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Diritto Civile Contemporaneo Rivista trimestrale online ad accesso gratuito ISSN 2384-8537 www.dirittocivilecontemporaneo.com Anno IV, numero I, gennaio/marzo 2017 ATTI EMULATIVI E ABUSO DEL DIRITTO NEI RAPPORTI CONDOMINIALI Mirko Faccioli

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Anno IV, numero I, gennaio/marzo 2017

ATTI EMULATIVI E ABUSO DEL DIRITTO NEI RAPPORTI CONDOMINIALI

Mirko Faccioli

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Atti emulativi e abuso del diritto nei rapporti condominiali

di Mirko Faccioli

Con sentenza Cass. 1209/2016 (in Foro it., 2016, I, c. 842, con nota di R.

PARDOLESI, Atti emulativi e norme decorative), la Corte di Cassazione ha arricchito

il panorama giurisprudenziale in tema di atti emulativi nel condominio (per una

ricognizione del quale v. G. BORDOLLI, Atti emulativi nel condominio, in Immobili

& proprietà, 2009, p. 723 ss.) affermando il principio secondo cui, «tenuto conto

che, ai sensi dell’art. 833 c.c., integra atto emulativo esclusivamente quello che sia

obiettivamente privo di alcuna utilità per il proprietario ma dannoso per altri, è

legittima e non configura abuso del diritto la pretesa del condomino al rispristino

dell’impianto di riscaldamento centralizzato soppresso dall’assemblea dei

condomini con delibera dichiarata illegittima, essendo irrilevanti sia la onerosità

per gli altri condomini – nel frattempo dotatisi di impianti autonomi unifamiliari –

delle opere necessarie a tale ripristino sia l’eventuale possibilità per il condomino

di ottenere eventualmente, a titolo di risarcimento del danno, il ristoro del costo

necessario alla realizzazione di un impianto di riscaldamento autonomo».

La controversia decisa dalla Suprema Corte era infatti scaturita da una delibera

condominiale di disattivazione dell’impianto centralizzato di riscaldamento

dell’edificio successivamente dichiarata nulla, con sentenza passata in giudicato, in

seguito all’impugnazione dell’unica condomina dissenziente. Quest’ultima aveva

pertanto richiesto al condominio l’immediato ripristino dell’impianto centralizzato

di riscaldamento, ricevendo una risposta negativa fondata sul rilievo che tutti gli

altri condomini si erano nel frattempo dotati dell’impianto autonomo e che, di

conseguenza, una siffatta operazione avrebbe comportato ingenti spese

(nell’ordine dei 200.000 euro) per la trasformazione e l’adeguamento alle nuove

normative della centrale termica.

Di fronte a questo rifiuto la condomina de qua aveva fatto valere in giudizio la sua

pretesa, la quale era stata accolta in primo grado, ma respinta in sede d’appello

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sulla base del principio del divieto dell’abuso del diritto: a tale riguardo il giudice di

seconde cure aveva invero osservato, forte anche dell’evoluzione normativa

diretta a incentivare la trasformazione degli impianti di riscaldamento centralizzati

in quelli autonomi, che «vi sarebbe stata sproporzione fra l’utile conseguibile

dall’attrice con il ripristino e quello imposto alla quasi totalità dei condomini,

posto che la medesima avrebbe potuto dotarsi di impianto autonomo unifamiliare

con adeguato ristoro per le spese al riguardo occorrenti, mentre sarebbe stato

particolarmente oneroso per gli altri condomini ripristinare un impianto obsoleto

e non in linea con le politiche di risparmio energetico e con le condizioni di

sicurezza» (il passo è tratto dalla motivazione della pronuncia di Cassazione in

commento).

