Diritto Amministrativo Capitoli Riassunti

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Capitolo I L’amministrazione degli interessi dei cittadini. Cosa si intende per amministrazione? L’amministrazione può essere considerata un’azienda di sproporzionate dimensioni che fornisce prodotti del genere più svariato oppure un insieme di persone che hanno specifici interessi professionali e intrattengono tra di loro e con gli altri delle particolari relazioni sociali. Amministrazione è un termine che si riferisce alla cura degli interessi. Chiunque abbia delle cose alle quali è interessato deve averne cura. Ma se gli interessi sono rilevanti e complessi ci si dovrà rivolgere a persone idonee e potrà essere necessaria un’apposita organizzazione. Con la locuzione “amministrazione pubblica” ci si riferisce ad un’attività la cui principale caratteristica è di essere strumentale ovvero funzionale agli interessi di terzi. È definibile pubblica in un primo significato, perché gli interessi di cui si occupa sono quelli di persone che, prese in considerazione in insiemi diversi, con il nome di cittadini, o di popolo, costituiscono il principale elemento costitutivo. In sistemi sociali come il nostro, fondati sul principio di libertà ciascuna persona deve essere libera di stabilire quali sono i propri interessi e di soddisfarli nel modo che preferisce. Tuttavia raggiungere tale obiettivo è possibile soltanto in parte, in primis perché ci sono interessi che non possono essere soddisfatti da ciascuno individualmente. Poi perché ce ne sono altri la cui soddisfazione presuppone l’appartenenza ad un gruppo sociale con un certo tipo di composizione. È altrettanto evidente che la soddisfazione di alcuni interessi può essere incompatibile con quella di altri, sotto il profilo oggettivo (per mancanza di risorse) o sotto il profilo soggettivo (interessi incompatibili, ad es. nella stessa città c’è chi ama il silenzio e chi anela il baccano). Affinché il gruppo sociale possa sopravvivere occorre che ciascuno sia consapevole del dovere di solidarietà nei confronti degli altri. Ma anche indispensabile sarà che il gruppo sociale crei delle apposite organizzazioni le quali operino per consentire la autonoma realizzazione dei propri interessi da parte di ciascuna persona. Esistono strumenti giuridici che consentono alle persone di curare i loro interessi associandosi liberamente con altre e costituendo organizzazioni private. Esiste anche un sistema di organizzazioni pubbliche che svolgono un ruolo sussidiario nei confronti dei privati e delle loro organizzazioni. Per lo svolgimento di questo ruolo esiste un sistema istituzionale molto complesso; in primo luogo le persone con i relativi interessi vengono prese in considerazione in insiemi diversi, in relazione a livelli territoriali di insediamento ed esistono apposite organizzazioni che curano gli interessi dei cittadini a diversi livelli ( c.d. pubblici poteri). I pubblici poteri vengono chiamati genericamente amministrazioni, ma in realtà sono costituiti da un complesso di apparati con compiti diversi: - gli apparati politici: hanno funzione di individuare i tipi di interessi che non possono essere soddisfatti privatamente e richiedono quindi un intervento pubblico; scelgono inoltre quale interesse è da preferire quando sono necessarie delle scelte; quelli che risultano prescelti sono chiamati interessi pubblici. La scelta talvolta comporta l’individuazione di specifici interessi che debbono 1

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Capitolo I

L’amministrazione degli interessi dei cittadini.

Cosa si intende per amministrazione?L’amministrazione può essere considerata un’azienda di sproporzionate dimensioni che fornisce prodotti del genere più svariato oppure un insieme di persone che hanno specifici interessi professionali e intrattengono tra di loro e con gli altri delle particolari relazioni sociali.

Amministrazione è un termine che si riferisce alla cura degli interessi. Chiunque abbia delle cose alle quali è interessato deve averne cura. Ma se gli interessi sono rilevanti e complessi ci si dovrà rivolgere a persone idonee e potrà essere necessaria un’apposita organizzazione.

Con la locuzione “amministrazione pubblica” ci si riferisce ad un’attività la cui principale caratteristica è di essere strumentale ovvero funzionale agli interessi di terzi. È definibile pubblica in un primo significato, perché gli interessi di cui si occupa sono quelli di persone che, prese in considerazione in insiemi diversi, con il nome di cittadini, o di popolo, costituiscono il principale elemento costitutivo.

In sistemi sociali come il nostro, fondati sul principio di libertà ciascuna persona deve essere libera di stabilire quali sono i propri interessi e di soddisfarli nel modo che preferisce.Tuttavia raggiungere tale obiettivo è possibile soltanto in parte, in primis perché ci sono interessi che non possono essere soddisfatti da ciascuno individualmente. Poi perché ce ne sono altri la cui soddisfazione presuppone l’appartenenza ad un gruppo sociale con un certo tipo di composizione.

È altrettanto evidente che la soddisfazione di alcuni interessi può essere incompatibile con quella di altri, sotto il profilo oggettivo (per mancanza di risorse) o sotto il profilo soggettivo (interessi incompatibili, ad es. nella stessa città c’è chi ama il silenzio e chi anela il baccano). Affinché il gruppo sociale possa sopravvivere occorre che ciascuno sia consapevole del dovere di solidarietà nei confronti degli altri. Ma anche indispensabile sarà che il gruppo sociale crei delle apposite organizzazioni le quali operino per consentire la autonoma realizzazione dei propri interessi da parte di ciascuna persona.

Esistono strumenti giuridici che consentono alle persone di curare i loro interessi associandosi liberamente con altre e costituendo organizzazioni private. Esiste anche un sistema di organizzazioni pubbliche che svolgono un ruolo sussidiario nei confronti dei privati e delle loro organizzazioni. Per lo svolgimento di questo ruolo esiste un sistema istituzionale molto complesso; in primo luogo le persone con i relativi interessi vengono prese in considerazione in insiemi diversi, in relazione a livelli territoriali di insediamento ed esistono apposite organizzazioni che curano gli interessi dei cittadini a diversi livelli ( c.d. pubblici poteri).

I pubblici poteri vengono chiamati genericamente amministrazioni, ma in realtà sono costituiti da un complesso di apparati con compiti diversi:

- gli apparati politici: hanno funzione di individuare i tipi di interessi che non possono essere soddisfatti privatamente e richiedono quindi un intervento pubblico; scelgono inoltre quale interesse è da preferire quando sono necessarie delle scelte; quelli che risultano prescelti sono chiamati interessi pubblici. La scelta talvolta comporta l’individuazione di specifici interessi che debbono essere semplicemente osservati dalle amministrazioni, con un’attività che risulta “vincolata”; altre volte sono necessarie scelte ulteriori e serve un’attività predefinita dalla legge e detta “discrezionale”;

- gli apparati amministrativi: hanno il compito di attuare gli indirizzi politici e dunque di curare gli interessi qualificati come pubblici anche facendo scelte ulteriori. Le attività da svolgere per curare gli interessi pubblici e al contempo per assicurare il rispetto del diritto costituisce l’amministrazione pubblica in senso stretto.

I principali apparati politici sono composti da persone individuate direttamente secondo regole dirette a dar rilievo, mediante il riconoscimento del diritto di voto

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individuale, alle opzioni di quanti costituiscono il gruppo sociale di riferimento. I membri di tali apparati perciò sono definiti rappresentanti dei cittadini.

Requisito di legittimazione degli apparati amministrativi è invece che siano costituiti da persone dotate dei diversi requisiti tecnici e professionali occorrenti per svolgere le attività in cui consiste l’amministrazione pubblica.

Le amministrazioni pertinenti a ciascuno dei diversi pubblici poteri in questione sono individuate con riferimento al fatto che siano tenute ad attuare l’indirizzo espresso dagli apparati politici di quel determinato pubblico potere; inoltre hanno rilievo i particolari legami organizzativi tra i due tipi di apparati di quel determinato pubblico potere.Tali legami hanno varia intensità: quando sono stretti, gli apparati amministrativi vengono chiamati “uffici” di quel determinato pubblico potere e l’insieme degli apparati politici e degli uffici viene considerato un’unica persona giuridica. Quando gli apparati amministrativi hanno personalità giuridica autonoma vengono chiamati “enti pubblici” e ne viene indicata con un aggettivo (ad es. enti pubblici regionali, statali, ecc) la pertinenza a un determinato potere pubblico.

Occorre distinguere ora tra i concetti di interesse pubblico e discrezionalità amministrativa.Molto spesso si definisce l’amministrazione pubblica come attività diretta ad attuare l’interesse pubblico e come legittimata a far prevalere tale interesse su quello privato.Si possono considerare interessi pubblici alcuni interessi che in un dato momento storico si tende a ritenere “interessi generali”, cioè comuni alla generalità delle persone appartenenti a un certo insieme del gruppo sociale di un pubblico potere e che non potrebbero essere soddisfatti individualmente.

Spesso non è possibile distinguere, dal punto di vista economico-sociale, l’interesse pubblico dal privato, considerando il primo come interesse comune a tutti e il secondo come interesse esclusivamente individuale che contrappone al primo. In realtà gli interessi comuni a tutti i membri di una comunità sono rari. Normalmente dunque un interesse pubblico non è che un insieme di interessi privati. Sono da considerare pubblici quelli qualificati dagli apparati politici e dalle stesse amministrazioni autonomamente.

Da un altro punto di vista, va sottolineato che il fatto che gli apparati politici abbiano il compito di definire gli interessi pubblici non significa che debbano essere in grado di definire e individuare gli interessi da curare in tutte le diverse circostanze concrete nelle quali è richiesto lo svolgimento di un’attività amministrativa. Gli atti di indirizzo politico dell’amministrazione, al contrario, hanno di norma un qualche grado di generalità, nel senso che non viene individuato specificatamente l’interesse pubblico da perseguire nei concreti casi della vita; piuttosto si indica un genere di interessi cui dovrà essere data particolare attenzione quando le amministrazioni pubbliche saranno chiamate ad individuare in concreto l’interesse da curare.

Il fatto che le amministrazioni siano tenute a rispettare le indicazioni che provengono dagli apparati politici non esclude in primo luogo che anche le loro attività possano consistere in scelte fra diversi interessi. Si parla infatti di “interesse pubblico in concreto” come quell’interesse da definire a posteriori, individuato dalle amministrazioni dopo aver confrontato diversi interessi, pubblici e privati, rilevanti nel caso di specie, conformandosi alle indicazioni concernenti l’interesse pubblico primario. In questo consiste la c.d. discrezionalità amministrativa o politico-amministrativa.

Amministrazione pubblica può essere intesa in senso:- soggettivo: designando apparati;- oggettivo: designando attività.

Sotto il profilo giuridico si è ritenuto che l’amministrazione pubblica potesse considerarsi unitaria e oggetto di una disciplina peculiare: il diritto amministrativo.

Sotto il profilo soggettivo, in passato, l’espressione amministrazione pubblica è stata sinonimo di amministrazione statale, perché questa era l’amministrazione per

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eccellenza. Oggi il pluralismo dei pubblici poteri importa anche un pluralità di apparati amministrativi, così che vi è un pluralità di amministrazioni pubbliche che si riferiscono con modalità diversificate ai diversi centri di indirizzo politico.

In senso oggettivo l’amministrazione pubblica è una denominazione collettiva per numerose e diverse amministrazioni pubbliche. Si può osservare che le attività funzionali agli interessi pubblici, cioè agli indirizzi politici, non sono solo del tipo più disparato ma sono anche soggette a discipline molto differenziate.Vi è un nucleo di disciplina comune, costituito dai principi, che deve garantirne appunto la funzionalità, ma che è limitato essendo formato solo da alcuni principi. Nel diritto vivente si affiancano principi propri della funzione di amministrazione pubblica e degli apparati che la svolgono con il risultato che si può dire di essere in presenza anche di una pluralità di amministrazioni in senso oggettivo.Stando così le cose, continuare ad usare l’espressione “diritto amministrativo” potrebbe creare equivoci e pare preferibile utilizzare la denominazione “diritto delle amministrazioni pubbliche”.

Capitolo II

Il diritto delle amministrazioni pubbliche.

Il principio giuridico fondamentale del diritto moderno delle amministrazioni pubbliche è quello di legalità.Questa è ancora una caratteristica fondamentale, ma il suo significato corrisponde solo approssimativamente a quello esposto, essendosi oggi arricchito e complicato in relazione alla maggiore complessità del quadro istituzionale in cui si inseriscono gli apparati amministrativi ed al mutare delle attività che sono chiamati a svolgere.Le amministrazioni pubbliche italiane sono amministrazioni di un ordinamento statale definibile “stato di diritto” e di un’organizzazione come la CE che è stata definita “comunità di diritto” che si fonda sul “principio dello stato di diritto”, comune agli Stati membri.

Lo stato di diritto si caratterizza per la vigenza del principio del dominio della legge. Le amministrazioni pubbliche in primo luogo non solo “legibus solutae”: sono tenute al rispetto della legge come qualsiasi soggetto giuridico.Inoltre l’interpretazione della legge è compito che spetta ai giudici e, dunque, anche per le amministrazioni, soggezione al diritto significa anche soggezione all’interpretazione che nei casi concreti ne danno i giudici.Soggezione al diritto significa infine che le amministrazioni pubbliche sono soggetti giuridici come gli altri.

Ma il diritto che concerne le amministrazioni pubbliche è lo stesso che si applica ai privati?La risposta è positiva, anche se non a tutti i soggetti pubblici e privati si applica lo stesso diritto. Una parte del diritto privato si può applicare sia ai privati che ai soggetti pubblici e si può dunque definire “diritto comune”.Ma in altri casi si applica un diritto speciale. Legge di riferimento di questo diritto speciale è la l. 241/1990 (legge generale in materia di nuove norme sul procedimento amministrativo – LPA).

L’art. 1 dispone che “la P.A., nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. Anche l’azione di una P.A. dunque è retta da norme del diritto privato, salvo due eccezioni:

- la prima riguarda l’ipotesi che gli atti delle amministrazioni abbiano “natura autoritativa”: si tratta di quegli atti mediante i quali si esercitano i poteri “esorbitanti” attribuiti in molti campi alle pubbliche amministrazioni, ovvero dei “provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati” ai quali si riferisce l’art. 21-bis; l’esempio classico di questi atti è l’espropriazione, consistente in un provvedimento di sottrazione di un bene alla proprietà di un soggetto con il trasferimento ad un altro;

- la seconda si ha quando “la legge dispone diversamente”: la legge può disporre che l’attività delle amministrazioni sia sottoposta ad un diritto diverso da quello privato. Tale diritto è chiamato amministrativo ed è costituito da regole e principi generali elaborati dalla giurisprudenza, che riguardano l’attività e l’organizzazione amministrativa nonché la tutela giurisdizionale. Gli atti a cui

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si applica tale regime di diritto amministrativo sono chiamati “atti amministrativi”.

Attualmente è frequente la sottoposizione al diritto amministrativo di atti non autoritativi; una legge recente ha indicato tra i criteri da osservare, nell’operare un riassetto della normativa primaria, la “generale possibilità di utilizzare da parte delle amministrazioni e dei soggetti a questi equiparati, strumenti di diritto privato, salvo che nelle materie o nelle fattispecie nelle quali l’interesse pubblico non può essere perseguito senza l’esercizio di poteri autoritativi”.

La regola per la quale le P.A., quando non agiscono autoritativamente, operano applicando il diritto privato, non significa che in questo caso esse svolgono un’attività privata; si deve trattare sempre di un’attività di amministrazione pubblica. Il comma 1-ter dell’art. 1, LPA, richiede che sia assicurato anche dai “soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative…il rispetto dei principi di cui al comma 1”. Questo comma 1 di un articolo rubricato come “principi generali dell’attività amministrativa” recita “l’attività ammnistrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”.

Abbiamo visto che la P.A. consiste in un’attività strumentale rispetto a obiettivi politici. Questa relazione tra politica e amministrazione discende da principi e regole costituzionali, esplicite o implicite, su cui si fonda la legittimazione di certi atti ad indirizzare le amministrazioni al perseguimento di certi fini. Per evidenziare il profilo di legalità occorre soffermarsi sulla sua funzione di indirizzo (c.d. legalità-indirizzo). Due punti a proposito:

- va notato che per rispettare il principio è necessario che la legge stabilisca i fini che un’amministrazione deve perseguire senza necessità che siano determinati i modi in cui questi debbano essere raggiunti;

- si può osservare che il riferimento alla legge non può che essere inteso come riguardante non solo i diversi tipi di legge, ma anche le altre fonti del diritto ed altresì atti che possono indicare obiettivi che devono essere perseguiti dalle amministrazioni, pur non essendo fonti del diritto.

Il principio di legalità ha anche un altro significato; la nostra Costituzione, in funzione di garanzia della libertà, anche economica, dei cittadini, prevede delle riserve di legge dalle quali discende un’altra accezione di legalità, quella per cui l’amministrazione può fare certi tipi di atti limitativi della sfera giuridica dei soggetti soltanto nei casi previsti dalla legge. La legalità in questa prospettiva indica il c.d. principio di tipicità e può essere intesa in senso sostanziale come diretta ad assicurare che non si limitino le sfere giuridiche dei cittadini se non sulla base di un atto che possa considerarsi come espressione di consenso prestato dai loro rappresentanti.

Inoltre la legalità offre una garanzia nei confronti dei possibili arbitri dell’amministrazione anche sotto un profilo più formale, dal momento che il fatto che i poteri della P.A. devono essere esercitati in modo conforme ad un preciso parametro normativo precostituito rende possibile la verifica di tale conformità da parte di un giudice.

Nel rapporto tra diritto italiano e diritto comunitario sorge l’ormai consueto problema di quale sia l’ambito delle materie di competenza del diritto europeo e come si svolge l’amministrazione comunitaria. In linea di principio alla Comunità non spetta occuparsi di tutti i possibili interessi pubblici della popolazione, ma essa “agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obblighi che le sono assegnati dal Trattato”: è il c.d. principio di attribuzione.L’azione della Comunità non può eccedere, non può andare “al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del Trattato” ed interviene “nei settori che non sono di sua esclusiva competenza secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensione e degli effetti delle azioni in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”: è il c.d. principio di sussidiarietà.

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Le competenze comunitarie possono inoltre estendersi mediante il ricorso al principio dei poteri impliciti, secondo il quale oltre alle competenze esplicitamente conferite deve ritenersi che alla Comunità spetti implicitamente ogni competenza strumentale all’esercizio delle prime. Altre competenze infine possono essere attribuite dal Consiglio (con voto unanime) quando “un’azione risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il Trattato abbia previsto i poteri d’azione a tal uopo richiesti”. (art. 308 Tr.CE).

Riguardo ai rapporti tra l’ordinamento europeo e quello nazionale, risulta che le fonti comunitarie possono imporsi alle leggi e alla Costituzione Italiana, salvo che vi sia un contrasto con i diritti inviolabili affermati dalla nostra Carta.Il rispetto “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario” da parte delle leggi statali e regionali è sancito dal primo comma dell’art.117 Cost. (modificato dalla l. 3/2001). In realtà la preminenza delle fonti comunitarie su quelle italiane si ritiene avesse già un fondamento nel nostro ordinamento all’art. 11 Cost. che ha imposto allo Stato italiano di “consentire, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni” e di “promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte a tali scopi”.Difatti i Trattati (fonti primarie) prevedono che le istituzioni comunitarie possano emanare atti dispositivi che si impongono agli Stati membri e ai loro cittadini (fonti derivate), e la giurisprudenza ha ritenuto che l’efficacia delle fonti derivate può considerarsi corollario dell’efficacia di quelle primarie ( in pratica esse sono legittime solo se conformi ai Trattati).

In verità ai Trattati dovrebbe riconoscersi una natura giuridica diversa da quella di una Costituzione, tuttavia la CGCE ha sviluppato tale giurisprudenza e li ha definiti “la carta costituzionale di una comunità di diritto”; è indubbio infatti che i Trattati CE, dal punto di vista ordinamentale di uno Stato membro, hanno una forza simile a quella di una Costituzione ed in essi si rinvengono altre norme dal contenuto tipicamente costituzionale, oltre a norme più prettamente pattizie. Pertanto è divenuta comune per essi la denominazione di Trattati-Costituzione. Infine l’effettività dell’efficacia giuridica dei Trattati rispetto agli ordinamenti degli Stati membri è il risultato del diritto giurisprudenziale comunitario; sebbene le disposizione dei Trattati siano formulate spesso in termini di obblighi imposti agli Stati o alle istituzioni comunitarie, la Corte di Giustizia ha affermato che da tali norme, purché chiare, univoche e incondizionate, hanno origine immediatamente dei diritti dei cittadini nei confronti di Stati membri o di istituzioni comunitarie (c.d. effetto diretto verticale), e per effetto riflesso degli obblighi imposti a questi ultimi. In seguito si è affermato che si può riconoscere tali norme come fonti di diritti opponibili non solo allo Stato o alle istituzioni, ma anche a soggetti privati (c.d. effetto diretto orizzontale).

Oltre ai Trattati il diritto comunitario ha origine anche nelle c.d. fonti derivate, previste dai Trattati e che trovano in quest’ultimi il parametro di legittimità.L’art. 249 TrCE prevede che gli organi di Governo comunitari “adottano regolamenti e direttive, prendono decisioni e formulano raccomandazioni e pareri”. Inoltre il regolamento “ha portata generale” ed è “obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”. (249.2)La prevalenza delle norme derivate su quelle nazionali opera sul piano dell’efficacia e non solo su quello della validità, perciò non soltanto i giudici ma anche le amministrazioni, in caso di contrasto, devono applicare la norma risultante dal regolamento e non quella della fonte nazionale, tanto se precedente quanto successiva all’entrata in vigore del regolamento: la c.d. disapplicazione delle fonti statali in contrasto con il diritto comunitario.L’atto fonte italiano sarà applicato dagli apparati amministrativi solo se conforme all’atto europeo in ciò è evidente la funzione amministrativa attuativa degli indirizzi politici comunitari da parte degli apparati dello Stato italiano.Dopo la modifica dell’art. 117.1 Cost., la Corte Cost. ha dichiarato incostituzionali le leggi in contrasto con fonti del diritto comunitario.La direttiva è invece vincolante per “lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salvo restando la competenza degli organi nazionali quanto alla forma ed ai mezzi” (249.3) con questa disposizione si intendeva stabilire che le previsioni delle direttive non dovevano essere direttamente applicate in uno Stato

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membro senza che ne fossero previamente definite le fonti proprie dell’ordinamento statale con le modalità d’attuazione. A tal fine in Italia (con la l.11/2005) sono previste procedure per l’adeguamento dell’ordinamento statale agli atti comunitari, come il disegno di legge, presentato dal Governo annualmente, contenente “disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità Europea” ( la ormai celeberrima “legge comunitaria”); tale legge detta direttamente le norme necessarie conferendo apposita delega legislativa al Governo o autorizza il Governo a provvedere con regolamento di delegificazione.Le amministrazioni italiane dunque reperiscono gli indirizzi cui attenersi in atti dell’ordinamento italiano; tuttavia l’interesse pubblico primario, ovvero il risultato da raggiungere, in funzione del quale agisce l’amministrazione, è determinato dalle direttive comunitarie.

N.B. La corte di Giustizia ha stabilito, però, che coloro a cui la direttiva non attribuisce diritti nei confronti dello Stato membro possono pretenderne l’attuazione da parte dello Stato stesso (effetto diretto verticale), senza attendere che questo si attivi, a condizione che essa (la direttiva) sia self-executing.

Quanto detto vale anche per la decisione che è “obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati” (249.4); infine anche se sono atti non vincolanti, hanno interesse per noi le raccomandazioni che devono essere per interpretare leggi nazionali o per completare norme comunitarie vincolanti.

Principi dell’ordinamento comunitario.

L’art. 1.1 della LPA afferma che “l’attività amministrativa…è retta dai principi dell’ordinamento comunitario”.Un primo genere sono i principi direttamente desumibili o enunciati da norme comunitarie principio di non discriminazione e di massima trasparenza possibile del modo in cui si prendono le decisioni.Un altro tipo di principi è costituito invece da quelli ai quali, in assenza di norme comunitarie utilizzabili, i giudici fanno ricorso; questi sono principi tratti dagli ordinamenti statali e la giurisprudenza vi fa frequente richiamo [tutto ebbe inizio quando in alcune cause il problema della revocabilità di atti amministrativi illegittimi in relazione al quale il Trattato nulla dice, la Corte di giustizia (sent. ALGERA del 1957) affermò il proprio diritto/dovere di colmare la lacuna dell’ordinamento comunitario ispirandosi “alle regole conosciute dalle legislazioni, la dottrina e la giurisprudenza dei Paesi membri”.]Spesso non sono però rintracciabili principi comuni ai diversi ordinamenti statali, perciò i giudici comunitari determinano e conformano tali principi sulla base di un metodo definito della “comparazione valutativa” dei principi dei diritti costituzionali e amministrativi degli Stati membri, che costituiscono il necessario punto di partenza per la loro elaborazione.Principi di tale tipo, enunciati dalla giurisprudenza, possono essere: legalità, proporzionalità, sicurezza giuridica, non retroattività degli atti amministrativi e legittimo affidamento, diritto di essere sentiti prima che sia presa una decisione sfavorevole, corretto procedimento.Inoltre nel 2000 il Consiglio europeo ha proclamato la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, la quale riafferma i diritti derivanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri; fra i principi di tale Carta dei diritti vi è il “diritto ad una buona amministrazione” (art. 41) che consiste nel diritto di ogni individuo a che le istituzioni e gli organi UE trattino questioni che lo riguardano “in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole”, inoltre in tale disposizione si fanno rientrare ulteriori diritti quali “l’essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio, il diritto di accedere al fascicolo che lo riguarda nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale, l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni.”L’art. 42 sancisce il diritto di accedere ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, per tutte le persone fisiche residenti e giuridiche con sede sociale in uno Stato membro, oltre che a tutti i cittadini dell’UE.

Amministrazione italiana e amministrazione europea.

Si può identificare un’amministrazione come pertinente ad un pubblico potere in relazione al fatto che ad essa si riferiscono gli indirizzi provenienti dagli apparati

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politici di quel pubblico potere, ma anche in considerazione dei vincoli organizzativi intercorrenti tra gli apparati amministrativi e gli apparati politici di quel pubblico potere.

Secondo il Tr. CE la Comunità non dovrebbe avere apparati amministrativi propri, in quanto è stabilito (art. 10) che spetta agli Stati membri l’adozione di “tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal Trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità” in pratica l’attività amministrativa di attuazione degli indirizzi comunitari dovrebbe essere svolta da apparati degli Stati membri. Questa norma non è rispettata in assoluto, dal momento che esiste un’attività amministrativa comunitaria (ad es. in materia di interventi a tutela della concorrenza in relazione a fattispecie di rilievo comunitario) svolta direttamente o esclusivamente da apparati comunitari, ma nella maggior parte dei casi si ha la c.d. amministrazione comunitaria indiretta, che si manifesta in 2 modi:

- dal punto di vista di uno Stato membro si osserva che, in presenza di materie di competenza comunitaria, in prima ipotesi si può avere un’azione degli apparati amministrativi italiani disciplinata nel suo contenuto da fonti italiane e svolta in attuazione di atti di indirizzo statali, che però sono solo in parte autonomi, perché devono conformarsi alle direttive comunitarie in questo caso quindi si ha un’attività amministrativa che, pur seguendo nelle forme e nei mezzi il regime del diritto italiano, quanto agli obiettivi dà attuazione al diritto comunitario, e si può parlare di amministrazione comunitaria indiretta;

- in seconda ipotesi si ha amministrazione comunitaria indiretta, quando l’attività amministrativa, non solo persegue obiettivi indicati dal diritto comunitario, ma è anche disciplinata nel suo contenuto direttamente da atti comunitari come i regolamenti e le direttive self-executing.

Non sempre vi è netta distinzione tra amministrazione europea indiretta, svolta dagli Stati membri e attività amministrativa diretta, poiché non mancano i casi di co-amministrazione, cioè di amministrazione comunitaria svolta in modo integrato da apparati comunitari e statali.Inoltre è da tener presente che al di fuori di materie di competenza comunitaria, avviene che le leggi italiane operino per qualche aspetto dei rinvii a fonti dell’ordinamento comunitario o stabiliscano l’applicazione di discipline comunitarie a fattispecie da queste non contemplate. In tal modo si risolvono i dubbi sul rispetto del principio di eguaglianza che possono sorgere se il diritto italiano disciplina in modo diverso da quello comunitario fattispecie delle quali potrebbe sostenersi una sostanziale equiparabilità.

In conclusione il diritto italiano delle amministrazioni pubbliche risultano sempre più integrati da apporti comunitari e, dal momento che un simile fenomeno riguarda tutti gli Stati membri dell’UE, conseguentemente il diritto italiano della PA va omogeneizzandosi a quelli degli altri Stati membri, partecipando così a quello che viene ritenuto un processo di ricostituzione di un diritto comune europeo.Occorre però fare 2 considerazioni:

1) l’UE è un pubblico potere che non è espressione di un autonomo gruppo sociale di riferimento, poiché la sua base sociale è costituita dalle diverse comunità statali. Di conseguenza il diritto europeo non può essere che il risultato di apporti di diversi diritti statali e ciò spiega perché per sopperire alla carenze di norme comunitarie si faccia ricorso a principi generali tratti dalle elaborazioni dei vari Stati membri;

2) è giuridicamente necessario distinguere tra i casi in cui il diritto comunitario si deve applicare in forza di impegni presi coi Trattati (c.d. amministrazione indiretta) oppure quelli in cui il riferimento ad esso dipende da una scelta statale autonoma. Nel primo caso è superflua la disposizione di uno Stato membro che ne preveda l’applicazione, dato che l’obbligo discende dall’adesione al Trattato CE; nel secondo caso il rinvio al diritto comunitario è di tipo recettizio o comunque settoriale pertanto risulta incerta la disposizione dell’art.1.1 della LPA per cui l’attività amministrativa è retta anche dai principi dell’ordinamento comunitario, tanto se la si interpreti nel senso che il rinvio a questi ultimi opera anche nei settori estranei al dir.comunitario, tanto se si adotta l’interpretazione che il rinvio è rilevante solo per l’attività amministrativa italiana che costituisce amministrazione indiretta comunitaria (scelta preferibile).

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Fonti del diritto e atti di indirizzo politico dell’amministrazione nell’ordinamento statale italiano.

La Costituzione è la principale fonte di diritto nel nostro sistema nazionale; occorre però ricordare che la Carta del 1948 fu anche l’atto con cui l’Assemblea costituente operò alcune scelte politiche fondamentali, indicando gli interessi pubblici preminenti. Essa può essere considerata dunque anche atto di indirizzo politico fondamentale del nostro ordinamento.

Considerando la Cost. sotto quest’ultimo aspetto si può notare come rilevino in tal senso le prime disposizioni; si tratta di principi che trovano sviluppo in altre disposizioni della prima parte della Carta, dove un gruppo di artt. Tratta delle libertà personali (13-21) e un altro fonda i c.d. diritti sociali (4,32,34,35,36,38). Per quanto riguarda le funzioni amministrative pubbliche si può ricordare come le prime (libertà personali) si contrapponessero ai secondi, sostenendo che si richiede all’amministrazione un atteggiamento passivo, cioè l’astenersi dal violare le libertà, mentre l’attuazione dei diritti sociali richiede interventi attivi per rendere disponibili ai cittadini beni e servizi.Vi è poi un terzo gruppo di disposizioni che riguardano le attività economiche (41-47), dove da un lato si riconosce la libertà di iniziativa economica e la proprietà privata e dall’altro si sancisce la funzione sociale di proprietà e si autorizzano interventi pubblici limitativi di tali libertà.

La rilevanza della Cost quale atto di indirizzo politico va valutato alla luce della rilevanza degli atti comunitari e dei c.d. Trattati-Costituzione. 2 sono i punti da sottolineare:

a) dopo le recenti modifiche, anche nei Tr. Europei sono indicati i fini sociali da raggiungere: tra i compiti della Comunità, l’art. 2 TrCE pone la promozione di un elevato livello di occupazione e protezione sociale, il miglioramento del tenore di vita, la solidarietà tra Stati membri, ecc…; che l’azione della Comunità miri ad eliminare le ineguaglianze e a promuovere la parità tra uomini e donne;

b) in relazione alle disposizioni sulle libertà economiche si pongono problemi di compatibilità con norme primarie comunitarie: il TrCE appare più restrittivo nell’ammettere limitazioni di concorrenza, rispetto a quanto dispone la Cost. italiana.

Considerando la Cost. ora come fonte del diritto bisogna notare che gli atti amministrativi non possono evitare di conformarsi alle leggi vigenti anche incostituzionali. Solo il giudice che ritenga incostituzionale una legge, sulla cui base deve risolvere una controversia, può sospendere il giudizio, richiedendo il parere della Corte Cost.; l’amministrazione invece non può sospendere una decisione, richiedendo l’intervento della Corte Cost. su una legge cui sia tenuta a conformarsi e che ritenga incostituzionale, né può disapplicarla. Inoltre la legalità – garanzia si fonda sul meccanismo delle riserve di legge previsto a tutela delle libertà e del patrimonio dei cittadini: gli interventi autoritativi delle amministrazioni sono ammissibili soltanto se previsti dalla legge.

Prima della Costituzione, l’atto di indirizzo politico e la fonte del diritto principale era la legge, in quanto proveniente dal Parlamento e quindi espressione della rappresentanza dei cittadini.Ormai la legge statale ha perso la sua preminenza, anche per l’ampia potestà legislativa regionale. La potestà esclusiva dello Stato, infatti, è limitata alla disciplina delle materie elencate nell’art.117.2 Cost. e alla determinazione dei principi fondamentali delle materie elencate dall’117.3, dove c’è competenza concorrente delle Regioni. A queste ultime spetta la competenza legislativa generale, o residuale.

È bene ricordare che gli indirizzi politici sub-costituzionali storicamente contingenti, anche se costituiscono attuazione dell’indirizzo costituzionale non si risolvono in una mera attività esecutiva, ma richiedono anche scelte politiche tra gli interessi che si confrontano e spesso sono in conflitto.A volte le leggi fanno scelte precise in relazione agli interessi e definiscono anche il rapporto tra amministrazioni e cittadini, vincolando le prime direttamente alla legge; spesso però le leggi lasciano invece spazi più o meno ampi per scelte successive, ed in questo caso occorre distinguere in 2 situazioni:

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1) quando la legge vuol dare adito a successive specificazioni degli indirizzi politici attribuendo tale competenza agli apparati politici di governo, questi la eserciteranno mediante i regolamenti (atti di indirizzo che sono anche atti fonte di livello subordinato alle leggi) o mediante programmi, direttive e atti simili (cioè atti di indirizzo che non sono atti fonte);2) quando la legge indica i criteri tecnico scientifici applicando i quali debbano essere prese le decisioni concrete operando eventuali ulteriori scelte necessarie. La competenza relativa in tal caso, sempre da attribuire ad apparati amministrativi e ad apparati politici.

Infine la legge è anche strumento di garanzia per i cittadini, in quanto prevede che l’intrusione nelle libertà personali ed economiche da parte delle amministrazioni pubbliche può avvenire soltanto se previsto dalla legge (legalità – garanzia). Questa riserva è relativa, cioè non esclude che la disciplina cui debbano attenersi le P.A. possa risultare non solo dalla legge stessa, ma anche da regolamenti o da certi atti amministrativi (ad es. alcuni piani).

