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Diritto Civile Contemporaneo Rivista trimestrale online ad accesso gratuito ISSN 2384-8537 www.dirittocivilecontemporaneo.com Anno I, numero III, ottobre/dicembre 2014 Il riconoscimento in Italia dei provvedimenti stranieri di “stepchild adoption” da parte del coniuge “same sex” del genitore biologico: il Tribunale per i Minorenni di Bologna solleva la questione di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge 184/1983 Emanuele Bilotti

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Diritto Civile Contemporaneo

Rivista trimestrale online ad accesso gratuito ISSN 2384-8537

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Anno I, numero III, ottobre/dicembre 2014

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Il riconoscimento in Italia dei provvedimenti stranieri di “stepchild adoption” da parte del coniuge “same sex” del genitore biologico: il Tribunale per i Minorenni di Bologna solleva la questione di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge 184/1983

Emanuele Bilotti!

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Il riconoscimento in Italia dei provvedimenti stranieri di “stepchild

adoption” da parte del coniuge “same sex” del genitore biologico: il

Tribunale per i Minorenni di Bologna solleva la questione di legittimità

costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge 184/1983

di Emanuele Bilotti

Con ordinanza del 10 novembre 2014 il Tribunale per i Minorenni di Bologna,

sospettando la violazione degli artt. 2, 3, 30 Cost., nonché dell’art. 117 Cost. in

relazione all’art. 8 CEDU, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli

artt. 35 e 36 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia),

nella parte in cui, come interpretati secondo il diritto vivente, non consentono al

giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore adottato

il riconoscimento della sentenza straniera che abbia pronunciato l’adozione in

favore del coniuge del genitore anche laddove il matrimonio in questione sia

inidoneo a produrre effetti nell’ordinamento italiano, trattandosi di matrimonio tra

persone dello stesso sesso.

Nel caso che ha dato luogo alla pronuncia del Tribunale per i Minorenni di

Bologna il minore è stato generato all’estero facendo ricorso alle tecniche di

fecondazione artificiale con impiego del seme di un cd. donatore anonimo. Subito

dopo la nascita la compagna della partoriente ha presentato domanda di adozione

al giudice competente e, nel rispetto della legge del luogo, una volta accertata dal

giudice la sua idoneità a svolgere il ruolo di madre e l’idoneità del nucleo familiare

ad accogliere il minore, ha ottenuto la costituzione in suo favore di un rapporto di

genitorialità “legale” rispetto ad esso. In aggiunta al rapporto con la madre

biologica si è così costituito in capo al minore un ulteriore rapporto di filiazione

“pieno”, ma evidentemente privo di qualsiasi fondamento naturalistico. Diversi

anni dopo, sempre all’estero e sempre nel rispetto della legislazione del luogo, le

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due donne si sono unite in matrimonio. Dopo poco tempo la coppia si è trasferita

in Italia portando con sé il minore e stabilendo la propria residenza nel comune di

Bologna. A questo punto, il genitore adottivo, già in possesso anche della

cittadinanza italiana, si è rivolta al Tribunale per i Minorenni di Bologna per

ottenere il riconoscimento della sentenza di adozione pronunciata all’estero e

conseguire così, anche in Italia, lo status di genitore del minore ad ogni effetto.

È bene osservare anzitutto che, con riferimento al riconoscimento dei

provvedimenti stranieri in materia di adozione, l’art. 41, co. 1, l. 31 maggio 1995,

n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), dispone che i

provvedimenti in questione «sono riconoscibili in Italia ai sensi degli artt. 64, 65 e

66», e cioè in base alle norme ordinarie che regolano l’efficacia interna di sentenze

ed atti stranieri, escludendo la necessità della delibazione del giudice italiano,

sempre che siano rispettate precise condizioni, tra le quali la non contrarietà

all’ordine pubblico del provvedimento in questione. Il capoverso dello stesso art.

41 cit. dispone tuttavia che «restano ferme le disposizioni delle leggi speciali in

materia di adozione dei minori», e dunque anzitutto le disposizioni di cui agli artt.

35 e 36 l. 183/1984, che prevedono invece un apposito giudizio di delibazione del

provvedimento estero laddove si tratti di adozioni internazionali di minori volte

alla costituzione di un autentico rapporto di filiazione. E ciò sia che si tratti di

adozioni internazionali di minori pronunciate in uno Stato aderente alla

Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 (ratificata e resa esecutiva in Italia con l.

31 dicembre 1998, n. 476) sia che si tratti di adozioni internazionali di minori

pronunciate in uno Stato non aderente alla Convenzione. La procedura di

delibazione prevista dalla legge speciale prevale dunque sulle norme ordinarie sul

riconoscimento automatico dei provvedimenti stranieri, le quali sono dunque

destinate ad operare solo nei casi in cui gli artt. 35 e 36 l. 184/1983 non siano

applicabili. Di conseguenza, nel caso di specie, ove il riconoscimento del

provvedimento adottivo in questione dovesse disporsi in base alla legislazione

speciale, e dunque a seguito di delibazione del giudice italiano competente, le

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regole di cui agli artt. 64, 65 e 66, l. 218/1995 non dovrebbero venire affatto in

considerazione. Non c’è dubbio infatti che i due commi dell’art. 41 cit. facciano

riferimento a due modalità di riconoscimento differenti, e dunque a due gruppi di

norme – quelle ordinarie e quelle speciali – reciprocamente escludentesi.

Il giudice italiano investito della domanda di riconoscimento di un provvedimento

adottivo estero a favore del coniuge same sex della madre biologica dell’adottato

dovrebbe allora chiarire anzitutto se quel riconoscimento rientri nell’ambito di

applicazione del primo o del secondo comma dell’art. 41 cit. Solo in quest’ultimo

caso la domanda proposta può infatti considerarsi ammissibile, giacché nel primo

caso non è necessario alcun giudizio di delibazione.

Già a questo riguardo l’ordinanza in esame appare però piuttosto confusa. Il

giudice bolognese, infatti, da un lato, non sembra nutrire alcun dubbio quanto

all’ammissibilità della domanda di riconoscimento propostagli; neppure si pone,

cioè, il problema della sussistenza di un proprio potere delibativo. Dall’altro lato,

sembra però ritenere che, ai fini del riconoscimento dell’adozione estera in

questione, sia necessario far riferimento sia all’art. 64 ss. l. 218/1995 sia agli artt.

