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Brindisi nel Tempo Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione BRINDISI FEDERICO II A BRINDISI TUTTE LE STRADE PORTANO A BRUNDISIUM Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione BRINDISI ITINERARIO STORICO-CULTURALE vol. 4 Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione BRINDISI FEDERICO II A BRINDISI … TRA CASTELLI … CULTURA …CUCINA Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione BRINDISI MASSERIE TORRI CASTELLI MONASTERI E CHIESE MASSERIE TORRI CASTELLI MONASTERI E CHIESE Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione BRINDISI

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FEDERICO II A BRINDISI

TUTTE LE STRADE PORTANO A BRUNDISIUM

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ITINERARIO STORICO-CULTURALE

vol. 4

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… TRA CASTELLI … CULTURA

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QUO VADIS ?

Lungo la direttrice della via Appia i pellegrini potevano imbarcarsi da Bari, Brindisi e Otranto e… su di essi vegliava San Nicola, il Santo taumaturgico e protettore del capoluogo pugliese.

Il tragitto della Via Appia-Traiana, percorsa da molti crociati, divenne così la continuazione della via Francigena verso sud: una grande via europea che, da Santiago di Compostella arrivava in Puglia attraverso Monte Sant’Angelo, Bari e Brindisi e una sorta di collegamento tra le grandi “Peregrinationes medievali” .

Il porto di Brindisi divenne lo scalo d’imbarco preferito, non solo dai pellegrini, ma anche dai crociati in partenza per Gerusalemme.

Da Brindisi partì l’abate islandese Nikulas di Munkathvera per San Giovanni d’Acri, porta della Palestina, punto di arrivo anche dei crociati.

L’itinerario si snodava poi, attraverso i luoghi di fede, a partire dalla chiesa di Santa Maria in Palmis, detta “Domine quo vadis?”, dove la leggenda colloca l’apparizione di Gesù a San Pietro in fuga da Roma per evitare il martirio; secondo la tradizione egli fu il primo viandante che volle percorrere la via consolare per Gerusalemme.

Nel I secolo d.C., l’Imperatore Traiano fece congiungere la via Traiana con l’antica Appia Beneventana prolungandola fino a Brindisi con un percorso più veloce attraverso Foggia, Canosa e Bari.

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L’ETA’ DI FEDERICO II

DALLE INVASIONI BARBARICHE ALLE INVASIONI LONGOBARDE E ARABE

Il Medioevo inizia con le grandi invasioni barbariche. La strategia difensiva adottata con successo dall’Impero romano nei sec. III e IV divenne inefficace nel sec. V. Nell’Impero le istituzioni politiche-economiche-sociali, militari e morali entrarono in crisi per il travagliato sviluppo del cristianesimo.

Venuta meno la difesa, l’Impero d’Occidente fu interamente invaso da popolazioni germaniche che alterarono profondamente le strutture politiche, economiche e sociali e la vita spirituale. Sorsero così i regni romano-barbarici degli Angli e dei Sassoni, dei Vandali, dei Visigoti, dei Franchi, dei Burgundi, degli Ostrogoti. Nel corso di questa catastrofe si ebbe la deposizione di Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d’ Occidente (476). Nel sec. VI Giustiniano I promosse la riconquista dell’Occidente mediterraneo; nello stesso secolo, l’ Italia fu invasa dai Longobardi.

FINO ALLA FINE DEL SECOLO X

La fine dell’impero romano segna l’inizio del Medioevo. In Occidente, il regno dei Franchi, grazie ad una stretta alleanza col papato tentò la ricostruzione dell’antico Impero Romano rinnovato nel segno della croce.Ma l’unità dell’Impero carolingio fu illusoria a causa dell’insorgere del feudalesimo e di nuove invasioni (Ungari, Normanni, Saraceni).

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DALLA RENOVATIO IMPERII FINO AL 1054Tra la fine del sec. X e gli inizi dell’ XI l’impereatore Ottone III e papa Silvestro II proposero le linee politiche del rinnovamento dell’Impero (renovatio imperii), rimaste intatte sin quasi alla fine del M.: rinnovamento voleva dire riunione di tutto il mondo cristiano (Occidente e Oriente) sotto il governo dell’ imperatore e del papa, residenti entrambi a Roma. Ma questa affermazione portò a gravi conseguenze: alla lotta per le investiture. In questo quadro l’Impero bizantino, che conduceva una costante lotta contro l’Islam (particolarmente efficace nel sec. X), si staccò definitivamente dalla Chiesa romana (1054).

DALLA LOTTA DELLE INVESTITURE ALLA FINE DEL DUECENTO

Nel 1076 si accese tra Gregorio VII ed Enrico IV la cosiddetta lotta delle investiture, per la supremazia, che sconvolse per quasi mezzo secolo l’Occidente; essa fu conclusa nel 1122 da papa Callisto II ed Enrico V con un compromesso politico, ma con una netta vittoria religiosa del papa, in quanto l’imperatore, rinunciando all’investitura spirituale dei vescovi, perdeva il carattere carismatico a sostegno del suo potere. Ma d’ora in poi i due mondi, quello ecclesiastico e quello laico, andranno sempre più distinguendosi e separandosi.In questo clima di evidente contrasto tra i due poteri furono organizzate le crociate.La I Crociata unì per la prima volta tutta la società occidentale, ecclesiastici, cavalieri, mercanti, gente minuta, in un’impresa collettiva contro i Musulmani (Turchi e Selgiuchidi) per la liberazione della Terra Santa, le cui conseguenze furono essenziali per lo sviluppo economico-sociale e culturale dell’Europa.In Italia, nel frattempo, cominciavano le fortune mediterranee di Pisa, Genova e Venezia, si ebbe, così, un incremento della produzione agricola, artigianale e mercantile. i cui responsabili misero in crisi l’ ordine sociale tradizionale: all’ aristocrazia feudale si affiancò un’ aristocrazia nuova quella della produzione, del commercio, delle professioni e dei borghesi. Questi si stabilìrono nella città, si imposero con i loro interessi e la loro mentalità.Tutto ciò favorì la nascita dei Comuni.I Comuni italiani furono i veri protagonisti delle grandi lotte di predominio tra i pontefici e gli imperatori della casa di Svevia tra la metà del sec. XII e la metà del XIII. Essi segnarono la decadenza politica del papato, dell’Impero e l’affermazione di Federico II.

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FEDERICO II UN MITO NELLA STORIA

Nato a Iesi nel 1194 e morto a Castel-Fiorentino, presso Lucera nel 1250, era figlio dell’imperatore Enrico VI di Hohenstaufen e di Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II re di Sicilia. Questa, già quarantenne (un fatto stupefacente per quei tempi), lo partorì in una tenda eretta nella piazza principale della città.

Dopo la morte dei genitori, nel 1198, “il bimbo di Jesi” crebbe nei palazzi normanni di Palermo, tra oscuri intrighi di corte, mentre gli altri si contendevano ciò che gli sarebbe spettato di diritto.Era troppo giovane per partecipare al gioco della politica perciò fu affidato alla tutela di papa Innocenzo III. Quello stesso anno fu eletto re di Sicilia e ciò suscitò le

rivendicazioni del nuovo imperatore Ottone IV di Brunswick il quale, appropriatosi del titolo imperiale, si apprestava ad invadere la Sicilia. Invece che a Palermo, Federico e Ottone finirono per incontrarsi a Costanza in Germania.Ottone si era fatto precedere dai suoi cuochi perché gli preparassero un festino:sapeva che Federico stava per giungere, ma era certo che quel diciassettenne,con al seguito pochi cavalieri, non avrebbe superato le difficoltà e le insidie di un viaggio in territori ostili.Giunto alle porte della città, le trovò

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sbarrate:all’interno Federico si stava godendo lo spettacolo e il cibo di Ottone.Era nata una stella:Federico aveva evitato le zone impervie ed era giunto in anticipo sul rivale.Il suo fu un atto temerario a cui fece seguito un’attività diplomatica abile facendo un rinnovamento dei diritti dei principi tedeschi e promettendo al papa una crociata .Questi avvenimenti spinsero Innocenzo III a togliere il proprio appoggio all’imperatore tedesco e a scomunicarlo. A Ottone il papa contrappose Federico II, dopo averlo impegnato a tenere distinte la corona di Sicilia e dell’Impero, riconoscendo la prima come feudo della Chiesa.Federico II fu proclamato re di Sicilia nel 1212 e re di Germania nel 1215.Morto papa Innocenzo III gli successe Onorio III (1216). Il nuovo pontefice incoronò Federico II imperatore (1220) dopo averlo impegnato ad organizzare una nuova spedizione crociata in Terra Santa.L’imperatore, però, preferì dedicarsi innanzi tutto al riordinamento del regno di Sicilia e del regno normanno e a controllare i Comuni che avevano ripreso la loro politica autonomistica ed accresciuto grandemente la propria forza politica ed economica. Quando salì al soglio pontificio (1227) anche Gregorio IX chiese a Federico II di organizzare la crociata promessa.Questa volta Federico II non poté sottrarsi e decise di partire.Un ritardo nella partenza, motivata da un’epidemia scoppiata tra l’esercito che si stava preparando alla partenza nella città di Brindisi, giustificò la scomunica papale nei suoi confronti (1227).L’imperatore partì allora immediatamente, e negoziando con il sultano d’Egitto al-Kamil ottenne Gerusalemme ed altri territori.Fu un avvenimento importante e significativo:Federico II, per via diplomatica, aveva ottenuto più di quanto sarebbe stato possibile ottenere con una vittoria militare anche se il papa Gregorio IX denunciò il trattato considerandolo un insulto alla cristianità.A Gerusalemme si fece incoronare re (marzo 1229); considerava infatti di averne diritto in ragione del suo matrimonio con Iolanda di Brienne, avvenuto nella cattedrale di Brindisi tra fiori ed acclamazioni della sua corte.Ritornato in Italia, si volse quindi al consolidamento del proprio Stato ed emanò:

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“La Costituzione di Melfi (1231)”, raccolta di leggi che sancivano il carattere burocratico e accentratore del potere del sovrano. Le leggi melfitane prevedevano una riorganizzazione dell’apparato fiscale e l’esercizio del potere esecutivo per mezzo di funzionari stipendiati. Federico II di Svevia voleva fare della Sicilia, della quale era stato incoronato re, la principale base economica e militare della sua potenza.Il sovrano svevo si adoperò per un sistema statale del tutto dipendente dalla ferrea volontà del sovrano che si vantava di essere la vivente personificazione della legge.Nel 1231, aiutato dall’arcivescovo Giacobbe di Capua e da altri consiglieri, diede un nuovo ordinamento al regno siciliano con le “Costitutiones Regni Siciliane” contenute nel “Liber Augustalis”, pubblicate a Melfi nel 1237 (da qui il nome di Costituzioni di Melfi). Questo documento normativo ha un’importanza straordinaria nelle storia del diritto perchè costituisce il primo serio tentativo di stabilire, in mezzo alla società feudale, uno Stato moderno.

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COSTITUTIONES MELPHI

Le Costituzioni sono divise in tre libri (255 titoli): il primo riguarda il diritto pubblico (109 titoli), il secondo, la procedura giudiziaria (52 titoli), il terzo, diritto feudale, penale e privato (94 titoli).Secondo Federico, l’imperatore è il rappresentante di Dio sulla terra la cui funzione è di dirimere e di reprimere le discordie utilizzando le leggi per portare l’uomo sulla retta via.

Ecco il contenuto, a grandi linee, delle Costituzioni:

- Solo il re ha il diritto di fare le leggi e di abrogarle;- Il potere regio viene ampliato per cui baroni e città sono privati dei diritti che

si erano attribuiti abusivamente;- L a giustizia penale appartiene al re e ai suoi magistrati;- Divieto di portare armi senza autorizzazione;- Non è permessa la vendita di feudi in quanto appartengono allo Stato;- Gli ecclesiastici sono soggetti ai tribunali comuni, non possono giudicare

gli eretici, non possono acquistare terre, se ne ricevono in eredità devono venderle;

- Le città non possono costituirsi a Comuni, eleggere consoli o potestà;- Tutti i sudditi devono pagare i tributi regi;- Tutti i sudditi sono uguali davanti alla legge;- E’ abolito il giudizio di Dio (il duello come prova nei giudizi).

In tutto ciò appare la modernità di Federico che afferma l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Federico elimina il potere dei baroni, del clero e delle città, tutte le funzioni giuridiche e amministrative vengono esercitate dal re per mezzo di una organizzazione burocratica centrale, posta alle sue dipendenze.