I regolamenti hanno un grado inferiore a quello delle leggi; la competenza ad emanare atti regolamentari appartiene ad apparati competenti in diverse materie.I regolamenti che possono svolgere funzione di indirizzo politico sono quelli del Governo statale, ammissibili solo nelle materie di competenza legislativa esclusiva e sono di diverso tipo:1) regolamenti di esecuzione di leggi e decreti legislativi : contengono norme dirette semplicemente a consentire l’esecuzione di quanto già disposto da una legge o da un decreto legislativo;2) regolamenti di attuazione o integrazione: riguardano le scelte fra gli interessi;3) regolamenti indipendenti: hanno il medesimo ambito di scelte politiche che spetta alla legge; possono disciplinare soltanto materie nelle quali manchi la disciplina da parte di leggi o atti aventi forza di legge. 4) regolamenti delegati o di delegificazione: hanno una notevole ampiezza di scelte politiche; l’esercizio della potestà regolamentare del Governo deve essere autorizzato da leggi che determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari. Questo procedimento è detto di delegificazione.5) regolamenti ministeriali: sono regolamenti possibili nelle materie di competenza dei Ministri o di autorità ad essi subordinate, i quali non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo.

Sono chiamate regolamenti anche alcune fonti sub legislative sia regionali che degli enti minori. La potestà regolamentare regionale è quella che può riguardare, dopo la riforma portata dalla l.3/2001, tutte le materie con la sola esclusione di quelle di competenza esclusiva dello Stato.La l.1/1999, abrogatrice dell’art.121 Cost., che assegnala competenza regolamentare al Consiglio regionale, ha reso possibile l’attribuzione da parte dello Statuto regionale alla Giunta e al Presidente, in virtù del fatto che quest’ultimo è eletto direttamente dai cittadini e nomina e revoca i membri della Giunta.I regolamenti di Comuni e Province hanno invece natura e funzioni diverse. La loro potestà regolamentare è da ricostruire sulla disciplina dell’autonomia degli enti locali, dopo le modifiche della legge cost. 3/2001: in primo luogo trova conferma il riconoscimento della autonomie locali, nel senso di un ampio margine di libertà di scelte politiche da parte degli enti locali, nei limiti dell’unità della Repubblica è rimasto immodificato l’art. 5 ed in sostituzione di quanto prima disposto dall’art. 128, ora abrogato, viene affermato nell’art. 114.2 che “i Comuni, le Province, le città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”. Inoltre gli enti locali sono elementi costitutivi della Repubblica come le Regioni e lo Stato.Gli enti locali sono titolari di funzioni amministrative proprie e spetta allo Stato attribuire loro le funzioni fondamentali nell’esercizio della sua potestà legislativa esclusiva; svolgono anche funzioni amministrative che si distinguono da quelle proprie e sono “conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.

Regime giuridico dei regolamenti.

Tutti i regolamenti di cui s’è parlato sono sottoposti ai medesimi principi e regole riguardanti l’amministrazione pubblica e cioè sono sottostanti al c.d. regime degli

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atti amministrativi. Essi sono equiparati ad atti amministrativi sotto il profilo della tutela giurisdizionale, dal momento che la giurisdizione della Corte Cost. non si estende oltre gli atti aventi forza di legge.Ma nonostante l’equiparazione agli atti amministrativi, questi regolamenti non sono emanati da apparati amministrativi, ma la competenza rimane ad apparati politici, che si caratterizzano sotto il profilo funzionale essenzialmente come organi di indirizzo politico amministrativo.

Vi sono infine anche atti che non hanno natura di atti-fonte, ma di atti-indirizzo: sono ad es. l’adozione di direttive per assicurare l’imparzialità, il buon andamento e l’efficienza degli uffici pubblici spettante al Pres. del Consiglio dei Ministri.Spesso si parla anche di programmi, un termine con cui si designano atti amministrativi che esercitano funzioni regolatorie o obiettivi da perseguire per le pubbliche amministrazioni ( ad es. i piani sanitari).

Principi generali dell’amministrazione pubblica.

La particolare funzione che svolgono gli apparati amministrativi è caratterizzata da regole, criteri e norme generali, dettate anche dalla Costituzione, che sono definite principi generali.

L’imparzialità: l’art. 97 Cost. vuole che “i pubblici uffici siano organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. Quello di imparzialità è un concetto che richiama la funzione del giudice, il quale, nel decidere le controversie tra portatori di interessi diversi, deve applicare la legge senza preferenze per nessuna della parti. Sappiamo che le amministrazioni sono tenute a perseguire interessi pubblici, i quali non coincidono con gli interessi di tutti. Pertanto occorre spiegare come P.A. possano essere imparziali. Il principio può avere varie valenze:

1) l’attività amministrativa è vincolata da norme, così che il compito degli apparati amministrativi è quello di far rispettare delle regole. In questi casi, per essere imparziale, un’amministrazione deve tenere un comportamento il più vicino possibile a quello di un giudice;

2) essendo il principio riferito anche all’organizzazione dell’amminstrazione, da esso possono derivare regole circa le relazioni organizzative tra diversi apparati e, dall’altro, le persone che operano per l’amministrazione. Per il primo aspetto, l’imparzialità è garantita mediante la massima possibile indipendenza degli apparati amministrativi da quelli politici (es. si usa la formula della amministrazioni indipendenti, quando un’amministrazione è chiamata a soddisfare interessi pubblici applicando norme tecnico-economiche e non attuando specifici indirizzi politici). Quanto al secondo aspetto l’imparzialità è connessa con il principio di terzietà, che vuole che la persona che esercita la funzione non abbia interessi in comune con nessuna della parti di cui deve dirimere le controversie, analogamente le persone che agiscono per l’amministrazione non devono avere interessi contrastanti con quelli curati dall’amministrazione il c.d. conflitto d’interessi;

3) il principio di imparzialità coincide con il principio di uguaglianza, vietando all’amministrazione, dunque, di operare discriminazioni prive di un fondamento giustificativo;

4) si riconduce all’imparzialità la caratteristica dell’P.A. secondo cui, quando opera per soddisfare interessi pubblici, risultanti da atti di indirizzo politico (interessi pubblici primari), essa deve essere attenta a tutti gli altri interessi tanto pubblici che privati, affinché le sue decisioni corrispondano ad una composizione dei diversi interessi in gioco, che sia la più utile possibile per ciascuno di essi, senza scartarne pregiudizialmente nessuno.

Affinché l’interesse pubblico possa essere costruito concretamente e di conseguenza conosciuto da tutti in modo adeguato, la LPA prevede delle precise regole sul procedimento da seguire per giungere alle decisioni delle amministrazioni, in modo che i portatori di interessi diffusi siano in grado di farli valere preventivamente, realizzando la c.d. partecipazione.La necessità della partecipazione come strumento per garantire l’imparzialità non è assoluta, perché spesso non è possibile conoscere tutti i potenziali interessati ad una decisione.

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Buon andamento: esprime l’esigenza di un’amministrazione efficace, efficiente ed economica.

Efficace deve riuscire effettivamente a raggiungere gli obiettivi;efficiente deve essere organizzata ed agire in modo tale da raggiungere gli obiettivi perseguiti con la minima quantità di risorse possibile;economica deve procurarsi le risorse con il minimo dispendio di mezzi.(ad es. è stato ritenuto violato il principio nel caso di una spesa pubblica fatta in conformità alle regole sulle spese pubbliche, ma risultata esagerata rispetto al bene acquistato)

L’applicazione e la verifica di questi principi è difficile soprattutto riguardo all’efficacia, poiché gli interessi pubblici sono indicati alle amministrazione in modo generico; giudicare il buon andamento di un’impresa privata è difatti più facile perché per essa il primario obiettivo è il profitto.

Il principio di buon andamento considera le amministrazioni dal punto di vista aziendalistico, ed in tal modo sembra dare importanza alla circostanza che le risorse destinate alla cura degli interessi pubblici provengono dalle imposte dei contribuenti, cioè dai cittadini aventi capacità contributiva, così che impiegarle nel modo migliore per ottenere buoni risultati e senza sprechi è un’altra regola che sottolinea la strumentalità dell’amministrazione nei confronti degli interessi dei cittadini.

Tra buon andamento e imparzialità intercorrono dei rapporti di integrazione e condizionamento reciproci: es. se l’amministrazione volesse perseguire l’imparzialità nello scegliere i soggetti da assumere per un x incarico, i tempi e le risorse sarebbero eccessive rispetto al risultato (inefficienza quindi), che addirittura potrebbe anche essere messo a rischio (inefficacia). Se si optasse invece per l’assumere personale senza alcuna procedura concorsuale per evitare le spese, in molti casi sarebbe alta la probabilità di non reclutare “l’uomo giusto al posto giusto”, andando così contro al principio di buon andamento.

Responsabilità e trasparenza: il termine responsabilità ha vari significati ed anche per questo può non apparire chiaro il senso delle norme della Costituzione, che lo usa in due diverse disposizioni, con accezioni diverse:

a) l’art. 28 sanziona la “violazione di diritti” perpetrata da atti amministrativi, affermando che la responsabilità cade sui funzionari e i dipendenti “secondo le leggi penali, civili e amministrative” e estendendo la responsabilità civile all’amministrazione. Il diritto amministrativo conosce poi oltre alla c.d. responsabilità amministrativa (quella di funzionari e dipendenti), anche la c.d. responsabilità contabile, ovvero quella che riguarda funzionari e dipendenti che abbiano a che fare con la gestione di denaro pubblico e con i relativi obblighi di rendiconto;

b) l’art. 97 parla di responsabilità stabilendo che “nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità dei funzionari”; la Cost. impone quindi che si stabilisca a chi e come i funzionari debbano render conto dell’esercizio dei loro compiti. Il principio di responsabilità emergente dall’art.97 non si risolve esclusivamente nell’obbligo per i funzionari di render conto agli apparati politici, ma sembra implicare anche il dovere di sottoporre ad una valutazione diretta dei cittadini il loro operato. A questa esigenza appare ispirato infatti quel principio chiamato trasparenza, che indica l’esigenza che chiunque possa sapere e capire tutto quello che fa un’amministrazione pubblica. Questo principio è assicurato da strumenti quali la pubblicità e l’obbligo di motivazione dei provvedimenti oltre che il diritto di accesso ai documenti amministrativi.

Ragionevolezza: per capire cos’è occorre rifarsi al c.d. leading case (il precedente giurisprudenziale più importante) inglese in materia (ovvero Associated Provincial Picture House Ltd vs Wedensbury Cpn., 1948 il Wedensbury era quotato a 11 e fece il colpaccio in trasferta) ove si dichiarò irragionevole una decisione “che nessuna persona sensata potrebbe neppur sognare che possa rientrare nei poteri dell’amministrazione”; la persona sensata di cui si parla non è altro che l’esponente tipico del gruppo sociale di riferimento in un certo periodo storico.La ragionevolezza dunque fa riferimento ad un certo modo di pensare che è elemento unificante e caratterizzante dell’intera comunità e che è determinato da caratteristiche storico antropologiche comuni.

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La ragionevolezza è dunque più che un principio, un criterio mediante il quale si valuta il rispetto di norme o principi quando non sarebbe possibile o sarebbe troppo difficile raggiungere delle certezza. È solo perché il giudizio di ragionevolezza/irragionevolezza viene dato senza precisare il termine di riferimento che appare basato su un principio autonomo.Alla ragionevolezza è riconducibile poi la proporzionalità, un criterio mediante il quale si tenta di stabilire la adeguatezza di un’azione rispetto ad un risultato sulla cui base una decisione viene presa.

Principi generali del diritto: le P.A. sono tenute al rispetto di principi generali del diritto quali la buona fede, la correttezza, il legittimo affidamento e la certezza del diritto.Non si tratta di principi enunciati dalla Cost. ma si tratta di un’opinione legata al fatto che l’amministrazione persegue l’interesse pubblico. Pertanto, dato che il principio di legalità richiede che le amministrazioni osservino le leggi come qualsiasi altro soggetto, è andata diffondendosi la consapevolezza che devono essere rispettati i principi generali del diritto. In particolare si ritiene che le P.A. debbano rispettare il legittimo affidamento.

Principi e regole costituzionali della tutela giurisdizionale.

Secondo la disciplina dei rapporti tra dir. Amministrativo e dir. Privato, risultante dalla modifiche del 2005 alla LPA, agli atti di soggetti preposti all’esercizio di attività amministrative e agli atti delle P.A. che ricadono nella regola generale di sottoposizione al dir. Privato, è imposto il rispetto dei principi di cui all’art. 1.1 LPA:

“L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed é retta da criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza secondo le

modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell'ordinamento comunitario.”

Le posizioni giuridiche dei privati prevedono che questi possano vantare diritti soggettivi verso le P.A.; inoltre, imponendo loro di rispettare nel loro agire la disciplina che attua gli specifici principi costituzionali che abbiamo visto sopra, si è tutelato anche interessi che tradizionalmente non l’avrebbero (nei rapporti regolati dal dir. Comune), poiché dubbia è la loro natura di diritti Soggettivi.Le posizioni giuridiche soggettive sono “interessi legittimi” e “diritti soggettivi”. Eccoti due esempi che ti chiariranno le idee su queste due nozioni:

a) il proprietario privato di un impianto sportivo vuole consentirne l’uso a un gruppo sportivo e molti gruppi chiedano di utilizzarlo. Il proprietario sarà libero di scegliere a proprio arbitrio a chi concederlo. Di fronte al libero potere del proprietario privato di disporre del proprio bene con un contratto, gli interessati la cui richiesta non è stata accolta si trovano in posizione di soggezione e i loro interessi non sono tutelati, poiché nel contratto tra proprietario e gruppo sportivo scelto, i “terzi” sono giuridicamente irrilevanti.

b) una P.A. costruisce un impianto, su attuazione di una legge che favorisce l’attività sportiva dei giovani, da mettere a disposizione a un gruppo sportivo. Tra i gruppi aspiranti, non potrà scegliere uno in base al libero arbitrio, in quanto una tale scelta non sarebbe legittima il potere discrezionale di una P.A. è soggetto ai principi che abbiamo visto e alla disciplina che li attua se tale potere è soggetto a vincoli, i portatori di interessi che potrebbero essere soddisfatti (cioè le varie società sportive) non sono più in posizione di soggezione tuttavia di fronte all’assenza di un obbligo per la P.A. di affidarlo specificamente a qualcuno di essi, non è possibile per gli interessati sostenere di aver diritto all’impianto, ma ciò non significa che i loro interessi siano privi di protezione giuridica: essi potranno pretendere che l’amministrazione ha il dovere di rispettare i principi e deve quindi fare una scelta che persegua il fine che le è assegnato osservando l’imparzialità e il buon andamento. questa posizione giuridica è detto interesse legittimo.

Interesse legittimo è dunque la posizione giuridica correlata ad un potere di una P.A. di scegliere, potere che però non è libero ma discrezionale, cioè rispettoso di certe regole, le quali sono tali che non garantiscono la certezza della soddisfazione dei portatori di interessi legittimi, ma lasciano aperta la possibilità di tale soddisfazione.

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Negli esempi fatti i soggetti “terzi” si aspettano di ottenere qualcosa dall’amministrazione, ma ci sono poteri dell’amministrazione che possono incidere su diritti soggettivi di cui i terzi sono già titolari, sottraendoglieli o trasferendoli ad altri (come avviene con l’espropriazione): in questi casi gli interessi legittimi altro non sarebbero che “diritti affievoliti”.

Nella Costituzione si ritrovano disposizioni da cui risulta che i diritti soggettivi hanno piena tutela giurisdizionale anche nei confronti delle P.A. e che tale tutela concerne anche gli interessi legittimi. A questa tutela provvedono due tipi di giudici: gli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Spetta ai primi la tutela dei diritti soggettivi, mentre ai secondi quella degli interessi legittimi. Però questi ultimi possono avere sia giurisdizione per la tutela in particolari materie indicate dalla legge (c.d. giurisdizione esclusiva) sia il potere di annullamento degli atti amministrativi.

Capitolo III

Premessa necessaria et irrinunciabile su:FUNZIONI E AMMINISTRAZIONI

La parola amministrazione ha un significato soggettivo e uno oggettivo. Vi è però la possibilità di ordinare l’amministrazione in base alle sue funzioni, scindendola dagli aspetti esclusivamente organizzativi, dagli atti e dalle posizioni soggettive.

Un’attività amministrativa può consistere nello stabilire quale uso i proprietari possono fare dei terreni che si trovano in un luogo, oppure nello stabilire se un’impresa possa svolgere attività pericolose per l’ambiente. in queste attività gli interessi da curare come pubblici coincidono con quelli di alcuni soggetti; per soddisfare questi interessi è necessario limitare le libertà di altri soggetti, impedendo loro di usarle pienamente si parla in questo caso di funzioni di regolazione.All’idea di amministrazione si associano anche i c.d. servizi pubblici (scuola, assistenza sanitaria, trasporti, ecc…) la funzione qui è di assicurare alle persone prestazioni di vario genere.Abbiamo poi funzioni finali, in cui lo svolgimento delle attività di regolazione e di prestazione, costituiscono la ragione stesse dell’esistenza delle P.A., il loro fine ultimo.Poi ci sono funzioni strumentali, con cui le amministrazioni non curano direttamente gli interessi dei cittadini, ma svolgono funzioni indispensabili strumentali (appunto): l’utilizzazione di personale per svolgere le funzioni finali (vedi i vari dipendenti di uffici pubblici).Sfuggono invece all’esperienza quotidiana le attività dirette a favorire la buona qualità delle diverse attività amministrative. Queste consistono nel prestare consulenze e esercitare controlli e si chiamano funzioni ausiliarie.

Amministrazione di regolazione.

Il termine regolazione si riferisce alla funzione delle P.A. diretta a imporre la propria autorità perché le libertà costituzionali e i diritti dei soggetti dell’ordinamento vengano esercitati senza pericolo per l’esistenza stessa o la salute e per l’esercizio delle libertà degli altri.Le regolazioni si realizzano con provvedimenti autoritativi, cioè con atti di esercizio di poteri che operano limitazioni delle libertà e dei diritti e talvolta che definiscono i poteri e le facoltà che ne costituiscono il contenuto ossia li conformano. Le posizioni giuridiche dei destinatari dei provvedimenti regolatori vengono considerati come interessi legittimi.

Poteri autoritari e garanzie relative.

Il termine autoritarietà indica poteri dagli aspetti diversi inerenti alla funzione di regolazione.Il primo aspetto da considerare è quello dell’imperatività (ad esempio il divieto di superare con un veicolo un certo limite di velocità): il provvedimento che sancisce la manifestazione di un potere imperativo ha come effetto l’incidenza nella sfera

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giuridica del destinatario senza che abbiano rilievo la volontà, le intenzioni di quest’ultimo. i suoi effetti si realizzano malgrado la volontà contraria del destinatario, ed anche il suo consenso non avrebbe rilevanza.Nei rapporti tra privati per ottenere lo stesso effetto di un provvedimento imperativo di una P.A. è necessario un accordo ed il consenso di colui la cui libertà risulta limitata.Per stabilire dunque se un provvedimento è autoritativo occorrerà valutare come e se rileva il consenso degli interessati, perché certi atti possano raggiungere i propri effetti.

Altri aspetti dell’autoritarietà della P.A. sono l’esecutività e l’esecutorietà. Occorre innanzitutto chiedersi come sia possibile che un privato possa essere costretto all’adempimento di una obbligazione assunta nei confronti di un altro privato. Es. il sig. Rossi stipula un contratto con il vicino Sig. Bianchi impegnandosi ad abbattere un muro eretto su un terreno di sua proprietà che impedisce a Bianchi di vedere il panorama. Cosa può fare Bianchi se Rossi si rifiuta? Dovrà rivolgersi al giudice, dimostrare la validità e l’esistenza di un contratto in modo da ottenere una sentenza definitiva che condanni Rossi ad abbattere il muro. Se rossi non adempie il suo obbligo, Bianchi si rivolgerà al giudice nuovamente per ottenere un’esecuzione forzata a spese di Rossi. Questo è ciò che avviene nei rapporti tra privati.

Se un privato invece ha nei confronti di un’amministrazione pubblica un’obbligazione, nata da un provvedimento imperativo, e non provvede ad adempierla, può avvenire che la P.A. provveda direttamente all’esecuzione forzata, senza rivolgersi a giudice per far accertare l’esistenza dell’obbligazione, perché il suo provvedimento è sia esecutivo, né per ottenere l’uso della forza per l’adempimento del debitore, perché il provvedimento è esecutorio.Esecutività ed esecutorietà vengono denominate forme di autotutela della P.A., nel senso che mentre il privato deve ricorrere al giudice per ottenere la tutela, la P.A., quando i suoi poteri autoritari giungono fino all’esecutorietà del provvedimento, può far da sé.

In passato si è discusso se un provvedimento imperativo sia automaticamente esecutorio, oppure se debba esserci espressa previsione legislativa: l’art. 21-ter LPA stabilisce che “le PA possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge”. Lo stesso provvedimento dovrà indicare “il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato” e “qualora l’interessato non ottemperi, le PA, previa diffida, possono provvedere all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge”.

L’esecutorietà può indurre in equivoci vari: quello di credere che di fronte a provvedimenti esecutori, il cittadino sia privo di tutela giurisdizionale: in realtà si ha solo un’inversione dell’onere dell’iniziativa di richiedere l’intervento del giudice, che grava sul destinatario della pretesa (il cittadino) anziché su chi la avanza (la PA). Il ricorso al giudice non impedisce che il provvedimento sia eseguito anche in pendenza del giudizio, anche se il cittadino può richiederne la sospensione dell’esecuzione, ancor prima che sia accertata la sicura illegittimità, se possano derivargli danni gravi ed irreparabili. quello di ritenere che l’esecutorietà, pur essendo implicita nell’imperatività, possa darsi esclusivamente con riferimento ad un provvedimento imperativo: in realtà alcune ipotesi prevedono la possibilità che l’amministrazione proceda autonomamente all’esecuzione forzata per imporre l’esecuzione di obbligazioni di privati (ad es. le disposizione per l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato; o se l’amministrazione da in locazione un bene che possiede a titolo di proprietà privata ed il conduttore non paga il canone, si può procedere autonomamente). se si evoca l’esecutorietà con riferimento agli effetti reali di un provvedimento imperativo: ha senso parlare di esecutorietà solo in relazione a atti con effetti obbligatori, perché quanto agli effetti reali gli atti sono auto-esecutivi (es. il provvedimento di espropriazione non necessita di alcuna collaborazione dell’espropriato per quanto riguarda gli effetti reali, mentre per gli effetti obbligatori possono nascere problemi circa l’obbligo di consegnare il bene espropriato, perché necessita della collaborazione dell’obbligato per raggiungere tale fine).

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Manifestazione di autoritarietà sono l’annullamento d’ufficio e la revoca, detti anche “provvedimenti di secondo grado”.Con la revoca si può, con decisione unilaterale, eliminare un atto facendone venir meno l’efficacia e sacrificando gli interessi e le posizioni giuridiche soggettive fondate sull’atto.La revocabilità dei provvedimenti amministrativi trova la sua ratio nella finalizzazione del provvedimento all’interesse pubblico, così che venuto meno, per qualsiasi motivo, un provvedimento per non conformità all’interesse pubblico, esso potrebbe essere revocato.

Ci sono poi principi di garanzia che si riferiscono particolarmente all’amministrazione autoritaria. In passato si riteneva che un atto imperativo fosse implicitamente anche esecutivo ed esecutorio, ciò perché si considerava che l’amministrazione, perseguendo l’interesse pubblico, fosse implicitamente titolare di tutti i poteri che le consentono di far prevalere sempre tale interesse su quello privato.Ma una tale opinione farebbe pensare anche ad un potere imperativo originario dell’amministrazione che, in assenza di limiti, sarebbe assoluto, se non fosse che in tal modo, verrebbero ignorate le norme costituzionali a tutela delle libertà dei cittadini. La necessità di limitazione nei confronti dei privati sia fondata sulla legge è stata sancita anche dalla CGCE.A queste regole poste dalla Cost. si ricollega la legalità in funzione di garanzia, da cui discende il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi autoritativi: spetta alla legge individuare gli atti che possono avere effetti autoritativi, stabilirne gli effetti, prevedere in presenza di quali presupposti possano essere presi, quali organi abbiano la competenza di emanarli e con quale procedimento.Occorre ricordare che l’ordinamento riconosce la possibilità di emanazione di provvedimenti autoritari atipici, per i quali si richiede il rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico. si tratta delle c.d. ordinanze contingibili ed urgenti, provvedimenti che possono essere emanati solo in caso di urgenza e possono disporre solo in relazione alla situazione contingente. La legge indica di esse i presupposti e gli organi competenti.Questo tipo di provvedimento non può definirsi tipico, tuttavia esso è previsto dall’ordinamento che lo definisce con nome specifico; si ritiene infatti che, se per certi provvedimenti è prevista la deroga del principio di tipicità, deve sempre trattarsi di provvedimenti nominati (cioè previsti) è il c.d. principio di nominatività.

Vi è poi il principio di proporzionalità che è definito dal legislatore come “il criterio di esercizio del potere adeguato al raggiungimento del fine, con il minore sacrificio degli interessi dei destinatari”. Tale principio, noto alla dottrina già dall’inizio dell’800, è articolato nel senso che i provvedimenti autoritari:

a) siano idonei al raggiungimento del fine preposto;b) siano effettivamente necessari a tal fine;c) non incidano sulle situazioni giuridiche soggettive in misura superiore a quella

indispensabile in relazione al fine stesso.Mentre la tipicità può operare positivamente anche solo in senso formale (assicurando la giustiziabilità del provvedimento), la proporzionalità ha portata sostanziale e ciò fa integrare i due principi reciprocamente.

Un aspetto della proporzionalità può essere il criterio della semplicità, cioè l’esigenza di evitare restrizioni dirette delle libertà non necessarie ma anche l’imposizione di adempimenti burocratici connessi evitabili: ad es. le richieste ai cittadini di procurarsi presso un ufficio documenti da presentare ad un altro ufficio amministrativo per ottenere l’autorizzazione a svolgere un’attività.Si pongono in tal modo ai cittadini limitazioni delle libertà personali che sono gravi perché consistono nell’imporre prestazioni personali e la Cost. ammette ciò (art. 23) nel rispetto della riserva di legge. La disposizione 1.2 della LPA afferma che la “P.A. non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria”. Dato che il criterio di semplicità non ha avuto grande rispetto in passato, nella LPA sono state apportate modifiche che tendono alla “semplificazione dell’attività amministrativa”, come le norme sulla dichiarazione di inizio attività, il silenzio-assenso, la conferenza dei servizi. Ciò non è risultato sufficiente ed è stato previsto che il Governo presenti annualmente un disegno di legge di “semplificazione”.

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Nell’ordinamento comunitario la massima possibile semplicità è prescritta dal Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità annesso al Trattato di Amsterdam.

Tipologie di atti autoritativi e relative posizioni giuridiche soggettive.

Abbiamo innanzitutto provvedimenti differenziabili, oltre che per i loro effetti, anche per l’ambito soggettivo d’efficacia, cioè quelli riguardanti soggetti terzi, come gli individui (provvedimenti individuali), o come gruppi nel loro insieme, cioè come generalità (provvedimenti generali).

Tra i provvedimenti generali più importanti con funzione di regolazione ci sono quelli con effetti “conformativi”: cioè quelli che consistono nella definizione del contenuto di un diritto in termini di poteri e facoltà del suo titolare es. art. 42 Cost. “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.Per comprendere meglio cosa è la conformazione è utile lo studio delle legislazioni urbanistiche: la conformazione della proprietà dei suoli urbani avviene secondo quanto disposto dalle leggi urbanistiche regionali le quali usano una combinazione di tipi diversi di provvedimenti, secondo un modello introdotto dalla legge statale 1150/1942. La legge statale prevedeva che una serie di regole generali sulle costruzioni da realizzare sui suoli urbani fossero dettate dai “regolamenti edilizi”; che i “piani” precisassero le possibili utilizzazioni dei terreni (vedi il piano regolatore generale); che i Comuni potessero limitare tali utilizzazioni dei suoli; che prima di costruire si dovesse ottenere una “licenza edilizia”.Per quanto i provvedimenti conformativi incidano su diritti preesistenti, agli interessi dei soggetti che ne subiscono gli effetti è riconosciuta la tutela propria degli interessi legittimi.

Un primo tipo di provvedimento conformativo è il regolamento: questo è un atto normativo, dotato di generalità e astrattezza, che può avere un contenuto prettamente tecnico (regolamenti edilizi, regolamenti a contenuto tecnico-economico di competenza di autorità amministrative indipendenti quali la CONSOB). La loro tecnicità ha sollevato dubbi di costituzionalità sul fatto che non siano competenti ad emanarli apparati politici, dato che, se le norme contenute in tali regolamenti non implicano scelte politiche, può essere ammissibile che la competenza relativa sia attribuita dalla legge ad apparati qualificati sotto il profilo tecnico (a me questo periodo non torna, prova a guardartelo da solo a pag. 88).

Altri provvedimenti conformativi sono i piani. La parola è a volte sinonimo di programmi, ma qui è usata nell’accezione urbanistica. Si tratta di atti generali ma non astratti, perché prendono in considerazione situazioni attuali e concrete. Spesso sono costituiti da prescrizioni contestuali che si integrano reciprocamente e sono diverse a seconda dei diritti a cui si riferiscono (ad es. è stabilito che un x terreno possa essere utilizzato per costruirvi solo edifici destinati a uffici pubblici, un altro per edifici residenziali che non superino y dimensioni). L’insieme delle prescrizioni ha la sua ratio nella loro coerenza rispetto ad un obiettivo, il quale non potrebbe essere raggiunto attraverso le singole misure conformative (nell’esempio sopra fatto, l’obiettivo è quello dell’insediamento in una zona di un certo numero di abitanti aventi a disposizione un certo numero di strutture,ecc..).

Piano può essere ritenuto anche sinonimo di programma, come detto sopra, ma in tal caso ci si riferisce ad un insieme coerente di prescrizioni dirette a coordinare delle attività rispetto a un fine, non solo sotto il profilo dei loro contenuti, ma anche in relazione ai tempi di svolgimento.

Oltre a piani e programmi, ci sono anche provvedimenti regolatori in campo economico, tipo quelli che stabiliscono le tariffe dei servizi di pubblica utilità, che sono da considerare generali in quanto riguardano l’insieme degli utenti dei servizi e dei fornitori. Ma anche i provvedimenti individuali possono avere effetti conformativi, come quelli a tutela del paesaggio. La legislazione in materia prevede dei “piani paesaggistici” con cui si sottopone a specifica normativa d’uso l’intero territorio regionale e si definiscono prescrizioni e previsioni ordinate al mantenimento delle caratteristiche, ecc…

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Sono infine previsti provvedimenti riguardanti la conformazione di singoli diritti di proprietà: sono provvedimenti di dichiarazione di notevole interesse pubblico paesaggistico di singole cose immobili.

Altri atti utilizzabili sono quelli definiti ablatori (privativi): consistono nel privare un soggetto, senza il suo consenso, di un diritto o di alcuni dei poteri o facoltà che ne costituiscono il contenuto. Incidono su diritti, tuttavia agli interessi dei soggetti è riconosciuta tutela propria degli interessi legittimi “oppositivi”, dal momento che per la loro soddisfazione bisogna cercare di impedire l’esercizio dei poteri amministrativi.Il più noto di questi provvedimenti è l’espropriazione per pubblica utilità.Oggetto dell’ablazione possono essere non solo i diritti reali, ma anche quelli patrimoniali o personali, così che si possono classificare questi provvedimenti in tre tipi:a) personali;b) reali;c) obbligatori;

Provvedimenti ablatori personali: privano i soggetti di poteri inerenti alle loro libertà costituzionali e di diritti della persona. La categoria è costituita da ordini che possono avere contenuto positivo (c.d. comandi) [es. ordine sanitario di sottoporsi a vaccinazione] o contenuto negativo (c.d. divieti) [es. divieti imposti dal codice della strada].Ci sono libertà personali inviolabili in assoluto o mediante atti amministrativi, vigendo la riserva di provvedimento giudiziario, ma altre libertà e diritti tutelati dalla Cost non hanno questa riserva (come la libertà di iniziativa economica). Per questi provvedimenti si pone il problema dell’esecuzione ma non quello dell’esecutorietà in mancanza di previsione legislativa delle ipotesi e delle modalità.

Provvedimenti ablatori reali: incidono su diritti patrimoniali estinguendoli, privandoli oltre un certo limite del contenuto o costituendone nuovi su cose altrui. L’espropriazione per pubblica utilità è l’emblema di questa categoria, e consiste nel privare coattivamente un soggetto di un diritto attribuendone contestualmente la titolarità ad un altro soggetto: “il decreto di esproprio dispone il passaggio di proprietà o del diritto oggetto dell’espropriazione”.All’espropriazione si può far ricorso per qualunque motivo di interesse generale e per qualsiasi bene, che può essere costituito non soltanto dalla proprietà su beni immobili e mobili, ma anche su diritti reali parziari o da diritti obbligatori, salvo l’obbligo dell’indennizzo.L’espropriazione di un suolo per pubblica utilità fu oggetto di disciplina già a partire da leggi del Regno d’Italia, la l.2359/1865 questa legge confluì poi nel TU in materia di espropriazioni. Secondo la disciplina originaria il provvedimento era preso da un prefetto, su richiesta del soggetto che doveva realizzare l’opera, dopo che, mediante la dichiarazione di pubblica utilità, era stata riconosciuta la necessità, per la realizzazione dell’opera, dell’area che si intendeva acquisire. Il soggetto a cui favore veniva pronunciata l’espropriazioni era tenuto a versare un’indennità d’espropriazione corrispondente al valore di mercato del bene. Attualmente l’espropriazione per pubblica utilità è integrata nel sistema della disciplina urbanistica, tanto che la dichiarazione di pubblica utilità è stata dichiarata implicita nella destinazione di un suolo ad uso pubblico da parte di un piano urbanistico. Per la maggior parte dei casi poi il provvedimento è di competenza di un organo di un’amministrazione locale che può coincidere con il soggetto che acquista il bene espropriato.Infine l’indennità è determinata in misura inferiore al valore di mercato del bene, anche se è pendente un giudizio di costituzionalità su tale questione.

Questo provvedimento permette di ottenere mediante poteri autoritari gli stessi effetti che si ottengono con il contratto di compravendita; ha infatti da un lato efficacia reale in due direzioni (effetto privativo ed effetto appropriativo) e dall’altro ha effetti obbligatori (pagamento dell’indennità e obbligo di consegna del bene).Non si pone, come sappiamo, un problema di esecutorietà degli effetti diretti, cioè in relazione all’efficacia reale del provvedimento; semmai si pone il problema in relazione all’obbligo di consegnare il bene espropriato.

Simili all’espropriazione sono altri provvedimenti ablatori:

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l’occupazione acquisitiva: è avvenuto che la giurisprudenza nel salvaguardare le opere pubbliche realizzate su aree non legittimamente espropriate, abbia ritenuto non eliminabili gli effetti di alcuni provvedimenti ablatori illegittimi dando così vita a questo istituto dell’occupazione acquisitiva, che ha l’effetto dell’acquisto della proprietà dietro pagamento non dell’indennità di espropriazone, ma del risarcimento del danno. la requisizione: un provvedimento ad effetti reali: il presupposto è una situazione di emergenza (guerra o cataclisma) che porta alla sottrazione dell’uso dei beni immobili e della proprietà dei beni mobili. la prelazione su beni culturali: se un bene qualificato “d’interesse storico o artistico” secondo l’apposito procedimento è oggetto di compravendita tra privati, le parti devono notificare il contratto all’amministrazione competente che può esercitare il diritto di prelazione acquistando essa il bene al prezzo convenuto tra le parti.

Secondo la Corte Cost. le prescrizioni urbanistiche che prevedano, senza il trasferimento di proprietà entro congrui termini stabiliti dalla legge, un uso a fini pubblici dei suoli sono da considerarsi come espropriazioni, le c.d. limitazioni espropriative. Non sono invece limitazioni espropriative le prescrizioni che si riferiscono ad una intera categoria di beni con caratteristiche comuni, come avviene nell’ipotesi delle prescrizioni di beni di interesse paesistico. Pertanto l’espropriazione di cui parla l’art. 42.3 Cost, non è il provvedimento previsto dalla legge del 1865 (con effetti privativi e appropriativi), ma solo con effetti privativi e quindi non facilmente distinguibile da un provvedimento conformativo che interviene a riformare negativamente una precedente conformazione.