35 e 36, l. 184/1983. Nella parte in diritto della motivazione quel giudice esordisce

infatti col dire che i provvedimenti di adozioni esteri «sono riconoscibili in Italia ai

sensi dell’art. 41 della legge 31 maggio 1995 n. 218 e, pertanto: 1) si applicano gli

artt. 64, 65 e 66 della medesima legge; 2) restano, però, ferme le disposizioni delle

leggi speciali in materia di adozione dei minori (in primis, artt. 35 e 36 legge

184/193». Si precisa quindi che «quanto al primo aspetto [e cioè quanto

all’applicazione degli artt. 64, 65 e 66 citt.], nel caso di specie sono soddisfatte

tutte le condizioni di carattere procedurale e processuale in genere (…). Tuttavia,

la riconoscibilità del provvedimento straniero che, come nel caso di specie, dia

luogo alla nascita di rapporto di famiglia richiede che questo non sia nella sostanza

“contrario all’ordine pubblico interno”. Quanto al secondo aspetto [e cioè quanto

all’applicazione delle disposizioni speciali in materia di adozione] … l’adozione

perfezionatasi all’estero … può essere dichiarata efficace in Italia a condizione che

risponda ai requisiti previsti dalla normativa interna (artt. 35, 36 comma IV l.

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184/1983), su intervento dell’Autorità giudiziaria. Si pone, allora, il problema di

verificare se l’adozione da parte di genitore omosessuale possa ritenersi satisfattivo

delle richieste della Legge interna, in conformità all’ordine pubblico». La

confusione è evidente, giacché, come si è già detto, i due distinti rinvii del primo e

del secondo comma dell’art. 41 cit. non possono certo venire insieme in

considerazione: l’applicazione della legislazione speciale in materia di adozione di

minori, e dunque la (pretesa) necessità del giudizio di delibazione di cui agli artt.

35 e 36 l. 184/1983 non può che escludere il riferimento alle norme ordinarie

sull’automatico riconoscimento dei provvedimenti stranieri.

In realtà, al di là di questo confuso cenno iniziale, il riferimento alle norme

ordinarie scompare subito – e in maniera definitiva – dall’impianto argomentativo

del provvedimento in esame. Il giudice bolognese, del resto, come già si è detto, è

senz’altro convinto della sussistenza di un proprio potere in ordine alla

delibazione dell’adozione estera portata alla sua attenzione. A dire di quel giudice,

infatti, il riconoscimento di quel provvedimento deve essere disposto ai sensi

dell’art. 36, co. 4, l. 183/1984 cit., in base al quale «l’adozione pronunciata dalla

competente autorità di un Paese straniero a istanza di cittadini italiani, che

dimostrino al momento della pronuncia di aver soggiornato continuativamente

nello stesso e di avervi avuto la residenza da almeno due anni, viene riconosciuta

ad ogni effetto in Italia con provvedimento del Tribunale per i minorenni, purché

conforme ai principi della Convenzione». Lo stesso giudice bolognese precisa poi

che, sulla scorta degli insegnamenti della Suprema Corte, l’art. 36, co. 4, cit. deve

correttamente essere inteso in conformità al “principio generale” di cui all’art. 35,

co. 3, l. 184/1983, e dunque in conformità alla regola secondo cui «il tribunale

accerta che l’adozione [pronunciata all’estero] non sia contraria ai principi

fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori, valutati in

relazione al superiore interesse del minore» [così Cass., 14 febbraio 2011, n. 3572,

in Famiglia e diritto, 2011, 697 ss., con nota critica di M. A. Astone, La delibazione

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del provvedimento di adozione internazionale di minore a favore di persone singola;]. In vista

della richiesta delibazione, si ritiene dunque di dover procedere anzitutto a

verificare la conformità rispetto a quei “principi fondamentali” del provvedimento

estero di adozione a favore del coniuge same sex della madre biologica del minore

adottato [cfr ora Trib. per minorenni Bologna, 17 aprile 2013, in questa Rivista,

2014, con nota di M. Astone, Riconoscimento in Italia di sentenza straniera di adozione da

parte di un single con effetti legittimanti: il Tribunale per i minorenni di Bologna supera la

Cassazione].

A tale riguardo, sempre in base al “diritto vivente”, il giudice bolognese ritiene di

potere affermare che, nell’attuale contesto normativo, questa verifica è senz’altro

destinata a un esito negativo. Anche l’argomento speso per avvalorare una simile

conclusione appare però alquanto confuso. Si fa infatti riferimento anche

all’orientamento della giurisprudenza di legittimità contrario al riconoscimento

delle adozioni estere a favore di persone singole per contrasto col principio

fondamentale del diritto italiano della famiglia e dei minori secondo cui l’adozione

di un minore abbandonato è consentita solo a una coppia coniugata ai sensi

dell’art. 6, co. 1, l. 184/1983 [anche a questo riguardo si fa riferimento a Cass., n.

3572/2011 cit.]. È del tutto evidente, però, che nel caso di specie non si tratta di

adozione di un minore abbandonato, sicché quel riferimento non è sicuramente

pertinente. È invece adeguato il rilievo secondo cui, in base all’opinione

giurisprudenziale «prevalente e maggioritaria, di fatto corrispondente a “diritto

vivente”», l’adozione di un minore a favore del coniuge del genitore, naturale o

adottivo, prevista dall’art. 44, lett. b), l. 184/1983 (cd. stepchild adoption o adozione

coparentale), non può essere consentita in caso di matrimonio tra persone dello

stesso sesso, dato che, nell’attuale contesto normativo italiano, un simile

matrimonio è sconosciuto e, ove celebrato all’estero, è irrimediabilmente destinato

a rimanere privo di effetti in Italia [cfr. Cass., 15 marzo 2012, n. 4184, in Famiglia,

Persone e Successioni, 2012, 857 ss., con nota di Fantetti, Il diritto degli omosessuali di

vivere liberamente una condizione di coppia; da ultimo, nella giurisprudenza di merito, v.

Trib. Milano, 17 luglio 2014, che, in conformità all’orientamento della

giurisprudenza di legittimità, ha senz’altro escluso la trascrizione nei registri di

stato civile del matrimonio celebrato all’estero tra persone dello stesso sesso,

senza neppure porre il problema della conformità o meno all’ordine pubblico

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degli effetti di un suo riconoscimento in Italia; cfr. anche Trib. Grosseto 9 aprile

2014, in questa Rivista, 2014, con nota critica di A. M. Benedetti, Giurisprudenza

creativa o illusoria? Prima riflessione su Tribunale di Grosseto: a proposito di trascrizione del

matrimonio omosessuale celebrato all’estero]. È questa allora la vera ragione per cui il

riconoscimento di una stepchild adoption estera a favore del coniuge dello stesso

sesso della madre biologica dell’adottato si pone in contrasto insanabile con i

principi fondamentali del diritto italiano della famiglia e dei minori: perché

nell’ordinamento italiano l’adozione di un minore non abbandonato è consentita,

peraltro con effetti assai diversi da quelli indicati dall’art. 27 l. 184/1983 (cfr. art.