La Corte di Cassazione censurava, tuttavia, il ragionamento della Corte d’appello,

ritenendo che questa avesse «ravvisato l’abuso del diritto formulando un

inammissibile giudizio di proporzionalità fra l’utilità conseguibile dalla condomina

e l’onerosità che ne sarebbe derivata ai condomini». Secondo gli ermellini infatti,

«vertendosi in tema di proprietà ovvero di comproprietà di un bene

condominiale», la fattispecie in esame doveva essere decisa sulla base della

disciplina degli atti emulativi di cui all’art. 833 c.c., nell’applicazione della quale

sarebbe escluso «che il giudice possa compiere una valutazione comparativa

discrezionale fra gli interessi in gioco ovvero formulare un giudizio di

meritevolezza e di prevalenza fra l’interesse del proprietario e quello di terzi»:

l’unico elemento rilevante, sempre secondo la pronuncia in esame, dovrebbe

invece essere considerato la sussistenza o meno di un interesse del proprietario al

compimento dell’atto, nel caso specifico concretizzato dalla «utilità della

condomina di potere usufruire di un servizio comune che era stato

illegittimamente disattivato dall’assemblea dei condomini».

Nella motivazione della sentenza gioca, invece, un ruolo alquanto marginale il

requisito soggettivo per l’applicazione dell’art. 833 c.c. costituito dall’animus nocendi,

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con riguardo al quale la Suprema Corte si limita a rilevare che lo stesso deve

«essere accertato alla stregua della condotta, quale si è esteriorizzata in concreto, e

da cui possa trarsi inequivocabilmente la prova dell’assenza di interesse per il

proprietario di compiere un atto pregiudizievole ai terzi».

Così argomentando la sentenza in esame conferma (v. R. PARDOLESI, Atti

emulativi e norme decorative, cit., c. 845) la correttezza del rilievo che l’elemento

dell’intenzione pregiudizievole, seppure costantemente richiamato dalla

giurisprudenza, non è in realtà decisivo per l’applicazione dell’art. 833 c.c., in

quanto gli stessi giudici sono soliti affermare – a poco importa se ragionando in

una prospettiva in re ipsa, piuttosto che richiamando il principio res ipsa loquitur, o

seguendo altri e ancora diversi percorsi argomentativi – che l’animus nocendi va

desunto dalla sussistenza dell’elemento oggettivo costituito dall’assenza di utilità

dell’atto per il proprietario (C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, 2a ed.,

Milano, 2017, p. 132; C. RESTIVO, Gli atti emulativi, in La proprietà e i diritti reali

minori, a cura di R. Conti, Milano, 2009, p. 527; M. COSTANZA, Art. 833 – Atti

d’emulazione, in Codice della proprietà e dei diritti immobiliari, a cura di F. Preite e M. Di

Fabio, Torino, 2015, p. 520), «rimanendo comunque insindacabile il processo

psicologico che avrebbe condotto il proprietario a comportarsi in un certo modo

ritenuto gratuitamente dannoso» (F. MACARIO, Art. 833 – Atti d’emulazione, in

Della proprietà. Artt. 810-868, a cura di A. Jannarelli e F. Macario, in Commentario del

codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2012, p. 396).

Nei suoi esiti applicativi questa interpretazione dell’art. 833 c.c. finisce

sostanzialmente per coincidere, quindi, con l’autorevole impostazione che nega la

necessità della sussistenza dell’animus nocendi per la configurabilità dell’atto

emulativo, ritenendo invece necessario (e sufficiente) l’elemento costituito

dall’obiettiva e volontaria direzione dell’atto verso il risultato della molestia o del

danno (C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, cit., p. 132). Il giudizio sul

carattere emulativo dell’atto si gioca, dunque, interamente sul piano oggettivo

dell’(in)utilità del medesimo, sicché diventa cruciale stabilire quale sia la soglia

minima e sufficiente di utilità che l’atto deve raggiungere per escludere

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l’emulazione. Il panorama giurisprudenziale sul punto è peraltro tale da far parlare

di «eutanasia dell’art. 833 c.c.» (A. MOLITERNI – A. PALMIERI, «Dormientibus

iura succurrunt»: eutanasia dell’art. 833 c.c., in Foro it., 1998, I, c. 69 ss.), in quanto le