Provvedimenti ablatori obbligatori: fanno sorgere situazioni obbligatorie e si fondano sull’art.23 Cost. che riconosce l’imposizione di “prestazioni personali o patrimoniali”. Fanno parte di tali provvedimenti i tributi (obbligazioni di pagamento di una somma di denaro), le precettazioni (obbligazioni che impongono la prestazione di un’attività lavorativa).Sorgono problemi circa la distinzione da altre categorie: ci si chiede se un provvedimento che obbliga di cedere un bene, se dotato di esecutorietà, ottiene, seppure privo di efficacia reale, risultati simili a quelli di un’espropriazione, per la quale è necessaria la previsione di un indennizzo: pertanto resta difficile ipotizzare la costituzionalità di tali provvedimenti per il solo fatto che rispettino l’art. 23 Cost.

Vi sono provvedimenti sanzionatori che hanno, da un lato, funzione punitiva o affittiva, cioè hanno lo scopo di infliggere una punizione in relazione a comportamenti che ne sono ritenuti meritevoli (ad es. le sanzioni pecuniarie quali ammende per violazione di un regolamento sulla circolazione stradale). Le posizioni giuridiche soggettive rilevanti in relazione a questo genere di atti sanzionatori sono diritti soggettivi.Dall’altro lato, hanno anche funzione ripristinatoria, in quanto rimediano ai conseguenza derivanti da comportamenti contrastanti con la legge o con altri provvedimenti, per assicurare ugualmente il raggiungimento dei risultati voluti dall’ordinamento. Funzione sanzionatoria possono averla anche le revoche di provvedimenti aventi effetti favorevoli (ad es. in caso di inosservanza delle condizioni apposte ad un’autorizzazione). Tali provvedimenti hanno effetti simili a quelli dei provvedimenti ablatori, dai quali si distinguono invece per la funzione svolta che è appunto punitiva o ripristinatoria.

Paralleli ai provvedimenti conformatori e ablatori ci sono quelli da ricondurre nella categoria della autorizzazioni (chiamati anche licenze, nullaosta, abilitazioni,ecc..)Autorizzazione è definito l’atto che ha funzione di rimuovere un limite all’esercizio di un diritto. La norma che prevede l’autorizzazione richiese un assenso preventivo di un’amministrazione allo svolgimento di un’attività che di per sé è considerata ammissibile dal diritto.Nella definizione di autorizzazioni appena data, non è chiaro in che cosa di diverso dalla subordinazione alla previa emanazione dell’atto autorizzativo consisterebbe il limite all’attività in cui si esplica l’esercizio del diritto. Per altri casi la definizione è insoddisfacente perché nulla sulle ragioni per cui un’autorizzazione dovrebbe essere concessa o negata.

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In realtà il senso dell’istituto è più comprensibile se si considera che l’autorizzazione di per sé è solo uno strumento per rendere possibile ad una PA di prendere conoscenza dei programmi di attività dei cittadini, prima che le attività abbiano inizio e quindi renderle possibile l’esercizio di poteri diversi la cui funzione non è quella apparente di rimuovere un limite allo svolgimento di un’attività.

Il rilascio dell’autorizzazione è subordinato alla previa verifica dell’esistenza di presupposti di fatto o requisiti previsti dalla legge o da altri provvedimenti, al cui esito positivo segue l’emanazione dell’atto autorizzato. Ci sono 2 diverse ipotesi:

1) che l’effettuazione di tale verifica costituisca un’operazione conoscitiva a risultato certo il passaporto è rilasciato a tutti i soggetti maggiori di 10 anni; il commercio di certi prodotti è permesso solo se questi hanno certe dimensioni (come i pesci). In tal caso l’autorizzaizone si innesta su un’attività di tipo accertativi ed è implicito in essa un atto dichiarativo; al di là della certezza dei risultati circa la verifica dei requisiti richiesti, può verificarsi un contingentamento (un numero chiuso) delle autorizzazioni rilasciabili e quindi occorrerà fare graduatorie per stabilire quali richieste di autorizzazione accogliere;

2) che si operi una verifica a risultato non certo. L’incertezza nasce dal fatto che a risultati diversi si può giungere a seconda di quale delle leggi conoscitive si ritengano applicabili per svolgere verifiche: queste autorizzazioni che richiedono tali verifiche si chiamano abilitazioni o accreditamenti (es. chi vuole esercitare la professione di avvocato deve superare l’apposito esame e poi iscriversi all’albo che autorizza all’esercizio professionale). L’autorizzazione serve qui a consentire una verifica preventiva del possesso dei requisiti per lo svolgimento di un’attività.

Può spettare all’amministrazione fissare le modalità con cui l’attività debba svolgersi, come nel caso dell’autorizzazione allo svolgimento di attività pericolose per l’ambiente, vengono dettate una serie di prescrizioni circa gli impianti di cui deve essere dotato lo stabilimento l’autorizzazione diventa occasione per l’esercizio di poteri conformativi nei confronti del diritto di impresa.Oppure è possibile che la legge attribuisca all’amministrazione il potere di decidere se far svolgere o no una certa attività, dopo una valutazione degli interessi in gioco. Il diniego di autorizzazione ha effetti ablatori.L’obbligo di ottenere un’autorizzazione è stato messo in discussione in molti casi per l’esigenza stessa dell’intervento regolatorio e sono state attuate politiche in Italia di deregolazione, dirette a ridurre le libertà dei privati; si è constatato anche che per raggiungere i risultati prefissi con le regolazioni, l’imposizione della necessità di ottenere provvedimenti autorizzatori, ledeva i criteri di proporzionalità e semplicità. Si sono pertanto operati interventi di semplificazione, tra i quali la sostituzione di provvedimenti autorizzatori con dichiarazioni da parte dei privati interessati dell’inizio di attività da essi stessi dichiarate conformi ai requisiti previsti dalla legge.Si tratta dell’istituto chiamato Dichiarazione di inizio attività (d.i.a.): la legge dispone che si ricorra alla DIA nei casi in cui il rilascio dell’atto dipenda dall’accertamento dei presupposti previsti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale e non vi siano limiti per il rilascio degli atti stessi. Nel testo originario del 1990 alla denuncia di inizio attività non si poteva ricorrere nei casi cui fosse richiesto per l’accertamento l’esperimento di prove a ciò destinate che non comportino valutazioni tecnico –discrezionali.Ci sono categorie di atti in relazione alle quali si può verificare la necessità di operare valutazioni tecnico-discrezionali e questo è previsto dal nuovo testo dell’art.19. In pratica con la DIA si sostituiscono in via generale tutta una serie di atti autorizzatori che hanno la sola funzione di rendere possibile la verifica preventiva che certe attività private non si svolgano in violazione di legge, in assenza di poteri dell’amministrazione di conformarle o vietarle.

Questa riduzione di autorizzazioni preventive è richiesta anche dal diritto comunitario nella direttiva 2003/123/CE, che disciplina anche la semplificazione.Analogo alla DIA è previsto uno strumento denominato “autorizzazioni generali” di cui non si danno cenni in questo manuale di merda.

Quando si prevede un’autorizzazione, l’interesse ad ottenerla è considerato tutelato come interesse legittimo di tipo pretensivo, nel senso che, per ottenere la

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soddisfazione, si pretende l’esercizio del potere amministrativo a favore dell’interessato, cioè il rilascio dell’autorizzazione. Nei casi in cui non esiste alcun potere discrezionale dell’amministrazione al rilascio dell’autorizzazione, si dovrebbe dire che l’interessato ha fin dall’inizio un diritto.Nei casi infine in cui l’autorizzazione è l’occasione in cui si esercitano poteri discrezionali di tipo conformativo o ablativo, non potendosi parlare di diritti degli interessati preesistenti al rilascio dell’autorizzazione, data la funzione che svolge, che l’atto autorizzativo rimuove un limite ad un diritto preesistente.

In relazione alla autorizzazioni amministrative è frequente l’esistenza di interessi di terzi che si contrappongono a quelli dei richiedenti le autorizzazioni, al fine ad es. che un’attività privata non sia svolta da nessuno o voglia svolgerla egli stesso.Il regime giuridico dell’attività amministrativa implica che siano tutelati anche gli interessi legittimi e i diritti dei terzi controinteressati: tale tutela consiste nella possibilità di ricorrere al giudice amministrativo per l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo.

Alle autorizzazioni si contrappongono le concessioni, che sono provvedimenti mediante i quali l’amministrazione fa acquistare al concessionario un diritto; in questa categoria rientra un numero ampio di fattispecie nelle quali non è sempre facile individuare il carattere comune.Le concessioni si distinguono in traslative e costitutive: con le prime l’amministrazione attribuisce al concessionario qualcosa che preesisteva nella propria sfera giuridica ed in questo senso glielo trasferisce (concessioni di uso di beni pubblici come l’uso di una porzione di piazza per collocarvi i tavolini di un bar); con le seconde al concessionario viene attribuito un diritto che non preesisteva nella sfera giuridica dell’amministrazione che però essa ha il potere di costituire (ad es. l’attribuzione della cittadinanza). A queste ultime non si applica la DIA.

Nelle funzioni di regolazione interessano le sovvenzioni economiche (denominate talvolta provvidenze): sono erogazioni di denaro pubblico in favore di imprese, che possono avere lo scopo di favorirne la sopravvivenza malgrado la loro debolezza economica o di incoraggiare determinate produzioni (in tal caso si chiamano incentivi).Con le sovvenzioni i poteri pubblici interagiscono nell’economia con l’intento di correggere gli esiti delle vicende di mercato, indirizzando le attività economiche verso gli obiettivi di interesse pubblico stabiliti dagli apparati politici. Tali atti hanno natura autoritativa indiretta, infatti non hanno effetti imperativi verso coloro che le ricevono, ma indirettamente li hanno su soggetti appartenenti alla stessa categoria economica che ne sono esclusi incidendo sulla loro libertà di iniziativa economica. Se un’amministrazione infatti attribuisce delle sovvenzioni agli imprenditori di un settore, essa può così alterare le situazioni di mercato (falsando la concorrenza) di quello o di altri settori economici.Si tratta perciò di interventi previsti dall’art. 41 Cost. e quindi necessitano di previsione legislativa per trovare una loro giustificazione. Sono considerate, per il diritto comunitario, aiuti di Stato e ad esse si applicano limitazioni che le subordinano all’autorizzazione della Commissione CE.La LPA (art.12) prevede la predeterminazione dei criteri e delle modalità da parte della amministrazioni procedenti per la concessione di sovvenzioni, contributi, ecc..

Sempre nella funzione di regolazione occorre svolgere un’attività conoscitiva, i cui risultati devono poter essere a loro volta conosciuti da tutti in modo univoco. Certe autorizzazioni presuppongo la verifica dell’esistenza dei presupposti di fatto o il possesso dei requisiti: in tali ipotesi le amministrazioni competenti possono essere chiamate a svolgere ricognizioni di fatti avvenuti o di documenti esistenti, oppure svolgere attività valutative. I risultati di tali attività conoscitive sono il contenuto di provvedimenti c.d. dichiarativi.Questi hanno rilievo soltanto come presupposto per un altro atto che produce gli effetti nei confronti di soggetti terzi o potranno costituire il presupposto per una serie di atti indefiniti. Nel primo caso si avrà un verbale delle attività svolte e dei risultati cui si è pervenuti (es. il verbale dell’esame di guida che è il presupposto per il rilascio della patente); nel secondo caso si ha un’attestazione o un certificato (es. i titoli di studio). Si possono avere atti dichiarativi che presuppongono una valutazione di altri atti dichiarativi (il certificato degli esami sostenuti da uno studente universitario che ha per presupposto i verbali relativi alle prove di esame). Talvolta il contenuto di questi atti può essere contestato dando la prova contraria (es. nell’atto di

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proclamazione dell’esito di elezioni); altre volte atti di questo tipo determinano una certezza legale e non sono contestabili con nessuna via giurisdizionale se non quella specifica della querela di falso. Dato che questi atti obbligano a non contestare la veridicità del loro contenuto, si ritiene che abbiano autoritatività.

I problemi che nacquero con questi atti furono dovuti al fatto che la loro indispensabilità per il rilascio di autorizzazioni portò ad una produzione di certificati eccessiva da parte delle amministrazioni. Già da molti decenni era previsto che i certificati potessero essere sostituiti con dichiarazioni sostitutive degli interessati, dette autocertificazioni; più recentemente state dettate norme che rendano più efficace lo snellimento di questi oneri burocratici.

Esistono anche attestazioni o certificazioni di privati: queste sono richieste volontariamente ad organismi privati di notoria serietà e fama, cosicché il pubblico vi presta fede senza costrizioni giuridiche. Tali atti sono equiparabili per efficacia agli atti pubblici e sono requisito necessario per l’emanazione di un atto amministrativo che interessa certe imprese.

La revoca è disciplinata dal nuovo art. 21-quinquies LPA, modificato nel 2007 con l’aggiunta di un secondo comma.Il primo comma prevede in generale che un provvedimento amministrativo ad efficacia durevole possa essere revocato e specifica gli effetti della revoca, nel senso che determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti.Non è previsto quindi un potere generale di revoca di provvedimenti a efficacia istantanea, il quale non potrebbe che avere effetti retroattivi (tipo l’espropriazione di un terreno è istantanea, perché fa perdere ed acquisire la proprietà del terreno una volta per tutte: la sua revoca inciderebbe retroattivamente su effetti già avvenuti).Il diritto comunitario ha ritenuto essere un principio comune ai diritti degli Stati membri l’inammissibilità del ritiro di un atto legittimo attributivo di diritti o comunque di vantaggi..

Competente al provvedimento di revoca è l’organo che ha emanato l’atto ed i presupposti per cui la revoca è ammessa sono:

a) sopravvenuti motivi di pubblico interesse;b) mutamento della situazione di fatto;c) nuova valutazione dell’interesse pubblico originario;

a) e b) hanno natura simile e possono coincidere, dato che l’interesse pubblico in concreto si determina in relazione agli interessi in gioco nel momento in cui una decisione deve essere presa, è spesso il mutamento della situazione di fatto che può far emergere nuovi interessi e portare a considerare non corrispondente all’interesse pubblico che un provvedimento continui a produrre i suoi effetti; le due ipotesi possono anche non coincidere dal momento che permanendo la stessa situazione di fatto, essa potrebbe essere apprezzata in modo diverso. c) ammette la revoca senza che essa sia giustificata da elementi di novità oggettivi e quindi pare che l’amministrazione abbia una sorta di diritto di pentirsi e ciò, da un lato, non è compatibile con il principio del legittimo affidamento; dall’altro la disposizione è incongrua perché una revoca così motivata dovrebbe avere effetti retroattivi, mentre data la previsione sopra vista, è certo che la legge intenda riconoscerle effetti solo per il futuro.

L’art. 21-quinquies comma primo stabilisce infine che “l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere all’indennizzo dei pregiudizi eventualmente subiti dai soggetti direttamente interessati”. L’unica eccezione disposta a questa disciplina generale è quella circa la misura dell’indennizzo da attribuire a certe ipotesi di revoca, che in tal caso non può essere pienamente risarcitorio, ma deve essere rispondente al danno emergente e deve tener conto della conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo revocato all’interesse pubblico. Sono i casi di revoca di atti amministrativi ad efficacia durevole o istantanea che incida su rapporti negoziali.

Modelli organizzativi e rapporto politica-amministrazione.

Si tratta ora degli apparati mediante i quali si esercitano le funzioni di regolazione: questi sono riconducibili a due modelli, quello ministeriale (c.d. politico-

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burocratico) e quello delle amministrazioni indipendenti (c.d. tecnocratico o sofocratico, come più ti aggrada).

Il modello ministeriale è quello dei ministeri e degli apparati simili della amministrazioni omologhe delle Regioni e degli enti locali minori. Questi apparati svolgono la funzioni riguardanti l’ordine e la sicurezza pubblica o l’ambiente e il territorio. Il secondo modello è competente per regolazioni che richiedono decisioni di attuazione di indirizzi politici molto generali trovando il corretto equilibrio tra interessi contrapposti di pari rilievo attraverso la risoluzione di problemi tecnico-economici particolarmente complessi.

Modello politico-burocratico:

a questo modello corrisponde nello Stato quello ministeriale; i ministeri sono apparati complessi caratterizzati da rapporti organizzativi che intercorrono tra gli apparati politici (organi di governo) e apparati burocratici (i dipartimenti e le direzioni generali). In questo modello “gli organi di governo (i Ministri) esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi e i programmi da attuare e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti.”Spettano a tali organi gli atti normativi e gli indirizzi per la loro interpretazione e applicazione, la definizione di obiettivi, piani e programmi per l’azione amministrativa e la gestione, le nomine e le designazioni e la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi nonché la definizione di tariffe, canoni e oneri a carico di terzi.Per queste funzioni i Ministri si avvalgono dell’aiuto di appositi uffici di diretta collaborazione, con cui mantengono il raccordo con le strutture burocratiche.

I dirigenti sono invece i responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati. Devono adottare atti e provvedimenti amministrativi e devono organizzare gli uffici, ovvero la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante poteri di spesa, organizzazione delle risorse umane e di controllo. Il ministro non può revocare, riformare, riservare o avocare a sé o adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti, salvo il potere di annullamento per motivi di legittimità; in caso di ritardo da parte del dirigente, o di inerzia, il Ministro può nominare un commissario ad acta che provveda a svolgere quanto dovuto, se l’inerzia permane. I dirigenti possono formulare proposte e esprimere pareri al ministro nelle materie di sua competenza e devono rendere conto del proprio operato.Questi rapporti fanno sì che sia distinta la funzione dell’organo politico da quella dell’organo burocratico, ma a tal fine concorre anche il potere del ministro di scegliere i dirigenti: il Ministro propone al Pres. del Consiglio il conferimento degli incarichi di direzione degli uffici a livello dirigenziale generale, indicando gli obiettivi da conseguire. Tali incarichi sono a tempo determinato per una durata tra i 3 e i 5 anni e sono rinnovabili.I dirigenti sono soggetti alla c.d. responsabilità dirigenziale, che comporta l’impossibilità di rinnovo dell’incarico per mancato raggiungimento degli obiettivi o inosservanza delle direttive generali imputabili al dirigente.

In alcuni ministeri sono previsti i segretari generali e i capi di dipartimento: tali funzionari hanno compiti di coordinamento dell’attività dei dirigenti generali, sono nominati dal Pres. della Repubblica, su deliberazione del Cons. dei Ministri su proposta del Ministro competente. I loro incarichi cessano 90 giorni dopo l’insediamento del nuovo Governo.

Secondo questo modello in pratica i dirigenti burocratici hanno competenza esclusiva circa la gestione e l’emanazione degli atti amministrativi e l’organizzazione degli uffici, ma sono in una situazione di subordinazione al Ministro (non solo perché curano i piani e i programmi indicati da quest’ultimo, ma anche perché il loro incarico non può eccedere una legislatura).

Per alcuni ministeri infine è prevista anche una nuova struttura organizzativa, l’agenzia, con cui sono svolte prevalentemente attività di carattere tecnico-operativo; queste differiscono dalle direzioni generali perché hanno maggiore autonomia, che

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giunge fino al possesso della personalità giuridica. La norma che più le caratterizza è quella che prevede un’apposita convenzione tra Ministro competente e direttore generale dell’agenzia per la definizione degli obiettivi attribuiti, dei risultati attesi e delle risorse finanziarie utilizzabili.

Secondo la legge la disciplina appena descritta doveva essere applicata in tutte le amministrazioni pubbliche (art. 1 TULPA), ma in realtà venivano prese in considerazione solo alcune peculiarità di queste: da un lato si considerava l’ipotesi di P.A. i cui organi di vertice non fossero direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica (ad es. l’Università) ed si stabiliva che tali amministrazioni dovessero adeguare i propri ordinamenti al principio di distinzione tra indirizzo politico e controllo e quello di attuazione e gestione.Nella stessa disposizione, che stabiliva l’applicazione delle norme in questione a tutte le P.A., erano ricordate le autonomie locali e quelle delle Regioni e Province autonome. Quanto alle Regioni a statuto ordinario era stabilito che le disposizioni in parola “costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’art.117 Cost.” alle quali dovevano attenersi tenendo conto del loro particolare ordinamento. Per le Regioni a statuto speciale e per le Province autonome di Trento e Bolzano venivano definite norme fondamentali di riforma economico – sociale della Repubblica. In base a quell’art. 117 l’ordinamento degli uffici era materia sulla quale le Regioni a statuto ordinario potevano esercitare una potestà legislativa nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato.Con la modifica del Titolo V della Cost. con la l.cost. 3/2001 soltanto la materia “ordinamento ed organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali” appartiene alla potestà legislativa dello Stato e “l’ordinamento degli uffici” non ricade più nella legislazione concorrente delle Regioni, le quali possono esercitare la loro potestà legislativa residuale.

Riguardo agli enti locali, la distribuzione di competenze tra organi di governo e burocratici secondo il principio della distinzione tra indirizzo e gestione ne hanno uniformato la disciplina concreta a quella statale. Nei Comuni più grandi è prevista infatti la figura del direttore generale che è analogo ai dirigenti generali e ai capi dei dipartimenti dei ministeri statali; per tutti gli altri enti locali è previsto il segretario i cui compiti non sono sempre separabili da quelli del direttore generale.Con il nuovo testo costituzionale, viene attribuito agli enti locali anche la potestà statutaria secondo i principi fissati dalla Cost. mentre finora questa doveva svolgersi secondo quanto stabilito dal Testo Unico.

Modello tecnocratico:

le funzioni degli apparati tecnico-burocratici non consistono nell’attuazione di indirizzi politico-amministrativi indicati dagli apparati politici di governo, ma soltanto di indirizzi politici generali.I caratteri di questo modello sono riconoscibili in alcuni degli organismi definiti autorità indipendenti e in altri denominati autorità (tipo la CONSOB).Rientrano in questo modello il Garante per la protezione dei dati personali, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) e l’Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità dell’energia elettrica e del gas (AEEG).Il primo deve garantire che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto di diritti, libertà fondamentali e dignità delle persone fisiche; il secondo deve impedire che nel mercato nazionale si verifichino intese restrittive della libertà di concorrenza, di abusi di posizione dominante e di concentrazioni; il terzo deve garantire la promozione della concorrenza e dell’efficienza, di alti livelli di qualità nei servizi in condizioni di economicità e redditività assicurandone la fruibilità in modo omogeneo sul territorio nazionale.

Sono organi collegiali che operano in piena autonomia di giudizio e valutazione e i loro componenti sono scelti tra persone di notoria indipendenza che abbiano ricoperto incarichi istituzionali di grande responsabilità. Le nomine sono diverse ma tutte dirette a evitare che la decisione spetti al Governo. Per il Garante dei dati personali le nomine durano 4 anni con una sola possibilità di riconferma e senza possibilità di revoca. Si provvede con elezione di 2 membri per parte di Camera e Senato con voto limitato;per il secondo (AGCM), alle nomine, che durano 7 anni senza revoca e riconferma, si provvede con determinazione adottata d’intesa dal Pres. Camera e Senato;

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per il terzo (AEEG) alle nomine, durata di 7 anni senza conferma e revoca, si provvede con decreto del PdR, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro competente.

Questo modello ha destato discussioni perché appare anomalo che apparati politici di governo non abbiano gli ordinari poteri di indirizzo e di nomina nei confronti di un apparato amministrativo. Ma se si tiene conto di quanto detto circa la funzione amministrativa, la cui distinzione da quella giurisdizionale è in molti casi sfumata, si può notare che l’esercizio di apparati amministrativi di funzione di regolazione essenzialmente dirette a contemperare interessi di rilievo costituzionale sono numerose e che, dall’altro lato, l’indipendenza dagli indirizzi politici è un’esigenza naturale di qualisiasi attività che consista nella risoluzione di complessi problemi tecnico-economici.Circa i meccanismi di nomina dei componenti si stanno studiando modifiche della disciplina attuale.

Capitolo IV

Amministrazione delle prestazioni.

Le funzioni di regolazione non bastano da sole a garantire che le libertà siano effettivo strumento di sviluppo delle persone e la realizzazione dei diritti sociali; occorre che le persone traggano beneficio anche dall’uso di cose che non posseggono e possano fruire di attività materiali di loro utilità la cui prestazione non potrebbero altrimenti procurarsi.Negli Stati europei del XX secolo questo tipo di funzione è stato spesso considerato come quello maggiormente caratterizzante il ruolo dello Stato, al punto di essere definito welfare state.In Francia il concetto di service public era stato associato dalla giurisprudenza al diritto amministrativo e poi all’idea stessa di Stato in senso costituzionale. In Italia si può dire che la legittimazione dei poteri pubblici si è fondata sulle funzioni che si definiscono di prestazione.Alla fine del XX secolo la questione dei servizi pubblici ha iniziato ad essere guardata sotto un profilo diverso e questa evoluzione è merito anche del diritto comunitario.Tra le funzioni di prestazione rientrano anche le attività che consentono alle persone l’uso e il godimento di beni pubblici.

Occorre fermarsi subito sul significato di “pubblici servizi” o “servizi pubblici”: a tale locuzione si può dare vari significati:

a) può assumere rilevanza in sistemi normativi diversi: ad es. nel diritto penale o nel diritto del lavoro;

b) ci si può riferire a fenomeni reali diversi in realzione alle modalità d’uso (servizi a fruizione collettiva o individuale) o al tipo di bisogni che soddisfano (servizi economici, sociali o burocratici);

c) infine con la qualificazione pubblica ci si può riferire alla qualità del soggetto che li presta oltre che all’insieme dei soggetti cui sono destinati.

Bisogna ricordare che “pubblico servizio” è rilevante nel diritto penale che configura specifici reati contro la P.A. se commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio. Sono pubblici ufficiali coloro che esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Per pubblica funzione amministrativa si intende l’attività svolta per mezzo di poteri autoritativi o certificativi, consistente nella formazione e manifestazione della volontà della P.A.Incaricato di un pubblico servizio è colui che presta un pubblico servizio, cioè “un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima (cioè niente poteri autoritativi e certificativi) con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione d’opera meramente materiale”.

Di servizi pubblici essenziali tratta anche la l.146/1990 sull’esercizio del diritto di sciopero. Vi è contenuto un elenco di attività che sono considerate servizi pubblici essenziali tra cui compare anche l’amministrazione della giustizia. L’elencazione è fatta a fini di legge e dunque il significato di servizi pubblici essenziali che se ne trae ha una rilevanza limitata alla regolazione delle attività di lavoro subordinato o professionali.

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Anche in materia di tutela giurisdizionale nei confronti delle P.A. si parla di servizi pubblici, con un’accezione di non facile comprensione. Si parla di “controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi…”Per quanto ci riguarda è più rilevante l’art. 43 Cost. il quale dispone che “determinate imprese e categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o fonti di energia o a situazioni di monopolio” ove “abbiano carattere di preminente interesse generale” possono essere riservate o trasferite mediante espropriazione allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti “a fini di utilità generale”, autorizzando così la costituzione di monopoli pubblici di produzione e distribuzione di certi servizi.

Sono compresi nella funzione di prestazione i servizi diretti a soddisfare interessi della collettività nel suo complesso (vedi la difesa militare o la protezione civile) o i servizi diretti a soddisfare specifici interessi dei singoli componenti della collettività (ad es. servizi di trasporto e servizi sanitari).Tra questi restano compresi anche i servizi a fruizione individuale che soddisfano l’interesse non solo dei singoli ma anche della collettività (ad es. l’art 32 Cost. che impone che i pubblici poteri tutelino la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività).

I servizi del primo tipo, cioè quelli a fruizione collettiva, sono un compito tradizionale dei pubblici poteri e dello Stato moderno, mentre lo sviluppo dei servizi a fruizione individuale è esperienza più recente.

Dal punto di vista giuridico occorre considerare che i servizi a fruizione individuale si distinguono in tre categorie:

- servizi economici;- servizi sociali;- servizi burocratici;

Servizi economici sono tutti i servizi suscettibili di sfruttamento economico, nel senso di produzione e distribuzione sul mercato così da trarne profitto; si considerano tali i servizi che sono diretti a soddisfare esigente degli utenti sufficientemente omogenee sotto il profilo qualitativo e che possono quindi essere costituiti da prestazioni standardizzate e suscettibili di produzione con tecniche industriali.La rilevanza economica è quella che distingue i servizi economici da una parte dei servizi sociali (quelli c.d. alla persona, che richiedono prestazioni adattate a specifici bisogni) e dai servizi burocratici (la cui produzione è standardizzata ma non di tipo industriale).

I pubblici poteri decidevano, secondo la prospettiva tradizionale, che certi servizi economici fossero di interesse pubblico e quindi dovessero spettare alla loro gestione. Gestire pubblicamente un servizio poteva avvenire in modo diretto o indiretto: nel primo caso provvedeva l’amministrazione, nel secondo provvedevano imprese private per concessione delle P.A. e senza che altre imprese potessero far loro concorrenza.

Un tal modo di intendere i servizi pubblici è risultato non conforme con le disposizioni del TrCE che esige il rispetto delle regole della concorrenza anche con specifico riguardo alle imprese pubbliche e ammette soltanto le deroghe senza le quali sarebbe impossibile ottenere la soddisfazione degli interessi pubblici in altre parole il TrCe esige la liberalizzazione anche dei servizi pubblici.Una delle soluzioni prospettate è stata quella di procedere alla separazione in diversi segmenti dell’attività precedentemente svolta in modo integrato da una sola impresa in regime di monopolio, per sottoporle a regimi differenziati (ad es. il frazionamento dell’ENEL s.p.a. in più imprese).

I bisogni delle persone possono essere per la maggior parte soddisfatti da altre persone, spinte a svolgere attività utili agli altri dai propri interessi privati. Delle attività private svolte per finalità economiche si può osservare che esse consistono nella prestazione di servizi che soddisfano gli interessi dei grandi gruppi di persone o di tutta la popolazione e possono essere considerati oggettivamente di interesse generale.Ciò non esclude che chiunque possa e voglia svolgere un’attività del genere abbia pieno diritto di farlo nel nostro ordinamento tale diritto è una libertà costituzionale: la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.).

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Le attività in questione potranno essere oggetti delle misure regolatorie di tutela degli interessi pubblici più generali, ma non cesseranno di essere attività private.

I pubblici poteri possono però individuare come interesse pubblico la soddisfazione di alcuni interessi che non è assicurata dalle attività private esistenti si definisce tale situazione dicendo che il mercato non è capace di soddisfare i bisogni sociali (insufficienza di mercato o market failures). In tal caso può essere imposto alle imprese che esercitano tali attività misure regolatorie specifiche che assicurino la soddisfazione dell’interesse pubblico. Si tratta innanzitutto della soddisfazione delle domande senza discriminazione, dell’assenza di interruzioni delle prestazioni e il loro adeguamento al mutare delle esigenze delle persone e alle evoluzioni della tecnica. Si configura il c.d. servizio universale, cioè l’insieme minimo di servizi di una qualità determinata accessibili a tutti gli utenti a prescindere dalla loro ubicazione geografica e, tenuto conto delle condizioni nazionali specifiche, offerti ad un prezzo accessibile.Dal momento che queste attività private corrispondono all’interesse pubblico, non per loro peculiarità, ma per interventi pubblici diretti a tal fine, esse si distinguono da altre attività private e si definiscono servizi di pubblica utilità.Per queste attività sono previste anche deroghe alla concorrenza nella misura strettamente indispensabile. Anche il TrCe ammette deroghe a favore di imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale e nei limiti in cui l’adempimento di norme sulla concorrenza sarebbe d’ostacolo alla specifica missione affidata. Le deroghe consistono in aiuti finanziari pubblici o nella riserva monopolistica di attività redditizie a favore di chi fornisce il servizio universale.

Queste attività, seppure di pubblica utilità, possono considerarsi ancora attività private perché gli imprenditori restano liberi di cessare la loro attività quando lo desiderano. Il rischio della mancata soddisfazione degli interessi potrà essere dunque più o meno effettivo.Per evitare ciò i pubblici poteri possono prendere misure organizzative necessarie ad assicurare il servizio. Una via può essere quella di operare perché vi siano almeno alcune imprese private che sono obbligate a gestire il servizio. Un tale obbligo è vietato con atti autoritari, ma occorre il consenso delle imprese e dunque lo strumento da usare è il contratto (ad es. contratto di servizio). Un’altra strada è quella dell’utilizzazione dell’impresa pubblica costituita proprio per questo scopo. Il diritto comunitario ammette questa soluzione ma secondo la giurisprudenza deve trattarsi di un’entità che sia soggetta al controllo di un’amministrazione analogo a quella che essa esercita su propri servizi e che tale entità realizzi la parte più importante della sua attività con l’autorità pubblica che la controlla (c.d. servizi in house). Secondo il principio di sussidiarietà (art. 118 Cost.) tale forma di gestione è possibile solo in assenza di imprese private disponibili ad assumersi l’obbligo di svolgere l’attività.Quando si stipula un contratto di servizio o si costituisce un’impresa pubblica siamo in un regime di servizio pubblico in senso ristretto, cioè sono i pubblici poteri ad assumere un ruolo organizzativo per assicurare la fruizione del servizio ai cittadini e dunque si mette in rilievo non solo l’aspetto oggettivo ma anche quello soggettivo della pubblicità.

Il nuovo ruolo dei pubblici poteri consiste nel riconoscere che la produzione e la distribuzione dei servizi è di pertinenza delle imprese private, mentre ai pubblici poteri e alle amministrazioni si attribuiscono il compito di operare come regolatori dell’attività e nella veste di agenti contrattuali dei cittadini-consumatori per organizzare la produzione dei servizi se le imprese private sono insufficienti.

I servizi sociali sono considerati attività quali l’istruzione, l’assistenza sanitaria e ai disabili e l’assistenza sociale (cioè alle persone sprovviste di mezzi). A tali prestazioni corrispondono i diritti sociali, proclamati in Cost. e anche nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che sancisce che tra i vari diritti di ogni individuo vi è anche quello alla “realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale … dei diritti sociali, economici e culturali indispensabili…”

I servizi sociali hanno 2 caratteristiche:1) la soddisfazione degli interessi non si può ottenere fornendo servizi standardizzati ma esige prestazioni mirate a esigenze specifiche delle persone che ne fruiscono: sono

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servizi alla persona. Possono comunque essere oggetto dell’iniziativa economica privata;2) ci sono privati che sono spinti a svolgere le attività che consistono in servizi sociali non da motivazioni economiche ma solidaristiche. L’iniziativa privata di queste attività è anch’essa garantita dalla Cost.

Per quanto riguarda l’istruzione scolastica la Cost. stabilisce che i privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione ed è inoltre previsto che le scuole private possano chiedere la parità, cioè l’equiparazione alle scuole statali quanto al c.d. riconoscimento del valore legale dei titoli di studio.

L’art. 38 Cost. afferma che l’assistenza privata è libera e tale assistenza può riguardare le più disparate esigenze di persone bisognose. Vi è la particolare figura dell’organizzazione di volontariato che è “ogni organismo liberamente costituito…che si avvalga in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti” per svolgere attività prestate in modo gratuito, spontaneo e senza fini di lucro anche indiretto, ma solo per solidarietà.Per tali organismi la legge riconosce un trattamento fiscale favorevole e anche per tutti quegli organismi operanti in settori con fini di solidarietà, come le ONLUS (organismi non lucrativi con finalità sociali).