48 ss. l. 184/1983), solo nel caso del minore orfano di padre e di madre ovvero

nel caso del figlio minore, naturale o adottivo, del coniuge dell’adottante. Nella

fattispecie portata all’attenzione del giudice bolognese non ricorre infatti nessuna

di queste ipotesi, dato che il minore adottato all’estero ha una madre e che colei

che risulta essere coniuge della madre per la legge straniera non può essere tale

anche per la legge italiana.

A questo punto il giudice bolognese si chiede però se un risultato di questo tipo –

e cioè l’impossibilità di delibare l’adozione estera a favore del coniuge same sex

della madre biologica dell’adottato – non faccia emergere un contrasto insanabile

tra le norme che lo renderebbero necessario – e cioè gli artt. 35 e 36 l. 184/1983,

come interpretati in base al “diritto vivente” – e i principi costituzionali. In

particolare, il giudice bolognese ritiene non improbabile l’esistenza di un simile

contrasto per due ragioni: perché la disciplina speciale sul riconoscimento delle

adozioni estere, «per la sola omosessualità dei genitori, ostacola in modo assoluto

alla famiglia formatasi all’estero, di continuare ad essere “famiglia” anche in Italia»

e perché quella disciplina, determinando un «veto assoluto di riconoscibilità della

decisione straniera», esclude «in modo netto e irrazionale la possibilità, per il

giudice italiano, di condurre un vaglio giudiziale sull’effettivo best interest del

minore, vanificando principi di matrice internazionale ed europea».

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Sotto il primo profilo un vulnus delle garanzie costituzionali sarebbe riconoscibile

in particolare a carico degli art. 2 e 3 Cost. Anche qui l’argomentare del giudice

bolognese non appare però sempre lineare. In effetti, anche sulla scorta di talune

note pronunce di legittimità [cfr. Cass., n. 4184/2012 cit.], della Corte di

Strasburgo [cfr. 24 giugno 2010, caso Schalk & Kopf v. Austria (ric. 30141/04), in

Nuova Giur. Civ. Comm., 2010, I, 1137 ss., con nota di Winkler, Le famiglie

omosessuali nuovamente alla prova della Corte di Strasburgo, e 19 febbraio 2013, caso X e

altri v. Austria (ric. 19010/07), ivi, 2013, I, 519 ss., con nota di Fatta e Winkler, Le

famiglie omogenitoriali all’esame della Corte di Strasburgo: il caso della second-parent

adoption] e della Corte costituzionale [cfr. sentt., 15 aprile 2010 n. 138, in Famiglia

e diritto, 2010, 653 ss., con nota di Gattuso, La Corte costituzionale sul matrimonio tra

persone dello stesso sesso e 11 giugno 2014, n. 170, ivi, 2014, 861 ss., con nota di V.

Barba, Artificialità del matrimonio e vincoli costituzionali: il caso del matrimonio omosessuale],

quel giudice afferma anzitutto che «il matrimonio celebrato all’estero tra persone

di sesso uguale non è più considerabile come contrario all’ordine pubblico», che

«la coppia formata da persone dello stesso sesso è, comunque, da considerare

“famiglia”» e che perciò «si “sgretola” …uno dei principali motiviche ostava al

riconoscimento, in Italia, di un legame familiare tra un minore e due genitori

omosessuali: che il rapporto tra i medesimi urtasse contro l’ordine pubblico

interno». Quindi, richiamando in particolare la sentenza della Corte costituzionale

n. 138/2010, propone l’idea secondo cui «la condizione dei coniugi di stesso

sesso, i quali – dopo la formazione di una famiglia “in modo legale” all’estero –

intendano proseguire nella loro vita di coppia, pur dopo il trasferimento in Italia,

sia riconducibile a quella categoria di situazioni “specifiche” e “particolari” di

coppie dello stesso sesso, con riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un

intervento della Corte Costituzionale per il profilo di un controllo di adeguatezza

e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore». Sembra insomma che

l’intento del giudice bolognese sia quello di denunciare una discriminazione a

carico degli adulti, e cioè una discriminazione tra coppie di persone di sesso

differente e coppie di persone dello stesso sesso: le prime ammesse al matrimonio,

e quindi anche alla stepchild adoption, e le seconde, invece, almeno nell’ordinamento

italiano, escluse dall’uno e dall’altra. Poi però, con un repentino cambio di

prospettiva, si chiarisce che «lo sguardo dell’interprete, in questa ipotesi, non è

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rivolto al rapporto di coniugio e all’interesse dei partners, ma è diretto

esclusivamente al rapporto genitoriale e all’interesse preminente del minore» e che,

di conseguenza, ciò che viene in rilievo non è «la creazione ab interno di un

legame familiare tra un minore e una coppia genitoriale», trattandosi piuttosto di

«valutare se, a determinate condizioni, possa essere valutata come riconoscibile

quella [quel legame familiare?] che ab externo si è già formata [formato?], per il

limitato caso in cui uno dei genitori sia già, senza alcun dubbio, genitore del

minore». Insomma, se ben s’intende il pensiero del giudice bolognese, ad essere

discriminati non sarebbero gli adulti, ma il minore. Gli art. 35 e 36 l. 184/1983

vengono allora censurati anzitutto perché, non consentendo la delibazione

dell’adozione estera a favore del coniuge same sex della madre biologica

dell’adottato, discriminerebbero tra figlio di un genitore coniugato con una

persona di sesso differente e figlio di un genitore coniugato con una persona dello

stesso sesso: mentre il primo può godere del riconoscimento del provvedimento

estero di stepchild adoption, del quale, anche dopo il trasferimento in Italia del nucleo

familiare, continua così a essere garantita la finalità di promozione dell’unità

familiare in vista di una crescita più armonica dello stesso minore, una possibilità

analoga è invece irrimediabilmente preclusa al secondo.

