Dipartimento di Storia e Filosofia del Diritto e Diritto Canonico...

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Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova Dipartimento di Storia e Filosofia del Diritto e Diritto Canonico SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN: Giurisprudenza INDIRIZZO: Diritto Canonico CICLO XXI RAPPORTI TRA LO STATUTO DELLA PERSONA UMANA E LO STATUTO DEL FEDELE NELL’ORDINAMENTO CANONICO Direttore della Scuola : Ch.mo Prof. Francesco Cavalla Supervisore :Ch.mo Prof. Manlio Miele Dottorando: Dott. Costantino-Matteo Fabris

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Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova

Dipartimento di Storia e Filosofia del Diritto e Diritto Canonico

SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN: Giurisprudenza

INDIRIZZO: Diritto Canonico

CICLO XXI

RAPPORTI TRA LO STATUTO DELLA PERSONA UMANA E LO

STATUTO DEL FEDELE NELL’ORDINAMENTO CANONICO

Direttore della Scuola : Ch.mo Prof. Francesco Cavalla

Supervisore :Ch.mo Prof. Manlio Miele

Dottorando: Dott. Costantino-Matteo Fabris

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INTRODUZIONE

A più di venticinque anni dalla promulgazione del nuovo Codex

Iuris Canonici, moltissime analisi sono state svolte, da parte dei più

autorevoli canonisti, riguardo ad uno dei momenti fondamentali del

nuovo Codice: i diritti fondamentali dei fedeli.

È noto, infatti, che nel precedente Codice, non vi era spazio per

tale fondamentale argomento, per svariate ragioni. Innanzitutto la

divisione per status1, di quello che oggi è definito il Popolo di Dio,

rendeva difficile, dal punto di vista della tecnica giuridica, la

individuazione di diritti e doveri comuni a tutti i fedeli, a prescindere

dalla personale posizione di ciascuno. Tale divisione era frutto della

elaborazione giuridica dell’epoca, per cui pure il diritto della Chiesa

risentiva inevitabilmente delle concezioni positivistiche allora

imprescindibili per un legislatore, statale o canonico che fosse; “el

positivismo dominó, en mayor o menor medida, a la canonística postcodicial2

en todas sus escuelas, haciendo de la voluntad del legislador la fuente de la

juridicidad, minusvalorando los derechos subjetivos y centralizando el mundo

de lo juridico en torno al valor objetivo de la norma”3. Tale visione della

persona, in senso giuridico-formale, nel senso di riconoscere

personalità giuridica4 solamente a quei soggetti che presentavano

determinati requisiti, formali appunto5, era dunque frutto di un

momento storico (e giuridico) ben determinato. A seguito della scelta

del Codex 1917, risultava assai difficile6, se non a patto di sdoppiare la

1 Per una sintetica ma efficace sintesi della suddivisione per status dei fedeli si veda: HERVADA J., Pensieri di un canonista nell’ora presente, Venezia 2007, pp. 86-87; traduzione italiana della edizione in lingua spagnola (Pensamientos de un canonista en la hora presente) pubblicata in Pamplona nel 2004. 2 L’espressione “post-codiciale” si riferisce ovviamente al Codice del 1917. 3 DE LA HERA A., Persona e ordinamento nel diritto sacramentale della Chiesa, in AA. VV., Persona e ordinamento nella Chiesa, Milano 1975, p. 504. 4 LO CASTRO G., Personalità morale e soggettività giuridica nel diritto canonico, Milano 1974, pp. 76 ss. 5 GÓMEZ DE AYALA A., Osservazioni sull’elemento soggettivo nella nuova Codificazione canonica, in BARBERINI G. (a cura di), Raccolta di scritti in onore di P. Fedele, Perugia 1984, in particolare vedi pp. 148 ss. 6 Segnalavano strade per superare il problema GISMONDI P., Gli acattolici nel diritto

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dimensione umana (un uomo riconosciuto dal diritto canonico, ed un

altro, a lui contrapposto, “homo naturalis”) riconoscere diritti propri

dell’uomo in quanto tale, che potessero essere riconosciuti anche in

termini giuridico-canonici7, ma soprattutto era difficile avere una

visione dei fedeli nel loro complesso, prescindendo dalla loro

posizione giuridica in senso stretto8.

Non vogliamo affermare che la codificazione canonica del 1917

abbia in tutto ricalcato i codici civili moderni, chè tale affermazione

sarebbe corretta solamente se si guardasse all’aspetto formale più che

sostanziale9 di essa e facendo riferimento al concetto di individuo.

Tuttavia l’individuo, essendo definito soprattutto in senso formale,

perdeva, entro tale codificazione, i suoi aspetti sostanziali, che invece,

proprio per le peculiarità del diritto canonico, necessariamente

costituiscono un elemento fondamentale per l’individuazione di tale

soggetto (l’uomo) anche dal punto di vista giuridico, soprattutto

avendo riguardo all’”uomo-fedele”, il christifidelis della nuova

della Chiesa, in Ephemerides iuris canonici nn.2 (1946), pp. 227-249; 3 (1947), pp. 20-45 e 4 (1948), pp. 55-68. E successivamente anche: LOMBARDÍA P., Escritos de Derecho canónico, Pamplona 1973. 7 Tuttavia DEL PORTILLO A., nella prima edizione italiana del libro, Laici e fedeli nella Chiesa, Milano 1969, sottolineava come, il fatto che la legislazione canonica non parlasse di “una serie di diritti che la coscienza contemporanea riconosce imperativamente come propri della persona umana”, non significava che tali diritti non fossero rispettati dall’ordinamento canonico, ma solamente che essi non erano “giuridicamente dichiarati e riconosciuti”, e ciò perché la Chiesa offriva a tali diritti una protezione metagiuridica, che per certi versi garantisce maggiormente tali diritti rispetto a quanto fatto dalle leggi umane. 8 In realtà PIO XII nella sua enciclica Mystici corporis, n. 17, 29.VI.1943, in AAS 35 (1943), pp. 193-248, aveva a dire, pure in un ragionamento più esplicitamente teologico: “Non bisogna però credere che questa organica struttura della Chiesa sia costituita dai soli gradi della gerarchia e ad essi limitata, oppure, come ritiene un’opposta sentenza, consti unicamente di persone carismatiche. […] Ma giustamente i Padri della Chiesa, quando lodano i ministeri, i gradi, le professioni, gli stati, gli ordini, gli uffici di questo Corpo, hanno presenti sia coloro che furono iniziati ai sacri ordini, sia quelli che, abbracciati i consigli evangelici, menano o una vita nascosta nel silenzio o una vita che l’una e l’altra congiunge secondo il proprio istituto; sia quelli che nel secolo si dedicano con volontà fattiva alle opere di misericordia per venire in aiuto alle anime e ai corpi; infine coloro che son congiunti in casto matrimonio. […] anche essi, ispirati e aiutati da Dio, possono ascendere al vertice della più alta santità, la quale, secondo le promesse di Gesù, non mancherà mai nella Chiesa”. 9 BONNET P. A., De momento codificationis pro iure Ecclesiae, in Periodica de re morali canonica liturgica 70 (1981), pp. 303-368.

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codificazione. A tal proposito Lo Castro ricordando che, anche per il

legislatore canonico del 1917, la dignità della persona umana rimaneva

comunque la fonte primaria di diritti e doveri, tuttavia ammetteva che

il CIC17 si era mosso: “lungo l’asse affatto opposto, espressione

dell’idea della priorità del momento normativo, e dell’autorità che lo

pone, rispetto alla realtà umana; idea per la quale è l’ordinamento

giuridico ad attribuire personalità, soggettività, capacità giuridica, ad

essere propriamente ‘fonte’ delle medesime”10.

In particolare la tripartizione per status11 dei fedeli, operata dal

CIC del 1917, non ponendo dal punto di vista formale tutti i battezzati

sullo stesso piano, ne comportava di conseguenza anche un diverso

valore sul piano sostanziale. Volendo tale tripartizione sottolineare il

principio gerarchico vigente nella Chiesa, e le diversità esistenti fra le

varie membra del medesimo corpo, si ottenne tuttavia il risultato di

incentrare gran parte delle norme sulla funzione dei chierici e dei

religiosi12, restando la categoria della persona in quanto tale, solamente

come concetto subalterno, o, come anche sostenuto forse

eccessivamente, di vera contrapposizione tra laicato e clero13.

Tra la prima e la seconda codificazione è poi intervenuto quel

fondamentale evento ecclesiale che fu il Concilio Ecumenico Vaticano

II14, che mutò la prospettiva ed i “rapporti” (giuridici si intende) Chiesa

10 LO CASTRO G., La rappresentazione giuridica della condizione umana nel diritto canonico, in Il diritto ecclesiastico 92 (1981), p. 242. 11 L'ordinamento canonico, in questo senso, riprendeva anche il concetto di persona-status di derivazione romanistica, nel diritto romano, infatti, non bastava essere uomo per essere persona in senso giuridico, l'uomo doveva possedere ulteriori qualità, legate al suo status proprio: doveva essere libero (status libertatis), doveva essere cittadino (status civitatis), non doveva essere soggetto al pater familias (nello status familiae). Vedi fra gli altri MARRONE M. Istituzioni di diritto romano, Palermo 1989, pp. 249-374. 12 I laici, tra l’altro, vedevano considerata la loro posizione solo in senso negativo: non chierici. 13 BONNET P. A., “Habet pro conditione dignitatem libertatemque filiorum Dei”, in Il diritto ecclesiastico 92 (1981), pp. 548-620. 14 “La rilevanza canonica del Concilio Vaticano II riguarda tre ambiti: i principi dottrinali contenuti nei suoi documenti e aventi incidenza nel Diritto canonico; le direttive giuridiche proposte dal Concilio e di cui tenere conto al momento della revisione del Codice; e le nuove istituzioni sorte dal Concilio Vaticano II, e da tenere

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gerarchica-Popolo di Dio15, e che non poteva dunque non avere riflessi

sulla codificazione canonica16. Dal punto di vista teologico si è data

assoluta rilevanza all’individuo in quanto uomo, e tale evoluzione ha

reso necessaria la revisione del codice di diritto canonico del 191717, il

quale rimane tuttavia un momento positivo per la Chiesa, avendo

permesso un notevole sviluppo della scienza canonistica18. Si può ben

dire, come a suo tempo evidenziato dal Corecco, che con il passaggio al

codice del 1983 è il christifidelis19 a diventare il soggetto principale

dell’ordinamento; mentre nel codice del 1917 i fedeli non avevano

alcun rilievo giuridico se non “nella misura in cui utilizzano per la

salvezza della loro anima degli strumenti che sono loro offerti dalla

gerarchia”20, nel codice del 1983 l’autorità rimane comunque il

fondamento della Chiesa, come principio e come base dell’unità di tutti

presenti anche nella futura legislazione”. Vedi: CENALMOR D. – MIRAS J., Il diritto della Chiesa. Corso di diritto canonico, Roma 2005, p. 73. 15 Tale concetto ecclesiologico è per altro presente nella dottrina canonistica anche anteriore al Concilio Vaticano II, in particolare vedi: EICHMANN E. – MÖRSDORF K., Lehrbuch des Kirchenrechts, V ed., Paderborn 1947. In tale manuale si spiegva tra l’altro che: “La Chiesa è il nuovo Popolo di Dio, che vive in un ordine gerarchico, per realizzare il Regno di Dio sulla terra” (p. 21); inoltre nel pensiero di Mörsdorf, la Chiesa trovava la sua denominazione ideale proprio nel concetto di popolo di Dio: “tra le diverse denominazioni della Chiesa, le uniche che abbiano un significato oggettivo, sono quelle ufficiali di Ecclesia e di λαòς Θεου = populus Dei, che sopravvivono nel linguaggio liturgico”, Op. cit., XI ed., p. 9. Per quanto riguarda invece la teologia tedesca sul concetto di popolo di Dio, si vedano, per l’esegesi: VÖGTLE A., Jesus und die Kirche, in KARRER O. (a cura di), Begegnung der Christen, Stuttgart-Frankfurt 1959, pp. 54-81; SCHILER H., Die Einheit der Kirche nach dem Apostel Paulus, in Begegnung, cit., pp. 98-113; SCHNACKENBURG R., Die Kirche im Neuen Testament, Friburgo 1961, q. 14. Per quanto riguarda la teologia dogmatica, si vedano: BACKES I., Gottes Volk im Neuen Bunde, in Trierer theologische Zeitschrift 70 (1961), pp. 80-93; SCHAUF H., De corpore Christi sive de Ecclesia Christi theses. Die Ekklesiologie des Konzils-theologen Clemens Schrader, Friburgo 1959; SCHMAUS M., La Chiesa, Torino 1963, pp. 180-205. 16 È noto che già nelle intenzioni di Papa Giovanni XXIII, vi era quella della riforma del Codex del 1917, annunciata contestualmente all’annuncio della indizione del Concilio. Vedi: GIOVANNI XXIII, Discorso con cui si annuncia il Sinodo romano, il Concilio Ecumenico e la revisione del CIC17, 25.I.1959, in AAS 51 (1959), pp. 65-69. 17 LOMBARDÍA P., Lezioni di diritto canonico. Introduzione – Diritto Costituzionale – Parte generale, Milano 1985. 18 FELICIANI G., Le basi del diritto canonico, Bologna 1979. 19 Nel CIC17, il termine christifideles compare solamente nell’Indice Analitico-Alfabetico del Codice; Codex Iuris Canonici anno1917 Pii X pontificis maximi iussu digestus Benedicti papae XV, Città del Vaticano 1996 (ristampa anastatica), p. 752. 20 CORECCO E., Teologie et droit canon. Ecrits pour une nouvelle teorie du droit canon, raccolta di scritti a cura di LE GAL P., Friburgo 1990, p. 255.

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i fedeli, divenuti veri soggetti della Chiesa e però la nuova figura del

christifidelis diviene fondamentale in quanto teologicamente e

giuridicamente: “ingloba al contempo quella del laico, quella

dell’ordinato e quella del religioso (nel senso ampio di tutti coloro che

assumono i consigli evangelici) senza mai confondersi con uno di

questi stati”21.

Moltissimo è stato scritto sul contenuto dei canoni del nuovo libro

II del CIC e sarebbe un lavoro di una certa difficoltà, anche solo

redigere una bibliografia completa di quanto è stato scritto, non

solamente dalla promulgazione del codice ad oggi, ma anche avendo a

riguardo il periodo intercorso tra la fine del Concilio e la

promulgazione del Codice medesimo.

Inaugurando i lavori della Commissione Pontificia per la

revisione del Codice di Diritto Canonico, creata da papa Giovanni

XXIII il 28.III.1963, papa Paolo VI il 20.XI.1965, sottolineò l’importanza

di creare, accanto alle codificazioni latina e orientale, un “Codice

comune e fondamentale, nel quale sia contenuto il Diritto costitutivo

della Chiesa”22.

Accanto ai vari schemata di revisione del codice, fu sviluppato il

progetto della Lex Ecclesiae Fundamentalis23, il quale, seppure mai

approvato, fu in parte trasfuso nell’ultimo progetto del codice (lo

Schema novissimum); tale progetto voleva tracciare una sorta di diritto

costituzionale della Chiesa, che stesse alla base e in posizione

sovraordinata rispetto al codice. Tutta questa produzione legislativa,

costituì fonte per la produzione dottrinale canonica, durante tutto

l’arco temporale in cui durarono i lavori preparatori del codice.

21 CORECCO E., Teologie et droit, cit., p. 256. 22 PAOLO VI, Discorso ai membri della Pontificia Commissione per la revisione del CIC, 20.XI.1965, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. III, Città del Vaticano 1966, pp. 640-644 23 Sul progetto di LEF, suo sviluppo storico e contenuti, si veda: CENALMOR D., La Ley Fundamental de la Iglesia: historia y análisis de un proyecto legislativo, Pamplona 1991; ed in estrema sintesi pure in: CASTILLO LARA R., I doveri e i diritti dei christifideles, in Salesianum 48 (1986), pp. 307-329.

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Una analisi di tutta questa produzione dottrinale intermedia,

unita a quella prodottasi in seguito alla promulgazione del nuovo

codice, rende immediatamente evidente la rilevanza avuta dal diritto

riguardante il Popolo di Dio, nella nuova codificazione, con particolare

riferimento ai diritti fondamentali dei fedeli24.

Se si è discusso e approfondito moltissimo il tema dei diritti

fondamentali dei fedeli dal punto di vista giuridico-canonico, è tuttavia

mancato un parallelo approfondimento sugli aspetti filosofico-teologici

che stanno alla base di tali diritti fondamentali dei fedeli. Si è

approfondito di più il carattere esteriore delle norme canoniche,

prestando invece meno attenzione ai principi interiori delle medesime.

Nella vigenza della precedente codificazione, tuttavia, era stato

ampio il dibattito sul valore interiore della legislazione canonica, sulla

scia di una tradizione dottrinaria canonica, che partiva da S. Tommaso

e passava per il Suárez. Canonisti come il Cappello25, il Michiels26 e il

Van Hove27 hanno sottolineato come, essendo il fondamento delle leggi

ecclesiastiche costituito dal diritto divino, sia indispensabile che la

norma giuridica canonica rispetti principi che non possono essere di

indole esclusivamente giuridica, nel senso che il termine ha assunto nel

linguaggio positivistico.

Il diritto canonico, infatti, contiene al suo interno norme e principi

che sono di diversa natura: anzitutto vi è il diritto divino, che a sua

volta si divide in positivo e naturale (diritto naturale in senso stretto),

d’altro lato, vi sono le norme di diritto positivo umano, le quali però,

non possono porsi in opposizione con i principi del diritto divino, al

contrario devono conformarsi ai principi dettati da quello.

24 Per una efficace sintesi delle varie e principali proposizioni della dottrina canonistica contemporanea, in ordine al concetto di diritto canonico, si veda: REDAELLI C. R. M., Il concetto di diritto della Chiesa nella riflessione canonistica tra Concilio e Codice, Milano 1991. 25 CAPPELLO F., Summa iuris canonici, Roma 1932, pp. 6 ss. 26 MICHIELS G., Normae generales iuris canonici – Commentarius libri I Codicis Juris Canonici, vol. I, Parigi 1949, pp. 211 ss. 27 VAN HOVE A., Prolegomena ad Codicem Iuris Canonici, Roma 1945, p. 45.

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La difficoltà maggiore, evidenziata da numerosi canonisti, risiede

nel fatto che, i principi di diritto divino naturale, non sempre sono di

facile intelligibilità per il soggetto che è chiamato a codificarli e tanto

meno per i soggetti che sono chiamati a rispettarli. In questo senso si

era posto il problema della cosiddetta canonizatio del diritto divino

nell’ordinamento canonico, teoria particolarmente sviluppata dalla

scuola laica italiana, in particolare dal Del Giudice28. Teoria che ha

avuto una costruttiva opposizione da parte della scuola spagnola di

Pamplona. Proprio per quanto riguarda l’indole giuridica del diritto

divino naturale e positivo, il Lombardia ha sostenuto come, tale diritto

non debba rimanere confinato in un ambito che non sia strettamente

quello giuridico, in altre parole: il diritto divino naturale è, di per sé

stesso vero diritto29, pur con le peculiari caratteristiche sue proprie,

derivatigli dalla sua origine ultraterrena. Da tali peculiarità del diritto

canonico consegue la considerazione che la scienza giuridica

canonistica deve avere un metodo proprio, differenziantesi da quello

della scienza giuridica secolare30, in quanto anche l’ordinamento

canonico rappresenta un ordinamento che si differenzia in modo

sostanziale da ogni altro.

Dal canto suo Hervada, proseguendo in questa direzione sostiene

la specificità della scienza canonica, che si distingue anche dalla

teologia, pur essendo indubbio che la teologia sia indispensabile ai fini

della sua analisi e comprensione31. Per questo secondo autore diviene

fondamentale il tema del diritto naturale inteso quale vero diritto, non

28 In particolare si veda: DEL GIUDICE V., Istituzioni di diritto canonico, I ed., Milano 1932 e le successive edizioni dei manuali di diritto canonico dello stesso A. Anche Hervada, prenderà spunto dalla dottrina canonistica italiana per formulare la sua teoria riguardo alle peculiarità dell’ordinamento canonico, soprattutto per quanto espresso in ordine ai fini di detto ordinamento; vedi: HERVADA J., El ordenamiento canónico I. Aspectos centrales de la construcción del concepto, Pamplona 1966, pp. 159-181. 29 Tale pensiero si incontra per la prima volta in LOMBARDÍA P., Derecho divino y persona fisica en el ordenamiento canónico, in Temis 7 (1960), pp. 187-203, ora anche in Escritos de Derecho Canónico, vol. I, Pamplona 1973, pp. 223-253. 30 LOMBARDÍA P., Il diritto canonico nella vita della Chiesa, in Studi cattolici 12 (1968), p. 345. 31 HERVADA J., Pensamientos, cit., I ed. del 1989, p. 20.

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solamente all’interno dell’ordinamento canonico, ma anche di ogni

altro ordinamento giuridico, sottolineando come “Derecho divino y

Derecho humano forman, en nuestra opinion, un unico sistema juridico”32.

Non è concepibile un sistema giuridico che elimini il diritto

naturale, dal momento che fra diritto naturale e diritto positivo vi è

una unità ed una integrazione reciproca33; tale principio di unità è

triplice: la legge positiva si genera a partire da quella naturale, per cui

quest’ultima rappresenta la base del diritto positivo; il potere di

emanare norme positive è un diritto naturale; le relazioni giuridiche

fondamentali che stanno alla base di ogni altra, sono naturali.

Ogni ordinamento giuridico, per essere tale, deve essere volto a

creare un sistema di giustizia34, la base per creare un ordinamento

giuridico giusto è il diritto naturale, in quanto diritto che costituisce un

giusto ordine di valori35, in questo si riprende la teoria classica del

diritto, che vede appunto il diritto come qualcosa di giusto36.

Per questo autore giocano inoltre un ruolo fondamentale, per la

comprensione dell’ordinamento canonico, i sacramenti, intesi come

strumenti di giustizia all’interno della Chiesa, dal momento che sono

stati attribuiti direttamente da Cristo agli uomini affinché gli uomini

potessero, attraverso di essi, identificarsi con Lui37.

32 HERVADA J., Introducción critica al derecho natural, Pamplona 1981, p. 50. 33 HERVADA J., Introduzione critica al diritto naturale, Milano 1990, p.179. 34 In questa prospettiva si pone anche ERRÁZURIZ C. J., Il diritto e la giustizia nella Chiesa. Per una teoria fondamentale del diritto canonico, Milano 2000, pp. 93-136. 35 Per queste fondamentali tematiche riguardanti i rapporti fra diritto e giustizia e fra diritto naturale ed ordinamenti giuridici vedi, in particolare: HERVADA J., Introduzione critica, cit., Milano 1990. 36 ULPIANO, Digesto 1,1,10 , ove si afferma: “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi” (la giustizia è la costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto). Commenta a tal proposito ERRÁZURIZ C. J., Il diritto e la giustizia, cit., p. 96: “Il diritto viene così considerato quale oggetto della giustizia, ossia come ciò che è giusto. Non vanno dimenticati i rapporti di questa giustizia e del suo diritto con l’intera realtà pratica (morale, politica, ecc.) dell’uomo”. 37 HERVADA J., Las raices sacramentales del derecho canónico, in Vetera et Nova. Questiones de Derecho Canónico y afines (1958-1991), vol. II, Pamplona 1991, pp. 855-892.

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Hervada definisce la scienza canonistica in questi termini: “La

ciencia canonica studia y conoce las realidades sociales ecclesiasticas sub

ratione iusti, o, si se prefiere, sub ratione iustitiae; en cambio la teologia las

estudias sub ratione Deitatis. A diferentes perspectivas u objetos formales,

distintas ciencias. No es lo mismo estudiar una relacion social eclesial en

razon de lo debido por una persona a otra (sub ratione iusti), que en razon de

Dios (sub ratione deitatis)”38.

A tutte queste questioni centrali per l’ordinamento canonico, si

deve aggiungere quella relativa al fine ultimo di detto ordinamento,

che è e deve restare quello della salus animarum.

“La funzione del diritto nella Chiesa deve sempre corrispondere

alla peculiare natura della comunità, alla quale esso è destinato. La lex

suprema, cioè la salus animarum, la carità, che, come vinculum

perfectionis, dà perfezione alla stessa giustizia, devono sempre

illuminare e guidare ogni studio sul diritto della Chiesa e presiedere

alla sua giusta applicazione nella comunità ecclesiale. Certamente non

possiamo confondere l'ordine della natura e quello della grazia, e

dobbiamo attribuire al diritto, che è espressione di giustizia umana, un

valore ed una forza capaci di ordinare il vivere sociale civile. Ma nella

Chiesa, che è società soprannaturale, vivificata continuamente dallo

Spirito, il diritto aggiunge, alla funzione suddetta, l'altra di essere

veicolo della carità: è mezzo che tende a quell'unità, di cui Cristo volle

dotata la sua Chiesa”39. Come sintetizzato magnificamente da S. Leone

Magno: “Nihil aliud est diligere Deum quam amare iustitiam”40. Anche lo

stato e l'ordine sociale da questo prodotto è a servizio dell'uomo, e

tuttavia vi è una essenziale differenza fra stato e Chiesa nella

costruzione di tale ordine, del quale il diritto è uno strumento

imprescindibile: “Nella Chiesa l'ordine sociale non si limita a procurare

il quadro di vita comunitaria necessario per lo sviluppo della persona 38 HERVADA J., Pensamientos, cit., p. 21. 39 FELICI P., Comunità e dignità della persona, in Persona e ordinamento nella Chiesa, Milano 1975, pp. 9-10. 40 S. LEONE MAGNO, Sermo 95, in PL 54, 464.

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umana. Infatti, tale ordine assume inoltre una funzione strumentale

rispetto all'attuazione del rapporto trascendentale della persona verso

Dio, incontrato in un modo sovrannaturale nella comunione ecclesiale

mediante l’effusione della grazia sacramentale”41.

Come giustamente osservato la visione positivistica del diritto

canonico conteneva in sé un errore di fondo nella sua analisi del diritto

canonico: non si considerava “che la validità della norma canonica è

condizionata anche dalla legittimazione della sua effettiva funzionalità

all'indicato fine (che è la salus animarum, come anche ribadito nella

Costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges42 n.d.r.)”43; la salus

animarum fine funzionale supremo della Chiesa, cui il suo peculiare

diritto deve sempre far riferimento (vedi can. 1752), non può essere

ricondotta a schemi giuridici positivi, connotando piuttosto il diritto

canonico in un ambito giuridico suo proprio, che potrebbe essere

definito giuridico-sacramentale o giuridico-teologico. “La salus riguarda, in

effetti, ciascuno degli appartenenti alla Chiesa e dipende dalle «scelte»

che vengono operate nel rapporto individuale con la Divinità, sicchè il

«dover essere» inerente a tale salus si colora di etica e di morale e

dunque non sembra assimilabile al «dover essere» proprio della norma

giuridica [...] La «salvezza», infatti, che non si raggiunge in questo

mondo (possiamo dire: all'interno dell'ordinamento canonico) non può

essere né imposta né realizzata per legge nell'altro. Per la salvezza di

ciascuno, in realtà, l'ordinamento deve preoccuparsi di predisporre

condizioni, presupposti, aiuti: sia per rendere effettivi i diritti

individuali di operare le scelte di salvezza e di usufruire dei mezzi

(come annoteremo: dei sacaramenti) necessari ad hoc; sia per regolare le

relazioni intersoggettive ordinate e armoniosamente sintoniche con

41 LECLERC G., Persona e ordinamento nella Chiesa come società sovrannaturale, in Persona e ordinamento nella Chiesa, Milano 1975, p. 79. 42 Vedi nn. 3 e 33. 43 GHERRO S., Diritto canonico (nozioni e riflessioni). I.-Diritto costituzionale, Padova 2005, pp. 49-50.

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siffatte scelte (dovere di perseguire la salus animarum)”44. Come ha avuto

a ricordare anche l’allora Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi

Legislativi, in merito ai criteri fondamentali da tenere presenti per la

interpretazione delle norme canoniche: “per quanto concerne […] il

senso cioè e finalità della legge da interpretare, mi sembra di dover fare

almeno una considerazione, e cioè: la necessaria fedeltà dell’interprete al

carattere intrinsecamente pastorale della norma canonica, cosciente che tutto

l’ordinamento giuridico del Popolo di Dio ha una funzione

strumentale al servizio appunto dell’azione salvifica della Chiesa. Ciò

significa, che così come nell’insegnamento del Diritto canonico non è

sufficiente il solo metodo esegetico dei canoni, ma ci vuole anche la

costruzione sistematica e scientifica che enuclea i principi e relazioni ed

ordina le conoscenze acquisite, così pure sarebbe insufficiente – e

spesso equivoca ed ingannevole – un’ermeneutica puramente esegetica

dell’interpretazione dei testi legislativi. Voglio dire che l’esatta

determinazione del significato tecnico-giuridico dei termini è

certamente necessaria, ma questa precisazione deve essere fatta

all’interno della più vasta comprensione del contesto normativo e della

«salus animarum»”45.

Il diritto canonico non è il fine della Chiesa, esso è solamente un

mezzo46 che serve ad attuare quel fine supremo che è la salus animarum,

in ordine al quale la Chiesa si dota di strumenti umanamente validi ad

attuare tale fine, tra i quali vi è indubbiamente il diritto canonico. E

tuttavia tale mezzo, che come visto è stato spesso ritenuto superfluo

quando addirittura non dannoso o stravolgente l'essenza stessa della

Chiesa, appare sicuramente necessario, dal momento che “il

cristianesimo, quale è inteso nella visione cattolica, non è soltanto una

dottrina che insegna le vie della vita interiore e prepara alla vita 44 GHERRO S., Op. cit., pp. 52-53. 45 HERRANZ J., Salus animarum, principio dell’ordinamento canonico, discorso alla Pontificia Università della Santa Croce in Roma, del 6.IV.2000, ora in Ius Ecclesiae 12 (2000), pp. 292-307 46 Vedi CIPROTTI P., Persona e ordinamento nel diritto costituzionale della Chiesa, in AA. VV., Persona e ordinamento nella Chiesa, Milano 1975, p. 291.

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ultraterrena ma è un sistema di pensiero e di vita che vuole foggiare,

secondo assolute esigenze tutte spirituali, anche la vita esteriore

dell'uomo e quindi la vita sociale, e costruire in un mirabile organismo,

in cui lo spirito abbia il primato, anche la vita di questo mondo terreno”47.

In questo contesto, che come si vede con chiarezza, non può

essere considerato solamente in prospettiva giuridica, ma che, al

contrario, implica una lettura delle norme che tenga conto di tutti

questi aspetti che sono ad esse sottese, si capisce la difficoltà di

svolgere una analisi dei canoni riguardanti i diritti fondamentali dei

fedeli, che abbracci tutte queste questioni; vi è sempre il rischio di

cadere nella parzialità, accentuando vuoi questa, vuoi quella questione,

con il rischio di travisare il senso reale delle norme.

Ci pare quindi di fondamentale importanza partire proprio dai

soggetti di tali canoni: i christifideles; come dovrebbero leggere ed

applicare le norme che sono loro destinate dal Codice? È possibile

scrivere una teoria generale di tale fondamentale argomento? Nel corso

di questo lavoro si tenterà di fornire una risposta a tali quesiti, risposta

che, per essere quanto più completa possibile, dovrà anche analizzare

gli argomenti del dibattito canonistico più sopra ricordati: il ruolo del

Popolo di Dio all’interno della Chiesa, il valore per i christifidelis del

diritto divino positivo e naturale, il rapporto fra le norme canoniche,

così come vissute dai fedeli ed il fine ultimo della Chiesa: la salus

animarum.

Come è stato giustamente scritto: “l’autorità e il potere della

Chiesa nel mondo non provengono dagli Stati, ma dalla conversione

dei popoli e dei principi, dall’esistenza di un corpo sociale

indipendente”48, non si può quindi, prescindere dagli aspetti

riguardanti i fedeli, allorquando si analizzi il diritto che pure regola la

“società Chiesa”.

47 GIACCHI O., Sostanza e forma nel diritto della Chiesa, in Jus (1940), p. 406. 48 DUPUY B. D., L’autorité de l’Eglise selon W.E. Gladstone et selon J.H. Newman, in Newman Studien IX, Norimberga 1974, p. 141.

15

Nella nostra analisi sul senso della giustizia, all’interno

dell’ordinamento della Chiesa, terremo presenti due elementi

fondamentali, che influiscono sulla giustizia e conseguentemente sul

diritto: la norma e la persona. La prima è elemento giuridico necessario

ad assicurare un sistema giuridico giusto ed a consentire la vita di una

società umana, quale la Chiesa terrena è, ma in un ordinamento come

quello canonico, in cui non tutto il diritto è scritto e dove non è

possibile stabilire una norma sicura per condurre l’uomo alla salvezza,

la persona ed il suo atteggiamento nei confronti della giustizia,

divengono un elemento assolutamente fondamentale per comprendere

come la giustizia possa divenire un qualcosa di concreto senza

rimanere una pura astrazione.

16

17

1. PRESUPPOSTI TEOLOGICI

Non si sa con certezza quali furono le fonti teologiche dalle quali

Papa Giovanni XXIII prese spunto e da cui derivò l’idea dell’indizione

di un Concilio Ecumenico. A dire il vero nemmeno si sa se tali fonti vi

furono, anche se rimane difficile credere ad una iniziativa

estemporanea e totalmente “solitaria” del Pontefice. Non sappiamo

perciò se, e quale ruolo abbia potuto giocare un testo quale Vraie et

fausse réforme dans l’Eglise, pubblicato nella sua prima edizione nel

1950, e che pare sia stato letto dall’allora nunzio apostolico in Francia,

Angelo G. Roncalli. Tuttavia, rileggendo il celebre testo del p. Congar,

si ritrovano molte delle tematiche affrontate nel corso del Concilio

Vaticano II, nel quale il teologo francese ebbe una parte non certo

irrilevante, dal momento che, come noto, fu tra i periti del Concilio.

Esulerebbe dalla nostra trattazione una analisi approfondita della

portata dell’opera di Y. Congar, e delle influenze che ebbe sul Concilio

e sulla ecclesiologia successiva all’evento conciliare, tuttavia facciamo

nostre due brevi osservazioni svolte da Camisasca sull’opera del p.

Congar: “Tale ecclesiologia [quella di Congar n.d.r.] riprende in esame

la presenza del divino e dell’umano nella Chiesa: è in fondo su questo

problema, del rapporto umano/divino nella Chiesa, che si era operata

la rottura della Riforma. Ed è su questo tema che si sviluppa lo studio

e la riflessione di Congar. […] Tutta l’ecclesiologia di Congar…si fonda

sulla scoperta della presenza di una fondamentale dualità nella Chiesa,

la dualità tra dato e agito: c’è una vita, all’inizio, qualcosa che è già

dato, la vita di Dio in Cristo alfa («tout est déjà accompli dans le Christ»1),

e tutto quello che viene dopo è solo l’apparire di questa pienezza

iniziale («l’Eglise est seulement la manifestation de ce qui est en lui»2);

eppure, proprio perché questa salvezza deve essere applicata a tutti

occorre un agire dell’uomo, occorre che l’uomo traffichi il talento che si

1 CONGAR Y., L’Eglise et son unité, in ID., Esquisses du mystére de l’Eglise, Parigi 1953, p. 26. 2 Ibidem.

18

trova tra le mani: «Il nous faut encore réaliser le Christ et construir son

corps. Double vérité que nous appellerions volontiers dialectique du ‘donné’ et

de ‘l’agi’»3. «L’Eglise est le résultat de la synérgie d’un don fait gratuitement

et qui, étant de Dieu, est parfaitement pure, et d’une activité de l’homme dans

laquelle jouent sa libertè, ses limites, sa fallibilité naturelle»4”5.

Ai fini della nostra analisi, volta a determinare gli aspetti

soggettivi dello statuto del fedele all’interno dell’ordinamento della

Chiesa, l’opera del p. Congar appare fondamentale, specialmente per

quanto riguarda la presa di coscienza, da parte della teologia del

secolo XX, della necessità da parte ecclesiale, di rivolgere una

rinnovata attenzione al ruolo dei fedeli nella Chiesa e nel mondo.

Non è possibile, nello sviluppo del nostro lavoro di ricerca, la

disamina approfondita dei progressi ecclesiologici svolti dai vari

teologi del secolo scorso, che hanno in qualche maniera influenzato lo

sviluppo ecclesiologico del Concilio Vaticano II, che sarà poi alla base

della riforma codiciale, tuttavia daremo brevemente conto delle

tendenze sviluppatesi in quegli anni pre-conciliari6.

La teologia del secolo XX, può essere suddivisa a seconda del tipo

di riforma ecclesiale che veniva di volta in volta proposta; è così

possibile individuare alcuni movimenti di rinnovamento: il

movimento biblico, il movimento patristico, il movimento liturgico, il

movimento ecumenico.

3 CONGAR Y., L’Eglise et son unité, cit., p. 26. 4 CONGAR Y., Le Saint-Esprit et le Corps apostolique, in Esquisses du mystére de l’Eglise, cit., p. 26. 5 CAMISASCA M., Saggio introduttivo all’edizione italiana, in CONGAR Y., Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1994², pp. II-IV. 6 Utilizzeremo, per questa seppur superficiale analisi, alcuni testi dei teologi che via via citeremo nel testo; la scelta dei testi è ovviamente parziale, e fatta sulla base di scelte personali (seppur meditate), che non pretendono di voler rappresentare il pensiero completo degli autori citati.

19

1.1. Il Movimento biblico.

Nei decenni precedenti il Concilio, si sviluppò una certa

riflessione biblica attorno al significato del termine ekklesia. La

riflessione biblica ha portato ad interrogarsi sul significato stesso del

termine Chiesa, ed in particolare del rapporto tra Chiesa universale e

Chiese particolari, dal momento che nel Nuovo Testamento il termine

ekklesia viene utilizzato sia per indicare l’unica Chiesa di Cristo, estesa

ovunque (quindi nella sua dimensione di cattolicità), sia per indicare le

singole Chiese locali. Il NT presenta la Chiesa come “corpus

Ecclesiarum” (LG, n. 23), ovvero non come un insieme di fedeli che

vanno via via aggiungendosi alla primitiva Chiesa di Gerusalemme,

ma come il sorgere di nuove comunità di fedeli, anche localizzate in

zone geografiche lontane tra loro, che vengono denominate anch’esse

Chiese.

La missione di Cristo ai discepoli è infatti quella di evangelizzare

tutte le genti nel Suo nome, tale missione non è certo marginale, dato

che, come è stato posto in evidenza, occupa un ruolo centrale anche

durante la vita della comunità dei discepoli con Cristo, che dopo la

resurrezione trova tuttavia piena attuazione7.

1.2. Il movimento patristico.

La teologia patristica ha grandemente contribuito ad

approfondire le conoscenze relative alla vita della Chiesa dei primi

secoli. Questi studi evidenziarono alcuni aspetti fondamentali della

Chiesa primitiva: l’ampia autonomia di cui godeva ciascuna Chiesa, il

ruolo dei loro pastori propri, il ruolo del presbiterio nelle singole

Chiese, il ruolo dei laici. Tali tematiche vennero sviluppate in maniera

assai approfondita nell’ambito della “Nouvelle Théologie”,

7 Cfr. VANHOYE A., La Chiesa locale nel Nuovo Testamento, in AMATO A. (a cura di), La Chiesa locale. Prospettive Teologiche e Pastorali, Roma 1976, pp. 21-22.

20

movimento sviluppatosi nella prima metà del XX secolo, specialmente

in Francia8.

1.3. Movimento liturgico.

Tale movimento9 si sviluppò specialmente in ambito benedettino

franco-germanico, con il duplice obiettivo, da un lato dogmatico, volto

ad approfondire il significato pasquale della liturgia, dall’altro

pastorale, volto ad aumentare la partecipazione attiva dei fedeli alle

celebrazioni liturgiche. Tale movimento ha portato ad una riscoperta

della dimensione sacramentale, soteriologica e comunionale della

Chiesa, dimensioni che trovano nella celebrazione della santa

eucaristia il loro momento di vera pienezza.

1.4. Movimento ecumenico10.

Questo movimento prese a svilupparsi a partire dalla Conferenza

Mondiale di Edimburgo tenutasi nel 1910, nel corso della quale si

gettarono le basi di tale movimento. Pur essendo la Chiesa cattolica

assente a tale conferenza, che dunque vedeva rappresentate

fondamentalmente le varie anime protestanti del cristianesimo,

tuttavia essa segna l’inizio di una riflessione di tipo ecumenico anche

in ambito cattolico.

Nel 1948, nasce il Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC), il

quale più tardi si definirà come “associazione di Chiese che confessano

8 Tra i principali autori di tale movimento ricordiamo: Henri De Lubac (1896-1991) e Jean Daniélou (1905-1975) entrambi gesuiti, Hans Urs von Balthasar (1905-1988) e Joseph Ratzinger (1927-). 9 Tra i principali autori di tale movimento citiamo: Lambert Beauduin (1873-1960) e Odo Casel (1886-1948) entrambi benedettini, J. A. Jungmann (1889-1975) gesuita e Romano Guardini (1885-1968). 10 Per un approfondimento sulla Chiesa e sull’ecumenismo si vedano: RODRÌGUEZ P., Iglesia y ecumenismo, Madrid 1979, nonché, per la storia del movimento ecumenico: THILS P., Historia doctrinal del movimento ecuménico, Madrid 1965; MONDIN B., L’ecumenismo nella Chiesa Cattolica prima, durante e dopo il Concilio, Roma, 1966².

21

il Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore secondo le Scritture e

cercano perciò di realizzare insieme la loro comune vocazione per la

gloria dell’unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo”11.

La Chiesa cattolica inizia a partecipare ad un gruppo misto di

lavoro con il CEC nel 1964, e nel 1968, alcuni teologi cattolici entrarono

a far parte come membri effettivi della Commissione “Fede e

Costituzione” del Dipartimento teologico del CEC.

Fra i principali promotori del Movimento ecumenico è senza

dubbio da ascrivere Yves Congar (1904-1995), domenicano, il quale fu

uno dei principali promotori della unità dell’unica Chiesa di Cristo,

nonché, come visto, uno dei principali protagonisti del Concilio

Vaticano II.

1.5. Alcune riflessioni teologiche a margine del Concilio Vaticano II.

Tali movimenti, sviluppatisi negli anni precedenti al Concilio

Ecumenico Vaticano II, portarono a delle conseguenze evidenti sui

documenti conciliari ed a cascata, se così si può dire, sui successivi

documenti ecclesiologici e giuridici prodotti dalla Chiesa. Due i

principali filoni teologici riscontrabili in tutti i movimenti più sopra

brevemente tratteggiati12: da un lato la spinta all’unità, la ricerca di

una via per riportare tutti i fedeli di Cristo nell’unica Chiesa; dall’altro

11 CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE, Dichiarazione nella Terza Assemblea del CEC, Nuova Dehli 1961. 12 All’apertura della Seconda Sessione del Concilio Vaticano II, è lo stesso papa Paolo VI che afferma, indicando quali debbano essere gli scopi del Concilio: “parliamo della sua [di Cristo n.d.r.] Chiesa, che è società spirituale e visibile, fraterna e gerarchica, temporale nel presente, ma un giorno permanente in eterno. Venerabili Fratelli, se consideriamo con attenzione ciò che è della massima importanza, cioè che Cristo è il nostro Creatore e il nostro Capo, non visibile con gli occhi ma vero, e che noi riceviamo tutto da lui, tanto che con lui diventiamo il «Cristo totale», del quale leggiamo in Sant’Agostino e del quale è pervasa tutta la dottrina sulla Chiesa, senza dubbio allora appariranno evidenti gli scopi primari di questo Concilio: i quali scopi, per brevità e chiarezza, riassumeremo in quattro punti, che sono: la definizione o, se si preferisce, la coscienza di Chiesa, la sua riforma, la ricomposizione dell’unità tra tutti i cristiani e il dialogo della Chiesa con gli uomini contemporanei”, PAOLO VI, Allocuzione per l’inizio della Seconda Sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 29.IX.1963, nn. 3.6-3.7, in Documenti. Il Concilio Vaticano II, Bologna 1967, p. 42.

22

il riconoscimento della dualità che deve essere necessariamente

presente in questa unica Chiesa: essa è allo stesso tempo terrestre e

spirituale, ed in quanto tale deve saper condurre l’uomo terreno verso

i valori celesti, senza per ciò disprezzare le realtà terrene, ma al

contrario operando nella realtà terrestre per condurre tutti gli uomini

alla realtà celeste finale.

Fin dal 1958, il teologo svizzero Charles Journet13 andava

affermando, a proposito della vocazione universale ad esser membri

della Chiesa: “In tutti questi giusti [membri delle Chiese ortodosse

dissidenti, i giusti battezzati nel protestantesimo, i giusti dei gruppi

monoteisti, i giusti delle religioni precristiane n.d.r.] , lo sappiano o

meno, la grazia aspira segretamente ad incontrare il suo centro che è

Cristo ed a formare intorno a lui la Chiesa in atto compiuto. È ciò che

si vuol dire quando si afferma che essi appartengono alla Chiesa in

atto iniziale, latente, tendenziale. Ma in tutti costoro degli ostacoli

soggettivamente insormontabili impediscono il movimento spontaneo

della grazia, impediscono di raggiungere il solo punto dove essa

potrebbe pienamente sbocciare. La grazia è in loro come contrariata,

mutilata; non darà quaggiù la sua piena fioritura. E l’unità che li

collega alla Chiesa, benché profonda e divina, è anch’essa contrariata,

mutilata. Essa non darà quaggiù i suoi pieni frutti. In virtù del

movimento autentico della grazia che è in loro, questi giusti tendono,

dunque, a raggiungere Cristo e la sua unica Chiesa. Ma a motivo della

loro ignoranza invincibile, essi restano fedeli a formazioni religiose

diverse, dove la loro fede è sempre in pericolo. Spiritualmente, agli

occhi degli angeli e di alcuni uomini che sapranno vedere, essi sono

inizialmente nella Chiesa. Corporalmente, agli occhi del mondo che si

ferma alle apparenze ed ai loro stessi occhi velati, essi appartengono

alle dissidenze dell’ortodossia o del protestantesimo, al giudaismo,

all’islamismo, al bramanesimo, al buddismo. Che lacerazione, che

13 Charles Journet (Ginevra 1891- Friburgo 1975), è stato uno dei principali teologi del XX secolo, esperto ecclesiologo, partecipò attivamente al Concilio Vaticano II.

23

tragedia! Quanto più si crede al valore delle grazie che attirano

segretamente a Cristo ed alla sua Chiesa ogni uomo che viene a questo

mondo, tanto più si crede alla realtà, all’estensione, allo splendore

nascosto della Chiesa in atto iniziale e tendenziale: essa è come una terza

realizzazione, ma incoativa, incompiuta, mutila, lacerata, della preghiera di

Gesù per l’unità. E più acuta si fa la sofferenza al pensiero di tante

ignoranze diventate invincibili per molti uomini di buona volontà e

che rendono loro impossibile di riconoscere il vero volto della Chiesa.

Quale risurrezione per il mondo intero se ad un tratto la Chiesa in atto

tendenziale potesse passare con tutte le sue risorse nella piena luce

della Chiesa in atto compiuto!”14.

Una buona spiegazione al mutamento di prospettiva da parte

della Chiesa del secolo XX, rispetto a quanto accaduto nei secoli

precedenti, sia per quanto riguarda la ecumenicità, sia per quanto

riguarda la necessaria attenzione all’uomo15, ci pare data da Congar,

allorquando egli afferma: “il mondo antico è caratterizzato dal

predominio dell’aspetto oggettivo, e correlativamente da una

sensibilità molto debole nei confronti del soggetto. Il mondo moderno,

al contrario è caratterizzato fino in fondo dalla scoperta del punto di

vista del soggetto. […] Mentre nel mondo antico si prestava poca

attenzione alla maniera in cui qualcuno faceva qualche cosa od era

arrivato a qualche cosa, ma l’essenziale era la cosa stessa, il mondo

moderno si interessa soprattutto alla maniera di fare le cose”16.

14 JOURNET C., Teologia della Chiesa, Parigi 1960 (ed. digitale 2008), pp. 430-431 15 Sempre Paolo VI affermava: “Se guardiamo alla famiglia umana, siamo assaliti da immensa apprensione per le molte altre calamità nelle quali si dibatte: soprattutto per l’ateismo, che si è introdotto in parte della comunità umana, turbando l’ordine delle cose in ciò che tocca la mentalità, la morale e la vita sociale, in modo tale che a poco a poco viene accantonata tra gli uomini l’esatta nozione di quell’ordine. Man mano che si fa più chiara la luce che emana dalla conoscenza della natura, gradatamente - purtroppo - diventa più nebulosa la conoscenza di Dio e di conseguenza anche la vera cognizione dell’uomo. Quindi, mentre il progresso perfeziona in modo stupefacente le macchine di ogni genere di cui l’uomo fa uso, ogni giorno più la solitudine, la tristezza, la disperazione invadono il suo animo”, PAOLO VI, Allocuzione, cit., n. 7.6. 16 CONGAR Y., Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1994, p. 56.

24

Tale mutazione di prospettiva, nel senso di una maggiore

attenzione agli aspetti soggettivi, rappresenta uno dei tratti

caratteristici della ecclesiologia contemporanea. Non conta solamente

descrivere la Chiesa, la sua struttura ecclesiologica fondamentale, le

sue caratteristiche, quanto piuttosto comprendere il perché della

appartenenza ad essa, le caratteristiche che i soggetti devono avere per

fare parte di essa, le condizioni per una appartenenza alla Chiesa.

Non è più la Chiesa alla quale l’uomo deve aderire, ma piuttosto:

“La liturgia, i sacramenti, la Chiesa intera devono trovare la loro

verità, la loro realtà nell’uomo stesso, nella vita spirituale, nella fede e

nella carità della stessa anima umana”17.

Anche De Lubac affermava la netta differenza esistente tra il

mondo cristiano antico e quello in cui viveva: “Per non ingannarci qui

sul pensiero dei primi secoli cristiani, dobbiamo ricordarci che il loro

punto di vista era generalmente molto poco intellettualista”18. In De

Lubac, è presente la ricerca del Mistero cristiano, svolta in maniera

attualizzata: l’uomo moderno, dopo le rivoluzioni di Copernico e

Kant, si trova in difficoltà a credere a questo Mistero, e tuttavia egli

afferma: “Era duro per un ebreo monoteista – Ascolta, Israele! Il tuo Dio

è unico! – credere alla divinità d’un uomo! Era duro per un uomo

ragionevole credere nel Cristo risuscitato, e a tutte queste storie che non

soffrono di essere allegorizzate. I nostri Padri sono passati oltre, la loro

fede ha vinto tutti gli ostacoli… Il loro atteggiamento sarà, dunque, il

nostro”19. Non si trattava di eliminare tutto ciò che vi era di ‘antico’,

ma di attualizzare il pensiero cristiano, di riscoprire il vero senso del

Mistero di Cristo e della Chiesa, senza stravolgere i dogmi; ancora De

Lubac afferma con chiarezza: “Se [il Dogma] è la norma perfetta di

ogni vita spirituale, è appunto perché la vita spirituale autentica non è

17 CONGAR Y., Op. cit., p. 172. 18 DE LUBAC H., Cattolicismo, Milano 1979, p. 217. La prima edizione di quest’opera, col titolo Catholicisme, fu pubblicata a Parigi nel 1938. 19 DE LUBAC H., La lumière du Christ, Lione 1941, pp. 22-23.

25

altro che il Dogma in atto, secondo l’immagine della vita che si è

manifestata nel Cristo. […] come è vero dire che il Dogma è necessario

per mantenere la pratica, così l’importanza della pratica non è meno

essenziale per il mantenimento integrale della realtà del Dogma…

Senza la verità del Dogma… non si avrà che una pratica apparente;

ma, viceversa, senza la realtà della pratica… non si avrebbe più che un

Dogma apparente”20.

Una particolare attenzione il p. De Lubac dedica, nello sviluppo

del suo pensiero teologico, al rapporto esistente tra natura e

soprannaturale21. De Lubac ritiene che sia Tommaso che Agostino,

abbiano dato due versioni delle relazioni tra natura e soprannaturale,

entrambe parziali, e debbono pertanto essere meglio specificate. Da un

lato S. Tommaso ha troppo insistito sull’ordine della natura,

eccessivamente separandolo da quello della grazia22, S. Agostino, dal

canto suo, ha posto l’accento specialmente sulla centralità del

soprannaturale e sulla non sufficienza della natura separata da esso23.

De Lubac intende offrire una prospettiva in cui i meccanismi di

relazione natura e grazia, umano e divino, siano meglio specificati,

senza tuttavia apparire separati. La critica mossa da De Lubac consiste

nel fatto che non si è tenuto in debito conto la relazione esistente tra la

natura ed il soprannaturale: “Ecco, di conseguenza, i grandi testi

tradizionali, quelli d’un santo Agostino, quelli d’un san Tommaso,

riguardanti il fine ultimo e la beatitudine: saranno tutti

sistematicamente abbassati su un piano naturale, che li falsa. Non

saranno più capiti che come affermazioni di filosofia puramente

naturale. La «perfezione» della natura umana di cui parlano questi

stessi testi – perfezione che era riconosciuta come suo completamento

20 DE LUBAC H., Op. cit., pp. 26-27. 21 Ciò avviene in particolare nei due volumi da De Lubac dedicati a tale tema: Surnaturel. Études historiques, Paris 1946 e Le Mystère du Surnaturel, Paris 1965. 22 La critica al tomismo estremo si ritrova in DE LUBAC H., Il mistero del soprannaturale, Milano 1978, pp. 51-70. 23 La critica all’eccessiva attenzione di S. Agostino al soprannaturale si ritrova in DE LUBAC H., Il mistero, cit., pp. 71-89.

26

soprannaturale – diventerà anch’essa una perfezione del tutto

naturale, di cui la pura filosofia è ritenuta capace di fornire il

concetto”24.

La natura umana pur avendo una propria autonomia, è tuttavia

soggetta a Dio, che l’ha creata immettendo in essa, nel cuore

dell’uomo, il desiderio del soprannaturale, che è un qualcosa che

l’uomo non potrà mai pienamente prevedere, né possedere, né

raggiungere con le sue sole forze. L’uomo, per mezzo della sua

intelligenza, donatagli da Dio, può elevarsi sino al soprannaturale, che

è Dio stesso. Per fare ciò, essendo però l’uomo impossibilitato a

raggiungere grazie alla sua sola intelligenza Dio, egli abbisogna di un

aiuto a lui esterno: tale aiuto gli viene fornito dall’evento

dell’incarnazione di Cristo, che fa sì che il soprannaturale non rimanga

un semplice desiderio per l’uomo. Per De Lubac, il soprannaturale è

desiderato dall’uomo, desiderio che è insito nella ontologia stessa

dell’uomo, è per lui desiderio di felicità piena ed infinita; questo

desiderio diviene oggettivo ed insostituibile nell’incontro con Cristo,

che solo è in grado di soddisfare tale desiderio ed offre una risposta al

desiderio che l’uomo ha in sé del soprannaturale25. In una delle pagine

forse più belle del Mistero del soprannaturale, De Lubac afferma, a tal

proposito: “L’uomo, ci dicono i Padri, è «ad immagine di Dio», non

soltanto per la sua intelligenza, per la sua libertà, per la sua

immortalità, o anche per il potere che ha ricevuto di dominare sulla

natura: lo è inoltre, e al di sopra di tutto, in fin dei conti, per quello che

ha di incomprensibile nel fondo di sé”26.

24 DE LUBAC H., Op. ult. cit., p. 91. 25 Per Rahner, invece, il soprannaturale è intrinseco ad ogni uomo, per cui l’incontro con Cristo diviene secondario, in quanto l’uomo non ha di per sé bisogno di una risposta oggettiva a lui esterna al suo desiderio di soprannaturale. Si veda sul punto: DE LUBAC H., Op. cit., pp. 167 ss. 26 DE LUBAC H., Op. cit., p. 278. E subito segue a questa frase, una magnifica citazione da Gregorio di Nissa, che chiarifica assai bene come il soprannaturale è presente nell’uomo: “Il nostro spirito porta l’impronta della Natura inafferrabile a causa del mistero, che è per se stesso. […] Se la natura dell’immagine potesse essere afferrata, non sarebbe più immagine”, S. GREGORIO DI NISSA, De hominis opificio, c.

27

Tuttavia per il grande teologo francese, il soprannaturale viene

svelato dalla Rivelazione, che dunque è la vera chiave di lettura per la

comprensione del mistero cristiano27. Esso rimarrà sempre un qualcosa

che l’uomo mai potrà a pieno afferrare: “Come il dono soprannaturale

mai in noi è naturalizzabile, mai la beatitudine soprannaturale può

divenir per noi – qualunque sia la nostra condizione reale o

semplicemente pensabile – una meta «necessaria ed esigibile»”28, al

tempo stesso, l’interrogarsi dell’uomo sul soprannaturale –

interrogarsi che sorge necessario a partire dalla divina Rivelazione e

che fa parte della natura stessa dell’uomo – “sa di non andar mai

incontro a terre sconosciute”29.

Il pensiero di De Lubac non lascerà indifferente né la teologia del

Concilio, né tantomeno i suoi sviluppi successivi. Si pensi solo, a titolo

di esempio, ad alcuni enunciati dell’attuale Catechismo, ove ad

esempio è dato di leggere: “Talvolta si dà il caso che l’anima sia

distinta dallo spirito. Così san Paolo prega perché il nostro essere tutto

intero, «spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta

del Signore» (1Ts 5, 23). La Chiesa insegna che tale distinzione non

introduce una dualità nell’anima. «Spirito» significa che sin dalla sua

creazione l’uomo è ordinato al suo fine soprannaturale, e che la sua

11, in PG, 34, col. 156 B. 27 Precedentemente De Lubac aveva già lasciato intravedere una simile soluzione, laddove afferma: “Rivelando il Padre ed essendo rivelato da lui, Cristo finisce di rivelare l’uomo a se stesso. Prendendo possesso dell’uomo, afferrandolo e penetrandolo fino al fondo del suo essere, forza anche lui a scendere dentro di sé per scoprirvi bruscamente regioni fino ad allora insospettate. Per mezzo di Cristo la Persona è adulta, l’Uomo emerge definitivamente dall’universo, prende piena coscienza di sé. D’ora innanzi, anche prima del grido trionfale: «agnosce, o cristiane, dignitatem tuam», sarà possibile celebrare la dignità dell’uomo «dignitatem conditionis humanae». Il precetto del saggio: «conosci te stesso», riveste un nuovo significato. Ogni uomo, dicendo «io», pronuncia qualche cosa di assoluto, di definitivo”, DE LUBAC H., Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma, Roma 1948, pp. 298-299. 28 DE LUBAC H., Il mistero, cit., p. 306-307. 29 Ibidem.

28

anima è capace di essere gratuitamente elevata alla comunione con

Dio”30.

Il mistero del Dio incarnato, e le implicazioni di esso per

l’esistenza dell’uomo e della Chiesa, sono riprese anche dal pensiero

teologico di H. U. von Balthasar.

Balthasar, riprende le critiche a suo tempo mosse proprio a De

Lubac, per dimostrare l’inconsistenza delle medesime, in particolare,

per quello che qui ci interessa notare, egli ritiene assolutamente

indispensabile e corretto l’utilizzo delle categorie naturale-

soprannaturale, utilizzate dal teologo francese, al fine di definire il

mistero di Cristo31.

L’uomo, essere naturale, è creato ad immagine di Dio, ma in tale

creazione ad immagine, l’uomo è solamente una sorta di profilo

dell’immagine perfetta che, come tale, si ritrova solamente in Cristo,

nel quale Dio, l’essere soprannaturale, si rivela all’uomo. Cristo

rappresenta, nella sua umanità, l’immagine perfetta del Padre,

rimanendo al tempo stesso Dio, il Dio che si è fatto uomo

incarnandosi. Cristo, incarnandosi, diviene uomo, ma è al tempo

stesso il Figlio di Dio, ed è dunque la forma perfetta dell’umano; Cristo

è l’immagine attraverso la quale l’uomo finito può guardare

all’infinito32.

Per Balthasar Cristo, incarnandosi, fa emergere la dimensione

terza ed ulteriore alle due già esistenti fin dalla creazione (cielo e terra,

naturale e soprannaturale): la dimensione del mondo sotto al mondo,

del peccato e della morte. Cristo, con la sua incarnazione, ponendo in 30 CCC, n. 367. Si veda sul punto anche GS n. 22. Ma si vedano, a titolo di esempio, e sempre dal CCC, i nn.: 27 (sul desiderio di Dio per l’uomo); 1718 e 1719 (sul desiderio di felicità innato nell’uomo); e 1721 (sulla beatitudine come partecipazione della natura divina). 31 Sul punto si vedano: VON BALTHASAR H. U., Il padre Henri de Lubac, Milano 1978, pp. 75-76; ID., La teologia di K. Barth, Milano 1985, p. 367. 32 Tali riflessioni si possono ritrovare in VON BALTHASAR H. U., Teodrammatica (vol. III). Le persone del dramma: l’uomo in Cristo, Milano 1982, pp. 141-242, ed in ID., Teologica (vol. II). Verità di Dio, Milano 1991, pp. 191-321; il secondo volume della Teodrammatica, fu pubblicato per la prima volta nel 1976 a Einsiedeln.

29

luce la terza dimensione della scena su cui si svolge il dramma,

diviene al tempo stesso colui nel quale si ricapitola l’intera legge,

indispensabile all’uomo per ottenere la redenzione, e quindi, la

conseguente liberazione dalla dimensione del peccato33.

Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo, Egli risolve l’enigma

dell’uomo, risponde ai suoi interrogativi ultimi.

Tutta la riflessione proposta da De Lubac su natura e

soprannaturale, viene ripresa da von Balthasar, analizzando il

rapporto tra libertà finita ed infinita34. Sulla scena del dramma

immaginato da Balthasar, l’uomo, che né è un protagonista, è libero,

ma in modo paradossale, in quanto dotato di una libertà finta. Tuttavia

di tale libertà finita l’uomo è realmente autocosciente; dice il teologo di

Basilea: “se noi, a dispetto di tutte le obiezioni, abbiamo una coscienza

inconfutabile della nostra libertà, così ne abbiamo una altrettanto certa

che la nostra libertà non è illimitata, più esattamente: che noi in quanto

liberi siamo sempre per strada verso la nostra libertà”35. Tale libertà si

compone di due elementi: l’esperienza dell’autopossesso, che rende

l’uomo in grado di riconoscere la propria responsabilità personale sul

suo destino, e l’apertura universale, per la quale l’uomo sente la

necessità dell’esistenza dell’altro da sé. Questa libertà infinita pone

all’uomo molteplici interrogativi relativi al suo essere, al suo io.

L’uomo esiste, ma essendo egli finito, come pure è finita la sua libertà,

anela a conoscere il principio del suo essere, che egli sa non poter

derivare da sé stesso (in quanto essere finito).

Proprio a partire dalla sua libertà finita, che tende verso una

libertà più alta, l’uomo si scopre capace di tendere all’infinito, a

qualcosa di più alto di sé stesso: la libertà finita spinge l’uomo ad

entrare nel mistero. Entrare nel mistero significa per l’uomo tendere

33 Vedi: VON BALTHASAR H. U., Teodrammatica (vol. II). Le persone del dramma: l’uomo in Dio, Milano 1982, pp. 176 ss. 34 VON BALTHASAR H. U., Teodrammatica (vol. II), cit., pp. 183-316. 35 VON BALTHASAR H. U., Teodrammatica (vol. II), cit., p. 199.

30

alla sua origine soprannaturale, tendere a Dio. Scoprendo da dove

viene il suo essere, l’uomo scopre anche il verso dove si orienta questo

suo essere.

Purtroppo, come segnala lo stesso Balthasar, è avvenuta una sorta

di accecamento, per colpa del quale l’uomo non è più in grado di

riconoscere il proprio essere, questo accecamento è per il teologo di

Basilea: “una vera malattia, chiamata positivismo36 e che consiste nel

fatto che nella realtà non si vede se non qualcosa che c’è, su cui però si

tralascia o ci si vieta di interrogarsi”37. L’essere (l’io) scopre il suo vero

significato solamente quando si relaziona con qualcuno, che gli rende

manifesto il suo vero essere, un tu: “Oggi io ti ho creato, dice la libertà

eterna a quella nel tempo. Il fatto che nessun io umano può realmente

destarsi a se stesso se un altro io non si rivolge a lui come a suo tu, è solo il

preludio intramondano a quanto qui si intende”38. Prosegue ancora il

grande teologo svizzero, dando una definizione quanto mai chiara sul

rapporto che lega l’essere dell’uomo al suo Creatore, e che chiarifica

tutta la riflessione relativa al rapporto tra libertà finita ed infinita: “Mai

Dio è per se stesso ciò che si ritrova semplicemente nell’essere nel

senso positivistico del termine, ma è invece sempre la più

«inverosimile» meraviglia, questa: che l’autodedizione infinita della

sorgente paterna davvero generi un Figlio identicamente eterno, e che

l’incontro ed accordo di entrambi faccia davvero fiorire l’unico Spirito,

l’ipostasi assoluta semplicemente del dono. Solo a partire da questa

meraviglia la libertà finita donata a se stessa può sapersi interpellata

come un tu e può definirsi rispetto al donatore come un io. Anzi, essa

36 Balthasar non specifica ulteriormente di che positivismo stia parlando, ma ci pare si possa affermare, dal contesto del suo ragionamento, che non si tratta del positivismo giuridico (o non solo di esso), ma di un più generale positivismo relativo a tutta la realtà dell’uomo, che forse oggi potrebbe piuttosto denominarsi relativismo o materialismo, per usare due categorie filosofico-teologiche oggi abbastanza ben delineate da teologi e filosofi. 37 VON BALTHASAR H. U., Teodrammatica (vol. II), cit., p. 270. 38 Ibidem, le sottolineature sono nostre [n.d.a.]. La relazione tu-io, viene ripresa da Balthasar pure in Spiritus Creator, Brescia 1972, III.

31

deve dedurre le conseguenze di tale interpellazione e rivolgersi alla

libertà infinita, a sua volta, con il tu”39.

Una corretta interpretazione della relazione essere finito-essere

infinito (e conseguentemente della relazione libertà finita-libertà

infinita) può essere data soltanto a partire dal mistero del Dio

Unitrino, tema che rimane centrale per tutta la riflessione

balthasariana, e sul quale purtroppo non è dato qui di soffermarci.

L’uomo, in quanto si inserisce, a vario titolo, all’interno del corpo

mistico di Cristo, e nella sua misteriosa configurazione, è in grado di

usare a pieno delle possibilità che la sua libertà finita gli offre,

riferendole in tal modo a quelle della libertà infinita che regola, in

maniera misteriosa, tale corpo mistico. È nella Chiesa, vero corpo

mistico di Cristo, che la persona può arrivare alla perfezione, mediante

una sua libera scelta, in grado di conformarsi alla volontà salvifica di

Cristo40. Ovviamente la libertà dell’uomo, è posta continuamente di

fronte a scelte, le quali, per orientare al bene, devono necessariamente

trovare delle norme che ne determinino l’orientamento; il mondo in

cui l’uomo vive, non è normativo, e dunque l’uomo si trova

quotidianamente a dover affrontare delle scelte, che necessitano di un

orientamento normativo per portare l’uomo alla sua piena

autorealizzazione41. La norma per orientarsi al bene, è Cristo stesso,

che l’uomo, in quanto creato a Sua immagine, è in grado di ritrovare

dal momento che lo “porta” al suo interno, seppure in modo

misterioso42. In Cristo, nella libertà infinita, “la libertà finita riconosce

39 Ibidem. 40 VON BALTHASAR H. U., Teodrammatica (vol. II), cit., p. 287. Sant’Ignazio di Loyola, dice in proposito, che si dovrà: “essere pronti e preparati affinchè in ogni stato o modo di vita, che Dio Nostro Signore ci concede di scegliere, possiamo arrivare alla perfezione”, Esercizi spirituali, n. 135. 41 Vedi: VON BALTHASAR H. U., Teodrammatica (vol. II), cit., pp. 322 ss. 42 Scrive Balthasar: “La inidentificabilità dell’uomo da fuori a partire dall’esterno della sua attuazione drammatica non viene smentita neppure dal suo aggancio al mistero cristiano, anzi ne viene confermata e fondata. Fondata in quanto la relazione, essenziale per l’uomo (anche se non leggibile dalla sua semplice «essenza»), al mistero di Cristo rende negativamente chiaro che l’uomo, senza questa relazione, non può che restare un enigma insoluto e non è dunque un caso che la soluzione non ha

32

in che modo essa possa e debba realizzarsi nella sua finitezza e realtà

naturale”43.

Cristo, si rende visibile nella Sua Chiesa, che dunque è in grado

di orientare l’uomo sulla retta via che, sola, può condurlo alla

salvezza44.

Balthasar affronta il tema del rapporto Chiesa-persona, e

specialmente del diritto della Chiesa, in un’opera precedente45; in essa

Balthasar spiega perché non può darsi una Chiesa senza diritto.

Anzitutto il teologo di Basilea ricorda che l’uomo, in quanto

essere che vive in un mondo naturale, nonostante nella Chiesa

partecipi di una realtà soprannaturale, necessità di forme giuridiche

potuto essere finora trovata. E confermata in quanto l’uomo si vede da questa relazione collocato faccia a faccia con il mistero di Dio stesso e in tal modo si rende positivamente chiaro che egli, in quanto «immagine e somiglianza» dell’essere essenzialmente impensabile o inoggettivabile, non può non portare in se stesso qualcosa di questo carattere misterioso. La negatività non è più, come potrebbe esserlo in una «antropologia negativa» orientata puramente sull’uomo, una critica che si ripiega radicalmente su un immagine oggettivata dell’uomo, e neppure più l’assolutizzazione sartriana della libertà finita resa capace di qualsiasi determinazione di essenza; essa è invece ordinata verso il positivo sempre più irraggiungibilmente grande di Dio, così che, anche nell’«immagine e somiglianza» di Dio, al posto del puro smarrimento dell’assoluta indeterminabilità, affiora la dimensione comparativa: l’uomo è sempre più di quanto può penetrare in una sua definizione concettualmente univoca. Il tentativo di fornire simili definizioni dell’uomo non è senz’altro falso o inutile, come del resto hanno un loro valore le stesse definizioni dell’essenza di Dio. Possono essere contributi validi per una mai conclusa integrazione”, VON BALTHASAR H. U., Teodrammatica (vol. II), cit., p. 327. 43 Ibidem, p. 373. Il tema della relazione finito-infinito, e dunque della relazione uomo-Dio, è centrale in Balthasar, lo stesso teologo ebbe a dire, a commento della sua opera: “L’uomo esiste come essere limitato in un mondo limitato; eppure la sua ragione è aperta all’illimitato, all’Essere tutto intero”, VON BALTHASAR H. U., Uno sguardo d’insieme sul mio pensiero, in Communio 105 (1989), p. 40, in ciò consiste la natura enigmatica dell’uomo: l’uomo è, ma non ha in sé il fondamento del suo essere. Il tema è specialmente approfondito sia in Teodrammatica (vol. II), cit., pp. 167-402, che anche, con sfumature maggiormente filosofiche, in Teologica (vol. I). Verità del mondo, Milano 1989, pp. 85-271. 44 Non è questa la sede, ma interessante sarebbe approfondire le implicazioni antropologico-morali, derivanti dal fatto che Cristo rappresenta la norma universale e concreta di ogni azione morale; norma che in Cristo non solamente è valida per tutti, ma diventa anche concreta e personale. In Cristo sono ricapitolate la legge naturale e la legge antica, in Cristo coincidono legge divina e legge naturale, ed Egli diviene perciò, in quanto norma universale, elemento unificatore delle forme frammentarie dell’etica; vedi: VON BALTHASAR H. U., Nove tesi sull’etica cristiana, in Prospettive di morale cristiana, Roma 1986, pp. 59-79. 45 VON BALTHASAR H. U., Sponsa Verbi, Brescia 1969. La prima edizione dell’opera è del 1961 (Sponsa Verbi. Skizzen zur Theologie II, Einsiedeln)

33

che regolino il suo vivere sociale46. Si critica la tesi di R. Sohm, secondo

il quale il giuridico nella Chiesa sarebbe solamente un residuo del

carismatico; come pure quella di von Harnack, per il quale il diritto

canonico sarebbe l’insieme di un diritto totalmente umano e di un

diritto carismatico puro.

Al contrario, secondo Balthasar, il diritto umano, e dunque tale

componente presente nel diritto canonico, è assolutamente necessario,

come anche la dottrina paolina e petrina dichiarano47, ed esprime nel

mondo la volontà divina (naturalmente a determinate condizioni).

Chi ammette il mistero dell’esistenza del Dio Unitrino, dovrà

riconoscere che l’amore teandrico tra il Padre ed il Figlio, è di tal

natura che, per poter effondersi necessità di due condizioni

fondamentali: un rapporto personale tra uomo e uomo, capace di

accettare reciprocamente l’altro da sé, ed un rapporto giuridico, che

non sia condizionato dalle continue oscillazioni ed interferenze

umane, il quale sappia conferire agli atti umani un valore che sia

inattaccabile, in quanto fondato sulla necessità per l’uomo di un bene

comune soprannaturale48. L’uomo che può stabilire un tale rapporto

giuridico, è per Balthasar impersonificato dal sacerdote, il quale in

virtù della autorità conferitagli dalla sacra ordinazione, è in grado di

“dimostrare” all’uomo che il diritto, volto a regolare le relazioni

umane, è manifestazione dell’amore di Dio per l’uomo49.

Cristo ha dato ai suoi apostoli un potere realmente giuridico, al

fine di pascere il Suo gregge, e di condurlo alla salvezza; tale finalità

non deve essere mai dimenticata, e deve essere il vero punto di arrivo

46 “Come l’essenza «uomo» non può pensarsi come storicità…così anche, quale essere sociale, è impensabile senza la sfera del diritto (ciò che spesso non è oggetto di adeguata considerazione sul piano teologico)”, in Sponsa Verbi, cit., p. 381. 47 Vedi sul punto: Rm 13, 1-10 e 1Pt 2, 13-17. 48 Vedi: VON BALTHASAR H. U., Sponsa Verbi, cit., p. 383. 49 Lo sviluppo di tale prospettiva, porta Balthasar ad affievolire, in parte, il valore del diritto penale nella Chiesa (vedi: Ibidem, pp. 391-392), tesi che sappiamo oggi essere stata rigettata con forza dai codificatori canonici, nonostante avesse incontrato non pochi favori, specie dalle correnti giuridico-teologiche e soprattutto pastorali.

34

del diritto ecclesiale. In ciò si concreta l’aspetto giuridico dato da

Cristo ai suoi ministri: “L’ufficio pastorale include in sé che i

«preposti» nella Chiesa abbiano a preoccuparsi d’un ordine, in essa,

umano e al tempo stesso regolato nello spirito di Cristo. Questa

indicazione del Signore è il punto donde scaturisce tutto il resto che

viene regolato dal diritto ecclesiastico e che ai «preposti», purchè

attendano allo spirito e all’intenzione del Signore, lascia la più ampia

libertà nella strutturazione. Il risultato è un jus ecclesiasticum, che

dipende bensì dall’autorizzazione, dal conferimento dei pieni poteri

da parte del Signore, ma per il resto è autentico diritto umano”50. In

tale contesto i laici, non possiedono veri e propri diritti, nel senso di

diritti corrispondenti a quelli posseduti dai sacerdoti sulla base

dell’ordinazione ricevuta. I laici, per Balthasar, dovranno aderire

all’amore di Cristo manifestato loro, sul piano giuridico, dai pastori;

un ubbidienza carismatica, che consente ai laici di vivere i legami con

la gerarchia, come atto di libertà e come sequela della croce.

In tale adesione carismatica sta, per il grande teologo svizzero, il

limite alla potestà giuridica dei sacri pastori. L’ufficio giuridico, si

deve continuamente relazionare con gli uffici carismatici, anch’essi

ugualmente giuridici, seppure con una notevole differenza: “i carismi

[…] possono divenire molto simili all’incarico ufficiale, con il suo

carattere giuridico; essi rappresentano una specie di «diritto divino»,

che però rimane, da sé solo, personale e non restringe né in altro modo

mette in discussione il carattere giuridico dell’ufficio gerarchico.

L’ufficio è permanente e istituzionale, mentre i carismi sono personali,

seppure non si possa dire incondizionatamente che si estinguono con

la persona […] Anche il carisma dev’essere inserito dall’autorità

ufficiale nell’ordine complessivo ecclesiale”51.

Ciò che i fedeli laici pretendono, in più rispetto a tale “diritto

carismatico”, rappresenta per Balthasar, un errore di prospettiva dei 50 Ibidem, pp. 393-394. 51 Ibidem, p. 396.

35

laici. Secondo il teologo, l’inserimento di diritti dei fedeli nel Codex,

non aggiungerebbe nulla di più a quanto i fedeli laici già possiedono

in modo carismatico, e, d’altra parte, una distinzione tra i diritti dei

chierici e quelli dei laici, appare assolutamente necessaria sul piano

giuridico: “Ciò che il chierico «ha di più», è però essenzialmente un

peso per amore della libertà dei laici, un onere, certo, che è esso stesso

funzione dell’amore (e quindi della libertà): sequela più stretta del

vincolo della croce”52. La conclusione del grande teologo appare oggi

molto moderna: egli sostiene che il laico, esercita la sua missione

essenzialmente nel mondo, e, quindi, al di fuori dell’ambito ecclesiale;

a motivo di ciò i diritti che potesse ottenere, sul modello di quelli

statuali, all’interno della compagine ecclesiale, sarebbero in un certo

senso superflui rispetto alla missione che gli viene affidata da Cristo,

missione che li differenzia in maniera chiara e netta dai chierici.

Oggi, dopo il lungo dibattito conciliare53 e canonistico riguardo al

“posto” dei carismi nel diritto della Chiesa54, ed agli sviluppi

codificatori relativi ai diritti fondamentali dei fedeli, che

approfondiremo in maniera maggiore nello sviluppo del nostro

lavoro, sappiamo che è stato scelto di dare maggiore rilievo a questi

ultimi, a scapito degli aspetti carismatici (che pure non sono stati

negati); al tempo stesso è pur vero che non si è arrivati alla

promulgazione di una Lex Ecclesiae Fundamentalis, i cui progetti, come

vedremo in seguito, tanta parte hanno avuto nel dibattito codificatorio.

52 Ibidem, p. 398. 53 Il tema dei carismi nei documenti Conciliari, è presente sostanzialmente in alcuni passi di documenti conciliari: LG nn. 12, 25, 30, 50; DV n. 8; AA nn. 3, 30; AG nn. 23, 28; PO nn. 4, 9; tra questi, il documento sicuramente più rilevante relativamente al dono dei carismi per i fedeli laici, è il n. 3 del Decreto Apostolicam actuositatem. Per una dettagliata analisi dei testi più sopra citati si veda: RAMBALDI G., Uso e significato di «Charisma» nel Vaticano II. Analisi e confronto di due passi conciliari sui carismi, in Gregorianum 66 (1975), pp. 141-162. 54 Tra i moltissimi studi in proposito, si vedano: LOMBARDÍA P., Carismi e Chiesa istituzionale, in AA. VV., Studi in onore di Pietro Agostino D’Avack, vol. II, Milano 1976, pp. 957-988; GEROSA L., Carisma e diritto nella Chiesa. Riflessioni canonistiche sul «carisma originario» dei nuovi movimenti ecclesiali, Milano 1989, pp. 108-179; CORECCO E. – GEROSA L., Il diritto della Chiesa, Milano 1995, in partic. pp. 28-34.

36

Le critiche mosse a questi movimenti di rinnovamento della

realtà ecclesiale, di voler in qualche modo sovvertire quella che era

stata la realtà della Chiesa fino a quel momento, appaiono oggi

avventate ed assolutamente ingiustificate. Congar, nel ricordare la

importanza fondamentale della comunione di tutti i membri al Corpo

mistico di Cristo, ribadisce l’importanza del dogma, il quale non è

tuttavia una formula immodificabile: “Dato che nessuna forma o

formula esposta in un dato momento non è l’espressione adeguata

della verità cattolica, sarà possibile, in nome stesso della comunione,

cercare un superamento delle espressioni attualmente accettate; nel

caso di formule propriamente dogmatiche, questo superamento non

può essere che uno sviluppo per esplicitazione. In tal modo il lato

progressista o «profetico» d’uno sforzo di pensiero e d’azione trova la

sua giustificazione nella medesima realtà in cui questo sforzo dovrà

trovare la sua regola e la sua misura”55.

Ogni cristiano ha un ruolo fondamentale, non solamente colui

che appartiene alla gerarchia ecclesiastica, anzi, come ricorda Congar,

molto spesso l’iniziativa non appartiene alla gerarchia. La Chiesa viene

equiparata ad un qualsiasi essere vivente e, come tale, possiede la

duplice dimensione della continuità e del progresso: vera continuità e

vero progresso, come afferma Congar. Ecco che progresso e continuità,

nella Chiesa, sono ugualmente e validamente rappresentati:

“Nell’insieme, le iniziative, il rinnovamento provengono soprattutto

dalla periferia, dalle frontiere della Chiesa. Gli organi centrali

adempiono soprattutto una funzione di collegamento e di continuità:

essi esercitano per eccellenza i carismi che assicurano l’apostolicità,

costituiscono nel corpo dei criteri di vita…gli organi centrali, e più

particolarmente la gerarchia, hanno in primo luogo la funzione di

mantenere la continuità della Chiesa nelle sue fondamenta e nei suoi

55 CONGAR Y., Vera e falsa riforma nella Chiesa, cit., p. 205.

37

principi, la funzione di conservare la forma e la struttura essenziale”56.

Le riforme, che spesso provengono dalla periferia, dai membri del

Popolo di Dio, si mantengono su di un piano di verità allorquando

sono attuate sul piano della comunione e della unità ecclesiale.

Il Concilio Vaticano II appariva, già nel momento della sua

convocazione, un evento assolutamente innovativo; uno dei maggiori

teologi del secolo scorso affermava, nell’immediatezza del suo inizio:

“Non si esagera affatto dicendo che non c’è mai stato un Concilio la cui

tematica sia stata così segreta e sconosciuta, almeno per gli estranei ad

esso, come lo è questo. […] Oggi invece sappiamo soltanto che il

Concilio viene convocato e che si occuperà del rinnovamento della

Chiesa […] formeranno tema di discussione al Concilio tutte le

questioni che da un lato vengono sentite dalla Chiesa come urgenti e

d’impellente necessità, e dall’altro canto tali questioni devono venir

affrontate «per via conciliare» e non in altri modi”57. Nella sua acuta

analisi sul Concilio, allora da poco annunciato, Rahner, svolgeva

alcune acute osservazioni; anzitutto metteva in luce la struttura della

Chiesa che è chiamata a riunirsi nel concilio: la Chiesa gerarchica, con

gli aspetti primaziali e collegiali in primo piano, e la Chiesa

carismatica, rappresentata fondamentalmente da tutti quei cattolici che

non appartengono alla gerarchia ecclesiale in senso giuridico.

Non intendiamo qui soffermarci su quanto dice Rahner riguardo

alla Chiesa gerarchica, limitandoci a sottolineare la sua chiarezza

espositiva a riguardo, mediante l’utilizzo di una terminologia che

potrebbe senza dubbio essere scambiata per post-conciliare.

Ci preme invece osservare quanto il grande teologo affermava

circa l’elemento carismatico nella Chiesa; egli affermava: “Nella Chiesa

sussiste anche l’elemento non pianificabile, non istituzionale, inatteso e

56 CONGAR Y., Op. cit., p. 211. 57 RAHNER K., Teologia del Concilio, in Saggi sulla Chiesa, Roma 1966, pp. 294-295. La prima edizione di quest’opera, col titolo Zur Theologie des Konzils, fu pubblicata all’interno di, Schriften zur Theologie, vol. V, e pubblicato ad Einsiedelen nel 1962.

38

sorprendente; […] Nella Chiesa, il fattore carismatico sussiste come

momento intrinseco della Chiesa stessa; e solo portandoselo in

grembo, essa è davvero ciò che per volere di Dio deve essere, ciò che in

realtà sarà sempre sotto l’azione del di lui Spirito”58. Tuttavia, appare

magistralmente sintetizzata la dualità della Chiesa gerarchica e di

quella carismatica, che riconducendosi ad unità trova proprio nel

Concilio, secondo Rahner, la sua massima sintesi; “resta comunque

vero che un Concilio è una rappresentanza della gerarchia in grembo

alla Chiesa, e solo sotto questo aspetto rappresenta anche la Chiesa

intera; per cui, ha come campo di attività e come compito specifico

solo ciò che spetta di diritto all’ufficio gerarchico, non ciò che spetta al

libero carisma pulsante pur esso nella Chiesa”59. In pratica si vuole

chiarire come, su alcuni argomenti allora alla ribalta del dibattito nel

mondo cattolico, non vi sia in realtà nemmeno la possibilità di

affrontarli in un concilio, dal momento che, determinate materie, fanno

parte della Chiesa viva, che non può essere ridotta a mere

dichiarazioni conciliari. Le aspettative nei confronti del Concilio, allora

enormi, devono, a detta di Rahner, non essere eccessive rispetto a

quello che è il ruolo stesso del concilio. Inoltre, se la Chiesa e la sua

teologia, esprimono un determinato livello in un dato momento

storico, non è possibile attendersi che un concilio, composto dai

membri di questa medesima Chiesa, possa stravolgere o modificare

radicalmente quella che è la situazione storica in atto60. Il mondo in cui

il Concilio Vaticano II veniva annunciato, poneva delle sfide assai

58 RAHNER K., Teologia del Concilio, cit., p. 310. 59 Ibidem, pp. 322-323. 60 Scrive Rahner: “non è possibile aspettarsi che nei decreti teologici conciliari le cose vadano in modo essenzialmente diverso da come va la teologia moderna nelle scuole, sui pulpiti, sui libri, dove è sempre la stessa minestra. Ci si potranno attendere buoni decreti dottrinali, diligentemente ponderati, spesso assai dibattuti. Ma sarebbe bene dirsi fin da adesso, senza tanti falsi ottimismi, che non ci si potranno attendere decreti dottrinali atti a destare una particolare attenzione nei non-cristiani, capaci di colmare le menti e il cuore dei cristiani di nuova e inusitata luce. […] Il Magistero Ufficiale non può sostituire il carisma della teologia. E non ha nemmeno l’obbligo di farlo. Se questo carisma è fievole, l’eco di questa debolezza si percepirà anche nei decreti dottrinali di un Concilio”, ID., Op. Cit., pp. 327-328.

