DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

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1 ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE Corso di studio in lingue e letterature straniere Piano didattico “Lingue e scienze del linguaggio” Titolo della prova finale: CONSIDERAZIONI SUL FUÞARK SCANDINAVO Prova Finale in Filologia Germanica relatore prof. Giulio Garuti Simone correlatore prof. Alessandro Zironi II sessione di laurea Anno Accademico 2006-2007 Presentata da Diego Ferioli

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An up-to-date comprehensive research on the main theories concerning the script reform occurring in Scandinavia at the dawn of the Viking Age. In Italian.

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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE

Corso di studio in lingue e letterature straniere

Piano didattico “Lingue e scienze del linguaggio”

Titolo della prova finale:

CONSIDERAZIONI SUL FUÞARK SCANDINAVO

Prova Finale in Filologia Germanica

relatore

prof. Giulio Garuti Simone

correlatore

prof. Alessandro Zironi

II sessione di laurea

Anno Accademico 2006-2007

Presentata da

Diego Ferioli

Page 2: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

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LLLLISTA DELLE ISTA DELLE ISTA DELLE ISTA DELLE ABBREVIAZIONIABBREVIAZIONIABBREVIAZIONIABBREVIAZIONI

SSSSEGNI CONVENZIONALIEGNI CONVENZIONALIEGNI CONVENZIONALIEGNI CONVENZIONALI

Si è adottato per la trascrizione fonetica l’alfabeto dell’Associazione

Fonetica Internazionale (IPA/API: vedi INTERNATIONAL PHONETIC ASSOCIATION

[1999]), con l’eccezione delle spiranti (fricative o approssimanti) sonore

(in IPA β e dz) bʫ e gʫ, per le quali si sono invece scelte le varianti

tradizionalmente in uso nel campo della germanistica.

a.n.e. C eb. got. gr. IE n.e. p. es. pers. PGmC pres. cfr. sec.

ante nostra era

consonante

ebraico

gotico

greco

indoeuropeo

nostra era

per esempio

persona

proto-germanico

presente

confronta

secolo

< > / * [...] /.../ <...> :

deriva da

passa a

in alternanza con

precede una forma ricostruita (e quindi non attestata)

trascrizione fonetica

interpretazione fonematica

rappresentazione grafematica lunghezza

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3

§1. Introduzione§1. Introduzione§1. Introduzione§1. Introduzione

Il periodo storico denominato Era Vichinga (fine sec. VIII - XII) è

un periodo di profondi cambiamenti per una parte d’Europa, l’area

germanica settentrionale, fino a quel momento rimasta relativamente

isolata dal resto del Continente. In quest’area, verosimilmente nei primi

due secoli della nostra era, viene adottato un sistema grafetico simile

agli alfabeti mediterranei, il fuþark o scrittura runica, le cui prime

testimonianze certe sono attestate dal 200 n.e. circa [DÜWEL 2001:3]. In

questo primo periodo si parla di fuþark germanico (fuQaRkgW:hnij$pys:tBeml5do1), poiché esso viene usato senza

significative variazioni da diverse stirpi germaniche.

Il principio dell’Era Vichinga, convenzionalmente fatto coincidere

con l’attacco vichingo al monastero anglosassone di Lindisfarne nel

793, vede il fuþark germanico profondamente modificato da un

processo di riforma iniziato almeno un secolo prima. Tale riforma

avviene in un periodo in cui i Vichinghi2 colonizzano nuove terre,

organizzano spedizioni per razziare ricchi centri monastici e città nelle

isole britanniche e sul Continente, intrattengono rapporti commerciali

che si estendono fino ai dominî arabi nell’India occidentale. Da civiltà

stanziale, materialmente arretrata e culturalmente isolata, i Vichinghi

irrompono nell’Europa cristiana, dando inizio ad un processo che si

concluderà con l’entrata dell’Europa nella Scandinavia pagana, ovvero

con la cristianizzazione e la creazione di stati feudali centrali sul

modello franco3.

Le cause e le dinamiche degli avvenimenti dell’Era Vichinga sono

strettamente legate al periodo storico immediatamente precedente

(560/70-800 n.e.), che assume diversi nomi a seconda delle varie

1 In questo saggio si è scelto di usare per praticità la serie standardizzata desunta dalla pietra di

Kylver [KJ: Gotland 1]. La divisione in ættir (‘famiglie’) tramite puntuazione, non presente sulla

detta pietra, è invece desunta dal bratteato di Vadstena [KJ: Östergötland 2]. 2 Con ’vichinghi’ si intendono qui le popolazioni germaniche settentrionali che all’interno dei già

dati limiti cronologici dell’Era vichinga sono stanziate nei territori corrispondenti agli odierni

stati di Norvegia, Svezia, Danimarca, nonché quei gruppi che da detti territori fondano

insediamenti d’oltremare, p. es. sulle Føroyar (Fær Øer), Islanda, Orcadi e Shetland, in

Groenlandia e nell’ America settentrionale, più vari territori nelle Isole britanniche, sul

Continente (Normandia), lungo la costa baltica nonché lungo i corsi d’acqua dell’odierno

entroterra russo e ucraino. Per un inquadramento etnologico e linguistico, si veda BARNES [2003]. 3 Per una storia dell’area germanica settentrionale fino alla cristianizzazione, si veda HELLE

[2003].

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tradizioni storiografiche nazionali: in Norvegia è detto ‘Periodo

merovingio’ (dalla somiglianza di alcuni artefatti rinvenuti sulla costa

norvegese occidentale con altri in territorio franco), in Danimarca

‘Giovane Età del Ferro’, mentre in Svezia è tradizionalmente chiamato

‘Periodo di Vendel’. Nel sec. VI si assiste ad un periodo di depressione

economica - forse dovuto all’arrivo della peste bubbonica - in cui il

numero degli insediamenti agricoli si riduce drasticamente, le sepolture

si fanno meno fastose, le cifre demografiche paiono precipitare. Ciò

accade tuttavia solo nelle zone costiere della Norvegia meridionale,

mentre l’est del Paese e della penisola scandinava sperimenta in questa

fase inziale un periodo sia di evoluzione agricola e prosperità, che di

ristrutturamento sociale [SOLBERG 2000:178-202]. Nell’ultima fase del

Periodo meronvingio vengono fondati importanti e ricchi centri

commerciali come Ribe nello Jutland, nel quale beni di lusso vengono

scambiati tra il Nord e il regno franco, e Staraja Ladoga nella Russia

settentrionale. Nuove zone agricole e la diffusione di ricche tombe a

tumulo testimoniano l’ascesa di una nuova classe dominante [MYHRE

2003:84-5].

Alla fine del sec. VI la pratica di erigere pietre runiche si sposta

dalla Norvegia a quelle che oggi sono le province svedesi meridionali, in

particolare Blekinge, per trasferirsi poi alla fine dell’ VIII in Danimarca.

Contestualmente si assiste a una drastica diminuzione dell’attività

epigrafica runica, in relazione al periodo precedente e in particolare a

quello successivo, nel quale si verifica una vera e propria esplosione

[SPURKLAND 2006:38].

Il passaggio dal fuþark germanico a quello scandinavo si realizza

nel corso di 2 secoli circa, ovvero dal 500 al 730 n.e.4, e consiste nelle

le seguenti modifiche: 1) segni complessi vengono abbandonati, o

sostituiti con altri – nuovi o già esistenti – più semplici, oppure vengono

semplificati, in modo tale che ogni runa sia costituita da un’unica asta

alla quale vengono eventualmente apposti uno o due bracci e/o uno o

due occhielli; 2) le rune corrispondenti alle plosive si riducono sicché i

grafemi non esprimono più l’opposizione distintiva [± sonoro]5; 3) i

4 GRØNVIK [2001:64] indica il 700 come spartiacque tra i due alfabeti. Dal 500 al 700 si

parlerebbe ancora di fuþark germanico ma nella sua fase più tarda, con la lingua affetta dai

primi casi di apocope; il periodo dal 700 al 730 viene invece detto ”große Umwälzung” e definito

cronologicamente dalla pietra di Eggja [KJ: Sogn og Fjordane 101] e dal cranio di Ribe [DR: North

Jutland 203]. 5 B /p/, /b/; t/l /t/, /d/; T /k/, /g/.

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grafemi vocalici non rendono conto delle nuove vocali metafonizzate

comparse dopo il periodo della sincope (secc. VI- VIII)6, anzi, per le

motivazioni enunciate al punto 1), rappresentano solo 4 dei ben 18

fonemi vocalici del norreno7 (16 nei manoscritti islandesi dal sec. XII,

con la perdita di /Nj:/ e /æ/)8; 4) le semiconsonanti /j/ e /w/, l’ultima

delle quali passa poi a /v/ in alcuni contesti fonetici, non vengono più

distinte dai loro corrispettivi vocalici /i/ e /u/; 5) segni divenuti obsoleti

perché riferentesi a fonemi scomparsi, come 49, p (sul cui valore

fonemico, come si vedrà, sussistono dei dubbi), nonché la da sempre

superflua 5 [ANTONSEN 2002:102-103], escono definitivamente dal

fuþark; 6) i nomi delle rune cambiano conseguentemente ai mutamenti

interni della lingua, cosicché alcuni grafemi cambiano valore e altri

diventano inservibili (il legame acrofonico tra il nome e il valore

fonemico si deteriora) e scompaiono; 7) l’interazione dei fattori fin qui

enunciati produce, dal punto di vista meramente numerico, la riduzione

dell’inventario grafetico da 24 a 16 rune (fUqÄRk:hNiæC:tbmly10).

A tale elenco va aggiunto che l’esigenza di semplificazione che

governa la riforma causa la comparsa di una variante più semplificata,

quella delle rune a braccio corto (fUq»rk:eniAs:t›4l§11), e una più

semplificata ancora, quella delle rune senz’asta (ÏûÛÀÒ?ÈÎÌàs‡èËÉÊ12),

caratterizzate dalla riduzione o appunto dalla mancanza dell’asta e

quindi dall’esclusiva presenza dei bracci e degli occhielli.