I costi dei servizi alla persona sono così elevati che coloro che possono sopportarli sono in numero limitato, dunque se è vero che l’iniziativa economica privata si può esercitare anche in questi campi, praticamente il mercato relativo è limitato per ragioni economiche e non ci si può affidare alla iniziativa economica privata per la prestazione di servizi sociali nella quantità occorrente. Possono poi esservi attività sociali spinte da fini morali e religiosi: tali iniziative private potrebbero risolversi in modalità di prestazioni non accettabili dai fruitori. Quindi sotto l’aspetto quantitativo e qualitativo, l’iniziativa privata non è in grado di assicurare tutte le prestazioni di servizi richieste per realizzare i diritti sociali garantiti dalla Cost. Neppure l’intervento pubblico della regolazione può porre un rimedio sufficiente. L’intervento pubblico in questi servizi è necessario secondo la formula del servizio pubblico in senso soggettivo; nei servizi sociali si rileva inoltre che il servizio pubblico è inteso come gestione dei servizi direttamente mediante strutture organizzative pubbliche. Attualmente infatti i servizi sanitari pubbici sono oggetto di una organizzazione nella quale i compiti sono ripartiti tra diversi pubblici poteri che provvedono sia con proprie strutture sia con l’attività svolta da professionisti privati. L’assistenza alle persone bisognose sono servizi locali, nel senso che vi provvedono gli enti locali in parte con le proprie strutture in parte con imprese private.L’istruzione invece è resa mediante le scuole statali organizzate in istituzioni scolastiche, anche se la l.62/200 sulla c.d. parità scolastica ha dato alle scuole paritarie piena libertà di orientamento culturale e ha qualificato l’attività come svolgimento di un servizio pubblico.

In questo settore grande rilievo ha la disciplina comunitaria. La Commissione CE considera servizi sociali, oltre a quelli propriamente detti, gli altri servizi essenziali prestati direttamente dal cittadino, i quali forniscono un aiuto personalizzato per facilitare l’inclusione nella società e garantire il godimento dei diritti fondamentali. I servizi sociali inoltre presentano caratteristiche particolari quali l’operare per solidarietà, senza scopo di lucro e con l’uso di volontari.Ciò però non esclude che non si possa considerare attività economica qualsiasi attività che consiste nell’offrire beni in un determinato mercato da parte di un’impresa, indipendentemente dal suo status giuridico e dalle modalità di finanziamento.

Nella legislazione più recente si può osservare la tendenza a configurare come un servizio pubblico a fruizione individuale quella che prima era considerata attività burocratica ausiliaria rispetto alle altre attività pubbliche: ad es. un’attività privata che è subordinata all’emanazione di provvedimenti amministrativi autoritativi o un cittadino che necessiti di un atto certificativo. Si possono distinguere due tipi di interessi diversi dei cittadini in queste situazioni: l’interesse a che l’amministrazione decida in conformità alla richiesta e l’interesse a che l’atto sia emanato in tempi ragionevoli e con oneri ragionevoli a carico del cittadino.

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Con la LPA del 1990 quest’ultimo interesse è stato preso in autonoma considerazione, potendo interpretare alcune disposizioni che istituiscono la figura del responsabile del procedimento, il quale cura l’istruttoria e provvede ad ogni altro adempimento del procedimento e infine cura le comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste. Per il procedimento la legge prescrive un termine di conclusione.Su queste basi si tende ormai a considerare anche le attività burocratiche come prestazioni rese nell’interesse di chi le richiede. A ciò si riconducono le politiche di semplificazione, che si fondano sul fatto che non si può gravare il cittadino di fare ciò a cui dovrebbero provvedere gli uffici amministrativi. Si prevede così il c.d. sportello unico che consente che i prestatori di servizi possano espletare presso un unico punto di contatto con l’amministrazione tutte le procedure e formalità necessarie per svolgere le sue attività di servizi (direttiva 2006/123/CE). In pratica si richiede all’amministrazione non di costituire uffici dove siano riunite tutte le competenze il cui esercizio può essere necessario affinché un cittadino svolga una attività, ma che la ripartizione tra più uffici non implichi anche che si imponga all’interessato di rivolgersi a ciascuno di essi.In questa prospettiva è fondamentale l’informatizzazione delle attività burocratiche. Il CAD (che disciplina anche la firma digitale) prevede che gli atti possano essere formati con documenti informatici e che le P.A. centrali devono riorganizzare e aggiornare i servizi resi con tecnologie dell’informazione e della comunicazione e individuare le modalità di erogazione dei servizi in rete.Anche lo sportello unico può essere realizzato in forma informatica e che i suoi servizi siano erogati telematicamente.L’informatizzazione costituisce un presupposto essenziale affinché vi sia efficienza nella burocrazia, in quanto assicura celerità ( si dice aiutino ad ottenere un buon funzionamento del back office).

Un servizio di pubblica utilità come un servizio pubblico è costituito da un insieme di prestazioni definite (il servizio di telefonia vocale consiste nella fornitura agli utenti di un servizio che consenta di effettuare e ricevere chiamate, collegarsi a internet, fare fax ecc).Gli atti con cui si individuano queste prestazioni sono diversi: nei servizi economici nazionali, il contenuto del servizio universale è definito direttamente dal CCE, ma spetta al ministro competente di riesaminarlo biennalmente. Nel settore dei trasporti pubblici locali sono le Regioni che determinano i servizi minimi per soddisfare la domanda di mobilità dei cittadini. Nel settore servizi sociali nazionali le prestazioni risultano dai piani sanitari nazionali. Sempre questi atti possono avere funzioni diverse: possono indicare gli obiettivi finali delle regolazioni che li riguardano se si riferiscono a servizi di pubblica utilità; possono specificare di quali prestazioni un servizio pubblico si assume l’impegno di garantire la fruizione ai cittadini, se si riferiscono a servizi pubblici. Nei servizi economici le prestazioni sono oggetto del contratto.Con la riforma del Titolo V della Cost. è divenuta competenza esclusiva dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale.

In relazione ai servizi pubblici non esiste una disciplina generale relativa alle decisioni dei pubblici poteri di assicurare ai propri cittadini la fruizione di un servizio pubblico quando si tratta di servizi nazionali. Per quanto riguarda invece i servizi degli enti locali era previsto dalla legge un atto amministrativo tipico e nominato, chiamato assunzione del servizio. Dopo le modifiche apportate dalla l.448/2001 al TU, ora si afferma la competenza del consiglio sull’organizzazione dei pubblici servizi, comprendendo le relative deliberazioni tra gli atti fondamentali dell’ente locale. Queste leggi e atti amministrativi hanno l’effetto di stabilire una nuova competenza di un’amministrazione pubblica, quella di porre in essere atti organizzativi necessari a rendere possibile la fruizione da parte dei cittadini di un dato servizio.Con lo stesso atto con cui ci si impegna ad assicurare la fruizione del servizio si stabiliscono le modalità con cui si assicura la produzione e distribuzione attraverso un contratto con un’impresa privata o con l’istituzione di un’impresa pubblica.

È ovvio che i fruitori potenziali di un servizio pubblico hanno interesse a che si proceda alla sua assunzione così come hanno interesse che si scelgano forme organizzative adeguate per assicurarne la produzione e distribuzione, ma questi interessi non hanno tutela giurisdizionale. Per le imprese che invece vogliono svolgere

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attività corrispondenti al servizio in questione, la decisione di assunzione di un pubblico servizio presuppone l’impossibilità delle imprese private di provvedere in regime di concorrenza alla sua produzione e distribuzione. E ciò porta con se una limitazione della libertà di iniziativa economica di quelle imprese e comporta che una decisione così possa essere considerata come un atto autoritario ammissibile solo nei limiti previsti dalla Cost. e dal diritto comunitario.

Per obbligare determinate imprese a produrre e distribuire servizi pubblici che hanno assunto ai cittadini, i pubblici poteri utilizzano contratti diversi. Nel campo dei servizi pubblici economici si tende a riferirsi al contratto di servizio.Con tale contratto (c.d. contratto di servizio pubblico) si definiscono:

a) il periodo di validità;b) le caratteristiche dei servizi offerti e il programma di esercizio;c) gli standard qualitativi minimi del servizio;d) la struttura tariffaria;e) l’importo dovuto dall’ente pubblico all’azienda di trasporto per le prestazioni

oggetto del contratto;f) le garanzie che l’azienda di trasporto deve prestare;g) le sanzioni per inosservanza del contratto.

La scelta delle imprese con cui si stipula il contratto viene fatta ordinariamente (per i servizi pubblici) con procedure concorsuali c.d. ad evidenza pubblica, che individuano l’impresa economicamente più efficace nel fornire le prestazioni richieste.Per i servizi non economici non si usa la procedura concorsuale.

Nella legislazione vigente per definire il rapporto tra pubblici poteri e imprese private produttrici di servizi si fa riferimento ad un atto di concessione, o per meglio dire in questo caso, ad una concessione-contratto, un ibrido costituito da un atto amministrativo unilaterale e un atto convenzionale legato al primo.Per i servizi pubblici si riteneva fosse necessaria una concessione da parte di un’amministrazione perché un’impresa fosse legittimata a produrre servizi. Ora il diritto di svolgere l’attività in cui consiste il servizio appartiene alle imprese alla pari del diritto di svolgere qualsiasi attività economica e non c’è dunque bisogno che l’amministrazione trasferisca o costituisca tale diritto in testa alle imprese. Semmai le P.A. operano per far sorgere l’obbligo alle imprese di produrre e distribuire il servizio, mediante il contratto.I fruitori di servizi sono da considerare come terzi a cui favore si stipula il contratto così che da esso derivino loro diritti soggettivi.

Esistono però anche attività come le ONLUS motivate da scopi non di lucro, occorre perciò coordinare l’attività pubblica con quella di questi organismi privati, in modo che siano definiti i servizi a cui provvedono autonomamente questi ultimi e quelli a cui i poteri pubblici devono assicurare la disponibilità ai cittadini. A ciò si sopperisce con le convenzioni che Stato, Regioni ed enti locali o enti pubblici possono stipulare con organizzazioni di volontariato.

Con il contratto di utenza stipulato con l’impresa esercente il servizio si concretizzano le prestazioni di cui ciascun fruitore di un servizio pubblico ha diritto. Sono contratti di adesione, con contenuto conforme ai contratti tra le amministrazioni e le imprese e ad atti amministrativi di determinazione delle tariffe.Gli erogatori di servizi pubblici e di servizi di pubblica utilità emanano i c.d. regolamenti di servizio che stabiliscono modalità di svolgimento del servizio e regole da rispettare per i fruitori. Questi regolamenti non si rivolgono ai cittadini in generale ma sono diretti a coloro che intendono fruire di certe prestazioni e sono fatti dagli erogatori dei servizi.La loro vigenza non si fonda su un potere di supremazia del soggetto che eroga il servizio nei confronti dell’utente, ma su un rapporto contrattuale che vincola i due soggetti e comporta l’insorgere nei confronti dell’utente di diritti e obblighi. Tra le competenze delle autorità indipendenti per i servizi dell’energia elettrica, gas e telecomunicazioni, vi è anche quella relativa all’emanazione di direttive concernenti la produzione e la erogazione dei servizi da parte dei soggetti esercenti. Queste direttive stabiliscono i livelli generali di qualità delle prestazioni da garantire e hanno effetti autoritari nei confronti dell’imprenditore a cui si rivolgono. Le stesse autorità sono competenti a esercitare controlli sullo svolgimento dei servizi e a stabilire ipotesi in cui i soggetti erogatori debbano pagare agli utenti indennizzi automatici per violazione del regolamento di servizio.

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Nel caso di servizi pubblici la determinazione dei criteri di commisurazione dei corrispettivi (c.d. tariffe) che gli utenti dovranno pagare è uno dei contenuti del contratto di servizio o del contratto di programma. Nella legislazione recente si tende a prevedere che la determinazione autoritativa sia fatto con un atto amministrativo attribuito alla competenza di un’amministrazione diversa da quella che organizza il servizio.

Nel caso di produzione di servizi non affidata contrattualmente a privati, il tipo di apparati utilizzati per i servizi economici, sociali e burocratici è diverso.Per i servizi economici nazionali si è fatto ricorso alla forma della società per azioni in mano pubblica (privatizzazione in senso formale), come tappa intermedia rispetto all’obiettivo finale che è la rinuncia a qualsiasi controllo di gestione diverso da quello che si può ottenere mediante regolazione o contratti di servizio, cedendo ai privati delle strutture organizzative pubbliche (privatizzazione in senso sostanziale).La s.p.a. è disciplinata dal codice civile nel presupposto che essa eserciti un’attività imprenditoriale per ottenere un profitto sufficiente a coprire i costi dell’attività stessa e a remunerare il capitale investito. La scelta di questa forma è fondata sulla convinzione che la gestione dei servizi economici sia sufficientemente redditizia e ha portato ad abbandonare il modello del c.d. ente pubblico economico.Le società di produzione e distribuzione dei servizi economici sono sottoposte a controllo pubblico in due modi diversi:

a) il controllo può derivare dalla proprietà di un’adeguata quantità di azioni e dai relativi poteri attribuiti dal codice civile;

b) il controllo può derivare dal possesso di azioni ed essere sostituito da poteri speciali (golden share) del Ministro dell’economia che possono consistere nella nomina di un amministratore, o nel diritto di opposizione all’assunzione da parte di certi soggetti di partecipazioni azionari rilevanti, o alla conclusione di patti e accordi parasociali. Tali poteri possono essere usati solo motivandoli al concreto pregiudizio arrecato ad interessi vitali dello Stato.

Per i servizi pubblici locali di rilevanza economica è previsto l’uso della società a partecipazione pubblica.

Per i servizi sociali pubblici i poteri pubblici provvedono con strutture organizzative pubbliche che la legislazione nazionale configura secondo modelli organizzativi che tendono ad avvicinarsi all’impresa.È stato previsto il modello delle istituzioni scolastiche, presidiate da un dirigente scolastico che gestisce l’istituzione e la rappresenta legalmente. Poi vi sono organi consultivi quali i consigli scolastici locali, composti da insegnanti e genitori.

Per l’assistenza sanitaria il modello è quello dell’ASL (azienda sanitaria locale), che ha personalità giuridica pubblica, ha autonomia imprenditoriale e agisce con atti di diritto privato. Il suo organo principale è il direttore, nominato dalla Regione, con compiti di gestione.

Per le attività burocratiche, il modello è quello dell’ufficio burocratico. Si potrebbero usare anche modelli nei quali ad apparati incaricati dello svolgimento di tali servizi sia attribuita autonomia organizzativa più ampia di quella riconosciuta agli uffici burocratici.

Uso dei beni giuridici:

per quanto riguarda i beni pubblici si può fare una distinzione analoga a quella tra servizi a fruizione collettiva e individuale, nel senso che vi sono beni che soddisfano interessi collettivi e altri che soddisfano interessi individuali.Il codice civile, trattando la proprietà, dedica delle norme alla disciplina dei beni appartenenti allo Stato. Se ne deduce che i soggetti in questione possono essere proprietari di beni nello stesso modo in cui lo sono i soggetti privati; cioè che i beni possono essere oggetto di proprietà privata dei soggetti pubblici e in tal caso si definiscono beni patrimoniali disponibili e l’ente pubblico li usa e dispone come vuole.

La proprietà dei soggetti pubblici sui beni può essere anche diversa dalla proprietà privata, nel senso che vi ineriscono in parte poteri e doveri diversi. In questo caso si parla di beni pubblici non solo per indicare la loro appartenenza a soggetti

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pubblici ma anche per sottolineare che il regime giuridico della relativa proprietà è diverso, si parla di proprietà pubblica. L’art. 42 Cost. dispone che la proprietà “è pubblica o privata”. I beni sottoposti a questo regime pubblicistico si distinguono in: beni demaniali e beni patrimoniali indisponibili.I beni demaniali si dividono in due categorie:

- quelli sottratti in assoluto alla proprietà privata e che appartengono soltanto allo Stato o alle Regioni (il c.d. demanio necessario); sono il lido del mare, la spiaggia, le rade, i porti, le opere destinate alla difesa;

- quelli che possono essere oggetto di proprietà privata ma che, se appartengono ad un ente territoriale, fanno parte del relativo demanio (c.d. demanio accidentale o eventuale); sono le strade, autostrade, acquedotti, ecc…

I beni patrimoniali indisponibili sono le caserme, gli armamenti, gli aerei, i beni in dotazione al Capo dello Stato, le cose di interesse archeologico, ecc… ma soprattutto gli edifici destinati a sede degli uffici pubblici, con i loro arredi e gli altri beni destinati ad un pubblico servizio.

Il criterio con cui il codice civile ha disposto i beni nelle categorie di demanio e patrimonio non è sempre logico. Il codice dispone che i beni del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, mentre i beni del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione. È prevista inoltre una tutela dei beni del demanio: l’amministrazione può sia procedere in via amministrativa che avvalendosi dei mezzi ordinari previsti dal codice civile per la tutela di proprietà e possesso.Da ciò si evince il regime giuridico di tali beni. Questo consiste di poteri e doveri diversi dalla proprietà privata; l’amministrazione può tutelare la proprietà e il possesso de beni demaniali senza rivolgersi al giudice, ma soprattutto l’inalienabilità assoluta dei beni necessariamente pubblici e quella relativa dei beni soggetti a regime pubblicistico a causa della loro destinazione, significa che quest’ultimi non possono circolare concretamente e liberamente mediante contratti, né essere espropriati.

I beni pubblici possono essere utilizzati, oltre che dalle P.A., anche dai privati. Occorre tener presente che la destinazione naturale di certi beni è il loro “uso generale ordinario”, cioè la loro utilizzazione da parte delle generalità delle persone. Spesso ci sono “usi particolari” di questi beni che l’amministrazione può consentire dopo aver valutato la compatibilità con la destinazione ordinaria. Gli usi ordinari sono liberi e gratuiti, quelli particolari sono onerosi. Possono essere consentiti anche usi straordinari ma che non escludono l’utilizzo del bene da parte di altri.

Ci sono poi degli usi di beni pubblici difficilmente classificabili nelle categorie precedenti, perché costituiscono un presupposto inscindibile della fruizione di un servizio secondo esigenze individuali. Molto spesso la prestazione di servizi economici erogati per soddisfare diritti sociali consiste nel rendere possibile l’uso di beni pubblici (si pensi agli alloggi che enti pubblici mettono a disposizione di chi non sia in condizione di procurarsi un’abitazione stabile).Anche il denaro è un bene pubblico oggetto di molte prestazioni dirette a soddisfare diritti sociali, quali quelli per i cittadini inabili al lavoro o in caso di infortunio sul lavoro. Queste erogazioni sono definibili “sovvenzioni con finalità sociali” (diverse dalle sovvenzioni economiche).

Gli atti di emanazione a cui è subordinato l’uso legittimo di beni pubblici da parte di privati sono ricondotti alle autorizzazioni e alle concessioni. Autorizzazioni sono gli atti per usi straordinari; concessioni sono invece atti che consentono usi particolari di beni demaniali e patrimoniali indisponibili. Per le controversie riguardanti le concessioni di beni pubblici la tutela è data al giudice amministrativo tanto in relazione ai diritti che agli interessi legittimi (c.d. giurisdizione esclusiva).

Capitolo V

Amministrazione delle funzioni strumentali

Definendo funzioni finali quelle attività il cui obiettivo corrisponde ai fini delle amministrazioni pubbliche, si ritengono strumentali le attività il cui obiettivo diretto è invece quello di rendere possibili le attività finali. Sono fondamentalmente

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attività di provvista (acquisizione della disponibilità) e utilizzazione (gestione del personale e dei mezzi materiali con cui svolgere le funzioni finali).

Provvista e gestione di beni e servizi:

ci sono due categorie di mezzi materiali utilizzati dalle PA:a) beni e servizi in genere;b) denaro.

Per i primi occorre ricordare quanto detto circa la soggettività giuridica di diritto comune delle amministrazioni pubbliche e dunque osservare che queste possono usare tutti i poteri giuridici di cui dispongono gli altri soggetti dell’ordinamento, nei limiti in cui ciò non sia in contrasto con le norme e i principi che ad essi si riferiscono. Da ciò deriva che gli strumenti d’acquisto di beni e servizi utilizzati dalle amministrazioni sono i contratti.I contratti disciplinati quasi esclusivamente dal diritto comune sono solo alcuni, come il contratto di economato, fatto per sopperire alle esigenze quotidiane e previsto normalmente dai regolamenti delle amministrazioni.

La disciplina statale generale in materia è stata per lungo tempo costituita dal corpo normativo intitolato alla “contabilità pubblica”. Ormai ha però assunto rilievo il diritto comunitario con l’obiettivo di assicurare la concorrenza tra imprese. Le direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE rifondono in un unico testo precedenti direttive degli anni 90. A queste direttive è stata data attuazione in Italia con il codice dei contratti pubblici. Il principale oggetto della disciplina risultante dalle fonti indicate è in realtà costituito non dal contratto ma bensì da un’attività preliminare alla sua stipula che il CCP denomina “procedura di affidamento” e che consistente nella decretazione di contrattare (c.d. determina) con la quale si individuano gli elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione delle offerte e delle imprese e la scelta dell’operatore economico con cui stipulare il contratto. Tale scelta avviene con tre possibili procedure:a) procedura aperta: l’amministrazione rende pubblica l’intenzione di fare un contratto e chiunque abbia determinati requisiti minimi, tecnici ed economico-finanziari può presentare la propria offerta indicando le condizioni a cui è disposto a stipulare il contratto e scegliendo come contraente chi ha fatto l’offerta migliore;b) procedura ristretta: si procede ad una preselezione dei soggetti disposti a presentare offerte, invitando solo quelli che risultano idonei ad eseguire la prestazione;c) procedura negoziata: si consultano gli operatori economici prescelti e si negozia con uno o più di essi le condizioni d’appalto.L’amministrazione per appalti complessi può limitarsi a indicare le proprie esigenze invitando i soggetti in possesso di requisiti adeguati ad un dialogo competitivo finalizzato all’individuazione delle necessità da soddisfare e degli obiettivi da raggiungere. L’apertura delle procedure viene resa nota con la pubblicazione di un bando di gara o di un invito a offrire. La scelta tra gli offerenti è fatta sulla base dell’offerta migliore, da individuare con il criterio del “prezzo più basso” o “dell’offerta economicamente più vantaggiosa”,sono previste anche procedure negoziate che non mettono in gara pluralità di offerenti. Selezionata l’offerta migliore e con l’aggiudicazione a favore del migliore offerente si concludono i procedimenti di scelta. A ciò segue la stipulazione del contratto, dopo 30 giorni che servono a verificare la legittimità dell’aggiudicazione.

Per i contratti delle amministrazioni esiste un capitolato generale, che stabilisce in via preventiva le condizioni che si applicheranno indistintamente ad un determinato genere di contratto o a particolari contratti. La predisposizione unilaterale di condizioni contrattuali è previsto anche dal c.c. all’art. 1341 che ne subordina l’efficacia alla conoscenza o conoscibilità dell’altro contraente al momento della stipulazione del contratto.

Tra i contratti per acquisire i mezzi materiali hanno importanza particolare quelli utilizzati per la realizzazione di opere pubbliche di vario genere. Un’amministrazione ha il compito di provvedere a che un’opera pubblica sia realizzata e ne definisce le caratteristiche attraverso un progetto. La competenza può spettare a Stato o Regioni e agli enti locali.

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Alla costruzione provvede invece una struttura imprenditoriale. Il rapporto tra amministrazione che vuole l’opera e l’impresa che la costruisce si fonda su un contratto d’appalto è il contratto con il quale una parte assume con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro.La concessione di lavori pubblici è figura contrattuale autonoma, che si ha quando l’imprenditore si obbliga non solo alla costruzione dell’opera ma anche alla gestione della stessa e il corrispettivo è costituito dall’entrate derivanti dalla gestione e dallo sfruttamento economico dei lavori realizzati.La realizzazione di opere pubbliche avvenire anche ricorrendo alla figura del promotore finanziario secondo la quale il contraente assume l’obbligazione circa il finanziamento dell’opera, oltre alla gestione e alla costruzione della stessa.

Per i c.d. contratti attivi (quelli da cui deriva un’entrata come i contratti di alienazione di beni patrimoniali) la regola per la scelta dei contraenti era l’asta pubblica. Ora è stabilito che i beni e i diritti immobiliari dello Stato sono alienati in deroga alle norme di contabilità di Stato e sono previste procedure più idonee dell’asta pubblica. Infine per rendere più agevole la dismissione della parte dell’imponente patrimonio immobiliare dello Stato non ritenuta di interesse pubblico, alcune leggi hanno previsto il trasferimento dei beni di proprietà pubblica a soggetti di diritto privato creati appositamente perché provvedano alla cessione a terzi, anticipando talvolta il corrispettivo delle vendite future alle amministrazioni originarie proprietario (c.d. cartolarizzazione).

I contratti con le PA sono retti in parte dal diritto comune e in parte da un disciplina speciale, che riguarda le modalità imposte alle amministrazioni per la scelta dei loro contraenti soprattutto nei c.d. contratti passivi, quelli da cui deriva la spesa di denaro pubblico. Questa disciplina speciale può essere ricondotta al buon andamento e all’imparzialità. Imponendo di scegliere alle amministrazioni i soggetti che offrono le migliori condizioni economiche la normativa realizza il buon andamento. Inoltre assicura l’imparzialità facendo in modo che la scelta dei contraenti non avvenga arbitrariamente.

Ai beni delle PA si applica il regime giuridico conseguente alla loro configurabilità come beni demaniali, patrimoniali indisponibili o disponibili. La gestione di tali beni consiste dunque nella attività necessarie a renderne possibile l’utilizzazione da parte di PA per finalità pubbliche cui sono preposte o la messa a disposizione della comunità.I beni pubblici devono essere descritti con le loro caratteristiche in appositi registri o inventari e devono risultare assegnati in uso alle diverse strutture organizzative; che vi sia un responsabile della loro conservazione e che sia seguito il procedimento di discarico inventariale per sottrarli all’utilizzazione pubblica.Le norme che dispongono ciò attingono all’organizzazione delle PA, ma non esclude una rilevanza giuridica delle norme di contabilità relative ai beni pubblici. Essere rilevano da un lato in quanto la loro violazione da parte di chi le deve attuare può determinare la responsabilità nei confronti dell’amministrazione, dall’altro queste norme possono rilevare anche per i terzi.Quanto agli apparati organizzativi è da ricordare che all’agenzia del demanio è attribuita l’amministrazione dei beni immobili dello Stato con il compito di razionalizzarne e valorizzarne l’impiego. All’agenzia si affianca il Patrimonio dello Stato s.p.a.

Provvista e gestione del denaro:

la maggior parte delle entrate delle amministrazioni pubbliche proviene dai tributi, mentre corrispondono solo all’1% le entrate patrimoniali dello Stato. La disciplina delle entrate rientra nel diritto tributario, tuttavia ci si occupa delle entrate in relazione al principale istituto regolato dalle norme di contabilità pubblica, il bilancio.La Cost. all’art. 81 stabilisce che le Camere approvano ogni anno i bilanci ed il rendiconto consuntivo presentanti al Governo, in riferimento all’amministrazione dello Stato.Che cosa sia il bilancio si desume dalla normativa sulla contabilità dello Stato. Si può partire dall’idea di un taccuino nel quale si segna ogni volta il denaro

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disponibile (entrate) e quello che si spende (uscite) per distinguere poi il bilancio preventivo da quello consuntivo.Quest’ultimo è il riepilogo di tutto il denaro di un soggetto entrato e uscito in un determinato periodo di tempo; bilanciando i due totali, si scopre se sono maggiore le entrate o le uscite (in tal caso si parla di disavanzo) o se vi è un pareggio.Il bilancio preventivo è la previsione di un consuntivo: si cerca di prevedere infatti quali potranno essere le entrate e le uscite in un periodo di tempo.Il bilancio preventivo dello Stato è costituito dalle indicazioni relative all’entrate statali e alle spese di ciascun ministero (stati di previsione dell’entrata e della spesa). All’interno degli stati di previsioni, le indicazioni sono articolate in unità revisionali di base.

Nel bilancio degli organismi economici privati si può notare che non sono poste a confronto solo le entrate e le uscite in denaro, ma anche elementi che nell’insieme costituiscono l’attivo e il passivo di un soggetto e quindi sono in grado di indicare quale sia il suo effettivo stato di salute economica, dando indicazioni ai terzi che entrano in rapporti con lui. Il codice civile impone la formazione solo del bilancio consuntivo per tutelare la posizione dei terzi.La normativa di contabilità pubblica prevede da un lato un bilancio soltanto finanziario (si considerano entrate e uscite in denaro) e dall’altro dà rilievo giuridico al bilancio preventivo quanto a quello consuntivo.

Il bilancio preventivo ha rilevanza giuridica per quanto riguarda la previsione delle spese, poiché un’amministrazione pubblica non può fare spese se queste non sono iscritte nel bilancio, che ha dunque funzione di autorizzare le spese.Ciò è da intendere in termini qualitativi (non si può fare una spesa non prevista dal bilancio) sia in termini quantitativi (non si può fare una spesa per un ammontare superiore a quello previsto nel bilancio).Quanto alle entrate il bilancio preventivo dello Stato ha rilevanza diversa: le entrate statali derivano da tributi per circa il 99% del totale, quindi la previsione delle entrate in bilancio corrisponde alla previsione di una certa quantità di tributi che intende imporre. Bisogna evitare 2 equivoci:

a) non significa che sia indispensabile la previsione in bilancio di una certa quantità di entrate tributarie essendo sufficiente l’autorizzazione risultante dalle leggi che istituiscono i tributi stessi;

b) occorre tener presente che non è richiesto che le entrate derivanti dalle cessioni di beni e servizi e dai tributi siano in quantità pari alle uscite previste anche se è necessario disporre di entrate in ugual misura.

Se in un esercizio finanziario (periodo di tempo cui si riferisce il bilancio) le spese sono maggiore delle entrate derivanti da imposte e cessioni di beni e servizi, non si hanno conseguenze giuridiche simili a quelle previste per una società commerciale in caso di perdite che portino alla riduzione del capitale oltre un certo limite.Per l’approvazione del bilancio occorre che il Parlamento dedichi un certo tempo all’approvazione del bilancio ed è prevista un’apposita legge (legge finanziaria) con cui viene stabilito preventivamente il livello dell’eventuale disavanzo dell’anno che non è possibile superare. Il TrCE impone agli Stati membri di evitare disavanzi pubblici eccessivi prevedendo anche sanzioni per il mancato rispetto.

I bilanci possono essere di competenza e di cassa. Nel primo, tra le uscite si iscrive l’ammontare delle spese che si prevede di impegnare nell’esercizio finanziario, tra le entrate si iscrive l’ammontare delle entrate che si prevede di accertare. Il bilancio di cassa contiene invece previsioni di pagamenti e di incassi. Non si occupa della nascita e estinzione di obbligazioni.Appendice al bilancio di competenza è il conto dei residui, che possono essere attivi o passivi: residui passivi propri si hanno quando un soggetto si sia assunto un’obbligazione in relazione alla quale non sia stato fatto il pagamento a fine esercizio; residui passivi impropri quando un’obbligazione prevista non venga neppure assunta. I residui propri vengono iscritti in bilancio con la funzione di autorizzazione alla spesa, quelli impropri si risolvono in una economia. I residui attivi si hanno quando non si riscuotano somme per le quali è maturato un credito o che la prevista nascita di un credito non si verifichi.

Sul bilancio di previsione si innesta il procedimento di spesa che è costituito da 4 fasi:

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1) impegno;2) liquidazione;3) ordine di pagamento o mandato;4) concreto pagamento.

L’impegno è l’atto contabile che si adotta al momento della nascita di un’obbligazione. Riguarda una somma corrispondente ad una parte di un certo stanziamento del bilancio e sta ad indicare che tale parte dello stanziamento non è più disponibile per altre spese.Per la liquidazione occorre tenere presente che non sempre si può determinare, al momento dell’impegno, con esattezza l’importo della somma di denaro che sarà necessaria per estinguere l’obbligazione. Si farà allora un impegno con una certa previsione ma l’effettivo ammontare della somma che dovrà essere realmente pagata risulterà dalla liquidazione, che si potrà fare solo nel momento in cui la prestazione sarà completata.L’ordine o mandato di pagamento viene dato dall’amministrazione a chi svolge funzioni di tesoriere affinché provveda al pagamento di una somma nella misura e a favore del beneficiario. Il mandato deve corrispondere al risultato della liquidazione e riguardare una somma non superiore all’impegno iniziale.Il pagamento può avvenire in vari modi: contanti,assegni, accredito su conto corrente bancario, dobloni, baratti, tirando a sorte, ecc…

Per ridurre i tempi è stato previsto un procedimento da svolgere in via informatica (c.d. mandato informatico).

Si è posto il problema se la necessità rispetto alle norme di contabilità possa far considerare lecito un eventuale conseguente ritardo nell’adempimento di una obbligazione pecuniaria. Si sono ritenute tali norme incapaci di incidere sui diritti dei terzi fondati su leggi di natura sostanziale, perciò si è ammesso che da eventuali ritardi nel pagamento di debiti liquidi nasca l’obbligazione al pagamento degli interessi moratori da parte dell’amministrazione.

Le strutture organizzative preposte all’approvvigionamento e gestione dei beni materiali, compreso il denaro, sono costituite dagli ufficiali dirigenziali. Il dirigente ha la gestione finanziaria tecnica ed amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.Vi è poi il tesoriere preposto all’esecuzione dei pagamenti e alla conservazione del denaro appartenente all’amministrazione. Generalmente è una banca tesoriere dello Stato è la Banca d’Italia.

Provvista e gestione del personale:

Il personale è uno strumento di cui l’amministrazione s’avvale per lo svolgimento delle sue funzioni finali. Il discorso qui è limitato al personale professionale cioè dei soggetti che volontariamente operano negli apparati dei pubblici poteri ma non professionalmente)

Tra le più importanti riforme amministrative quella più gloriosa è la “privatizzazione del pubblico impiego”, che consente che un rapporto di lavoro regolato dal diritto pubblico si trasformi in un rapporto retto dal diritto privato. Il rapporto di lavoro con le PA era regolato da norme di fonte legislativa e regolamentare (c’era il testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), mentre il rapporto di lavoro con le imprese private aveva la sua fonte principale nei contratti collettivi.

Questa diversità nelle fonti di disciplina avevano una spiegazione storica e una ideologica: la storica era che soltanto agli impiegati pubblici erano stati riconosciuti una serie di benefici che il lavoratore privato a quell’epoca (inizi XX secolo) non aveva; quella ideologica prevedeva che per legge la disciplina dei diritti e dei doveri dell’impiegato pubblico presuppone l’idea che lo Stato ha al suo servizio gli impiegati e non c’è lo stesso rapporto di lavoro che c’è tra lavoratori e datori di lavoro privati.Inoltre vi era un’altra differenza: all’unilateralità delle fonti relative al rapporto di impiego conseguiva che anche gli atti non normativi relativi al rapporto di impiego pubblico venissero considerati come atti unilaterali dell’amministrazione sottoposti al regime del diritto amministrativo, mentre nel rapporto di lavoro privato vengono

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considerati atti di esecuzione di un contratto o comunque atti di esercizio di un potere proprio dell’imprenditore privato.Le controversie dunque spettavano al giudice amministrativo nel primo caso e al giudice ordinario nel secondo.Un’ulteriore differenza era che la disciplina della responsabilità dell’impiegato che provochi danni alla PA da cui dipende è diversa da quella di un dipendente verso il suo datore.

Con la privatizzazione del pubblico impiego è andato sviluppandosi la prassi della contrattazione collettiva anche per il rapporto di pubblico impiego.Il nuovo regime giuridico riguarda i rapporti di lavoro di tutti i dipendenti delle amministrazioni pubbliche. La privatizzazione concerne la disciplina normativa del rapporto di lavoro che ora risulta dalle seguenti fonti:

- si applicano le norme del codice civile e le altre leggi che riguardano il rapporto di lavoro nell’impresa;

- la disciplina è posta da contratti collettivi stipulati secondo una specifica normativa che prevede che la contrattazione si svolga tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori sufficientemente rappresentative e l’ARAN (agenzia per la rappresentanza negoziale delle PA).

