Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti;...

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Di padre in figlioAUTORE: Sobrero, MarioTRADUTTORE: CURATORE: NOTE: CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: Di padre in figlio : romanzo / di MarioSobrero. - 3. ed. - Milano : V. Bompiani, 1942. -367 p. ; 21 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 9 aprile 2019

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa

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1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:FIC004000 FICTION / Classici

DIGITALIZZAZIONE:Catia Righi, [email protected]

REVISIONE:Paolo Alberti, [email protected]

IMPAGINAZIONE:Catia Righi, [email protected]

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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Indice generale

Liber Liber......................................................................41892................................................................................71896..............................................................................491898..............................................................................851900............................................................................1261901............................................................................1731902............................................................................2141906-1907...................................................................2641911............................................................................3101912............................................................................3501913............................................................................3921914............................................................................4391916-1918...................................................................488

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Indice generale

Liber Liber......................................................................41892................................................................................71896..............................................................................491898..............................................................................851900............................................................................1261901............................................................................1731902............................................................................2141906-1907...................................................................2641911............................................................................3101912............................................................................3501913............................................................................3921914............................................................................4391916-1918...................................................................488

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DI PADREIN

FIGLIO

ROMANZO DI

MARIO SOBRERO

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DI PADREIN

FIGLIO

ROMANZO DI

MARIO SOBRERO

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1892

Clemenza, già pronta, uscí nella gran luce della spia-nata. – Vieni, – disse allegra al ragazzo – le aspettiamosulla strada. – In fretta e furia il temporale aveva lavatetutte le cose, i vecchi muri della Stellata, gli alberi, lecolline, che ora stavano immersi in un’aria dorata e fre-sca. Graziano portava una maglia azzurra ed una giaccacoi bottoni d’oro. Arrivarono al muricciolo dal quale siandava qualche volta a guardare una stretta valle silen-ziosa; la signorina vi sedette, piacendole mostrare chenon gliene importava della roba che aveva indosso. Ve-stiva sempre alla stessa maniera: gonna nera, camicettabianca, cintura nera di cuoio. All’inglese, dicevano. Nonvoleva riccioli; anche per questo faceva presto a vestirsi;i suoi capelli, di un biondo un po’ stanco, erano divisinel mezzo e annodati sulla nuca con quell’idea di sem-plicità.

Al ragazzo, rimasto in piedi davanti a lei, domandavache avesse fatto durante il giorno, quale libro leggesse.Nel rispondere Graziano osservava il suo viso magro,sempre vagamente colorito di rossore, il naso affilatocon le pinne vibranti, gli occhi larghi in orbite profonde;ricordava l’età che aveva udito attribuirle, trent’anni, esu quel viso scorgeva qualche segno che gli pareva già

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1892

Clemenza, già pronta, uscí nella gran luce della spia-nata. – Vieni, – disse allegra al ragazzo – le aspettiamosulla strada. – In fretta e furia il temporale aveva lavatetutte le cose, i vecchi muri della Stellata, gli alberi, lecolline, che ora stavano immersi in un’aria dorata e fre-sca. Graziano portava una maglia azzurra ed una giaccacoi bottoni d’oro. Arrivarono al muricciolo dal quale siandava qualche volta a guardare una stretta valle silen-ziosa; la signorina vi sedette, piacendole mostrare chenon gliene importava della roba che aveva indosso. Ve-stiva sempre alla stessa maniera: gonna nera, camicettabianca, cintura nera di cuoio. All’inglese, dicevano. Nonvoleva riccioli; anche per questo faceva presto a vestirsi;i suoi capelli, di un biondo un po’ stanco, erano divisinel mezzo e annodati sulla nuca con quell’idea di sem-plicità.

Al ragazzo, rimasto in piedi davanti a lei, domandavache avesse fatto durante il giorno, quale libro leggesse.Nel rispondere Graziano osservava il suo viso magro,sempre vagamente colorito di rossore, il naso affilatocon le pinne vibranti, gli occhi larghi in orbite profonde;ricordava l’età che aveva udito attribuirle, trent’anni, esu quel viso scorgeva qualche segno che gli pareva già

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di vecchiezza. Ma ella gli piaceva; forse gli piacevanosoprattutto quei segni di maturità e fatica, nei quali cre-deva di leggere confusamente misteri d’una vita di don-na. Pensava a quanto aveva un’altra volta udito, ch’ellaavesse fatto esperienze non consentite alle signorine.Quali cose poteva aver fatte, con chi? Dicevano che eraspregiudicata e che leggeva «come un uomo».

Sempre Clemenza parlava, rideva in modo nervoso,con leggeri brividi. Gli lisciò il bavero della giacca poigiocò a prendergli le mani e tirarlo a sé piano piano fincontro il petto. Graziano ebbe l’impressione di altre vol-te, che quelle mani fossero troppo scarne; ma la morbi-dezza del seno, che sentí un istante, gli richiamò allamemoria ancor una delle cose udite riguardo a lei: nonportava busto. Ritrovò quell’odore che conosceva, stra-no, come di vecchi libri e di persona che abbia la febbree di saponetta. Ogni sensazione del colloquio, l’intimitàch’ella gli faceva intendere come un lieve segreto traloro, il suo modo di parlare come per esprimere qualco-sa di diverso da ciò che veramente diceva, le rapide ca-rezze, lo commovevano senza turbarlo. Sapeva bene diessere soltanto un ragazzo di nove anni. L’effetto erache Clemenza lo sollevasse a zone sconosciute dell’esi-stenza, alla vita dei grandi, ma non di tutti, delle personesomiglianti a lei, piene di quel tremore che sembraval’anima stessa venuta a fior di pelle. Subito ella si alzò;quasi a mostrare di far la bambina per lui bambino, siportò le magre mani alla bocca e gettò una voce guar-dando certe case vicine, donde la voce tornò ben ripetu-

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di vecchiezza. Ma ella gli piaceva; forse gli piacevanosoprattutto quei segni di maturità e fatica, nei quali cre-deva di leggere confusamente misteri d’una vita di don-na. Pensava a quanto aveva un’altra volta udito, ch’ellaavesse fatto esperienze non consentite alle signorine.Quali cose poteva aver fatte, con chi? Dicevano che eraspregiudicata e che leggeva «come un uomo».

Sempre Clemenza parlava, rideva in modo nervoso,con leggeri brividi. Gli lisciò il bavero della giacca poigiocò a prendergli le mani e tirarlo a sé piano piano fincontro il petto. Graziano ebbe l’impressione di altre vol-te, che quelle mani fossero troppo scarne; ma la morbi-dezza del seno, che sentí un istante, gli richiamò allamemoria ancor una delle cose udite riguardo a lei: nonportava busto. Ritrovò quell’odore che conosceva, stra-no, come di vecchi libri e di persona che abbia la febbree di saponetta. Ogni sensazione del colloquio, l’intimitàch’ella gli faceva intendere come un lieve segreto traloro, il suo modo di parlare come per esprimere qualco-sa di diverso da ciò che veramente diceva, le rapide ca-rezze, lo commovevano senza turbarlo. Sapeva bene diessere soltanto un ragazzo di nove anni. L’effetto erache Clemenza lo sollevasse a zone sconosciute dell’esi-stenza, alla vita dei grandi, ma non di tutti, delle personesomiglianti a lei, piene di quel tremore che sembraval’anima stessa venuta a fior di pelle. Subito ella si alzò;quasi a mostrare di far la bambina per lui bambino, siportò le magre mani alla bocca e gettò una voce guar-dando certe case vicine, donde la voce tornò ben ripetu-

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ta dall’eco. Poi Graziano vide arrivare la propria madre,insieme a Barbara, sorella di Clemenza. Il momento erapassato.

Tutti insieme si avviarono al paese. Ad una delle pri-me case la signora Claudia batté con la punta del para-sole l’inferriata d’una finestra: – Mariolina! – Mariolinapresentò dietro le sbarre il viso né vecchio né giovine,che aveva pomelli rossi rigati di venuzze e piccoli occhineri, lustri. Fece i soliti inviti ad entrare, insistendo mol-to. – Quando ti stavo attorno nella nostra grande cucina,ricordi? – le chiese la signora. La salutò, e fu ripreso ilcammino sul rozzo acciottolato.

— Discorre ancora – disse la signorina Barbara – deipranzi di gala che preparava.

Il ragazzo andava innanzi da solo. Tenuta in mezzodalle amiche, Claudia Farra era animata, contenta. Por-tava un vestito di tela bianca con maniche assai larghesugli omeri e strette all’avambraccio; le disegnava lavita sottile un alto nastro di seta turchina; in fondo allagonna giusta s’increspavano due giri di balze. I suoi oc-chi scuri, non molto grandi ma pieni d’uno splendore in-tenso, scaldavano il volto che era bianco d’un bel pallo-re; gli scurissimi capelli, lisci sopra il capo, mostravanointorno alla fronte un arco di ricciolini, ed altri ricciolipiú grandi uscivano da un grosso nodo sulla nuca. Aconfronto con lei e con Clemenza l’aspetto di Barbara,gran fusto di donna, diceva subito che questa vergine as-sennata e faticona, presa nel busto come in una corazza,viveva in paese tutto l’anno. Ai lati della via case chiu-

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ta dall’eco. Poi Graziano vide arrivare la propria madre,insieme a Barbara, sorella di Clemenza. Il momento erapassato.

Tutti insieme si avviarono al paese. Ad una delle pri-me case la signora Claudia batté con la punta del para-sole l’inferriata d’una finestra: – Mariolina! – Mariolinapresentò dietro le sbarre il viso né vecchio né giovine,che aveva pomelli rossi rigati di venuzze e piccoli occhineri, lustri. Fece i soliti inviti ad entrare, insistendo mol-to. – Quando ti stavo attorno nella nostra grande cucina,ricordi? – le chiese la signora. La salutò, e fu ripreso ilcammino sul rozzo acciottolato.

— Discorre ancora – disse la signorina Barbara – deipranzi di gala che preparava.

Il ragazzo andava innanzi da solo. Tenuta in mezzodalle amiche, Claudia Farra era animata, contenta. Por-tava un vestito di tela bianca con maniche assai larghesugli omeri e strette all’avambraccio; le disegnava lavita sottile un alto nastro di seta turchina; in fondo allagonna giusta s’increspavano due giri di balze. I suoi oc-chi scuri, non molto grandi ma pieni d’uno splendore in-tenso, scaldavano il volto che era bianco d’un bel pallo-re; gli scurissimi capelli, lisci sopra il capo, mostravanointorno alla fronte un arco di ricciolini, ed altri ricciolipiú grandi uscivano da un grosso nodo sulla nuca. Aconfronto con lei e con Clemenza l’aspetto di Barbara,gran fusto di donna, diceva subito che questa vergine as-sennata e faticona, presa nel busto come in una corazza,viveva in paese tutto l’anno. Ai lati della via case chiu-

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se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portonesi vedeva l’aia e poi il vuoto della valle, con la luce cri-stallina. Ogni colore sembrava vernice fresca. Ma incresta alla collina di Luvo stavano schierate sopra unmuraglione le case della borghesia; guaste da una lebbradi vecchiaia e povertà: ogni volta lo sguardo di Grazia-no andava agli archi listati di giallo d’una di esse, per-ché vi abitava un ragazzo scemo che a quindici anni bal-bettava perdendo la bava come un infante. Alta su tuttoil paese era la chiesa, antica e robusta, ed esprimeva undominio prepotente; ma ciò si pensava, forse, perché eragovernata da un giovine prete un poco esaltato, il qualeesercitava una dura autorità.

Le signorine Breme, attaccate per affettuoso scherzoalle braccia di Claudia, chiacchieravano, ridevano. –Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. – È unapersona seria. – E questa era una delle facezie che al ra-gazzo facevan l’effetto di un ramo d’ortica sulla pelle.Non si volse. Da una porta augurò buon passeggio ilvecchio ciabattino mutilato, parlando tra il pelo spessoed incolto della faccia grassa che rideva; sul pavimentodella sua bottega, attorno al deschetto, era uno strato diritagli di cuoio; egli aveva una bizzarra gamba di legnoa piolo, col moncone chiuso in una specie di gabbia. Lebattaglie dell’Indipendenza, la guerra: un uomo che ave-va vissute quelle grandi cose, un uomo cosí brutto esporco. Graziano non riusciva ad unire in un solo pen-siero il ciabattino e la storia, lo sporco vecchio e i quadridi battaglie con fumo di cannoni e moribondi.

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se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portonesi vedeva l’aia e poi il vuoto della valle, con la luce cri-stallina. Ogni colore sembrava vernice fresca. Ma incresta alla collina di Luvo stavano schierate sopra unmuraglione le case della borghesia; guaste da una lebbradi vecchiaia e povertà: ogni volta lo sguardo di Grazia-no andava agli archi listati di giallo d’una di esse, per-ché vi abitava un ragazzo scemo che a quindici anni bal-bettava perdendo la bava come un infante. Alta su tuttoil paese era la chiesa, antica e robusta, ed esprimeva undominio prepotente; ma ciò si pensava, forse, perché eragovernata da un giovine prete un poco esaltato, il qualeesercitava una dura autorità.

Le signorine Breme, attaccate per affettuoso scherzoalle braccia di Claudia, chiacchieravano, ridevano. –Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. – È unapersona seria. – E questa era una delle facezie che al ra-gazzo facevan l’effetto di un ramo d’ortica sulla pelle.Non si volse. Da una porta augurò buon passeggio ilvecchio ciabattino mutilato, parlando tra il pelo spessoed incolto della faccia grassa che rideva; sul pavimentodella sua bottega, attorno al deschetto, era uno strato diritagli di cuoio; egli aveva una bizzarra gamba di legnoa piolo, col moncone chiuso in una specie di gabbia. Lebattaglie dell’Indipendenza, la guerra: un uomo che ave-va vissute quelle grandi cose, un uomo cosí brutto esporco. Graziano non riusciva ad unire in un solo pen-siero il ciabattino e la storia, lo sporco vecchio e i quadridi battaglie con fumo di cannoni e moribondi.

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Piú fermo era il silenzio nella vasta piazza. Lo chiu-deva, sempre con la stessa faccia impenetrabile, il palaz-zo ch’era stato degli Andosio. Sui gradini due fanciulliscalzi scrivevano col gesso. Quando la piazza fu quasiattraversata, uscí dalla farmacia un vecchietto che pare-va in maschera. Piano le signore se ne dissero il nomecon ilare spavento. Egli le aveva vedute; subito si dires-se verso Claudia: – Pax tibi, Claudia. Chi sono io?

— Il Messia, il Messia – risposero le signore in fretta.L’uomo non portava cappello, aveva una testa modellatasulle immagini popolari di Garibaldi, con lunghi capellibianchi cadenti sulle spalle, portamento autorevole,mani delicate cariche di anelli; sotto una giacca di vellu-to nero, sul petto della quale erano appuntati ciondoli,medaglie cucite piastrine di latta, aveva una tracolla ros-sa; alzava ad ogni istante un bastone a cui erano stati ap-piccicati a spirale, certo dal farmacista, cartellinidell’«Uso esterno». Viveva in una di quelle case cancre-nose dei signori, fisso da molti anni nell’idea di essereMessia e Re dei Re. – Tuo padre – disse a Claudia – micapiva. Un galantuomo! Non ve n’è piú. Questo ragazzobisogna che gli somigli. – Graziano si trasse indietro, lesignorine risero. – Zucche! – protestò il vecchio. – Voiragazze non sapete nulla. – E se ne andò agitando in ariail bastone variopinto.

La passeggiata venne continuata seguendo una stradache fiancheggiava il palazzo ed il suo giardino. Claudiaindicò al pianterreno la finestra della camera dov’eranata e dove sua madre poche ore dopo era morta. Guar-

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Piú fermo era il silenzio nella vasta piazza. Lo chiu-deva, sempre con la stessa faccia impenetrabile, il palaz-zo ch’era stato degli Andosio. Sui gradini due fanciulliscalzi scrivevano col gesso. Quando la piazza fu quasiattraversata, uscí dalla farmacia un vecchietto che pare-va in maschera. Piano le signore se ne dissero il nomecon ilare spavento. Egli le aveva vedute; subito si dires-se verso Claudia: – Pax tibi, Claudia. Chi sono io?