Anche il secondo profilo di censura non appare, a questo punto, molto differente

dal primo. Invero, in aggiunta ai due parametri già indicati in precedenza, gli artt. 2

e 3 Cost., il giudice bolognese indica qui anche altre norme costituzionali violate, e

segnatamente gli artt. 30, 31 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento agli artt. 8 e

14 CEDU. In particolare, come si è già detto, sotto il secondo profilo le norme

interne impugnate sono sospettate di illegittimità costituzionale perché la ritenuta

non conformità dell’adozione in questione ai principi fondamentali del diritto

italiano di famiglia e dei minori ne escluderebbe il riconoscimento in Italia senza

neppure consentire al giudice italiano di verificare se si tratti di un esito conforme

al miglior interesse del minore. Per il giudice bolognese si perviene così a «un

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risultato contrario al principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e al diritto

fondamentale del fanciullo a una famiglia (artt. 2, 30, 31 Cost.)». Si tratterebbe

inoltre, secondo lo stesso giudice, di un risultato «in contrasto con gli artt. 8 e 14

della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo». Si indica perciò anche il

parametro di cui all’art. 117, co. 1, Cost., in forza del quale, com’è noto, il

legislatore nazionale è tenuto al rispetto dei vincoli derivanti dal diritto

dell’Unione Europea e dagli obblighi internazionali. In realtà, gli artt. 30, 31 e 117

Cost. avrebbero potuto essere indicati come parametri già rispetto al primo profilo

di censura. Anche col secondo profilo di censura, infatti, ciò che si vuole

evidenziare è pur sempre una violazione dei diritti del minore che sarebbe

prodotta dalle norme impugnate, e segnatamente la discriminazione che si

determinerebbe a suo carico poiché la loro applicazione secondo il “diritto

vivente” non consentirebbe di garantire la stabilità del rapporto estero di stepchild

adoption che consegue a un vincolo coniugale che la legge italiana non riconosce e

considera perciò un presupposto inidoneo della particolare tipologia di adozione

in questione. Insomma, a ben vedere, quello che il giudice bolognese ritiene di

poter configurare come un ulteriore profilo di censura delle norme impugnate non

è altro che una riproposizione – sicuramente più completa quanto ai parametri

costituzionali indicati – della medesima censura concernente il pregiudizio del

diritto del minore alla stabilità del rapporto di filiazione “legale” già costituito

all’estero col coniuge del genitore biologico, un pregiudizio che non si ritiene

possa trovare una giustificazione adeguata nel semplice fatto dell’identità di sesso

dei coniugi.

Una volta chiariti i passaggi argomentativi essenziali che hanno condotto il giudice

bolognese a sospettare della legittimità degli artt. 35 e 36 citt. rispetto ai parametri

costituzionali indicati, prima ancora di interrogarsi sulla fondatezza di una simile

questione di legittimità, è forse opportuno soffermarsi anzitutto sul punto della

sua rilevanza, giacché non ha evidentemente alcun senso porsi il problema della

fondatezza di una questione irrilevante.

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Ebbene, come si è provato a chiarire, il percorso argomentativo seguito dal

giudice bolognese quanto alla rilevanza della questione si articola in tre successivi

passaggi, i quali, a suo dire, troverebbero tutti riscontro nel “diritto vivente”, e

dunque in orientamenti consolidati della giurisprudenza di legittimità: si ritiene

anzitutto che anche il riconoscimento in Italia di un provvedimento adottivo di

stepchild adoption pronunciato a favore di un cittadino italiano stabilmente residente

all’estero debba avvenire attraverso un procedimento di delibazione giudiziale,

segnatamente quello di cui all’art. 36, co. 4, cit.; si afferma poi che, in questo

procedimento, il giudice competente debba verificare anche la conformità del

provvedimento straniero di adozione ai principi fondamentali del diritto italiano di

famiglia e dei minori secondo quanto disposto dall’art. 35, co. 3, cit.; si sostiene

infine che, nel caso di specie, e dunque nel caso di una stepchild adoption estera a

favore del coniuge same sex del genitore biologico, questa verifica conduce

senz’altro a un esito negativo. La premessa che sostiene il ragionamento del

giudice bolognese appare tuttavia piuttosto problematica, se non addirittura priva

di qualsiasi riscontro nel dato normativo. Non sembra cioè davvero sostenibile

che anche per il riconoscimento di un provvedimento straniero di stepchild adoption

si debba far riferimento non alle norme ordinarie sul riconoscimento dei

provvedimenti stranieri, ma alla disciplina speciale sul riconoscimento delle

adozioni internazionali, e in particolare alla speciale previsione sul riconoscimento

dell’adozione estera da parte di cittadini italiani residenti all’estero da almeno due

anni.

In effetti, già prima dell’entrata in vigore della l. 476/1998, la quale, nel ratificare e

dare esecuzione in Italia alla Convenzione dell’Aja del 1993, ha conseguentemente

disposto l’adeguamento della disciplina interna delle adozioni internazionali, si

riteneva per lo più che i provvedimenti di adozione di minori stranieri in casi

corrispondenti a quelli previsti dall’art. 44 l. 184/1983, e dunque anche i

provvedimenti esteri di stepchild adoption, fossero riconoscibili in Italia non con lo

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speciale procedimento allora regolato agli artt. 32 e 33 l. 184/1983, ma in base alle

norme ordinarie sull’efficacia delle sentenza straniere, e dunque, prima dell’entrata

in vigore della l. 218/1995, col giudizio di delibazione di cui all’art. 796 cod. proc.

civ. e, poi, in maniera automatica, senza necessità di un nuovo giudizio interno, in

base alle regole di cui all’art. 64 ss. l. 218/1995 [in tal senso cfr. Davì, voce

Adozione nel diritto internazionale privato, in Dig. disc. priv. Sez. civ., I, Torino, 1994,

143; Bonomi, La disciplina dell’adozione internazionale dopo la riforma del diritto

internazionale privato, in Riv. dir. civ., 1996, II, 385]. Né si vede per quale ragione

anche oggi non debbano essere proprio queste ultime le norme applicabili nel caso

di specie e in ogni altro caso di stepchild adoption estera [in tal senso v. infatti

Pineschi, L’adozione nel diritto internazionale privato, in Trattato di diritto di famiglia

diretto da Zatti, II, Filiazione a cura di Collura, Lenti e Mantovani, 2 ed., Milano,

2012, 1196 s.; e già Morozzo della Rocca, La riforma dell’adozione internazionale.

Commento alla Legge 31 dicembre 1998, n. 476, Torino, 1999, 52 e 82 s.], e non gli

attuali artt. 35 e 36 l. 184/1983, che, dopo l’entrata in vigore della l. 476/1998,

continuano a prevedere la necessità di un passaggio giudiziale, pur avendo

sostituito l’originario procedimento “manipolativo” con un normale giudizio

delibativo dell’adozione estera. La disciplina speciale della l. 184/1983 riguarda

infatti le sole adozioni internazionali di minori, e cioè le sole adozioni di minori

stranieri da parte di cittadini italiani residenti in Italia – o anche all’estero, ma da

meno di due anni – e sempre che si tratti di adozioni di minori in stato di

abbandono, e dunque di provvedimenti adottivi destinati a far cessare qualsiasi

rapporto dell’adottato verso la famiglia di origine [per un chiaro regolamento del

confine tra gli ambiti di applicazione del primo e del secondo comma dell’art. 41 l.