nostre corti ritengono che a precludere l’applicazione della norma basti, per

esempio, un vantaggio minimo, anche solo potenziale o futuro, di carattere non

economico bensì estetico/spirituale, finanche illecito, e in ogni caso soddisfatto –

con esclusione in radice dal raggio di applicazione della stessa di tutte le condotte

omissive – già soltanto dal risparmio di spese ed energie psico-fisiche che deriva

dal non compiere una determinata attività (v., anche, C. RESTIVO, Gli atti

emulativi, cit., p. 526 s.; R. PARDOLESI, Atti emulativi e norme decorative, cit., c. 845

s.; F. MACARIO, Art. 833 – Atti d’emulazione, cit., p. 394 ss.; M. DOSSETTI, Atti

emulativi, in Enc. giur. Treccani, IV, 1988, p. 3; L. GHIDONI, Atti emulativi e abuso del

diritto: l’occasione per l’affermazione di un principio?, in Studium Iuris, 2014, p. 680, 682

s.).

Non appare invero azzardato affermare che, sulla scorta di questa interpretazione,

l’applicazione dell’art. 833 c.c. finisce per rimanere circoscritta ai casi limite in cui

ci si trova «alle prese con l’atto, inesorabilmente stupido, di chi, pur di nuocere

all’altro, fa male a se stesso, ponendo in essere, quanto meno, un’attività senza

costrutto ma inevitabilmente onerosa» (R. PARDOLESI, Atti emulativi e norme

decorative, cit., c. 846 s): emblematico, a tale riguardo, è il comportamento del

condomino di minoranza che si oppone all’ammodernamento dell’edificio

(antiquato e fatiscente) proposto dagli altri condomini offrendosi di sostenere

tutte le spese, anche quelle relative al rifacimento della parte di proprietà esclusiva

del condomino opponente, nonché di tenere indenne quest’ultimo da ogni

pregiudizio che egli possa subire per l’impossibilità di utilizzare i propri locali

durante il periodo di effettuazione dei lavori (App. Torino 12 maggio 1971, in

Giur. it., 1973, I, 2, c. 1146, con nota di M. DOSSETTI, Su un caso di atto emulativo

tra condomini); ma nella categoria degli “atti stupidi” può essere senz’altro

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ricondotto pure il comportamento del proprietario che installa sul muro di

recinzione del fabbricato comune un contenitore avente aspetto di telecamera,

posto in direzione del balcone del vicino, che per essere nascosto tra il fogliame

degli alberi non può concretamente perseguire la funzione di scoraggiare eventuali

malintenzionati (Cass. 11 marzo 2001, n. 5421, riportata da G. BORDOLLI, Atti

emulativi nel condominio, cit., p. 725).

V’è da dire che la scarsissima applicazione dell’art. 833 c.c. non sembra suscitare

particolari preoccupazioni in un’ampia parte della dottrina, in quanto si ritiene che

la funzione pratica della norma venga già ampiamente soddisfatta da altre

disposizioni codicistiche quali, principalmente, l’art. 844 c.c. per quanto concerne

il conflitto circa usi incompatibili di fondi vicini e l’art. 2043 c.c. per quanto

attiene il risarcimento dei danni arrecati dal proprietario (F. MACARIO, Art. 833

– Atti d’emulazione, cit., p. 391 s.; A. GAMBARO, Emulazione, in Digesto disc. priv. –

Sez. civ., VII, Torino, 1991, p. 442; E. GUERINONI, Il divieto di atti emulativi, in

Trattato dei diritti reali, diretto da A. Gambaro e U. Morello, I, Proprietà e possesso,

Milano, 2008, p. 504, 522 s.).