— Il Messia, il Messia – risposero le signore in fretta.L’uomo non portava cappello, aveva una testa modellatasulle immagini popolari di Garibaldi, con lunghi capellibianchi cadenti sulle spalle, portamento autorevole,mani delicate cariche di anelli; sotto una giacca di vellu-to nero, sul petto della quale erano appuntati ciondoli,medaglie cucite piastrine di latta, aveva una tracolla ros-sa; alzava ad ogni istante un bastone a cui erano stati ap-piccicati a spirale, certo dal farmacista, cartellinidell’«Uso esterno». Viveva in una di quelle case cancre-nose dei signori, fisso da molti anni nell’idea di essereMessia e Re dei Re. – Tuo padre – disse a Claudia – micapiva. Un galantuomo! Non ve n’è piú. Questo ragazzobisogna che gli somigli. – Graziano si trasse indietro, lesignorine risero. – Zucche! – protestò il vecchio. – Voiragazze non sapete nulla. – E se ne andò agitando in ariail bastone variopinto.

La passeggiata venne continuata seguendo una stradache fiancheggiava il palazzo ed il suo giardino. Claudiaindicò al pianterreno la finestra della camera dov’eranata e dove sua madre poche ore dopo era morta. Guar-

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dando sopra il muro di cinta i rami dei melagrani con iricchi frutti, le cime di velluto dei cedri, sentendo il gri-do rauco dei pavoni, un odor caldo di essenze vegetali,Graziano vedeva con l’immaginazione ciò che tante vol-te gli era stato descritto, scuderie, fontane, uccelliere,pergolati, piante rare; pensava che ora i suoi genitorinon possedevano niente; la ricchezza della famiglia disua madre gli sembrava appartenere ad un tempo favo-loso.

— Un paradiso, per me, subito perduto – diceva pia-no Claudia.

— Ora ne gode chi non lo merita – osservò Barbaraanche a voce bassa.

Clemenza disse: – Ogni famiglia ha il suo destino.— Non parliamo di cose tristi – soggiunse la signora

Farra.Giunto al cancello del giardino, Graziano fece atto di

avvicinarsi ad esso ma tosto si pentí, si trattenne, mentrela madre già lo richiamava. Poco oltre, la strada uscivadal paese scoprendo un larghissimo e ben compostoorizzonte nel quale ogni forma era modellata con mera-vigliosa morbidezza: una valle con molti poggi e paesi,un fiume, poi schiere di colline piú alte, trasparenti nellaluce che ora si faceva rossa, infine le Alpi, lontane, conuna piramide piú grande che pareva il segno ove il solesi dovesse calare. Là si vide infatti discendere il globoenorme arroventato; quindi anche le montagne divenne-ro trasparenti e sopra esse il cielo prese un colore son-tuoso, una tinta arancione inverosimile come i colori

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dando sopra il muro di cinta i rami dei melagrani con iricchi frutti, le cime di velluto dei cedri, sentendo il gri-do rauco dei pavoni, un odor caldo di essenze vegetali,Graziano vedeva con l’immaginazione ciò che tante vol-te gli era stato descritto, scuderie, fontane, uccelliere,pergolati, piante rare; pensava che ora i suoi genitorinon possedevano niente; la ricchezza della famiglia disua madre gli sembrava appartenere ad un tempo favo-loso.

— Un paradiso, per me, subito perduto – diceva pia-no Claudia.

— Ora ne gode chi non lo merita – osservò Barbaraanche a voce bassa.

Clemenza disse: – Ogni famiglia ha il suo destino.— Non parliamo di cose tristi – soggiunse la signora

Farra.Giunto al cancello del giardino, Graziano fece atto di

avvicinarsi ad esso ma tosto si pentí, si trattenne, mentrela madre già lo richiamava. Poco oltre, la strada uscivadal paese scoprendo un larghissimo e ben compostoorizzonte nel quale ogni forma era modellata con mera-vigliosa morbidezza: una valle con molti poggi e paesi,un fiume, poi schiere di colline piú alte, trasparenti nellaluce che ora si faceva rossa, infine le Alpi, lontane, conuna piramide piú grande che pareva il segno ove il solesi dovesse calare. Là si vide infatti discendere il globoenorme arroventato; quindi anche le montagne divenne-ro trasparenti e sopra esse il cielo prese un colore son-tuoso, una tinta arancione inverosimile come i colori

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dell’arcobaleno. Di trotto serrato arrivò, diretto a Luvo,un calesse elegante; il signore che vi era solo, guidavacon maniera di buona scuola l’alto cavallo dalla lungacriniera e coda; nel passare tracciò nell’aria un ampiosemicerchio col cappello chiaro a larga tesa, girando ilcollo robusto nel largo colletto arrovesciato, mostrandobene i capelli gettati all’indietro, il brillante sorriso, ilpizzetto, con certo garbo tra di ricco proprietario e dispadaccino.

— Il fatale Aroldo – commentò Clemenza. E Barba-ra: – Si è parlato del lupo. – Rapidi si allontanarono icolpi che il cavallo batteva sulla strada come sopra unmarziale tamburo.

Era inebriante andare attraverso la sera fastosa chechiamava come un’infinita libertà. Lo stradale e tutta lacampagna erano un invito. Arrivarono a guardar nellefinestrine della Madonna dei fiori, com’era consuetudi-ne, poi si volsero al ritorno. Il calesse entrava nel can-cello del giardino. Adesso per ogni strada o viottola sali-va gente dalle vigne; incominciava la musica della sera,belar di pecore, rumor di ruote, cigolar di secchi e paio-li; anche il paese mostrava un po’ di vita. Di coloro chepassavano, molti salutavano con particolare ossequio lasignora Claudia. Passò un uomo d’aspetto cittadinesco efece anch’egli un saluto profondo; era figlio d’un taleche era stato fattore di casa Andosio, veniva là in villeg-giatura. Affacciandosi al rumor delle voci le vecchie fa-cevan cenni alla signora come chi dice rallegrandosi:«Ti ho veduta piccolina». Presso la Stellata incontrarono

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dell’arcobaleno. Di trotto serrato arrivò, diretto a Luvo,un calesse elegante; il signore che vi era solo, guidavacon maniera di buona scuola l’alto cavallo dalla lungacriniera e coda; nel passare tracciò nell’aria un ampiosemicerchio col cappello chiaro a larga tesa, girando ilcollo robusto nel largo colletto arrovesciato, mostrandobene i capelli gettati all’indietro, il brillante sorriso, ilpizzetto, con certo garbo tra di ricco proprietario e dispadaccino.

— Il fatale Aroldo – commentò Clemenza. E Barba-ra: – Si è parlato del lupo. – Rapidi si allontanarono icolpi che il cavallo batteva sulla strada come sopra unmarziale tamburo.

Era inebriante andare attraverso la sera fastosa chechiamava come un’infinita libertà. Lo stradale e tutta lacampagna erano un invito. Arrivarono a guardar nellefinestrine della Madonna dei fiori, com’era consuetudi-ne, poi si volsero al ritorno. Il calesse entrava nel can-cello del giardino. Adesso per ogni strada o viottola sali-va gente dalle vigne; incominciava la musica della sera,belar di pecore, rumor di ruote, cigolar di secchi e paio-li; anche il paese mostrava un po’ di vita. Di coloro chepassavano, molti salutavano con particolare ossequio lasignora Claudia. Passò un uomo d’aspetto cittadinesco efece anch’egli un saluto profondo; era figlio d’un taleche era stato fattore di casa Andosio, veniva là in villeg-giatura. Affacciandosi al rumor delle voci le vecchie fa-cevan cenni alla signora come chi dice rallegrandosi:«Ti ho veduta piccolina». Presso la Stellata incontrarono

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un uomo maturo, gagliardo e diritto, con lunghi baffi an-cora biondi, il quale portava la zappa in ispalla con pi-glio fiero e nobile, come i soldati portano il fucile. Da-niele del Tessitore. Apparteneva ad un’antica famiglia dipossidenti ed era chiamato cosí perché in casa di suo pa-dre vi erano stati alcuni telai che facevano la tela. Fer-matosi ad attaccar discorso, disse le medesime cose chetutti dicevano: ricordava il padre della signora, «l’avvo-cato Emanuele», come se fosse scomparso da poco tem-po, e la carrozza a due cavalli con cui scendeva in cittàinsieme alla consorte, ed il cappello a staio che portavad’inverno, i pareri che dava per niente, i benefizi. Disseanche: – Gran belle terre erano le sue! – Volse al paesela faccia severa: – Qui c’è qualcuno che ha profittatodelle disgrazie.

Graziano continuava a camminare. Sempre lo infasti-diva sentir parlare di quel passato dai contadini: per pu-dore della storia di famiglia, forse anche per vergogna dioscuri fatti che sospettava. Gli dava pure fastidio che disimili discorsi la madre si compiacesse. Uscí frattantoda una porta un’altra donna anziana e disse a Claudia: –Voi siete bella, ma la vostra povera mamma era piú bel-la. E certe vesti! Era una gran dama.

Di là dai pilastri della Stellata, che non avevan piúcancelli ed ai quali si aggrappava la siepe arruffata comeuna pazza, sopra la vastissima spianata il casale si face-va ormai piccolo, in mezzo all’aria scolorita, come perpaura della notte che veniva. Nei cortili, per le scale,nelle stanze, vi era quasi il buio, le cose si confondeva-

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un uomo maturo, gagliardo e diritto, con lunghi baffi an-cora biondi, il quale portava la zappa in ispalla con pi-glio fiero e nobile, come i soldati portano il fucile. Da-niele del Tessitore. Apparteneva ad un’antica famiglia dipossidenti ed era chiamato cosí perché in casa di suo pa-dre vi erano stati alcuni telai che facevano la tela. Fer-matosi ad attaccar discorso, disse le medesime cose chetutti dicevano: ricordava il padre della signora, «l’avvo-cato Emanuele», come se fosse scomparso da poco tem-po, e la carrozza a due cavalli con cui scendeva in cittàinsieme alla consorte, ed il cappello a staio che portavad’inverno, i pareri che dava per niente, i benefizi. Disseanche: – Gran belle terre erano le sue! – Volse al paesela faccia severa: – Qui c’è qualcuno che ha profittatodelle disgrazie.

Graziano continuava a camminare. Sempre lo infasti-diva sentir parlare di quel passato dai contadini: per pu-dore della storia di famiglia, forse anche per vergogna dioscuri fatti che sospettava. Gli dava pure fastidio che disimili discorsi la madre si compiacesse. Uscí frattantoda una porta un’altra donna anziana e disse a Claudia: –Voi siete bella, ma la vostra povera mamma era piú bel-la. E certe vesti! Era una gran dama.

Di là dai pilastri della Stellata, che non avevan piúcancelli ed ai quali si aggrappava la siepe arruffata comeuna pazza, sopra la vastissima spianata il casale si face-va ormai piccolo, in mezzo all’aria scolorita, come perpaura della notte che veniva. Nei cortili, per le scale,nelle stanze, vi era quasi il buio, le cose si confondeva-

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no; ma rumori di vita giungevano dalle cucine e dallestalle, rumori di gente invisibile, e s’accendevano lumifiochi. Entrate al pianterreno le signorine Breme, Clau-dia salí a cenare col figlio. Rischiarava la tovaglia unalampada a petrolio posata sulla tavola rotonda: nei me-daglioni del paralume di carta la luce passava attraversovedute del Colosseo, del Ponte dei sospiri, della Torrependente. Intorno, la sala pareva molto grande; lontanierano gli stucchi dorati della volta, i fanciulli nudi chenei sovrapporti giocavano con trofei di guerra tra ruderiromani. Portando le frutta, la donna di servizio disse: –Le signorine avvisano che gli ingegneri verranno. –Claudia mangiò una pesca in fretta, poi andò a mutarsi ilvestito. Il ragazzo guardava sul piano luminoso dellamensa i bei fichi neri, l’acqua nella caraffa; non mangiòpiú; ascoltava la madre muovere con allegra prestezzanella camera accanto, ed ogni cosa aveva ora un’altraespressione, spiacevole; egli sentiva nell’aria come unpericolo, anche fuori della casa, nell’oscurità da cui ve-niva la sinfonia sempre eguale dei grilli, con le sueonde.

Quando discesero, la compagnia era già radunata nel-la sala grande. Quegli ingegneri dirigevano il lavorod’un acquedotto e sovente venivano a passar la sera allaStellata. Il capo, uomo anziano con figura di patrizio ar-tista, cravatta a fiocco, lente appesa ad un cordoncino,lunghi baffi spioventi ben lisciati, si studiava di cavarun’aria di Cimarosa dal secolare cèmbalo, sorridendo aClemenza che stava in piedi accanto all’istrumento. Il

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no; ma rumori di vita giungevano dalle cucine e dallestalle, rumori di gente invisibile, e s’accendevano lumifiochi. Entrate al pianterreno le signorine Breme, Clau-dia salí a cenare col figlio. Rischiarava la tovaglia unalampada a petrolio posata sulla tavola rotonda: nei me-daglioni del paralume di carta la luce passava attraversovedute del Colosseo, del Ponte dei sospiri, della Torrependente. Intorno, la sala pareva molto grande; lontanierano gli stucchi dorati della volta, i fanciulli nudi chenei sovrapporti giocavano con trofei di guerra tra ruderiromani. Portando le frutta, la donna di servizio disse: –Le signorine avvisano che gli ingegneri verranno. –Claudia mangiò una pesca in fretta, poi andò a mutarsi ilvestito. Il ragazzo guardava sul piano luminoso dellamensa i bei fichi neri, l’acqua nella caraffa; non mangiòpiú; ascoltava la madre muovere con allegra prestezzanella camera accanto, ed ogni cosa aveva ora un’altraespressione, spiacevole; egli sentiva nell’aria come unpericolo, anche fuori della casa, nell’oscurità da cui ve-niva la sinfonia sempre eguale dei grilli, con le sueonde.

Quando discesero, la compagnia era già radunata nel-la sala grande. Quegli ingegneri dirigevano il lavorod’un acquedotto e sovente venivano a passar la sera allaStellata. Il capo, uomo anziano con figura di patrizio ar-tista, cravatta a fiocco, lente appesa ad un cordoncino,lunghi baffi spioventi ben lisciati, si studiava di cavarun’aria di Cimarosa dal secolare cèmbalo, sorridendo aClemenza che stava in piedi accanto all’istrumento. Il

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piú giovine aveva un biondo viso rozzo e simpatico dimuratore, sul quale senza volere si cercava qualchemacchiolina di calce; egli faceva per ischerzo la cortealla vecchissima padrona di casa. Appollaiata sopra unenorme seggiolone a braccioli, col capino dentro unacuffia in fronzoli, la signora Breme faceva pensare aduna ragazzina che recitasse una parte di nonna: conmano tremante fiutava tabacco, si portava al naso il faz-zolettone appallottolato, e fatta per burla pareva la voceche le gorgogliava in gola passando in modo illogicodalle note basse alle alte, una voce molto simile a quelladei pappagalli. Fiammelle di candele oscillavano qua elà. Entrò Barbara portando altri due candelieri che misedavanti alla misteriosa ombra dello specchio. Il terzo in-gegnere, alto, bruno, elegante, un poco ironico, giocavaa dama col padre delle signorine, il fragile cereo profes-sor Gregorio.

Claudia apparve vestita d’un abito di leggera stoffanera su cui erano stampati pallidamente mazzi di fiori;aveva al collo un nodo di nastro rosso fuoco. Vivamentel’ingegnere anziano si alzò dal cèmbalo: – Anch’io sta-sera voglio ballare il valzer con voi, il piú bel valzer diStrauss! – Giunse ancora il fratello delle signorine, ilsergentaccio in licenza Paoletto, vestito in borghese diroba scompagnata trovata negli armadi; gigantesco, tut-to salute, aveva il suo sorriso furbo e soddisfatto.