39

ardue, destinate oltretutto ad aumentare esponenzialmente con il

passare degli anni, fra queste sfide Rahner indica anche il crescente

positivismo dell’uomo moderno e la sua difficoltà di credere al non

empirico, tuttavia egli avverte come, tali sfide, non fossero state allora

nemmeno lontanamente affrontate dalla teologia dell’epoca, ad

eccezione di alcune delle proposte effettuate dal movimento liturgico

più sopra brevemente da noi tratteggiato. Un’ultima osservazione

merita di essere ancora riportata: l’uomo moderno, essendo di animo

positivista, si attende una legge che si avvicini alla perfezione, ecco che

la delusione che seguirà al Concilio sarà grande: “L’uomo di oggi, che

ha imparato bene anche a distinguere una legge ideale dalla realtà di

tale legge, può proprio per questo divenire ingiusto e amaro verso

un’assemblea legislativa. Si attende subito da essa il prodotto ideale,

che quella è incapace di dare, e condanna o deprezza la legge varata,

soprattutto perché crede sempre che i legislatori non prendano sul

serio le parole ideali della legge, così come suonano”61.

La mente positivistica dell’uomo moderno, ed al tempo stesso la

sua attenzione per l’ideale, ovviamente influiranno non poco anche

sulle vicende che porteranno alla revisione del Codice di Diritto

canonico del 1917, annunciato unitamente alla proclamazione del

Concilio. Questa mentalità dell’uomo moderno, che viene osservata,

come visto, da più parti, porta ai volta in volta a privilegiare uno dei

due aspetti della Chiesa che abbiamo detto essere cruciali nella

teologia del secolo ventesimo: la Chiesa terrestre e quella celeste. La

prima, potremmo dire più legata a forme giuridiche positive, o

comunque convinte della scelta codificatoria operata già nel 1917; la

seconda tendente ad abbandonare gli aspetti giuridici in favore di

quelli più squisitamente spirituali (pastoralità, prevalenza della

teologia sul diritto ecc.). Vedremo come il dibattito ecclesiologico sul

Concilio, investa, specialmente nel post-concilio, il dibattito sulla

61 ID., Op. Cit., p. 334.

40

nuova codificazione canonica62. L’accenno, seppur contenuto, ad

alcuni fondamentali autori della ecclesiologia contemporanea, ci pare

mettere in luce alcuni dei presupposti teologici indispensabili per una

corretta comprensione dei contenuti dello statuto del fedele nella

codificazione canonica. Apparirà il perché di alcune scelte operate dal

legislatore canonico, che inevitabilmente sono state il prodotto di un

dibattito teologico assai intenso. Vedremo nel prossimo capitolo i

presupposti giuridico-canonici relativi all’argomento da noi affrontato

nel corso della presente tesi, concludiamo però ancora con una

affermazione di Congar sulla indispensabilità dell’aspetto

istituzionale, giuridico, all’interno della Chiesa; affermava il grande

teologo: “Perciò, se obbedire allo Spirito vuol dire sovente, per il

riformatore o il «profeta», superare le forme acquisite e criticare

quanto potrebbe rappresentare una sostituzione del movimento con le

sue tappe e del fine con i suoi mezzi, non significa tuttavia sottrarsi a

tutte le «forme» o autorità gerarchiche. Queste infatti, lungi dall’essere

al di fuori del movimento dello Spirito, servono a portare avanti la sua

azione che concerne tutto il corpo e sfocia nell’unità. È il medesimo

Spirito che vive in noi, che anima tutta la Chiesa e che assicura l’unità

a tutti i movimenti, a vantaggio di tutto il corpo, animando degli

uomini la cui funzione è d’essere, nel corpo, custodi e criteri di unità,

centri e articolazioni. […] Nel corpo totale, nella Chiesa che crede e che

ama (di cui anche i vescovi fanno parte, come fedeli), egli (lo Spirito

n.d.r.) suscita il senso della fede e lo zelo d’una azione buona per Dio;

62 Uno degli errori più frequenti, commessi da alcuni nella lettura dei documenti conciliari, riguardò la nozione di Popolo di Dio, termine spesso mal compreso, avendo come riferimento piuttosto una terminologia sociologica o politica, scrive al proposito un noto teologo contemporaneo: “nell’era postconciliare, in cui si vorrebbe proseguire il Concilio solo secondo il suo «spirito», senza attenersi al senso e al contenuto espressi da esso, il concetto di «popolo di Dio» è stato ripetutamente mal compreso e interpretato secondo un modello democratico. Il concetto di «popolo di Dio» è usato dal Concilio con un certo rilievo e considerato un prezioso completamento alla comprensione storico-salvifica della chiesa, ma non viene usato nel senso di democratizzazione”, SCHEFFCZYK L., La Chiesa. Aspetti della crisi postconciliare e corretta interpretazione del Vaticano II, Milano 1998, pp. 25-26.

41

nella gerarchia, nelle funzioni di servizio dell’unità, egli mette il

carisma della verità dell’unità, dell’apostolicità”63.

63 CONGAR Y., Vera e falsa riforma nella Chiesa, cit., p. 219.

42

43

2. PRESUPPOSTI GIURIDICO-CANONICI

Il medesimo giorno in cui venne annunciato al mondo

l’intenzione di voler celebrare un nuovo Concilio, Papa Giovanni XXIII

annunciò pure, come ricordato, l’intenzione di aggiornare il Codex Iuris

Canonici promulgato nel 19171.

Se la notizia dell’indizione di un Concilio Ecumenico, risultò

sconvolgente per i cardinali che assistettero all’annuncio, non meno

sconvolgente apparve l’intenzione dell’aggiornamento del Codex del

1917; esso sembrava infatti un monumento del diritto della Chiesa,

praticamente perfetto, tanto che l’idea di un aggiornamento non era

mai stata nemmeno adombrata2. Il Papa, infatti, parlò di un “auspicato

e atteso aggiornamento del Codice di Diritto Canonico”3 ma, quanto

meno ad una analisi della canonistica dell’epoca, non appaiono, sul

punto, auspici in tal senso: il Codice pio-benedettino sembrava un

punto fermo ed indiscusso. Addirittura non era mai stata applicata la

prescrizione, espressa da papa Benedetto XV nel Motu proprio Cum

Iuris Canonici4, di inserire nel Codice i decreti generali promulgati

dopo il 1917 mediante la redazione di nuovi canoni, forma questa, che

era senza dubbio in linea con l’idea di promulgazione di un Codice sul

modello di quelli dei moderni Stati nazionali, dunque con la medesima

tecnica legislativa anche relativamente alle modifiche legislative.

L’inizio dei lavori per la nuova codificazione presero inizio il 28

marzo del 1963, con la costituzione della Commissione De revisendo

Codice Iuris Canonici5. In tale occasione, lo stesso Giovanni XXIII

1 GIOVANNI XXIII, Discorso con cui si annuncia il Sinodo romano, il Concilio Ecumenico e la revisione del CIC17, 25.I.1959, in AAS 51 (1959), pp. 65-69. 2 Vedi sul punto: GUTIÉRREZ J. L., Alcune questioni sull’interpretazione della legge, in Apollinaris 40 (1987), pp. 514-515; ID., La interpretación literal de la ley, in Ius canonicum 35 (1995), pp. 549-550. 3 GIOVANNI XXIII, Discorso con cui si annuncia il Sinodo romano, cit., p. 68. 4 BENEDETTO XV, Motu proprio Cum Iuris Canonici, 15.IX.1917, in AAS 9 (1917), pp. 483-484. 5 Presidente della commissione fu nominato il Card. Pietro Ciriaci, Segretario Mons. Giacomo Violardo. Le informazioni relative alla composizione della Commissione nel corso dei suoi primi anni di vita, sono tratte da: Communicationes 1 (1969).

44

prendendo parte ad una seduta della Commissione De Concilii

[Oecumenici] laboribus coordinandis così si rivolse ai presenti: “La

revisione del Codice sarà un grande avvenimento e la materia da

ordinare è assai copiosa. Se avete qualche cosa da dire, potete farlo

liberamente”. Al che il card. Ottaviani disse: “Padre Santo il

Sant’Officio ha già provveduto all’aggiornamento del Codice,

mutando alcuni canoni. Oltre a ciò ci sono numerose, anzi

numerosissime, interpretazioni autentiche da inserire nel Codice e

quindi la Commissione avrà molto da lavorare”6. Tuttavia, seppur

esistessero all’epoca numerose interpretazioni autentiche, nonché vari

documenti di tipo normativo, tuttavia era stato modificato solamente

un canone7.

Nella seduta del 12 novembre 1963, la Commissione, di fronte

alla duplice prospettiva di modifica del CIC17 o di elaborazione di un

nuovo codice, decise di attendere la conclusione del Concilio

Ecumenico Vaticano II. Tale scelta era dettata dalla ovvia

considerazione che, in entrambe le ipotesi, il codice avrebbe dovuto

tenere necessariamente conto di eventuali dettati conciliari.

La prima riunione effettiva della Commissione, ebbe dunque

luogo il 6 maggio del 19658, ma le due prospettive del 1963,

6 Entrambe le citazioni sono contenute in: FAGIOLO V., Dal Concilio Vaticano II al nuovo Codice di Diritto Canonico, in Vivarium 4 (1980-1983), pp. 25-26. Per una ricostruzione della storia della codificazione del 1983 e del suo iter formativo, si vedano, tra gli altri: D’OSTILIO F., La storia del nuovo Codice di diritto canonico, Città del Vaticano 1983; HERRANZ J., Studi sulla nuova legislazione della Chiesa, Milano 1990; PAVONI N., L’iter del nuovo codice, in COCCOPALMERIO F. – BONNET P. A. – PAVONI N., Perché un Codice nella Chiesa, Bologna 1984. Per una sintesi circa le principali problematiche riguardanti i risultati del dibattito canonistico post-conciliare, con interessanti spunti sulle questioni rimaste ancora dibattute, si veda: REDAELLI C. R. M., Il concetto di diritto della Chiesa nella riflessione canonistica tra Concilio e Codice, Milano 1991, pp. 260-272. 7 Si trattava del can. 1099 § 2, riguardo l’obbligo di osservare la forma canonica del matrimonio, da parte di coloro che, pur educati fuori della Chiesa cattolica, erano tuttavia stati battezzati in essa; si veda: PIO XII, Motu proprio, 1.VIII.1948, in AAS 40 (1948), pp. 305-306. 8 Nel frattempo era divenuto Segretario della Commissione P. Raimondo Bidagor, S.J. e nel novembre del 1965 venne nominato Segretario aggiunto Mons. Guglielmo Onclin. Successivamente, essendosi ritirato per limiti di età il P. Bidagor, nel 1975, divenne segretario Mons. Rosalio Castillo Lara, S.D.B., il quale divenne, alla morte di

45

apparivano ancora le medesime. Nel corso dell’anno 1966, i lavori

furono divisi tra Gruppi di studio, dapprima affrontando il Libro I del

Codice De normis generalibus e successivamente le restanti parti del

Codice. Tuttavia, alla fine del 1966, moriva il Presidente della

Commissione, Card. Pietro Ciriaci, e dunque, come emerge dallo

studio dei resoconti dei lavori, la procedura subì una inevitabile

battuta d’arresto. Nel febbraio del 1967, venne nominato Pro-

Presidente della Commissione Mons. Pericle Felici, che divenne il vero

artefice della codificazione canonica da allora e sino alla sua morte.

Nell’ottobre del 1966 la sessione del Coetus centralis della

Commissione, formulò una bozza di Principi che avrebbero dovuto

guidare i lavori della Commissione stessa. Nel novembre dello stesso

anno venne chiesto a tutti i consultori di inviare il loro parere riguardo

tali Principi generali direttivi per la revisione del CIC9, come vennero

allora denominati.

Nei primi mesi del 1967, i vari pareri pervenuti da parte dei

consultori, vennero riuniti e sistemati in un’unica bozza, la quale

venne sottoposta all’esame del Coetus centralis della Commissione. In

tale occasione la Commissione mise a punto anche lo schema

adumbratum alterum della LEF, nel frattempo elaborato dai Mons.

Onclin e Philips. Sulla base di tali pareri la Commissione elaborò la

bozza dei Principia10, i quali furono sottoposti all’esame

dell’Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi del 1967. In tale

occasione il documento proposto dalla Commissione presieduta da

Mons. P. Felici11, ottenne il consenso della maggioranza del Sinodo, e

P. Felici nel 1982, il Pro-Presidente della Commissione. 9 Il nome dato al documento era: Principia directiva generalia pro Codicis Iuris Canonici recognitione. 10 I Principia furono materialmente elaborati dal Segretario P. R. Bidagor. 11 Frattanto P. Felici fu nominato cardinale nel concistoro del 26.VI.1967, venendo immediatamente nominato Presidente della Commissione; sino ad allora aveva ricoperto la medesima carica come Pro-Presidente.

46

prese definitivamente il nome di “Principia quae Codicis Iuris Canonici

recognitionem dirigant”12.

Sulla base di tali Principia, si vennero formando i sacri canoni di

quello che diverrà, dopo un lungo iter di elaborazione normativa, il

nuovo Codex Iuris Canonici.

Nella sua Allocuzione alla Rota Romana del 197713, Papa Paolo

VI, dedicò un ampio commento proprio ai Principia, con particolare

riguardo alla tutela della giustizia all’interno dei tribunali ecclesiastici.

Possiamo affermare che, dal punto di vista della tecnica

legislativa, la principale differenza tra la codificazione del 1917 e

quella del 1983, si trova proprio nel fatto che, per la prima, non fu

elaborato nessun tipo di principio guida per la redazione dei canoni,

ciò fu dovuto al fatto che, nel 1917, l’intento del legislatore era assai

differente rispetto a quanto accadde dopo il Concilio Vaticano II: si

trattava, allora, solamente di raccogliere la moltitudine di norme

giuridiche che costituivano il Corpus del diritto canonico, e che si erano

stratificate nel corso dei secoli, eliminando le norme divenute

superflue e configurando anche il diritto della Chiesa, sulla base delle

moderne codificazioni civili degli stati nazionali. Tale criterio, dunque,

era già di per sé direttivo dei lavori di codificazione, ed aveva come

sostrato scientifico-culturale, la scuola del diritto pubblico

ecclesiastico14 sviluppatasi, specialmente in Italia, sul finire del secolo

XIX15. Il Codex del 1917 aveva, come lo ha definito un eminente

12 Vedi: Communicationes 1 (1969), p. 77. 13 PAOLO VI, Allocuzione alla Sacra Romana Rota per l’inizio dell’anno giudiziario, in AAS 69 (1977), pp. 147-153. 14 In particolare la sistematica della disposizione delle norme codiciali, seguiva, quasi pedissequamente quella proposta da Paolo Lancelotti nelle sue Institutiones iuris canonici (Perusiae 1563), che furono aggiunte come appendice al Corpus Iuris Canonici, sin dal 1587, ed avevano perciò acquisito una notevole autorevolezza fra i canonisti. Sulla influenza di tale opera sul metodo canonistico successivo si vedano: VAN HOVE A., Prolegomena ad Codicem iuris canonici. Editio altera auctior et emendatior, Mechliniae-Romae 1945, p. 385; ERDÖ P., Introductio in historiam scientiae canonicae: prenotanda ad codicem, Roma 1990, p. 128. 15 Si veda sul punto: FANTAPPIÉ C., Introduzione storica al diritto canonico, Bologna 2003, pp. 193-223.

47

studioso: “un’impostazione che lo distingue nettamente dai testi

canonici della Chiesa antica, o medievale, o post-tridentina e che

invece lo ravvicina, anzi lo inserisce nella serie di codificazioni civili

del secolo XIX […]. Con una fiducia assoluta nell’ideale della formula

astratta, si mirava alla costruzione quasi matematica di un sistema

legislativo impeccabile, un insieme razionale di tutte le norme

giuridiche ridotte alla più assoluta formula, e concepite come

completamente avulse dalle situazioni concrete sociali che nella vita

sono il fondo materiale da cui sorge il diritto”16.

Il CIC del 1917, conteneva, peraltro, un esplicito riferimento a

tale modus operandi del legislatore, al can. 6, ove si affermava, riguardo

il contenuto della nuova codificazione: “Codex vigentem huc usque

disciplinam plerumque retinet, licet opportunas immutationes afferat”.

Assai differente il compito del legislatore al termine del Concilio

Vaticano II; non si trattava più di riorganizzare, bensì di apportare al

Codice del 1917, le sostanziali modifiche introdotte dalla ecclesiologia

conciliare17. Tuttavia, come visto nei brevi accenni da noi svolti

riguardo i presupposti teologici dello stesso Concilio, ed in base ai

documenti del medesimo, non era pensabile un semplice lavoro di

sistemazione o di correzione di alcuni canoni, come invece da

principio si pensava di poter fare.

16 KUTTNER S., Il Codice di Diritto Canonico nella Storia. Lezione ufficiale commemorativa del cinquantesimo della promulgazione del Codice di Diritto Canonico tenuta, alla presenza del Sommo Pontefice Paolo VI, il 27 maggio 1967, in L’attività della Santa Sede nel 1967. Pubblicazione non ufficiale, Città del Vaticano 1967, p. 1628. 17 A Tal proposito afferma FELICIANI G., Il nuovo codice tra fedeltà e novità, in CAPPELLINI E. (a cura di), La normativa del nuovo codice, Brescia 1983, p. 19: “A un più attento esame, risulta evidente la reale portata delle innovazioni che non si limitano ai pur notevoli cambiamenti intervenuti nei singoli libri, ma investono l’impostazione di tutta la sistematica. Infatti, come emerge dalla denominazione di alcuni libri, essa non viene più esclusivamente mutuata da dottrine giuridiche di origine secolare – come la tripartizione giustinianea in persone, cose, azioni – ma anche da una matrice teologica in quanto deriva dalla dottrina della chiesa come popolo di Dio e delle sue diverse funzioni”.

48

Quasi al termine del Concilio, lo stesso Paolo VI, aveva dettato18

le fondamentali linee guida che avrebbero dovuto indirizzare il lavoro

della Commissione. Il Pontefice individuò due elementi che avrebbero

dovuto presiedere al lavoro di codificazione: da un lato specificò che

non si trattava solamente di riorganizzare il corpo normativo, bensì di

riformare le norme in esso contenute al fine di renderle attuali, sia per

la mentalità che per le nuove esigenze della Chiesa, senza tuttavia

rigettare completamente la tradizione giuridica dei secoli precedenti;

dall’altro lato egli indicava chiaramente che, tutte la linee guida per la

riforma del Codice, dovevano rinvenirsi in tutti i documenti del

Concilio Vaticano II, sia perché essi introducevano nuovi istituti, sia

perché la ricchezza dottrinale in essi contenuti, venisse trasmessa

anche alle leggi della Chiesa.

Le notevoli specificazioni teologiche conciliari, se pure non

avevano introdotto alcun nuovo dogma, tuttavia influivano

notevolmente sul diritto della Chiesa: la specificazione del ministero

episcopale ed il ruolo del Collegio dei Vescovi in relazione alla

Suprema autorità del Pontefice, la visione della Chiesa come Popolo di

Dio e dunque la necessità di strutturare in maniera nuova i diritti ed i

doveri inerenti ai membri di tale Popolo, sono solo alcune delle

motivazioni che obbligarono la Commissione a darsi delle linee di

lavoro chiare e ben individuate. Come giustamente evidenziato i

Principia: “non proponevano direttive per una riforma delle leggi, ma

cercavano di mettere a fuoco quegli aspetti della Chiesa risultanti dagli

insegnamenti conciliari che, dotati di un’intrinseca dimensione

giuridica, richiedevano anche un’appropriata configurazione

normativa”19.

18 PAOLO VI, Allocuzione ai membri della Pontificia Commissione per la revisione del CIC, 20.XI.1965, in AAS 57 (1965), pp. 985-989. 19 GUTIÉRREZ J. L., La formazione dei principi per la riforma del «Codex Iuris Canonici», in CANOSA J. (a cura di), I Principi per la revisione del Codice di Diritto Canonico. La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, Milano 2000, p. 25.

49

Il testo dei Principia, così come formulati dalla Commissione, è

contenuto integralmente, nella rivista Communicationes20, sarà qui utile

brevemente ricordare i titoli dei singoli Principia21:

I- De indole iuridica Codicis;

II- De fori externi et interni positione in iure canonico;

III- De quibusdam mediis fovendi curam pastoralem in Codice;

IV- De incorporatione facultatum specialium in ipso Codice;

V- De applicando principio subsidiarietatis in Ecclesia;

VI- De tutela iurium personarum;

VII- De ordinanda procedura ad tuenda iura subiectiva;

VIII- De ordinatione territoriali in Ecclesia;

IX- De recognoscendo iure poenali;

X- De nova dispositione sistematica Codicis Iuris Canonici.

Nella Prefazione che si è voluto premettere al CIC del 198322,

redatta dal Card. A. M. Stickler, vengono riportati in modo sintetico i

Principia, con alcuni correttivi rispetto alla versione degli stessi che fu

di guida alla Commissione codificatrice, in ciò tenendo conto del

contenuto effettivo del Codice promulgato. In tale Prefazione, a

commento dello strumento dei Principia, utilizzato come linea guida

per la codificazione si legge: “Da questi principi, dai quali era

necessario fosse diretto l’iter di revisione del nuovo Codice, risulta

manifestamente la necessità di applicare passo a passo la dottrina sulla

Chiesa enunciata dal Concilio Vaticano II, dal momento che essa

stabilisce che non ci si debba solamente riferire alle dimensioni esterne

e sociali del Corpo Mistico di Cristo, ma anche e soprattutto alla sua

20 Communicationes 1 (1969), pp. 77-85. 21 Per alcune annotazioni di carattere generale sui Principia si veda: CASTILLO LARA R., Criteri di lettura e comprensione del nuovo Codice, in Apollinaris 56 (1983), pp. 345-369.

50

intima vita. E in realtà i consultori nell’elaborare il nuovo testo del

Codice sono stati come condotti per mano da questi principi”23.

Non possiamo ora ripercorrere la affascinante storia della

codificazione canonica post-conciliare per intero, vogliamo però

analizzare un po’ più in dettaglio due dei dieci principi più sopra

riportati, ed in particolare il primo ed il sesto, in quanto maggiormente

attinenti al contenuto del nostro lavoro.

2.1. Giuridicità del diritto canonico.

Come vedremo anche nel seguito della presente tesi, è sempre

stata presente nella Chiesa, e lo era anche nel momento storico in cui si

svolse il Concilio Vaticano II, una corrente di pensiero che vede il

diritto come un qualcosa di estraneo alla Chiesa24. La Chiesa della

carità, potremo dire in una battuta, non sopporta, per sua stessa natura

la Chiesa del diritto. Ci soffermeremo più oltre su tale tematica e ne

analizzeremo in modo più dettagliato le sue origini storiche25, basterà

ora ricordare come, già al momento di elaborare i Principi direttivi per

la elaborazione del nuovo Codice di Diritto Canonico, si era posta con

forza la questione della fondamentale importanza del diritto per la

Chiesa.

In una prima elaborazione dei Principi26, affermava Bertrams che

era: “diffusa opinio” che “in Ecclesia vitam spiritualem, supernaturalem

ordinationem giuridica excludere”, ed ancora che, dopo il Concilio il

23 Prefazione al Codice di Diritto Canonico del 1983. 24 Sul tema, si veda, fra gli altri: EYT P., L’antijuridisme et sa portée dans la vie récente de l’Eglise, in L’année canonique 27 (1983), pp. 17-24. 25 Sulla evoluzione storica di tale fenomeno e per una sua illustrazione essenziale si veda: GAŁKOWSKI T., Il “quid ius” nella realtà umana e nella Chiesa, Roma 1996, pp. 52-59. 26 Si tratta del Folio de oficio, redatto il 31 gennaio 1967, composto di 36 pagine, e recante il titolo “Principia directiva generalia pro Codicis Iuris Canonici recognitione”, in cui vennero raccolte le proposte dei consultori Eid, Bertrams, Del Portillo, Violardo, Huinzig, Palazzini e Gomez.

51

diritto: “in Ecclesiam amplius locum genuinum non habere”27. Era tuttavia

ben chiaro ai codificatori, l’errore contenuto in tale visione della

Chiesa: “Sbaglierebbe chi separasse una Chiesa carismatica da una

Chiesa istituzionalizzata, come se la prima fosse la Chiesa dello

Spirito, e la seconda la Chiesa dell’apparato istituzionale e

gerarchico”28. Probabilmente, tale erronea visione della Chiesa e dei

suoi elementi fondanti, fra i quali senza dubbio rientra il diritto,

dipende dalla stessa natura della Chiesa, all’interno della quale

coesistono elementi terreni ed elementi celesti29. È il mistero della

Chiesa, all’interno della quale è presente tale duplice dimensione,

l’una della quali non esclude l’altra, come alcuni vorrebbero far

credere30.

Il Concilio, tuttavia, non lasciava spazio ad erronee

interpretazioni, dal momento che, nella Costituzione Lumen gentium, si

27 Folio de oficio, cit., fol. 3. Ricordiamo qui anche la prospettiva offerta da un insigne canonista, secondo il quale il Concilio ha di fatto trascurato in maniera eccessiva le questioni riguardanti il diritto canonico: “…il Concilio non fu consapevole della profondità e del significato della crisi teologica della comprensione cattolica del diritto canonico. Partendo dall’intonazione pastorale che dominò il lavoro conciliare, si fu in grado di vedere nella crisi del diritto canonico appena più di un problema pastorale, da risolversi facilmente attraverso un radicale rinnovamento dell’insegnamento e della disciplina”, ROUCO VARELA A. M., Die katolische Rechtstheologie heute. Versuch eines analytischen Überblickes, in Archiv für katolisches Kirchenrecht 145 (1976), p. 12. Della medesima opinione anche BOUYER L., La Chiesa di Dio. Corpo di Cristo e Tempio dello Spirito, Assisi 1971, pp. 198-199. 28 FELICI P., El Concilio Vaticano II y la nueva codificación canónica, in Ius canonicum 7 (1967), p. 310. La traduzione è nostra [n.d.r.]. 29 La Chiesa, peraltro, nell’immediato post-Concilio ed anche negli anni successivi, sottolieò più volte, a rigetto delle tesi antigiuridiste, l’importanza dello studio del Diritto canonico. Vedi: SACRA COGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, 6.I.1970, in Enchiridion Vaticanum 3, p. 1194; ID., Lettera circolare particolare Postremis hisce annis, agli ordinari diocesani e religiosi, ai rettori dei seminari e dei collegi dei religiosi, 2.IV.1975, in OCHOA X., Leges Ecclesiae post Codicem iuris canonici editae, V, 7012-7016. Si ricordi, peraltro anche il n. 16 del Decreto conciliare OT. 30 Scriveva a tal proposito SALAVERRI DE LA TORRE J. in, El Derecho en el misterio de la Iglesia, in Investigación y elaboración del Derecho Canónico, Barcelona 1956, p. 3: “L’unione misteriosa del temporale e dell’eterno, dell’invisibile e del visibile, del carismatico e del giuridico […] in cui alla fine e all’inizio consiste tutto il mistero della Chiesa, racchiude i germi di un contrasto, di una tensione, di un antagonismo, all’apparenza inconciliabili, i quali […] sono serviti da pretesto per giustificare le più varie ribellioni contro la legittima autorità della Chiesa, separando, come se fossero incompatibili, gli elementi che Dio unì per sempre nell’unità del mistero”; la traduzione dallo spagnolo è nostra [n.d.r.].

52

afferma con chiarezza: “Ma la società costituita di organi gerarchici e il

corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la

Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono

considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola

complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino.

Per una analogia che non è senza valore, quindi, è paragonata al

mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta serve al

Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente

unito, così in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa

serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo (cfr.

Ef 4, 16)”31.

Il primo principio per la revisione del Codice, voleva ribadire con

forza, una volta ancora, le affermazioni che il Concilio, con tanta

chiarezza, aveva ricordato: la Chiesa ha un proprio diritto, ha un

proprio diritto che è diritto, ed al tempo stesso è canonico. Tali due

termini sintetizzano tutta la particolarità del diritto della Chiesa; un

diritto che è veramente diritto, con tutti gli aspetti giuridici che tale

definizione comporta, ed al tempo stesso è canonico, dotato cioè di

tutte quelle peculiarità proprie che appartengono alla essenza

soprannaturale della Chiesa, e che traggono origine dalla sua

fondazione divina.

Ripercorrendo l’iter e la storia che hanno portato alla

formulazione del primo dei Principia, Marzoa afferma: “Non esiste

questa chiesa giuridica, come nemmeno esiste una chiesa carismatica. […]

Ciò che esiste è un Ius Ecclesiae. In questa costruzione, Ecclesia non

subisce aggettivazioni riduttive: segnala la realtà sostantiva, entro la

quale si dà una dimensione giuridica, però senza che questa

dimensione connoti la Chiesa di modo che resti assorbita in essa. Esiste

la Chiesa. Ed esiste un diritto della Chiesa. Come esiste un Papa. Una

organizzazione, una autorità, dei presbiteri e dei fedeli, senza che

31 LG, n. 8.

53

questo porti a parlare – se si vuole essere rigorosi – di una Chiesa della

organizzazione, della autorità, del Papa, dei vescovi, del clero o dei

fedeli”32.

La natura giuridica del CIC è un dato di fatto che riguarda la

stessa natura ontologica della Chiesa e del suo mistero. Un utile

indicazione in tal senso proviene anche dai principi relativi alla

redazione del CCEO, ove si legge: “Fondato nel dogma, come è

insegnato dal magistero autentico della Chiesa, il codice non deve

essere un insieme di verità e esortazioni relative alla fede ed ai

costumi, ma al contrario deve essere un insieme di leggi destinate a

orientare i fedeli nella pratica della vita cristiana”33. Ciò serva a

ribadire, come, anche a distanza di svariati anni dal Concilio, ed a

seguito di una certa decantazione, se così possiamo dire, dei contenuti

del Concilio stesso, la riflessione della Chiesa sul proprio diritto non è

sostanzialmente mutata.

2.2. I diritti dei fedeli.

Il secondo dei Principia che richiama brevemente la nostra

attenzione è il sesto, il quale, come anche il titolo specifica, si occupava

della tutela dei diritti delle persone nella Chiesa.

Il principio in esame, voleva sottolineare la nuova ecclesiologia

conciliare relativa alla Chiesa come Popolo di Dio, per cui non era più

concepibile la visione del codice del 1917, nel quale vi era una netta 32 MARZOA A., La juridicidad del Derecho canónico, in CANOSA J. (a cura di), I Principi per la revisione del Codice, cit., pp. 66-67. 33 Il testo è citato in MARZOA A., Op. cit., p. 84, nota 88. Vedi per il testo completo: Nuntia 3 (1976), pp. 3-10. Per una storia dell’iter dei lavori di codificazione del CCEO si vedano, tra gli altri: BROGI M., Codificazione del diritto comune delle chiese orientali cattoliche, in Revista española de derecho canónico 45 (1988), pp. 21 ss.; BUCCI O., Il Codice di Diritto Canonico Orientale nella storia della Chiesa, in Apollinaris 55 (1982), pp. 371-410; FARIS G., La storia della codificazione orientale, in BHARANIKULANGARA L. (a cua di), Il diritto canonico orientale nell’ordinamento ecclesiale, Città del Vaticano 1995, pp. 259-268; ROHBAN L., Codification du droit canonique oriental, in Apollinaris 65 (1992), pp. 237-298; ŽUŽEK I., Incidenza del «Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium» nella storia moderna della Chiesa universale, in Ius in vita et in missione Ecclesiae, Città del Vaticano 1994.

54

superiorità di alcune categorie di fedeli rispetto ad altre, bensì doveva

essere evidenziata la sostanziale uguaglianza e dignità di tutti i fedeli.

Tale uguaglianza e dignità non dipende solamente da una

attribuzione di diritto positivo, bensì affonda le sue radici nella natura

stessa della Chiesa, e nella ontologia della persona-fedele. Il Coetus

centralis della Commissione, nella valutazione dei Principia affermava

che, diritti e doveri dei membri del Popolo di Dio, provengono: “ex

ipsa conditione cuiuslibet baptizati, vi quidem ipsius iuris divini cum positivi

tum naturalis”34; essi esistono prima ed indipendentemente da

qualsivoglia legge positiva; la loro fonte e la loro radice è da

individuarsi nella dignità cristiana e nella dignità umana, più in

generale; diritti e doveri sono un esigenza imprescindibile, fondandosi

“in ipsa conditione ontologica christifidelis”35.

E sempre nella formulazione di questo principio, troviamo

affermato, non solo che l’esercizio della potestà nella Chiesa non può

essere arbitrario, ma anzi, che esso è: “idque iure naturali proibente atque

iure divino positivo et ipso iure ecclesiastico”36; ma inoltre che: “Unicuique

christifidelium iura agnoscenda ac tuenda sunt, et quae in lege naturali vel

divina positiva continentur, et quae ex illis congruenter derivantur ob

insitam socialem conditionem quam in Ecclesia acquirunt et possident”37.

Era necessario, dopo le affermazioni conciliari, riportare la

persona del fedele, con i suoi doveri ed i suoi diritti, al centro

dell’ordinamento della Chiesa. Non che la Chiesa avesse una visione

prevaricatrice nei confronti dei fedeli, ma la tripartizione che il CIC

1917 operava tra i membri del Popolo di Dio, sembrava creare una

disuguaglianza, quanto meno sul piano della attenzione giuridica, tra i

fedeli ordinati ed i fedeli laici.

34 Communicationes 2 (1970), p. 91. 35 Ibidem. 36 Communicationes 1 (1969), pp. 82-83. 37 Ibidem.

55

Come affermava Del Portillo, nella sua relazione di valutazione

dei Principia38, era necessario, al fine di riconoscere i diritti

fondamentali di tutti i fedeli, all’interno del nuovo Codifice, arrivare a

descrivere detti diritti seguendo tre fondamentali direttrici: “a) che le

norme positive assicurassero a ciascun fedele «potestas morales» circa

i mezzi adatti per il raggiungimento delle proprie finalità; b) che

fossero recepiti nel diritto positivo i diritti fondamentali della persona;

c) infine che fosse protetto l’ambito di autonomia individuale nei

confronti d’ogni possibile lesione sia da parte di altri membri della

società, sia da parte della stessa pubblica autorità”39.

Il principio VI voleva servire come linea guida per tradurre, in

termini giuridici, il ruolo del fedele all’interno del popolo di Dio. La

nozione di Popolo di Dio è di per sé un concetto comunitario, per il

quale sarebbe stato sufficiente ribadire, con qualche correttivo, i

concetti giuridici relativi alle persone già presenti nella codificazione

pio-benedettina; tuttavia, si voleva sottolineare l’importanza dei diritti

che erano da attribuirsi ad ogni singolo fedele in conseguenza della

sua incorporazione a questo Popolo. Il card. Herranz, che sin

dall’inizio fece parte del gruppo di persone incaricate di sovrintendere

alla nuova codificazione canonica40, afferma che: “…il fine

38 DEL PORTILLO A., Relatio de laicis deque associationibus fidelium, in Communicationes 2 (1970), pp. 90-93. 39 La sintesi della Relatio qui riportata è contenuta in: LO CASTRO G., Il soggetto e i suoi diritti nell’ordinamento canonico, Milano 1985, p. 216. Conclude il medesimo autore affermando: “La mens della Commissione – sosteneva testualmente la Relatio – era che, fatta salva la costituzione gerarchica della Chiesa, i diritti della persona fossero riconosciuti oltre ciò che poteva apparire come strettamente necessario, poiché un’ampia tutela dell’ambito di autonomia e di iniziativa personale era ritenuta il modo migliore di inserire l’individuo nella vita organica della comunità ecclesiale”, Ibidem. Più tardi lo stesso Del Portillo affermò, ribadendo di fatto quanto già a suo tempo sostenuto in sede di lavori preparatori al Codice: “La dignità cristiana, come la dignità umana, è fonte e radice di alcuni diritti e doveri fondamentali in ordine alla comune chiamata alla santità ed in ordine alla dilatazione del Regno di Cristo: questi sono gli iura et officia christianorum. Tale situazione giuridica è comune a tutti i fedeli, quale che sia la loro missione nella Chiesa. È lo statuto giuridico del fedele: lo statutus fidelis”, DEL PORTILLO A., Laici e fedeli nella Chiesa, Milano 1999², pp. 36-37 40 Vedi: Communicationes 1 (1969), p. 35, in cui l’allora Mons. J. Herranz era citato come Aiutante di Studio a partire dal giugno del 1964.

56

soprannaturale dell’uomo è fondamentalmente personale: esso non è né

individuale né puramente sociale. Non è un fine individuale, perché

l’uomo più che individuo è persona, e quindi non può essere condotto

autoritativamente al suo fine: è lo stesso fedele che deve conseguirlo

attraverso l’uso responsabile della sua libertà. E non è neppure un fine

meramente sociale, perché non è il Popolo di Dio – considerato

esclusivamente come collettività, indipendentemente dai suoi

componenti – che tende a questo fine: è ogni battezzato, ogni fedele

concreto, che è personalmente chiamato a conseguirlo”41. Si legano

così tra loro due principi fondamentali: il fedele come singolo, ed il

fedele inserito nel Popolo di Dio, e dunque nella Chiesa, che sola può

fornire al fedele gli strumenti per il conseguimento del fine

soprannaturale.

Il principio in esame, oltre a stabilire con chiarezza la medesima

dignità ed uguaglianza esistente fra tutti i battezzati,

indipendentemente dal ruolo che ciascuno è chiamato a svolgere

all’interno della Chiesa; ha pure specificato meglio la relazione, alla

luce di questa uguale condizione ontologica di tutti i fedeli, esistente

tra i fedeli e la gerarchia, nonché tra fedeli ordinati e fedeli laici. Il

sesto principio, e conseguentemente i canoni che da esso presero

origine nel corso dei lavori di codificazione, ebbe l’insostituibile pregio

di guidare la Commissione in maniera consequenziale alle

affermazioni conciliari. Come ha scritto a tal proposito il noto

canonista tedesco Pree a tal proposito: “Il rapporto tra autorità e fedele

(e quindi l’esercizio del potere) non è una relazione di pura

sottomissione: sulla base dell’essere «ordinati l’uno all’altro» che

intercorre fra il sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, il potere

ecclesiastico ed il suo esercizio da una parte, i diritti fondamentali dei

41 HERRANZ J., Studi sulla nuova legislazione della Chiesa, cit., p. 119.

57

fedeli dall’altra, sono orientati allo stesso fine ultimo, e cioè si

determinano mutuamente”42.

Visti dunque brevemente, i presupposti teologici e giuridici, che

stanno alla base delle tematiche che affronteremo nel corso della nostra

tesi, nei prossimi capitoli, rivolgeremo la nostra attenzione dapprima

alla norma canonica, con particolare riferimento alla sua struttura ed ai

presupposti di tale struttura, successivamente analizzeremo la figura

del fedele, e gli aspetti che lo legano alla norma canonica dal punto di

vista soggettivo. Il nostro lavoro si concluderà quindi con uno sguardo

rivolto alla persona umana in generale, ed ai possibili punti di contatto

tra la persona ed il diritto della Chiesa.

42 PREE H., Esercizio della potestà e diritti dei fedeli, in CANOSA J. (a cura di), I Principi per la revisione del Codice, cit., p. 334.

58

59

3. LA NORMA

3.1. Ius ontologico e legge-norma come categorie per la definizione

delle norme nell’ordinamento canonico.

Il fatto stesso che la Chiesa, possieda un suo codice giuridico

comporta che le norme, volte a regolare i principali aspetti di tale

realtà, in quello che è il suo pellegrinaggio terreno, debbano

necessariamente avere un carattere esteriore. Nel regolare una realtà

essenzialmente terrena, le norme canoniche devono svolgere la loro

funzione nel mondo sensibile, nella realtà fisica.

Tale asserzione è sicuramente valida anche per tutte quelle norme

che riguardano i fedeli, soggetti assai concreti che, attraverso il loro

comportamento esteriore, danno vita a una serie di situazioni che

vengono contenute entro i limiti dei diritti e dei doveri che le norme

stabiliscono.

Queste affermazioni sono tutte, lo ripetiamo ancora, sicuramente

vere per le codificazioni o, più in generale, per le manifestazioni

giuridiche proprie di uno stato, ma valgono parimenti per la Chiesa, la

quale, pur non essendo uno stato nel senso giuridico che normalmente

si attribuisce a tale termine, è tuttavia una forma di società umana

organizzata, quanto meno per quella che si può definire la Chiesa

terrestre, in antitesi alla Chiesa celeste1.

Se si fa una lettura anche rapida dell’indice dell’attuale Codice di

Diritto Canonico ci si accorge che, l’affermazione precedente, è vera

solo in parte. Se si prende infatti l’elenco dei libri, ad esempio, del

Codice Civile italiano, si vede con chiarezza come le varie norme in

1 È bene precisare, a scanso di equivoci, che non si può dire che vi sia una Chiesa terrestre opposta ad una Chiesa celeste, usiamo qui il termine “antitesi”, solamente per una questione pratica, per far comprendere con chiarezza come, le norme canoniche, ad una prima e superficiale analisi, siano volte a regolare essenzialmente gli aspetti terreni della società ecclesiale.

60

esso contenute, descrivano tutta una serie di istituti volti a regolare

aspetti pratici della vita dei cittadini, dalla loro nascita alla loro morte.

Anche il Codice di Diritto Canonico presenta una serie di canoni

che disciplinano aspetti pratici della vita dei fedeli, con la differenza

che in un’unica codificazione sono previste norme che normalmente

sarebbero riferibili ad ambiti giuridici differenti: civile, penale,

amministrativo, costituzionale e via dicendo.

Si potrebbe essere quindi portati a valutare il Codice delle norme

canoniche utilizzando i medesimi criteri interpretativi propri della

tradizionale scienza giuridica secolare (diciamo secolare per

distinguerla dalla canonica). Tuttavia il dibattito canonistico ha messo

in luce le difficoltà di una tale impostazione dottrinale: si è caduti a

volte nella eccessiva enfatizzazione degli aspetti giuridici del

medesimo, a volte nella tentazione di attribuire una valenza

preponderante agli aspetti teologici del diritto canonico2.

Sicuramente nessuno di questi due orientamenti può dirsi

corretto se prescinde dall’altro. Per le caratteristiche proprie della

Chiesa e di coloro che ne fanno parte si dovranno sempre tenere

presenti gli aspetti umani propri della Chiesa e del Popolo di Dio,

senza trascurare la considerazione della natura anche divina della

Chiesa.

Le norme canoniche, quindi, al pari della “società” di cui sono

espressione, contengono in se stesse la duplice natura, umana e divina,

terrestre ed escatologica3: questa duplice dimensione è inscindibile e

2 Vedi per tale seconda impostazione dottrinale, fra gli altri: EICHMANN E. - MÖRSDORF K., Lehrbuch des Kirchenrechts auf Grund des Codex Iuris Canonici, VI ed., Monaco – Paderborn – Vienna 1949; ROUCO VARELA A. - CORECCO E., Sacramento e diritto: antinomia nella Chiesa? Riflessioni per una teologia del diritto canonico, Milano 1971; AYMANS W., Codex Iuris Canonici. Erwägungen zu Geist und Gestalt des neuen Gesetzbuches der lateinischen Kirche, in AA.VV., “Ministerium iustitiae”, Essen 1985; per un riassunto su tale impostazione dottrinale vedi: CATTANEO A., Teologia e diritto nella definizione epistemologica della canonistica, in Ius Ecclesiae 6 (1994), pp. 649-671; 3 A tale proposito veniva ricordato che: “conviene non dimenticare che la presenza di un fenomeno giuridico nella Chiesa, radicale alla sua essenza, si interseca con

61

caratterizza le norme canoniche sia sotto il profilo della tecnica

giuridica con cui devono essere formulate, sia sotto il profilo del

rispetto di tali norme da parte dei christifideles. Nel caso di questo

secondo profilo si può parlare di aspetti soggettivi della norma

canonica, intendendo con tale espressione l’atteggiamento con cui il

fedele si pone rispetto a tali norme, tenendo presente il fatto che tali

norme sono orientate a favorire il raggiungimento di quella salus

animarum cui ogni singolo si orienta e in vista della quale la Chiesa

svolge la sua missione terrena.

La norma canonica non è quindi finalizzata, come le norme di un

qualsiasi altro ordinamento giuridico, solamente alla creazione di una

società terrena, cui tutti i consociati devono attenersi, affinché la

società medesima si sviluppi in modo ordinato, garantendo a tutti i

medesimi diritti e doveri; la norma canonica deve svolgere un ruolo

ulteriore, che è quello di orientare il fedele4 (che è il consociato) al

compimento di una vita terrena conforme alle leggi divine positive e

naturali, che lo portino, al termine del suo pellegrinaggio terreno, al

raggiungimento della salvezza eterna.

In questo senso la Chiesa non ha la medesima libertà di legiferare

che possiede invece qualsiasi altro ente legiferante. La Chiesa, al

contrario, deve rispettare dei vincoli ben precisi allorquando si trovi a

svolgere il ruolo di legislatore: questi vincoli sono dovuti alla duplice

dimensione, terrena e soprannaturale, propria della Chiesa.

l’esistenza di una dimensione di giustizia nel mistero di Cristo, il quale deve non solo scoprirsi ed esplicarsi, ma anche realizzarsi nella convivenza storica della comunità ecclesiale. In questa prospettiva, la scienza giuridico-canonica si occupa di promuovere, mediante una configurazione storica, la dimensione di giustizia implicita nel mistero di Cristo”, MARQUES J. A., Pueblo de Dios, persona, «communio» y derechos fundamentales de los fieles, in CORECCO E. – HERZOG N.- SCOLA A. (a cura di), I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società, Friburgo-Milano 1981, p. 141; la traduzione dallo spagnolo è nostra n.d.r. 4 Sulla importanza del fatto che la Chiesa si rivolga all’uomo singolo, al fine di salvare tutta la compagine umana, e dunque sul ruolo della società ecclesiale come l’unica in grado di condurre alla salvezza, si veda: ROSMINI A., La società e il suo fine, Libro III, cap. XVII.

62

Nella produzione normativa canonica il legislatore ecclesiastico

deve necessariamente tener conto dei limiti impostigli da Dio stesso,

sia esplicitamente, sia attraverso quella legge naturale che è propria

dell’uomo in quanto creatura terrestre.

Possiamo affermare che il legislatore ecclesiastico è da un lato

vincolato al rigido rispetto di quanto impostogli dal legislatore divino

e dalla natura umana, da un altro non è soggetto a tutti quei

condizionamenti che influenzano il legislatore ordinario (nel senso del

non ecclesiastico), ma che spesso non portano ad una produzione

normativa giusta. Il legislatore statuale, ad esempio, è condizionato da

questioni politiche e di consenso, che in molti casi lo portano ad

operare scelte giuridiche assurde e contrarie alla legge naturale ed alla

giustizia in senso ampio; un caso clamoroso è, ad esempio, quello

relativo alle leggi in favore dell’aborto, che legalizzano l’omicidio di

una persona totalmente innocente, contravvenendo ad una norma di

diritto naturale, per fini esclusivamente politici e basandosi su

considerazioni totalmente avulse dai principi di giustizia cui dovrebbe

uniformarsi ogni ordinamento giuridico.

Per capire meglio il senso delle norme giuridiche canoniche e la

loro differenza rispetto a quelle di ogni altro ordinamento5, dobbiamo

analizzare tali norme tenendo presente che si compongono di due

fondamentali elementi: da un lato ogni norma è espressione di uno ius,

dall’altro rappresenta una legge-norma. Come la persona è composta

da due realtà anima e corpo tra loro inscindibili, così le norme

giuridiche dovrebbero essere composte da un’anima, che è lo ius, e da

un corpo, che è solamente la esplicitazione concreta di quello ius, e che

possiamo appunto definire legge-norma.

Nelle norme canoniche lo ius rappresenta la giustizia, che deve

condurre alla salus animarum, la legge-norma sono invece i canoni veri

5 Sulla nascita delle norme canoniche ed in particolare sulla loro derivazione dalle norme giuridiche romane, si veda: GAUDEMET J., La formation du droit seculier et du droit de l’Eglise aux IV et V siecles, Paris 1979, pp. 210 ss.

63

e propri, così come appaiono inseriti nel codice di diritto canonico (o in

altre produzioni normative ecclesiali), i quali sono solamente una

concretizzazione di quello ius che sta alla radice dei canoni6. Con il

termine ius7 sopra indicato, intendiamo parlare del diritto divino

naturale e positivo che possiamo definire, con terminologia

unicomprensiva di queste due realtà, ius ontologico. Il fatto che a questo

ius ontologico si dia una forma, che è il canone nel caso della legge

ecclesiastica8, non significa che tale ius non abbia una vita autonoma

per così dire. Il diritto divino che rappresenta questo ius ontologico,

nel caso in cui non ricevesse anche una esplicitazione, un corpo, sotto

forma di legge-norma, continuerebbe ad esistere in una forma che

potremmo definire imperfetta.

6 Nel prologo al suo Decretum IVO DI CHARTRES, così descriveva i contenuti delle norme del Corpus iuris canonici: “Praeceptiones itaque et prohibitiones,aliae sunt mobiles, aliae immobiles. Praeceptiones immobiles sunt, quae lex aeterna sanxit: quae observatae salutem conferunt, non observatae eamdem auferunt…Mobiles vero sunt, quas lex aeterna non sanxit sed posterorum diligentia ratione utilitatis inventi non ad salutem principaliter obtinendam, se ad eam tutius muniendam”, in MIGNE J. P., Patrologia latina, CLXI, Parigi 1844-1855, col. 50 A, dal 1996 in http://pld.chadwyck.com/. 7 Il termine ius deriverebbe secondo alcuni da jungere (=unire, congiungere) , secondo altri dal sanscrito yos, che designerebbe una sorta di formula portafortuna, vedi DEVOTO G., Jus: di là dalla grammatica, in Rivista italiana di scienze giuridiche (1948), pp. 414-418, in ogni caso esso porta con sé una connotazione positiva, motivo per cui ci sembra particolarmente appropriato per designare ciò che andremo illustrando con il termine di ius ontologico. In realtà i latini per distinguere il diritto umano da quello divino, utilizzavano due termini differenti: ius, per il diritto umano, fas per il diritto divino. Tuttavia il termine fas, non ha l’accezione di giusto, che invece è intrinseco al termine ius, dal momento che fas, può al più indicare ciò che è lecito fare, ciò che è concesso dalla divinità o dalla natura all’uomo. Preferiamo dunque anche per tale motivo utilizzare il termine ius, che sottintende anche il termine giustizia, che ben ci sembra utilizzabile per il diritto divino, che indica ciò che è giusto, piuttosto che consentire dei comportamenti giusti. In Italiano inoltre il termine latino fas è nella etimologia del sostantivo fato, che dunque si presenta assai inadatto ad esprimere un concetto come quello del diritto divino, senza contare che nel linguaggio giuridico, anche tardo latino, si preferiva il termine ius affiancato magari a divino o naturale, per indicare concetti di tipo giuridico, piuttosto che il termine fas; vedi per le etimologie italiane: CORTELLAZZO M. – ZOLLI P., Dizionario etimologico della lingua italiana, voll. 2 e 3, Bologna 1983. 8 In greco il termine κανών indica uno strumento (bastone, canna), che serviva per misurare; assume dunque il significato di regola, in senso figurato. Viene utilizzata per la prima volta per indicare il complesso delle norme ecclesiastiche, nel I Concilio di Nicea del 325; si distingue così la norma ecclesiastica da quella civile, per la quale si utilizza il termine νóµος; si vedano: FEDELE P., voce Canone (diritto canonico), in CALASSO F. (diretto da), Enciclopedia del diritto, vol. V, Milano 1959, pp. 1081-1082; LALMANT M., voce Canon, in NAZ R. (diretto da), Dictionnaire de droit canonique, vol. II, Parigi 1924-1965, pp. 1283-1288.

64

Non è che il diritto divino che non riceve una forma positiva sia

imperfetto nel senso di non avere un proprio intrinseco valore, a meno

di non voler dar ragione a quanti hanno sostenuto la necessità della

canonizatio del diritto naturale; esso è imperfetto solamente dal punto

di vista della tecnica legislativa terrena, la quale tecnica impone che la

norma giuridica esprima in modo quanto più preciso possibile il

diritto che tutela. Proprio parlando dei diritti dei fedeli P. Erdö

osservava come non si possa valutare l’ordinamento canonico

solamente avendo riguardo alle norme canonizzate, per il particolare

carattere sacrale di detto ordinamento nel quale: “pure le norme divine

di comportamento umano e cristiano e le strutture fondamentali

risalenti alla volontà normativa del Fondatore divino hanno un valore

giuridico immediato, anche se non siano canonizzate”9, e

proseguendo, con una critica circa la qualifica di “fondamentale”

attribuita da certuni a determinati diritti dei fedeli sottolinea come sia

improprio utilizzare tale definizione giuridica tipica della teoria

generale, avuto riguardo alla non positivazione di norme (queste sì,

fondamentali) di diritto divino: “Sembra quindi che in generale non si

possa dare una maggiore rilevanza tecnica ad alcune norme canoniche

positive, qualificandole «fondamentali», rispetto alle norme

menzionate, fondate teologicamente, le quali non sono e forse neppure

possono essere canonizzate dal legislatore ecclesiale. La forza speciale

di queste ultime non proviene dalla loro promulgazione da parte

dell’autorità ecclesiastica, ma dalla loro realtà teologica, la quale non si

esaurisce in una loro forma positiva, anche se siano canonizzate in un

determinato momento storico. Il principio giuridico – teologico

continua ad essere sempre più forte, più stabile, «fondamentale» cioè,

che non la sua forma canonizzata eventualmente nelle leggi positive

della Chiesa”10.

9 ERDÖ P., Teologia del diritto canonico. Un approccio storico- istituzionale, Torino 1996, p. 137. 10 ERDÖ P., Op. cit., p. 137.

65

In questa concezione delle norme si evidenzia una sostanziale

differenza fra le norme canoniche e quelle di differente produzione

(quelle statuali positive): la norma canonica non ha solamente valore

in una dimensione terrena, perché la sua anima, il suo ius ontologico di

cui è espressione, è la salvezza dell’anima, che non si ottiene in una

dimensione terrena, fisica, ma sovrannaturale, trascendente. La

mancanza della forma, dunque, non rende imperfetta la norma divina

ed il fine cui essa orienta l’uomo, la renderà imperfetta solamente dal

punto di vista della conoscibilità “fisica” che l’uomo può avere di tale

norma e tuttavia questa mancanza di forma giuridica può non

rappresentare, com’è di tutta evidenza, una totale mancanza di

comprensione della medesima da parte del soggetto, dal momento che

la comprensione dell’uomo per i fenomeni, non si limita alla

conoscenza dei fenomeni nella loro dimensione esclusivamente

materiale e fisica.

L’importanza di una forma canonica delle norme di diritto divino

è data dal fatto che, assumendo la norma divina un “corpo”, essa sarà

maggiormente conoscibile, essendo tuttavia già perfetta in se stessa e a

prescindere dal fatto di avere ricevuto una forma, cioè di essere

diventata anche una legge-norma, oltre che ius ontologico già esistente,

percepibile ed efficace.

La validità di questo ius ontologico, a prescindere da una sua

formale canonizzazione, potrebbe far pensare al fatto che avessero

ragione quanti sostenevano la natura essenzialmente teologica del

diritto canonico e ritenevano a volte superflue alcune norme

canoniche, specie quando queste non fossero perfettamente

discendenti da principi teologici ad esse superiori11. Peggio ancora

sarebbe pensare, ad imitazione dei protestanti, al fatto che il diritto sia

11 Per una breve sintesi delle “relazioni” Chiesa-diritto e sul dibattito sorto nel corso del secolo XX su tale tema, si veda: GROSSI P., Storia della canonistica moderna e storia della codificazione canonica, in Quaderni fiorentini 14 (1985), pp. 587-599; FANTAPPIÈ C. (a cura di), Itinerari culturali del diritto canonico nel novecento, Torino 2003; ID., Introduzione storica al diritto canonico, cit., pp. 22-31.

66

contrario alla stessa natura della Chiesa, proposizione sulla quale non

vale qui la pena di soffermarsi12.

Il fatto che la Chiesa si doti di un sistema giuridico suo proprio,

diritto che nel corso del ‘900 ha assunto la forma codicistica ad

imitazione dei diritti statuali moderni, è conseguenza della natura

12 Lutero, considerava il diritto canonico come opera di Satana, dal momento che la Chiesa, divenendo societas iuridica, perdeva l'essenza sua propria di societas spiritualis che le avrebbe impresso il divino Creatore; per i protestanti, essendo il regno di Dio, regno dello Spirito, la Chiesa, sposa di Cristo, non può accettare alcun sovrano carnale, alcuna dottrina umana, e quindi è incompatibile con ogni potere che si serva di mezzi materiali, coercitivi e giuridici. Vedi sul punto GIACCHI O., Il consenso nel matrimonio canonico, Milano 1950, pp. 6 ss. Ed anche RADBRUCK G., Gererechtigkeit und Gande, in AA. VV., Scritti in onore di F. Carnelutti, Padova 1950, pp. 35 ss. Vogliamo ricordare qui anche le tesi di Marsilio da Padova in proposito: “De translatione Imperii” e “Defensor minor” in NEDERMAN C. J. (a cura di), Writings on the empire: “Defensor minor” and “De translatione Imperii”, Cambridge 1993. Per completezza si deve anche ricordare come varii movimenti ereticali abbiano negato, a più riprese, la possibilità di un ordinamento giuridico della Chiesa: gnostici, montanisti, donatisti e successivamente catari, valdesi, albigesi ecc. Per riferirsi invece alle posizioni dottrinali, bisogna necessariamente richiamare quanto affermato da R. Sohm, per il quale la natura della Chiesa, la sua essenza intrinseca, sarebbe spirituale mentre un diritto, seppure denominato canonico, ha una essenza mondana che è quindi totalmente incompatibile, a prescindere dal momento storico in cui si voglia inquadrarlo, con l'essenza stessa della Chiesa; l'unico vero diritto nella Chiesa deriverebbe quindi dalla natura sacramentale della Chiesa stessa, ma sarebbe inopportuno definirlo diritto. Vedi sul punto: SOHM R., Kirchenrecht, I, II, Berlin 1923, p. 700 ; ID., Wesen und Ursprung des Katholizismus, Leipzig-Berlin 1912; ID., Das altkatholische Kirchenrecht und das Dekret Gratians, Munich-Leipzig 1918. Tesi sostanzialmente sostenuta anche da KLEIN J., Skandalon. Um das Wesen des Katholizismus, Tubinga 1958; ID., Was trennt uns heute von den Katholiken?, in Ev. Theologie, 1960 p. 49; salvo il fatto che il Klein prima di aderire al protestantesimo aveva sostenuto tesi sostanzialmente diverse, ad es.: ID., Grundelgung und Grenzen des kanonischen Rechts, Tubingen 1947. Per un esame critico di tali teorie da parte cattolica vedi: AYMANS W., Codex Iuris Canonici. Erwägungen zu Geist und Gestalt des neuen Gesetzbuches der lateinischen Kirche, in AA. VV., “Ministerium iustitiae”, Essen 1985, p. 37; CONGAR Y., R. Sohm nous interroge ancore, in Revue des sciences philosophiques et theologiques 57 (1963), pp. 263-294; CORECCO E., voce Diritto, in Dizionario teologico interdisciplinare, I, Casale Monferrato 1977, pp. 137 ss.; ERRÁZURIZ C. J., Il diritto e la giustizia nella Chiesa, cit., pp. 28-39; ERDÖ P., Op. cit., pp. 53-63 (ove l’autore smentisce anche sul piano storico le affermazioni del Sohm); KRÄMER P., Theologische Grundlegung des kirchlichen Rechts. Die rechtstheologische Auseinandersetzung zwischen H.Barion und J.Klein im Licht des Vatikanischen Konzil, Trier 1977; LLAMAZARES FERNÁNDEZ D., Sacramento-Iglesia-Derecho en el pensamiento de R.. Sohm, Oviedo 1969; POTZ R., Die Geltung kirchenrechtlicher Normen. Prolegomena zu einer kritischhermeneutischen Theorie des Kirchenrechts, Wien 1978, p. 132 ss.; ROUCO VARELA A., Die katholische Reaktion auf das “Kirchenrecht I” von R.Sohm, in Ius Sacrum, Munich-Paderborn-Wien 1969; WALF K., Kirchenrechts, Düsseldorf 1984, pp. 16 ss; RIGHI R., Rudolph Sohm e il diritto canonico. L’eventuale, il contingente, il fattuale, in FANTAPPIÈ C. (a cura di), Itinerari culturali del diritto canonico nel novecento, cit., pp. 33-71.

67

terrena e visibile assunta, per volere divino, dalla Chiesa13; in questa

sua dimensione visibile la Chiesa è vera società, ed essendo vera

società14, si dota anche di un sistema giuridico reale, che assume oggi

la forma del codice, perché, essendo la Chiesa inserita nella storia,

sceglie gli strumenti che il momento storico presente indica più idonei

al raggiungimento di determinate finalità. “La Chiesa ha una natura

umana reale: non solamente i suoi membri presi singolarmente sono

uomini; anche come tutto, come unità, essa è umana, come a dire, una

vera società, una società esterna e visibile. Sta, nell’ordine di categoria

delle società, al gradino più alto, in quello chiamato della societas

perfecta, è una società organizzata. La immagine di Corpo di Cristo

esprime anche tale aspetto di visibilità e di articolazione sociale […] il

Diritto della Chiesa è fondato nella natura umana della Chiesa. Dal

momento che è una società organizzata e visibile, vale per essa il

principio: «ubi societas ibi ius»15. Allo stesso modo per cui la Chiesa è

una vera società, il suo Diritto è un vero diritto”16, ciò che differenzia

questa particolare società che è la Chiesa, dalle altre società umane

13 A tal proposito PIO XII nella sua enciclica Mystici corporis, del 29.VI.1943, n. 64, ricordava che: “Dunque, nessuna vera opposizione o ripugnanza può esistere tra la missione invisibile dello Spirito Santo e l’ufficio giuridico che i Pastori e i Dottori hanno ricevuto da Cristo. Che anzi queste due realtà si completano e perfezionano a vicenda (come in noi il corpo e l’anima) e procedono da un solo identico Salvatore, il quale, quando alitò sugli apostoli, non solo disse:«Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20, 22) ma comandò anche a voce alta: «Come il Padre mandò me, così anch’io mando voi» (Gv 20, 21), e ancora: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Lc 10, 16)”. 14 Il fatto che la Chiesa, in quanto società, si doti di leggi, non contrasta con il fine soprannaturale della Chiesa, in quanto il fedele: “per porre atti buoni (che, in quanto tali, lo condurranno alla salvezza eterna n.d.r.), non solo ha bisogno del complemento interno delle virtù, ma anche del sostegno esterno della società. Ora questo sostegno esterno alla regolazione della condotta la società lo fornisce mediante la legge. Da qui la necessità di un approccio politico al concetto di legge. Questa necessità resta anche nell’ordine della beatitudine eterna. Anche nei riguardi di questa l’individuo dipende dalla società, la quale perciò deve essere ordinata in modo conveniente a questo fine”, ABBÀ G., Lex et virtus. Studi sull’evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d’Aquino, Roma 1983, p. 259. 15 Sull’importanza di tale massima anche per l’ordinamento canonico, in ordine alla struttura stessa della Chiesa si veda: HERVADA J., El ordenamiento canónico, cit., pp. 106 ss. 16 HEIMERL H., Aspecto cristologico del Derecho Canónico, in Ius canonicum 6 (1966), pp. 31-33; la traduzione dallo spagnolo è nostra. In tal senso vedi anche: DALLA TORRE G., Lezioni di diritto canonico, Torino 2004, p. 16; LOMBARDÍA P., Rilevanza dei carismi personali nell’ordinamento canonico, in Il diritto ecclesiastico 80 (1969), pp. 14-15.

68

organizzate, dal punto di vista del sistema giuridico, è il fatto che la

Chiesa si propone, attraverso le sue norme, un fine diverso rispetto a

quello proprio di altre società umane organizzate17: la salvezza della

persona (e della sua anima), piuttosto che il rispetto assoluto della

norma; fatto, quest’ultimo, dimostrato anche dalla presenza di istituti18

come la dispensa, la dissimulazione, la equità, che sarebbero altrimenti

inspiegabili in un ordinamento giuridico che volesse tutelare se stesso

o uno stato, piuttosto che la persona.

Il Concilio Vaticano II, nel riprendere la nozione biblica di Popolo

di Dio19, ha ricordato in maniera assai efficace il fatto che la Chiesa è,

per certi aspetti, anche una società20, seppure con tutte le peculiarità

che le derivano dal fatto di essere stata fondata da Cristo. Tale società,

nella quale la persona appare in primo piano già a livello

terminologico (Popolo), è stata costituita in vista della salvezza, che

dunque rimane il fine primo e fondamentale della società Chiesa nei

confronti dei suoi membri e, più ampliamente, nei confronti della

umanità tutta. Tuttavia la nozione di Popolo di Dio, significa che la

Chiesa ha un carattere storico, e dunque partecipa di quelle che sono le 17 Non avulso tra l’altro dai fini della società ecclesiale, è pure quello pastorale, che pure presenta dei risvolti di tipo giuridico; vedi sul punto: GHERRO S., Diritto canonico e «pastoralità» della gerarchia, in ERRÁZURIZ C. J. – NAVARRO L. (a cura di), Il concetto di diritto canonico. Storia e prospettive, Milano 2000, pp. 177-189; LOMBARDÍA P., Rilevanza dei carismi, cit., pp. 17-19. 18 Cfr. DE LA HERA A., Introduccion a la ciencia del derecho canonico, Madrid 1967, p. 136. 19 Per un breve riassunto della nozione ecclesiologica di Popolo di Dio si veda: SEMERARO M., Mistero, comunione e missione, Bologna 2004, pp. 49-66. 20 Intorno alla definizione che il Concilio Vaticano II voleva dare della Chiesa, si svilupparono ampie discussioni sulla opportunità di utilizzare il termine società, in quanto esso poteva confondersi con quella nozione di societas perfecta, con cui tradizionalmente si soleva definire la Chiesa, specialmente in epoca medievale, a sottolinearne la sua indipendenza dallo Stato. In molti avrebbero preferito l’utilizzo del termine “comunità” il quale, secondo quanto espresso da WEBER M. (in Economia e società. I. Sociologia della religione, Milano 1968, pp. 38-40), definirebbe un’aggregazione nella quale la disposizione dell’agire sociale poggia su una comune appartenenza soggettivamente sentita degli individui che ad essa partecipano, mentre con il termine “società”, la comunanza dei membri poggerebbe solamente su una identità di interessi. Ecco dunque che il termine “popolo”, si porrebbe come definizione ideale (anche perché di derivazione biblica) di Chiesa; per una breve sintesi della definizione terminologica della Chiesa si veda: DIANICH S., voce Chiesa, in BARBAGLIO G. – BOF G. – DIANICH S. (a cura di), Teologia, Cinisello Balsamo 2003, pp. 204-206.

69

caratteristiche storiche delle società umane, tra cui quindi il diritto. I

primi due capitoli della Costituzione Lumen gentium, costituiscono

quasi un unicum, che ci parla delle Chiesa, nei suoi aspetti più ampi e

generali nel primo capitolo (Il mistero della Chiesa), di quelli più

specifici della sua realtà terrena nel secondo che è appunto dedicato al

Popolo di Dio.

L’importanza che la Chiesa possieda un suo ordinamento

giuridico specifico risulta anche nel caso in cui, come affermato in

modo assai originale dal Viladrich, si rovesci la definizione di cui

sopra, nel senso che è laddove si trova il diritto che si fonda la vera

società, essendo queste due realtà presenti contemporaneamente21.

Come affermato dall’autore: “è certo che la dimensione sociale della

Chiesa rende possibile l’esistenza di un fenomeno giuridico proprio

(ubi societas ibi ius); ma non è meno certo che sono le realtà giuridiche

contenute nell’essenza della Chiesa a permettere a quest’ultima di

dispiegare e di realizzare nella storia tutta la pienezza della sua

dimensione sociale (ubi ius ibi societas). In questo secondo senso, il

Diritto canonico non può essere concepito solamente come una

conseguenza resa possibile dal carattere sociale della Chiesa, bensì e

principalmente come struttura costitutiva, anche se non unica, della

particolare dimensione sociale della Chiesa. In senso stretto, possiamo

affermare la contemporaneità del Diritto e della Chiesa, se per Chiesa

intendiamo la sua costituzione essenziale e per Diritto il Diritto

divino”22.

L’errore, commesso da quanti hanno ritenuto che la Chiesa non

dovesse dotarsi di norme giuridiche e successivamente da quanti

hanno tentato di ridurre la portata di tali norme a semplici

esplicitazioni di altre particolarità proprie della Chiesa (come la

21 VILADRICH P. J., El Derecho canónico, in AA. VV., Derecho canónico, vol. I, Pamplona 1974, p. 36. 22 Ibidem, p. 37.

70

teologia o la pastorale)23, è particolarmente grave, non solamente

perché, così facendo, si è travisato totalmente il senso del diritto

canonico, ma anche e soprattutto, perché si è snaturata la natura più

profonda della Chiesa: “societas fruendi Deo et invicem in Deo; quo cum

ventum fuerit non erit vita mortalis sed plane certeque vitalis”24. Certo,

definire la norma canonica in modo chiaro è di particolare difficoltà,

per i vari elementi più sopra brevemente tratteggiati, tuttavia, come

autorevolmente affermato: “Questa strana società che ha un

ordinamento giuridico, è un ordinamento giuridico. L’ordinamento fa

corpo con la essenza stessa della vita della Chiesa: nessun errore

maggiore e più fatale, che considerarlo come una forma esteriore,

staccabile da quella vita […] La difficoltà (di cogliere il nesso fra la

Chiesa ed il suo ordinamento n.d.r.) consiste in questo, che mentre

bisogna tener ferma la natura di ordinamento giuridico di questo

ordinamento, perché tale è, si deve pure tener ferma la peculiarità, per

cui esso è ordinamento di quella straordinaria società, unica nella

storia”25. La presenza nel diritto canonico di un nucleo che rappresenta

il vero diritto, quello che sta alla base dell’intero ordinamento, quello

che noi definiamo ius ontologico, veniva pure posta in evidenza dallo

stesso Capograssi, quando insiste sulla presenza di quella che egli

definisce la “norma suprema” dell’ordinamento: “Questa norma è la

norma che prescrive la instaurazione consapevole intenzionale pratica,

disposta consapevolmente nel sistema dei suoi mezzi e dei suoi fini,

della società perfetta degli uomini in Cristo”26; tale norma suprema è

costituita da un atto imperativo che è il nesso esistente tra la società

(la Chiesa n.d.r.) e l’ordinamento (le norme di diritto canonico n.d.r.),

in tale connessione la norma suprema ed il sistema delle sue

23 HERVADA J., Pensieri, cit., pp. 9 ss. Il presente volume è la traduzione italiana dell’originale spagnolo Pensamientos de un canonista en la hora presente, Pamplona 2004. 24 S. AGOSTINO, De civitate Dei, XIX, 17. 25 CAPOGRASSI G., La certezza del diritto nell’ordinamento canonico, in Ephemerides iuris canonici 5 (1949), p. 11. 26 Ibidem, p. 13.

71

determinazioni, rappresentano “il valore stesso costitutivo della

società cristiana”27. Questa norma suprema, che è dunque la base

fondamentale della Chiesa in quanto società e del suo ordine giuridico

è, sempre seguendo il ragionamento del Capograssi: “La legge di Dio –

che fissa la vita etica dell’uomo nelle sue profonde esigenze, la

struttura stessa razionale e morale della vita sociale, il destino

soprannaturale dell’uomo e dell’umanità, - entra a far parte

dell’ordinamento. La legge naturale e la legge soprannaturale entrano

nel sistema delle determinazioni della norma fondamentale, le quali

l’autorità va elaborando e dichiarando, entrano con vari nomi, e sono

continuamente presenti come norme positive ed attuali di tutta la vita

dell’ordinamento”28. Quello che dunque abbiamo definito ius

ontologico è quindi l’elemento primario dell’ordinamento della

Chiesa, ed impregna di esso tutto l’ordinamento, la legge-norma,

elemento certamente necessario in una società terrena, rimane tuttavia

subordinata al primo, che costituisce il vero e basilare fondamento di

tutto l’ordine giuridico29.

27 Ibidem, p. 17. 28 Ibidem, pp. 17-18. 29 In questo stesso senso, anche se relativamente ai diritti fondamentali dei fedeli, si veda: VILADRICH P.J., Teoría de los derechos fundamentales del fiel. Presupuestos críticos, Pamplona 1969, p. 294.

72

3.2. La legge-norma.

Prima di passare alla definizione ed all’analisi più puntuale di

quello che abbiamo definito ius ontologico, sarà opportuno soffermarci

brevemente su quella che abbiamo chiamato legge-norma, essendo tale

elemento costitutivo della norma canonica quello di più chiara ed

immediata individuazione.

Per legge-norma si dovrà intendere la norma canonica così come

si presenta nelle codificazioni ecclesiastiche (codice, norme particolari

ecc.), quale strumento codificato dal legislatore ecclesiastico, secondo

le tecniche legislative che il medesimo si è dato.

Abbiamo associato al termine norma, quello di legge, al fine di

non ingenerare possibili confusioni; l’utilizzo del solo termine norma

avrebbe infatti potuto essere confuso con la norma ad esempio morale,

la quale non è necessariamente una norma nel senso che invece si

vuole qui attribuire a tale termine, l’aggettivo legge vuole essere

esplicito riferimento al senso squisitamente giuridico che la norma

canonica assume in questa veste “positivizzata”. Pure si è preferito

non associare al termine norma l’aggettivo giuridica, in quanto tale

definizione è propria dei diritti positivi ed avrebbe parimenti

ingenerato possibili confusioni se inserita in un ragionamento che

vuole riferirsi specificamente alle norme, del tutto particolari,

dell’ordinamento canonico.

Prima caratteristica della legge-norma è la sua non necessarietà:

tale caratteristica appare evidente se facciamo riferimento a quanto

detto poco sopra riguardo al suo rapporto con quello che abbiamo

definito ius ontologico. La legge-norma aggiunge un’ulteriore

perfezione a principi che sono già di per sé stessi giuridicamente

vincolanti. La canonizzazione del diritto naturale o divino, comporta

solamente un perfezionamento di tali diritti che non attiene alla loro

esistenza o validità o conoscibilità da parte delle persone (siano esse

fedeli o persone tout court ).

73

La legge-norma ha un valore che è principalmente giuridico, nel

senso che il valore etico, morale, teologico, pastorale delle norme

dell’ordinamento canonico, non sono date dalla presenza della legge-

norma, dal momento che sono elementi già perfettamente validi in

virtù dello ius ontologico, che li rende immediatamente operanti ed in

parte conoscibili1. La legge-norma fa sì che il precetto normativo operi

a livello giuridico2, vincolando tutti i consociati al rispetto non

solamente dello ius ontologico sotteso a tale norma, ma anche ad un

rispetto in una forma particolare di tale ius.

La legge-norma non è necessariamente la canonizzazione del ius

ontologico. Vi possono essere infatti norme che regolano procedimenti

strettamente giuridici che non si rifanno immediatamente ad un diritto

con valore assoluto (com’è il ius ontologico); è il caso ad esempio delle

norme di tipo amministrativo; una volta che i principi fondamentali

siano rispettati, è compito specifico del legislatore stabilire, ad

1 A proposito delle leggi-norma e della loro effettiva giuridicità, ha scritto LO CASTRO G., L’uomo e la norma, in Ius Ecclesiae 5 (1993), p. 184.: “Secondo la concezione adottata, la risposta ultima non può che essere una sola: quando esse stabiliscono l’agire drictum, l’agire secondo giustizia; o, detto altrimenti, quando rispecchiano con fedeltà, nel perseguire i fini pratici loro propri, le esigenze profonde della dimensione normativa giuridica, elemento essenziale della condizione umana. Le norme empiriche (con tale termine l’A. indica ciò che noi intendiamo col termine leggi-norma n.d.r.), infatti, in quanto esprimono ed in concreto attuano l’anzidetta dimensione, così essendo funzionali alla natura (imperfetta), o, che è lo stesso, alla libertà (difettiva) dell’uomo, fanno riferimento ad un valore più alto di questa, la giustizia, la quale, sul piano metafisico, s’identifica con Dio: iustitia, aequitas, idest Deus. Rispetto al valore della giustizia, le norme empiriche, come del resto l’uomo (libero), non possono che stare in atteggiamento di ascolto e di servizio; e soltanto adempiendo a tale funzione, esse costituiscono il diritto, rispondono, cioè, all’esigenza che l’uomo ha della norma. La norma empirica, per tanto, non è la giustizia. Guarda alla giustizia, tende alla giustizia, se conforme a questa è qualificata, in quanto dricta, come giuridica (fa diritto), ma non si identifica necessariamente con essa”. 2 Le norme canoniche non perseguono solamente fini soprannaturali, dal momento che, essendo la Chiesa composta di persone, è pure una realtà terrestre, come dunque sottolineato, la Chiesa deve necessariamente avere una potestà suprema e terrena, che “humano et sensibili modo membra eius et actiones eorum in ordine ad aeternam salutem dirigat et gubernet”, SUÁREZ, Defensor fidei I, III, c. 6, n. 10 e 11; ID., De legibus 1, X, c. 1, n. 6.

74

esempio, le procedure processuali necessarie ad attuare un

determinato istituto giuridico3.

La legge-norma deve essere manifesta, deve necessariamente

assumere, per essere valida ed operante, una forma giuridica consona

al fine che si prefigge; così essa potrà essere ad esempio “manifestata”

in un canone, o in una norma procedurale, o ancora in una istruzione,

in un decreto ecc. Questa fondamentale caratteristica, senza la quale

non si può nemmeno parlare di legge-norma, è necessaria in quanto,

non essendo la legge-norma percepibile in modo assoluto, come per lo

ius ontologico, senza assumere una veste particolare, quale essa sia,

nemmeno esiste.

È sempre perfettibile e modificabile da parte del legislatore e pure

attraverso una serie di meccanismi giuridici particolari, ad esempio le

consuetudini di cui al Titolo II, del Libro I dell’attuale CIC, che

possono avere forza di legge (can. 23) quando addirittura non vengano

tradotte in norme vere e proprie (cann. 25-26). È bene qui precisare

subito il senso di tale caratteristica: anche il ius ontologico non esiste in

maniera statica, al contrario, come vedremo, presenta caratteristiche

dinamiche; tuttavia la legge-norma è più suscettibile di cambiamento,

modifica e soprattutto perfettibilità. Se infatti lo ius ontologico è già

perfetto in sé stesso e abbisogna solamente, nella sua eventuale forma

scritta, di essere “tradotto” nella realtà giuridica materiale ed esposto

in modo coerente con i principi che realmente esprime, la legge-norma,

in quanto esistente solamente in una forma esteriore, per così dire, è

maggiormente esposta alla possibilità di modifiche continue, che

seguano il corso dei tempi e l’evolversi della tecnica giuridica.

3 In questo senso Hervada parla di un “ampio spettro di leggi canoniche […] si pensi alle leggi processuali, a quelle che determinano le circoscrizioni ecclesiastiche, a quelle che regolano i beni economici, a quelle proprie dell’organizzazione ecclesiastica, alle leggi amministrative “ HERVADA J., Pensieri, cit., p. 55. Non tutte le leggi canoniche richiedono il medesimo impegno da parte del fedele in quanto alla loro osservanza, e tuttavia tutte le leggi canoniche sono vere leggi giuridiche.

75

In estrema sintesi possiamo dire che tutti i canoni del Libro I

dell’attuale Codice di diritto canonico, fanno parte della categoria delle

leggi-norma, pure se non mancano canoni che fanno riferimento a

situazioni di estremo interesse anche per il ius ontologico, com’è, ad

esempio, nel caso del can. 130 riguardo l’ambito d’esercizio della

potestas regiminis4.

Ci si può interrogare sull’utilità di una codificazione in cui vi

siano una molteplicità di leggi-norma, per un ordinamento come

quello canonico, nel quale è sempre operante una forma di diritto che

non necessita, secondo quanto detto, di una immediata

normativizzazione. Tuttavia la risposta a tale domanda è già

sottointesa in quanto scritto, laddove si consideri che la Chiesa,

essendo una società umana (e per la parte di essa che è società terrena),

necessariamente utilizza gli strumenti giuridici che sono propri di tale

sua natura.

L’evoluzione delle forme che il diritto canonico è andato

assumendo nel corso dei secoli, ci dice quanto le leggi-norma

canoniche siano uno strumento tipicamente inserito nella storia,

quanto tali norme siano state condizionate dall’epoca nella quale

venivano prodotte. Le stesse leggi-norma attuali, contenute in una

codificazione ad imitazione (quanto meno a livello di tecnica

normativa) delle leggi di una qualsiasi altra società giuridicamente

organizzata, ci fanno capire la necessità che la Chiesa ha di tale

strumento giuridico, alla quale affida una parte importantissima di sé

stessa: quella riguardante il suo operare terreno. Possiamo,

parafrasando ciò che diceva un noto canonista5, dire che, per ciò che

4 Come correttamente messo in luce in proposito (vedi: ARRIETA J. I. (a cura di), Codice di diritto canonico e leggi complementari commentato, Roma 2004, commento al can. 130) essendo detta potestas “un potere giuridico, il suo ambito naturale è il foro esterno, dove il diritto svolge pienamente la sua funzione sociale”, essa è stabilita attraverso una legge-norma, laddove però essa si riferisce al foro interno, subentrano considerazioni anche di ius ontologico, che in quanto tali non sono tutte ricomprese nel dettato normativo del canone in questione. 5 JMÉNEZ URRESTI T. I., Problemática actual en el tema “Iglesia y Derecho”, in AA.VV.,

76

riguarda la legge-norma, il diritto canonico non differisce di molto

rispetto al diritto secolare, se non altro a livello di tecniche formali e

contenutistiche6.

Questa fondamentale verità, che rende il diritto canonico, a pieno

titolo, una delle esperienze normative umane, di maggiore importanza

ed interesse, è vera fin dal sorgere della Chiesa terrena, e non può

essere assolutamente eliminato. Quella della Chiesa è stata fin da

subito una scelta per il diritto: “E una scelta di sempre, che non ha mai

subito attenuazioni o deviazioni nel corso di una storia ormai

bimillenaria: presente nella Chiesa catacombale quando la comunità

religiosa era per lo Stato romano societas illicita; presente al momento

di definire il primo Codex iuris canonici, nel 1917, quando ancora si

respirava un’aria post-tridentina e si protraeva un atteggiamento di

difesa della Chiesa avverso la civiltà e la cultura moderne; presente al

momento di definire il secondo Codex iuris canonici, quello attualmente

vigente, nel 1983, in una Chiesa che aveva ormai alle spalle il grande

ripensamento antropologico ed ecclesiologico del Concilio Vaticano

Secondo”7.

Iglesia y Derecho, Salamanca 1965, p. 90; ID., El teologo ante la realidad canónica, in Salamaticensis 29 (1982), pp. 52-56. 6 In questo senso è concorde nell’accettare la relazione fra diritto secolare e diritto canonico anche Rouco Varela, a patto di non pretendere poi che le strutture tipiche del diritto secolare superino la natura soprannaturale propria del diritto canonico; vedi sul punto ROUCO VARELA A. M., ¿Filosofia o Teologia del derecho? Ensayo de una respuesta desde el Derecho Canónico, in SCHEFFCZYK L. – DETTLOFF W. – HEINZMANN R. (a cura di), Wahrheit und Verkündigung. Michael Schmaus zum 70. Geburtstag, vol. II, Munich – Paderborn – Wien 1967, p. 1735. 7 GROSSI P., L’ordine giuridico medievale, XI ed., Roma-Bari 2004, pp. 110-111.

77

3.3. Lo ius ontologico.

Analizzati in estrema sintesi gli elementi caratteristici della legge-

norma canonica passiamo ora a vedere in maniera puntuale che cosa si

intende quando si parla di ius ontologico con riferimento al diritto

canonico.

Come magistralmente indicato da S. Tommaso d’Aquino1, la

legge appartiene anzitutto alla ragione: “La legge è una regola, o

misura dell’agire, in quanto uno viene da essa spinto all'azione, o

viene stornato da quella. Legge infatti deriva da legare, poiché obbliga

ad agire. Ora, misura degli atti umani è la ragione, la quale ne è il

primo principio, come abbiamo dimostrato: infatti è proprio della

ragione ordinare al fine”2. In antitesi dunque, con quanto abbiamo

detto per la legge-norma, lo ius ontologico è immediatamente percepibile

da parte dell’uomo, attraverso l’uso della ragione, che è dunque lo

strumento base per la conoscenza dello ius; esso non necessita di una

determinata forma (o struttura) per rendersi conoscibile all’uomo: “La

promulgazione della legge naturale si ha nel fatto medesimo che Dio

l’ha inserita nelle menti umane, per essere conosciuta naturalmente”3.

Le parole di S. Tommaso aiutano a spiegare anche il perché di questa

non necessarietà di una formulazione esplicita dello ius: esso è inserito

nella mente umana ed esso è dunque conoscibile a prescindere dal

fatto di assumere una forma particolare.

Il fatto che lo ius si differenzi dalla legge-norma che in qualche

modo lo esplicita è un concetto che non nasce in ambito cristiano, già

le culture greca e romana differenziavano i due concetti di diritto (che

qui potremmo tradurre con il termine legge-norma) e la giustizia (che

1 Una efficace lettura della dottrina del diritto in San Tommaso d’Aquino, è stata effettuata da VILLEY M., La formation de la pensée juridique moderne, Paris 1975 (La formazione del pensiero giuridico moderno, Milano 2007, pp. 105-131). In particolare l’A. precisa come sia errato affermare che S. Tommaso non consideri il diritto positivo, che, anzi, occupa una parte preponderante delle questioni che l’Angelico Dottore riserva alle leggi. 2 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 90, a. 1. 3 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 90, a. 4,

78

nel nostro ragionamento è lo ius ontologico); non è detto, infatti, che il

diritto rappresenti un ordine giusto, la veridicità di tale affermazione

non necessita una spiegazione, giacchè si comprendono perfettamente

le difficoltà nel sostenerla, anche perché, come ricordato poco sopra,

spesso le leggi, il diritto, sono soggette a condizionamenti che

prescindono da un ordine di giustizia.