Secondo taluno, il divieto degli atti emulativi sarebbe del resto destinato ad un

ineludibile insuccesso, in quanto è stato elaborato nell’ambito del diritto comune

quale limite allo sconfinato jus utendi ed abutendi in cui si sostanziava a quel tempo il

diritto di proprietà, la quale, in epoca moderna, è stata progressivamente

circoscritta dall’introduzione di limiti legali, ben più precisi e incisivi, che finiscono

per contemplare e assorbire la grandissima parte dei comportamenti abusivi

suscettibili di essere tenuti dal proprietario (C. RESTIVO, Gli atti emulativi, cit., p.

535).

Di fronte a soluzioni irragionevoli e inappaganti come quella di Cass. n. 1209 del

2016 (è questo il condivisibile giudizio di R. PARDOLESI, Atti emulativi e norme

decorative, cit., passim) sembra però doveroso chiedersi se non sia possibile

recuperare un effettivo spazio applicativo all’art. 833 c.c., elaborando un criterio di

valutazione del requisito dell’(in)utilità più appropriato di quello adoperato

dall’interpretazione giurisprudenziale dominante. In questa prospettiva, taluni

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ritengono che l’emulazione dovrebbe essere esclusa soltanto in presenza di un

interesse obiettivamente apprezzabile sulla base di parametri di tipicità sociale

anziché di fronte a qualsivoglia vantaggio perseguito dal proprietario (C.M.

BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, cit., p. 133; M. DOSSETTI, Atti emulativi,

cit., p. 3; C. RESTIVO, Gli atti emulativi, cit., p. 532 s., ove ulteriori riferimenti in

tal senso).

Un’altra proposta interpretativa suggerisce invece, richiamando il valore della

solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e la funzione sociale della proprietà di cui all’art. 42

Cost., di instaurare un giudizio di comparazione fra l’utilità del proprietario e il

nocumento arrecato, in modo da ritenere emulativo l’atto che apporti al dominus

un vantaggio sproporzionato rispetto al sacrificio imposto ai terzi (seppure con

varietà di accenti, in questo senso si esprimono, tra gli altri, R. PARDOLESI, Atti

emulativi e norme decorative, cit., passim; U. MATTEI, La proprietà, in Trattato di diritto

civile, diretto da R. Sacco, 2a ed., Torino, 2015, p. 347 s.; L.M. MAZZONI, Atti

emulativi, utilità sociale, abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1969, II, p. 610; U. NATOLI,

La proprietà, 2a ed., Milano, 1976, p. 161 ss.; U. RUFFOLO, Atti emulativi, abuso del

diritto e «interesse» nel diritto, in Riv. dir. civ., 1973, II, p. 23 ss.).

Un’operazione di quest’ultimo tipo parrebbe in effetti essere stata svolta dalla

giurisprudenza di merito in alcune rarissime occasioni, nella più recente delle quali

– che conferma l’impressione di U. MATTEI, La proprietà, cit., p. 274, secondo cui

il divieto degli atti emulativi viene confinato dai nostri giudici «alle ipotesi di

dispettucci fra vicini» – è stato, per esempio, considerato emulativo il

comportamento consistente nello stendere bucato e tappeti in modo da oscurare

la finestra dell’appartamento sottostante nella possibilità di utilizzare altre

soluzioni o, comunque, di stendere in modo da evitare l’oscuramento delle

aperture sottostanti (Trib. Genova, 3 gennaio 2006, riportata da P. GRIMALDI,

Art. 833 – Atti d’emulazione, in Libro III. Della proprietà, a cura di L. Gatt e S.

Troiano, in Commentario del codice civile, diretto da C.M. Bianca, Roma, 2014, p. 110).

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Pur non essendo certamente «né impossibile né repugnante di per sé» (A.