— La volpe – osservò la vecchia – quando esce dalpollaio.

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piú giovine aveva un biondo viso rozzo e simpatico dimuratore, sul quale senza volere si cercava qualchemacchiolina di calce; egli faceva per ischerzo la cortealla vecchissima padrona di casa. Appollaiata sopra unenorme seggiolone a braccioli, col capino dentro unacuffia in fronzoli, la signora Breme faceva pensare aduna ragazzina che recitasse una parte di nonna: conmano tremante fiutava tabacco, si portava al naso il faz-zolettone appallottolato, e fatta per burla pareva la voceche le gorgogliava in gola passando in modo illogicodalle note basse alle alte, una voce molto simile a quelladei pappagalli. Fiammelle di candele oscillavano qua elà. Entrò Barbara portando altri due candelieri che misedavanti alla misteriosa ombra dello specchio. Il terzo in-gegnere, alto, bruno, elegante, un poco ironico, giocavaa dama col padre delle signorine, il fragile cereo profes-sor Gregorio.

Claudia apparve vestita d’un abito di leggera stoffanera su cui erano stampati pallidamente mazzi di fiori;aveva al collo un nodo di nastro rosso fuoco. Vivamentel’ingegnere anziano si alzò dal cèmbalo: – Anch’io sta-sera voglio ballare il valzer con voi, il piú bel valzer diStrauss! – Giunse ancora il fratello delle signorine, ilsergentaccio in licenza Paoletto, vestito in borghese diroba scompagnata trovata negli armadi; gigantesco, tut-to salute, aveva il suo sorriso furbo e soddisfatto.

— La volpe – osservò la vecchia – quando esce dalpollaio.

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— Paoletto, Paoletto! – dissero gli altri in tono di ma-lizioso rimprovero. Egli rispose con una risata schietta,poi domandò: – Nonna, non volete che beviamo?

Le antiche bottiglie di vini sciropposi che la signoraBreme offriva come un dono regale, riserbavano talvoltasorprese ingrate; ma quella sera il Samos fu buono.Dopo, Clemenza sedette al cembalo a sonare il valzer el’ingegnere capo lo danzò con Claudia esagerando viva-cità e galanteria; dalle sue braccia ella passò presto aquelle dell’ingegnere bruno, e la stessa musica fu danza-ta ma tracciando vortici piú voluttuosi sull’ammattonatoche Paoletto aveva spruzzato d’acqua. Anche Clemenzae la sorella danzarono, anche l’ingegnere biondo e Pao-letto: le coppie erano di volta in volta due o tre. Grazia-no sfuggí alla vegliarda che lo voleva vicino per discor-rere. Egli uscí dalla sala, vi rientrò; quel morso della ge-losia non cessava di farsi sentire. Ecco, di nuovo suamadre girava portata dalle spire del suono, col gomitomollemente posato sulla spalla del bel giovine, ed essinel girare si parlavano sorridendo, in qualche istante an-che si guardavano, cosí da presso; forse non esisteva piúniente, per loro, di ciò che era nella sala e nel mondo. Enessuno degli altri mostrava di stupirsene, di badarvi.Barbara anch’ella aveva dimenticata ogni altra cosa,rossa in viso, con gli occhi socchiusi, nelle braccia del«muratore» che con tanta facilità la faceva girare e an-dar attorno sebbene dov’essi passavano si sentisse il pa-vimento oscillare. E che voleva dire a Clemenza l’inge-gnere anziano, mentre sonava, cercando con quegli oc-

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— Paoletto, Paoletto! – dissero gli altri in tono di ma-lizioso rimprovero. Egli rispose con una risata schietta,poi domandò: – Nonna, non volete che beviamo?

Le antiche bottiglie di vini sciropposi che la signoraBreme offriva come un dono regale, riserbavano talvoltasorprese ingrate; ma quella sera il Samos fu buono.Dopo, Clemenza sedette al cembalo a sonare il valzer el’ingegnere capo lo danzò con Claudia esagerando viva-cità e galanteria; dalle sue braccia ella passò presto aquelle dell’ingegnere bruno, e la stessa musica fu danza-ta ma tracciando vortici piú voluttuosi sull’ammattonatoche Paoletto aveva spruzzato d’acqua. Anche Clemenzae la sorella danzarono, anche l’ingegnere biondo e Pao-letto: le coppie erano di volta in volta due o tre. Grazia-no sfuggí alla vegliarda che lo voleva vicino per discor-rere. Egli uscí dalla sala, vi rientrò; quel morso della ge-losia non cessava di farsi sentire. Ecco, di nuovo suamadre girava portata dalle spire del suono, col gomitomollemente posato sulla spalla del bel giovine, ed essinel girare si parlavano sorridendo, in qualche istante an-che si guardavano, cosí da presso; forse non esisteva piúniente, per loro, di ciò che era nella sala e nel mondo. Enessuno degli altri mostrava di stupirsene, di badarvi.Barbara anch’ella aveva dimenticata ogni altra cosa,rossa in viso, con gli occhi socchiusi, nelle braccia del«muratore» che con tanta facilità la faceva girare e an-dar attorno sebbene dov’essi passavano si sentisse il pa-vimento oscillare. E che voleva dire a Clemenza l’inge-gnere anziano, mentre sonava, cercando con quegli oc-

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chi cosí lucidi gli occhi di lei, che rispondevano ridenti?Graziano avrebbe voluto gridare, strappar la madre dallebraccia di quegli uomini, dalle braccia del bel giovine,costringere anche gli altri a cessare; e tuttavia pensavache erano idee sciocche.

Scoccate le undici alla pendola, Barbara s’avvicinòalla nonna, le diede il braccio per portarla a letto. In pie-di, appoggiata ad un bastoncino ed alla forte ragazza, lavecchia era ancor piú piccola e strana: una spanna di bu-sto, le pantofole viola appese ad un vestituccio vuoto.Non sembrava vero che le si potessero levare quella cuf-fia, quella veste senza disfarla come un fantoccio. Ilchiarore d’una luna grande mostrava le fronde del giar-dino dietro le robuste inferriate; tornata Barbara, lacompagnia uscí sulla spianata, come sempre. Solo ilprofessore rimase. Immenso era adesso il prato; gli albe-ri della peschiera, nel mezzo, e gli altri sul bordo dellaspianata erano ombre morbide, fantasmi d’alberi; intor-no alla distesa chiara non vi era piú che pallida luce pie-na di forme vaghe, non vere. Graziano camminava afianco di Paoletto; gli altri li precedevano e ad un trattofurono colti da un estro, si dispersero a coppie correndocome per fuggire, spargendo voci ardenti d’uomini, risaacute di donne ed il rumore delle loro vesti battentil’aria. Graziano vide la madre tratta per mano dal suopreferito compagno di danza, distinse le sue risate, isuoi gridi, e vi sentí – quale espressione, tanto diversa?– un capriccio, un’ebbrezza, un animo che non era piú ilsuo. Clemenza, come folle, trascinava cantando l’uomo

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chi cosí lucidi gli occhi di lei, che rispondevano ridenti?Graziano avrebbe voluto gridare, strappar la madre dallebraccia di quegli uomini, dalle braccia del bel giovine,costringere anche gli altri a cessare; e tuttavia pensavache erano idee sciocche.

Scoccate le undici alla pendola, Barbara s’avvicinòalla nonna, le diede il braccio per portarla a letto. In pie-di, appoggiata ad un bastoncino ed alla forte ragazza, lavecchia era ancor piú piccola e strana: una spanna di bu-sto, le pantofole viola appese ad un vestituccio vuoto.Non sembrava vero che le si potessero levare quella cuf-fia, quella veste senza disfarla come un fantoccio. Ilchiarore d’una luna grande mostrava le fronde del giar-dino dietro le robuste inferriate; tornata Barbara, lacompagnia uscí sulla spianata, come sempre. Solo ilprofessore rimase. Immenso era adesso il prato; gli albe-ri della peschiera, nel mezzo, e gli altri sul bordo dellaspianata erano ombre morbide, fantasmi d’alberi; intor-no alla distesa chiara non vi era piú che pallida luce pie-na di forme vaghe, non vere. Graziano camminava afianco di Paoletto; gli altri li precedevano e ad un trattofurono colti da un estro, si dispersero a coppie correndocome per fuggire, spargendo voci ardenti d’uomini, risaacute di donne ed il rumore delle loro vesti battentil’aria. Graziano vide la madre tratta per mano dal suopreferito compagno di danza, distinse le sue risate, isuoi gridi, e vi sentí – quale espressione, tanto diversa?– un capriccio, un’ebbrezza, un animo che non era piú ilsuo. Clemenza, come folle, trascinava cantando l’uomo

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piú anziano; Barbara, lagnandosi e godendo, era portataavanti dal biondo, il quale le aveva passato un bracciointorno alla cintura. Paoletto afferrò il ragazzo, ed anchequesti fu trascinato, sentiva le voci gioiose e la forza delcompagno portarlo suo malgrado; avrebbe voluto mor-der la mano che lo tirava, gridare piú forte di tutti, insul-ti a tutti; invece correva, e voci rotte, soffi simili al risogli uscivano suo malgrado di bocca. Soffriva un’ama-rezza intollerabile; pensava che sua madre ora non ricor-dava nemmeno ch’egli fosse al mondo, e forse non loavrebbe mai piú amato.

Giunsero sul margine della spianata: una valle giravaintorno alla collina come un fossato sotto uno spalto e làsi scorgevano i lumi d’una piccola città. I grandi sedet-tero sull’erba ansando, ridendo, tentando di scambiarsiamichevoli beffe e commenti. Il «muratore» aveva por-tata la chitarra, ne strappò vigorosi arpeggi ed appenariebbe fiato s’accompagnò una canzone napoletana.Solo in disparte, dimenticato, Graziano guardava le om-bre delle colline piú lontane e col pensiero cercava làdietro il luogo dov’era suo padre. Intanto udiva la voceche cantava, ed essa faceva triste tutto lo spazio.

* * *

Dalla Stellata i contadini uscivano prima di giorno,poiché andavano a lavorare distante; non lasciavano acasa che qualche vecchia a custodir bambini; alcune diquelle famiglie occupavano appartamenti nobili in sfa-

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piú anziano; Barbara, lagnandosi e godendo, era portataavanti dal biondo, il quale le aveva passato un bracciointorno alla cintura. Paoletto afferrò il ragazzo, ed anchequesti fu trascinato, sentiva le voci gioiose e la forza delcompagno portarlo suo malgrado; avrebbe voluto mor-der la mano che lo tirava, gridare piú forte di tutti, insul-ti a tutti; invece correva, e voci rotte, soffi simili al risogli uscivano suo malgrado di bocca. Soffriva un’ama-rezza intollerabile; pensava che sua madre ora non ricor-dava nemmeno ch’egli fosse al mondo, e forse non loavrebbe mai piú amato.

Giunsero sul margine della spianata: una valle giravaintorno alla collina come un fossato sotto uno spalto e làsi scorgevano i lumi d’una piccola città. I grandi sedet-tero sull’erba ansando, ridendo, tentando di scambiarsiamichevoli beffe e commenti. Il «muratore» aveva por-tata la chitarra, ne strappò vigorosi arpeggi ed appenariebbe fiato s’accompagnò una canzone napoletana.Solo in disparte, dimenticato, Graziano guardava le om-bre delle colline piú lontane e col pensiero cercava làdietro il luogo dov’era suo padre. Intanto udiva la voceche cantava, ed essa faceva triste tutto lo spazio.

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Dalla Stellata i contadini uscivano prima di giorno,poiché andavano a lavorare distante; non lasciavano acasa che qualche vecchia a custodir bambini; alcune diquelle famiglie occupavano appartamenti nobili in sfa-

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celo. Presto appariva sulla spianata Costante, l’altro fi-glio della signora Breme, vestito di nero, con grossi baf-fi grigi e grosse sopracciglia, con un contegno come sevenisse sempre dagli uffici dello Stato dove aveva tra-scorsa l’esistenza. Poi usciva Mercurino, figlio suo, ma-gro, di pelo rosso, stretto in abitucci rivoltati; passeg-giando, accarezzandosi la barbetta misera, studiava avoce alta per un concorso governativo che non avevamai il coraggio d’affrontare; talvolta si accorgeva chenon gli restava niente nella memoria ed allora si sedevasotto un albero a piangere. Prima che sbucasse Paoletto,lo si udiva innalzar note festose; poche, per non distur-bar troppo chi dormiva ancora. Egli andava nelle vignecon un pane sotto braccio, a cogliersi la frutta dagli al-beri. – Bravo, Mercurino, studia! – Il cugino teneva gliocchi sul libro. Se il sergentaccio passava accanto allozio Costante, gli era ricambiato il saluto con fredda de-gnazione.

La grande casa fatta come un convento dormiva anco-ra quando il sole era già alto. Infine Clemenza andavanella biblioteca ad aiutare suo padre, il professor Grego-rio, il quale da anni, inverno ed estate, in città ed incampagna, ammucchiava schede e schede per compilareun vocabolario. E poco prima del mezzodí giungeva sot-to il portico del primo cortile «la nonna», attaccata aBarbara che l’aveva vestita, con l’abito di cotone a fio-retti e un fazzoletto da contadina in capo, ancora scon-tenta della levata, dispettosa, piú che mai rauca. La ni-pote l’accompagnava nel giardino chiuso, non piú gran-

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celo. Presto appariva sulla spianata Costante, l’altro fi-glio della signora Breme, vestito di nero, con grossi baf-fi grigi e grosse sopracciglia, con un contegno come sevenisse sempre dagli uffici dello Stato dove aveva tra-scorsa l’esistenza. Poi usciva Mercurino, figlio suo, ma-gro, di pelo rosso, stretto in abitucci rivoltati; passeg-giando, accarezzandosi la barbetta misera, studiava avoce alta per un concorso governativo che non avevamai il coraggio d’affrontare; talvolta si accorgeva chenon gli restava niente nella memoria ed allora si sedevasotto un albero a piangere. Prima che sbucasse Paoletto,lo si udiva innalzar note festose; poche, per non distur-bar troppo chi dormiva ancora. Egli andava nelle vignecon un pane sotto braccio, a cogliersi la frutta dagli al-beri. – Bravo, Mercurino, studia! – Il cugino teneva gliocchi sul libro. Se il sergentaccio passava accanto allozio Costante, gli era ricambiato il saluto con fredda de-gnazione.

La grande casa fatta come un convento dormiva anco-ra quando il sole era già alto. Infine Clemenza andavanella biblioteca ad aiutare suo padre, il professor Grego-rio, il quale da anni, inverno ed estate, in città ed incampagna, ammucchiava schede e schede per compilareun vocabolario. E poco prima del mezzodí giungeva sot-to il portico del primo cortile «la nonna», attaccata aBarbara che l’aveva vestita, con l’abito di cotone a fio-retti e un fazzoletto da contadina in capo, ancora scon-tenta della levata, dispettosa, piú che mai rauca. La ni-pote l’accompagnava nel giardino chiuso, non piú gran-

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de di una sala, di cui la vegliarda teneva sempre la chia-ve, di giorno in tasca e di notte sotto il guanciale, peravarizia della frutta ma piú per gelosia del luogo, dove anessuno era mai permesso d’entrare. Sotto un nèspolo viera là un grande seggiolone, e Barbara ve l’accomoda-va; poi la nonna piano piano si metteva a girare a pas-setti tastando i fichi e sforzandosi di contar i grappolidel moscatello; tornava anche fuori, puntando forte ilsuo esile bastone; vi era un «seggiolone della nonna»sotto il portico ed in molte stanze. Il professor Gregorioriceveva di seconda mano una gazzetta, ed ella se ne fa-ceva dar lettura da Barbara, interessandosi delle atrocitàdel Sultano e degli scandali parigini sebbene fossero no-tizie vecchie di qualche giorno. A causa della sordità te-neva gli occhi fissi sulle labbra della lettrice, ma inten-deva subito.