Questo rapporto quasi conflittuale fra diritto e giustizia, nei

termini qui ricordati, è ben presente anche in ambito greco e romano:

si parla di iustum naturale (i greci, o sarebbe meglio dire δυκαιον

φυσει) e di ius naturale (i romani). Per i romani, infatti, lo ius, seppure

naturale, presupponeva un riferimento ad un codice scritto, seppure

primordiale come poteva essere quello delle XII Tavole nei tempi più

antichi, Cicerone stesso diceva di trovare nello “ius nostrae civitatis” un

codice di diritto naturale4. Completamente diverso era invece il

significato per i greci, i quali vedevano nel iustum naturale (traduzione

effettuata da S. Tommaso d’Aquino), una cosa giusta, un ordine di

giustizia non collegato ad un codice scritto, ma giusto a prescindere da

ogni valutazione umana; l’uomo non può che affermare tale giustizia e

rispettarla, senza modifiche o trasformazioni che potrebbero alterarne

il significato.

S. Alberto Magno chiarifica in parte tale distinzione, che si era

completamente appiattita sulla posizione romana, quando nega che il

diritto naturale rappresenti un atto, essendo invece un “habitus iuris”5

ed identifica il diritto naturale con l’intelletto pratico che percepisce i

principi supremi dell’ordine morale e giuridico6.

S. Tommaso d’Aquino, riprende la concezione greca di iustum,

per definire il diritto: lo ius, prima di essere norma è ordine, è

oggettività, è iustum; egli afferma che: “iuristae nominant ius quod 4 Per la concezione romana del ius naturale vedi: GRANERIS G., Contributi tomistici alla filosofia del diritto, Torino 1949, pp. 71-76. 5 S. ALBERTO MAGNO, De Bono, Tract. V, q. I, n. 504. 6 COMPOSTA D., Natura e ragione. Studio sulle inclinazioni naturali in rapporto al diritto naturale, Zurigo 1971, p. 65.

79

Aristoteles iustum nominat”7; per il Dottore angelico il diritto, è cosa ben

distinta dalla giustizia, la quale non abbisogna di una esplicitazione,

essendo razionalmente conoscibile (a differenza di quanto sostenevano

i romani). Nel parlare del Decalogo S. Tommaso scrive: “tra i precetti

del decalogo sono omesse due categorie di precetti: i precetti primari e

comuni, che non hanno bisogno di altre promulgazioni, essendo scritti

nella ragione naturale, quasi come cose per sé note: p. es., che non si

deve far del male a nessuno; e quelli che vengono riscontrati conformi

alla ragione da un'indagine accurata dei sapienti”8.

Lo ius ontologico esprime un valore, che è quello della giustizia, il

quale è ordinato ad un fine, che è quello della salvezza.

Se il valore che lo ius esprime è quello della giustizia, esso

differisce dalla legge-norma anche sotto questo aspetto: lo ius non ha

un valore principalmente giuridico; esso ha un valore etico, morale,

teologico, pastorale che influisce sulle norme dell’ordinamento

canonico, caratterizzandole e differenziandole da quelle di ogni altro

ordinamento giuridico9. Sorge allora spontanea una domanda: si può

parlare di ordinamento giuridico quando si parla dell’ordinamento

canonico? Non è improprio voler trattare tale ordinamento utilizzando

il termine giuridico, quando i principi fondanti non sono in realtà

strettamente giuridici?

Naturalmente la risposta ad entrambi i quesiti è che non è

improprio parlare di ordinamento giuridico quando si parla

dell’ordinamento canonico, in quanto la presenza di principi fondanti

non strettamente giuridici, non significa cancellare totalmente la

7 S. TOMMASO D’AQUINO, Commentarium in Ethicam ad Nichomachum, V, lect. XII. 8 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 100, a. 3. 9 In realtà anche altri ordinamenti dovrebbero essere caratterizzati dalla presenza del ius ontologico così come lo si presenta in queste righe, e dunque, tutte le considerazioni su di esso, riferite all’ordinamento canonico, potrebbero essere valide anche per ogni altro ordinamento giuridico. Tuttavia, solamente l’ordinamento canonico ritiene in via di principio vincolante questo tipo di ius, dal quale tutta la produzione normativa è caratterizzata; senza tener conto di tale ius, non sarebbero spiegabili molti istituti propri del diritto canonico, quali quelli indicati nel cap. 1 (vedi: A. DE LA HERA, Op. cit.).

80

giuridicità di tale ordinamento, ma anzi, aiuta a dare delle basi più

solide al medesimo, il quale tuttavia rimane un vero ordinamento

giuridico, che però si pone l’ambizioso fine della giustizia, in vista

della salus animarum dell’uomo.

Quanto alla forma dello ius ontologico, in parte è già stato detto

parlando della legge-norma: non è necessario che tale ius sia

canonizzato, essendo al più la canonizzazione un modo per renderlo

più perfetto (ci si passi l’improprietà linguistica). Attenendo alla sfera

di percezione della ragione neppure si può dichiarare la necessità

assoluta di una forma concreta per lo ius, che, come ripetuto più volte

è immediatamente percepibile a priori dall’uomo. Un esempio renderà

più chiaro tale caratteristica: il precetto “non ammazzare” è ius

ontologico, se non fosse mai stato scritto in alcuna forma, sarebbe

comunque una proposizione che tutti gli uomini rispetterebbero,

riprovandone la sua violazione; la sua comprensione è razionale. Il

can. 1397, non menziona neppure che cosa sia, materialmente,

l’omicidio, tuttavia il canone stabilendo la pena prevista per chi

commette tale violazione dello ius ontologico, ne rende chiaro il valore

primario ed assoluto. L’aggiunta delle parole “a seconda della gravità”

sono l’esempio di come la legge-norma si aggiunga e “perfezioni” un

precetto già di per sé valido ed operante.

Sempre partendo da tale esempio vediamo anche come sia

immodificabile lo ius ontologico: comunque e sempre sarà vero che

l’uccisione di una persona, comporta una gravissima violazione di tale

ius, mentre invece la gradazione della pena a seconda della gravità del

fatto commesso, può essere modificata, o variare, secondo

considerazioni che però non intaccano il valore intrinseco dello ius.

Per quanto attiene alla formulazione scritta dello ius ontologico,

anche all’interno di leggi-norma, sarà utile fare riferimento, in via

analogica, a quanto la Chiesa insegna con riguardo alle formule

dogmatiche. Sappiamo che le formule dogmatiche hanno la

81

fondamentale caratteristica di essere sempre valide: “si deve dire che

le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall’inizio

furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che restano per sempre

adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente”10, ciò dipende dal

fatto che il linguaggio umano è in grado di esprimere determinate

verità di fede, che altrimenti resterebbero incomunicabili all’uomo.

Tuttavia, il fatto stesso della multiformità culturale e dunque delle

forme del linguaggio, comporta il fatto che le stesse formule

dogmatiche non siano immodificabili: “altra cosa è il deposito stesso

della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra

cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad

esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata”11. Le formule

dogmatiche possiedono una certa storicità e sono dunque perfettibili,

pur restando sempre valide le verità in esse espresse12; molte volte le

formule utilizzate venivano sfruttate in epoche successive per

supportare determinate eresie, dando un senso alla formula che era in

realtà alieno dalla medesima al momento della sua formulazione, onde

si rendeva necessario perfezionare la formula per chiarirne il

significato in contrasto con quanto sostenuto dalla eresia13.

10 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione Mysterium Ecclesiae, n. 5, 24.VI.1973, in AAS 65 (1973), pp. 396-408. 11 GIOVANNI XXIII, Discorso di apertura del Concilio Vaticano II, 11.X.1962, in AAS 54 (1962), p. 791, e in, Discorsi, messaggi, colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, vol. IV, Città del Vaticano 1963, pp. 574-590. 12 È il caso ad esempio dell’utilizzo di determinati termini, i quali difficilmente, pur nel corso dei secoli, possono essere modificati, dato che esprimono in modo assai preciso specifiche verità; ad esempio sul termine transustanziazione Papa Paolo VI aveva a dire: “poiché queste formule, come le altre di cui la Chiesa si serve per enunciare i dogmi di fede, esprimono concetti che non sono legati ad una certa forma di cultura, non ad una determinata fase del progresso scientifico, non all’una o all’altra scuola teologica, presentano ciò che l’umana mente percepisce della realtà nell’universale e necessaria esperienza, e che essa esprime nei termini giusti e fissati, desunti dall’uso corrente e da quello più elaborato: e però tali formule sono intelligibili per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi”, PAOLO VI Lettera Enciclica Mysterium fidei, 3.IX.1965, in AAS 57 (1965), pp. 753-774. 13 È il caso, tanto per citare un esempio assai noto ed emblematico, della eresia monofisita di Eutiche , che prendeva spunto dalla formula dogmatica-cristologica adottata dal Concilio di Efeso del 431, stravolgendo il senso di tale formulazione; è per reagire a tale eresia che viene convocato il Concilio di Calcedonia (451) nel quale verrà adottata la formula dogmatico-cristologica sulla unione ipostatica, che, senza

82

La perfettibilità delle formule dogmatiche, va poi collegata anche

alla interpretazione delle medesime: “Non si tratta quindi soltanto del

fatto che le formule dogmatiche, in quanto espressioni di verità divine

che trascendono l’umano intelletto, restino perfettibili, pur essendo di

per sé sempre valide, ma anche dalla necessità di interpretare

rettamente tali formule. L’interpretazione può essere autentica, cioè

fatta dallo stesso Magistero, oppure semplicemente teologica, quando è

opera dei teologi. Infatti, l’approfondimento della verità insegnata dal

Magistero è una delle funzioni proprie della teologia e comporta

sempre, in qualche misura, un lavoro d’interpretazione”14. Tutte

queste considerazioni, riguardanti le formule dogmatiche possono

essere analogicamente utilizzate anche per la formulazione dei

principi dello ius ontologico, sia in ordine alla perfettibilità del

medesimo, sia in ordine alla sua interpretazione da parte dei giuristi

canonici.

Tale analogia appare assai significativa anche per il fatto che

molto spesso, l’ambito giuridico canonico utilizza termini propri del

linguaggio teologico, senza per ciò comportare un impoverimento del

linguaggio giuridico o un asservimento di questo a quello teologico:

“Il fatto che il medesimo termine possa trovare posto tanto nella

elaborazione teologica quanto in quella canonistica, fa assumere a esso

rilievi funzionali diversi. Per converso, non necessariamente detto che

una determinata realtà sostanziale debba trovare espressione,

contemporaneamente all’interno delle due discipline, con l’uso dello

negare le precedenti formulazioni cristologiche, le perfezionava per reagire alle posizioni monofisite. Si veda, per un raffronto tra le due formulazioni: DENZINGER H., Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Bologna 2004, nn. 272 e 302. Per una sintesi delle formulazioni cristologiche nel corso dei primi secoli cristiani si veda: LAVATORI R., L’Unigenito dal Padre. Gesù nel suo mistero di «Figlio», Bologna 1999, pp. 227-252 ed anche ARDUSSO F., voce Gesù Cristo, in Teologia, cit., pp. 714-717. Per quanto riguarda la storicità dei dogmi, si veda: RATZINGER J., La storicità dei dogmi, in Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Milano 1993. 14 OCÁRIZ F. – BLANCO A., Rivelazione, fede e credibilità. Corso di Teologia Fondamentale, Roma 2001, pp. 96-97.

83

stesso strumento linguistico”15. La mediazione del linguaggio

teologico all’interno del diritto canonico (e dunque un valido sostegno

alla analogia più sopra da noi proposta), è particolarmente evidente

proprio in riferimento a quelle norme di diritto divino, che sovente il

linguaggio della norma positiva non è in grado di rendere in modo

perfetto16.

Da ultimo ci resta da capire in che consista la caratteristica della

necessarietà in ordine allo ius ontologico. Parlando al cap. 2 della legge-

norma, si è detto infatti che essa non è necessaria; per converso si

dovrebbe dunque parlare della necessarietà dello ius ontologico, del

suo dover essere, per utilizzare una terminologia filosofica. Tuttavia

non possiamo parlare di necessarietà dello ius ontologico, dal

momento che esso non deve essere, esso è a prescindere da qualsivoglia

ulteriore considerazione. Se infatti si parlasse della necessarietà dello

ius ontologico, se ne negherebbe in parte la sua originalità,

equiparandolo in qualche modo ad una legge-norma. Dal momento

invece che lo ius esiste di per sé stesso, possiamo solamente dire della

sua innegabile esistenza, ma non della sua necessarietà, dal momento

che non si darebbe nemmeno un mondo in cui non esista tale ius17.

Lo ius ontologico può essere distinto in due parti: in esso

coesistono il diritto divino naturale ed il diritto divino positivo. Il

primo procede dall’ordine della natura creata, il secondo è quello che

Dio ha voluto rivelare all’uomo, indicando pure la forma di tale

diritto.

15 MIELE M., Dalla sinodalità alla collegialità nella codificazione latina, Padova 2004, p. 24. 16 Vedi: MIELE M., Op. cit., pp. 41-42. 17 Anche in ambito protestante è dato di trovare riscontro a tali affermazioni, BRUNNER E., Gerechtigkeit, Zurich 1943, il quale afferma che: “Un ordinamento, che l’incredulo chiama semplicemente un ordinamento naturale, è riconosciuto dal credente come qualcosa che non solo è così, ma tale deve essere […] ciò che è naturale deve essere considerato e riconosciuto come voluto da Dio”, p. 105. Si ricorda peraltro che il medesimo A., in quanto di fede protestante, comunque non riconosce alla Chiesa l’autorità per legiferare, anche se in accordo con i principi del diritto naturale.

84

L’ordinamento canonico riconosce il valore integrale di tale ius,

com’esso è nell’ordine della natura e com’è nell’ordine della

rivelazione divina.

85

3.4. Il fine della norma canonica e lo ius ontologico.

Nel sostenere l’importanza di non negare una giuridicità propria

alle norme canoniche, pur sottolineando la differenza esistente tra

queste e quelle del diritto secolare, Hervada si chiede se sia tuttavia

sufficiente la giuridicità della norma canonica ai fini dell’adempimento

del dettato normativo canonico1.

La nostra risposta, viste le considerazioni svolte nei paragrafi

precedenti, non può che essere negativa, non solamente perché,

diversamente, la norma canonica verrebbe a perdere quel quid pluris

rispetto alla norma secolare, finendo per essere in tutto e per tutto

assimilata alla medesima, ma anche e soprattutto perché le finalità

della norma canonica, dovute alla fondamentale importanza che

assume in essa lo ius ontologico, come precedentemente sottolineato,

sono differenti e del tutto peculiari rispetto a quelle che sono le finalità

della norma nel diritto secolare.

Il canonista spagnolo, sempre parlando delle finalità della norma

canonica, ne distingue i due fondamentali fini: da un lato vi è un fine

immediato, il quale è “la retta disposizione delle condotte e del

dinamismo della vita sociale in ordine al bene comune della Chiesa”,

ovvero a quell’“insieme delle condizioni di vita della comunità

cristiana che permettono di perseguire con pienezza e più facilmente

l’uso degli strumenti necessari ed adeguati ai fini della salvezza e della

santità, nonché ai fini del compimento della missione apostolica dei

fedeli e della missione pastorale della gerarchia, vale a dire, in

definitiva, la salus animarum”2.

Possiamo dire che tale fine immediato, così come descritto, può

essere conseguito con una legislazione composta di leggi-norma, che

abbiano come loro punto di riferimento un ius ontologico, composto dal

diritto divino positivo e naturale. Volendo eliminare il riferimento alla

1 HERVADA J., Pensieri, cit., pp. 55-56. 2 Ibidem, p. 59.

86

salvezza delle anime, qualsiasi ordinamento giuridico, si pone come

fine immediato quello che Hervada delinea per l’ordinamento

canonico: in buona sostanza lo svolgimento di una vita sociale

ordinata.

Il secondo fondamentale fine della norma canonica è il cosiddetto

fine mediato: “La salus animarum è il fine mediato ed ultimo che opera

come principio ordinatore di ogni singola legge e della legislazione

canonica nel suo insieme. […] la salus animarum non si presenta come

fine-scopo della legislazione canonica, ma come l’ordinatio suprema ed

essenziale. In altre parole, la legislazione canonica ha come fine

supremo l’instaurazione delle condizioni sociali necessarie, opportune

e convenienti a che i fedeli, ed in genere gli uomini, raggiungano la

salus animarum”3.

Questi due fini della norma canonica non sono tuttavia, a nostro

parere, divisibili, giacchè, non si può pensare alla società ecclesiale

come ad un ente che pone norme e le divide in due insiemi a seconda

della loro finalità, dal momento che pure le norme che si pongono

come fine primario quello che Hervada definisce immediato, non sono

tuttavia esenti dal conseguimento ultimo del fine mediato. Come dice

con estrema chiarezza sempre il già citato Capograssi: “La legge di Dio

(lo ius ontologico che sta alla base dell’ordinamento canonico n.d.a.) –

che fissa la vita etica dell’uomo nelle sue profonde esigenze, la

struttura stessa razionale e morale della vita sociale, il destino

soprannaturale dell’uomo e dell’umanità, - entra a far parte

dell’ordinamento. La legge naturale e la legge soprannaturale entrano

nel sistema delle determinazioni della norma fondamentale, le quali

l’autorità va elaborando e dichiarando, entrano con vari nomi, e sono

continuamente presenti come norme positive ed attuali di tutta la vita

dell’ordinamento”4. Il fine immediato dell’ordinamento canonico e

delle sue norme (delle sue leggi-norma), pure se volto in qualche 3 Ibidem, pp. 59-60. 4 CAPOGRASSI G., La certezza del diritto nell’ordinamento canonico, cit., pp. 17-18.

87

modo alla caratterizzazione di un ordine sociale quale è quello della

società ecclesiale, non potrà totalmente distinguersi dal fine mediato

della norma, che è quello della salvezza per il fedele e per l’uomo;

“Perciò carattere di questa società è proprio che impegna l’uomo con

tutta la sua personalità. Socialità e personalità qui coincidono, perché

la partecipazione a questa società è l’adempimento pieno della legge

stessa etica e l’avviamento alla vocazione soprannaturale della

persona. L’uomo vi è impegnato con tutto se stesso. Non vi è qui luogo

a minimo etico! […] Per ogni rapporto che inerisce alla formazione

della società cristiana fedelmente l’ordinamento decide con questo

principio della integrale partecipazione di tutto l’uomo. Questo

principio domina la storia di alcune delle più singolari intuizioni di

questo diritto; […] I negozi e i rapporti, che negli ordinamenti civili

sono disciplinati col criterio della pace sociale e di una combinazione

di interessi tale da assicurare la convivenza, qui sono si può dire

trasvalutati, perché considerati e valutati secondo la legge di verità e

di giustizia dell’azione, sotto l’imperativo della norma suprema, la

quale ha per oggetto la società cristiana che è di unione e di pace, non

come pace esteriore e cessazione delle liti, ma come rinunzia

all’ingiustizia, al disconoscimento dell’altro e del diritto dell’altro,

come ritorno alla verità”5.

Che il fine che si pone il diritto canonico sia anche ciò che rende

tale ordinamento assolutamente singolare ed unico rispetto a

qualunque altro è un dato di fatto assolutamente indubitabile, non

potendosi tale diritto esaurire solamente in necessità contingenti

proprie della comunità ecclesiale o dell’uomo individuo pensato in

maniera del tutto autonoma dalla divina volontà agente su di esso6.

5 Ibidem., pp. 18-19. 6 “Per il canonista non può consistere il corpus normativo del diritto naturale in tutto ciò che è suggerito dalle necessità della convivenza; e neppure in tutto ciò che può essere genericamente espresso dalla razionalità, sia essa individuale, sociale ed anche metastorica, dell’uomo, perché tale corpus è stato pensato e voluto, con provvidenzialità eterna, dalla Divinità per le proprie creature prima che queste

88

Nel suo Discorso sull’ordinamento canonico Pio Fedele scriveva:

“Il fine dell’ordinamento canonico non è, come negli altri ordinamenti,

circoscritto negli angusti limiti della vita umana e della realizzazione

dei beni temporali necessari alla medesima. Il diritto della Chiesa,

come ha le sue profonde radici in un ordinamento supremo che non

conosce limiti di spazio e di tempo…così ha il suo fine supremo in un

bene oltramondano che non ha l’eguale, assoluto, immutabile,

insostituibile: la salvezza eterna delle anime”7. Il Fedele riprende e

specifica tale tema rifacendosi ad alcuni fra i più illustri canonisti del

passato8, i quali avevano tutti, in diverse maniere, sottolineato come la

salus animarum fosse il fine ultimo dell’ordinamento giuridico della

Chiesa.

Richiederebbe un ulteriore lavoro, l’approfondimento del

dibattito canonistico sviluppatosi attorno a tale concezione del diritto

canonico proposta dal Fedele9.

A noi preme qui sottolineare l’importanza che riveste la salus

animarum, caratteristica del tutto peculiare dell’ordinamento canonico,

pensassero e volessero: proprio perché in sintonia con esso pensassero e volessero nel perseguire la loro destinazione immortale” GHERRO S., L’interpretazione canonica del diritto naturale e la cultura del contemporaneo, in TEDESCHI M. (a cura di), Il problema del diritto naturale nell’esperienza giuridica della Chiesa, Soveria Mannelli 1993, p. 101. 7 FEDELE P., Discorso generale sull’ordinamento canonico, Padova 1941, p. 30. Le medesime tematiche affrontate in questo celebre volume verranno riprese ed approfondite dallo stesso A. nel successivo Lo spirito del diritto canonico, Padova 1961. 8 Ivo di Chartres, Raimondo di Peñafort, Suárez, sono gli autori esplicitamente citati dal Fedele. 9 Vedi a tal proposito: GIACCHI O., Diritto canonico e dogmatica giuridica moderna, in Annali della R. Università di Macerata 1939, ripubblicato in Chiesa e Stato nella esperienza giuridica (1933-1980). La Chiesa e il suo diritto, religione e società, vol. I, Milano 1981, pp. 69 ss.; CIPROTTI P., Considerazioni sul «Discorso generale sull’ordinamento canonico» di Pio Fedele, Firenze 1941; GRAZIANI E., Postilla al «Discorso generale sull’ordinamento canonico» di Pio Fedele, in Il diritto ecclesiastico 52 (1941), pp. 146 ss.; DELLA ROCCA F., Discorso generale sull’ordinamento canonico, in Rivista di diritto pubblico 1941, pp. 444 ss.; ROBLEDA O., Fin del Derecho de la Iglesia, in Revista española de derecho canónico 3 (1947), pp. 283 ss.; BELLINI P., Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento canónico, in Il diritto ecclesiastico 67 (1957), pp. 121 ss.; BIDAGOR R., El espiritu del Derecho canónico, in Revista española de derecho canónico 14 (1958), pp. 5 ss.; USEROS CARRETERO M., Tematica relevante en los estudios actuales sobre la naturalezza peculiar del ordenamiento canónico, in Revista española de derecho canónico 15 (1959), pp. 90 ss.; HERVADA J., El ordenamiento canónico, cit., pp. 159 ss.

89

per individuare i rapporti che tale fine assume in ordine allo ius

ontologico che sta alla base, come visto, dell’ordinamento canonico.

È, infatti, senz’altro corretto affermare che la salvezza si ottiene in

una dimensione che non è quella terrena, e dunque nella quale non

opererà più il diritto della Chiesa così come lo stiamo qui analizzando,

tuttavia, non rimarrà totalmente estraneo a tale dimensione ciò che su

questa terra si è fatto, ed in questo senso è fondamentale

l’ordinamento giuridico canonico per l’ottenimento della salvezza.

Certamente non saranno fondamentali a tale scopo le leggi-norma,

necessarie per aspetti eminentemente contingenti per la società Chiesa,

ma sarà invece fondamentale tutto quanto riguarda lo ius ontologico,

cui le norme canoniche devono ispirarsi in via necessaria; le leggi-

norma quindi saranno utili al fine della salvezza in tanto in quanto si

conformino allo ius che di queste è il presupposto.

Se così non fosse, se cioè le leggi-norma, formulate dal legislatore

in maniera del tutto autonoma dai principi dello ius, non dovessero

anch’esse essere necessarie, pur in maniera limitata al conseguimento

del fine ultimo della slavezza, allora l’intero ordinamento canonico

verrebbe meno a quella che invece appare essere la sua finalità

assolutamente necessaria.

Non sarebbe infatti sufficiente che le norme canoniche

garantissero solamente la Chiesa ordinamento, indipendentemente da

ciò che succede ai membri di tale ordinamento (i fedeli), e forse, alle

persone in generale (pure quelle che di tale societas non fanno parte).

Indipendentemente dunque dal ruolo che si vuole assegnare alla salus

animarum, non verrà meno l’esigenza per le leggi-norma canoniche, di

rispettare lo ius ontologico che sta alla loro base, e ciò dovrà esser fatto

in vista delle finalità che l’ordinamento canonico si prefigge.

Se si dovesse, ad esempio, seguire l’orientamento che fu di

Corecco, il quale sosteneva la insufficienza della salus animarum per

qualificare il fine dell’ordinamento canonico, poichè: “incapace di

90

esprimere, per la sua connotazione individualistica ed estrinsecistica, il

fine ultimo storico e ad un tempo escatologico, verso il quale converge

il diritto canonico e dal quale riceve la sua impronta fenomenologico-

giuridica”10 e si volesse sostituire la salvezza con il concetto di

communio, la quale: “è la modalità specifica con la quale, all’interno

della comunità ecclesiale, diventano giuridicamente vincolanti sia i

rapporti intersoggettivi, sia quelli esistenti ad un livello più strutturale

tra le chiese particolari e la chiesa universale. La realtà della

“communio” ha perciò una forza vincolante che supera i limiti

tendenzialmente solo mistici della “sobornost” orientale. Ne consegue

che il principio della “communio” deve essere considerato come il

principio formale del Diritto canonico, cioè della “nova lex evangelii”, a

partire dalla quale deve essere declinata sia a livello formale che

materiale la struttura giuridica degli istituti canonici”11. Dicevamo, a

voler considerare quale fine ultimo dell’ordinamento canonico la

salvezza dell’anima o la communio, così come proposta dal Corecco,

rimane in ogni caso fermo il rapporto che deve legare la norma

canonica intesa come legge-norma, a quello ius, che noi abbiamo

denominato ontologico, che rimane il principio fondamentale, la

“norma suprema” per dirla secondo il Capograssi, che deve regolare

ogni aspetto del diritto della Chiesa. Questo ius non se lo dà la Chiesa

in maniera autonoma, esso proviene direttamente da Dio, e l’uomo lo

percepisce come un qualcosa da fare, da attuare, da mettere in pratica,

in una dimensione che sta in qualche modo a priori, rispetto a quello

che è l’ordine giuridico costituito per la Chiesa società.

Non si fraintenda il nostro discorso, non intendiamo negare il

significato della salus animarum, quale fine dell’ordinamento canonico,

e neppure sminuire le considerazioni sulla communio. Entrambe le

posizioni ci parlano di un fine che può essere applicato alla norma

10 CORECCO E., Ius et communio. Scritti di diritto canonico, BORGONOVO G. – CATTANEO A. (a cura di), Casale Monferrato 1997, p. 232. 11 CORECCO E., Op. cit., p. 213.

91

canonica, ma tale fine non può porsi come al di sopra del ius, che

promana direttamente da Dio sotto forma di diritto divino positivo o

in forma di diritto divino naturale, il quale deve essere il primo punto

di riferimento per la Chiesa nel momento in cui svolge il delicato

compito di legislatore.

Il fine che la Chiesa si pone, attraverso la sua legislazione, deve

essere necessariamente corrispondente al diritto (lo ius) che Dio ha

stabilito, le norme, anche quelle positivizzate, devono tenerne conto,

indipendentemente dal fatto che, attraverso di esse si voglia attribuire

una rilevanza giuridica al fine della salvezza o ad altre finalità proprie

della Chiesa: tutte queste finalità sono infatti determinate dal diritto

divino nelle sue due specie12, ed è quindi tale diritto che rappresenta il

contenuto delle norme canoniche e ne indica il fine mediato.

Dunque la salus animarum rappresenta certamente il fine ultimo

dell’ordinamento canonico, ma in quanto tale fine è contenuto nello ius

ontologico che sta alla base delle norme dell’ordinamento canonico;

così pure non si può negare che vi siano altre finalità dettate dal diritto

divino, che si pongono come finalità proprie dell’ordinamento

canonico.

Ciò che appare senza dubbio errato è pensare che il fine, o i fini,

ultimi delle norme canoniche siano dettati dalle leggi-norma, essendo

queste, per loro stessa natura inadatte a tale compito, solamente lo ius

ontologico, così come da noi delineato, può svolgere tale compito.

Quello che sicuramente si può dire è che le leggi-norma, in quanto si

conformano ai dettami del diritto divino contenuto nello ius

12 “Il diritto divino, a sua volta, per quanto riguarda l’ordine giuridico della Chiesa, viene ulteriormente diviso in due specie. Da un lato vi è il diritto divino positivo, quello cioè che si fonda sull’ordine soprannaturale della salvezza, e che perciò è conosciuto mediante la parola di Dio contenuta nella Rivelazione divina. […] Dall’altro lato, esiste il diritto divino naturale, quello che si basa sull’ordine naturale della creazione, ossia anzitutto sulla natura umana, ma anche sulla natura delle altre creature con cui l’uomo è in rapporto. Questo diritto è conoscibile dalla ragione umana con le sue forze naturali, ma, tenuto conto delle conseguenze del peccato originale, è stato anch’esso rivelato per renderlo più facilmente e sicuramente accessibile” ERRÁZURIZ C. J., Il diritto e la giustizia, cit., pp. 213-214.

92

ontologico, possono svolgere anche la funzione di rappresentare ai

fedeli il fine ultimo del diritto della Chiesa, o i fini ultimi, volendo

seguire l’orientamento di chi ritiene insufficiente la salus animarum per

definire pienamente lo scopo ultimo del diritto canonico.

Differentemente, si penserebbe il diritto della Chiesa,

esclusivamente come una branca della teologia, ovvero, lo si

concepirebbe solamente come teologia del diritto. Tale impostazione13,

era probabilmente sorta anche grazie ad un esplicito riferimento

contenuto nel Decreto conciliare Optatam totius, il quale così recitava:

“nella esposizione del diritto canonico e nell'insegnamento della storia

ecclesiastica si tenga presente il mistero della Chiesa, secondo la

costituzione dogmatica «De Ecclesia»14 promulgata da questo

Concilio”15. Una visione eccessivamente teologica del diritto della

Chiesa, non è tuttavia accettabile, nemmeno partendo da tale

affermazione conciliare. Il Decreto, infatti, non intende affermare che si

debba privilegiare il fine teologico, nell’analisi canonistica, ci pare

piuttosto che esso intenda sottolineare l’importanza che il diritto

canonico non si discosti totalmente dal dato ecclesiologico,

preoccupazione senza dubbio fondata dal momento che le spinte

giuridiche positiviste, sono sempre in agguato, oggi come allora.

Determinate affermazioni del nuovo CIC, d’altra parte, hanno

senza dubbio recepito in modo corretto tale indicazione, pensiamo

solamente al Libro II del nuovo Codice, quasi interamente derivato

dagli insegnamenti della Lumen gentium sul popolo di Dio; non si può

certo affermare che tali norme siano esclusivamente teologiche. È

piuttosto vero che le leggi-norma non possono essere scollegate da

principi giuridici più profondi e non legati a norme di tipo

13 Si veda: DE LA HERA A., A la recherche d’un fondement theologique du droit canonique, in L’anée canonique 12 (1968), pp. 49-58. 14 Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, 21.XI.1964, in AAS 57 (1965), pp. 5-71. 15 Decreto conciliare sulla formazione sacerdotale Optatam totius, n. 16, del 28.X.1965, in AAS 58 (1966), pp. 713-727

93

esclusivamente umano, per cui i fini perseguiti dalle leggi umane nella

Chiesa, non essendo esclusivamente terreni, come quelli di altri

ordinamenti giuridici, necessitano di un’analisi senza dubbio

giuridica, ma con tutte le peculiarità di cui un ordinamento, quale è

quello canonico, necessita.

Le teorie che analizzavano il diritto della Chiesa, come una

scienza esclusivamente teologica, presentano alcuni fondamentali

errori di fondo: “sostenere assiomaticamente che tutta la elaborazione

della realtà giuridica della Chiesa realizzata sub specie fidei è

teologia…equiparare assiomaticamente l’ambito del giuridico alla

normatività positiva. Il primo (errore n.d.r.) significa disconoscere o

negare la integrità gnoseologica della conoscenza giuridica, riducendo

le sue possibilità interrogative alle cause prossime, fenomeniche e

empiricamente dimostrabili della realtà giuridica ecclesiale; significa,

in altre parole, ignorare non solo la valida esistenza, ma anche la

competenza propria che il canonista possiede rispetto all’indagine

riguardo il quid ius, limitando in modo eteronomo il metodo giuridico

alla esegesi del quid iuris. Il secondo (errore n.d.r.) rende manifesto che

il positivismo giuridico ha attecchito in molti settori della dottrina

teologica e canonica”16. Nel ricordare non solamente la importanza del

diritto canonico per la Chiesa, ma anche la sua peculiarità rispetto alla

scienza teologica, sempre il medesimo Autore ricordava che: “né si

può accettare senza dubbio che tutta la riflessione sulla realtà giuridica

della Chiesa realizzata sub specie fidei debba essere di competenza

esclusiva del teologo; né che il giuridico, come specifica intelligibilità

della realtà ecclesiale, si riduca all’ambito strettamente positivistico,

convertendo il sapere del canonista in una scienza della positivazione

metodologicamente incapace di tutta la riflessione giuridica sub specie

fidei; né, per finire, che l’assunto di vincolare il diritto canonico e la

teologia sia stata raccomandata dal Concilio esclusivamente al teologo.

16 VILADRICH P. J., Hacia una teoria fundamental del derecho canónico, in Ius canonicum 10 (1970), p. 13. La traduzione italiana è nostra n.d.r.

94

[…] Solo il canonista, come giurista della Chiesa, ha le competenze in

conseguenza della tipicità della sua costruzione mentale per captare

intellettualmente e realizzare praticamente la dimensione di giustizia

inerente al mistero della Chiesa, convertendo in questo modo il diritto

canonico in un autentico sistema espressivo della giustizia di Cristo”17.

La norma canonica ha un fine suo peculiare, che però viene colto e

correttamente perseguito se tale norma viene inserita in un sistema

giuridico che preveda la esistenza di un diritto superiore alle

disposizioni date dal legislatore umano. È impossibile cogliere il vero

significato di tale fine se si vuole analizzare la norma canonica

esclusivamente con gli strumenti propri di un qualsiasi giurista (specie

se legato a concezioni di tipo positivistico), e d’altronde non è possibile

ridurre l’analisi canonistica al semplice dato teologico o filosofico. È

senza dubbio corretto affermare, in linea con quanto previsto dal can.

1752 CIC che la salus animarum “suprema semper lex esse debet”, ma non

si deve parimenti dimenticare che determinate norme canoniche sono

volte a fini assai più pratici e meno trascendentali, ma non per questo

non possono inserirsi a pieno titolo in un ordinamento così particolare

quale è quello canonico.

17 VILADRICH P. J., Op. ult. cit., p. 14.

95

3.5. Efficacia della norma canonica in rapporto allo ius ontologico.

Dopo aver analizzato, nei paragrafi precedenti, gli elementi della

norma canonica, distinguendo lo ius ontologico che ne costituisce il

fondamento ed il presupposto necessario, dalla legge-norma, che è

invece applicazione pratica e positiva dello ius, passiamo ora, a

conclusione della nostra analisi ad individuare brevemente qual’è

l’efficacia che detta norma svolge in rapporto allo ius.

Quando parliamo di efficacia della norma, intendiamo riferirci

alla legge-norma, è questa una precisazione non banale, dal momento

che, le leggi-norma, a differenza dello ius ontologico, possono anche

essere inefficaci, mentre lo ius in quanto tale non può mai essere

considerato inefficace. La inefficacia delle leggi-norma può essere

riferibile solamente alla singola legge-norma (in quanto tale), dal

momento che questa potrebbe essere inutile, o superata da altre norme

in concorrenza con essa (questa seconda ipotesi, nell’ordinamento

canonico, non riguarda evidentemente norme presenti nel Codex),

quindi non esplicherebbe la sua efficacia in relazione al contenuto

proprio di essa o in relazione con altra o altre norme dell’ordinamento.

Ma la legge-norma può essere inefficacie anche se rapportata allo ius

ontologico sul quale tale norma si fonda; è questa inefficacia la più

grave, dal momento che, disattendendo principi sanciti dallo ius

ontologico, la norma si porrebbe in contrasto con i principi e con lo

spirito dello stesso ordinamento canonico, così come pensato dal suo

divino legislatore.

Il legislatore ecclesiastico, quello umano, nel redigere una legge-

norma, affinché sia efficace, non può disattendere i principi che

devono porsi alla base di essa.

Il problema è assai delicato, dal momento che non è nemmeno

detto che la legge-norma, contraria o in contrasto anche parziale con i

principi dettati dallo ius ontologico, sia per ciò stesso inefficace, dal

momento che una volta positivizzata (o canonizzata) una norma, si

96

può essere portati a pensare che essa sia per ciò stesso valida ed

efficace, ovvero svolga la funzione per la quale il legislatore ha voluto

inserirla nell’ordinamento.

Così è per le norme di un qualsiasi ordinamento positivo,

allorquando la norma non si ponga in contrasto con principi di tipo

costituzionale o comunque dettati da norme di rango superiore.

Sostenere la necessità della canonizzazione del diritto divino, nel

tentativo di assimilare in tutto e per tutto l’ordinamento giuridico

canonico a qualsiasi altro ordinamento giuridico positivo, porterebbe

ad attribuire efficacia ad ogni norma compresa nell’ordinamento e

formulata secondo i criteri stabiliti per la sua normativizzazione dal

legislatore.

Sottomettere la validità del diritto divino alla sua canonizzazione,

significherebbe privare il diritto del suo valore intrinseco ed attribuire

un valore alla attività del legislatore canonico, di molto superiore a

quello reale. Si strutturerebbe in questo modo l’ordinamento della

Chiesa, quasi fosse un qualsiasi ordinamento con alla base una

costituzione da cui dovrebbero derivare tutte le norme contenute poi

nel sistema di diritto ispirantesi a tale costituzione.

Nell’attuale Codice di Diritto Canonico, le leggi-norma sono

disciplinate, quanto alla loro formulazione ed efficacia, nel Libro I,

donde si può ricavare, un’agile definizione della legge-norma come:

“un atto della potestà legislativa della Chiesa, che presenta il carattere della

generalità, il cui tenore è espresso in una formula, fissata mediante la

promulgazione”1.

Tale definizione non ci dice però della efficacia di tali leggi-

norma, pur se un data legge seguisse infatti il corretto processo

legislativo, ma si dimostrasse poi in contrasto con i principi superiori

dello ius, tale norma dovrebbe senza dubbio essere disattesa, non

1 LOMBARDIA P., Lezioni di diritto canonico, cit., pp. 202-203; il corsivo è nell’originale.

97

potendosi nemmeno qualificare come norma e certamente non

potendo esplicare i suoi effetti2. Il diritto canonico prevede quindi una

serie di istituti volti a limitare, in determinate condizioni, l’efficacia

delle norme anche se positivizzate nel codice, in vista del

mantenimento dei principi che di tali norme avrebbero dovuto essere

ispiratori, o che comunque lo diventano nel caso specifico o in corso di

applicazione.

Vi possono essere infatti leggi-norma, pure valide in astratto,

perché sorte nel rispetto di quei principi generali già più volte

ricordati, ma che in determinati casi concreti, possono divenire

addirittura contrarie a tali principi; in un normale ordinamento

giuridico, ad esempio in quello italiano, sorgerebbe il problema della

costituzionalità della norma di specie, mentre nel diritto canonico tale

norma viene disapplicata nel caso concreto. Tuttavia ancora una volta,

non possiamo dire che tale disapplicazione sia equiparabile al

meccanismo di conformità costituzionale che si può applicare nei

diritti secolari, dal momento che, nell’esempio di cui sopra, può senza

dubbio darsi che la costituzione non contenga regole giuste, e quindi,

adattare le norme a quei principi risulta ugualmente contrario a

principi di giustizia superiori. Nel diritto canonico, tale contraddizione

sarebbe ancor più grave, ponendosi la legge-norma in contrasto con

principi non dettati da un legislatore umano, e quindi contenenti più

alte determinazioni.

S. Tommaso non aveva dubbi in proposito, allorquando

affermava che: “La legge scritta, come non dà il suo vigore al diritto

naturale, così non può sminuirlo o eliminarlo: poiché la volontà

dell’uomo non può mutare la natura. Se quindi la legge scritta

contenesse qualche cosa di contrario al diritto naturale, sarebbe

2 Significativa in tal senso appare la disposizione di cui al can. 24 § 1, riguardante i limiti della consuetudine: “Nessuna consuetudine, che sia contraria al diritto divino, può ottenere forza di legge”; appare dunque imprescindibile il rispetto del ius divinum anche in quelle norme che vengano rispettate da tutti indipendentemente da una loro canonizzazione. Vedi in proposito: LOMBARDÍA P., Op. cit., p. 210.

98

ingiusta e non avrebbe la forza di obbligare: infatti il diritto positivo,

come sopra abbiamo detto, interviene solo dove per il diritto naturale

«è indifferente che una cosa sia in una maniera o in un’altra». Quindi

codeste norme scritte non sono neppure da chiamarsi leggi, ma

piuttosto corruzioni della legge, come sopra abbiamo notato. Ecco

perché non si deve giudicare in base ad esse”3.

L’efficacia della norma canonica, va quindi strettamente collegata

con il fine che questa norma intende perseguire, se il fine della norma

sarà in contrasto con i principi di diritto divino, positivo e naturale,

che stanno alla base dell’ordinamento, nemmeno tale norma sarà

efficace, dovendosi applicare quei meccanismi di disapplicazione della

medesima, tipici dell’ordinamento canonico.

Ancora, ed ulteriormente, si dovranno tener presenti i fini della

norma che, come abbiamo visto, possono individuarsi, nella salus

animarum e nella creazione di un ordine di giustizia. La norma

canonica sarà efficace solamente nel momento in cui persegue queste

finalità, ovvero, in rapporto ad esse risulta svolgere una qualche

utilità.

A nostro parere non si debbono confondere le finalità della

norma canonica, con l’efficacia di dette norme; un conto è predisporre

una norma, tenendo presente il fine cui quella norma sarà destinata

nell’ambito di un dato ordinamento, un’altra questione è l’effettivo

raggiungimento pratico di tale fine, per cui si parla di efficacia della

norma.

In relazione alla salus animarum appare difficile stabilire se una

data norma sia o meno efficace, visto che il giudizio finale non è di

questo mondo4; ecco allora che diviene indispensabile la relazione con

3 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II-II, q. 60, a.5, ad 1. 4 A tal proposito nota Moneta: “Trattandosi di una comunità religiosa, che persegue finalità ultraterrene, tali interessi [quelli propri della Chiesa n.d.r.] non possoo che essere d’ordine spirituale, riguardare almeno in forma indiretta o mediata, valori od esigenze relativi alla vita spirituale di coloro che ad essa appartengono. Data la

99

il ius ontologico, il quale solo, potrà indicare al legislatore, se la norma

svolge realmente la sua efficacia in relazione ai fini. Analogo discorso

si può fare per la seconda finalità della norma che abbiamo indicato, in

quanto si potrà valutare la conformità alla giustizia in base allo ius che

tale norma presuppone e non solo con riferimento a criteri umani e

meramente terreni5.

In caso di dubbio sulla validità della norma - dubbio che sorgerà

nel momento in cui si va ad operare una sorta di giudizio sulla legge-

norma in rapporto allo ius ontologico e che sulla base di tale raffronto

andrà risolto - nel caso di dubbio, dicevamo, si dovrà piuttosto

disattendere il dettato normativo umano (quello della legge norma) in

favore della applicazione dei principi superiori dell’ordinamento

canonico.

La efficacia della norma può non essere assoluta, non è detto che

una norma, disapplicata in un caso specifico, perché contraria allo ius,

non possa poi, in un altro caso essere invece perfettamente efficace e

valida. Non si tratta insomma di un sindacato di costituzionalità della

norma canonica, quanto piuttosto di una interpretazione di giustizia

della medesima. In questa apparente incertezza della norma canonica,

fondamentale unitarietà della persona e della vita umana, non è però possibile tracciare una netta linea di demarcazione tra ciò che attiene agli interessi spirituali e ciò che riguarda gli interessi materiali (o, come si dice, temporali): non solo vi è tutta una serie di interferenze e connessioni tra le due categorie di interessi, ma l’appartenenza all’una o all’altra viene essenzialmente a dipendere dal modo in cui sono valutate le singole materie, dal rilievo che è attribuito a certi aspetti che esse presentano”, MONETA P., La giustizia nella Chiesa, Bologna 2002, p. 23. 5 Tali ultime proposizioni, hanno innegabili riflessi sul piano antropologico, specie in relazione al concetto di colpa, che l’uomo percepisce allorquando il suo comportamento lo porta a provare un senso di disappunto rispetto agli atti da lui commessi in difformità di un ordine etico di riferimento; è stato scritto in proposito: “Sembra che non ci sia un’altra strada che riferire la presenza della colpa al concetto correlativo di pena: se l’uomo si sente in colpa è perché veramente si trova in stato di reato. Ma lo stato di reato richiede il riconoscimento di un ordine etico di riferimento. L’autodeterminarsi dell’uomo dipende sempre da un sistema di valori, in riferimento al quale la libertà attualizza e giudica il progetto vitale. In base a ciò, l’onnipresenza del senso di colpa indica che il rifiuto volontario dell’ordine etico di riferimento comporta una contraddizione nel profondo dell’essere dell’uomo. Lui rimane libero di orientarsi diversamente, ma è sempre legato a quell’ordine da una sorta di nostalgia ontologica che, nel suo rifiuto cosciente, si manifesta appunto come angoscia”, GALVÁN J. M., Elementi di antropologia teologica, Roma 2006, p. 241.

100

si sostanzia invece la particolare sensibilità alla giustizia dell’ordine

giuridico canonico, la sua attenzione alla persona, al fedele,

assolutamente peculiare di tale ordinamento, il quale si occupa

piuttosto del bene e della giustizia, che della autoconservazione

dell’ordine stesso o di una istituzione umana (qual è lo Stato, nella

stragrande maggioranza degli ordinamenti giuridici)6.

Altro problema fondamentale, relativo alla efficacia della norma

canonica, riguarda il foro in cui la norma deve svolgere la sua efficacia.

È noto che il nuovo Codex, al canone 130, stabilisce che ordinariamente

la Chiesa eserciti la sua potestà nel foro esterno, limitando invece la

potestà sul foro interno a casi determinati, risolvendo in tal modo il

dibattito creatosi fra i canonisti in vigenza del precedente Codice

canonico (can. 196 del CIC17). Tale dibattito aveva portato l’Assemblea

del Sinodo dei Vescovi del 1967, allorquando si avevano a formulare i

criteri che dovevano guidare la revisione del Codice di Diritto

Canonico, a formulare al punto dieci, un criterio di coordinazione tra i

due fori: “fori externi et interni optima coordinatio in Codice Iuris Canonici

existat oportet, ut quilibet conflictus inter utrumque vel dispareat vel ad

6 Tali ultime considerazioni, acquiiscono una valenza particolare con riferimento all’ambito processuale canonico. La Istruzione Dignitas connubii, promulgata nel 2005, nel preambolo, con riferimento alle cause matrimoniali, evidenzia due criteri che ci sembrano basilari per tutti i procedimenti canonici: “In considerazione peraltro della natura specifica di questo processo, deve essere evitato con particolare cura, da un lato il formalismo giuridico, come del tutto estraneo allo spirito delle leggi della Chiesa, dall’altro lato quel modo di agire che indulge a un eccessivo soggettivismo nell’interpretazione e nell’applicazione tanto delle norme di diritto sostantivo che di quelle processuali”, PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLETIVI, Istruzione Dignitas connubii, 25.I.2005, in Dignitas connubii (testo ufficiale), Città del Vaticano 2005, p. 17. Un efficace commento sulla natura del processo canonico si trova in Arroba Conde, il quale, nel descrivere il processo canonico afferma: “Il processo è uno strumento di accertamento e di verifica che viene incontro alle situazioni di conflitto o incertezza, specialmente quando i fedeli richiedono il riconoscimento nel foro esterno dei diritti di cui si ritengono già titolari nel foro interno. L’istituzione processuale dimostra che il modo più idoneo di ottenere la «giustizia e la verità» è la progressiva…discussione…tra gli interessati…, in posizione di uguaglianza…, in modo da giungere ad una decisione…pronunciata da una figura imparziale…, in base agli argomenti… Solo le decisioni frutto di simile processo possono risultare convincenti «in coscienza» per tutti e saranno investite di autorità morale, oltre chè giuridica”, ARROBA CONDE M. J., Diritto processuale canonico, V ed., Roma 2006, pp. 5-6.

101

minimum reducatur. Quod in iure sacramentali et in iure poenali peculiariter

curandum est”7.

Già nella vigenza del precedente Codice, in merito ai rapporti che

avrebbero dovuto collegare i due fori, ed all’efficacia della legge

positiva nel foro interno, il Saraceni aveva ad affermare: “si può dare,

intanto, per certo che la legge umana positiva, indicatrice, per

intervento di autorità, del vero bene oggettivo dei soggetti e, perciò,

espressiva di un valore morale, crea una situazione di foro interno, per

la quale le coscienze sono necessariamente obbligate, più o meno «sub

gravi», a obbedire, ossia, volendo esprimere tale obbligo, in termini che

si addicano a un’analisi dell’interiorità spirituale, a determinarsi per il

possesso del bene conosciuto attraverso la disposizione oggettiva, nel

senso della «necessitas ontica conscia»8”9.

In questo l’Autore si rifaceva al pensiero di S. Tommaso

d’Aquino, il quale, proprio riguardo la possibilità che la legge umana

obbligasse in coscienza, rispondeva: “Le leggi umane positive, o sono

giuste, o sono ingiuste. Se son giuste ricevono la forza di obbligare in

coscienza dalla legge eterna da cui derivano, secondo il detto dei

Proverbi: «Per me regnano i re e i legislatori decretano il giusto». Ora,

le leggi devono esser giuste, sia in rapporto al fine (ex fine), essendo

ordinate al bene comune; sia in rapporto all'autore (ex auctore), non

eccedendo il potere di chi le emana; sia in rapporto al loro tenore (ex

forma), imponendo ai sudditi dei pesi in ordine al bene comune

secondo una proporzione di uguaglianza. Infatti essendo l'uomo parte

della società, tutto ciò che ciascuno possiede appartiene alla società:

così come una parte in quanto tale appartiene al tutto. Infatti anche la 7 Communicationes 1 (1969), p.79. Per un commento sul secondo principio per la revisione del CIC, si veda, fra gli altri: POMMARÈS J. M., Le deuxième principe pour la riforme du droit canonique du Synode des Évêques de 1967, la coordination des fors dans le droit canonique revisité trente ans aprèsê, in CANOSA J., I principi per la revisione del Codice di Diritto Canonico, cit., pp.103-126. 8 Espressione questa che il Saraceni ricavava da PACE A., Le leggi mere penali, in Salesianum 11 (1948), p. 171. 9 SARACENI G., Riflessioni sul foro interno. Nel quadro generale della giurisdizione della Chiesa, Padova 1961, ristampa anastatica 2002, p. 123.

102

natura sacrifica la parte per salvare il tutto. Ecco perché le leggi che

ripartiscono gli oneri proporzionalmente sono giuste, obbligano in

coscienza, e son leggi legittime. Invece le leggi possono essere ingiuste

in due maniere. Primo, perché in contrasto col bene umano precisato

nei tre elementi sopra indicati: sia per il fine, come quando chi

comanda impone ai sudditi delle leggi onerose, non per il bene

comune, ma piuttosto per la sua cupidigia e per il suo prestigio

personale; sia per l’autorità, come quando uno emana una legge

superiore ai propri poteri; sia per il tenore di essa, come quando si

spartiscono gli oneri in maniera disuguale, anche se vengono ordinati

al bene comune. E codeste norme sono piuttosto violenze che leggi:

poiché, come si esprime S. Agostino, «non sembra possa esser legge

quella che non è giusta». Perciò codeste leggi non obbligano in

coscienza: a meno che non si tratti di evitare scandali o turbamenti; nel

qual caso l’uomo è tenuto a cedere il proprio diritto, secondo

l’ammonimento evangelico: «Con chi ti vuol obbligare a fare un miglio

con lui, fanne due; e a chi vuol toglierti la tunica, cedigli anche il

mantello». Secondo, le leggi possono essere ingiuste, perché contrarie

al bene divino: come le leggi dei tiranni che portano all'idolatria, o a

qualsiasi altra cosa contraria alla legge divina. E tali leggi in nessun

modo si possono osservare; poiché sta scritto: «Bisogna obbedire a Dio

piuttosto che agli uomini»”10.

Abbiamo riportato per intero il passo dell’Angelico Dottore, non

solamente per la chiarezza con cui è espresso il concetto, ma anche

perché possiamo così capire meglio cosa intendeva il Saraceni,

allorquando sosteneva: “ci sembra possa, per ora, formularsi…il

principio che noi chiameremo della normale inscindibilità dei due fori,

quale necessaria situazione di coincidenza dei due doveri, il morale e il

10 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 96, a. 4.

103

giuridico, nell’obbligatoria osservanza delle leggi che non siano

discordi dall’ordine etico11”12.

Tutto questo per dire che le leggi-norma, in quanto ad efficacia,

dovranno tener presenti le determinazioni dello ius, affinché possano

essere effettivamente efficaci per il fedele e per l’uomo, e possano

divenire realmente uno strumento per il conseguimento della salvezza

delle anime e per la creazione di un ordine di giustizia. È evidente

infatti, che il fedele, ma anche l’uomo, opera anzitutto nel proprio foro

interno le scelte giuridiche primarie, seguendo ciò che la sua coscienza,

attraverso un retto uso della ragione, lo porta a fare; supponendo che il

retto utilizzo della ragione, porti ad un rispetto innato per lo ius,

inscritto nell’animo umano, sarebbe totalmente inefficace la norma

canonica che si ponesse in contrasto con tale ius, o non ne rispettasse i

dettami in modo corretto, tali prescrizioni diverrebbero in tal modo le

leggi ingiuste di cui parla S. Tommaso.

Questa esigenza, fondamentale per le leggi-norma di diritto

canonico, veniva avvertita anche dal Lombardia, il quale, pur

sottolineando la distinzione esistente tra legge e morale, tuttavia non

riteneva corretta (a scapito della sua efficacia) una norma che

ignorasse totalmente gli atti interni dell’uomo: “Non c’è dubbio che, se

non si distingue tra morale e diritto, non si può fare con serietà una

scienza giuridica; ma si deve anche tenere presente che, se non si

coglie la capacità di impegnare allo stesso tempo la coscienza e la

condotta esterna quale caratteristica della norma, non è possibile

capire il nucleo stesso dell’ordinamento giuridico della Chiesa. Se

fissiamo la nostra attenzione sul complesso della ricca tradizione

dottrinale canonica circa la Lex, allo scopo di metterne in risalto

l’aspetto particolarmente significativo per il nostro proposito, non

esiterei ad indicare l’idea secondo la quale la legge vincola il suddito

11 Ma aggiungiamo noi, anche dall’ordine morale, sicuramente compreso in quello etico anche nelle intenzioni del Saraceni. 12 SARACENI G., Op. cit., p. 126.

104

che è tenuto a rispettarla. Bisogna obbedire alla norma canonica e

questo dovere di sottomissione impegna tutta la vita del cristiano, la

sua coscienza e la sua condotta esterna. In questa prospettiva, la norma

appare come un cartello che indica il cammino della salvezza e come

una misura degli atti dell’uomo, sia interni sia esterni, che anticipa in

qualche modo l’esame di cui essi saranno oggetto nel Giudizio

definitivo”13.

D’altra parte se la Chiesa, attraverso la sua legge, persegue il fine

della salvezza delle anime e per fare ciò punta a creare attraverso la

legge un ordine di giustizia, non è pensabile che le sue leggi si limitino

ad avere una efficacia puramente riferibile alla realtà esteriore e

sensibile, dovendo al contrario proiettare questa efficacia anche in

interiore homini; la rivelazione del resto ha reso manifesto tale progetto

divino sull’uomo: “la nuova legge non è soltanto insegnamento,

indicazione di quello che è giusto e di quello che è ingiusto; è, si,

insegnamento, ma anche grazia interiore che dona la forza per operare la

giustizia: «La Nuova Legge è la stessa grazia dello Spirito Santo, che è

data ai fedeli»14”15, laddove la nuova legge contiene pure quello ius che

è il diritto divino positivo, che senza dubbio deve essere rispettato

dall’uomo esternamente ed interiormente.

Ci pare di poter sostenere che l’efficacia della legge-norma

canonica, non possa essere aliena dal concetto del sensus fidei che è

proprio del Popolo di Dio16, come infatti i fedeli sono in grado di

conoscere determinate verità di fede in modo spontaneo, attraverso

quel meccanismo che S. Tommaso chiama connaturalità (“rectitudo

iudicii potest contingere dupliciter: uno modo secundum perfectum usum

rationis; alio modo propter connaturalitatem quoamdam ad ea de quibus est

13 LOMBARDÍA P., Norma y ordenamiento jurídico en el momento actual de la vida de la Iglesia , in AA. VV., La norma en el Derecho Canónico, Pamplona 1979, vol. II, p. 854. 14 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 106, a. 1. 15 OCÁRIZ F. – BLANCO A., Rivelazione, fede e credibilità, cit., p. 63. 16 Sul sensus fidei in rapporto al Popolo di Dio, si veda: SANCHO BIELSA J., Infalibilidad del Pueblo de Dios, Pamplona 1979.

105

iudicandum”17), così senza dubbio i fedeli hanno la possibilità di

comprendere in modo spontaneo ciò che è giusto e buono18, una

norma che non si conformasse a questo senso di giustizia che discende

dallo ius ontologico sarebbe, lo ripetiamo, ingiusta ed inefficace, anche

se formalizzata (o canonizzata).

D’altra parte, che vi sia un rapporto fra la comprensione del

mistero di Dio e la comprensione della legge, è pensiero riscontrabile

anche in S. Tommaso: “come i primi precetti universali della legge

naturale sono per sé noti a chi ha la ragione, e non richiedono

promulgazione alcuna; così credere in Dio è un dato primario e per sé

noto per colui che ha la fede: per dirla con l’Apostolo, «chi si avvicina

a Dio deve credere che egli esiste». Perciò non c'è bisogno di altra

promulgazione, che dell'infusione della fede”19; parafrasando

possiamo dire che i precetti dello ius, in quanto dettati da Dio ed

essendo giusti, sono senza dubbio percepibili dal fedele e dall’uomo in

quanto giusti, e pure in virtù di questo sono efficaci immediatamente.

Ancora a sostegno di tale tesi valga quanto ha scritto la Commissione

Teologica Internazionale: “la teologia dell’immago Dei stabilisce anche

un’ulteriore connessione tra antropologia e teologia morale

dimostrando come l’uomo, nel suo stesso essere, possieda una

partecipazione alla legge divina. Questa legge naturale orienta le

persone umane verso la ricerca del bene nelle loro azioni”20.

Come messo ben in evidenza da Errázuriz: “Come in qualsiasi

ambito sociale umano, la realizzazione della giustizia nella Chiesa

avviene normalmente in modo spontaneo e pacifico, senza che

nemmeno vi sia la coscienza esplicita nella persona di star

17 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II-II, q. 45, a. 3; ma cfr. anche Ibidem II-II, q. 97, a. 2 ad 2. 18 Vedi anche: LG, n. 12. 19 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 100, a. 4. 20 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Comunione e servizio. La persona umana creata a immagine di Dio, n. 24, del 23.VII.2004, in Enchiridion Vaticanum 22 (2006), pp. 1642-1725.

106

adempiendo un suo dovere giuridico”21; a tale spontanea realizzazione

dovrà pertanto collegarsi necessariamente la efficacia delle leggi-

norma, a meno di voler negare questa realtà giuridica ed umana

incontestabile.

La legge-norma, per quanto perfetta essa sia, dal punto di vista

della tecnica giuridica, non potrà però mai assurgere a metro ultimo di

valutazione delle azioni umane. Potrà svolgere tale compito solamente

se posta in relazione a valori più alti e profondi che ad essa debbono

necessariamente sottendere, a scapito, nel caso in cui così non fosse, di

una sua inefficacia sul piano della osservanza da parte dell’uomo: “la

norma, né occupa l’intero orizzonte umano, né può assumere una

posizione di prevalenza rispetto all’uomo, né può pretendere d’essere

reputata da questo come punto di riferimento etico, ultimo o esclusivo,

del proprio agire; né, alla fine, in essa si riversa, si racchiude, si svolge

e si consuma tutta quanta l’esperienza giuridica”22.

Ecco dunque, che per risalire al valore più alto della norma, sarà

necessario partire dall’uomo, uomo che è chiamato ad osservare e

rispettare, ed anzi, oseremmo quasi dire, a vivere la norma. Se non si

dovesse partire dal soggetto cui le norme sono rivolte, il rischio è

quello di cadere in assolutismi o totalitarismi, mascherati da

ordinamenti giuridici, ma che in realtà coprono solamente una

supremazia indiscriminata vuoi dell’ordinamento, vuoi del sistema

politico ispiratore di questo. Fede e ragione guidano l’uomo nel

cammino della giustizia, escludere l’uomo da una riflessione sulla

giustizia, significherebbe svuotare tale termine del suo significato più

importante, perché dove non vi sia un’alta considerazione dell’uomo e

delle sue aspirazioni e finalità ultime, non vi può essere vera giustizia.

Certamente è bene non esagerare o enfatizzare eccessivamente

l’aspetto solamente umano ovvero quello esclusivamente normativo, a

tal proposito Errazuriz ha scritto: “Tuttavia, il diritto come ciò che è 21 ERRÁZURIZ C. J., Il diritto e la giustizia, cit., pp. 223-224. 22 LO CASTRO G., L’uomo e la norma, cit., p. 161.

107

giusto è sempre qualcosa di concreto, in cui gli aspetti naturali e quelli

positivi sono inseparabili, poiché si richiedono mutuamente: non è

consono con la realtà storica dell’uomo l’ipotizzare una situazione in

cui basterebbe la natura dell’uomo e delle cose per risolvere le

questioni giuridiche; ed identificare il diritto solo con il diritto

positivo, staccandolo dal diritto naturale, come fa il positivismo

giuridico, lascia la realtà giuridica priva di qualsiasi vero fondamento

antropologico ed etico, e la trasforma in mezzo utilizzabile anche

contro i beni naturali più fondamentali della persona e della società”23.

23 ERRÁZURIZ C. J., Op. cit. , p. 99.

108

109

4. IL FEDELE

4.1. Il fedele ed il rispetto della legge-norma.

Nel momento in cui, con la riforma del Codice di Diritto

Canonico, che ha portato alla promulgazione del Codice del 1983, si è

voluto inserire un apposito libro (il secondo) dedicato al Popolo1 di

Dio, non si è solo trasposto, in ambito giuridico canonico,

l’insegnamento conciliare del Vaticano II, ma si è anche dato un rilievo

particolare al fedele come soggetto giuridico, a prescindere dal suo

status (cose che invece avveniva sotto la vigenza del CIC 1917)2.

Questo particolare riconoscimento riguardante lo statuto

giuridico del fedele, non può considerarsi privo di conseguenze con

riguardo al rapporto creatosi tra fedele-soggetto giuridico e leggi-

norme che regolano il rapporto esistente tra il fedele e la società

ecclesiale e così pure i rapporti esistenti tra i fedeli in comunione fra

loro.

Il presupposto dell’inserimento del libro II sul Popolo di Dio nel

CIC, è contenuto negli insegnamenti conciliari su questo Popolo di

Dio, contenuti principalmente nella Costituzione dogmatica Lumen

gentium3.

1 “Il termine popolo, tra l’altro, rimarca icasticamente l’origine comune, che rende tutti i cristiani membri di una stessa famiglia, e, appunto, la loro uguaglianza, per la quale hanno la stessa fede, godono della stessa libertà e dignità, collaborano dinamicamente al fine della Chiesa” BONI G., L’uguaglianza fondamentale dei fedeli nella dignità e nell’azione, in AA. VV., I diritti fondamentali del fedele. A venti anni dalla promulgazione del Codice, Città del Vaticano 2004, p. 39. In questo senso si vedano anche: FELICIANI G., Le basi del diritto canonico, Bologna 2002, p. 62; FORNÉS J., Introducción al Libro II, in MARZOA A. – MIRAS J. – RODRÍGUEZ-OCAÑA R. (a cura di), Comentario exegetico al Codigo de Derecho Canónico, vol. II/1, Pamplona 2002, p. 24. 2 Per una breve sintesi storica sulla figura del fedele nella Chiesa si veda: LONGHITANO A. – FELICIANI G. – DE PAOLIS V. – GUTIÉRREZ L. – BERLINGÒ S. – PETTINATO S., Il fedele cristiano. La condizione giuridica dei battezzati, Bologna 1989. 3 Capitolo II, nn. 9-17. Si noti come pure il luogo “fisico” che la nozione di Popolo di Dio occupa sia il medesimo nel documento conciliare e nel CIC.

110

Senza dubbio l’introduzione di tale nozione, di derivazione

biblica, rispondeva ad una esigenza necessaria per la vita della Chiesa,

e la trasposizione codicistica di tale nozione è stata una naturale

conseguenza. Tuttavia il suo inserimento ha comportato ulteriori

conseguenze: il membro del Popolo di Dio, il christifideles, è sì al centro

della vita della Chiesa, ma proprio in virtù di tale ruolo centrale, è

chiamato ad un rigoroso rispetto delle leggi che questa Chiesa si dà.

Oltre l’obbligo del rispetto di doveri, senza dubbio vi sono dei

fondamentali diritti che vengono riconosciuti a tutti coloro che fanno

parte, pur nella loro differente condizione personale, di questo

“popolo messianico”.

Tuttavia diritti e doveri, codificati nelle leggi canoniche,

richiedono il particolare impegno personale di ciascun fedele per non

rimanere vuote lettere, ma diventare efficaci strumenti per la creazione

della società ecclesiale e per la salvezza di ciascuno.

Ci si potrebbe interrogare sulla necessità che tali concetti teologici

venissero inseriti in un codice normativo, tuttavia pare essere questo

un interrogativo ampiamente dibattuto e superato già al momento

della precedente codificazione del 1917; conviene piuttosto analizzare

il rapporto che i fedeli hanno con tali norme e se tali norme

favoriscano dinamiche utili per le finalità proprie della Chiesa, sia

terrena che celeste.

La realizzazione dei fini propri della Chiesa necessita

dell’impegno personale da parte del fedele che ne è membro. Infatti

nel codice, già nel primo canone del libro II, il can. 204, i fedeli sono

chiamati personalmente “ad attuare, secondo la condizione propria di

ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel

mondo”. Il fedele cristiano, non è solamente colui che, battezzato, ha

assunto questo status sacramentale particolare (da cui discendono

peculiari conseguenze anche giuridiche), ma è anche colui che attua la

missione della Chiesa. Questa attuazione si dà anche nel rispetto delle

111

norme che la Chiesa terrena statuisce, questa determinazione è

rinvenibile nello stesso can. 204 § 2, laddove si specifica che la Chiesa,

composta da tutti i fedeli, sussiste nella società ecclesiale, in quanto

“governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con

lui”. La specifica potestà, di natura divina (di diritto divino positivo),

assegnata a Pietro ed ai Vescovi in comunione con lui, è anche potestà

giuridica, non solamente per tradurre in norma lo ius ontologico, ma

anche per dotare la Chiesa società, delle norme di volta in volta

ritenute più opportune per conseguire le finalità ultraterrene e terrene

della medesima.

Essere membro del Popolo di Dio, essere fedele cattolico, implica

il rispetto delle norme ecclesiali di origine umana, per l’attuazione

stessa di quella missione che è affidata a ciascuno da Dio stesso ed a

cui nessun fedele può sottrarsi. Come è stato correttamente osservato

nelle norme canoniche, anche quelle esclusivamente “umane”, sono

contenute due differenti classi di doveri: “i doveri puramente morali –

non giuridici -, e i doveri propriamente giuridici – che, se sono veri

doveri, saranno anche di ordine morale -. Questi ultimi esistono in

correlazione con i diritti altrui, e comportano la nota esigibilità sociale,

propria di un rapporto di stretta giustizia. Ogniqualvolta non ci siano

questi diritti correlativi, il dovere sociale sarà soltanto morale – con

riferimento cioè al fine ultimo della persona obbligata -, essendo

giuridicamente un diritto di libertà. Alla luce di questa distinzione,

deve tenersi presente che i doveri che stanno alla base dei diritti sono

sempre di natura morale, ma non necessariamente giuridica”4

Non rispettare la norma data dal legislatore canonico, significa

non svolgere la missione divina in modo corretto, tradirla.

Come visto nella Prima parte, è senza dubbio necessario che le

norme date dal legislatore canonico, affinché possano esplicare in

4 ARRIETA J. I., I diritti dei soggetti nell’ordinamento canonico, in Persona y derecho – Suplemento Lex Nova 1 (1991), pp. 28-29.

112

modo corretto la loro efficacia rispettino requisiti di giustizia, ma è

altresì necessario che il fedele le osservi, anche quando gli risultino di

difficile comprensione, o di difficile attuazione pratica. Se la Chiesa

mira a costruire un ordine giuridico che crei la giustizia, non è

pensabile di poter scindere tale giustizia dal diritto pratico, che certo

deve orientare il fedele al compimento di questa giustizia; “Le norme

umane e gli altri aspetti storici che intervengono nella loro

conformazione ed operatività, trovano nella giustizia intraecclesiale

così com’è in realtà, la loro più profonda ragion d’essere: l’essere

norme o istituti in rapporto vivo con la giustizia ecclesiale del

presente. Per quanto riguarda le norme umane (non solo quelle legali

o amministrative, ma anche quelle consuetudinarie oppure

giurisprudenziali, e quelle che provengono dalla libertà dei fedeli nella

loro sfera di competenza propria), esse esprimono ciò che è giusto, sia

quando dichiarano il diritto divino, sia quando determinano quello

umano”5.

Il fedele è chiamato continuamente al rispetto ed alla

applicazione delle leggi-norma, con questo spirito, con la coscienza che

sta adempiendo alla missione affidata da Dio alla Chiesa. Egli è libero,

ma al tempo stesso deve essere responsabile nei confronti della

norma6; affrontata con questo spirito, la norma non rappresenterà più

una vuota imposizione per il fedele, ma uno strumento pratico, che gli

offre un sostegno fondamentale per lo svolgimento retto ed ordinato

della sua vita nella Chiesa e nel mondo. Tutti i fedeli sono ugualmente

responsabili della missione della Chiesa, e d’altra parte “l’iniziativa

personale contenuta in queste libertà (libertà fondamentali dei fedeli

n.d.r.) lascia spazio a scelte imprevedibili, che non necessariamente

devono essere ad ogni costo ricondotte sotto ordinati schemi

5 ERRÁZURIZ C. J., Il diritto e la giustizia, op. cit., p. 244. 6 Vedi: ARRIETA J. I., I diritti dei soggetti, cit., p. 14.

113

previamente programmati e tracciati, sempre, ovviamente, che non si

pongano in posizione di contrasto non comunionale”7.

L’uguaglianza fondamentale fra tutti i fedeli8, diritto

fondamentale predicato dal can. 208, è strettamente collegato a questo

aspetto proprio della vita di ogni fedele, vincola tutti a cooperare

“all’edificazione del Corpo di Cristo, secondo la condizione e i compiti

propri di ciascuno”; cooperare significa agire nel rispetto delle norme

date dal legislatore canonico, anche quelle semplicemente umane (cioè

non di diritto divino), con la coscienza che si sta compiendo un’opera

di giustizia, che non si sta solo obbedendo ad un precetto vuoto ed

insensato. Il rispetto delle norme e delle leggi canoniche è il primo e

necessario passo per la edificazione del Corpo di Cristo e per la

creazione di un ordine giusto.

In un certo senso, anche nel rispetto delle leggi e delle norme

terrene della Chiesa, il fedele compie quella particolare missione sua

propria che consiste nell’attuare “en la comunidad ecclesial su sacerdozio

común con todas sus significaciones singulares y sociales según la dignidad

propria de su filiacion divina (libertad y responsabilidad), y ser en el mundo

testigo de la Verdad, apóstol de la Palabra de Dios y rapresentante singular de

la Voluntad salvifica divina”9. Non si vede infatti come possa ritenersi

rispettata quella particolarissima disposizione del can. 211, per cui

ogni fedele deve “dedicare le proprie energie al fine di…promuovere

la crescita della Chiesa e la sua continua santificazione”, laddove poi il

7 ARRIETA J. I., Libertà fondamentali e libertà fondamentale. Considerazioni attorno alla diversa posizione dei fedeli nella partecipazione alla missione della Chiesa, in AA. VV., I diritti fondamentali del fedele, cit., p. 202. 8 Di fondamento cristologico, alla base della condizione di battezzato propria dei membri del popolo di Dio, parla con riferimento al principio di uguaglianza VILADRICH P. J., La distinzione essenziale sacerdozio comune-sacerdozio ministeriale e i principi di uguaglianza e di diversità nel diritto costituzionale canonico moderno, in Il diritto ecclesiastico 83 (1972), in part. pp. 132-136; per l’A. tale fondamento è uno dei fondamenti del principio di uguaglianza. In tal senso vedi anche: HERVADA J. – LOMBARDÍA P., El derecho del Pueblo de Dios: Hacia un sistema de derecho canonico, Pamplona 1970, p. 271. 9 VILADRICH P. J., Teoria de los derechos fundamentales del fiel. Presupuestos criticos, Pamplona 1969, p. 313.

114

fedele disattenda le leggi e le norme date dalla Chiesa stessa; tanto più

che, come visto nella prima parte del nostro lavoro, tali norme

vengono stabilite in accordo con i fini della Chiesa, fra i quali vi è la

salvezza che tocca tutti e ciascuno dei fedeli in modo profondo e

personale.

Non è di poco conto il fatto che tale canone, che ricollega la

missione personale di ciascun fedele, alla piena promozione e crescita

della Chiesa tutta, sia anticipatore di quell’obbligo, stabilito al

successivo can. 212 § 1, di obbedienza ai sacri Pastori. Se tra le

disposizioni dei Pastori che devono essere rispettate dai fedeli

rientrano, come ci pare, le leggi e norme canoniche, tuttavia tali

disposizioni devono anzitutto essere osservate per una finalità più

profonda di quella della semplice obbedienza prescritta, ma proprio in

virtù del più alto senso di responsabilità che deve guidare il fedele

nella conduzione di una vita conforme anche al dettato normativo

canonico, segno di unità e di comunione ecclesiale, oltre che strumento

di salvezza.

Senza dubbio nella Chiesa esistono delle distinzioni di ordine

gerarchico fra i fedeli, dovute al diverso status che ogni fedele decide,

in piena libertà di assumere; tale diversità non deve tuttavia far

pensare a fedeli diversi per valore, dal momento che, con il sacramento

del Battesimo tutti sono elevati alla medesima dignità sacramentale,

tuttavia uguaglianza non significa uniformità, come è stato

correttamente fatto notare10, dal momento che così si toglierebbe il

dovuto spazio riservato alla libertà del singolo nella scelta del proprio

stato di vita personale, e pure perché si cadrebbe in uno sciocco

egualitarismo avulso dalla realtà delle cose.

Tale uguaglianza è tuttavia perfetta nel momento in cui

consideriamo il modo con cui ogni fedele deve porsi nei confronti

della legge-norma sancita dal legislatore canonico; sarebbe infatti assai

10 VILADRICH P. J., La distinzione essenziale, cit., in part. pp. 149-157.

115

grave che un ministro, pensasse di sottrarsi alla norma, in virtù del suo

particolare ministero, dal momento che tale ministero non lo esime dal

rispetto delle norme, anzi, semmai la norma pretende una maggiore

sollecitudine da parte proprio del fedele ordinato. Le eccezioni,

sempre possibili, devono tuttavia limitarsi a quelle espressamente

sancite, al fine di limitare disuguaglianze nel rispetto delle norme,

queste sì, in violazione del principio di uguaglianza tra i fedeli. Per

altro verso “Negare od oscurare la distinzione gerarchica nella Chiesa

non solo non può rispondere ad alcun vero diritto delle persone, ma

sotto l’apparenza di rivendicazione di diritti personali, attenta contro il

patrimonio giuridico essenziale di ogni persona nella Chiesa. Nella

misura in cui la Gerarchia costituisce la garanzia esterna

dell’autenticità dell’esperienza cristiana, non c’è dubbio che ad essa

devono aderire fedelmente tutti i fedeli. La loro libertà trova in tale

adesione la garanzia di adeguamento alle esigenze della verità

salvifica”11.

Il fedele “non può limitarsi a stare”12 nella Chiesa, subendo

passivamente ciò che viene imposto o stabilito da altri, egli è partecipe

in senso pieno della Chiesa, per questo motivo deve collaborare con

tutto se stesso in tutti gli aspetti propri di questa societas, fra i quali il

diritto rientra a pieno titolo. D’altra parte, anche il fedele non ordinato,

e pure il fedele che non ricopre alcun incarico di tipo gerarchico, è pur

sempre un “ministro” chiamato a partecipare “della funzione

sacerdotale, profetica e regale di Cristo” (can. 204 § 1); “accanto ad un

ministero che la strutturi al proprio interno, la Chiesa ha

costituzionalmente bisogno di un ministero che concretizzi questa

dimensione di servizio alle realtà terrene e consenta una crescita della

comunità ecclesiale in sintonia con i segni dei tempi. L’apostolato

proprio del laico non si realizza, infatti, solo nei riguardi del prossimo

11 ERRÁZURIZ C. J., La persona nell’ordinamento canonico: il rapporto tra persona e diritto nella Chiesa, in Ius Ecclesiae 10 (1998), p. 30. 12 VILADRICH P. J., Teoria de los derechos fundamentales, cit., p. 325.

116

non credente, ma anche ad intra nei riguardi degli altri fedeli e dunque

degli stessi pastori «ad eos instruendos, confirmandos et ad

fervidiorem vitam excitandus»13; s’intende: sulla base di una propria e

specifica dimensione di fede, connotata da una peculiare «experientia

humanitatis»14”15.

Secondo Lo Castro i diritti e i doveri dei fedeli, elencati nel titolo

I, parte I del Libro II del CIC, possono distinguersi a seconda che essi

facciano riferimento al solo fedele o all’uomo in quanto tale, a

prescindere dal fatto che egli sia o meno battezzato; i primi sarebbero

riconosciuti al fedele in virtù della grazia, i secondi sarebbero

riconosciuti a tutti in virtù della natura umana in sé medesima16.

Questa distinzione, senza dubbio condivisibile, non dice tuttavia

dell’aspetto soggettivo, diremo quasi psicologico, che deve guidare il

fedele nel rispetto di dette norme. Secondo la nostra opinione, il fedele,

pur vedendosi riconosciuti determinati diritti e doveri in comune con

l’uomo tout court, tuttavia differisce da quest’ultimo oltre che per una

evidente ragione sacramentale, proprio per l’atteggiamento con il

quale dovrebbe porsi nei confronti di tali diritti e doveri. Anche per

quei diritti che dovessero essergli riconosciuti solo in virtù della lex

creationis (espressione che deve leggersi, come il semplice fatto di

essere stati creati), il fedele si pone in un’ottica differente, rispetto a

quanto potrebbe fare il non-fedele: il christifideles, è mosso al rispetto di

determinati doveri, per ragioni più profonde che non quella della

semplice doverosità, egli lo fa in quanto si sente partecipe di una

società che è per lui strumento di salvezza.

In questa differente visione con cui il fedele si pone nei confronti

delle norme risiede un importante elemento di peculiarità

13 Decreto conciliare Apostolicam actuositatem, n. 6, in AAS 58 (1966), pp. 837-864. 14 PAOLO VI, Discorso all’O.N.U., 4.X.1965, n. 1, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. III, Città del Vaticano 1966, pp. 507-523. 15 BERLINGÒ S., Lo status di fedele ed il ministero del laico nell’ordinamento giuridico della Chiesa, in Monitore ecclesiastico 106 (1981), p. 442. 16 LO CASTRO G., Il soggetto e i suoi diritti nell’ordinamento canonico, cit., p. 227.

117

dell’ordinamento canonico. Tale visione delle leggi-norma da parte del

fedele è certamente inquadrabile in quella prospettiva di dinamicità

che dovrebbe caratterizzare, secondo una visione che a noi pare

corretta, il diritto canonico.

“Il Dio cristiano, nel porre una similitudine tra l’imperativo del

Suo amore e quello dell’amore per l’uomo, non concentra in Sé solo,

come nel Decalogo, la produzione delle norme, ma chiama l’uomo,

segnato dalla Sua immagine e sorretto dal Suo Spirito, ad inverare al

massimo il principio secondo cui chi è «regolato e misurato» partecipa

in qualche modo della «regola e della misura» (I, II, q. 91, a. 2); chiama

cioè l’uomo a partecipare, in una certa guisa ed entro determinati

limiti, alla produzione delle norme che lo riguardano, sollecitandolo

senza tregua alla (ri)formulazione diuturna dei contenuti normativi

del «nuovo precetto» («ipsi sibi sunt lex»: Rm 2,15)”17.

Il fedele, nel rispettare i doveri canonici impostigli, come anche

nel godere dei diritti da esso attribuitigli, non è un semplice soggetto

passivo, è protagonista attivo nel suo atteggiamento, in quanto, è

primariamente da questa sua accoglienza della norma che dipende il

conseguimento della salvezza che della norma è il presupposto

necessario. Questo ruolo attivo del fedele18, in relazione alla norma

canonica, è stato analizzato soprattutto con riguardo ad aspetti di tipo

pratico, nei quali meglio è dato cogliere tale fondamentale ruolo19.

17 BERLINGÒ S., Spunti di teoria generale nella canonistica contemporanea, in Il diritto ecclesiastico 102 (1991), p. 48. 18 L’idea che il soggetto di diritti sia tale quando manifesti in modo pieno la sua volontà (ad es. nella attribuzione della responsabilità), è una conquista della civiltà occidentale più sviluppata, riscontrabile per la prima volta in ambito giuridico, nel diritto giustinianeo. Nella Grecia arcaica, non conoscevano ad esempio, in ambito giuridico, il concetto della colpa; si veda in proposito: CRIFÒ G., voce Danno (storia), in Enciclopedia del diritto, vol. XI, Milano 1962, p. 615. Ciò è riscontrabile pure nei diritti barbarici; si veda: PERTILE A., Storia del diritto penale, Torino 1892², pp. 634-639. 19 Le citazioni in proposito potrebbero essere veramente molteplici, ci limitiamo ad indicarne alcune, nelle quali in particolare è dato rinvenire una visione dinamica dell’ordinamento canonico in relazione a quanto esposto: FEDELE P., voce Equità canonica, in Enciclopedia del diritto, vol. XV, Milano 1966, pp. 150 ss.; FELICIANI G., L’analogia nell’ordinamento canonico, Milano 1968; FINOCCHIARO F., La

118

L’inserimento della nozione di Popolo di Dio e conseguentemente

di christifideles nel nuovo CIC, assume, se letto nella prospettiva qui

sopra delineata, un valore straordinario e soprattutto caratterizzante

l’ordinamento canonico, rispetto ad ogni altro ordinamento giuridico,

nel quale il soggetto rischia di essere quasi sempre un soggetto passivo

delle norme, specialmente delle norme impositive, dal momento che

rispetterà l’imposizione solamente per evitare una sanzione, mentre

invece il rispetto della norma canonica ha come presupposto un dato

di coscienza: il fedele rispetta la norma perché è motivo per lui di

salvezza, e contribuisce allo sviluppo di un ordine di giustizia

all’interno della società ecclesiale.

Come noto il diritto canonico non prevede misure coercitive,

come conseguenza della inosservanza delle sue disposizioni (vedi can.

1312), e la applicazione delle sanzioni penali è l’ultima via da

percorrersi, dopo una serie di rimedi intermedi (vedi can. 1341). Il fine

della Chiesa è sempre la salus animarum anche e soprattutto nei

confronti di coloro che si pongono, con le loro azioni, al di fuori del

diritto: “La finalità della pena canonica ha un significato pastorale,

giacchè persegue unicamente l’integrità spirituale e morale della

Chiesa intera, ed il bene dello stesso colpevole; è per questo che i

titolari della potestà coercitiva devono farne ricorso solo quando ciò

sia necessario per far salva la disciplina ecclesiastica”20. Questa assenza

di misure coercitive è indice del fatto che il rispetto delle norme deve

nascere anzitutto nella coscienza del fedele, il quale dovrà sentirsi

obbligato in virtù di questa sua particolare condizione, e non magari

giurisprudenza nell’ordinamento canonico, in La norma, cit., vol. I, Pamplona 1979, pp. 989 ss.; FUMAGALLI CARULLI O., Il matrimonio canonico dopo il Concilio. Capacità e consenso, Milano, 1973, pp. 35 ss.; MONETA P., Errore sulle qualità individuali ed interpretazione evolutiva, in Il diritto ecclesiastico 81 (1970), pp. 33 ss.; ORSY L., The interpretation of Laws. New Variations on an Old Theme, in Studia canonica (1983), pp. 95 ss.; POMPEDDA M. F., La funzione della giurisprudenza nel diritto matrimoniale canonico, in GHERRO S. (a cura di), Studi sulle fonti del diritto matrimoniale canonico, Padova 1988, pp. 1 ss.; VILADRICH P. J., El ius divinum como criterio de autenticidad en el Derecho de la Iglesia, in La norma, cit., vol. II, pp. 42 ss.; 20 ARIAS J., Commento al libro VI del CIC, in ARRIETA J. I. (a cura di), Codice di diritto canonico, cit., p. 875.