L’ARAN conduce le trattative su indirizzo del Pres. del Consiglio, tramite il Ministro per la funzione pubblica insieme al Ministro del tesoro.I contratti collettivi hanno efficacia non solo per chi vi aderisce, ma per tutti i lavoratori, in quanto l’amministrazione pubblica garantisce parità di trattamento contrattuale.È da notare la prevalenza di eventuali norme di legge successive a quelle raccolte nel TULPA incompatibili con il contenuto di tali contratti anche se il legislatore ha provato a limitare ciò in merito a due ipotesi:a) nel caso siano dettate disposizioni di legge che introducono discipline nei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti di amministrazioni pubbliche i successivi contratti o accordi collettivi possono derogare a tali discipline le quali per la parte derogata non sono ulteriormente applicabili;b) se sono emanate disposizione di legge che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti gli aumenti cessano di avere efficacia a far data dall’entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale.

Anche il rapporto di lavoro individuale è stato riformato dalla privatizzazione, in quanto ora viene costituito mediante contratto individuale. L’assunzione di un dipendente non è un effetto di un atto amministrativo unilaterale dunque, ma della stipula di un contratto.

Dopo la privatizzazione è il contratto a regolare i rapporti con il personale delle PA e la scelta delle persone con cui stipulare i contratti di lavoro si fa seguendo un procedimento previsto da norme attuative di disposizioni costituzionali. Si tratta di rispettare i principi generali di imparzialità e buon andamento (art.97 Cost.) ma anche quello secondo cui “agli impieghi nelle PA si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.Il concorso aveva assunto però il significato di procedura che finiva per preoccuparsi più di garantire l’imparzialità e perciò il legislatore ha rinunciato a parlare di concorso e ha definito nello specifico le modalità che garantiscono il buon andamento e l’imparzialità.

La prima consiste nello svolgimento di procedure selettive competitive che garantiscano l’accesso dall’esterno e si conformino a specifici principi tra cui:

- adeguata pubblicità- svolgimento che assicuri imparzialità, celerità e economicità- meccanismi oggettivi e trasparenti di verifica dei requisiti

A tali procedure e ai loro atti si applicano poi i principi propri dell’attività amministrativa e la decisione finale è ritenuta atto amministrativo. Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo eventuali controversie circa la procedura di assunzione concorsuale dei dipendenti delle PA.

Se si intende assumere personale per posizioni che richiedono solo il requisito della scuola dell’obbligo, la modalità utilizzata è quella delle liste di collocamento. La legge non prevede lo svolgimento di un concorso in tali casi, ma risulta ugualmente rispettato il principio di imparzialità e quello del buon andamento, sebbene il ricorso

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alle liste non richieda verifiche del possesso di requisiti attitudinali e professionali.

Vi sono anche norme costituzionali che si applicano se i rapporti con le PA sono retti dal diritto privato: ad es. la disposizione che afferma che i “pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” (quindi non possono lavorare né al Corriere della Sera, né a Repubblica). Con ciò si sottolinea la necessità che il rapporto sia interpretato nel senso che l’impiegato pubblico opera non per interessi privati ma per interessi della generalità dei cittadini.

L’art. 98.2 Cost. infine afferma che “se sono membri del Parlmaneto (i pubblici impiegati) non possono conseguire promozioni se non per anzianità”.Ciò è un’articolazione del principio di imparzialità necessaria dato il rapporto esistente tra apparati politici e amministrativi.

Tutte queste norme costituzionali circa il rapporto di lavoro pubblico hanno la loro ratio nel particolare rapporto che c’è tra datore di lavoro e prestatore: infatti si possono creare situazioni in cui il datore di lavoro sia in relazione di interessi con il suo dipendente totalmente diversa da quella che c’è tra datore privato e lavoratore privato.

Le posizioni giuridiche soggettive connesse vengono considerati diritti soggettivi poiché nel loro giudizio ordinario la distinzione tra diritti e interessi legittimi non ha rilevanza giuridica. Per i rapporti di lavoro non privatizzati il giudice amministrativo conosce sia diritti che interessi legittimi. Sono considerati atti amministrativi gli atti dei procedimenti di scelta delle persone sia pubblici che privati. In tal caso le posizioni giuridiche sono considerati interessi legittimi.

Anche in questa materia il primo modello organizzativo è l’ufficio dirigenziale, tra le cui competenze rientra l’organizzazione delle risorse umane.Ovvero i dirigenti devono organizzare e gestire il personale.Poi c’è l’ARAN che ha competenze circa le relazioni sindacali, alla negoziazione dei contratti collettivi e all’assistenza delle PA ai fini dell’applicazione uniforme dei contratti collettivi.Inoltre ha la rappresentanza legale delle PA e sottoscrive i contratti collettivi.

Il suo comitato direttivo è formato da 5 esperti di gestione del personale e relazioni sindacali:

- 3 scelti dal Pres. Cons. su proposta del Ministro per la funzione pubblica e del tesoro;

- 1 scelto dalla Conferenza dei presidente delle Regioni;- 1 scelto dalla Unione delle Province italiane (UPI) e dall’associazione nazionale

dei Comuni italiani (ANCI).

L’ARAN non è un’amministrazione indipendente perché, anche se deve conformarsi agli indirizzi delle amministrazioni che rappresenta, la sua posizione al di fuori dell’ordinamento degli uffici e l’autonomia organizzativa sono dirette a garantire condizioni ottimali di efficienza.Con l’affidamento della rappresentanza legale all’ARAN si è cercato di superare l’argomento contrario alla privatizzazione di chi vede con sospetto lo svolgimento da parte degli apparati politici di contrattazione con una controparte come il sindacato che rappresenta milioni di persone aventi diritto al voto, dalle quali quindi può dipendere il successo o l’insuccesso elettorale dei componenti degli apparati politici.

Capitolo VI

Amministrazione delle funzioni ausiliarie

Sono funzioni finalizzate alla buona qualità sia delle attività finali sia di quelle strumentali, e principalmente sono la funzione consultiva e quella di controllo, svolte da apparati di rileivo costituzionale esterni alla PA.

Consulenza:

è un’attività diretta ad aiutare chi debba prendere una decisione a farlo nel modo migliore tenendo conto di tutti gli elementi rilevanti.

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L’amministrazione consultiva partecipa allo svolgimento dell’attività amministrativa che provvede alla cura degli interessi (c.d. amministrazione attiva) collaborando nella preparazione delle decisioni in modo che si tenga conto adeguatamente delle regole giuridiche e delle norme tecniche rilevanti e degli interessi che debbono avere particolare attenzioni.

Sono istituiti a tal fine apparati consultivi che esaminano progetti di decisioni amministrative e esprimono valutazioni circa la loro conformità a parametri ritenuti rilevanti.

Gli atti di questi apparati sono denominati pareri e si inseriscono nella fase preparatoria (c.d. istruttoria) del procedimento di decisione amministrativa.I pareri sono:- facoltativi;- obbligatori;- vincolanti;

obbligatorio è un parere che un’amministrzione deve chiedere; facoltativo è quello che l’amministrazione può, ma non è tenuta, richiedere; vincolante riguarda invece un profilo di effetti giuridici diversi.Quando l’amministrazione richiede e ottiene un parere non vincolante, può non uniformarsi a questo ma ha comunque il dovere di tenerne conto. La violazione di tale dovere si ripercuote sulla legittimità della decisione e determini sanzioni di responsabilità personale dei funzionari.Se l’amministrazione chiede e ottiene pareri vincolanti, la decisione non può discostarsi da questi si dice che la decisione deve essere su “parere conforme” di qualche apparato.La qualifica di vincolante può interpretarsi nel senso che il legislatore possa intendere una mera attività consultiva tra due organi oppure che, con la prescrizione del parere vincolante, si prevede che un apparato decida in accordo con un altro (opzione preferita).

Funzioni simili sono svolte dalle proposte, cioè suggerimenti o inviti riguardanti una decisione che i proponenti possono essere legittimati a fare ai decidenti.Le porposte però riguardano soltanto il contenuto di una decisione che il decidente è comunque tenuto a prendere e quindi sono analoghe ai pareri.

I pareri a cui l’ordinamento dà maggior rilievo sono quelli del Consiglio di Stato (c.d. voti).Sono previsti per l’emanazione di atti normativi del Governo e dei Ministri e per gli schemi generali dei contratti-tipo. Inoltre le amministrazioni statali e regionali possono chiedere al Consiglio di Stato pareri facoltativi su provvedimenti e su interpretazione di norme.

Anche un’amministrazione attiva può dare pareri ad un’altra, però esistono appositi apparati tecnici i quali svolgono appunto la c.d. amministrazione consultiva. Alcuni di questi apparati fanno parte delle stese amministrazioni cui appartengono gli organi che devono prendere le decisioni finali, altri invece sono autonomi e forniscono la loro consulenza a più amministrazioni: i primi si chiamano organi consultivi interni, i secondi organi consultivi esterni.

Il principale organo consultivo esterno è il Consiglio di Stato, che svolge funzioni consultive e giurisdizionali. La Cost. lo definisce come l’organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione ed ha competenza circa le controversie in cui è parte una PA.Il CdS deve essere indipendente di fronte al Governo (art. 100 Cost.): in origine i consiglieri di Stato erano scelti dal Governo, successivamente vi furono affiancati altri soggetti scelti per concorso. Ora metà dei consiglieri proviene dai magistrati dei TAR, cui si accede per concorso; un quarto vi accede direttamente per concorso, il restante quarto è nominato con DPR su delibera del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di presidenza dello stesso CdS.Quest’ultimo è un organo analogo al Consiglio superiore della magistratura, costituito da magistrati del Consiglio di Stato e dei TAR e da membri esterni nominati dal Parlamento.

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Attualemtne il CdS è costituito in 7 sezioni, tre delle quali svolgono funzioni giurisdizionali e 4 funzioni consultive. L’insieme delle sezioni compone l’Adunanza generale che svolge funzioni consultive e non va confusa con l’Adunanza plenaria, che è data dai componenti delle sole 3 sezioni giurisdizionali con relative funzioni.Il parere dell’Adunanza generale non può essere richiesto negli affari che possono formare oggetto di ricorso in sede giurisdizionale al CdS.

L’avvocatura dello Stato, a cui si accede mediante concorso, è costituita da avvocati ed ha funzioni consultive in materie giuridiche. Deve difendere in giudizio le amministrazioni dello Stato in tutte le circostanze in cui la difesa sia necessaria. Può dare anche pareri.

Numerose funzioni consultive e di proposta spettano poi all’e amministrazioni indipendenti sia nei confronti di Parlamento, Governo e Ministri.

Per quanto riguarda gli organi consultivi interni vi sono, in alcuni ministeri, i Consigli superiori: costituiti da tecnici delle materie interessate tra cui giuristi con una conoscenza specifica della legislazione di settore.Nei ministeri esistono anche i Consigli di amministrazione, che, seppur sembrino dal nome organi deliberativi, sono invece organi consultivi circa le questioni attinenti al personale e all’organizzazione.

Le Regioni si possono avvalere sia della funzione consultiva del Consiglio di Stato che dell’Avvocatura, ma hanno anche propri uffici legali e organismi consultivi per questioni giuridico-istituzionali e di altro genere. È poi frequente la presenza di organi consultivi composti da rappresentanti di interessi che si chiamano consulte.

Negli enti locali minori la funzione consultiva è prevista su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al Consiglio, ad opera del dirigente del servizio interessato e del responsabile della ragioneria. Inoltre il segretario comunale o provinciale partecipa alle riunioni della Giunta e del Consiglio con funzioni consultive.

Controllo:

il termine richiama un’attività di verifica di conformità o meno ad un parametro che può essere costituito da regole o da indirizzi o progetti.

Consulenza e controllo sono molto simili strutturalmente, ma si distinguono (bella frase del cazzo eh!?).In primo luogo la consulenza si rivolge ad un evento in corso di svolgimento, mentre il controllo ha per oggetto un evento già verificatosi. Ciò dipende dallo scopo delle due attività: la consulenza mira alla collaborazione nel prendere decisioni conformi a determinati canoni; il controllo ha lo scopo di trarre conseguenze dal fatto che le decisioni prese siano o no quelle desiderabili.I controlli, a cui l’ordinamento italiano ha dato meno attenzione rispetto alla consulenza, sono stato oggetto di recenti riforme. Si possono classificare controlli con riferimento alla circostanza che l’organismo che lo esercita appartenga o no alla stessa amministrazione dell’apparato la cui attività o i cui atti sono controllati, si parla di controlli interni o esterni.A seconda dell’oggetto il controllo può riguardare atti o un’attività complessiva, come avviene quando si controlla la gestione.Quest’ultimo termine può essere usato nel senso di insieme delle attività svolte per determinati obiettivi in attuazione di determinati indirizzi, o con riferimento alle attività di un apparato dirette alla realizzazione delle entrate e alla effettuazione delle spese previste nel bilancio.Si possono ricondurre controlli anche agli organi (controlli sugli organi) che riguardano il complesso delle attività di un organo dell’amministrazione e in conseguenza prendere provvedimenti. A seconda del parametro del controllo si può parlare di controllo di legittimità (il parametro sono norme), di regolarità contabile (il parametro sono le norme sulla contabilità), di funzionalità (il parametro sono i principi di efficacia, efficienza ed economicità), di merito (dove l’organo di controllo valuta l’opportunità delle decisioni e delle attività controllate).

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In relazione agli effetti esistono controlli nei quali il controllore, dopo aver proceduto alla verifica, formula una relazione (c.d. referto) ad altri apparati circa le conclusioni cui è giunto.La relazione è un atto il cui effetto giuridico immediato è quello di rendere noto il suo contenuto ai destinatari affinché ne tengano conto nelle successive attività.

In altri tipi di controllo è il controllore stesso che, se la conclusione della valutazione è negativa, prende un provvedimento (c.d. misura) circa l’oggetto del suo controllo. Si distinguono in questi casi controlli preventivi e controlli successivi: i primi sono svolti su un atto già esistente ma senza efficacia giuridica e hanno effetti impeditivi nel caso di esito negativo; i secondi hanno effetti repressivi, eliminando gli effetti dell’atto mediante annullamento di quest’ultimo, o effetti emendativi, facendo sorgere per l’autore dell’atto l’obbligo di prendere una nuova decisione alla luce delle conclusioni del controllo.

La forma di controllo più diffusa è quella della gestione dell’amministrazione. Con le riforme amministrative recenti si è accentuata l’attenzione all’amministrazione di risultato e si è generalizzata a tutte le PA una forma di controllo esterno delle gestioni che si aggiunge alle preesistenti.I controlli interni della gestione sono oggetto del d.lgs. 286/1999. La verifica e valutazione della gestione sono strumentali alle funzioni degli organi di Governo e degli uffici dirigenziali tecnico-burocratici e ne sono previste pertanto varie tipologie.Controlli strategici: hanno per oggetto l’attuazione delle scelte di indirizzo politico e consistono in un’attività di valutazione e controllo strategico che supporta l’attiivàt di programmazione strategica e di indirizzo politico amministrativo in particolare sono diretti a valutare l’adeguatezza delle scelte di attuazione in termini di congruenza tra risultati raggiunti e obiettivi perseguiti.Controlli di gestione: consistono nel verificare l’efficacia, efficienza e economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare il rapporto tra costi e risultati.

Entrambi i controlli si concludono con relazioni destinate agli organi di vertice dell’amministrazione, ai soggetti e agli organi di indirizzo politico amministrativo. Dagli esiti dei controlli dipende la c.d. responsabilità dirigenziale.

Gli apparati per il controllo interno della gestione delle amministrazioni dello Stato sono strutture che rispondono direttamente agli organi di indirizzo politico amministrativo, per quanto riguarda i controlli strategici e l’attività di valutazione. Mentre per il controllo di gestione gli apparati sono strutture e soggetti che rispondono ai dirigenti posti al vertice dell’unità organizzativa.

Oltre ai controlli descritti vi sono controlli di gestione svolti da un apparato esterno alle PA: la Corte dei Conti.La l. 800/1862 che ha dato vita alla Corte nel nuovo Regno di Italia, prevedeva la procedura di verifica del rendiconto dello Stato. Il controllo in questione consiste nella verifica della conformità degli atti implicanti entrate e spese rispetto alla legge di approvazione del bilancio dello Stato e alle norme sulla contabilità. A conclusione si pronuncia il giudizio di parificazione, che è il presupposto alla legge di approvazione del rendiconto.La Corte allega inoltre un referto che mette in rilievo i contrasti con le leggi di spesa e di irregolartià contabili e suggerisce variazioni e riforme.

Alla corte spetta anche il compito di esaminare la gestione finanziaria e il buon andamento dell’azione amministrativa degli enti locali con più di 8000 abitanti.

Inoltre esercita il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle PA nonché sulle gestioni fuori bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria.Tale controllo è successivo nel senso che non riguarda gli atti prima che acquistino efficacia. L’obiettivo è, oltre alla corretta gestione del pubblico denaro, la funzionalità dell’ammnistrazione nei suoi diversi aspetti. La verifica infatti riguarda la legittimità e regolarità delle gestioni. La Corte opera anche in base all’esito dei controlli interni di cui deve provvedere anche alla verifica. Gli esiti sono esposti dalla Corte al Parlamento e le relazioni sono inviate alle amministrazioni interessate.

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Vi è un parallelismo tra controlli esterni della gestione e controlli interni. Questi ultimi cooperano allo svolgimento delle funzioni attribuite agli organi di governo e quelli di direzione tecnico burocratici nelle PA; parallelamente quelli esterni svolti dalla Corte dei conti fornisce un supporto per il miglior svolgimento delle funzioni di indirizzo politico del Parlamento e delle altre assemblee elettive.

La Cost. stabilisce anche che la Corte dei conti controlli la gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce.La prima ipotesi è il controllo degli enti pubblici a cui lo Stato contribuisce con apporto al patrimonio: un magistrato contabile partecipa alle sedute degli organi di amministrazione e di revisione degli enti. Tra questi enti ci sono l’IRI e l’ENI.La seconda ipotesi è che si abbia a che fare con enti che ricevono dallo Stato da oltre un biennio contribuzioni per la gestione: tali enti devono inviare alla Corte il bilancio e la relazione del consiglio di amministrazione e dei revisori la Corte fa una relazione al Parlamento anche sul risultato di tali controlli.

La Corte dei Conti è costituita da 750 magistrati coadiuvati da circa 3000 dipendenti. La Cost. le attribuisce funzioni di controllo e giurisprudenziali in materie specifiche e richiede che la legge assicuri l’indipendenza sua e dei suoi componenti dal Governo.L’indipendenza dal Governo è relativa in quanto la nomina del Pres., seppur scelto tra i magistrati, è deliberato dal Cons. dei Ministri che può nominare fino al 50% dei magistrati.Un elemento problematico è l’adeguatezza della formazione professionale dei magistrati della Corte rispetto alle funzioni da svolgere: mentre le funzioni giurisdizionali e di controllo prevedono una formazione giuridica, lo svolgimento del controllo di funzionalità sulle gestioni amministrative prevede una formazione più prettamente economica. Ecco perché anche i laureati in materie economiche sono ben accetti nei concorsi di accesso alla corte.

I controlli dei singoli atti è stato la forma più diffusa nelle nostre PA, ma dopo la riforma del 2001 del Titolo V ci sono solo pochi atti statali controllati.Il controllo degli atti amministrativi locali aveva in origine lo scopo di impedire l’autonomia delle Regioni.Prima della Cost. l’ufficio amministrativo che rappresentava il Governo centrale nelle Province, cioè il prefetto, poteva esaminare tutti gli atti di Comuni e Province per impedirne l’efficacia. Un tale sistema non era compatibile con l’autonomia degli enti locali. Nel 1948 la Cost. proclamò tale autonomia ma non apportò modifiche al previgente sistema di controlli. La ratio di tale scelta fu che il controllo di legittimità può considerarsi compatibile con l’autonomia locale perché questa non può esprimersi in violazione di legge.Dopo l’attuazioen del sistema nuovo di controlli previsto dalla Cost. sono seguite nuove discipline dei controlli sia su atti regionali che degli enti locali. Il controllo degli atti amministrativi regionali di legittimità è stato limitato ai regolamenti e agli adempimenti di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’UE.

La legge 3/2001 ha abrogato l’art. 130 Cost e il 125 rispettivamente per gli atti amministrativi regionali e degli enti locali. Il nuovo 120 Cost. prevede un potere generale sostitutivo del Governo nei confronti di Regioni, Città metropolitane, Province, Comuni nel caso di mancato rispetto di tratta internazionali o normativa comunitaria.La corte cost. ha sancito però che a questo potere del Governo, le leggi statali possano attribuire potere sostitutivi ad organi dello Stato, Regioni ed enti locali.

I controlli degli atti delle amministrazioni statali ha come origine la preoccupazione dell’uso corretto del denaro pubblico, ciò portò alla previsione che le spese delle amministrazioni fossero controllate internamente e che le spese delle amministrazioni dello stato fossero controllate dalla Corte dei conti. Questo sistema si è evoluto sottoponendo al controllo preventivo di legittimità una quantità di atti spropositata ( ma una cosa proprio enorme da impazzire guarda!)Quindi ci fu una riforma e su di essi non ha influito la riforma costituzionale del 2001.

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Lo stesso d.lgs. 286/1999 prescrive che le PA si dotino di strumenti e di controllori per la regolarità amministrativa e contabile per garantire la legittimità e regolarità e correttezza dell’azione amministrativa.Non viene però data una disciplina nuova, ma si procede a rinvii a norme già esistenti e si prescrive che le verifiche devono essere portate secondo i principi di revisione aziendale. Dalla disciplina esistente risulta che gli atti amministrativi che portano obblighi di pagare somme a carico del bilancio dello Stato diventano giuridicamente efficaci solo dopo la registrazione dell’impegno di spesa.Il procedimento relativo è questo:gli atti sono comunicati, insieme alla loro adozione, all’Ufficio centrale del bilancio (UCB), entro 15 giorni dal ricevimento dell’atto. L’UCB registra l’impegno sotto la responsabilità del dirigente che lo ha emanato. Trascorso un breve termine dalla registrazione, i provvedimenti acquistano efficacia.In eccezione a ciò era previsto che se la spesa eccedeva la somma stanziata in bilancio o era da imputare ad un capitolo diverso da quello indicato, l’UCB non facesse luogo alla registrazone e restituisse l’atto motivandolo.

Gli UCB hanno una speciale posizione organizzativa tale che i loro controlli sono da considerare interni in modo particolare: infatti tali uffici esistono in ogni ministero e sono alle dipendenze della ragioneria generale dello Stato, che fa parte del ministero dell’economia che in tal modo si ramifica in ogni amministrazione statale.

A tale controllo si aggiunge quello preventivo di legittimità della Corte dei conti. Prima delle riforme della fine del XX secolo erano sottoposti a tale controllo tutti gli atti normativi del Governo; in seguito furono esclusi i decreti legge e legislativi; successivamente si è ridotto il numero degli atti. Adesso sono sottoposti a tale controllo, gli atti rilevanti per le finanze o il patrimonio pubblico; i decreti che approvano contratti attivi per le amministrazioni statali,; i provvedimenti di disposizione del demanio e del patrimonio immobiliare. Ci sono anche atti di indirizzo.

Tali atti divengono efficaci solo se l’ufficio competente della Corte (entro 30 giorni) non ne avrà rimesso l’esame alla sezione del controllo e se questa entro 30 giorni non abbia dichiarato che non sono conformi a leggi. In caso di esito negativo, l’atto conclusivo è la dichiarazione di non conformità alla legge, che impedisce l’acquisto dell’efficacia giuridica.Se l’esito è positivo seguono il visto e la registrazione dell’atto. Si può avere la c.d. registrazione con riserva di un atto che il ministro competente ritenga opportuno acquisti efficacia nonostante il parere negativo della Corte. In tal caso la Corte ha l’obbligo di procedere alla registrazione riferendone in Parlamento.

La differenza tra quanto previsto per i controlli di funzionalità della gestione amministrativa e quanto stabilità per i controlli degli atti è che: nel primo caso l’atto conclusivo è una relazione che ha destinatari diversi e consente di acquisire le conoscenze relative all’attività amministrativa svolta.I destinatari delle relazioni hanno il dovere di tenere conto di tali conoscenze per prendere le decisioni correttive e per comportarsi in modo adeguato in futuro.

I controlli degli atti sono preordinati ad avere effetti solo per gli atti oggetto del controllo. In caso di esito negativo, l’atto non sarà efficace.

Si ritiene che gli atti della Corte dei conti non siano impugnabili di fronte ai TAR, negando così l’esistenza di una posizione giuridica tutelabile di fronte all’esercizio del potere dell’organo di controllo. Ciò non significa che manca la tutela giurisdizionale poiché il fatto che il controllo di legittimità di un atto abbia dato esito positivo non esclude che tale atto possa essere ritenuto illegittimo da un giudice e viceversa.

PARTE TERZA

Nozioni generali e disciplina dell’organizzazione

Capitolo7

Nozioni giuridico-organizzative

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Apparati amministrativi

Col termine apparato si indica un aggregato di diversi elementi, persone e mezzi materiali, che formano un insieme individualizzato e identificato in relazione ad un obiettivo da perseguire o ad uno o più compiti da svolgere. A questa definizione generale di apparato dobbiamo aggiungere gli elementi basilari dell’apparato amministrativo:

1. le persone;2. le cose;3. i compiti.

Le cose sono utilizzate dalle persone che vi operano, per svolgere determinati compiti. L’organizzazione amministrativa in senso ampio è il complesso di numerosi apparati (ossia le diverse specifiche organizzazioni) che svolgono funzioni (cioè ,insiemi di compiti) definibili come amministrative. A loro volta, all’interno delle amministrazioni pubbliche, si può differenziare tra apparati amministrativi che svolgono funzioni legislative o di governo e quelle che svolgono funzione giurisdizionale. Analizziamo ora le tipologie di apparati amministrativi e le loro relazioni reciproche, nonché il potere di istituirli e disciplinarli.

Apparati e rapporti intersoggettivi. Uffici-organi e uffici-interni

I concetti di apparato e organo acquistano rilievo nei rapporti intersoggettivi all’interno dell’ordinamento. Alle organizzazioni che possiedono una soggettività è dato il nome di “enti”. Avere soggettività giuridica significa innanzitutto possedere la capacità giuridica ovvero l’idoneità ad essere titolari di posizioni giuridiche, ma tale capacità sarebbe inutile se l’ente non avesse anche la capacità d’agire ovvero la capacità di trasferire, estinguere, creare posizioni giuridiche con altri soggetti.Perché un apparato possa avere la possibilità di effettuare queste relazioni intersoggettive, è necessaria la presenza di organi ovvero di uffici mediante la cui attività, un apparato complesso di cui essi sono parte, dotato di personalità giuridica, può entrare in rapporto con altri soggetti giuridici. Tra l’organo e l’ente cui esso appartiene vi è la cosiddetta “immedesimazione” mediante la quale gli atti compiuti dall’organo sono da considerarsi compiuti dall’ente. Gli atti di questi organi sono gli atti esterni. È inoltre necessario precisare che vi è differenza tra “rapporto organico” e rappresentanza” in quanto in quest’ultimo caso il rappresentante, agendo in nome e per conto del rappresentato come avviene nel rapporto organico, mantiene comunque la sua individualità e non vi è un’immedesimazione (infatti possono sorgere dei conflitti).Non tutti gli uffici di un’organizzazione possono metterla in relazione con altri soggetti. Gli uffici che possono farlo sono gli uffici-organi mentre gli altri sono gli uffici interni che si pongono in relazione con diversi uffici interni nel rapporto interorganico (gli atti di questi uffici sono detti atti interni).

Gli organi sono dotati della capacità d’agire che fa sì che la capacità giuridica dell’ente sia utile; ma è altrettanto fondamentale soffermarsi sui requisiti che uno persona fisica che vi lavora deve avere per poter svolgere i propri compiti; tali requisiti sono, la volontà e l’intelligenza e caratterizzano la persona del funzionario come titolare dell’ufficio-organo.

Ma qual è la ragione per cui a certe persona possono essere imposte determinate mansioni? C’è una teoria che afferma che esiste un duplice rapporto tra l’amministrazione e la persona fisica:

1. rapporto d’ufficio2. rapporto di servizio di lavoro

Secondo questa teoria una persona può trovarsi in un particolare rapporto con un’amministrazione, tale che ne derivi per lui il diritto ed il dovere di esercitare certe competenze (rapporto d’ufficio), se e in quanto esista tra la persona e l’amministrazione pubblica un obbligo che ha ad oggetto lo svolgimento delle attività necessarie per l’esercizio di quelle competenze o di quei compiti (rapporto di

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servizio o di lavoro). Il rapporto di servizio quindi è la condizione necessaria a che il soggetto possa svolgere il suo rapporto d’ufficio.Il rapporto di lavoro è solo uno dei numerosi rapporti di servizio “volontari” che si contrappongono a quelli “obbligatori o coattivi”. I primi possono essere anche rapporti di tipo professionale (es. dirigenti) o anche rapporti di servizio “onorario”. Questi sono caratterizzati da un elezione da parte degli organi politici e danno vita alla figura del funzionario onorario (es. amministratori degli enti pubblici). Prima questi rapporti non erano pagati ora sì così che essi sono molto simili al rapporto di lavoro senza però l’elemento della subordinazione.Il rapporto d’ufficio ha origine da un atto dell’amministrazione con il quale si indica ad una certa persona fisica lo specifico ufficio in cui dovrà operare. Entrambi i rapporti (ufficio e servizio) sono regolati dal diritto privato.

Normalmente il titolare di un ufficio-organo è una sola persona ma è possibile che la titolarità sia attribuita ad un collegio; questi hanno tutto un complesso di regole che stabiliscono modalità di convocazione e di esternazione dell’opinione; particolarmente importati sono le regole che stabiliscono i quorum strutturali e i quorum funzionali.È possibile che un ente sia in realtà un organo(ente-organo) o viceversa (organo-ente), come è possibile che un organo sia tale rispetto ad un altro organo (es. presidente del cda).

L’insieme dei compiti assegnati ad un apparato amministrativo è detta competenza; in generale la competenza specifica non solo la materia che è di pertinenza dell’apparato, ma anche il territorio oltre i cui confini non possono essere esercitati i poteri (la circoscrizione). Alcune volte è possibile che la competenza spetti non solo ad un organo, ma anche ad uno sovraordinato al primo così che risulta necessario specificare il “grado” dell’ufficio.Ci si chiede se sia possibile la “delega amministrativa” ovvero il caso in cui un ufficio deleghi ad un altro i poteri-doveri di propria competenza. La risposta è negativa in quanto ciò può avvenire solo nei casi previsti dalla fonte che attribuisce all’ufficio la competenza. Diversi dalla delega amministrativa sono invece la reggenza la supplenza e la surrogazione che sono tutti i casi di sostituzione temporanea del titolare che non può adempiere ai suoi doveri.

Capitolo 8

La disciplina del potere di organizzare

A nulla servirebbe il potere di agire senza il potere di organizzare gli apparati amministrativi da parte dei vari enti.La riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione ha stabilito che lo Stato ha competenza legislativa esclusiva in materia di “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”. Poiché questa potestà legislativa sarà relativa ai propri apparati amministrativi e non alle proprie funzioni amministrative, tale potere si riferirà alle funzioni solo a condizione che lo permettano i criteri di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.Quanto alle Regioni la loro competenza legislativa riguarda gli apparati che esercitano le funzioni amministrative attribuite alle Regioni sempre in applicazione ai suddetti criteri. A livello regionale molta importanza hanno anche gli statuti .Quanto agli enti locali, bisogna innanzitutto dire che essi non hanno potestà legislativa, tuttavia il nuovo testo costituzionale prevede che attraverso i loro statuti e regolamenti essi possano esercitare un potere organizzativo. È ovvio che questo potere di organizzare dovrà effettuarsi nell’ambito della legislazione di Stato e Regioni.La disciplina costituzionale, servendosi dei principi di imparzialità e buon andamento (che tu mi devi aver sviscerato) pone per così dire dei limiti al potere di organizzare (art. 97 Cost.). La Costituzione afferma anche il principio di tipicità in relazione al potere di organizzare ma occorre puntualizzare che esso si riferisce ai soli provvedimenti che hanno l’effetto di limitare la libertà personale e non gli atti in

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generale. Inoltre quando l’art. 97 Cost. afferma che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge”, affermando così una riserva di legge in questo ambito, tale riserva è da intendere come facoltà del Parlamento di attribuire agli organi di governo la disciplina dell’organizzazione negando così una riserva di regolamento ma ciò non significa che sia il Parlamento a legiferare sull’organizzazione. Il Parlamento non potrà perciò utilizzare senza limiti il suo potere (pretendendo ad esempio di regolare esso stesso l’organizzazione) in quanto il principio di buon andamento, sancito dalla Costituzione, non può essere garantito se per ogni modifica organizzativa è necessaria una legge.L’art. 95. 3 Cost. afferma che la legge “determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri”. Ciò può essere visto come una contraddizione dell’art. 97 in quanto organizzare i ministeri è un potere di organizzazione che va oltre le competenze del Parlamento. Occorre perciò specificare (come mai ste contraddizioni tra norme toccano sempre a me) che le due norme hanno due oggetti diversi: l’art. 95 non considera tutti gli apparati amministrativi dei ministeri ma soltanto quelli preposti all’elaborazione dell’indirizzo politico-amministrativo . L’art. 123 Cost. attribuisce agli statuti la competenza a determinare “la forma di Governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento”. Per quanto questa potestà statutaria debba essere esercitata in armonia con la Costituzione, essa non può essere limitata dall’art. 97 altrimenti verrebbe contraddetto l’intento costituzionale di lasciare alle Regioni piena libertà nella scelta delle proprie forme di governo e di organizzazione.

Capitolo 9

Forme e relazioni organizzative

Enti pubblici e enti privati

Non è sempre facile stabilire se un certo apparato è da qualificare come un’amministrazione soggetta al diritto pubblico o privato. Questa diversificazione è importante per due motivi: in primo luogo, tale qualificazione di apparato pubblico è rilevante per applicare a quell’ente l’insieme di norme relative al diritto amministrativo (TULPA e altre leggi); in secondo luogo definire pubblica un amministrazione significa farla dipendere dalla legge che gli attribuisce un determinato potere. Questo significa che la legge può modificare o estinguere questi apparati cosa che non avviene per le organizzazioni che vivono per la volontà dei privatiSi è appena visto che all’origine di un ente pubblico non può che stare la legge, il che potrebbe farci concludere su una certa semplicità nella diversificazione tra ente pubblico e ente privato. Talvolta però la legge non dichiara espressamente pubblico un ente ma la pubblicità è deducibile dagli indici di pubblicità di quest’ultima; essi sono sostanzialmente talune relazioni organizzative che questi enti hanno con apparati politici.

