBUZIONE, come specificato dalle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona: il principio di attribuzione delimita le competenze dell’Unione, quello di sussidiarietà disciplina l’ESERCIZIO DELLE COMPETENZE.

Per quanto concerne il CAMPO D’APPLICAZIONE del principio di sussidiarietà, abbiamo già visto che esso si applica soltanto nei settori di competenza NON ESCLUSIVA dell’Unione. Ciò vuol dire che, nei settori di competenza

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concorrente, esso può garantire agli Stati membri di disciplinare essi stessi una determinata materia, qualora gli atti dei Paesi membri a riguardo siano soltanto SUFFICIENTI, mentre l’Unione, qualora decidesse d’intervenire, dovrebbe garantire non un livello di disciplina sufficiente, bensì un LIVELLO SUPERIORE.

Si è, inoltre, a lungo discusso sulla possibilità che il principio di sussidiarietà possa essere oggetto di controllo giurisdizionale da parte della Corte di Giustizia, essendo esso un’indicazione politica rivolta alle istituzioni. La Corte ha accettato di sindacare circa il rispetto del suddetto principio solo in caso di errore manifesto o di travalicamento dei limiti di discrezionalità. In origine la violazione del principio di sussidiarietà era invocata dalle parti come VIZIO DELLA MOTIVAZIONE, mentre in seguito è stata invocata come VIZIO AUTONOMO. In tale occasione (Sentenza British American Tobacco del 2002) la Corte ha avuto modo di precisare che per verificare il rispetto del principio di sussidiarietà bisogna verificare se “l’azione comunitaria abbia garantito una migliore realizzazione dell’obiettivo” e se “tale azione non abbia oltrepassato la misura necessaria per realizzare tale obiettivo”.

Il Trattato di Lisbona, come abbiamo già avuto modo di precisare, ha ripreso nell’art.5 TUE ciò che era previsto già dall’art.5 TCE, aggiungendo però un riferimento al livello regionale o locale accanto a quello centrale: da ciò NON deriva un principio di sussidiarietà interno agli Stati, ma semplicemente una migliore valutazione del fatto che una materia possa essere disciplinata anche a livello locale e garantire una migliore applicazione, rispetto sempre all’alternativa di optare per una disciplina comunitaria. Inoltre al principio di sussidiarietà (e a quello di proporzionalità) è stato dedicato un Protocollo apposito, in cui è stato previsto un ruolo inedito dei Parlamenti nazionali: essi potranno, entro 8 settimane dalla presentazione di un progetto di atto legislativo europeo, opporsi allo stesso tramite un parere motivato che lamenti la violazione del principio di sussidiarietà. Se un terzo dei parlamenti nazionali si esprimerà nello stesso modo, l’autore del progetto sarà costretto a rivederlo.

PRINCIPIO DI PROPORZIONALITA’

Un altro principio richiamato dall’art.5 TCE (oggi dall’art.5 TUE) è il PRINCIPIO DELLA PROPORZIONALITA’. Esso impone all’azione dell’Unione di non andare oltre ciò che necessario per il raggiungimento degli obiettivi del Trattato. Il principio suddetto si applica SIA nei settori di competenza esclusiva SIA in quelli di competenza concorrente ed impone un INTERVENTO LIMITATO AGLI OBIETTIVI, in modo tale da tutelare gli Stati membri contro interventi di portata troppo ampia.

Il principio di proporzionalità molto spesso viene trattato insieme a quello di sussidiarietà, proprio perché entrambi tutelano un’esigenza comune dei Paesi membri. Essi stessi, infatti, molto spesso lo hanno invocato per contestare la legittimità di atti delle istituzioni. Tuttavia la Corte, anche in questo caso, limita la propria competenza ai casi di errore manifesto, sviamento di potere e travalicamento dei limiti di discrezionalità.

La proporzionalità comporta delle restrizioni sia per quanto concerne il TIPO DI ATTO da adottare, sia per il CONTENUTO dello stesso. A parità di condizioni, infatti, devono essere preferite le direttive ai regolamenti ed, ove possibile, misure non vincolanti, quali le raccomandazioni. Per quanto concerne il contenuto, invece, bisogna lasciare ampio spazio, il massimo possibile, alle decisioni nazionali.

NOTA BENE: il principio di proporzionalità di cui all’art.5 E’ DIVERSO dal principio di proporzionalità generale, che è invece uno dei principi generali del diritto comunitario. Il Principio di proporzionalità GENERALE impone che le limitazioni di libertà imposte ai singoli non eccedano quanto necessario per il raggiungimento degli scopi pubblici da perseguire, in quanto devono essere IDONEI a raggiungere l’obiettivo e NECESSARI a questo fine, evitando d’imporre sacrifici inutili. Il principio di proporzionalità di cui all’art.5 TUE, invece, riguarda il rapporto tra competenze comunitarie e competenze degli Stati membri, costituendo una garanzia per questi ultimi.

LA COMPETENZA A CONCLUDERE ACCORDI INTERNAZIONALI

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La Comunità (oggi l’Unione) ha competenza anche per quanto riguarda la conclusione di accordi internazionali (competenza esterna) con Stati terzi o organizzazioni sovrannazionali. Tale competenza, però, non ha portata illimitata, in quanto deve pur sempre rispettare il principio di attribuzione. La Comunità (oggi l’Unione) può farlo, in quanto dotata di personalità giuridica, ma parimenti possono farlo anche gli Stati membri.

