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Diario di Viaggio nel Sahara AlgerinoIn tenda per vivere con i Touareg le emozioni del deserto

Organizzare una vacanza tra sabbie rosse e graffiti rupestri, per di più, sistemata in un campo tendato nel Sahara, mi aveva provocato, all’inizio, una certa esitazione, una timida preoccupazione che ben presto è scomparsa, quando è arrivato il serio momento della decisione finale: andare o non andare?

È prevalso, com’era ovvio, il mio spirito innato d’avventura, avrei affrontato una vacanza in tenda per vivere con i Touareg le emozioni del deserto, per ritrovare, nel confronto con la natura selvaggia e una cultura primordiale, l’essenza più autentica di un viaggio!

Diario di Viaggio nel Sahara AlgerinoIn renda per vivere con i Touareg le emozioni del deserto

Dopo un breve volo sono arrivata, con un esiguo gruppo di tre persone, ad Algeri, la città mediterranea che non mi ha subito destato particolare entusiasmo, perché le vie, le piazze, i casermoni moderni, persino i patii degli antichi palazzi, tutto avrebbe potuto essere legato ad una qualsiasi città del nostro sud… nulla di particolarmente significativo se non forse una pittoresca posizione ad anfiteatro sul mare.


Cercando poi di inquadrare un qualsiasi scorcio dall’alto, mi sono ritrovata davanti ad una serie di case anonime, abbellite solo dalla presenza del mare.


Paradossalmente, pur essendo in un paese musulmano, la guida ci ha portato a vedere l'imponente chiesa cattolica di Notre Dame d'Afrique, un cattivo ma abbastanza suggestivo esempio di ricostruzione bizantina situata in una bella posizione dominante il mare.


Dalla bella Piazza dei Martiri che risaliva al 1830, ricavata purtroppo abbattendo vecchi palazzi, ci siamo addentrati nella Kasbah, il cuore di Algeri, caotica e disordinata, che mi ha riconciliato immediatamente con le tipiche atmosfere di altre città arabe.


All'interno della Kasbah ho visitato la ricostruzione fedele di un antico palazzo nobiliare, “Le Palais de Rais” sontuoso, raffinato e pittoresco


Altri aspetti che mi hanno interessato sono stati i luoghi legati alla visita delle Moschee, quella di Bitchim, prima sconsacrata e poi ripristinata al culto, e la Grande Moschea di Djema al Khebir, che risaliva all’XI secolo, tutte costruzioni immerse e quasi sopraffatte dall’atmosfera della Kasbah.


Ma non era questa città la vera meta della mia vacanza, infatti il mattino successivo, dopo quattro estenuanti ore di attesa in aeroporto , io ed il mio piccolo gruppetto siamo riusciti ad imbarcarci e ad arrivare, di sera, al villaggio-oasi di Djanet, nel profondo sud algerino, un luogo incredibile già inserito nel “quasi-deserto”.


E da questo momento è iniziata l’avventura vera e propria, insieme ad un’emozione forte e intensa, per cui, carica di entusiasmo e di aspettativa, dopo un salutare riposo, di buon mattino, sotto un caldo sole che riscaldava i cuori, sono salita in jeep e via, verso il lontano campo tendato di Amanar.


Il tragitto non è stato dei più semplici, ci aspettavano infatti circa sei ore di viaggio attraverso un territorio di deserto roccioso. Ci guidava la proprietaria del campo tendato e il Touareg Absi.


Affascinata da quel selvaggio paesaggio, con il viso proteso a prendere l’aria dal finestrino della jeep, ho iniziato a volare con il pensiero e sentivo, man mano, nascere e consolidarsi nell’animo una sorta di profondo piacere, di soddisfazione… guardavo affascinata l’estensione che mi circondava, un paesaggio ancora indeciso, ancora con qualche capanna sparsa qua e là, ma ben presto saremmo stati tutti avvolti dallo spazio infinito, dal deserto…


Ma come potevamo definire il deserto? La guida cercava di spiegarcelo leggendo alcune notizie e arricchendole di sue considerazioni: il deserto, diceva, era nominato in ogni lingua e cultura.. la nostra parola “deserto” significava letteralmente l’assenza di punti di connessione (sèrere) quindi era il vuoto.