6 Ovvero /æ/, /æ:/, /ø/, /ø:/, /y/, /y:/, /Nj/ e /Nj:/. Tra le nuove vocali, anche se non è prodotto

di metafonia, è da considerare la vocale nasale /ã/ (anche indicata come /ą/, successivamente

passa a [a:] e poi a [Ǥ:], e soppianta dunque /Nj:/ nel sistema). Per una periodicizzazione delle

fasi linguistiche dal nordico primitivo ai giorni nostri, e per le tavole dei sistemi vocalici e gli

effetti della metafonia nelle diverse fasi, vedi TORP, VIKØR [2003:32-41] e GRØNVIK [1987:167-

189]. 7 vedi nota 13. 8 u /u/, /u:/, /y/, /y:/, /o/, /o:/, /ø/, /ø:/; N /a/, /æ:/ (e /æ/), /Nj/ (e /Nj:/); i /i/, /i:/, /e/, /e:/;

Ä /ã/; inoltre, u /v/, e i /j/. 9 Dato il valore controverso talvolta attribuito ad alcune rune, ho scelto di non accompagnarne

nessuna con la traslitterazione, a patto che essa non sia strettamente necessaria (come nel

citare testi provenienti da iscrizioni, o quando mi riferisco ad arcigrafemi, ovvero a grafemi con

un alto numero di varianti, tale da renderne problematica la scelta: in questi casi la

traslitterazione appare in grassetto). Ogni simbolo runico, così come ogni altro appartenente ad

altri sistemi di scrittura diversi da quello latino (per il quale vengono usati i convenzionali <>), è

qui inteso sempre come grafema. 10 Standardizzazione composita, tratta da MACLEOD [2002:25]. 11 Standardizzazione basata sulla pietra di Rök [SR: Östergötland 136]. 12 Standardizzazione tratta da JANSSON [1987:28]

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Come risulta in parte evidente soprattutto dai punti 2) e 3), la

lingua delle iscrizioni runiche scandinave più antiche, il nordico

primitivo13, subisce profondi cambiamenti in un periodo di tempo

relativamente ristretto. Il problema della modificazione del fuþark in tale direzione, cioè della semplificazione assoluta ai limiti – se non oltre

- della funzionalità, quando invece l’inventario fonemico della lingua si

arricchisce considerevolmente, ha dato origine a vari tipi di teorie, le

quali costituiscono l’oggetto di questo saggio. La questione diventa

ancor più problematica se si considera che nello stesso periodo gli

Anglosassoni ampliano – e complicano – la loro serie runica, che arriva a

comprendere ben 31 segni (di cui 28 effettivamente utilizzati nelle

testimonianze epigrafiche), per rendere conto di mutamenti fonetici

analoghi a quelli avvenuti in Scandinavia. Le posizioni degli studiosi che

si sono pronunciati in merito sono state organizzate da BARNES

[1987:29] in cinque gruppi (ripresi solo con ordine leggermente diverso

da SPURKLAND [2001:91-2]); secondo tale raggruppamento, la riforma del

fuþark potrebbe essere attribuita a:

a) significati magico-esoterici legati al numero delle rune;

b) un periodo di isolamento culturale e di declino dell’arte

scrittoria in Scandinavia;

c) forme delle rune e praticità grafica;

d) problemi interni ai cambiamenti fonologici avvenuti nel

periodo della sincope;

e) cambiamenti concernenti i nomi delle rune.

MACLEOD [2002:121] aggiunge anche la possibilità di un’influenza

proveniente da altri sistemi di scrittura, e verrà anche discussa una

recente teoria da me definita ‘lessicologica’.

13 È qui in uso la seguente terminologia, conformemente a RAMAT [1988:248-251] e CAVAZZA

[2005:362-364]: il termine ‘nordico primitivo’ designa la lingua delle iscrizioni runiche più

antiche (fuþark a 24 segni), ed equivale sostanzialmente al termine ‘germanico settentrionale’

(più spesso però riferentesi al gruppo linguistico a prescindere dall’epoca); la fase linguistica

successiva prende invece il nome di ‘antico nordico’, ‘nordico arcaico’ o ‘norreno’. Tale

nomenclatura viene a volte a coincidere con le denominazioni ‘antico islandese’ e ‘antico

norvegese’, ovvero con ‘nordico occidentale’, rendendo spesso non chiaro se il termine includa

anche le varianti orientali, cioè l’antico svedese e l’antico danese, nonché il gutnico. In questo

saggio vengono usati i termini ‘nordico primitivo’ e ‘antico nordico’ (‘norreno’) in una accezione

inclusiva delle varianti orientali, corredata delle dovute specificazioni, qualora necessarie.

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La presente ricognizione delle teorie finora avanzate e qui sopra

catalogate non mancherà tuttavia di mettere prima di tutto in relazione

detta riforma con alcuni problemi che stanno, per così dire, a monte,

che concernono cioè questioni di tipo metodologico e la natura

dell’approccio al materiale runico qui discusso, nonché l’origine stessa

delle rune.

§2. Metodo§2. Metodo§2. Metodo§2. Metodo

La runologia è notoriamente fin dai suoi albori un territorio

multidisciplinare. Ciò comporta in primo luogo, oltre a punti di vista

divergenti, una pluralità di approcci talvolta radicalmente differenti in

quanto dettati da differenti contesti di studio. MARSTRANDER [1929:164]

definì la runologia come una combinazione di “paleografi, lingvistikk,

arkeologi og mytologi”; sebbene la componente magico-mitologica

rivesta un ruolo ben ridimensionato rispetto al passato, c’è un tacito

consenso sulla veridicità del complesso di tale considerazione. Ciò non

impedisce, tuttavia, che singoli runologi eleggano a fortiori una delle dette componenti disciplinari a parte privilegiata, talora per ragioni

soggettive di formazione accademica, talaltra per ragioni

oggettivamente argomentate. In particolare, è stata denunciata da

alcuni l’esigenza di norme positivistiche per la fondazione una

runologia più linguistica [WILLIAMS 1992, BARNES 1994, PETERSON 1995];

altri hanno sottolineato come linguistica e paleografia non possano

assolutamente essere considerate separatamente [ANTONSEN 2002:1-2],

mentre altri ancora hanno puntato ad un taglio storico-archeologico

[FISCHER 2005]. Chi ha optato per quest’ultima possibilità, ha

giustamente sottolineato l’importanza dello studio in situ delle

iscrizioni runiche – che poi significherebbe in museo nella maggior

parte dei casi.

La linea che si è scelto di adottare in questo saggio è quella

indiretta della rassegna delle posizioni di diversi studiosi su un

particolare problema runologico. Ciò significa che il materiale

runologico che interessa il problema della riforma scandinava del fuþark non occupa una posizione centrale. Una tale scelta di tale taglio

‘indiretto’, però, non è da considerarsi imparziale, in quanto si propone

di essere in primo luogo critica. Tuttavia, ritengo necessario ammettere

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8

che una critica completa delle posizioni così come è stata qui intrapresa

non è possibile senza un’approfondita analisi delle fonti primarie, alle

quali purtroppo non si è potuto dedicare molto spazio.

Un’altra importante considerazione che verrà ulteriormente

confermata nel presente elaborato è quella del primato, in linea con

ANTONSEN [2002:1-2], della paleografia e della linguistica viste come due

facies della stessa disciplina. La paleografia è infatti un prerequisito per la filologia, intesa come lo studio di testi nel loro contesto storico

(campo in cui storia e archeologia sono direttamente interessate), ma

non è prescindibile dalla conoscenza della lingua usata nelle

testimonianze paleografiche in questione. Esistono poche eccezioni a

questo modello fondamentale, ovvero casi in cui il paleografo deve

trasformarsi in crittografo [cfr. DÜWEL 2001:183-188], mentre il

contributo del linguista diventa poco o nullo (cfr. il pittogramma sulla

pietra di Kylver [KJ: Gotland 1]), ma la discussione di tali casi non è

particolarmente rilevante in questa sede.

Non sono tuttavia assolutamente d’accordo con FISCHER

[2005:48], il quale sostiene che alla runologia, essendo una disciplina

relativamente giovane, manca un metodo condiviso. Mentre da un lato,

infatti, le fondamenta di un metodo runologico [cfr. SPURKLAND 1987,

PETERSON 1995] mi sembrano più che condivise – ma, stando a BARNES

[1994], forse non sempre rispettate -, è d’altra parte chiaro che

l’adozione di un particolare tipo di approccio dipende in primo luogo

dal problema che si intende affrontare.

§§§§3333. Rune nate per . Rune nate per . Rune nate per . Rune nate per scomparirescomparirescomparirescomparire

È estremamente difficile trattare il problema dell’origine delle

rune, dato che finora è stata proposta una moltitudine di soluzioni

diverse, nessuna delle quali definitiva; tuttavia, è anche difficile

prescinderne, in un’analisi completa dei problemi relativi alla riforma

dell’Era Vichinga. Ci sono infatti alcune rune la cui scomparsa, nel

passaggio al fuþark scandinavo, è forse strettamente connessa al

problema della loro origine.

Dal punto 5) nel §1 si evince che il fuþark germanico conteneva

grafemi superflui, uno dei quali, 4, il cui valore è stato molto discusso

ma senza risultati ampliamente condivisi (particolarmente interessante è

Page 9: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

9

il valore /æ:/ [< IE */e:/] attribuitogli da ANTONSEN [2002: 103-5]), non

compare in nessuna iscrizione di senso compiuto, stando al corpus di iscrizioni runiche a disposizione. Perché mai dunque gli inventori delle

rune avrebbero concepito segni di cui ci si è poi dovuto sbarazzare

dopo secoli di disuso? Perché mai creare il segno p, che – come

suggerirebbe il suo nome ricostruito, *perþ(u) - veniva presumibilmente

usato solamente per i pochi prestiti di origine celtica, gli unici

abbastanza antichi da contenere /p/, dato che i più recenti prestiti latini

sono stati subito interessati dalla rotazione consonantica germanica? E

perché mai inventare un’apposita runa, 5, per il nesso – quale che fosse

- /ȃg/ o /ȃk/ (o /ȃ/?) , che c’è ragione di presumere non fosse un

fonema, se la corrispondenza grafofonematica era un principio così

importante come pare nel fuþark germanico, e se le nasali venivano di

norma omesse davanti alle occlusive?