Entrambi i suoi figli erano vedovi. Il cavalier Costan-te, in disaccordo con la madre e con Gregorio, viveva làtutto l’anno come un vicino maligno, formando un pro-prio partito insieme a Mercurino e ad una giovane servaastuta che aveva audaci ambizioni. Clemenza, nei mesidella Stellata, non si occupava di tali miserie; il profes-sore viveva con la mente al vocabolario apposta per nonvedere i guai; ma Barbara, legata alla nonna, dovevacombattere l’intera annata, arrabbiandosi e soffrendomalgrado la salute poderosa. Un mattino, stando sullaloggia d’un cortile, Graziano udí scappar fuori da una fi-nestra del pianterreno un litigio tra questa ragazza e lozio; la signora Breme cercava di risolver la questione,

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de di una sala, di cui la vegliarda teneva sempre la chia-ve, di giorno in tasca e di notte sotto il guanciale, peravarizia della frutta ma piú per gelosia del luogo, dove anessuno era mai permesso d’entrare. Sotto un nèspolo viera là un grande seggiolone, e Barbara ve l’accomoda-va; poi la nonna piano piano si metteva a girare a pas-setti tastando i fichi e sforzandosi di contar i grappolidel moscatello; tornava anche fuori, puntando forte ilsuo esile bastone; vi era un «seggiolone della nonna»sotto il portico ed in molte stanze. Il professor Gregorioriceveva di seconda mano una gazzetta, ed ella se ne fa-ceva dar lettura da Barbara, interessandosi delle atrocitàdel Sultano e degli scandali parigini sebbene fossero no-tizie vecchie di qualche giorno. A causa della sordità te-neva gli occhi fissi sulle labbra della lettrice, ma inten-deva subito.

Entrambi i suoi figli erano vedovi. Il cavalier Costan-te, in disaccordo con la madre e con Gregorio, viveva làtutto l’anno come un vicino maligno, formando un pro-prio partito insieme a Mercurino e ad una giovane servaastuta che aveva audaci ambizioni. Clemenza, nei mesidella Stellata, non si occupava di tali miserie; il profes-sore viveva con la mente al vocabolario apposta per nonvedere i guai; ma Barbara, legata alla nonna, dovevacombattere l’intera annata, arrabbiandosi e soffrendomalgrado la salute poderosa. Un mattino, stando sullaloggia d’un cortile, Graziano udí scappar fuori da una fi-nestra del pianterreno un litigio tra questa ragazza e lozio; la signora Breme cercava di risolver la questione,

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nata per qualche erbaggio dell’orto, ma tosto Barbara eCostante, gridando sempre piú forte, si attaccarono amotivi di rancore ben piú gravi, e la vecchia invano ten-tava di farli tacere, e Costante allora si mise ad urlarecontro lei, che la colpa era sua, la colpa di tutti i contra-sti, poiché aveva dati mucchi di denaro per il collegio diGregorio, senza mai renderne conto. Si udí il colpo d’unbastone sopra una tavola, quindi la voce della signorasuperò le altre, le ridusse al silenzio, con quei suoni oraumani ora da uccellaccio, pieni d’una forza che mettevapaura: – Sono passati vent’anni! La padrona ero io, lapadrona sono io! Ho la mia giustizia, che non rendeconti. Sono la madre, fin che vivo! – Dopo, Grazianovide il cavaliere uscire in fretta, pallido, ravviandosi igrossi baffi con mano incerta. Nella loggia il ragazzoguardò alcuni banchi di scuola, macchiati di bianco dal-le rondini: il collegio era stato là, il collegio fallito. Pen-sava ai due vecchi fratelli e non capiva come potesseroodiarsi, cosí compassati e dignitosi. Quel giorno la si-gnora Breme volle restare nel giardino, sola, senza pren-der cibo, fino a sera.

Nella camera della vegliarda, piena zeppa di mobili equadri antichi, vi era ad una parete lo stemma comitale,di stucco dipinto, della famiglia Stella da cui ella prove-niva. Senza lasciar figli eran morti i suoi fratelli, da tantianni che la signora pareva averli dimenticati, come ave-va dimenticato il marito. Un foglio giallo in cornice di-ceva che Clementina Carlotta Maria era nata «li 18 gen-naro 1801». Sopra un divano stavano appesi due piccoli

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nata per qualche erbaggio dell’orto, ma tosto Barbara eCostante, gridando sempre piú forte, si attaccarono amotivi di rancore ben piú gravi, e la vecchia invano ten-tava di farli tacere, e Costante allora si mise ad urlarecontro lei, che la colpa era sua, la colpa di tutti i contra-sti, poiché aveva dati mucchi di denaro per il collegio diGregorio, senza mai renderne conto. Si udí il colpo d’unbastone sopra una tavola, quindi la voce della signorasuperò le altre, le ridusse al silenzio, con quei suoni oraumani ora da uccellaccio, pieni d’una forza che mettevapaura: – Sono passati vent’anni! La padrona ero io, lapadrona sono io! Ho la mia giustizia, che non rendeconti. Sono la madre, fin che vivo! – Dopo, Grazianovide il cavaliere uscire in fretta, pallido, ravviandosi igrossi baffi con mano incerta. Nella loggia il ragazzoguardò alcuni banchi di scuola, macchiati di bianco dal-le rondini: il collegio era stato là, il collegio fallito. Pen-sava ai due vecchi fratelli e non capiva come potesseroodiarsi, cosí compassati e dignitosi. Quel giorno la si-gnora Breme volle restare nel giardino, sola, senza pren-der cibo, fino a sera.

Nella camera della vegliarda, piena zeppa di mobili equadri antichi, vi era ad una parete lo stemma comitale,di stucco dipinto, della famiglia Stella da cui ella prove-niva. Senza lasciar figli eran morti i suoi fratelli, da tantianni che la signora pareva averli dimenticati, come ave-va dimenticato il marito. Un foglio giallo in cornice di-ceva che Clementina Carlotta Maria era nata «li 18 gen-naro 1801». Sopra un divano stavano appesi due piccoli

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e lustri ritratti ad olio di un florido giovine in abito rica-mato d’oro e di una giovine dama con occhi azzurri econ bei seni rotondi posati nel canestro d’un corpettorosa. Nessuno, pur sapendo chi fosse la coppia, riuscivaad immaginare quegli sposi nella stessa realtà a cui ap-parteneva la vecchia col suo vestito a fioretti, nelle ta-sche del quale teneva mazzi di chiavi, il fazzoletto ta-baccoso, una tabacchiera da pochi soldi.

In camera ella conduceva talvolta Graziano. Al ragaz-zo la tenda ben tirata dell’alcova richiamava semprel’idea del fantoccio, – Tu sei un gioiellino, il mio buonbracciere – diceva la voce di pappagallo. Graziano si ve-deva nel pensiero della signora come in uno specchio,figura di fanciullo ammodo che lo irritava. Avendo ungiorno la vecchia alzato il capo a mostrare un quadro, lescivolò il fazzoletto da contadina fin sulla nuca, ed il ra-gazzo poté scorgere un momento il suo cranio quasinudo, macchiato come di ruggine. Novantadue anni, untempo incomprensibile. La signora ricordava come ave-va appresa la condanna di Silvio Pellico, la lettura dellasentenza di Venezia, davanti ad una folla muta per il ter-rore. Ma raccontava di rado. Vedendo Graziano toccarun’arancia in un cestino di frutti d’alabastro, una voltale sgorgò dalla memoria un episodio: – Tu avrai studiataa scuola la guerra del ’59. Vi furono presi prigionierimolti Austriaci, a Montebello, Palestro, Vinzaglio; quel-li ch’erano feriti, vennero portati a Torino per curarlinell’ospedale militare. Io ero già una signora anziana, liandai a visitare per carità. Avevo mandata una cesta

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e lustri ritratti ad olio di un florido giovine in abito rica-mato d’oro e di una giovine dama con occhi azzurri econ bei seni rotondi posati nel canestro d’un corpettorosa. Nessuno, pur sapendo chi fosse la coppia, riuscivaad immaginare quegli sposi nella stessa realtà a cui ap-parteneva la vecchia col suo vestito a fioretti, nelle ta-sche del quale teneva mazzi di chiavi, il fazzoletto ta-baccoso, una tabacchiera da pochi soldi.

In camera ella conduceva talvolta Graziano. Al ragaz-zo la tenda ben tirata dell’alcova richiamava semprel’idea del fantoccio, – Tu sei un gioiellino, il mio buonbracciere – diceva la voce di pappagallo. Graziano si ve-deva nel pensiero della signora come in uno specchio,figura di fanciullo ammodo che lo irritava. Avendo ungiorno la vecchia alzato il capo a mostrare un quadro, lescivolò il fazzoletto da contadina fin sulla nuca, ed il ra-gazzo poté scorgere un momento il suo cranio quasinudo, macchiato come di ruggine. Novantadue anni, untempo incomprensibile. La signora ricordava come ave-va appresa la condanna di Silvio Pellico, la lettura dellasentenza di Venezia, davanti ad una folla muta per il ter-rore. Ma raccontava di rado. Vedendo Graziano toccarun’arancia in un cestino di frutti d’alabastro, una voltale sgorgò dalla memoria un episodio: – Tu avrai studiataa scuola la guerra del ’59. Vi furono presi prigionierimolti Austriaci, a Montebello, Palestro, Vinzaglio; quel-li ch’erano feriti, vennero portati a Torino per curarlinell’ospedale militare. Io ero già una signora anziana, liandai a visitare per carità. Avevo mandata una cesta

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d’arance, ed un infermiere mi seguiva portandola. Que-gli Austriaci stavano nei letti, pallidi, bendati. Dal primoal quale ne offersi, ebbi un rifiuto; provai con un altro econ un terzo e con un quarto, tutti ricusarono. Mi senti-vo, caro Graziano, un nodo alla gola. Uno dei loro sot-tufficiali era il capo della camerata; gli chiesi spiegazio-ne. Aveva un’aria furba e cattiva ma finí per dire ch’era-no stati avvertiti di non accettar niente dai cittadini, secadevano prigionieri, perché li avrebbero avvelenati.Come si possono avvelenare le arance? Facevano cosíper disprezzo. Io ne presi una a caso, in fretta la sbuc-ciai, ne mangiai uno spicchio, che tutti vedessero. Allo-ra i feriti, prima uno e poi gli altri, presero di quei frutti;alcuni li mangiarono subito, e dicevano come scherzan-do: «Non veleno, non veleno».

Il ragazzo osservava i suoi occhi liquidi, il grossonaso ricurvo sporco di tabacco, il capo penzolante inavanti, le mani piccole con grosse vene sotto la pelle agrinze, anch’esse pendenti, che tremavano. Feriti edarance stavano in una favolosa lontananza. Se la signorasi faceva accompagnare da lui, un leggero senso di schi-fo saliva su per il braccio di Graziano al contatto colbraccio di scheletro che vi si appoggiava; ma egli sape-va che la vecchiaia è veneranda, recitava la sua parte.Del resto, dallo scheletro vestito non venivan fuori beipensieri, parole vive, visioni di tempi e di mondi? Que-sto al ragazzo pareva strano. «Come può succedere?»Spesso la vegliarda gli parlava del padre: – Una bellamente, il tuo babbo. Splendido avvenire! E farà molto

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d’arance, ed un infermiere mi seguiva portandola. Que-gli Austriaci stavano nei letti, pallidi, bendati. Dal primoal quale ne offersi, ebbi un rifiuto; provai con un altro econ un terzo e con un quarto, tutti ricusarono. Mi senti-vo, caro Graziano, un nodo alla gola. Uno dei loro sot-tufficiali era il capo della camerata; gli chiesi spiegazio-ne. Aveva un’aria furba e cattiva ma finí per dire ch’era-no stati avvertiti di non accettar niente dai cittadini, secadevano prigionieri, perché li avrebbero avvelenati.Come si possono avvelenare le arance? Facevano cosíper disprezzo. Io ne presi una a caso, in fretta la sbuc-ciai, ne mangiai uno spicchio, che tutti vedessero. Allo-ra i feriti, prima uno e poi gli altri, presero di quei frutti;alcuni li mangiarono subito, e dicevano come scherzan-do: «Non veleno, non veleno».

Il ragazzo osservava i suoi occhi liquidi, il grossonaso ricurvo sporco di tabacco, il capo penzolante inavanti, le mani piccole con grosse vene sotto la pelle agrinze, anch’esse pendenti, che tremavano. Feriti edarance stavano in una favolosa lontananza. Se la signorasi faceva accompagnare da lui, un leggero senso di schi-fo saliva su per il braccio di Graziano al contatto colbraccio di scheletro che vi si appoggiava; ma egli sape-va che la vecchiaia è veneranda, recitava la sua parte.Del resto, dallo scheletro vestito non venivan fuori beipensieri, parole vive, visioni di tempi e di mondi? Que-sto al ragazzo pareva strano. «Come può succedere?»Spesso la vegliarda gli parlava del padre: – Una bellamente, il tuo babbo. Splendido avvenire! E farà molto

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bene all’umanità. – Graziano rivedeva l’alta persona delpadre in càmice bianco, con la sua espressione calma edassorta, sopra uno sfondo di enormi finestre, in un odored’acido fenico. Però, quando la signora Breme si attac-cava, era sempre difficile liberarsene.

Nei prati messi a ripiani intorno alla Stellata venivanoragazzi del vicinato, passando di regola da buchi dellesiepi. Quasi sempre uniti in una banda, giocavano negliangoli nascosti; correvano anche su e giú per una stra-detta allegra che andava al camposanto: ragazzetti strac-ciati, alcuni brutti e gracili, la maggior parte robusti, tut-ti perfettamente padroni della campagna e destri comeselvaggi. Graziano andava con loro qualche volta. Maiessi lo chiamavano, mai mostravano di cercarlo. Mani-festavano un’avversione dispettosa a lui che viveva inuna città grande, canzonandolo per il vestire «da bambi-no» e per le maniere, il parlare; si vantavano delle loroterre, dei prodotti ch’esse davano, gli chiedevano perbeffa: – E tu che cosa possiedi? – Era giusto, pensavaGraziano con amarezza; egli non aveva una spanna diterreno, neanche un albero era suo. Ma quei ragazzi nonsi amavano nemmeno tra loro, anzi, erano divisi da odî erivalità; con piacere crudele si canzonavano, spessomettendosi in parecchi contro uno solo; si giocavanoburle malvage delle quali gustavano poi a lungo il suc-cesso. E quasi all’improvviso scoppiavano tra loro zuffeviolente. A Graziano davano un’idea di esseri pericolo-si, infidi, che non era possibile comprendere. Nella ban-da serpeggiava un bruciore malsano di sensualità, una

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bene all’umanità. – Graziano rivedeva l’alta persona delpadre in càmice bianco, con la sua espressione calma edassorta, sopra uno sfondo di enormi finestre, in un odored’acido fenico. Però, quando la signora Breme si attac-cava, era sempre difficile liberarsene.

Nei prati messi a ripiani intorno alla Stellata venivanoragazzi del vicinato, passando di regola da buchi dellesiepi. Quasi sempre uniti in una banda, giocavano negliangoli nascosti; correvano anche su e giú per una stra-detta allegra che andava al camposanto: ragazzetti strac-ciati, alcuni brutti e gracili, la maggior parte robusti, tut-ti perfettamente padroni della campagna e destri comeselvaggi. Graziano andava con loro qualche volta. Maiessi lo chiamavano, mai mostravano di cercarlo. Mani-festavano un’avversione dispettosa a lui che viveva inuna città grande, canzonandolo per il vestire «da bambi-no» e per le maniere, il parlare; si vantavano delle loroterre, dei prodotti ch’esse davano, gli chiedevano perbeffa: – E tu che cosa possiedi? – Era giusto, pensavaGraziano con amarezza; egli non aveva una spanna diterreno, neanche un albero era suo. Ma quei ragazzi nonsi amavano nemmeno tra loro, anzi, erano divisi da odî erivalità; con piacere crudele si canzonavano, spessomettendosi in parecchi contro uno solo; si giocavanoburle malvage delle quali gustavano poi a lungo il suc-cesso. E quasi all’improvviso scoppiavano tra loro zuffeviolente. A Graziano davano un’idea di esseri pericolo-si, infidi, che non era possibile comprendere. Nella ban-da serpeggiava un bruciore malsano di sensualità, una

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febbretta; alcuni amavano, come piccoli diavoli, guastarle anime candide; narravano fatti di animali, inventava-no storie lubriche sul conto dei compagni. Ragazzetteche stavano a pascolare qualche pecora o capra, avevansempre i maschi attorno, certune riottose, altre sornione.Tuttociò faceva a Graziano disgusto e rabbia.