Il nome Sahara poi conteneva invece una radice che indicava “fulvo” “rosso” “bruno”, quindi evocava un insieme di colori. Il deserto era anche, per alcuni, metafora della vita… un infinito rincorrersi di sabbia, ciottoli, polvere e pietre, un oceano in perenne movimento, un arcipelago di nude colline e soprattutto, questo lo stavo sperimentando in prima persona, durante le soste, il regno del vento.

Dalla jeep osservavo dunque il mutare continuo delle immagini: rocce e sabbia, alte dune e distese aperte, massicci neri che sbarravano quasi l’orizzonte.


Durante una sosta Absi, il nostro simpatico e silenzioso Touareg ci ha mostrato, in quella landa sconfinata, l’Albero di Giuda, con i suoi frutti invitanti, ma velenosi.. che potevano portare anche alla cecità.


Ad un certo punto sono cominciate ad apparire le prime dune ed allora abbiamo tutti voluto assaporare l’emozione di mettere la mano tra quei rossi granelli di sabbia… ed io seduta, insieme ad Absi, come una beduina del deserto, ho assaporato tutto il piacere di quella magica atmosfera, ho avvertito il silenzioso sibilo del vento e l’emozione del camminare nella sabbia che scricchiolava sotto i miei piedi e scintillava, brillava nella luce cruda dei raggi del sole.


La nostra jeep seguiva una pista di sabbia persa tra le dune ed io non mi capacitavo di come, ci si potesse orientare, senza alcun punto di riferimento visibile…


...eppure procedevamo sicuri e ben presto abbiamo raggiunto la zona del Tradart Acacus, l’altopiano che aveva la stessa conformazione geologica dei Tassili, i monti vicini al nostro campo tendato.


Le rocce, tagliate a picco, spuntavano dalla sabbia rosata, formando addirittura delle rozze figure di pietra scolpite dal vento, smerigliate dalla stessa sabbia che levigava, torniva, consumava. Era uno spettacolo veramente emozionante, non mi stancavo di ripeterlo a me stessa, e la nostra jeep avanzava, un po’ traballante, in quello scenario magico.


Dopo ben sei ore di sobbalzi siamo finalmente arrivati alla meta, all’Amanar Tadrart Camp a Tin Merzougà, a quella che sarebbe stata la nostra dimora per un po’ di giorni. Devo dire che la prima impressione provata quando, scesa dalla jeep, mi sono guardata intorno, è stata quella di essere dispersa in un luogo certamente suggestivo, fantastico, ma di essere anche un puntino impercettibile, fragile ed indifeso nel nulla di quel deserto!


Il giorno dopo, in jeep, abbiamo ispezionato l’Uadi d’Ajjer e siamo arrivati, dal campo, a vedere in lontananza una Guelta, cioè una specie di paleo lago asciutto, quasi pietrificato che si riempiva ancora d’acqua solo nella stagione delle piogge.. tutto il paesaggio, intorno a me, appariva sempre più alieno, lunare, impensabile e non di rado mi perdevo affascinata a guardarlo, cercando di imprimerlo nella memoria.


Devo dire che ben presto mi sono ben adattata alla vita del campo.. la tenda ormai era diventata il mio rifugio, il mio nido.. di giorno tutto appariva stupendo, ma spesso la sera, seduta attorno al fuoco, sprofondata in quel totale selvaggio naturale, lontana da tutto e da tutti, senza luce e con poca acqua a disposizione, mi sentivo un poco disorientata, ma ho sempre cercato con stoicismo di adeguarmi alle difficoltà perché… il mattino, al risveglio, guardando quel paradiso, avevo già dimenticato tutto!


Ricordo appunto le bellissime sensazioni di quando uscivo dalla tenda ancora un po’ assonnata… allora volgevo lo sguardo sia alle dune che combattevano con le rocce per affermarsi, sia al cielo azzurro senza una nube, e sentivo sulla pelle un leggero fresco rivitalizzante… erano momenti magici, unici!


E poi via… in perlustrazione della zona.. nel silenzio totale che ci circondava.. se non quello del motore della nostra jeep che avremmo voluto cancellare…


Eppure anche il silenzio del deserto, in fondo aveva una sua voce, quello dello spazio sconfinato, della dura vita dei nomadi… per questo, durante piccole soste di “meditazione” il nostro amico touareg Absi ci parlava spesso del suo mondo.