Sembra ormai assodato che le rune siano state in qualche modo

derivate dall’alfabeto latino; ipotesi che suggeriscono altri alfabeti –

perlopiù greco e nord-etrusco14 – come fonte della derivazione sono

difese ormai da pochi studiosi. Tuttavia, tra coloro che propugnano

l’origine latina delle rune, rimangono ancora tutt’altro che chiare le

circostanze di tale derivazione, in particolare in relazione al fatto che,

sicuramente prima che venisse standardizzato in epoca augustea e

presumibilmente anche dopo, l’alfabeto latino circolava in una vasta

pluralità di forme in quanto veniva impiegato per documentare lingue

dall’inventario fonemico spesso notevolmente dissimile da quello del

latino. A questo proposito, l’alfabeto di origine latina usato in epigrafi

nella Gallia Narbonense15 a partire dalla conquista romana della regione

nel 121 a.n.e. rappresenta a mio avviso un esempio particolarmente

interessante di varietà non standard circolante in un terriorio limitrofo

all’area germanica continentale in un periodo compatibile alla supposta

derivazione. Tale alfabeto, basato appunto su quello latino, conserva

alcuni segni di chiara origine greca (l’alfabeto greco era in uso prima

della conquista romana nella zona di influenza greca attorno alla colonia di Massal…a [Marsiglia] e anche altrove tra élites religiose, come

testimonia Cesare: “[...] publicis privatisque rationibus graecis litteris 14 vedi nota 15. 15 Per un’esaustiva raccolta illustrata del materiale epigrafico gallico negli alfabeti latino, greco

ed etrusco, si veda LEJEUNE [1985] e [1988]. Per quanto riguarda le testimonianze epigrafiche del

leponzio e del venetico nell’alfabeto nord-etrusco/nord-italico/subalpino, si veda anche LEJEUNE

[1971] e [1974].

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10

utantur” [De bello gallico, VI 14]16), quali forse l’uso di X per indicare la

fricativa gutturale */gʫ/ che in PGmc è allofono di */g/, la sua versione

geminata XX che spiegherebbe l’origine della runa % (di cui 5 sarebbe la

versione semplificata, e quindi recenziore) in virtù dell’uso greco di

rendere il nesso /ȃg/ come <gg>, anzi ΓΓ [MARSTRANDER 1928:182] e

infine l’uso di o/Ω per /ō/. p potrebbe poi esser stato derivato per altre

vie da Π [ANTONSEN 2002:102], o da segni simili presenti in altri alfabeti

celto-latini [MARSTRANDER 1928:103], se <p> era già stato prescelto per

un fonema, /w/, ben più usato dai Germani di /p/. Ma ciò che risulta

particolarmente interessante è la presenza di ⋈, il tau gallicum,

probabilmente un’affricata o fricativa dentale ([ʤʤȅʤȅʤ]/[ȅʤ] < */ts/? [ESKA

1998:125]), espresso con Θ in epigrafi greche, che è a mio avviso il

candidato ideale per l’origine di d/D (sempre ipotizzando che per gli

inventori del fuþark gli allofoni fricativi delle plosive fossero in qualche modo – almeno in questa fase - più rilevanti dei corrispettivi

caratterizzati dal tratto [-sonoro], eccezion fatta – ahimé - per /b/).

Queste osservazioni e proposte risultano utili alla mia analisi

sulla riforma dell’Era Vichinga in quanto l’inutilizzo e/o le viste

peculiarità di molti dei grafemi sopra discussi potrebbero aver giocato

un ruolo determinante al momento dell’abbandono (giacché tutti quelli

sopra menzionati vengono eliminati alla fine del processo di riforma),

soprattutto nel caso di 5, la runa che mette in discussione il “så godt

som gjennomført én-til-én-forhold mellom lyd og tegn” del fuþark germanico [SPURKLAND 2001:90]; tale runa, come sicuramente p e per

certi versi d, potrebbe essere il segno di una tradizione grafica allogena

la cui memoria si è forse deteriorata col tempo, e che pertanto, come la

già nominata 4, aspettava da tempo di essere rimossa dalla serie runica,

e inaugurare così la riforma del fuþark, la cui esigenza poteva dunque essere in primo luogo espressa dalla sola presenza di questi tre segni

problematici.

§§§§4444.... Teorie ‘magiche’Teorie ‘magiche’Teorie ‘magiche’Teorie ‘magiche’

Numerosi indizi concernenti l’origine delle rune, il loro uso

documentato e la riforma dell’Era Vichinga corroborano la posizione –

oggi maggioritaria - di quei runologi (fra i quali BÆKSTED [1952], MOLTKE

16 Cfr. CARENA [1991] e EWAN [2002].

Page 11: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

11

[1985], MAKAEV [1996], MUSSET [1965], PAGE [1999]) che si sono espressi

contro una qualsivoglia valenza magico-religiosa della scrittura runica

in generale. I concetti del ‘magico’ e del ‘religioso’, tuttavia, sebbene si

riferiscano entrambi alla sfera del soprannaturale e vengano per questo

spesso confusi, sono e vanno tenuti distinti17. A questi due concetti si

aggiunge poi l’elemento mitologico, ovvero la presenza delle rune nella

letteratura eroico-mitologica, elemento che spesso viene fatto

interferire con gli àmbiti del religioso (o sacro) e del magico.

Il controverso passo denominato Rúnatal nel poema eddico

Hávamál (138-139)18 non dice che le rune erano sacre, almeno non più

di quanto la lira potesse essere considerata sacra dai greci in quanto

inventata dal dio olimpico Hermes. Ma se non è nemmeno chiaro se con

rúnar (138) si intenda la scrittura in senso stretto oppure la conoscenza [SPURKLAND 2001:24]19, è invece evidente che le due accezioni del

termine debbano essere in qualche modo relazionate. Se il bacino

d’origine delle rune è un insediamento di Galli parzialmente grecizzati e

romanizzati, allora da qui la radice celtica *run- può essere giunta ai Germani insieme all’alfabeto celto-latino e all’accezione ‘segreto,

informazione sussurrata’ (cf. airl. rún, agall. rhin ‘segreto’, DÜWEL

[2001:2]: “Möglicherweise wurde das germ. Wort dem Keltischen entlehnt”, e il gr. must»rion reso da Wulfila col got. runa). Ciò ben si

accorda con quanto afferma SPURKLAND [2001:22]: “de som ikke skjønte

hva dette dreide seg om, kunne hefte mystiske forestillinger ved dem

som skrev, eller ved produktet av denne aktiviteten”: infatti, sia Celti

che Germani illetterati avrebbero potuto condividere questo tipo di

approccio, e se in Gallia Narbonense era viva quella tradizione

secondaria che voleva Hermes inventore dell’alfabeto, l’interpretatio greco-romana lo avrebbe poi sostituito con il Lug celtico e poi con

l’Odino germanico [BREMMER 1991:415-419].

Riferimenti letterari come quelli sopra citati con il mondo mitico-

religioso dei Germani hanno indotto in passato numerosi runologi a

17 Cfr. “Man kan [...] gjerne argumentere for at runene hadde en magisk funksjon uten å kople

inn religionen, på samme måte som man kan tildele runene en kultisk funskjon uten dermed

også å implisere at de var magiske” [SPURKLAND 2001:23]. 18 Cfr. NECKEL & KUHN [1983: 40-44]. 19 “Som vi så innledningsvis, kan norrønt rúnar ha ulike betydninger; det trenger derfor ikke være skrifttegn det dreier seg om i denne linjen [...]. Når Odin således sier at han nam upp rúnar, kan det i denne sammenheng bety at han ervervet seg ’hemmelig kunnskap’, det vil si

visdom”.

Page 12: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

12

ritenere non solo che la scrittura runica fosse intesa primariamente per

scopi religiosi, o piuttosto magico-esoterici, più che come mezzo

commemorativo e/o di comunicazione, ma che le ragioni della riforma

dell’Era Vichinga fossero da ricercare nello stesso àmbito. Curiosamente

però, sebbene ci sia prova che alle rune non sia mai stato associato alcun valore numerico (a differenza degli alfabeti mediterranei – anche

se è interessante notare che l’alfabeto latino non ha avuto nulla a che

fare con i numeri se non da un’epoca relativamente tarda, mentre quello

celto-latino nominato sopra non fece forse in tempo poiché venne

presto abbandonato20), i sostenitori di teorie magico-esoteriche hanno

tentato di spiegare la riforma del fuþark scandinavo quasi unicamente

per mezzo di numerologia e gematria. L’idea di fondo è che nell’antica

serie runica i numeri 8 (divisore ora di 24, il numero delle rune nel

primo fuþark, e poi di 16 in quello scandinavo) e 3 (il numero degli ættir o ‘famiglie’ in entrambe le serie runiche) avessero una qualche non ben

specificata proprietà magico-esoterica, che si è dovuto mantenere

intatta anche dopo la riforma:

Forandringen blev den radikale at den nye alfabet basertes på antallet av

runer i to av den eldre rekkes tre ætter. [...] Reformen var, utvortes

betraktet, radikal, men der blev ikke rørt ved det som var livsnerven i den

gamle runeskrift: futharkens anvendelighet i magisk øiemed led intet

avbrekk, idet også i sin nye skikkelse [...] kom til å inneholde et multiplum

av 8 [OLSEN, SHETELIG 1933:85-6].

Lo stesso tipo di argomentazioni è stato ripreso da SKAUTRUP [1944:122]

a una decina d’anni di distanza da OLSEN e SHETELIG:

[...] futharken, ganske som den ældre, væsentlig har været beregnet for

magien [...]. Ændringen kan i al fald ikke være et spil af tilfældigheter. Otte

tegn går ud af brug, men det røres kun i ringe grad ved rækkefølgen og

opstillingen i ætter.

Se dunque è in primo luogo il mutamento linguistico a creare l’esigenza

della riforma del fuþark, per i sostenitori di tale teoria sarebbero state considerazioni di ordine magico-numerologico a dettarne le modalità.

20 Per una trattazione storica dei sistemi di notazione numerica, cfr. MENNINGER [1979].

Page 13: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

13

§§§§5555. . . . Teorie storiograficheTeorie storiograficheTeorie storiograficheTeorie storiografiche

Teorie come quelle ‘magiche’ sopra considerate, sebbene

fermamente criticate dalla maggior parte del mondo accademico

contemporaneo (cfr. §4), si distinguono per anteporre le viste

motivazioni ad altre – molto più condivise - di natura linguistica, che

pure costituiscono parte integrante del ragionamento. La teoria di Otto

VON FRIESEN [1918-19:20], invece, si colloca in una posizione del tutto

singolare, in quanto è l’unica che si basa esclusivamente su motivazioni

di natura storica, ignorando tutto quel che riguarda il cambiamento

linguistico e quanto ne consegue: “Dies kann nicht der Grund sein, daß

gewisse Zeichen, deren Laute sich immer noch in der Sprache unverändert fanden [enfasi mia, D.F.), ganz verschwanden wie die e-, o- und w-Runen”. Questa iniziale affermazione non corrisponde affatto ai

dati linguistici a disposizione, poiché non solo, per esempio, il fonema

/w/ o cade davanti a vocali posteriori o si consonantizza in /v/ in tutti

gli altri contesti (e quindi scompare dall’inventario fonemico), ma, in

molteplici contesti e per varie ragioni, l’altezza dellle vocali posteriori e

anteriori oscilla, sicché /e/, /i/ e /o/, /u/ vengono sovente confuse

(soprattutto in sillaba atona, dove sono spesso parte di morfemi,

mentre in sillaba tonica possono venire affette da metafonia [cfr. HREINN

BENEDIKTSSON 1965:29-30 e BARNES 1987:36]. Partendo da questa – errata

- considerazione, VON FRIESEN ritiene quindi che le ragioni della riforma

siano da ricercare in dati extralinguistici, ovvero in un supposto

isolamento culturale – in particolare dal mondo romano-cristiano - in

cui la Scandinavia sarebbe relegata dopo l’ascesa del regno franco:

“Während die Völkerwanderungszeit durch enge Beziehungen mit den

[sic!] übrigen germanischen und durch diese auch mit dem [sic!]

außergermanischen Welt gekennzeichnet wird, steht der Norden in den

letzten, der Wikingerzeit vorausgehenden Jahrhunderten kulturell

isoliert” [VON FRIESEN [1918-19:20].