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LA CITTÀ DI BRINDISI NEL CONTESTO DELLA VICENDA FEDERICIANA

Per Brindisi, l’età di Federico II non fu un’ età particolarmente felice, anche se nelle fonti dell’epoca il nome di Brindisi ricorre con frequenza, offrendoci la misura della sua importanza sotto i più svariati profili. Tra il 1227 e il 1228, da Brindisi furono emanati numerosi editti imperiali, precisamente, durante la permanenza nella città,dell’imperatore e della sua corte per i preparativi della quinta crociata.A Brindisi avvennero incontri e avvenimenti che trascesero l’ambito locale; addirittura le istituzioni civili e religiose furono oggetto di provvedimenti imperiali, per una migliore disciplina e organizzazione e ciò avvenne, soprattutto, per la zecca e il porto.E sempre a Brindisi avvennero: il matrimonio di Federico II con Isabella di Gerusalemme; la coniazione di alcune delle principali monete aventi corso nel regno (come l’imperale di argento e l’agustale di oro); l’arrivo e la partenza di innumerevoli pellegrini e illustri personaggi per l’Oriente; la stipulazione del trattato tra la comunità cittadina e la Repubblica di Venezia; il primo incontro, nel 1222, tra Federico II e Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme; la permanenza, a varie riprese, dell’imperatore e della corte imperiale.Comunque, due furono gli episodi che, per la loro importanza eccezionale, ebbero a richiamare sulla nostra città, l’attenzione generale sì da porla al centro dell’Impero con tutta la cristianità: il matrimonio, nel 1225, dell’imperatore con Isabella di Brienne, che recava a lui la corona di Gerusalemme, e il concentramento, nel 1227-28, delle navi e delle truppe in partenza verso la Terra santa per la quinta crociata.Ma l’alone romantico che sembrava circondare tale fase storica, finì per dissolversi sotto l’urto della squallida realtà.Per l’interesse dinastico Federico non si fece scrupolo di sacrificare una fanciulla di appena quattordici anni, e di concentrare un grande spiegamento di uomini e mezzi nella città di Brindisi che causò l’epidemia della peste contratta in Oriente.Gli storici dell’epoca riferiscono le circostanze che precedettero e accompagnarono il matrimonio del potente dinasta dell’Occidente con la giovanissima Principessa di Oriente.Pare che i due si fossero promessi senza conoscersi di persona, che l’anello nuziale fosse stato recapitato alla sposa in San Giovanni d’Acri, da un vescovo appositamente

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inviato e che la corona imperiale fosse stata imposta alla giovane sposa nella città di Tiro dal Patriarca di Siria. La flottiglia e la scorta, venuta a rilevarla era formata da nobilissimi cavalieri, i quali affrontarono una lunga traversata fino a Brindisi. La cerimonia nuziale fu di grande suggestione per la quantità di fiori utilizzati ad addobbare le vie e la cattedrale dove fu officiato il matrimonio; a ricordo dell’avvenimento fu coniata dalla zecca brindisina, una moneta.

Ed ancora gli storici riportano nelle cronache dell’epoca che questo “illustre e potente” matrimonio fu senza amore, almeno da parte di Federico II dal momento che la giovane sposa, Isabella, si trovò subito reclusa in condizioni di stretto isolamento sotto la guardia dei fedeli eunuchi della corte imperiale, finché, appena tre anni dopo, la poverina venne a morte. Tutto questo è, anche,

la riprova dei contrasti violentissimi insorti subito dopo le nozze, tra Federico e il suocero Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme.Federico II, infatti, aveva preteso subito il titolo di re di Gerusalemme. Questo fu causa della inimicizia fierissima che portò Giovanni di Brienne a capeggiare le truppe pontificie che invasero il regno nel 1229 durante l’assenza di Federico impegnato per la crociata in Terra santa.Un altro grande avvenimento a cui abbiamo fatto cenno e che vide Federico II protagonista, fu costituito dalla partenza di Brindisi della quinta crociata. Tra il 1227-28 ci fu a Brindisi un grande concentramento di truppe e di pellegrini in attesa di prendere il mare e trasferirsi in Terra santa. Il fatto fu, è vero, di grandissima risonanza per tutta la cristianità, ma ben poco ebbe a lodarsene la città di Brindisi, perché quel grande concentramento di truppe, reso ancor più pesante dall’afflusso di migliaia e migliaia di pellegrini, finì per mettere in crisi l’intera organizzazione dell’impresa. Le strutture cittadine cedettero rapidamente con la conseguente difficoltà dei rifornimenti annonari. Ne seguì una grave carestia di cui furono, proprio i Brindisini i primi a farne le spese. Nell’agosto del 1227 scoppiò, poi, una improvvisa pestilenza, importata, come abbiamo precedentemente detto dai soldati e dai pellegrini.Nella vita di Brindisi durante l’età Federiciana vanno ricordati il contrasto tra papa e imperatore ed il trattato del 1199, tra il popolo brindisino e la Repubblica di Venezia.In conclusione, però, oltre al significato politico ci preme soffermarci sull’apertura umana e sociale di Federico che si adoperò per superare, in tale ambiente, alcune tra le più pesanti cause di discriminazione tra le persone, in funzione della religione.Malgrado ciò, più volte prevalsero le esigenze autonomistiche dei brindisini che si ribellarono allo Svevo. Questi, però, forte dell’appoggio dei Cavalieri Teutonici, commise ogni sorta di abusi e illeciti finanziari contro i sudditi. Vere ribellioni accaddero nel 1229 finché Manfredi nel 1257, riconquistò la città.

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I MONUMENTI

IL CASTELLO SVEVO

Nell’età di Federico II, Brindisi fu una tipica città medievale, operosa, con il suo grande porto.

Sotto il profilo edilizio e urbanistico sembra che l’imperatore non abbia abbellito la città, se si esclude la costruzione del Castello Grande, oggi sede del Comando Marina Militare.Altrettanto sembra sotto il profilo economico.Federico non si curò dell’espansione commerciale, tanto che Brindisi fu esclusa dal novero delle città abilitate ad ospitare le sette grandi fiere (generales nundine) del regno.Brindisi fu, comunque, scelta da Federico II come sede imperiale e decise di costruire il

Castello Svevo, chiamato Castello di Terra o Castello Grande differenziandolo dal Castello antico preesistente e situato tra la Fontana Salsa, il Castello dell’isola o Forte a Mare.Fu in origine fatto erigere da Federico II per fronteggiare le minacce dei nemici, soprattutto interni, infatti, l’ostilità dei brindisini alla dinastia sveva è ampiamente documentata e frequenti, furono, le ribellioni popolari contro l’autorità imperiale.Il castello, completato nell’anno 1233, conserva il nucleo Svevo a forma quadrangolare, con torri angolari e intermedie di tufo carparo, che rispondono ai criteri difensivi dell’epoca: le alte torri e mura offrivano la possibilità di lanciare sul nemico pietre, liquidi bollenti, frecce, ecc... rendendo più difficile l’assedio; mura e torri erano ancora piatte, non essendoci il problema tecnico di schivare i colpi delle armi da fuoco mediante superfici oblique o ricurve. Antichi storici riferiscono che, per la costruzione del castello, sarebbero stati impiegati materiali di risulta di edifici romani.

IL CASTELLO SVEVO : DA FEDERICO AD OGGI

Poiché la posizione di questo castello era arretrata rispetto al mare aperto, intorno al nucleo Svevo gli Aragonesi, in seguito, fecero costruire un antemurale con quattro torri che rispondevano ai mutati canoni della architettura militare, per la comparsa delle armi da fuoco. Intorno all’antemurale fu scavato un nuovo fossato, mentre il

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vecchio, coperto con solide volte, fu utilizzato per vari usi.Per potenziare la difesa della città furono eretti molte opere fortificate ed arricchimenti al Castello Grande sul mare.Ulteriori opere di fortificazione furono fatte ad opera dei veneziani. Queste opere di fortificazione non furono ritenute evidentemente sufficienti da Ferdinando di Alarçon, che si prese cura, per ordine dell’imperatore, di fortificarla “, facendo iniziare nell’anno 1530 i lavori per la costruzione dei torrioni di S. Giorgio, S. Giacomo e del torrione attiguo a Porta Mesagne. Il castello fu ulteriormente modificato e adibito a penitenziario al tempo di Gioacchino Murat. Visibile dalla strada, sul corpo di guardia è stato murato lo stemma di Brindisi con l’iscrizione: Ad Herculis columna, forse trovato nel castello o nei pressi di esso. Lo stemma “ presenta le due colonne con i loro alti piedistalli, capitelli corinzi riccamente incisi e, sopra essi, le piattaforme, presumibili appoggi per le statue.

I TEMPLARI A BRINDISI La città riuscì a mantenere la sua fama grazie alla presenza dei “Cavalieri Teutonici o Templari” i quali influenzarono in modo determinante la vita brindisina.Essi furono fedeli all’Imperatore dal quale ricevettero palazzi e fattorie come ricompensa della loro fedeltà.

Nel 1214 Federico dichiarò di prendere l’ordine sotto la sua protezione facendolo diventare una potenza di primo piano. Ai Templari , Federico riservò dei locali per adibirli all’uso della “Zecca”, all’ufficio della dogana e delle gabelle.

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In questa zecca furono coniati tarì di oro, imperiali di argento, gli splendidi gustali aurei e il primo tornese del regno.I Templari costituirono a Brindisi una sorta di milizia civile dell’imperatore e per questo motivo essi vennero scomunicati dal papa Innocenzo IV che con la bolla “Extirpanda” ammise l’uso della tortura per ottenere la confessione degli imputati.

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CHI ERA FEDERICO II DI SVEVIA

Non c’è dubbio che Federico II sia uno dei protagonisti più controversi di tutto il Medio Evo europeo, vittima della confusione che comunemente si fa tra gli elementi storici e quelli leggendari. Federico II ha certo dominato la politica e la cultura medievale in un secolo in cui l’Imperatore ed il Pontefice romano ritenevano entrambi di essere investiti da Dio per gestire le cose dello Stato e della Fede. La conquista ed il mantenimento del potere giustificava le peggiori atrocità e la chiesa sacrificava due milioni di Cristiani alle Crociate promuovendo i processi dell’inquisizione, l’Imperatore era secondo al Pontefice, infatti, le minoranze religiose erano perseguitate dalla Chiesa ben coadiuvata dal “braccio secolare” che vedeva negli eretici soprattutto un grave rischio sovversivo; le violenze coinvolgevano tutte le religioni e tutte le filosofie, lo sviluppo culturale era condizionato da dogmatismi ed integralismi d’ogni colore; la cultura non aveva ancora posto le premesse per la nascita della scienza, sia pure nella forma embrionale che avverrà due secoli dopo. In questa situazione, Federico II si inserì con alcune intuizioni che lo resero il gigante del suo tempo; ma che non possono essere confuse con delle iniziative decisamente anticipatrici, che un uomo medievale non poteva certo concepire. Egli infatti non fu un “laico” nel significato attuale del termine, ma lottò per condurre il Papato alle sole competenze morali, premessa per lo Stato di diritto e per sconfiggere ogni forma di integralismo, ma tentò più di ogni altro contemporaneo di risolvere molte controversie con la diplomazia, senza spargimento di sangue; punì le intolleranze dei Saraceni in Sicilia, ma li ospitò a Lucera integrandoli nel proprio esercito e nell’amministrazione dell’Impero; anche se mantenne la giovane moglie Jolanda di Brienne nell’asfittico harem palermitano, ma nelle Costituzioni di Melfi dettò pagine importanti ed innovative per reprimere la violenza contro le donne e difenderle dalle accuse e seguì i rituali magici dell’Oriente e alla sua Corte ospitò dotti di tutte le terre senza distinzione di razza e di religione, cui pose quesiti che saranno alla base delle prime ricerche degne di essere definite scientifiche; si professò e fu sinceramente cattolico, pur accettando l’universalità dalla cultura all’esclusivo servizio dell’uomo, superando i vincoli che nascevano dal fatto di voler distinguere le culture cristiana, ebrea, musulmana. Crociato scomunicato, a Gerusalemme trasformò una lotta di religione in un confronto tra diverse culture, rendendo possibile un accordo da allora mai ripetuto. Federico II non fu certo il pensatore medievale più illuminato ed innovativo in alcun campo della filosofia, della religione, dello scibile umano di allora tanto da meritare l’appellativo di “Imperatore delle meraviglie” Il suo fascino, consiste nell’avere contemporaneamente spaziato in moltissimi campi della conoscenza, come tutti i grandissimi della storia.