GAMBARO, Emulazione, cit., p. 441), il giudizio di comparazione tra l’utilità del

dominus e il sacrificio dei terzi viene però considerato estraneo all’art. 833 c.c.

tanto dalla giurisprudenza di legittimità (v., per tutte, proprio la pronuncia di

Cassazione in commento) quanto dalla dottrina dominante: da un lato, si osserva

che non se ne trova traccia nel dettato normativo così come nelle origini storiche

del divieto degli atti emulativi; dall’altro, si ritiene che con la comparazione degli

interessi in gioco si fuoriesca dal perimetro dell’esercizio del diritto di proprietà

per sconfinare nel campo della responsabilità civile, ove il problema può tra l’altro

essere affrontato con il più appropriato strumento della clausola generale del

danno ingiusto (C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, cit., p. 132; M.

DOSSETTI, Atti emulativi, cit., p. 3; C. RESTIVO, Gli atti emulativi, cit., p. 528 ss.;

A. GAMBARO, Emulazione, cit., p. 441 s.).

Né – si conclude – questi ostacoli potrebbero essere superati tramite il richiamo

alla funzione sociale della proprietà, a quest’ultima potendo essere realisticamente

attribuito, alla luce della profonda evoluzione che ha attraversato l’ordine

costituzionale dei rapporti socio-economici, soltanto il modesto ruolo di

fondamento dei limiti posti dalla legge alla proprietà privata nell’interesse generale

(C. RESTIVO, Gli atti emulativi, cit., p. 529), ovverosia «assicurare […], a ogni

proprietario, che il suo diritto possa sì essere limitato dal legislatore, però

esclusivamente per scopi collegati a detta funzione» (T. DALLA MASSARA, Art.

832 – Il diritto di proprietà, in Codice della proprietà e dei diritti immobiliari, a cura di F.

Preite e M. Di Fabio, Torino, 2015, p. 356).

Come abbiamo visto, una valutazione comparativa dell’utilità del dominus e degli

interessi delle controparti era stata svolta pure dalla sentenza della Corte d’appello

riformata dalla pronuncia di Cassazione n. 1209 del 2016, la quale aveva fatto

tuttavia ricorso non alla disciplina dell’art. 833 c.c. bensì a quel più generale divieto

dell’abuso del diritto che, sebbene manchi di un esplicito riscontro normativo, la

nostra magistratura ha ormai da tempo ricostruito quale principio generale

dell’ordinamento giuridico muovendo dalle numerose manifestazioni del

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medesimo rintracciabili all’interno del sistema positivo, rappresentate innanzitutto

proprio dal divieto di atti emulativi di cui all’art. 833 c.c. nonché dal dovere di

correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione e nell’esecuzione del

contratto contemplato dagli artt. 1175 e 1375 c.c. (ma v. pure, senza pretese di

completezza, gli artt. 330 e 333 c.c. in tema di abuso della responsabilità

genitoriale, l’art. 840, 2° co., c.c. con riguardo ai limiti della proprietà fondiaria,

l’art. 1344 c.c. sulla frode alla legge quale causa di nullità del contratto, l’art. 1438

c.c. sulla minaccia di far valere un diritto per conseguire vantaggi ingiusti, l’art. 96

c.p.c. in ambito processuale, l’art. 9 della l. 18 giugno 1998, n. 192 concernente

l’abuso di dipendenza economica, e così via). E invero, la giurisprudenza in tema

di abuso del diritto annovera con una certa frequenza l’elemento della

«sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui

è soggetta la controparte» tra gli elementi costitutivi della fattispecie in discorso,

accanto alla «titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto», «la

possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo

una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate» e «la circostanza che

tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva

di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di

valutazione, giuridico od extragiuridico» (sono parole tratte dalla celebre

pronuncia sul “caso Renault” di Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, pubblicata e

commentata, tra le altre, in Corr. Giur., 2009, p. 1577, con nota di F. MACARIO,

Recesso ad nutum e valutazione di abusività nei contratti tra imprese: spunti da una recente

sentenza della Cassazione; in Contr., 2010, p. 11, con nota di G. D’AMICO, Recesso ad

nutum, buona fede e abuso del diritto; in Foro it., 2010, I, c. 85, con nota di A.