Le motivazioni di tale convincimento, che comunque rimane

storicamente infondato [BARNES 1987:31; SPURKLAND 2006:33], appaiono

chiare una volta che questo supposto isolamento culturale dell’area

germanica settentrionale viene messo in relazione con quanto avviene

parallelamente nel mondo anglosassone: “Während in England die

einheimische Literatur sich auf die allgemein europäische geistige

Kultur stützen konnte, führte die Schriftkunst im Norden, einsam wie sie

Page 14: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

14

stand, ein dahinsiechendes Leben” [ibid.]. In area anglosassone, infatti, la totalità del materiale runico è virtualmente successiva alla

cristianizzazione [FELL 1994:119], e, come suggerisce PARSONS

[1999:92], “It appears to be possible that the reform [del fuþark anglosassone] belongs to the roman-literate Christian society

represented by the monasteries themselves”, e dunque che “the

dissemination of the runic standard could be closely paralleled to the

dissemination of roman-script literacy”. SPURKLAND [2006a:33] applica

queste medesime considerazioni all’area scandinava, concludendo che

“If the Anglo-Saxon reform was a result of close connections with

Roman script culture, then the development of the Scandinavian

younger fuþark should theoretically be due to distance or isolation from

the same literate Roman script culture”.

La posizione di VON FRIESEN non è però unicamente dettata dai

suddetti fattori storici, ma poggia fortemente su un giudizio personale,

ovvero che la riduzione scandinava non sia stata altro che una “reine

Entartung” [1918-19:20], unito al fatto che tale supposto isolamento

non abbia potuto che riflettersi in un periodo di declino culturale, e in

particolare di declino dell’arte scrittoria. Come ricorda BARNES [1987:37],

“the period in question is, after all, the dawn of the Viking Age”, ovvero

un’epoca che discutibilmente può essere considerata decadente. Del

resto sembra che VON FRIESEN stesso abbia successivamente cambiato

opinione: dieci anni dopo scriveva già che “Orsakerna till dessa radikala

förandringar äro säkert flera, viktigast har säkerligen [...] de språkliga

varit” [1928:22], e che “grunden till denna är i huvudsak de starka

förändringar som det urn.[ordiska] ljudbeståndet genomgått under

folkvandringstiden” [1933:145].

Per SPURKLAND [2006a:37] i dati storico-sociali devono

giustamente essere rianalizzati dopo VON FRIESEN; ciò produce

un’immagine non necessariamente negativa: “if the old elite should be

replaced by social newcomers, the cultural continuity might be broken;

the situation would lie open for cultural manifestations unconstrained

by tradition”.

Page 15: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

15

§§§§6666. . . . Teorie grafologicheTeorie grafologicheTeorie grafologicheTeorie grafologiche

Come si è visto nella sezione precedente, la mancanza di un filo

diretto con la cultura letteraria del Continente è un importante dato

storico che contribuisce ad arricchire il contesto in cui la riforma

avviene, forse fino a divenire uno dei fattori chiave che ha fatto sì che

questa prendesse la direzione dell’economia piuttosto che quella

anglosassone dell’arricchimento grafetico. Sia l’antico inglese che il

norreno sono il risultato di processi linguistici che hanno portato

all’introduzione di nuovi fonemi, che in area anglosassone si è scelto di

rappresentare grafeticamente in virtù della conoscenza dell’alfabeto

latino, ma che in Scandinavia si è scelto più economicamente di non rappresentare, contestualmente alla mancanza di detta conoscenza.

Una tale considerazione, tuttavia, non può essere in alcun modo

definitiva, specialmente alla luce di altri dati rilevanti. Tra questi merita

particolare attenzione il fatto che il fuþark scandinavo non è solo una forma di scrittura più economica dal punto di vista della corrispondenza

grafo-fonematica, ma anche da quello della complessità grafica. Già il

fuþark germanico era stato evidentemente concepito per rispondere a

specifici requisiti grafici, dettati in primo luogo dal supporto materiale

al quale la scrittura – o meglio, l’incisione – era inzialmente destinata,

cioè pietra, metallo, osso [cfr. DÜWEL 2001:4] (supporti lignei sono in

questo caso altamente problematici a causa della loro deperibilità, e

fino all’Era Vichinga inoltrata è impossibile presumere un loro uso

diffuso). Le unità grafiche basiche – asta, braccio e occhiello - che

caratterizzano dal punto di vista formale il fuþark germanico e lo

distinguono in maniera così peculiare da altri sistemi grafetici

rimangono non solo inalterate con la riforma, ma anzi si riconfermano

assi cardine del sistema. Il fuþark scandinavo esige però una

combinazione più economica dei detti elementi [§1], esigenza che si

sviluppa ulteriormente nelle varianti a braccio corto – in cui il numero

e/o la lunghezza dei bracci e degli occhielli viene ridotto – e senz’asta.

A ciò devono essere aggiunte due altri importanti peculiarità

dell’economia grafica della scrittura runica mantenutasi invariata con la

riforma, cioè la pratica delle legature [cfr. MACLEOD 2002] e

dell’omissione di diversi fonemi tra i quali le nasali davanti alle ostruenti

[cfr. WILLIAMS 1994].

Page 16: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

16

Dovrebbe essere dunque legittimo sostenere che - soprattutto

alla luce dell’assenza di contatti con un tipo di scrittura talvolta

antieconomica come quella latina in uso nel mondo anglosassone – un

sistema grafetico come quello runico tende all’economia e alla

semplificazione (grafica e non). ANDERSEN è lo studioso che più di tutti

ha cercato unicamente in detta possibilità le ragioni della riforma

scandinava, attribuendola esclusivamente al desiderio di semplificare il

sistema, o meglio “at lave en Datidens Stenografi” [1947:220]. Per

suffragare questa proposta, che rifiuta ogni qualsivoglia riferimento ai

cambiamenti fonologici che hanno interessato il passaggio dal nordico

primitivo all’antico nordico, ANDERSEN si appella appunto alle rune

senz’asta (chiamate da lui “Hälsinge-runer”), che massimamente

esprimerebbero detta esigenza. Applicando letteralmente le sue

considerazioni, tuttavia, si otterebbe una serie di 14 segni, in cui f e

altri segni complessi come Q e R non sono stati affatto semplificati,

mentre per le coppie /r/:/R/ e /a/:/ã/ dovrebbe esserci un unico

grafema, così come come è accaduto per /t/:/d/, /i/:/e/, ecc. ANDERSEN

stesso sembra stupito di fronte alle sue stesse conclusioni, e si trova

quasi costretto a concedere a teorie ‘magiche’ come quella di Olsen la

possibilità che i nomi di ąąąą, *ansuR > áss, e di tttt, *tiwaR > týr, abbiano potuto influire sulla scelta delle rune da mantenere e che inoltre si sia

dovuto estendere l’ipotetica serie di quattordici rune per raggiungere il

‘magico’ numero 16.

Un altro problema della posizione di Andersen è il fatto che la

‘praticità’ del sistema runico è ridotta esclusivamente all’aspetto

grafico, mentre dal punto di vista della corrispondenza grafofonematica

il sistema viene definito ‘difettoso’:

Ulemperne ved det nye System er store og lette at faa Øje paa; det blev

heller ikke brugt i saa lang Tid. Derimod er det meget vansekigt, for ikke at

sige umuligt, at finde dets Fordele” [218]; løsningen skal ikke søges paa en

lydelig, fonologisk Linie, men paa en skriveteknisk, praktisk – der for os er

upraktisk, som den ogsaa har været det for Samtiden, der relativt hurtigt

bødede paa det mangefulde System [223].

Page 17: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

17

§§§§7777. Funzione. Funzione. Funzione. Funzione

Una teoria grafologica che aspiri ad essere completa non può

non contestualizzare l’uso pratico della scrittura runica né non

considerare il tipo di supporto su cui essa si realizza. In altre parole:

qual è il fine delle iscrizioni runiche più antiche? Rimane invariato con la

riforma o evolve anch’esso? Che tipo di target presuppongono dette iscrizioni, se ne è previsto uno, e che tipo di supporto materiale esige

un tale tipo di comunicazione?

La critica più recente [LIESTØL 1971:75-76, SPURKLAND 2006a:41-

42] ha più volte sottolineato il fatto che se il fuþark scandinavo serviva ai suoi utenti come mezzo pratico di comunicazione, doveva ipso facto essere un buon sistema, altrimenti non ci sarebbe potuta essere

nessuna ragione valida per la sua adozione. La bontà di un sistema

grafetico, tuttavia, non è un concetto assoluto dipendente unicamente

dall’accuratezza della correlazione grafofonematica, come vorrebbero i

runologi ‘linguisti’, ma è in primo luogo direttamente dipendente

dall’uso che ne si fa.

La prima ben documentata funzione del fuþark germanico è

secondo alcuni mnemonica e commemorativa [FORSTER 1988] - forse

legata a particolari forme di religiosità -, non comunicativa. Essa si

realizza attraverso una sintassi inzialmente esclusivamente nominale,

secondo una successione cronologica del tipo: 1) antroponimo, p.es.

wagnijowagnijowagnijowagnijo (Illerup [DR: North Jutland 150]); 2) introduzione di pronomi

personali di prima persona (che forse presuppongono un verbo), p.es.

ekekekek unwodRunwodRunwodRunwodR (Gårdlösa [KJ: Skåne 12]). Antropologicamente, queste due

prime manifestazioni di letterarietà runica puntano probabilmente ad

attivare la presenza atemporale dell’antroponimo [FISCHER 2005:61].