Volentieri egli stava solo. La Stellata gli piaceva; glipiaceva la casa; non vi era piú niente che ancora avesseapparenza di pietra, ferro, legno, mattone; tutto era toc-cato da una magia; cortili pieni d’ortiche, una cappellacon l’altare coperto di calcinacci, un teatrino con scenaricadenti a pezzi, quel giardino che si vedeva soltantomentre la vecchia apriva la porta: le cose bizzarre eranotante. Piú ancora gli piaceva la spianata. Là sentiva unagrandezza misteriosa e splendida: negli olmi sulla cuivecchia corteccia scorrevano file di formiche; nelle nu-vole che portavano cavalli alati, troni morbidi; anchenella piccola città dove viveva il nonno paterno, là sotto,rossa, con le torri. A volte sentiva intorno a sé uno spa-zio ben piú vasto che il cerchio dell’orizzonte, uno spa-zio infinito. Amava, stando coricato nell’erba sopra unfianco, guardar di traverso la superficie della terra, concase alberi colline paesi, che girava sfiorando il cielo,girava nel vuoto. Pensava che non si poteva far nienteper non esservi, in quel girare, e ne provava uno struggi-mento; ma anche questo gli piaceva.

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febbretta; alcuni amavano, come piccoli diavoli, guastarle anime candide; narravano fatti di animali, inventava-no storie lubriche sul conto dei compagni. Ragazzetteche stavano a pascolare qualche pecora o capra, avevansempre i maschi attorno, certune riottose, altre sornione.Tuttociò faceva a Graziano disgusto e rabbia.

Volentieri egli stava solo. La Stellata gli piaceva; glipiaceva la casa; non vi era piú niente che ancora avesseapparenza di pietra, ferro, legno, mattone; tutto era toc-cato da una magia; cortili pieni d’ortiche, una cappellacon l’altare coperto di calcinacci, un teatrino con scenaricadenti a pezzi, quel giardino che si vedeva soltantomentre la vecchia apriva la porta: le cose bizzarre eranotante. Piú ancora gli piaceva la spianata. Là sentiva unagrandezza misteriosa e splendida: negli olmi sulla cuivecchia corteccia scorrevano file di formiche; nelle nu-vole che portavano cavalli alati, troni morbidi; anchenella piccola città dove viveva il nonno paterno, là sotto,rossa, con le torri. A volte sentiva intorno a sé uno spa-zio ben piú vasto che il cerchio dell’orizzonte, uno spa-zio infinito. Amava, stando coricato nell’erba sopra unfianco, guardar di traverso la superficie della terra, concase alberi colline paesi, che girava sfiorando il cielo,girava nel vuoto. Pensava che non si poteva far nienteper non esservi, in quel girare, e ne provava uno struggi-mento; ma anche questo gli piaceva.

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Udite le campane di mezzogiorno, il professor Grego-rio prese dalla scrivania la pipa di terracotta che avevauna lunga cannuccia, e se ne andò. Clemenza, in piedipresso la tavola, ordinava dentro una scatola le schedeappena scritte. «Limbello... Limbelluccio... Limbicco...Limbo...». Lungo le pareti, attraverso le grate degli ar-madi verdi dipinti a fiori teneri, si mostravano vecchi li-broni rilegati in cuoio o pergamena. Che giorno era? Ri-spondeva il calendario da muro: sabato 29 agosto. Magiorno mese anno non importavano. Una figura d’uomopassò nella mente della ragazza, lontana, avvolta di neb-bia, una figura che non si sarebbe mai piú avvicinata.Ella andò a gettar uno sguardo entro il triangolo di luceche le imposte socchiuse formavano in basso; vi era ilverde del prato sotto il sole e ne saliva l’aroma d’un ce-spuglio di rosmarino. L’avvenire? La solita città, una vialunga diritta grigia, brutte stanze, le schede, mai nientedi diverso, speranza nessuna. Fuori della bibliotecal’impiantito della loggia sonò sotto un passo ch’ella ri-conobbe. Aprí la porta. Graziano, vestito d’una magliabianca, di corti calzoni, fine senza esser gracile, s’erafermato ad osservare un nido di rondini pieno di piccolidal largo becco; la guardò, coi grandi occhi sempre stu-piti per qualche segreta ragione. Ella lo fece entrare.

Veduto che il professore non c’era, il ragazzo sentí ilpiacere d’esser solo con la signorina. Aveva un’impres-sione di penetrare nella vita di lei. – Siedi qua sopra, –ella disse scostando sulla tavola volumi e scatole – ti vo-glio veder bene. – Gli disse poi che cresceva in fretta e

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Udite le campane di mezzogiorno, il professor Grego-rio prese dalla scrivania la pipa di terracotta che avevauna lunga cannuccia, e se ne andò. Clemenza, in piedipresso la tavola, ordinava dentro una scatola le schedeappena scritte. «Limbello... Limbelluccio... Limbicco...Limbo...». Lungo le pareti, attraverso le grate degli ar-madi verdi dipinti a fiori teneri, si mostravano vecchi li-broni rilegati in cuoio o pergamena. Che giorno era? Ri-spondeva il calendario da muro: sabato 29 agosto. Magiorno mese anno non importavano. Una figura d’uomopassò nella mente della ragazza, lontana, avvolta di neb-bia, una figura che non si sarebbe mai piú avvicinata.Ella andò a gettar uno sguardo entro il triangolo di luceche le imposte socchiuse formavano in basso; vi era ilverde del prato sotto il sole e ne saliva l’aroma d’un ce-spuglio di rosmarino. L’avvenire? La solita città, una vialunga diritta grigia, brutte stanze, le schede, mai nientedi diverso, speranza nessuna. Fuori della bibliotecal’impiantito della loggia sonò sotto un passo ch’ella ri-conobbe. Aprí la porta. Graziano, vestito d’una magliabianca, di corti calzoni, fine senza esser gracile, s’erafermato ad osservare un nido di rondini pieno di piccolidal largo becco; la guardò, coi grandi occhi sempre stu-piti per qualche segreta ragione. Ella lo fece entrare.

Veduto che il professore non c’era, il ragazzo sentí ilpiacere d’esser solo con la signorina. Aveva un’impres-sione di penetrare nella vita di lei. – Siedi qua sopra, –ella disse scostando sulla tavola volumi e scatole – ti vo-glio veder bene. – Gli disse poi che cresceva in fretta e

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sarebbe diventato un bel giovine. – Guardami anche tu.Come sono? – Gli stava vicina ma non attese risposta: –Io credo che tu sogni molto. E pensi anche molto. Nonbisogna pensar tanto. – La sua camicetta bianca erachiusa al collo. Graziano guardava i pallidi capelli bion-di un poco allentati, alcune ciocche libere sulla tempia,e con ambe le mani si teneva al bordo della tavola. Cle-menza, sorridendo e guardandolo fisso, accostò il viso alsuo; gli posò le labbra sopra una guancia, le tenne unmomento. Graziano si sentí portato in alto, nel cieloamoroso dei grandi, ed in quel punto udí nel nido i ron-dinini strillare perché arrivava la rondine col cibo. La si-gnorina si ravviò i capelli, scostandosi, e nel volto, intutta la persona aveva un’espressione scontenta come sepensasse: «Anche questo è inutile». Batté le mani: –Via! Scappa. Devo badare alle scatolacce.

Graziano era contento. Pensava che si volevano bene,ma senza farne gran caso. «A chi vorrà bene veramen-te?» si domandava talora, e vedeva bei giovini alti, deiquali non poteva distinguere il viso. A volte pensava chea lei che si spogliava nella sua camera, la sera, e prova-va desiderio di baciarla addormentata, senza destarla.S’immaginava questo, forse con un’idea vaga di tutte ledonne, ma volgendosi in alto, al cielo amoroso pieno dimistero.

Claudia Farra, che la mattina rimaneva nel suo appar-tamento a leggere, passava sempre il pomeriggio insie-me alle signorine. Ricamavano, cucivano nel prato, se-dute coi loro vestiti chiari all’ombra del casale, presso

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sarebbe diventato un bel giovine. – Guardami anche tu.Come sono? – Gli stava vicina ma non attese risposta: –Io credo che tu sogni molto. E pensi anche molto. Nonbisogna pensar tanto. – La sua camicetta bianca erachiusa al collo. Graziano guardava i pallidi capelli bion-di un poco allentati, alcune ciocche libere sulla tempia,e con ambe le mani si teneva al bordo della tavola. Cle-menza, sorridendo e guardandolo fisso, accostò il viso alsuo; gli posò le labbra sopra una guancia, le tenne unmomento. Graziano si sentí portato in alto, nel cieloamoroso dei grandi, ed in quel punto udí nel nido i ron-dinini strillare perché arrivava la rondine col cibo. La si-gnorina si ravviò i capelli, scostandosi, e nel volto, intutta la persona aveva un’espressione scontenta come sepensasse: «Anche questo è inutile». Batté le mani: –Via! Scappa. Devo badare alle scatolacce.

Graziano era contento. Pensava che si volevano bene,ma senza farne gran caso. «A chi vorrà bene veramen-te?» si domandava talora, e vedeva bei giovini alti, deiquali non poteva distinguere il viso. A volte pensava chea lei che si spogliava nella sua camera, la sera, e prova-va desiderio di baciarla addormentata, senza destarla.S’immaginava questo, forse con un’idea vaga di tutte ledonne, ma volgendosi in alto, al cielo amoroso pieno dimistero.

Claudia Farra, che la mattina rimaneva nel suo appar-tamento a leggere, passava sempre il pomeriggio insie-me alle signorine. Ricamavano, cucivano nel prato, se-dute coi loro vestiti chiari all’ombra del casale, presso

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una piccola porta. La signora si divertiva a parlar di ma-trimonio a Barbara per vederla, cosí massiccia ed ener-gica, arrossire. – Io ho sposata la nonna – rispondeva laragazza. Sul bordo della spianata appariva il cavalierCostante al braccio della sua servetta: passeggiavano di-spettosi senza guardare. Invece Mercurino usciva appo-sta da quella porta, coi libri tra le mani, per rendere aClaudia un omaggio di ammiratore timido; i suoi occhiparevano dire: «Mi fermerei volentieri, se non mel’avessero proibito». Belava appena un saluto e nel sor-ridere mostrava denti orribili. Si sapeva che il padre locostringeva a far la spia girando a scoprire quanto avve-nisse alla Stellata.

Sola con le amiche, Claudia discorreva di Ortensia,sua sorella, di suo fratello Aleramo. Discorreva dellacasa paterna: sempre con l’animo la contemplava, ne re-spirava l’aria. D’estate prendeva a pigione l’apparta-mento dei Breme per essere abbastanza vicina al palaz-zo degli Andosio e non troppo alla gente che lo possede-va. Di costoro, di Aroldo Lanciarossa e della sua com-pagna, dopo quindici anni non si sapeva ancor bene chifossero, che avessero fatto a Montecarlo donde eranovenuti. La donna doveva aver lasciato laggiú il vero ma-rito ed un figlio; si diceva fosse stata una fioraia e labella d’un principe. Gli abitanti di Luvo s’erano ormaiavvezzi a considerare la coppia come legittima; là eranata ai Lanciarossa una figlia che tenevano in un colle-gio da gran signori, in Inghilterra. Talvolta Claudia par-lava anche del modo in cui l’uomo s’era impadronito

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una piccola porta. La signora si divertiva a parlar di ma-trimonio a Barbara per vederla, cosí massiccia ed ener-gica, arrossire. – Io ho sposata la nonna – rispondeva laragazza. Sul bordo della spianata appariva il cavalierCostante al braccio della sua servetta: passeggiavano di-spettosi senza guardare. Invece Mercurino usciva appo-sta da quella porta, coi libri tra le mani, per rendere aClaudia un omaggio di ammiratore timido; i suoi occhiparevano dire: «Mi fermerei volentieri, se non mel’avessero proibito». Belava appena un saluto e nel sor-ridere mostrava denti orribili. Si sapeva che il padre locostringeva a far la spia girando a scoprire quanto avve-nisse alla Stellata.

Sola con le amiche, Claudia discorreva di Ortensia,sua sorella, di suo fratello Aleramo. Discorreva dellacasa paterna: sempre con l’animo la contemplava, ne re-spirava l’aria. D’estate prendeva a pigione l’apparta-mento dei Breme per essere abbastanza vicina al palaz-zo degli Andosio e non troppo alla gente che lo possede-va. Di costoro, di Aroldo Lanciarossa e della sua com-pagna, dopo quindici anni non si sapeva ancor bene chifossero, che avessero fatto a Montecarlo donde eranovenuti. La donna doveva aver lasciato laggiú il vero ma-rito ed un figlio; si diceva fosse stata una fioraia e labella d’un principe. Gli abitanti di Luvo s’erano ormaiavvezzi a considerare la coppia come legittima; là eranata ai Lanciarossa una figlia che tenevano in un colle-gio da gran signori, in Inghilterra. Talvolta Claudia par-lava anche del modo in cui l’uomo s’era impadronito

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della roba del «povero Aleramo». Graziano si era accor-to che questo discorso veniva subito troncato se egli so-praggiungeva.

Alla signora Breme non piaceva prender aria che nelsuo giardino; quando veniva con le giovani, voleva cheparlassero del mondo com’era diventato, di Torinoch’ella aveva lasciata da tanto tempo. – Ne ho visti cam-biare papi, re, governi, usanze, idee! – Si stancava subi-to e se ne andava attaccata a Barbara, coi suoi passetti.Il sergentaccio matto spuntava sempre all’improvviso,molte volte con quel muso volpino che la nonna diceva.Non si sapeva dove andasse, Paoletto; stava attorno alledonne giovani del vicinato, ma forse le sue stragi di gal-line le faceva soprattutto di notte. Per Claudia e per lesorelle rubava il moscatello d’oro nel giardino entrando-vi senza essere udito né visto mentre vi stava la vegliar-da. Si mascherava ogni tanto con le sue cuffie. Nellavita non era stato capace d’incamminarsi per nessunastrada ed aveva fatta la firma di sergente. «Il pazzo feli-ce» lo chiamava Clemenza. Dov’egli si presentava, tuttierano presi di simpatia.

Graziano amava quelle ore del pomeriggio. Tornandopresso la madre, era carezzato dal suo sguardo comequando stavano assieme in casa; allora al ragazzo acca-deva di domandarsi perché in altri momenti ella fossediversa, non lo volesse piú. Le serate con gli ingegnerisi ripetevano. Uscendo sulla spianata, la compagnia in-contrava una frotta di ombre che passavano silenziose epoi ridacchiavano: Costante con i suoi. Si facevano an-

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della roba del «povero Aleramo». Graziano si era accor-to che questo discorso veniva subito troncato se egli so-praggiungeva.