218/1995 v. Ballarino, Manuale breve di diritto internazionale privato, Padova, 2002,

180]. Infatti, solo rispetto a questa tipologia di adozioni – e non anche rispetto alle

speciali ipotesi di adozione che non presuppongono l’abbandono del minore,

com’è appunto la stepchild adoption – sussiste una esigenza di sottoporre a un più

stringente controllo delle autorità italiane i provvedimenti adottivi esteri al fine di

evitare l’elusione della rigorosa disciplina interna e di arginare il fenomeno della

sottrazione e della vendita di minori provenienti da Paesi in via di sviluppo, offerti

ad adottanti italiani non idonei in base alle previsioni della lex fori [sulla ratio della

disciplina speciale in materia di riconoscimento delle adozioni internazionali di

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minori perfezionatesi all’estero v. Bonomi, op. cit., 383; Morozzo della Rocca, op.

cit., 110 ss.; Pineschi, op. cit., 1190 ss.].

Vero è che nell’ipotesi di cui all’art. 36, co. 4, l. 184/1983, quella cui sarebbe

riconducibile anche il caso di specie almeno secondo il giudice bolognese, un

giudizio di delibazione è previsto anche per il riconoscimento delle adozioni estere

di minori stranieri da parte di cittadini italiani residenti all’estero da almeno due

anni e che possano dimostrare di aver soggiornato continuativamente nello Stato

estero al momento della pronuncia. È vero insomma che con questa previsione si

va al di là dell’ambito vero e proprio dell’adozione internazionale, e cioè di

quell’ambito in cui la legislazione interna rivendica un’applicazione necessaria.

Non vi è dubbio, infatti, che le adozioni di cui all’art. 36, co. 4, cit. non sono

adozioni internazionali, ma adozioni formalmente e sostanzialmente interne al

Paese in cui sono state pronunciate, essendo là residenti tutti i soggetti interessati

[in tal senso cfr. Morozzo della Rocca, op. cit., 117; già prima della l. 476/1998 v.

chiaramente anche Bonomi, op. cit., 383 s.]. È evidente tuttavia che, attraverso una

norma come l’art. 36, co. 4, cit., si persegue unicamente una finalità antielusiva

della disciplina speciale. Si vuole evitare cioè che cittadini italiani inidonei

all’adozione secondo la legge nazionale possano sottrarsi alla sua applicazione

semplicemente stabilendo una residenza fittizia in un Paese estero in cui vige una

legge più permissiva e chiedendo poi il riconoscimento in Italia del

provvedimento adottivo pronunciato in quel Paese [in tal senso cfr. Morozzo della

Rocca, op. cit., 115 ss.; Pineschi, op. cit., 1193 s.].

Ne consegue allora che, in certi casi, il giudice competente dovrebbe limitarsi ad

accertare che il requisito della residenza all’estero sia stato effettivamente

rispettato e che il provvedimento straniero non sia in contrasto col limite

dell’ordine pubblico [cfr. Pineschi, op. cit., 1194]. Ma ne consegue pure che l’art.

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36, co. 4, cit., non diversamente dalle altre previsioni sulle adozioni internazionali,

raccolte nel Titolo terzo della l. 184/1983, si applica unicamente alle adozioni dei

minori abbandonati, quelle che fanno cessare qualsiasi rapporto dell’adottato con

la famiglia di origine, e non anche alle adozioni estere che, come la stepchild

adoption, non riguardano minori abbandonati, non producono certo un effetto così

grave, per quanto possano anche dar luogo, come in effetti è previsto in molti

ordinamenti diversi da quello italiano, a un rapporto di filiazione “pieno”,

destinato a estendersi anche alla famiglia dell’adottante [cfr. Pineschi, op. cit., 1197

s., anche per l’indicazione di talune pronunce giurisprudenziali di merito, non

sempre conformi]. È solo nell’ambito delle adozioni dei minori abbandonati,

infatti, che si giustifica quell’esigenza di presidiare dall’esterno il confine del

territorio delle adozioni internazionali cui risponde una previsione come quella

dell’art. 36, co. 4, cit. E ciò appunto perché le adozioni internazionali, rispetto alle

quali la legge speciale nazionale rivendica un ambito di applicazione necessaria,

sono appunto adozioni di minori stranieri in stato di abbandono pronunciate

all’estero a favore di residenti in Italia o di italiani residenti all’estero da meno di

due anni. Lo stesso art. 35, co. 1, l. 184/1983, d’altra parte, chiarisce

inequivocabilmente che, a seguito del giudizio di delibazione previsto dalla stessa

norma, «l’adozione pronunciata all’estero produce nell’ordinamento italiano gli

effetti di cui all’art. 27», e dunque, oltre alla costituzione di uno status filiationis

“pieno” tra adottanti e adottato, anche l’ulteriore effetto di far cessare i rapporti

dell’adottato verso la famiglia di origine.

Con ciò si ritiene di aver ormai dimostrato che le regole alle quali occorre far

riferimento per il riconoscimento del provvedimento adottivo estero in questione

– e, in genere, per qualsiasi provvedimento straniero di stepchild adoption – non

sono quelle della legislazione speciale in materia, e segnatamente quella di cui

all’art. 36, co. 4, cit., ma sono piuttosto quelle ordinarie di cui all’art. 64 ss. l.

218/1995. Si ritiene insomma di aver ormai dimostrato che – a differenza di quel

che ritiene il giudice bolognese, peraltro argomentando sul punto, come s’è visto,

in una maniera piuttosto confusa e apodittica – il caso di specie rientra in realtà

nell’ambito di applicazione del primo e non del secondo comma dell’art. 41 della

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stessa l. 218/1995. Se però questo ragionamento è corretto, allora viene meno,

irrimediabilmente, qualsiasi rilevanza della questione di legittimità costituzionale

degli artt. 35 e 36 l. 184/1983 sollevata dal giudice bolognese, sicché il giudice

delle leggi non potrà che dichiararla inammissibile, senza neppure porsi il

problema della sua fondatezza, e anche il giudice remittente dovrà infine

riconoscere che la legge non gli concede in realtà alcun potere delibativo in ordine

ai provvedimenti stranieri di stepchild adoption, il cui riconoscimento, secondo le

norme ordinarie, non necessita di un nuovo processo. Né si potrebbe sostenere

che l’applicazione delle regole della legislazione speciale sul riconoscimento dei

provvedimenti adottivi esteri risulta comunque da una lettura conforme al cd.

“diritto vivente” degli stessi dati normativi fin qui considerati.