Successivamente 3) gli antroponimi cominciano ad apparire con verbi, in

particolare *taujan e *talgian (‘fare’), p.es. bidawarijaR talgidaibidawarijaR talgidaibidawarijaR talgidaibidawarijaR talgidai21

(Nøvling [KJ: Nordjütland 13]), hagidaraR tawidehagidaraR tawidehagidaraR tawidehagidaraR tawide22 (Garbølle [KJ: Seeland

30]). Queste prime tre fasi riguardano esclusivamente oggetti personali,

mentre nei secc. IV e V, insieme alle pietre runiche e ai bratteati,

vengono introdotti a) una sintassi più complessa, del tipo SOV; b) in

Svezia e Norvegia il vocabolario runico si rilessifica, perdendo *taujan e gradualmente anche *wurkian, e introducendo nuovi termini analoghi

21 trad. ’Bidawarijar (Bidvar) fece (le rune)’. 22 trad. ‘Hagidarar (Hagråd) fece (le rune)’.

Page 18: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

18

come *faihian e *writan; c) la struttura ‘ek+nome’ diventa più frequente,

e viene spesso accompagnata da apposizioni del tipo erilaRerilaRerilaRerilaR (‘incisore di

rune’); d) nomi personali femminili vengono introdotti, p.e. ekekekek wagigaR wagigaR wagigaR wagigaR

irilaR irilaR irilaR irilaR aaaargilamundonrgilamundonrgilamundonrgilamundon23 (Rosseland [KJ: Hordaland 69]); e) il linguaggio

runico si fa più sofisticato: compaiono figure retoriche come

l’allitterazione (ek ek ek ek hhhhlewagastiR lewagastiR lewagastiR lewagastiR hhhholtijaR oltijaR oltijaR oltijaR hhhhorna tawidoorna tawidoorna tawidoorna tawido24, Gallehus [DR:

South Jutland 12 †]) e la metafora [FISCHER 2005:61].

La funzione originaria del fuþark, quindi, così come di altri

antichi sistemi grafetici, è quella di registrare la presenza di una

persona o un avvenimento, frequentemente un dono (‘X era qui’, ‘X fece

Y per Z’, ‘X eresse la pietra/incise le rune in memoria di Y’). Subito dopo

il periodo iniziale hanno luogo gli sconvolgimenti interni descritti nel

§1, con la conseguente drastica diminuzione di materiale runologico –

almeno per quanto riguarda i supporti ad alta durabilità come la pietra.

L’eccezione più significativa in questo periodo di relativo silenzio è la

pietra di Eggja [KJ: Sogn og Fjordane 101], che è un esempio – per

quanto emblematico dal punto di vista interpretativo e della datazione -

di iscrizione commemorativa, ma che per la prima volta presenta un

livello stilistico eccezionalmente alto.

L’unico indizio che potrebbe giustificare la posizione di chi

ritiene che, dall’invenzione del fuþark, non solo si è sempre scritto su

legno, la cui conservazione è legata a condizioni particolari, ma che ciò

implicasse un uso primariamente comunicativo delle rune, è forse la

forma delle rune stesse e dei loro costituenti fondamentali, che

sarebbero stati originariamente concepiti in tal modo per l’intaglio [PAGE

1988:6-8]. Così come questa posizione è, in mancanza di reperti

decisivi, impossibile da dimostrare, è altrettanto impossibile provare il

contrario: chi conosce un sistema di scrittura ha anche la facoltà di

usarlo su qualunque tipo di supporto (che si presti a detta pratica). È

tuttavia solo all’inizio del sec. VIII che si trovano in alcune aree le prime

testimonianze certe di rune su legno (Hedeby, Staraja Ladoga e forse

dalla biografia del missionario Ansgar [cfr. SPURKLAND 2006a:39-40]),

che testimonierebbero un uso generalizzato – almeno in queste aree -

della scrittura runica su tavolette di legno per scopi commerciali e di

comunicazione quotidiana. Se LIESTØL [1971:75-6] ha ragione ad

identificare un tale uso come primario nell’Era vichinga e se c’è ragione,

23 trad. ’Io, Wagigar, incisore di rune di Agilamunda’. 24 trad. ’Io, Hewagastir (Hlegestr, figlio) di Holt, feci il corno’.

Page 19: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

19

come sembra, di ritenere che le prime testimonianze del fuþark suggeriscano un uso molto diverso, allora la distanza tra i due fuþark non è solo formale, ma anche profondamente funzionale.

§§§§8888. Una teoria ‘lessicologica’. Una teoria ‘lessicologica’. Una teoria ‘lessicologica’. Una teoria ‘lessicologica’

Un’altra interessante teoria è quella di FISCHER [2005:63], alla

quale fin qui si è solo sporadicamente accennato, che definirei

‘lessicologica’: FISCHER ritiene che la pratica runografica sia nel periodo

di utilizzo del fuþark germanico monopolio di una ‘cleptocrazia’, ovvero

di una élite indigena che crea una forma di civiltà letteraria alternativa a

quella romana per reagire all’incombente avanzata di quest’ultima nella

Germania Libera25. Ciò viene fatto per mezzo della creazione di un

‘tecnoletto’ runico, che diventa sempre più complesso (cfr. §7) e che nel

corso del sec. V assume una forma statica, che in breve però non riesce

più a stare al passo dei rapidi e profondi cambiamenti fonologici della

lingua parlata. In pratica, se le mie deduzioni da FISCHER sono giuste, la

comparsa del fuþark scandinavo sarebbe paragonabile a quella dei volgari scritti nell’area romanza medievale: in un contesto in cui la

scrittura è monopolio di un’élite conservativa che a causa del

mutamento linguistico diacronico diventa presto alloglotta, la lingua

parlata evolve indipendentemente nel corso di molto tempo, finché il

legame di intelligibilità con quella scritta si spezza definitivamente e

avviene una rivoluzione. Secondo FISCHER, quindi, non sarebbero tanto i

cambiamenti fonologici che generano la necessità di una svolta, quanto

piuttosto il fatto che questi, uniti alla caduta di molte sillabe atone

(sincope/apocope), generano lessemi totalmente nuovi, forse addirittura

irriconoscibili rispetto a fasi linguistiche precedenti, il cui legame con il

conservativo gergo o “tecnoletto” runico arriva in breve tempo a

dissolversi.

25 Con Germania Libera si intende quella porzione di territorio etnicamente e linguisticamente

germanico posto oltre il limes germanicus, ma per costumi e cultura fortemente romanizzata.

Page 20: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

20

§§§§9999. Teorie fonologiche. Teorie fonologiche. Teorie fonologiche. Teorie fonologiche

Come si è visto nelle sezioni precedenti, i cambiamenti interni al

sistema fonetico che contraddistinguono il passaggio dal nordico

primitivo al norreno, fin qui solo accennati in più occasioni, figurano

come dato di fatto nella maggior parte delle posizioni qui presentate. In

questa sezione, tuttavia, verranno considerate le teorie che si basano

unicamente su dati linguistici.

Il primo a proporre una tesi puramente fonologica fu TRNKA

[1939], il quale, tuttavia, si occupò esclusivamente delle plosive. Lo

studioso praghese era convinto non solo della bontà del fuþark scandinavo come sistema grafetico, ma anche del fatto che il contesto

storico della riforma è quello di una Scandinavia che, al contrario

dell’area anglosassone, è immune dal pesante influsso della civiltà

letteraria latina: “The new alphabet is [...] a rudimentary solution of

spelling difficulties, arrived at without the help from Latin scribal

tradition” [293]. La riforma in sé sarebbe stata dettata in primo luogo da

una “new valuation and unconscious classification of phonemic

oppositions”, deducibile da una “phonemic analysis of consonantal correlations in North Germanic” [ibid.]. In realtà, non solo il vocalismo e

molti altri problemi fonologici sono esclusi da detta analisi, ma le

consonanti non sono neppure trattate esaustivamente, dato che, come

detto, il discorso è limitato alle plosive.

Il ragionamento ha inizio con una congettura al quale viene

attribuito il valore di verità, ovvero che il valore primario di B, d, e g

fosse inizialmente quello di fricative, che dopo le nasali assumevano il

valore allofonico di plosive. Quando poi il nesso /ng/ comincia a venire

scritto come <n+g> (Reistad [KJ: Vest-Agder 74]) invece che con

l’apposita runa 5, è possibile parlare di una nuova analisi fonemica,

sebbene le occlusive sonore non siano ancora state fonemizzate. Ciò

comporta che “the corresponding runes may have been [...] rather

associated with plosives than with spirants, because the transition of

initial voiced spirants into occlusives took place even in their names,

but [...] they continued to represent both variants of the phonemes /bʫ,

b/, /ð, d/, /gʫ, g/26 up to the latter part of the 8th century” [294].

26 Nel testo originale, TRNKA usa i simboli Š ñ ƚ , che io per esigenze di praticità e uniformità ho

volto in quelli tradizionalmente usati nel campo della linguistica germanica, che a loro volta

corrispondono ai segni IPA β ð dz.

Page 21: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

21

Neppure la successiva neutralizzazione della sonorità in fine di parola

riuscirebbe a modificare il rapporto tra questi suoni (f e B, per esempio,

vengono usate intercambiabilmente anche in caso di neutralizzazione);

nel sec. VIII, invece, avviene il mutamento che scardinerà questo

sistema, ovvero la sonorizzazione di /f/ e /þ/ in contesto sonoro

(mentre /h/ - [x]? – cade, viene assimilato o dissimilato), che porta alla

defonologizzazione della sonorità delle spiranti a beneficio della

fonologizzazione delle occlusive sonore. Ciò comporta “a great deal of

uncertainty in the use of runic letters”, sicché viene trovata la semplice

ma ingegnosa soluzione di ignorare graficamente la sonorità delle

occlusive, nonostante detta sonorità avesse chiaro valore fonemico;

l’impulso soggiacente a questa operazione può essere in primo luogo

stato dato dalla perdita dovuta al disuso di p [295-6].

La prima conclusione che si può trarre da quanto esposto da

TRNKA è, dunque, che la riforma del fuþark sia primariamente dovuta a

fattori legati a sole sei rune, il cui numero viene ridotto a tre. Detti

fattori determinano inoltre anche l’abbandono di 5 – che non è quindi

dovuto al suo inutilizzo -, mentre delle restanti rune, eccezion fatta per

h/h, non viene fatta menzione, nonostante il chiaro intento di fornire

una comprensiva spiegazione fonologica per la comparsa del fuþark scandinavo [293]. In secondo luogo, fondamentale è che i radicali

mutamenti fonologici del periodo della sincope abbiano creato una

situazione di generale incertezza riguardo alla scrittura di una lingua in

rapida e profonda evoluzione.