119

per timore di subire una limitazione da parte della autorità costituita.

Applicando ciò che scrive S. Tommaso d’Aquino, riguardo gli effetti

della legge21 possiamo ben dire che il fedele, nel rispettare la norma

canonica, assume un atteggiamento virtuoso, che è il solo che porta

beneficio alla persona, rendendola veramente buona e giusta. Nel

richiamare le distinzioni tra l’Antica e la Nuova Legge, S. Tommaso

ricorda come: “i precetti di qualsiasi legge riguardano sempre atti di

virtù. Ma a compiere codesti atti non sono spinti allo stesso modo gli

uomini imperfetti, che non hanno ancora l’abito della virtù, e quelli già

perfetti per i loro abiti virtuosi. Poiché chi è privo dell’abito virtuoso è

spinto ad agire virtuosamente da una causa estrinseca: cioè dalla

minaccia del castigo, o dalla promessa di un premio, dagli onori, p. es.,

dalle ricchezze, o da altre cose del genere. Ecco perché l’antica legge,

che fu data ad uomini imperfetti, cioè privi della grazia spirituale, è

stata chiamata «legge del timore», poiché induceva all’osservanza dei

precetti con la minaccia di determinati castighi. E si afferma che essa

aveva delle promesse di beni temporali. - Invece gli uomini provvisti

di virtù sono spinti all'esercizio delle azioni virtuose dall’amore delle

virtù, e non dal castigo, o dal premio estrinseco ad esse. Ecco perché la

nuova legge, la quale principalmente consiste nella grazia divina

infusa nei cuori, viene chiamata «legge dell’amore». E si dice che ha

promesse di beni spirituali ed eterni, che sono l’oggetto stesso della

virtù, specialmente della carità. Perciò ad essi le persone virtuose sono

portate per se stesse, non come verso cose estranee, ma come verso il

proprio oggetto. - Per questo stesso motivo si dice che l’antica legge

«tratteneva la mano e non l’animo»: poiché quando uno si astiene dal

peccato per paura del castigo, la sua volontà non desiste dalla colpa in

senso assoluto, come la volontà di colui che se ne allontana per amore

dell'onestà. Ed ecco perché si dice che la nuova legge, legge

dell’amore, «trattiene l’animo»”22; certamente questa riflessione

21 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 92, a. 1. 22 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I, II, q. 107, a. 1, ad 2.

120

dell’angelico Dottore, è riferibile soprattutto alle norme di quello che

noi abbiamo denominato ius ontologico, e tuttavia, è senza dubbio

valida per quanto riguarda il modo di porsi del fedele rispetto alle

leggi-norma del diritto canonico: con l’atteggiamento dell’uomo

virtuoso, questa via della virtù, richiede uno sforzo personale del

fedele, sforzo che deve essere cosciente, deve essere volontario e

liberamente scelto, deve essere attuato con fermezza e costanza23.

Nell’ordinamento canonico la norma, anche quella di origine

prettamente umana, “è osservata non già per un ossequio formale alla

maestà della legge, o per una subordinazione estrinseca al principio di

autorità, ma anche perché chi obbedisce al precetto ravvisa come base

di legittimazione dell’autorità competente le medesime ragioni

giustificatrici del proprio comportamento, e cioè l’amore di Dio e del

prossimo”24. È in virtù del sensus fidei (che maggiormente influisce sul

rispetto dello ius ontologico, come vedremo in seguito) che determina,

in una certa misura, anche l’animo dei fedeli, nel momento in cui

leggono e conseguentemente applicano le leggi-norma canoniche, che

essi “sono indotti a sottomettersi anche ai doveri di stretta giustizia,

alle norme del diritto (umano o) «ecclesiastico» in senso proprio, con

tutto il loro essere, perché animati dalla intima e profonda convinzione

che ciò sia indispensabile a realizzare il «precetto» fondamentale

dell’amore di Dio e del prossimo, e quindi necessario al fine della

«santificazione» dell’umanità («salute animarum»…suprema semper

lex: can. 1752”25.

Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, ha avuto modo di ricordare a

più riprese la necessità per il fedele del rispetto, nel senso su indicato,

delle norme canoniche, non solamente quelle derivanti dal diritto

23 S. Tommaso, conformemente a quanto indicato da Aristotele nell’ Etica a Nicomaco II, indica proprio in tali caratteristiche il modo di essere della virtù. 24 BERLINGÒ S., L’ultimo diritto. Tensioni escatologiche nell’ordine dei sistemi, Torino 1998, pp. 68-69. 25 BERLINGÒ S., Giustizia e carità nell’economia della Chiesa. Contributi per una teoria generale del diritto canonico, Torino 1991, p. 89.

121

divino: “Questo ci porta ad affrontare in modo diretto l’altro

argomento, al quale facevo riferimento all’inizio: il rapporto fra una

vera giustizia e la coscienza individuale. Scrivevo già nell’Enciclica

Veritatis splendor: «Il modo secondo cui si concepisce il rapporto tra la

libertà e la legge si collega intimamente con l’interpretazione che viene

riservata alla coscienza morale». Se ciò è vero nell’ambito del

cosiddetto «foro interno», non vi è dubbio però che una correlazione

fra la legge canonica e la coscienza del soggetto si pone

anche nell’ambito del «foro esterno»: qui il rapporto si instaura fra il

giudizio di chi autenticamente e legittimamente interpreta la legge, sia

pure nel caso singolo e concreto, e la coscienza di chi all’autorità

canonica ha fatto appello: fra il giudice ecclesiastico e le parti in causa

del processo canonico. A tale riguardo scrivevo nella Lettera Enciclica

Dominum et vivificantem: «La coscienza non è una fonte autonoma ed

esclusiva per decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo; invece, in

essa è inscritto profondamente un principio di obbedienza nei riguardi

della norma oggettiva, che fonda e condiziona la corrispondenza delle

sue decisioni con i comandi e i divieti che sono alla base del

comportamento umano». E nell’Enciclica Veritatis splendor ho

aggiunto: «L’autorità della Chiesa, che si pronuncia sulle questioni

morali, non intacca in nessun modo la libertà di coscienza dei

cristiani...anche perché il Magistero non porta alla coscienza cristiana

verità ad essa estranee, bensì manifesta le verità che dovrebbe già

possedere sviluppandole a partire dall’atto originario della fede. La

Chiesa si pone solo e sempre al servizio della coscienza, aiutandola a

non essere portata qua e là da qualsiasi vento di dottrina secondo

l’inganno degli uomini, a non sviarsi dalla verità circa il bene

dell’uomo, ma, specialmente nelle questioni più difficili, a raggiungere

con sicurezza la verità e a rimanere in essa». Un atto aberrante dalla

norma o dalla legge oggettiva è, dunque, moralmente riprovevole e

come tale deve essere considerato: se è vero che l’uomo deve agire in

conformità con il giudizio della propria coscienza, è altrettanto vero

122

che il giudizio della coscienza non può pretendere di stabilire la legge;

può soltanto riconoscerla e farla propria”26. Nelle ultime righe della

citazione di cui sopra, emerge con chiarezza la fondamentalità, assunta

dalla norma (e ci pare non solamente di quella di diritto divino), in

ordine all’orientamento della coscienza, che, se lasciata sola, può

travisare il significato del bene, può allontanarsene, pensando tuttavia

di conformarsi ad esso: di qui la assoluta necessità del diritto, anche

per la Chiesa, un diritto che deve orientare l’uomo e la sua coscienza al

bene ed alla giustizia e che per farlo correttamente, si conforma alle

norme del diritto divino.

Il diritto tuttavia, non può fare nulla, senza una partecipazione

personale del fedele alla norma, sia al suo rispetto, che alla sua

attuazione, termini che non possono essere considerati come affini, in

ambito canonistico, dal momento che si può rispettare la norma, ma

non è detto che a tale rispetto formale, corrisponda un altrettanto forte

impegno del fedele nel conformarsi, anche interiormente, a quanto

dettato da essa27. Questa partecipazione attiva del fedele, è segno del

dinamismo proprio del diritto ecclesiale, il quale: “si regge, cioè, su di

un principio «economico» inteso in senso forte, che postula la massima

valorizzazione possibile dell’autonomia e della libertà dei soggetti, per

il tramite di una loro fattiva partecipazione alla vita dell’insieme”28.

La libertà che l’ordinamento canonico riconosce ai fedeli, come

singoli e come membri della Chiesa, è da leggersi in relazione ad una

realizzazione volontaria del fedele nei confronti delle norme anche

umane (leggi-norma); come correttamente osservato, il diritto canonico 26 GIOVANNI PAOLO II, Discorso agli officiali e avvocati del Tribunale della Rota romana, n. 8, 10.II.1995, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XVIII-1, Città del Vaticano 1997, pp. 350-357. 27 Questo ragionamento è applicabile a fortori nel caso in cui si consideri che il fedele è chiamato a dare applicazione alle norme, magari attraverso alcuno degli strumenti propri del diritto canonico, e volti a riequilibrare possibili deviazioni dalle finalità sue proprie nel caso concreto; si veda a tale riguardo: GHERRO S., Peculiarità del diritto canonico e scienza del diritto, in Ius Ecclesiae 5 (1993), in part. pp. 538-541; PREE H., Le tecniche canoniche di flessibilizzazione del diritto: possibilità e limiti ecclesiali di impiego, in Ius Ecclesiae 12 (2000), pp. 375-481. 28 BERLINGÒ S., Spunti di teoria generale nella canonistica, cit., p. 50

123

non pone solamente limiti negativi al fedele, ma al contrario, influendo

sulla sua volontà, si pone in modo positivo rispetto a questa, non

solamente “ponendo in essere tutte le condizioni ecclesiali per una

migliore vita sacramentale”29, ma anche lasciando libero il fedele di

contribuire fattivamente alla missione propria delle Chiesa. Le norme

canoniche non impongono solamente doveri da compiere, ma

regolano anche i diritti da riconoscere ai fedeli.

Questa libertà riconosciuta ai fedeli è garantita dal diritto,

laddove obbliga anche il legislatore ed i giudici, al rispetto delle norme

giuridiche (can. 135), onde evitare casi di arbitrarietà30; “Il diritto di

ogni persona nella Chiesa, vale a dire le esigenze giuridiche del suo

incontro salvifico con Cristo e con i fratelli e sorelle in Cristo, è

inseparabile dalla assunzione di quei limiti che concorrono a

configurarlo come autentico diritto, concreto ed esigibile di fronte a

tutti, naturalmente anche di fronte alla stessa Gerarchia. Tale esigibilità

non è segno di conflitto di interessi, ma di quella pluralità di persone e

di posizioni che, essendo consustanziale ad ogni realtà giuridica, si

verifica anche nella Chiesa”31.

Per quanto riguarda la esigibilità di un determinato

comportamento da parte dei fedeli, al rispetto del diritto, è da notare

che tale esigibilità si presenta con diversa intensità, a seconda della

categoria di fedeli cui si fa riferimento. Pur essendo infatti innegabile

che fra tutti i fedeli vige un principio di uguaglianza, il contemporaneo

principio di varietà32, pure vigente, richiede un rispetto, da parte dei

fedeli ordinati, maggiore e più profondo rispetto a quello di qualsiasi

altro battezzato. Non è che così si violi il principio di uguaglianza, al

29 BONNET P. A., «Habet pro conditione…», cit., p. 580. 30 Di un vero e proprio principio di legalità all’interno dell’ordinamento canonico, parla HERRANZ J., Salus animarum, cit., pp. 292-307. 31 ERRÁZURIZ C. J., La salus animarum tra dimensione comunitaria ed esigenze individuali della persona, in Ius Ecclesiae 12 (2000), p. 341. 32 Dal principio di varietà discende il principio gerarchico, che è l’aspetto più rilevante del principio di varietà, vedi: RINCÓN-PÉREZ T., La liturgia y los sacramentos en el derecho de la Iglesia, Pamplona 2001, p. 271.

124

contrario, tale esigibilità è conseguenza dell’impegno assunto da

coloro che hanno scelto, in totale libertà, di assumere la funzione

ministeriale; il ministro continua ad avere diritto alla propria libertà ed

autonomia, tuttavia: “ciò che caratterizza specificamente la posizione

del ministro, non è più la libertà ed autonomia, benché rimangano

ancora per loro tanti spazi di libertà e di autonomia, bensì la posizione

di dovere attuare le funzioni che hanno ricevuto”33. In questo senso si

esprime pure il Catechismo, allorquando, introducendo la costituzione

gerarchica della Chiesa, parlando del ministero ecclesiale afferma:

“Alla natura sacramentale del ministero ecclesiale è intrinsecamente

legato il carattere di servizio. I ministri, infatti, in quanto dipendono

interamente da Cristo, il quale conferisce missione e autorità, sono

veramente «servi di Cristo», (Cfr. Rm 1, 1) ad immagine di lui che ha

assunto liberamente per noi «la condizione di servo» (Fil 2, 7). Poiché

la parola e la grazia di cui sono i ministri non sono le loro, ma quelle di

Cristo che le ha loro affidate per gli altri, essi si faranno liberamente

servi di tutti (Cfr. 1Cor 9, 19)”34.

Tale particolare esigibilità è pure riscontrabile nei canoni del

Capitolo III, del Libro II, del CIC, ove si stabilisce che gli obblighi da

parte dei chierici sono da rispettarsi in modo speciale e con particolare

fedeltà, dal momento che la differenza che sorge tra i fedeli ed i fedeli

ordinati “deve ripercuotersi sul diverso stile di vita che corrisponde a

ciascuno”35. Tale impegno è ricordato pure dal Catechismo,

allorquando introduce i sacramenti dell’ordine e del matrimonio, i

quali: “sono ordinati alla salvezza altrui. Se contribuiscono anche alla

salvezza personale, questo avviene attraverso il servizio degli altri.

Essi conferiscono una missione particolare nella Chiesa e servono

all'edificazione del popolo di Dio”36.

33 ARRIETA J. I., Libertà fondamentali e libertà fondamentale, cit., p. 204. 34 CCC, n. 876. 35 RINCÓN-PÉREZ T., Commento al Captiolo III, del Libro II, del CIC, in ARRIETA J. I. (a cura di), Codice di diritto canonico, cit., Roma 2004, p. 234. 36 CCC, n. 1534.

125

È poi da ricordare che, la sollecitudine al rispetto delle leggi-

norma canoniche, dovrà essere tanto maggiore in quanto si abbia

ricevuto uno degli ordini (diaconato, presbiterato, episcopato), e

quindi ogni diverso grado dovrà impegnare il fedele che lo riceve in

modo più profondo e si esigerà da lui un rispetto sempre maggiore

delle norme canoniche, stante la funzione che ricopre a seguito della

ordinazione ricevuta. Se infatti il sacerdozio ministeriale che si riceve è

sempre lo stesso, cambiando solamente il grado di questo sacerdozio37,

tuttavia ci pare che proprio in virtù di questo diverso grado,

l’atteggiamento del fedele che lo riceve dovrà essere, nei confronti

delle norme canoniche, di più rigorosa osservanza.

37 RINCÓN-PÉREZ T., La liturgia y los sacramentos cit., p. 272.

126

4.2. Il fedele ed il rispetto dello ius ontologico.

“Nel caso del diritto canonico, è necessario tener conto degli

elementi fondamentali procedenti dal disegno fondazionale della

Chiesa da parte di Gesù Cristo, costituenti il diritto divino positivo,

proprio della dimensione di giustizia dell’ordine di salvezza (lex

redemptionis). Questi elementi però non rendono superflui gli elementi

di diritto divino naturale – inerenti alla lex creationis -: anzi, li

confermano pienamente, e consentono di conoscerli meglio, essendo

anch’essi pienamente in vigore nell’ambito canonico. Ciò significa che

nell’ordinamento canonico, accanto ai diritti dei soggetti il cui

fondamento prossimo è costituito dalle norme ecclesiastiche e dai

negozi giuridici, ci sono altri diritti provenienti immediatamente dallo

ius divinum, che vanno rispettati dalle norme umane, di modo che esse

sarebbero nulle se disconoscessero tali diritti. Particolare rilevanza

acquista questa conclusione quando la si applica ai diritti fondamentali

dei fedeli”1. Non solo tali diritti (ed obblighi) vanno rispettati, come

già visto, dalle norme canoniche che li disciplinano, ma anche e

soprattutto dai fedeli.

Abbiamo visto nel capitolo precedente come e perchè le leggi-

norma canoniche debbano essere rispettate dai fedeli, in quanto cioè

norme di origine umana, ma aventi come loro presupposto elementi di

diritto soprannaturale, in virtù dei quali i fedeli sono, o dovrebbero

essere, spinti alla piena osservanza di tali leggi umane; senza contare

che, come visto, tali leggi esistono anche in quanto volte a regolare una

società, com’è quella ecclesiale, che presenta degli aspetti

propriamente umani, che, in quanto tali, non possono rimanere

soggetti all’arbitrio di singole persone o dei componenti di tale società

terrena.

Ma la Chiesa è anche realtà soprannaturale, è il corpo mistico di

Cristo, ed opera sulla terra affinché i suoi membri e tutte le genti

1 ARRIETA J. I., I diritti dei soggetti, cit., p. 21.

127

ottengano la salvezza ultramondana, che quindi si presenta come il

fine ultimo della società ecclesiale anche nella sua realtà umana.

Proprio in virtù di tale fine ultimo, non è possibile pensare ad una

attività normativa della Chiesa, che impegni i fedeli solamente per la

vita terrena, poiché è ben vero che la società ecclesiale deve regolarsi

anche in conformità con le leggi di questo mondo, ma, non può mai

perdere di vista la dimensione ultraterrena verso la quale deve

orientare l’uomo2. Un ordinamento canonico che tralasciasse lo ius

ontologicamente inteso, comprendente il diritto divino naturale e

positivo, ius che dunque è in se stesso giusto, a prescindere da

qualsivoglia forma normativa venga ad assumere in un determinato

ordinamento giuridico, comprometterebbe il fine ultimo della Chiesa,

per concentrarsi esclusivamente su aspetti terreni. Non è sufficiente

inserire norme corrispondenti a tale ius nel diritto canonico, e

nemmeno conformare il più possibile le leggi-norma ai principi di tale

ius, dal momento che anche così facendo, non si otterrebbe con

assoluta certezza la salus animarum dei fedeli e degli uomini di buona

volontà più in generale. È infatti ulteriormente indispensabile che tale

ius sia rispettato dai fedeli, che devono riconoscere in esso uno degli

strumenti offerti dalla Chiesa per il raggiungimento della salvezza di

ognuno3. In questo senso spesso i normali strumenti giuridici si

possono rivelare inefficaci, e non a caso il diritto canonico presenta

una serie di istituti che possono apparire assai bizzarri per un normale

ordinamento positivo, nel quale le finalità si presentano come ben più

modeste, ma che sono invece volti a compensare le imperfezioni

sempre possibili del diritto umano4. S. Tommaso stesso aveva ad

2 Nella dottrina dei Padri della Chiesa il tema della opposizione tra legge secolare e legge divina rappresenta un tema tipico, naturalmente con l’assegnazione al diritto divino di un ruolo preminente, rispetto a quello delle leggi civili, nella gerarchia delle norme. 3 “Poiché l’affermazione della «salus animarum» come principio informatore della legislazione della Chiesa non vuol dire affatto negare la giuridicità dell’ordinamento canonico, è logico che tale principio sia operativo anche nel momento interpretativo ed applicativo delle norme” HERRANZ J., Salus animarum, cit., p. 303. 4 Ci riferiamo senza dubbio allo strumento dell’aequitas canonica, il quale è

128

affermare, pur nel richiamo al necessario rispetto da parte di chi è

chiamato a giudicare, delle leggi scritte: “Come le leggi ingiuste sono

di per sé incompatibili col diritto naturale, o sempre o nella maggior

parte dei casi, così anche le leggi oneste in certi casi sono talmente

inadeguate, che se si osservano, si va contro il diritto naturale. Perciò

in codesti casi non si deve giudicare secondo la lettera della legge, ma

si deve ricorrere a quel senso di equità, che era nell'intenzione del

legislatore. Ecco perché nel Digesto si legge: «Nessun senso del diritto

o dell’equità permette che quanto è stato salutarmente introdotto per il

vantaggio degli uomini, sia da noi portato alla severità con una

interpretazione rigida contro il loro bene». Ora, in codesti casi anche il

legislatore giudicherebbe diversamente: e, se li avesse presi in esame, li

avrebbe determinati con una legge”5.

In relazione al rispetto di tale ius quindi il fedele svolge un ruolo

primario: di comprensione, di assimilazione e conseguentemente di

conformazione ad esso. In questo processo il diritto canonico svolge

un ruolo fondamentale, ma tuttavia secondario, rispetto al senso di

giustizia che le norme divine ispirano immediatamente nel fedele.

Nella comprensione delle norme divine, giocano un ruolo

fondamentale la fede e la ragione di ogni fedele, che arriva con questi inscindibilmente connesso con il fine della salus animarum, come senza dubbio già il FEDELE aveva messo in luce (cfr.: voce Equità canonica, in MORTATI C. – SANTORO PASSARELLI F. (diretta da), Enciclopedia del diritto, vol. XV, Milano 1966, pp. 147-159; Discorsi sul diritto canonico, Roma 1973, pp. 84-85); più di recente e con significato affine al discorso da noi qui affrontato, si è espresso GROSSI P., Aequitas canonica, in Quaderni fiorentini 27 (1998), pp. 379-396, il quale fra l’altro afferma che l’aequitas: “va ben oltre a quei generici richiami così ripetuti nelle fonti di sempre alla mansuetudo, alla misericordia, alla humanitas, alla benignitas quali atteggiamenti da opporre al rigor iuris e al freddo ossequio delle forme giuridiche”, al contrario essa opera nella: “situazione concreta in cui una singola persona umana, il singolo homo viator, con il suo carico di fragilità si dibatte e combatte la propria vicenda terrena, situazione al di sopra e al di fuori della quale non ci sarebbe giustizia”; attraverso tale particolarissimo strumento giuridico, si riafferma: “il valore irripetibile di quell’unicum che è la singola persona umana a prevalere, quella singola persona umana alla cui salvezza eterna è chiamata tutta la Santa Chiesa, tutta la Sacra Gerarchia, tutta l’ammirevole maestà dell’ordine giuridico. Ai piedi di quell’unicum la Chiesa depone la sua logica giuridica e il suo rigore sistematico; per lui è disposta a sacrificare l’architettura del magnifico edificio giuridico costruito da una sapienza bimillenaria”, Op. cit., pp. 388 ss. 5 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II-II, q. 60, a. 5, ad 2.

129

strumenti a comprendere ciò che è giusto, non tanto, e non solo perché

qualcuno lo ha stabilito normativamente, ma perché comprende che

un determinato comportamento è conforme a giustizia, è compiere una

volontà più alta di quella desiderata dal legislatore umano6, magari

anche in modo assai sapiente. Come ricordava giustamente S.

Agostino, la volontà del fedele svolge un ruolo fondamentale, nella

comprensione della legge divina, in quanto assistita dalla grazia, ma al

contempo non è eliminabile: “Si deve distinguere tra la Legge e la

grazia: la Legge dà solo degli ordini, la grazia invece è capace

d'aiutare; la Legge poi non darebbe ordini, se non supponesse la

volontà umana, né la grazia darebbe aiuto, se fosse sufficiente la

volontà”7.

Ecco dunque che in tale prospettiva diritti e doveri del fedele

divengono strumenti che servono da guida in un percorso di

elevazione non solamente fisica, non sono più pretese o rivendicazioni

del singolo (o dei singoli associati fra loro), o, da altro punto visuale, di

colui che ha la potestà di governo, bensì sono una regola comune a

tutti, che deve creare armonia, armonia con un disegno che non è solo

per questo mondo.

Come sostenuto da Heidegger: “nel rispetto alla legge (e ci pare si

possa qui intendere nel medesimo senso del nostro ius n.d.r.), l’io che

rispetta deve, per conseguenza, divenire contemporaneamente

manifesto a se stesso in maniera determinata, e ciò in via

6 Scrive a tal proposito S. JOSEMARIA ESCRIVÀ, È Gesù che passa, Milano 2000, n. 41: “La giustizia non consiste nella semplice sottomissione a una regola: la rettitudine deve nascere dal di dentro, deve essere profonda, vitale, perché il giusto vive della fede. Vivere della fede: queste parole, che saranno poi tanto spesso tema di meditazione per l’apostolo Paolo, le vediamo realizzate perfettamente in san Giuseppe. Egli non compie la volontà di Dio esteriormente, formalisticamente, ma in modo spontaneo e profondo. La legge che osservava ogni ebreo praticante non era per lui soltanto un codice o una fredda raccolta di precetti: era l’espressione della volontà del Dio vivo. Ed è per questo che Giuseppe seppe riconoscere la voce del Signore quando essa gli si manifestò inattesa e sorprendente”. 7 S. AGOSTINO, Epistolae, 177.5; la traduzione italiana si trova in www.augustinus.it/italiano/lettere/. Sul rapporto esistente tra volontà umana e grazia divina si veda pure: De perfectione iustitiae hominis, 19.41.

130

supplementare e occasionale […] Il rispetto alla legge è rispetto di sé,

in quanto rispetto di quel se-stesso che non è determinato dalla

presunzione e dall’amor proprio”8, ma precisiamo meglio dicendo che

senza dubbio questo io, che nel nostro caso è l’io del fedele, rispetta la

legge soprannaturale anche per amor proprio, in quanto ogni uomo è

creatura, ed in virtù di questo particolarissimo rapporto col Divino, è

chiamato anche ad un amore per se stesso che passa dal rispetto delle

leggi divine.

Per capire quanto il fedele e la percezione che esso ha dello ius

ontologico sia fondamentale, possiamo prendere come punto di

riferimento il diritto di libertà, che è proprio di ogni fedele (come

peraltro di ogni persona), tale diritto non è incondizionato, essere

libero non significa che una persona sia libera di fare ciò che gli

aggrada, tale libertà trova un limite invalicabile, limite che è la persona

stessa, nel caso del diritto canonico è il fedele stesso, per cui la libertà

“non è, dunque, incondizionata bensì condizionata, ossia limitata nel

proprio esercizio da ciò che ne origina l’esserci esistenziale: la struttura

dell’io. Pertanto, il limite della libertà non è soltanto di ordine morale,

come pensava Kant, ma è, prima ancora, di ordine ontologico”9. La

persona stessa è origine e limite dei suoi diritti, non per una

autodeterminazione personale, ma perché la sua natura, così come

sapientemente disegnata dal Creatore, ha lasciato l’uomo “in balia del

suo proprio volere” (Sir 15, 14) anche per quanto riguarda il suo essere

ed operare giuridico, che dunque dovrebbe guidarlo verso la giustizia,

secondo le norme di un diritto che è prima di tutto inscritto nell’uomo

stesso.

“Dio provvede agli uomini in modo diverso rispetto agli esseri

che non sono persone: non «dall’esterno», attraverso le leggi della

natura fisica, ma «dal di dentro», mediante la ragione che, conoscendo

8 HEIDEGGER M., Kant e il problema della metafisica, Milano 1962, p. 210. 9 COTTA S., Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica, Milano 1991², p. 94.

131

col lume naturale la legge eterna di Dio, è perciò stesso in grado di

indicare all’uomo la giusta direzione del suo libero agire”10.

Il fatto che l’individuo sia il referente primo della giuridicità, è

idea già espressa dal Rosmini, il quale individua nell’uomo la fonte

stessa del diritto: “la persona dell’uomo è il diritto umano

sussistente”11; ed ancora: “La persona è la potenza di affermare tutto

l’essere (il che involge un parteciparne e un compiacersene) quale e

quanto esso viene da lei appreso intellettivamente”12. Se dunque, come

sosteniamo, lo ius ontologico è immediatamente percepibile da

ciascuno, indipendentemente dal fatto che vi siano o meno

determinate norme che obblighino ad un dato comportamento13, e se è

parimenti vero che l’uomo è di per se stesso il primo interprete di tale

diritto, è allora fondamentale capire le dinamiche che spingono l’uomo

verso la giustizia, verso quel bene, che nella prospettiva cristiana non è

solamente un concetto astratto, ma è un obbiettivo assai concreto, è

quello della salvezza ultima, per sé e per gli altri, dal momento che, il

vivere a contatto con altri uomini non sottrae l’uomo ai doveri che lo

obbligano anche nei confronti dei suoi simili.

Sin qui abbiamo forse anticipato un argomento che troverà

risposta nella terza parte del nostro lavoro, quello cioè riguardante

l’uomo in quanto tale, in quanto essere umano, ed il rispetto del

10 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Veritatis splendor, n. 43, 6.VIII.1993, in AAS 85 (1993), pp. 1133-1228; in ciò il Pontefice si rifà direttamente all’insegnamento di S. Tommaso sulla legge naturale, in particolare il punto qui citato a Summa theologiae, I-II, q. 90, a. 4, ad 1. Su tale punto confronta anche: LEONE XIII, Lettera enciclica Libertas praestantissimum, 20.VI.1888, in AAS 20 (1887), pp. 593-613. 11 ROSMINI A., Filosofia del diritto. Diritto derivato, parte I, libro I, cap. 3 (1845) in Edizione nazionale delle opere edite e inedite di Antonio Rosmini, Roma 1938, vol. XXXV, p. 191. 12 ROSMINI A., Filosofia del diritto. Sistema morale, sez. I, § 7 (volume cit.), p. 66. 13 Spesso è anzi difficoltoso esprimere in forma scritta determinate norme, senza dar luogo a malintesi ed incomprensioni, tuttavia, come sottolineato da D’AGOSTINO F., Giustizia. Elementi per una teoria, Cinisello Balsamo 2006, p. 18: “Se però gli uomini non sono in possesso di criteri linguistici in grado di consentir loro di formulare in modo assoluto, e quindi definitivo, le norme che proibiscono azioni assolutamente ingiuste, essi sono ben capaci di cogliere intuitivamente nei casi concreti, attraverso una cognizione autentica – anche se non esprimibile linguisticamente in modo esauriente -, la differenza tra la giustizia e l’ingiustizia”.

132

diritto. Sarà qui invece il caso di soffermarci in particolare sul fedele,

su colui che, in virtù del sacramento del battesimo, è stato rigenerato

in Cristo, ed ha quindi una missione vera e propria, per il compimento

della quale il rispetto dei precetti divini diviene un momento

fondamentale del suo percorso verso la salvezza.

Il rispetto della legge (ius) che solo può condurre al compimento

della giustizia e che in conseguenza porta alla salvezza dell’anima è un

impegno fondamentale del fedele, questo atteggiamento interiore, e gli

effetti che deve produrre sui comportamenti di ogni fedele, è indicato

in modo assai chiaro dalle parole dell’apostolo Giacomo: “Perciò,

liberatevi da ogni impurità e da ogni eccesso di malizia, accogliete con

docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla

salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non

ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché, se uno ascolta la

Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda

il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito

dimentica come era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la

legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore

smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua

felicità nel praticarla” (Gc 1, 21-25).

Fissare lo sguardo sulla legge perfetta, significa iniziare a

perseguire quello che si chiama un fine virtuoso, fine che è

rappresentato dalla giustizia, che porta come conseguenza per la sua

pratica la salvezza dell’anima. I fini virtuosi possono essere definiti,

secondo una definizione propria della teologia morale come: “i modi

di regolazione razionale delle tendenze, dei sentimenti (passioni) e

delle azioni richiesti dalla piena riuscita della vita umana e cristiana”14.

Ci si accorge quindi che se si eliminasse il fedele da tale ragionamento,

considerandolo solamente come un soggetto passivo delle norme di

diritto divino, ben difficilmente tale diritto vedrebbe una sua 14 COLOM E. – RODRIGUEZ LUÑO A., Scelti in Cristo per essere santi. Elementi di Teologia Morale Fondamentale, Roma 2003, p. 241.

133

concretizzazione pratica, rimarrebbe al contrario un principio astratto

e necessiterebbe, a questo punto senza ombra di dubbio, di essere

codificato in norme umane, pena la sua inutilità. Al contrario il fedele

va visto, nella prospettiva giuridico-canonica, quale il soggetto attivo

delle norme divine, il quale, mettendo in pratica tali norme in prima

persona, le rende vive ed operanti. Conformarsi alla legge, la legge

intesa come ius, come un qualcosa di già perfetto in se stesso, è la

strada che il fedele deve perseguire nella sua vita personale, ma anche

nella sua vita in rapporto con gli altri membri della societas ecclesiale.

Nel momento in cui un fedele, mette in pratica una certa condotta,

piuttosto che un'altra, non ha ancora dato attuazione alla norma

divina, ha semplicemente seguito una sorta di istinto15; sarà solamente

quando questa azione verrà svolta dal fedele con la consapevolezza e

la convinzione di mettere in pratica una norma di diritto divino, che la

sua condotta sarà conforme a giustizia, e diverrà per lui strumento di

salvezza.

Come ricordava già S. Ambrogio, circa mille anni prima di San

Tommaso, parafrasando il celebre passaggio della lettera di San Paolo

ai Romani (2, 14 ss), egli definisce la legge naturale la “parola di Dio”

iscritta nel nostro cuore, e aggiunge: “opiniones queaedam nobis boni et

mali pullulaverunt, dum id quod malum est naturaliter intellegimus esse

vitandum et id quod bonum est naturaliter nobis intellegimus esse

praeceptum” (“per questo sono germogliate in noi le idee del bene e del

male, mentre comprendiamo per natura che ciò che è male va evitato,

e parimenti per natura sappiamo che ci è stato prescritto ciò che è

bene”)16. Lo ius è questa conoscenza pratica e, perciò, normativa del

bene e del male morale.

15 Nel caso in cui il fedele, con un moto istintivo, compia un atto che si orienta al bene, sarà infatti, secondo quanto affermato da S. Tommaso, continente, il quale opera bene, ma non in modo virtuoso, bensì in modo imperfetto; vedi sul punto: De malo, q. 3, a. 9, ad 7; In decem libros Ethicorum, libro VII, lect. 3, nn. 1328-1353 e Summa theologiae, I-II, q. 58, a. 3, ad 2. 16 S. AMBROGIO, De Paradiso, 8, 39, la traduzione italiana si trova in SINISCALCO

134

“Così intesa, la legge naturale sta dalla parte del soggetto e,

perciò, è veramente «soggettiva». La sua oggettività - e quindi

l'oggettività delle norme morali fondate su di essa - è data dal fatto che

in questa conoscenza naturale del bene umano si manifesta la verità

della soggettività”17.

A differenza dunque di quanto avviene normalmente per i

soggetti che rispettano le norme di un qualsiasi ordinamento giuridico,

il fedele non conforma la sua condotta alla norma di diritto divino, ad

esempio perché teme una sanzione18, ma perché è convinto che tale

norma è giusta e lo condurrà alla salvezza; ed inoltre perché ha la

intima convinzione che il suo comportamento si inserisce in questo

modo in una società terrena, quale è la Chiesa, ma che è già immagine

di quella celeste. La funzione propria e più tipica del diritto è senza

dubbio quella di stabilire un ordine di giustizia, per il diritto canonico

tale giustizia deve avere l’ulteriore effetto di condurre il fedele e

l’uomo alla salvezza, ma tali finalità non si possono in alcun modo

attuare senza questo soggetto che è l’uomo, il fedele, che attuando

prima di tutto in se stesso tale ius e poi utilizzandolo quale criterio

guida dei suoi comportamenti, fa si che esso sia strumento di salvezza

e mezzo per attuare la giustizia. Proprio con riguardo alla funzione

tipica del diritto è stato giustamente scritto: “Il diritto ha una propria

funzione specifica nient’affatto formale19: quella di attuare la legalità

P. (a cura di), Tutte le Opere di Sant'Ambrogio, 2/I, Milano-Roma 1984, pp. 98-99. 17 RHONHEIMER M., La legge morale naturale: conoscenza morale e coscienza. La struttura cognitiva della legge naturale e la verità della soggettività, in VIAL CORREA J. – SGRECCIA E. (a cura di), Natura e dignità della persona umana a fondamento del diritto alla vita. Le sfide del contesto culturale contemporaneo, Città del Vaticano 2003, anche in www.academiavita.org. 18 O perché il suo comportamento conforme alla legge viene in qualche misura premiato dall’ordinamento, come sostenuto da BOBBIO N., Dalla struttura alla funzione, Milano 1977, cap. I. 19 Quasi tutte le teorie riduzionistiche ritengono al contrario che il diritto non possegga una propria essenza specifica, ma al contrario esso sia la forma di un qualcosa d’altro; sostenitori, con le differenze proprie di ognuno, di tali teorie possono senza dubbio considerarsi Engels e Marx, Croce, Gentile, Schmitt, Kelsen, i quali riducono il diritto a semplice attributo di qualcosa d’altro: per i primi è l’economia, per Croce è l’attività economica, per Gentile è fatto già voluto limitativo della libertà personale, per Schmitt è la politica, per Kelsen è l’ordinamento statale. Si

135

universale secondo giustizia. Ma sappiamo anche che in tale modo si

realizza e garantisce una relazionalità coesistenziale aperta all’uomo in

quanto tale”20. Quanto più queste parole si possono dire valide per un

diritto, quale è quello canonico, per il quale l’uomo e la sua salvezza

rappresentano il fine ultimo e fondamentale. E di conseguenza quanto

fondamentale è il ruolo che il fedele svolge nel rispettare le norme

canoniche ed i principi di diritto divino che stanno alla base delle

norme canoniche stesse.

Ma come si può stabilire il modo attraverso il quale il fedele

rispetta il ius ontologico a prescindere dalla sua manifestazione in una

norma giuridica, di qualunque tipo essa sia (ed in particolare se non

canonizzata)?

Un aiuto ci può venire dalle analisi svolte sempre dalla teologia

morale, la quale, pur nell’ambito della sua specifica competenza, si è

maggiormente interessata di tali tematiche, che tuttavia ci sembra si

possano applicare anche al nostro ragionamento, con gli opportuni

adattamenti.

Parlando della dimensione intenzionale della virtù, in teologia

morale si parla dei fini virtuosi, intendendosi per tali i modi attraverso

i quali si regolano razionalmente le tendenze, i sentimenti, le passioni,

le azioni, richieste per la piena riuscita della vita dell’uomo e del

cristiano, tra tali modi di regolazione si fa rientrare la giustizia21. Tali

fini sono i principi naturali che regolano la ragione pratica, attraverso

la quale l’uomo si orienta ai comportamenti virtuosi, S. Tommaso

afferma: “che sia la prudenza sia le virtù etiche dipendono dalla

ragione in quanto naturale, cioè in quanto naturalmente capace di

vedano in proposito: MARX K. – ENGELS F., L’ideologia tedesca, Roma 1979; CROCE B., Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, Napoli 1907; GENTILE G., I fondamenti della filosofia del diritto, Firenze 1937³, cap. 6; SCHMITT C., I tre tipi di pensiero giuridico, in Le categorie del ‘politico’ , Bologna 1972, pp. 247-275; KELSEN H., Teoria generale del diritto e dello stato, Milano 1994. 20 COTTA S., Il diritto, cit., pp. 185-186. 21 Confronta sul punto le spiegazioni fornite da ABBÀ G., Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, Roma 1995² , pp. 244-250.

136

concepire e prescrivere i fini virtuosi generali della vita buona e certi

tipi di azioni, assolutamente richieste o assolutamente escluse da tali

fini”22. Non può sfuggire come la giustizia sia appunto uno dei fini

morali, la giustizia è dunque ciò che spinge l’uomo, o meglio la sua

parte razionale, ad orientarsi verso quelle azioni, quei comportamenti

che lo conducono alla salvezza. L’uomo dunque si orienta verso lo ius

con l’uso della sua ragione, e così viene portato a compiere quelle

azioni che sono azioni giuste, e che, in quanto tali, conducono alla

salvezza dell’anima. Se a questo ragionamento viene sottratto

l’elemento uomo/fedele, e si sostituisce ad esempio il legislatore, si

capisce subito come il discorso perda il suo elemento principale; è

come se potesse esistere una Chiesa gerarchica senza il Popolo di Dio,

per quanto giuste possano essere le norme dettate dalla Chiesa, la

mancanza di un popolo cui riferirle, le renderebbe per ciò stesso

assolutamente inutili. Come senza l’uomo, che attua la giustizia

secondo quanto gli detta la sua ragione, non si potrebbe nemmeno

discutere di valore della norma, né della norma di diritto divino e

naturale, e, a maggior ragione, nemmeno della legge-norma dettata dal

legislatore umano, così, senza una Chiesa che indichi la retta via da

seguire, anche attraverso un sistema normativo volto a dare una

corretta organizzazione della società ecclesiale, assai arduo sarebbe il

cammino di salvezza che gli uomini sarebbero chiamati a compiere.

L’importanza della Chiesa per la salvezza del fedele, risulterà ancora

più evidente se si considererà il fatto che i fedeli, pur essendo

ontologicamente uguali, in base ad una norma di diritto divino,

tuttavia non sono tali se li si consideri dal punto di vista esistenziale.

In questa prospettiva infatti, appare di tutta evidenza il fatto che ogni

singolo fedele, presenta delle particolarità esistenziali che gli sono

proprie, e dunque, in virtù di esse si differenzia da ogni altro

individuo. Il fatto di vivere in società, comporta la necessità per ogni

22 ABBÀ G., Quale impostazione per la filosofia morale? Ricerche di filosofia morale I, Roma 1996, p. 66.

137

uomo, e per i fedeli che vivono in una società quale è la Chiesa, lo

comporta in modo ancora maggiore, la necessità dicevamo di regole

comuni, che siano in grado di realizzare una armonia fra le regole che

ogni fedele rispetterebbe in quanto lo porterebbero alla salvezza

individuale, e le regole che, stabilendo una forma di convivenza

sociale, siano in grado di garantire tale salvezza, anche nella vita

relazionale che ogni fedele per forza di cose vive.

Lo ius ontologico, essendo inscritto nell’intimo di ogni individuo,

rende possibile l’armonia tra le singole individualità esistenziali e la

uguaglianza ontologica fra soggetti, a prescindere da ulteriori norme

giuridiche, norme che tuttavia, una volta espresse e sempre che siano

in linea con lo ius già di per sé operante, renderanno più facile la

realizzazione di un ordine di giustizia e dunque la salvezza di ogni

uomo. In questa particolare società che è la Chiesa è lecito dunque, con

riguardo al suo ordinamento giuridico, porsi la stessa domanda che il

Servo di Dio Giovanni Paolo II poneva all’inizio della sua enciclica

Veritatis splendor: “i comandamenti di Dio, che sono scritti nel cuore

dell’uomo e fanno parte dell’Alleanza, hanno davvero la capacità di

illuminare le scelte quotidiane delle singole persone e delle società

intere? È possibile obbedire a Dio e quindi amare Dio e il prossimo,

senza rispettare in tutte le circostanze questi comandamenti?”23.

Nessuno Stato, per quanto giuste ed efficaci siano le sue leggi, potrà

mai avere una forza attrattrice sui cittadini simile a quella che

possiede la Chiesa rispetto ai suoi fedeli. Ciò avviene perché, avendo

la Chiesa alla base delle sue leggi-norma un diritto che è di origine

divina, e che proprio in virtù di tale “origine legislativa” è non solo

diritto, bensì ius in senso ontologico, giustizia che porta alla salvezza

eterna, essa non perde di vista il fedele e ciò che per esso è il sommo

bene, e di conseguenza il fedele rispetta tutte le norme perché

percepisce tale finalità ultima come presente in tali norme, ed ancora

23 VS, n. 4.

138

di più nelle norme di diritto divino, ancorché queste ultime non siano

canonizzate in alcuna maniera24. Lo fa perché, nel suo intimo risponde

alle domande poste dalla citata enciclica con un sì, per la prima

domanda, un sì che è sottinteso e sempre operante, e con un no alla

seconda: tutte le volte che il fedele è chiamato ad una scelta giuridica,

si troverà a dover rispondere a tale interrogativo ed a dire di no, non

mi è possibile rispettare questa o quella norma, assumere questo

atteggiamento, perché in contrasto con quanto mi impone il mio senso

di giustizia, verso Dio e verso il prossimo; così facendo il fedele

compie il cammino verso la salvezza, percorrendo una strada difficile,

ma sicura.

Ancora torniamo alla Veritatis splendor, in essa si sottolinea il fatto

che Dio, essendo il Bene, risponde alla domanda su questo bene: “lo ha

fatto creando l’uomo e ordinandolo con sapienza e con amore al suo fine,

mediante la legge inscritta nel suo cuore (cfr. Rm 2, 15), la «legge

naturale». Questa «altro non è che la luce dell’intelligenza infusa in noi

da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si

deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l’ha donata nella

creazione»25”26. Sempre il Catechismo ha cura di sottolineare che i

comandamenti, oltre a contenere la rivelazione di Dio, “Mettono in

luce i doveri essenziali e, quindi, indirettamente, i diritti fondamentali

inerenti alla natura della persona umana”27.

Rispettare lo ius, ricercare la via per la salvezza, seguire ciò che la

Chiesa stabilisce anche dal punto di vista normativo, sono tutti

atteggiamenti che il fedele è chiamato a compiere in spirito di 24 Ricorda a tal proposito De Paolis: “L’uomo può conoscere la legge naturale proprio perchè, fatto ad immagine e somiglianza divina, è fatto partecipe della sua sapienza e quindi reso abile a conoscere la legge divina scolpita nel suo cuore e attraverso di essa riconoscere Dio stesso. Nel deposito della Rivelazione divina, l’uomo, attraverso il ministero della Chiesa, può conoscere la legge divina positiva”, DE PAOLIS V., La Chiesa cattolica e il suo ordinamento giuridico, in Ius Ecclesiae 18 (2006), pp. 3-27. 25 S. TOMMASO D’AQUINO, In duo praecepta caritatis et in decem legis praecepta. Prologus: Opuscola Teologica, II, n. 1129, Ed. Taurinens 1954, p. 245; cfr. ID. Summa theologiae, I-II, q. 91, a. 2 e CCC, n. 1955. 26 VS, n. 12. 27 CCC, n. 2070.

139

imitazione di Cristo. In tale spirito diviene fondamentale il sacramento

del Battesimo, impartito dalla Chiesa, mediante il quale, secondo

quanto dice il can. 96: “l’uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo e in

essa è costituito persona, con i doveri e i diritti che ai cristiani, tenuta

presente la loro condizione, sono propri…”, con ciò non intendendosi,

che gli uomini non battezzati non siano persone, ma che il battezzato,

per mezzo del sacramento, diviene persona in un senso nuovo, e

caratterizzante tutto il suo essere: “Inserito in Cristo il cristiano

diventa membro del suo Corpo che è la Chiesa (cfr. 1Cor 12, 13.27). Sotto

l’impulso dello Spirito, il Battesimo configura radicalmente il fedele a

Cristo nel mistero pasquale della morte e risurrezione, lo «riveste» di

Cristo (cfr. Gal 3, 27)”28. Rivestiti di Cristo attraverso il dono del

battesimo, i fedeli sono in grado di comprendere in modo più perfetto,

con l’aiuto della fede, ciò che è già stato infuso in loro; certamente il

battesimo è il punto di partenza, che non significa rinuncia ad attuare

personalmente la giustizia, sempre sarà necessario da parte del fedele

l’impegno personale, anche una volta Cristo-conformato per mezzo

del sacramento battesimale. Lo Spirito Santo “diventa” la legge viva

nel cuore del fedele29, come sottolineava anche S. Giovanni

Crisostomo: “gli Apostoli non discesero dal monte portando, come

Mosè, delle tavole di pietra nelle loro mani; ma se ne venivano

portando lo Spirito Santo nei loro cuori…, divenuti mediante la sua

grazia una legge viva, un libro animato”30.

28 VS, n. 21. 29 Anche S. TOMMASO D’AQUINO sottolinea come, la legge (la legge del Nuovo Testamento) è inscritta nel cuore di ogni cristiano, per mezzo dello Spirito: “Ora, la cosa che nel nuovo Testamento è principale, e che ne costituisce la virtù, è la grazia dello Spirito Santo, derivante dalla fede di Cristo. Perciò la nuova legge principalmente è la stessa grazia dello Spirito Santo, concessa a coloro che credono in Cristo. Ciò si rileva chiaramente da quanto scrive l’Apostolo, il quale chiama «legge» la stessa grazia della fede. «Dov’è dunque li tuo vanto? È escluso. Per quale legge? Quella delle opere? No, ma per la legge della fede»”, e, citando S. Agostino: “«la legge della fede è stata scritta nel cuore dei fedeli, come la legge delle opere era stata scritta nelle tavole di pietra»”, in Summa theologiae, I-II, q. 106, a. 1. 30 S. GIOVANNI CRISOSTOMO, In Mattaeum, hom. I, 1: PG 57,15; cfr. anche Rm 2, 14-16; 2Cor 3, 3 e Ger 31, 33.

140

La Chiesa, all’interno di questa realtà di comprensione della legge

da parte del fedele, svolge un ruolo fondamentale ed insostituibile:

“All’interno della Tradizione si sviluppa, con l’assistenza dello Spirito

Santo, l’interpretazione autentica della legge del Signore. Lo stesso

Spirito, che è all’origine della Rivelazione dei comandamenti e degli

insegnamenti di Gesù, garantisce che vengano santamente custoditi,

fedelmente esposti e correttamente applicati nel variare dei tempi e

delle circostanze. Questa «attualizzazione» dei comandamenti è segno

e frutto di una più profonda penetrazione della Rivelazione e di una

comprensione alla luce della fede delle nuove situazioni storiche e

culturali”31.

4.2.1. Fedele e sensus fidei.

Come è stato autorevolmente affermato, riprendendo le tesi del

card. Newman32: “Il sensus fidei, che si traduce nel consensus fidelium,

finisce con l’essere la coscienza collettiva della Chiesa. È il volto nuovo

del consenso e della partecipazione corresponsabile dei fedeli alla vita

di comunione; è il criterio finale, la meta ultima e la forma ideale di

vita nell’ordinamento ecclesiale. […] La recezione della fede e delle

norme che la traducono nella vita quotidiana dell’ordinamento è

conferma di verità, è un’altra forma della comunione ecclesiale; capace

di creare una sostanziale parità fra laici e chierici, di porre entrambi in

modo uguale sotto l’unica Parola del Signore, il carisma del sensus fidei

appare il «momento genetico comune», che supera ormai la rigida

contrapposizione della due classi medioevali”33.

31 VS, n. 27. 32 NEWMAN J. H., Sulla consultazione dei fedeli in materia di dottrina, Brescia 1991. L’opera fu pubblicata per la prima volta col titolo On Consulting the Faithful in Matters of Doctrine, nel 1859, sulla rivista The Ramblers, e poi ristampata col medesimo titolo, ma con alcune aggiunte, nel 1871 come appendice alla terza edizione dell’opera Gli ariani nel IV secolo. 33 BERTOLINO R., «Sensus fidei», carismi e diritto nel popolo di Dio, in GEROSA L. (a cura di), Antropologia, fede e diritto ecclesiale, Milano 1995, p. 90.

141

In una continua dinamica esistente tra Chiesa e fedele, il fedele

giudica in coscienza e si orienta al bene ed al giusto, evitando il male,

lo fa perché ispirato dallo ius, il quale è legge divina, ed in quanto tale

universale e permanente, esso si conosce per mezzo della ragione

pratica: “Il soggetto che agisce assimila personalmente la verità

contenuta nella legge: egli si appropria, fa sua questa verità del suo

essere mediante gli atti e le relative virtù”34. Quello che il fedele

possiede è una sorta di sensus legis, che opera in lui proprio in virtù del

sacramento battesimale ricevuto nella Chiesa. Questo sensus legis,

analogamente con quanto avviene con il sensus fidei35, è la capacità del

fedele, non solamente di obbedire o conformarsi a ciò che la Chiesa

statuisce con le sue leggi-norma, ma anche e soprattutto è la capacità

di discernere, come per istinto, ciò che è concorde con uno ius

superiore da ciò che non lo è, o addirittura è in contrasto con esso;

sensus legis è pure la capacità di trarre conseguenze giuridiche più

approfondite partendo dalle leggi ecclesiali36, non attraverso un

34 VS, n. 52. 35 Tale espressione non è molto frequente nei testi patristici, e nemmeno nella teologia scolastica, pare comunque che nel suo senso attuale sia stato per la prima volta utilizzato da S. VINCENZO DI LERINIS (?-ante 450†) nel Commonitorium, 23, in PL, L, 669. Tale termine, che trova poi numerosi riscontri nella letteratura ecclesiastica da S. Agostino al Concilio di Trento a Pio IX e Pio XII, è utilizzato dalla Chiesa in varii documenti del Concilio Vaticano II: Lumen gentium, nn. 12 e 35, Presbyterorum Ordinis, n. 9, Gaudium et spes, n. 52. In particolare LG, n. 12, ricorda: “L’universalità dei fedeli che tengono l’unzione dello Spirito Santo, non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità il Popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero, al quale fedelmente conformandosi accoglie non la parola degli uomini, ma qual è in realtà, la parola di Dio, aderisce indefettibilmente alla fede una volta trasmessa ai santi, con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita”. 36 È bene ricordare che il sensus fidelium è uno degli elementi che possono valutarsi ai fini della elaborazione dottrinale; si veda sul punto: NEWMAN J. H., Sulla consultazione dei fedeli, cit. Si vedano anche: RATZINGER J., Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Milano 1993, p. 92; BERTOLINO R., ‘Sensus fidei’, carismi e diritto nel Popolo di Dio, in Ius Ecclesiae 7 (1995), p. 183. Per una analisi della evoluzione del concetto nel recente magistero ecclesiale si veda: VAN LEEUWEN B., La partecipazione comune del Popolo di Dio all’ufficio profetico di Cristo, in BARAÚNA G., La Chiesa del Vaticano II. Studi e commenti intorno ala Costituzione dommatica «Lumen gentium», Firenze 1965, in partic. pp. 481-490. L’A. così chiarisce il significato da attribuirsi a tale sensus fidelium: “La trasmissione di

142

ragionamento necessariamente giuridico, ma spontaneamente,

attraverso una conoscenza per connaturalità. A tal proposito S.

Tommaso afferma, con riferimento al dono della sapienza che : “la

rettitudine del giudizio può derivare da due fonti diverse: primo, dal

perfetto uso della ragione; secondo, da una certa connaturalità con le

cose di cui si deve giudicare”37, è dunque possibile affermare che il

fedele, arriva a conoscere lo ius e di conseguenza ad attuarlo, non

solamente per una conoscenza diretta dello ius, magari derivante da

una conoscenza delle norme canoniche che lo rendono in qualche

modo manifesto, ma per un sensus legis per mezzo del quale, nel caso

concreto, il fedele si orienta alla giustizia, ed evita il male. Il fedele,

analogamente a quanto avviene per il sensus fidei, possiede tale

capacità di orientarsi al giusto, grazie allo Spirito Santo che opera in

lui, e dunque sarebbe impossibile affermare che solamente le leggi

date dal legislatore umano rappresentano l’unico modo, per il fedele,

di orientarsi alla giustizia. Questa valutazione di giustizia fatta per

connaturalità, può naturalmente essere errata, perché condizionata

dalle inclinazioni errate del fedele, spetterà dunque, nel caso concreto,

questa rivelazione non avviene solo come trasmissione autoritativa di una dottrina, ma come vivente attualità di questa rivelazione nell’intera vita della Chiesa. Per cui il popolo di Dio diviene il portatore e lo strumento di questa tradizione vivente ed il magistero apostolico in seno alla comunità assolve alla funzione di guidare autenticamente e quindi autoritativamente questo popolo e di giudicare della fede secondo la sua concordanza con la parola normativa di Dio nella Tradizione e nella Scrittura. […] La conoscenza di fede deve essere intesa nel significato biblico sopra indicato. È una conoscenza della volontà di Dio, dei suoi precetti e promesse e dei segni sacramentali che Cristo ha dato a noi nella sua Chiesa. È una conoscenza ferma della volontà salvifica di Dio ed un abbandonarsi ad essa, così come ci è apparsa in Cristo e come, per mezzo dello Spirito di Dio, viene continuamente rinnovata e corroborata nella sua Chiesa. […] Forse è poco esatto parlare qui di infallibilità. Cioè, non si tratta direttamente di dommi proposti infallibilmente. Potremmo piuttosto parlare di una fedeltà comune e solida o di un senso indefettibile della fede. Ma si deve ritenere che si tratta anche della reale conoscenza di un contenuto dommatico autentico, anche se in questo comune senso della fede questo contenuto non viene fissato come tale in dommi. […] È una conoscenza dommatica, dal momento che lo Spirito produce un’autentica intelligenza dei misteri della fede nel popolo di Dio che ascolta piamente la parola di Dio risonante nella Chiesa. Per cui questa conoscenza comune della fede porta in sé già il germe e per conseguenza l’istanza e la necessità di una riflessione teologica”, BARAÚNA G., op. cit., p. 485. 37 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II-II, q. 45, a. 2; si confronti anche con II-II, q. 97, a. 2, ad 2.

143

all’interprete, stabilire se l’atteggiamento del fedele sia stato rispettoso

o meno del diritto divino, naturale e positivo. Nel caso poi, che la

valutazione di giustizia per connaturalità, non sia suscettibile di un

giudizio da parte di un giudice-interprete, perché magari non

coinvolge gli interessi di una pluralità di fedeli, la valutazione sulla

corrispondenza di un orientamento al bene ed al giusto avverrà

esclusivamente nel foro interno, ma di questo aspetto ci occuperemo

più avanti nel corso del nostro lavoro.

La possibilità di conoscere per mezzo del sensus legis, ciò che è

giusto fare38, e che dunque porta come conseguenza la salvezza,

salvezza che si ottiene naturalmente attraverso la somma continua di

comportamenti pratici orientati al giusto, in quanto rispettosi dello ius

ontologicamente inteso, non è una semplice conoscenza delle norme,

ma è una vera e propria comprensione del giusto, che porta al rispetto

dello ius in quanto tale, in senso ontologico appunto, e non in quanto

rispetto di una norma positiva. La legge-norma è sufficiente

conoscerla, la semplice conoscenza di essa è di per sé sufficiente al

fedele per rispettarla, ma per lo ius le cose funzionano diversamente, è

necessario comprenderlo, perché solo la comprensione di esso porta il

fedele ad applicarlo, ad orientarsi alla giustizia che è intrinseca in tale

ius, giustizia che non è umana, ma è dettata direttamente da Dio, e solo

in virtù di ciò può chiamarsi in senso pieno ed assoluto giustizia.

Questo sensus legis è ciò che fa sì che la libertà del fedele non si tramuti

in arbitrio, ma al contrario orienta la ragione al rispetto delle regole di

giustizia, fa sì che il fedele si conformi alla volontà divina. D’altra

parte in qualsiasi ordinamento il cittadino possiede una propria

38 Si veda: SEMERARO M., Mistero, comunione e missione, cit., p. 62, il quale ricorda che: “l’universalità dei fedeli sotto la guida del sacro magistero si orienta, per soprannaturale istinto, verso la verità rivelata, si da accoglierla, aderirvi indefettibilmente, penetrare in essa con retto giudizio e più pienamente applicarla alla vita. Invisibilmente ma realmente attivo nell’intero popolo di Dio, il senso della fede si manifesta nel consenso dei pastori e dei fedeli in cose di fede e di morale”, ed aggiungiamo di giustizia, in quanto, come avremo modo di vedere, essa difficilmente può separarsi dalla dimensione morale.

144

autonomia e libertà in ordine al rispetto delle norme: “di modo che la

regola o la misura immediata dei suoi atti viene data per l’atto

d’imperio della sua propria ragione pratica”39; solo che, mentre in un

qualsiasi ordinamento, essendo le norme che lo compongono volte

solamente al mantenimento dell’ordine sociale dello stato o

dell’organismo sociale cui fanno riferimento, non assume particolare

rilevanza il perché il consociato si orienti al rispetto delle norme, nella

Chiesa, il motivo di tale conformazione alle norme divine assume una

rilevanza immensa, visto che attraverso il rispetto di tali norme il

fedele raggiunge la salvezza, che nella sua dimensione escatologica

diviene definitiva.

Come è stato giustamente osservato: “la ragione umana non è

autonoma, ed agisce quindi rettamente solo se segue l’ordine tracciato

da Dio, legislatore trascendente che è insieme il fine ultimo dell’uomo

stesso; questa legge suprema della realtà creaturale è la lex aeterna

come ordinamento divino della realtà creaturale, per cui l’uomo agisce

rettamente se si piega dinanzi all’autorità dell’essere (ordo rerum) che le

è essenzialmente proporzionato”40. Quello che noi abbiamo definito

come sensus legis, è connaturale all’uomo in quanto gli proviene per

legge naturale, se, come sosteneva S. Tommaso: “La legge naturale

null’altro è che partecipazione della legge eterna nella creatura

ragionevole”41; per cui, tornando all’autore citato poc’anzi: “l’uomo è

capace di capire se stesso, che cosa egli sia, che cosa significhi per lui

essere e agire, di scoprire la sua chiamata o vocazione, il significato

della sua personalità e del suo rapporto con Dio, con gli altri uomini e

con l’universo intero nella concreta realtà storica, con l’esperienza e la

sua ragione, anche senza una speciale rivelazione soprannaturale,

avvertendo e riconoscendo quei principi fondamentali, dati da Dio,

39 HERVADA J., El ordenamiento canónico, cit., p. 131, (la traduzione è nostra n.d.r.) 40 PIZZORNI R., Il diritto naturale fondamento e criterio di giustizia del diritto positivo e della sua obbligatorietà, in Sapienza 37 (1984), p. 294. 41 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 91, a. 2.

145

che regolano il suo agire da uomo, sia in rapporto a se stesso, sia in

rapporto agli altri”42.

A proposito della legge naturale, di questo diritto non scritto

seguendo il quale l’uomo è in grado di orientarsi al bene ed al giusto

per sé e per gli altri, Maritain utilizza tale definizione: “Un ordine o

una disposizione che la ragione umana può scoprire e secondo la quale

la volontà umana deve agire per accordarsi ai fini necessari dell’essere

umano”43, è tale diritto: “il primo, il più radicale e sia pur embrionale

ordine di giustizia tra gli uomini, è il diritto naturale che fa della

persona umana il fondamento primo ed il fine ultimo di tutta la vita

umana politicamente associata”44.

La necessità che il diritto positivo si conformi a tale diritto più

alto, affinché possa anche il diritto positivo godere di un più alto grado

di considerazione da parte del cittadino o del consociato, proprio

perché è in prima istanza da lui che scaturisce il diritto, grazie al suo

sensus legis, veniva sottolineata tra gli altri dal Carnelutti: “il vero è che

s’illude di credere al diritto naturale chi non sa che il diritto naturale

governa il diritto positivo, non solo nel senso che, se non ci fosse il

diritto naturale, il diritto positivo non ci sarebbe, quanto nel senso che,

se non si conforma al diritto naturale, il diritto positivo non può

operare”45, non può operare, anche in quanto, l’uomo (sia egli fedele o

meno) dovrebbe necessariamente conoscerlo, mentre, nel caso del

diritto naturale la conoscenza di esso è razionale e connaturale

all’uomo, e dunque direttamente operante in quanto applicato dal

soggetto nelle situazioni concrete46.

42 PIZZORNI R., Op. cit., p. 294-295. 43 MARITAIN J., I diritti dell’uomo e la legge naturale, Milano 1977, p. 56. 44 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai giuristi cattolici, n. 4, 6.XII.1980, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III-2, Città del Vaticano 1980, pp. 1596-1601. 45 CARNELUTTI F., Discorsi intorno al diritto, vol. II, Padova 1953, p. 84. 46 L’idea che l’uomo con l’uso della retta ragione, operante in esso in modo naturale, possa discernere ciò che nelle leggi, anche quelle esclusivamente umane, vi è di giusto ed utile alla salvezza, è da sempre un insegnamento tipico dei padri della Chiesa, così come di certa filosofia pagana. È quanto afferma S. Paolo in Rm 2, 14-15:

146

Tuttavia il fedele possiede al massimo grado tale senso della

legge (e intendiamo la legge che proviene dal diritto inteso come ius

superiore e che contiene in sé il senso vero della giustizia, e non come

legge umana pura e semplice), lo possiede in quanto fonda tale senso

sulla sua fede in Dio, fede che gli rende possibile credere con certezza

che: “Dio c’è, e Dio sa creare la giustizia in un modo che noi non siamo

capaci di concepire e che, tuttavia, nella fede possiamo intuire”47.

Se è vera l’affermazione di Lo Castro, per il quale:

“l’interpretazione del diritto è così essenziale per la sua attuazione, che

si può dire che non vi è diritto che non sia diritto interpretato; e

nell’interpretazione il più delle volte, la stessa attuazione si esaurisce;

poiché proclamata la norma che deve guidare l’azione secondo

giustizia, individuato il diritto, l’azione può seguire senza bisogno di

ulteriori fasi costrittive, accessorie ed eventuali”48, allora si dovrà

riconoscere al fedele la possibilità di essere interprete giuridico del

caso concreto, il quale viene da ciascuno ricondotto a criteri di

giustizia, non secondo una libera interpretazione personale, la quale

correrebbe il rischio (lo ripetiamo ancora una volta) di essere semplice

arbitrarietà, bensì secondo quel senso di giustizia, che orienta il fedele

al compimento del bene, di quel bene che solo lo condurrà alla

salvezza. Questo processo così essenziale per l’uomo e per il fedele in

modo particolare, veniva pure evidenziato dal Capograssi, il quale

ricordava: “La funzione mediatrice, che è parte così essenziale

dell’esperienza giuridica, qui appare nella sua più vitale ed evidente

centralità. La duplice composizione di ogni norma, di essere se stessa e

“Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono”. Vedi pure: 1Cor 11, 14 ; S. AMBROGIO, Epistolae 60, 5; 73, 2, 3, 10; S. AGOSTINO, De civitate Dei, 19, 12; 14-16; CICERONE, De inventione 2, c. 53, § 161. 47 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Spe salvi, n. 43, 30.XI.2007, in AAS 99 (2007), pp. 985-1027. 48 LO CASTRO G., Il mistero del diritto. I. Del diritto e della sua conoscenza, Torino 1997, pp. 141-142.

147

di essere la norma suprema, […] implica la continua mediazione tra

situazione concreta norma particolare e norma suprema. Solo una viva

coscienza umana può operare, traverso la riflessione sopra questi

termini del difficile rapporto, tale mediazione, e riportare la

particolarità del caso alla norma e questa alla norma suprema, alla

universalità del suo imperativo […] Qui è tutto l’uomo giudice che è

impegnato nel giudizio, nella mediazione tra la norma e la vita, con la

sua fede la sua coscienza la sua più integrale responsabilità”49. Tale

imprescindibile funzione mediatrice, nel caso del fedele è svolta

orientandosi secondo quello che noi qui abbiamo chiamato sensus legis,

che porta il fedele al rispetto dello ius ontologico, segno di giustizia e

strumento di salvezza per l’uomo rigenerato in Cristo. Il fedele,

sempre in virtù di questa sua capacità intrinseca di orientarsi al giusto,

è portato, come conseguenza, a rispettare pure tutte quelle leggi-

norma di diritto umano, che a tale giustizia si ispirano e che verso di

essa conducono, non tanto per “sottomettersi” ad esse, come si è

sottolineato50, quanto piuttosto perché questo orientarsi al giusto fa

parte della umana natura rigenerata dal sacramento battesimale.

Questa libertà della ragione che consente al fedele di orientarsi al

giusto, non deve essere vista come un diritto, assimilabile a quelli di

stampo positivistico, per cui esso assurge a regola assoluta e in quanto

tale, portatrice di un individualismo esasperato. Il fedele deve sempre

essere considerato nella duplice realtà in cui vive, quella personale e

quella comunitaria di membro del popolo di Dio: “L’ordine salvifico

ecclesiale assume il rischio della libertà delle persone, e unicamente

laddove esista una manifesta incompatibilità con le esigenze della

comunione potrà essere impedito l’esercizio di un diritto […] nessun

«bene comune» può giustificare il prescindere da qualunque singola

persona umana, poiché essa rimane sempre il bene comune

49 CAPOGRASSI G., La certezza del diritto, cit., pp. 22-23. 50 Vedi il già citato (Parte II, cap. 1, p. 77) passo di BERLINGÒ S., Giustizia e carità nell’economia della Chiesa, cit., p. 89.

148

primordiale di ogni società. La salvezza di ognuno, nel suo

raggiungimento escatologico e nel suo concreto itinerario storico, è un

bene comune della Chiesa, ossia la realizzazione personale della

comunione con Dio e con i fratelli in cui consiste la stessa Chiesa”51.

Dal canto suo la Chiesa, non è dunque insensibile a questa aspirazione

dell’uomo al giusto, non può esserlo, se vuole essere vero strumento di

salvezza, e difatti è senz’altro un’esigenza della stessa Chiesa

istituzione quella di cercare: “di dare forma e concretezza storica a

quelle relazioni di giustizia che Dio stesso ha posto nel cuore

dell’uomo, e a cui ogni persona umana anela”52. La chiesa ed il fedele

sono quindi i due poli di queste relazioni di giustizia: “Ne consegue

che ricercando il «giusto» del singolo, il suo vero bene in relazione con

gli altri, si ricerca anche il bene di quella peculiare società umana e

divina che è la Chiesa, perché la salvezza delle anime di tutti

comprende sempre quella del singolo fedele. O, in altri termini, il bene

comune e il bene della singola persona coincidono, e si postulano

reciprocamente per inverarsi in quella salus animae che risolve tale

duplicità, sì che se vi è uno, vi è pure l’altro”53.

Per utilizzare le parole del Bonnet, si può dire che da un lato la

dimensione comunitaria è il “«limite» necessario, del quale il diritto

non potrà non tenere conto nel preformare negativamente e

positivamente l’ambito di sviluppo”54, e d’altra parte il fedele

rappresenta all’opposto, il limite per il diritto canonico, il quale non

potrà mai prevaricare quei diritti del fedele che gli provengono dalla

sua condizione di libertà, in quanto figlio di Dio. Già il Lombardia,

sottolineava che: “È importante, perciò, che resti ben chiaro che non si

tratta tanto di dare fondamento a un diritto soggettivo di oggetto

51 ERRÁZURIZ C. J., La salus animarum tra dimensione comunitaria ed esigenze individuali della persona, cit., pp. 338-339. 52 BETTETINI A., Umano e divino nel diritto della Chiesa, in Il diritto ecclesiastico 114 (2003), p. 1301. 53 BETTETINI A., Op. cit., p. 1311; cfr. pure: BERTOLINO R., Il nuovo diritto ecclesiale tra coscienza dell’uomo e istituzione, Torino 1989, pp. 154-155. 54 BONNET P. A., «Habet pro conditione…», cit., p. 598.

149

determinato per ogni pretesa mozione dello Spirito, quanto invece di

riconoscere al fedele un ambito di autonomia privata sufficientemente

ampio perché nella vita della comunità ecclesiale si realizzino con

larghezza le iniziative dei suoi membri. È qui che entra in gioco il

correlativo dovere giuridico di tutti: non ostacolare la libertà cristiana

che a tutti compete, posto che essa libertà è la condizione del Popolo di

Dio”55.

Nel rispetto da parte del fedele della norma di diritto divino,

certamente si può riscontrare uno dei momenti più alti di questa

libertà, visto che questo è uno dei momenti in cui il fedele si determina

in modo personale, nel compimento di quella via che lo conduce alla

propria salvezza.

In questo rispetto delle norme di diritto divino operato dal fedele,

senza dubbio non è estranea l’opera dello Spirito Santo: “La presenza

dello Spirito Santo in noi ci comunica la grazia di farci inserire nel

colloquio di amore del Padre e del Figlio, rendendoci parte viva e

operante. Lo Spirito Santo in tal modo ci fa conoscere il cuore del

Padre, per capirne i pensieri e accogliere la sua volontà, aprendo la

nostra mente verso la infinita sua sapienza. Da ciò deriva che vediamo

e capiamo le cose come le vede e le intende Dio; ci rendiamo

disponibili ad amare il mondo e i fratelli come li ama il Padre, in grado

di riconoscere e accettare la verità secondo la sua parola. Nella

comunione filiale si sente tutta la gioia di essere i figli suoi, immersi

nel suo amore, partecipi della sua vita, operanti della sua potenza”56.

Si tratta anche di interpretare in modo corretto la libertà che possiede il

battezzato, libertà che è appunto fare la volontà del Padre celeste, non

dunque arbitrarietà nei comportamenti, bensì una spinta ad agire,

poiché è guidato dalla forza interiore che proviene dallo Spirito57. Fare

la volontà del Padre, non significa essere assoggettati a lui, quasi in

55 LOMBARDÍA P., Rilevanza dei carismi personali nell’ordinamento canonico, cit., p. 16. 56 LAVATORI R., L’Unigenito dal Padre, cit., p. 198. 57 Vedi: LAVATORI R. Op. cit., p. 199.

150

forza di un obbligo giuridico, tale sottomissione al contrario: “sgorga

spontanea dall’animo del credente, in quanto questi porta in sé la

parola di Gesù, è avvinto dalla sua verità. La disponibilità quindi

nasce dall’interiorizzazione della verità (cfr. 2Gv 2), che in ultima

analisi è frutto dello Spirito. Lo Spirito della verità insegna nell’intimo

del discepolo le parole di Gesù (Gv 14, 26), gliele fa comprendere e

amare, gli dà la capacità di concretizzarle nel senso giusto e di fare di

esse il senso della propria vita e la luce orientativa delle proprie

scelte”58.

Perciò non si tratta di non soggezione del cristiano ad alcuna

forma di legge, come pure ricorda S. Paolo: “Che dunque? Ci

metteremo a peccare perché non siamo sotto la Legge, ma sotto la

grazia? È assurdo!” (Rm 6, 15), ma si tratta invece di una diversa

disposizione interiore del cristiano rispetto alla legge, disposizione che

si forma grazie alla azione dello Spirito, che dà al cristiano una legge

che ha una diversa natura: “Questa non è più un sistema di ordini

precisi o l’imposizione di certi comandamenti, ma è una legge che lo

Spirito adempie in noi; è una forza soprannaturale che trasforma il

nostro cuore; è un principio di azione che muove dal di dentro l’animo

umano”59. Per mezzo di Cristo si sono avverate le profezie vetero

testamentarie, di Geremia ed Ezechiele: “Questa sarà l’alleanza che

concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore

–: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io

sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31, 33); “vi darò un

cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi

il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito

dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e

mettere in pratica le mie norme” (Ez 36, 26-27)60. Ecco dunque lo

58 Ibidem, p. 203. 59 Ibidem., p. 213. 60 Questo passo di Ezechiele, è stato così modificato dalla nuova traduzione italiana della Bibbia (2009), si è in pratica cambiato il termine statuti con leggi e leggi con norme; tale traduzione esplica ancor meglio il senso delle nostre considerazioni.

151

spirito con cui il cristiano deve osservare la legge data da Dio, che non

viene mai cancellata dalle norme del legislatore umano, che

eventualmente, conformandosi ai dettami della legge divina assumono

una maggiore forza nei confronti del fedele; torniamo dunque alle

parole del teologo: “La legge non è stata dunque abolita, ma è stato

cambiato lo spirito con cui va obbedita. Non si tratta più di sottostare

ai comandamenti, quanto piuttosto di obbedire all’amore di Dio che è

stato riversato nei nostri cuori. […] Non è dunque facile la vita del

cristiano, quasi potesse fare ciò che gli pare o potesse usare della

propria libertà a vantaggio di se stesso; anzi egli deve essere al servizio

totale e perseverante di Dio e dei fratelli […] Tuttavia il cristiano, per

vivere coerentemente il suo stato di figlio redento, non ha bisogno di

una legge che eserciti una costrizione esteriore su di lui, ma, animato

dallo Spirito e dalla carità, adempie ogni legge nella piena libertà dei

figli di Dio”61.

Che lo Spirito, operando nel cuore dei fedeli, li porti a compiere

la volontà del Padre, è pensiero espresso in modo molto chiaro da S.

Tommaso, il quale, a tal proposito sottolinea: “La legge può essere

detta, in un primo modo, Spirito Santo… Infatti lo Spirito Santo,

inabitando nella mente, non solo insegna ciò che bisogna fare,

illuminando l’intelletto su ciò che si deve fare, ma anche inclina

l’affetto ad agire rettamente… In un secondo modo, la legge dello

Spirito può essere detta un effetto proprio dello Spirito Santo, cioè la

fede che opera attraverso l’amore. Essa infatti insegna nell’intimo ciò

che si deve fare…e inclina l’affetto ad agire… Tale legge dello spirito

viene detta legge nuova, la quale o è lo stesso Spirito Santo, o è quella

che lo Spirito Santo opera nei nostri cuori”62. Sempre secondo S.

Tommaso la libertà propria del cristiano dipende dal motivo della sua

adesione al bene; nel commentare il brano di 2Cor 3, 17 (“Il Signore è

61 Ibidem, p. 214. 62 S. TOMMASO D’AQUINO, Super Ep. S. Pauli lectura, ad Rom, Torino-Roma 1953, I, 8,1, nn. 602-603.

152

lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà”) S. Tommaso

evidenzia una volta di più l’importanza dell’atteggiamento interiore

del fedele allorquando si trova a dover decidere come comportarsi nel

caso concreto: “È libero chi è causa di sé: il servo invece è comandato

dal padrone; chiunque agisce per se stesso, agisce liberamente; chi

invece è mosso da un altro non agisce liberamente. Colui dunque che

evita il male, non perché male, ma in forza del comando del Signore,

non è libero; ma chi evita il male, perché è male, questi è libero. Ciò è

quello che fa lo Spirito Santo, il quale perfeziona interiormente la

mente per mezzo di una forza abituale buona63, affinché si astenga dal

male per amore, come se glielo comandasse la legge divina; e per

questo si dice libero, non perché si è sottomesso alla legge divina, ma

perché è stato mosso dalla forza buona a fare ciò che ordina la legge

divina”64.

Il rispetto delle norme date dal legislatore umano, ad imitazione

di quanto avviene per le norme di origine divina, è dunque momento

fondamentale della vita di ogni cristiano, ma non può diventare il

momento principale di essa: è necessario che vi sia una adesione

interiore del fedele alla norma, adesione che non vi può essere

allorquando la norma si ponga in contrasto con i precetti delle norme

divine naturali e positive. In questa adesione che viene mossa dallo

Spirito, si rinviene la vera libertà del cristiano, il quale aderisce alla

norma perché capisce che tale norma è per la sua salvezza, e dunque si

conforma ad essa in piena libertà interiore, per compiere la volontà del

Padre celeste, alla quale il legislatore canonico si conforma nella sua

opera normativa65.

63 Che in teologia morale viene chiamato il fine virtuoso. 64 S. TOMMASO D’AQUINO, Super Ep. S. Pauli lectura, II ad Cor, Torino-Roma 1953, I, 3,3, n. 112. 65 S. AGOSTINO nelle sue, Confessioni 7. 3. 5. descrive con parole assai incisive il dilemma dell’uomo di fronte alla scelta del bene da compiere; tuttavia Agostino scorge proprio nella volontà l’elemento che fa percepire all’uomo non solamente ciò che è giusto fare, ma anche ciò che non si deve fare: “Mi sforzavo di vedere ciò che udivo sulla libera determinazione della volontà come causa del male che facciamo, e

153

l'equità del tuo giudizio (Sal 118.137) come causa di quello che subiamo, ma non riuscivo a scorgerla chiaramente. Tentavo di spingere lo sguardo della mia mente fuori dall'abisso, ma vi ricadevo di nuovo; ripetevo i tentativi, ma ricadevo di nuovo e di nuovo. Una cosa mi sollevava verso la tua luce: la consapevolezza di possedere una volontà non meno di una vita. In ogni atto di consenso o rifiuto ero certissimo di essere io, non un altro, a consentire e rifiutare; e di trovarmi in quello stato a causa del mio peccato, lo capivo sempre meglio. Invece, degli atti che compivo mio malgrado mi riconoscevo vittima piuttosto che attore e li giudicavo non già una colpa, bensì una pena inflittami da te giustamente, non esitavo ad ammetterlo considerando la tua giustizia. Ma a questo punto mi chiedevo: «Chi mi ha creato? Il mio Dio, vero? che non è soltanto buono, ma la bontà in persona. Da chi mi viene dunque il consenso che dò al male e il rifiuto che oppongo al bene? Accade così per farmi scontare giusti castighi? Ma chi ha piantato e innestato in me questo, virgulto d'infelicità (cfr. Eb 12, 15), se sono integralmente opera del mio dolcissimo Dio? E se fossi creatura del diavolo, donde viene a sua volta il diavolo? Se anch'egli diventò diavolo, da angelo buono che era, per un atto di volontà perversa, questa volontà maligna che doveva renderlo diavolo donde entrò anche in lui, fatto integralmente angelo da un creatore buono?». Queste riflessioni tornavano a deprimermi, a soffocarmi, ma non riuscivano a trascinarmi fino al baratro di quell'errore ove nessuno ti confessa (cfr. Sal 6, 6), preferendo assoggettare te al male, che crederne l'uomo capace”; la traduzione italiana si trova in: www.augustinus.it/italiano/confessioni/.

154

4.3. Obblighi e diritti di tutti i fedeli come mezzi strumentali alla

ricerca della giustizia e per la salvezza dell’anima.

Le leggi-norma canoniche sono strutturali rispetto allo ius

ontologico, ovvero le leggi-norma sono date in funzione dello ius,

servono ad articolare la struttura dello ius secondo quelli che sono gli

obiettivi del legislatore, in un dato momento storico contingente.

Certamente, come visto e ribadito più volte nel corso della nostra

trattazione, lo ius non è derogabile dalle leggi-norma, tuttavia queste

possono articolarsi in vari modi, così da esplicare lo ius secondo le

molteplici esigenze, che sono necessarie affinchè le leggi norma

possano svolgere in modo coerente la loro funzione.

In questo senso obblighi e diritti di tutti i fedeli, rappresentano

uno dei punti in cui l’ordinamento canonico esprime al massimo grado

il rapporto tra le norme positive e quelle di diritto divino, dal

momento che esse sono volte a regolamentare tutte quelle

caratteristiche proprie del fedele il quale, come visto, rappresenta il

punto focale di tutto l’ordinamento, e che ne rappresentano un vero e

proprio statuto giuridico.

L’importanza di tali norme inserite, in seguito alla mancata

approvazione del progetto della LEF (Lex Ecclesiae Fundamentalis)1, nel

Codice, è evidente ed è stato sottolineato da più parti, anche da chi si

era espresso in modo sfavorevole alla citata LEF2. All’indomani della

promulgazione del nuovo Codice il Lombardia aveva a dire: “il Codice

di Diritto Canonico ha formalizzato i diritti e i doveri fondamentali del

fedele nei cann. 208-223. Si tratta di un titolo del corpo normativo che

1 Sulla storia di tale progetto e sulla sua mancata approvazione si veda: CENALMOR D., La ley fundamental de la Iglesia. Historia y analisis de un proyecto legislativo, Pamplona 1991; MONTAN A., Obblighi e diritti di tutti i fedeli. Presentazione e commento dei cann. 208-223 del Codice di diritto canonico, in Apollinaris 60 (1987), pp. 546-582. Per i testi dei due primi schemi della LEF (maggio 1969 e luglio 1970) si veda: BOELENS O. G. M., Synopsis “Lex Ecclesiae Fundamentalis”, Lovanio 2001. 2 Per una analisi della particolare posizione assunta dal Corecco, contrario alla definizione di fondamentali, con riguardo ai diritti dei fedeli, si veda: CENALMOR D., Los derechos fundamentales en el ambito canónico. Origen y terminos de la discusion, in Fidelium iura 15 (2005), pp. 11-32.

155

formalmente non si distingue dal resto del Codice, però ha un

indiscutibile contenuto costituzionale e molti dei diritti che proclama e

dei doveri che impone si fondano sul diritto divino. Da ciò si deve

attribuirgli una prevalenza […] che porti ad interpretare le altre norme

in modo coerente con i diritti ed i doveri fondamentali, assicurandone

la effettiva applicazione, incluso nei confronti di norme legali

canoniche che eventualmente possano disconoscerli”3. Dello stesso

parere Hervada, il quale sottolinea la prevalenza delle norme inserite

in questa prima parte del Libro II del CIC e la necessità della loro

prevalenza su qualsiasi altra, anche dal punto di vista pratico, tanto

che sottolinea come, pur avendo lo stesso rango normativo delle altre,

tuttavia: “in quanto sono di diritto divino, hanno una forza tale, che la

legislazione positiva deve interpretarsi conformemente a questi

(canoni n.d.r.), affinché prevalgano sulle norme umane che non siano

coerenti con questi, e i giudici devono risolvere i casi in modo che i

diritti si riconoscano e si garantiscano”4.

I cann. 204-207, costituiscono una sorta di presupposto necessario

alla successiva elencazione fatta nel Titolo I del Libro II, di obblighi e

diritti di tutti i fedeli5. Tali canoni rappresentano premesse necessarie

3 LOMBARDÍA P., Lecciones de Derecho Canónico, Madrid 1984, pp. 81-82; (la traduzione italiana è nostra n.d.r.). Vedi anche nel medesimo senso: FORNÉS J., El principio de igualdad en el ordenamiento canónico, in Fidelium iura 2 (1992), pp. 118 ss, in particolare l’A. sottolinea come: “non solo non ci sono inconvenienti ma al contrario risulta più corretto e chiarificatore, nella tecnica giuridica, qualificare i diritti dei fedeli enunciati nei cann. 208-223 come diritti fondamentali. E questo perché si tratta di diritti innati – iura nativa – alla condizione di libertà e di dignità del fedele […] anteriori a qualsiasi formalizzazione giuridico-positiva; e, pertanto, con la caratteristica di essere diritti costituzionali, come dire, che integrano la costituzione stessa della Chiesa”, p. 137; (la traduzione italiana è nostra n.d.r.). 4 HERVADA J., Commentario sub Tit. I, P. I, Lib. II del CIC, in Codigo de Derecho Canonico. Edicion anotada, Pamplona 1983; (la traduzione italiana è nostra n.d.r.). 5 Per l’iter legislativo seguito relativamente al Libro II dell’attuale CIC, si veda, fra gli altri: CENALMOR D., “Iter” esquematico y fuentes de las obligaciones y derechos de todos los fieles en el CIC y en el CCEO, in Fidelium iura 5 (1995), pp. 51-84. Sul medesimo argomento si vedano anche: BOELENS O. G. M., Synopsis, cit.; D’OSTILIO F., La storia del nuovo Codice di Diritto Canonico. Revisione-Promulgazione-Presentazione, cit.; LA TERRA P., La formalizzazione dei diritti-doveri fondamentali dei fedeli nei progetti di Lex Ecclesiae Fundamentalis fino al Codex Iuris Canonici del 1983, Roma 1994; PUDUMAI DOSS J., Freedom of Enquiry and Expression in the Catholic Church. A Canonico-Theological Study, Bangalore 2007, pp. 7-15 e pp. 36-44; ŽUŽEK I., La «Lex

156

anche per comprendere il senso dei successivi diritti ed obblighi, dal

momento che affrontano questioni che si pongono alla base dei

medesimi.