L’Unione è dotata di competenza esterna in due casi:

Competenza esterna NORMATIVAMENTE prevista: è il Trattato a prevedere la possibilità dell’Unione di concludere tali accordi in determinati e specifici casi;

Competenza esterna parallela: l’Unione può concludere accordi internazionali, secondo la giurisprudenza della Corte, anche in casi in cui ciò non sia formalmente previsto dal Trattato, ma sia richiesto per l’adozione di un atto per cui, a livello interno comunitario, l’Unione ha competenza, in forza del principio del PARALLELISMO DEI POTERI COMUNITARI INTERNI ED ESTERNI. In tal caso l’Unione può sia stringere accordi internazionali DOPO l’emanazione di un determinato atto (COMPETENZA PARALLELA SUCCESSIVA), sia durante o prima dell’emanazione dell’atto (COMPETENZA PARALLELA PREVENTIVA), anche se quest’ultimo caso deve considerarsi eccezionale, in quanto è necessario dimostrare che la conclusione dell’accordo sia prevista per l’attuazione di un atto, perché insufficienti misure autonome interne.

Più difficile, invece, risulta stabilire se la competenza esterna abbia natura ESCLUSIVA o CONCORRENTE, ossia occorre verificare se su una determinata materia possa concludere accordi internazionali solo l’Unione o anche gli Stati membri accanto alla stessa (accordi misti) o anche da soli. In tal caso distinguiamo:

COMPETENZA ESTERNA ORIGINARIAMENTE ESCLUSIVA: l’Unione, nelle materie in cui a livello interno a competenza esclusiva, ha anche competenza esterna esclusiva, ossia essa sola può concludere accordi internazionali in merito a tali settori e NON gli Stati membri;

COMPETENZA ESTERNA ESCLUSIVA DERIVATA: nei casi di competenza concorrente a livello interno, anche a livello esterno vi è un tal tipo di competenza. Ciò significa che gli Stati, unitamente all’Unione o anche da soli, potranno concludere accordi internazionali. Bisogna, però, ricordare che l’Unione, nei casi di competenza interna concorrente, può, con il proprio operato, arrivare quasi ad escludere gli interventi degli Stati membri. Più l’Unione interviene, MINORE è il campo di operatività dei Paesi membri. Lo stesso avviene a livello esterno. Quindi nei settori di competenza concorrente gli Stati membri non possono comunque concludere accordi internazionali che:

1. SIANO INCOMPATIBILI CON NORME COMUNITARIE INTERNE;

2. INCIDANO SULL’APPLICAZIONE DI NORME COMUNITARIE INTERNE.

3. UN ATTO DI UN’ISTITUZIONE HA PREVISTO SIA CONCLUSO DALL’UNIONE (e non dai singoli Stati);

LE COMPETENZE DELL’UNIONE NEL II E NEL III PILASTRO

Il vecchio TUE, quello in vigore prima della ratifica del Trattato di Lisbona da parte di tutti gli Stati membri, non prevedeva, per il secondo e terzo pilastro, norme paragonabili all’art.5 TCE. Quindi all’interno degli altri due pilastri non figurava un criterio di diversificazione delle competenze dell’Unione completo. Inoltre all’interno dei due pilastri la Corte di Giustizia non poteva operare con gli stessi poteri giurisdizionali del pilastro comunitario.

Mentre, quindi, il principio d’attribuzione poteva operare nei due pilastri perché palesemente accettato per tutto l’ambito UE, non era possibile attuare una diversificazione tra competenze esclusive, concorrenti o del terzo tipo, come invece avveniva per il pilastro comunitario. In realtà l’Unione non aveva alcuna competenza esclusiva e la sola previsione all’interno del TUE della competenza dell’Unione non pregiudicava il diritto dei Paesi membri di operare

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autonomamente negli stessi ambiti. Il principio di sussidiarietà, inoltre, si applicava anche agli altri due pilastri, non essendoci alcuna competenza esclusiva dell’UE.

Per quanto concerne, invece, la categoria della competenza concorrente, essa è sicuramente prevista all’interno del III PILASTRO, dove, in forza anche dell’obbligo di leale collaborazione imposto agli Stati membri, l’operato degli stessi rimane libero fino a quando non sopraggiunge un intervento dell’Unione: più questa interviene, meno gli Stati sono liberi, anche perché, sempre in forza del suddetto principio, non possono comportarsi contrariamente alle decisioni-quadro dell’Unione, né tanto meno ostacolarne l’operatività.

Nel pilastro PESC, invece, la competenza concorrente trova riscontri soltanto parziali, limitari al settore delle missioni umanitarie e di soccorso ed alle attività di mantenimento/ristabilimento della pace. Per lo più, per quanto concerne il settore PESC, la competenza dell’Unione assomiglia alle competenze del terzo tipo analizzate per il settore comunitario: il crescente numero di misure prese in ambito PESC dall’Unione non comporta lo svuotamento della competenza degli Stati membri, ma soltanto un obbligo, in capo agli stessi, di COERENZA e di COORDINAMENTO.

L’obbligo di coerenza impone, agli Stati membri che svolgono una propria politica estera, di evitare comportamenti che entrino in contrasto con la linea adottata dall’Unione. Ciò comporta, di per sé, un coordinamento tra l’operato nazionale in ambito di politica estera e l’operato dell’Unione. Concludendo potremmo dire che la competenza dell’Unione in ambito PESC non è classificabile secondo le categorie comunitarie.

RIASSUNTI A CURA DI FOXSHARK

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