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GIUDIZI SULL’IMPERATORE DELLE MERAVIGLIE

Fuori discussione è la posizione di spicco che Brindisi continuò a mantenere durante l’età federiciana, infatti Lui stesso chiama la città con l’appellativo di”caput terrarum marittimarum Apuliae”.Alla luce degli avvenimenti brindisini durante la vita dell’imperatore, il giudizio da esprimere verso la sua opera di sviluppo è ambiguo, anche se la città non potette sottrarsi all’accentramento statale che caratterizzò il regno federiciano.In realtà Federico, uomo colto e buon mediatore, attraverso abili negoziati ottenne molti risultati segnando la storia europea del 1200 suscitando grandi entusiasmi e odi altrettanto profondi.“Alla sua corte dei miracoli” , Federico creò un paradiso dell’assolutismo medievale da lui dominato ed assetato di sapere. Colto e a tratti illuminato fu conoscitore del latino, del greco e dell’arabo e curioso di arti e scienze. Il regno di Federico non ebbe mai una capitale perché l’unità veniva assicurata dagli spostamenti, attraverso le regioni, dello stesso re, che li riuniva nei “Parlamenti”.Per migliorare il sistema delle entrate, curò l’organizzazione delle finanze e del fisco, con una rete di uffici periferici coordinati da una “Corte dei conti centrale”.Da padrone assoluto, Federico creò una legislazione che contemplava i diritti delle donne. Il regno in Puglia divenne “il granaio” d’Europa e le esportazioni incrementarono l’agricoltura per cui i contadini beneficiarono di condizioni agevolate per la messa a coltura dei terreni. Da grande appassionato del sapere ebbe iniziative culturali grandiose come la fondazione dell’Università di Napoli(1224) e il rafforzamento della scuola di medicina di Salerno. Nel meridione d’Italia, tra castelli e palazzi fortificati, tra cacce e letture creò il suo stato ideale. Alla sua corte si aggirarono non solo saltimbanchi, ma anche le migliori menti d’Europa e del Mediterraneo che gli attribuirono il titolo di “Stupor mundi”. Federico II è, senza dubbio, uno dei protagonisti più controversi di tutta la storia, non solo medievale. Federico II e’ considerato da molti critici storici del nostro secolo come “lo statista, il condottiero, il legislatore che per primo ha applicato il precetto della fratellanza e dell’integrazione razziale. Come uomo politico intravide la possibilità di unificare l’Italia non solo dal punto di vista della legislazione, ma anche culturale, linguistico, letterario; come uomo condusse l’Italia verso l’unione degli Stati nazionali più progrediti. Nella lettera apostolica “Terzo Millennio Adveniente” del 10 novembre 1994 il papa Giovanni Paolo II parla della intolleranza manifestata in alcuni secoli dai figli della Chiesa. Forse queste parole del Pontefice potrebbero rivalutare molti atteggiamenti di Federico II che potrebbe assumere come uomo del suo tempo, un ruolo centrale nella moderna Europa.

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INTRIGHI ALLA CORTE DI FEDERICOII

Federico II ebbe quattro mogli: le prime tre gli furono imposte dalla ragion di Stato ben rappresentata dai papi, mentre amò sinceramente l’ultima con la quale visse un rapporto avvolto dal mistero, sotteso fra storia e leggenda. In realtà le mogli di Federico furono utili solo per fornire qualche erede legittimo alla Casa di Svevia, in aggiunta ai più numerosi figli illeggittimi; ma nessuna di loro riuscì a giocare un ruolo politico apprezzabile, schiacciate dalla personalità del marito ed oltre tutto sempre chiuse nei palazzi dorati della Corte.

Costanza d’Aragona

Federico sposò Costanza d’Aragona quando aveva 15 anni, nel 1209. Al matrimonio fu quasi costretto da Innocenzo III che aveva esercitato su di lui la tutela richiesta dalla madre, Costanza d’Altavilla, in punto di morte. Con questa iniziativa il pontefice intendeva affiancare al giovane e recalcitrante delfino della Casa di Svevia una donna religiosissima, affidabile, molto più anziana di lui, in grado di indirizzarlo sulla via dell’obbedienza verso l’autorità romana: si sbagliava di grosso.Federico accettò l’imposizione e non modificò la sua vita. Dall’unione nacque Enrico VII, un uomo che assunse nei confronti del padre atteggiamenti di vivace competitività quindi di aperta sfida; morì forse suicida mentre era prigioniero nelle carceri imperiali. Costanza morì nel 1222.

Jolanda di Brienne

Le nuove nozze di Federico con Jolanda (o Isabella) di Brienne furono paternamente sollecitate da Onorio III in vista della VI Crociata in Terra Santa. La giovane infatti era figlia del cattolicissimo Giovanni, un valoroso crociato che le avrebbe lasciato in eredità la Corona di Gerusalemme: un titolo di scarso valore patrimoniale ma utile per il successo della nuova spedizione. Anche Federico ambiva fregiarsi del nuovo il titolo, ma per motivi un po’ diversi: egli considerava la corona un elemento determinante per concludere l’impresa con un

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accordo diplomatico, dimostrando che era possibile affermare la fede pacificamente, senza spargimento di sangue. L’unione fu benedetta il 9 novembre 1225 nel duomo di Brindisi, ed ebbe un avvio decisamente difficile.

Il matrimonio tra la giovane Jolanda di Brienne e Federico II, dalla cronica del Villani. Jolanda aveva allora 13 anni; era immatura, bruttina, poco all’altezza di figurare accanto ad un trentenne colto, avviato alla gloria. Giusto la prima notte di matrimonio, Federico trovò il modo di consolarsi: e lo fece con la cugina della moglie, Anais. Venuto a conoscenza dell’increscioso fatto, Giovanni di Brienne si rivolse al pontefice che si guardò bene dal disturbare Federico ed evitò lo scandalo limitandosi ad indennizzare il deluso padre con un remunerativo incarico presso la Corte romana. Jolanda diede al marito due figli Corrado IV e Margherita e morì nel 1228, a soli 16 anni, per postumi da parto.

Isabella d’Inghilterra Isabella era la sorella di Enrico III d’Inghilterra. Fu Gregorio IX a caldeggiare le nozze nel 1235 per consentire all’imperatore di avvicinarsi ai ricchi guelfi germanici che nemmeno lui riusciva a controllare ed ai potentati d’oltre manica. In realtà l’obiettivo fu raggiunto solo in parte; prima che Federico potesse complicare da par suo i rapporti familiari con la corona inglese, il quadro delle operazioni diplomatiche e militari si spostò in Italia, né si ridussero le pretese dei nobili tedeschi. Dolcissimo lo sguardo di Isabella d’Inghilterra dagli occhi cerulei, terza moglie dell’Imperatore svevo. dal dipinto, detto “Il trionfo della morte” esistente nella chiesa rupestre di Santa Margherita, presso Melfi. Isabella fu madre di Enrico detto Carlotto, morto in giovanissima età; e calerà nella tomba nel 1241, in pieno conflitto del marito con Gregorio IX.

Bianca LanciaBianca Lancia, della famiglia dei conti di Loreto, fu l’unica donna che riuscì a conquistare veramente il difficile cuore di Federico. I due si conobbero nel 1225, pochi mesi dopo lo sfortunato matrimonio con Jolanda di Brienne: fu un reciproco colpo di fulmine.

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CASTELLI, ROCCHE E FORTEZZE

Si chiamava Castellum, presso i romani, un’opera di fortificazione la cui differenza dal Castrum non è ben chiara. Generalmente si identificava con questo nome fortificazioni di minore entità lungo i confini dell’impero, disposte ad intervalli regolari a sorveglianza di ponti e strade, al di qua e al di la delle frontiere. I castelli erano temporanei o permanenti: i primi erano semplici ridotte, di forma circolare o quadrata, spesso senza baraccamenti per le truppe; gli altri erano invece recinti rettangolari saldamente fortificati, con argini e terrapieni dapprima, poi ( dopo Adriano ) cinti di mura merlate, con torri per le macchine di lancio e quattro porte. 24 m. x 15 m. a 150 m. x 150 m. Nel Medioevo il nome di Castello passò ad identificare una residenza fortificata che costituì la dimora del signore feudale. Dapprima fu un fortilizio isolato nel quale l’abitazione del feudatario si riduceva a pochi vasti ambienti ricavati all’interno delle torri e delle muraglie. Poi, quando la vita delle piccole corti feudali si volse ad una maggiore ricerca di agi e di benessere, il castello divenne un organismo complesso, del quale fecero parte l’apparato difensivo, costituito dalla cinta muraria per la difesa esterna e dal mastio per la sorveglianza dell’intero edificio e l’eventuale estrema difesa, il nucleo abitato, costituito dal palazzo del signore, le abitazioni dei famigli e dei soldati, la cappella, magazzini e servizi comuni. Nel sistema fortificato, le caratteristiche strutturali e tecniche delle varie parti seguirono i progressi dell’arte militare : si passò così dalle nude muraglie merlate dei primi fortilizi feudali, alle ben studiate disposizioni difensive dei castelli dal ‘200 al ‘400, dominati dall’alta mole del mastio, coronati dalla serie delle merlature su caditoie del cammino di ronda aggettante, protetti dalle robuste torri distribuite nei punti più salienti. In questi già complessi e vasti organismi il palazzo del signore con i fabbricati annessi prese importanza e aspetto di dimora principesca e , pur conservando all’esterno le disposizioni necessarie per la difesa e la sicurezza degli abitanti, si arricchì, nell’interno,

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di cortili e di sale dalle amene architetture e leggiadre decorazioni. Nel XVI° secolo il castello perde il duplice carattere di fortezza e di dimora signorile. Il nome castello rimane tuttavia in uso per indicare le grandi dimore di campagna che, specialmente in Francia e nei paesi germanici, si sostituirono alle antiche residenze feudali, sotto forma di fastosi palazzi circondati di vasti parchi.

ALCUNI TERMINI E TIPOLOGIE DI CASTELLO

Castello medievale ( XII° secolo) Si chiamava Castellum, presso i romani, un’opera di fortificazione la cui differenza dal Castrum non è ben chiara. Generalmente si identificava con questo nome fortificazioni di minore entità lungo i confini dell’impero, disposte ad intervalli regolari a sorveglianza di ponti e strade, al di qua e al di la delle frontiere. I castelli erano temporanei o permanenti: i primi erano semplici ridotte, di forma circolare o quadrata, spesso senza baraccamenti per le truppe; gli altri erano invece recinti rettangolari saldamente fortificati, con argini e terrapieni dapprima, poi ( dopo Adriano ) cinti di mura merlate, con torri per le macchine di lancio e quattro porte. 24 m. x 15 m. a 150 m. x 150 m. Nel Medioevo il nome di Castello passò ad identificare una residenza fortificata che costituì la dimora del signore feudale. Dapprima fu un fortilizio isolato nel quale l’abitazione del feudatario si riduceva a pochi vasti ambienti ricavati all’interno delle torri e delle muraglie. Poi, quando la vita delle piccole corti feudali si volse ad una maggiore ricerca di agi e di benessere, il castello divenne un organismo complesso, del quale fecero parte l’apparato difensivo, costituito dalla cinta muraria per la difesa esterna e dal mastio per la sorveglianza dell’intero edificio e l’eventuale estrema difesa, il nucleo abitato, costituito dal palazzo del signore, le abitazioni dei famigli e dei soldati, la cappella, magazzini e servizi comuni. Nel sistema fortificato, le caratteristiche strutturali e tecniche delle varie parti seguirono i progressi dell’arte militare : si passò così dalle nude muraglie merlate dei primi fortilizi feudali, alle ben studiate disposizioni difensive dei castelli dal ‘200 al ‘400, dominati dall’alta mole del mastio, coronati dalla serie delle merlature su caditoie del cammino di ronda aggettante, protetti dalle robuste torri distribuite nei punti più salienti. In questi già complessi e vasti organismi il palazzo del signore con i fabbricati annessi prese importanza e aspetto di dimora principesca e , pur conservando all’esterno le disposizioni necessarie per la difesa e la sicurezza degli abitanti, si arricchì, nell’interno, di cortili e di sale dalle amene architetture e leggiadre decorazioni. Nel XVI° secolo il castello perde il duplice carattere di fortezza e di dimora signorile. Il nome castello rimane tuttavia in uso per indicare le grandi dimore di campagna che, specialmente in Francia e nei paesi germanici, si sostituirono alle antiche residenze feudali, sotto forma di fastosi palazzi circondati di vasti parchi.

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ALCUNI TERMINI E TIPOLOGIE DI CASTELLO

Castello medievale ( XII° secolo)

Con il tempo il castello viene ampliato. Vicino alla torre maestra viene edificato il mastio, residenza promiscua del feudatario e del personale di servizio. Alla prima cinta di mura sovente ne viene affiancata una seconda per garantire una maggiore difesa. Le porte d’ingresso alle varie cinte murarie sono ( quasi sempre ) ubicate molto distanti fra loro per obbligare gli assedianti a percorrere un maggiore percorso allo scoperto e quindi essere esposti maggiormente al tiro degli arcieri.

Castello medievale ( XIII-XIV° secolo)

Per garantire maggiore protezione ai contadini ed artigiani che lavorano all’interno del feudo, viene edificata una ulteriore cerchia di mura, all’interno della quale vengono costruite le diverse abitazioni. In tal modo si dà origine al borgo fortificato che in alcuni casi darà origine a vere e proprie città murate ed in altre maestose fortezze. Le maggiori esigenze abitative portarono poi all’ampliamento del mastio che si ampliò seguendo il circuito murato.