Secondo BARNES [1985:35] uno dei problemi più rilevanti delle

teorie fonologiche è rappresentato dal fatto che dette teorie

attribuirebbero agli utenti – o piuttosto ai riformatori, e agli inventori,

aggiungerei – della scrittura runica una tanto straordinaria quanto

improbabile capacità d’analisi fonemica. In pratica, il linguista che si

volesse avventurare in una conclusione del genere finirebbe

inevitabilmente per trasferire illegittimamente categorie e concetti

propri del pensiero linguistico moderno a persone alle quali

quest’ultimo non poteva che essere totalmente estraneo.

Un’affermazione di questo tipo, tuttavia, non è completamente

convincente, in quanto essa contiene implicazioni non irrilevanti; ne

conseguirebbe ad esempio che neppure gli inventori del fuþark potessero dimostrare una simile capacità di analisi, nonostante la

maggior parte degli studiosi sia concorde nel considerare il fuþark

Page 22: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

22

germanico un sistema pressoché perfetto nel rappresentare

graficamente la totalità dell’inventario fonemico.

Per contro, mi pare che ci siano argomenti a sufficienza per

poter affermare che il fuþark germanico, nonostante servisse

ottimamente al suo scopo, non era assolutamente caratterizzato da una

corrispondenza perfetta – o pressoché perfetta – tra fonema e grafema,

come è stato spesso sostenuto. Ciò si può dire parimenti del fuþark scandinavo, sebbene anch’esso servisse perfettamente al suo scopo

(altrimenti non sarebbe stato concepito né utilizzato così largamente),

così come altri sistemi di scrittura antichi e moderni. Ad esempio,

pochissimi sistemi grafetici impiegati per lingue caratterizzate da

opposizioni quantitative vocaliche e consonantiche distinguono tra

vocali e consonanti brevi e lunghe (geminate); detta caratteristica sarà

più tardi propria della notazione in alfabeto latino dell’antico nordico,

mentre è stata - a parte poche casi di geminazione consonantica -

sempre estranea alla scrittura runica, nonostante la quantità sia vocalica

che consonantica avesse sempre avuto valore fonemico sia nel nordico

primitivo che nell’antico nordico. A differenza delle moderne lingue

scandinave, infatti, caratterizzate dalla distribuzione complementare di

lunghezza vocalica e consonantica – una sillaba può essere cioè o del

tipo /VC:/ o /V:C/ – le sillabe antico-nordiche potevano presentarsi in

ben 4 combinazioni diverse, ovvero /VC/, /V:C/, /VC:/, /V:C:/ [TORP,

VIKØR 2003:52-53]. Ne consegue che se dovessimo scrivere la parola

‘pelle’ – skinskinskinskin - per mezzo del fuþark germanico, si otterrebbe la

sequenza grafetica skin, skin nel fuþark scandinavo, la quale potrebbe stare per 4 lessemi diversi, ovvero skin, skín, skinn, e skínn, ognuno di essi di significato diverso (rispettivamente ‘splendore’, 1a pers. pres.

sing. del verbo skína, ‘splendere’, ‘pelle’, 2a/3a pers. pres. sing. del

verbo skína). Un’ambiguità simile a quella generata dalla presenza

esclusiva di una singola sequenza grafetica polisemica è però

difficilmente immaginabile nella realtà, poiché il contesto contribuisce

prontamente a chiarificare l’essenziale resa grafica; detto ragionamento

può però essere applicato senza problemi anche ai casi di ambiguità

offerti dal graficamente più ‘povero’ fuþark scandinavo. Un altro aspetto importante in questo contesto è quello

dell’omissione delle nasali davanti alle occlusive [cfr. WILLIAMS 1994].

Neanche in questo caso è possibile stabilire se si tratti di mancata – o

errata – analisi fonemica, se cioè gli utenti della scrittura runica abbiano

Page 23: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

23

analizzato le nasali non come fonemi ma come tratto [+nasale] non

distintivo delle vocali precedenti, oppure se più comunemente si tratti

di un caso di economia grafica. Io propendo per la prima soluzione; il

fatto sarebbe da solo sufficiente per poter affermare che gli inventori e

utenti del fuþark erano sì in grado di eseguire un’analisi fonemica della

propria lingua e di concepire soluzioni grafiche di conseguenza, ma che

detta analisi non poteva assolutamente essere paragonabile a quella in

uso nella linguistica contemporanea. Ciò confermerebbe inoltre

l’assenza di una (pressoché) perfetta corrispondenza grafo-fonematica

del fuþark. Considerazioni del tutto simili si possono applicare al valore

distintivo dei due tonemi scandinavi, che però si manifestano piuttosto

tardi e solo in una piccola parte dell’area antico-nordica (odierne

Norvegia meridionale e Svezia, forse in origine anche in Danimarca,

dove al tonema 1 si sarebbe più tardi sostituito lo stød, ovvero [Ȥ]). A differenza delle altre dette caratteristiche, però, i tonemi non verranno

mai rappresentati graficamente, pur avendo valore distintivo, neppure

con l’introduzione dell’alfabeto latino.

Un discorso a parte invece merita un elemento spesso trascurato

da coloro che hanno proposto tesi di tipo fonologico: la metafonia.

L’assenza di una qualsivoglia notazione delle nuove vocali sorte

dall’esito della metafonia costituirebbe secondo alcuni una delle più

gravi mancanze delle rune riformate. Più recentemente è stato poi fatto

notare [HREINN BENEDIKTSSON 1965:29-30, BARNES 1985:36] come neppure

nei più antichi manoscritti islandesi compaiano vocali metafonizzate dal

chiaro status fonemico, ovvero che la pronuncia dette vocali potesse più

o meno facilmente essere desunta dal contesto. Ancora più

recentemente, però, SPURKLAND [2006b:334-335] ha riformulato l’intera

problematica della metafonia antico-nordica, in particolare per quanto

riguarda la supposta relazione di causalità con la sincope. Questa

relazione viene riformulata in termini cronologici, poiché, se non è

possibile esser certi del fatto che la caduta di vocali atone abbia causato

il ‘recupero’ della vocale mutante all’interno della sillaba radicale, è

invece possibile affermare che “since the umlauting vowel was often

syncopated, it goes without saying that the assimilation must have

taken place before the assimilating vowel disappeared”. In tal caso,

sarebbe più corretto definire la metafonia antico-nordica un caso di

epentesi, piuttosto che di assimilazione regressiva, il che significa che

Page 24: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

24

non ci sarebbe nessun bisogno di porre i fenomeni della metafonia e

sincope in relazione causale. A questo punto è possibile distinguere tra

due tipi diversi di metafonia, ovvero metafonia fonetica (in cui le vocali

metafonizzate hanno esclusivamente uno status allofonico: vedi i dialetti norvegesi che in passato presentavano un’armonia vocalica

generalizzata) e metafonia fonemica, solo l’ultimo dei quali avrebbe

veramente a che fare con la sincope. Servendosi del saggio di SCHULTE

Grundfragen der Umlautphonemisierung [1998], SPURKLAND [2006b:339] conclude poi che gli esiti della metafonia dovevano essere stati

fonemicizzati già all’epoca della pietra di Eggja:

If *hurna becomes horna as a result of regressive assimilation, and if the

root vowel [o] is a combinatory allophone of /u/ conditioned by the

unstressed –[a] in the following syllable, then this [o] should return /u/

with the syncope of [a]. Why is it not so? The answer must be that the

allophone had achieved a sort of independent status in relation to the

conditioning element – in our case the following unstressed vowel –

before it was syncopated.

Riuscire a stabilire lo status delle vocali metafonizzate in antico nordico

è dunque fondamentale per capire quanto la scrittura runica dell’Era

vichinga fosse realmente precisa. Stranamente, però, sembra che anche

alla luce di motivazioni e dimostrazioni così convincenti come quelle

appena viste si sia ancora lontani da una possibile soluzione del

problema: il fatto che il sistema linguistico avesse fonemizzato gli esiti

della metafonia non significa che i parlanti ne fossero consapevoli, né

che, ponendo che lo fossero, avessero necessità di esprimere detta

consapevolezza nello scritto, piuttosto che optare per soluzioni

graficamente più economiche.

§1§1§1§10000. Nomi delle rune. Nomi delle rune. Nomi delle rune. Nomi delle rune

L’ipotesi che la riforma scandinava del fuþark sia stata causata in primo luogo dalla rottura del legame acrofonico tra alcune rune e i loro

nomi è quella che finora ha avuto più successo tra i runologi [tra gli altri

LIESTØL 1981, BARNES 1985, SPURKLAND 2001]. La questione dei nomi delle

rune compare regolarmente nei saggi più recenti, anche laddove essa

non riveste una posizione centrale nell’argomentazione. Nello specifico,

però, essa si occupa dell’abbandono di poche rune soltanto, cioè di e, o

Page 25: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

25

e W, mentre a e j acquisirebbero per lo stesso motivo - la seconda sotto

altra forma - un nuovo valore fonemico. A causa dei mutamenti fonetici

del periodo precedente all’Era vichinga – ovvero frattura vocalica,

metafonia e caduta delle semiconsonanti davanti a vocali posteriori - i

nomi delle dette rune subiscono cioè una trasformazione tale che,

sebbene i fonemi (o forse allofoni) corrispondenti non siano per nulla

stati eliminati, non riuscirebbero più a suggerire il valore fonemico delle

rune alle quali da secoli erano associati:

e *ehwaR > *jōR > jór o *ōþila > *œðil W *wunju > *yn a *ansuR > *ąsR > *ąss > áss j *jāra > *āra > ár

A causa della sua applicabilità limitata a vocali e semiconsonanti,

questo tipo di argomentazione viene spesso o esteso a tutte le rune che

scompaiono o compaiono sotto forma diversa nel fuþark scandinavo, oppure usato come complemento all’argomentazione fonologica nella

forma in cui è stata formulata da TRNKA, circoscritta cioè alle ostruenti.

Ciò è dovuto al campo di applicazione relativamente ristretto delle due

teorie, che non si escludono necessariamente a vicenda. Ora, si

potrebbe dire che il discrimine tra questa argomentazione e quella

fonologica consista nello stabilire se detti mutamenti fonologici abbiano

potuto scatenare la riforma di per sé, oppure se ciò sia avvenuto

soltanto indirettamente, attraverso cioè la modificazione dei nomi delle

rune. Si tratta insomma di capire quanto detti nomi fossero importanti

per gli utenti della scrittura runica.