In particolare, ci preme di soffermarci sul can. 207 § 1; in tale

norma infatti si specifica in che senso debba essere intesa la

costituzione gerarchica della Chiesa. Il canone in esame non elenca

requisiti necessari a tale differenziazione, né stabilisce una

differenziazione di valore tra i fedeli, basata sulla loro condizione

personale. In esso si sottolinea invece l’esistenza, “per istituzione

divina”, di diverse “modalità” di essere dei fedeli, “modalità” che

dipendono da scelte indipendenti e personali, e che caratterizzano

l’essere stesso del soggetto che tali scelte compie. Questa libera scelta

del fedele, questa “modalità” di essere, non comporta una sua

maggiore o minore importanza nell’ambito della società ecclesiale, ma

solamente un diverso ruolo.

Nel momento attuale si è portati a pensare alla diversità come ad

un elemento discriminatorio, laddove si pretenderebbe di trasformare

la società in un unico blocco monolitico, nel quale ciascuno dovrebbe

essere assolutamente uguale all’altro, con i medesimi diritti (meno

spesso con i medesimi doveri), trasformando così i soggetti in una

sorta di cloni, privati delle caratteristiche individuali proprie di

ognuno. Questa visione totalizzante, anche se può astrattamente

sembrare giusta, tuttavia non è la visione ecclesiale, così come ce l’ha

tramandata Cristo; la Chiesa infatti riconosce le particolarità proprie di

ciascuno e le valorizza, anche dal punto di vista giuridico, tenendo

conto delle peculiarità rappresentate dalla scelta di uno stato di vita,

scelta che avviene in modo assolutamente libero, e che tutti i fedeli, in

quanto battezzati, sono in grado di compiere. Coloro che scelgono di

Ecclesiae Fundamentalis» et les deux codes, in L’année canonique 40 (1998), pp. Per un confronto sulla tecnica legislative utilizzata nel Codice latino e nel successivo Codice delle Chiese orientali relativamente a tali argomenti si veda: GARCÍA HERVÁS D., Los derechos de los fieles en los Codigos latino y oriental, in Fidelium iura 2 (1992), pp. 55 ss.

157

non ricevere il sacramento dell’ordine non perdono in alcun modo la

loro dignità di fedeli, ma sanno che hanno scelto di non svolgere

determinate funzioni che sono riservate solamente a coloro che

assumono lo stato clericale. In termini giuridici: il fedele non ordinato

parteciperà all’esercizio dei tria munera, ma in modo differente da

come li esercita colui che invece ha liberamente scelto di divenire un

ministro ordinato.

Al n. 10 della Costituzione conciliare Lumen gentium, si pone la

differenza tra sacerdozio comune dei fedeli e sacerdozio ministeriale o

gerarchico6 i quali, pur differendo tra loro, sono tuttavia strettamente

collegati: “Il primo è un sacerdozio esistenziale, fondato sui sacramenti

dell’iniziazione cristiana. Esso fa del battezzato colui che ha accesso

direttamente a Dio per offrirsi a lui e offrirgli il mondo in un sacrificio

spirituale il cui contenuto è la sua stessa vita. Il secondo è un ministero

ricevuto attraverso il dono di un altro sacramento e comporta la

missione di esercitare di fronte al popolo di Dio la missione del Cristo

che lo ammaestra, lo santifica, lo raduna. Il secondo è ordinato al

primo, non gli è né inferiore né superiore, bensì è di un altro ordine”7.

Compreso il valore delle differenze tra i fedeli, che derivano

sempre dalla libera scelta di ciascuno, condizionata da una particolare

vocazione personale, è possibile capire in modo più chiaro gli aspetti

giuridici che da tali differenze discendono.

Il can 208, sancisce il cosiddetto principio di uguaglianza tra i

fedeli, dal quale “scaturisce la dottrina dei «diritti fondamentali del

fedele», che è uno degli elementi più importanti della concezione

moderna del diritto costituzionale canonico, e che si concretizza in un

sistema di riconoscimento, di tutela e di promozione dei diritti

6 Si veda anche, con la medesima impostazione, il Decreto conciliare Presbyterorum ordinis, n. 2, in AAS 58 (1966), pp. 991-1024. 7 CAVALLI G., Il sacramento dell’ordine, in AA. VV. Sacramentaria Speciale. II, Bologna 2003, p. 232.

158

fondamentali nella Chiesa”8. La norma in esame discende

direttamente, in modo pressoché letterale, dalla Costituzione Lumen

Gentium, la quale al n. 32 dispone: “Uno è quindi il Popolo eletto di

Dio: «un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4, 5);

comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo,

comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione, una

sola la salvezza, una sola la speranza e indivisa la carità. Nessuna

ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o

nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché «non c’è né Giudeo,

ne Gentile, non c’è schiavo né libero, non c’è né uomo né donna: tutti

voi siete ‘uno’ in Cristo Gesù» (Gal 3, 28; cfr. Col 3, 11)”.

Pur non potendo considerarsi tali affermazioni come una novità

dal punto di vista dottrinale9, tuttavia esse lo sono nell’ambito della

codicistica canonica, laddove la codificazione del 1917, non prevedeva

una norma analoga10, senza che si possa tuttavia escludere la vigenza

di tale uguaglianza anche in assenza di esplicita norma positiva,

dovendo tale principio “essere considerato connaturale con l’essenza

dell’ordinamento canonico”11.

Non tutta la dottrina canonistica si è dimostrata concorde

nell’affermare l’effettiva vigenza del principio di uguaglianza

all’interno dell’ordinamento canonico proprio sul presupposto che il

permanere del principio gerarchico12, a fianco del principio di

uguaglianza, sarebbe inconciliabile con la volontà di una uguaglianza

reale13.

8 BERTONE T., Sistematica del Libro II – I «christifideles»: doveri e diritti fondamentali, in Apollinaris 56 (1983), p. 437. 9 Vedi: LO CASTRO G., Il soggetto e i suoi diritti, cit., p. 174-175. 10 Vedi: BARRAL I., Tavola di corrispondenze CIC 17 – CIC 83, in ARRIETA J. I. (diretto da), Codice diDiritto Canonico, cit., pp. 1345–1384. 11 LO CASTRO G., Op. cit., p. 175. 12 Sulla possibilità di conciliare il principio di uguaglianza con quello gerarchico si veda, fra gli altri: DALLA TORRE G., Il Popolo di Dio, in AA. VV., La nuova legislazione canonica, Roma 1983, pp. 136 ss. 13 Una soluzione alla contemporanea valenza dei principi di uguaglianza e di diversità, veniva data, già prima della attuale codificazione, da PELLEGRINO P., Gli

159

In particolare il Condorelli ha avuto modo di sottolineare come il

tentativo di conciliare una Chiesa gerarchica con una Chiesa basata sul

principio di uguaglianza tra fedeli: “si riduce, se non ad un mero

bisticcio di parole, ad una mescolanza di concetti i quali sul piano

puramente logico-giuridico risultano fra loro evidentemente

inconciliabili, a meno che non siano riferiti a dimensioni diverse, l’una

non giuridica e l’altra giuridica”14.

Pur non condividendo tale ultima affermazione, essa ci sembra

interessante al fine di meglio specificare le caratteristiche del principio

di uguaglianza tra tutti i fedeli. Certamente il can. 208, si riferisce a

dimensioni differenti, ma tali dimensioni non differiscono sul piano

della giuridicità, per cui, seguendo il ragionamento del Condorelli, vi

sarebbe una costituzione gerarchica, con basi giuridiche, ed accanto,

ma un po’ in ombra, un principio di uguaglianza destinato a rimanere

inteso solo in un senso restrittivo, o, per usare le parole dell’A.: “A

prescindere comunque dalla congruenza di queste argomentazioni –

più precisamente, dal problema dell’effettiva connessione fra la

distinzione di diritto divino tra chierici e laici e l’affermata

conseguente struttura della Chiesa come societas inaequalis in relazione

agli status dei fedeli, consequenzialità della quale sia lecito dubitare –

sta di fatto che le concrete scelte operate dal legislatore hanno

«status» ed il principio di uguaglianza nell’ordinamento canonico, in Il diritto ecclesiastico 84 (1973), pp. 220 ss., il quale, concludeva il suo intervento così riassumendo: “il principio di uguaglianza non soltanto non costituisce un principio affatto in contrapposizione ed in perfetta antitesi con il fenomeno della diversità degli status canonici, ma costituisce perfino un principio che contribuisce in definitiva alla armonica ricostruzione del complesso fenomeno inerente alla personalità giuridica. Perché, alle affermazioni sopra premesse, scaturisce come logica conclusione che, se il principio di uguaglianza opera sul piano della potenzialità in quanto non è altro che il presupposto concettuale della nozione tecnico-giuridica della personalità elaborata come qualità astratta preliminare e generale, al contrario il fenomeno relativo agli status canonici si fonda su una diversa concezione che opera e si svolge non più sul piano della potenzialità, bensì sul piano dell’attualità. Il che significa ancora che, se di uguaglianza deve parlarsi a proposito dei christifideles, ciò può accadere esclusivamente sul piano della potenzialità, laddove, se deve parlarsi di disuguaglianza e di diversità in relazione agli status e alle funzioni, ciò deve farsi invece sul piano della capacità giuridica, vale a dire sul piano dell’attualità”. 14 CONDORELLI M., I fedeli nel nuovo Codex Iuris Canonici, in Il diritto ecclesiastico 95 (1984), pp. 790-791.

160

approdato, a mio avviso, ad un’affermazione di uguaglianza dei fedeli

la quale vive nella realtà normativa profondamente ridimensionata”15.

Secondo quanto affermato in contrario da Hervada: “Il principio

d’uguaglianza non presuppone l’inesistenza nella Chiesa della

distinzione essenziale tra sacerdozio ministeriale – distinzione che

certamente si dà –, né della diversità di grazie e di carismi, né della

distinzione tra secolari e religiosi o tra fedeli comuni e fedeli di vita

consacrata. […] Ciò che il principio d’uguaglianza presuppone è

l’inesistenza di classi o di specie di fedeli, classi o specie di persone,

classi o specie di cristiani. E proprio questo non si dà. Esiste, pertanto,

un piano d’uguaglianza – compatibile con la distinzione gerarchica ed

il principio di varietà – in cui tutti sono ugualmente fedeli ed

ugualmente cristiani. Su questo livello si dà la vocazione universale

alla santità ed un’azione comune a tutti in ordine all’edificazione del

Corpo di Cristo. In questo tutti sono uguali. E tutti sono uguali rispetto

allo statuto giuridico di fedele, vale a dire per gli aspetti che

appartengono all’insieme dei diritti e dei doveri fondamentali del

fedele”16.

Le dimensioni alle quali si riferisce il can. 208 attengono al

diverso ambito giuridico cui il canone fa riferimento: da un lato

l’ambito di diritto divino, dall’altro l’ambito del diritto umano.

L’uguaglianza dei fedeli si estrinseca in due ambiti: nella dignità

e nella azione17. Il primo ambito è un ambito di diritto divino, di quello

ius che fa parte integrante di ogni norma anche positiva, la dignità18 di

ogni fedele rimane tale sempre, è una dimensione che è parte

integrante ed indissolubile della condizione di fedele.

15 CONDORELLI M., Op. cit., p. 794. 16 HERVADA J., Pensieri, cit., p. 88. 17 Dal punto di vista della storia della codificazione, si veda in argomento: BONI G., L’uguaglianza fondamentale dei fedeli, cit., in partic. pp. 57-78. 18 Quello della dignità del fedele è un tema fondamentale della riflessione cristiana, S. Leone Magno esclamava: “Agnosce, cristiane, dignitatem tuam”, Sermones XXI, 3, in PL 54, 192.

161

Anche nell’agire concreto poi, tutti i fedeli sono considerati

uguali, tuttavia, tale uguaglianza si svolge in forme concrete differenti,

e tali forme sono determinate dalle leggi umane, che devono tenere

presente la condizione che caratterizza lo stato che ciascun fedele ha

liberamente scelto di seguire. Nell’agire dunque si manifesta la

diversità tra i fedeli, ma non è una diversità in opposizione col

principio di uguaglianza, bensì rientra sempre in un’ottica di pari

dignità di ogni fedele, dignità che solo nella uguaglianza è rinvenibile.

Non a caso nella seconda parte del can. 208 si precisa che, proprio

in forza del principio di uguaglianza tutti cooperano alla edificazione

del Corpo di Cristo, ma “secondo la condizione e i compiti propri di

ciascuno”. La diversità di diritti e di doveri nell’agire, non comporta

una differenza tra i fedeli tale da intaccare il principio di uguaglianza

che vige fra loro, anzi, è una diversità necessaria, e d’altra parte

presente non solamente nell’ordinamento canonico, e pure al di fuori

di contesti normativi. Per quello che qui interessa, è bene sottolineare

come, la diversità nella azione sia indispensabile per la salvezza dei

fedeli, dal momento che, se si dovesse applicare il principio di

uguaglianza in modo radicale, diverrebbe assai difficile tale finalità. A

diversità di stato, appartengono infatti diversi diritti, ma pure diversi

doveri, cui non tutti sarebbero in grado di dare una sufficiente

applicazione. Spesso il fatto di sostenere la necessità di una

uguaglianza radicale tra soggetti del medesimo ordinamento, è una

posizione dettata dal fatto che ci si dimentica dei doveri che spettano a

ciascuno nello stato e nel ruolo che occupa nell’ambito di quel dato

ordinamento, enfatizzando invece la dimensione dei diritti. È stato

giustamente affermato, a commento del can. 208, che esso: “non

sembra anteporre l’agire all’essere, anzi, secondo il classico assioma

«agere sequitur esse», fa seguire dall’uguaglianza nella dignità la

uguaglianza nell’azione e dalla diversa condizione una diversità nelle

162

funzioni ecclesiali”19, ciò avviene precisamente per i motivi sopra

citati, ovvero che la uguaglianza nella dignità e la uguaglianza

nell’azione discendono da presupposti giuridici distinti: di diritto

divino per la prima, di diritto umano (per quanto attiene alla

dimensione pratica) per la uguaglianza nell’agire.

Se si considerano diritti e doveri dei fedeli, come mezzi

strumentali al conseguimento di determinate finalità, quali la

costituzione di un ordine giusto e la salvezza delle anime, non si può

non notare come, il principio di uguaglianza, possa essere applicato in

modo radicale solo per quanto riguarda la dignità intrinseca della

persona fedele, e non per tutto quanto riguarda le necessarie

differenze nella azione concreta di ogni singolo all’interno della

Chiesa, Corpo mistico di Cristo. Diversamente, diritti e doveri, non

sarebbero più mezzi strumentali al conseguimento delle due finalità

indicate, ma diventerebbero, al contrario, motivo di ingiustizia e di

dannazione.

Il fatto di riconoscere come necessaria una diversità funzionale

tra fedeli, significa comprendere l’uomo e di conseguenza il fedele,

nella sua realtà ontologica, riconoscendo che, pur nella uguaglianza

fondamentale, ciascun individuo presenta tuttavia delle particolarità

che lo differenziano da qualsiasi altro individuo20; inoltre, ai

sacramenti della iniziazione cristiana, che rendono i fedeli tutti

ugualmente degni, si aggiungono eventualmente altre

caratterizzazioni, sempre di ambito sacramentale21, le quali, a motivo

19 DIQUATTRO G., Lo statuto giuridico dei «christifideles» nell’ordinamento di diritto canonico, in Apollinaris 59 (1986), p. 81. 20 “Come l’uguaglianza non è uniformità, così la diversità non è pluralità disorganizzata. La diversità, infatti, comporta dimensioni costitutive che concorrono a strutturare il Popolo di Dio nella sua fase organizzativa istituzionale”, INCITTI G., Il popolo di Dio. La struttura giuridica fondamentale tra uguaglianza e diversità, Città del Vaticano 2007, p. 29. 21 Sulle distinzioni dovute alla condizione sacramentale propria dei singoli fedeli si sofferma TASCIOTTI F. M., Diritti e doveri dei battezzati, in Studi cattolici 31 (1987), p. 520: “nel secondo libro del vigente codice si procede secondo una via per così dire sacramentale, ossia innanzitutto vi è la contemplazione della realtà di tutti i fedeli della Chiesa nella loro sacralità battesimale, che unica li incorpora legittimamente al

163

di scelte personali e libere, comportano una ulteriore specifica

caratterizzazione personale che non intacca il principio di uguaglianza,

ma solamente differenzia il modo con cui ogni fedele dovrà svolgere il

proprio compito nel mondo e nella Chiesa.

In pratica, seppure con il Concilio Vaticano II non si sia eliminata

totalmente la distinzione per status del Popolo di Dio, quanto meno a

livello di esercizio di funzioni, tuttavia si è riconosciuto come: “la

costituzione della Chiesa ha il suo primo fondamento nel battesimo

(da ciò il rilievo che assume la categoria del fedele cristiano e

l’affermazione della sostanziale uguaglianza di tutti i battezzati), ma

non si escludono gli altri sacramenti e carismi sui quali si fonda la

diversità funzionale dei battezzati (si pensi all’ordine sacro, al

matrimonio e agli altri carismi dati dallo Spirito per l’edificazione del

corpo di Cristo)”22.

D’altra parte la condizione propria di ciascuno, più volte ribadita

quale elemento caratterizzante la diversità dei singoli pur

nell’uguaglianza nella dignità che è propria di tutti i fedeli, non può

essere considerata come prevalente rispetto alla dignità che il fedele

possiede intrinsecamente in quanto battezzato, che non muta mai,

nemmeno nella diversità di condizioni.

Pone l’accento sull’importanza della dignità derivante dal

sacramento battesimale, prima e vera fonte dell’uguaglianza fra tutti i

fedeli, anche il Feliciani, il quale sottolinea come questa sia una delle

peculiarità emerse nel corso del Vaticano II: “Quest’affermazione

popolo di Dio; quindi si passa allo studio della sacramentalità ministeriale, ossia dei chierici, che sono particolarmente deputati al servizio del culto, della istruzione e del governo della Chiesa, considerando anche che ormai nello stato clericale non si entra più con la ricezione della tonsura, che era atto non sacramentale, ma con l’imposizione delle mani del vescovo che consacra almeno al diaconato, ossia al primo grado del vero e proprio sacramento dell’Ordine sacro”. 22 LONGHITANO A., Laico, persona, fedele cristiano. Quale categoria giuridica fondamentale per i battezzati?, in AA. VV. Il fedele cristiano. La condizione giuridica dei battezzati, Bologna 1989, p. 49. Sull’importanza di una ecclesiologia pneumatologica, proprio relativamente all’aspetto della comunione, si veda: RATZINGER J., La comunione nella Chiesa, Cinisello Balsamo 2004. “È lo Spirito che crea la Chiesa”, p. 61. Si veda anche CONGAR Y., Credo nello Spirito Santo, II, Brescia 1982.

164

(quella del can. 208, n.d.r.), quasi testualmente ripresa da un passo

conciliare (LG n. 32, n.d.r.), non fa altro che mettere in luce una

conseguenza giuridica di quella appartenenza al popolo di Dio che,

prima e al di là della distinzione tra chierici e laici, richiamata dal

canone immediatamente precedente, accomuna tutti i battezzati.

Infatti poiché questo popolo «ha per condizione la dignità e la libertà

dei figli di Dio» e l’incorporazione ad esso avviene mediante il

battesimo, tutti i battezzati, senza alcuna distinzione, sono partecipi di

tale dignità”23.

Nella lettura del principio di uguaglianza giuridica fra i fedeli, ci

si è troppo spesso soffermati sul fatto che da tale condizione

dovrebbero discendere uguali diritti e doveri, quasi simmetricamente

a quanto avviene per i moderni ordinamenti civili, al contrario si è

perso di vista il vero contenuto del principio di uguaglianza24, che è e

rimane quello della uguale dignità fra tutti i fedeli come: “principio

della dignità della persona umana da cui derivano quei diritti, ancorati

al diritto divino naturale, volti alla tutela dell’uomo e del battezzato, in

specie, validi ed esercitabili fin quando non contrastino con i principi

del diritto divino positivo”25.

23 FELICIANI G., Obblighi e diritti di tutti i fedeli cristiani, in AA. VV. Il fedele cristiano. La condizione giuridica dei battezzati, Bologna 1989, pp. 64-65. 24 A proposito del principio di uguaglianza un noto storico del diritto commentava: “L’uguaglianza giuridica di noi moderni, che è uguaglianza borghese, uguaglianza formale di persone concretamente disuguali, appare alla Chiesa come una mostruosità. Nei tribunali canonici di sempre, anche in quelli odierni, sarebbe inconcepibile la scritta ‘la legge è uguale per tutti’, che noi laici amiamo ostentare con ingenua vanagloria nelle nostre aule giudiziarie, perché la legge canonica non può essere uguale per tutti se tutti non sono concretamente uguali, perché la legge canonica – che non è garanzia formale ma aiuto sostanziale – deve tener conto delle humanae fragilitates che ha di fronte e, per ordinarle adeguatamente, deve conformarsi ad esse, sacrificare logicità, sistematicità, unitarietà formali ed ‘elasticizzarsi’ come una veste che vuole essere aderente ai diversi corpi sottostanti” , GROSSI P., L’ordine giuridico medievale, cit., p. 120. 25 PARLATO V., I diritti dei fedeli nell’ordinamento canonico, Torino 1998, p. 14. L’A., specie per quanto riguarda la prevalenza del diritto divino positivo sul diritto divino naturale, riprende le idee espresse da CORECCO E., Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società, in CORECCO E. – HERZOG N. – SCOLA A. (a cura di), I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società, Milano 1981, p. 1228.

165

Non si può dimenticare che diritti ed obblighi di tutti i fedeli,

riguardano appunto quella particolare figura che è il fedele che si

distingue, non solo a livello terminologico, dall’uomo tout court.

Questa peculiarità, che distingue in maniera particolarissima il diritto

canonico da corrispondenti elencazioni di diritti e doveri in ambito

civile26, (che pure possono presentare elementi di comunanza con

quelli riconosciuti dal diritto ecclesiale) è fondamentale; come

giustamente osservato: “per comprendere la naturalezza dei diritti

fondamentali del fedele è necessario conoscere la dignità del fedele,

non solo la dignità dell’uomo. Si esige siano affermati i dati naturali ed

anche quelli soprannaturali. Le esigenze della dignità umana e le

esigenze della filiazione divina e del sacerdozio comune. E si richiede

inoltre di comprendere la dignità del fedele non in modo isolato, bensì

nel seno della comunione con Dio e con gli altri fedeli nel Corpo di

Cristo”27.

Proprio per il fatto che il fedele è parte della Chiesa, sorgono

fondamentali distinzioni fra i diritti-doveri riconosciutigli all’interno

di essa, ed i diritti e doveri che si riconoscono all’uomo in un

ordinamento giuridico statuale, nel diritto canonico diritti e doveri non

vanno visti “come realtà metagiuridiche, essi fanno parte della legge

canonica che non è la volontà stessa di Dio, ma sono mezzi per

raggiungere tale volontà divina. I diritti e i doveri dei fedeli sono

mezzi legati ad una realtà visibile, il Popolo di Dio, e sono

26 “Le difficoltà avanzate da una parte della dottrina per qualificare i diritti dei fedeli come fondamentali derivano, in buona misura dalla concezione della «fondamentalità» dei diritti della persona umana. Se questi vengono concepiti in modo illuminista-liberale diventano assolutamente inapplicabili al diritto della Chiesa. Ma la vera questione consiste piuttosto nel domandarsi se tale retroterra ideologico sia adeguato per qualsiasi ordine giuridico. Se, come riteniamo, tale retroterra è in sé stesso inadeguato per qualunque diritto, allora spariscono le più gravi ragioni che possono indurre ad evitare la nozione di diritto fondamentale del fedele. Il ricorso alla nozione di communio rinforza ulteriormente questa conclusione nell’ambito del diritto della Chiesa, nel quale non ha senso la bipolarità concorrenziale fra individuo e società” ARRIETA J. I., voce Diritto soggettivo, II) Diritto Canonico, in Enciclopedia Giuridica, XI, Roma 1989, p. 6. 27 OTADUY J., Derechos de los fieles (1980-2000), in Fidelium iura 10 (2000), pp. 49-50; (la traduzione italiana è nostra n.d.r.).

166

storicamente posteriori ad essa, ma connessi dal comune fine di

tendere alla salvezza dell’uomo. La «sacramentalità» del diritto

canonico nulla toglie alla sua giuridicità, ma conferisce alle norme

canoniche, quindi ai riconosciuti diritti dei fedeli, una istanza decisiva

che la norma civile non possiede poiché si rivolge «a posteriori» alla

persona attraverso quella visione parziale, e talora deformata, che

della persona ha la collettività in un determinato periodo”28. La

persona, che per mezzo del battesimo viene incorporata alla realtà

ecclesiale, si trova in una condizione differente da quella in cui si trova

un qualsiasi consociato di qualsivoglia ordinamento giuridico, il fedele

è immerso in una realtà, assolutamente unica, la Chiesa, la quale, dal

punto di vista istituzionale rappresenta: “tutto ciò che nella comunione

trascende le singole persone. Tuttavia, in quei rapporti che si

instaurano con la Chiesa istituzionale non va dimenticato che il vero

protagonista è la persona. Pertanto la nuova situazione giuridica in cui

viene a trovarsi la persona grazie al battesimo consiste essenzialmente

in un vincolo comunionale che lo lega con tutti i suoi fratelli nella

Chiesa: è nei loro riguardi che esistono i diritti e i doveri battesimali, i

quali ovviamente anche possiedono pieno valore nel rapporto con la

Chiesa quale istituzione, essendo questo rapporto finalizzato alle

stesse persone”29.

Nella Chiesa, e di conseguenza nel suo sistema normativo, diritti

ed obblighi assumono dunque un significato del tutto particolare; essi

devono essere visti come strumenti, piuttosto che come il luogo

giuridico in cui vengono riconosciute determinate caratteristiche del

consociato. Diritti ed obblighi sono gli strumenti attraverso i quali si

garantisce ai fedeli quel minimo di indirizzo normativo per lo

svolgimento, all’interno della realtà ecclesiale, della loro missione, che

vede nella salus animarum il suo fine ultimo. Se invece si volessero

28 DIQUATTRO G., Lo statuto giuridico dei «christifideles», cit., p. 93. 29 ERRÁZURIZ C. J., Riflessioni sul rapporto tra battesimo e situazione giuridico-canonica della persona, in Fidelium iura 6 (1996), pp. 148-149.

167

leggere diritti e doveri, allo stesso modo di quelli che sono i diritti e

doveri dell’uomo, o del cittadino, riconosciuti da un qualsiasi

ordinamento giuridico civile, si riscontrerebbe in essi solamente un

limite alla libertà di ogni singolo consociato.

Il fedele invece deve vedere in questi canoni le linee guida del

proprio operare all’interno della Chiesa; tali diritti ed obblighi, sono

solo una parte di quello che potremmo denominare statuto del fedele,

in quanto disciplinano alcuni aspetti del vivere ecclesiale, senza nulla

togliere a tutto quanto fa parte dell’essere persona, e persona

battezzata, in senso generale.

A tal proposito possiamo pensare alla rilevanza che assumono i

carismi personali nella definizione dello statuto del fedele all’interno

dell’ordinamento canonico; carismi che, pure esistenti, non trovano un

loro esplicito riferimento nelle norme codiciali riguardanti i fedeli.

Come messo in luce anche nella Costituzione Lumen gentium: “lo

Spirito Santo non solo per mezzo dei sacramenti e ministeri santifica il

Popolo di Dio e lo guida e adorna di virtù, ma «distribuendo a

ciascuno i propri doni come piace a Lui» (1Cor 12, 11), dispensa pure

tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e

pronti ad assumersi varie opere e uffici, utili al rinnovamento e alla

maggiore espansione della Chiesa, secondo quelle parole: «A ciascuno

la manifestazione dello Spirito è data perché torni a comune

vantaggio» (1Cor 12, 7). E questi carismi, straordinari o anche più

semplici e più comuni, siccome sono soprattutto adatti e utili alle

necessità della Chiesa, si devono accogliere con gratitudine e

consolazione. […] il giudizio sulla loro genuinità e ordinato uso

appartiene all’Autorità ecclesiastica, alla quale spetta soprattutto di

non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è

buono (cfr. 1Ts 5, 12 e 19-21)”30. Anche se il CIC, come accennato non

prevede canoni che trattino espressamente in forma giuridica del

30 LG, n. 12.

168

valore dei carismi nella Chiesa31, tuttavia si ritiene che essi non

possano essere eliminati da una trattazione riguardante lo statuto del

fedele nella Chiesa, giacchè essi a pieno titolo rientrano tra gli elementi

che caratterizzano la persona e influiscono anche sul perseguimento

dei fini dell’ordinamento canonico.

I carismi, in quanto doni ricevuti da Dio, non sono a disposizione

del singolo, ma devono essere messi al servizio della comunità

ecclesiale tutta, al tempo stesso la Chiesa deve garantire la libera

autonomia e libertà del fedele affinché possa sviluppare al meglio i

carismi ricevuti. Ecco che dai doni, ricevuti dallo Spirito, sorgono

obbligazioni giuridiche, sia da parte del fedele, sia da parte della

autorità ecclesiastica. Tali obbligazioni non sono forse indicate nel

Codice con riferimento ai carismi personali, ma tuttavia sono

ugualmente tutelate dal diritto canonico, in quanto doni gratuiti dello

Spirito, concessi per la migliore edificazione della Chiesa di Cristo32.

Tale relazione tra carisma e diritto è stata efficacemente

tratteggiata da Lombardia: “posto che la Chiesa è stata fondata da

Cristo, in modo che l’azione dello Spirito non influisca su di essa

solamente per via gerarchica, ma anche mediante i carismi personali,

destinati ad essere esercitati ordinatamente e al servizio della comunità,

non sembra che si possa dubitare sul piano del Diritto divino della 31 Sarebbe peraltro interessante valutare il rapporto giuridico esistente tra i carismi personali e le associazioni di fedeli, dal momento che i fondatori delle associazioni e coloro che vi aderiscono, sono il più delle volte animati da un particolare carisma che costituisce la spinta alla creazione della associazione e successivamente allo sviluppo e all’ordinato operare della medesima. I cann. 298 e 327, peraltro, fanno esplicito riferimento allo spirito cristiano che deve animare le attività e l’opera delle associazioni. Uno studio in proposito, anche se oramai datato, è quello di DEL PORTILLO A., Ius associationis et associationes fidelium iuxta Concilii Vaticani II doctrinam, in Ius canonicum 8 (1968), pp. 5 ss. 32 Ricorda a tal proposito il CCC, n. 2003: “La grazia è anzitutto e principalmente il dono dello Spirito che ci giustifica e ci santifica. Ma la grazia comprende anche i doni che lo Spirito ci concede per associarci alla sua opera, per renderci capaci di cooperare alla salvezza degli altri e alla crescita del Corpo di Cristo, la Chiesa. […] Sono inoltre le grazie speciali chiamate anche «carismi» con il termine greco usato da san Paolo, che significa favore, dono gratuito, beneficio. Qualunque sia la loro natura a volte straordinaria, come il dono dei miracoli o delle lingue, i carismi sono ordinati alla grazia santificante e hanno come fine il bene comune della Chiesa. Sono al servizio della carità che edifica la Chiesa”.

169

necessità che l’ordine ecclesiale sia strutturato in maniera tale che il

diritto aiuti i fedeli nell’esercizio dei propri carismi. Perciò il diritto ad

esercitare i carismi è una manifestazione del disegno divino riguardo

l’ordine giuridico della Chiesa-comunità”33.

Ecco che non si può valutare efficacemente lo statuto del fedele,

solamente avendo presente il dato normativo, per quanto esso possa

essere efficacemente utilizzato per delimitare i confini entro cui si

possa ordinatamente sviluppare tale statuto, è necessario a tale scopo

avere presenti molteplici aspetti, tutti ugualmente importanti e tutti

compenetratisi tra loro. Quando si riconosce ai fedeli un certo ambito

di autonomia e di libertà, questi non debbono essere letti come si

leggerebbero in un qualsiasi ordinamento positivo, per cui nessuno

può intromettersi nella sfera dei diritti propri del singolo (salvo poi

venire totalmente privata tale sfera, di fronte ad interessi pubblicistici

“superiori”), ma al contrario, l’autorità interviene per meglio

sviluppare tali ambiti, per far fruttare, ad esempio, i doni dello Spirito,

che altrimenti rischierebbero di rimanere incompresi.

In un sistema come quello canonico, il fedele è obbligato non

solamente a livello giuridico dai canoni di cui si sta qui discutendo,

avendo egli obblighi di tipo ad esempio morale che a quelli giuridici si

affiancano, e che non sempre possono essere canonizzati, ma che non

per questo non sono fonte per ogni battezzato di diritti ed obblighi,

parimenti importanti per conseguire la salvezza. Proprio in virtù di

tale caratteristica, che fa parte della condizione stessa del battezzato,

non si possono né comprendere, né applicare i canoni in oggetto,

attenendosi a criteri di tipo esclusivamente positivistico. Il fedele,

nell’accostarsi a questi canoni, deve anzitutto chiedersi, in relazione ad

una situazione concreta di applicazione, in che cosa consista il suo

diritto o il suo obbligo, visti non come rivendicazione o costrizione, ma

33 LOMBARDÍA P., Relevancia de los carismas personales en el ordenamiento canonico, in Ius canonicum 9 (1969), p. 112.

170

come strumento per compiere un altro decisivo passo verso la salvezza

finale.

In questa prospettiva è indispensabile che il fedele si interroghi,

di volta in volta, per capire quale sia la cosa giusta da fare o da non

fare, in una analisi che lo porterà a trovare sempre nuove prospettive

interpretative della norma canonica, e che renderanno queste norme

sempre più utili per la sua salvezza finale. Con il battesimo, non si

riceve la cittadinanza di uno stato, ricevuta la quale (o meglio,

acquisita la quale), si possiede un bagaglio di diritti e doveri, con il

battesimo si diviene christifideles, per cui, assunta tale condizione, si è

chiamati ad un rinnovamento totale che passa anche attraverso un

rinnovamento della propria dimensione giuridica. Il fedele dovrebbe

poter affermare, di fronte ai mezzi che la Chiesa gli offre per

conseguire la salvezza, come a suo tempo Sant’Agostino: “È tanta la

bellezza della giustizia, tanto l'incanto della luce eterna, cioè della

immutabile verità e sapienza che, anche nell'ipotesi che si potesse

rimanere in essa per lo spazio di un sol giorno, per questo stesso

motivo si dovrebbero disprezzare molto giustamente innumerevoli

anni di questa vita, pieni di delizie e abbondanza di beni temporali.

Infatti non è stato detto erroneamente o con scarso sentimento: Un solo

giorno nei tuoi atrii è migliore di mille giorni (Sal 83, 11) ”34.

L’attenzione di molti commentatori, riguardo ai canoni

riguardanti obblighi e diritti dei fedeli, si è soffermata sulla mancata

codificazione di appositi strumenti volti a rendere effettiva la tutela

dei diritti dei fedeli da parte dei fedeli stessi; ad esempio il mancato

inserimento di norme che disciplinino il ricorso amministrativo. Pur

senza sminuire la importanza che tali strumenti possiedono

nell’ambito di un ordinamento giuridico, ci sembra non siano così

indispensabili, nell’ambito canonistico, per la tutela dei diritti dei

fedeli, dal momento che tali diritti possiedono una forza obbligante 34 S. AGOSTINO, De libero arbitrio, 3.25.77. La traduzione italiana è in www.augustinus.it/italiano/libero_arbitrio/.

171

loro propria che gli deriva dall’essere diritti di origine superiore, e

pure dal fatto che è prevista la possibilità di segnalare, a chi deputato a

compiti di governo superiori, quelle che sono le esigenze del fedele e

talvolta della Chiesa stessa. I canoni presi in esame, anche a livello

terminologico, parlano di cooperazione, di impegno personale, di

responsabilità, di comunione, quasi a sottolineare come il fedele sia

chiamato a cooperare al corretto sviluppo della società (ecclesiale) in

cui vive, e pure per la effettiva applicazione dei principi elencati nei

canoni relativi a diritti ed obblighi di tutti i fedeli. La norma che

chiude il Titolo I, Parte I, del Libro II, ovvero il can. 223, è assai

significativa in tal senso: il fedele, è chiamato a: “tener conto del bene

comune della Chiesa, come pure dei diritti altrui e dei propri doveri

nei confronti degli altri”. Il fedele non deve solamente tenere o non

tenere determinate condotte, deve impegnarsi in prima persona nella

realizzazione di un ordine di giustizia, a volte sacrificando anche

quelle che possono essere le sue legittime aspirazioni, nella

convinzione che lo si fa in vista di un traguardo più alto di quelli che

possono essere i banali traguardi quotidiani. A volte sacrificare una

propria aspirazione, pure legittima, può servire a conseguire un bene

ed una giustizia maggiori, rispetto a quella materiale che si potrebbe

ottenere attraverso, una azione giudiziale di un certo tipo. Se così non

fosse in cosa si distinguerebbe colui che ha ricevuto una vita nuova nel

battesimo in Cristo, da coloro i quali non sono ancora giunti ad

abbracciare la via della salvezza? Il messaggio evangelico è chiaro,

prima di tutto vi è l’impegno personale e quotidiano, attraverso il

quale si giunge alla salvezza; si deve puntare ad una giustizia più

grande di quella che può essere concessa in modo imperfetto in un

tribunale terreno. I santi sono anche in questo un esempio prezioso; se

pensiamo ad esempio alle vicende giuridiche che ha affrontato S.

Ignazio di Loyola prima di vedere riconosciuti gli statuti della

Compagnia di Gesù, o alle persecuzioni giudiziarie patite da un

riformatore quale fu S. Giovanni della Croce, ci appare con chiarezza

172

lo spirito con cui il vero fedele deve accostarsi alle norme canoniche,

accettando a volte di sopportare situazioni difficili ed umanamente

incomprensibili, ma che pure sono destinate, se affrontate in spirito di

servizio ed obbedienza, ad essere comprese e magari trasformate in

esperienze straordinarie35. Su molti frontoni di molte chiese, specie

quelle edificate in epoca successiva alla riforma cattolica tridentina, si

legge: “Ad maiorem Dei gloriam”36, sarebbe auspicabile tenere presente

proprio tale frase, ogniqualvolta ci si trova di fronte alla scelta della

cosa giusta da fare o da non fare, dal momento che il fedele non vive in

una dimensione totalmente terrena, ma deve tenere sempre presente il

fine cui deve tendere, che non è di questo mondo, ove le cose son

“vana ombra e non cose di sostanza”.

35 Nel rispondere alla domanda sul perché, nel Codice di diritto canonico, si parli prima dei doveri e poi dei diritti dei fedeli, il Card. Castillo Lara rispondeva: “Con questa scelta il legislatore ha forse voluto, mi sembra, sottolineare che, chiamato da Dio a formar parte del suo popolo, il cristiano ha il fondamentale dovere di corrispondere alla chiamata, non solo accettando di entrare nella Chiesa, ma corrispondendo a tale chiamata durante tutta la sua esistenza, partecipando cioè attivamente alla vita ed alla missione della Chiesa, ciò che rappresenta un dovere prima che un diritto”, CASTILLO LARA R., I doveri e i diritti dei christifideles, in Salesianum 48 (1986), p.319. 36 La frase è utilizzata per la prima volta nei Dialoghi di San Gregorio Magno, 1, 2 ed è divenuto nel tempo il motto, non ufficiale, dei Gesuiti.

173

4.4. Foro esterno e foro interno come ambiti di realizzazione dei

diritti e dei doveri dei fedeli.

Constatato che obblighi e diritti dei fedeli, possono configurarsi

come mezzi strumentali al conseguimento della salus animarum, sarà

ora necessario stabilire in che ambito tali diritti ed obblighi siano

vincolanti per i fedeli.

È dunque necessario affrontare, seppur nella brevità del nostro

lavoro, la tematica relativa al foro di applicazione delle norme nel

diritto canonico, dal momento che essa si inserisce perfettamente ed in

maniera assai rilevante, nella definizione di uno statuto giuridico del

fedele.

Come noto: “l’ordinamento canonico è l’unico ordinamento

giuridico che ha una tale distinzione (tra foro esterno e foro interno

n.d.r.), con l’attribuzione di una importanza di grande rilievo al foro

interno, soprattutto nel diritto sacramentario e in quello penale”1. La

peculiarità del foro interno, come caratteristica del diritto canonico, in

grado di distinguerlo dal diritto secolare, è definita fra gli altri dal

Mörsdorf: “Una peculiarità significativa del diritto canonico deriva

dall’attività graziosa nel foro interno; in questo modo si smussano le

tensioni dovute al carattere formale del diritto e nel foro interno

sacramentale la Chiesa raggiunge una profondità che rimane preclusa

al diritto statale per la sua stessa natura”2; per il medesimo autore la

tematica relativa al carattere della giurisidizione della Chiesa nel foro

interno è: “uno dei problemi centrali della canonistica”3, e ciò in

1 DE PAOLIS V., Natura e funzione del foro interno, in Investigationes teologico-canonicae, Roma 1978, p. 115. Per l’evoluzione dell’incidenza in campo penale si veda: PIGHIN B. F., Diritto penale canonico, Venezia 2008, pp. 46-57. 2 MÖRSDORF K., Lehrbuch des kirchenrechts: auf grund des Codex Iuris Canonici, Monaco 1964, p. 26; la traduzione si trova in CATTANEO A., Questioni fondamentali della canonistica nel pensiero di Klaus Mörsdorf, Pamplona 1986, p. 77. In tal senso anche FEDELE P., Un convegno canonistico a Roma, in Rivista di diritto ecclesiastico (1943), p. 302, ove afferma che la tematica del foro interno è: “la vera chiave di volta dell’edificio del diritto della Chiesa”. 3 MÖRSDORF K., Der Rechtscharakter der «iurisdictio fori interni», in AYMANS W. - GERINGER K. Th. - SCHMITZ H. (diretto da), Schriften zum kanonischen Recht,

174

quanto il diritto canonico è anche: “un diritto spirituale che dà grande

importanza alla volontà interna”4.

Non vi è stata peraltro univocità, da parte della scienza

canonistica, nel riconoscere una effettiva giuridicità al foro interno5,

dal momento che, pure con sfumature assai diverse, si riteneva che

tutto quanto avvenisse nell’ambito del foro interno, riguardasse più

che altro questioni morali, che poco hanno a che fare con l’ambito

giuridico6, e dunque, pure nel diritto della Chiesa, si andava

Paderborn –Munich – Wien - Zurich 1957, p. 162; la traduzione si trova in CATTANEO A., Op. cit., p. 78. 4 CATTANEO A., Op. cit., p. 80-81. 5 Si vedano ad esempio: KÖSTLER R., System des katolischen Kirchenrechtes, I, Berlin 1869, p. 168; HINSCHIUS P., System des Katholischen Kirchenrechts, Berlin 1867, p. 168; ID., Commentarium Lovaniense I, 1, Mechelen 1928, pp. 27 ss. e I, 2, p. 181; PHILLIPS G. – VERING H., Compendium Iuris Ecclesiae, Ratisbona 1875, p. 2; ROORDA T. J., Wörterbuch zum CIC, Munich 1928, p. 203; VAN HOVE A., De legibus ecclesiasticis, Roma 1930, p. 181; POLITI V., La giurisdizione ecclesiastica e la sua delegazione, Milano 1937, p. 47; DE BERNARDIS L. M., Le due potestà e le due gerarchie della Chiesa, Roma 1946, p. 35; STAFFA D., voce Foro, in Enciclopedia cattolica, Città del Vaticano 1949, vol. V, p. 1532; D’AVACK P. A., Corso di Diritto Canonico, Milano 1956, pp. 93 e 107 ss.; CHELODI G., Ius Canonicum de personis, Vicenza 1957, n. 125, pp. 208-209. 6 Convinto sostenitore di tale assunto è stato SALAZAR ABRISQUIETA J., La jurisdicción social y el fuero interno, in AA. VV., La Potestad de la Iglesia. Análisis de su aspecto jurídico, Barcelona 1960, pp. 149-203; in particolare l’A. afferma: “È molto facile dire che l’ordinamento canonico ha un’indole speciale, che è ‘sui generis’, che al concetto di diritto canonico non si possono applicare tutti gli elementi che la filosofia del diritto attribuisce a ciò che è giuridico, che il concetto di diritto che abbiamo è preso dal diritto civile. Però è necessario dimostrare in cosa consiste questa indole speciale, che elementi si devono escludere e quali includere e fornire una concezione di diritto che sia veramente diritto e, allo stesso tempo, escluda ed includa questi elementi, se è possibile… Frattanto continueremo a sostenere che, se nell’ordinamento giuridico della Chiesa rientra il foro interno quale parte integrante essenziale dello stesso, è impossibile salvarne la sua giuridicità, perché il foro interno si muove nel campo della morale e il suo fine specifico diretto e le sue caratteristiche, di conseguenza, sono morali e non giuridiche” (p. 181, la traduzione è nostra n.d.r.); ma facciamo notare come l’A. si limiti a sostenere tale tesi sulla base di assunti che, parimenti non dimostrati, sono solamente derivati da una evoluzione della scienza giuridica positiva, che non ci trova per nulla d’accordo, nonostante sia dominante ai nostri giorni. Tuttavia ci pare interessante raccogliere la sfida, del medesimo A., convinti, come siamo, della importanza di riportare determinati argomenti alla attenzione del dibattito scientifico, anche civilistico, stante la loro importanza per il diritto, a qualunque ambito esso appartenga. Si veda pure il CIPROTTI P., Lezioni di diritto canonico, Padova 1943, il quale afferma: “Quando la Chiesa comanda per regolare l’attività di un uomo non nei confronti di altri uomini, bensì solo nei confronti di Dio, essa non regola conflitti intersubiettivi di interessi, bensì, se mai, conflitti intrasubiettivi poiché comanda al singolo ciò che questi deve fare per attuare i propri interessi soprannaturali sacrificando eventualmente altri suoi interessi di ordine inferiore che siano con quelli in conflitto; quando invece la Chiesa da comandidiretti, immediatamente o mediatamente, a far si che l’attività di un uomo

175

affermando una divisione tra diritto e morale7. La maggioranza dei

canonisti ritiene che, il foro interno abbia senza dubbio carattere

giuridico8, e pare corretto ritenere la giuridicità del foro interno sulla

base di quanto espresso dall’attuale Codice, il quale: “ammettendo la

potestà (giuridica) per il foro interno, non sembra pensare a questo

come se fosse un campo esclusivo della morale”9. Il Codice del 1917,

non ostacoli ne ponga in pericolo, ma, se è possibile, faciliti, agli altri uomini, l’attuazione degli interessi soprannaturali, essa regola conflitti intersubiettivi d’interessi… Nel primo caso siamo nel campo della morale, ossia del foro interno, nel secondo caso nel campo del diritto”, pp. 59-60. 7 Si vedano: CONTE A CORONATA M., Institutiones Iuris Canonici, I, n. 277, Roma 1950, pp. 323-324; CIPROTTI P., Sulle potestà della Chiesa, in Archivio di diritto ecclesiale (1941), pp. 49-61 e pp. 189-197; ID., Lezioni di Diritto Canonico, Padova 1943, nn. 10-13 e 45; ID., Morale e diritto nell’ordinamento della Chiesa, Napoli 1960; D’AVACK P. A., Corso di Diritto Canonico, Milano 1956, pp. 93 ss. e pp. 107 ss.; BERTOLA A., Corso di diritto canonico: la costituzione della Chiesa, Torino 1958, p. 263; SALAZAR ABRISQUIETA J., Lo jurídico y lo moral en el ordenamiento canónico, Vitoria 1960, pp. 194-201. 8 Si vedano, oltre agli autori che citeremo di volta in volta: HAHN J., Das Forum internum und seine Stellung im geltenden Recht, Würzburg 1940; BERTRAMS W., Das Privatrecht der Kirche, in Gregorianum 25 (1944), pp. 283-320; ID., De efficacia negotii iuridici ecclesiastici extra forum canonicum, in Periodica 39 (1950), pp. 117-142; ID., De natura giuridica fori interni Ecclesiae, in Periodica 40 (1951, pp. 307-340; ID., De influxu Ecclesiae in iura baptizatorum, in Periodica 49 (1960), pp. 417-457; MÖRSDORF K., Der hoheitliche Charakter der sakramentalen Lossprechung, in Trierer Theologie Zeitschrift 57 (1948), pp. 335-348; ID., Der Rechtscharakter der iurisdictio fori interni, in Münchener Theologische Zeitschrift 8 (1957), pp. 161-173; ID., Lehrbuch des Kirchenrechts, I, per 53, Paderborn 1953, pp. 313-315; BENDER L., Forum externum et forum internum, in Ephemerides iuris canonici 10 (1954), pp. 9-27; ID., De impedimento matrimoniali publico et occulto, in Angelicum (1945), pp. 40-53; ID., Potestas ordinaria et delegata, Roma 1957; MICHIELS G., De protestate ordinaria et delegata, Parigi-Roma 1964, pp. 64-110; MOSTAZA RODRÍGUEZ A., De foro interno iuxta canonistas postridentinos, in AA.VV., Acta Conventus Internationalis Canonistarum, Città del Vaticano 1970, pp. 269-294; DE PAOLIS V., Natura e funzione del foro interno, in Investigationes teologico-canonicae, Roma 1978, pp. 115-142. Si vedano anche: DEUTSCH B. F., Jurisdiction of Pastors in the External Forum, Washington 1957; SARACENI G., Riflessioni sul foro interno nel quadro generale della giurisdizione della Chiesa, Padova 1961, Ristampato in forma anastatica nel 2002; FRIES B., Forum in der Rechtssprache, Munich 1963; FEDELE P., Discorso generale sull’ordinamento canonico, Padova 1941; ID., Lo spirito del diritto canonico, Padova 1962; CAPOBIANCO P., De ambitu fori interni ante codicem, in Apollinaris 8 (1935), pp. 591-605; SANCLIMENS M., Conflictus forum internume t externum in materia matrimonialis dispensationis, in Analecta Gregoriana, Roma 1965; GITZLER M., De fori interni et externi differentia et necessitudine secundum principia Iuris Canonici, Breslau 1867; PERATHONER A., Forum internum und forum externum im kirchlichen Strafrechte, in Theologische praktische Quartalschrift (1917), pp. 443-457; OESTERLE G., De relatione inter forum externum et internum, in Apollinaris 19 (1946), pp. 67-87; FOGLIASSO E., Circa la rettificazione dei confini tra la teologia morale e il diritto canonico, in Salesianum (1951), pp. 381-413; ROARDA T. J., De natura absolvendi a peccatis, in Ephemerides iuris canonici 4 (1948), pp. 353-381 e 513-540. 9 URRUTIA F. J., Il criterio di distinzione tra foro interno e foro esterno, in LATOURELLE R. (a cura di), Vaticano II: bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987), vol. I,

176

sempre secondo l’opinione del Mörsdorf, riavvicinava questi due

ambiti, dal momento che in esso si tendeva piuttosto a dare una

corretta delimitazione ai due fori10, visti entrambi come ambiti di

azione della Chiesa: “in entrambi i fori è sempre la stessa Chiesa che

cerca, in un modo o nell’altro, di compiere la sua missione per la

salvezza degli uomini”11.

Con le modifiche apportate dal CIC del 198312, si è chiarito, in

maniera abbastanza precisa che, laddove si discute di foro interno in

opposizione al foro esterno, lo si fa in relazione agli ambiti di

applicazione di un’unica potestà, che è quella di governo, che è in capo

alla Chiesa, e che è unica13, solo che essa viene esercitata in due ambiti,

l’uno visibile (foro esterno), l’altro occulto14 (foro interno), o per

Assisi 1987, p. 546. 10 Sulla distinzione tra i due fori, interno ed esterno, e sulla loro ulteriore suddivisione, ricorda tra l’altro FANTAPPIÈ C., Introduzione storica, cit.: “Alla chiara distinzione tomista tra forum coscientiae, relativo ai rapporti dell’uomo con Dio, e forum externum, relativo ai rapporti dell’uomo con l’uomo, nella seconda metà del Cinquecento subentra nella pratica giudiziaria della Chiesa un’ulteriore suddivisione. Il foro esterno è sdoppiato nelle due classi del foro contenzioso o giudiziale, del tutto esterno, in cui interviene l’accusatore, e del foro non contenzioso o misto; quello interno è, a sua volta, sdoppiato nel foro sacramentale ed extrasacramentale, a seconda che la potestà si eserciti solo nel sacramento della penitenza o fuori di esso nel foro della coscienza. Questa distinzione deriva dalla concessione data dal concilio Tridentino ai vescovi della potestà di dispensare e di assolvere «in foro conscientiae» da qualunque tipo di delitto occulto come anche dalle irregolarità e dalle censure che non abbiano attinenza col foro contenzioso. Come effetto di tali suddivisioni si ha la perdita della sostanziale unità del foro interno, che non coincideva più con il foro della coscienza, e la enucleazione di un triplice foro ecclesiastico: contenzioso, sacramentale (o penitenziale) e della coscienza”, p. 173 nota 149. Sul punto vedasi anche MOSTAZA RODRÍGUEZ A., Forum internum-forum externum. En torno a la naturaleza jurídica del fuero interno, in Revista española de derecho canónico 23 (1967), in particolare pp. 272-284. 11 MÖRSDORF K., Der Rechtscharakter der «iurisdictio fori interni», cit., p. 164; la traduzione si trova in CATTANEO A., Op. cit., pp. 94-95. 12 Per un breve commento al can. 130 del CIC, si veda, tra i più recenti: DE PAOLIS V. – D’AURIA A., Le norme generali. Commento al Codice di Diritto Canonico. Libro Primo, Città del Vaticano 2008, pp. 427-430. 13 FUČEK I., Foro interno in generale, organi e materie di esso. Vastità ed importanza dei problemi, in TRIBUNALE DELLA PENITENZIERIA APOSTOLICA (ed.), Corso sul foro interno, Roma 2007 (dattiloscritto). In senso contrario, ovvero della esistenza di due distinte potestà della Chiesa, a seconda del foro in cui veniva esercitata la medesima, si esprimeva BERARDI G. S., Commentaria ad Ius Ecclesiasticum Universum, I, Torino 1766, dissertatio 1, cap. 2, 12-13, il quale peraltro non distingueva l’esercizio della potestà della Chiesa a seconda della materia (etica o giuridica), si veda: ID., Commentaria in Ius Ecclesiasticum Universum, I, Venezia 1778, pp. 9 ss. 14 Utilizziamo tale termine, dal momento che tale termine è stato a più riprese

177

utilizzare le parole del Gitzler: “in duabus quasi provinciis non desiunctis

separatisque sed mutua vice connexis”15. Nemmeno si possono oggi

distinguere i due fori, con riferimento alla utilità, pubblica o privata,

che i singoli fedeli trarrebbero nell’esercizio dei loro diritti, come

veniva invece ritenuto durante la vigenza del precedente Codice16.

A prescindere da una analisi storico-evolutiva del concetto di foro

interno17, pure necessaria per una trattazione esaustiva, un dato

appare tuttavia rilevante: il Codice fa riferimento al foro interno quasi

esclusivamente con riferimento all’esercizio della potestà di governo

della Chiesa, quantomeno questo è quanto emerge dal dettato del can.

130 del Codice attualmente in vigore.

Già prima della codificazione canonica del 1917, era evidente che

uno degli aspetti fondamentali della questione riguardava

primariamente la potestà di governo della Chiesa; ciò appare con una

certa chiarezza se si prende ad esempio la definizione di foro esterno e

di foro interno data dal Nardi: “l’esterno in cui si esamina che cosa sia

giusto in faccia alla Chiesa, come società esterna e giuridica, l’interno

utilizzato per definire gli atti relativi al foro interno, anche se personalmente il termine coscienza ci parrebbe essere quello che meglio esprime l’ambito di esercizio degli atti giuridici interiori. Tuttavia, anche per la confusione cui il termine coscienza aveva portato, nella vigenza del Codice del 1917, utilizziamo pure il termine occulto; si veda URRUTIA F. J., voce Foro giuridico (forum iuridicum), in CORRAL S. C. – DE PAOLIS V. – GHIRLANDA G. (a cura di), Nuovo dizionario di diritto canonico, Cinisello Balsamo 1993, pp. 536-539. 15 GITZLER L., De fori interni et externi differentia et necessitudine, Bratislava 1867, p. 28. 16 VIDAL P. – AGUIRRE F., De Personis, in WERNZ F. X. (a cura di) Ius Canonicum, Tomo II, Roma 1943, p. 423. 17 Per una sintesi della evoluzione del concetto di foro interno nel diritto canonico, si vedano: MOSTAZA RODRÍGUEZ A., Forum internum-forum externum, cit., in partic. pp. 253-297; SARACENI G., Riflessioni, cit., pp. 25-86; sempre nel medesimo volume, l’A. sintetizza alcune delle principali definizioni date dalla scienza canonistica relativamente alle distinzioni tra foro esterno e foro interno, vedi: ID., Op. cit., pp. 101-104. Per una storia del sacramento della penitenza, in relazione ai due fori si vedano: MAYER A., Voce Penitenza, in Enciclopedia cattolica, vol. IX, Roma 1952, pp. 1104-1122; D’ERCOLE G., Foro interno e foro esterno nella penitenza delle origini cristiane, in Apollinaris 32 (1959), pp. 273-302; TURRINI M., La coscienza e le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima età moderna, Bologna 1991; DELUMEAU J., La confessione e il perdono. Le difficoltà della confessione dal XIII al XVIII secolo, Cinisello Balsamo 1992; COLLO C., voce Penitenza, in Teologia, cit., pp. 1107-1138, in partic. pp. 1107-1128.

178

che esamina che cosa sia giusto in faccia a Dio e alla coscienza”18,

definizione dalla quale appare evidente come l’attenzione debba porsi

sul termine “esamina”, riferito all’esercizio della potestà di governo

della Chiesa.

L’esistenza di due distinti fori giuridici non significa che anche la

potestà di governo della Chiesa sia duplice, al contrario, la potestà è

unica, come abbiamo già ribadito, solo che viene esercitata in due

ambiti distinti (anche se non separati, come vedremo più avanti)19.

L’unicità della potestà di governo della Chiesa, veniva con chiarezza

sottolineata dal Bender, il quale, pur nella vigenza del precedente

Codex, in cui al can. 196 sembrava aprire possibili questioni circa la

effettiva unicità della potestà di governo, a causa della sua ambigua

formulazione20, negava che vi potessero essere due distinte potestà di

giurisdizione, e che il dettato del canone: “riguarda il suo esercizio in

quanto al modo di compierlo come in quanto ai suoi effetti”21; Bender

era pure convinto del fatto che ciò che avviene nel foro interno, può

18 NARDI F., Elementi di diritto ecclesiastico, vol. I, Venezia 1846, p. 123. 19 Fornisce una serie di criteri distintivi tra i due fori MOSTAZA RODRÍGUEZ A., Op. cit., pp. 298-304. Tali criteri distintivi si possono così sintetizzare: per l’oggetto (materie pubbliche al foro esterno - materie occulte al foro interno); per il fine (fine pubblico o fine privato); per il modo di esercizio della giurisdizione (in modo pubblico e coram Ecclesia - in modo segreto e coram Deo); per gli effetti (giuridici e sociali per quanto attiene al foro esterno – normalmente davanti a Dio per quanto attiene al foro esterno); altri criteri residuali di distinzione tra i due fori riguarderebbero: le finalità speciali (ad ligandum il foro esterno – ad solvendum il foro interno); per la diversa natura della potestà che la Chiesa esercita in ciascun foro (propria, sociale ed umana – vicaria di Dio e divina); per il tipo di potestà che viene esercitata (potestas iurisdictionis nel foro esterno – potestas ordinis nel foro interno). 20 Fra gli intenti espressi dal Sinodo dei Vescovi nei Principi per la revisione del Codice di Diritto Canonico del 1917, era fra l’altro auspicata una riduzione della distanza tra i due fori: “Normae igitur in recognitio Codice tradentur respicientes omnia quae ad forum externum attinent atque etiam, ubi animarum salus id exigat, normae quae pertinent ad provisiones in foro interno elargiendas. Fori externi et interni optima coordinatio in Codice Iuris Canonici existat oportet, ut quilibet conflictus inter utrumque vel dispareat vel ad minimum reducatur”, in Communicationes 1 (1969), n. 2, p. 79. Una riforma in tal senso veniva auspicata anche da SARACENI G., Notazioni per un concetto giuridico di libertà nella Chiesa, in AA. VV., Ius Populi Dei. Miscellanea in honorem Raymundi Bidagor, Roma 1972, vol. I, p. 409. 21 BENDER L., Forum externum et forum internum, in Ephemerides iuris canonici 10 (1954), pp. 9-27; ID., Potestas ordinaria e delegate: commentaries in canones 196-209, Roma 1957.

179

“cambiare” foro qualora il fedele renda pubblico ciò che fino ad un

certo momento era rimasto confinato al solo foro interno22.

Ci preme qui soffermarci, più che sull’esercizio della potestà di

governo della Chiesa nel foro interno, sul foro interno quale ambito

giuridico in cui il fedele primariamente realizza i suoi diritti o adempie

ai suoi obblighi, diritti ed obblighi che solo successivamente si

esplicano nel foro esterno; a tale proposito ricordiamo le parole

dell’Aquinate, secondo il quale: “La religione, quindi, abbraccia atti

interni, che sono principali ed essenziali per la religione; e atti esterni,

che sono secondari e ordinati a quelli interni”23. Secondo il Saraceni,

era imprescindibile, per la Chiesa, tenere conto di tutto quanto avviene

nella coscienza dell’uomo24, anche perché i due fori interagiscono

continuamente tra loro e dunque non si può pensare che alcune

questioni giuridiche riguardino solamente atti esteriori, specie se si

tiene presente che determinate scelte avvengono dapprima in interiore

e solo successivamente si trasformano in atti esterni, o addirittura

rimangono confinate al solo foro interno. Il Saraceni ci ricorda come, le

definizioni che tendono a separare i due fori o addirittura a

distinguere in maniera netta tra diritto e morale25, vadano capite alla

luce di difficoltà legate alla concreta traduzione di tali concetti in

norme giuridiche positive, ovvero concretizzate in canoni26, piuttosto

22 Segue l’idea del Bender anche DEUTSCH B. F., Jurisdiction of Pastors in the External Forum, Washington 1957. 23 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II-II, q. 81, a. 7. 24 Vedi: SARACENI G., Riflessioni sul foro interno, cit., p. 105; ove tra l’altro si ricorda che la Chiesa: “quamvis societas giuridica,…nequit a singulorum conscientia hominum prescindere” da CONTE A CORONATA M., Institutiones iuris canonici, I, Torino-Roma 1948, p. 323. 25 Altra distinzione tipica fatta dalla dottrina canonistica, riguardava la materia o l’oggetto propri dell’uno e dell’altro foro, così ad esempio: CAPOBIANCO P., De ambitu fori interni ante codicem, in Apollinaris 8 (1935), pp. 591-605; ID., De notione fori interni in iure canonico, in Apollinaris 9 (1936), pp. 364-374; VEERMESCH A. – CREUSEN I. – BERCH I. – GRECO I., Epitome Iuris Canonici, Tomo I, Mechelen – Paris – Brugge 1963, n. 313, 1, p. 294. 26 Successivamente al Concilio di Trento, la cosiddetta scuola casistica, separa nettamente, per quanto riguarda il diritto canonico, i due concetti di culpa e di crimen; il primo riguarderebbe le norme morali di diritto divino, il secondo le norme giuridiche civili. L’infrazione delle norme morali comporta dunque una culpa teologica, la quale implica un problema di coscienza, mentre l’infrazione delle norme

180

che a separazioni reali dal punto di vista sostanziale, si tratta, per

utilizzare le parole dell’Autore, di intendere come tali distinzioni:

“piuttosto rappresentino, nelle relazioni tra i due fori, una separazione

in senso relativo e contingente, materiata, più che di astratte

antinomie, di difficoltà pratiche, in certa misura, insopprimibili e

adeguate ai limiti stessi delle possibilità umane, nell’opera di

accomodamento «humano modo», dell’infinito col finito, di

integrazione, mediante leggi «ab hominibus inventae», del diritto divino,

positivo e naturale, di adeguamento dell’esercizio concreto”27 di tali

due ambiti giuridici, quello divino e quello umano. La necessità del

diritto umano, accanto a quello divino, non deve essere motivo di

distinzione assoluta tra un foro interno morale ed un foro esterno

giuridico, dal momento che, l’essenza stessa dell’uomo è duplice28:

“l’uomo è unità di anima e di corpo e dire che è una creatura amata da

Dio per se stessa vuole dire che lo è nella sua dimensione spirituale e

nella sua dimensione materiale in modo inscindibile”29; tale duplicità

si traduce da un lato, nella necessità di avere una dimensione

giuridico-morale duplice, sia interiore, che esteriore, senza che si

scinda completamente l’elemento morale da quello giuridico ed al

contempo senza che si confondano tali due elementi30.

Per quanto riguarda la riflessione più propriamente giuridica sul

foro interno Urrutia ricorda che i due fori non sono aree o ambiti

separati31 ma: “modi diversi di attuazione sia del singolo fedele, sia

civili comporta una culpa iuridica, la quale implica la obbedienza a leggi esterne, condizionata dalla sola pena esterna. Si veda sul punto: TURRINI M., «Culpa theologica» e «culpa iuridica»: il foro interno all’inizio dell’età moderna, in Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento 12 (1986), pp. 147-168. 27 SARACENI G., Op. cit., p. 106. 28 Così anche MOSTAZA RODRÍGUEZ A., Op. cit.: “Nella Chiesa, come nello Stato, vi è un solo ordine giuridico, benché sia possibile distinguere nell’ordinamento giuridico canonico queste due sfere, le quali, nonostante siano distinte tra loro, costituiscono un solo essere, come le parti che integrano l’organismo umano”, p. 298 (la traduzione è nostra n.d.r.). Si confronti pure sul punto: BERTRAMS W., De natura iuridica fori interni Ecclesiae, in Periodica 40 (1951), p. 320. 29 GALVÁN J. M., Elementi di antropologia teologica, cit., p. 71. 30 SARACENI G., Op. cit., p. 108. 31 In tal senso già si esprimeva SUÁREZ F., De legibus, l. 8, c. 6, n. 11, ove affermava:

181

dell’autorità nell’esercizio della sua potestà”32, e ciò si accorda

perfettamente alla riflessione anche teologica sull’essenza dell’uomo,

anima e corpo, per cui non si danno ambiti totalmente separati tra la

dimensione esterna e quella interna, nemmeno sul piano giuridico.

La distinzione tra i due fori attiene dunque al modo di agire del

fedele, il quale a seconda che sia occulto oppure pubblico, si inserisce

nel foro interno oppure nell’esterno, come anche ricorda, fra gli altri,

sempre Urrutia, con particolare riferimento all’aspetto della potestà di

giurisdizione: “l’esercizio della giurisdizione del quale ne ha legittima

conoscenza la comunità, perché ci sono delle prove legittime di esso, è

esercizio di giurisdizione per il foro esterno o nel foro esterno. E gli

effetti di tale esercizio, pubblicamente conosciuti, appartengono al foro

esterno. Invece, se l’esercizio della giurisdizione rimane occulto alla

comunità come tale, e rimangono ugualmente occulti gli effetti

prodotti, perché non ci sono prove legittime, allora si tratta di esercizio

per il foro interno o nel foro interno”33.

I canoni, anche quelli apparentemente applicabili solamente al

foro esterno, se considerati dal punto di vista del soggetto che si trova

a doverli rispettare, presentano aspetti di validità anche nel foro

interno, le norme positive, infatti, sempre secondo quanto ricordato

dal Saraceni, in un passo assai significativo del suo lavoro, non sono

altro che: “la rappresentazione esteriore e, per così dire, materializzata,

secondo esigono positive necessità di governo sociale, di una realtà già

vivente nella coscienza, dove le obbligazioni dei soggetti trovano più

spesso di quanto non appaia esplicitamente, qua e là, da disposizioni

testuali, nell’«ex charitate» o nell’«onerata conscientia» la fonte

qualificata di origine e il più potente incentivo alla osservanza; dove,

“Haec autem duo membra (forum externum et forum internum) ita sunt intelligenza, ut se habeant tamquam includens et inclusum, non tamquam mutuo se excludentia”. 32 URRUTIA F. J., Op. cit., p. 557. 33 URRUTIA F. J., Op. cit., pp. 552-553. L’A. ricorda peraltro che: “pubblico non è lo stesso che esterno, in quanto l’attività o l’esercizio della giurisdizione esterni possono rimanere occulti. L’esercizio pubblico è sempre esterno, ma non viceversa, in quanto l’esercizio esterno non è sempre pubblico”, vedi nota 17.

182

anche e innanzi tutto, alberga e trova sempre l’immancabile sanzione,

la prima norma del vivere, secondo morale e diritto naturale e secondo

le stesse verità di fede rivelate e tramandate nel «depositum fidei»,

obbliganti, come è ben noto, per precetto divino, di per sé, siano

assunte o non, in appositi canoni della giurisdizione ecclesiastica che le

munisca di una vera e propria obbligazione esternamente

perseguibile”34.

Il fatto che un atto sia qualificabile come di foro interno, piuttosto

che di foro esterno, dipende in modo determinante dall’attuazione che

ogni singolo fedele dà a quel determinato atto, e quindi: “Se alcuni

sono atti di foro interno altri di foro esterno ciò non si deve ad

un’appartenenza ad aree o ambiti diversi, una per atti di carattere

sociale, altra per atti di carattere individuale, ma ciò si deve a come gli

atti sono prodotti, in modo segreto oppure in modo riconoscibile alla

comunità. Un atto a dimensione sociale non è un atto di foro esterno

perché sociale, ma perché posto pubblicamente e in modo tale che la

comunità ne possa tener conto. Così come un atto detto personale non

è un atto di foro interno perché non sociale, ma lo sarà nella misura in

cui rimane occulto e non riconoscibile dalla comunità”35. Si vede

ancora una volta come, il vero punto di discrimine tra i due fori sia lo

stesso soggetto che compie l’atto, il fedele, che dunque determina la

appartenenza di un atto all’uno dei due fori, piuttosto che all’altro.

Senza contare, come già ricordato, che un atto normalmente sorge nel

foro interno, per poi, eventualmente, divenire conoscibile anche nel

foro esterno, sempre sotto il determinante impulso del fedele.

Vale sul punto anche il discorso inverso, ovvero, determinate

norme date per il foro esterno, in realtà influiscono anche sul foro

interno: “Gli effetti causati dall’esercizio della potestà «per il foro

esterno», ad esempio certi obblighi, non sono effetti puramente del

dominio pubblico, esclusivamente e formalisticamente sociali, ma sono 34 SARACENI G., Op. cit., p. 110. 35 URRUTIA F. J., Op. cit., p. 558.

183

obblighi personali da rispettare in ogni momento e ad ogni livello,

anche quando il fedele agisce da solo, senza controlli, senza testimoni,

senza pubblicità”36. Senza dubbio obblighi e diritti dei fedeli, nelle

disposizioni destinate ad avere valore nel foro esterno, tuttavia

comportano riflessi anche nel foro interno di ciascun fedele, perché

disciplinano una situazione che costringerà il fedele, allorquando

dovrà determinarsi poi al rispetto di quel determinato obbligo (o

all’esercizio di un determinato diritto), ad effettuare quasi certamente,

una riflessione nel proprio foro interno (riflessione non solamente

morale, ma a volte anzi, essenzialmente giuridica37), anche se gli effetti

definitivi di quella riflessione si ripercuoteranno all’esterno e

diverranno per ciò pubbliche. In questo senso ci conforta pure la

opinione del Bertrams, il quale ritiene che, ciò che avviene nel foro

interno in relazione ai diritti personali dei fedeli, essendo utile per la

salvezza delle anime dei medesimi, fa sì che il foro interno possa

qualificarsi come ambito giuridico di diritto pubblico ecclesiastico in

quanto, contribuire allo sviluppo ed alla costituzione di tale diritti è

senza dubbio, secondo l’A., un contributo indispensabile al bene

comune di tutta la Chiesa38. Lo stesso Berardi, sottolineava la difficoltà

36 Ibidem, p. 559. 37 Convinto assertore della impossibilità di scindere tra determinazioni interne (morali) del soggetto agente, e determinazioni esterne (giuridiche), è stato DEL VECCHIO G., come avremo modo di vedere più diffusamente nel prosieguo del nostro lavoro (Parte II, cap. 5), il quale ricorda che: “Non crediamo accettabile, innanzi tutto, la distinzione assoluta tra le azioni interne e le esterne, perché tutte le azioni sono al tempo stesso interne ed esterne, cioè hanno un elemento psichico ed uno fisico; non si può quindi ammettere che le azioni interne siano regolate solo dalla morale e le esterne solo dal diritto. Il vero è invece che il diritto e la morale sono ambedue norme universali, che comprendono tutte le azioni; bensì, la morale incomincia a considerare il momento interno dell’azione, ma finisce col considerare anche l’esterno. Il diritto, all’incontro, prima si rivolge all’aspetto fisico o esterno delle azioni; ma poi risale alla intenzione, al momento psichico o interno, il quale ha pure grande importanza nel campo del diritto (il diritto non è un ordinamento puramente meccanico delle azioni)”, Lezioni di filosofia del diritto, Milano 1965, p. 58. 38 BERTRAMS W., De natura iuridica fori interni Ecclesiae, in Periodica 40 (1951); “Iamvero forum internum Ecclesiae est institutum canonicum, quod ordinatur ad negotia iuridica privata fidelium peragenda, ad ordinandas relationes iuridicas privatas, ad constituenda iura personalia fidelium. Hinc institutum canonicum fori interni partem constituit mediorum, quibus fideles bona supernaturalia obtinere, conservare, perficere possunt, proinde forum internum, quatenus est institutum canonicum, est iuris publici Ecclesiae”, p. 312. Si veda anche ID., De influxu Ecclesiae in iura baptizatorum, in

184

di stabilire, in concreto, ciò che è soggetto alla giurisdizione del foro

esterno e ciò che rimane assoggettato alla giurisdizione del foro

interno (come ricordato precedentemente l’A. scindeva le due potestà

della Chiesa a seconda del foro di esercizio)39. Si capisce così con

chiarezza il perché non si possa ritenere esservi una netta separazione

tra i due fori dal punto di vista soggettivo, come si pretendeva da certa

dottrina, dal momento che il fedele, considerato nella sua integralità,

opera continuamente una riflessione interiore, che poi a volte produce

effetti esteriori, in una continua “osmosi” tra pubblico e privato, tra

coscienza e manifestazioni esteriori di volontà, che non possono essere

separate fra di loro40, a meno di voler pensare ad un individuo

meccanico, in grado di scindere continuamente il proprio pensiero

dalle proprie azioni41.

Il Bender, addirittura, evidenzia la principalità del foro interno

rispetto al foro esterno, al punto che non vi sono nemmeno, a detta di

tale autore, atti che siano di solo foro esterno, essendo questi ultimi

ricompresi nel foro interno, dato che la coscienza sostiene ogni atto del

fedele42.

Periodica 55 (1966), pp. 417-459. 39 BERARDI G. S., Commentaria ad Ius Ecclesiasticum Universum, I, Torino 1766, dissertatio 1, cap. 2, 13; “Maxima opus est prudentia in definendo quaenam ad fori interni, quaenam ad fori externi iurisdictionem pertineant” . Si veda pure WAHNER G., De iure privato in iure canonico, in Miscellanea Comillas (1960), pp. 583-686; BESTE U., Introductio in Codicem, Napoli 1961, p. 223. 40 A tal proposito è interessante ricordare che la Penitenzieria Apostolica si occupa anche di questioni riguardanti il foro esterno , anche se in modo assai limitato; le pratiche riguardanti tali decisioni, non vengono distrutte, a differenza di quanto avviene invece per le pratiche riguardanti il foro interno, salvo che riguardino casi particolarmente complessi o singolari, e che abbiano dato origine ad un approfondimento morale-giuridico, concretatosi nei cosiddetti “voti” scritti dei Prelati della Segnatura; vedi: TODESCHINI U. M., La Penitenzieria Apostolica, un organismo a servizio dei confessori e dei penitenti, in Corso sul foro interno, cit. 41 Il SARACENI, Op. cit., p. 126, parla esplicitamente di un principio “della normale inscindibilità dei due fori”. 42 BENDER L., Forum externum et forum internum, in Ephemerides Iuris Canonici 10 (1954): “Cum autem homo omnes actus suos regere debeat scientia private (conscientia), forum internum comprehendit omnes actus qui pertinent ad forum ecclesiasticum […] Proprie loquendo non habetur actus qui positi sunt in solo foro externo. Proprie actus distinguuntur: actus positi in solo foro interno et actus positi in utroque foro. Omnia quae pertinet ad forum ecclesiasticum pertinet ad forum internum ”, pp. 22-23. Della medesima opinione è pure il processualista Arroba Conde, il quale, dopo aver ricordato che la

185

Elemento senza dubbio essenziale alla qualificazione del foro

interno è perciò la volontà dei soggetti, che può determinarsi o a

partire da una norma positiva, oppure a partire da una norma di

diritto divino naturale (dunque anche non positiva). Nella prima

ipotesi si verifica ciò che affermava il Saraceni: “la legge umana

positiva, indicatrice, per intervento di autorità, del vero bene oggettivo

dei soggetti e, perciò, espressiva di un valore morale, crea una

situazione di foro interno, per la quale le coscienze sono

necessariamente obbligate, più o meno «sub gravi», a obbedire, ossia,

volendo esprimere tale obbligo, in termini che si addicano a un’analisi

dell’interiorità spirituale, a determinarsi per il possesso del bene

conosciuto attraverso la disposizione oggettiva, nel senso della

«necessitas ontica conscia». Da ciò, la concezione di una legge soggettiva,

che ha per causa efficiente la persona stessa immanentemente

operante”43. Nel secondo caso la volontà del soggetto si determina in

base a quello che abbiamo definito nei capitoli precedenti come ius

ontologico, la volontà, in questo caso, diverrà suscettibile di

valutazione solamente nel caso in cui essa dia poi luogo ad una azione

manifesta, e dunque operante nel foro esterno.

Questa seconda prospettiva, ovvero, quella del passaggio di una

volontà del soggetto, dal foro interno al foro esterno, non è priva di

difficoltà, dal momento che spesso la linea di confine tra il lecito e

l’illecito, non è così chiara al soggetto, il quale potrebbe determinarsi

nel foro interno, anche contra legem, partendo da una falsa

rappresentazione di quello che è il bene, con eventuali e successive

possibili ripercussioni nel foro esterno.

realtà della Chiesa è una realà che trascende i propri aspetti sociali, afferma: “ Ciò significa che l’aspetto invisibile e carismatico della Chiesa è chiaramente superiore all’elemento visibile, societario e socio-giuridico. L’esperienza personale e comunitaria del mistero non si presta ad una totale configurazione giuridica. Perciò il diritto positivo canonico (la legge scritta) risulta insufficiente ed è subordinato all’intera realtà misterica della Chiesa. Da ciò discende la supremazia del foro interno (della coscienza) sul foro esterno (quello proprio del processo), ARROBA CONDE M. J., Diritto processuale canonico, cit., pp. 21-22. 43 SARACENI G., Op. cit., p. 123.

186

Il Saraceni indica un limite ben preciso alla prevalenza di ciò che

avviene nel foro interno su quanto avviene, magari ingiustamente nel

foro esterno, secondo l’A. infatti, tale prevalenza può affermarsi: “sino

a quando l’atteggiamento individuale, di ripulsione verso l’autorità,

non presti, ad altri, occasione di rovina spirituale. È, infatti, precetto

inderogabile di diritto naturale e divino positivo che sia evitato lo

scandalo”44. Per altro verso un limite è ravvisabile pure in senso

inverso: “la difesa del «bonum communitatis», cui intende l’«evitatio

scandali», non può mai esigere, da parte del soggetto un’azione o

un’omissione che costituiscano peccato, mortale o veniale, perché

«mala non sunt facienda ut eveniant bona» o, come ammonisce la «regola

iuris», «utilius scandalum nasci permittitur, quam veritas reliquatur»”45. Il

Codice fa riferimento più volte, enumerando obblighi e diritti dei

fedeli, alla necessità che, nell’esercizio dei medesimi, sia evitato lo

scandalo, in particolare, ogniqualvolta il fedele esprime le proprie

opinioni, deve tenere presente l’effetto che tali opinioni potrebbero

avere sugli altri fedeli. Tuttavia vale, anche per tali norme, il limite

inverso appena accennato, per cui il fedele non potrà sacrificare la

propria salvezza, solamente per evitare uno scandalo, o per

salvaguardare, oltre ogni ragionevole limite, il bene della comunità

cristiana.

In questo continuo contemperamento di opposte necessità, il foro

interno diviene per il fedele, luogo della scelta giuridica, luogo in cui

determinare verso il bene la propria volontà personale46: bene che è

44 Ibidem, p. 145. 45 Ibidem, p. 147. 46 L’articolarsi della ragione pratica, che orienta l’uomo al compimento del bene, vede il suo primo momento nella volontà del soggetto agente, come ricordato da ABBÀ G., Felicità vita buona e virtù, cit., p. 247: “La fonte prima della condotta umana e delle sue eccellenze virtuose è la voluntas tomisticamente intesa, cioè il desiderio naturale di tutto ciò che può esser riconosciuto come un bene e del bene perfetto che sazia questo desiderio sconfinato. In questo desiderio naturale della volontà la ragione pratica svolge una funzione cognitiva e specificatrice, mediante un processo di determinazione che mira a definire il bene concreto da realizzare in ogni singola azione e che è guidato dal primo principio della ragione pratica: quel che si tratta di realizzare è il bene, quel che si tratta di evitare è il male”; si capisce come tale processo di

187

continuamente in bilico tra la dimensione personale e quella

comunitaria, all’interno della quale il battezzato vive la sua esistenza

terrena.

Se consideriamo gli obblighi e i diritti dei fedeli come mezzi per il

conseguimento della salus animarum ed al tempo stesso come

strumenti per la ricerca della giustizia, e se, come visto in questo

paragrafo, vi è una stretta correlazione tra foro esterno e foro interno

(dal punto di vista soggettivo), ambiti nei quali tali diritti ed obblighi

possono esplicare la loro efficacia giuridica, sarà opportuno

sottolineare l’importanza della volontà personale del fedele nel

determinarsi al rispetto di tali norme, anche e prima di tutto, nel foro

interno.

Nella corso della elaborazione canonistica relativa ai due fori, si

distingueva tradizionalmente il foro interno in due ambiti: il foro

interno sacramentale ed il foro interno extrasacramentale;

prescindendo qui da una analisi analitica della distinzione47, non

sempre peraltro univoca, da parte della dottrina canonistica, ci

interessa sottolineare come, il foro interno extrasacramentale, possa

essere associato con una certa chiarezza al discorso che qui si sta

affrontando.

Nel rispetto, infatti, dei canoni riguardanti obblighi e diritti dei

fedeli, da parte dei medesimi, non si parla necessariamente, nel caso di

violazioni a tali norme, di peccato da parte del fedele, cosa che

avvicinamento alla comprensione del bene da fare, si svolga nel foro interno, come luogo giuridico della determinazione dell’uomo al bene. 47 Si fa peraltro notare come, nonostante dal Codice di Diritto Canonico promulgato nel 1983, sia stato eliminata la distinzione tradizionale foro interno sacramentale-foro interno extrasacramentale, tuttavia l’art. 118, della Costituzione Apostolica sulla Curia romana Pastor Bonus, 28.VI.1988, in AAS 80 (1988), pp. 841-923, parla esplicitamente di tale distinzione, ai fini della individuazione delle funzioni operative svolte dalla Penitenzieria; ciò parrebbe a sostegno di una effettiva distinzione per “materia” di ciò che avviene nel foro interno. Per un breve (e non esaustivo) commento alla norma in questione si veda: GIROTTI G., Penitenzieria Apostolica.Commento agli artt. 117-120 della Pastor Bonus, in PINTO P. V. (a cura di), Commento alla Pastor Bonus e alle norme sussidiarie della Curia Romana, Città del Vaticano 2003, pp. 170-172.

188

verrebbe, in un primo momento da pensare, se si associ il concetto di

foro interno, alla nozione tradizionale di foro interno sacramentale, e

del quale si occupa in via principale la Penitenzieria Apostolica48. Al

contrario, e come a suo tempo evidenziato dal Saraceni, nel foro

interno extrasacramentale: “ si provvede anche alla coscienza, ma non

si può non considerare che, in esso, sia pure con effetti limitati al

relativo ambito e che, abbiamo visto, solo eccezionalmente si

estendono all’ordine esterno, si attende, come a oggetto immediato, alla

disciplina di rapporti esteriori e sociali, anche se occulti, secondo

l’ordine stabilito dal diritto, disciplina sostanzialmente identica a

quella che, con effetti più ampi, si persegue nell’esercizio del foro

esterno”49.