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IL CASTELLO DI ORIA

Il nucleo più antico del castello, appartenente probabilmente al primo periodo della dominazione sveva, è costituito da un massiccio torrione quadrangolare. L’edificio occupa l’altura dell’acropoli messapica e domina la città in fortissima posizione difensiva: l’immagine migliore del castello è quella romantica tramandataci dagli storici, ai quali la sua forma ricordava quella di un vascello “nuotante nell’aria”, quasi a sottolineare l’imponenza scenografica dissimulata dalle sue mura e dalle sue torri. In realtà, più che un castello, quello di Oria ha tutta l’aria di un recinto fortificato, che si adegua alla cima della collina su cui è situato assumendo una configurazione planimetrica triangolare. Il nucleo più antico è individuabile nel massiccio torrione quadrangolare a sud-ovest (detto anche “del Maschio” o “del Becco”), costruito in forma di donjon e probabilmente appartenente alla fase sveva della costruzione (databile tra 1227 e 1233), benché siano evidenti i segni di rimaneggiamento ed adattamento alle nuove tecniche difensive operati in epoca rinascimentale mediante l’inserimento di cannoniere e feritoie. Altre torri si trovano sul lato meridionale (le torri cilindriche dette “del Salto” e “del Cavaliere”) e alla punta settentrionale (la torre quadrata detta “dello Sperone”). All’interno del recinto, ove si trova una vastissima piazza d’armi che poteva contenere fino a 5000 combattenti, gli unici ambienti coperti che si rilevano sono caserme, magazzini e l’alloggio per il feudatario che, insieme ad una serie di capienti cisterne, testimoniano la natura prettamente indirizzata alla difesa della costruzione, che in moltissimi casi dovette resistere ad ostinati assedi garantendo nel contempo la compieta autonomia. Restaurato più volte, sia prima che dopo la rovinosa tromba d’aria del 1897, il castello è proprietà dal 1933 dei conti Martini Carissimo che ne hanno curato la successiva ristrutturazione. Oggi le sue sale ospitano la collezione Martini Carissimo, comprendente monete antiche, gemme incise, statue fittili, bronzi, ceramiche e frammenti architettonici di età romana e medievale.Quando Federico II nel 1222 si recò a Brindisi intraprese un giro ispettivo per verificare l’eventuale potenziamento e fortificazione di alcuni punti strategici dei suoi possedimenti.

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Oria apparve subito come un centro di notevole interesse e per poter costruire il castello sul colle che dominava la zona, Federico II chiese ed ottenne l’autorizzazione a demolire la chiesa dei Santi Crisante e Daria, fatta erigere dal vescovo Teodosio nell’880. Di quella chiesa esiste tuttora l’ipogeo nel cortile del castello. Il castello di Oria fu spesso dimora di Federico. Il castello subì notevoli danni durante gli assedi di Manfredi di Svevia, nel 1254,

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CASTEL DEL MONTE

Universalmente noto per la sua inconfondibile forma ottagonale, per le suggestioni simboliche e per essere – a detta di molti – il più misterioso tra gli edifici commissionati da Federico II di Svevia, Castel del Monte costituisce una delle principali mete della Puglia.

Oggi a questo castello viene restituito il suo ruolo all’interno del contesto storico e territoriale, non dimenticando che esso è il simbolo legato al sapere ed al potere di Federico II.

Le questioni aperte su cui gli storici ridiscutono, riguardano soprattutto il momento storico e le ragioni della sua edificazione, che consentono di riconoscere inequivocabilmente la funzione di castrum come primaria rispetto ad altre possibili.

Castel del Monte è dunque prima di tutto un castello medievale, dalle funzioni polivalenti, da leggere all’interno dell’organico sistema castellare realizzato da Federico II di Svevia per governare il territorio, e da analizzare nei suoi rapporti con i principali castelli della zona, come quello di Barletta.

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Cenni storici

Il 29 gennaio 1240, da Gubbio, l’imperatore Federico II firma un decreto in cui ordina di predisporre il materiale necessario alla costruzione di un castello situato presso la chiesa (oggi scomparsa) di Sancta Maria de Monte.

IL maniero fu costruito dal 1240 al 1250 e dopo la caduta degli Svevi, gli Angioini tennero rinchiusi i giovani figli di Re Manfredi, e nipoti di Federico II, Azzolino, Federico ed Enrico. Isolati dal mondo, i tre prigionieri vissero una vita di stenti e in queste stanze i tre fratelli sognavano la gloria di un tempo di Federico II.

Uno dei tre morì fra le mura di Castel del Monte e fù sepolto nel duomo di Canosa, mentre il giovane Federico dopo trent’anni di carcere andò per le corti europee per ricordare la stirpe

Sveva. Andò anche in Egitto e nei caldi deserti si perdono le sue tracce, mentre il terzo fratello morì accecato nel tetro Castel dell’Ovo di Napoli.

In seguito il castello rimase per lo più adibito a carcere. Nel 1495 vi soggiornò Ferdinando d’Aragona, prima di essere incoronato re delle due Sicilie a Barletta. Il nome attuale del castello compare poco più tardi in un decreto dello stesso re, emesso da Altamura.

Annesso al ducato di Andria, appartenne a Consalvo da Cordova e, dal 1552, ai Carafa conti di Ruvo. Fu rifugio per molte nobili famiglie andriesi durante la pestilenza del 1656. Fin dal secolo XVIII, rimasto incustodito, fu sistematicamente devastato, spogliato dei marmi e degli arredi, e divenne ricovero per pastori, briganti, profughi politici.

Nel 1876, prima che sopravvenisse la definitiva rovina, il castello venne acquistato dallo Stato italiano per la cifra di £ 25.000.

Oggi il maniero, solenne nella sua solitudine,ricorda il sogno imperiale del grande re tedesco e testimonia l’amore pugliese che gli Svevi nutrirono che riecheggia anche nella canzone del il figlio di Manfredi, Enzo:”Va,canzonetta mia,e vanne in Puglia piana la Magna Capitana, là dove lo mio core nott’è dia.”

Per le sue caratteristiche di unicità l’UNESCO l’ha inserito, nel 1996, nel patrimonio mondiale dell’umanità.

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L’edificio

Come è noto, la struttura del castello consiste fondamentalmente in un monumentale blocco di forma ottagonale, ai cui otto spigoli si appoggiano altrettante torri della stessa forma. La distribuzione dello spazio interno si articola su due piani, ognuno dei quali presenta otto stanze di forma trapezoidale raccolte intorno ad un cortile (ovviamente ottagonale). Il prospetto principale, sul lato est, è dominato da un maestoso portale cui si accede da due rampe di scale simmetriche. Il cortile, compatto e severo, che ripete nella forma ottagonale l’impostazione di tutto l’edificio, alleggerisce la sua massa muraria solo in corrispondenza dei tre portali di comunicazione con le sale del piano terra, e delle tre porte finestre corrispondenti ad altrettante sale del piano superiore.

Tre sono i materiali da costruzione utilizzati nel castello; la loro combinazione e la loro distribuzione nell’edificio non sono casuali ed hanno un ruolo importante nella nostra percezione cromatica. Prima di tutto la pietra calcarea locale, bianca o rosata a seconda dei momenti del giorno e delle situazioni meteorologiche, preponderante perché interessa le strutture architettoniche nel loro insieme ed alcuni particolari decorativi; il marmo, bianco o leggermente venato, oggi superstite nelle preziose finestre del primo piano e nella decorazione delle sale, ma che in origine doveva costituire gran parte dell’arredo del castello; infine la breccia corallina, nota di colore usata nella decorazione delle sale al piano terra e nelle rifiniture di porte e finestre, interne ed esterne, oltre che nel portale principale; un effetto prezioso e vivace reso da un conglomerato di terra rossa e calcare cementati con argilla ancora reperibile in cave presenti nel territorio circostante.In origine il ruolo giocato dal colore doveva essere ancora più deciso: tutti gli ambienti dovevano essere rivestiti di lastre (in breccia rossa al piano terra, marmoree a quello superiore); la breccia dava risalto cromatico ai camini, agli stipi, ai profili di porte e finestre, il mosaico illuminava non solo la pavimentazione ma anche le volte delle

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stanze. Forse una decorazione dipinta impreziosiva le pareti degli ambienti al primo piano.

L’esterno

Una cornice marcapiano cinge l’intera costruzione segnando la presenza dei due piani dell’edificio, divisi ognuno in otto sale corrispondenti agli otto lati dell’ottagono. Ogni parete del castello compresa tra due torri presenta due finestre (non sempre in asse tra loro): una monofora a tutto sesto in corrispondenza del piano inferiore (tranne che nei due lati opposti est ed ovest, occupati rispettivamente dal portale principale e dall’ingresso di servizio), ed una bifora al piano superiore (tranne che nel lato nord, quello in direzione di Andria, aperto con una trifora).

Sulle torri si aprono numerose strette feritoie, variamente disposte e profondamente strombate, che danno luce alle scale a chiocciola interne, ai servizi ed ai vani delle torri stesse.

Sul lato ovest, quello opposto all’ingresso principale, troviamo l’ingresso secondario, costituito da un semplice profilo archiacuto, senza alcuna decorazione. Un particolare degno di nota riguarda la bifora tra le torri 7 ed 8 che conserva – nell’oculo destro – l’unica tessera di mosaico superstite (di colore verde) delle decorazioni policrome delle finestre.

Sul fronte principale del castello due rampe di scale simmetriche ricostruite nel 1928 salgono verso il portale principale in breccia corallina, nel quale pilastri esili e scanalati, con capitelli corinzi, sorreggono un finto architrave sagomato nella parte inferiore da modiglioni, su cui si imposta un timpano cuspidato, tutti elementi costitutivi che indubbiamente risentono di fonti di ispirazione classica. Tra la parte esterna e quella interna del vano d’accesso si situa l’intercapedine funzionale allo scorrimento della saracinesca che era manovrata dalla soprastante “sala del trono”.

L’interno

Ognuno dei due piani dell’edificio comprende otto sale trapezoidali tutte di dimensioni simili, ma caratterizzate da una sottile gerarchia a seconda del modo in cui comunicano tra loro o con il cortile interno. Generalmente si possono individuare delle sale più “confortevoli”, dotate di alcuni accessori (come ad esempio alti camini, o disimpegni e servizi igienici collocati nelle torri), e delle sale di passaggio, dotate di percorsi autonomi rispetto ad esse.

Il problema della copertura delle stanze trapezoidali è risolto in modo impeccabile: il trapezio è scomposto in un quadrato centrale, il cui lato corrisponde alla parete

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della sala verso il cortile, e due triangoli laterali; la parte centrale quadrata è voltata a crociera costolonata, i due triangoli da semibotti ad ogiva. L’uso dei costoloni, già diffuso in Francia da molto tempo, è una novità in Puglia: ma qui, sia negli ambienti del piano terra che in quelli del piano superiore, essi non hanno alcuna funzione statica; il loro scopo decorativo è sottolineato invece dalla presenza di una chiave di volta figurata, diversa in ogni sala, tra le quali spiccano per originalità quella della settima sala al pianterreno (raffigurante una testa di fauno, con orecchie appuntite e sporgenti, incorniciato da uva e pampini), e quelle della settima e dell’ottava sala del piano superiore (rispettivamente animate da quattro testine umane e da quattro ibridi annodati).

Sempre al piano superiore, nella cosiddetta “sala del trono”, la chiave di volta raffigura volto umano barbuto, interpretato ora come fauno, ora come astrologo, mago o anche filosofo

Al piano terra, la pianta del vano quadrato centrale viene messa ancor più in risalto dalle quattro potenti semicolonne che la delimitano lateralmente, le quali, come i rispettivi capitelli ornati da foglie ad apice ricurvo, le cornici delle finestre a tutto sesto, gli oculi e le soglie tra una sala e l’altra, sono tutte in breccia corallina. L’abaco dei capitelli corre su tutta la parete, riquadrando porte e finestre, e mettendo in risalto la linea d’imposta della copertura; fino a questo livello, in origine, le pareti dovevano essere anch’esse ricoperte di breccia. Della pavimentazione originaria delle sale, a tarsie geometriche in marmo bianco e ardesia, restano scarsi frammenti nell’ottava sala.

Sempre al piano terra, solo tre sale comunicano direttamente con il cortile interno, determinando sin dall’inizio una serie di “percorsi obbligati” che aiutano a definire una sorta di gerarchia tra i vari ambienti che noi percepiamo come tutti uguali. Ogni parete del cortile (che è di forma ottagonale nel rispetto della pianta ottagona dell’edificio) termina in alto con un’arcata cieca a sesto acuto impostata su paraste angolari; l’alleggerimento delle masse murarie è dato dalle porte e dalle finestre che vi si aprono, di varia forma e senza una precisa distribuzione, secondo le esigenze dell’interno. Al livello superiore si aprono tre porte finestre in breccia corallina, con architrave su mensole, incorniciate da due colonnine che reggono un archivolto ornato a fogliami ed ovoli. Si può a buona ragione pensare che in origine queste porte finestre – e dunque le relative sale – comunicassero tra loro mediante un percorso pensile in legno che correva su tutto il perimetro del cortile.