Alla signora Breme non piaceva prender aria che nelsuo giardino; quando veniva con le giovani, voleva cheparlassero del mondo com’era diventato, di Torinoch’ella aveva lasciata da tanto tempo. – Ne ho visti cam-biare papi, re, governi, usanze, idee! – Si stancava subi-to e se ne andava attaccata a Barbara, coi suoi passetti.Il sergentaccio matto spuntava sempre all’improvviso,molte volte con quel muso volpino che la nonna diceva.Non si sapeva dove andasse, Paoletto; stava attorno alledonne giovani del vicinato, ma forse le sue stragi di gal-line le faceva soprattutto di notte. Per Claudia e per lesorelle rubava il moscatello d’oro nel giardino entrando-vi senza essere udito né visto mentre vi stava la vegliar-da. Si mascherava ogni tanto con le sue cuffie. Nellavita non era stato capace d’incamminarsi per nessunastrada ed aveva fatta la firma di sergente. «Il pazzo feli-ce» lo chiamava Clemenza. Dov’egli si presentava, tuttierano presi di simpatia.

Graziano amava quelle ore del pomeriggio. Tornandopresso la madre, era carezzato dal suo sguardo comequando stavano assieme in casa; allora al ragazzo acca-deva di domandarsi perché in altri momenti ella fossediversa, non lo volesse piú. Le serate con gli ingegnerisi ripetevano. Uscendo sulla spianata, la compagnia in-contrava una frotta di ombre che passavano silenziose epoi ridacchiavano: Costante con i suoi. Si facevano an-

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che passeggiate attraverso il paese dormente rischiaratoda pochi lumi a petrolio, o per strade di campagna, sottocieli gremiti di stelle. Claudia aveva sempre accanto ilbel giovane che non faceva il chiasso come gli altri. Ilgiorno seguente Graziano si sentiva triste; pensavad’esser diverso da tutti, dai grandi e dai fanciulli, solo inmezzo a tutti. «Non bisogna pensare tanto» aveva dettoClemenza. Quale opinione avevano i grandi delle cose edell’essere al mondo? Vi era un segreto da loro cono-sciuto? Perché non ne parlavano? Al professor Gregoriopiaceva fargli lezione mentre passeggiava mandandofuori il disgustoso fumo della pipa; analizzava un fiore,diceva che cos’erano le comete o come s’erano formatele parole; ma tutto ciò non spiegava niente. Da solo ilragazzo andava sul bordo della peschiera; essa lo attrae-va; non gli dava alcuna idea di profondità né di acqua,era una lastra nera attraverso la quale si sarebbe potutopassare e dall’altra parte vi sarebbe stata la morte. Eglisentiva inferno e paradiso quando era nelle chiese; fuorisentiva solamente quel grande spazio nel quale girava laterra. Gettarsi nella morte, oltre la lastra nera. Ma avreb-bero creduto vi fosse cascato; sarebbe stato bello, inve-ce, che sapessero. Sua madre avrebbe avuto dei rimorsi.E Clemenza che avrebbe provato? Una ranocchia ad untratto spiccava il salto dalla sponda e la peschiera ridi-ventava acqua sporca. Un mattino Graziano vide da lon-tano che su quella sponda Paoletto si era fatto uno spo-gliatoio con un lenzuolo teso tra due alberi ed ora neusciva in mutandine e, col gran corpo al sole, chiamava

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che passeggiate attraverso il paese dormente rischiaratoda pochi lumi a petrolio, o per strade di campagna, sottocieli gremiti di stelle. Claudia aveva sempre accanto ilbel giovane che non faceva il chiasso come gli altri. Ilgiorno seguente Graziano si sentiva triste; pensavad’esser diverso da tutti, dai grandi e dai fanciulli, solo inmezzo a tutti. «Non bisogna pensare tanto» aveva dettoClemenza. Quale opinione avevano i grandi delle cose edell’essere al mondo? Vi era un segreto da loro cono-sciuto? Perché non ne parlavano? Al professor Gregoriopiaceva fargli lezione mentre passeggiava mandandofuori il disgustoso fumo della pipa; analizzava un fiore,diceva che cos’erano le comete o come s’erano formatele parole; ma tutto ciò non spiegava niente. Da solo ilragazzo andava sul bordo della peschiera; essa lo attrae-va; non gli dava alcuna idea di profondità né di acqua,era una lastra nera attraverso la quale si sarebbe potutopassare e dall’altra parte vi sarebbe stata la morte. Eglisentiva inferno e paradiso quando era nelle chiese; fuorisentiva solamente quel grande spazio nel quale girava laterra. Gettarsi nella morte, oltre la lastra nera. Ma avreb-bero creduto vi fosse cascato; sarebbe stato bello, inve-ce, che sapessero. Sua madre avrebbe avuto dei rimorsi.E Clemenza che avrebbe provato? Una ranocchia ad untratto spiccava il salto dalla sponda e la peschiera ridi-ventava acqua sporca. Un mattino Graziano vide da lon-tano che su quella sponda Paoletto si era fatto uno spo-gliatoio con un lenzuolo teso tra due alberi ed ora neusciva in mutandine e, col gran corpo al sole, chiamava

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una vecchia contadina che aveva le finestre da quellaparte: – Lisandra! Fuori! Venite anche voi. – La donna,affacciatasi, subito si ritrasse con strilli allegri. Paolettosi gettò nella vasca a sguazzare ridendo e cantando. «Unuomo, – pensava Graziano. – Bello, pieno di vita». Sa-peva far tutto, il mondo era suo; e per lui la lastra neraera un gioco. Uscito dall’acqua, il sergentaccio si scrollòe si mise a correr pel prato a piedi nudi come un giganteinvulnerabile. «Essere come lui!» Il ragazzo ricordò cheun giorno lo aveva udito parlar piano nelle stanze d’unabella sposa della Stellata; mentre lei, piano e come rac-comandandosi, rideva rideva. Che faceva Paoletto cosíscherzando?

Se non venivano gli ingegneri, le serate si passavanonella sala da pranzo dei Breme. Una volta la vegliardaera già a letto. Claudia Farra e le signorine lavoravanointorno alla lunga tavola da refettorio, sopra una menso-la un conte Stella imparruccato, di marmo, apriva occhisenza pupille; Paoletto era sparito ed il professore mo-strava a Graziano le figure d’un libro sui «Costumi deipopoli». Claudia venne chiamata fuori dalla sua donnadi servizio; a sua volta poi chiamò Clemenza, le parlòsottovoce con viso stupito, e andò via. Mentre il profes-sore, che non s’era accorto di nulla, continuava a com-mentar le immagini, Graziano vide che Clemenza e lasorella parlottavano tra loro; una leggera angoscia locolse, ma non ne diede segno. Arrivato quindi Paoletto,si uscí sulla spianata. Il ragazzo capiva che lo volevanodistrarre, si sentiva avvolto in chiacchiere come una mo-

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una vecchia contadina che aveva le finestre da quellaparte: – Lisandra! Fuori! Venite anche voi. – La donna,affacciatasi, subito si ritrasse con strilli allegri. Paolettosi gettò nella vasca a sguazzare ridendo e cantando. «Unuomo, – pensava Graziano. – Bello, pieno di vita». Sa-peva far tutto, il mondo era suo; e per lui la lastra neraera un gioco. Uscito dall’acqua, il sergentaccio si scrollòe si mise a correr pel prato a piedi nudi come un giganteinvulnerabile. «Essere come lui!» Il ragazzo ricordò cheun giorno lo aveva udito parlar piano nelle stanze d’unabella sposa della Stellata; mentre lei, piano e come rac-comandandosi, rideva rideva. Che faceva Paoletto cosíscherzando?

Se non venivano gli ingegneri, le serate si passavanonella sala da pranzo dei Breme. Una volta la vegliardaera già a letto. Claudia Farra e le signorine lavoravanointorno alla lunga tavola da refettorio, sopra una menso-la un conte Stella imparruccato, di marmo, apriva occhisenza pupille; Paoletto era sparito ed il professore mo-strava a Graziano le figure d’un libro sui «Costumi deipopoli». Claudia venne chiamata fuori dalla sua donnadi servizio; a sua volta poi chiamò Clemenza, le parlòsottovoce con viso stupito, e andò via. Mentre il profes-sore, che non s’era accorto di nulla, continuava a com-mentar le immagini, Graziano vide che Clemenza e lasorella parlottavano tra loro; una leggera angoscia locolse, ma non ne diede segno. Arrivato quindi Paoletto,si uscí sulla spianata. Il ragazzo capiva che lo volevanodistrarre, si sentiva avvolto in chiacchiere come una mo-

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sca nei fili del ragno; un sospetto strano si formava nellasua mente, che la madre, d’accordo con gli altri, fosseuscita insieme all’ingegnere bruno. Notte scura e calda;gli alberi eran brutti, paurosi. Egli però non voleva do-mandare niente: odiava i compagni, anche Clemenza.Stettero un pezzo seduti sul ciglio della prateria a guar-dar quei soliti lumi della piccola città; infine Clemenzaavvicinò al viso di Graziano il suo e disse: – La mammadeve rispondere subito ad una lettera del babbo. – Al ra-gazzo parve una menzogna sciocca. Quante ore passava-no? Adesso il sospetto era certezza, una certezza torbi-da. Disprezzava la madre, i compagni, tutti i viventi.Paoletto, volendo pigliarlo per le ascelle ed alzarlo inaria, sentí lacrime calde cadergli in faccia. Quando rien-trarono, la pendola segnava mezzanotte passata; Barbaraprese dalla dispensa dei confetti e glieli offerse umil-mente. Ma ecco la donna di servizio: Graziano può sali-re.

Di sopra nella camera della madre, vi era il babbo.Stava in piedi, eretto sulla persona vigorosa; nel bel vol-to leale, deciso, ombreggiato da scuri baffi non grandi,aveva segni d’una grave stanchezza; vi si leggeva undolore profondo, da cosí poco tempo cessato che le trac-ce non erano potute svanire. Claudia sedeva accanto alcassettone, in penombra; tuttavia si vedeva che avevapianto, i suoi occhi brillavano piú che mai, come perfebbre. Abbracciato dal babbo, che anche là aveva por-tato un lieve odore di acido fenico, Graziano si sentí av-volto come dal respiro d’un animo che riprendesse a vi-

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sca nei fili del ragno; un sospetto strano si formava nellasua mente, che la madre, d’accordo con gli altri, fosseuscita insieme all’ingegnere bruno. Notte scura e calda;gli alberi eran brutti, paurosi. Egli però non voleva do-mandare niente: odiava i compagni, anche Clemenza.Stettero un pezzo seduti sul ciglio della prateria a guar-dar quei soliti lumi della piccola città; infine Clemenzaavvicinò al viso di Graziano il suo e disse: – La mammadeve rispondere subito ad una lettera del babbo. – Al ra-gazzo parve una menzogna sciocca. Quante ore passava-no? Adesso il sospetto era certezza, una certezza torbi-da. Disprezzava la madre, i compagni, tutti i viventi.Paoletto, volendo pigliarlo per le ascelle ed alzarlo inaria, sentí lacrime calde cadergli in faccia. Quando rien-trarono, la pendola segnava mezzanotte passata; Barbaraprese dalla dispensa dei confetti e glieli offerse umil-mente. Ma ecco la donna di servizio: Graziano può sali-re.

Di sopra nella camera della madre, vi era il babbo.Stava in piedi, eretto sulla persona vigorosa; nel bel vol-to leale, deciso, ombreggiato da scuri baffi non grandi,aveva segni d’una grave stanchezza; vi si leggeva undolore profondo, da cosí poco tempo cessato che le trac-ce non erano potute svanire. Claudia sedeva accanto alcassettone, in penombra; tuttavia si vedeva che avevapianto, i suoi occhi brillavano piú che mai, come perfebbre. Abbracciato dal babbo, che anche là aveva por-tato un lieve odore di acido fenico, Graziano si sentí av-volto come dal respiro d’un animo che riprendesse a vi-

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vere. Quale lotta si era svolta tra il padre e la madre?Anche tra loro poteva esservi odio? Il ragazzo ricordò leserate, quel giovine, ciò che egli stesso aveva sofferto edi suoi pensieri. Perché il babbo era qui? Che cosa era ac-caduto? Ma il padre aprí una grande scatola di dolci cheaveva portata, ne offerse a Claudia e dopo a lui; ellaandò alla finestra a guardare nel buio; lacerato un invol-to, il padre tese al ragazzo due libri ben rilegati. – Oraabbraccia la mamma. Si va a letto. – In camera sua, spo-gliandosi, Graziano ripensava la scena; i genitori gli pa-revano divenuti meno alti di prima, piú deboli, piú simi-li all’altra gente.

L’indomani vi era nell’aria della Stellata qualcosad’insolito; le signorine si mostravano turbate; il cavalierCostante, severo e dignitoso come sempre, sembravaandar fiutando il male altrui; anche Mercurino giravamolto. Invece nell’appartamento dei Farra si sentiva unagioia sincera. La colazione fu da festa, con bella tova-glia, fiori, confetti. Sisto parlava del grande Sparvieri,del quale era assistente nella clinica dell’università; rife-riva nuovi esperimenti favorevoli ch’erano stati compiu-ti in cliniche straniere col suo metodo di cura chirurgicadella tubercolosi polmonare. Il figlio, osservandolo, lorivedeva come lo aveva nella memoria, bello, forte,sempre rivolto ad alti pensieri. Guardava la madre, edera quella che veramente lo amava, quella ch’egli ama-va, col caro bianco viso illuminato d’un ardore puro.Tutto era ritornato come prima.

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vere. Quale lotta si era svolta tra il padre e la madre?Anche tra loro poteva esservi odio? Il ragazzo ricordò leserate, quel giovine, ciò che egli stesso aveva sofferto edi suoi pensieri. Perché il babbo era qui? Che cosa era ac-caduto? Ma il padre aprí una grande scatola di dolci cheaveva portata, ne offerse a Claudia e dopo a lui; ellaandò alla finestra a guardare nel buio; lacerato un invol-to, il padre tese al ragazzo due libri ben rilegati. – Oraabbraccia la mamma. Si va a letto. – In camera sua, spo-gliandosi, Graziano ripensava la scena; i genitori gli pa-revano divenuti meno alti di prima, piú deboli, piú simi-li all’altra gente.

L’indomani vi era nell’aria della Stellata qualcosad’insolito; le signorine si mostravano turbate; il cavalierCostante, severo e dignitoso come sempre, sembravaandar fiutando il male altrui; anche Mercurino giravamolto. Invece nell’appartamento dei Farra si sentiva unagioia sincera. La colazione fu da festa, con bella tova-glia, fiori, confetti. Sisto parlava del grande Sparvieri,del quale era assistente nella clinica dell’università; rife-riva nuovi esperimenti favorevoli ch’erano stati compiu-ti in cliniche straniere col suo metodo di cura chirurgicadella tubercolosi polmonare. Il figlio, osservandolo, lorivedeva come lo aveva nella memoria, bello, forte,sempre rivolto ad alti pensieri. Guardava la madre, edera quella che veramente lo amava, quella ch’egli ama-va, col caro bianco viso illuminato d’un ardore puro.Tutto era ritornato come prima.

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Verso il tramonto Sisto e Claudia uscirono nella cam-pagna, soli. Il ragazzo lo seppe quando già se ne eranoandati. Dai Breme aveva colte parole che lo avevanosorpreso: «Azione vile, una vergogna. Chi può averloscritto?» Una lettera. Indovinava ch’era stata scritta asuo padre. Chi poteva volergli male? Odio: gli parevaun veleno che fosse nell’aria e la guastasse anche fuori,sull’enorme prato luminoso. Graziano stava in fondoalla spianata a guardare, ad ingannar il tempo fin che ilbabbo e la mamma tornassero; infine li scoprí, ancoralontani, che risalivano per un sentiero tenendosi lamano. Subito si nascose per non essere veduto e non ab-breviare d’un istante quell’ora ch’essi vivevano.