La volontà individuale del fedele, esercitata nel foro interno,

diviene così il vero e proprio “organo attuativo”50 dell’ordinamento

giuridico canonico; in questo senso: “La volontà individuale, spinta

dal dovere di coscienza, vi assume un valore preminente, perché

indispensabile per la riconciliazione sacramentale con Dio e perché

mezzo tecnico per la conservazione dell’ordine stabilito dal diritto,

che, senza spontanea osservanza, risulterebbe disatteso e carente di

reazioni”51, fatto questo che potrà divenire un reale problema in un

ordinamento statuale, ma che difficilmente avverrà in un ordinamento,

come quello canonico, nel quale, la volontà individuale, trova la sua

fonte normativa primaria in quello ius che, in quanto giusto e fonte di

48 Anche se la Penitenzieria Apostolica, è bene ricordarlo, si occupa anche del foro interno extrasacramentale; con l’espressione qui utilizzata vogliamo solamente indicare il fatto che mentre le questioni di foro interno sacramentale sono abbastanza ben individuate, quelle di foro interno extrasacramentale sono assai variegate e difficilmente classificabili. Vedi sul punto: TODESCHINI U. M., La Penitenzieria Apostolica, cit. Vedi pure: DE MAGISTRIS L. – TODESCHINI U. M., La Penitenzieria Apostolica, in BONNET P. A. – GULLO C. (a cura di), La Curia romana nella costituzione apostolica Pastor bonus, Città del Vaticano 1990, pp. 419-429; MIRAGOLI E., La Penitenzieria Apostolica: un organismo a servizio dei confessori e dei penitenti, in Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998), pp. 395-405. 49 SARACENI G., Op. cit., p. 161. 50 L’espressione è utilizzata dal SARACENI, Op. cit., p. 178, ma è mutuata da TAPARELLI L., Saggio teoretico di diritto naturale, vol. II, Roma 1928, p. 248, n. 1467. 51 SARACENI G., Op. cit., p. 179.

189

salvezza, viene spontaneamente riconosciuto dai fedeli come degno e

meritevole di essere osservato, sia all’esterno, sia in interiore. Il nostro

Autore conclude dando, come definizione di foro interno (inteso nella

sua unità di sacramentale ed extrasacramentale) la seguente:

“giurisdizione segreta condizionata dalla volontaria adesione dei

soggetti all’ordine etico-teologico o all’ordine giuridico in situazioni

occulte”52.

L’importanza della coscienza, come luogo giuridico in cui il

fedele è vincolato dalle norme del diritto divino, è d’altra parte una

delle peculiarità, lo ripetiamo, del diritto ecclesiale, rispetto al diritto

dello stato53.

D’altra parte, il foro interno è caratteristica indispensabile

affinché il diritto canonico sia per i fedeli strumento di salvezza, dal

momento che, la possibilità di disattendere le norme canoniche, nel

caso queste divengano un ostacolo per la salvezza, sorge anzitutto per

motivi che riguardano tale foro, piuttosto che quello esterno, o,

quantomeno, primariamente sorgono in tale foro.

Parlando delle materie che rientrano fra quelle proprie del foro

interno il Fuček ricorda come: “Il Foro interno…è il complesso degli

oggetti, degli atti e delle conseguenze che i fedeli attingono o pongono

in essere con atti interni dalla loro coscienza che in quanto tali sono

conoscibili (lecitamente) solo per volontaria manifestazione. […]

Poiché tutti gli atti propriamente umani (e così denominati), distinti e

diversi da quelli che sono soltanto actus hominis, procedono dalla

coscienza, e sono in relazione trascendentale col fine ultimo dell’uomo,

o come atti meritori o come peccati che impediscono o ritardano il

raggiungimento dello stesso fine ultimo dell’uomo, tutta la vita morale

dell’uomo può essere oggetto dell’esercizio del Foro interno”54.

52 SARACENI G., Op. cit., p. 179. 53 Cfr.: BACCARI R., Il potere autodecisionale dei fedeli, in AA. VV., Ius Populi Dei. Miscellanea in honorem Raymundi Bidagor, vol. I, Roma 1972, pp. 449-463. 54 FUČEK I., Foro interno in generale, cit. Come esempi di categorie pertinenti al foro

190

interno il medesimo autore indica, fra le altre: “gli stati d’animo, le abitudini, le tendenze di ordine psicologico o morale, che abitualmente non si manifestano all’esterno del soggetto agente e che, anche qui d’ordinario, egli non ama che siano comunque resi noti a terzi, come per esempio scrupoli, vizi interni, fobie e simili”. L’A. utilizza numersi segni grafici nel suo scritto, che noi abbiamo qui eliminato (n.d.r.).

191

4.5. Il fedele ed il valore morale della norma.

Come sostenuto dal Bobbio: “Il concetto di morale è

problematico”1, e certamente, tale affermazione appare una certezza se

si dà, anche solo in maniera superficiale, uno sguardo alla tematica

riguardante il rapporto tra il diritto e la morale2. Tale tema ha infatti

appassionato filosofi e giuristi, tanto che appare addirittura difficile

fissare una data o un momento in cui sia iniziato il dibattito attorno a

tale rapporto. La problematicità del tema non ci esime tuttavia

dall’affrontarlo, seppur brevemente, in questa sede, dal momento che,

volendo definire le relazioni intercorrenti tra lo statuto della persona e

quello del fedele nell’ordinamento canonico, è doveroso descrivere

anche il valore morale della norma canonica, visto che la moralità

insita nella norma canonica, sarà motivo, anche per la persona umana

che non sia un fedele, di obbedienza e riconoscimento normativo se

non altro a livello naturale. Ed al tempo stesso, il fedele, possiede un

orientamento morale attraverso il quale si orienta al rispetto delle

norme, e quindi la morale non può essere assolutamente tralasciata in

un discorso riguardante lo statuto giuridico del fedele.

Se è problematico definire il concetto di morale nella sua

dimensione di relazione con il diritto, appare di più facile soluzione

stabilire quando si sia iniziato a separare in due ambiti distinti ed

incomunicabili il diritto e la morale, dal momento che il primo

propugnatore3 di una separazione totale tra i due ambiti fu Thomasio4,

1 BOBBIO N., L’età dei diritti, in Il Terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, Torino 1989, p. 116. 2 Una ulteriore complicazione del rapporto intercorrente tra diritto e morale, deriva dal fatto che: “Abbiamo un’abbondanza, di cui quasi non si sentiva il bisogno, di definizioni del diritto. Ma quando il diritto è confrontato con la morale, sembra presunto che ognuno conosca che cosa sia compreso nel secondo termine del rapporto”, FULLER L. L., La moralità del diritto, Milano 1986, p. 9. 3 Tuttavia anche scrittori anteriori trattarono tale tematica, anche se in maniera non organica, come ad es. Marsilio da Padova, ed addirittura Aristotele; vedi sul punto: DEL VECCHIO G., Lezioni di filosofia del diritto, Milano 1965, p. 29. 4 THOMASIO C. (1655-1728), Fondamenta iuris naturae et gentium, 1705. Per una sintesi minima del pensiero di questo autore si veda: HERVADA J., Síntesis de historia de la ciencia del derecho natural, Pamplona 2006, pp. 99-101. Si noterà come il pensiero di questo A. abbia influenzato, e non poco, il pensiero del Kelsen, specie con

192

seguito tra gli altri dal Bentham, il quale, in opposizione a quanto

sostenuto dal Blackstone5, separa nettamente l’ambito del diritto (ciò

che il diritto è [is] ) dall’ambito della morale (ciò che il diritto deve essere

[ought to be])6. Per i positivisti giuridici del secolo XVII, la risposta alla

domanda: «Che cos’è il diritto?», poteva ricevere una risposta di tipo

fondamentalmente volontaristico: “il diritto positivo è l’insieme dei

comandi dell’autorità sovrana, i quali sono dotati di forza vincolante”7;

tale risposta, come appare di tutta evidenza, eliminava dalla

discussione il giudizio di valore sul diritto8, dal momento che la

promulgazione positiva, da parte della autorità sovrana, diveniva di

per sé sola sufficiente a dotare il diritto di tutte le caratteristiche sue

proprie e necessarie9.

Come correttamente sottolineato: “L’impostazione che separa il

diritto dalla giustizia tende a vedere il sistema normativo giuridico

quale struttura di coercizione, legata alla volontà del potere (anzitutto

dello Stato) che s’impone ai singoli […] l’esito implacabile della sua

logica conduce verso una scissione del diritto da ogni legame con la

riguardo alla definizione di norma giuridica, la quale sarebbe tale solo allorquando vi fosse connessa una sanzione nel caso del suo mancato rispetto da parte di un soggetto; ma anche le sue tesi riguardanti l’etica come ciò che è onesto rappresentano senza dubbio una anticipazione, seppure non così raffinata, dell’imperativo categorico kantiano. 5 BLACKSTONE W. (1723-1780), Commentaries on the Laws of England, London 1793. 6 BENTHAM J. (1748-1832), A Comment on the Commentaries, Oxford 1928. Si veda anche: ID., Theory of Legislation, London 1931; ID., A fragment on Government, Oxford 1960; ID., An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, Oxford 1960; ID., Commentary on Humphrey’s Real Property Code, in Works, Edinburg 1843. 7 PATTARO E., Diritto, morale e concezione realistica del diritto, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile (1969), p. 15. 8 È in pratica la rivincita del diritto sulla morale, e “per gli stessi identici motivi per i quali tradizionalmente esso appariva dotato, agli occhi dei moralisti, di un’eticità mediocre: per la sua intrinseca e irrimediabile carenza di autenticità”, dal momento che quando vi sono una pluralità di ordinamenti positivi, appare difficile poter accettare l’esistenza di un sistema giuridico che, in quanto non scritto, sembra difficile rispettare e dunque non sembra autentico, D’AGOSTINO F., Il diritto come problema teologico ed altri saggi di filosofia e teologia del diritto, Torino 1997, p. 85. 9 “Ridotto a un insieme di norme tecniche (non troppo diverse dalle «istruzioni» di funzionamento di un apparato meccanico), il diritto viene pensato dai positivisti alla stregua di uno degli strumenti sistemici dell’ordine sociale, il che indubbiamente esso è, purchè però non si dimentichi che un ordine, in quanto tale, può anche essere, al limite, atrocemente ingiusto (e quindi non coesistenziale), come quello concentrazionario di un Lager”, D’AGOSTINO F., Giustizia, cit., p. 21.

193

realtà ontologica della persona, in modo che ciò che resta è una realtà

puramente formale e tecnico-strumentale, la cui specificità viene

normalmente ravvisata nel monopolio della forza. […] Il diritto finisce

così per essere una realtà estrinseca all’uomo, una regola eteronoma,

che proviene cioè dall’esterno della persona e la limita e la costringe

dal di fuori. Il sistema giuridico appare di conseguenza quale artefatto,

la cui comprensione ed uso è affidata ai giuristi, il cui profilo è di meri

tecnici che si muovono all’interno del corrispondente sistema

normativo”10.

Le conseguenze del positivismo “separatista”, sono senza dubbio

infauste, specialmente per la persona umana; è al contrario importante

sottolineare, anche per quanto riguarda i diritti statuali, che: “il diritto

trova la sua matrice nelle esigenze morali e si spiega solo nel quadro di

una concezione morale della vita. Non è senza significato che le

correnti positivistiche e formalistiche hanno sempre cercato di

distinguere ontologicamente il diritto dalla morale con il ricorso ai più

strani e differenti criteri ma con l’unico intento di colpire a morte quel

momento vivificatore e giustificativo senza del quale il diritto è alla

mercè della volontà di un despota. Solo un diritto ancorato al mondo

della morale potrà essere in grado di tutelare le fondamentali esigenze

di libertà dell’individuo, perché il diritto deve essere inteso come

garanzia di libertà della umana persona non nata per soffocare sotto la

pesante coltre di un positivismo che sul piano politico è sinonimo di

totalitarismo”11.

Un elenco dei sostenitori dell’una piuttosto che dell’altra teoria

occuperebbe molte pagine, e non rientra nell’alveo della nostra ricerca;

è tuttavia importante segnalare che, come spesso accade, l’aver posto

la questione del rapporto morale-diritto in termini escludenti, ha

10 ERRÁZURIZ C. J., Sul rapporto tra diritto e giustizia: valore e attualità della tradizione classica cristiana, in Persona y derecho 40 (1999), p. 338. 11 BETTIOL G., Dal positivismo giuridico alle nuove concezioni del diritto, in Scritti giuridici, tomo II, Padova 1966, p. 863.

194

portato di fatto ad una netta prevalenza dei sostenitori delle teorie che

separano decisamente i due ordini (quello morale da quello

giuridico12) ma, sia detto subito, seppure con argomentazioni spesso

assai raffinate e in alcuni casi pure condivisibili, riteniamo che la

separazione della morale dal diritto sia una cosa assolutamente errata,

e tanto più è errato per quello che riguarda il diritto canonico.

Il presupposto base di tutte le teorie “separatiste”, pur con

differenze e sfumature che spesso non ne consentono agevoli

assimilazioni, è che lo Stato o un qualsivoglia legislatore abbiano

comunque la potestà assoluta sulla persona, che diviene così suddito o

soggiace in maniera più o meno assoluta alle norme giuridiche che il

legislatore impone in maniera positiva13. Il ruolo della persona, del

soggetto agente, di fronte alla legge, però, è tutt’altro che ininfluente14,

dal momento che l’osservanza della legge è un qualcosa di intrinseco

alla volontà del soggetto; non è semplice conformismo o adattamento

12 Solo per segnalare alcuni dei sostenitori della separazione tra diritto e morale si vedano: PAINE T. (1737-1809), The Rights of Man, New York 1984; AUSTIN J. (1790-1859), The Province of Jurisprudence Determined, London 1954; AMOS S. (1835-1886), The Science of Law, London 1874; MAINE H. S. (1822-1888), Early History Institutions, Londra 1875; MARKBY W. (1829-1914), Elements of Law, Oxford 1905; HOLMES O. W. (1841-1935), Collected Legal Papers, New York 1952; RADBRUCK G. (1878-1949), Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht, in Rechtsphilosophie, Stuttgart 1956; RHEINSTEIN M., What should be the Relation of Morals to Law?, in Journal of Public Law (1952); COHEN F. S., Ethical Systems and Legal Ideas, New York 1953; ROMANO S. (1875-1947), L’ordinamento giuridico: studi sul concetto, le fonti e i caratteri del diritto, Pisa 1917; CALAMANDREI P., La certezza del diritto e la responsabilità della dottrina, in Rivista di diritto commerciale (1942); KELSEN H., La dottrina pura del diritto, Torino 1952; ROSS A. (1899-1979), On Law and Justice, London 1958; HART H. L. A., Positivism and the Separation of Law and Morals, in Harvard Law Review (1958), pp. 594 ss. Tuttavia ci preme segnalare che un autore noto quale il Kelsen, in un primo momento della sua riflessione, sostiene che solamente le norme morali presentano il carattere della imperatività; vedi: Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, Tubinga 1923, pp. 202-210. 13 Secondo Ricoeur la legge naturale, che presenta un fortissimo legame con la morale, è un concetto di primaria importanza specie se posta in relazione ai rapporti stato-persona: “Esso (il concetto di legge naturale n.d.r.) ha storicamente giocato contro il volontarismo dello Stato, contro la sua pretesa di porre il diritto, di trarre la legge morale dal diritto positivo. Diritto naturale si oppone quindi a diritto positivo; il concetto diviene nel medesimo tempo un concetto progressista, che insorge dal fondo istituzionale non statuale della produzione dell’ordine etico contro la sovrastruttura della volontà statuale”, RICOEUR P., Etica e morale, Brescia 2007, p. 104. 14 Per una trattazione della morale che prenda come riferimento il soggetto, piuttosto che l’oggetto, si veda il celebre HÄRING B., La legge di Cristo, Brescia 1957.

195

materiale ad essa, è un qualcosa di più, è un riconoscere la legge nel

suo valore spirituale di categoria delle azioni umane. Il semplice

legalismo astratto, quando si conforma alla lettera della legge, ne

uccide lo spirito, limitando la legge a semplice involucro letterario:

verrebbe a mancare in tal caso qualsiasi rapporto con il valore

universale della legge naturale15, ci porterebbe a quella adorazione del

fatto compiuto la quale, secondo un celebre filosofo del diritto:

“contraddice all’esigenza critica della nostra coscienza”16. Ciò

comporta pesanti conseguenze anche sulla autorevolezza nonché sulla

rispettabilità (ci si passi il termine) delle norme poste in totale

violazione di norme etico-morali, che invece sono riconosciute come

valide da coloro che alle norme positive sono sottoposti. Inoltre appare

di tutta evidenza che, la errata impostazione della questione, per cui si

separa nettamente il diritto dalla morale, può portare ad intollerabili

forme di ingiustizia, cosa peraltro non rara nemmeno negli

ordinamenti giuridici attuali, i quali si basano, nella loro prevalenza e

comunque per la maggior parte delle norme, su una separazione tra

diritto e morale17.

Tale separazione tuttavia, è avvenuta abbastanza recentemente,

dal momento che, fino ad un certo momento storico, era ben lungi

dall’essere anche solo ipotizzabile una distinzione netta dei due

ambiti. Come ricorda il Cotta, per la filosofia greca: “il diritto non ha

solo qualità etica, ma occupa la posizione più alta nell’ordine etico. È

15 Cfr.: GENTILE G., Discorsi di religione, Firenze 1920, p. 110. 16 DEL VECCHIO G., Lezioni di filosofia del diritto, Città di Castello 1930, p. 119. 17 Ricordiamo le parole di un grande penalista riguardo la falsità della impostazione positivistica e delle sue infauste conseguenze: “Non dobbiamo – invero – dimenticare oggi quella che è stata la tragica esperienza di ieri: abbiamo sofferto lungamente non solo per il carcere che portavamo in noi stessi, ma abbiamo subito la schiavitù mentale di una falsa e monca impostazione giuridica, di un diritto «senza verità», di un diritto «senza giustizia», di un diritto «senza anima». Chiusi nella tragica immobilità di un sistema naturalistico o di un concettualismo fine a se stesso, non abbiamo sentito il palpito vivificatore di quella sostanza etica nella quale si esprime la verità e la giustizia del diritto, sì che le nostre menti ancora giovanili hanno corso il rischio di finire, come per tragico fenomeno di adattamento, in uno sciatto e volgare conformismo ufficiale al seguito di una scienza «paludata» che non aveva sentito il peso della sua tremenda responsabilità”, BETTIOL G., Op. cit., p. 858.

196

facile comprendere il perché: il diritto ordina i rapporti umani, ma non

si ordina in modo oggettivo se non secondo giustizia. Il diritto, si

potrebbe dire, è la giustizia nella sua determinazione prescrittiva;

perciò la giustizia non è il dover essere del diritto, bensì il suo stesso

essere”18, ciò in completa antitesi, come visto, con quanto sostenuto dai

positivisti moderni.

L’impostazione seguita dalla filosofia greca19 e romana, rimane

sostanzialmente la stessa seguita dal Cristianesimo, il quale: “muta

l’assetto generale della morale, ma non il rapporto tra diritto e

giustizia. Muta l’assetto della morale in seguito all’introduzione delle

virtù teologali, sovraordinate a quelle cardinali, culminanti le prime,

nella carità, centro etico della lex nova e radix, mater, forma omnium

virtutum, per riprendere le insistite formule di s. Tommaso. Ma il

rapporto tra diritto e morale rimane inalterato, anzi forse persino

rafforzato a causa della teorizzata dipendenza del diritto positivo dal

diritto naturale e, per esso, dalla lex aeterna, secondo una

concatenazione che in s. Tommaso assuma, rispetto al pensiero greco-

romano, la massima sistematicità”20; certamente esiste una differenza

tra il diritto e la morale, ma differenza non significa separazione tra i

due ambiti.

Nel dare una definizione del diritto in rapporto alla morale

Bobbio scriveva che: “il complesso delle norme giuridiche, nella

18 COTTA S., Il diritto di fronte alla morale, in AA. VV. Ordine giuridico e ordine morale. Rapporto e distinzione tra diritto e morale, Bologna 1985, p. 15. 19 L’esistenza per la cultura greca di un diritto divino superiore ad ogni tipo di legislazione umana, è attestato non solamente a livello filosofico, ma anche a livello culturale, si veda come esempio: SOFOCLE, Antigone, versi 450-457, ove Antigone rivolgendosi a Creonte dice: “Non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e incancellabili degli dei. Infatti queste non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono e nessuno sa da quando apparvero”; bellissima e profonda l’idea della incancellabilità di qualcosa che non ha forma scritta e che proprio per questo presenta il carattere della eternità, così lontana da quello scripta manent che regola troppo spesso i nostri rapporti giuridici. Come ricordato anche da D’AGOSTINO F., Giustizia, cit., p. 19: “come ben sapevano i greci, il diritto naturale è un diritto non scritto (ágraphos nómos), che però è non scritto di principio e non solo di fatto”. 20 COTTA S., Op. cit., pp. 15-16.

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maggior parte delle accezioni, costituisce un corpo intermedio di

regole della condotta, situato tra le regole della morale e quelle del

costume: generalmente esse vengono distinte, rispetto alle prime,

perché sono meno vincolanti, rispetto alle seconde perché più

vincolanti; onde la raffigurazione della normatività umana in tre stadi

gerarchicamente disposti, moralità, giuridicità, costume, con la

conseguenza che di fronte ad un contrasto tra regola del costume e

regola giuridica prevale la seconda, tra regola morale e regola

giuridica prevale la prima”21.

Seguendo il pensiero cristiano, per il quale la morale rappresenta

la legge nella sua dimensione ultramondana, è bene ricordare che, la

dimensione mondana non è indipendente dalla prima: “la condizione

temporale, con tutte le esigenze di vita e i beni che la caratterizzano,

non è, agnosticamente, la perversa negazione della vita in temporale,

bensì è la via (status viae) percorrendo la quale si rende possibile

all’uomo il raggiungimento dello status patriae. Pertanto, tra ciò che

dirige la vita temporale, il diritto-giustizia, e ciò che dirige alla vita in

temporale, se non v’è di certo identità, non v’è neppure contraddizione

radicale”22.

D’altra parte, anche pensatori non cristiani hanno apertamente

sostenuto non solo l’esistenza di un diritto superiore, legato in maniera

strettissima a norme di tipo morale, ma hanno pure riconosciuto

l’importanza di un diritto siffatto23, più spesso individuato nel diritto

naturale; a tal proposito Marcuse scriveva: “L’idea che esista un diritto

più alto del diritto positivo è vecchia come la civiltà stessa. Il conflitto

giuridico, davanti al quale si trova qualsiasi opposizione che superi 21 BOBBIO N., voce Diritto, in AZARA A. – EULA E. (diretto da), Novissimo digesto italiano, V, Torino 1960, p. 770. 22 COTTA S., Op. cit., p. 19. 23 Si vedano, fra gli altri: BOBBIO N., Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano 1965; BLOCH E., Gesamtausgabe, vol. VI, Frankfurt a. M. 1967, ed anche in CANGIOTTI M., Diritto naturale e dignità dell’uomo in Ernst Bloch, in Rivista di filosofia neoscolastica 75 (1983), pp. 87-109; HABERMAS J., Prassi politica e teoria critica della società, Bologna 1973, pp. 127-174; TOPITSCH E., A che serve l’ideologia?, Bari 1975, pp. 45-66; KNAPP V., La scienza del diritto, Bari 1978;

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appena la sfera privata, nasce appunto da questa idea. E infatti

l’ordine costituito ha dalla sua il monopolio legale della violenza e il

diritto positivo […] Ma a ciò si oppongono il riconoscimento di un

diritto più alto e il riconoscimento del dovere di resistere come forza

propulsiva dello sviluppo storico della libertà, il diritto e il dovere

della disobbedienza civile come violenza potenzialmente legittima.

Senza questo diritto di resistenza, senza questo intervento di un diritto

più elevato contro il diritto esistente, oggi noi ci troveremmo ancora al

livello della più primitiva barbarie”24.

Ci pare che il problema del rapporto tra morale e diritto, sia stato

affrontato, quasi esclusivamente, ponendosi nell’ottica della norma,

piuttosto che nell’ottica del soggetto (attivo o passivo) della norma25.

Ponendosi nell’ottica della norma, e dunque, in un certo senso, del

legislatore, appare assai difficile sanare il contrasto tra morale e diritto,

dal momento che assai difficilmente colui che detiene il potere

accetterà di subire limitazioni da parte di un entità che egli valuta

astratta e, soprattutto, non dotata di forza coercitiva. Viceversa è

necessario porre al centro di questa dualità il soggetto della norma, la

persona26, la quale, a differenza della norma, possiede una coscienza,

coscienza che è vincolata, in modo indissolubile, alla morale. Come

scriveva giustamente il Del Vecchio: “Lo spirito umano non si appaga

24 MARCUSE H., La fine dell’utopia, Bari 1968, p. 60. L’A. non è certo stato, come noto, un pensatore cristiano, dal momento che egli stesso si definiva marxista, socialista ed hegeliano, tuttavia la sua osservazione serve qui a sostenere la nostra tesi, per cui è impossibile separare il diritto dalla morale, a meno di non voler creare un ordinamento ingiusto. 25 Si veda ad esempio: RAVÀ A., Il diritto come norma tecnica, Cagliari 1911. Per l’A. il diritto si differenzia dalla morale perché le azioni da esso prescritte sono buone non in sé stesse, ma perché perseguono il fine ultimo della conservazione sociale. 26 In tal senso si veda: FUCHS J., Lex naturae. Zur Theologie des Naturrechts, Düsseldorf 1955, il quale ricordava che: “Noi cerchiamo sempre di trarre ampie enunciazioni concrete sull’essere dell’uomo come tale (natura metaphysica et absoluta) e correlativamente sul suo senso e sul dovere etico provvisto di essere di senso, derivandole dall’esperienza dell’uomo concreto e della riconosciuta natura metafisica dell’uomo”, p. 53. L’A. è pure convinto assertore del fatto che , allorquando l’uomo non riesca , con i suoi soli strumenti, ad individuare i corretti principi del diritto naturale, dovrà affidarsi alla autorità della Chiesa, la quale è “interprete autentica” di “quanto non sia stato formalmente rivelato”, Op. cit., p. 150.

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ad una qualsiasi proposizione giuridica positiva, ma tende, per

propria vocazione, al riconoscimento del giusto in sé, e verso questo

riconoscimento procede anche correggendo i propri errori”27.

Ecco dunque che la differenza morale-diritto, se si prende come

punto di riferimento la persona, anziché la norma, appare meno netta

ed insanabile, dal momento che la moralità umana è dato

incontestabile, anche se ci si pone nell’ottica del più radicale dei

positivisti; tale moralità influisce necessariamente sulla norma o, se si

preferisce, sulla sua applicazione pratica, dal momento che, se non nel

momento costitutivo (nel senso di formulazione della norma da parte

dell’autorità preposta a farlo), senza dubbio nel momento applicativo,

la morale del soggetto interviene in maniera decisiva sulla norma. Si

può a tal proposito riprendere la definizione che il Rosmini da del

diritto come: “un’attività fisico morale, la quale non può esser lesa

dall’altre persone”28, per comprendere meglio la nostra ultima

affermazione, ove la impossibilità di ledere le altre persone è senza

dubbio attribuibile alla sfera applicativa del diritto, per la quale la

morale è un momento sicuramente decisivo.

L’ordinamento giuridico canonico, mantiene uniti l’ambito

morale e quello giuridico29, anche perché, la finalità di tale

ordinamento è strettamente collegata all’uomo ed al suo destino

ultraterreno30. Secondo quanto affermato dal Corecco in proposito, ciò

27 DEL VECCHIO G., Op. cit., p. 316. 28 ROSMINI A., Filosofia del diritto, vol. I, n. 51. 29 “la vita dei cristiani all’interno della Chiesa ha bisogno di un’ulteriore regolazione umana (oltre alla legge dell’AT ed a quella del NT n.d.r.), in buona parte esplicitazione o determinazione della legge morale naturale e della legge divina, che è la legge ecclesiastica o diritto canonico”, COLOM E. – RODRIGUEZ LUÑO A., Scelti in Cristo, cit., p. 267. Tale concezione del diritto canonico era caratteristica dei canonisti della cosiddetta scuola romana ottocentesca (Tarquini C., Cavagnis F., Soglia G.); si veda fra gli altri sul punto: VECCHIOTTI S. M., Institutiones canonicae ex operibus Ioannis Card. Soglia exerceptae, Torino 1876, I, 14-15. 30 Nella sua Regula monasteriorum del 530, la quale può senza dubbio essere considerata come la prima raccolta di norme completa, volta ad organizzare un monastero ed a guidare i monaci, S. Benedetto da Norcia utilizza una terminologia “mista” giuridico-morale; è significativo che tale terminologia si sia dimostrata particolarmente efficace, proprio ove si andavano a stabilire norme che attenevano

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è senz’altro vero: “Infatti, diritto e morale, che non sono realtà

adeguatamente distinte dato che l’ambito morale può avere risvolti

giuridici e viceversa, hanno in comune il fatto di essere due realtà che

toccano gli stessi ambiti: la coscienza e la ‘communio’, cioè la

Chiesa”31.

Una migliore comprensione sul perché, l’ordinamento canonico

incontri meno difficoltà, rispetto ad altri ordinamenti giuridici

moderni, a riconoscere il valore della morale per il diritto, al di là delle

considerazioni di tipo storico, viene fornita in modo convincente da

Hervada, il quale ricorda come l’ordinamento canonico, più che essere

solamente un complesso di norme giuridiche, rappresenti invece un

sistema di relazioni, cioè, di norme giuridiche volte a regolamentare

delle relazioni concrete. Per Hervada: “l’ordinamento canonico trova

la sua organicità nella misura in cui esso organizza un corpus

morale”32(e a maggior ragione se si intende con tale termine il corpo

mistico), in questa organicità ed unitarietà, le norme divine e le norme

umane trovano parimenti posto, e non può perciò sostenersi una

separazione così netta tra il diritto e la morale, se si vuole conservare la

unitarietà di tale ordinamento. Sempre per il medesimo autore, le

norme morali operano all’interno dell’ordinamento canonico al fianco

delle norme strettamente giuridiche, perché non è possibile separare

nettamente l’aspetto morale, visto che tali norme, esattamente come

quelle giuridiche: “regolano ed organizzano attività personali ed

attività sociali dei membri della Chiesa”33. In tal senso, ed anche per

alla persona fisica, nell’ambito di una dimensione sociale, poiché appare evidente che l’aspetto morale influisce a partire dal singolo, sulla dimensione sociale dell’uomo. Sulla regola benedettina si veda: SCHMITZ P., voce Benedictine Regle, in NAZ R. (diretto da), Dictionnaire de droit canonique, vol. II, Parigi 1924-1965, p. 304. 31 CORECCO E., Valore dell’atto “contra legem”, in Ius canonicum 15 (1975), p. 255. Per l’A. tra l’altro, diretta conseguenza del fatto che diritto e morale non costituiscano ambiti separati, è ritenuta la giuridicità del foro interno, dal momento che esso, indubbiamente collegato alla morale dell’uomo, in quanto giuridico, rappresenta il naturale punto di incontro tra il diritto e la morale. 32 HERVADA J., El ordenamiento canónico, cit., p. 122; (la traduzione italiana è nostra n.d.r.). 33 HERVADA J., Op. cit., p. 155. L’A. ricorda in particolare l’importanza del foro

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ricordare un canonista non appartenente alla scuola di Navarra,

citiamo pure il Sobanski, il quale ricorda che le norme canoniche e

quelle morali (etiche), sono indivisibili, in quanto riguardano il

medesimo ambito: “vogliamo sostenere la tesi che sia la norma etica

che quella canonica comprendono l’unico e lo stesso ordinamento

della vita cristiana, benché in sfere non del tutto sovrapponibili e

formalmente in aspetti diversi”34.

Come abbiamo già detto in altri termini, laddove abbiamo

affrontato il tema del rispetto dello ius ontologico da parte del fedele

(parte II, cap. 2), il fedele ha la capacità innata di orientarsi verso il

giusto ed il bene, che rappresentano il contenuto della legge morale,

secondo quanto insegna la teologia morale; la legge morale è:

“un’ordinatio rationis naturale verso il bene, come partecipazione della

legge eterna. L’uomo ha la percezione di ciò che è ragionevole per

natura, indipendentemente da qualsiasi legge positiva. La legge

morale naturale è la legge che la ragione possiede per natura, in virtù

della quale alcuni fini [quelli cioè che orientano verso il bene ed il

giusto n.d.r.] sono naturalmente conosciuti dall’uomo in quanto tali,

vale a dire, come principi dell’attività pratica della ragione. Si può

parlare in questo senso di una ratio naturalis, parte essenziale della

natura pratica dell’uomo, cioè della natura propria dell’uomo in

quanto agente razionale o in quanto soggetto morale”35. Tale

ragionamento, per cui l’uomo può conoscere il valore morale delle

norme, scritte o meno che siano, è ritenuto errato dai positivisti, poiché

si rifanno a quanto esprimeva Kant nella sua Critica della ragion pura,

ove si sostiene che l’intelletto umano, non può conoscere ciò che

attiene all’assoluto, e dunque ciò che Dio inscrive nel cuore dell’uomo

e nella sua ragione e che da la possibilità all’uomo di conoscere ciò che interno, che, in quanto ambito del soggetto in parte regolato da norme canoniche, dimostra la importanza della morale per le norme canoniche, le quali, solo se moralmente valide, obbligheranno il fedele nel foro interno. 34 SOBANSKI R., Kanonische Norm – Ethische Norm. Grundlegende Vorbemerkungen zum Problem, in Collectanea teologica 53 (1983), p. 100. 35 COLOM E. – RODRIGUEZ LUÑO A., Op. cit., p. 277.

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è giusto a priori36, ed a prescindere da una positivizzazione di ciò che è

giusto.

Naturalmente tale concezione non ci trova d’accordo, dal

momento che, a nostro parere, è ben possibile che la persona conosca

ciò che attiene all’assoluto anche se in forma magari imperfetta, e ciò

in adesione a quanto sostenuto dalla filosofia tomistica sul punto. In

particolare per quanto riguarda la conoscenza della legge eterna,

ricordiamo quanto affermato da S. Tommaso: “Lo stesso si dica della

legge eterna: nessuno la può conoscere come è in se stessa, all’infuori

dei beati che vedono Dio per essenza. Ma qualsiasi creatura

ragionevole la conosce, più o meno bene, nelle sue irradiazioni. Infatti

ogni conoscenza della verità è una irradiazione o partecipazione della

legge eterna, la quale, come si esprime S. Agostino, è la verità

immutabile. E la verità tutti in qualche modo la conoscono, per lo

meno nei primi principi della legge naturale. Per il resto alcuni

partecipano di più altri meno codesta conoscenza della verità; e quindi

diversamente conoscono la legge eterna”37. Chiaramente la legge

eterna deve intendersi quale legge anche morale, secondo quanto

insegna il magistero, per cui: “La legge morale proviene da Dio e trova

sempre in lui la sua sorgente: in forza della ragione naturale, che deriva

dalla sapienza divina, essa è, al tempo stesso, la legge propria dell’uomo.

La legge naturale infatti, come si è visto, «altro non è che la luce della

intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si

deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio

l’ha donata nella creazione»”38.

Certo, la scelta che orienta il fedele e l’uomo al compimento di ciò

che è giusto, non può essere casuale, al contrario, per compiere una

36 Per Kant, infatti, solamente le nozioni formali sono conoscibili dall’uomo a priori e non lo sono invece le nozioni che trascendono la possibilità di una qualsiasi esperienza sensibile; concetti metafisici, in quanto non scientificamente sperimentabili, non sono per Kant conoscibili. 37 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 93, a. 2. 38 VS, n. 40; il corsivo è nell’originale [n.d.r.].

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scelta buona, sarà necessario porre in essere tale scelta, secondo un

“percorso”, che elimini ciò che può ostacolare il bene e dunque

orientare al male. In estrema sintesi possiamo dire che tale

perfezionamento si compie attraverso livelli successivi: “ 1)

L’intenzione abituale di un fine retto, e la rimozione degli ostacoli che

a tale intenzione si oppongono. […] 2) La capacità abituale di

individuare l’azione o le azioni attraverso le quali il fine retto può

essere realizzato qui e ora, e la neutralizzazione degli elementi che

ostacolano l’individuazione della scelta giusta. […] 3) La scelta e la

realizzazione dell’azione indicata dal giudizio prudenziale”39. La

teologia morale distingue in due momenti la scelta del fine morale

giusto; la scelta morale virtuosa si compie in due dimensioni: una

dimensione intenzionale ed una dimensione elettiva, la virtù morale è

pertanto: “desiderio abituale dei fini retti”40 ed in tal senso si parla di

dimensione intenzionale della scelta virtuosa, ed al tempo stesso è:

“scelta delle azioni che li realizzano”41 ed in questo secondo senso si parla

di dimensione elettiva della virtù. Questa doppia dimensione è dovuta

al fatto che i fini della virtù sono ben determinati ed universalmente

validi, mentre le azioni che in concreto servono a realizzare tali fini

variano a seconda delle concrete occasioni e circostanze in cui devono

essere realizzate. Sempre seguendo il pensiero del magistero,

possiamo affermare che non è che l’uomo manchi di quella libertà

necessaria a valutare autonomamente quale sia per lui la scelta morale

giusta, al contrario: “La giusta autonomia della ragione pratica

significa che l’uomo possiede in se stesso la propria legge, ricevuta dal

Creatore. Tuttavia, l’autonomia della ragione non può significare la

creazione, da parte della stessa ragione, dei valori e delle norme morali”42.

Se spostiamo tale ragionamento, prevalentemente morale, sul

piano giuridico, possiamo così tradurre quanto esposto: il fedele si 39 COLOM E. – RODRIGUEZ LUÑO A., Op. cit., pp. 237-238. 40 Ibidem, p. 239. 41 Ibidem, p. 239. 42 VS, n. 40.

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orienta al rispetto delle norme in due momenti, egli desidera che la sua

condotta sia regolata da norme giuste ed eque, in adesione a tale suo

desiderio (intenzione di giustizia), egli sceglie di orientare il suo

comportamento in modo rispettoso delle norme che ritiene essere

portatrici di questo suo desiderio di giustizia ed equità (elezione di un

comportamento giusto). Ora, se le norme non sono volte ad orientare

la persona ad un comportamento moralmente corretto, esse non

verranno percepite dalla persona come degne di essere osservate,

perché il giudizio giuridico-morale nell’uomo prevale su quello

esclusivamente giuridico.

Kant, per ritornare al punto da cui eravamo partiti per arrivare a

tali nostre considerazioni, distingue, nella sua Critica della ragion

pratica, tra i motivi dell’operare (le “azioni interne”) e l’aspetto fisico

dell’operare (le “azioni esterne”); secondo il filosofo, per la morale

conta solamente il motivo dell’operare, mentre l’azione esterna

rimarrebbe del tutto indifferente alla sfera della morale, tuttavia, se

così fosse, il soggetto non avrebbe alcun modo di orientare le proprie

azioni verso ciò che è moralmente giusto, dal momento che la

valutazione morale si fermerebbe alla sola dimensione interiore.

Quando la norma giuridica esprime un valore morale, essa viene

per ciò stessa osservata dal fedele, il quale la valuta in grado di

garantire un valore, che è fondamentalmente quello della giustizia, che

egli reputa in coscienza essere meritevole di tutela, in quanto

tutelando tale valore è ugualmente tutelato lui pure e la società (la

Chiesa) in cui egli vive. Ed all’inverso, contrariamente a quanto

sostenuto da Kant, la dimensione morale propria dell’uomo influisce

anche sulle sue determinazioni pratiche, e dunque sul suo

comportamento esteriore43; la non esistenza di una norma positiva non

43 Asserisce a tal proposito S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II-II, q. 58, a. 9, ad 2-3, parlando della giustizia, se essa abbia o meno ad oggetto le passioni, che: “Le azioni esterne stanno di mezzo, in qualche modo, tra le cose esterne, che ne costituiscono la materia, e le passioni interiori, che ne sono i principi. […] Perciò la guida regolata delle nostre azioni in quanto queste hanno il loro termine nelle cose

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porta come necessaria conseguenza che vi siano esclusivamente

comportamenti ingiusti da parte delle persone. Detto in altri termini, i

motivi che determinano una persona a comportarsi in un certo modo

(ovvero orientandosi al bene o allontanandosi da esso), non sono

indifferenti all’ambito giuridico, sebbene essi siano principalmente di

ordine morale, e questo è forse il motivo principale per cui

difficilmente si può distinguere e separare nettamente il diritto dalla

morale, a meno di pensare ad individui che non ragionino e non si

comportino in modo umano.

Inoltre le leggi umane che si dimostrassero contrarie ai valori

morali, che sono contenuti nello ius divino e ne sono loro espressione,

non sarebbero nemmeno da considerarsi come leggi, non solamente

perché contrarie alla volontà divina, ma anche perché sarebbero

irrazionali, e percepite dai fedeli come tali; S. Tommaso ricorda con

chiarezza che questa deve essere caratteristica imprescindibile delle

leggi umane: “La legge umana in tanto ha natura di legge, in quanto si

uniforma alla retta ragione: e in tal senso deriva evidentemente dalla

legge eterna. Ma quando si scosta dalla ragione, codesta legge è iniqua:

e allora non ha natura di legge, ma piuttosto di violenza. - Tuttavia

anche la legge iniqua, per quell'aspetto che salva le apparenze di legge,

e cioè per il potere di colui che la emana, ha una derivazione dalla

legge eterna: poiché, a detta di S. Paolo, «ogni potestà viene da Dio». Si

dice che la legge umana certe cose le permette, non nel senso che le

approvi, ma perché è incapace di regolarle. Ed è vero che la legge

divina regola molte cose, le quali sfuggono alla legge umana: infatti

esterne, appartiene alla giustizia: ma in quanto nascono dalle passioni appartiene alle altre virtù morali, che hanno per oggetto le passioni. […] Siccome però le azioni esterne non ricevono la specie dalle passioni interiori, ma piuttosto dalle cose esterne che ne sono l’oggetto, di suo le azioni esterne sono più materia di giustizia che delle altre virtù morali. Il bene comune è il fine delle singole persone che vivono in una collettività, come il bene del tutto è il fine di ciascuna delle sue parti. Il bene però di un individuo non è il fine di un altro. Perciò la giustizia legale, che è ordinata al bene comune, può estendersi alle stesse passioni interne, le quali ordinano in qualche modo l’uomo in se stesso, più della giustizia particolare, la quale dispone al bene di un altro individuo”.

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una causa superiore si estende di più di una causa inferiore. Perciò il

fatto stesso che la legge umana non s'impegna a regolare quello che

non è in suo potere, deriva dalla legge eterna. Diverso sarebbe il caso,

se codesta legge approvasse ciò che la legge eterna riprova. Ciò,

quindi, non dimostra che la legge umana non derivi dalla legge eterna,

ma che non è in grado di adeguarvisi perfettamente”44 . Si noti come il

Dottore angelico dica che è la retta ragione che coglie l’iniquità della

legge, e dunque è la persona che in primo luogo percepisce la legge

come iniqua, questo in quanto la valuta nei suoi termini giuridici e

morali, termini che la ragione umana non scinde nel giudizio che

compie intorno alla legge.

La considerazione, da noi più volte e con insistenza ribadita, della

inscindibilità della morale dal diritto, discendente dal fatto che l’uomo,

primo interprete della norma, è per sua stessa natura nella

impossibilità di scindere tali due aspetti della norma, è stato ricordato

anche dal magistero pontificio più recente; parlando del reale

significato della legge naturale, ad esempio,viene con chiarezza

ricordato tale aspetto: “essa [la legge naturale n.d.r.] si riferisce alla

natura propria e originale dell’uomo, alla «natura della persona

umana»45, che è la persona stessa nell’unità di anima e di corpo, nell’unità

delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico e di tutte le

altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento del suo

fine”46.

Si può obbiettare che tale intervento riguarda soprattutto il

rapporto tra la legge naturale e la morale, piuttosto che la relazione

che intercorre tra la legge positiva e la morale. Tuttavia, come abbiamo

visto, è difficilmente scindibile, specialmente per quanto riguarda le

norme canoniche, la norma positiva da quella naturale, in quanto la

prima non potrà mai contraddire la seconda, dal momento che la legge

44 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 93, a. 2 e a. 3. 45 GS, n. 51, in AAS 58 (1966), pp. 1025-1120. 46 VS, n. 50.

207

naturale è disposta da Dio, e dunque ciò che vale per essa, a fortiori

vale per la legge umana. Il concilio ricorda l’importanza della

coscienza morale dell’uomo: “Nell’intimo della coscienza l’uomo

scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve

obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e

a fuggire il male, quando occorre chiaramente dice alle orecchie del

cuore: fa questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge

scritta da Dio dentro il suo cuore; obbedire a questa legge è la dignità

stessa dell’uomo, e secondo essa egli sarà giudicato (cfr. Rm 2, 14-16).

[…] Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le

persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano

di conformarsi alle norme oggettive della moralità”47.

In modo assai chiaro nell’Enciclica Veritatis splendor si sottolinea

come il giudizio della coscienza umana sia un giudizio della ragione

pratica, il quale è in grado di indirizzare l’uomo verso il compimento

del bene ed il rifiuto del male; tale giudizio opera nella situazioni

concrete, è l’obbligo di fare il bene e di evitare il male: “Il carattere

della legge e dell’obbligazione non è cancellato, ma piuttosto

riconosciuto, quando la ragione ne determina le applicazioni

nell’attualità concreta”48. Il giudizio morale del fedele non è arbitrario,

dal momento che nelle sue determinazioni morali l’uomo segue in

realtà la legge divina, la quale rappresenta la “norma universale e

oggettiva della moralità. Il giudizio della coscienza non stabilisce la

legge, ma attesta l’autorità della legge naturale e della ragione pratica

in riferimento al bene supremo, di cui la persona umana accetta

l’attrattiva e accoglie i comandamenti”49. Come correttamente

ricordato: “Nel caso che il legislatore sia divino, la prima notifica

ch’Egli fa della legge è mediante la partecipazione della legge eterna al

modo d’una legge naturale della ragion pratica. Essa coincide con la

47 GS, n. 16. 48 VS, n. 59. 49 VS, n. 60.

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regola morale, ma in quanto è legge essa dice notifica da parte del

legislatore divino. In questo caso dovere morale e obbligazione sono

coestensivi; ma coincidono solo materialmente non formalmente [al

contrario di quanto avviene invece nel rapporto dovere

morale/obbligazione da legge positiva n.d.r.]. Il dovere morale resta

un rapporto di convenienza tra il bene morale e la volontà razionale;

l’obbligazione è il vincolo della volontà razionale al legislatore divino,

la cui legge è notificata all’uomo nella legge naturale e applicata ai casi

particolari dal giudizio di coscienza”50; la coscienza, ove l’uomo trova

un luogo di regolamentazione ed orientamento al bene delle proprie

azioni e dei propri pensieri, in realtà non obbliga, in senso giuridico,

quanto piuttosto riconosce la regola che obbliga, e la sente come

vincolante per la persona51.

La fallibilità del giudizio pratico del fedele, della persona, fa parte

della natura umana, ecco, che nell’orientamento verso il bene e ciò che

è giusto, interviene l’autorità della Chiesa; tale autorità morale, come

sottolineato: “non intacca in nessun modo la libertà della coscienza dei

cristiani: non solo perché la libertà della coscienza non è mai libertà

«dalla» verità, ma sempre e solo «nella» verità; ma anche perché il

Magistero non porta alla coscienza cristiana verità ad essa estranee,

bensì manifesta le verità che dovrebbe già possedere sviluppandole a

partire dall’atto originario della fede”52; la Chiesa richiama e conferma

principi che sono quelli dell’ordine morale e che “scaturiscono dalla

stessa natura umana”53. Nel suo porsi come autorità legislatrice, la

Chiesa adempie tale compito fondamentale, ovvero di orientare

l’uomo verso il bene ed il giusto, in vista della salvezza della sua

anima. Nello svolgimento di tale compito legislativo, tiene conto anche

dei fondamentali principi morali, che costituiscono parte integrante

50 ABBÀ G., Felicità vita buona e virtù, cit., p. 206. 51 Cfr.: TONNEAU J., Devoir et morale, in Revue de sciences philosophiques et theologiques 38 (1954), pp. 233-252 (in particolare sul punto p. 243). 52 VS, n. 64. 53 Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae, n. 14, in AAS 58 (1966), pp. 929-946.

209

delle norme canoniche, e che rendono tali norme uno strumento al

servizio dei fedeli, più che uno strumento in mano esclusiva del

legislatore, come troppo spesso è avvenuto ed avviene in ambito

secolare.

Nel nostro argomentare può apparire esservi, senza dubbio, una

certa confusione tra diritto e morale, tale confusione (che però deve

ritenersi solo apparente) provoca un certo imbarazzo solo perché si è

oramai abituati a ragionare per ambiti assolutamente separati, cosa che

non possiamo condividere. Nella sua argomentazione sul rapporto tra

diritto e morale, Del Vecchio, pur distinguendo tra morale e diritto,

tuttavia non li considera ambiti totalmente separati, al contrario

afferma: “in ogni sistema etico54 a un certo ordine giuridico

corrisponde un certo ordine morale: tra questi due ordini vi è coerenza

necessaria. […] Ciò che è necessario, è a foritori possibile; non può

affermarsi eticamente impossibile, ossia contrario al diritto, ciò che in

pari tempo si affermi imposto dalla morale, ossia eticamente

necessario”55; per cui ciò che è moralmente giusto non può vedersi

negato da una norma giuridica positiva o meno che sia. L’importanza

della morale anche per la norma giuridica è brillantemente sottolineata

dal medesimo autore, ove afferma che: “Il diritto traccia una sfera ,

entro cui la necessità etica sarà compresa; ma quale tra le azioni

giuridicamente possibili sia moralmente necessaria, il diritto non dice.

Il dovere in senso giuridico denota precisamente, e soltanto, il limite

della possibilità di ciascuno, varcando il quale limite si urterebbe nel

legittimo impedimento di altri. Segue da ciò che il diritto non è, di per

sé, sufficiente a dirigere l’operare, ma deve essere integrato dalla

morale”56. In linea con quanto pure da noi poco innanzi affermato, il

Del Vecchio ricorda come: “Posto che l’attività umana è unica, ne

54 Si intende con tale termine un sistema giuridico in cui siano parimenti espressi gli interessi soggettivi (dei singoli) e gli interessi obbiettivi (ovvero del singolo ma in rapporto ad altri soggetti). 55 DEL VECCHIO G., Lezioni di filosofia del diritto, Milano 1965, p. 231. 56 Ibidem, p. 231.

210

segue che le regole che la determinano debbono essere coerenti tra loro

(non contraddittorie). Tra diritto e morale esiste distinzione, ma non

separazione, e tanto meno contrasto. È vero che il diritto permette

molte cose che la morale vieta; ma ciò non implica alcuna

contraddizione. Contraddizione si avrebbe solo se il diritto

comandasse di fare ciò che fosse proibito dalla morale, ma ciò, in uno

stesso sistema, non avviene né può avvenire mai, per necessità logica.

[…] Devesi pure respingere il concetto che il diritto consideri l’uomo

solo come essere fisico, e la morale come essere spirituale; il vero è che

ambedue le categorie etiche comprendono l’uomo nella sua integrità,

che è insieme fisica e spirituale”57. Per il nostro Autore, la vera

distinzione (ed anche l’unica coerentemente possibile) tra diritto e

morale, si può stabilire solamente a partire dalla persona: la morale è

riferita alla persona di per sé, riguarda azioni che si riferiscono allo

stesso soggetto; il diritto riguarda più soggetti nei loro rapporti

interpersonali. Tale distinzione consentirebbe pure di inquadrare

correttamente il problema anche in ambito canonistico, e renderebbe

giustificazione ulteriore alla necessità di un sistema giuridico per la

Chiesa che, in quanto tale, non si pone in contrasto con le regole morali

dettate dal Magistero.

Soprattutto il ruolo della persona consente di determinare con

correttezza i concetti di diritto e di morale, visto che è a partire dalla

persona che si riesce a distinguere i due concetti e pure a darne una

giustificazione che si dimostri coerente.

Il ragionamento sin qui svolto, relativo allo stretto rapporto

intercorrente tra diritto e morale, si ricollega pure a quanto visto nel

capitolo precedente relativamente ai due fori, esterno ed interno58.

Appurata l’esistenza di due fori giuridici, l’esterno e l’interno,

57 DEL VECCHIO G., Op. cit., pp. 234-235. 58 Per una sintesi dei rapporti intercorrenti tra diritto e morale in relazione con il sacramento della confessione si veda: TURRINI M., La coscienza e le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima età moderna, Bologna 1991.

211

ambedue ambiti dell’esercizio della potestà di governo della Chiesa,

ed al tempo stesso ambiti di realizzazione per i fedeli di diritti e

doveri, ed essendo essi inscindibili, si dovrà conseguentemente

ritenere che gli aspetti morali, che si sviluppano soprattutto nel foro

interno, abbiano ampi motivi di intersezione (se così si può dire) con

gli aspetti giuridici esterni, dal momento che, come più volte

affermato, non si può operare una distinzione netta tra foro esterno e

foro interno.

Stesso principio è applicabile al rapporto diritto-morale: posto

che la morale riguardi solamente l’ambito del foro interno, ed il diritto

solo l’ambito del foro esterno (asserzioni queste, che non sono corrette,

come risulta dalla nostra analisi), tuttavia i rapporti tra diritto e morale

saranno inscindibili allo stesso modo di quanto avviene per le relazioni

tra i due fori. Questo poiché la persona, il fedele, è un’unità in cui la

riflessione giuridica e quella morale fanno parte del suo stesso essere;

come non si può separare nella persona l’anima dal corpo, così non si

può pensare ad una persona che scinda sempre nettamente tra il

diritto e la morale. Al contrario, vi saranno implicazioni morali che

influiranno in maniera determinante sul comportamento, anche

giuridico, del soggetto, come, in senso inverso, vi saranno norme

giuridiche, che, in quanto coerenti con le norme morali,

condizioneranno anche il comportamento morale del soggetto.

Certo è che la coscienza, e dunque la morale che in essa trova il

suo luogo di origine, prevalgono sulla norma meramente giuridica,

essendo la coscienza il punto di partenza per il soggetto anche per ciò

che riguarda la sua riflessione giuridica; già alla metà del settecento

Sant’Alfonso Maria de’Liguori, fa notare tale prevalenza della

coscienza morale della persona, rispetto alla percezione che essa ha

della norma e del diritto in genere59. Tale ultima affermazione ci fa

59 Sant’Alfonso si inserisce, con queste sue proposizioni, all’interno del dibattito, in corso in quegli anni, tra probabilismo e probabiliorismo, trovando una mediazione tra le due concezioni morali attraverso la teoria denominata “equiprobabilista”, per

212

comprendere come, per l’uomo, il compiere il bene ed evitare il male,

non sia tanto un dato normativo, quanto piuttosto un’esperienza

morale, è l’esperienza di fare il bene, o meglio, l’esperienza pratica del

bene da fare. Questa esperienza è connaturata nell’uomo, fa parte del

suo stesso essere, e non può essere sostituita da alcuna norma.

Questa moralità, che è insita nella natura umana, nella sua

coscienza, è regolata dalla legge naturale, ed è in virtù di tale

affermazione, che possiamo parlare, come fatto nella parte prima del

nostro lavoro, di uno ius ontologico, poiché il diritto naturale fa parte

della natura stessa dell’uomo, in quanto tale, ed è dunque diritto in

maniera superiore e perfetta rispetto a qualunque altra forma di

diritto, in quanto è già proprio dell’uomo, gli appartiene per il fatto

stesso di essere un uomo.

S. Tommaso afferma, parlando della legge naturale, che il suo

primo e fondamentale precetto è: “Il bene è da farsi e da cercarsi, il

male è da evitarsi (bonum est faciendum et prosequendum, et malum

vitandum). E su di esso sono fondati tutti gli altri precetti della legge

naturale; cosicché tutte le altre cose da fare o da evitare appartengono

alla legge di natura, in quanto la ragione pratica le conosce

naturalmente come beni umani”60. Tale principio fondamentale, come

è stato autorevolmente sottolineato, non è un principio esclusivamente

logico, ma è un principio della ragione pratica ed al tempo stesso della

moralità umana: “La legge naturale, infatti, ha il duplice significato di

essere principio della prassi e principio della moralità. La legge

naturale, nel suo significato originario e più profondo, non è una

norma che dall’esterno regola l’agire umano, ma è lo stesso principio cui, nel dubbio se una legge sia o meno conforme ai principi della morale, si deve ritenere che la legge che si dimostri dubbia in proposito, non obbliga il soggetto. Si veda: GIANNANTONIO P. (a cura di), Alfonso Maria de’Liguori e la società civile del suo tempo, 2 voll., Firenze 1990. Sulla distinzione tra probabilismo e probabiliorismo si vedano infra la nostra: voce Ballerini Pietro e Girolamo, in OTADUY J. - AYESTA G. (a cura di) Diccionario General de Derecho Canónico, Pamplona, in corso di pubblicazione; PIGHIN B. F., I fondamenti della morale cristiana. Manuale di etica teologica, Bologna 2007, pp. 59-64. 60 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 2.

213

intrinseco della prassi umana: fa sì che l’uomo agisca. L’agire umano è,

però, sin dal primo momento un agire morale, ossia in virtù della

stessa legge naturale si sviluppa sin dall’inizio nell’antitesi morale

«buono/cattivo»”61.

Senza sviluppare ulteriormente tale complessa tematica, che

riguarda, nei suoi aspetti più profondi, l’ambito teologico e filosofico,

sarà importante sottolineare, ai fini della nostra trattazione, alcuni

punti fondamentali: non si può dimenticare che la norma, se vuole

essere rispettata dal fedele, deve avere necessariamente un valore

morale; questo perché, essendo l’agire umano fondamentalmente ed

anzitutto un agire morale, solamente proponendo norme che rispettino

la morale si otterranno norme perfette e rispettate dai soggetti.

Il diritto canonico, riconoscendo come operanti al suo interno, le

norme del diritto naturale, non potrà conseguentemente non tener

conto dei principi morali, in quanto strettamente connessi con la legge

naturale, dal momento che la legge naturale è norma esterna

regolatrice dell’agire umano, agire che è interiormente un agire

fondamentalmente morale, come visto. La legge naturale, infatti,

regola gli atti umani, ma non si può dimenticare che tali atti sorgono

spesso in una dimensione interna all’uomo e che dunque è

essenzialmente morale e solo secondariamente giuridica. I precetti

della legge naturale, in quanto applicati alla coscienza dell’uomo

(coscienza che è principalmente morale), regolano la libertà e l’agire

pratico dell’uomo medesimo; la legge naturale è dunque orientamento

dell’agire morale umano62.

61 RHONHEIMER M., La legge morale naturale: conoscenza morale e coscienza. La struttura cognitiva della legge naturale e la verità della soggettività, in VIAL CORREA J. – SGRECCIA E. (a cura di), Natura e dignità della persona umana, cit. Il medesimo tema è affrontato dall’A. pure in altri volumi: La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica, Roma 1994; Legge naturale e ragione pratica. Una visione tomista dell’autonomia morale, Roma 2001. 62 Sul punto si veda: S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 91, a. 2 ad 2, ove si dice che: “Infatti ogni raziocinio deriva dai primi principi noti per natura, e ogni appetito riguardante i mezzi deriva dall'appetito naturale dell'ultimo fine. Ecco

214

All’inverso, è fondamentale riconoscere per il diritto canonico la

giusta importanza e dignità della persona, ciò al fine di elaborare un

sistema normativo che rappresenti un reale strumento al servizio dei

fedeli per il raggiungimento della salvezza. È solo comprendendo in

maniera profonda il fedele ed il suo essere che la Chiesa sarà in grado

di elaborare un diritto che sia realmente giusto, che realmente orienti

al bene, che realmente possa salvare. L’uomo appare il vero

protagonista, in un sistema giuridico che sia propugnatore di giustizia,

solo ove si tenga presente la stretta relazione che unisce il diritto e la

morale. Come messo giustamente in rilievo dal Card. Herranz, a

proposito della finta divisione operata dalla moderna scienza giuridica

tra diritto e morale: “è vero che la Morale e il Diritto sono due scienze

diverse, che riguardano l'uomo da prospettive e con finalità differenti.

La Morale si occupa primariamente dell'ordine dell'uomo come

persona: riguarda cioè l'insieme di esigenze emananti dalla struttura

ontologica dell'uomo in quanto essere creato e dotato di una

particolare natura, dignità e finalità. Il Diritto, invece, si occupa

primariamente dell'ordine sociale: riguarda cioè - stiamo parlando del

Diritto come ordinamento - l'insieme di strutture che ordinano la

comunità civile, la società. Ma se il fatto più rilevante e positivo del

progresso della scienza del Diritto nel secolo XX è stato proprio quello

di mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista,

l'uomo, fondamento e fine della società, è ovvio che il Diritto di una

sana democrazia - nell'ordinare le proprie strutture sociali - deve

tenere conto di quale sia la struttura ontologica della persona umana:

la sua natura di essere non soltanto animale e istintivo ma intelligente,

libero e con una dimensione trascendente e religiosa dello spirito che

non può essere ignorata, né mortificata. Qualora si negasse questa

verità universale sulla natura e la dignità della persona umana - una

perché anche il primo orientamento dei nostri atti verso il fine avviene mediante la legge naturale”.

215

verità che non può essere convenzionale né dipendere dalla opinione

della maggioranza -, non solo si indebolirebbe pericolosamente il

concetto di libertà religiosa - e degli altri diritti fondamentali

dell'uomo -, ma ci si troverebbe dinanzi ad un diritto antinaturale

essenzialmente immorale, strumento di un ordinamento sociale

totalitario, anche se lo si volesse chiamare democratico”63.

63 HERRANZ J., La dignità della persona umana e il diritto, in Natura e dignità della persona umana, cit.

216

217

5. LA PERSONA UMANA

5.1. La Chiesa e la persona. Cenni storico-canonici sulla questione.

Nella relazione che apriva il IV Congresso Internazionale di

diritto canonico, tenutosi a Friburgo nel 19801, Pedro Lombardia

sottolineava in maniera assai chiara, il fulcro della tematica che ci

accingiamo qui ad esaminare; egli diceva: “non mancano posizioni

dottrinali che accusano le più recenti costruzioni riguardanti i diritti

fondamentali dei fedeli di essere costruite sull’equivoco di accogliere

determinate enunciazioni formali riguardanti la dottrina dei diritti

fondamentali dell’uomo di ispirazione illuminista, senza accogliere

allo stesso tempo l’insieme dei valori che vi sta alla base e – ciò che

sarebbe scientificamente assai grave – senza avvertire la radicale

opposizione tra i valori della concezione illuminista dei diritti

dell’uomo e le conseguenze della dottrina ecclesiastica riguardo il

Diritto divino naturale e positivo”2. Tale preoccupazione veniva

avvertita da tutta la scienza canonistica del secolo scorso, pur con le

inevitabili e differenziate sfumature che un tema tanto importante

inevitabilmente doveva sollevare. Dalla Torre sottolineava da un lato

la inevitabile considerazione che il battezzato è pur sempre un uomo,

ed in quanto tale dotato di una serie di diritti che costituiscono la

conseguenza necessaria della dignità della sua natura umana3,

dall’altro ricordava che: “non è concepibile una meccanica

trasposizione dei diritti fondamentali così come elencati nelle

costituzioni degli Stati moderni e nei documenti internazionali in

ragione delle loro radici ideologiche assolutamente incompatibili con i

1 Gli atti congressuali sono contenuti nel già citato volume: CORECCO E. – HERZOG N.- SCOLA A. (a cura di), I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società, Friburgo-Milano 1981. 2 LOMBARDÍA P., Los derechos fundamentales del cristiano en la Iglesia y en la sociedad, in I diritti fondamentali, cit., p. 17; la traduzione italiana è nostra n.d.r. 3 DALLA TORRE G., Diritti dell’uomo o diritti del cristiano?, in I diritti fondamentali, cit., p. 129.

218

principi che presiedono all’ordinamento canonico, ma anche in

ragione del fatto che tali diritti sono stati storicamente via via

individuati e precisati pragmatisticamente in relazione alle contingenti

strutture ed organizzazioni del potere politico”4; il medesimo Autore

riteneva ugualmente difficile trovare dei diritti naturali comuni

all’ordinamento canonico ed agli ordinamenti secolari, dal momento

che la Chiesa, al pari degli stati, subisce, nella individuazione di

determinati diritti fondamentali, influenze che derivano dalla situazione

storica contingente della società ecclesiastica. E ciò in accordo con

quanto sostenuto da Le Bras, per cui: “se la Chiesa è orgogliosa delle

promesse di eternità, il suo diritto e le sue istituzioni subiscono la legge

universale dell’incessante mobilità delle forme”5. Ma può essere

considerata tale impostazione sufficiente? La scienza giuridica secolare

si è lungamente interrogata sulla possibilità di una esistenza di diritti

immutabili, validi per ogni stato in ogni epoca storica, e vale per tutte

la risposta data da Bobbio, la cui posizione a tal proposito è nota, ed è

che i diritti umani, subiscono la inevitabile influenza spazio-temporale

(se così si può dire), per cui tali diritti vengono coinvolti nella

evoluzione storica, che li rende per ciò stesso mutevoli6. Bobbio

afferma, in conseguenza di ciò, che la mutabilità storica dei diritti

umani: “prova che non vi sono diritti per loro natura fondamentali.

Ciò che sembra fondamentale in un’epoca storica e in una determinata

civiltà, non è fondamentale in altre epoche e in altre culture. Non si

4 DALLA TORRE G., Op. ult. cit., p. 135. 5 LE BRAS G., La Chiesa del diritto. Introduzione allo studio delle istituzioni ecclesiastiche, Bologna 1976, p. 27. 6 L’idea che l’epoca storica possa influenzare la concezione che si ha della legge, è un dato che lo stesso S. TOMMASO D’AQUINO riconosce, con riferimento alla Nuova Legge, anche se in questo caso vige la riflessione tutta teologica relativa al passaggio dalla Legge mosaica veterotestamentaria alla Legge predicata da Cristo; “Non la diversità dei luoghi determina i diversi stati del genere umano, ma la successione dei tempi. Ecco perché in tutti i luoghi viene proposta la nuova legge, non già in tutti i tempi”, in Summa theologiae, I-II, q. 106, a. 3.

219

vede come si possa dare un fondamento assoluto di diritti

storicamente relativi”7.

Ci pare che alla base di tali affermazioni, vi sia una ben definita

visione dei diritti dell’uomo8, che in realtà tiene conto di molte

variabili, escludendo quella a nostro avviso più importante: la

persona. La persona è infatti sempre la stessa, pure se innegabilmente

essa attraversa il tempo e lo spazio ed inevitabilmente subisce la

influenza di tali fattori. Illuminante in proposito è la posizione di

Hervada, il quale ricorda che, la dimensione storica non influisce in

alcun modo sul fondamento dei diritti propri della persona umana, dal

momento che: “il fondamento del giusto – di qualunque diritto – è la

condizione personale propria dell’uomo. Questa condizione è uguale

ed è la stessa in ciascun uomo e su di essa la storicità non influisce. […]

La storia non influisce nemmeno sulla titolarità dei diritti naturali,

perché il titolo è inerente alla natura umana”9.

Si è troppo spesso partiti dalla società, all’interno della quale

l’uomo è inserito e vive la sua esperienza terrena, piuttosto che

considerare l’uomo in se stesso, come soggetto primo dei propri diritti

e doveri10. Come visto nei capitoli precedenti, vi sono ambiti,

7 BOBBIO N., Sul fondamento dei diritti dell’uomo, in L’età dei diritti, Torino 1997, pp. 9-10. 8 Peraltro in tale visione, un ruolo determinante lo ha la critica alla enunciazione giuridica dei diritti umani, sono infatti le Dichiarazioni dei diritti che possono mutare nel tempo e per fattori che provengono dalla società o dai luoghi, non i diritti in sé, i quali, se sono veramente espressione dello ius, sono per ciò stesso validi ed immutabili, in quanto si riferiscono alla persona umana, la quale è sempre la stessa. Come giustamente specificato: “Il valore delle Dichiarazioni non consiste nel fatto che fondano, bensì che riconoscono l’esistenza di spettanze fondamentali, che le formulano in un linguaggio dotato di ampia recepibilità e soprattutto che ne promuovono una tutela progressiva, auspicabilmente sempre più ampia ed efficace”, D’AGOSTINO F., Giustizia, cit., p. 64. 9 HERVADA J., Introduzione critica, cit., pp. 93-94. L’A. peraltro non nega che la storia possa invece avere una influenza sulle modalità e sulla efficacia dei diritti della persona umana. Tuttavia egli ricorda che: “I limiti della storicità sono oggettivamente determinati dalla stessa realtà. La regola per determinare tali limiti si trova nella distinzione tra il nucleo permanente degli esseri e i fattori su cui influisce la dimensione tempo (in termini aristotelico-tomistici rispettivamente, essenza o natura e accidenti). Il cambiamento si verifica soltanto nella quantità, nella relazione, e si riferisce all’equivalenza tra cose o tra persone e cose”, p. 98. 10 Nella prima delle sue Lezioni di filosofia morale la Arendt, che pure non

220

fondamentali alla comprensione ed allo sviluppo di tali diritti e doveri,

nei quali solamente la persona può pienamente determinare il valore

da attribuire a tali diritti e doveri; il foro interno né è un esempio

chiarissimo; ma anche la coscienza morale, che guida in ogni momento

le determinazioni del fedele e dell’uomo, fornisce un’esplicitazione

altrettanto chiara di quanto stiamo qui affermando.

Maritain, ricordando il pensiero di S. Tommaso, riguardo al

rapporto della persona con Dio, aveva a dire: “La persona umana è

ordinata direttamente a Dio come al suo fine ultimo assoluto, e questa

ordinazione diretta a Dio trascende ogni bene comune creato, bene

comune della società politica e bene comune intrinseco dell’universo;

ecco la verità fondamentale che guida tutta la discussione, e dove è

impegnato nientemeno che il messaggio stesso della sapienza cristiana

nella sua vittoria sul pensiero ellenico e su ogni sapienza pagana

d’allora in poi spodestata”11.

Certamente, non si può negare totalmente che esista una

relazione tra la condizione storica e sociale ed i diritti e doveri

dell’uomo, giacchè è di tutta evidenza che non sempre tali diritti sono

stati percepiti come noi oggi li percepiamo e li definiamo. E pure al

giorno d’oggi non ovunque essi sono considerati validi, vuoi per

motivi culturali e sociali, vuoi per motivi ideologici e politici, solo per

limitarci ad alcune delle principali influenze che condizionano la

effettiva esistenza dei diritti umani.

condivideva la visione cristiana del diritto, affermava: “I problemi di carattere morale e giuridico non sono certo uguali, ma si basano entrambi sull’idea di persona, di persone che rispondono dei propri atti, e non su quella di sistemi o di organizzazioni. È questa l’innegabile grandezza del diritto: esso ci costringe tutti a focalizzare la nostra attenzione sull’individuo, sulla persona, anche nell’epoca della società di massa, un’epoca in cui tutti si considerano più o meno come ingranaggi di una grande macchina”, ARENDT H., Alcune questioni di filosofia morale, Torino 2006, p. 12. 11 MARITAIN J., La persona e il bene comune, Brescia 1998, p. 10.

221

La Chiesa cattolica tuttavia, definisce la persona, l’uomo, in modo

tale che la rende vero metro di paragone per stabilire quali siano i suoi

diritti e doveri.

Senza dubbio questa riflessione sull’uomo trova un momento di

fondamentale sviluppo a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II, e

si è sviluppata nel corso degli ultimi decenni in maniera assai

significativa, e tuttavia, non rappresenta una novità assoluta nel

panorama ecclesiale12. I motivi di tale riflessione partono da un dato

teologico indiscutibile: l’uomo è creato a immagine di Dio e da tale

fondamentale dato rivelato esso riceve una dignità tutta particolare;

l’uomo “è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso”13.

Ben prima delle definizioni conciliari Maritain scriveva a tal

proposito: “ciò che si trova nel più profondo della dignità della

persona umana, è ch’essa non ha solamente con Dio la somiglianza

comune che hanno altre creature, essa gli rassomiglia in proprio, essa è

ad immagine di Dio, perché Dio è spirito, ed essa procede da lui, avendo

per principio di vita un’anima spirituale, uno spirito capace di

conoscere, amare ed essere elevato dalla grazia a partecipare alla vita

stessa di Dio, per conoscerlo ed amarlo alla fine come egli stesso si

conosce e si ama”14.

In ambito strettamente canonico non sono mancate, come già

detto, difficoltà nell’affermare i diritti della persona umana,

soprattutto a livello giuridico; Errazuriz ha fornito una convincente

chiave interpretativa sul perché di tali difficoltà, date, a suo dire,

soprattutto dalla paura che l’affermazione della centralità della

persona possa comportare una diminuzione del valore dell’aspetto

comunionale insito nella struttura ecclesiale15. Ci pare corretta, a

12 Una miscellanea di saggi sulla promozione dei diritti umani da parte della Chiesa, nelle varie epoche storiche, si trova in: CONCETTI G. (diretta da), I diritti umani: dottrina e prassi, Roma, 1982. 13 GS, n. 24. 14 MARITAIN J., Op. cit., pp. 25-26; il corsivo è nel testo [n.d.r.]. 15 ERRÁZURIZ C. J., La persona nell’ordinamento canonico: il rapporto tra persona e diritto

222

proposito della esistenza dei diritti umani nell’ambito

dell’ordinamento canonico, l’affermazione fatta da Parlato, secondo

cui: “Nella Chiesa due realtà sono imprescindibili, da un lato il fatto

che il suo ordinamento sia legato ad una finalità ultramondana, e che,

di conseguenza, gli istituti giuridici siano visti come strumenti per la

realizzazione dello scopo imposto alla Chiesa dal divino Fondatore,

dall’altro la dignità della persona umana, cui deve essere garantito il

rispetto delle proprie scelte morali e giuridiche, l’onorabilità e la

possibilità di tutelare i propri diritti, sia connessi ai tria munera

santificandi, docendi et regendi, sia quelli basati sulla sua dignità e

libertà”16.

Il riconoscimento dei diritti della persona in diritto canonico ha

incontrato due principali ostacoli: il primo, è che tali diritti si sono

affermati, come visto, in seguito alle spinte illuministiche, fortemente

anticlericali, e dunque difficilmente adattabili alla realtà ecclesiale; il

secondo, di ordine giuridico, è legato alla personalità giuridica nel

diritto canonico, personalità che, a norma del can. 96 del CIC (can. 87

CIC17), è riconosciuta a coloro che hanno ricevuto il sacramento del

battesimo ed esclude tutti coloro che non hanno ancora ricevuto tale

sacramento17.

Tali differenti problematiche, hanno ricevuto soluzioni differenti,

in differenti ambiti; alla prima perplessità, ha dato ampia risposta il

magistero pontificio del secolo scorso a partire, da quello di papa

Leone XIII18.

nella Chiesa, in Ius Ecclesiae, 10 (1998), p. 11. 16 PARLATO V., I diritti dei fedeli nell’ordinamento canonico, Torino 1998, p. 125. L’A. dedica in ogni caso una parte marginale della sua trattazione all’argomento che qui ci occupa. 17 Si veda sul tema: NAVARRO L., Persona e soggetti nel diritto della Chiesa. Temi di diritto della persona, Roma 2000, pp.19-37; VÁZQUEZ GARCÍA-PEÑUELA J. M., La persona ante el ordenamiento canónico. Algunas claves de interpretación del C. 96 desde el realismo jurídico, in MACERATINI R. (a cura di), La persona nella Chiesa. Diritti e doveri dell’uomo e del fedele, Padova 2003, pp. 121-139. 18 Si veda in proposito: BIFFI F., I diritti umani da Leone XIII a Giovanni Paolo II, in CONCETTI G. (diretta da), I diritti umani, cit., pp. 199-243.

223

La seconda problematica, invece, non ha trovato una soluzione

univoca in ambito canonistico, dal momento che la dottrina si è divisa

in due orientamenti che, se non sono sempre stati decisamente

opposti, hanno comunque avuto notevoli divergenze. In particolare, si

è discusso se fosse possibile riconoscere la validità di determinati

canoni, anche nei confronti dei non battezzati o acattolici come li si è

definiti in dottrina19.

5.1.1. Adattabilità dei diritti umani all’ambito ecclesiale.

Una riflessione sui diritti umani, nel senso che si è soliti dare oggi

a tale concetto e dunque in relazione alla prima delle problematiche

cui accennavamo poco sopra, inizia nella Chiesa a partire, come detto,

19 Tra i sostenitori della soggettività giuridico-canonica degli acattolici possiamo annoverare: BELLINI P., Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento canonico, in Il diritto ecclesiastico 67 (1957), pp. 121-243; BENDER L., Infideles et exercitium indirectum potestatis ecclesiasticae, in Monitor ecclesiasticus 80 (1955), pp. 638-653; ID., Normae generales de personis, Roma 1957; ID., Persona in Ecclesia-membrum Ecclesiae, in Apollinaris 33 (1959), pp. 105-119; BERLINGÒ S., Diritto canonico, Torino 1995; CIPROTTI P., Personalità e battesimo nella Chiesa, in Il diritto ecclesiastico 53 (1942), pp. 273-276; ID., Lezioni di diritto canonico. Parte generale, Padova 1943, pp. 148 ss. e pp. 169 ss.; FORCHIELLI G., Precisazioni sul concetto di “persona” nel diritto canonico, in AA. VV., Acta Congressus internationalis iuris canonici, Roma 1953; GISMONDI P., Gli acattolici nel diritto della Chiesa, in Ephemerides iuris canonici 4 (1946), pp. 224-249; 5 (1947), pp. 20-45; 6 (1948), pp. 55-68; ID. La capacità giuridica degli acattolici, in AA. VV., Acta Congressus internationalis iuris canonici, Roma 1953, pp. 133-145; LOMBARDIA P., Sobre las caracteristicas peculiares del ordenamiento canónico, in Temis 5 (1959), pp. 67-94; ID., Derecho divino y persona fisica en el ordenamiento canonico, in Temis 7 (1960), pp. 187-203; ID., Los laicos en el derecho de la Iglesia, Pamplona 1966; ID., El estatuto juridico del catecumeno, in Ius canonicum 6 (1966), pp. 529-562; MAGNI C., Soggetto e persona nel diritto, in Il diritto ecclesiastico 62 (1951), pp. 1-52. Decisamente contrari, invece: CHIAPPETTA L., Commento al can. 96, in ID. (a cura di), Il codice di diritto canonico. Commento giuridico pastorale, tomo I, Roma 1996, pp. 143-146; FEDELE P., voce Capacità canonica (teoria generale), in Enciclopedia del diritto, vol. VI, Milano 1960, pp. 166-171; GOMEZ DE AYALA A., Gli infedeli e la personalità nell’ordinamento canonico, Milano 1971; PETRONCELLI M., I soggetti nell’ordinamento canonico, in Il diritto ecclesiastico 53 (1942), pp. 276 ss.; ID., Il diritto canonico dopo il Concilio Vaticano II, Napoli 1969, pp 147-157; ONCLIN W., De iurium subiectivorum in Ecclesia fondamento ac natura, in Ephemerides iuris canonici 8 (1952), pp. 11 ss.; OTADUY J., ¿Quien es persona en el derecho canónico?, in Fidelium iura 11 (2001), pp. 65-87, ora anche in: ID., Fuentes, interpretación, personas, Pamplona 2002, pp. 401-423. Per avere un quadro completo delle diverse posizioni espresse dalla dottrina canonistica sul tema si veda: BONNET P. A., Il problema della soggettività giuridica individuale nel diritto canonico, in AA. VV., Studi in memoria di Mario Condorelli. Studi di diritto ecclesiastico, diritto canonico, storia dei rapporti Stato-Chiesa, vol. I, tomo I, Milano 1988, pp. 179-229.

224

dal pontificato di papa Pecci20, il quale, si occupò in maniera

assolutamente innovativa delle questioni sociali e non solo.

Prima del pontificato di papa Leone, la questione del

riconoscimento dei diritti umani, da parte della Chiesa, aveva

incontrato una certa resistenza21, che però non è certo imputabile al

fatto che la Chiesa non riconoscesse i diritti della persona umana, si

trattava piuttosto di fattori storico-politici, che sconsigliavano, nel

clima dei secoli XVIII-XIX, affermazioni troppo vicine a quelle proprie

delle istituzioni politiche laiche: “Non in tutte le epoche della storia

della chiesa, però, pensiero e azione hanno, con sufficiente chiarezza

ed energia, difeso e promosso i diritti della persona umana. Se oggi la

chiesa con il suo magistero e la sua azione rappresenta nel campo dei

diritti dell’uomo un fattore importante, il cui contributo religioso ed

umano è apprezzato e desiderato dalla società civile nel comune

intento di rendere efficace ed operante per ogni essere umano

l’affermazione piena dei suoi fondamentali diritti, è onesto riconoscere

che tale situazione non è sempre stata costante nel corso dei secoli.

L’iter storico dell’affermazione dei diritti dell’uomo nell’ambito della

società civile ed anche ecclesiale appare durante alcuni secoli offuscato

ed ostacolato da posizioni e strutture istituzionali che ne hanno reso

difficile il processo. Sono ben note, per riferirci al comportamento della

Chiesa riguardo ai diritti dell’uomo negli ultimi due secoli, le

difficoltà, le riserve e, a volte, le reazioni da parte cattolica

20 Sul ruolo svolto dal magistero di Papa Pecci in ordine alla prima codificazione canonica si veda: FANTAPPIÈ C., Alle origini della codificazione pio-benedettina. Nuovi sviluppi delle teorie canonistiche sotto il pontificato di Leone XIII, in Quaderni fiorentini 25 (1996), pp. 347-407. 21 Si possono leggere a tal proposito, le proposizioni contenute in svariati documenti magisteriali: PIO VI, Lettera Quod aliquantum, 10.III.1791; PIO VII, Lettera apostolica Post tam diuturnas, 29.IV.1814; GREGORIO XVI, Lettera enciclica Mirari vos, 15.VIII.1832; PIO IX, Lettera enciclica Noscitis et nobiscum, 8.XII.1849; ID., Lettera enciclica Quanta cura, 8.XII.1864. Per tutti tali documenti si veda: BELLOCCHI U., Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740, Città del Vaticano 1993-2006.

225

all’affermarsi e al diffondersi delle dichiarazioni dei diritti dell’uomo,

proclamate dal liberalismo e dal laicismo”22.

Leone XIII23, fin dall’inizio del suo pontificato, aveva ad

affermare: “È chiaro, Venerabili Fratelli, che la vera civiltà manca di

solide basi, se non è fondata sugli eterni principi di verità e sulle

immutabili norme della rettitudine e della giustizia, e se una sincera

carità non lega fra loro gli animi di tutti e ne regola soavemente gli

scambievoli uffici. Ora, chi oserà negare essere la Chiesa quella che,

diffuso fra le nazioni il Vangelo, portò la luce della verità in mezzo a

popoli barbari e superstiziosi, e li mosse alla conoscenza del divino

Creatore e alla considerazione di se stessi; che abolendo la schiavitù

richiamò l’uomo alla nobiltà primitiva di sua natura; che spiegato in

ogni angolo della terra il vessillo della redenzione, introdotte o

protette le scienze e le arti, fondati e presi in sua tutela gl’istituti di

carità destinati al sollievo di qualunque miseria, ingentilì il genere

umano nella società e nella famiglia, lo sollevò dallo squallore, e con

ogni diligenza lo foggiò conforme alla dignità e ai destini della sua

natura? […] Pertanto se i moltissimi beni, che testé ricordammo come

derivati dal ministero e dal benefico influsso della Chiesa, sono opere e

splendore di vera civiltà, tanto è lungi dalla Chiesa il volerla schivare

od osteggiare, ché anzi a buon diritto se ne vanta nutrice, maestra e

madre”24. Contro le ideologie politiche che sostenevano essere le

uniche in grado di tutelare i diritti degli uomini, in particolare quelli

appartenenti alle classi sociali più misere, e di garantire ad esse la vera

uguaglianza, Leone XIII ricordava il fondamentale ruolo della Chiesa

22 PONTIFICIA COMMISSIONE «IUSTITIA ET PAX», La Chiesa e i diritti dell’uomo, nn. 17-18, 10.XII.1974, in Enchiridion Vaticanum 5 (1979), p. 561. 23 Per le Encicliche di Leone XIII oltre agli Acta Sanctae Sedis (ASS) si vedano anche: BANCHI J. – GIORDANI I. – SIRI G. – STORCHI F. (a cura di), La dottrina sociale della Chiesa nei documenti di Leone XIII, (6 voll.), Roma 1928; GIORDANI I. (a cura di), Le encicliche sociali da Pio IX a Pio XII, Roma 1942. BRUNETTI D. – PIERINI F. (a cura di), Le encicliche sociali dalla Rerum novarum alla Laborem exercens, Roma 1984; MOMIGLIANO E. (a cura di), Tutte le encicliche dei sommi pontefici, Milano 1959. 24 LEONE XIII, Lettera enciclica Inscrutabili Dei consilio, 21.IV.1878, in ASS 10 (1878), pp. 585-592

226

in tale ambito: “Costoro [i socialisti n.d.r.] invero non smettono di

blaterare…che tutti gli uomini sono per natura uguali fra loro, e quindi

sostengono non doversi prestare alle autorità né onore, né riverenza,

né obbedire alle leggi se non forse a quelle redatte a loro piacimento.

All’opposto, secondo gl’insegnamenti del Vangelo, tutti gli uomini

sono uguali in quanto avendo tutti avuto in sorte la medesima natura,

tutti sono chiamati alla medesima altissima dignità di figliuoli di Dio;

avendo tutti lo stesso fine da conseguire, dovranno essere giudicati a

norma della stessa legge, per riceverne premi o pene secondo che

avranno meritato. Tuttavia l’ineguaglianza di diritti e di potestà

proviene dall’Autore medesimo della natura, «dal quale tutta la famiglia

e in cielo e in terra prende il nome» (Ef 3, 15). Gli animi poi dei Principi e

dei sudditi, secondo la dottrina e i precetti della Chiesa cattolica, sono

così legati attraverso scambievoli doveri e diritti, che ne resta

temperata la passione sfrenata del comandare, e diviene facile,

costante e mobilissima la ragione dell’ubbidienza”25. Quanto il

pontificato di Leone XIII abbia contribuito alla dottrina della Chiesa in

ordine ai diritti umani è noto26, ma troppo spesso volutamente

occultato. Coloro infatti che si facevano portatori delle idee

illuministiche relative ai diritti umani, in quanto mossi da ideologie

anticlericali, hanno provveduto a ignorare ed occultare il contributo

della Chiesa all’affermazione di tali diritti.

Come dimenticare poi i contributi fondamentali di Pio XI e di Pio

XII, alla affermazione dei diritti dell’uomo, in momenti difficili e

cruciali per la storia dell’umanità27.