PALMIERI – R. PARDOLESI, Della serie “a volte ritornano”: l’abuso del diritto alla

riscossa; in Giur. comm., 2011, II, p. 295, con nota di E. BARCELLONA, Buona fede

e abuso del diritto di recesso ad nutum tra autonomia privata e sindacato giurisdizionale).

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Una valutazione dell’esercizio del diritto di proprietà alla stregua del divieto

dell’abuso del diritto non è, del resto, completamente sconosciuta alla

giurisprudenza, che in una celebre pronuncia degli anni Sessanta del secolo scorso

aveva riconosciuto che l’abuso del diritto può consistere anche in comportamenti

omissivi, come la mancata difesa in giudizio della proprietà che risulti dannosa per

altri oltre che per il dominus (Cass. 15 novembre 1960, n. 3040, in Foro it., 1961, I,

c. 256, con nota di A. SCIALOJA, Il non uso è abuso del diritto soggettivo?, relativa ad

una fattispecie in cui un Istituto per le case popolari aveva tollerato per diversi

anni l’occupazione di appartamenti di sua proprietà, così esponendosi alle censure

degli altri abitanti dello stabile). Nella sentenza in commento la Suprema Corte ha

però negato che la fattispecie concreta potesse essere giudicata alla stregua della

figura generale dell’abuso del diritto, affermando che in tema di proprietà e di

condominio rileverebbe solamente il divieto di atti emulativi di cui all’art. 833 c.c.

con tutte le limitazioni applicative che abbiamo già avuto modo di esaminare;

conclusione, questa, che parrebbe trovare conforto nelle parole di quanti

ritengono che «a rigore […] si deve parlare di abuso di diritto in relazione agli atti

di esercizio di un qualsiasi diritto soggettivo, mentre il divieto di atti emulativi ne

rappresenta un caso speciale riferibile al solo esercizio del diritto di proprietà o

altro diritto reale di godimento» (A. GAMBARO, Emulazione, cit., p. 440, poi

testualmente ripreso da E. GUERINONI, Il divieto di atti emulativi, cit., p. 499;

corsivo nostro).

D’altro canto, è fuori discussione che il terreno d’elezione per l’utilizzo

giurisprudenziale dell’abuso del diritto è costituito dall’ambito dei rapporti

contrattuali (v., per una recente casistica, V. AMENDOLAGINE, Abuso del diritto

e buona fede nei rapporti contrattuali, in Contr., 2016, p. 811 ss.), tanto che ricorrendo

in cassazione la condomina della fattispecie al nostro esame aveva lamentato, tra

le altre cose, «violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c.» per avere

la sentenza d’appello «applicato la categoria dell’abuso del diritto a una fattispecie

diversa da quelle – in materia contrattuale – alle quali fa riferimento la

giurisprudenza della S.C.». A una diversa soluzione si potrebbe, peraltro, giungere

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rimettendo in discussione l’assunto secondo cui le situazioni di condominio (e più

in generale di comunione) ricadono nel raggio di applicazione dell’art. 833 c.c.

Secondo un orientamento, il divieto degli atti emulativi contemplerebbe infatti

solamente le situazioni in cui vengono in gioco esclusivamente interessi individuali

del dominus, destinati a prevalere senz’altro su quelli dei terzi nel momento in cui

raggiungono quel minimo di rilevanza che si ritenga sia necessaria ad integrare

l’utilità per il proprietario. Nelle situazioni di contitolarità organizzata di beni

vengono invece in rilievo anche uno scopo comune e la conseguente necessità di

rapporti di collaborazione, sicché potrebbe apparire più appropriato fare

riferimento, anziché all’art. 833 c.c., al generale dovere di comportamento

secondo correttezza e buona fede (E. GUERINONI, Il divieto di atti emulativi, cit.,

p. 505, ove ulteriori riferimenti in tal senso) sulla base del quale, come abbiamo

visto, la giurisprudenza ha ricostruito una concezione dell’abuso del diritto che si

fonda (anche) sulla verifica di una sproporzione tra il vantaggio che l’atto apporta

al titolare e il sacrificio che il medesimo arreca ai terzi. A sostegno di questa

proposta interpretativa si potrebbero richiamare la dimensione di principio

generale della buona fede (sul punto v., fra i tanti, E. DELL’AQUILA, La

correttezza nel diritto privato, Milano, 1980, p. 5 ss.; AA.VV., Il principio di buona fede,

Milano, 1987; G.M. UDA, La buona fede nell’esecuzione del contratto, Torino, 2004, p.