È vero infatti che la nostra giurisprudenza fa correttamente riferimento alle norme

della legislazione speciale sul riconoscimento dei provvedimenti adottivi esteri

anche nei casi di adozione da parte di persone singole [per riferimenti v. Pineschi,

op. cit., 1198, nt. 115; sul punto v. anche Morozzo della Rocca, op. cit.,118]. Questi

casi però, come si è già avuto modo di dire, non hanno nessuna attinenza con

quello in esame, e in genere con l’ipotesi della stepchild adoption. E ciò sia perché la

stepchild adoption non è mai – per definizione – un’adozione da parte di una persona

singola (v. infatti, per il diritto italiano, l’art. 44, co. 3, l. 184/1983) sia perché le

adozioni estere da parte di persone singole delle quali è necessario domandare la

delibazione al giudice italiano sono pur sempre adozioni internazionali di minori

abbandonati oppure, nel caso dell’art. 36, co. 4, l. 184/1983, adozioni estere di

minori abbandonati a favore di single italiani effettivamente residenti all’estero da

più di due anni. Anche da questo punto di vista, dunque, è evidentemente un fuor

d’opera il riferimento alla giurisprudenza italiana sul riconoscimento in Italia dei

provvedimenti adottivi esteri a favore di persone singole.

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Una volta appurato che il riconoscimento in Italia di un provvedimento straniero

di stepchild adoption da parte del coniuge same sex del genitore biologico non può

chiedersi in base alle norme della legislazione speciale sulle adozioni internazionali,

ma opera piuttosto in base alle norme ordinarie sul riconoscimento e l’esecuzione

di sentenze e atti stranieri nel diritto nazionale, non sembra comunque

inopportuno entrare nel merito della questione posta del giudice bolognese.

Certo, la Corte costituzionale, se riterrà di condividere i rilievi critici fin qui

formulati, dichiarerà senz’altro inammissibile per difetto di rilevanza la questione

di legittimità sollevata dal giudice bolognese. Ciò non toglie tuttavia che, in futuro,

una questione analoga possa essere riproposta con riferimento agli artt. 64 e 65 l.

218/1995. Entrambe queste norme, infatti, prevedono la possibilità di impedire il

riconoscimento e l’attuazione in Italia di sentenze e provvedimenti stranieri che

siano considerati produttivi di effetti contrari all’ordine pubblico. Potrà dunque

accadere che l’ufficiale di stato di civile, richiesto dagli interessati di trascrivere,

iscrivere o annotare nei registri o negli atti di stato civile un provvedimento

straniero di adozione, rifiuti un simile adempimento in quanto, anche in base a

eventuali istruzioni all’uopo predisposte dal Ministero dell’Interno ai sensi dell’art.

9 d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la

semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), ritenga la contrarietà ai

principi di fondo dell’ordinamento giuridico nazionale degli effetti che quel

provvedimento produrrebbe in Italia una volta riconosciuto. A questo punto, ai

sensi dell’art. 95 d.p.r. 396/2000, chiunque abbia interesse ad opporsi a tale rifiuto

– e anche, d’ufficio, il Procuratore della Repubblica – potrà proporre ricorso al

giudice competente, il quale potrà allora sollevare la questione di legittimità

costituzionale degli artt. 64 e 65 l. 218/1995, nella parte in cui non consentono di

contemperare il limite dell’ordine pubblico col principio del best interest of the

child e di riconoscere comunque, nel superiore interesse del minore, un’adozione

estera, nonostante che i suoi effetti contrastino con i principi di fondo

dell’ordinamento giuridico nazionale.

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Non sembra invero dubitabile che il riconoscimento di una stepchild adoption da

parte del coniuge same sex del genitore biologico dell’adottato sia in grado di

turbare l’armonia interna dell’ordinamento nazionale, e cioè quell’armonia che

l’eccezione di ordine pubblico è appunto deputata a preservare. Non c’è dubbio

infatti che una simile possibilità non sia in alcun modo contemplata

nell’ordinamento italiano. Vero è che, sia pur con i noti effetti limitati

dell’adozione “in casi particolari”, anche il diritto italiano conosce la possibilità

della cd. adozione coparentale. Il diritto italiano non consente però di dar vita a un

rapporto coniugale tra persone dello stesso sesso [cfr. Corte cost., n. 138/2010

cit.], sicché, allo stato, l’accesso alla stepchild adoption rimane irrimediabilmente

precluso per un individuo dello stesso sesso del genitore di un minore. E ciò

anche laddove quell’individuo conviva stabilmente col genitore e col minore e

contribuisca col genitore alla cura del minore. D’altra parte, nel sistema non

sembrano esistere altre possibilità per pervenire allo stesso risultato che si

conseguirebbe con la stepchild adoption da parte del coniuge same sex del genitore

biologico del minore.

In verità, come ricorda anche il giudice bolognese, nel caso di due donne che

hanno contratto matrimonio all’estero, una delle quali ha poi generato un figlio col

ricorso alle tecniche di fecondazione eterologa, un altro giudice italiano di merito

ha ritenuto di recente di poter riconoscere i presupposti per l’applicazione

dell’adozione non legittimante di cui all’art. 44, co. 1, lett. d), l. 184/1983,

un’adozione, questa, espressamente consentita dalla legge anche alla persona non

coniugata (art. 44, co. 3, cit.) [cfr. Trib. Min. Roma, 30 luglio 2014, in

http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wpcontent/uploads/2014/09/trib-min-Roma-

30-7-2014.pdf]. A dire di quel giudice, infatti, «la constata impossibilità di

affidamento preadottivo», che costituisce il presupposto dell’indicata tipologia di

adozione, dovrebbe intendersi correttamente non solo come impossibilità “di

fatto”, che ricorre, ad esempio, quando l’affidamento preadottivo è rifiutato per

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l’età quasi adolescenziale del minore o per le sue difficoltà caratteriali o ancora per

una sua grave disabilità fisica o psichica, ma anche come impossibilità “di diritto”.

L’adozione di cui all’art. 44, co. 1, lett. d), cit. dovrebbe perciò essere consentita

anche a chi conviva stabilmente col genitore del minore e ne condivida con questo

i compiti di mantenimento, istruzione ed educazione. In realtà, una simile

interpretazione dell’art. 44, co. 1, lett. d), cit. è palesemente contra legem. E tale è

infatti considerata dalla dottrina prevalente e dalla stessa giurisprudenza. È del

tutto evidente, del resto, quale sia la funzione della norma in questione: evitare la

cd. “istituzionalizzazione” di un minore abbandonato e garantirgli comunque un

rapporto genitoriale, per quanto “limitato” sotto diversi profili, anche laddove non

si riesca a conseguire il risultato dell’adozione “piena”. Neppure attraverso l’art.