Un giorno ci ha anche letto un bel passo di M. Dayak, un poeta touareg che mi è sembrato bello trascrivere perché esprimeva impressioni che abbiamo provato tutti:

“ Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, strappavo ad uno ad uno i suoi segreti al deserto. Potevo rimanere una giornata intera davanti ad una duna e mai assistere allo stesso spettacolo. Nel corso delle ore essa si muoveva, si rivestiva di colori diversi. Davanti a questo groviglio di sabbia e vento, la vita assumeva tutta un’altra dimensione. Il mio corpo non esisteva più, la mia carne era in pace con la mia anima. Vivevo il Sacro!”

Come erano vere quelle parole! Ricordo anche di aver letto, altre belle considerazioni in un libro di Romano Battaglia che diceva: “ Sotto la sabbia è sepolto il mistero della vita, fra le dune c’è il canto dell’universo e.. chi non sa ascoltare, chi non sa immaginare è lontano dalla verità!”


Non so se io ero in grado di percepire il “sacro” in quel modo profondo, so però che in quella regione sperduta del Tadrart, con la sua sequenza di dune rosse che si perdevano all’infinito, con i suoi sinuosi profili, evidenziati dalla luce accecante del sole, che creava un suggestivo contrasto con le rocce emergenti dell’Acacus.. mi era impossibile rimanere insensibile, tale era la spiritualità dello spettacolo.


Un giorno siamo anche andati a ricercare, tra le rocce, le rose del deserto.. erano belle composizioni di cristalli, gesso e arenaria che impastandosi con la falda freatica, creavano delle vere e proprie sculture a forma di rose sbocciate sotto il sole cocente del Sahara.

In genere avevano vari colori, ma noi le abbiamo trovate rosate, del colore della sabbia, ma non le abbiamo “colte”… si sarebbero rovinate durante i tragitti e gli scossoni… ho letto invece di una leggenda legata alla formazione di questi fiori naturali.

Narrava di una bambina che si era persa durante una traversata e non era stata più ritrovata dai genitori nonostante l’avessero ricercata a lungo. Nel punto in cui era scomparsa, si erano però formate con il tempo, tante rose del deserto, tanto bello da dare vita ad un giardino nella solitudine e tutti coloro che si trovavano a passare di lì e conoscevano la triste storia, si inginocchiavano, pregavano e ricordavano la bambina scomparsa.


Abbiamo anche ricercato, sempre tra le rocce, i graffiti, le pitture rupestri e le varie incisioni del periodo neolitico. Sulle pareti rocciose o nei ricoveri naturali, riparati da vento e pioggia, ho visto rappresentate delle meraviglie artistiche: mandrie di buoi, giraffe esili e scattanti, cacciatori con lance e pastori, antilopi, enigmatici personaggi evocati con una simbologia spesso oscura… momenti di vita quotidiana che si era consumata nell’arco di millenni.


Quelle pitture rupestri, disegnate con tratti precisi, sintetici, incredibilmente moderni per essere neolitici, mi hanno fatto pensare agli antichi abitatori del luogo, a quelle persone così lontane da noi che però avevano vissuto le nostre stesse emozioni.


Essi avevano dipinto con il cuore, non avevano certamente frequentato scuole d’arte, eppure, con un’intuizione naturale, avevano trasportato nel disegno ciò che aveva stimolato la loro fantasia, e proprio quei disegni erano pervenuti a noi, resistendo al tempo, portandoci in mondi mai visitati e avvolti, ancora, da un alone di mistero.

Erano sopravvissuti forse per la loro composizione… ci hanno spiegato infatti che, non avendo altro a disposizione, i pittori del neolitico scioglievano nel latte di capra le terre colorate e proprio il latte di capra è sempre stato un potente fissatore, ricco di caseina, usato tuttora nel campo delle belle arti.

Descrivendo le figure tracciate e rispecchianti un mondo lontano, la nostra guida Absi, dato che noi non volevamo allontanarci, ci ha tranquillizzato: ne avremmo ammirate ancora tante, in altri luoghi, su altre rocce, i Monti Tassili erano un vero e proprio museo all’aperto!


Ci siamo allora spinti più lontano nella zona di Tin Merzougà, con il suo mare di sabbia che si era aperto all’improvviso davanti ai nostri occhi, con un effetto teatrale degno del più raffinato scenografo.


Abbiamo attraversato una zona caratterizzata da curiose formazioni di arenaria, impensabili in un deserto: torrioni erosi, guglie, archi che offrivano un riparo ombreggiato e fresco.. un mondo incantato e pietrificato!