76 ss.) e l’attitudine espansiva delle norme che la contemplano, vale a dire la

tendenziale «capacità della normativa di correttezza di insinuarsi [,al di fuori del

campo delle obbligazioni e dei contratti,] in alcuni dei restanti, grandi blocchi nei

quali si articola la materia privatistica […] tutte le volte in cui, quale che sia il

terreno sul quale essa deve scendere e misurarsi (persone e famiglia, successioni

per causa di morte, diritti reali e possesso, impresa e lavoro subordinato), si faccia

questione di interpretazione di un atto patrimoniale, del conseguente rapporto

obbligatorio, della sua attuazione» (sono parole di L. BIGLIAZZI GERI, Buona

fede nel diritto civile, in Digesto disc. priv. – Sez. civ., II, Torino, 1988, p. 174). Nel

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momento in cui si ritenga di dare ingresso alla clausola generale di buona fede

sorge, peraltro, il dubbio che per trovare una soluzione appropriata alla fattispecie

concreta sia davvero necessario elaborare la figura dell’abuso del diritto o se,

invece, quest’ultima non costituisca una superfetazione con la quale non si fa altro

che “etichettare” con una determinata espressione un risultato interpretativo in

realtà già pianamente attingibile – e invero raggiunto – tramite la valutazione ex

fide bona (in quest’ultimo senso v., tra gli altri, A. D’ANGELO, La buona fede, in Il

contratto in generale, IV, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, Torino,

2004, p. 61 ss.; S. PATTI, Abuso del diritto, in Digesto disc. priv. – Sez. civ., I, Torino

1989, p. 4; G. CATTANEO, Buona fede obiettiva e abuso del diritto, in Riv. trim. dir.

proc. civ., 1971, p. 613 ss.; R. SACCO, L’esercizio e l’abuso del diritto, in La parte generale

del diritto civile. 2. Il diritto soggettivo, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco,

Torino, 2001, p. 309 ss.). Si tratta di una questione che non può essere

evidentemente affrontata nell’economia di questa trattazione, anche perché in

dottrina non mancano ben argomentate tesi che sostengono l’effettiva possibilità

di distinguere tra la valutazione di abusività dell’esercizio del diritto da un lato e

quella di rispondenza a buona fede del comportamento dall’altro. Taluno ha, per

esempio, ravvisato il criterio distintivo tra le due figure nel fatto che il sindacato

dell’atto di esercizio del diritto basato sullo strumento dell’abuso si fonderebbe

essenzialmente (in una prospettiva teleologica o «causale») sull’accertamento di

una deviazione dell’esercizio del diritto rispetto allo scopo per il quale il diritto

stesso è stato attribuito, mirando così a verificare che, attraverso tale esercizio, il

titolare non cerchi di appropriarsi di «utilità» diverse ed ulteriori rispetto a quelle

che con l’attribuzione del diritto l’ordinamento intende assicurargli; mentre il

controllo che viene posto in essere quando si valuta l’esercizio dei diritti

contrattuali attraverso il canone della buona fede ex art. 1375 c.c. riguarderebbe

(in una prospettiva di carattere «procedurale») le modalità di esercizio del diritto,

in particolare al fine di verificare che queste non comportino un aggravamento

della posizione della controparte senza alcun apprezzabile vantaggio per il titolare

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DirittoCivileContemporaneoAnnoIV,numeroI,gennaio/marzo2017RivistatrimestraleonlineadaccessogratuitoISSN2384-8537

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del diritto esercitato (G. D’AMICO, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto,

cit., spec. p. 18 ss.).