L’accesso al piano superiore avviene attraverso due delle otto torri, dotate di scala a chiocciola. Una è la torre 3, detta anche Torre del Falconiere, comunicante con la quarta sala e coperta da una volta tripartita sorretta da mensole antropomorfe raffiguranti l’una una testa di fauno, l’altra un volto femminile; l’altra è la torre 7,

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accessibile dall’ottava sala, coperta da una volta esapartita sostenuta da telamoni in curiosi e provocatori atteggiamenti. La torre 5, invece, possiede l’unica scala praticabile fino al terrazzo senza interruzione: la sua funzione “di servizio” è suggerita tanto dall’essere accessibile dalla quinta sala (quella situata sul fronte opposto a quello principale, comunicante con l’esterno grazie ad un portone secondario, oggi murato), quanto dalla singolarità del fatto che, all’altezza del piano superiore, oltre al passaggio diretto verso la quinta sala, esista un altro passaggio spostato verso sinistra che permette di proseguire fino al tetto senza passare per la sala. Il terrazzo costituisce un punto di osservazione privilegiato: la vista può spaziare dalle Murge al Tavoliere fino al Gargano ed al Vulture, lasciando spazio, nelle giornate più limpide, anche alle città della Terra di Bari. La copertura del terrazzo è stata rifatta durante gli ultimi lavori di restauro: essa consta di doppio spiovente, di cui quello interno, per mezzo di tubi di piombo incassati nella muratura, finalizzato a convogliare le acque alla cisterna della corte, e quello esterno alle condutture dei servizi delle torri.

La struttura e la distribuzione degli ambienti del piano superiore ricalcano quella del piano terra, ma esprimono maggiore raffinatezza nei particolari decorativi e nell’architettura d’insieme. I costoloni che sorreggono le volte sono più sottili e slanciati, e si dipartono da colonnine tristili in marmo riunite a fascio da un unico capitello decorato elegantemente a motivi vegetali. Sul versante che dà all’esterno, ogni sala è vivacemente illuminata da una bifora di chiaro sapore gotico (unica eccezione, una trifora seconda sala, sul versante settentrionale del castello); caratteristica di queste grandi finestre è il fatto di essere rialzate da gradini e fiancheggiate da sedili. Sul versante del cortile si alternano, a seconda delle sale, porte finestre e monofore a tutto sesto. Lungo le pareti di ogni sala corre un sedile in marmo sotto la base delle colonne, e una cornice marcapiano all’imposta delle volte. In origine le pareti di queste sale dovevano essere rivestite interamente da grandi lastre di marmo.

Una menzione particolare va fatta per quella che tradizionalmente viene indicata come “sala del trono”, situata sul lato orientale dell’edificio in corrispondenza del prospetto principale, dalla quale è tra l’altro possibile manovrare lo scorrimento della saracinesca del portone d’accesso. Grazie alla sua collocazione ed alla suggestione incrementata da una vasta letteratura sull’argomento, è qui che l’immaginario collettivo colloca il Federico “mitico”, assorto, contemplativo, impegnato in dotti consulti con gli esperti della sua corte. Ed è qui, nella sala “orientata” di un castello che molti vogliono intenzionalmente rivolto al sole e al Cristo come l’abside di una cattedrale, che il legame con i fenomeni celesti e divini”, pur al di fuori del dato storico e documentabile, si fa stringente e palpabile.

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CASTELLO DI BARLETTA

Questo poderoso edificio, possiede una storia millenaria che si intreccia con quella della città di Barletta : posto ai margini del comune di Barletta , originariamente lambito dalle acque dell’Adriatico fu probabilmente fondato dai normanni nell’XI secolo. Ancora oggi è visibile nel cortile, una traccia della torre più antica. Divenne castello e dimora sveva come testimoniano le aquile imperiali scolpite nelle lunette di due finestre nello stesso cortile.

L’imperatore vi risiedette più volte, e ai suoi ingegneri risalirebbe la prima costruzione di una struttura quadrilatera. Fu riedificato da Carlo I d’Angiò che lo elesse a sua residenza pugliese privilegiata, intervenendovi sia negli aspetti militari che in quelli residenziali: vi si costruì un palatium, una torre, le nuove mura, e una cappella.

L’architetto fu il celebre Pietro d’Angicourt, cui si dovette una struttura probabilmente trapezoidale, una torre rotonda come quella di Lucera. I lavori terminarono con Carlo II nel 1291. Testimonianza evidente di questa fase sono le basi delle torri angolari ancora visibili nei sotterranei perché successivamente inglobate nelle poderose strutture cinquecentesche. Carlo V, infatti, a partire dal 1532, lo reso fortezza inespugnabile, adattandolo alle nuove armi da fuoco tanto che non fu mai attaccato.

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LA CUCINA NEL MEDIOEVO

Nel Medioevo l’alimentazione dei più nobili era ricca di selvaggina condita spesso con spezie molto costose poiché provenivano dall’ Oriente. L’alimentazione dei contadini era più povera e comprendeva alimenti che potevano sostituire la carne, come i legumi. I contadini mangiavano una zuppa a metà mattina, del pane (cotto ogni 15 giorni in pesanti pagnotte), del formaggio e castagne bollite durante il giorno, la sera - quando tornavano dai campi - mangiavano altri cibi molto poveri. Anche per i ricchi, il pane restava comunque l’alimento principale ma lo volevano bianco, di frumento. Nei tempi di grande carestia, poi, si cercava di fare il pane con qualsiasi cosa, persino con la paglia e le cortecce macinate, e si ricorreva al cibo dei maiali: le ghiande. Il vino era bevuto sia dai nobili che dai monaci ma i poveri inizialmente erano esclusi da questo “privilegio”. Nel Medioevo si amavano profumi e sapori che per noi non sono usuali, come quello delle rose, e gli accostamenti un po’ particolari come agro-dolce, dolce-salato, dolce-piccante. Una delle testimonianze più interessanti dell’ epoca medievale è rappresentata dagli “erbari”. Questi codici, riccamente miniati, raffiguravano le varie erbe e le piante allora conosciute, elencandone anche i vantaggi che se ne potevano trarre per la salute. Citiamo dal Tacuinum Sanitatis alcuni dei consigli terapeutici:

Frumento: indicato per guarire le ulcere. Segale: indicato come calmante e sedativo.

Uovo: nutre, depura e ingrassa. Miglio: per coloro che desiderano rinfrescarsi.

Bietole: il loro succo toglie la forfora. Zucche: mitigano la sete e fanno bene ai collerici.

Cocomeri e cetrioli: abbassano la febbre. Finocchio: giova alla vista.

Cosa erano e a che cosa servivano le spezie che l’occidente importava dall’oriente a carissimo prezzo? Le spezie (o droghe) sono in realtà bacche, gemme o semi di piante. Le più conosciute sono: cannella, noce moscata, zénzero, zafferano, cumino che oltre a rendere più stuzzicanti i cibi contribuivano a conservarli meglio.Le spezie erano anche gli essenziali componenti di molte medicine: con il ginepro, il cumino e l’anice da cui si facevano liquori, tonici ed elisir. Il pepe era invece un ottimo disinfettante intestinale. Esse erano fonte di grandi guadagni per i mercanti perchè erano poco ingombranti, perciò costava poco caricarne e trasportarne qualche migliaio di chili ed i compratori erano disposti a pagarle care. Anche il sale era usato nella cucina e nelle farmacie. Nel medioevo era molto raro e caro, tanto che i governi ne tassavano spietatamente il consumo. Il sale esaltava il sapore degli alimenti e permetteva di conservare la carne ed il pesce essiccandoli. Il valore del sale era legato anche ad antiche tradizioni magiche e religiose, tanto che il carattere sacro e magico del sale è all’origine di molte credenze popolari vive ancora oggi, come quella di considerare un segno di sventura spargere e sprecare il sale.

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L’OLIO PUGLIESE

Collina di Brindisi.Nella parte settentrionale della provincia brindisina si realizza quest’olio di eccellente qualità, che raccoglie l’eredità dell’esperienza olivicola millenaria, sviluppatasi qui dal tempo di Greci e Romani. Lo compongono diverse varietà: Ogliarola (l’antichissima Olea Iapygia) min. 70%, Cellina di Nardò, Coratina, Frantoio, Leccino, Picholine e altre, da sole o congiunte, fino al 30%. Colore: dal verde al giallo; profumo: fruttato medio; sapore: fruttato, con leggera percezione di piccante e di amaro.

Dauno.La provincia di Foggia era detta Daunia dagli antichi Romani (dal nome d’una popolazione illirica qui stan-ziatasi), i quali furono i primi ad impiantare l’olivicoltura in queste terre. La Dop è accompagnata obbligatoriamente da una delle seguenti menzioni geografiche: “Alto Tavoliere” (varietà: Peranzana o Provenzale, min. 80%; colore: dal verde al giallo; profumo: di fruttato medio con sensazione di frutta fresca e mandorlato dolce; sapore: fruttato); “Basso Tavoliere” (varietà: Coratina, min. 70%; colore: dal verde al giallo; profumo: fruttato; sapore: fruttato con sensazione leggera di piccante e amaro); “Gargano” (varietà: Ogliarola Garganica, min. 70%; colore: dal verde al giallo; profumo: fruttato medio con sensazione erbacea; sapore: fruttato con retrogusto sensazione mandorlato); “Sub-Appennino” (varietà: Ogliarola, Coratina e Rotondella, da sole o con-giunte, min. 70%; colore: dal verde al giallo; profumo: di fruttato medio con sentori di frutta fresca; sapore: fruttato). Terra di Bari. È la pianta tipica dell’intera area, ma per riassumere l’importanza dell’olivo nella provincia barese, basta dire che la sua coltura risale al neolitico (5000 a.C.). Nel Medioevo quest’olio era molto richiesto dai mercanti veneziani, che l’esportavano in tutto il continente, e ancora oggi rappresenta un patrimonio per la storia, la tradizione culturale e commerciale della zona. La Dop è accompagnata dalle seguenti menzioni geografiche aggiuntive: “Castel del Monte” (varietà: Coratina, min. 80%; colore: verde con riflessi gialli; profumo: fruttato intenso; sapore: fruttato con sensazione media di amaro e piccante); “Bitonto”

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(da sole o congiunte, Cima di Bitonto o Ogliarola Barese , min. 80%; colore: verde-giallo; profumo: fruttato medio; sapore: fruttato con sensazione di erbe fresche e sentore leggero di amaro e piccante); “Murgia dei Trulli e delle Grotte” (varietà: Cima di Mola, min. 50%; colore: giallo oro con riflessi verdi; profumo: fruttato leggero; sapore: fruttato con sensazione di mandorle fresche e leggero sentore di amaro e piccante).

Terra d’Otranto. Così fu chiamato il Salento nel Medioevo, e l’olio qui prodotto, che prende quel nome, ha una lunghissima tradizione alle spalle: infatti, già 8000 anni fa i primi abitanti di queste terre coltivavano l’olivo, per non parlare delle copiose produzioni di Messapi e Fenici, Greci e Romani.L’area interessata comprende l’intera provincia di Lecce, e parte di quelle di Taranto e Brindisi; le varietà presenti, da sole o congiunte, sono Cellina di Nardò e Ogliarola (localmente denominata Ogliarola Leccese o Salentina), per un min. del 60%; colore: verde o giallo con riflessi verdi; profumo: fruttato medio con leggera sensazione di foglia; sapore: fruttato con leggera sensazione di piccante e di amaro.

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IL GALATEO

A tavola la sedia del signore era la più elevata, gli altri erano seduti su sgabelli. Si usavano vassoi d’ argento e coppe d’ oro, arrivavano in tavola interi cinghiali arrostiti, frittate di centinaia di uova, enormi brocche di vino, fruttiere ricolme. In pieno Medioevo apparve la prima forchetta, ma soltanto a due denti. Per molto tempo, però, fu usata soltanto dalle dame più nobili poiché per gli uomini era un segno di debolezza. Per pulirsi le mani c’erano diversi metodi, a seconda della raffinatezza, dell’ambiente e dell’epoca: si potevano strofinare con noncuranza sul mantello dei cani che girovagavano numerosi attendendo gli ossi, o si potevano lavare con acqua di rose, o tergere su tovaglie di lino. Dimenticare di offrire l’acqua di rose era considerato un’offesa, come del resto rifiutarla. C’era tutta una serie di regole da seguire, nei banchetti, tra cui “non sputare sulla tovaglia, tenere le unghie sempre “pulite”, e infine - dopo essersi soffiati il naso - pulirsi le dita non sulla tovaglia ma nella propria veste. Sempre per pulirsi le mani, c’era anche un’altra soluzione, molto diffusa e graditissima ai poveri: si mangiava su... tovaglie di pane, cioè sopra uno strato di pasta sottile, rettangolare, una specie di “pizza”, sulla quale ogni convitato tagliava la carne, lasciava colare il sugo, pulendosi poi le mani con un po’ di mollica intatta; quel che restava di queste “tovaglie” veniva dato ai poveri che aspettavano alla porta.