44, co. 1, lett. d), cit. è dunque possibile, nell’ordinamento italiano, trasformare in

rapporto giuridico di filiazione il legame che esiste di fatto tra un minore e il

convivente same sex del genitore biologico.

È chiaro allora che il legislatore italiano ha inteso garantire l’interesse del minore a

crescere e a sviluppare la propria personalità in un rapporto potenziale di cura con

due figure genitoriali distinte e complementari, e dunque con un padre e una

madre. E ciò anche laddove si tratti di una genitorialità soltanto “legale” con la

quale si faccia fronte alla condizione di abbandono del minore. Allo stato, infatti,

l’adozione da parte di una persona non coniugata è consentita solo

eccezionalmente, ma deve trattarsi pur sempre di un minore abbandonato o

orfano di padre e di madre (art. 44, co. 1, lett. a), c) e d) e co. 3, l. 184/1983)

ovvero nei casi in cui il rapporto coniugale sia venuto meno per la morte di uno

dei coniugi durante l’affidamento preadottivo (art. 25, co. 4, l. 184/1983). D’altra

parte, anche dopo il recente intervento della Corte costituzionale, che ha abrogato

il divieto di fecondazione eterologa di cui all’art. 4, co. 3, l. 19 febbraio 2004, n. 40

(Norme in materia di procreazione medicalmente assistita; Corte cost., sent. n.

162/2014) e ha dato così ingresso nel sistema a una nuova ipotesi eccezionale di

genitorialità “legale”, in Italia le tecniche di fecondazione medicalmente assistita

rimangono accessibili alle sole «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate

o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi» (art. 5 l. 40/2004),

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sempre che si tratti di coppie affette da sterilità o infertilità non altrimenti

superabili e documentate da atto medico (cfr. art. 4, co. 1, l. 40/2004)

[sull’argomento, per una trattazione di sintesi, sia consentito rinviare al ns. La

procreazione assistita eterologa, in Il Libro dell’anno del Diritto 2015, in corso di

pubblicazione].

Insomma, dall’analisi del dato normativo risulta in maniera inequivocabile

un’opzione del legislatore contraria alla cd. omogenitorialità. Non sembra

dubitabile, cioè, l’immanenza al sistema normativo vigente di una ratio siffatta. Di

conseguenza, il riconoscimento in Italia del provvedimento estero di stepchild

adoption da parte del coniuge same sex del genitore biologico dell’adottato non può

che considerarsi contrario all’ordine pubblico. Quel riconoscimento, infatti,

finirebbe inevitabilmente per turbare l’armonia del sistema, introducendo in esso

una nota dissonante [sulla funzione dell’eccezione di ordine pubblico nel diritto

internazionale privato v. Mosconi, Diritto internazionale privato e processuale. Parte

generale e contratti, 2 ed., Torino, 2002, 100 ss., 165 ss. e 218 ss., con specifico

riferimento alla sua funzione di limite al riconoscimento di sentenze e atti

stranieri].

In contrario non varrebbe neppure osservare che altro è consentire la

prosecuzione di un rapporto genitoriale giuridicamente rilevante già costituitosi in

un diverso ordinamento e altro è permetterne la costituzione ex novo

nell’ordinamento italiano, quasi che la rilevanza della prima vicenda sarebbe in

realtà del tutto marginale, e dunque tale da non compromettere affatto l’armonia

interna del sistema. Infatti, anche un rapporto giuridico estero è destinato a

rimanere privo di qualsiasi rilevanza nell’ordinamento nazionale, e dunque a

rimanere un rapporto di mero fatto, finché non venga riconosciuto. Il suo

riconoscimento finirebbe allora per determinare un’irragionevole disparità di

trattamento tra due situazioni sostanzialmente identiche: il rapporto

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“omogenitoriale” tutto interno al nostro ordinamento (conseguente però a una

fecondazione eterologa praticata all’estero o a una adozione estera a favore di una

persona singola) e quello già riconosciuto come giuridicamente rilevante in un

ordinamento estero che ammette la stepchild adoption da parte del coniuge same sex

del genitore biologico dell’adottato; il primo rapporto non potrebbe mai

conseguire il crisma della giuridicità, mentre un simile risultato sarebbe possibile

per il secondo. Il riconoscimento del provvedimento estero di stepchild adoption da

parte del coniuge same sex del genitore biologico dell’adottato finirebbe così, assai

verosimilmente, per mettere presto o tardi in discussione la stessa opzione

legislativa contraria alla cd. omogenitorialità. In tal modo, però, l’espulsione dal

sistema di una ratio normativa inequivocabilmente posta, anche a voler ammettere

che si tratti di un risultato che possa essere effettivamente conseguito, e cioè che

non contrasti con alcuna garanzia costituzionale, avverrebbe comunque in una

maniera surrettizia e non attraverso l’intervento del legislatore. L’eccezione di

ordine pubblico opposta al riconoscimento di un provvedimento adottivo come

quello in questione serve appunto ad evitare un simile risultato, sicuramente

inaccettabile.

Né si deve ritenere – com’è peraltro del tutto evidente – che opporre l’eccezione

di ordine pubblico al riconoscimento del provvedimento adottivo in questione

significhi esprimere un giudizio negativo di valore nei confronti del rapporto non

riconosciuto. Quel giudizio, infatti, si trova già espresso nelle norme vigenti, in

quanto rappresenta, come s’è detto, una ratio immanente nel sistema. L’eccezione

di ordine pubblico, insomma, di per sé rimane pur sempre espressione di un

giudizio puramente tecnico di conformità rispetto ai principi di fondo

dell’ordinamento: la valutazione, il giudizio di valore si colloca, per così dire, “a

monte”. Si ricava infatti dall’analisi del dato normativo, è appunto immanente nel

sistema. L’eccezione di ordine pubblico serve semplicemente a preservare questa

valutazione, impedendo che l’apertura dell’ordinamento interno che si realizza per

il tramite del riconoscimento di sentenze e provvedimenti esteri possa valere di

per sé a metterne in discussione la fondatezza, eludendo di fatto i meccanismi

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deputati all’esercizio della funzione legislativa, e dunque all’ingresso nel sistema di

nuove rationes normative in luogo di quelle esistenti.

In ogni caso, anche laddove si ammetta la contrarietà all’ordine pubblico del

riconoscimento del provvedimento adottivo in questione, si potrebbe però ancora

osservare che, nella materia in questione, il principio del superiore interesse del

minore deve pur sempre operare come un limite all’operatività dell’eccezione di

ordine pubblico, e dunque che, quando si tratta di impedire il riconoscimento di

provvedimenti di adozione di minori stranieri, la proponibilità di quell’eccezione

dev’essere sempre valutata con cautela, sensibilità e alla luce del singolo caso

concreto [cfr. Pineschi, op. cit., 1198 ss.]. Ciò è detto con chiarezza nella speciale

disciplina del riconoscimento delle adozioni internazionali (cfr. art. 35, co. 3, l.