Secondo altri, invece, la distinzione tra abuso del diritto e buona fede si

coglierebbe nel fatto che, nel primo caso, il giudice dovrebbe accertare la

corrispondenza dell’esercizio del diritto all’interesse sotteso all’attribuzione dello

stesso sulla base di una valutazione della condotta del titolare «in sé e per sé,

prescindendo da ogni considerazione attinente al modo in cui essa interagisce con

le sfere giuridiche implicate» e «astraendo» il diritto soggettivo «dalla trama delle

relazioni in cui concretamente vive», sì da assumerlo «come entità isolata, avulso

dal contesto delle dinamiche intersoggettive il cui esercizio genera»; diversamente,

il sindacato svolto dal giudice al fine di accertare una violazione della buona fede

avrebbe «natura relazionale», ovverosia implicherebbe «un bilanciamento tra

interessi contrapposti, reso necessario dal gioco del reciproco implicarsi e limitarsi

che le sfere di interessi innescano nel momento in cui, svolgendosi nel tessuto

delle relazioni intersoggettive, sono costrette a confrontarsi le une con le altre» (C.

RESTIVO, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, 2007, p. 147 ss.).

Un’ulteriore impostazione ancora, poi, ritiene che i due concetti siano

strutturalmente distinti in virtù del fatto che la buona fede costituirebbe il

precetto, ancorché indeterminato, mentre il divieto di abuso del diritto

rappresenterebbe una delle sue funzioni, che peraltro ne travalicherebbe la sfera di

applicazione. Muovendosi in questa prospettiva, si ritiene di poter affermare che

lo sviamento dall’interesse che costituisce il nucleo della teoria dell’abuso del

diritto «costituisce […] la sublimazione della funzione valutativa della buona fede,

riconcettualizzata secondo lo schema del diritto soggettivo, ma al contempo

consente il superamento dei confini di quest’ultima, candidandosi a criterio di

emersione dell’abuso di applicazione generalizzata»; mentre la ragione che

giustifica l’inquadramento della funzione valutativa della buona fede in una

struttura dogmatica qual è il divieto di abuso viene individuata nel fatto che ciò

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consente di fornire all’interprete un criterio sufficientemente certo per

concretizzare la clausola generale di buona fede, sollevandolo dall’onere costante

della valutazione minuta e della motivazione dettagliata della propria decisione

fondata sulla clausola generale, nonché di approntare uno strumento di controllo

della discrezionalità e della decisione dell’organo giudicante (F. PIRAINO, Il divieto

di abuso del diritto, in Eur. dir. priv., 2013, p. 111 ss., 125 ss.). Ad ogni modo, e per

concludere, che si voglia procedere tramite la reinterpretazione del meccanismo di

funzionamento dell’art. 833 c.c., il ricorso alla categoria generale dell’abuso del

diritto o l’applicazione del principio di buona fede, sembra potersi affermare che

in una fattispecie come quella decisa da Cass. n. 1209 del 2016 l’instaurazione di

un giudizio di comparazione tra gli interessi in gioco è passaggio necessario e

indispensabile, a prescindere da quale sia la traiettoria concettuale prescelta per

compierlo, per arrivare ad una soluzione che possa effettivamente essere

considerata la «più conveniente e adatta, più appropriata e congrua, a soddisfare le

esigenze pratiche che sono alla base del concreto e storico fatto della vita, da cui il

procedimento ermeneutico ha preso le mosse» (sono parole di V. SCALISI, Per

una ermeneutica giuridica “veritativa” orientata a giustizia, in Riv. dir. civ., 2014, p. 1268;

corsivi dell’Autore).

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Questa Nota può essere così citata:

M. FACCIOLI, Atti emulat iv i e abuso de l d i r i t to ne i rappor t i condominia l i , in

Dir. c iv . cont ., 9 marzo 2017