* * *

Il terzo giorno Sisto dovette ripartire. Poiché si facevaportare a Rebbia – la piccola città vicina, dove avrebbepreso il treno – da un vetturale di Luvo, fu deciso cheGraziano lo accompagnasse a visitar il nonno, tornandopoi con la stessa vettura. Terminava la licenza di Paolet-to, ed anch’egli ebbe un posto. Folla, nel primo cortiledella Stellata, alla partenza. Il vetturale, giovine d’appa-renza goffa con un fazzoletto di seta intorno ad un goz-zo incipiente, non faceva che levarsi il cappello a tutti.Era l’ora della siesta ma venne anche la signora Breme.Mancavano come sempre Costante e la sua serva; Mer-curino stava in un angolo e nessuno gli badava. E Pao-letto? Non compariva. – Per le poste – diceva la vegliar-

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Verso il tramonto Sisto e Claudia uscirono nella cam-pagna, soli. Il ragazzo lo seppe quando già se ne eranoandati. Dai Breme aveva colte parole che lo avevanosorpreso: «Azione vile, una vergogna. Chi può averloscritto?» Una lettera. Indovinava ch’era stata scritta asuo padre. Chi poteva volergli male? Odio: gli parevaun veleno che fosse nell’aria e la guastasse anche fuori,sull’enorme prato luminoso. Graziano stava in fondoalla spianata a guardare, ad ingannar il tempo fin che ilbabbo e la mamma tornassero; infine li scoprí, ancoralontani, che risalivano per un sentiero tenendosi lamano. Subito si nascose per non essere veduto e non ab-breviare d’un istante quell’ora ch’essi vivevano.

* * *

Il terzo giorno Sisto dovette ripartire. Poiché si facevaportare a Rebbia – la piccola città vicina, dove avrebbepreso il treno – da un vetturale di Luvo, fu deciso cheGraziano lo accompagnasse a visitar il nonno, tornandopoi con la stessa vettura. Terminava la licenza di Paolet-to, ed anch’egli ebbe un posto. Folla, nel primo cortiledella Stellata, alla partenza. Il vetturale, giovine d’appa-renza goffa con un fazzoletto di seta intorno ad un goz-zo incipiente, non faceva che levarsi il cappello a tutti.Era l’ora della siesta ma venne anche la signora Breme.Mancavano come sempre Costante e la sua serva; Mer-curino stava in un angolo e nessuno gli badava. E Pao-letto? Non compariva. – Per le poste – diceva la vegliar-

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da – non s’andava a Torino in meno di dieci ore. Pro-gresso, progresso. Sempre piú in fretta. Verrà il tempo incui gli uomini voleranno. – Fu uno scoppio di risa. NéBarbara né Clemenza avevan trovato il fratello; egli sene arrivò da un’altra parte, gli sproni sonavano, sonavala grossa sciabola; ancora piú gagliardo pareva con lagiubba d’artigliere filettata di giallo, coi pantaloni adoppia banda, lunghi che facevano molte pieghe sullecaviglie; si diede un colpo al cheppí per mandarlo unpoco sull’orecchio, poi si piegò in due a baciar la nonna.– Ti aspetto a Natale – ella gli disse. Con la sacca daviaggio del nipote aveva fatto collocare in vettura perlui un cesto di frutta. Claudia tenne gli occhi in quelli diSisto, seduto al posto d’onore, fin che il vetturale ebbemessa in moto la brenna; ancora con lo sguardo lucentegli ripeté qualchecosa fin che fu lontano. La vegliardaagitava il fazzoletto sporco.

Da molti giorni non pioveva: era sullo stradale un altostrato di polvere. S’incontravano carri tirati da bovi, ca-lessini sgangherati e ciascuno aveva il suo strascicobianco; avanti alla vettura passò la corriera, carrozzonechiuso dipinto di giallo e di rosso; con gabbie di pollisul tetto, e per un pezzo si viaggiò come nella nebbia. ASisto ogni cosa sembrava meravigliosamente bella: co-lorato di gioia era adesso l’orizzonte dove, venendo,aveva sentita l’oscurità notturna piena d’una terribilesventura. Anche Graziano vedeva con occhi contenti;osservava le grosse scarpe e la sciabola di Paoletto ri-volgendo in capo quelle idee, ch’egli andava al reggi-

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da – non s’andava a Torino in meno di dieci ore. Pro-gresso, progresso. Sempre piú in fretta. Verrà il tempo incui gli uomini voleranno. – Fu uno scoppio di risa. NéBarbara né Clemenza avevan trovato il fratello; egli sene arrivò da un’altra parte, gli sproni sonavano, sonavala grossa sciabola; ancora piú gagliardo pareva con lagiubba d’artigliere filettata di giallo, coi pantaloni adoppia banda, lunghi che facevano molte pieghe sullecaviglie; si diede un colpo al cheppí per mandarlo unpoco sull’orecchio, poi si piegò in due a baciar la nonna.– Ti aspetto a Natale – ella gli disse. Con la sacca daviaggio del nipote aveva fatto collocare in vettura perlui un cesto di frutta. Claudia tenne gli occhi in quelli diSisto, seduto al posto d’onore, fin che il vetturale ebbemessa in moto la brenna; ancora con lo sguardo lucentegli ripeté qualchecosa fin che fu lontano. La vegliardaagitava il fazzoletto sporco.

Da molti giorni non pioveva: era sullo stradale un altostrato di polvere. S’incontravano carri tirati da bovi, ca-lessini sgangherati e ciascuno aveva il suo strascicobianco; avanti alla vettura passò la corriera, carrozzonechiuso dipinto di giallo e di rosso; con gabbie di pollisul tetto, e per un pezzo si viaggiò come nella nebbia. ASisto ogni cosa sembrava meravigliosamente bella: co-lorato di gioia era adesso l’orizzonte dove, venendo,aveva sentita l’oscurità notturna piena d’una terribilesventura. Anche Graziano vedeva con occhi contenti;osservava le grosse scarpe e la sciabola di Paoletto ri-volgendo in capo quelle idee, ch’egli andava al reggi-

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mento, in una caserma dov’erano cannoni, nella cittàdella Torre pendente; accarezzava un ginocchio del bab-bo, e con la fantasia già lo vedeva nelle corsie dell’ospe-dale o seduto al microscopio in laboratorio, col càmicebianco; si sentiva orgoglioso di tutto il mondo ma so-prattutto degli studi ai quali il padre ritornava.

Non essendo giorno di mercato, Rebbia pareva in ab-bandono, i cani dormivano in mezzo alle piazze. Paolet-to andò subito alla stazione. Nella via principale si vede-va da lontano l’insegna della libreria del nonno, e Gra-ziano si vergognava sempre un poco di leggervi il nomeFarra; lo confortava però il pensiero che anche la bellacasa d’angolo, con fasce e cornici medioevali di terra-cotta, apparteneva a lui. Nell’ampia bottega un commes-so simile ad un sagrestano andò subito ad avvisare ilprincipale sparendo in una porta incorniciata di scaffalisopra la quale era appesa un’immagine di Dante.

Dal suo ufficio il vecchio Farra, alzatosi in piedi die-tro la scrivania, tese le braccia sorridendo. Aveva lestesse spalle quadre di Sisto ma era ancora piú alto: nasoaquilino, pizzo acuto, molti capelli, grigi e robusti; gliocchi assai grandi avevano sguardo deciso e sincero.Con trasporto egli abbracciò Graziano, e questi vidependere dalla sua catena il ciondolo che sempre avevavisto, una medaglia di benemerenza, d’oro, offertaglichissà quando. Nel contegno del vecchio verso Sisto sisentiva un certo riserbo, o che altro. Uno stanzino,l’ufficio. Vi era in un angolo una cassaforte tempestatadi chiodi; uno scaffale conteneva in grandi volumi la

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mento, in una caserma dov’erano cannoni, nella cittàdella Torre pendente; accarezzava un ginocchio del bab-bo, e con la fantasia già lo vedeva nelle corsie dell’ospe-dale o seduto al microscopio in laboratorio, col càmicebianco; si sentiva orgoglioso di tutto il mondo ma so-prattutto degli studi ai quali il padre ritornava.

Non essendo giorno di mercato, Rebbia pareva in ab-bandono, i cani dormivano in mezzo alle piazze. Paolet-to andò subito alla stazione. Nella via principale si vede-va da lontano l’insegna della libreria del nonno, e Gra-ziano si vergognava sempre un poco di leggervi il nomeFarra; lo confortava però il pensiero che anche la bellacasa d’angolo, con fasce e cornici medioevali di terra-cotta, apparteneva a lui. Nell’ampia bottega un commes-so simile ad un sagrestano andò subito ad avvisare ilprincipale sparendo in una porta incorniciata di scaffalisopra la quale era appesa un’immagine di Dante.

Dal suo ufficio il vecchio Farra, alzatosi in piedi die-tro la scrivania, tese le braccia sorridendo. Aveva lestesse spalle quadre di Sisto ma era ancora piú alto: nasoaquilino, pizzo acuto, molti capelli, grigi e robusti; gliocchi assai grandi avevano sguardo deciso e sincero.Con trasporto egli abbracciò Graziano, e questi vidependere dalla sua catena il ciondolo che sempre avevavisto, una medaglia di benemerenza, d’oro, offertaglichissà quando. Nel contegno del vecchio verso Sisto sisentiva un certo riserbo, o che altro. Uno stanzino,l’ufficio. Vi era in un angolo una cassaforte tempestatadi chiodi; uno scaffale conteneva in grandi volumi la

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raccolta del «Pensiero liberale». Attraverso l’inferriatadella finestra si vedeva la noia della piccola città, scrittasopra la faccia della casa dirimpetto. Come il figlio ebberaccontato che aveva avuto un breve permesso ed ebbedate notizie di Claudia, Ascanio si drizzò sul busto conpiglio stizzito – E tuo fratello che cosa fa?

Sisto abbassò la voce: – Si è iscritto nel partito dei la-voratori. Ed ha perduto l’impiego. Non so se l’abbia la-sciato di sua volontà.

— Metello è una testa matta – disse il vecchio agitan-do vivamente una mano in aria. – Non lavorerà mai se-riamente. Non poteva mancare in quella compagnia!

I molti oggetti appesi alle pareti erano ben noti a Gra-ziano. Vi erano le armi portate dal nonno alla battagliadi San Martino: un fucile con un’immensa baionetta,che sembravano fatti per un soldato di straordinaria sta-tura. E vi erano diplomi, una copia del manifesto aglielettori pubblicato dal nonno quando era stato candidatoalla deputazione, lettere a lui di personaggi del risorgi-mento, fotografie di Mazzini e Cavour, la pistola adope-rata nel duello con un giornalista celebre di Torino capi-tale. Piccolo e brutto stava in una cornice il primo nu-mero del settimanale da lui fondato trent’anni prima,quel «Pensiero liberale». Al ragazzo davano un’impres-sione di museo patriottico anche i mobili, il calamaio dibronzo su cui s’alzava l’Italia con la corona in testa. Ri-spondendo a Sisto, il vecchio disse che i suoi affari nonandavano meglio per niente, dando anche qualche spie-gazione, però con frasi interrotte ed aspre. Disse poi che

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raccolta del «Pensiero liberale». Attraverso l’inferriatadella finestra si vedeva la noia della piccola città, scrittasopra la faccia della casa dirimpetto. Come il figlio ebberaccontato che aveva avuto un breve permesso ed ebbedate notizie di Claudia, Ascanio si drizzò sul busto conpiglio stizzito – E tuo fratello che cosa fa?

Sisto abbassò la voce: – Si è iscritto nel partito dei la-voratori. Ed ha perduto l’impiego. Non so se l’abbia la-sciato di sua volontà.

— Metello è una testa matta – disse il vecchio agitan-do vivamente una mano in aria. – Non lavorerà mai se-riamente. Non poteva mancare in quella compagnia!

I molti oggetti appesi alle pareti erano ben noti a Gra-ziano. Vi erano le armi portate dal nonno alla battagliadi San Martino: un fucile con un’immensa baionetta,che sembravano fatti per un soldato di straordinaria sta-tura. E vi erano diplomi, una copia del manifesto aglielettori pubblicato dal nonno quando era stato candidatoalla deputazione, lettere a lui di personaggi del risorgi-mento, fotografie di Mazzini e Cavour, la pistola adope-rata nel duello con un giornalista celebre di Torino capi-tale. Piccolo e brutto stava in una cornice il primo nu-mero del settimanale da lui fondato trent’anni prima,quel «Pensiero liberale». Al ragazzo davano un’impres-sione di museo patriottico anche i mobili, il calamaio dibronzo su cui s’alzava l’Italia con la corona in testa. Ri-spondendo a Sisto, il vecchio disse che i suoi affari nonandavano meglio per niente, dando anche qualche spie-gazione, però con frasi interrotte ed aspre. Disse poi che

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tra pochi mesi il governo avrebbe fatte le elezioni e chein città i partiti lavoravano già sott’acqua, sporcamente.– Ma il Pensiero è mio, lo farò sempre come voglio, co-sti quel che costi! – Forse non era sicuro dell’avvenirecome voleva mostrarsi.

La conversazione era accompagnata dai rumori dellastamperia che si vedeva attraverso un uscio a vetri: colpinetti come di pesanti lame, un traffichío, il lavoro ca-denzato d’una macchina grande. Gli scoppi affrettatid’un motore a gas parevano sternuti. Si sentiva l’odoredell’inchiostro. – Vieni – disse il nonno a Graziano. Sistampava il periodico. Uomini baffuti, con berrettini diseta nera, stavano sulle predelle della macchina grande esi affrettarono a salutare; la donna che metteva i fogliera lunga lunga, sorrideva con bocca da cavallo. Anchea Graziano fu data una copia fresca, che sporcava ledita. Da macchine minori uscivano fogli di libri. I rile-gatori cucivano, tagliavano; cadendo dalle lucide ghi-gliottine, i ritagli si ammucchiavano sull’impiantito conaspetto di trastullo carnevalesco. Poi fu tempo d’andarealla stazione. Venne anche Ascanio; adesso era di buonumore, camminava con passi da giovinotto. Arrivato iltreno con la locomotiva che portava scritto «Galileo Ga-lilei», Sisto disparve nel basso edifizio di mattoni rossi,ed il nonno fece salire il ragazzo nella vettura di Luvo,gli diede il congedo con uno schiaffetto.

Sulla Stellata giocavano i colori del tramonto quandoGraziano vi tornò; ma vi era un disordine strano gentedel vicinato che andava e veniva, gente sul portone; nel

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tra pochi mesi il governo avrebbe fatte le elezioni e chein città i partiti lavoravano già sott’acqua, sporcamente.– Ma il Pensiero è mio, lo farò sempre come voglio, co-sti quel che costi! – Forse non era sicuro dell’avvenirecome voleva mostrarsi.

La conversazione era accompagnata dai rumori dellastamperia che si vedeva attraverso un uscio a vetri: colpinetti come di pesanti lame, un traffichío, il lavoro ca-denzato d’una macchina grande. Gli scoppi affrettatid’un motore a gas parevano sternuti. Si sentiva l’odoredell’inchiostro. – Vieni – disse il nonno a Graziano. Sistampava il periodico. Uomini baffuti, con berrettini diseta nera, stavano sulle predelle della macchina grande esi affrettarono a salutare; la donna che metteva i fogliera lunga lunga, sorrideva con bocca da cavallo. Anchea Graziano fu data una copia fresca, che sporcava ledita. Da macchine minori uscivano fogli di libri. I rile-gatori cucivano, tagliavano; cadendo dalle lucide ghi-gliottine, i ritagli si ammucchiavano sull’impiantito conaspetto di trastullo carnevalesco. Poi fu tempo d’andarealla stazione. Venne anche Ascanio; adesso era di buonumore, camminava con passi da giovinotto. Arrivato iltreno con la locomotiva che portava scritto «Galileo Ga-lilei», Sisto disparve nel basso edifizio di mattoni rossi,ed il nonno fece salire il ragazzo nella vettura di Luvo,gli diede il congedo con uno schiaffetto.

Sulla Stellata giocavano i colori del tramonto quandoGraziano vi tornò; ma vi era un disordine strano gentedel vicinato che andava e veniva, gente sul portone; nel

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cortile contadini del casale passavano portando candela-bri della cappella, e sotto il porticato Barbara singhioz-zava forte, guardata da Claudia che anch’ella teneva ilfazzoletto in mano. La signora Breme era stata trovatamorta sul seggiolone del giardino. Tutti avevanoun’espressione di profondo stupore. Graziano non com-prendeva come la vegliarda fosse potuta morire mentreegli aveva fatta la gita alla città. Ricordava le ossa che sisentivano sotto la vesticciola; gli tornò pure alla mentel’ultima frase che da lei aveva udita: «Verrà il tempo incui gli uomini voleranno».