Enti pubblici economici

Quanto finora detto non vale per questi enti, che esercitano un’attività d’impresa commerciale e che sono quindi retti pressoché esclusivamente dal diritto comune delle imprese salvo la loro sottoposizione alla liquidazione coatta amministrativa e non al fallimento. Essi risultano sottoposti al diritto amministrativo solo per gli atti riguardanti le relazioni con gli apparati politici. La loro gestione è però sottoposta alla Corte dei Conti. Ciò dimostra che non c’è una necessaria corrispondenza tra pubblicità in senso strutturale di un ente e regime di diritto amministrativo della sua attività.Varie leggi hanno previsto la possibilità, da parte di questi enti pubblici, di effettuare delle “privatizzazioni”; ciò innanzitutto in senso giuridico ovvero

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sottoponendo questi enti al diritto privato, ma anche in senso economico ovvero cedendo ai privati le imprese in questione tramite la tecnica della dismissione. Il risultato che si vuole conseguire è sottrarre al regime amministrativo tutti gli atti di questo ente.Non sempre però queste privatizzazioni sono state ritenute ammissibili dalla Corte Costituzionale e dal diritto comunitario. Secondo il primo profilo la Corte ha sancito che qualora vi sia una privatizzazione soltanto formale, continua a valere la regola del concorso per l’assunzione del personale e ha ammesso il controllo della Corte dei Conti per le società per azioni a prevalente partecipazione statale. Dal punto di vista comunitario si è elaborata la definizione di organismo di diritto pubblico “ che fa sì che molte società di questo tipo vi rientrino e siano tenute ad utilizzare le procedure concorsuale per la scelta dei contraenti negli appalti pubblici. Secondo questa definizione è organismo di diritto pubblico un ente, che sia in relazione di sostanziale strumentalità con un apparato pubblico, anche se realizzata mediante l’uso di poteri di diritto privato e anche se soltanto indiretta. Inoltre la definizione è tesa a garantire la concorrenza nell’ambito comunitario e afferma così, seppur in via interpretativa, che l’ente deve agire in un regime non di concorrenza.

Gli enti pubblici, dato che hanno, oltre a capacità di diritto pubblico, capacità di diritto privato, possono costituire, con atti unilaterali o con contratti, enti privati, divenendone quindi fondatori o soci?Dal diritto privato non proviene alcun limite se non quello che impone che la forma organizzativa sia compatibile con l’attività da svolgere. I limiti di diritto pubblico sono:

- innanzitutto l’organismo che si viene a creare non può svolgere le attività che costituiscono il nucleo essenziale della propria funzione istituzionale in quanto ciò rappresenterebbe una violazione del diritto amministrativo che vuole che agli enti pubblici siano attribuite le funzioni tramite legge e se essi potessero poi trasferire il tutto ad un organo privato questo rappresenterebbe una violazione grave: non si può privatizzare ciò che la legge voleva fosse pubblico.

- In secondo luogo è necessario che lo scopo rientri nell’ambito comunque delle competenze dell’ente.

- È inoltre inammissibile che questi organismi di diritto privato siano costituiti a solo scopo di lucro.

- Infine la forma organizzativa deve escludere la responsabilità illimitata dell’ente pubblico, per adempiere all’obbligo che gli enti pubblici indichino le loro spese nei bilanci preventivi, cosa che non potrebbe avvenire se la responsabilità illimitata fosse permessa.

Bisogna considerare l’ipotesi di enti pubblici risultanti dalla pubblicizzazione di soggetti privati: per quanto riguarda le attività economiche sappiamo già che la Costituzione consente la nazionalizzazione delle imprese private, sempre che si tenga conto dei limiti derivanti dal diritto comunitario (vedi prima).Quanto alle attività non economiche ne abbiamo già parlato al capitolo quattro; esse trovano il limite delle libertà private non economiche delle quali si è parlato trattando dei servizi pubblici non economici. È per questo che fu dichiarata costituzionalmente illegittima la c.d. legge Crispi che nazionalizzò gli istituti di assistenza e beneficenza (IPAB).È prevista invece l’applicazione del diritto amministrativo ad alcuni atti di soggetti privati inerenti ad attività che ricevono cospicui finanziamenti pubblici (lavori di edilizia per ospedali, scuole ecc…).Può anche accadere che sia affidato ai privati lo svolgimento di attività che potrebbero concludersi con atti autoritativi rispondenti quindi a specifiche funzioni amministrative; a simili attività e senz’altro applicabile il diritto amministrativo e la loro tutela sia affidata al giudice amministrativo.

Dobbiamo infine fare alcune considerazioni su quanto detto in precedenza: per quanto riguarda quei soggetti privati che, avendo relazioni organizzative con apparati politici, sono considerati soggetti pubblici (vedi indici di pubblicità); fermo restando che la loro attività finale, in quanto svolta con atti di diritto privato non pone problemi di legalità-garanzia, resta da vedere se:

1. il rispetto del principio della legalità-indirizzo esiga l’applicazione del diritto amministrativo;

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2. se tale regime sia richiesto anche per il buon andamento e l’imparzialità.

Rispetto al primo punto la risposta è negativa, dato che attraverso le regole organizzative di un organismo in forma privata si può ottenere lo stesso risultato. Quanto al secondo punto, dato che organismi del genere non operano nel rispetto della concorrenza si impone che il regime amministrativo sia applicato per alcuni atti come ad esempio la scelta dei contraenti.

Modelli e relazioni strutturali

Strumentalità→ quello della strumentalità è il modello intermedio tra quello della gerarchia e quello della indipendenza e della autonomia amministrative. Essa riguarda in genere la relazione tra apparati amministrativi e apparati politici nel senso che i primi sono strumentali ai secondi. Siamo in pratica nella situazione in cui un apparato è sovraordinato rispetto ad una altro;

1. l’apparato sovraordinato può rivolgere all’altro direttive o atti di indirizzo;2. può nominare o revocare i titolari degli organi dell’apparato strumentale;3. può provvedere ai suoi finanziamenti (potere della borsa);4. può approvare gli atti programmatori dell’ente strumentale, con particolare

rilievo per quelli finanziari;5. può effettuare un commissariamento dell’organo in caso di cattivo funzionamento,

sostituendo gli organi ordinari con uno straordinario (il commissario).

Gerarchia→ è la relazione strutturale dotata di maggiore intensità di subordinazione. Il “superiore gerarchico ha una vasta gamma di poteri”:

a) può impartire ordini, cioè comandi puntuali e concreti;b) dare istruzioni ovvero comandi in termini più generali;c) può controllare gli atti dell’inferiore e può modificarli o annullarli;d) può essere richiesto passivamente di annullare alcuni atti dai privati

interessati mediante il ricorso gerarchico;e) può sottrarre all’inferiore le competenze originariamente attribuitegli

(avocazione) provvedendo esso stesso, o riservandosi di provvedere (riserva), oppure nell’esercitare o far esercitare competenze che l’inferiore ha mancato di esercitare (sostituzione).

È facile comprendere come questo modello possa essere incompatibile con certi tipi di apparati:

- innanzitutto tra apparati dotati di soggettività giuridica;- tra organi collegiali;

In definitiva tale rapporto può esserci tra uffici di una medesima persona giuridica.

Indipendenza e autonomia amministrative→ è all’estremo opposto del modello gerarchico. Si ricorre a tale modello quando si è in presenza di indirizzi politici basilari, rintracciabili anche in Costituzione. Essa non è da confondere con quella usata nel rapporto tra pubblici poteri (es. autonomia degli enti locali); l’autonomia di cui parliamo ha alla base presupposti diversi: qui l’attività è svolta non da organismi burocratici ma da organismi costituiti da comunità i cui componenti svolgono un’attività personale connotata non solo da una particolare specificità tecnica ma anche dall’esigenza di libertà nel suo esercizio. Per realizzare questa libertà a queste comunità è concesso di stabilire (mediante gli “statuti di autonomia”):

a) le forme degli apparati organizzativi cui appartengono→ autonomia organizzativa;b) nominare i titolari degli organi→ autogoverno.

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Esempio lampante di questa forma sono le Università nelle quali si cura l’interesse costituzionale di realizzare il diritto dei capaci e meritevoli di “raggiungere i gradi più alti degli studi”. Interesse che viene perseguito conferendo autonomia alle Università.

PARTE QUARTA

Nozioni generali e disciplina Dell’attività

Capitolo10

Attività discrezionali e attività vincolate

La discrezionalità come concetto centrale del diritto amministrativo moderno

Il concetto di discrezionalità è l’elemento che maggiormente caratterizza l’amministrazione pubblica moderna. La sue centralità risulta sia da argomenti storico-tecnici, che da argomentazioni storico-sociali.Dal punto di vista tecnico bisogna ricordare che il potere autoritario è il connotato esclusivo della funzione amministrativa, anche se in comune con altri rami dell’ordinamento mentre la discrezionalità è legata peculiarmente alla funzione amministrativa.Quanto agli aspetti storico-sociali, nel XIX secolo l’elemento dell’autoritarietà costituiva l’elemento prevalente dell’amministrazione e si poneva a garanzia della proprietà dei privati (Stato gendarme). Nel XX secolo si è assistito invece all’espandersi del c.d. provident State con l’aumento dello spazio riservato all’attività non autoritaria con la messa a disposizione dei cittadini di prestazioni che essi altrimenti non potrebbero avere (Stato interventore). La tendenza attuale è invece quella di ridurre il ruolo dello Stato, soprattutto negli interventi sull’economia; il proliferare di amministrazioni indipendenti è il segno della riespansione della funzione di regolazione (Stato regolatore). La caratteristica più pregnante di questa epoca è comunque lo sviluppo della tecnica accompagnato da un sempre più elevato grado di incertezza circa la stabilità dei suoi risultati, con accentuazione conseguente dei problemi sociali.

La discrezionalità è la possibilità di fare scelte da parte di qualunque soggetto che incidano sugli interessi di quest’ultimo; la discrezionalità ha quindi una rilevanza dal punto di vista degli interessi che da questa discrezionalità sono toccati e non sul piano giuridico degli effetti.

La discrezionalità come caratteristica di una funzione strumentale. Diversità dalla sovranità e dall’autonomia privata

Il potere di decidere, di fare scelte richiama l’idea di libertà, ma quando si parla di Stato può venire in mente l’idea di “sovranità”come entità al di sopra della legge; questa è però una concezione superata dalle Costituzioni moderne in cui vi è un’accettazione della limitazione della sovranità (art. 11 Cost.). Resta da vedere se sia possibile parlare di una sovranità dello Stato nei confronti dei cittadini; questo non è oggi affermabile grazie al fatto che lo Stato non è più legibus solutus, ma è sottoposto anch’esso alle legge e alla sua sovranità. Gli istituti e i principi del diritto amministrativo servono appunto ad imporre il diritto anche allo Stato-amministrazione, la cui libertà di prendere decisioni non è illimitata ma è sottoposta al controllo dei giudici e a delle regole. Tuttavia ci sono degli atti che non sono sottoposti al sindacato del giudice; l’art. 31 TUCS afferma che “il ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale non è ammesso se trattasi di atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”. Che cosa dobbiamo intendere per atto politico?Un atto che corrisponde all’esercizio di un potere libero di scegliere l’obiettivo che si vuole perseguire (→massimo grado di libertà). All’inizio veniva considerata la legge un atto in questo senso, ma essa è pur sempre sottoposta al sindacato della Corte Costituzionale; gli atti propriamente politici sono:

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1. atti del corpo elettorale (elezioni referendum che non possono essere sindacati, anche se il referendum è sottoposto al sindacato di ammissibilità);

2. certi atti del Presidente della Repubblica (scioglimento Camere, nomina Ministri);

3. certi atti del Governo che attengono ai rapporti con gli altri Stati.

Vi sono poi gli atti di alta amministrazione che hanno invece contenuto di indirizzo politico sub-legislativo (es. direttive). Il sindacato di legittimità di questi atti è notevolmente ristretto rispetto agli atti amministrativi concreti. Questi atti, sono quelli di competenza del Presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio dei Ministri e del Ministro competente. Essi si differenziano da quelli politici che invece sono sottratti a qualsiasi tipo di sindacato in quanto sono giustificati per il solo fatto di essere politici anche se possono apparire arbitrari.

Vediamo ora le differenze che intercorrono tra la discrezionalità e l’autonomia privata; il privato è libero, purché non violi la legge, di scegliersi i propri interessi ed agire di conseguenza, grazie anche all’ordinamento che gli consente di usare sia strumenti giuridici tipizzati, sia di farsene di nuovi. Questa sfera di libertà è detta autonomia privata. La discrezionalità amministrativa si differenzia principalmente per il fatto che gli interessi perseguiti non possono essere liberamente scelti ma debbono corrispondere con quelli dei cittadini. È quanto discende dal principio di legalità-indirizzo (cap. 2)→ “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”.Tuttavia esistono anche delle somiglianze tra discrezionalità amministrativa e autonomia privata: essa risiede sostanzialmente nella possibilità di entrambe, di ricorrere a strumenti giuridici non tipizzati nel momento in cui vanno a concludere i contratti potendo immettere sia clausole non previste, sia configurando nuovi tipi contrattuali.

Diversi tipi di discrezionalità

Tradizionalmente la discrezionalità era descritta come la possibilità di scegliere i mezzi per raggiungere fini etero-determinati; essa poteva consistere nel decidere se, quando e in che modo agire. Sono stati individuati però diversi tipi di discrezionalità; ciò serve per rendersi conto quando si è davvero in presenza di un attività discrezionale piuttosto che di un attività vincolata dato che sotto il profilo pratico questi tipi risultano spesso compresenti.

1. Discrezionalità politico amministrativa : proviene dalla presenza di atti non legislativi, definiti “di indirizzo” che indicano le finalità da raggiungere con atti concreti; tali atti sono assoggettati al regime amministrativo e consistono nella ponderazione dei vari interessi in gioco rispetto all’oggetto della decisione (sia pubblici che privati). Ciò che ci fa affermare che si tratta di un potere non solo politico, ma politico-amministrativo, è il fatto che la scelta avviene nel rispetto delle scelte fatte a livelli superiori con le quali sono stati definiti i c.d. interessi pubblici primari.

2. Discrezionalità tecnica : avviene quando occorre fare delle scelte per dare soluzione ad una questione sulla base di regole o criteri tecnico-scientifici in mancanza di un consenso universale della comunità di riferimento scientifica (medici, ingegneri). È essenziale quindi l’esistenza di un’ incertezza tecnico-scientifica che si ha quando nella pertinente comunità scientifica, vengono ritenute plausibili opinioni diverse. Queste scelte hanno un incidenza sugli interessi (somiglianza con il precedente tipo) solo che non sono fatte ponderando i diversi interessi ma soltanto in vista della soluzione tecnicamente preferibile (differenza con il precedente tipo).

3. Discrezionalità organizzativa : è quelle insieme di scelte che attengono non alle attività amministrative finali ma a quelle organizzative e che risultano notevolmente evidenziate dalla riserva di competenze a favore dei dirigenti effettuata dal TULPA. Si tratta di scelte che debbono essere fatte per poter effettivamente conseguire gli obiettivi che l’amministrazione deve realizzare. Esse non incidono sugli interessi che riguardano le attività amministrative finali; esse riguardano altri interessi, quelli dei terzi che possono avere vantaggi o svantaggi dalle attività strumentali dell’amministrazione.

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Attività vincolata

Non qualsiasi attività dell’amministrazione può dirsi discrezionale, in quanto ci sono dei casi, previsti dalla legge, in cui l’amministrazione non ha margine di manovra. È per questo che è necessario vedere qual è il quadro dei rapporti tra legge e attività amministrativa. Esistono quattro interessantissime ipotesi di rapporto:

1. legge-fatto da accertare-atto amministrativo vincolato: la legge potrebbe prevedere che, al verificarsi di un fatto, la cui esistenza è accertabile in modo univoco, un’amministrazione sia tenuta ad emanare un atto amministrativo il cui contenuto ed i cui effetti sono determinati direttamente dalla legge.

2. legge-fatto da accertare-atto amministrativo discrezionale:la legge potrebbe prevedere che al verificarsi di un fatto, la cui esistenza è accertabile in modo univoco, un’amministrazione abbia il potere di fare scelte tra interessi mediante un atto amministrativo che produce determinati effetti giuridici.

3. legge-fatto da valutare-atto amministrativo vincolato: la legge potrebbe prevedere che al verificarsi di un fatto la cui esistenza non può essere il risultato di un semplice accertamento ma richiede una valutazione dall’esito non univoco, l’amministrazione sia tenuta ad emanare un atto amministrativo i cui effetti e il cui contenuto sono determinati dalla legge stessa (es. deve può essere chiamata a valutare sulla pericolosità di una determinata manifestazione pubblica e in caso di esito positivo della valutazione, impedirla).

4. legge-fatto da valutare-atto amministrativo discrezionale: uguale all’ipotesi precedente solo che in questo caso l’amministrazione ha il potere di valutare i diversi interessi in gioco. (es. stesso caso della manifestazione ma con legge che impone di prendere “gli opportuni provvedimenti”).

Per poi affermare che determinati poteri appartengono all’amministrazione pubblica bisogna chiedersi se il giudice può o non può sostituire la propria decisione a quella dell’amministrazione. Nel secondo caso e solo in quello si sarà in presenza di un potere esclusivo e riservato dell’amministrazione.Siamo certamente in presenza di poteri esclusivi dell’amministrazione , quando si tratta di esercizio della discrezionalità amministrativa in quanto si ritiene che il giudice semmai possa sindacare sui principi e le regole di produzione, ma non potrà mai effettuare una scelta tra interessi.Le certezze diminuiscono se siamo in presenza della discrezionalità tecnica, ovvero se le scelte riguardano opzioni tecniche incerte; anche in questo caso però si parte dal presupposto che, per prima cosa, le risorse tecniche a disposizione dell’amministrazione sono molto più ampie di quelle del giudice e, seconda cosa che vi sia un più stretto legame dell’amministrazione con i cittadini. Questi due presupposti ci fanno pensare anche qui ad un potere esclusivo dell’amministrazione.Resta ora da valutare le ipotesi in cui la decisione dell’amministrazione provenga da un operazione valutativa del fatto (numeri 3 e 4); anche qui dobbiamo fare le stesse valutazioni di cui sopra ovvero dobbiamo dire che l’amministrazione è in possesso di strumenti più appropriati del giudice per eseguire certe valutazioni fattuali.È invece ammesso l’intervento sostitutivo del giudice nei casi (numeri 1 e 3) in cui l’esistenza della fattispecie-presupposto non esige valutazioni discrezionali ma richiede di essere semplicemente accertata. In tal caso non siamo di fronte ad un potere esclusivo dell’amministrazione e quindi il giudice se accerta l’assenza del presupposto può negare l’esistenza di un potere decisionale dell’amministrazione. Per quanto riguarda il caso 1 anche qui il giudice può imporre l’emanazione all’amministrazione al verificarsi di un determinato presupposto e perciò non si tratta di un potere esclusivo dell’amministrazione.

Capitolo 11

Principi e regole dell’attività amministrativa

Limiti nell’ambito delle decisioni discrezionali

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Da quanto si è detto del principio di legalità (cap. 1), discende che l’attività discrezionale dell’amministrazione ha come limite ciò che dispone la legge e le norme generali di diritto.Innanzitutto viene affermato il principio, di origine romana, del neminem laedere, che esclude la liceità di qualsiasi azione che arrechi un danno alla persona o al suo patrimonio, se non è autorizzata dalla legge (ex 2043 c.c.).In secondo luogo deve essere ricordata anche quella limitazione che incide sulle scelte operabili derivante dalla necessità che sia rispettato il principio del legittimo affidamento secondo il quale le amministrazioni debbono tenere conto delle aspettative che i cittadini in buona fede possono legittimamente maturare circa la stabilità di precedenti decisioni.

L’ambito delle possibili scelte discrezionali è delimitato anche da doveri positivi.In primo luogo, qualora risulti dall’ordinamento dei diritti a prestazioni da parte dell’amministrazione, le scelte discrezionali di quest’ultima devono essere indirizzate al raggiungimento dell’esercizio di questi diritti. Questa limitazione riguarda soprattutto la discrezionalità organizzativa in quanto essa consiste in scelte di mezzi per il raggiungimento di obiettivi dati.Qualora invece non emergano certi tipi di diritti sussiste comunque l’obbligo dell’amministrazione rappresentato dalla legalità-indirizzo, affermata dal testo del LPA→ “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”.

Modalità delle decisioni

Questi principi che abbiamo appena visto devono essere applicati tenendo conto anche di tutti gli altri principi che si identificano come propri dell’amministrazione pubblica.Innanzitutto abbiamo il principio di imparzialità che può essere visto da due punti di vista; dal punto di vista oggettivo esso assume le sembianze di un obbligo di imparzialità di colui che è chiamato a prendere decisioni; è necessario che egli non abbia interessi configgenti o coincidenti con la materia in cui è chiamato ad esercitare il suo potere discrezionale. Vi è poi un obbligo di astensione nel partecipare a votazioni o a discussioni riguardanti interessi propri o di parenti entro il quarto grado. Dal punto di vista soggettivo il principio di imparzialità assume i crismi della parità di trattamento ovvero dell’obbligo del dipendente dell’amministrazione, di accordare a tutti i cittadini le prestazioni che accorda ad una sola persona, senza discriminazioni. Visto così esso potrebbe apparire pleonastico data la presenza dell’art. 3 Cost. ; infatti a questo principio è attribuibile anche un ulteriore significato: l’imparzialità come obbligo di considerare e ponderare i vari interessi in gioco. Questa ponderazione è stata resa possibile mediante due differenti metodi:

1. partecipazione organica: quando le decisioni sono presi da organi collegiali di cui fanno parte tutte le categorie interessate. Questo metodo è stato criticato perché perde la sua autonomia nei confronti degli interessati.

2. partecipazione procedimentale: riguarda il procedimento di formazione della decisione e impone all’amministrazione, di tener conto dei punti di vista degli interessati. Essa assume sia una funzione di garanzia, perché favorisce il contraddittorio tra interessati e amministrazione, e una funzione “collaborativa” perché consente l’acquisizione di punti di vista utili a pervenire alla migliore individuazione dell’interesse pubblico in concreto.

Sul principio del buon andamento vedi il prossimo capitolo.

Il quadro è completato dal criterio della ragionevolezza; occorre aggiungere che questo criterio è utilizzato per meglio definire i rapporti tra imparzialità e buon andamento ed è l’applicazione di precetti, elaborati dalla giurisprudenza, la cui violazione rappresenta il sintomo dell’eccesso di potere. Può essere ricondotto alla ragionevolezza anche il principio di proporzionalità.

Principi e regole di trasparenza

Sono principi che riguardano tre ambiti:

1. pubblicità dell’attività amministrativa;2. accesso ai documenti amministrativi;3. motivazione delle decisioni.

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Per quanto concerne la pubblicità, l’art. 1 del LPA sancisce che, salvo possibili eccezioni a tutela della riservatezza, tutti gli atti dell’amministrazione comunale e provinciale sono pubblici. Il luogo della pubblicazione è la Gazzetta Ufficiale.

Il diritto di accesso, consiste invece nel diritto degli interessati di prendere visione dei documenti amministrativi, di esaminarli ed estrarne copia. Legittimati all’accesso sono “i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”. Questa disposizione appare più restrittiva di quella originaria che permetteva l’accesso a chiunque avesse interesse alla tutela di posizioni giuridicamente rilevanti. Ad ogni modo il legislatore del 2005 ha escluso il diritto di accesso se preordinato ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni, facendo così venire dei dubbi sulla legittimità costituzionale di questa disposizione dato l’intento di rendere trasparente l’operato delle pubbliche amministrazioni viene vessato da questa ultima previsione legislativa.L’oggetto dell’accesso sono i documenti amministrativi, che abbiano la forma di atti amministrativi (quindi anche non cartacei ma anche informatici, cinematografici ma soprattutto pornografici). Inoltre è sufficiente che questi atti riguardino attività di pubblico interesse a prescindere dalla natura privatistica o pubblicistica degli stessi.I soggetti tenuti a consentire l’accesso sono gli enti pubblici e i privati che svolgano un’attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto statale o comunitario. In questa ampia definizione sono da ricomprendere anche i gestori privati dei pubblici servizi.Il diritto all’accesso è escluso:

1. per i documenti coperti da segreto di Stato;2. per i documenti che siano espressione di atti amministrativi generali, di

pianificazione e di programmazione;3. documenti utilizzati in procedimenti di selezione del personale che contengano

informazioni di carattere psico-attitudinale.

È stabilito inoltra che l’accesso non può essere negato qualora sia sufficiente far ricorso al potere di differimento che permette appunto di differire la conoscenza del documento sino a quando essa non pregiudicherà lo svolgimento della funzione amministrativa; qualora tuttavia la conoscenza di questi documenti sia necessaria per la tutela dei propri interessi giuridici, esso deve comunque essere concesso ai richiedenti.Qualora l’interesse sia l’interesse alla riservatezza la legge detta un’apposita disciplina. Occorre però fare un accenno alla materia contenuta nel CPDP (protezione dei dati personali): per dato personale si intende “qualsiasi informazione relativa a persona fisica o giuridica, ente o associazione, identificati o identificabili , anche indirettamente”. Una sottospecie dei dati personali sono i dati sensibili che riguardano informazioni relative alla religione, alla razza, al sesso, alle visoni politiche dell’interessato. Altra sottospecie sono i dati giudiziari che invece riguardano la rilevanza penale di attività della persona interessata. Per “trattamento” si intende invece la diffusione e la comunicazione di questi dati. Si pone quindi il problema della compatibilità di questa normativa con quella che impone la pubblicazione degli atti amministrativi; il codice stabilisce che è ammessa la pubblicazione di dati personali diversi da quelli sensibili e giudiziari se prevista da legge o regolamento. Questi dati (giudiziari e sensibili) sono accedibili se si tratta di un rilevante interesse pubblico connesso alla loro conoscenza ma è tuttavia precisato che qualora questi dati riguardino la salute e la vita sessuale essi sono conoscibili se la situazione rilevante che si intende tutelare è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato.In caso di rifiuto o di differimento del diritto di accesso relativo ad atti di Comuni, Province e Regioni, l’interessato può chiedere al difensore civico territorialmente competente, il riesame della questione o alternativamente o successivamente può ottenere la tutela giurisdizionale del Tribunale amministrativo regionale. In caso invece di atti riguardanti le amministrazioni dello Stato, l’alternativa al ricorso giurisdizionale è quello alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi che è un organo collegiale, nominato dal Governo, presieduta da un sottosegretario e composta da 12 membri dei quali, due sono senatori, due sono deputati e due sono funzionari pubblici.

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La disciplina del diritto di accesso è di competenza esclusiva dello Stato per cui gli altri enti locali potranno solo accentuare l’aspetto di questo diritto, come strumento di trasparenza.

Al principio di trasparenza può ricondursi anche l’obbligo di motivazione che grava ogni atto amministrativo. Questo obbligo riguarda tutti gli atti ad eccezione di quelli che hanno un contenuto generale e la cui struttura quindi permette di comprendere il ragionamento che sta alla base anche senza l’elemento accessorio della motivazione. Per “motivazione” si deve intendere un’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato una decisione dell’amministrazione; è detta inoltre detta motivazione per relationem quella motivazione che concerne un atto che è collegato all’atto principale e di cui è necessario dunque fornire la motivazione. All’assenza di motivazione si può talvolta porre rimedio fornendola nel corso del giudizio. Infine l’obbligo di motivazione coinvolge anche le decisioni della Comunità Europea intendendo il termine “decisione” in senso atecnico in quanto anche le direttive e i regolamenti devono essere motivati.

Capitolo 12

Il procedimento amministrativo

Diversa rilevanza della disciplina giuridica del procedimento

Attraverso certe regole procedimentali, si persegue l’obiettivo dell’imparzialità, assicurando la partecipazione efficace degli interessati alle decisioni amministrative.Il procedimento amministrativo ha anche un rilievo dal punto di vista del buon andamento, nel senso che un procedimento svelto ed efficace può permettere all’amministrazione di pervenire agli obiettivi in un modo funzionale sia dal punto di vista della celerità, sia dal punto di vista della celerità del procedimento, sia dal punto di vista della sua economicità.Il procedimento ha anche una sua valenza dal punto di vista garantista; esso viene visto infatti come l’attuazione e il rafforzamento del principio della legalità garanzia. Si guarda allora al procedimento come fase che precede all’emanazione del provvedimento vincolante per gli interessi dei terzi; occorre quindi distinguere il “provvedimento”, da gli altri atti detti strumentali ad esso che vengono spesso chiamati integrativi dell’efficacia. È impossibile rivolgersi al giudice in mancanza di un provvedimento visto che gli atti interni o integrativi dell’efficacia non avrebbero effetto per i terzi.

Le fasi del procedimento

L’obiettivo della disciplina del procedimento è quello dell’unificazione dei vari elementi dell’organizzazione; questo obiettivo è possibile grazie all’operato dell’ufficio dirigenziale che, tramite un dirigente o un addetto, svolga il compito di “responsabile del procedimento” ovvero sia responsabile della istruttoria e di ogni altro adempimento, nonché dell’eventuale adozione del provvedimento finale. Questa responsabilità non deve essere intesa come competenza a svolgere ciascuna delle attività necessarie in quanto il responsabile ha solo un compito di coordinazione delle attività dei diversi uffici. Ad esso inoltre possono rivolgersi gli interessati per tutto quanto attiene al procedimento.

La fase dell’iniziativa e dell’istruttoria sono le sub-fasi della fase preparatoria. Quanto all’iniziativa, vi sono casi in cui l’amministrazione è obbligata a svolgere il procedimento ove venga presentata “istanza” in tal senso da determinati soggetti, normalmente privati (→procedimenti ad “istanza di parte”). I procedimenti possono però essere anche ad “iniziativa d’ufficio” cioè possono conseguire da un rapporto od un richiesta inviata da un ufficio ad un altro. In ogni caso l’ ”avvio” del procedimento deve essere comunicato dal responsabile agli interessati, a meno che non sussistano particolari esigenze di celerità nel procedimento. Se non sussistono queste esigenze la comunicazione deve essere data anche ai destinatari del procedimento e può essere personale oppure non personale se ciò non è possibile dato l’alto numero dei destinatari. Le modifiche apportate nel 2005 alla LPA hanno previsto che la mancata comunicazione non comporti l’annullamento della decisione definitiva. Queste norme non

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trovano applicazione nei procedimenti tributari e nelle attività dio pianificazione e programmazione della pubblica amministrazione.Una volta avviato il procedimento occorre svolgere l’istruttoria di cui è ancora protagonista il responsabile e consiste nell’accertamento delle condizioni soggettive e oggettive cui è condizionato il potere della pubblica amministrazione di prendere la decisione richiesta. Inoltre il responsabile deve acquisire una serie di documenti forniti dagli interessati e di eventuali pareri obbligatori che devono essere resi entro un determinato termine altrimenti si procede ugualmente (a meno che non si tratti di pareri di amministrazioni cui è attribuita la tutela ambientale, paesaggistica, della salute).La comunicazione dell’avvio del procedimento consente agli interessati di intervenire nel procedimento; i soggetti interventori hanno il diritto di prendere visione degli atti del procedimento e possono presentare memorie scritte all’amministrazione che ha l’obbligo di valutarle.Nei procedimenti ad istanza di parte, coloro che avevano richiesto il procedimento posso presentare per iscritto ulteriori osservazioni “prima della formale adozione del provvedimento negativo” e infatti a tal fine è previsto che prima di adottare il provvedimento negativo, l’organo ne dia comunicazione.Si ha una conferenza di servizi istruttoria quando in questa fase sono coinvolte più amministrazioni ed è a cura del responsabile che questa conferenza viene convocata.

Conclusa l’istruttoria si passa alla fase decisoria cioè al momento in cui l’amministrazione valuta tutti gli elementi emersi e prende una decisione. Il provvedimento finale sarà adottato dallo stesso responsabile s è lui stesso il titolare dell’organo competente a prendere la decisione (se è un dirigente dell’organo) altrimenti dovrà trasmettere gli atti all’organo competente.(vedi poi capitolo 13)La conclusione del procedimento non comporta che l’atto sia immediatamente efficace: può accadere che tale efficacia si subordinata a termini o a condizioni. Queste vicende prendono il nome di fasi integrative dell’efficacia:

1. vacatio legis : scadenza di un termine2. condizione legale di efficacia : pubblicazione3. comunicazione ai destinatari : quando tratta di provvedimenti aventi effetti

limitativi per la sfera giuridica dei privati la cui efficacia è subordinata alla comunicazione ad eccezioni dei provvedimenti urgenti e di quelli in cui è stata inserita una clausola che esime dall’obbligo di comunicazione che però debbono avere una motivazione più importante dell’urgenza.

4. Notificazione ; sempre a cura del responsabile.5. controllo preventivo di legittimità da parte dell’organo di controllo che ne

subordina l’efficacia. L’accertamento definitivo della legittimità o meno spetta al giudice in quanto l’esito positivo o negativo incide sull’efficacia.

Un provvedimento deve poi essere eseguito, e può consistere in adempimenti dovuti dai privati degli obblighi imposti o in un’attività amministrativa. È possibile sospendere l’efficacia del provvedimento per “gravi motivi”; la durata della sospensione deve essere pari al tempo strettamente necessario.

Ambito di applicazione della LPA

La LPA è una legge ordinaria che detta regole e principi generali. Pertanto se la sua disciplina è compatibile con disposizioni dettate da altre leggi può integrarle, in caso contrario (di incompatibilità) essa avrà effetto abrogativo tacito rispetto alle disposizioni preesistenti ma non potrà prevalere su leggi generali di settore anche se preesistenti e ovviamente su leggi successive.Essa inoltre può considerarsi attuativa di principi costituzionali e quindi parrebbe incostituzionale la sua abrogabilità mediante successione temporale: è per questo che una sentenza della Corte Costituzionale ha previsto che qualora la legge successiva non preveda garanzie procedimentali sarà illegittima ex art. 97 Cost. Quanto al rapporto con le leggi regionali la stessa disposizione dell’art. 29 precisa che queste garanzie procedimentali si applicano ai procedimenti amministrativi nell’ambito delle amministrazioni statali. La LPA vincola quindi le Regioni in quanto attuativa di principi costituzionali e quando fissa i livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali.

Capitolo 13

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Le conclusioni del procedimento

Le diverse possibili conclusioni del procedimento

La pubblica amministrazione “ha il dovere di concludere mediante l’adozione di un provvedimento espresso” qualsiasi procedimento che sia tenuta a svolgere. Tale provvedimento deve essere preso entro il termine stabilito dalla legge o determinato dai regolamenti del Governo o, in mancanza entro novanta giorni dall’inizio d’ufficio o dall’istanza di parte. Il termine può essere sospeso per non più di novanta giorni per l’acquisizione di valutazioni tecniche o di informazioni o certificazioni.Ma il procedimento può concludersi oltre che con un atto autonomo unilaterale dell’organo competente in vari altri modi;

- provvedimento emanato unilateralmente da un organo amministrativo, col consenso di altri organi, della stessa o di altre pubbliche amministrazioni;

- con un provvedimento unilaterale concordato tra gli interessati;- senza provvedimento (malgrado cioè il silenzio dell’amministrazione);- conclusione mediante sostituzione dei provvedimenti con una dichiarazione di un

privato.

La dichiarazione di inizio attività (d.i.a.) e il procedimento conseguente

L’inizio dell’attività può, in alcune ipotesi essere preceduto , invece che dal rilascio di un atto di autorizzazione, soltanto da una dichiarazione da parte dello stesso interessato circa la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. Decorsi trenta giorni dalla presentazione della dichiarazione all’amministrazione competente, l’interessato può iniziare l’attività oggetto della dichiarazione, dandone contestualmente comunicazione alla stessa amministrazione. Entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione da parte dell’interessato, l’amministrazione ove accerti delle carenze nelle condizioni oggettive e soggettive, adotta provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività, salvo che, ove sia possibile, l’interessato provveda a sanare le carenze entro un termine fissato dall’amministrazione.La legge stabilisce però che è nelle corde dell’amministrazione l’adottare strumenti di autotutela (revoca, annullamento) che le permettono di intervenire e bloccare il processo quando sono già decorsi i trenta giorni. Questa previsione ha destato delle perplessità circa l’utilità del termine se poi si può agire ugualmente dopo:in realtà tali provvedimenti possono essere presi a condizioni non richieste per gli atti di divieto di cui sopra e inoltre viene stabilito che deve essere data adeguata considerazione al legittimo affidamento sulla stabilità della d.i.a. che una volta scaduto il termine assume comunque rilevanza.

Conclusione tacita. Il “silenzio” dell’amministrazione Si è detto che il procedimento può concludersi anche se l’amministrazione non prende alcun provvedimento. Il silenzio dell’amministrazione può rilevare sotto diversi profili.