PRANZO E CENA

Per tutto il Medioevo sulle mense il pane aveva il primo posto; al pane si accompagnava un alquanto ridotto seguito di companatici, il che contribuiva ad accrescere ulteriormente l’importanza del principale alimento. La nostra civiltà ha attribuito al pane il ruolo di principale garante della sopravvivenza, di provvidenziale scudo contro la fame. I “buoni uomini” dei Ceppi elargivano farina e pane agli indigenti, per prima cosa garantivano ai beneficiati qualche giorno di minor preoccupazione: era così che si assicurava la tranquillità in occasione delle ricorrenze e negli altri frangenti in cui la fame di molti poteva rappresentare una fonte di grave turbamento. In questo Medioevo, quando si parla di carestia si deve intendere carestia di cereali: di tutto il resto si poteva anche fare a meno. Ma torniamo per ora al quotidiano; accanto al pane gli altri alimenti consueti per l’uomo comune sono gli ortaggi (prodotti

spesso nell’orticello di proprietà, situato accanto all’abitazione o subito fuori le mura di Prato, piccoli fazzoletti di terra dai quali comunque si cavavano insalate, cavoli, zucche, legumi, agli, cipolle, porri e qualche frutto), il formaggio, le uova ed anche la carne, piatto non certo quotidiano per tutti ma neanche agognata rarità per buona parte della popolazione.

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COSA SI BEVEVA A TAVOLA

Un notevole consumo di vino, diffuso in tutti gli strati della popolazione esso costituiva “il modo di procurarsi calorie ad un prezzo spesso più conveniente rispetto ad altri generi” particolarmente per i meno abbienti. Questi si accontentavano del vino locale, di bassa gradazione e bevuto spesso annacquato.

Il vino nel Medioevo

In Italia l’arte della viticoltura giunse inizialmente in Sicilia con i colonizzatori Egeo-Micenei, quasi quattromila anni fa e da lì si diffuse alle coste meridionali della Penisola. In seguito, intorno al 1000 a.C., la viticoltura fu portata al centro e al nord, in particolare nell’attuale regione Toscana, grazie al forte impulso dato dagli Etruschi. Le popolazioni italiche comunque coltivavano la vite e facevano il vino già prima del 2000 a.C., sia pure in maniera molto rudimentale, dal momento che il terreno e il clima erano i più adatti per questo genere di coltivazioni: non a caso ‘Enotria’ (Oenotria tellus) è l’antico nome della Penisola.Furono gli Enotri, stirpe che occupava la parte meridionale dell’Italia, in particolare le attuali regioni di Basilicata e Calabria, a creare le basi tecniche della nostra viti-enologia.

Molti dei vitigni diventati famosi in Italia furono importati dalla Grecia, come la Malvasia, ottenuto specialmente dalle uve bianche, il Greco, anch’esso ricavato dalle uve bianche dal caratteristico colore grigio-ambrato e l’Aglianico, dal caratteristico profumo di fragola. In epoca successiva ai romani, forse più di ogni altro popolo precedente, fu riconosciuto il merito di aver diffuso la viticoltura e soprattutto di aver affinato i metodi enologici, al punto tale che alcuni loro risultati non furono eguagliati fino al XVII-XVIII secolo. Con l’espansione dell’Impero romano, infatti, nacquero i vini del Reno, della Mosella, della Gallia, ovvero gli antenati degli attuali Bordeaux, Bourgogne, e Champagne. Il legionario romano aveva come ordine quello, al termine della conquista, di impiantare vigneti e di insegnare alle popolazioni indigene la tecnica della viti-enologia. In questo modo col tempo la coltivazione della vite si diffuse in Francia, Spagna, Germania, Gran Bretagna e nord Africa.Tra i più famosi vini del Medioevo si possono citare quelli del nord Italia, dell’Istria, i triestini Ribolla (dal latino rubeolus, rossastro, anche se è diffusa, soprattutto nella zona di Udine, una varietà gialla che dà un vino bianco, leggero e fresco), Terrano (di color rosso carico, con profumo di lampone, frizzante e asprigno) e Malvasia; i vini veronesi, la Vernazza bresciana ed i vini della Valtellina. In Liguria era già conosciuto il vino delle Cinque

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terre ed erano molto stimati anche i vini del bolognese, del modenese e dell’attuale Romagna in genere. In Toscana vi erano il Trebbiano (le cui denominazione risale al XIV secolo e indicava un vitigno che dava, com’è ancora oggi, un’uva bianca di color giallo-verdastro, usata per la preparazione di numerosi vini), la Malvasia, l’Aleatico, originario della Toscana ma oggi diffuso anche nel Lazio e in Puglia, il Sangiovese, vitigno famoso per la produzione di celebri vini come il Chianti o il Brunello di Montalcino, la Vernaccia (da Vernaccia, forma antica di Vernazza da dove proviene, coltivato anche in Sardegna: da questo vitigno si ricavano sia vini bianchi secchi, specialmente in Toscana, sia vini liquorosi e dolci soprattutto in Sardegna) di San Gimignano ed i vini di Montepulciano. Particolarmente apprezzati anche i Moscati, dolci e piacevoli, e le Malvasie di Lipari, per quanto riguarda le isole tirreniche dell’arcipelago delle Eolie.

Naturalmente è facile ora comprendere come sia stato possibile che in breve la fama dei vini toscani sia arrivata all’Inghilterra, alla Francia - dove da sempre lottano per un primato incontrastato dei vini- e alla Spagna. Dalla Spagna in particolare la vite fu portata nel nuovo mondo, dove solo da pochi anni si cerca di darne un carattere e una sua dignità. Del resto il vino è una bevanda propria dell’Europa e in particolare dell’Italia dove molti documenti riportano quanto fosse richiesto e apprezzato da tempo immemorabile il vino italiano. Molti sono stati infatti anche i poeti che hanno lasciato la loro testimonianza, scrivendo sonetti “d’amore” per il vino, in epoca medievale, moderna e contemporanea, in Italia come in Europa.

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Per fare zanzarelli Note In questa minestra, che ricorda i passatelli romagnoli quanto ad ingredienti, le proporzioni non sono fondamentali. The Medieval kitchen suggerisce, per 2 litri di brodo, 8 uova, 200 g parmigiano, 80 g di pangrattato e alcuni pistilli di zafferano. Queste proporzioni danno una minestra eccellente.

Lasciare lo zafferano in infusione nel brodo caldo per almeno 10 minuti. Riportare il brodo a bollore. aggiungere il composto di uova e formaggio e mescolare energicamente. Servire le spezie a parte. Spezie: 1/2 cucchiaino ciascuno di noce moscata e cardamomo, 1/8 di cucchiaino ciascuno di pepe nero e cannella (si intende spezie in polvere). Queste spezie sono anche eccellenti su una pasta al burro.

Per fare pollastro arrosto

Per fare pollastro arrosto si vuole cocere arrosto; et quando è cotto togli [aggiungi] sucho di pomaranci [arance], overo di bono agresto con acqua rosata, zuccharo et cannella, et mitti il pollastro in un piattello; et dapoi gettavi tal mescolanza di sopra et mandalo ad tavola. Note Arrostite il pollo secondo la vostra ricetta abituale, l’unica accortezza è di bagnarlo frequentemente durante la cottura con i grassi rilasciati dalla carne. Per la salsa: agresto è il succo di uva acerba che si può sostituire con del succo di limone o con dell’aceto delicato,

entrambi allungati con dell’acqua, oppure con del succo di mela verde. Se si usano le arance, la preferenza è per quelle amare (altrimenti aggiungere del succo di limone a del succo di arance dolci). Questa salsa rimane ovviamente “liquida” perché non prevede alcun addensante. Qualora aveste difficoltà a trovare l’acqua di petali di rose , provate a chiedere al vostro pasticcere. Le proporzioni di agro e di dolce sono soggettive; io suggerisco di andarci veramente piano sia con lo zucchero sia con la cannella: un pizzico di zucchero e una puntina di cannella potrebbero bastare, per iniziare. La ricetta di Martino non prevede grassi. Tuttavia, allontanandosi dal testo letterale, si

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potrebbe anche arrostire il pollo con del burro (sollevare la pelle dal collo e ungere con abbondante burro), a cottura ultima aggiungete dell’agresto al fondo di cottura, bollite il sughetto per ridurlo un po’ ed aggiungete la cannella e l’essenza di rose.

Capretto arrosto in saporePiglia un quarto di capretto et concialo molto bene como vole essere arrosto, et inlardalo et ponevi per dentro assai aglio in spichi mondate a modo se volesci impilottare o irlandare [come se volessi lardellare la carne del capretto con spicchi d’aglio]. Dapoi togli [aggiungi] de bono agresto, doi [due] rosci d’ova, doi spichi d’aglio ben piste, un pocho di zafrano, un pocho di pepe, et un pocho di brodo grasso, et mescola tutte queste cose inseme et ponile in un baso [vaso] sotto il capretto quando s’arroste, et bagnalo qualche volta con questo

tal sapore. Et quando è cotto poni il quarto del capretto in un piatto et ponivi di sopra il ditto sapore et un pocho di petrosillo [prezzemolo] battuto menuto. Et questo quarto di capretto vole essere ben cotto e magnato caldo caldo. Note Io ho usato un cosciotto di agnello (con l’osso) di circa 2.5 kg (basta per 6 persone). Lardellatelo e inseriteci abbondante aglio. Spennelatelo d’olio, pepate abbondantemente e salate. Arrostitelo per 15 minuti a 230° C, diminuite poi a 190° C e continuate la cottura calcolando 12 minuti per ogni 500 grammi per una carne al sangue (60° C temperatura interna) oppure 15 minuti per una carne media

(65° C temperatura interna). Bagnatelo con il suo fondo dopo i primi 30 minuti e poi ogni 15 minuti. Un consiglio: l’agnello è come il roast beef: cuocetelo troppo e lo rovinate. Quando è cotto, lasciatelo riposare per circa 30 minuti (coperto da alluminio, non in forno). Il riposo è essenziale perché la carne si rilassi: questo facilita poi l’affettarla e migliora la consistenza. Preparate nel frattempo la salsa: riscaldate 200 ml circa di brodo, aggiungete pochi pistilli (o mezza bustina) di zafferano e lasciate riposare per 10 minuti, a fuoco spento. Sbattete 4 tuorli con 100 ml di agresto, sale, pepe e 2 spicchi d’aglio tritato. Gradatamente versate il brodo sul composto di tuorli ed agresto, mescolando. Fate cuocere la salsa a bagno maria fino a che si sia addensata un po’, mescolando spesso. Incorporate del prezzemolo tritato. Si può anche aggiungete 1 cucchiaino di farina alla salsa per renderla più densa, stemperandola bene affinchè non si formino grumi. Affettate il cosciotto e passare la salsa a parte

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Torta bianca

Piglia una librat meza di bono cascio frescho, et taglialo menuto, et pistalo molto bene, et piglia dodici o quindici albume o bianchi d’ova, et macinali [mischiali] molto bene con questo cascio, agiongendovi meza libra di zuccharo, et meza oncia di zenzevero del più biancho che possi havere, similemente meza libra di strutto di porcho bello et biancho, o in loco di strutto altretanto botiro bono et frescho, item [similmente] de lo lacte competentemente, quanto basti, che serà assai un terzo di bocchale. Poi farrai la pasta overo crosta in la padella, sottile come vole essere, et mectiraila a cocere dandoli il focho a bell’agio di sotto

et di sopra; et farai che sia di sopra un pocho colorita per el caldo del focho; et quando ti pare cotta, cacciala fore de la padella, et di sopra vi metterai del zuccharo fino et di bona acqua rosata.

Note Questa dolce è di fatto una “cheesecake” ma non ha nulla a che fare con quelle pesantissime torte a base di Philadelphia, alte 10 cm e servire gelate da frigo. La versione di Maestro Martino, delicatamente speziata allo zenzero e leggera, è veramente da provare. Questa è la mia interpretazione: preparate una pasta brisè dolce con la quale possiate foderare una tortiera di 25 cm. Io ho usato: 200 g di farina, 160 g di burro, 30 g di zucchero a velo, 1 pizzico di sale, acqua fredda q.b. Cuocetela in bianco e fatela raffreddare. Ripieno: montate 125 g di burro con 125 g di zucchero, 1 cucchiaino scarso di zenzero in polvere e un pizzico di sale. Aggiungete 300 g di formaggio cremoso e mescolate – io ho usato del fromage fraise, un formaggio francese leggermente acidulo e non eccessivamente grasso. Un’alternativa potrebbe essere quella di usare dei fiocchi di latte passati al mixer (aggiungere della panna acida o del succo di limone). Sbattete delicatamente 6 albumi, giusto per romperli, ed aggiungeteli alla crema bianca. Il latte menzionato da Martino potrebbe non essere necessario: il composto deve infatti risultare cremoso ma non liquido. Mescolate il tutto delicatamente e versatelo nel guscio. Cuocete a 170° per circa 30-40 minuti, coprendo la torta a metà cottura con della carta oleata se rischia di scurirsi eccessivamente. Probabilmente la torta si gonfierà in forno per poi sgonfiarsi raffreddandosi. Tiratela fuori dal forno, spruzzatela con 1 cucchiaio di essenza di rosa (in mancanza usate l’acqua di fiori d’arancio) e spolveratela con zucchero. Va gustata tiepida.