A causa di una forzata contaminazione con l’àmbito della magia

e dell’esoterismo, i nomi delle rune hanno ricoperto per lungo tempo un

ruolo non secondario in runologia. Le rune avrebbero cioè avuto,

secondo alcuni, una certa funzione magico-esoterica proprio in virtù del

del valore lessicale del nome, nonché del legame acrofonico tra nome e

runa. A questo proposito vengono spesso fatti paragoni con altri antichi

sistemi di scrittura. Alfabeti semitici come quello fenicio ed ebraico, che

si pongono all’origine degli alfabeti occidentali (greco, etrusco, latino e,

in ultima analisi, il fuþark), presentavano anch’essi nomi dotati di valore

lessicale, derivati probabilmente da nomi di costellazioni, le quali

Page 26: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

26

venivano riprodotte stilizzate nei grafemi stessi (p. es. eb. aleph ‘toro’ rappresenterebbe appunto la testa di un toro stilizzata, ovvero la

costellazione del toro), così come l’ordine delle costellazioni nello

zodiaco si rispecchiava nella disposizione delle lettere nell’alfabeto27.

Personalmente, ritengo stupefacente che in Grecia si siano conservati

fino ai giorni nostri nomi semitici che non hanno ivi mai avuto nessun

valore lessicale indipendente in lingua locale; più tardi, la nascita

dell’alfabeto latino da modelli greci ed etruschi ha infatti decretato la

scomparsa dall’Europa occidentale di grafemi dotati di nomi, almeno

fino alla nascita delle scritture ogamica e runica, che però si presentano

in un modo totalmente nuovo rispetto alla fenomenologia degli alfabeti

europei più antichi: mentre i Latini, ai quali detti nomi semitici dovevano

sembrare estranei e privi di significato reale, mantengono però l’ordine

originale dei grafemi con poche variazioni, Germani e Irlandesi

inventano nuovi nomi e una nuova successione. Se il problema

dell’origine dell’ordine delle rune nel fuþark è probabilmente di

impossibile soluzione, è invece verosimile che ad una società che da

uno stadio di assoluta oralità voglia passare tramite l’introduzione dalla

scrittura ad uno stadio letterario siano indispensabili strumenti

mnemonici come il principio acrofonico supposto per i nomi delle rune.

DÜWEL [2001:197] rientra tra quei pochi runologi che si

preoccupano di redarguire adeguatamente il lettore sulle perplessità

che sussistono nel campo della ricostruzione dei nomi delle rune:

Obwohl man durchweg annimmt, daß diese [i nomi delle rune] bereits in

die Zeit der Runenschöpfung zurückreichen, werden sie doch erst in ags.

und kontinentalen Handschriften seit dem 8. Jh. für die ae. Namen bzw.

seit dem 9. Jh. für die skand. Namen bezeugt. Infolge dieser späten,

teilweise im Verlauf immer neuer Abschriften verderbten Überlieferung

auf der Grundlage jüngerer, weiterentwickelter Runenreihen kann der

(ur)germ. Runenname oft nicht zweifelfrei für jede der 24 Runen

rekonstruiert werden.

Ciò significa che i nomi delle rune non compaiono in nessun testo

pagano, e, aggiungerei, per quanto riguarda l’area antico-nordica e

continentale, in nessun testo che si possa dire immune da

condizionamenti provenienti dall’esterno, in particolar modo dal mondo

27 Un’esposizione della ‘funzione calendariale’ degli alfabeti semitici è discussa in BAUSANI

[1979].

Page 27: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

27

anglosassone dei Runica Manuscripta. Non è detto, dunque, che detti nomi – o meglio la totalità di essi - siano patrimonio comune

germanico, né che, come voleva POLOMÉ [1991:434], siano “imbedded in

the German concepts about the world of the gods, nature and man”.

Quest’idea è strettamente legata alla dubbia credenza che le notae tacitiane consistessero di iscrizioni di singole rune usate

ideograficamente per la divinazione. Sull’uso divinatorio delle rune

sussistono per contro pochi dubbi, ma, come ricorda GRIFFITHS,

[2006:84]

in this respect there is no difference between runes and any other form of

notation. All Mediterranean alphabets also had on occasion divinatory and

magic application. As for Begriffsrunen the employment of runes to

represent concepts expressed by their names is clear from the

manuscript tradition, but evidence of such use outside manuscripts is

insubstantial and could be attributed to the incidental use of single runes

as abbreviations or even magical notae rather than a part of a recognised system of ideographs.

Il saggio di GRIFFITHS è estremamente interessante perché, oltre a tentare

la difficile impresa di mettere le rune in relazione con l’alfabeto

ogamico, difende l’altrettanto difficile e rara tesi secondo cui ricostruire

un elenco di nomi germanico-comuni sarebbe un’operazione illegittima.

La trattazione è assai complicata, ma altrettanto ben argomentata e in

larga parte assai convincente. Egli tenta di dimostrare come

praticamente tutti i nomi delle rune possano essere spiegati in termini

di nomi di lettere trovati in glosse a manoscritti irlandesi come

l’Auraicept na nÉces (sec. VII), un testo didattico sugli alfabeti ebraico, latino, greco e ogamico e in ultima analisi, che

neither rune-names nor ogam-names, as systematic sets of names,

predate the advent of a manuscript tradition brought by Christian

missionaries, first to Ireland and thence to Northumbria and the rest of

Anglo-Saxon England [...] and it is the Anglo-Saxon tradition that is then

reflected in the Abecedarium Nordmannicum (9th century) and the Old

Norse and Old Icelandic Rune Poems (13th and 15th? centuries,

respectively) [84].

Se GRIFFITHS ha ragione, tuttavia, allora inferenze del tipo a /a/ > /ą/

perché *ansuR > *ąss > áss e J (j) /j/ > /a:/ perché *jāra > *āra > ár , le quali sono difficilmente confutabili, non sarebbero completamente

Page 28: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

28

legittime, ma questi sarebbero comunque gli unici due casi di

inapplicabilità di questa ipotesi. Per quanto riguarda le Begriffsrunen, invece, una breve ma brillante appendice illustra come

any assumption of an early existence of rune-names rests on the inability

to understand a few sporadic single runes, which in fact need no

Begriffsrunen at all but could simply be abbreviations, or perhaps magic

endowed notae, or even runes cut at the idiosyncratic whim of a carver

[105].

Se le rune erano veramente dotate di nomi, quindi, dimostrare che

questi erano in origine unici e fissi non pare possibile, se non in due

soli casi. L’esistenza di nomi variabili, non pan-germanici non avrebbe

certo impedito ai neofiti di apprendere la scrittura: essi si potevano

avvalere del principio acrofonico utilizzando parimenti una moltitudine

di lessemi alternativi. Ma c’è un altro elemento che vorrei qui

sottolineare: il nuovo rapporto 2:1 tra fonemi e grafemi introdotto dalla

riforma neutralizza in quasi tutti i casi la possibilità di applicazione del

principio acrofonico in fase di alfabetizzazione runica. Se lo si vuole

mantenere come unico principio di cui le popolazioni scandinave si

potevano servire per ricordarsi i valori fonetici delle rune, allora è

necessario postulare almeno un rapporto 2:1 (n:1) tra nome e grafema.

Se k ha valore /k/ e /g/, non sarebbe stato possibile ricordarsi di

entrambi i valori servendosi soltanto del nome kaun. Il principio acrofonico doveva quindi essersi rivelato inutile, oppure doveva esser

stato completamente ripensato in funzione delle nuove 16 rune.

Il crittogramma sulla pietra di Rök [SR Östergötland 136] è stato

indicato da LIESTØL [1981:109] come la prova dell’esistenza,

dell’importanza e, non ultimo, della continuità dei nomi runici fin

nell’Era vichinga:

What we have to concede is that after the 16-rune fuþark was well

established in Scandinavia, a runecarver in Östergötland knew the old

runes and their values. His only means of recognizing these values was

the rune names. In addition to the 16 names of his younger fuþark, he

must have known the names of at least five of the additional runes of the

older alphabet. This means that the Rök carver knew at least 21 out of

the original 24 rune names.

Page 29: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

29

Questo tipo di ragionamento è privo nessi logici tra le sue componenti.

In primo luogo, non è assolutamente detto che i nomi delle rune fossero

l’unico mezzo in base al quale l’autore dell’iscrizione potesse essere a

conoscenza dei valori delle rune germaniche. La conoscenza delle

antiche rune avrebbe potuto esser stata tramandata nel tempo secondo

molte altre modalità, p. es. grazie alla lettura dei documenti runici

presenti sul territorio. Per chi conosceva già il fuþark scandinavo, non doveva essere difficile dedurre i valori delle rune germaniche dalla

lettura di un’iscrizione operata da un’altra persona. In secondo luogo, i

supposti nomi germanici che l’autore ‘doveva’ conoscere appartenevano

ad una lingua ben distinta da quella a lui familiare. Postulare la

conoscenza di detti nomi significherebbe anche includere quella di uno

stadio precedente della lingua vecchio di almeno due secoli e già molto

distante da quello del nono secolo. Se l’autore, come ho proposto,

conosceva parzialmente a memoria il contenuto di iscrizioni nordico-

primitive nel fuþark germanico alla lettura, allora come conseguenza di

detta deduzione avrebbe potuto applicare il rapporto di 2:1 proprio del

fuþark scandinavo anche alle rune della serie germanica: d : /t/, /d/ =

t : /t/, /d/. Questo potrebbe significare che l’autore della pietra di Rök

non fosse in realtà a conoscenza del tratto [+sonoro] di d, ma soltanto

del tratto [+dentale], e cioè che la sua scelta di invertire i valori non

fosse completamente cosciente, bensì dovuta alla confusione generata

dalla presenza di due grafemi, invece che uno, corrispondenti al tratto

[+dentale].

§1§1§1§11111. Moltke: influenze da altri alfabeti. Moltke: influenze da altri alfabeti. Moltke: influenze da altri alfabeti. Moltke: influenze da altri alfabeti

Stranamente, mentre la teoria dell’isolamento dell’area

scandinava in fase della riforma del fuþark ha ottenuto un discreto seguito, MOLTKE [1986:33] ha avanzato la tesi opposta, ovvero che la

riforma sia stata ispirata da alcuni elementi propri dell’alfabeto latino:

Udviklingen i runenavnenes udtale er omtalt. Og efter forbillede fra det

latinske alfabet afskaffede man w-runen, w, skønt dens form ikke stred

mod de ovenfor omtalte krav, og lod dens lyd udtrykke ved u-runen. Når

latinen kunne nøjes med eet bogstav for disse to lyd, kunne runealfabetet

også. Men det er mere påvirkning fra det latinske alfabet: Som w og u nu blev udtrykte alene af u-runen, således blev g og k udtrykt ved k-runene

Page 30: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

30

alene, i og j ved i-runen, þ og d (ð) ved þ-runen, o og u ved u-runen (der samtidig blev udtryk for w) – ng-runen var øverflødig, når man havde n +

g (desuden havde latinen intet bogstav for ng-runen) – og når man havde

en b-rune, der på samme måde kunne dække b- og p-lyd, var der

sandelig ingen grund til at kalde den forlængst af mode gåede p-rune til

live.