Innanzitutto dobbiamo dire che l’inerzia dell’amministrazione, appare come una disfunzione organizzativa a cui si deve porre un rimedio. Infatti è previsto che, scaduto il termine, sia possibile rivolgere istanza al dirigente generale o al Ministro (a seconda che il provvedimento sia di competenza di un dirigente o di un dirigente generale) perché provvedano a sostituire o a nominare un commissario ad acta. Inoltre si possono irrogare pene ai responsabili.Inoltre, nei casi di procedimenti ad istanza di parte, gli interessi lesi sono duplici: in primo luogo abbiamo l’interesse dei privati di ottenere un provvedimento amministrativo che li soddisfi e in secondo luogo essi hanno interesse a che il procedimento si concluda entro un termine certo. Se viene a mancare il provvedimento questi due interessi vengono lesi.

L’art. 20, LPA propone una soluzione disponendo che, al di fuori dei casi in cui si applica la d.i.a. se l’amministrazione non comunica nei termini previsti il diniego nei procedimenti ad istanza di parte il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda (silenzio-assenso). Esso viene quindi visto come un provvedimento positivo virtuale, sul quale è possibile quindi anche ricorrere per annullamento o per revoca qualora ve ne siano i presupposti. Le eccezioni a questa

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regola generale sono rappresentate dall’inerzia riguardante provvedimenti che hanno ad oggetto l’ambiente, la natura e il patrimonio culturale, la difesa nazionale, la difesa nazionale, l’immigrazione e i casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali.

Inoltre la regola generale del silenzio-assenso non opera nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione viene qualificato come rigetto dell’istanza (silenzio-rifiuto) da altre leggi oppure dai decreti del Presidente del Consiglio che la stessa legge sul procedimento autorizza ad emanare.

Sono infine da ricordare le ipotesi in cui la legge dà all’inerzia dell’amministrazione un significato né di assenso né di diniego ma piuttosto di circostanza che fa cessare la necessità giuridica di certi atti, disponendo in modo tale che il silenzio non costituisca impedimento alla conclusione di un procedimento o all’efficacia di un provvedimento (silenzio non impediente).

Da quanto sinora visto sembrerebbe che l’inerzia amministrativa non sia un problema così grave grazie alle regole sin qui viste. Tuttavia l’ampiezza delle eccezioni, all’applicabilità della d.i.a. e alla regola generale del silenzio-assenso fanno residuare delle ipotesi in cui il silenzio non ha una qualificazione giuridica di provvedimento espresso. La nuova disciplina vede questi casi come un silenzio-inadempimento impugnabile; al giudice viene dato il potere di provvedere, entro un breve termine, alla sostituzione dell’inadempiente con un commissario e di far rilasciare il provvedimento richiesto nei casi in cui non è necessario l’esercizio del potere discrezionale che come sappiamo è appannaggio della pubblica amministrazione.

Il silenzio come rigetto dei ricorsi amministrativi (vedi capitolo 15).

Conclusioni mediante provvedimento unilaterale

Come abbiamo detto la decisione espressa in cui sfocia il procedimento può avere varie forme. Innanzitutto il provvedimento unilaterale può essere il risultato di una decisione autonoma, nel senso che l’organo competente dell’amministrazione procedente provvede all’esame delle risultanze dell’istruttoria e alla ponderazione degli interessi coinvolti senza subire alcun condizionamento diverso dal necessario rispetto delle regole e dei principi del diritto amministrativo→atto semplice.

In altri casi il procedimento si conclude sempre con un provvedimento unilaterale di un organo dell’amministrazione procedente, ma con il concorso di altri organi amministrativi→atto complesso. Si può dare il caso in cui la decisione è presa conformemente alla proposta di un altro organo. Vi sono invece ipotesi in cui occorre il previo accordo di un altro organo sul contenuto della decisione: si avrà il concerto quando interviene un altro organo della stessa amministrazione, intesa quando interviene tra diverse amministrazioni oppure un autorizzazione in senso lato di un altro organo (nullaosta o altro).

Quando poi l’amministrazione procedente deve raccogliere entro trenta giorni, pareri di cui sopra oppure vi sia il dissenso di più amministrazioni interpellate, deve essere indetta o può essere indetta una conferenza di servizi decisoria; mediante questo istituto si riducono gli atti endoprocedimentali visto che il provvedimento finale risultato di questa conferenza alla quale partecipano tutte le amministrazioni competenti, sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione o nullaosta. Nasce semmai il problema di quale sia il rilievo da dare alle eventuali opinioni dissenzienti; si è stabilito che esse non possono impedire che si prenda una decisione, ma devono essere tenute in considerazione quali “risultanti alla conferenza”. Sarà poi l’amministrazione procedente a decidere. Esiste come al solito l’eccezione rappresentata dal dissenso di un amministrazione preposta alla tutela ambientale, culturale, della salute o della pubblica incolumità oppure di una Regione o una Provincia autonome; in tali casi la decisione è rimessa al Consiglio dei Ministri o alla competente Giunta regionale o provinciale, solo dopo che non sia stata trovato un accordo all’interno delle Conferenze Permanenti tra Stato, Regioni ed enti locali.

Vi è poi un'altra ipotesi rappresentata dalla possibilità che l’amministrazione procedente possa concludere “accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale” (art. 11 LPA). Questi accordi presentano dei problemi interpretativi che vedremo qui di seguito.

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Conclusioni espresse mediante accordi con i privati interessati

La conclusione del procedimento può essere anche costituita anche da un atto consensuale che può intervenire sia con un’altra pubblica amministrazione, sia con i privati interessati. Il legislatore ammette quindi che si possa curare l’interesse pubblico anche mediante accordi tra amministrazioni pubbliche e privati; si potrebbe inoltre sostenere che le pubbliche amministrazioni siano tenute ordinariamente a ricercare il consenso degli interessati prima di prendere decisioni unilaterali→ principio di consensualità.L’ordinario provvedimento finale, può ormai essere sempre sostituito da un accordo concluso dall’amministrazione con gli interessati→ accordo sostitutivo. Questi atti consensuali non sono soggetti alla ordinaria disciplina del diritto privato in quanto la loro disciplina è costituita da un intreccio tra diritto pubblico e diritto privato e sono sottoposti agli stessi controlli previsti per il provvedimento che sostituiscono. A causa di questi intrecci occorre analizzare separatamente quelli scaturenti dalla natura pubblicistica da quelli scaturenti dalla natura privatistica di questi accordi.

Per quanto riguarda gli elementi di natura pubblicistica dobbiamo iniziare dicendo che gli accordi configurati dall’art. 11 LPA, hanno come oggetto l’esercizio del potere discrezionale visto che sono conclusi “al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero, nei casi previsti dalla legge, in sostituzione di questo”. Si aggiunge poi che la conclusione di questi accordi è subordinata al “perseguimento del pubblico interesse”per precisare che questa facoltà della pubblica amministrazione di concludere accordi non equivale al riconoscergli autonomia privata. Infatti il corretto utilizzo della discrezionalità è compatibile con accordi con i privati: infatti il fatto che il privato tragga un profitto dall’accordo non esclude che anche l’amministrazione pubblica persegua un interesse pubblico con la definizione dello stesso anzi, una considerazione degli interessi privati può più facilmente far accettare a quest’ultimi una soluzione che comporti loro un qualche sacrificio. C’è chi obietta che l’interesse pubblico non può essere perseguito in accordo con i terzi ma si impone una determinazione unilaterale dell’amministrazione in osservanza della legalità-indirizzo: tesi non accoglibile in quanto il rispetto della legalità indirizzo non implica che ad una data circostanza sia ammissibile una sola soluzione perché ciò minerebbe l’esistenza della discrezionalità amministrativa.

Gli accordi sono fatti dall’amministrazione procedente “in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’art. 10 ” e riguardano il contenuto del provvedimento finale. Questa norma inserisce gli accordi all’interno del procedimento; la proposta del privato equivale ad una proposta contrattuale e deve avere la forma delle memorie scritte. Questa proposta fa nascere l’obbligo da parte dell’amministrazione di valutare tale proposta, per non incorrere in un provvedimento illegittimo (obbligo di valutazione). Di essa hanno il diritto di prenderne visione i soggetti che debbono essere avvisati all’inizio del procedimento e i soggetti che vi siano intervenuti e nei suoi confronti può essere esercitato il diritto generale di accesso. Quanto sinora detto ci fa capire che qualora questi accordi siano conclusi al di fuori del procedimento, risultano invalidi e invalido il procedimento che da essi può scaturire. La stipulazione inoltre deve essere preceduta dalla determinazione dell’organo competente per l’adozione del provvedimento a garanzia di imparzialità e buon andamento (→ si intende realizzare la “evidenza pubblica”).Infine questi accordi sostitutivi di provvedimenti sono soggetti ai medesimi controlli previsti per quest’ultimi.Una delle obiezioni più comuni all’ammissibilità degli accordi tra privati e pubblica amministrazione è il fatto che la natura contrattuale di questi accordi derogherebbe al principio generale di revocabilità dei provvedimenti amministrativi per sopravvenuti interessi pubblici; è per questo che è stato previsto che per “sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo”. Da notare che qualora si verifichino questi motivi sopravvenuti, l’amministrazione ha il dovere di recedere.La sottoposizione degli accordi in questione anche alla disciplina pubblicistica oltre a quella privatistica creerebbe, data la interconnessione tra le diverse posizioni giuridiche, una difficoltà per i privati che dovrebbero rivolgersi sia alla giurisdizione amministrativa, che a quella ordinaria. È per questo che le controversie

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“in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi” sono state riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Esaminiamo ora gli elementi di natura privatistica; l’ambito della disciplina di diritto comune è molto ampia in quanto essi sottostanno sia alle norme che riguardano le obbligazioni, sia alle norme in materia contrattuale. L’art. 11 aggiunge inoltre l’inciso “ove non diversamente previsto”; e infatti diversamente viene previsto dallo stesso articolo circa la forma di questi atti. Si stabilisce in fatti che questi atti debbano avere forma scritta a pena di nullità derogando a quanto invece dispone il 1350 c.c. che la prevede solo per un elenco tassativo di atti.Ma la deroga più significativa ai principi del codice civile è rappresentata dalla previsione del recesso unilaterale per sopravvenuti motivi di interesse pubblico; infatti, diversamente dall’ipotesi prevista dal codice civile all’art. 1373, questo recesso non ha un fondamento consensuale. Inoltre, trattandosi di recesso e non di risoluzione occorre che l’accordo non abbia effetti reali e che l’esecuzione di esso sia ancora in corso. Non trattandosi poi di recesso ad nutum, i sopravvenuti motivi saranno sindacati dal giudice. Il recesso fa sorgere l’obbligo di “provvedere ad un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno al privato”; questo indennizzo è considerato dalla maggior parte dei giuristi come non equivalente ad un risarcimento danni per inadempimento contrattuale (comprendente quindi sia la perdita subita che il mancato guadagno) in quanto quest’ ultimo può essere invocato solo qualora l’attività che provoca il danno sia illecita. In questo caso quindi l’indennizzo sarà inferiore trattandosi di attività lecita. Comunque sia, non avendo il recesso effetto per le prestazioni già eseguite, il privato dovrà essere integralmente risarcito in relazione ad esse. Il Consiglio di Stato in un parere ha affermato che l’amministrazione ha la facoltà di “risolvere in qualunque tempo il contratto pagando i lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti nel cantiere oltre al decimo dell’ammontare delle opere non eseguite”.L’applicazione dei principi civilistici non espressamente derogati è subordinata alla clausola “in quanto compatibili”. La compatibilità richiesta non è però da ricercarsi nella singola disposizione del diritto amministrativo (altrimenti la portata innovativa dell’LPA sarebbe vana) ma soltanto nei principi inderogabili del diritto delle amministrazioni pubbliche.La legge afferma inoltre, come altro profilo privatistico degli accordi, che condizione per la loro ammissibilità è che non rechino pregiudizi ai diritti di terzi; questa affermazione, apparentemente superflua mette in evidenza la regola che l’accordo non può riguardare oggetti di cui hanno la disponibilità soggetti che non partecipano all’accordo.Definendo ora l’ambito di utilizzabilità dobbiamo partire dal presupposto che l’accordo è previsto “al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero (oppure)….in sostituzione di questo”. Presupposto fondamentale è che l’amministrazione procedente sia dotata di discrezionalità amministrativa circa l’oggetto specifico dell’accordo, cioè sia in grado di poter determinare in modi diversi gli assetti in gioco. È dubbio che questi accordi siano possibili quando l’amministrazione debba esercitare una mera discrezionalità tecnica in quanto la scelta tra più soluzioni tecniche possibili non dovrebbe farsi dipendere dall’interesse che possono avere i privati rispetto all’una o all’altra soluzione, tuttavia un accordo sembra possibile quando i privati partecipanti siano gli unici interessati e il rischio non riguardi diritti indisponibili. Comunque sia la discrezionalità che può essere oggetto degli accordi è quella mediante la quale si determina il contenuto del provvedimento finale e non quella che deve valutare i presupposti del potere di decisione (capitolo 10). Non pare possibile invece l’accordo in caso di attività vincolata anche se non si può escludere l’accettazione del privato, del provvedimento che ha però come unico effetto quello dell’acquiescenza che comporta la preclusione della possibilità di ricorrere al giudice contro il suddetto provvedimento.Si discute se siano da ricondurre alla disciplina dell’art. 11 LPA, fattispecie per cui già in presenza erano previsti accordi: per esempio le concessioni contratto che sono provvedimenti unilaterali di concessione cui accede un contratto per disciplinare il rapporto che nasce dal provvedimento. È stato sostenuto in dottrina che esse sono da considerare come accordi sostitutivi. Abbiamo visto poi come la disciplina dell’art. 11 possa essere applicata agli accordi di natura autoritativa; alcuni hanno obiettato che viene violato il principio di tipicità ma l’obiezione appare paradossale in quanto un provvedimento è autoritativo quando ottiene i suoi effetti a prescindere dal consenso del destinatario: quindi qualora questi atti abbiano come fonte un accordo tale atto non può considerarsi autoritativo e dunque il principio di tipicità non viene in rilievo. Vi sono però due

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ulteriori problemi: il primo luogo si rileva che certi diritti sono indisponibili da parte dei loro titolari e che dunque in tali casi un atto consensuale non può tener luogo del provvedimento tipico previsto dall’ordinamento. Come abbiamo visto al capitolo 3, i provvedimenti relativi a diritti personali indisponibili sono riservati all’autorità giudiziaria e quindi non possono essere oggetto di accordi con amministrazioni pubbliche. In secondo luogo, la libertà di aderire a questi provvedimenti autoritativi è una libertà condizionata dal fatto che il privato non ha una valida alternativa a disposizione in quanto anche in caso di diniego il procedimento non si arresterebbe; la dottrina afferma comunque che situazioni del genere si verificano anche nei rapporti tra privati e che perciò tale situazione non sia incompatibile con la possibilità di stipulare un valido contratto.L’applicabilità delle norme sugli accordi è invece espressamente esclusa per gli atti con effetti conformativi cioè per quell’ attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi e amministrativi generali di pianificazione e programmazione che sono esclusivamente disciplinati dalle norme che li hanno come oggetto. Per quanti riguarda accordi sostituivi o integrativi di atti normativi generali essi sono ammissibili in ragione del principio che tali accordi si possono concludere solo se è escluso il pregiudizio per i terzi; terzi che verrebbero invece inevitabilmente penalizzati non potendo tutti partecipare all’accordo (è una massa di persone quindi non si può stabilire quali potrebbero essere i soggetti legittimati a rappresentare la generalità).

Accordi con altre pubbliche amministrazioni. Gli accordi di programma.

L’art. 15 dell’LPA prevede anche accordi tra pubbliche amministrazioni “per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”. Anche qui abbiamo un istituto costituito da un’intersecazione tra diritto pubblico e diritto privato e la disciplina applicabile è la stessa prevista all’art. 11 ma con una differenza: per questi accordi non è previsto il recesso unilaterale in quanto non si vede perché l’interesse pubblico curato da una di queste dovrebbe prevalere sull’interesse pubblico dell’altra.È inoltre da notare che per questi accordi si deve far riferimento alla disciplina del codice civile relativa ai contratti plurilaterali per il conseguimento di uno scopo comune, aventi norme diverse da quelle dei contratti bilaterali sinallagmatici in materia di nullità, annullabilità, risoluzione per inadempimento, impossibilità della prestazione.E’ pacifico che le convenzioni che Comini e Province possono stipulare tra di loro per svolgere in modo coordinato determinate funzioni, rientrino nella disciplina dell’art. 15. Ci si chiede se lo stesso possa dirsi a proposito degli accordi di programma che sono diretti ad assicurare il coordinamento di due o più Comuni, Province, Regioni, amministrazioni statali o altri soggetti pubblici, determinando tempi, modalità, finanziamenti e altri connessi adempimenti relativi ad opere che richiedono un’azione coordinata. La conclusione dell’accordo è promossa dal Presidente dell’ente che abbia “competenza primaria” in relazione all’opera (o dal Presidente del Consiglio nel caso debba esserci il concorso di più regioni confinanti) che a tal fine convoca una conferenza tra le amministrazioni interessate. L’accordo “consiste…nel consenso unanime del Presidente della Regione, della Provincia, dei Sindaci e delle altre amministrazioni interessate”. Soltanto nell’ipotesi in cui l’accordo determini variazioni degli atti di pianificazione urbanistica , l’adesione del Sindaco deve essere ratificata dal Consiglio Comunale (quando si dice la burocrazia uccide…). L’approvazione avviene con atto formale del presidente dell’ente e si ha poi la pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione. Infine sull’esecuzione dell’accordo, è previsto un collegio di vigilanza composto dai rappresentanti degli enti interessati. Il collegio può operare eventualmente interventi sostitutivi/integrativi nel caso di inadempienze. Il fatto che sia necessario un atto formale per l’approvazione fa sorgere dei dubbi sul fatto che questi accordi siano riconducibili alla disciplina dell’art. 15 in quanto si può pensare che si tratti di atti endoprocedimentali ma è prevalsa la tesi che vede questo atto di approvazione come un atto di controllo sulla legittimità della formazione che costituisce a sua volta il presupposto della pubblicazione.

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La natura giuridica degli accordi

Si è sostenuto all’inizio che gli accordi disciplinati dagli artt. 11 e 15 , LPA, corrisponderebbero alla figura del “contratto di diritto pubblico” perché l’esercizio di poteri pubblici si pensava non potesse formare l’oggetto di un contratto di diritto privato, per due ragioni:

1. per la mancanza della patrimonialità delle prestazioni delle pubbliche amministrazioni;

2. per il fatto che la previsione del recesso unilaterale minerebbe il fondamentale principio della stabilità dei contratti.

Alla punto uno si replica dicendo che per prima cosa non è affatto vero che le prestazioni delle pubbliche amministrazioni non hanno valore economico in quanto ad esse i contraenti attribuiscono questo valore; in secondo luogo essendo un accordo il nucleo essenziale di un contratto, ad esso di deve necessariamente far riferimento in mancanza di una disciplina specifica.Al punto due si controbatte che il recesso unilaterale è pensabile anche come fondato sulla clausola rebus sic stantibus che non è del tutto estranea al diritto dei contratti; inoltre la previsione di un indennizzo per i danni derivati dal recesso inficia completamente questa tesi.Alla luce di quanto affermato quindi la definizione di questi accordi come contratti di diritto pubblico appare inesatta; essi sono piuttosto contratti ad oggetto pubblico in quanto non sono propriamente equiparabili ai contratti tra privati perché disciplinano sulla disposizione di oggetti di cui i privati non hanno facoltà di disposizione (es. beni pubblici) ma sono assimilabili alla disciplina dei contratti ad oggetto comune (salvo deroghe espresse).

PARTE QUINTA

Tutele (la “giustizia amministrativa”)

Capitolo 14

Invalidità, irregolarità, illiceità:conseguenze e rimedi

Gli atti amministrativi invalidi

Perfezione→ l’atto amministrativo conclusivo di un procedimento amministrativo è un atto perfetto.

Efficacia→ l’atto perfetto può non essere efficace se si devono ancora verificare gli eventi appartenenti alla fase di “integrazione dell’efficacia”.

Validità→ un atto è valido se è conforme al parametro normativo, costituito dalle regole e dai principi cui è tenuto ad adeguarsi.

Quali sono i loro rapporti? Abbiamo visto come un atto perfetto può non essere efficace; analogamente un atto perfetto non è detto che sia sempre valido. Anche efficacia e validità sono caratteri indipendenti: un atto efficace non necessariamente è valido ( per esempio può accadere che l’organo chiamato al controllo preventivo non rilevi l’invalidità e quindi non impedisca l’efficacia) e un atto inefficace non sempre è invalido (l’inefficacia può essere legata a termini o condizioni cioè da circostanze che niente hanno a che vedere con l’invalidità).In generale il diritto amministrativo tende a scongiurare l’efficacia degli atti invalidi, prevedendo ipotesi di eliminazione di atti invalidi e prevedendo il controllo preventivo. Ovviamente a sancire la definitiva validità/invalidità di un atto sarà sempre il giudice.

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Invalidità: nullità e illegittimità

Il termine “invalidità” è utilizzato anche in altri rami del diritto, specialmente è utilizzata nel diritto privato dove fa da presupposto comune alla due figure della nullità e dell’annullabilità. La nullità come mancanza dei requisiti essenziali del negozio giuridico, l’annullabilità invece come conseguenza degli ormai triti e ritriti vizi del consenso (il primo degli elementi essenziali). Si è però visto che l’annullabilità la si riconduceva essenzialmente a profili soggettivi che nel diritto amministrativo sono pressoché assenti. Ecco perché si è prima voluto tutto ricondurre all’unitaria categoria dell’illegittimità e poi invece si optato per la bipartizione nullità-illegittimità.

Nullità

L’art. 21-septies, LPA, stabilisce che il provvedimento amministrativo è nullo:

1. “nei casi espressamente previsti dalla legge”;2. “se manca degli elementi essenziali”;3. “se è viziato da difetto assoluto di attribuzione”;4. “se è stato adottato in violazione o elusione del giudicato”.

Possiamo notare ora che al primo caso, a differenza di quanto si prevede all’art. 1418 c.c., il contrasto con delle disposizioni di legge inderogabili non è di per sé sufficiente a determinare la nullità di un atto amministrativo dato che per gli atti amministrativi tutte le disposizioni di legge sono inderogabili e normalmente determinano l’illegittimità dell’atto. È dunque necessario che la legge preveda espressamente che la violazione di una legge abbia come conseguenza la nullità. È nullità dello stesso tipo quella per “mancata ottemperanza di una sentenza” (questa ipotesi è affermata dalla giurisprudenza).

Quanto alla nullità per mancanza degli elementi essenziali, dobbiamo vedere se si può stabilire un’analogia con quelli privatistici (soggetto, oggetto, forma). Per quanto riguarda l’elemento soggettivo abbiamo il caso in cui c’è un atto il cui autore non sia identificabile. Ugualmente gli atti posti in essere da soggetti al di fuori delle loro funzioni pubbliche; in questa categoria rientra la cosiddetta “incompetenza assoluta”ovvero gli atti emanati da organi appartenenti ad apparati organizzativi privi di qualsiasi potere amministrativo (es. atto amministrativo emanato da un giudice). Questa ipotesi coincide con il “difetto assoluto di attribuzione” del punto 3 in quanto spesso vengono interscambiati i due termini.Quanto all’oggetto possono ritenersi nulli anche gli atti amministrativi aventi oggetto inesistente, indeterminato, indeterminabile o inidoneo (es. espropriazione di un bene demaniale).Per ciò che attiene la forma, pur essendoci la libertà delle forme dell’atto amministrativo, talvolta una certa forma risulta essenziale anche in mancanza di un espressa previsione normativa (es. forma scritta per i certificati, tre distinte intimazioni orali ciascuna delle quali precedute da uno squillo di tromba per l’ordine di scioglimento di un assembramento di persone→ non è detto quindi sia scritta la forma). Si discute se la causa sia elemento essenziale dell’atto amministrativo o se essa si risolva nello specifico interesse pubblico perseguito (con la conseguenza che la sua mancanza si risolverebbe in illegittimità per eccesso di potere); è sicuramente nullo l’atto emesso per scherzo (causa ioci)….ahahahaha …. Le conseguenze della patologia nullità si estrinsecano nel fatto che un atto nullo rimane privo della sua efficacia giuridica e quindi una eventuale attività che venga presentata come esecutiva dell’atto va trattata invece come un’attività che non ha giustificazione nell’amministrazione pubblica. Non è necessario quindi che venga eliminato l’atto ma è sufficiente dichiarare la sua nullità. La nullità può essere richiesta da chiunque ne abbia interesse, è imprescrittibile e può essere rilevata d’ufficio.Illegittimità e annullabilità

La LPA contempla che un atto amministrativo sia annullabile, definendo tale “il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza” (art. 21-octies).

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L’annullabilità qui si configura come la sanzione dello stato patologico illegittimità. La legge n. 5992/1889, istituendo la IV sezione del Consiglio di Stato, le attribuì la competenza a deciderei ricorsi per:

1. incompetenza2. eccesso di potere3. violazione di legge

Questa visione tripartita è ormai ritenuta insufficiente al giorno d’oggi per sintetizzare l’insieme dei possibili vizi che possono portare all’annullabilità di un atto. Ma sorprendentemente il legislatore del 2005 (chi c’era al Governo?...ah sì…Truffolo) ha riesumato la triade ottocentesca (l’LPA è del 2005).

Incompetenza→ l’incompetenza che rende l’atto illegittimo è l’incompetenza relativa che si ha quando un atto è emanato da un organo che esercita competenze spettanti ad un altro organo della stessa branca o sistema amministrativo (altrimenti si tratterebbe di incompetenza assoluta che come sappiamo porta alla nullità). Un’incompetenza di questo tipo, oltre ad essere sanabile, è ravvisabile soltanto quando la competenza in questione è determinata con legge o con altro atto-fonte. Essa deve essere interpretata in modo rigoroso quando si tratta di poteri di tipo autoritario dal momento che una definizione rigorosa della competenza può essere considerata come un aspetto della legalità-garanzia sotto il profilo della tipicità. Nelle altre ipotesi invece si deve interpretare alla luce delle esigenze di buon andamento che richiedono a loro volta maggiore flessibilità.

Eccesso di potere→ è il vizio degli atti amministrativi storicamente più importante e più diffuso. Originariamente esso indicava l’ipotesi di un atto con il quale l’amministrazione invadeva un potere altrui e che oggi diremmo viziato da incompetenza assoluta(c.d. straripamento di potere nonché di palle); in seguito gli è stato attribuito il significato di vero e proprio “sviamento di potere” ovvero di violazione della regola che vuole il perseguimento dell’atto amministrativo dello specifico interesse pubblico per cui è stato emanato. La giurisprudenza ha elaborato un elenco non tassativo di figure sintomatiche in presenza delle quali si può arrivare facilmente a dedurre che siamo di fronte ad un’ipotesi di sviamento di potere (es. contraddittorietà tra provvedimenti, disparità di trattamento ecc…); in realtà in molte di queste ipotesi siamo di fronte alla violazione di principi come quello della ragionevolezza.

Violazione di legge→ categoria che ha carattere residuale rispetto alle prime due e ricorre nelle ipotesi si violazione del principio di tipicità, di regole sulla forma o sul procedimento: da quest’ultimo gli atti integrativi dell’efficacia sono estranei visto che essi intervengono dopo che l’atto è già venuto ad esistenza; per tanto la loro invalidità può semmai avere conseguenze sull’efficacia o sulla decorrenza dei termini per la sua impugnazione.

Per quanto attiene la violazione del diritto comunitario si deve rilevare che come parametro di legittimità degli atti rileva lo stesso diritto comunitario sia direttamente (in quanto i regolamenti hanno efficacia diretta e immediata nell’ordinamento italiano), sia indirettamente (quando si necessita di un atto interno dello stato per ratificare). Pertanto anche la non conformità di questi atti al diritto comunitario causerà il vizio di violazione di legge. Anche le direttive comunitarie non direttamente applicabili possono essere rilevanti (sentenza Marleasing della Corte di Giustizia…ed il bota se la dà a gambe…) in quanto la Corte di Giustizia ha affermato che ne deriva comunque un obbligo di dare interpretazione al diritto vigente, conforme alle direttive stesse.Gli organismi di diritto pubblico non sono sottoposti al diritto amministrativo per quanto riguarda la loro attività complessiva e la loro organizzazione ma soltanto per quella parte di attività che concerne la scelta dei contraenti dei contratti considerati dalle direttive comunitarie. Questi atti appena citati non sono atti autoritari. È da escludere che per tali atti si verifichino vizi di incompetenza dato che alla ripartizione delle competenze si provvede mediante fonti normative (statuti sociali); può tuttavia essere ravvisato uno sviamento di potere nello svolgimento dei procedimenti previsti.Secondo quanto abbiamo detto all’illegittimità consegue l’annullabilità intesa come sanzione che riguarda l’atto. L’annullabilità ha tratti dissimili dalla nullità;

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1. l’atto annullabile, diversamente da quello nullo, è efficace siano a quando l’efficacia non è eliminata o sospesa (efficacia precaria);

2. l’annullamento dell’atto può essere richiesto solamente al giudice amministrativo che dovrà annullare l’atto con sentenza costitutiva e non dichiarativa come nella nullità;

3. l’azione è sottoposta a brevi termini di decadenza a differenza di quella per la nullità che è imprescrittibile.

Violazioni di leggi cui non consegue l’annullabilità

1. la dottrina ha affermato che un atto non è annullabile quando gli errori di forma o di contenuto non sono tali da rendere impossibile l’identificazione dell’autore e del contenuto (es. un atto che non ha esattamente la forma prevista senza che tuttavia si possa dubitare della sua identità). Vizi di questo genere sono normalmente ricondotti alla categoria dell’irregolarità; in questi casi, non abbiamo l’annullabilità dell’atto, ma si procede per quanto possibile, alla sua regolarizzazione e all’eventuale sanzione per il responsabile dell’irregolarità. Gli errori che caratterizzano l’irregolarità sono gli errori ostativi.

2. l’art. 21-octies comma 2 dell’LPA esclude l’annullabilità di un provvedimento adottato in violazione delle norme procedimentali e i forma “qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Come si vede l’annullabilità non consegue necessariamente alla violazione delle norme procedimentali e di forma ma, allo stesso tempo, per escluderla non è sufficiente che il provvedimento abbia carattere vincolato ma occorre anche che i vincoli siano tali che risulti evidente che la decisione finale non avrebbe potuto essere diversa da quella presa, se la forma richiesta fosse stata rispettata o l’inadempimento procedurale fosse stato adempiuto. La disposizione pone però numerosi problemi interpretativi; ci si chiede se questa esenzione dall’annullabilità possa riguardare anche vizi come quello di incompetenza o della mancata comunicazione di preavviso del provvedimento negativo previsto (art. 10-bis) o quello della mancanza di motivazione. Riguardo alla prima ipotesi la risposta è negativa in quanto l’incompetenza riguarda gli elementi dell’atto e non la procedura; stessa risposta anche per la seconda ipotesi in quanto, essendo l’art. 10-bis una particolare garanzia procedimentali per le ipotesi di insoddisfazione degli interessati, se fosse stata anch’essa soggetta alla disciplina dell’art. 21 sarebbe dovuta essere richiamata espressamente; quanto alla motivazione sembra che essa debba essere inserita nei requisiti formali se ci si riferisce al percorso argomentativi che ha portato alla decisione finale.Lo stesso comma 2 dell’art. 21-octies, LPA ha anche una seconda parte che dispone: “il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. L’art. 7 sancisce l’obbligo di dare avvio dell’avvio del procedimento ma a quest’obbligo non consegue necessariamente la sanzione dell’annullabilità.Il giudizio su queste due disposizioni è controverso in quanto esse riducono senz’altro la facoltà del cittadini di difendersi dalle amministrazioni pubbliche. Inoltre occorre riflettere sul fatto se siano o meno tutelati in Costituzione gli interessi di un soggetto ad annullare un provvedimento amministrativo legittimo nella sostanza ma non nella forma o se invece si debba operare un bilanciamento con gli posti principi di buon andamento ed economicità. È comunque da rilevare che questa normativa è ispirata alle altre normative europee. Dal canto suo il diritto comunitario considera vizio solo la violazione di “forme sostanziali” quali la consultazione di un organo o l’ammissione dell’interessato al contraddittorio e la motivazione.

3. ci sono infine i cosiddetti vizi di merito da contrapporre ai visi di legittimità (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere). Essi hanno una seppur limitata rilevanza in quanto in alcuni casi è previsto un sindacato giurisdizionale esteso al merito delle scelte discrezionali. Essi sono riscontrabili qualora l’atto pur conforme alla regole, sia considerato inidoneo alla cura degli interessi cui è diretto (rilevano i criteri di opportunità e buona amministrazione).

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Come abbiamo visto nel capitolo 5, i contratti di diritto privato delle pubbliche amministrazioni sono ordinariamente preceduti da atti amministrativi; poiché tali atti amministrativi possono essere invalidi, si pone il problema delle eventuali conseguenze dei contratti in questione. La tesi prevalente considera l’atto amministrativo il presupposto necessario del contratto, il venir meno del primo per annullamento fa venir meno automaticamente il secondo (→ caducazione). Analoga rispostavele sia per gli accordi sostitutivi (preceduti da “determinazione”), sia per gli accordi integrativi sui provvedimenti anche se qui la situazione si rovescia in quanto questi accordi concludono e non preludono al provvedimento (sono il Kerlon della simmetria lessicale).

Rimedi amministrativi all’invalidità degli atti amministrativi: procedimenti di secondo grado

Le pubbliche amministrazioni dispongono di poteri che consento loro lo svolgimento di procedimenti di secondo grado in quanto destinati a concludersi con provvedimenti i cui effetti ricadono su preesistenti provvedimenti, con il fine di rimediare alla loro invalidità. Questi provvedimenti di secondo grado possono avere due effetti ben diversi:

1. possono consistere nell’eliminazione delle cause di invalidità;2. eliminano l’atto invalido.

Nel primo caso questi provvedimenti eliminano, con effetto retroattivo, il vizio, senza incidere sul contenuto della decisione, che rimane immutata. Questi tipi di provvedimenti sono detti sanatorie (o convalide). Essi rispondono al generale principio di economicità che richiede di evitare lo svolgimento di dispendiose attività amministrative che non abbiano un effettiva utilità. Inutile infatti sarebbe eliminare un provvedimento solo perché è viziato nella sostanza quando poi andando nel merito il provvedimento risponde all’interesse pubblico.Si è ammessa allora la sanatoria per l’atto viziato da incompetenza, permettendo all’organo competente di far suo, mediante apposita dichiarazione, un atto erroneamente preso da un altro organo.Si è ammessa la sanatoria anche per i vizi procedimentali consistenti nella mancanza di atti endoprocedimentali (proposte, richieste, nullaosta) permettendo l’emanazione tardiva dell’atto omesso avente un contenuto tale da non modificare la conclusione cui si era pervenuti in sua mancanza. Non si è quindi consentita la sanatoria dei vizi consistenti nella mancanza di atti destinati ad orientare la decisione finale (es. pareri obbligatori). Anche gli errori ostativi vengono indicati come rettificabili anche se le anomalie di questo genere sono spesso ricondotte alla categoria dell’irregolarità (vedi prima). La giurisprudenza ha ammesso anche la sanatoria di un provvedimento che è già stato impugnato, ed anche nel corso del giudizio, quando si lamenta la violazione dell’art. 3 (esposizione della motivazione nei provvedimenti).Con la riforma del 2005 il legislatore ha ammesso la possibilità di convalida del provvedimento annullabile se ricorrono due condizioni:

1. ragioni di interesse pubblico;2. che il provvedimento sia sanato entro un termine ragionevole.