184/1983: «il tribunale [italiano] accerta… che l’adozione [estera] non sia contraria

ai principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori,

valutati in relazione al superiore interesse del minore»). E risulta anche dalla

lettura delle norme della Convenzione dell’Aja del 1993, cui la legislazione speciale

vigente sulle adozioni internazionali ha inteso dare attuazione (cfr. art. 24 della

Convenzione cit.: «The recognition of an adoption may be refused in a

Contracting State only if the adoption is manifestly contrary to its public policy,

taking into account the best interest of the child»). Né c’è ragione di dubitare che

il best interest of the child debba essere tenuto in conto al fine di impedire un uso

eccessivamente disinvolto della clausola di ordine pubblico [cfr. Morozzo della

Rocca, op. cit., 87 s.] anche quando, come nel caso di specie, un provvedimento

adottivo estero, non essendo riconducibile all’ambito delle adozioni internazionali

dei minori abbandonati, deve essere riconosciuto in Italia in base alle norme

ordinarie di cui agli artt. 64 e 65 l. 218/1995. E ciò nonostante che queste ultime

norme, stante la loro formulazione generale, si limitino a far riferimento

unicamente alla contrarietà all’ordine pubblico degli effetti del riconoscimento e

non facciano alcun cenno al principio del superiore interesse del minore. Non

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sembra comunque dubitabile che la ratio normativa contraria alla cd.

omogenitorialità, che impedisce il riconoscimento in Italia di un provvedimento

estero di adozione coparentale come quello in questione, trovi anch’essa la propria

ragion d’essere nel miglior interesse del minore, così come, in genere, tutte quelle

valutazioni che assurgono al rango di principi di carattere generale nella materia

delle adozioni. Non sembra perciò condivisibile l’affermazione del giudice

bolognese secondo cui «la fattispecie peculiare che viene qui in considerazione

coinvolge…, da un lato, l’interesse dello Stato a non modificare il modello

eterosessuale del matrimonio (e della famiglia) e, dall’altro, l’interesse della coppia

omogenitoriale a che l’unione dei membri della famiglia non sia cancellata in

modo completo e irreversibile con il sacrificio integrale della dimensione giuridica

preesistente». Né sembra condivisibile l’affermazione successiva secondo cui «la

normativa risolve un tale contrasto di interessi in termini di tutela esclusiva di

quello statuale disgregando in modo incondizionato ciò che la famiglia ha

costruito in oltre vent’anni di unione». In tal modo si tende infatti ad accreditare

l’idea che, nel caso di specie, il legislatore faccia prevalere sull’interesse della

coppia – e, a quanto pare di capire (ma non è detto con chiarezza…), sullo stesso

interesse del minore – un interesse generale a preservare e a promuovere un

determinato modello di famiglia aprioristicamente assunto come normativo, e

dunque sostanzialmente ideologico. In realtà, come si è detto, l’inequivocabile

ratio normativa contraria alla cd. omogenitorialità è anch’essa funzionale alla

garanzia del best interest of the child. Non si tratta insomma di semplice adesione a un

modello di famiglia tradizionale in vista della sua conservazione. Si tratta appunto

di un modo di intendere concretamente la garanzia del best interest of the child: il

legislatore riconosce cioè come senz’altro meritevole l’interesse del minore a

sviluppare la propria personalità nel rapporto potenziale con figure genitoriali di

sesso diverso.

Ciò posto, ci si può certo chiedere se e in che misura questo modo di intendere

l’interesse del minore – e cioè quello attualmente immanente al sistema, che pone

allo stato un ostacolo non superabile alla cd. omogenitorialità – non debba ormai

essere rimesso in discussione e se la sede propria di questa discussione debba

essere quella del controllo di legittimità costituzionale delle leggi o piuttosto quella

in cui si esercita la funzione legislativa, e dunque la sede propria in cui si decide la

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mediazione politica dei conflitti sociali. La questione, in altri termini, è se la

valutazione di sistema secondo cui deve essere garantito l’interesse del minore a

crescere nel rapporto potenziale con due figure genitoriali di riferimento, distinte e

complementari, e comunque contraria alla cd. omogenitorialità, sia o meno

costituzionalmente legittima o se non si tratti addirittura di una ratio normativa

costituzionalmente necessaria, e dunque riconosciuta già al massimo livello

dell’ordinamento e perciò idonea a condizionare le scelte del legislatore ordinario.

Il tema meriterebbe evidentemente ben altro approfondimento. Fin d’ora si può

dire però che l’ambito ristretto in cui, sempre nell’interesse del minore, l’art. 30

Cost. circoscrive il ricorso alla genitorialità “legale” ai soli «casi di incapacità dei

genitori» [sul punto, con esemplare chiarezza, cfr. Nicolussi, Fecondazione eterologa e

diritto di conoscere le proprie origini. Per un’analisi giuridica di una possibilità tecnica, in La

fecondazione eterologa tra Costituzione italiana e Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo a

cura di F. Vari, Torino, 2012, 65 ss.; Id., La famiglia: una concezione neo-istituzionale?,

in Europa e diritto privato, 2012, spec. 189 ss.] e gli stessi limiti della recente

decisione con cui la Corte costituzionale, sia pur senza tenere minimamente in

conto i principi emergenti dalla lettura dell’art. 30 Cost., ha ritenuto di dover

ampliare quest’ambito anche nel caso di ricorso alle tecniche di fecondazione

eterologa non lasciano intravedere uno spazio rilevante per l’introduzione nel

sistema di una ratio normativa favorevole alla cd. omogenitorialità, almeno

laddove questa non sia funzionale all’accoglienza di un minore abbandonato,

bensì, ad imputare alla coppia un progetto procreativo concepito e coltivato

insieme ed attuato, all’estero, contro le previsioni della legge italiana, o col ricorso

all’adozione da parte della singola partner ovvero con l’inseminazione di questa

col seme di un cd. donatore anonimo, come nel caso venuto all’attenzione del

giudice bolognese. Come si è già detto, infatti, con la sent. n. 162/2014, il giudice

delle leggi non ha certo riconosciuto una prevalenza indiscriminata del diritto al

figlio degli adulti sul diritto del minore ad avere per genitori coloro che sono tali

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biologicamente, giacché il ricorso alla fecondazione eterologa è stato consentito

solo alle coppie sterili formate da individui di sesso diverso.