L’influsso dall’alfabeto latino sarebbe secondo MOLTKE “klokkeklar”;

francamente, semiconsonanti a parte, non vedo come ciò possa essere

possibile. La distribuzione delle vocali e consonanti in relazione ai

fonemi non può essere paragonata al rapporto (prossimo a) 1:1 del

latino classico. Interessante è invece la proposta della derivazione di h

dall’omografa runa anglosassone, che aveva nome ior; se da un lato un reale contatto con l’area anglosassone avrebbe poi comportato un

arricchimento del fuþark scandinavo, è pur vero che il fatto che le due serie runiche abbiano entrambe prodotto lo stesso segno partendo

dall’originario j è cosa insolita. /j/ era però reso nel fuþorc da L āēr, mentre h indicava un dittongo; se si fosse veramente voluto prendere in

prestito una runa che, come abbiamo visto, era tra le poche ad avere

indubbiamente un nome, *jāra/ár, si sarebbe forse preferito L.

Quest’ultima è caratterizzata da una leggermente maggiore complessità

grafica (due tratti in più di h, anche se più corti), ma la si sarebbe potuta

facilmente semplificare mantenendo l’occhiello sulla sinistra (ô) per

differenziarla da Q, sul modello delle speculari l e t.

§1§1§1§12222. . . . ConclusioniConclusioniConclusioniConclusioni

Il senso e l’opportunità di un paragrafo conclusivo non hanno

nel contesto del presente saggio altro ragione di essere, se non quella

di individuare quelle tendenze, talvolta innovatrici, che negli ultimi anni

si sono manifestate nel campo della runologia, in particolare riguardo al

problema della creazione del fuþark scandinavo. Come si era già

anticipato, non si è cioè tentato di dare un vero e proprio contributo alla

soluzione di detto problema, poiché questo avrebbe comportato un

esame delle fonti primarie che esulava dagli scopi di questo scritto. A

questa scelta si deve anche quella generale mancanza di organicità -

propria di uno stile descrittivo, ‘da antologia’, piuttosto che

dimostrativo - che sarà stata senza dubbio percepita alla lettura; questa

Page 31: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

31

sezione conclusiva è intesa proprio come tentativo di porvi rimedio,

laddove è possibile.

Da un esame contrastivo tra le varie teorie che hanno dominato

la scena runologica nel passato, ossia dalla nascita della disciplina fino

a non poco tempo fa, e quelle che sono apparse da una decina d’anni a

questa parte, emerge più o meno chiaramente che le varie tipologie di

argomentazione qui catalogate non si differenziano soltanto per

contenuto, ma anche per data di apparizione. C’è stato cioè un

avvicendamento di correnti di pensiero, che ha visto 1) la comparsa e il

dominio quasi esclusivo di teorie magico-esoterico-mitologiche; 2)

l’abbadono (talvolta parziale) delle stesse a vantaggio di considerazioni

d’ordine fonologico; 3) la comparsa di una corrente grafologico-

funzionale; 4) una quasi assoluta egemonia di teorie concernenti i nomi

delle rune, occasionalmente ‘ibridate’ da argomentazioni fonologiche;

5) la ripresa di vecchi spunti che, uniti a nuove ricerche sul contesto

storico, hanno contribuito alla creazione di teorie propriamente

storiografiche, che spesso però non possono costituire il nucleo

esclusivo dell’argomentazione; queste sono state poi 6) integrate da

una rinnovata attenzione per gli aspetti fonologici, affrontati però

questa volta diversamente che in passato. Nel frattempo sono poi

apparse altre novità difficilmente inquadrabili, come MOLTKE [1986].

In questa evoluzione critica ci sono elementi che sono stati

abbandonati, come la numerologia e la tesi di MOLTKE, caduta

praticamente nel vuoto, mentre altri sono stati in un primo momento

scartati – dal loro stesso autore, per giunta [cfr. §5]! – per poi essere più

tardi recuperati, rivisti e reintegrati nel dibattito. Il risultato è che gli

elementi dominanti al momento sono di ordine storiografico,

grafologico-funzionale e, seppur a mio vedere in misura leggermente

minore, fonologico; altri, come la questione dei nomi delle rune, pur

essendo ben presenti, vengono oggi messi in discussione con un’inedita

forza argomentativa, tale che la loro sopravvivenza nel futuro è cosa di

cui si può legittimamente dubitare. Il campo è aperto ed estremamente

ricettivo nei confronti di proposte completamente nuove.

Una svolta decisiva, forse epocale, si è avuta in seguito alla

pubblicazione di opere fondamentali incentrate sulle iscrizioni

transizionali, in particolare sulla pietra di Eggja [KJ: Sogn og Fjordane

101]. Quest’ultima è forse testimone di una cruciale verità: il fuþark germanico, che nella versione usata nell’iscrizione di Eggja presenta

Page 32: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

32

ancora pochissime variazioni (fuQaRKgW:hnihYS:tBemldo), poteva essere

egregiamente impiegato per scrivere l’antico nordico, giacché

l’evoluzione dal nordico primitivo è ivi ormai pressoché ultimata. Per

quanto, quindi, ci potesse essere una qualche generalizzata incertezza

riguardo alla scrittura di alcune vocali atone e poche altre consonanti, è

oggi più evidente che in passato che non ci si può basare su

argomentazioni di carattere esclusivamente fonologico, e che anzi

queste non possono che rivestire un ruolo circoscritto, cioè appunto alle

vocali atone e a poco altro. I contributi recentissimi di SPURKLAND [2006a]

e FISCHER [2006:63] vanno infatti in questa direzione, esplorano cioè la

possibilità che la riforma sia emersa da un periodo di profondo

rinnovamento socio-politico28, nel quale vengono altresì esplorati nuovi

àmbiti d’utilizzo della scrittura runica, come può essere quello del

commercio.

Se all’altrettanto recentissima tesi di GRIFFITHS [2006] sia

riservato un destino importante, è forse impossibile da prevedere; ciò

dipenderà da come la sua proposta [83] di riallacciare i contatti da

tempo recisi con il mondo della celtologia verrà accolta. L’ultimo – o il

primo, e quindi l’unico - grande runologo ad avere un’approfondita

competenza sia in runologia che in celtologia fu MARSTRANDER, che però

era anche un pioniere di una neonata disciplina, con tutti i limiti che ne

conseguono. Molte sue idee e proposte, infatti, sono state dopo di lui

giustamente criticate e abbandonate alla luce di nuovi risultati di una

ricerca in evoluzione; molte altre, invece, meritevoli di essere colte,

sono semplicemente cadute nel vuoto, nell’attesa che qualcuno di una

competenza e vastità di interessi paragonabile alla sua raccogliesse il

testimone. Forse GRIFFITHS ha fatto il primo passo in tale direzione, e ciò

lo ha dotato degli strumenti critici necessarî per poter attaccare

legittimamente un finora indiscusso assioma runologico. Un simile

contributo non avrebbe potuto provenire dall’interno (ovvero

dall’ambiente runologico ‘tradizionale’); poteva venire soltanto da un

innesto esogeno. Forse a questo ne seguiranno altri; tale è appunto

l’appello di GRIFFITHS [104].

28 In realtà FISCHER non avanza la stessa tesi di SPURKLAND [2006], ma è comunque convinto che la

scrittura runica fosse inizialmente monopolio di una piccola élite (“cleptocracy”), e che quindi la sua sorte dipendesse dai rapporti di potere presenti all’interno della società.

Page 33: DiegoFerioli_Considerazioni sul Fuþark scandinavo

33

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39

Diego Ferioli

CCCCONSIDERAZIONI ONSIDERAZIONI ONSIDERAZIONI ONSIDERAZIONI SSSSUL UL UL UL FUÞARKFUÞARKFUÞARKFUÞARK SSSSCACACACANDINAVONDINAVONDINAVONDINAVO ABSTRACT

Di una disciplina indipendente dedicata allo studio dell’antica scrittura germanica

(fuþark), la runologia, si è sentita l’esigenza – all’incirca un’ottantina di anni fa – perché diversi contesti disciplinari potessero convergere e contribuire più proficuamente alla

soluzione di alcuni problemi specifici. Su alcuni di questi, però, tante parole sono state

spese, senza che una particolare teoria o corrente si sia ancora imposta sulle altre. È

questo il caso delle dinamiche legate alla riforma scandinava dell’originario fuþark germanico, avvenuta appunto in Scandinavia in un periodo che va dal VI all’VIII secolo,

evidentemente governata da un principio di economia antitetico al considerevole

ampliamento – ma anche stravolgimento - fonetico che caratterizza il passaggio dal

nordico primitivo al norreno. Quest’ultimo passaggio, che pure non coincide

esattamente con l’abbandono del fuþark germanico a vantaggio di quello scandinavo,

vede infatti l’avvicendarsi di mutamenti radicali in un periodo di tempo relativamente

ristretto. Analoghi mutamenti, risultanti cioè in un’estensione dell’inventario fonemico,

hanno invece avuto in area anglosassone l’effetto opposto, ovvero un considerevole

ampliamento della serie runica locale. Nel tentativo di risolvere questo problema, sono

stati pubblicati un notevole numero di contributi, presentati e commentati in questo

saggio con lo scopo di individuare le linee guida della ricerca presente e passata, con

una particolare attenzione nei riguardi degli sviluppi che le più recenti teorie lasciano

presagire per l’immediato futuro. Le prime generazioni di runologi si sono infatti

occupate del problema utilizzando un obsoleto impianto critico, basato su

considerazioni di tipo magico-numerologico in séguito totalmente rigettate; allo stesso

tempo, il problema è stato affrontato da esponenti di una fonologia in rapida ascesa, i

quali a differenza dei primi hanno però lasciato un segno importante nella critica

successiva. Il periodo appena conclusosi – dal presente risalendo per gli ultimi 20-30

anni – ha visto poi una netta dominanza di teorie incentrate sul ruolo dei nomi delle rune

e del principio acrofonico, ’dogma’ runologico che viene oggi messo inaspettatamente in

discussione da uno studioso che fa riferimento ad una nuova linea di ricerca volta ad una

maggiore interdisciplinarietà. Data la portata di questo e altri recentissimi contributi, si

può legittimamente presumere che il discorso sia tutt’altro che esaurito, e che possa

anzi riservare nel futuro prossimo ulteriori sorprese man mano che inesplorate aree

d’indagine cominciano a fornire nuovi dati interessanti.