Entrambe le condizioni sono di una vaghezza disarmante (chi c’era al Governo?...ah sì lo psiconano) così che la portata di questo istituto è di valore ridotto anche dallo stesso disposto dell’art. 21-octies. La convalida va tenuta distinta da altri istituti:

a) non bisogna confonderla con la ratifica, cioè con l’atto con il quale l’organo ordinariamente competente fa suo l’atto emanato legittimamente da un altro organo in particolari circostanze.

b) La convalida dell’atto viziato da incompetenza va anche distinto dall’atto confermativo, cioè dall’atto che, aderendo ad una richiesta di riesame da parte degli interessati, viene preso dallo stesso organo (competente) con lo stesso contenuto dell’atto già preso sulla base degli stessi elementi istruttori e della stessa motivazione e che quindi non sana né del resto ha nulla da sanare.

Per le cause di invalidità sanzionate con la nullità non è possibile alcuna convalida, ma tuttalpiù una conversione ove l’atto nullo abbia i requisiti di sostanza e di forma di un altro atto che possa ritenersi effettivamente voluto. Si tratta quindi di una “rinnovazione”dell’atto che è nuovo e privo di vizi.

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Nel secondo caso (atti che eliminano l’atto invalido), si parla di annullamento dell’atto sia in riferimento ad atti nulli che ad atti illegittimi (e quindi annullabili) che divengono inefficaci ex tunc. L’annullamento può avvenire anche d’ufficio nei casi previsti dalla legge:

a) Annullamento in sede di controllo amministrativo di legittimità (da notare che una volta accertata l’illegittimità dell’atto il suo annullamento è attività vincolata);

b) Annullamento ministeriale nei confronti di atti di dirigenti (non è possibile tra dirigente e dirigente); attività discrezionale;

c) Annullamento governativo “ a tutela dell’unità dell’ordinamento”: spetta al Governo previo parere del Consiglio di Stato ed è riferito agli atti degli enti locali, esercitatile in qualsiasi tempo discrezionalmente;

d) Annullamento da parte dell’organo che ha emanato l’atto: non era previsto dalla legge, poi previsto con la riforma del 2005 che lo ha ritenuto rispondente al potere generale di “autotutela decisoria” in quanto l’amministrazione si sostituisce al giudice nella valutazione. Proprio per questa ragione sono state stabilite delle condizioni necessarie per procedere a questo annullamento dato che sostituisce un iter processuale molto complesso e che la garanzia che è la legge a stabilire l’organo competente sembrò insufficiente; infatti l’art. 21-nonies stabilì queste condizioni: devono sussistere ragioni di interesse pubblico (a), si deve tener conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati (b) e l’annullamento deve essere pronunciato entro un termine ragionevole (c). quanto alla prima condizione è chiaro che trattandosi di attività discrezionale occorre uno specifico interesse pubblico attuale che esige l’annullamento. Quanto alla seconda condizione essa risponde al principio del legittimo affidamento che i privati fanno sull’esecuzione dei provvedimenti e quindi occorre valutare gli interessi in gioco. La terza condizione non pone uno termine specifico di tempo ma impone che vi sia ragionevolezza nei tempi per l’annullamento; la vaghezza non deve stupire in quanto il principio di ragionevolezza è molto presente nell’attività amministrativa.

Vi è infine la disposizione della legge finanziaria del 2005 che dispone che l’annullamento dei provvedimenti amministrativi illegittimi può essere sempre disposto anche se l’esecuzione del provvedimento è ancora in corso per conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni. È stabilito un termine di tre anni se i provvedimenti incidono su rapporti convenzionali o contrattuali tra privati. Questa disciplina è da considerarsi speciale rispetto all’art. 21-nonies e da applicare solo quando l’interesse pubblico consiste in risparmi e nella riduzione degli oneri finanziari.

L’attività illecita e la responsabilità risarcitoria delle pubbliche amministrazioni

La responsabilità risarcitoria delle amministrazioni nasca dalla non conformità al diritto dei comportamenti delle pubbliche amministrazioni, comportamenti che l’ordinamento qualifica in termini di illiceità; non mancano dei casi in cui tale responsabilità esula dalla illiceità del comportamento amministrativo e viene espressamente previsto anche per attività lecite (es. risarcimento per i danni derivati dall’esecuzione di un’opera pubblica). Tuttavia la piena responsabilità risarcitoria delle amministrazioni pubbliche nasce per i danni provocati da attività illecite. Questo tema ha avuto una profonda trasformazione nel corso della storia del diritto amministrativo in quanto in origine, mentre non si avevano problemi ad ammettere la responsabilità risarcitoria delle pubbliche amministrazioni nello svolgimento di attività come soggetto privato (fiscus), molto a lungo invece si è negata quella dell’amministrazione pubblica quando agisce da soggetto pubblico. Questo per due ragioni: in primo luogo perché secondo un antico postulato (“the king can do no wrong”), la soggettività pubblica dell’amministrazione si diceva fosse incompatibile con l’applicazione di un principio tipico del diritto cui sono assoggettati i privati, come quello della responsabilità risarcitoria; in secondo luogo questa convinzione è stata radicata negli altri paesi europei per molti anni (in Francia ancora la responsabilità risarcitoria delle amministrazioni è disciplinata dal diritto amministrativo e non civile ).La Costituzione all’art. 28 afferma la responsabilità in primo luogo dei funzionari e dei dipendenti e allo stesso tempo quella dell’amministrazione come estensione della prima.

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Una pubblica amministrazione può incorrere in responsabilità:

- contrattuale- extracontrattuale

La responsabilità extracontrattuale si fonda sulle norma dell’art. 2043 c.c. Essa quindi non viene configurata come responsabilità indiretta (ex art. 2049 c.c.) ma come responsabilità diretta della pubblica amministrazione per fatto proprio, venendo considerato il fatto dell’agente come proprio dell’amministrazione sulla base del cosiddetto rapporto organico; tuttavia mentre sappiamo che per l’imputazione degli atti giuridici si distingue tra organi e meri uffici, in questo caso si considera in situazione di rapporto organico, qualsiasi soggetto inserito nell’organizzazione amministrativa. A questa responsabilità diretta si affianca quella del funzionario o dipendente che ha agito. La rottura del rapporto organico avviene solamente nel caso in cui il soggetto agisca per obiettivi egoistici e non rechi alcun vantaggio all’amministrazione.Secondo l’art. 2043 c.c. perché un comportamento possa essere fonte di responsabilità occorre che sia tenuto con dolo o colpa ( a differenza degli altri paesi europei in cui si ha la tendenza ad affermare al responsabilità oggettiva dell’amministrazione). Questo regime ha trovato applicazione anche per i danni causati da comportamenti che si prospettano come esercizio di poterei diretti dal diritto amministrativo ma che tali lo sono soltanto in apparenza (es. danni conseguenti dall’esecuzione di atti nulli). Stessa cosa vale per certe attività che le amministrazioni vorrebbero far passare come esercizio di discrezionalità amministrativa; l’art. 2043 in questi case funge da limite esterno alla discrezionalità in quanto non si può considerare come rientrante nella discrezionalità una scelta operata con il preciso scopo di recare danno ad un soggetto o senza tener conto delle regole sulla diligenza.

Le amministrazioni possono provocare danni anche nell’esercizio di effettivi poteri amministrativi; se tale esercizio è fatto in conformità alla legge il privato non può essere risarcito in nessun modo ma tuttalpiù indennizzato (es. indennizzo per chi ha subito un’espropriazione per pubblica utilità), se invece l’amministrazione causa danni esercitando un potere di cui effettivamente dispone ma che usa violando la legge, il danneggiato può pretendere un risarcimento.Fino al 1999 però, la giurisprudenza ha negato la risarcibilità dei danni connessi all’esercizio illegittimo di poteri amministrativi (c.d. non risarcibilità degli interessi legittimi); questo perché interpretando l’art. 2043 si interpretava “danno ingiusto”come la violazione di una norma che tutela un diritto soggettivo e non si consideravano risarcibili gli interessi legittimi. Nuovi orientamenti giurisprudenziali (es. il diritto comunitario con una direttiva che ammetteva la risarcibilità del soggetto che era stato danneggiato in una gara d’appalto e nella sentenza Francovich si era riconosciuta una responsabilità per lesione di interessi legittimi) hanno preparato il campo alla sentenza n. 550/1999 della Corte di Cassazione che ha affermato che per configurare una responsabilità aquiliana è sufficiente la lesione di un interesse giuridicamente rilevante.

È nato quindi il problema del danno risarcibile: innanzitutto dobbiamo tener conto che il 2043 usa la parola “danno” in due accezioni; quando parla di “danno ingiusto”, sta a significare la lesione che è ingiusta sia che si riferisca ad un diritto soggettivo, sia che si riferisca ad interesse legittimo; quando invece parla di “risarcire il danno”si riferisce all’incisione di patrimonio della vittima o della sue persona fisica o della sua sfera morale. Oggetto di risarcimento è il danno nella seconda accezione.I problemi maggiori nascono non quando c’è da risarcire il danno conseguente ad un’attività vincolata ma quando si tratta di attività discrezionale. Occorre infatti accertare che l’amministrazione, ove avesse agito legittimamente, avrebbe avuto alternative circa la decisione da prendere; in altre parole si deve dimostrare che il bene che il danneggiato voleva conseguire non a avrebbe potuto essergli negato. Se al contrario risulta che il danneggiato avrebbe comunque subito una decisione contraria al suo interesse, il danno non è risarcibile. Accade spesso però che non si riesca a dimostrare quale decisione sarebbe in concreto stata presa cosicché il soggetto può chiedere di essere risarcito solo perché gli è stata vanificata la possibilità che l’ordinamento gli dava, di soddisfare il suo interesse.Una considerazione particolare merita l’ipotesi in cui l’illegittimità derivi da vizi procedimentali o di forma: sappiamo cosa dice l’art. 21-octies, LPA, in quanto esclude l’annullabilità se l’atto avrebbe comunque avuto il medesimo contenuto ma è altrettanto

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vero che non è esclusa la risarcibilità. Stessa cosa dicasi per la risarcibilità dei danni morali quando sono lesi interessi di particolare rilevanza.

Un altro elemento costitutivo della fattispecie dell’art. 2043 è la colpa. Nella sentenza n. 500/1999 la Cassazione ha ripudiato la vecchia concezione che vedeva sussistere la colpa nel fatto stesso di dare esecuzione ad un atto illegittimo ed ha affermato che deve essere l’amministrazione come apparato ad esser in colpa per potersi configurare un risarcimento. Perché sia in colpa occorre che l’amministrazione adotti l’atto illegittimo in violazione delle regole cui deve ispirarsi l’attività amministrativa: imparzialità, correttezza e buona amministrazione. Queste indicazioni hanno destato notevoli perplessità in ragione del difficile e oneroso compito probatorio in capo al danneggiato; è così che si è arrivati ad affermare che per provare la colpa sia sufficiente fornire elementi indiziari che possano fornire presunzioni semplici (es. gravità del vizio).

Mediante il ricorso all’idea di rapporto organico viene configurata un’attività diretta dell’amministrazione; ciò non esclude però che vi sia una responsabilità anche del funzionario che agisce in concreto così come stabilito dall’art. 28 Cost. Solitamente il danneggiato chiama in giudizio solo l’amministrazione sia perché è più solvibile, sia perché il danneggiato risponde solo per dolo o colpa grave che sono difficili da provare. Vi è però una disciplina speciale dei danni causati da dipendenti e funzionari delle amministrazioni pubbliche, speciale sia sul piano sostanziale che sul piano processuale. Sul piano sostanziale abbiamo una responsabilità del dipendente solo per dolo o colpa grave ma tale responsabilità non si fonda sull’obbligo di risarcimento nei confronti del terzo ma il dipendente è tenuto a risarcire i danni derivanti dalla violazione degli “obblighi di servizio”. Sul piano processuale la giurisdizione in materia spetta alla Corte dei Conti la quale si pronuncia non sulla base di una domanda della pubblica amministrazione bensì sulla base dell’azione promossa da un ufficio di Procura della stessa Corte dei conti (→funzione inquisitoria dell’ufficio analoga a quella degli uffici delle Procure in materia penale).

In conclusione l’esigenza che sta alla base della disciplina della responsabilità è quella di soddisfare allo stesso tempo esigenze riparatorie (risarcire chi ha subito il danno) ed esigenze sanzionatorie (punire chi ha provocato il danno). È altrettanto vero che talvolta ottenerle tutte e due appare irragionevole e per questo esistono istituti che consentono di dividere le due sfaccettature e ottenere separatamente i due risultati. Infine sarebbe desiderabile che prima di queste due esigenze, la disciplina della responsabilità si ponesse l’obiettivo di incentivare comportamenti tali da minimizzare la produzione di danni.

Capitolo 15

Linee del sistema di tutela giurisdizionale e cenni ad altre forme di tutela

Quadro costituzionale

La Costituzione garantisce in termini generali la tutela giurisdizionale anche nei confronti della pubblica amministrazione affermando che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” (art. 24)La caratteristica fondamentale del sistema è che è un sistema dualistico in quanto una parte delle controversie nei confronti delle pubbliche amministrazioni è appartiene al giudice ordinario, mentre al giurisdizione relativa all’altra parte di tali controversie spetta ai TAR e al Consiglio di Stato: i TAR, presenti in ogni regione, giudicano in prima istanza e sono formati in totale da circa trecento magistrati; il Consiglio di Stato, decide in seconda istanza (in Sicilia sono speciali e affidano la seconda istanza al Consiglio di giustizia amministrativa). Il Consiglio è formato dalle sezioni IV, V, VI che hanno funzioni giurisdizionali e dalle altre quattro sezioni che invece hanno funzione consultiva: le prime quattro hanno la loro Adunanza plenaria mentre le seconde hanno un Adunanza generale cui partecipano anche le altre quattro sezioni.Il cosiddetto “riparto di giurisdizione” è costituito dal fatto che la controversia riguardi un interesse legittimo oppure un diritto soggettivo. Per le controversie del primo tipo la giurisdizione è del Consiglio di Stato, mentre per quelle del secondo tipo è il giudice ordinario salvo che in alcuni casi stabiliti dalla legge in cui

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decide invece il giudice amministrativo. Del rispetto del riparto di giurisdizione giudica la Corte di Cassazione a sezioni unite alla quale si può ricorrere contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”.

Origini e sviluppi alla fine del XX secolo

Cenni ai sistemi di giustizia amministrativa di alcuni dei principali Paesi:

Francia→ da una competenza esclusiva dei giudici ordinari nei confronti delle controversie riguardanti l’esercizio delle funzioni statali, risolte poi dalla stessa amministrazione col parere obbligatorio del Conseil d’Etat, si è passati all’attribuzione formale della competenza decisionale al Consiglio di Stato. Contemporaneamente fu istituito un Tribunale dei conflitti (formato sia da giudici ordinari che amministrativi) cui era attribuita la competenza per la risoluzione delle controversie circa la spettanza della giurisdizione al giudice ordinario o al Conseil d’Etat; a quest’ultimo vennero assegnate le funzioni amministrative.

Germania→ nel 1875 in Prussia vengono creati dei Tribunali amministrativi a cui vengono affidati competenze di diritto pubblico; manca un tribunale dei conflitti e quindi a decidere sulla competenza sarà il giudice adito che potrà prendere una decisione o rimettere ad un altro con quest’ultimo obbligato a decidere.

Inghilterra→ l’amministrazione è svolta sulla base del diritto comune, manca il concetto di atto amministrativo e nascono una serie di organismi indipendenti dall’amministrazione per la risoluzione delle controversie; gli Administrative Tribunals.

Spagna→ si adotta il modello inglese e poi nel 1812 con la Costituzione di Cadice si passa a quello del contenzioso francese con una serie di Consigli provinciali e con il Consiglio reale; nel 1888 viene sostituito il Consiglio di Stato al Consiglio reale con un meccanismo simile a quello francese infine al consiglio di Stato verranno attribuite solo funzioni consultive e verrà istituito un giudice specializzato per le controversie con l’amministrazione.

Italia→ al momento dell’unificazione (legge 2248/1865) si sceglie il modello inglese: sono aboliti i tribunali speciali, investiti della giurisdizione del contenzioso amministrativo, che operavano negli stati preunitari. Sono devolute alla giurisdizione ordinaria le materie riguardanti diritti civili o politici. Le materie non concernenti questi due tipi di diritti sono attribuite alle autorità amministrative, le quali, previo ricevimento delle deduzioni ed osservazioni delle parti interessate, provvederanno con decreti motivati previo parere dei diversi Consigli amministrativi.Il giudice ordinario può pronunciare solo sentenze dichiarative o condannare l’amministrazione ad un risarcimento danni; non può revocare o modificare un atto amministrativo illegittimo o comunque imporre all’amministrazione di fare qualcosa; le autorità amministrative sono tenute a conformarsi al giudicato, ma il giudice non può imporre loro l’esecuzione delle sentenze. Per i conflitti di giurisdizione decide il Consiglio di Stato (solo nel 1877 questa competenza verrà attribuita alla Cassazione di Roma).Quindi la tutela viene riconosciuta solo per diritti civili (quelli sanciti dalle leggi civili) e per i diritti politici (quelli inerenti alla libertà dei cittadini); sono esclusi quindi gli interessi dei cittadini che sono protetti da leggi diverse da quelle civili e costituzionali ovvero le leggi amministrative.Nel 1889 viene approvata in parlamento la legge Crispi che istituisce la IV sezione del Consiglio di Stato; questa sezione però non ha carattere giurisdizionale ed è competente per i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge quando questi ricorsi non sono di competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria (→competenza residuale rispetto alla giustizia ordinaria). Inoltre la posizione soggettiva del privato non è definita diritto ma “interesse”. Le sentenze non sono di

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condanna ma consistono, qualora siano di accoglimento, nell’annullamento dell’atto. Con una legge del genere non fu facile definire il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo.

Furono elaborate due teorie:

1. il giudice competente doveva essere individuato sulla base del tipo di tutela richiesta (criterio del petitum): se si voleva l’annullamento di un atto ci si rivolgeva al giudice amministrativo; se si voleva un risarcimento del danno ci si rivolgeva a quello ordinario (salva la possibilità della “doppia tutela”);

2. il giudice cambiava a seconda della posizione giuridica di cui si chiedeva la tutela (criterio della causa petendi): la tutela del diritto soggettivo spettava al giudice ordinario, quella dell’interesse legittimo al giudice amministrativo.

Questo secondo orientamento fu quello scelto nel 1930 dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e le Sezioni unite della Cassazione (“concordato giurisprudenziale”) e fu definito petitum sostanziale volendo significare che occorre sì guardare al provvedimento giurisdizionale richiesto dal giudice (petitum) ma in relazione alla posizione giuridica soggettiva della quale si richiede la tutela (causa petendi). Ecco il motivo per cui tale distinzione è centrale anche oggi.

L’interesse legittimo

Prima di leggere quanto segue è utile fruire i simpatici esempi di p. 396-397 che aiutano a capire la differenza in concreto tra diritto soggettivo, interesse legittimo e interesse di fatto.

Il nucleo centrale dell’interesse legittimo è una posizione di un soggetto che è correlata da un parte, ad un potere amministrativo e, dall’altra, a leggi che regolano questo potere. Pertanto se un’amministrazione ha un potere che non è disciplinato dalla legge in maniera rilevante per gli interessi di u privato, questo si troverà in una posizione di mera soggezione ed il suo interesse ha rilievo solo in fatto. Se invece l’amministrazione non ha alcun potere e il rapporto col privato è regolato da leggi, la situazione giuridica del privato è di diritto soggettivo. Di fronte ad un potere discrezionale dell’amministrazione dunque, un privato ha interessi legittimi e non diritti soggettivi.

Qual è la posizione del privato nei confronti di un’attività vincolata dell’amministrazione? La giurisprudenza maggioritaria afferma che per stabilire se si è in presenza di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo è necessario stabilire quale sia lo scopo della norma . solo se risulterà che lo scopo della norma è la tutela degli interessi privati in rilievo si potrà parlare di un obbligo dell’amministrazione e di un diritto dell’altro soggetto; se invece la norma risulterà diretta alla tutela di un interesse pubblico si dovrà parlare di un dovere dell’amministrazione e di un interesse legittimo dell’altro soggetto. È stato obiettato che di regola questa distinzione è impossibile. Quindi di fronte ad un’attività vincolata si parla di interessi legittimi anche se la loro struttura è molto simile a quella dei diritti soggettivi; la cosa che li differenzia è la differente tutela giurisdizionale.

Per comprendere a pieno il senso dell’interesse legittimo si deve soffermarsi ulteriormente a considerare quale interesse sostanziale vi corrisponde. La base di una posizione di diritto soggettivo nei confronti della pubblica amministrazione sta nell’interesse a un bene della vita che l’ordinamento consente di pretendere che la pubblica amministrazione non sottragga o attribuisca ad un soggetto. Invece, di fronte ad un potere discrezionale dell’amministrazione, l’interesse del soggetto a non vedere toccati i suoi beni (interesse oppositivo) oppure a vedersi attribuito il bene che gli interessa (interesse pretensivo) non è tutelato nel senso che egli possa pretendere dall’amministrazione che agisca in modo da realizzarlo: egli può soltanto pretendere che l’amministrazione pubblica agisca legittimamente. Questo interesse del soggetto non deve essere calpestato; quello che si vuole difendere è la possibilità che il procedimento tuteli l’interesse del soggetto e questa possibilità è tutelata in via risarcitoria.

Diritto soggettivo e interesse legittimo si distinguono anche per il loro contenuto; il diritto soggettivo ha un contenuto che consiste in poteri e facoltà in relazione al bene (es. al diritto di proprietà consegue la facoltà di disposizione). L’interesse legittimo ha per contenuto dei poteri che però non riguardano direttamente il bene, ma

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che gli consentono di incidere sull’esercizio del potere amministrativo che può essere esercitato nei confronti di quel bene.

Ci possono essere però delle difficoltà: in primo luogo quando per la soddisfazione di in interesse il cittadino debba ottenere un provvedimento positivo dell’amministrazione cioè abbia un interesse pretensivo. In questa ipotesi è frequente il ricorso alla distinzione tra norme di relazione (che definiscono direttamente il rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino→diritto soggettivo) e norme d’azione (norme che disciplinano il potere dal cui esercizio dipende la definizione del rapporto→interesse legittimo). In secondo luogo ci possono essere delle difficoltà quando l’interesse del cittadino prima che egli avesse a che fare con un potere autoritario dell’amministrazione era tutelato dall’ordinamento come diritto soggettivo. Un criterio usato è quello di capire se la contestazione del privato debba ritenersi la carenza del potere amministrativo o il suo cattivo esercizio; nel primo caso avremo un diritto soggettivo, nel secondo un interesse legittimo.

La distinzione invece tra interesse legittimo e interesse di fatto si basa sul criterio col quale un interesse è legittimo. In primo luogo occorre che vi sia una norma giuridica che prenda in considerazione, esplicitamente o implicitamente, quell’ interesse dandogli rilevanza nella decisione amministrativa. È dalla norma stessa che attribuisce il potere all’amministrazione che risulta se il legislatore intende dare tutela a certi interessi indicando la necessità che se ne tenga conto nel provvedimento. È altrettanto vero però che l’esistenza di un interesse non può essere accertata sulla base della sua presenza nel LPA poiché quest’ultima può dare ad un interesse soltanto una rilevanza procedimentale. Quindi si deve guardare anche a norme diverse da quelle che attribuiscono il potere a cominciare da quelle costituzionali. Infine la qualificazione implicita di un interesse come legittimo talvolta viene desunta da “momenti fattuali”cioè dalla concretezza della vicenda amministrativa.

Dalla normativa sulla giustizia amministrativa risulta che l’interesse legittimo deve essere un interesse individuale. L’art. 26, TUCS, parla di “ricorsi…contro atti o provvedimenti…che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici”. Da ciò si dedurrebbe che l’interesse legittimo del quale un soggetto è titolare individualmente e in modo differenziato rispetto agli altri. Spetta infatti agli apparati politici, legittimati in quanto rappresentanti della generalità dei cittadini, stabilire quali interessi generali debbano essere curati dalle pubbliche amministrazioni in quanto qualificati come intessi pubblici. A conferma di ciò, il fatto che l’azione popolare è in via di principio esclusa salvo casi eccezionali.Ci sono però fenomeni come quello degli interessi diffusi: non è necessario che un interesse appartenga ad un solo individuo perché possa essere considerato personale; è possibile che vi siano tanti interessi personali uguali che tuttavia non coincidono con l’interesse di un’intera comunità (es. l’interesse degli abitanti di una certa strada). Si è poi ritenuto che interessi del genere possano essere tutelati unitariamente da organismi associativi. Quindi l’interesse identico agli altri è diverso dall’interesse generale per il quale sarebbe illegittimo che agisse un solo individuo.Diversamente può darsi che uno o più individui condividano l’interesse comune di un gruppo, di una collettività delimitata, che può non coincidere con ciascuno dei componenti del gruppo. Siamo allora in presenza di un interesse collettivo (per esempio la categoria degli avvocati); anche questi interessi possono essere fatti valere in modo unitario da organismi esponenziali della collettività.

Speciale rilievo hanno avuto questi problemi con riferimento agli interessi collegati alla preservazione dell’ambiente in relazione ai quali è stato particolarmente ampio l’utilizzo dell’espressione interessi diffusi. La giurisprudenza ha affermato che l’interesse alla tutela dell’ambiente è di tutti i cittadini, ma che gli abitanti di un luogo possono avere in relazione all’ambiente interessi differenziati. Ciò è anche affermato dall’art. 9, LPA che ammette che possano intervenire nel procedimento i “…portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati…”. Più di recente sono state dettate norme a difesa degli interessi dei consumatori.

Per concludere, l’interesse legittimo non deve essere confuso né con l’interesse ad agire , né con la legittimazione ad agire. Infatti per agire in giudizio non è sufficiente essere titolari di un interesse legittimo ma occorre in primo luogo l’interesse ad agire cioè occorre che il provvedimento che si richiede con il ricorso al giudice sia effettivamente utile alla soddisfazione dell’interesse legittimo di cui si chiede la tutela (non si può andare in giudizio e richiedere ad es. l’annullamento

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dei voti illegittimamente ottenuti da chi è arrivato dopo di noi nella graduatoria perché ciò non consentirebbe di vincere il concorso). È necessario poi che chi si presenta dal giudice abbia la legittimazione ad agire cioè è necessario che sia effettivamente titolare dell’interesse legittimo che si lamenta leso.

La tutela fornita dalle due giurisdizioni. Le principali differenze

Prima dell’evoluzione della fine del XX secolo c’era una doppia sostanziale differenza tra le due giurisdizioni: da un lato sul piano delle posizioni giuridiche tutelate (diritti soggetti, interessi legittimi), dall’altro sui tipi di tutela; alla giurisdizione ordinaria poteva essere richiesta la tutela risarcitoria ma non l’annullamento di un atto amministrativo né l’imposizione dell’esecuzione dei propri giudicati, mentre alla giurisdizione amministrativa non si poteva richiedere una condanna al risarcimento danni ma si poteva ottenere solo una tutela costitutiva che annullava l’atto amministrativo viziato. Alla sentenza di annullamento del giudice amministrativo erano stati riconosciuti anche effetti ripristinatori e conformativi: l’effetto ripristinatorio in ordine all’efficacia ex tunc dell’annullamento e implicava l’obbligo per l’amministrazione di fare quanto possibile per ricostruire lo status quo ante; l’effetto confermativo che precludeva all’amministrazione di emanare un nuovo atto avente gli stessi vizi. Un giudizio di ottemperanza interveniva nel caso in cui l’amministrazione si rifiutava di conformarsi ed era il giudice o un commissario da lui nominato a sostituirsi all’amministrazione. Alle difficoltà che questa asimmetria provocava si era tentato di supplire ammettendo la possibilità del doppio ricorso; ma ciò risultava inutile a causa della lunghezza dei giudizi. Vi erano poi brevi tempi di decadenza per il ricorso al giudice amministrativo a confronto della prescrizione del giudice ordinario. Erano diversi i poteri istruttori e la tutela cautelare: i primi riguardanti i mezzi di prova cui il giudice può attingere che per quello amministrativo consistevano solo nel poter richiedere all’amministrazione nuovi chiarimenti o documenti o verificazioni mentre il giudice ordinario poteva avvalersi anche di testimoni e consulenti tecnici; i secondi erano tesi a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale (es. impedire la demolizione di un edificio prima che non sia avvenuta la sentenza) se il giudice è convinto che le richieste del ricorrente appaiano non infondate (fumus boni iuris) e che nell’attesa della conclusione del processo il pregiudizio lamentato potrebbe diventare irreparabile (periculum in mora). Mentre il giudice ordinario poteva prendere i provvedimenti di urgenza ritenuti più idonei in relazione alle circostanze, quello amministrativo poteva solo sospendere gli effetti giuridici del provvedimento impugnato.

Fu fatta un’eccezione a questa stringente divisione attribuendo la giurisdizione esclusiva (quindi anche per i diritti soggettivi) in determinati campi. Questo però mantenendo fermo il tipo di tutela offerta ai diritti soggettivi che diveniva analogo a quello degli interessi legittimi per quanto riguarda i poteri istruttori e cautelari di cui il giudice amministrativo disponeva per la cognizione delle controversie. Inoltre pur potendo emettere sentenze di condanna (per il pagamento degli stipendi ad es.) restavano di competenza del giudice ordinario i diritti patrimoniali consequenziali, espressione che è stata interpretata come riferita al risarcimento danni. Ci fu poi un evoluzione che portò ancora nuovi oggetti sotto la giurisdizione esclusiva e inoltre due pronunce della Corte Costituzionale avevano avvicinato i mezzi a disposizione del giudice amministrativo a quelli del giudice ordinario per determinate materie .

La giustizia comunitaria

Nell’ultima parte del XX secolo parallelamente alla sempre più effettiva rilevanza del diritto comunitario, ha acquistato un rilievo via via maggiore anche il ruolo dei giudici comunitari di Lussemburgo, cioè della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado; ad essi spetta risolvere le controversie tra istituzioni comunitarie stati membri o tra organi comunitari e persone fisiche o giuridiche o tra persone fisiche o giuridiche.Questi giudici intervengono nelle controversie riguardanti materie di amministrazione comunitaria indiretta, cioè materie nelle quali le amministrazioni comunitarie debbono attuare il diritto comunitario. Il Trattato prevede che qualsiasi persona fisica o giuridica possa proporre ricorso contro decisioni prese nei suoi confronti o che comunque lo riguardano individualmente. Il ricorso può ottenere l’annullamento per incompetenza, violazione di forma sostanziali, violazione del trattato e sviamento di potere. È possibile anche un “ricorso in carenza”contro l’omissione di una decisione in

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violazione del Trattato. Ed è previsto che il giudice possa sospendere l’esecuzione del provvedimento impugnato ed anche ordinare eventuali altri “provvedimenti provvisori necessari” ed è prevista la tutela risarcitoria senza che sia prevista la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi individuali.C’è anche la previsione della possibilità di un intervento della Corte di giustizia nel corso di un giudizio pendente presso un organo giurisdizionale di uno stato membro quando occorre applicare il diritto comunitario. Nel corso di tale giudizio può sorgere un dubbio sulla legittimità di una disposizione comunitaria che occorre applicare. Il Trattato che prima di emettere la sentenza i giudici statali debbano domandare alla corte di pronunciarsi sulla questione (rinvio pregiudiziale); questo per evitare che il diritto comunitario venga applicato in maniera difforme in tutta la comunità.

Lo stato attuale del sistema di tutela giurisdizionale

A causa degli eventi che abbiamo appena visto, dell’influenza del diritto comunitario e degli interventi che vedremo, il sistema della tutela giurisdizionale è stato profondamente modificato. Sono stati modificati sia ambiti della giurisdizione ordinaria che di quella amministrativa.

Uno degli aspetti maggiormente caratterizzanti è stata la privatizzazione del pubblico impiego con la devoluzione al giudice ordinario , delle controversie relative al rapporto di lavoro, accompagnato dall’espressa previsione che possono essere pronunciate non soltanto sentenze di condanna ma anche pronunce costitutive o estintive del rapporto di lavoro nonché la possibilità di annullare atti amministrativi viziati.Altre riforme invece si sono mosse nella direzione opposta ovvero ampliando la competenza esclusiva del giudice amministrativo e permettendogli di disporre il risarcimento del danno sia nelle controverse devolute alla sue giurisdizione esclusiva sia in quelle generali. È stata conseguentemente abrogata ogni disposizione che devolve al giudice ordinario le controversie relative al risarcimento del danno. Si sono poi aumentati i poteri cautelari del giudice amministrativo equiparandoli a quelli spettanti al giudice ordinario e anche quelli istruttori giacchè nella sua giurisdizione generale egli può avvalersi anche di consulenze tecniche , mentre in quella esclusiva di prove testimoniali.

Questa evoluzione accompagnata dalla difficoltà di definire bene il riparto di giurisdizione potrebbe suggerire riforme costituzionali. Stessa cosa per eliminare la contraddizione che vede il Consiglio di Stato svolgere tanto funzioni di consulenza nei confronti delle pubbliche amministrazioni quanto di tutela dei cittadini nei confronti di quest’ultime; ciò va a sbattere contro la disposizione che vuole che ogni processo si svolga di fronte ad un giudice imparziale.

Metodi alternativi di risoluzione delle controversie

Per ottimizzare i lunghissimi tempi di risoluzione delle controversie sono stati creati dei mezzi alternativi: in primo luogo è possibile che un soggetto presenti, allegando motivazioni, richiesta di annullamento o di riforma di un atto ad un organo sovraordinato rispetto all’organo che ha emanato l’atto (ricorso gerarchico). Peraltro è possibile anche un ricorso gerarchico improprio contro atti e organi non sovraordinati nei casi previsti dalla legge. L’organo preso in considerazione deve annullare o riformare l’atto se ritiene che il ricorso sia fondato senza che sia necessario uno specifico interesse pubblico. Una volta ottenuta una decisione se sfavorevole entro novanta giorni è possibile ricorrere al TAR. Trascorsi i novanta giorni, senza che vi sia stata risposta il ricorso si ritiene respinto ed è possibile impugnare il provvedimento in via giurisdizionale. Prima questo ricorso era molto usato in quanto per vie giurisdizionali si poteva adire solo per atti definitivi ovvero non suscettibili di ricorso gerarchico, adesso invece il ricorso giurisdizionale è sempre ammesso e quello gerarchico è andato in disuso perché gli interessati non hanno fiducia nell’imparzialità dell’organo.Si può presentare ricorso in opposizione anche nei confronti dello stesso organo che ha emanato l’atto. Per correggere l’evidente inaffidabilità di un tale ricorsi le amministrazioni hanno disciplinato autonomamente ricorsi del genere prevedendo che la decisione intervenga dopo aver sentito il parere di un altro organo non dipendente da quello cui spetta decidere.

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È poi previsto il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica che pur non avendo la natura e gli effetti del ricorso giurisdizionale è alternativo a quest’ultimo. La decisione è adottata con decreto da Presidente della Repubblica su proposta del Ministro competente in materia, sentito il parere del Consiglio di Stato che non è vincolante ma è spesso seguito.

Esistono poi altri metodi alternativi: in materia di rapporti di lavoro è stato previsto un tentativo di conciliazione necessariamente preliminare al giudizio e in caso di fallimento anche la possibilità di far risolvere la controversia ad arbitri scelti dalle parti secondo le regole previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro.In materia di lavori pubblici è disciplinato un apposito procedimento per giungere alla definizione di un accordo bonario in assenza del quale si può ricorrere all’arbitrato.

La stessa legge (205/2000) che ha ampliato la giurisdizione amministrativa esclusiva ha anche eliminato il dubbio che non potessero essere risolte in via arbitrale le controversie sui diritti soggettivi (ordinariamente è pacifico che sia possibile) quando queste sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo.

THE END

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