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IL GIOCO NEL MEDIOEVO

I bambini nel Medioevo si accontentavano di giocare con ciottoli e conchiglie, che utilizzavano alla pari delle nostre biglie, oppure con ciuffi di lino o di canapa con i quali le bambine costruivano semplici bambole. Gli artigiani realizzavano fischietti di terracotta a forma d’uccello e uccelli animati in metallo, fabbricavano trottole e bambole con argilla o legno. A proposito di bambole … ne esistevano di differenti tipi, ognuna adatta ad una età diversa. Quelle destinate ai neonati erano modellate con l’argilla, riempite di biglie di terracotta ed usate come sonagli. In Italia inoltre si hanno notizie di bambole di legno a grandezza naturale, più manichini che balocchi, destinate a comparire nelle fiere. Probabilmente il regalo più apprezzato dai bambini era l’animale da compagnia; alle bambine, venivano generalmente regalati scoiattoli addomesticati o uccelli in gabbia mentre i maschietti sognavano di possedere un falco, i più fortunati ( ad esempio i figli dei castellani ) addirittura giocavano con le scimmie. Il giocattolo veniva comunque sempre utilizzato per indirizzare chi li usava alla futura professione o mestiere. A bambini si regalavano piccole lance, archi in miniatura, spade in legno e sempre il cavallo-bastone che si cavalcava correndo. Al contrario, alle bambine erano considerati come classici regali la canocchia in miniatura ed il secchio per attingere l’acqua. A chi viveva nelle campagne venivano invece regalati trampoli o carretti in legno.

GLI HOBBIES

Nel Medioevo nell’ Europa settentrionale, oltre alle zone coltivate, si trovavano molte foreste ampie che costituivano una fonte di risorse quasi inesauribile, prima fra tutte la legna. La foresta era anche piena di animali veloci che venivano cacciati come selvaggina più o meno pregiata, d’altronde l’ approvvigionamento di carne era ottenuto soprattutto dalla caccia Così la caccia si trasformò progressivamente in uno sport per pochi riservato a quanti potevano affrontarne le spese, quindi cessò di rappresentare il naturale sistema di procurarsi il cibo da parte degli abitanti delle campagne. Ricordiamo che Federico II amava andare a caccia con il falcone. Anche la pesca era molto importante per la popolazione medioevale, la preparazione di pesci salati e affumicati costituivano un ottimo guadagno per pescatori e commercianti. Sulla terra ferma si pescava in fiumi e vivai appositamente realizzati. Il pesce è sempre stato una sorpresa perchè, anche se le città facevano molti sforzi per organizzare il mercato, la pesca restava pur sempre incerta, la freschezza precaria e i trasporti difficili. Alla chiusura del mercato del Venerdì, i poveri recuperavano i pesci invenduti che gli venivano lanciati dai proprietari dei banchi che per legge glielo dovevano dare per evitare che al prossimo mercato potesse essere rivenduto il pesce avanzato al mercato precedente.

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NEL MEDIOEVO LE ATTIVITÀ GINNICHE RIPRENDONO DOPO UN LUNGO ESILIO.NEL XIII SECOLO NASCE IL

TERMINE “SPORT”

Nei confronti della civiltà romana e pagana, non é che il cristianesimo potesse esaltare l’ideale sportivo. Ciò sembra abbastanza naturale considerato che i cristiani ai trionfi corporali preferivano le riunioni di carattere mistico all’ombra e al chiuso delle catacombe. Tutto questo benché nel verbo di Cristo e nelle parole dei suoi apostoli non siano contenute espressioni di condanna per Olimpia e i suoi Giochi.

LE GIOSTRE DEI CAVALIERI Se questo avveniva in un periodo di ascetismo imperante, c’è peraltro da rivedere e da rivalutare il Medio Evo, interpretato dal Rinascimento e dall’Illuminismo come il secolo buio. Viceversa, proprio nel Medio Evo assistiamo alla rinascita dello spirito sportivo, proprio così. Difatti, attraverso le invasioni dei popoli germanici il sangue romano trovò nuova linfa. Ne trassero giovamento un po’ tutte le attività, dall’agricoltura alla letteratura e all’arte. Per l’appunto attorno al Mille, in epoca carolingia, da Carlo Magno, re dei Franchi, sorse una nuova civiltà dalla fusione tra il vecchio e il nuovo: anche il Cristianesimo della prima ora uscì dalle tenebre. Si diffusero le saghe dei popoli nordici che proponevano immagini di storia e sport. Del resto cosa rappresentavano le giostre dei cavalieri se non un momento di autentico agonismo sportivo? E poi i duelli che catalizzarono l’interesse di tutti per tutto il Medio Evo? E’ vero che non riapparvero gli spettacoli atletici e la ginnastica educativa, é però accertato che l’istituzione cavalleresca riuscì in una forma completa a far prosperare nell’età di mezzo l’idea olimpica e a trasmetterla ai posteri. Difatti la cavalleria, nata proprio negli anni attorno al Mille e consolidatasi in un lungo periodo che coincise con le Crociate, mantenne intatti i caratteri peculiari dell’olimpismo greco. Come per gli antichi Giochi d’Olimpia, anche la vita cavalleresca non era certamente aperta a ogni uomo; cosi come gli Elleni escludevano dallo stadio e dall’ippodromo chi non poteva vantare purezza di sangue e sicura patente di nobiltà, allo stesso modo l’educazione e la pratica cavalleresca comprendevano soltanto le alte sfere della società medievale. L’adolescente greco si preparava nel ginnasio ai Giochi atletici e alle future attività politiche, il cavaliere del Medio Evo, insieme a un’educazione preminentemente sportiva (va ricordato a questo riguardo che delle sette perfezioni cavalleresche, cinque si riferivano all’abilità nell’equitazione, nel nuoto, nel pugilato, nel tiro e nella caccia) senza trascurare gli studi tecnici, scientifici e letterari. Il cavaliere, infatti, voleva mostrare il proprio valore e la propria forza non solo in battaglia ma anche nel torneo, il “grande sport del Medio Evo”, in cui - ispirato sempre dal sentimento dell’onore - si cimentava con rivali degni di lui. Senz’altro minor rilievo hanno avuto invece la quintana, gioco di origine cavalleresca che costituì il maggior divertimento del vassallo nel giorno del proprio matrimonio, la lotta, il salto in lungo e in alto, il lancio della pietra, uno sport praticato ancora al giorno d’oggi nel sud della Spagna.

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GIOSTRE E TORNEI

Le prime fonti riguardanti tornei cavallereschi risalgono alla Francia settentrionale, ma ben presto questi giochi si diffusero in Europa. All’ inizio si trattava di combattimenti per addestrarsi alla guerra. Infatti più che a uccidere l’avversario si mirava a farlo prigioniero.Gli scontri si svolgevano su grandi spazi, in aperta campagna, ed erano combattimenti con scudi, lance, spade, pugnali e per fino a mani nude. La violenza degli scontri erano vietati dalla chiesa, che nel 1130 proibì i tornei perché erano troppo cruenti.Ma non durò molto perché nel 1316 i tornei si erano affermati come forma di spettacolo e di intrattenimento, che anche la chiesa ne prese atto e ritirò il divieto. I tornei erano scontri che mettevano l’una contro l’altra due squadre, che tra loro ci poteva essere un legame politico, etnico o regionale. Il risultato erano mischie i risse furibonde. Con il passare del tempo, le regole divennero più rigide e lo scontro passò dalle campagne alla città, dove furono creati appositi recinti. Accanto ai tornei di mischia, crebbe il successo delle giostre, che erano sfide tra soli due contendenti. I cavalieri galoppavano uno contro l’altro in corsie parallele, con le lance saldamente fissate sotto l’ascella destra e in un apposito appendice dell’armatura, tentando di colpirsi per disarcionarsi. Chi cadeva da cavallo perdeva e il vincitore passava il turno. Non erano validi i colpi all’elmo, e le lance erano realizzate in modo da spezzarsi nell’impatto. I premi erano le armi e il cavallo del vinto, ma anche oggetti preziosi e talvolta il cuore di una bella principessa.

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MISTERI E LEGGENDE MEDIEVALI

Il Medioevo è un crocevia di miti, leggende, tradizioni sacre e profane. In questa sezione affronteremo alcuni tra i principali enigmi che ancora oggi suscitano in noi notevole interesse e curiosità. Parleremo della Sacra Sindone, il sudario che la tradizione vuole utilizzato per avvolgere il corpo di Gesù; del Sacro Graal, la coppa in cui Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il Sangue di Cristo dopo la crocifissione; dell’Ordine dei poveri cavalieri di Cristo, i Templari; di San Galgano e la leggenda della spada della Roccia; ma anche di leggende e tradizioni più o meno note. Passiamo insieme in rassegna le persone, i luoghi, i fatti, le grandi imprese pronti a farci trasportare in un mondo affascinante e misterioso.

“LU LAURU”

Le persone anziane del mio paese raccontano che un tempo esisteva un folletto chiamato “Lauru” molto dispettoso. La notte si divertiva a saltare sulle persone mentre dormivano e non le faceva respirare, oppure nascondeva delle cose per farle impazzire il giorno dopo e quando si insediava in una casa ogni notte era un tormento per i dispetti che faceva. Le nonne raccontavano che una famiglia per la disperazione decise di cambiare casa

e quartiere. Trasportarono tutto nella casa nuova, la padrona si accorse che alla vecchia aveva dimenticato la scopa. Tutto ad un tratto sentì una voce soffocata che sussurrò “Te la vado aprendere io” era il Lauru che gli aveva seguiti. Mio nonno da giovane aveva un cavallo bellissimo, alto e snello e quasi tutte le notti alla criniera venivano fatte tante piccole trecce. Quando il nonno per ragioni di salute dovette vendere il cavallo nella stalla vennero depositati dei vasi di terra cotta, per dispetto forse, perché al Lauru era simpatico il cavallo , trovarono tutti i vasi rotti. Io non so quanto ci sia di vero in queste storielle ma qualcuna, mia nonna dice di averla vissuta.

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LE ORIGINI DEL TEATRO MEDIEVALE ITALIANO

Vanno da ricondurre alle rappresentazioni sacre esclusivamente nelle chiese fino alle rappresentazioni profane nelle piazze delle maggiori città d’Europa. In questi ultimi decenni le idee sulla natura del teatro si sono modificate, passando da una concezione che dava la massima importanza al testo letterario, ad una molto più larga ed organica che tiene di tutti gli elementi di cui si compone lo spettacolo. Da qui le ricerche si sono indirizzate verso forme spettacolari come cortei, processioni e feste popolari in genere. Pertanto le basi di questo nuovo orientamento prendono le mosse dalle feste e usanze popolari, legando l’etnografia alla storia del teatro. La nuova concezione si può ricondurre ad alcuni principi fondamentali:- tutte le forme drammatiche da cui si sviluppa il nostro teatro riconoscono la loro prima e unitaria origine dal rito: nascono come momenti essenziali e più significativi di cerimonie religiose; . Anche se questa frenesia gioiosa può avere la funzione psicologica, etica e sociale di un momentaneo allentamento nei vincoli di una rigida morale, il suo carattere fondamentale è puramente e sacralmente propiziatorio.I riti nei quali viene a configurarsi ed atteggi- Anche la commedia ha avuto all’origine carattere sacro, anche se è avvenuta nel mondo ritualistico della religione pagana; - Questo “teatro profano” antecedente al teatro cristiano, continua a vivere parallelamente ad esso e si prolunga fino al giorno d’oggi: nel suo grembo nasce e prospera la stagione teatrale in tutte le sue forme, e non solo per le classi popolari.Il nostro teatro ha la sua culla nella vita tradizionale del nostro popolo, e particolarmente nelle grandi feste annuali e stagionali di rinnovamento e di propiziazione a cui partecipa l’intera società, dagli strati più umili agli aristocratici, anche se con forme sempre più differenziate. Nelle feste come il Capodanno, il Carnevale, il Calendimaggio è chiara che si è conservata la derivazione dagli antichi riti pagani; altre come il Natale, l’Epifania, la Pasqua, dove è altrettanto palese l’origine cristiana, hanno avuto e tuttora conservano un carattere comune universale: sono feste di rinnovamento, di propiziazione per il nuovo ciclo temporale (anno o stagione) a cui danno inizio.La società ha bisogno di rinnovarsi ad ogni ritorno naturale del ciclo delle stagioni: rinnovarsi - eliminando tutto il grave cumulo di dolori, malattie, disgrazie, peccati addensatosi durante l’anno che muore - per poi assicurarsi, con tutti i mezzi che ogni diversa concezione magica e religiosa suggerisce, un felice svolgimento del tempo nuovo che arriva.