E pensare che un tempo, lì c’era vita… abbiamo poi, proseguito a piedi, tra le rocce, alla scoperta di altre incisioni rupestri, e ogni tanto, in un anfratto dimenticato, ne avvistavamo qualcuna, ma non erano solo disegni, erano vere opere d’arte che contenevano i sogni e le speranze di un’umanità vissuta migliaia di anni fa.


Andare alla ricerca di pitture rupestri era anche un modo piacevole per abbandonare la jeep e camminare tra le rocce, magari scalandone qualcuna e allora dall’alto di qualche sperone roccioso, il deserto appariva quello della mia immaginazione, un’esperienza, nonostante i disagi e le difficoltà, indimenticabile. Ovunque scorgevo faraglioni di arenaria, conche, castelli di roccia e massicci montuosi che si ergevano solitari, simili ad isole in quel mare di sabbia. Devo dire che mi stavo rendendo conto che ogni giorno trascorso alla scoperta del Sahara, tra guglie che foravano il manto giallo della sabbia e sembravano quasi schizzi geologici, era diverso ed unico.


Ogni tanto veniva spontaneo domandarmi che cosa preferissi, il deserto di dune o quello dominato da imponenti rocce.. Non c’era risposta al dilemma, tutto risultava stupendo!


Quando poi siamo arrivati alla zona di Milinaga, negli Alti Tassili, penso proprio di aver toccato il cielo con un dito: qui abbiamo visto imponenti cattedrali di roccia in un’atmosfera di solitudine infinita, quasi stregata. La suggestione del paesaggio ci stava prendendo con i suoi colori, luci e contrasti, ed io, ancora oggi, non trovo le parole per descriverli.


Il paesaggio nudo, spigoloso, difficile del Monti Tassili mi è apparso in tutta la sua magnificenza… la natura era riuscita addirittura a creare monumenti strani, avveniristici e surreali.

La roccia aveva vinto decisamente sulla sabbia! Quei monti erano, come ci hanno spiegato sempre le guide, i relitti orografici di un vastissimo altopiano, erano le sue ultime propaggini, rocce particolarissime.


I Touareg le avevano anche battezzato con nomi strani, come “il fantasma dell’opera” o “il porcospino” o ancora “il castello”…


Rimontati in jeep siamo arrivati ad un altro paleo-lago, ormai asciutto, solitario, attorniato da speroni di roccia, simili a guardiani fedeli che quasi si specchiavano in quelle che un tempo erano state acque.. mi sembrava quasi di avvertire il rimpianto di un fertile e ricco passato. Il lago era morto di stenti, ma attendeva paziente la sua rinascita, con una benefica pioggia.


E ancora.. pitture e sculture rupestri abbandonate su rocce isolate che ci raccontavano, attraverso le immagini, storie della vita di un popolo…


Ci siamo spinti nella favolosa falesia del Tadrart Acacus, il bellissimo altopiano concentrico che faceva corona ai Tassili. Qui le rocce, di un colore rosso intenso, erano talmente e imponenti da incuterci un senso di timore.


Avevo sentito parlare molto di questi luoghi, avevo visto documentari, ma Tin Merzougà è stato qualcosa di assolutamente inaspettato: i colori caldi, il silenzio, l’assoluto davanti a noi, le rocce alte e imponenti che ci sovrastavano facendoci sentire esseri fragili e inconsistenti…


Battaglia ha scritto: “Ci sono giorni in cui il deserto tace. Ci sono giorni in cui parla. Bisogna stare in ascolto in tutti e due i giorni per capire la verità del deserto!”


Spesso, durante le nostre escursioni, ci fermavamo o in una grotta, o in qualche angolo al riparo dal sole, qui ci accampavamo per un frugale picnic a base sempre di verdure miste


Alla fine, Absi si incaricava del rito elaborato del The.. “Se ne devono bere sempre tre bicchierini” ci diceva “il primo forte, il secondo delicato, il terzo dolcissimo” e così facevamo.


Poi dopo un piccolo relax, stesi su tappeti a contemplare il cielo e le rocce, riprendevamo il cammino verso paesaggi sempre nuovi, verso le dune vere e proprie...


...o meglio verso l’Erg algerino che era poi un insieme di grandi cumuli di sabbia, vere catene di dune che potevano raggiungere altezze considerevoli di 200/300 metri e svilupparsi per centinai e centinaia di Km. L’Erg comunque rappresentava l’ultimo stadio di disgregazione eolica dei materiali litici che componevano il territorio di quel luogo!