25 LEONE XIII, Lettera enciclica Quod apostolici muneris, 28.XII.1878, in ASS 11 (1879), pp. 369-376. 26 Oltre alle encicliche da noi ricordate, ed alla Rerum novarum, si vedano pure le seguenti encicliche: Immortale Dei, 1.XI.1885, in ASS 18 (1885), pp. 161-180; Libertas prestantissimum, 20.VI.1888, in ASS 20 (1887), pp. 593-613; Sapientiae christianae, 10.I.1890, in ASS 22 (1890), pp. 385-404. 27 Vedi a tal proposito: FERRONE V., Chiesa cattolica e modernità. La scoperta dei diritti dell’uomo dopo l’esperienza dei totalitarismi, in BOLGIANI F. – FERRONE V. – MARGIOTTA BROGLIO F. (a cura di), Chiesa cattolica e modernità, Bologna 2004, pp. 17-131.

227

Nella sua celebre enciclica contro il nazismo del 1937, Pio XI

affermava che: “L’uomo, in quanto persona, possiede diritti dati da

Dio, che devono essere tutelati da ogni attentato della comunità che

avesse per scopo di negarli, di abolirli e di impedirne l’esercizio”28.

Scagliandosi poi contro il comunismo ateo, Pio XI aveva a ribadire che

l’uomo: “è una persona, dal Creatore ammirabilmente fornita di doni

di corpo e di spirito, un vero microcosmo, come dicevano gli antichi,

un piccolo mondo che vale di gran lunga di più del grande mondo

inanimato”29.

Pio XII poi, in piena seconda guerra mondiale, di fronte all’orrore

di un mondo e di una umanità oramai allo stremo ricordava con forza

che: “L’uomo come tale, lungi dall’essere l’oggetto o un elemento

passivo della vita sociale, ne è invece, e deve esserne e rimanerne, il

soggetto, il fondamento, il fine”30.

L’enciclica Pacem in terris di papa Giovanni XXIII31, e i successivi

sviluppi conciliari e post conciliari32, hanno riaffermato dunque una

visione dell’uomo, che la Chiesa ha sempre affermato, e, laddove tale

28 PIO XI, Lettera enciclica Mit Brennender Sorge, n. 8, 14.III.1937, in AAS 29 (1937), pp. 145-167. 29 PIO XI, Lettera enciclica Divini Redemptoris, n. 27, 19.III.1937, in AAS 29 (1937), pp. 65-106. 30 PIO XII, Radiomessaggio del Natale del 1942, in AAS 34 (1942), pp. 10-21; vedi pure: BELLOCCHI U., Op cit., vol. XI, pp. 160-174. 31 A proposito del ruolo di papa Roncalli e della sua enciclica Pacem in terris è stato efficacemente sottolineato che: “Egli, quale supremo maestro della chiesa, assumeva così una chiara posizione in materia dei diritti dell’uomo. Rivendicava infatti la nativa e indeclinabile affermazione di libertà che il cristianesimo, fin dai primi secoli, ha apportato ad ogni uomo mediante la difesa della libertà religiosa, nella quale era implicita – in nuce – la conquista di ogni libertà di pensiero, di parola e di riunione, sancite nelle legislazioni moderne; riaffermava la adesione sincera della chiesa ad ogni proclamazione fondata sul fatto reale ed obiettivo, che ogni uomo è persona, soggetto di diritti e di doveri; e al tempo stesso asseriva che l’effettivo esercizio di tale riconosciemento sarebbe dipeso dalla maturazione storica di una comunità internazionale dotata di un potere efficiente, capace di influire nel comportamento dei gruppi, se non degli individui”, PONTIFICIA COMMISSIONE «IUSTITIA ET PAX», Op. cit., n. 13, p. 560. 32 Una sintesi dei principali documenti magisteriali relativi ai diritti umani, si trova in: BIFFI F., «Carte papali» dei diritti umani. Il ministero della promozione dei diritti della persona nucleo centrale del magistero dei Pontefici del XX secolo, in Apollinaris 55 (1982), pp. 780-806. Si veda anche, sul tema della giustizia e della sua promozione, il documento finale del SINODO DEI VESCOVI, La giustizia nel mondo, 30.XI.1971, in Enchiridion Vaticanum 4, Bologna 1978, pp. 800-839.

228

visione ha lasciato il posto a toni più restrittivi, essi sono stati il

risultato di mutamenti esterni, che dunque necessitavano di una

reazione ferma per la tutela dei valori autenticamente cristiani

dell’uomo e della società.

Una sintesi di come la Chiesa affronta la questione dei diritti

umani, e di quale sia il presupposto base per l’affermazione della

centralità dell’uomo, la fornisce l’odierno magistero pontificio:

“Afferma la Sacra Scrittura: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a

immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn 1, 27). Perché

creato a immagine di Dio, l’individuo umano ha la dignità di persona;

non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno, capace di conoscersi, di

possedersi, di liberamente donarsi e di entrare in comunione con altre

persone. Al tempo stesso, egli è chiamato, per grazia, ad un’alleanza

con il suo Creatore, a offrirgli una risposta di fede e di amore che

nessun altro può dare al posto suo. In questa mirabile prospettiva, si

comprende il compito affidato all’essere umano di maturare se stesso

nella capacità di amore e di far progredire il mondo, rinnovandolo

nella giustizia e nella pace. Con un’efficace sintesi sant’Agostino

insegna: «Dio, che ci ha creati senza di noi, non ha voluto salvarci

senza di noi». È pertanto doveroso per tutti gli esseri umani coltivare

la consapevolezza del duplice aspetto di dono e di compito”33.

5.1.2. Il dibattito canonistico intorno alla persona umana.

A questa profonda riflessione magisteriale sui diritti umani, che

approfondiremo ulteriormente nel secondo capitolo di questa parte,

non sempre è corrisposta un’altrettanto attenta riflessione dal punto di

33 BENEDETTO XVI, Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace, La persona umana, cuore della pace, n. 2, 8.XII.2006, in La Traccia 12 (2006), pp. 1270-1277. Con altre parole si può affermare che, con il magistero dell’ultimo secolo e mezzo: “la chiesa ha allargato la sua azione di difesa dal campo della christianitas – e della protezione dei suoi diritti e di quelli dei suoi membri – al campo della societas hominum, per tutelare i diritti di tutti gli uomini sulla base della comune natura umana e del diritto naturale”, PONTIFICIA COMMISSIONE «IUSTITIA ET PAX», Op. cit., n. 32, p. 568.

229

vista canonistico; tra i giuristi il dibattito, come detto, si è arrestato ad

una questione terminologica; il can 96 del CIC afferma infatti:

“Mediante il battesimo l’uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo e in

essa è costituito persona, con i doveri e i diritti che ai cristiani, tenuta

presente la loro condizione, sono propri, in quanto sono nella

comunione ecclesiastica e purchè non si frapponga una sanzione

legittimamente inflitta”34. La grande confusione ed il motivo di molte

discussioni, è a nostro avviso da ravvisarsi nella imprecisione della

terminologia utilizzata.

Se si vuole affermare che: solamente con il sacramento del

battesimo, una persona acquista diritti e doveri nell’ambito della

Chiesa cattolica, si sarebbe dovuto utilizzare una locuzione di questo

tipo: “Mediante il battesimo l’uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo

e in essa, in forza della rigenerazione sacramentale ricevuta, diviene

soggetto dei doveri e dei diritti che ai cristiani…sono propri…”.

Tuttavia utilizzare una terminologia di questo tipo avrebbe

comportato un problema teologico assai rilevante: il battesimo infatti,

attribuisce a colui che lo riceve, una condizione assolutamente

nuova35, tanto che, si può arrivare ad affermare che, solo da quel

34 Il can. 87 del CIC17 recitava: “Baptismate homo constituitur in Ecclesia Cristi persona cum omnibus christianorum iuribus et officiis, nisi, ad iura quod attinte, obstet obex, ecclesiasticae communionis vinculum impediens, vel lata ab Ecclesia censura”. 35 Scriveva a tal proposito CORECCO E., Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società. Aspetti metodologici della questione, in I diritti fondamentali, cit., p. 1224: “La personalità del cristiano, in quanto uomo nuovo che ha abbandonato l’uomo vecchio, è determinata dalla comunione. La sua identità metafisica e giuridica è data dal fatto che in forza del battesimo l’uomo è stato radicato strutturalmente, e non solo dal profilo etico, nel Cristo. Il cristiano rappresenta il Cristo poiché in lui è presente tutto il Cristo con il suo Corpo Mistico. Il cristiano non può perciò essere concepito come una entità individuale contrapposta a quella collettiva, ma come soggetto al quale tutta la comunità dei cristiani è misteriosamente, ma realmente, immanente. Sul piano giuridico il rapporto con tutti gli altri membri della comunità cristiana – anche con quelli che esprimono la funzione di servizio dell’Autorità – cambia strutturalmente. Non esiste più come rapporto di polarità concorrenziale. Questa integrazione è strutturale e totale. Il canone 87 del CIC testimonia fino ad oggi che questa è la coscienza antropologica più profonda della Chiesa. Il cristiano è visto, da una parte, come colui che è sminuito nella sua personalità ontologica e giuridica se vive extra-communionem, dall’altra, come colui che non può sottrarsi totalmente allo statuto ontologico della comunione stessa. Egli appartiene costituzionalmente, per sempre,

230

momento, un uomo, diviene realmente una persona. Si sarebbero in

pratica eliminati molti problemi giuridici, ma se ne sarebbe creato uno

teologico, dal momento che dire che un uomo, dopo aver ricevuto il

battesimo, diviene un soggetto giuridico, sminuirebbe completamente

la importanza del sacramento36. Lo stesso schema della Lex Ecclesiae

Fundamentalis, nelle sue varie elaborazioni succedutesi nel tempo37, al

can. 3 conteneva la solenne affermazione sulla dignità della persona

umana, così formulata: “Ecclesia omnibus et singulis hominibus, utopie ad

imaginem Dei creatis, dignitatem humanae personae propriam recognoscit et

profitetur, itemque officia et iura quae ex eadem profluunt agnoscit atque,

omnium hominum vocationis ad salutem ratione, etiam tuetur”38.

Pure se il canone 3 della LEF, anche per le ragioni da noi esposte,

non è stato recepito dalla codificazione canonica del 1983, è tuttavia

interessante notare che, nel riconoscere una pari dignità a tutti gli

uomini, si parta da un fondamentale dato teologico, che è quello della

creazione ad immagine di Dio, segno che anche per i legislatori la

lettura del termine persona, doveva avere un ben preciso supporto

teologico, più che giuridico.

all’unica Chiesa di Cristo mediante il battesimo: semel christianus, semper christianus”. 36 Come ricordava PAOLO VI nella, Lettera enciclica Ecclesiam suam, n. 18, 6.VIII.1964, in AAS 56 (1964), pp. 609-659: “Bisogna ridare al fatto d’aver ricevuto il santo battesimo, e cioè di essere stati inseriti, mediante tale sacramento, nel Corpo Mistico di Cristo che è la Chiesa, tutta la sua importanza, specialmente nella cosciente valutazione che il battezzato deve avere della sua elevazione, anzi della sua rigenerazione alla felicissima realtà di figlio adottivo di Dio, alla dignità di fratello di Cristo, alla fortuna, vogliamo dire alla grazia e al gaudio della inabitazione dello Spirito Santo, alla vocazione d’una vita nuova, che nulla ha perduto di umano, salvo che la infelice sorte del peccato originale, e che di quanto è umano è abilitata a dare le migliori espressioni e a sperimentare i più ricchi e candidi frutti. L’essere cristiani, l’aver ricevuto il santo Battesimo, non dev’essere considerato come cosa indifferente o trascurabile; ma deve marcare profondamente e felicemente la coscienza d’ogni battezzato; deve essere davvero considerato da lui, come lo fu dai cristiani antichi, un’illuminazione, che facendo cadere su di lui il raggio vivificante della Verità divina, gli apre il cielo, gli rischiara la vita terrena, lo abilita a camminare come figlio di Dio, fonte d’eterna beatitudine”. 37 Gli schemi provvisori sono rispettivamente del 1969, 1970 e 1976. 38 Coetus specialis de Lex Ecclesiae Fundamentalis postrema recognitio schematis, 24-29.IX.1979, in Communicationes 12 (1980), p. 32. Per la bibliografia riguardante l’evoluzione storica del progetto di LEF, si rimanda alla nota n. 1 del cap. 3 della parte II.

231

L’attuale can. 96, anche alla luce di queste ultime osservazioni, va

dunque letto principalmente nella sua portata teologico-sacramentale,

piuttosto che in senso giuridico; correttamente commenta de

Fuenmayor quando dice. “Il canone non afferma che i non battezzati

sono privi di ogni diritto rispetto alla Chiesa”39. Al tempo stesso la

rigenerazione nel lavacro battesimale comporta che: “il cristiano,

rigenerato dal battesimo, è stato reso figlio di Dio, il che implica una

realtà ontologica, che incide profondamente sulla sua stessa

personalità umana”40, tanto da potersi affermare, che con il battesimo

un soggetto diviene una persona, nel senso pieno che tale termine

comporta.

Se si vuole affermare che il diritto della Chiesa, ove detti norme

esclusivamente di diritto canonico umano (ad esclusione cioè di

quanto previsto dal diritto divino), fa riferimento solamente a coloro

che sono battezzati, e dunque pone canoni validi solamente per le

persone che abbiano ricevuto il sacramento battesimale, si deve

piuttosto riferirsi a quanto disposto dal can. 1141, per il quale: “Alle

leggi puramente ecclesiastiche sono tenuti i battezzati nella Chiesa

cattolica o in essa accolti, e che godono di sufficiente uso di

ragione…”.

In adesione a quanto abbiamo affermato nei capitoli precedenti, il

concetto di persona non viene determinato da una norma di tipo

positivo; tali norme possono tutt’al più stabilire chi sia il soggetto

giuridico attivo e passivo cui quel dato ordinamento fa riferimento. In

questo senso il diritto canonico non differisce da altri ordinamenti 39 DE FUENMAYOR A., Commento al can. 96, in ARRIETA J. I. (diretto da), Codice di diritto canonico, cit., p. 121. 40 MARQUES J. A., Pueblo de Dios, persona, «communio» y derechos fundamentales de los fieles, in I diritti fondamentali, cit., p. 148; la traduzione italiana è nostra n.d.r. 41 Si veda: RINCÓN-PÉREZ T., La liturgia y los sacramentos, cit., p. 113, ove l’A. afferma che, uno dei principali effetti giuridici del sacramento del battesimo, riguarda il fatto che, colui che lo riceve, non solamente diviene membro della Chiesa venendo incorporato ad essa, ma pure diviene soggetto passivo delle leggi meramente ecclesiastiche; OTADUY J., Commentario al c. 11, in MARZOA A. – MIRAS J. – RODRÍGUEZ OCAÑA R. (a cura di), Commentario exegetico al codigo de derecho canónico, vol. I, Pamplona 2002, pp. 322-326.

232

giuridici positivi, nel senso che le leggi mere ecclesiasticis vincolano

solamente i battezzati, ma non esaurendosi le norme canoniche in soli

precetti di diritto canonico umano, non ha alcun senso pensare che si

definisca la persona in relazione alla sua appartenenza o meno alla

Chiesa cattolica.

Sulla problematica giuridica che l’uso del termine persona

comporta all’interno del CIC, si è soffermato Lo Castro secondo cui,

proprio la relazione, introdotta dal CIC, tra i termini di persona e di

christifideles potrebbe far pensare ad un duplice effetto del battesimo

sui soggetti, duplice effetto che però non può essere affermato dal

momento che i termini appaiono usati come sinonimi, e riferiti

entrambi all’uomo battezzato nella Chiesa42. L’A. nota come l’aver

adottato il termine persona, quando forse sarebbe stato sufficiente

quello di christifideles, comporti svariati rischi di eccessivo tecnicismo

giuridico. In particolare egli afferma che l’utilizzo del termine persona

rende problematica, se non addirittura impossibile: “l’adeguata

configurazione giuridica all’interno dell’ordinamento canonico della

posizione (statica e dinamica) della persona non battezzata, della

persona in quanto persona. Il fatto che l’ordinamento canonico

s’occupi dell’uomo battezzato, che ad esso proclami solennemente di

attribuire la qualifica formale di ‘persona’ (can. 96) o di riservare

quella di christifidelis (can. 204), non significa che esso neghi sul piano

ontologico-sostanziale l’essere personale dell’uomo come tale

(battezzato o no) o che di questo e delle esigenze sue proprie, rilevanti

nel piano giuridico naturale fondamentale, non si curi o li ritenga del

tutto irrilevanti. Significa semplicemente che, per perduranti

preoccupazioni di formalismo giuridico, la nozione di persona è

interpretata in un senso che mal si adatta a rappresentarne le

dimensioni sostanziali e che, sul piano interpretativo dommatico, si

42 LO CASTRO G., Il soggetto, cit., pp. 59-60.

233

renderà necessario uno sforzo costruttivo perché tali dimensioni siano

adeguatamente proposte”43.

Ci sembra, dopo tutto quanto detto sinora, di poter far proprie le

conclusioni cui giunge Lo Castro, allorquando afferma che: “la

distinzione fra diritti (fondamentali) del fedele e diritti naturali

dell’uomo nella Chiesa è legittima sul piano concettuale (per la loro

diversa origine e per lo specifico fondamento e anche per i diversi loro

contenuti) e ben, dunque, la scienza giuridica o teologico-giuridica si

sono esercitate e continueranno ad esercitarsi per metterne in evidenza

tutti gli aspetti; ma non potrà mai sfociare in una distinzione reale,

nella persona del fedele, fra quei diritti o, peggio, in una

contrapposizione; nel fedele si assommano gli uni e gli altri, sicchè

correttamente è stato sostenuto che «parlare dei diritti fondamentali

del fedele significa riferirsi a tutti quei diritti che spettano al fedele sia

come persona umana sia come battezzato ed incorporato in quanto

tale alla Chiesa»44. […] i diritti del fedele, in una parola, non annullano

infatti nell’ambito dello stesso ordinamento canonico la dimensione

naturale dell’uomo, ma la arricchiscono di aspetti che ne fanno il

cristiano”45. Da inversa prospettiva, l’utilizzo del termine “diritti

fondamentali”, all’interno dell’ordinamento giuridico canonico, non

deve prestarsi ad interpretazioni distorte di esso, se è vero, come

riteniamo, che: “La generale affermazione dei diritti fondamentali e la

più diffusa sensibilità per i problemi ai quali si riferiscono, hanno

indotto ad esprimere in chiave di diritti fondamentali i valori

sostanziali che sono alla base dell’ordinamento canonico, con l’uso

degli strumenti concettuali elaborati in sede teorica e sperimentati per

la protezione dei diritti dell’uomo, i quali del resto costituiscono un

patrimonio certo non recente dell’ideale cristiano”46.

43 LO CASTRO G., Op. cit., pp. 61-62. Tali concetti sono pure ripresi alle pp. 91-99. 44 VILADRICH P. J., Teoría de los derechos fundamentales, cit., p. 357. 45 LO CASTRO G., Op. cit., pp. 279-280. 46 MIRABELLI C., La protezione giuridica dei diritti fondamentali, in I diritti fondamentali, cit., p. 403.

234

Rimangono dunque aperte due questioni, differenti, ma

complementari: i diritti umani, alla cui formulazione è giunta la

Chiesa, soprattutto con la riflessione magisteriale dell’ultimo secolo e

mezzo, sono applicabili ai fedeli? Ed il diritto canonico, segnatamente

in quelli che sono i diritti e doveri dei fedeli, può essere applicato e

rispettato, almeno per quegli aspetti che dipendono dal diritto divino,

anche da coloro che non sono fedeli poiché non hanno ancora ricevuto

il sacramento del battesimo? La persona (non fedele) è solo soggetto

passivo di queste determinate norme canoniche? Oppure può essere

un soggetto giuridico che svolge un ruolo attivo in rapporto alle

norme canoniche?

Nei prossimi capitoli affronteremo in primo luogo, in maniera

più approfondita di quanto fatto in questo capitolo, la riflessione

magisteriale sui diritti umani, soprattutto a partire dalle affermazioni

del Concilio Ecumenico Vaticano II; poi analizzeremo la possibilità di

una valenza del diritto canonico per soggetti non battezzati e

soprattutto l’eventuale valore che possono avere le norme di diritto

divino per i non battezzati.

235

5.2. Chiesa e diritti umani.

La tematica riguardante il rapporto tra la Chiesa ed i diritti

umani, pur essendo da sempre parte integrante della dottrina cattolica,

è oggi inquadrabile in quella che viene definita la dottrina sociale della

Chiesa1: “Tale dottrina ha una sua profonda unità, che sgorga dalla Fede in

una salvezza integrale, dalla Speranza in una giustizia piena, dalla Carità che

rende tutti gli uomini veramente fratelli in Cristo: è un’espressione

dell’amore di Dio per il mondo, che Egli ha tanto amato «da dare il suo

Figlio unigenito» (Gv 3, 16). La legge nuova dell’amore abbraccia

l’intera umanità e non conosce limiti, poiché l’annuncio della salvezza

in Cristo si estende «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8)”2. La

dottrina sociale della Chiesa: “riguarda tutto l’uomo e si rivolge a tutti

gli uomini”3; essa, come ricordato da papa Giovanni Paolo II:

“costituisce una categoria a sé. Non è neppure un’ideologia, ma

l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle

complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto

internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo

scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la

conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo

sull’uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per

orientare, quindi, il comportamento cristiano. Essa appartiene, perciò,

1 Sul rapporto tra dottrina sociale della Chiesa e diritti umani si vedano: ZUMAQUERO J. M., Los derechos humanos en la enseñanza de Juan Pablo II, in I diritti fondamentali, cit., pp. 923-945; BIFFI F., «Carte papali» dei diritti umani, cit.; COSTE R., L’Eglise et les droits de l’homme, Paris 1982; SILVESTRINI A., I diritti dell’uomo nell’insegnamento di Giovanni Paolo II, in Il foro italiano 5 (1987), pp. 425-432; COMPOSTA D., Due secoli di storia della Chiesa e i diritti umani, in Apollinaris 68 (1995), pp. 141-169; MARTINELLI M., L’evoluzione storica del Magistero sociale della Chiesa, in ARRIETA J. I. – MILANO G. P. (a cura di), Metodo, fonti e soggetti del diritto canonico, Città del Vaticano 1999, pp. 1077-1092; FILIBECK G., I diritti dell’uomo nell’insegnamento della Chiesa. Da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, Città del Vaticano 2001; HAJDU T., La partecipazione della Santa Sede alla tutela internazionale dei diritti dell’uomo, Roma 2005. Per un esame critico di tale tematica si veda: CASTELLANO D., Razionalismo e diritti umani. Dell’antifilosofia politico-giuridica della “modernità”, Torino 2003, in particolare pp. 55-76. 2 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 3, 2.IV.2004. D’ora innanzi si designerà tale documento con la sigla: CDSC. 3 CDSC, n. 5.

236

non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della

teologia morale”4.

Proprio in quanto riguardante tutto l’uomo, la dottrina sociale

della Chiesa presenta fondamentali riflessi giuridici, soprattutto per la

definizione di quelli che possono essere i diritti degli uomini, siano

essi battezzati o meno: i diritti dell’uomo in quanto uomo. Non si può

pensare di interpretare o leggere le norme canoniche, ignorando i testi

conciliari e magisteriali riguardanti la persona, come anche

sottolineava papa Giovanni Paolo II: “Riduzionismo anche più

pericoloso è quello che pretende di interpretare ed applicare le leggi

ecclesiastiche distaccandole dalla dottrina del Magistero. Secondo tale

visione, i pronunciamenti dottrinali non avrebbero alcun valore

disciplinare, valore che sarebbe da riconoscere soltanto agli atti

formalmente legislativi. È noto che, in quest'ottica riduzionista, si è

arrivati talvolta ad ipotizzare perfino due diverse soluzioni dello

stesso problema ecclesiale: l'una ispirata ai testi magisteriali, l'altra a

quelli canonici. Alla base di una simile impostazione vi è un'idea di

Diritto Canonico molto impoverita, quasi che esso si identificasse con

il solo dettato positivo della norma. Così non è: la dimensione

giuridica infatti, essendo teologicamente intrinseca alle realtà

ecclesiali, può essere oggetto di insegnamenti magisteriali, anche

definitivi. Questo realismo nella concezione del diritto fonda un'autentica

interdisciplinarietà tra la scienza canonistica e le altre scienze sacre. Un

dialogo davvero proficuo deve partire da quella realtà comune che è la

vita stessa della Chiesa. Pur studiata da angolature diverse nelle varie

discipline scientifiche, la realtà ecclesiale rimane identica a se stessa e,

come tale, può consentire un interscambio reciproco fra le scienze

sicuramente utile a ciascuna”5.

4 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Sollicitudo rei socialis, n. 41, 30.XII.1987, in AAS 80 (1988), pp. 513-586. 5 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti alla giornata accademica organizzata dal Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, 25.I.2003, in AAS 95 (2003), pp. 333-336.

237

Naturalmente si deve tenere ben presente che cosa si intenda con

il temine persona o uomo; il Concilio Ecumenico Vaticano II dà una

definizione ben precisa dei termini: “È l’uomo dunque, ma l’uomo

integrale, nell’unità di corpo e anima, di cuore e coscienza, di intelletto

e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione”6; più oltre

sempre i Padri conciliari ulteriormente precisano: “Unità di anima e di

corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale,

gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui

toccano il vero vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore

[…] è la dignità stessa dell’uomo che postula che egli glorifichi Dio nel

proprio corpo, e che non permetta che esso si renda schiavo delle

perverse inclinazioni del cuore. L’uomo, però, non sbaglia a

riconoscersi superiore alle cose corporali e a considerarsi più che

soltanto una particella della natura o un elemento anonimo della città

umana. Infatti, nella sua interiorità, egli trascende l’universo: in quelle

profondità egli torna, quando si volge al cuore, là dove lo aspetta Dio,

che scruta i cuori, là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide il suo

destino. Perciò, riconoscendo di avere un’anima spirituale e

immortale, non si lascia illudere da fallaci finzioni che fluiscono

unicamente dalle condizioni fisiche e sociali, ma invece va a toccare in

profondo la verità stessa delle cose”7.

L’uomo così inteso porta in se stesso una dignità che gli deriva

dal fatto di essere stato creato ad immagine di Dio, per cui possiede

dei diritti che sono direttamente conseguenti da questa sua condizione.

La creazione ad immagine di Dio è il punto di partenza da cui la

Chiesa svolge la sua riflessione sui diritti umani, che porta ad una

visione assolutamente originale dell’uomo e dei suoi diritti: “tutta la

dottrina cristiano-tomista ha posto per prima e come base

fondamentale di tutto il problema sociale e dei diritti fondamentali

6 Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, n.3, in AAS 58 (1966), pp. 1025-1120. 7 GS, n. 14.

238

dell’uomo e di ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo, il concetto

che ogni uomo è persona, soggetto di diritti e di doveri, concetto del

tutto ignorato dal mondo antico e che è tornato a riemergere come

guida di ogni organizzazione sociale-politica, in quanto

riconoscimento del valore autonomo dell’uomo, della sua nativa e

indeclinabile affermazione della libertà e della sua dignità morale e

sacra in quanto persona e figlio di Dio, per cui non vi sono più Ebrei né

Gentili, né padroni né schiavi, non più discriminazioni fra uomini e

donne, né potenti né oppressi: tutti gli uomini sono fratelli in quanto

figli di Dio”8.

La dottrina sociale della Chiesa ha come punto di partenza

proprio il concetto di persona umana come creatura ad imago Dei9, da

cui discende il primo e fondamentale diritto di ogni uomo: essere

considerato uguale ad ogni altro uomo, perché avente la medesima

dignità. Come ricorda il CDSC: “L’uomo esiste come essere unico e

irripetibile, esiste come un «io», capace di autocomprendersi, di

autopossedersi, di autodeterminarsi. La persona umana è un essere

intelligente e cosciente, capace di riflettere su se stesso e quindi di aver

coscienza di sé e dei propri atti. Non sono, tuttavia, l’intelligenza, la

coscienza e la libertà a definire la persona, ma è la persona che sta alla

base degli atti di intelligenza, di coscienza, di libertà. Tali atti possono

anche mancare, senza che per questo l’uomo cessi di essere persona. La

persona umana va sempre compresa nella sua irripetibile ed ineliminabile

8 PIZZORNI R., I diritti fondamentali della persona umana secondo S. Tommaso d’Aquino e il magistero della Chiesa, in BIFFI F. (a cura di), I diritti fondamentali della persona umana e la libertà religiosa, Città del Vaticano 1985, p. 759. A proposito della antropologia che la Chiesa, con il suo insegnamento sviluppa, aveva ad affermare papa PAOLO VI, Udienza generale, 4.IX.1968, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. VI, Città del Vaticano 1968, pp. 886-887: “Nessuna antropologia eguaglia quella della Chiesa sulla persona umana, anche singolarmente considerata, circa la sua originalità, la sua dignità, l’intangibilità e la ricchezza dei suoi diritti fondamentali, la sua sacralità, la sua educabilità, la sua aspirazione ad uno sviluppo completo, la sua immortalità, ecc. Si potrebbe mettere insieme un codice dei diritti che la Chiesa riconosce all’uomo in quanto tale, e sarà sempre difficile definire l’ampiezza di quelli che derivano all’uomo a causa della sua elevazione all’ordine soprannaturale, mediante la sua inserzione in Cristo”. 9 A tale fondamentale tematica il CDSC dedica i nn. 108-123.

239

singolarità. L’uomo esiste, infatti, anzitutto come soggettività, come

centro di coscienza e di libertà, la cui vicenda unica e non paragonabile

ad alcun’altra esprime la sua irriducibilità a qualunque tentativo di

costringerlo entro schemi di pensiero o sistemi di potere, ideologici o

meno”10.

Il magistero pontificio, ribadisce con costanza l’importanza della

creazione dell’uomo ad immagine di Dio, e sottolinea come tale

visione dell’uomo, preceda qualsiasi altra visione giuridica dello

stesso: “Se Dio è unità dialogica, essere in relazione, la creatura umana,

fatta a sua immagine e somiglianza, rispecchia tale costituzione: essa

pertanto è chiamata a realizzarsi nel dialogo, nel colloquio,

nell’incontro: è un essere in relazione. In particolare, Gesù ci ha

rivelato che l’uomo è essenzialmente «figlio», creatura che vive nella

relazione con Dio Padre, e così in relazione con tutti i suoi fratelli e

sorelle. L’uomo non si realizza in un’autonomia assoluta, illudendosi

di essere Dio, ma, al contrario, riconoscendosi quale figlio, creatura

aperta, protesa verso Dio e verso i fratelli, nei cui volti ritrova

l’immagine del Padre comune. Si vede bene che questa concezione di

Dio e dell’uomo sta alla base di un corrispondente modello di

comunità umana, e quindi di società. È un modello che sta prima di

ogni regolamentazione normativa, giuridica, istituzionale, ma direi

anche prima delle specificazioni culturali; un modello di umanità

come famiglia, trasversale a tutte le civiltà, che noi cristiani

esprimiamo affermando che gli uomini sono tutti figli di Dio e quindi

tutti fratelli. Si tratta di una verità che sta fin dal principio dietro di noi

e al tempo stesso ci sta sempre davanti, come un progetto a cui sempre

tendere in ogni costruzione sociale. Ricchissimo è il Magistero della

Chiesa che si è sviluppato a partire proprio da questa visione di Dio e

10 CDSC, n. 131.

240

dell’uomo. Basta percorrere i capitoli più importanti della Dottrina

Sociale della Chiesa”11.

Come efficacemente osservato da Pieper, nel commentare la

massima ulpianea sulla giustizia, tutto dipende dalla considerazione

che si ha dell’uomo: “Proprio perché l’uomo è persona, vale a dire un

essere spirituale che esiste intero in sé e a motivo della propria

perfezione – per questo compete a lui in senso assoluto qualcosa, per

questo egli ha irremovibilmente un suum, un diritto che possa essere

sostenuto contro ogni partner, e rispettivamente obblighi l’altro almeno

a non violarlo”12. Fare riferimento ai diritti umani o alle libertà della

persona, non può essere ritenuto sufficiente, se non si ha

precedentemente una considerazione della persona in sé; la Chiesa,

attraverso la teologia della creazione dell’uomo ad imago Dei, dimostra

che è Dio, il fondamento assoluto di ogni diritto dell’uomo; ancora

tornando al Pieper: “l’uomo ha dei diritti irremovibili proprio perché è

stato creato come persona per volontà divina, quanto dire sottratto ad

ogni umana discussione. In ultima analisi qualcosa spetta all’uomo in

modo assoluto proprio perché egli è creatura. Ed è pure in quanto

creatura che egli ha l’obbligo incondizionato di dare all’altro ciò che gli

appartiene”13.

Tutti gli uomini sono dunque chiamati alla salvezza eterna, ed in

questo senso tutti gli uomini hanno gli stessi diritti e doveri, che la

Chiesa riconosce loro. L’uomo deve essere lasciato libero di trovare la

via verso la salvezza; tale libertà non è tuttavia in contrasto con il fatto

che l’uomo è, in quanto creatura, dipendente da Dio: “L’uomo è

certamente libero, dal momento che può comprendere ed accogliere i

comandi di Dio. Ed è in possesso di una libertà quanto mai ampia,

perché può mangiare «di tutti gli alberi del giardino». Ma questa

11 BENEDETTO XVI, Omelia, del 18.V.2008, in La Traccia 5 (2008), pp. 613-616. 12 PIEPER J., La giustizia, Brescia 2000, p. 37. L’opera originale, con il titolo Über die Gerechtigkeit, fu pubblicata per la prima volta nel 1965 a Monaco. 13 Ibidem, p. 39.

241

libertà non è illimitata: deve arrestarsi di fronte all’«albero della

conoscenza del bene e del male», essendo chiamata ad accettare la

legge morale che Dio dà all’uomo. In realtà, proprio in questa

accettazione la libertà dell’uomo trova la sua vera e piena

realizzazione”14. Partendo dalla rottura dell’alleanza tra l’uomo e Dio,

causata dal peccato originale commesso dal nostro progenitore

Adamo, papa Giovanni Paolo II aveva ad affermare: “La creatura

infatti è sempre soltanto una creatura, e non Dio. Non può certo

pretendere di essere «come Dio», di «conoscere il bene e il male» come

Dio. Dio solo è la fonte di ogni essere, Dio solo è la Verità e Bontà

assolute, a cui si commisura e da cui riceve distinzione ciò che è bene e

ciò che è male. Dio solo è il Legislatore eterno, dal quale deriva ogni

legge nel mondo creato, e in particolare la legge della natura umana

(«lex naturae»). L’uomo, in quanto creatura razionale, conosce questa

legge e deve da essa lasciarsi guidare nella propria condotta. Non può

pretendere di stabilire egli stesso la legge morale, decidere egli stesso

ciò che è bene e ciò che è male, indipendentemente dal Creatore, anzi

contro il Creatore. Non può, né l’uomo né alcuna creatura, mettersi al

posto di Dio, attribuendosi la padronanza dell’ordine morale, contro la

stessa costituzione ontologica della creazione, che si riflette nella sfera

psicologico-etica con gli imperativi fondamentali della coscienza e

quindi della condotta umana”15.

Ecco dunque il fondamento giuridico dei diritti umani: lo ius, che

è conoscibile da ogni uomo, e nel quale i diritti umani sono

naturalmente compresi, in quanto inscritti nella coscienza dell’uomo.

Se anche una persona, non dovesse riconoscere il diritto divino, in

quanto non credente, tuttavia lo potrà conoscere ugualmente,

attraverso l’uso della sua ragione, in coscienza. Addirittura si può

affermare che, i diritti umani, così intesi, sono anteriori alla Chiesa

14 VS, n. 35. 15 GIOVANNI PAOLO II, Udienza generale, n. 5, 10.IX.1986, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. IX-2, Città del Vaticano 1986, pp. 584-594.

242

stessa: “Ogni uomo è stato creato ad immagine di Dio ed è destinato

alla salvezza. Derivano da ciò due conseguenze: 1) La Chiesa partecipa

al dibattito sui diritti dell’uomo in ragione di una propria fonte di

conoscenza, la Rivelazione; 2) la dignità umana, come è un fatto che

sta prima dello Stato, neppure viene creata o trasmessa dalla Chiesa: la

dignità dell’uomo è antecedente anche alla Chiesa”16.

Come giustamente affermato: “I diritti umani costituiscono una

realtà ontologica che preesiste alla legge scritta. La dignità della

persona umana è il fondamento e l’origine dei diritti dell’uomo. […]

La legge non «fonda» i diritti umani. Il diritto non nasce

esclusivamente dalla volontà umana o dai costumi né crea i diritti

dell’uomo. I diritti umani sono anteriori allo Stato e alla legislazione

civile, propri della natura umana, e originati nella volontà creatrice di

Dio. I diritti umani attengono per così dire al patrimonio genetico della

persona, di ogni persona, non ne sono un accessorio che oggi c’è e

domani può non esserci”17.

Tale tematica è stata ampiamente trattata dal magistero pontificio

più recente, allorquando veniva approfondita la tematica morale, da

noi anche brevemente sintetizzata nei capitoli precedenti18.

La dottrina sociale della Chiesa ha ribadito con forza

l’importanza di tale impostazione, proprio al fine di garantire i diritti

di ogni uomo: “Nella diversità delle culture, la legge naturale lega gli

uomini tra loro, imponendo dei principi comuni. Per quanto la sua

applicazione richieda adattamenti alla molteplicità delle condizioni di

vita, secondo i luoghi, le epoche e le circostanze, essa è immutabile,

«rimane sotto l’evolversi delle idee e dei costumi e ne sostiene il

progresso…Anche se si arriva a negare i suoi principi, non la si può

16 AYMANS W., Lo statuto dei diritti dell’uomo nell’ordinamento giuridico ecclesiale, in Il diritto ecclesiastico 106 (1995), p. 24. 17 FITTE H., Teologia e società. Elementi di teologia morale sociale, Roma 2002, p. 116. 18 Si veda soprattutto l’enciclica Veritatis splendor.

243

però distruggere, né strappare dal cuore dell’uomo. Sempre risorge

nella vita degli individui e delle società»19”20.

Nel cuore dell’uomo, è contenuto il principio di uguaglianza, che

fa percepire ogni uomo, non come un altro da sé, ma come una

creatura di Dio, e dunque come un altro se stesso. Nella Costituzione

pastorale Gaudium et spes, questo principio di uguaglianza è

magistralmente espresso: “Avendo tutti gli uomini, dotati di un’anima

razionale e creati ad immagine di Dio, la stessa natura e la medesima

origine, e poiché, da Cristo redenti, godono della stessa vocazione e

del medesimo destino divino, è necessario riconoscere ognor più la

fondamentale uguaglianza fra tutti. Invero, non tutti gli uomini sono

uguali per la varia capacità fisica e per la diversità delle forze

intellettuali e morali. Tuttavia, ogni genere di discriminazione nei

diritti fondamentali della persona,[…] deve essere superato ed

eliminato,come contrario al disegno di Dio”21.

In questo fondamentale principio di uguaglianza così espresso,

devono fondarsi i diritti umani, la dottrina sociale della Chiesa lo ha

sottolineato a più riprese, e sul punto può sintetizzarsi quanto segue:

“La radice dei diritti dell’uomo, infatti, è da ricercare nella dignità che

appartiene ad ogni essere umano. Tale dignità, connaturale alla vita

umana e uguale in ogni persona, si coglie e si comprende anzitutto con

la ragione. Il fondamento naturale dei diritti appare ancora più solido

se, alla luce soprannaturale, si considera che la dignità umana, dopo

essere stata donata da Dio ed essere stata profondamente ferita dal

peccato, fu assunta e redenta da Gesù Cristo mediante la sua

incarnazione, morte e risurrezione. La fonte ultima dei diritti umani non

si situa nella mera volontà degli esseri umani, nella realtà dello Stato, nei

poteri pubblici, ma nell’uomo stesso e in Dio suo Creatore”22.

19 CCC, n. 1958. 20 CDSC, n. 141. 21 GS, n. 29. 22 CDSC, n. 153.

244

Alla luce delle considerazioni magisteriali e teologiche svolte, non

si può affermare che la persona umana ed i suoi diritti non abbiano

alcuna rilevanza all’interno dell’ordinamento giuridico canonico, al

contrario, l’ordinamento canonico riconosce il valore fondamentale di

tali diritti, tale ordinamento, come è stato giustamente affermato: “non

poteva, del resto, non riconoscere in ciascun uomo – creato a

immagine e somiglianza della Divinità ispiratrice dello stesso

ordinamento – un fondo o nucleo di soggettività giuridica comune a

credenti e non credenti, costituito dal complesso di situazioni radicate

nel diritto creaturale (o naturale cristiano), che è parte essenziale e

imprescindibile dello stesso diritto divino rivelato. Si tratta di un insieme

di diritti e doveri umani fondamentali che, avendo la loro radice nel diritto

divino, non dipendono dalla appartenenza del soggetto all’istituzione

ecclesiastica, né possono essere elisi o coartati nel loro esercizio in

forza di motivi puramente disciplinari”23. Certo è necessario intendere

la persona umana in maniera differente da quanto solitamente viene

fatto dagli ordinamenti giuridici positivi; la persona non può

assolutamente essere intesa come il soggetto, vuoi attivo vuoi passivo,

delle norme, ma come persona umana, a prescindere da diritti e doveri

che un ordinamento giuridico possa attribuirgli. Si dovrà insomma

passare dalla nozione personalistica di uomo, che sta alla base degli

ordinamenti costituzionali del mondo occidentale24, alla concezione di

persona umana portatrice di valori che trascendono l’ordinamento e la

stessa persona : “Valori inerenti ad un orizzonte extra giuridico, ma di

cui il giuridico non potrà certo fare a meno”25. Come autorevolmente

ricordato, nella Chiesa, attraverso la riflessione sui diritti umani: “si sta

recuperando l’eredità tipica della tradizione canonica, anche se

mutuata da altri ordinamenti giuridici. Alla base di tutto non esiste la

23 BERLINGÒ S., Diritto canonico, cit., pp. 169-170. 24 TOSATO E., Rapporto fra persona, società intermedie e stato, in AA. VV., I diritti umani. Dottrina e prassi, Roma 1982, p. 695. 25 CALABRÒ G. P., La nozione di persona tra Ordinamento canonico e Ordinamento civile: morale e diritto nell’esperienza giuridica, in Metodo, fonti e soggetti, cit., p. 873.

245

legge, ma la persona nella sua unicità e irripetibilità, dotata dal

creatore stesso di tutti gli strumenti, diritti, necessari e indispensabili

per la sua crescita. La legge deve partire da tale realtà; essa non è il

diritto, ma la misura del diritto. Non è essa che conferisce i diritti, ma

li regola, li misura e li coordina”26.

Se si vuole parlare di una legge che sia in grado di regolare i

diritti umani, in modo serio ed autorevole, tale legge dovrà

necessariamente ricollegarsi alla legge naturale. La legge naturale (che

come abbiamo visto trova in Dio il suo legislatore), è indissolubilmente

legata alla persona umana ed alla sua dignità e viceversa; come

affermava Maritain: “la legge naturale e la luce della coscienza morale

in noi non prescrivono soltanto delle cose da fare e da non fare; esse

riconoscono pure dei diritti, in particolare dei diritti legati alla natura

stessa dell’uomo. La persona umana ha dei diritti per il fatto stesso che

è persona: un tutto signore di se stesso e dei suoi atti; e che per

conseguenza non è soltanto un mezzo, ma un fine, un fine che deve

essere trattato come tale. La dignità della persona umana: questa

espressione non vuol dire nulla se non significa che, per legge

naturale, la persona umana ha il diritto di essere rispettata, è soggetto

di diritto e possiede dei diritti. Vi sono cose che sono dovute all’uomo

per il fatto stesso che è uomo. […] La vera filosofia dei diritti della

persona umana si fonda dunque sull’idea della legge naturale. La

stessa legge naturale che ci prescrive i nostri più fondamentali doveri,

e in virtù della quale ogni legge obbliga, è essa pure quella che ci

assegna i nostri diritti fondamentali”27.

26 DE PAOLIS V., Il ruolo della scienza canonica nello studio del Codice di Diritto Canonico, in AA. VV., Vent’anni di esperienza canonica 1983-2003, Città del Vaticano 2003, pp. 155-156. 27 MARITAIN J., I diritti dell’uomo e la legge naturale, Milano 1991, pp. 60-61. La concezione di Maritain riguardo i diritti umani, è prettamente cristiana; ci ricorda tra l’altro SCOLA A., La fondazione dei «diritti dell’uomo» in Jacques Maritain, in I diritti fondamentali, cit., p. 905: “il destino personale di ogni uomo è solo nelle sue mani ed egli solo può prendere decisioni in merito. In definitiva per Maritain tutti i diritti dell’uomo sono radicati nella sua vocazione di agente spirituale libero, aperto a dei valori assoluti e ad un destino che va oltre il tempo. Lo Stato non può in alcun modo

246

La Chiesa più e meglio di chiunque altro si fa portavoce ed

interprete dei diritti della persona umana, anzitutto per i motivi di

natura teologica che la animano in questa sua opera. In secondo luogo

per il fatto stesso di possedere un ordinamento giuridico che riconosce

al suo interno la legge naturale così come è stata descritta ed analizzata

sino a questo momento. Da ultimo è interessante notare che la Chiesa

non è sottoposta a vincoli o condizionamenti di alcun tipo, in ordine al

riconoscimento ed alla applicazione dei diritti umani, cosa che invece

avviene per altre entità preposte alla tutela ed alla promozione di tali

diritti. Il motore, se così si può dire, della sollecitudine della Chiesa

verso i diritti della persona umana, può essere ravvisato nelle funzioni

stesse attribuite ad essa dal suo divino Fondatore; come osservato: “la

Chiesa, al di là di ogni contingenza territoriale e politica, di ogni

distinzione, da qualunque punto di vista, compresa quella

dell’appartenenza o meno dei soggetti alla comunità cristiana, e,

dunque, sgombra da preoccupazioni di giurisdizione in senso stretto,

in obbedienza al mandato primario del docete, si rivolge a tutti

indistintamente, individui e popoli, per un discorso sull’uomo e sui

diritti essenziali dell’uomo, in quanto tale, nella sua qualità ed essenza

assolutamente umana”28.

Mentre i diritti umani, così come affermati dai principi

illuministici, avevano lo scopo primario di costituire una tutela

giuridica di base, per difendere i cittadini dallo strapotere dell’autorità

statale, nella Chiesa la riflessione su tali diritti ha seguito altre vie, non

presentandosi la medesima necessità, giacchè la Chiesa, al contrario

dello stato, non si presenta come autorità impositiva di obblighi:

“mentre negli ordinamenti statali il problema dei diritti dell’uomo si è

posto come esigenza dell’individuo ad un ambito di autonomia di

fronte al potere politico, per limitarlo nella sua espansione, nella arrogarsi il ruolo di generatore di tali diritti”. 28 SARACENI G., Nuova tematica dello ‘ius publicum ecclesiasticum’: i ‘diritti dell’uomo’, in AA. VV., Diritti, persona e vita sociale. Scritti in memoria di Orio Giacchi, vol. II, Milano 1984, p. 360.

247

Chiesa non si presenta quasi come una esigenza di cambiamento della

«costituzione ecclesiastica», non è la rivendicazione di un ambito

autonomo, ma è la richiesta di rendere giuridici nella forma quei diritti

da sempre riconosciuti all’uomo da Gesù, capo della Chiesa”29. Le

dichiarazioni dei diritti dell’uomo, le affermazioni contenute nelle

carte costituzionali, le dichiarazioni dell’O.N.U. riguardanti i diritti

dell’uomo, sono considerate dalla Chiesa in maniera senza dubbio

positiva, pur con le critiche che ad essa si possono muovere in quanto

propongano fondamenti anti-cristiani30.

La Chiesa ribadisce però che il contenuto di tali dichiarazioni non

può considerarsi sufficiente; Giovanni Paolo II ricordava che: “Nel

condividere la gioia di questa conquista con tutti gli uomini di buona

volontà, con tutti gli uomini che amano veramente la giustizia e la

pace, la Chiesa, consapevole che la sola «lettera» può uccidere, mentre

soltanto «lo spirito dà vita» (cfr.: 2Cor 3, 6), deve insieme con questi

uomini di buona volontà domandare continuamente se la

29 DIQUATTRO G., Lo statuto giuridico dei «christifideles», cit., p. 90. 30 A tal proposito BELLINI P., Diritti fondamentali dell’uomo diritti fondamentali del cristiano, in Ephemerides iuris canonici 34 (1978), pp. 236-237, ricordava che: “I «droits de l’homme» - è sin inutile starlo a ricordare – promanano, tutto alla rovescia, da una visione ottimistica dell’uomo: ottimistica in radice. La quale – col tessere l’elogio dell’autosufficienza creatrice del cimento umano – promuove l’Uomo al ruolo di vero protagonista della storia; autore della propria vicenda personale; artefice e gestore delle istituzioni comunitarie; custode delle credenze ricevute, ma capace, se ne avverta l’urgenza culturale o politica, di rimetterle tutte in discussione; giudice della propria convenienza; soggetto alla legge umana nelle azioni esterne, ma libero nell’intimo dell’animo: senz’altro limite che la propria coscienza etica individua. E l’uomo – che occupa in tal modo il centro del sistema – è un uomo sano: proteso con fiducia alla ricerca d’una sua felicità tutto terrena. È un uomo che rivendica con forza il diritto nativo a conseguirla questa sua felicità: e che reclama altrettanto fermamente il diritto incomprimibile (il fondamentale ‘diritto di libertà’) di porsi come ‘misura di sé’, improntando il programma della propria elevazione personale a quelle grandezze ideali ch’egli sente più vicine alla propria sensibilità etica. Un uomo – insomma – che vanta una capacità di disporre del suo corpo e di disporre del suo spirito entro limiti che poco hanno in comune con gli ‘schemi di doverosità etica’ del sistema deontologico cristiano. Un uomo – per dirla col Concilio – che «si esalta così da fare di sé una regola assoluta»: «…se tamquam absolutam regulam exaltat». E si tratta di limiti che poco hanno a che fare con l’idea cristiana della ‘libertà’: la quale privilegia – né potrebbe essere diversamente – non già l’impegno personale di ricerca di quella verità (di quella ‘qualunque’ verità) sentita da ciascuno come soggettivamente più appagante, sì invece della ‘Verità’ oggettiva (della sola e ‘vera’ Verità) qual è espressa ‘semel in perpetuum’ dal codice divino”.

248

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e l’accettazione della loro «lettera»

significhino dappertutto anche la realizzazione del loro «spirito».

Sorgono, infatti, timori fondati che molto spesso siamo ancora lontani

da questa realizzazione, e che talvolta lo spirito della vita sociale e

pubblica si trova in una dolorosa opposizione con la dichiarata

«lettera» dei diritti dell’uomo”31.

La Chiesa si fa promotrice dei diritti dell’uomo in quanto

creatura, fatta ad immagine di Dio, che ricerca la via della salvezza,

non solamente promuovendo norme scritte a tutela di tali diritti, ma

piuttosto promuovendone lo spirito. La salvezza è un obbiettivo di

ogni uomo e risponde ad un desiderio profondo, che l’uomo spesso

non esterna, ma che pure è presente nei suoi pensieri; è quanto ricorda

la Costituzione Gaudium et spes, allorquando afferma: “L’uomo d’oggi

procede sulla strada di un più pieno sviluppo della sua personalità e

di una progressiva scoperta e affermazione dei propri diritti. Ma

poiché la Chiesa ha ricevuto l’incarico di manifestare il mistero di Dio,

il quale è il fine ultimo personale dell’uomo, essa al tempo stesso svela

all’uomo il senso della sua propria esistenza, vale a dire la verità più

profonda sull’uomo. […] L’uomo, infatti, avrà sempre desiderio di

sapere, almeno confusamente, quale sia il significato della sua vita, del

suo lavoro e della sua morte. E la Chiesa con la sua sola presenza nel

mondo gli richiama alla mente questi problemi. Ma soltanto Dio, che

ha creato l’uomo a sua immagine e che lo ha redento dal peccato, può

offrire a tali problemi una risposta pienamente adeguata, e ciò per

mezzo della rivelazione compiuta nel Cristo, Figlio suo divino, fatto

uomo. Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa pure lui più

uomo. Partendo da questa fede, la Chiesa può sottrarre la dignità della

persona umana al fluttuare di tutte le opinioni, che per esempio o

troppo abbassano il corpo umano o troppo lo esaltano. Nessuna legge

31 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Redemptor hominis, n. 17, 4.III.1979, in AAS 71 (1979), pp. 257-324.

249

umana vi è che possa porre così bene al sicuro la personale dignità e la

libertà dell’uomo, quanto il Vangelo di Cristo affidato alla Chiesa”32.

I diritti umani e la loro promozione da parte della Chiesa, sono

strettamente connessi con la funzione di insegnare della Chiesa, come

ricordato da Giovanni Paolo II: “La Chiesa non ha bisogno di

confermare quanto questo problema (quello dell’azione per la

promozione dei diritti umani e del bene dell’uomo n.d.r.) sia

strettamente collegato con la sua missione nel mondo

contemporaneo”33.

Attraverso la sua sollecitudine per l’uomo, la Chiesa svolge

pienamente la sua missione, d’altra parte è stato recentemente ribadito

che: “ l’azione salvifica di Gesù Cristo, con e per il suo Spirito, si

estende, oltre i confini visibili della Chiesa, a tutta l’umanità”34.

La Chiesa ha un obbligo costituzionale, se così si può dire, che è

quello dell’annuncio del messaggio di salvezza di Cristo, morto e

risorto, per tutti gli uomini: “Inviata per mandato divino, alle genti per

essere «sacramento universale di salvezza», la Chiesa, rispondendo a

un tempo alle esigenze più profonde della sua cattolicità ed all’ordine

specifico del suo Fondatore (cfr. Mr 16, 16), si sforza di portare

l’annuncio del Vangelo a tutti gli uomini”35; come ricordato in un

recente documento: “La salvezza si trova nella verità. Coloro che

obbediscono alla mozione dello Spirito di verità sono già sul cammino

della salvezza; ma la Chiesa, alla quale questa verità è stata affidata,

deve andare incontro al loro desiderio offrendola loro. […] La Chiesa,

infatti, guidata dalla carità e dal rispetto della libertà, dev’essere

impegnata primariamente ad annunciare a tutti gli uomini la verità,

definitivamente rivelata dal Signore, e a proclamare la necessità della

32 GS, n. 41. 33 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Redemptor hominis, n. 17, 4.III.1979, in AAS 71 (1979), pp. 257-324. 34 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione Dominus Iesus, n. 12, 6.VIII.2000, in AAS 92 (2000), pp. 742-765. 35 Decreto conciliare Ad gentes, n. 1, in AAS 58 (1966), pp. 947-990.

250

conversione a Gesù Cristo e dell’adesione alla Chiesa attraverso il

battesimo e gli altri sacramenti, per partecipare in modo pieno alla

comunione con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. D’altronde la certezza

della volontà salvifica universale di Dio non allenta, ma aumenta il

dovere e l’urgenza dell’annuncio della salvezza e della conversione al

Signore Gesù Cristo”36.

I riflessi canonici di tale impostazione dottrinale, sono evidenti

nell’attuale Libro III del CIC, in riferimento, al munus docendi, in

particolare il can. 747 § 2 ricorda che: “È compito della Chiesa

annunciare sempre e dovunque i principi morali anche circa l’ordine

sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà umana,

in quanto lo esigono i diritti fondamentali della persona umana o la

salvezza delle anime”. Per altro verso vi è un richiamo a coloro che

della Chiesa non sono membri, nel can. 748 § 1: “Tutti gli uomini sono

tenuti a ricercare la verità nelle cose, che riguardano Dio e la sua

Chiesa, e, conosciutala, sono vincolati in forza della legge divina e

hanno il diritto di abbracciarla e di osservarla”37.

La Chiesa ha dunque il dovere, anche giuridico, di annunziare la

Buona Novella a tutti gli uomini, indipendentemente dal fatto che essi

siano o meno battezzati. Tale dovere riguarda tutti i fedeli, ed è

configurabile nella duplice prospettiva di diritto e dovere, come risulta

dal can. 211.

Sulle modalità di svolgimento del munus docendi ci pare utile

ricordare quanto affermato da papa Paolo VI, in quella che può essere

definita come “teoria dei tre cerchi”. La Chiesa si trova, nella sua opera

di annuncio della salvezza al mondo, come al centro di tre cerchi

concentrici: il primo cerchio, che contiene gli altri due, rappresenta

36 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione Dominus Iesus, n. 22. 37 Questo canone ci ricorda il fondamentale principio che: “Il fatto di non essere battezzati non osta alla possibilità che la Chiesa cerchi di far pervenire a tutti il proprio messaggio di salvezza”, TEJERO E., Commento al can. 748, in ARRIETA J. I. (a cura di), Codice di diritto canonico, cit., p. 521.

251

tutta l’umanità, esso, è un cerchio immenso: “di cui non riusciamo a

vedere i confini; essi si confondono con l’orizzonte; cioè riguardano

l’umanità in quanto tale, il mondo. Noi misuriamo la distanza che da

noi lo tiene lontano; ma non lo sentiamo estraneo. Tutto ciò ch’è

umano ci riguarda. Noi abbiamo in comune con tutta l’umanità la

natura, cioè la vita, con tutti i suoi doni, con tutti i suoi problemi. […]

Dovunque è l’uomo in cerca di comprendere se stesso e il mondo, noi

possiamo comunicare con lui; dovunque i consessi dei popoli si

riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati,

quando ce lo consentono, di assiderci fra loro. Se esiste nell’uomo

un’anima naturalmente cristiana, noi vogliamo onorarla della nostra

stima e del nostro colloquio”38. Un secondo cerchio riguarda coloro

che credono nell’unico Dio (ebrei e musulmani) ed infine l’ultimo è il

cerchio dei cristiani che non sono in comunione con Roma. La Chiesa

ha il diritto ed il dovere di rivolgere la propria attenzione a tutti gli

uomini, anche se con modalità che tengano conto del diverso grado di

vicinanza di coloro cui si rivolge. Quello che giuridicamente pare

doveroso sottolineare è che, ad un maggior grado di vicinanza alla

Chiesa da parte delle persone, corrispondono necessariamente

maggiori diritti e doveri reciproci, per gli uomini e per la Chiesa39.

Quest’ultima affermazione non significa negare alla persona,

indipendentemente dal suo maggiore o minore livello di interazione

con la Chiesa, determinati diritti e doveri che le sono propri in quanto

uomo, creatura di Dio.

Le leggi ecclesiastiche positive, sono solamente una parte delle

norme che il Popolo di Dio è tenuto a rispettare, e tuttavia esse non

sono inutili, nemmeno allorquando sembrano esprimere concetti

38 PAOLO VI, Lettera enciclica Ecclesiam suam, n. 54, 6.VIII.1964, in AAS 56 (1964), pp. 609-659. 39 Un chiaro esempio di quanto qui affermato è visibile nel can. 206, riguardante il legame dei catecumeni con la Chiesa, ma si potrebbe far riferimento anche ai neofiti, i quali, pur essendo stati battezzati, tuttavia non godono dei medesimi diritti di tutti gli altri fedeli. Chiaramente, entrambi tali categorie di persone, godono dei diritti e doveri fondamentali dell’uomo, in quanto derivanti dal diritto divino naturale.

252

banali o scontati. Proprio l’attenzione che la Chiesa è tenuta a

dimostrare nei confronti dell’uomo, ribadita nel CIC attraverso le

norme riguardanti il munus docendi, ci ricorda che la norma positiva (la

legge-norma) ha una sua funzione, almeno per fissare dei principi che

poi, nella pratica, necessitano di essere attuati in maniera attenta alle

esigenze dei casi concreti. Al tempo stesso come ricordava, in modo

assai opportuno Paolo VI: “non tanto cambiando le sue leggi esteriori

la Chiesa ritroverà la sua rinascente giovinezza, quanto mettendo

interiormente il suo spirito in attitudine di obbedire a Cristo, e perciò

di osservare quelle leggi che la Chiesa nell’intento di seguire la via di

Cristo prescrive a se stessa: qui sta il segreto del suo rinnovamento,

qui la sua «metanoia»40, qui il suo esercizio di perfezione. Se la

osservanza della norma ecclesiastica potrà essere resa più facile per la

semplificazione di qualche precetto e per la fiducia accordata alla

libertà del cristiano d’oggi, reso più edotto dei suoi doveri e più

maturo e più saggio nella scelta dei modi con cui adempirli, la norma

tuttavia rimane nella sua essenziale esigenza: la vita cristiana, quale la

Chiesa viene interpretando e codificando in sapienti disposizioni,

esigerà sempre fedeltà, impegno, mortificazione e sacrificio; sarà

sempre segnata dalla via stretta, di cui nostro Signore ci parla;

domanderà a noi cristiani moderni non minori, anzi forse maggiori

energie morali che non ai cristiani di ieri, una prontezza

all’obbedienza, oggi non meno che in passato doverosa e forse più

40 Lo stesso PAOLO VI nella Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, n. 10, 8.XII.1975, in AAS 68 (1976), pp. 5-76, ci ricorda che cosa con tale termine deve intendersi: “Questo Regno e questa salvezza, parole chiave dell’evangelizzazione di Gesù Cristo, ogni uomo può riceverli come grazia e misericordia, e nondimeno ciascuno deve, al tempo stesso, conquistarli con la forza – appartengono ai violenti, dice il Signore – con la fatica e la sofferenza, con una vita secondo il Vangelo, con la rinunzia e la croce, con lo spirito delle beatitudini. Ma prima di tutta, ciascuno li conquista mediante un totale capovolgimento interiore che il Vangelo designa col nome di «metanoia», una conversione radicale, un cambiamento profondo della mente e del cuore”.

253

difficile, certo più meritoria perché guidata più da motivi

soprannaturali che naturali”41.

Ancor più recentemente Benedetto XVI ha avuto modo di

ritornare sul tema del positivismo giuridico, per ribadire la

pericolosità di tale impostazione filosofica per l’uomo e per le società

in cui esso vive; afferma il Pontefice: “a motivo dell’influsso di fattori

di ordine culturale e ideologico, la società civile e secolare oggi si trova

in una situazione di smarrimento e di confusione: si è perduta

l’evidenza originaria dei fondamenti dell’essere umano e del suo agire

etico e la dottrina della legge morale naturale si scontra con altre

concezioni che ne sono la diretta negazione. Tutto ciò ha enormi e

gravi conseguenze nell'ordine civile e sociale. Presso non pochi

pensatori sembra oggi dominare una concezione positivista del diritto.

Secondo costoro, l’umanità, o la società, o di fatto la maggioranza dei

cittadini, diventa la fonte ultima della legge civile. Il problema che si

pone non è quindi la ricerca del bene, ma quella del potere, o piuttosto

dell'equilibrio dei poteri. Alla radice di questa tendenza vi è il

relativismo etico, in cui alcuni vedono addirittura una delle condizioni

principali della democrazia, perché il relativismo garantirebbe la

tolleranza e il rispetto reciproco delle persone. Ma se fosse così, la

maggioranza di un momento diventerebbe l’ultima fonte del diritto.

La storia dimostra con grande chiarezza che le maggioranze possono

sbagliare. La vera razionalità non è garantita dal consenso di un gran

numero, ma solo dalla trasparenza della ragione umana alla Ragione

creatrice e dall’ascolto comune di questa Fonte della nostra razionalità.

Quando sono in gioco le esigenze fondamentali della dignità della

persona umana, della sua vita, dell’istituzione familiare, dell’equità

dell'ordinamento sociale, cioè i diritti fondamentali dell’uomo,

nessuna legge fatta dagli uomini può sovvertire la norma scritta dal

Creatore nel cuore dell’uomo, senza che la società stessa venga

41 PAOLO VI, Lettera enciclica Ecclesiam suam, n. 28.

254

drammaticamente colpita in ciò che costituisce la sua base

irrinunciabile. La legge naturale diventa così la vera garanzia offerta

ad ognuno per vivere libero e rispettato nella sua dignità, e difeso da

ogni manipolazione ideologica e da ogni arbitrio e sopruso del più

forte. Nessuno può sottrarsi a questo richiamo. Se per un tragico

oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo e il relativismo

etico giungessero a cancellare i principi fondamentali della legge

morale naturale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe ferito

radicalmente nelle sue fondamenta. Contro questo oscuramento, che è

crisi della civiltà umana, prima ancora che cristiana, occorre mobilitare

tutte le coscienze degli uomini di buona volontà, laici o anche

appartenenti a religioni diverse dal Cristianesimo, perché insieme e in

modo fattivo si impegnino a creare, nella cultura e nella società civile e

politica, le condizioni necessarie per una piena consapevolezza del

valore inalienabile della legge morale naturale. Dal rispetto di essa

infatti dipende l’avanzamento dei singoli e della società sulla strada

dell’autentico progresso in conformità con la retta ragione, che è

partecipazione alla Ragione eterna di Dio”42.

Nella sua ultima enciclica il Santo Padre ha avuto modo di

ritornare ancora una volta sul tema dei diritti umani, richiamando

l’attenzione, oltre che sulla fondamentale importanza della dignità

umana, conseguente al suo essere creatura divina, anche sulla tematica

dei doveri come limite dei diritti. In questo secondo senso afferma

Benedetto XVI: “…i diritti individuali, svincolati da un quadro di

doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e

alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di

criteri. L’esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri.

I doveri delimitano i diritti perché rimandano al quadro antropologico

ed etico entro la cui verità anche questi ultimi si inseriscono e così non

divengono arbitrio. Per questo motivo i doveri rafforzano i diritti e

42 BENEDETTO XVI, Discorso ai membri della Commissione Teologica Internazionale, 5.X.2007, in La Traccia 10 (2007), pp. 1173-1175.

255

propongono la loro difesa e promozione come un impegno da

assumere a servizio del bene. Se, invece, i diritti dell’uomo trovano il

proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un’assemblea di

cittadini, essi possono essere cambiati in ogni momento e, quindi, il

dovere di rispettarli e perseguirli si allenta nella coscienza comune. I

Governi e gli Organismi internazionali possono allora dimenticare

l’oggettività e l’«indisponibilità» dei diritti. Quando ciò avviene, il

vero sviluppo dei popoli è messo in pericolo”43.

Le parole dell’attuale Pontefice, risuonano come un forte monito,

che deve sollecitare i fedeli in prima persona, nella promozione di un

ordine giuridico, che non cada vittima del relativismo etico di cui parla

il Santo Padre. Il valore morale, oltre che giuridico, che la norma deve

avere come punto di riferimento, sarà un valido strumento per

arginare il preoccupante fenomeno ideologico purtroppo dilagante

nelle odierne società. Solo così potranno essere realmente garantiti

quei fondamentali diritti dell’uomo che rappresentano una delle

maggiori conquiste umane, che si sono affermate anche grazie

all’instancabile opera portata avanti dalla Chiesa e dai suoi pastori.

43 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 43, 29.VI.2009, in AAS (2009), pp. Le parole qui riportate, rappresentano un rapido compendio dell’atteggiamento della Chiesa, in relazione ai diritti umani: la necessaria ed inscindibile correlazione tra diritti e doveri; la necessità di un “ancoraggio” dei doveri in valori oggettivi e trascendenti. Tali tematiche, come anche da noi sostenuto, possono considerarsi patrimonio storico della Chiesa, tale affermazione è comprovata anche dal fatto che tutta l’enciclica riprende molteplici tematiche di dottrina sociale, già presenti nel magistero di Paolo VI, cui si fa esplicitamente riferimento in svariati punti.

256

5.3. Lo ius ontologico e i diritti della persona nella Chiesa. (Come la

persona umana può accostarsi al diritto della Chiesa).

Nel precedente capitolo abbiamo approfondito la tematica dei

diritti umani essenzialmente dal punto di vista del magistero

ecclesiastico, il quale si è spesso riferito a tali diritti così come vengono

concepiti in ambiti giuridici estranei a quello strettamente ecclesiale e

canonico.

La Chiesa ha in sostanza riconosciuto l’importanza fondamentale

dei diritti umani per la promozione dell’uomo e per una sua tutela più

completa, pur specificando che cosa la Chiesa intenda con il termine

“diritti umani”, anche al fine di differenziare la sua peculiare

posizione rispetto a quanto fatto in ambiti non ecclesiali. La questione

fondamentale che ci siamo posti, in relazione a tali affermazioni, e che

qui intendiamo approfondire, riguarda il recepimento di tale

fondamentale categoria all’interno dell’ordinamento canonico. In

realtà una prima risposta è già contenuta nella nostra trattazione ed è

conseguenza dello sviluppo magisteriale da noi approfondito: l’uomo

ed i suoi diritti sono riconosciuti dal diritto canonico, in quanto sono

diritti che Dio ha stabilito nell’ordine della natura e che riguardano

l’uomo in quanto creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio, che

in quest’ordine vive ed opera.

Tale risposta positiva, però, non è ancora esaustiva del tema

fondamentale dei diritti della persona umana nella Chiesa. È infatti

necessario comprendere in che modo l’uomo si relaziona con la Chiesa

e come i diritti umani vengono amplificati e meglio tutelati in questa

dimensione relazionale. In questa fondamentale dinamica di relazione,

che ruolo assume la persona umana? Solamente passivo, o diviene

parte attiva della relazione?

Diciamo anzitutto, che la dimensione relazionale è fondamentale

ed indispensabile per la effettiva vigenza dei diritti della persona

257

umana1, soprattutto se tali diritti vengono considerati dal punto di

vista della giustizia. A tal proposito Hervada affermava che si può

parlare di giustizia e dunque di giuridicità delle norme, solamente in

un’ottica relazionale: “La giuridicità non rivela una sostanza, ma una

relazione. Ogniqualvolta diciamo che qualcosa è giuridico stiamo

dando il nome ad una relazione. È per questo che tutto ciò che diciamo

diritto ha due nomi: il nome della sostanza e il nome della relazione”2.

Come abbiamo visto nella parte I, cap. 1, di diritto si può parlare

se lo si inserisce in una dimensione sociale, intendendosi per sociale la

società a cui quel determinato ordinamento giuridico fa riferimento.

Così anche i diritti della persona, i diritti dell’uomo, necessitano di una

dimensione relazionale in cui esplicarsi. Ricordava in proposito un

documento della Pontificia Commissione «Iustitia et Pax»:

“nell’ambito dei diritti dell’uomo, la difesa dei diritti e lo stimolo

all’osservanza dei doveri non si possono limitare alla cerchia del solo

individuo. È necessaria una apertura di concetti e di azione che si

allarghi oltre la visione dell’individuo ed abbracci i diritti e i doveri

della collettività, dei gruppi e delle minoranze. Parlare dei diritti e

doveri dell’uomo, infatti, vuol dire parlare dei diritti e doveri non solo

della persona umana come tale ma anche della comunità”3.

Specialmente nella Chiesa tali diritti trovano una dimensione

comunitaria ideale per la loro attuazione pratica4. Scriveva Romano

Guardini, a proposito del senso del termine “Popolo”, anticipando così

uno dei temi centrali del Concilio Vaticano II: “Ognuno mi è

congiunto, ma ognuno è anche un mondo a sé, di insostituibile valore.

1 A proposito della persona a cui Cristo si rivolge con il Suo messaggio aveva ad affermare GUARDINI R., Sacra scrittura e scienza della fede, Casale Monferrato 1996, pp. 72-73: “L’uomo a cui si rivolge Cristo, è il singolo nella sua insostituibile unicità; ma inquadrato nella totalità. Si rivolge alla totalità; ma in quanto consistente di singolarità personali”. 2 HERVADA J., Introduzione critica, cit., p. 34. 3 PONTIFICIA COMMISSIONE «IUSTITIA ET PAX», La Chiesa e i diritti dell’uomo, Documento di lavoro n. 1, n. 8, 10.XII.1974, in Enchiridion Vaticanum 5 (1979), p. 558. 4 In questa prospettiva si veda, tra gli altri: BERTOLINO R., Il nuovo diritto ecclesiale tra coscienza dell’uomo e istituzione, Torino 1989.

258

Di qui la conseguenza appassionante che noi ci apparteniamo, siamo

fratelli, sorelle! È naturale, il singolo sta nella comunità. Questa non si

forma quando l’uno si volge verso l’altro o rinuncia a una parte della

propria indipendenza, ma la comunità è altrettanto primordiale

dell’autoesistere individuale. Originario e fondamentale quanto il

compito di portare a perfezione la propria personalità, è quello di

costruire la comunità. […] L’umanità nella sua integrità originaria,

questo è il popolo. L’uomo singolo è «popolo» quando porta in sé

questo «tutto»”5.

La Chiesa, in questa opera di mediazione tra l’uomo singolo e gli

uomini tutti, non si pone come legislatore assoluto, e per ciò

condizionante i diritti delle persone che ad essa devono essere

assoggettate; il legislatore supremo è solo Dio, il quale ha creato

l’uomo, determinandone originariamente diritti e doveri. La Chiesa è

assoggettata a tale supremo Legislatore, tanto che le norme che essa

stabilisce, non potranno mai compromettere la volontà divina ad esse

sottesa. Addirittura, come visto, il diritto canonico prevede una

molteplicità di istituti volti a garantire un’effettiva applicazione della

norma in armonia con il diritto divino.

Sempre il Guardini così esprimeva il valore da attribuirsi agli

strumenti utilizzati dalla collettività per il corretto sviluppo della

società: “Quando il momento della validità obiettiva si fonde con

quello dell’inter-soggettività, sorge la collettività nella sua struttura.

Legge, diritto, ordine sociale appaiono come il modo d’essere, il fermo

fondamento e la forma operativa della collettività. Non sono

limitazioni, ma presupposti della vita; non la irrigidiscono, ma la

5 GUARDINI R., Il senso della Chiesa, in La realtà della Chiesa, Brescia 2004, pp. 28-29. L’opera originale, con il titolo di Vom Sinn der Kirche, fu pubblicata per la prima volta nel 1922, la traduzione italiana da noi utilizzata è quella della IV edizione, pubblicata nel 1955 a Mainz, col medesimo titolo.

259

ordinano e le conferiscono forza creativa. Si esige naturalmente che

legge, diritto, ordine sociale siano davvero vitali”6.

Questa continua mediazione tra umano e divino, nella quale il

divino ha naturalmente il ruolo preminente, fa sì che si possa parlare

di ius, intendendo con tale termine il vero diritto, che non è solamente

regola normativa, ma è espressione di giustizia; al tempo stesso con

tale termine abbiamo voluto intendere sia il diritto divino (naturale e

positivo) sia quelle leggi umane che al principio di giustizia si ispirano

e lo perseguono.

Ora, la giustizia è la dimensione che ogni uomo ricerca e tenta di

perseguire, e dunque, il diritto della Chiesa, essendo espressione di

tale intimo e profondo desiderio dell’uomo, può risultare valido ed

efficace anche per l’uomo che non dovesse far parte del popolo di Dio.

Con tale ultima affermazione non vogliamo in alcun modo

contraddire quanto sancito espressamente dal can. 11 del CIC,

ricordando al tempo stesso che il fatto che le leggi ecclesiastiche siano

obbligatorie per i soli battezzati dotati di sufficiente uso di ragione,

non significa che le leggi divine debbano parimenti essere vincolanti

solo per tale categoria di uomini. Intendiamo però senz’altro affermare

la validità per tutti gli uomini, dei principi di diritto divino, contenuti

o meno che siano nel CIC o positivizzati o meno che siano in una

qualche legge-norma. Ci spingiamo oltre, affermando pure che,

determinati criteri di valutazione dei casi concreti, possono essere

senza dubbio validi per tutti gli uomini che sono alla ricerca della

giustizia e della verità in essa contenuta7, e non si limitano alla mera

applicazione della legge al caso concreto.

6 GUARDINI R., Op. ult. cit., p. 30. 7 Sempre nella recente enciclica del Santo Padre, si legge: “La giustizia anzitutto. Ubi societas, ibi ius: ogni società elabora un proprio sistema di giustizia. La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del ‘mio’ all’altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all’altro ciò che è ‘suo’, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso «donare» all’altro del mio senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri

260

Diritti e doveri della persona, sono dovuti ad ogni uomo non a

cagione di una loro positivizzazione, per quanto autorevole e

vincolante questa possa essere, ma in virtù di una connaturalità di essi

a ciascun individuo; sono diritti e doveri che ciascuno ontologicamente

già possiede, si tratta solamente di rispettarli. Rispetto che va inteso in

un duplice senso: tutti devono rispettare i diritti che gli altri individui

possiedono e ciascuno deve impegnarsi a rispettare nel suo intimo, in

coscienza, determinati diritti e doveri verso se stesso.

Se una delle principali norme di giustizia viene ritenuta essere la

massima: “non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, pare

indispensabile che ognuno sia prima di tutto cosciente di cosa egli

ritiene essere per sé ingiusto. Ecco dunque la continua relazione che si

sviluppa tra il singolo e gli altri, tra la dimensione personale ed intima

e quella comunitaria e sociale. Un grande filosofo del diritto, a

proposito del valore della persona umana espressa nella sua

relazionalità con gli altri, aveva ad affermare: “La qualità di soggetto

di diritto non dipende per l’uomo da una concessione estrinseca ed

arbitraria di chicchessia, ma gli deriva immediatamente dal suo stesso

essere d’uomo; tanto che nemmeno l’individuo medesimo avrebbe il

potere di alienare cotesta qualità o di rinunciarvi. In questo senso, la

legge che attribuisce a ciascuno la qualità giuridica di persona, se

anche non sia sancita nell’ordine positivo, è una legge naturale. Essere

giuridicamente persona significa valer come tale di fronte ad altri; la

giuridicità consiste appunto in questa correlazione tra più soggetti”8.

Per il fedele, per colui che è già membro del popolo di Dio, o si

appresta a diventarlo, questa relazione, che necessita di una

dimensione giuridica di giustizia, in cui vivere e continuamente

è anzitutti giusto verso di loro. Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è «inseparabile dalla carità», intrinseca ad essa. La giustizia è la prima via della carità o, com’ebbe a dire Paolo VI, «la misura minima» di essa”, BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 6, 29.VI.2009, in AAS 101 (2009), pp. 3-62. Le citazioni fatte dal Pontefice sono entrambe derivate dal magistero di Paolo VI. 8 DEL VECCHIO G., Sui principi generali del diritto, Milano 1958, pp. 27-28.

261

svilupparsi, si fonda in Dio e trova nella Chiesa la dimensione socio-

comunitaria ideale in cui svolgersi.

I diritti della persona umana che la Chiesa solennemente

proclama, si differenziano dalle cosiddette dichiarazioni universali dei

diritti dell’uomo, non solamente a motivo dei principi che ispirano tali

dichiarazioni, i quali certamente non sono i medesimi che stanno alla

base dell’ordinamento ecclesiale e ispirano il magistero pontificio, ma

anche per la dinamica singolo-società che quelli proclamati dalla

Chiesa vanno delineando. Mentre infatti, i diritti umani proclamati

dagli organismi civili, tendono ad assegnare al singolo ed ai suoi diritti

un valore quasi assoluto, salvo poi condizionare tali diritti al rispetto

di un ordinamento positivo che comunque li disciplini, i diritti della

persona umana proclamati dalla Chiesa, riguardano l’uomo

ontologicamente inteso, senza considerarlo come una monade,

separata da ogni altro individuo, ma riconoscendo in ciascuno un altro

da sé, e che in quanto altro da sé va rispettato in virtù della sua dignità

intrinseca, che non è data o sancita, quasi per concessione, da una

norma particolarmente autorevole, ma fa parte della dignità stessa

dell’uomo fin dalla sua creazione. Per la Chiesa c’è anzitutto la

persona, e da questa discendono i suoi diritti e doveri, mentre per i

diritti “civili” dell’uomo, egli è il soggetto al quale i diritti sono

riconosciuti, in virtù di una determinata dichiarazione. Ora, tali diritti,

presentano senza dubbio una tutela per l’uomo, ma in ogni caso non

danno conto di tutto quanto la natura umana esprime; si è infatti

voluto stabilire prima diritti e doveri, molti dei quali senza dubbio

oggettivamente attribuibili all’uomo, e poi si è cominciato ad attribuirli

ad ogni individuo. La Chiesa al contrario, dapprima riconosce l’uomo,

la sua natura, la sua costituzione ad immagine di Dio, le sue ansie, le

sue paure, le sue aspirazioni più profonde, il suo desiderio di giustizia,

e solo in un momento successivo, ed in conseguenza di ciò, attribuisce

alla persona diritti e doveri, rispettando a tal punto l’uomo, da essere

262

disposta a sacrificare, in determinate circostanze, anche le sue leggi9,

per favorire la salvezza dell’anima anche di uno solo10. La Chiesa può

operare in questo modo dal momento che attribuisce un ruolo

ispiratore, all’interno del suo ordinamento, alla legge naturale, la

quale, essendo inscritta nell’uomo, è la fonte primaria dei diritti della

persona umana, come affermato da Benedetto XVI: “Tenendo conto,

tuttavia, del fatto che la libertà umana è sempre una libertà condivisa

con gli altri, è chiaro che l’armonia delle libertà può essere trovata solo

in ciò che è comune a tutti: la verità dell’essere umano, il messaggio

fondamentale dell’essere stesso, la lex naturalis appunto. E come non

menzionare, da una parte, l’esigenza di giustizia che si manifesta nel

dare unicuique suum e, dall’altra, l’attesa di solidarietà che alimenta in

ciascuno, specialmente se disagiato, la speranza di un aiuto da parte di

chi ha avuto una sorte migliore? Si esprimono, in questi valori, norme

inderogabili e cogenti che non dipendono dalla volontà del legislatore

e neppure dal consenso che gli Stati possono ad esse prestare. Sono

infatti norme che precedono qualsiasi legge umana: come tali, non

ammettono interventi in deroga da parte di nessuno. La legge naturale

è la sorgente da cui scaturiscono, insieme a diritti fondamentali, anche

imperativi etici che è doveroso onorare. Nell’attuale etica e filosofia del

Diritto, sono largamente diffusi i postulati del positivismo giuridico.

La conseguenza è che la legislazione diventa spesso solo un

9 Nel diritto della Chiesa: “È il valore irripetibile di quell’unicum che è la singola persona umana a prevalere, quella singola persona umana alla cui salvezza eterna è chiamata tutta la Santa Chiesa, tutta la Sacra Gerarchia, tutta la ammirevole maestà dell’ordine giuridico. Ai piedi di quell’unicum la Chiesa depone la sua logica giuridica e il suo rigore sistematico; per lui è disposta a sacrificare l’architettura del magnifico edificio giuridico costruito da una sapienza bimillenaria, in un empito di pastoralità che è tutta ed esclusivamente canonica e che fa della nostra aequitas una creatura insulare, soltanto in una fallace apparenza assimilabile ad altre manifestazioni equitative”, GROSSI P., Aequitas canonica, cit., pp. 387-388. 10 Al contrario, le legislazioni e le ideologie contemporanee, hanno dato una visione dell’uomo totalmente differente, che PIO XII, nel suo Radiomessaggio, 23.XII.1949, in AAS 42 (1950), pp. 121-133, così definiva: “il falso ritratto di un uomo autonomo nella coscienza, legislatore insindacabile di se stesso, irresponsabile verso i suoi simili e verso la compagine sociale, senz’altro destino fuori della terra, senz’altro scopo che il godimento dei beni finiti, senz’altra norma se non quella del fatto compiuto e dell’appagamento indisciplinato delle sue cupidigie”.

263

compromesso tra diversi interessi: si cerca di trasformare in diritti

interessi privati o desideri che stridono con i doveri derivanti dalla

responsabilità sociale. In questa situazione è opportuno ricordare che

ogni ordinamento giuridico, a livello sia interno che internazionale,

trae ultimamente la sua legittimità dal radicamento nella legge

naturale, nel messaggio etico iscritto nello stesso essere umano. La

legge naturale è, in definitiva, il solo valido baluardo contro l’arbitrio

del potere o gli inganni della manipolazione ideologica. La conoscenza

di questa legge iscritta nel cuore dell’uomo aumenta con il progredire

della coscienza morale. […] La legge iscritta nella nostra natura è la

vera garanzia offerta ad ognuno per poter vivere libero e rispettato

nella propria dignità”11.

La Chiesa, non ha potuto scegliere la via o le modalità della sua

azione, essa ha ricevuto dal suo divino Fondatore un mandato

universale: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28, 19);

ed ecco, che per rispettare una norma, che se contenuta in un

ordinamento di tipo positivo, si potrebbe definire costituzionale, la

Chiesa parla a tutti gli uomini, a tutti si rivolge, nessuno escluso, dal

momento che il fine della Chiesa non è tanto terreno, quanto

ultraterreno. In base al mandato ricevuto da Cristo, la Chiesa deve

svolgere un ruolo assolutamente particolare: “deve essere aperta il più

possibile e deve integrare in sé il mondo, in un modo o nell’altro. La

Chiesa infatti, oltre ad essere «separata» e «riservata in sorte al

Signore», è di sua natura in movimento verso il mondo e deve in ciò

realizzare questa natura”12. Il fatto che la Chiesa sia sacramento di

salvezza per tutti gli uomini è un’idea ben presente nella tradizione;

ricordava in proposito S. Ireneo: “Il Verbo (si è fatto) uomo,

ricapitolando in sé tutte le cose, affinché, come in quanto Verbo di Dio

11 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale sulla legge naturale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, 12.II.2007, in AAS 109 (2007), pp. 243-246. 12 WITTE J. L., La Chiesa, «sacramentum unitatis» del cosmo e del genere umano, in BARAÚNA G. (diretta da), La Chiesa del Vaticano II, cit., p. 504.

264

è principe spirituale di tutte le realtà sopracelesti, spirituali ed

invisibili, così abbia anche il principato in tutte le realtà visibili e

corporee, e assumendo in sé il primato e ponendo se stesso come capo

della Chiesa, attragga a sé tutte le cose al tempo debito”13.

Il magistero sui diritti dell’uomo svolge dunque una funzione

fondamentale nell’ottica del mandato divino: esso infatti è in grado di

raggiungere tutti gli uomini, di rendere manifesto a tutti il pensiero

della Chiesa sull’uomo. Raggiungendo tutti gli uomini con il suo

messaggio, la Chiesa è in grado di suscitare nel mondo un più

profondo senso della giustizia, da cui deriva una più profonda

comprensione dell’uomo e dei suoi valori più profondi.