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IL CARNEVALE

Nella nostra società attuale la più grande di tali feste è stata il Carnevale, anche se ora questo suo significato sfugge alla coscienza dei più.Questa festa, è il principio magico secondo il quale l’intensa manifestazione di gioia da parte di tutta la comunità provoca e assicura il prospero svolgersi degli avvenimenti, l’abbondanza dei prodotti e maggior benessere arsi questo principio magico sono dunque ispirati al tripudio.Essi si compongono e si svolgono secondo una sequenza che regola i seguenti elementi: - la processione- il canto lirico corale- la musica- la danza- la forma drammatica vera e propria Lo scherzo, la satira la burla sono d’obbligo: e tanto più gli scherzi sono arditi e sguaiati, e le satire pungenti, tanto più hanno valore e riescono a far ridere la collettività. Non si tratta quindi di semplici passatempi, burle e scenette di gente frivola, ma di una cosa profondamente seria, da cui dipende la fortuna, l’abbondanza, la felicità dell’intero gruppo sociale.

I PERSONAGGI CHE AGISCONO NEL CARNEVALE

Il primo posto spetta naturalmente alla figura centrale che personifica la festa: il Carnevale.Con il suo sguardo fisso e brillo, col suo volto paffuto, col suo sorriso ambiguo egli sembra voler nascondere l’antica origine e la sua vera natura. Nelle sue diverse sembianze di uomo, più o meno ridicolmente mascherato, o di fantoccio gigantesco il Carnevale è il protagonista della lunga sequenza comica in cui si atteggia la cerimonia propiziatrice del nuovo anno. Né ci meraviglieremo di trovare in sostituzione o insieme un orso o un asino, o “l’omo selvatico” o il “vecchio”. Accanto a lui,

anzi di fronte a lui, e comunque facente coppia con lui prende posto il personaggio femminile: la Quaresima. Dall’accoppiata nasce la forma più elementare del dramma: il contrasto tra Carnevale e Quaresima. Insieme a loro troviamo sempre il corteo delle Maschere che sono diavoli o anime sotterranee. La prima funzione a cui e chiamato il complesso rituale

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della festa, come abbiamo accennato, è l’eliminazione del male. Tale parte del rito assume forma drammatica con una serie di episodi che si conclude con la morte di Carnevale. Dalle compagnie mascherate viene infatti rappresentato il trasporto funebre del Carnevale, mentre si canta una parodia di pianto funebre e si imita in tutti i particolari una vera e propria cerimonia di esequie: al trasporto segue la morte per bruciamento, annegamento, fucilazione, insomma per uccisione; Carnevale é il capro espiatorio che deve essere soppresso perché il male venga eliminato: la scena rappresenta dunque il punto centrale del rito purificatorio. Ma prima di morire Carnevale fa testamento, e anche questa fase del rito dà luogo ad una specifica forma drammatica conosciuta appunto col nome di “testamento”. In tale forma di drammaturgia il Carnevale denuncia i vizi e i mali dei concittadini depurando la collettività dei suoi peccati (funzione catartica delle manifestazioni collettive).Tuttavia non basta eliminare il male vecchio: é necessario assicurarsi il bene nuovo. Tra le forme drammatiche originate dai riti di propiziazione, le più importanti sono quelle che più specificatamente si riconnettono coi riti di fecondità. Uno degli elementi essenziali di tali feste è costituito dall’annuncio pubblico dei fidanzamenti poiché una coppia che si unisce produrrà per analogia la fertilità del suolo e l’abbondanza delle messi.

LE FORME SPETTACOLARI DEL RITO

Quando il rito assume forme spettacolari si compone di vari elementi che si ritrovano ben riconoscibili nelle diverse feste da cui il teatro si è generato.Questi elementi sono:- Processione - Danza - Musica - Dramma

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LA PROCESSIONE

Evidenti sono i valori ritualistici del corteo processionale. Il giro che la processione compie ha la precisa funzione di delimitare lo spazio sacro, il circolo magico. I partecipanti vi diventano attori, ciascuno vestito in un modo particolare. Di regola lungo il percorso i partecipanti al corteo cantano e talora danzano. Ritmico è il procedere scandito dai tamburi, da altri strumenti o dal passo di danza o di marcia.

Altre componenti sono il trasporto dell’ immagine della divinità, a volte accompagnata o sostituita da bare, macchine, statue simboliche, trionfi: intorno a queste sta il centro ideale della processione. Il corteo delle compagnie mascherate è uno degli elementi principali delle feste di Carnevale. In particolare la processione che l’ultimo giorno di baldoria simula il corteo funebre culminante nella scena di morte del Carnevale.

Significativo è il getto delle arance o dei confetti, seguito dai carri dei gruppi mascherati. L’arancio coi suoi numerosi semi e dal colore di fuoco è frutto simbolico di fecondità; spesso sono i maschi che lanciano arance alle femmine a sottolineare una simbolica inseminazione, altre volte sono battaglie in ricordo di quelle gare e lotte che caratterizzano la scelta nei riti di fertilità. Le relazioni tra processione e dramma sono molteplici, cosicché talvolta il corteo introduce direttamente all’azione scenica.

Le modalità attraverso le quali si attua la processione drammatica possono essere:

- processioni con trasporto di gruppi statuari che rappresentano determinati episodi; - processioni con gruppi di uomini che formano insieme quadri plastici; - processioni con gruppi che intonano canti lirici in coro; - processioni con gruppi che eseguono brevi scene sia lungo il percorso stando sui carri, sia nelle soste in luoghi predisposti.

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LA DANZA Occorre anzitutto insistere sul valore propiziatorio della danza nei riti di Capodanno e di Primavera. La danza, nelle feste in cui compare, ha il preciso scopo simbolico di propiziare la fertilità del suolo, di favorire l’abbondanza delle messi: più alti sono i salti di danza e più alto crescerà il grano. Oltre a quelle di corteggiamento eseguite in coppia, si hanno anche le danze in tondo che possono costituire il motivo della gara proprio, come già detto, delle feste di maggio.

Il più caratteristico ballo di maggio o dei riti primaverili è la danza delle Spade o dei Bastoni, seppur compaia anche in certi riti a carattere più agricolo.

La descrizione più precisa del ballo tondo o ruota - quale si eseguiva nell’Italia del XIV secolo - si riferisce alla festa di San Giovanni per la quale si eseguivano anche Tarantelle e alle tarantate.

Frequenti e stretti sono anche i legami tra danza e corteo. Nelle processioni carnevalesche la tradizione dei gruppi mascherati che si fermano regolarmente e danzano è il residuo di un costume antico che va sparendo.

Nelle feste di maggio italiane non c’è la forma così tipicamente francese del Trimazos, il camminar ballando, ma che i balli integrassero i giri di questua e i cortei è testimoniato dalla tradizione tuttora vivente in molti luoghi.

Nelle feste di Carnevale quanto nei Maggi drammatici la danza conclude la rappresentazione e un personaggio la preannuncia. Il fatto che, insieme con gli attori, ballano anche gli spettatori è una riprova della partecipazione unitaria del popolo allo spettacolo.

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LA MUSICA

La musica è unita alla processione col suono di tamburi, flauti, trombe ed altri strumenti che servono a scandire il ritmo o ravvivare il passo; la musica si accompagna sia al canto lirico sia a quello narrativo, alla danza e al dramma. Particolarmente va messa in luce la relazione tra musica e dramma: il teatro italiano medievale e rinascimentale, sia sacro che profano, fu sempre unito alla musica. Quando ad un certo punto la sacra rappresentazione e poi la commedia colto lasciarono il canto per la recitazione e poi il verso per la prosa, la musica si rifugiò negli intermezzi, precedendo e concludendo la rappresentazione ma senza abbandonare del tutto lo spettacolo. Il canto e la musica legano tra loro i personaggi, i racconti, gli avvenimenti e le danze.

IL DRAMMAUn’azione eseguita da più personalità, da attori che interpretano diversi personaggi è il tema dell’azione drammatica, sempre in più o meno stretto rapporto col rito di cui è parte integrante. Il rito è anche culla del teatro in tutte le sue forme; ciò vuol dire che ogni rito di qualche importanza - i contrasti tra Carnevale e Quaresima, le Befanate, i Testamenti, processo e condanna del Carnevale, la Giudiata, i Bruscelli, i Maggi, le danze armate e le moresche, le zingaresche - ha condotto al vero e proprio dramma.

PAOLINO E POLLA Una commedia per la corte di Federico II

Paolino e Polla, questo è il titolo di una commedia che Riccardo da Venosa scrisse in latino, per la corte di Federico.La vicenda, apparentemente semplice nella sua trama si complica di scena in scena in parossismo di situazioni grottesche.

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La farsa comincia con la visita della vecchi Polla all’avvocato Fulcone, al quale vuole affidare l’ incarico di portare a conclusione le sue nozze con Paolino. Ma le è impossibile entrare subito in argomenti.Sono necessari trecento versi prima che Polla inviti l’ avvocato a farle da intermediario con Paolino.Ma Fulcone che ha il vago sospetto d’essere preso in giro, vuol vederci chiaro. Qual è la dote della sposa? Pollo enumera: sei conocchie di filato, cento braccia di panno, sette galline con un gallo. Ma a sua volta polla pretende una controdote di sandali, borse e cinghie di cuoio.Fulcone accetta l’incarico e decide di parlarne con Paolino.Anche in questo caso il discorso ha un avvio evasivo e finiscono per parlare di tutto fuorché dell’ argomento principale: le nozze.Fulcone, per dimostrare se stesso che è sveglio lo prende a schiaffi.Ma il vecchio reagisce bastonandolo.Paolino decide per il si.Fulcone allora lo accompagna a casa, ma al ritorno è aggredito alcuni cani, finisce in una fossa, vicino la casa di un contadino, che era stato derubato durante la notte, così lo trascina in tribunale accusandolo di furto.Fulcone si appella al principe è viene assolto, e conduce a buon fine le nozze dei due vecchietti.

GLI SPETTACOLII “contrasti” delle figlie in cerca di marito

Tra le opere rappresentate nel tredicesimo secolo figurano acrobati, prestigiatori, saltimbanchi, ciarlatani che vendono intrugli contro le malattie, canta storie e giullari: questi i protagonisti degli spettacoli medioevali che si tenevano sulle piazze e nelle corti su palcoscenici improvvisati. Il “Contrasto delle due cognate”.La diceria delle due comari ubriache e i contrasti della figlia che vuole marito, un tema giunto fino ai giorni nostri con le canzonette. In genere si trattava di spettacoli sboccati, adatti ai palati per niente raffinati di quel tempo. Anche certe

ricorrenze di tipo militare diventavano spesso occasione di pubblici spettacoli. È il caso della manifestazione che si svolgeva ogni anno a Venezia in piazza San Marco il mercoledì grasso per ricordare la sconfitta che Andrea Dandolo, nel 1162, inflisse al patriarca di Aquileia Ulderico, imprigionato con alcuni suoi uomini durante una scorreria nel territorio della Repubblica. Ulderico ottenne la libertà, ma dovette impegnarsi a consegnare ogni anno al doge di Venezia un grande toro, dodici maiali grassi e dodici enormi pani. In Inghilterra, Francia e in Germania erano molto apprezzati gli spettacoli tenuti una volta l’ anno del clero minuto, che col permesso della chiesa si burlava di vescovi e sacerdoti indossando abiti da donna o paramenti sacri messi alla rovescia. Ad ogni buon conto i veri mattatori degli spettacoli medioevali restano i giullari e i cantastorie.

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LA VITA STUDENTESCA

In caso di bocciatura, vietato vendicarsi dei professori…..

Tremila a Oxford, seimila a Bologna,settemila a Parigi, questa la consistenza numerica media degli studenti che frequentavano le più note università d’ Europa. In quei tempi chiunque conoscesse il latino poteva andare all’ università o chi era in grado di pagare lo stipendio dei professori.Gli studi erano abbastanza severi e impegnativi e non sempre facili gli esami.A Parigi all’ inizio dell’ anno scolastico, gli studenti dovevano giurare che non si sarebbero dovuti vendicare dei professori in caso di bocciatura. Non si può dire che la categoria studentesca godesse, nel medioevo di largo credito fra le popolazioni delle città, universitarie: la sua turbolenza era fonte di continue preoccupazioni, le risse all’ ordine del giorno. Generalmente i ragazzi vivevano in piccole comunità di cinque, sei, dieci persone. Gli svaghi preferiti erano: la corte alle ragazze all’ ora del passeggio o in chiesa, il gioco a carte o a dadi. Sembra che le università più effervescenti fossero quelle di Oxford e Parigi.

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Alla realizzazione di questo lavoro molto ha contribuito sia la collaborazione del consiglio di classe 1I, sia la determinazione, l’impegno

e la volontà degli alunni del corso.Guidati dalla docente Giuseppina Lucia Sardelli e dall’esperto arch. Paolo

Capoccia gli studenti hanno stilato una ricerca storica sul Medioevo e Federico II, attingendo tutta la relativa documentazione storica da testi e

da ricerche telematiche.Il Dirigente Scolastico

Vladimiro Caliolo

Istituto Professionale di Stato per i

Servizi Alberghieri e della RistorazioneBRINDISI

Progetto relativo alle aree a rischio art. 9 CCNL comparto scuola 2002-2005Progetto grafico Francesco Zarcone