Ogni tanto tra le dune compariva una Guelda che, con la sua colorazione biancastra, creava una nota di colore tra il giallo ocra della sabbia. Non vedevamo piste visibili, eppure il nostro Touareg ci conduceva sempre dove sapeva che c’erano punti paesaggistici particolari… noi ci lasciavamo condurre, gustando quel senso di libertà assoluta che solo la grande estensione del deserto poteva dare..


Di giorno eravamo dunque in continua perlustrazione, alla scoperta di paesaggi, di luce, di emozioni.


La sera nel nostro campo tendato, illuminato solo dalla luce della luna piena, mangiavamo sdraiati su tappeti, come i beduini del deserto, perfettamente in sintonia con l’ambiente che ci circondava.


Qualche sera, ci facevano visita nomadi Touareg di passaggio, e allora c’era più movimento a cena, si chiacchierava, si rideva, si fotografava.. ci sentivamo i padroni di casa incaricati di offrire ospitalità ai nuovi arrivati!


E intanto i giorni trascorrevano uguali e diversi, troppo velocemente, tanto che quando è arrivato il momento di ritornare a Djanet.. abbiamo cominciato a desiderare che il tempo non fosse passato così velocemente.


È stato con malinconia che abbiamo lasciato il campo, la tenda, gli spuntoni di roccia che eravamo abituati a vedere ogni mattina al risveglio.. ma ogni cosa bella finisce per cui, lasciato Tin Merzougà, siamo saliti in jeep ed abbiamo affrontato il percorso di sei ore verso l’oasi di Djanet. Come è stato diverso il viaggio di ritorno rispetto a quello di andata!


Eppure quelle che dovevano essere sei ore faticose di “dejà vu”, si sono rivelate ricche di nuove, piacevoli scoperte. Mentre un vento forte ed intenso si mescolava con la sabbia, ci siamo fermati una prima volta per vedere altri significativi graffiti


...e poi altre volte per salutare dei nomadi Touareg con i loro Dromedari al seguito...


...poi abbiamo guardato per l’ultima volta le propaggini del deserto, sempre con un pizzico di nostalgia e siamo arrivati, un po’ stravolti, a Djanet.


Quella cittadina, a 1094 metri di altitudine, era inserita nella più grande oasi del sud-est algerino, si estendeva ai piedi della scarpata rocciosa dei Tassili, dalla quale sgorgavano immense sorgenti che raccoglievano l’acqua dell’altopiano e alimentavano l’irrigazione dell’oasi.


L’insediamento era, in fondo, un “villaggio fortificato” (in arabo Ksur), costruito sulla sommità di un colle con le case addossate in modo da formare un unico blocco edilizio facilmente difendibile. Quella cittadina, un tempo, era un ricco centro di traffico carovaniero, ora era rimasta solo un angolo sperduto nel Sahara, ma ricco ugualmente di fascino e di suggestione.


Prima di arrivare in aeroporto ed imbarcarci per Algeri e poi per l’Italia, abbiamo fatto, a pochi km da Djanet, una sosta d’obbligo al bellissimo capolavoro rupestre della “Vacca che piange” nel bel mezzo del letto sabbioso dell’Uadi Edjerian.


L’artista preistorico aveva raffigurato alcuni bovini assetati, tesi verso una pozza d’acqua immaginaria, elemento tanto necessario per la loro sopravvivenza. Il disegno mi è apparso estremamente realistico: le corna di una vacca, naturalmente ritorte, le froge umide, gli occhi lacrimosi.. un vero capolavoro!


Ma ormai il mio tempo nel Sahara algerino era scaduto. Avevo vissuto un’esperienza particolare, unica nel suo genere, che mi aveva dato la possibilità non solo di scoprire una serie di paradisi naturali, una parte di mondo che non conoscevo, ma anche di riflettere.. su quello che molti chiamano il “mal d’Africa”…

Avevo vissuto lunghi momenti a contatto con il deserto, nel silenzio totale della distesa che mi circondava, sotto un sole spietato nell’apparente mobilità del giorno, oppure sotto un cielo stellato di rara bellezza, ormai da noi dimenticato.. a contatto con la serenità degli occhi dei Touareg..

In tutti quei momenti ho sempre avvertito la fragilità del mio essere infinitamente piccolo, disperso, proprio come un granello di sabbia nell’infinito, eppure, nello stesso tempo grande, capace di provare forti emozioni e di riuscire, in parte, a trasmetterle ad altri attraverso parole e immagini. Spero di esserci riuscita!

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