La persona è comunque considerata dalla Chiesa sotto due punti

di vista tra loro inscindibili: “Il singolo, infatti, dotato nella Chiesa

della personalità umana (propria di tutte le creature umane e che,

come tale, gli deve essere riconosciuta all’interno della stessa società

ecclesiale) e della personalità soprannaturale (nel senso che la sua

unica e medesima persona è anche, in virtù dell’opera di redenzione di

Cristo, centro di attribuzione di effetti soprannaturali), è protagonista

della propria e dell’altrui salvezza; ma ciò nella Chiesa, che resta il

protagonista principale e che non è ‘altro’ da chi vi appartiene, e cioè

non è, né può essere portatore di interessi contrapposti e diversi”14.

L’uomo è formato di anima e corpo e queste due inscindibili

dimensioni vengono parimenti considerate dal diritto della Chiesa; la

Commissione Teologica Internazionale ha ricordato che: “Creati a

13 S. IRENEO, Adversus Haeres, III, 16, 6, in Patrologia Greca 7, 926. “Verbum homo, universa in semetipsum recapitulans, uti sicut in supercaelestibus et spiritualibus et in invisibilibus princeps est Verbum Dei, sic et in visibilibus et corporalibus principatum habeat, in semetipsum primatum adsumens, et adponens semetipsum caput Ecclesiae universa adtrahat ad semetipsum apto in tempore”. Ireneo fa qui riferimento alle parole del Vangelo di Giovanni (Gv 12, 32). L’idea che la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo, sia valida ed efficace per tutti gli uomini si ritrova pure in S. ATANASIO, Contra Arianos, III, 53. Addirittura, commentando il medesimo passo evangelico S. AGOSTINO in, In Iohannes tractatus, 52.11, dice: “Non disse: tutti, ma tutto. Perciò non si riferì alla totalità degli uomini, ma all’intera creazione”. 14 LO CASTRO G., I soggetti ‘artificiali’ di diritto nella dottrina canonica contemporanea, in Quaderni fiorentini 11/12 (1982/83), tomo II, p. 820.

265

immagine di Dio, gli esseri umani sono per natura corporei e spirituali,

uomini e donne fatti gli uni per gli altri, persone orientate verso la

comunione con Dio e reciproca, feriti dal peccato e bisognosi di

salvezza, e destinati a essere conformati a Cristo, immagine perfetta

del Padre, nella potenza dello Spirito Santo”15. Ed ancora, sempre nel

medesimo documento, la Commissione ha ricordato anche l’opera che

l’uomo è chiamato a svolgere nel mondo: “Gli esseri umani, creati a

immagine di Dio, sono persone chiamate a godere della comunione e a

svolgere un servizio in un universo fisico. Le attività derivanti dalla

comunione interpersonale e dal servizio responsabile interessano le

capacità spirituali – intellettuali e affettive – delle persone umane, ma

non escludono il corpo. Gli esseri umani sono esseri fisici che dividono

il mondo con altri esseri viventi. Implicita nella teologia cattolica

dell’imago Dei è la verità profonda che il mondo materiale crea le

condizioni per l’impegno delle persone umane l’una nei confronti

dell’altra”16. Il più recente magistero pontificio ha avuto ancora modo

di ricordare, a proposito del modo in cui la persona vive la sua

relazione più intima con il prossimo, che: “Ciò dipende innanzitutto

dalla costituzione dell’essere umano, che è composto di corpo e di

anima. L’uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si

ritrovano in intima unità; la sfida dell’eros può dirsi veramente

superata, quando questa unificazione è riuscita. Se l’uomo ambisce di

essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità

soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se,

d’altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il

corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza. […]

non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l’uomo, la

persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e

15 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Comunione e servizio. La persona umana creata a immagine di Dio, n. 25, 23.VII.2004 , in Enchiridion Vaticanum 22 (2006), pp. 1642-1725. 16 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Doc. cit., n. 26.

266

anima. Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l’uomo

diventa pienamente sé stesso”17.

Nel descrivere la Chiesa quale Corpo Mistico di Cristo Pio XII18,

ribadisce l’importanza dell’interesse che per la Chiesa ha il mondo

fisico, e di come non si possa assolutamente trascurare ciò che in esso

si svolge, nel definire la Chiesa come entità ad un tempo giuridica e

carismatica, papa Pacelli affermava: “appare il grave errore sia di

quelli che si immaginano arbitrariamente la Chiesa quasi nascosta e

del tutto invisibile, sia di quelli che la confondono con altre istituzioni

umane fornite di regola disciplinare e riti esterni, ma senza

comunicazione di vita soprannaturale. Invece, come Cristo, Capo ed

esemplare della Chiesa, «non è tutto il Cristo se in lui si considera o

soltanto la natura umana visibile…o soltanto la natura divina

invisibile…, ma è uno con le due nature e nelle due nature, così è il suo

Corpo mistico»19. Giacchè il Verbo di Dio assunse l’umana natura

soggetta ai dolori, affinché, fondata la società visibile e consacrata col

sangue divino, «l’uomo fosse richiamato alle cose invisibili attraverso

un governo visibile»20”21. A queste affermazioni fanno eco le parole del

17 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, n. 5, 25.XII.2005, in AAS 98 (2006), pp. 217-252. 18 A proposito della fondamentale dottrina del Corpo Mistico di Cristo, scriveva LO CASTRO G., Il soggetto, cit., p. 157: “La dottrina della Chiesa come corpo mistico di Cristo, e della conseguente sua specifica personalità, offre l’esempio, certamente il più alto, di un insieme nel quale il ‘privato’ (l’individuo singolo) si realizza non in contrapposizione allo stesso [allo stesso insieme di persone che costituisce la Chiesa tutta n.d.r.], ma in piena ed intrinseca comunione. Il singolo, infatti, dotato nella Chiesa della personalità umana (propria di tutte le creature umane e che, come tale, gli deve essere riconosciuta all’interno della stessa società ecclesiale) e della personalità soprannaturale (nel senso che la sua unica e medesima persona è anche, in virtù dell’opera di redenzione di Cristo, centro di attribuzione di effetti soprannaturali), è protagonista della propria e dell’altrui salvezza; ma ciò nella Chiesa, che resta il protagonista principale e che non è ‘altro’ da chi vi appartiene, e cioè non è, né può essere, portatore di interessi contrapposti o diversi: «La Chiesa [come ricordato da Pio XII nella sua Mystici Corporis n.d.r] invero è costituita per il bene dei fedeli… »”. 19 Cfr. Leone XIII, Lettera enciclica Satis cognitum, 29.VI.1896, in ASS 28 (1896), p. 710. 20 S. TOMMASO D’AQUINO, De veritate, q. 29, a. 4, ad 3. 21 PIO XII, Lettera enciclica Mystici Corporis, 29.VI.1943, n. 62. Sarebbe assai interessante operare un raffronto tra la presente enciclica di Pio XII e la Satis cognitum di Leone XIII, la stessa data di promulgazione non è certo casuale, dato anche il

267

teologo de Lubac quando dice: “Se la Chiesa è una realtà concreta,

deve essere necessariamente un organismo che si possa in qualche

modo «vedere e toccare», così come si poteva vedere e toccare l’Uomo-

Dio durante la sua vita terrena […] La Chiesa si presenta nella sua

struttura come un connubio non soltanto di visibile e di invisibile, ma,

nel visibile stesso, di divino e di umano”22.

In questa costante tensione tra divino ed umano23, si trova

l’equilibrio e la vera dimensione della Chiesa di Cristo, equilibrio che è

riscontrabile anche nel diritto della Chiesa, che proprio in questa sua

medesimo taglio dato nella impostazione della questione da entrambi i pontefici. È bene fra l’altro ricordare come la Mystici corporis sia stata una delle basi ecclesiologiche fondamentali per il Concilio Vaticano II; scriveva a tal propostio SEMMELROTH O., La Chiesa nuovo popolo di Dio, in BARAÚNA G. (diretta da), La Chiesa del Vaticano II, cit., p. 440: “La Costituzione De Ecclesia integra l’Enciclica Mystici Corporis di Pio XII (1943) e la prima stesura dello schema conciliare sulla Chiesa, partendo solo dalle espressioni bibliche sulla Chiesa, Corpo di Cristo. Essa accentua molto fortemente e valorizza un’altra espressione che è passata in primo piano nell’ecclesiologia degli ultimi anni: la Chiesa, nuovo popolo di Dio”. Sulle analogie esistenti tra il concetto di Corpo di Cristo e di popolo di Dio, l’A. prosegue ricordando: “La Chiesa è il corpo di Cristo, la sua sposa, cioè il popolo che vive nella più intima comunione col Redentore. Perciò è ontologicamente il popolo di Dio per grazia e non soltanto per una formalità giuridica o per discendenza fisica. È il tempio del Dio santo, la comunità che non soltanto ha nel suo centro un tempio, in cui Dio abita, ma è essa stessa il tabernacolo del Dio santo e santificatore”, p. 441. 22 DE LUBAC H., Meditazione sulla Chiesa, Milano 1993, p. 52. 23 Scriveva a tal proposito S. JOSEMARIA ESCRIVÀ, La Chiesa nostra madre, Milano 1993, nn. 4 e 6 :“Come in Cristo vi sono due nature — l’umana e la divina — così, analogicamente, possiamo parlare di un elemento umano e di uno divino nella Chiesa […] non si possono separare la Chiesa visibile e quella invisibile. La Chiesa è, allo stesso tempo, corpo mistico e corpo giuridico. «Per il fatto stesso di essere corpo, la Chiesa la si discerne con gli occhi»; così ha insegnato Leone XIII [lettera enciclica Satis cognitum, ASS 28, p. 710]. Nel corpo visibile della Chiesa — nel comportamento degli uomini che la compongono sulla terra — possono esserci miserie, incertezze, tradimenti. Ma non è lì che si esaurisce la Chiesa, né può essere identificata con tali condotte erronee: non mancano, invece, qui e adesso, gesti di generosità, decisioni eroiche, vite di santità che non fanno rumore, che vengono spese con gioia nel servizio dei fratelli nella fede e di tutte le anime. […] Pertanto, la Chiesa è inseparabilmente umana e divina. «È una società divina per la sua origine, soprannaturale per il suo fine e per i mezzi prossimamente ordinati a questo fine; ma, poiché si compone di uomini, è una comunità umana» [LEONE XIII, lettera enciclica Satis cognitum, ASS 28, p. 724]. Vive e agisce nel mondo, però il suo fine e la sua forza non sono in terra, ma nel Cielo. Sono completamente fuori strada coloro che vogliono distinguere una Chiesa «carismatica» — che sarebbe quella effettivamente fondata da Cristo — e un’altra giuridica o «istituzionale», che sarebbe opera degli uomini e semplice effetto di contingenze storiche. C’è una sola Chiesa. Cristo ha fondato una sola Chiesa: visibile e invisibile, con un corpo gerarchico e organizzato, con una struttura fondamentale di diritto divino, e con un’intima vita soprannaturale che la anima, la sostiene e la vivifica”.

268

capacità di esprimere, in termini giuridici, non solamente istanze di

tipo terreno, ma anche istanze di tipo ultraterreno, trova la sua

dimensione più caratteristica, che lo differenzia da ogni altro

ordinamento giuridico e soprattutto può contribuire a renderlo un

modello giuridico per l’uomo24.

L’uomo, infatti, dal momento che, come detto, è inscindibilmente

composto di anima e corpo, e vive quindi in una dimensione terrena,

ma continuamente tendente alla escatologica ed ultraterrena, sente il

bisogno di orientarsi al bene ed alla giustizia. Questo desiderio innato

di giustizia, che l’uomo avverte come una necessità primaria, nelle

grandi come nelle piccole cose, può venire soddisfatto solamente da

un ordinamento che, certamente deve organizzare e disciplinare la

dimensione terrestre del vivere umano, ma al tempo stesso deve

essere anche in grado di soddisfare questa più profonda esigenza di

giustizia. Le leggi-norma, come a suo tempo analizzato, potranno

senza dubbio soddisfare in parte tale esigenza, ma non saranno in

grado di farlo in modo perfetto, se non rifacendosi a criteri più alti di

giustizia.

Il diritto della Chiesa, si pone fini terreni, ma anche e soprattutto,

tendendo alla salvezza delle anime, fini ultraterreni, e dunque

possiede fra i suoi presupposti, il germe della giustizia ultima e

definitiva, alla quale costantemente orienta le sue norme ed i suoi

giudizi. Tanto più questo orientamento alla giustizia viene perseguito,

tanto più il diritto della Chiesa è in grado di divenire luce per i passi

24 Scriveva, a proposito dello strumento dell’aequitas canonica GROSSI P., Aequitas, cit., p. 385: “Articolato nella perenne dialettica fra una norma suprema, il diritto divino, stabilito dalla generosa sapienza d’Iddio per la salvezza di ogni homo viator, e una multiformità di norme situate a un livello inferiore, il diritto umano, l’ordine canonico è tutto percorso dalla tensione che avvicina questo a quello, ponendosi come traguardo massimo la corrispondenza perfetta, la più perfetta possibile, di questo a quello. Mentre per il diritto divino si può ipotizzare soltanto una interpretazione-comprensione del magistero che arrivi – grazie all’arricchirsi delle conoscenze – a una più profonda penetrazione della mens Legislatoris, il diritto umano è contrassegnato dalla elasticità che è da considerarsi unicamente come sforzo di rendere concreta una siffatta corrispondenza”.

269

dell’uomo in cerca di giustizia. Dal momento poi, che questo diritto,

tutela l’uomo con i suoi diritti ed i suoi doveri, in quanto essere creato

ad immagine di Dio, esso può venire realmente percepito da tutti gli

uomini quale vero diritto, come ius ontologico, secondo la definizione

da noi data in precedenza.

Una volta ascoltato l’annuncio di salvezza che la Chiesa, in virtù

del mandato ricevuto dal suo divino Fondatore, propone a tutti gli

uomini, coloro che abbracciano la vera fede, saranno anche in grado di

riconoscere nel diritto della Chiesa, uno strumento di salvezza e

quindi uno strumento per perseguire in modo più appropriato la

giustizia. Questo è un fatto che appartiene alla creaturalità che è

propria dell’uomo, Giovanni Paolo II ricordava che: “La libertà, di cui

l’uomo è dotato dal Creatore, è la capacità che gli è permanentemente

data di cercare il vero con l’intelligenza e di aderire col cuore al bene a

cui naturalmente egli aspira, senza essere sottomesso a pressioni,

costrizioni e violenze di sorta. Appartiene alla dignità della persona

poter corrispondere all’imperativo morale della propria coscienza

nella ricerca della verità”25. Per esprimere il rapporto che lega la

persona alla Chiesa, anche in un momento antecedente a quello della

ricezione del sacramento battesimale, ci si deve rifare proprio al

desiderio di giustizia dell’uomo, desiderio che trova nella dimensione

escatologica di questa giustizia, il presupposto per la realizzazione di

essa anche nella dimensione storica. “Il rapporto di ogni persona

umana con la Chiesa racchiude una dimensione di giustizia, fondata

sulla stessa vocazione universale alla salvezza in Cristo. Tale rapporto

è anteriore alla ricezione del sacramento del battesimo, mediante il

quale la persona s’incorpora alla chiesa ed acquista i diritti e doveri

propri dei battezzati. Anzi, è proprio il battesimo ciò che costituisce il

diritto più rilevante di ogni persona dinanzi alla Chiesa. Infatti, è

25 GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la XXI Giornata mondiale della pace, 8.XII.1987, in AAS 80 (1988), pp. 279-280, e in, Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. X-3, Città del Vaticano 1988, pp. 1331-1341.

270

giusto, ossia dovuto secondo stretta giustizia, che venga ammesso

nella Chiesa colui che sia adeguatamente disposto a ricevere il

sacramento del battesimo. In tal senso, il battesimo è un suo diritto,

qualcosa che essendo suo gli è dovuto dalla Chiesa”26.

Possiamo affermare che, prima di ricevere il sacramento del

battesimo ed aver successivamente completato l’iniziazione cristiana

mediante la ricezione del sacramento della confermazione, la persona,

l’uomo, si trova con la Chiesa in un rapporto simile a quello che legava

gli apostoli a Cristo, nel corso della Sua esistenza terrena27. Essi

seguivano il Maestro, ma non comprendevano a pieno il senso delle

Sue parole, le quali spesse volte rimanevano per loro incomprensibili28,

essi erano spesso disorientati, pur avendo vissuto con il Cristo in carne

ed ossa per tre anni. È solo con la effusione dello Spirito che essi

comprendono in modo completo il senso di quanto Gesù gli aveva

annunziato finchè era in vita, e possono a loro volta trasmettere in

maniera completa e corretta la buona novella. È Cristo stesso che lo

aveva promesso ai dodici: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il

momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo

Spirito della verità, vi guiderà a tutta verità, perché non parlerà da sé

stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future.

Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo

annuncerà” (Gv 16, 12-14). Ed è quanto si verifica nel giorno di

Pentecoste, allorquando lo Spirito Santo discende sui dodici: “Venne

all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte

impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue

come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e

26 ERRÁZURIZ C. J., Il diritto e la giustizia, cit., p. 142. 27 Tale spiegazione, anche se da un punto di vista eminentemente ecclesiologico si può ritrovare anche in GUARDINI R., La Chiesa del Signore, in La realtà, cit., pp. 156-159; L’opera originale, con il titolo di Die Kirche des Herrn, fu pubblicata per la prima volta nel 1965, la traduzione italiana da noi utilizzata è quella della I edizione, pubblicata nel 1965 a Würzburg col medesimo titolo. 28 Si veda ad esempio, fra i molti, il Cap. 14 del Vangelo di Giovanni, gli Apostoli non avevano compreso pienamente chi fosse Gesù, anche se intuivano qualcosa della verità che in Lui si manifestava.

271

tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre

lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi” (At

2, 2-4). Parimenti si può dire che ciò accade per coloro che non fanno

parte della Chiesa, dapprima non saranno in grado di comprendere in

maniera perfetta ciò che la Chiesa rappresenta, e di conseguenza il

senso delle sue norme e di quanto va predicando al riguardo, tuttavia,

già possono comprendere in modo imperfetto una parte di ciò che la

Chiesa è e va predicando, grazie alla connaturalità che orienta l’uomo

al bene, al giusto, alla verità.

A tal proposito e da un altro punto di vista, assieme alla giustizia,

è fondamentale che l’uomo ricerchi con costanza la verità ultima, è

attraverso il desiderio di conoscere tale verità che la persona potrà

riconoscere ciò che dell’annuncio di salvezza è tutelato e riconosciuto

nelle norme canoniche e di conseguenza attribuire a queste norme il

loro significato più profondo.

In maniera come sempre assai precisa, S. Tommaso ricorda che la

legge naturale (la quale come abbiamo detto ripetutamente è

contenuta nelle norme canoniche o ne rappresenta il presupposto

necessario) è riconoscibile da tutti coloro che ricercano la verità ultima:

“Ecco perché in campo speculativo si ha un’identica verità per tutti, sia

nei principi che nelle conclusioni: sebbene la verità non sia da tutti

conosciuta nelle conclusioni, ma solo nei principi, che si dicono

assiomi universali. Invece in campo pratico non è identica la verità o

norma pratica, rispetto ai casi particolari, ma soltanto rispetto ai

principi comuni: e anche presso quelli che accettano nei casi particolari

un'identica norma pratica, questa non è ugualmente conosciuta da

tutti. Perciò è evidente che rispetto ai principi universali della ragione,

sia speculativa che pratica, vi è per tutti un’identica verità, o norma, ed

è ugualmente conosciuta. Invece rispetto alle conclusioni particolari

della ragione speculativa vi è un'identica verità per tutti, ma non tutti

la conoscono. […] Quindi si deve concludere che la legge naturale

272

quanto ai primi principi universali è identica presso tutti gli uomini,

sia per la sua rettitudine oggettiva, sia per la sua conoscenza. Ma

rispetto a certe sue applicazioni, che sono quasi conclusioni dei

principi universali, è identica presso tutti e per la bontà delle sue

norme e per la sua conoscenza, nella maggior parte dei casi: ma in

pochi casi possono esserci delle eccezioni, sia quanto alla bontà delle

sue norme, che quanto alla conoscenza. Infatti possono intervenire

ostacoli particolari”29. Ecco dunque l’importanza che il diritto canonico

rappresenti sempre, per quanto possibile, una corrispondenza con il

diritto divino naturale, o vi si conformi nel caso concreto: ciò al fine di

meglio adempiere, anche attraverso il diritto, al mandato divino di

portare alla salvezza ogni uomo. In questo modo tale diritto verrà

percepito come strumento ed espressione di giustizia e mezzo per la

ricerca della verità ultima, che tutti gli uomini comunque ricercano.

Ritornando alla discussione che ha impegnato la canonistica

contemporanea, riguardo alla possibilità di riconoscere il valore della

persona umana all’interno dell’ordinamento canonico, anche nel caso

in cui si parli di una persona che non ha ricevuto il sacramento del

battesimo, si dovrà dunque rispondere in maniera senza dubbio

affermativa, sia dal punto di vista dell’ordinamento nei confronti della

persona, sia dal punto di vista della persona di fronte all’ordinamento

canonico.

Quanto alla prima affermazione, ci pare che da Hervada sia stata

data una delle risposte più efficaci alla questione; egli, parlando a

proposito della persona in senso giuridico, affermava: “Siccome la

personalità giuridica è, alla radice, un dato naturale, la conseguenza è

ovvia: qualunque uomo è persona; dovunque ci sia un essere umano

c’è una persona in senso giuridico. E si noti bene che tale personalità

giuridica naturale non è solamente capacità di essere titolare di diritti e

di obblighi, ma porta con sé – così come abbiamo più volte detto – 29 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 94, a. 4.

273

anche la titolarità di diritti e di doveri naturali. Se ne deduce, pertanto,

che negare la personalità giuridica ad un essere umano, qualunque ne

sia la condizione o stato, è un’ingiustizia. […] La condizione

ontologica di persona include la soggettività giuridica, di modo che il

concetto di persona non può essere altro che il concetto stesso di

persona in senso ontologico, ma ricondotto ai termini della scienza

giuridica. In altre parole, il concetto giuridico di persona non è altro

che quel concetto che manifesta l’aspetto giuridico della persona o essere

umano”30.

Quanto al punto di vista della persona umana di fronte

all’ordinamento canonico, ci pare di poter concludere ribadendo che,

la validità di esso per la persona, sarà tanto maggiore quanto più tale

ordinamento sarà in grado di proporre quel modello di giustizia che è

proprio del diritto divino, ponendosi quindi come strumento per la

realizzazione di questa giustizia. La persona dal canto suo, con il retto

uso della propria ragione può comprendere il senso che tali norme

possono avere per un corretto sviluppo della propria personalità. La

persona, inoltre, essendo per sua natura orientata al bene ed al giusto

ed essendo alla continua ricerca della verità ultima, può trovare nel

diritto della Chiesa, uno strumento per soddisfare questo suo intimo

desiderio e per arrivare a intravedere la retta via da seguire per

compiere in modo migliore il suo cammino verso questa verità.

30 HERVADA J., Introduzione critica, cit., pp. 118-120. Sul punto si veda pure: LOMBARDÍA P., Lezioni di diritto canonico, cit., pp. 176-181. “Il non battezzato, sebbene sia privo della condizione costituzionale di fedele, cioè di membro della comunità ecclesiale, è soggetto dell’ordinamento canonico. […] non sembra possa dubitarsi che ogni persona umana è soggetto dell’ordinamento canonico, sebbene solo al battezzato spetti la condizione di fedele”.

274

275

CONCLUSIONI

La presente tesi, come appare dal suo sviluppo complessivo,

affronta le tematiche relative agli aspetti soggettivi riguardanti lo

statuto del fedele nell’ordinamento canonico, tentando di stabilire se, a

partire da tali aspetti, sia possibile attribuire una qualche forma di

diritti anche a persone non battezzate.

Una possibile chiave interpretativa della questione viene offerta

da un dato antropologico: l’uomo è spinto alla ricerca della verità. S.

Tommaso ci ricorda che: “la vita può dirsi vera, come qualsiasi altra

cosa, per il fatto che si adegua alla sua norma, o misura, cioè alla legge

divina, conformandosi alla quale ottiene la sua rettitudine. E tale

verità, o rettitudine è un elemento comune a qualsiasi virtù”1. In tale

affermazione possiamo comprendere tutto il peso e l’importanza della

giustizia, promanante dallo ius divinum, per l’uomo che è alla ricerca

della verità: esso trova nella giustizia un efficace strumento per questa

sua ricerca. Sempre S. Tommaso, nel ricordare che la virtù della

giustizia è un atto di volontà, ricorda il legame fondamentale di tale

virtù con la verità: “Essendo la volontà un appetito razionale, la verità,

che è la rettitudine della ragione, quando è partecipata dalla volontà

conserva il nome di verità, per la vicinanza del volere alla ragione.

Ecco perché talora la giustizia viene chiamata verità”2.

Ecco che il salmista può cantare: “Bene per me è la legge della

tua bocca,/ più di mille pezzi d’oro e d’argento./ Perciò amo i tuoi

comandi,/ più dell’oro, dell’oro più fino./ Per questo io considero retti

tutti i tuoi precetti/ e odio ogni falso sentiero” (Sal 119, 72.127-128).

Naturalmente la legge divina, e la giustizia salvifica che è in essa

contenuta, necessitano della collaborazione attiva dell’uomo, senza la

quale non vi può essere salvezza; è infatti l’uomo, che agisce in modo

1 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 109, a. 2., ad 3. 2 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 58, a. 4, ad 1.

276

retto mediante una libera scelta della propria volontà, colui che fa sì

che si possa concretamente attuare la giustizia3.

Nel ripercorrere l’evoluzione della ecclesiologia più recente, da

noi in sintesi riproposta nelle sue questioni fondamentali4, Ries aveva

ad affermare, partendo dalla definizione di Chiesa come popolo di

Dio: “questa definizione dà un significato antropologico al jus divinum:

il diritto ecclesiale è il diritto di un popolo che ha Dio come Padre. Il

secondo momento chiave consiste nella definizione della Chiesa come

corpo mistico di Cristo, ciò che qualifica la dimensione sociale e

visibile della Chiesa a partire dalla struttura del sacramento. Vi è,

infine, un terzo momento, poiché la Chiesa è una comunità fondata

sulla Parola e sul Sacramento e che ha come missione di rivolgersi alla

persona umana nella sua realtà totale, all’anthropos nel senso pieno del

termine. Occorre sottolineare soprattutto il fatto che la Chiesa si

rivolge all’uomo a livello del suo fine ultimo e della sua salvezza,

coinvolgendo integralmente la sua esistenza. Ecco la differenza

essenziale tra diritto canonico, realtà giuridica e teologica, e il diritto

secolare, realtà giuridica e sociale che si rivolge all’uomo

semplicemente a livello etico”5; ma si può parlare di norme positive

etiche?

Noi moderni siamo stati portati ad enfatizzare eccessivamente il

ruolo delle norme positive, e conseguentemente a dimenticare

l’insostituibile ruolo della persona nella attuazione della giustizia,

quasi che la persona giusta fosse solamente quella che opera in

conformità alle leggi dell’umano legislatore, al contrario, gli antichi

avevano una differente visione etica dell’uomo: “L’etica antica non è

centrata sull’opposizione tra egoismo e altruismo, tipica dei moderni; è

3 Si parafrasa qui sempre L’Angelico Dottore: allorquando dice: “La giustizia non soltanto fa sì che un uomo sia di pronta volontà nel compiere cose giuste, ma fa sì che agisca secondo giustizia”, Summa Theologiae, I-II, q. 56, a. 3. 4 Vedi specialmente il cap. 1. 5 RIES J., L’homo religiosus e l’uomo nuovo nel diritto della Chiesa. Diritto canonico e antropologia cristiana, in GEROSA L. (a cura di), Antropologia, fede e diritto ecclesiale, cit., pp. 36-37.

277

invece impostata secondo il punto di vista del soggetto agente, che si

domanda come sia meglio vivere, quale genere di vita è più degno e

più nobile per un essere di natura umana. Questa domanda non

pregiudica né l’egoismo né l’altruismo, ma affronta la questione del

come vivere da un punto di vista più ampio che non quello moderno

della moralità”6. Ci si è troppo presto dimenticati, o ci si è voluti

dimenticare, che la giustizia è prima di tutto una virtù, che in quanto

tale va coltivata dall’uomo e sorretta da adeguati strumenti normativi

che devono orientare l’uomo a perseguirla. Il filosofo tedesco Pieper,

nel suo saggio sulla giustizia, nel quale sostanzialmente riprende e

commenta le proposizioni dell’Aquinate sul tema, ci ricorda che

l’uomo, nella pratica della giustizia, è chiamato ad un arduo e difficile

compito: “per essere retto, l’uomo deve non solo fare «il giusto», ma

essere egli stesso giusto. […] è facile fare quel che fa la persona giusta;

ma per chi non è in possesso della giustizia il difficile è fare il giusto

così come la persona giusta lo fa; […] Ovunque venga attuata in senso

pieno la giustizia, ivi l’azione esterna è espressione di una conferma

interiore: l’altro viene riconosciuto e convalidato in ciò che gli spetta.

Ma indubbiamente, per quanto lo si consideri agli effetti della

giustizia, l’atteggiamento interiore e soggettivo dell’obbligato non

serve per determinare tale spettanza. A realizzare la giustizia

l’intenzione non basta; ciò che spetta, il dovuto, può e deve essere

determinato «oggettivamente»”7.

Ecco l’importanza del soggetto e di un apparato normativo che

sia in grado di orientare alla giustizia il comportamento di tale

soggetto; apparato normativo che non può limitarsi a quello positivo e

meramente umano, dal momento che un sistema di norme siffatto non

sarebbe in grado di orientare il comportamento umano alla giustizia,

data la impossibilità di un’esatta determinazione di ogni possibile 6 ABBÀ G., L’originalità dell’etica delle virtù, in COMPAGNONI F. – LORENZETTI L. (a cura di), Virtù dell’uomo e responsabilità storica, Cinisello Balsamo 1998, p. 137. 7 PIEPER J., La giustizia, cit., pp. 58-59. L’opera venne pubblicata per la prima volta a Monaco di Baviera nel 1965.

278

situazione concreta in grado di esprimere al massimo grado tale

fondamentale virtù8.

Il Catechismo ci ricorda in maniera assai chiara l’importanza ed il

ruolo della legge umana, e quale deve essere la sua relazione con la

legge divina naturale: “Opera molto buona del Creatore, la legge

naturale fornisce i solidi fondamenti sui quali l’uomo può costruire

l’edificio delle regole morali che guideranno le sue scelte. Essa pone

anche il fondamento morale indispensabile per edificare la comunità

degli uomini. Procura infine il fondamento necessario alla legge civile,

la quale ad essa si riallaccia sia con la riflessione che trae le

conseguenze dai principi della legge naturale, sia con aggiunte di

natura positiva e giuridica”9.

In questa efficace sintesi dottrinale, ritroviamo gli elementi

fondamentali, se così possiamo definirli, dell’intera nostra trattazione:

la legge divina, fondamento allo stesso tempo morale e giuridico della

vita umana; la legge umana, indispensabile strumento ordinatore della

società terrestre che deve conformarsi ai dettami della legge divina; ed

infine l’uomo (il momento antropologico della norma, se così

possiamo dire), che è chiamato ad essere costruttore della società in cui

vive, senza perdere di vista le norme divine che devono essere i suoi

“strumenti di lavoro”.

Come affermato dal Cessario: “Poiché la giustizia universale

manca delle specifiche determinazioni che particolari realtà e azioni

provvedono per le varie forme di giustizia particolare, la legge

positiva o convenzione determina di norma l’ad aequalitatem che la

giustizia esige. Per questo motivo, la tradizione talvolta si riferisce a

questa forma universale di giustizia come giustizia legale. […] La

giustizia legale, come una vera perfezione della persona, forma un

8 Il CCC, al n. 1805, ricorda, riprendendo un passo biblico, che: “«Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza» (Sap 8, 7)”. 9 CCC, n. 1959.

279

individuo al rispetto virtuoso per la legge, rimuovendo in tal modo il

timore servile dell’autorità, nello stesso tempo protegge dall’avere un

atteggiamento elusivo verso gli statuti propri e le leggi buone,

trascurare le quali può soltanto provocare un danno al bene

comune”10.

Le leggi umane, dunque, se conformi alla legge divina, possono

certamente essere un efficace strumento per indicare all’uomo la retta

via da seguire, tuttavia è richiesto all’uomo un costante impegno

morale, nella applicazione di dette norme e nel discernimento circa la

effettiva corrispondenza di queste ai dettami delle norme divine;

qualora poi fosse necessario, l’uomo sarà spinto ad un comportamento

eventualmente contrario a quelle norme umane che non fossero

rispettose dei più alti dettami divini. Naturalmente, per comprendere

pienamente l’effettiva efficacia delle norme umane, non si può

prescindere, come si è fatto, dal riconoscimento del valore morale che

la norma giusta necessariamente deve possedere. Al tempo stesso,

valutare le norme giuridiche umane, solamente con riferimento a

parametri che potremmo definire di tipo costituzionale, e dunque

prettamente positivistici, escludendo completamente da tali

valutazioni l’elemento antropologico/umano, con tutto ciò che esso

importa, è un errore che può portare all’emanazione di leggi ingiuste

ed immorali.

Sempre il Cessario ci ricorda in proposito, commentando un

passo di S. Tommaso ove si afferma che il fine ultimo della vita umana

deve essere la salvezza eterna11, che: “la giustizia legale dispone tutte

le altre attività virtuose verso un fine o scopo che non si trova in

nessuna di esse in particolare. A causa di questo superiore obiettivo, la

giustizia universale o legale, consegue la giustificazione della città

10 CESSARIO R., Le virtù, Milano 1994, pp. 151-152. 11 S. TOMMASO D’AQUINO, De regimine principum, lib. 1, cap. 15: “la vita che gli uomini cercano di vivere bene qui sulla terra, è ordinata, come al suo fine, alla vita santa che speriamo di vivere in cielo”.

280

umana in un modo superiore, perché rispetta le esigenze della legge

naturale”12. Se la giustizia umana perdesse di vista, come spesso

purtroppo accade, l’uomo ed il suo fine soprannaturale, essa

diverrebbe solamente un vuoto precetto inutile, quando non

addirittura dannoso per l’uomo stesso. Non è sempre stato così se,

come ricordato: “Nell’etica antica le virtù sono principi normativi, a

modo di fini perseguiti da inclinazioni affettive abituali e che ricevono

dal giudizio saggio la loro precisazione concreta; le leggi e le regole

avviano alla pratica delle virtù”13.

Con una efficace sintesi Abbà chiarifica la relazione esistente tra

la legge divina, la legge umana e le virtù, ove al termine virtù si può

abbinare senza troppe difficoltà quello di uomo, intendendosi che non

vi può essere atteggiamento virtuoso senza un uomo che lo attui, né

può darsi legge che possa prescindere dall’uomo cui essa

necessariamente si rivolge. Scrive il nostro Autore: “La legge naturale

semplicemente avvia alla vita virtuosa, fornendo germi di virtù con i

primi precetti della ragione pratica e le corrispondenti inclinazioni

generiche degli appetiti ai beni umani e ai fini virtuosi più generali.

Ma è troppo indeterminata rispetto alle azioni particolari richieste

dalla vita virtuosa. La necessaria determinazione è fornita in certa

misura dalla legge umana, la quale però mira solo alla vita virtuosa in

quanto è vita comune. Perciò i suoi precetti sono solo in communi e non

possono scendere alle azioni particolari; riguardano solo gli atti

strettamente dovuti della giustizia e della pace sociale, e non gli atti di

tutte le virtù; governano solo le azioni esteriori e non gli atti interiori,

che sono i principali nella vita virtuosa; non riescono a reprimere tutte

le azioni cattive e devono esser praticabili dalla moltitudine dei non

virtuosi; inducono alla loro osservanza con il timore d’una pena,

perché hanno a che fare con soggetti viziati dal peccato, e non per

amore del bene; infine possono essere anche precetti contrari alle virtù,

12 CESSARIO R., Op. cit., p. 152. 13 ABBÀ G., L’originalità, cit., p. 142.

281

perché alcuni principi della legge naturale sono corrotti a causa

dell’ignoranza e delle consuetudini cattive causate dal peccato.

Tuttavia la legge umana giusta genera in chi la pratica

quell’assuefazione da cui prende avvio la formazione delle virtù”14.

La nostra trattazione, vuole chiarire e dimostrare, un fatto

fondamentale: se si vuole ragionare da canonisti è necessario

affrontare l’argomento relativo ai diritti e doveri dei soggetti cui

l’ordinamento si riferisce in termini assai diversi da quanto farebbe il

positivista.

Come visto, per il giurista positivo, i diritti ed i doveri delle

persone soggette all’ordinamento, hanno valore principalmente per ciò

che attiene alla loro valenza oggettiva. Importa piuttosto il bene

tutelato dalla norma giuridica, essendo demandato all’interprete, e

dunque principalmente al giudice, di stabilire l’applicabilità della

norma al caso concreto.

Il canonista deve mutare completamente prospettiva di analisi.

Anche per lui la norma positiva ha un indubbio valore oggettivo,

stabilendo diritti e doveri, tuttavia gli aspetti oggettivi tutelati dalla

norma dovranno essere continuamente posti in relazione con gli

aspetti soggettivi che da essa derivano. Come abbiamo visto nel

capitolo terzo, dalle definizioni di legge norma (norma positiva) e di

ius in senso ontologico (diritto divino), si deve arrivare sempre a

considerare i fini delle norme date e la loro efficacia. Ma sia i fini che

l’efficacia delle norme, devono avere come punto di riferimento il

soggetto di esse: il fedele. Ecco il ribaltamento di prospettiva del diritto

canonico, rispetto al diritto positivo: data una norma, sarà la

predisposizione del singolo a dare concretezza a quel dato diritto o

dovere contenuto nella proposizione normativa.

14 Ibidem, p. 149.

282

Tenendo presente questa fondamentale caratteristica del diritto

canonico, siamo passati all’analisi degli aspetti soggettivi di tale

diritto. Nel capitolo quarto, infatti, dalla norma, siamo passati al

fedele. Egli è chiamato alla osservanza delle norme sia umane che

divine, le quali spesso, non sono contenute in dettami positivi, ma

sono lasciate alla valutazione del soggetto nel caso concreto. In tal

senso abbiamo visto, si può parlare di un sensus fidei, come chiave

interpretativa anche degli aspetti giuridici nella Chiesa, oltre che delle

verità di fede.

Diritti e doveri dei fedeli divengono i mezzi dati ai fedeli per

ricercare la giustizia ed ottenere la salvezza, per attuare dunque il fine

ultimo del diritto della Chiesa.

Dato che gli aspetti soggettivi hanno per il diritto canonico un

valore fondamentale, è stato necessario ristabilire il giusto valore di

alcune tematiche spesso trascurate dai giuristi positivi, ma

fondamentali per i canonisti: la dimensione interiore in cui avviene la

scelta giuridica da parte del soggetto, ed il necessario valore morale

della scelta giuridica.

In questo senso si è potuto constatare che le norme canoniche, in

quanto dettate da un legislatore umano, devono tener conto dell’alto

fine cui devono orientare il fedele, che è quello, più volte ricordato,

della salus animarum, oltre che organizzare la società ecclesiale affinché

sia un ordine giusto. Nel perseguimento di queste finalità

l’ordinamento canonico senza dubbio aiuta il fedele e riteniamo, in

qualche modo, anche la persona che a tale ordinamento dovesse

guardare, a condurre una vita virtuosa; tuttavia è sempre necessario

che la persona, ed il fedele in particolar modo, si impegni in prima

persona nel rispetto delle norme e nella conduzione di una vita giusta.

Il fedele, e le scelte che egli personalmente compie, sono molto

più importanti della norma giuridica positiva che sta alla base di tali

scelte. Essendo la finalità ultima del diritto canonico la salvezza, come

283

qui ancora ribadito, è del tutto evidente che tale finalità non si

realizzerà se non mediante scelte personali dettate dalla particolare ed

unica situazione del fedele o più in generale della persona, la quale

non necessariamente sarà inquadrabile in una norma giuridica

predeterminata. Ecco che l’ordinamento canonico prevede una serie di

strumenti da noi già richiamati in precedenza, volti ad adattare la

norma canonica positiva alle esigenze di salvezza dei singoli: il

principio dell’aequitas canonica, la dispensa, la grazia, un sistema

penale con finalità medicinali e non punitivo-repressive, ecc.

In un sistema così articolato il fedele svolge un compito

fondamentale: egli è chiamato a dare attuazione alle norme di giustizia

divina, che non sempre risultano essere codificate, o non sempre

trovano nella norma positiva un precetto giusto, applicabile al caso

concreto. L’elasticità dell’ordinamento canonico e dunque la sua

adattabilità alle situazioni particolari dei singoli, rendono il diritto

della Chiesa un vero strumento di giustizia ed un fondamentale mezzo

di salvezza, e non un semplice ordinamento giuridico. Non potrebbe

essere altrimenti data la missione salvifica data alla Chiesa dal suo

divino Fondatore, e di cui il diritto canonico rappresenta un tassello

insostituibile e necessario.

In una celebre questione della pars II-II della Summa, S. Tommaso

così sintetizza il tema: “non è possibile fissare una norma che in

qualche caso non sia inadeguata; perché gli atti umani, che sono

oggetto della legge, consistono in fatti contingenti e singolari, che

possono variare in infiniti modi: perciò il legislatore nel fare la legge

considera quello che capita nella maggior parte dei casi. Ma osservare

codeste leggi in certi casi sarebbe contro la giustizia e contro il bene

comune, che è lo scopo della legge. […] Perciò in simili casi sarebbe

peccato seguire materialmente la legge; è bene invece seguire quello

che esige il senso della giustizia e il bene comune, trascurando la

lettera della legge. E tale è il compito dell’epikeia, che noi latini

284

chiamiamo aequitas. Dunque l’epikeia è una virtù”15. La norma deve

dunque, secondo Tommaso, e come da noi ricordato più volte, tutelare

la giustizia ed il bene comune, inoltre egli ci ricorda come, l’equità, in

quanto strumento di giustizia, è in un certo senso una virtù della

giustizia, motivo che rende anche maggiormente evidente

l’indispensabile apporto della riflessione morale per il retto esercizio

della legge umana.

Come poi abbiamo visto nella ultima parte del nostro lavoro, dati

i presupposti anche più sopra ricordati, il diritto canonico può

esplicare i suoi effetti anche nei confronti dei non chirstifideles. Ciò non

nel senso di poter imporre il rispetto di doveri ed obblighi a coloro che

non siano battezzati, dal momento che sarebbe tale prospettiva

contraria agli stessi principi generali dell’ordinamento canonico16. È

invece assolutamente possibile che un acattolico, o addirittura una

persona non battezzata, possa riconoscersi in determinati diritti e

doveri che, sviluppati dal soggetto stesso in modo conforme a

giustizia, divengono per lui strumenti di salvezza17.

Ma a che titolo un acattolico, o addirittura un non battezzato, può

riconoscersi nell’ordinamento canonico? E perché dovrebbe poter

trovare in esso un utile strumento di salvezza?

La risposta che abbiamo tentato di offrire è stata la seguente: la

persona18, in quanto creata ad immagine di Dio, possiede in sé il

15 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II-II, q. 120, a. 1. 16 Il can. 11 ricorda infatti che: “Alle leggi puramente ecclesiastiche sono tenuti i battezzati nella Chiesa cattolica…”. 17 A commento del can. 11 Lombardía afferma: “È importante sottolineare che questo c. si riferisce esclusivamente all’aspetto della soggezione alla legge in qualità di suddito, ma non si deve ovviamente escludere l’ipotesi che, ad altro titolo, possano essere titolari di diritti e doveri nell’ordinamento canonico persone non cattoliche od anche non battezzate, le quali possono essere destinatarie di talune sue norme”, vedi: LOMBARDÍA P., Commento al can. 11, in ARRIETA J. I. (a cura di), Codice di diritto canonico, cit., p. 81. 18 La persona, è stata da noi definita parteno da una concezione ontologica di persona: ogni essere creato è per ciò stesso persona, a prescindere da ulteriori caratterizzazioni, le quali rappresenteranno solamente ulteriori specificazioni, tuttavia non necessarie alla definizione di persona. La concezione opposta è la cosiddetta concezione funzionalista, la quale definisce la persona individuando con

285

“seme” della legge divina, è dunque in grado di discernere, seppure a

livello elementare, il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, e però, in

tale costante compito di discernimento, deve essere aiutato dalle

norme umane che devono renderlo avvezzo al giusto, devono far si

che questo “seme” cresca e si sviluppi e dia vita all’albero della

giustizia.

Il can. 204 ricorda la fondamentale missione cui tutti i fedeli sono

chiamati: svolgere, ciascuno secondo la propria condizione, la

funzione sacerdotale, profetica e regale, così come fatto da Cristo. Lo

svolgimento di tale fondamentale compito deve essere praticato

secondo giustizia, ovvero, senza dubbio nel rispetto delle norme

canoniche, ma altresì avendo presente la giustizia cui ciascuno è

obbligato verso Dio e verso il suo prossimo. In questo senso il canone

ricordato, può essere valido per ogni uomo: vivere la propria esistenza

secondo giustizia. La giustizia è una virtù esercitatile da ciascuno, e

qualora una persona agisca secondo giustizia, deve essere tutelato

dall’ordinamento canonico, deve poter vedere riconosciuti determinati

diritti19.

Riprendiamo qui in sintesi pure le tematiche da noi affrontate con

riferimento al foro interno, si può affermare che, per quanto riguarda

tale termine solamente quei soggetti che possiedano determinate caratteristiche, biologiche o psicologiche. Una definizione più precisa di tali categorie si trova in: PALAZZANI L., Bioetica e persona, in BERTI E. – CAMPANINI G. (a cura di), Dizionario delle idee politiche, Roma 1993, p. 57. 19 In questo senso il nuovo CIC presenta interessanti innovazioni dal punto di vista processuale, in particolare con la introduzione, nel can. 1476, della legittimità attiva ad agire in giudizio, riconosciuta a tutti, non solamente ai battezzati, e ciò, non per un mero riconoscimento giuridico, ma per un fatto connaturato alla natura stessa dell’uomo; a commento di tale innovazione si è affermato: “Questa norma è chiara conseguenza della rinnovata concezione esplicitata dal vigente Codice riguardo alla persona fisica ed alla sua condizione giuridica canonica. Ad ogni persona fisica in quanto tale, per esigenze connesse alla sua stessa natura, è riconosciuta la capacità d’essere titolare di diritti processuali nel nostro ordinamento; sulla base di tale presupposto, saranno riconosciute ale persone, in considerazione delle differenti situazioni giuridiche, diverse capacità in relazione all’esercizio dei rispettivi diritti, senza pregiudizio per il principio secondo cui alle leggi meramente ecclesiastiche sottostà soltanto la persona che, avendo ricevuto il Battesimo, appartiene alla Chiesa cattolica”, DE DIEGO-LORA C., Commento al can. 1476, in ARRIETA J. I. (a cura di), Codice di diritto canonico, cit., p. 988.

286

diritti ed obblighi propri del fedele, un riferimento a tale ambito di

operatività di essi nel foro interno è senza dubbio ravvisabile nella

prescrizione del can. 210, laddove si indica al fedele l’obbligo “di

condurre una vita santa”: questo è un elemento soggettivo

imprescindibile per ogni fedele; a tal proposito Berlingò ha avuto

modo di osservare che, l’obbedienza del fedele non può non

comportare solamente: “l’obbedienza per mere ragioni estrinseche, ma

per le motivazioni interne alla fede, di chi crede in Gesù, il Cristo”20,

concetto già ben presente, come abbiamo avuto modo di ricordare,

anche al Saraceni. È questo un ulteriore elemento cardine del sistema

giuridico canonico, specie nell’ottica da noi delineata.

Una breve considerazione deve necessariamente essere qui

ancora svolta riguardo al rapporto tra diritto e morale; è bene tenere

distinti, in qualche modo, gli ambiti del diritto e della morale, ma al

tempo stesso non è possibile operare una netta distinzione tra tali due

ambiti, cosa che purtroppo continua ad avvenire, specialmente in

ambito secolare. Come è stato acutamente osservato: “Le regole non

sono valori, ma consentono un dibattito tra valori. Esse delimitano uno

spazio neutro che permette agli uomini di vivere secondo le loro

convinzioni in una società sempre più caratterizzata dalla diversità. Le

regole saranno, dunque, tanto più buone quanto più riusciranno a

orientare e meno a vietare”21. Quelle particolari norme, che sono le

norme dell’ordinamento canonico, tuttavia, devono anche determinare

concretamente i membri del popolo di Dio a vivere conformemente

alle virtù, affinché possano conseguire la salvezza; le virtù che l’uomo

è tenuto a praticare per essere giusto, sono dunque, in tale

ordinamento, inscindibili dalla legge, dal momento che solo nella

pratica costante delle virtù l’uomo può arrivare a compiere la legge in 20 BERLINGÒ S., La tipicità dell’ordinamento canonico (nel raffronto con gli altri ordinamenti e nell’«economia» del «diritto divino rivelato»), in Ius Ecclesiae 1 (1989), p. 129. 21 NATOLI S., Dizionario dei vizi e delle virtù, V ed., Milano 2006, p. 143. Il volume riprende una serie di interventi pubblicati dall’A. sul quotidiano Avvenire, tra il settembre 1995 ed il luglio 1996.

287

modo perfetto; in tale ottica l’ordinamento della Chiesa può

rappresentare un ordinamento valido per l’uomo, chiunque esso sia.

È assolutamente necessario riprendere il concetto classico di

virtù, così come l’uomo da sempre lo ha percepito, e che solamente di

recente è stato abbandonato; scrive sempre il Natoli: “Nell’antichità

classica il bene era evidente di per sé. Di fatto lo si faceva coincidere

con l’andamento stesso della natura. «Agisci secondo natura» -

dicevano, infatti, gli stoici. Nel medioevo cristiano, poi, essere e bene

erano il medesimo: ens et bonum convertuntur. È probabile che in quei

mondi non sia stato facile essere virtuosi, ma non era certo difficile

identificare una virtù. Il bene era evidente, oggettivo; al contrario,

innaturale per quanto diffuso era il male. Non agire bene equivaleva

ad agire contro natura e tale agire trovava la sua inevitabile nemesi

nell’autodissoluzione. In questo quadro le virtù erano da intendere

come qualità caratterizzanti i diversi tipi di azione in vista della

realizzazione di un definito bene. La virtù, in quanto attività disposta

al bene, era dunque abito, condotta. […] Nel mondo moderno le virtù,

distaccandosi sempre di più dal bene oggettivamente inteso, finiscono

per trasformarsi in qualità psicologiche, in dotazioni individuali e

perciò anche in risorse collettive, prodotte e distribuite tramite i

processi di formazione: disciplinamento sociale e sistema delle discipline.

Tutto ciò allo scopo di ridurre i vincoli, di ampliare gli spazi di libertà,

di accrescere le prestazioni della società nel suo complesso”22.

In una mirabile pagina Hervada sintetizza in maniera esemplare

la relazione esistente tra la norma e la virtù della giustizia, e

conseguentemente con gli aspetti morali che la norma deve

ricomprendere in sé: “Ogni virtù è un abito o disposizione e

nient’altro; è, però, una disposizione a compiere la legge naturale o

positiva. Per questo motivo il centro della moralità non è la virtù –

come vorrebbero alcuni -, ma la legge; anche se per legge

22 Ibidem, pp. 155-156.

288

fondamentale intendiamo le esigenze che scaturiscono dalla natura

umana. È la virtù che si ordina al dovere e non al contrario. Dovere di

giustizia, esigenza di giustizia, norma di giustizia, sono espressioni che

indicano un dovere, una esigenza o una legge il cui compimento è un

atto della virtù della giustizia, denotano, cioè un diritto o una legge –

di origine naturale o di origine positiva – di indole giuridica”23.

La fallacia dell’abbandono della concezione che da sempre fa

parte del sostrato dell’uomo occidentale24, è visibile alla semplice

osservazione dei molti sistemi normativi positivi, che tale concezione

hanno col tempo dimenticato; le conseguenze anche per la società sono

evidenti: la giustizia non è più, o non è sempre, associabile alla legge

positiva. La persona spesso non si riconosce in delle norme che non

rispecchiano quello che in cuor suo essa ritiene essere giusto.

Nell’ordinamento giuridico della Chiesa ciò non avviene, e

questo per i motivi che si è cercato di chiarire nel corso del nostro

lavoro25. In tale ordinamento, che pure nella sua forma codiciale è tra i

più “giovani” tra quelli esistenti, vi sono presenti duemila anni di

attenta riflessione sull’uomo e sulla giustizia, che rendono tali norme

positive (con i principi giuridici ad esse sottese), e gli strumenti

23 HERVADA J., Introduzione critica, cit., p. 21. 24 Per una analisi della concezione classica del diritto, si veda, il fondamentale e già citato: VILLEY M.,La formation de la pensée juridique moderne, cit. 25 La fondamentale correlazione esistente tra la morale ed il diritto nella Chiesa è stata recentemente affermata in modo assolutamente condivisibile da COCCOPALMERIO F., Riflessioni sull’identità del diritto ecclesiale, in REDAZIONE DI QUDERNI DI DIRITTO ECCLESIALE (a cura di), Codice di diritto canonico commentato, Milano 2009³, pp. 31-53. Afferma l’attuale Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi: “…la Chiesa ha il diritto che ogni fedele conservi la comunione con Cristo. Ora, si noti che il fedele conserva la comunione con Cristo quando compie i doveri propri della morale cristiana. […]. E pertanto la Chiesa ha il diritto che ogni fedele compia i doveri della morale cristiana. E poiché il compimento dei doveri della morale cristiana è un diritto della Chiesa, cioè della comunità, il compimento dei doveri della morale cristiana è una realtà giuridica. Il giuridico della Chiesa comprende pertanto i doveri della morale. […] I doveri della morale sono quelli il cui adempimento determina la qualità morale del fedele, la sua autoperfezione, in altre parole la sua santità. Questo ci permette di capire anche un altro elemento proprio ed esclusivo del diritto ecclesiale, per il motivo che non lo si ritrova in nessun altro ordinamento: la Chiesa stabilisce con legge positiva azioni puramente interne che hanno come finalità l’autoperfezione delle persone, cioè la loro santità”, ivi, pp. 49-50.

289

giuridici in esse contenuti, le più adatte alla creazione di un ordine

giuridico giusto, in cui la persona è il soggetto principale cui tali

norme si rivolgono: basti solo pensare alla disciplina dei sacramenti,

indispensabile alla salvezza eterna.

Certamente vi sono, e sempre inevitabilmente vi saranno, anche

nell’ordinamento canonico, quei limiti dovuti all’origine umana di tale

ordinamento, tuttavia il continuo operare in esso delle norme di diritto

divino, fa sì che eventuali imperfezioni della legge umana possano

venire di volta in volta corretti da coloro ai quali è demandato il

compito di giudicare secondo equità, e dunque, secondo giustizia26.

La riflessione, anche teologica, sulla persona e sul fedele, ed il

ruolo primario che l’ordinamento riconosce al soggetto fanno si che

non si perda mai di vista il concreto: la norma non rimane una

astrazione, essa si fa caso concreto, si mette in relazione con la persona

cui questa norma è rivolta, e si tiene presente il valore escatologico che

questa persona possiede, pur con tutte le sue umane fragilità e

manchevolezze.

Sempre l’ultima parte del nostro lavoro, in cui abbiamo

analizzato la tematica dei diritti della persona umana nella Chiesa,

ripercorrendo quasi un secolo di magistero pontificio ed ecclesiale sul

tema, rende evidente l’attenzione che la Chiesa ha saputo e sa dedicare

a tale tema giuridico. Il diritto canonico ed il magistero che sempre lo

accompagna, può essere un valido strumento per il riconoscimento

della realtà giuridica della persona umana, con i limiti indicati.

Concludiamo con alcune riflessioni svolte nel corso delle

celebrazioni per il venticinquesimo anniversario dalla promulgazione

del nuovo CIC. In quella occasione il Santo Padre Benedetto XVI, ha

26 A tal proposito ricordano CORECCO E. – GEROSA L., Il diritto della Chiesa, Milano 1995, p. 67: “la aequitas canonica permette all’autorità ecclesiastica di superare la divaricazione fra astrattezza della norma e caso concreto, realizzando una forma superiore di giustizia (imparentata con la charitas e la misericordia di Dio) e svolgendo una funzione analoga – sul piano oggettivo – a quella svolta dall’epikeia a livello soggettivo delle decisioni di coscienza dei singoli fedeli”.

290

avuto modo di ricordare l’importanza per le norme canoniche, di non

perdere mai di vista l’uomo, ricordando che: “Lo ius ecclesiae non è

solo un insieme di norme prodotte dal Legislatore ecclesiale per questo

speciale popolo che è la Chiesa di Cristo. Esso è, in primo luogo, la

dichiarazione autorevole, da parte del Legislatore ecclesiale, dei doveri

e dei diritti, che si fondano nei sacramenti e che sono quindi nati

dall’istituzione di Cristo stesso. Questo insieme di realtà giuridiche,

indicato dal Codice, compone un mirabile mosaico nel quale sono

raffigurati i volti di tutti i fedeli, laici e Pastori, e di tutte le comunità,

dalla Chiesa universale alle Chiese particolari. Mi piace qui ricordare

l’espressione davvero incisiva del beato Antonio Rosmini: «La persona

umana è l’essenza del diritto»27. Quello che, con profonda intuizione, il

grande filosofo affermava del diritto umano dobbiamo a maggior

ragione ribadire per il diritto canonico: l’essenza del diritto canonico è

la persona del cristiano nella Chiesa. Il Codice di diritto canonico

contiene poi le norme prodotte dal Legislatore ecclesiale per il bene

della persona e delle comunità dell’intero Corpo Mistico che è la santa

Chiesa. […] la Chiesa riconosce alle sue leggi la natura e la funzione

strumentale e pastorale per perseguire il suo fine proprio, che è – come

noto – il raggiungimento della salus animarum”28. Nella medesima

occasione Benedetto XVI, ricordava uno dei compiti fondamentali del

diritto ecclesiale: “La legge della Chiesa è, anzitutto, lex libertatis: legge

che ci rende liberi per aderire a Gesù. Perciò, occorre saper presentare

al Popolo di Dio, alle nuove generazioni, e a quanti sono chiamati a far

rispettare la legge canonica, il concreto legame che essa ha con la vita

della Chiesa, a tutela dei delicati interessi delle cose di Dio, e a

protezione dei diritti dei più deboli, di coloro che non hanno altre

forze per farsi valere, ma anche a difesa di quei delicati «beni» che

ogni fedele ha gratuitamente ricevuto – il dono della fede, della grazia

27 ROSMINI A., Filosofia del diritto, Parte I, libro I, cap. 3. 28 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso di studio promosso dal Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi in occasione del XXV anniversario della promulgazione del Codex Iuris Canonici, 25.I.2008, in Communicationes 40 (2008), p. 27.

291

di Dio, anzitutto – che nella chiesa non possono rimanere senza

adeguata protezione da parte del Diritto”29.

Il fedele deve ritrovare nelle norme canoniche, seppure in modo

imperfetto (lo ribadiamo ancora una volta), quella che è la giustizia

divina. Colui che si affaccia a tali norme, per capire quali siano i suoi

obblighi ed i suoi diritti, anche se non è stato sempre rispettoso di tali

dettami, dovrà ritrovare almeno un riflesso di quello ius che non è

semplice norma, ma anche e di più, giustizia salvifica. Questa strada

non è preclusa ad alcuno, per cui anche il non fedele, potra usufruire

dei principi fondamentali contenuti nell’ordinamento giuridico della

Chiesa. Il fedele, in più, potrà riconoscere la provenienza ultraterrena

dei principi contenuti nell’ordinamento canonico, e sarà allora portato,

come fa il salmista, ad esclamare: “La legge del Signore è perfetta,/

rinfranca l’anima;/ la testimonianza del Signore è stabile,/ rende

saggio il semplice./ I precetti del Signore sono retti,/ fanno gioire il

cuore;/ il comando del Signore è limpido,/ illumina gli occhi. /[…]

per chi li osserva [i comandi del Signore n.d.r.] è grande il profitto”

(Sal 19, 8-9.12).

29 Ibidem, p. 28

292

293

ACRONIMI e ABBREVIAZIONI

DOCUMENTI CONCILIARI

AA Decreto conciliare Apostolicam actuositatem

AG Decreto conciliare Ad gentes

DH Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa Dignitatis humanae

GS Costituzione pastorale sulla Chiesa Gaudium et spes

LG Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium

OT Decreto conciliare sulla formazione sacerdotale Optatam totius

PO Decreto conciliare Presbyterorum ordinis

DOCUMENTI MAGISTERIALI

CCC Catechismo della Chiesa Cattolica, 1992

CCEO Codex canonum ecclesiae orientalium, 1990

CDSC Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 2004

CIC Codex iuris canonici, 1983

CIC17 Codex iuris canonici, 1917

VS GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 1993

ALTRO

a. Articulo

AAS Acta Apostolicae Sedis, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del

Vaticano, dal 1909 ss.

AA. VV. Autori Vari

ASS Acta Sanctae Sedis, Roma 1865-1908.

294

can. Canone

CEC Consiglio Ecumenico delle Chiese

cfr. Confronta

col. Colonna

ed. Edizione

es. Esempio

ID. Idem

LEF Lex Ecclesiae Fundamentalis

n./nn. Numero/Numeri

n.d.r. nota del redattore, con cui saranno indicate tutte le annotazioni

svolte dall’autore della presente tesi

NT Nuovo Testamento

op. cit. Opera Citata

p./pp. Pagina/Pagine

PG MIGNE J. P., Patrologia greca, Parigi 1928-1936

PL MIGNE J. P., Patrologia latina, Parigi 1844-1855, dal 1996 in

http://pld.chadwyck.com/

q. Quaestio

ss. Seguenti

vol./ voll. Volume/Volumi

295

INDICE DEI NOMI

A

ABBÀ G., 65, 133, 134, 184, 206, 275, 278

Sant’AGOSTINO, 19, 23, 68, 100, 127, 137, 139, 144, 150, 168, 200, 226, 262

AGUIRRE F., 175

Sant’ALBERTO MAGNO, 76

Sant’ALFONSO MARIA DE’

LIGUORI, 209

AMATO A., 17

Sant’AMBROGIO, 131, 144

AMOS S., 192

ARDUSSO F., 80

ARENDT H., 217, 218

ARIAS J., 116

ARRIETA J. I., 73, 109, 110, 111, 116, 122, 124, 156, 163, 229, 233, 248, 282, 283

ARROBA CONDE M. J., 98, 182, 183

Sant’ATANASIO, 262

AUSTIN J., 192

AYESTA G., 210

AYMANS W., 58, 64, 171, 240

AZARA A., 195

B

BACCARI R., 187

BACKES I., 4

BANCHI J., 223

BARAÚNA G., 139, 140, 261, 265

BARBAGLIO G., 66

BARBERINI G., 1

BARRAL I., 156

BELLINI P., 86, 221, 245

BELLOCCHI U., 222, 225

BENDER L., 173, 176, 177, 182, 221

San BENEDETTO, 197

BENTHAM J., 190

BERARDI G. S., 174, 181, 182

BERCH I., 177

BERLINGÒ S., 107, 114, 115, 118, 120, 145, 221, 242, 284

BERTI E., 283

BERTOLA A., 173

BERTOLINO R., 138, 139, 146, 255

BERTONE T., 156

BERTRAMS W., 48, 173, 178, 181

BESTE U., 182

BETTETINI A., 146

BETTIOL G., 191, 193

BHARANIKULANGARA L., 51

BIDAGOR R., 42, 43, 86

BIFFI F., 220, 225, 233, 236

BLACKSTONE W., 190

BLANCO A., 80, 102

BLOCH E., 195

BOBBIO N., 132, 189, 194, 195, 216, 217

BOELENS O. G. M., 152, 153

BOF G., 66

BOLGIANI F., 224

296

BONI G., 107, 158

BONNET P. A., 2, 3, 42, 121, 146, 186, 221

BORGONOVO G., 88

BOUYER L., 49

BROGI M., 51

BRUNETTI D., 223

BRUNNER E., 81

BUCCI O., 51

C

CALABRÒ G. P., 242

CALAMANDREI P., 192

CALASSO F., 61

CAMPANINI G., 283

CANGIOTTI M., 195

CANOSA J., 46, 51, 55, 99

CAPOBIANCO P., 173, 177

CAPOGRASSI G., 68, 69, 84, 88, 144, 145

CAPPELLINI E., 45

CAPPELLO F., 6

CARNELUTTI F., 143

CASEL O., 18

CASTELLANO D., 233

CASTILLO LARA R., 5, 42, 47, 170

CATTANEO A., 58, 88, 171, 172, 174

CAVAGNIS F., 197

CAVALLI G., 155

CENALMOR D., 4, 5, 152, 153

CESSARIO R., 276, 277, 278

CHELODI G., 172

CHIAPPETTA L., 221

CICERONE, 76, 144

CIPROTTI P., 11, 86, 172, 173, 221

COCCOPALMERIO F., 42, 286

COHEN F. S., 192

COLLO C., 175

COLOM E., 130, 197, 199, 201

COMPAGNONI F., 275

COMPOSTA D., 76, 233

CONCETTI G., 219, 220

CONDORELLI M., 157, 158

CONGAR Y., 15, 16, 19, 21, 22, 34, 35, 38, 39, 64, 161

CONTE A CORONATA M., 173, 177

CORECCO E., 4, 5, 33, 58, 59, 64, 87, 88, 152, 162, 197, 198, 215, 227, 287

CORRAL S. C., 175

CORTELLAZZO M., 61

COSTE R., 233

COTTA S., 128, 133, 193, 194, 195

CREUSEN I., 177

CRIFÒ G., 115

CROCE B., 132, 133

D

DALLA TORRE G., 65, 156, 215, 216

D’AGOSTINO F., 129, 190, 194, 217

DANIELOU J., 18

D’AURIA A., 174

D’AVACK P. A., 172, 173

DE BERNARDIS L. M., 172

DE DIEGO-LORA C., 283

297

DE FUENMAYOR A., 229

DE LA HERA A., 1, 66, 77, 90

DELLA ROCCA F., 86

DEL GIUDICE V., 7

DEL PORTILLO A., 2, 48, 53, 166

DE LUBAC H., 18, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 265

DELUMEAU J., 175

DEL VECCHIO G., 181, 189, 193, 196, 197, 207, 208, 258

DE MAGISTRIS L., 186

DENZINGER H., 80

DE PAOLIS V., 107, 136, 171, 173, 174, 175, 243

D’ERCOLE G., 175

DEUTSCH B. F., 173, 177

DEVOTO G., 61

DIANICH S., 66

DIQUATTRO G., 160, 164, 245

D’OSTILIO F., 42, 153

DUPUY B. D., 12

E

EICHMANN E., 4, 58

ENGELS F., 132, 133

ERDÖ P., 44, 62, 64

ERRÁZURIZ C. J., 8, 64, 66, 89, 103, 104, 105, 110, 113, 121, 146, 164, 191, 219, 268

EULA E., 195

EYT P., 48

F

FANTAPPIÈ C., 44, 63, 64, 174, 222

FARIS G., 51

FEDELE P., 61, 86, 115, 126, 171, 173, 221

FELICI P., 9, 43, 49

FELICIANI G., 4, 45, 107, 115, 161, 162

FERRONE V., 224

FILIBECK G., 233

FINOCCHIARO F., 115

FITTE H., 240

FOGLIASSO E., 173

FORCHIELLI G., 221

FORNÉS J., 107, 153

FRIES B., 173

FUČEK I., 174, 187

FUCHS J., 196

FULLER L. L., 189

FUMAGALLI CARULLI O., 116

G

GALVÁN J. M., 97, 178

GARCÍA HERVÁS D., 154

GAUDEMET J., 60

GENTILE G., 132, 133, 193

GEROSA L., 33, 138, 274, 287

GERINGER K. Th., 171

GHERRO S., 10, 11, 66, 86, 116, 120

GHIRLANDA G., 175

GIACCHI O., 12, 64, 86

GIANNANTONIO P., 210

GIORDANI I., 223

San GIOVANNI CRISOSTOMO, 137

San GIOVANNI DELLA CROCE, 169

298

GIROTTI G., 185

GISMONDI P., 1, 221

GITZLER M., 173, 175

GÓMEZ DE AYALA A., 1, 221

GRANERIS G., 76

GRAZIANI E., 86

GRECO I.,177

San GREGORIO MAGNO, 170

San GREGORIO DI NISSA, 24

GROSSI P., 63, 74, 126, 162, 260, 266

GUARDINI R., 18, 255, 256, 257, 268

GULLO C., 186

GUTIÉRREZ J. L., 41, 46, 107

H

HABERMAS J., 195

HAHN J., 173

HÄRING B., 192

HART H. L. A., 192

HAJDU T., 233

HEIMERL H., 65

HERRANZ J., 11, 42, 53, 54, 121, 125, 212, 213

HERVADA J., 1, 7, 8, 9, 65, 68, 72, 83, 84, 86, 111, 142, 153, 158, 189, 198, 217, 255, 270, 271, 285, 286

HERZOG N., 59, 162, 215

HEIDEGGER M., 127, 128

HINSCHIUS P., 172

HOLMES O. W., 192

I

Sant’IGNAZIO DI LOYOLA, 29, 169

INCITTI G., 160

Sant’IRENEO, 261, 262

IVO DI CHARTRES, 61, 86

J

JMÉNEZ URRESTI T. I., 73

San JOSEMARIA ESCRIVÀ, 127, 265

JOURNET C., 20, 21

JUNGMANN J. A., 18

K

KANT I., 22, 128, 199, 200, 202

KELSEN H., 132, 133, 189, 192

KLEIN J., 64

KNAPP V., 195

KÖSTLER R., 172

KRÄMER P., 64

KUTTNER S., 45

L

LALMANT M., 61

LA TERRA P., 153

LATOURELLE R., 173

LAVATORI R., 80, 147

LE BRAS G., 216

LECLERC G., 10

LE GAL P., 4

San LEONE MAGNO, 9, 158

LLAMAZARES FERNÁNDEZ D., 64

LO CASTRO G., 1, 3, 53, 71, 104, 114, 144, 156, 230, 231, 262, 264

LOMBARDÍA P., 2, 4, 7, 33, 65, 66, 94, 95, 101, 102, 111,

299

146, 147, 152, 153, 166, 167, 215, 221, 271, 282

LONGHITANO A., 107, 161

LORENZETTI L., 275

M

MACERATINI R., 220

MAGNI C., 221

MAINE H. S., 192

MARCUSE H., 195, 196

MARITAIN J., 143, 218, 219, 243

MARKBY W., 192

MARQUES J. A., 59, 229

MARRONE M., 3

MARTINELLI M., 233

MARX K., 132, 133

MARZOA A., 50, 51, 107, 229

MAYER A., 175

MICHIELS G., 6, 173

MIELE M., 81

MIGNE J. P., 61

MILANO G. P., 233

MIRABELLI C., 231

MIRAGOLI E., 186

MIRAS J., 4, 107, 229

MOMIGLIANO E., 223

MONETA P., 96, 97, 116

MONTAN A., 152

MÖRSDORF K., 4, 58, 171, 173, 174

MORTATI C., 126

MOSTAZA RODRÍGUEZ A., 173, 174, 175, 176, 178

N

NARDI F., 175, 176

NATOLI S., 284, 285

NAVARRO L., 66, 220

NAZ R., 61, 198

NEDERMAN C. J., 64

NEWMAN J. H., 138, 139

O

OCÁRIZ F., 80, 102

OCHOA X., 49

OESTERLE G., 173

ONCLIN W., 42, 43, 221

ORSY L., 116

OTADUY J., 163, 210, 221, 229

P

PACE A., 99

PAINE T., 192

PALAZZANI L., 283

PARLATO V., 162, 220

PATTARO E., 190

PELLEGRINO P., 156

PERATHONER A., 173

PERTILE A., 115

PETRONCELLI M., 221

PHILIPS G., 43

PHILLIPS G., 172

PIEPER J., 238, 275

PIERINI F., 223

PIGHIN B. F., 171, 210

PINTO P. V., 185

PIZZORNI R., 142, 143, 236

POLITI V., 172

300

POMMARÈS J. M., 99

POMPEDDA M. F., 116

POTZ R., 64

PREE H., 54, 55, 120

PUDUMAI DOSS J., 153

R

RADBRUCK G., 64, 192

RAHNER K., 24, 35, 36, 37

RAMBALDI G., 33

RATZINGER J., 18, 80, 139, 161

RAVÀ A., 196

REDAELLI C. R. M., 6, 42

RHEINSTEIN M., 192

RHONHEIMER M., 132, 211

RICOEUR P., 192

RIES J., 274

RIGHI R., 64

RINCÓN-PÉREZ T., 121, 122, 123, 229

ROARDA T. J., 173

ROBLEDA O., 86

RODRÍGUEZ P., 18

RODRIGUEZ LUÑO A., 130, 197, 199, 201

RODRIGUEZ-OCAÑA R., 107, 229

ROHBAN L., 51

ROMANO S., 192

ROORDA T. J., 172

ROSMINI A., 59, 129, 197, 288

ROSS A., 192

ROUCO VARELA A., 49, 58, 64, 74

S

SALAVERRI DE LA TORRE J., 49

SALAZAR ABRISQUIETA J., 172, 173

SANCHO BIELSA J., 102

SANCLIMENS M., 173

SANTORO PASSARELLI F., 126

SARACENI G., 99, 100, 101, 173, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 182, 183, 186, 187, 244, 284

SCHEFFCZYK L., 38, 74

SCHAUF H., 4

SCHILER H., 4,

SCHMAUS M., 4

SCHMITT C., 132, 133

SCHMITZ H., 171

SCHMITZ P., 198

SCHNACKENBURG R., 4

SCOLA A., 59, 162, 215, 243

SEMERARO M., 66, 141

SEMMELROTH O., 265

SGRECCIA E., 132, 211

SILVESTRINI A., 233

SIRI G., 223

SOBANSKI R., 199

SOFOCLE, 194

SOGLIA G., 197

SOHM R., 31, 64

STAFFA D., 172

STICKLER A. M., 47

STORCHI F., 223

SUÁREZ F., 6, 71, 86, 178

301

T

TAPARELLI L., 186

TARQUINI C., 197

TASCIOTTI F. M., 160

TEDESCHI M., 86

TEJERO E., 248

THOMASIO C., 189

TODESCHINI U. M., 182, 186

San TOMMASO D’AQUINO, 6, 23, 75, 76, 77, 95, 96, 99, 100, 101, 102, 103, 117, 118, 125, 126, 129, 131, 133, 136, 137, 140, 142, 149, 150, 177, 194, 200, 202, 203, 204, 210, 211, 216, 218, 264, 269, 270, 273, 277, 281, 282

TONNEAU J., 206

TOPITSCH E., 195

TOSATO E., 242

TURRINI M., 175, 178, 208

U

ULPIANO, 8

URRUTIA F. J., 173, 175, 178, 179, 180

USEROS CARRETERO M., 86

V

VAN HOVE A., 6, 44, 172

VAN LEEUWEN B., 139

VÁZQUEZ GARCÍA-PEÑUELA J. M., 220

VECCHIOTTI S. M., 197

VERING H., 172

VEERMESCH A., 177

VIAL CORREA J., 132, 211

VIDAL P., 175

VILADRICH P. J., 67, 69, 91, 92, 111, 112, 113, 116, 231

VILLEY M., 75, 286

San VINCENZO DI LERINIS, 139

VÖGTLE A., 4

VON BALTHASAR H. U., 18, 26, 27, 28, 29, 30, 31

VON HARNACK A., 31

W

WAHNER G., 182

WALF K., 64

WEBER M., 66

WERNZ F. X., 175

WITTE J. L., 261

Z

ZOLLI P., 61

ZUMAQUERO J. M., 233

ŽUŽEK I., 51, 153

SOMMI PONTEFICI

PIO VI, 222

PIO VII, 222

GREGORIO XVI, 222

PIO IX, 222

LEONE XIII, 129, 220, 223, 224, 264, 265

PIO XI, 139, 224, 225

PIO XII, 2, 42, 65, 139, 224, 225, 260, 264, 265

GIOVANNI XXIII, 4, 5, 15, 41, 79, 225

PAOLO VI, 5, 19, 21, 44, 46, 79, 114, 228, 236, 248, 249, 250,

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251, 253, 258

GIOVANNI PAOLO II, 118, 120, 129, 135, 143, 233, 234, 239, 245, 246, 247, 267

BENEDETTO XVI, 144, 226, 238, 251, 252, 253, 258, 260, 261, 264, 287, 288

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pp. 1025-1120

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Decreto conciliare sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes, in AAS 58 (1966), pp. 947-990

Decreto conciliare sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, in AAS 58 (1966), pp. 837-864

Decreto conciliare sulla formazione sacerdotale Optatam totius, del 28.X.1965, in AAS 58 (1966), pp. 713-727

Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri Presbyterorum Ordinis, in AAS 58 (1966), pp. 991-1024

DOCUMENTI DEI SOMMI PONTEFICI

PIO VI, Lettera Quod aliquantum, 10.III.1791

PIO VII, Lettera apostolica Post tam diuturnas, 29.IV.1814

GREGORIO XVI, Lettera enciclica Mirari vos, 15.VIII.1832

PIO IX, Lettera enciclica Noscitis et nobiscum, 8.XII.1849

PIO IX, Lettera enciclica Quanta cura, 8.XII.1864

LEONE XIII, Lettera enciclica Inscrutabili Dei consilio, 21.IV.1878, in ASS 10 (1878), pp. 585-592

LEONE XIII, Lettera enciclica Quod apostolici muneris, 28.XII.1878, in ASS 11 (1878), pp. 369-376

LEONE XIII, Lettera enciclica Immortale Dei, 1.XI.1885, in ASS 18 (1885), pp. 161-180

LEONE XIII, Lettera enciclica Libertas praestantissimum, 20.VI.1888, in ASS 20 (1887), pp. 593-613

LEONE XIII, Lettera enciclica Sapientiae christianae, 10.I.1890, in ASS 22 (1890), pp. 385-404

LEONE XIII, Lettera enciclica Satis cognitum, 29.VI.1896, in ASS 28 (1896), pp. 708-739

BENEDETTO XV, Motu proprio Cum Iuris Canonici, 15.IX.1917, in AAS 9 (1917), pp. 483-484.

PIO XI, Lettera enciclica Mit Brennender Sorge, 14.III.1937, in AAS 29 (1937), pp. 145-167

PIO XI, Lettera enciclica Divini Redemptoris, 19.III.1937, in AAS 29 (1937), pp. 65-106

PIO XII, Radiomessaggio del Natale del 1942, in AAS 34 (1942), pp. 10-21

PIO XII, Lettera enciclica Mystici corporis, 29.VI.1943, in AAS 35 (1943),

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pp. 193-248

PIO XII, Motu proprio, 1.VIII.1948, in AAS 40 (1948), pp. 305-306

PIO XII, Radiomessaggio, 23.XII.1949, in AAS 42 (1950), pp. 121-133

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GIOVANNI XXIII, Discorso di apertura del Concilio Vaticano II, 11.X.1962, in AAS 54 (1962), p. 791, e in, Discorsi, messaggi, colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, vol. IV, Città del Vaticano 1963, pp. 574-590

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PAOLO VI, Lettera enciclica Ecclesiam suam, 6.VIII.1964, in AAS 56 (1964), pp. 609-659

PAOLO VI, Lettera Enciclica Mysterium fidei, 3.IX.1965, in AAS 57 (1965), pp. 753-774

PAOLO VI, Discorso all’O.N.U., 4.X.1965, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. III, Città del Vaticano 1966, pp. 507-523

PAOLO VI, Discorso ai membri della Pontificia Commissione per la revisione del CIC, 20.XI.1965, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. III, Città del Vaticano 1966, pp. 640-644

PAOLO VI, Udienza generale, 4.IX.1968, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. VI, Città del Vaticano 1968, pp. 886-887

PAOLO VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 8.XII.1975, in AAS 68 (1976), pp. 5-76

PAOLO VI, Allocuzione alla Sacra Romana Rota per l’inizio dell’anno giudiziario, in AAS 69 (1977), pp. 147-153

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GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai giuristi cattolici, 6.XII.1980, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III-2, Città del Vaticano 1980, pp. 1596-1601

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GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Sollicitudo rei socialis, 30.XII.1987, in AAS 80 (1988), pp. 513-586.

GIOVANNI PAOLO II, Costituzione Apostolica sulla Curia romana

331

Pastor Bonus, 28.VI.1988, in AAS 80 (1988), pp. 841-923

GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6.VIII.1993, in AAS 85 (1993), pp. 1133-1228

GIOVANNI PAOLO II, Discorso agli officiali e avvocati del Tribunale della Rota romana, 10.II.1995, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XVIII-1, Città del Vaticano 1997, pp. 350-357

GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti alla giornata accademica organizzata dal Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, 25.I.2003, in AAS 95 (2003), pp. 333-336

BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, 25.XII.2005, in AAS 98 (2006), pp. 217-252

BENEDETTO XVI, Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace, La persona umana, cuore della pace, 8.XII.2006, in La Traccia 12 (2006), pp. 1270-1277

BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale sulla legge naturale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, 12.II.2007, in AAS 109 (2007), pp. 243-246

BENEDETTO XVI, Discorso ai membri della Commissione Teologica Internazionale, 5.X.2007, in La Traccia 10 (2007), pp. 1173-1175

BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Spe salvi, 30.XI.2007, in AAS 99 (2007), pp. 985-1027.

BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso di studio promosso dal Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi in occasione del XXV anniversario della promulgazione del Codex Iuris Canonici, 25.I.2008, in Communicationes 40 (2008), pp. 26-28

BENEDETTO XVI, Omelia, 18.V.2008, in La Traccia 5 (2008), pp. 613-616

BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 43, 29.VI.2009, in AAS 101 (2009), pp. 3-62

ALTRI DOCUMENTI

Codex Iuris Canonici anno 1917 Pii X pontificis maximi iussu digestus Benedicti papae XV, Città del Vaticano 1996 (ristampa)

CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE, Dichiarazione nella Terza Assemblea del CEC, Nuova Dehli 1961

PONTIFICIA COMMISSIONE PER LA REVISIONE DEL CIC, Principia directiva generalia pro Codicis Iuris Canonici recognitione - Folio de oficio, 31.I.1967

SACRA COGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, 6.I.1970, in Enchiridion Vaticanum 3, p. 1194;

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SINODO DEI VESCOVI, La giustizia nel mondo, 30.XI.1971, in Enchiridion Vaticanum 4, Bologna 1978, pp. 800-839

CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione Mysterium Ecclesiae, 24.VI.1973, in AAS 65 (1973), pp. 396-408

PONTIFICIA COMMISSIONE «IUSTITIA ET PAX», La Chiesa e i diritti dell’uomo, 10.XII.1974, in Enchiridion Vaticanum 5 (1979), pp. 554-610

SACRA COGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Lettera circolare particolare Postremis hisce annis, agli ordinari diocesani e religiosi, ai rettori dei seminari e dei collegi dei religiosi, 2.IV.1975, in OCHOA X., Leges Ecclesiae post Codicem iuris canonici editae, V, 7012-7016

Coetus specialis de Lex Ecclesiae Fundamentalis postrema recognitio schematis, 24-29.IX.1979, in Communicationes 12 (1980)

CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, 11.X.1992

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PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2.IV.2004

COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Comunione e servizio. La persona umana creata a immagine di Dio, 23.VII.2004, in Enchiridion Vaticanum 22 (2006), pp. 1642-1725

PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Istruzione Dignitas connubii, 25.I.2005, in Dignitas connubii (testo ufficiale), Città del Vaticano 2005

333

INDICE

INTRODUZIONE…………………………………………...………p. 3

1- PRESUPPOSTI TEOLOGICI…………………………………...p. 17

1.1. Il movimento biblico……………………………………………p. 19

1.2. Il movimento patristico………………………………………...p. 19

1.3. Il movimento liturgico………………………………………….p. 20

1.4. Il movimento ecumenico……………………………………….p. 20

1.5. Alcune riflessioni teologiche a margine del Concilio Vaticano

II……………………………………………………………………….p. 21

2- PRESUPPOSTI GIURIDICO-CANONICI…………………...p. 43

2.1. Giuridicità del diritto canonico………………………………..p. 50

2.2. I diritti dei fedeli……………………………………………..….p. 53

3- LA NORMA………………………………………….…………...p. 59

3.1. Ius ontologico e legge-norma come categorie per la definizione

delle norme nell’ordinamento canonico……………………..……p. 59

3.2. La legge-norma………………………………………………….p. 72

3.3. Lo ius ontologico………………………………………………..p. 77

3.4. Il fine della norma canonica e lo ius ontologico…………..….p. 85

3.5. Efficacia della norma canonica in rapporto allo ius

ontologico…………………………………………………………….p. 95

4 - IL FEDELE…………………………………………………...….p. 109

4.1. Il fedele ed il rispetto della legge-norma……………….…...p. 109

4.2. Il fedele ed il rispetto dello ius ontologico……………….….p. 126

4.2.1. Fedele e sensus fidei………………………….……..……p. 140

4.3. Obblighi e diritti di tutti i fedeli come mezzi strumentali alla

ricerca della giustizia e per la salvezza dell’anima……………..p. 154

334

4.4. Foro esterno e foro interno come ambiti di realizzazione dei

diritti e dei doveri dei fedeli……………………………………....p. 173

4.5. Il fedele ed il valore morale della norma………………..…..p. 191

5 - LA PERSONA UMANA…………………………….……..….p. 217

5.1. La Chiesa e la persona. Cenni storico - canonici sulla

questione…………………………………………………………….p. 217

5.1.1. Adattabilità dei diritti umani all’ambito ecclesiale………...p. 223

5.1.2. Il dibattito canonistico intorno alla persona umana……….p. 228

5.2. Chiesa e diritti umani……………………………………...…p. 235

5.3. Lo ius ontologico e i diritti della persona nella Chiesa. (Come la

persona umana può accostarsi al diritto canonico)……......……p. 256

CONCLUSIONI……………………………………………….…..p. 275

ACRONIMI e ABBREVIAZIONI………………………...……..p. 293

INDICE DEI NOMI……………………………………………….p. 295

BIBLIOGRAFIA……………………………………………...…....p. 303

335