I figli della morta non vollero incontrarsi presso il let-to sul quale era stata subito portata; ciascuno dei due vi-sitò la salma dopo essersi accertato che non fosse pre-sente l’altro. A Graziano fu lasciata vedere quandol’ebbero messa in ordine, tra i candelabri, con una vestedi seta ed una cuffia di gala che ella custodiva con cura.Piccolina! Poco diversa da prima, se non vi fosse statala benda intorno al viso a tener chiusa la bocca. Sul lettol’impronta era già profonda come se vi posasse una sta-tua di pietra. Guardando, Graziano non aveva la sensa-zione d’un avvenimento molto importante. «Eccola, lamorte. Nient’altro che questo». Ma provava impazienzad’allontanarsi; poi gli diede fastidio, fuori, l’imbrunire;veniva la notte e vi era la morte in casa. Piú tardi si ap-prese che Costante s’era messo a rovistare nei mobilidella camera in cerca di testamento, e che Barbara conla sua faccia gonfia di pianto sorvegliava la ricerca.

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cortile contadini del casale passavano portando candela-bri della cappella, e sotto il porticato Barbara singhioz-zava forte, guardata da Claudia che anch’ella teneva ilfazzoletto in mano. La signora Breme era stata trovatamorta sul seggiolone del giardino. Tutti avevanoun’espressione di profondo stupore. Graziano non com-prendeva come la vegliarda fosse potuta morire mentreegli aveva fatta la gita alla città. Ricordava le ossa che sisentivano sotto la vesticciola; gli tornò pure alla mentel’ultima frase che da lei aveva udita: «Verrà il tempo incui gli uomini voleranno».

I figli della morta non vollero incontrarsi presso il let-to sul quale era stata subito portata; ciascuno dei due vi-sitò la salma dopo essersi accertato che non fosse pre-sente l’altro. A Graziano fu lasciata vedere quandol’ebbero messa in ordine, tra i candelabri, con una vestedi seta ed una cuffia di gala che ella custodiva con cura.Piccolina! Poco diversa da prima, se non vi fosse statala benda intorno al viso a tener chiusa la bocca. Sul lettol’impronta era già profonda come se vi posasse una sta-tua di pietra. Guardando, Graziano non aveva la sensa-zione d’un avvenimento molto importante. «Eccola, lamorte. Nient’altro che questo». Ma provava impazienzad’allontanarsi; poi gli diede fastidio, fuori, l’imbrunire;veniva la notte e vi era la morte in casa. Piú tardi si ap-prese che Costante s’era messo a rovistare nei mobilidella camera in cerca di testamento, e che Barbara conla sua faccia gonfia di pianto sorvegliava la ricerca.

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Nel paese e nella campagna quella morte fece grandeimpressione; secondo l’idea di tutti, l’ultima discenden-te dei conti Stella, la piú vecchia di Luvo, era sempreesistita e doveva durare sempre. Una gran folla passòdavanti all’alcova simile ad un palcoscenico a veder lamorticina con la cuffia da festa. Barbara lavorava conuna sarta paesana a raffazzonar vestiti neri per sé e perla sorella. Testamento non n’era stato trovato. Claudias’incontrò col cavalier Costante, gli disse qualche parolad’obbligo ma senza dargli la mano né nascondere la ri-pugnanza che sentiva per lui dopo il fatto della lettera,convinta che fosse opera sua; ed egli rispose con gesti dicircostanza.

Funerali assai belli. Pieni di folla i cortili, il prato da-vanti casa, la strada; vi era gente del paese e del territo-rio, in parte vestita come la domenica a messa, gli uomi-ni con i cappelli rotondi e le giacche di velluto, le donnecon i veli neri in capo e le gonne a pieghe, ma i piú ave-vano cambiato il loro aspetto di contadini, erano raduna-ti in masse di colori diversi, portando càmici gialli obianchi o neri, veli azzurri o bianchi, mantellette turchi-ne o rosse ed alti bastoni da pellegrini, secondo le con-fraternite. Quel giovine arciprete – alta statura, testa giàcalva, viso fiero abbronzato, occhi chiarissimi e freddiche non guardavano e vedevano – passando rigido infine alla doppia fila di chierici e preti, diffondeva un si-lenzio come se passasse il padrone di tutti. La cassa,piccola come quella d’una ragazzina sulle spalle di quat-tro uomini tarchiati, si scorgeva un poco sotto la coltre,

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Nel paese e nella campagna quella morte fece grandeimpressione; secondo l’idea di tutti, l’ultima discenden-te dei conti Stella, la piú vecchia di Luvo, era sempreesistita e doveva durare sempre. Una gran folla passòdavanti all’alcova simile ad un palcoscenico a veder lamorticina con la cuffia da festa. Barbara lavorava conuna sarta paesana a raffazzonar vestiti neri per sé e perla sorella. Testamento non n’era stato trovato. Claudias’incontrò col cavalier Costante, gli disse qualche parolad’obbligo ma senza dargli la mano né nascondere la ri-pugnanza che sentiva per lui dopo il fatto della lettera,convinta che fosse opera sua; ed egli rispose con gesti dicircostanza.

Funerali assai belli. Pieni di folla i cortili, il prato da-vanti casa, la strada; vi era gente del paese e del territo-rio, in parte vestita come la domenica a messa, gli uomi-ni con i cappelli rotondi e le giacche di velluto, le donnecon i veli neri in capo e le gonne a pieghe, ma i piú ave-vano cambiato il loro aspetto di contadini, erano raduna-ti in masse di colori diversi, portando càmici gialli obianchi o neri, veli azzurri o bianchi, mantellette turchi-ne o rosse ed alti bastoni da pellegrini, secondo le con-fraternite. Quel giovine arciprete – alta statura, testa giàcalva, viso fiero abbronzato, occhi chiarissimi e freddiche non guardavano e vedevano – passando rigido infine alla doppia fila di chierici e preti, diffondeva un si-lenzio come se passasse il padrone di tutti. La cassa,piccola come quella d’una ragazzina sulle spalle di quat-tro uomini tarchiati, si scorgeva un poco sotto la coltre,

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ed era di pioppo greggio, fatta alla meglio. Costante eGregorio, pallidi, con gli occhi arrossati, camminavanodietro di essa gomito a gomito come ottimi fratelli, il ca-valiere con i grossi baffi ben ravviati ed i guanti neri,l’altro tenendo in mano il suo cappello di città, un altocappello professorale; di Clemenza e Barbara non si ve-deva il volto sotto uno spesso crespo nero; Mercurino,vestito d’un abito a falde del padre, salutava i conoscen-ti ma subito abbassava lo sguardo. A rappresentar gli in-gegneri vi era il «muratore»; guanti e cravattina neriportava il signor Lanciarossa, che con largo gesto si li-sciava i capelli gettando occhiate alle contadine belle. Siudiva molto parlare di Paoletto, partito proprio il giornodella disgrazia.

Tornato dalla chiesa, con le fiammelle dei ceri appenavisibili nella viva luce di settembre, il fiume colorato delcorteo discese per la stradetta sotto la Stellata, col rumo-río dei passi e delle conversazioni: la bara sembrava gal-leggiarvi. Nel piccolo cimitero inclinato verso l’ampioorizzonte ed incorniciato di vigne verdazzurre si sparse-ro gli stendardi, le corone di fiori, i veli delle «Adoratri-ci», le barbe dei «Flagellanti»; un ronzio denso empí ilrecinto. Il becchino, che aveva un’aria di bravo uomo,conosceva tutti ma non guardava nessuno, affaccendato.Il sole calante concentrava là il suo fuoco come con unospecchio. Graziano ravvisava alcuni dei piú ricchi con-tadini di Luvo, vestiti di panno da signori, con facce ra-sate e dure. Come poteva esservi tanta gente, egli si do-mandava, in un paese vuoto? Ma eran venuti tutti. C’era

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ed era di pioppo greggio, fatta alla meglio. Costante eGregorio, pallidi, con gli occhi arrossati, camminavanodietro di essa gomito a gomito come ottimi fratelli, il ca-valiere con i grossi baffi ben ravviati ed i guanti neri,l’altro tenendo in mano il suo cappello di città, un altocappello professorale; di Clemenza e Barbara non si ve-deva il volto sotto uno spesso crespo nero; Mercurino,vestito d’un abito a falde del padre, salutava i conoscen-ti ma subito abbassava lo sguardo. A rappresentar gli in-gegneri vi era il «muratore»; guanti e cravattina neriportava il signor Lanciarossa, che con largo gesto si li-sciava i capelli gettando occhiate alle contadine belle. Siudiva molto parlare di Paoletto, partito proprio il giornodella disgrazia.

Tornato dalla chiesa, con le fiammelle dei ceri appenavisibili nella viva luce di settembre, il fiume colorato delcorteo discese per la stradetta sotto la Stellata, col rumo-río dei passi e delle conversazioni: la bara sembrava gal-leggiarvi. Nel piccolo cimitero inclinato verso l’ampioorizzonte ed incorniciato di vigne verdazzurre si sparse-ro gli stendardi, le corone di fiori, i veli delle «Adoratri-ci», le barbe dei «Flagellanti»; un ronzio denso empí ilrecinto. Il becchino, che aveva un’aria di bravo uomo,conosceva tutti ma non guardava nessuno, affaccendato.Il sole calante concentrava là il suo fuoco come con unospecchio. Graziano ravvisava alcuni dei piú ricchi con-tadini di Luvo, vestiti di panno da signori, con facce ra-sate e dure. Come poteva esservi tanta gente, egli si do-mandava, in un paese vuoto? Ma eran venuti tutti. C’era

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Mariolina dentro un càmice giallo di «Pentita»; eranovenuti anche dai palazzi cancrenosi; ecco il ragazzo chebalbettava sbavando, ecco il Re dei Re con la fascia ros-sa. Vide pure il ciabattino dalla gamba di legno. La mol-titudine che si rimescolava intorno alle croci calpestan-do anche qualche tumulo, sembrava fatta di gente tuttaeguale, unita. Proprio nel mezzo del camposanto si alza-va la cappella degli Andosio, nella quale stavano nonnie bisnonni: un tempietto rotondo piuttosto trascurato,con un’urna di pietra in cima che si vedeva anche dallastrada. Non lontana era la cappelletta degli Stella, dipin-ta a stelle turchine ormai svanite; ficcati tra i signoripresso l’entrata, vi erano alcuni ragazzi di quella bandadel vicinato e guardavano curiosamente calar la cassacon le corde nella cripta.

Dopo, la folla si disperse subito prendendo ancheviottoli e sentieri; dappertutto si muovevano colori, veli,e la campagna non era mai stata cosí bella da vedere.

* * *

Seguirono giornate nelle quali i parenti della mortasembravano vivere ogni momento nell’idea del lutto cheportavano, dell’obbligo loro di essere o di mostrarsi tri-sti. A tutti gli abitatori della Stellata accadeva di cercarla vegliarda e stupirsi perché non si udiva piú quellavoce. Niente nella casa era stato toccato; rimanevano alsolito posto i «seggioloni della nonna». Si sentiva moltoanche la mancanza di Paoletto. Gli ingegneri non veni-

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Mariolina dentro un càmice giallo di «Pentita»; eranovenuti anche dai palazzi cancrenosi; ecco il ragazzo chebalbettava sbavando, ecco il Re dei Re con la fascia ros-sa. Vide pure il ciabattino dalla gamba di legno. La mol-titudine che si rimescolava intorno alle croci calpestan-do anche qualche tumulo, sembrava fatta di gente tuttaeguale, unita. Proprio nel mezzo del camposanto si alza-va la cappella degli Andosio, nella quale stavano nonnie bisnonni: un tempietto rotondo piuttosto trascurato,con un’urna di pietra in cima che si vedeva anche dallastrada. Non lontana era la cappelletta degli Stella, dipin-ta a stelle turchine ormai svanite; ficcati tra i signoripresso l’entrata, vi erano alcuni ragazzi di quella bandadel vicinato e guardavano curiosamente calar la cassacon le corde nella cripta.

Dopo, la folla si disperse subito prendendo ancheviottoli e sentieri; dappertutto si muovevano colori, veli,e la campagna non era mai stata cosí bella da vedere.

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Seguirono giornate nelle quali i parenti della mortasembravano vivere ogni momento nell’idea del lutto cheportavano, dell’obbligo loro di essere o di mostrarsi tri-sti. A tutti gli abitatori della Stellata accadeva di cercarla vegliarda e stupirsi perché non si udiva piú quellavoce. Niente nella casa era stato toccato; rimanevano alsolito posto i «seggioloni della nonna». Si sentiva moltoanche la mancanza di Paoletto. Gli ingegneri non veni-

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vano piú. Sempre sorvegliato da Barbara, il cavalier Co-stante s’era messo ancora una volta alla ricerca del te-stamento, ma senza risultato; infine si decise a rinun-ziarvi, poiché la madre gli aveva ben detto di non volerscrivere nulla. Claudia Farra stava molto con Graziano;facevano insieme delle passeggiate, essi soli, parlandodel babbo, del corso libero che avrebbe ripreso all’uni-versità, di tutta la loro vita di Torino. Il ragazzo era feli-ce di aver riacquistata lei interamente.

Gli disse un giorno Clemenza: – Vuoi vedere il giar-dino? – Ne aveva la chiave. Aprirono la pesante portaproibita. Quel giardino non era però molto grande: loracchiudeva un alto muro, coperto di edera, gelsomino espine aggrovigliati in maniera inestricabile; sotto unapergola si camminava nelle erbacce; in fondo al bacinoasciutto d’una fontana si mosse vigliaccamente un ro-spo, somigliante ad una logora borsa vuota. Le cose pa-revano cadere tutte a pezzi come nel teatrino gli scenari.Erano decrepiti anche il mirto delle siepi, guasto, gli al-beri incrostati di licheni, gli aridi cespugli di rose suiquali qualche fiore ancora si disfaceva; ed ovunque sisentiva la signora Breme, la sua vecchiezza rimastavicome in una stanza. Vedendo il seggiolone sotto il ne-spolo, una specie di cattedra di legno, Graziano ricordòla piccola cassa di pioppo. Ecco la morte che cosa signi-ficava: non tornare mai piú. Ma la vecchietta era stataaccomodata cosí bene, in mezzo alle vigne, davanti allaAlpi, nella cappella dipinta a stelle che sembravaun’abitazione gradevole...

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vano piú. Sempre sorvegliato da Barbara, il cavalier Co-stante s’era messo ancora una volta alla ricerca del te-stamento, ma senza risultato; infine si decise a rinun-ziarvi, poiché la madre gli aveva ben detto di non volerscrivere nulla. Claudia Farra stava molto con Graziano;facevano insieme delle passeggiate, essi soli, parlandodel babbo, del corso libero che avrebbe ripreso all’uni-versità, di tutta la loro vita di Torino. Il ragazzo era feli-ce di aver riacquistata lei interamente.

Gli disse un giorno Clemenza: – Vuoi vedere il giar-dino? – Ne aveva la chiave. Aprirono la pesante portaproibita. Quel giardino non era però molto grande: loracchiudeva un alto muro, coperto di edera, gelsomino espine aggrovigliati in maniera inestricabile; sotto unapergola si camminava nelle erbacce; in fondo al bacinoasciutto d’una fontana si mosse vigliaccamente un ro-spo, somigliante ad una logora borsa vuota. Le cose pa-revano cadere tutte a pezzi come nel teatrino gli scenari.Erano decrepiti anche il mirto delle siepi, guasto, gli al-beri incrostati di licheni, gli aridi cespugli di rose suiquali qualche fiore ancora si disfaceva; ed ovunque sisentiva la signora Breme, la sua vecchiezza rimastavicome in una stanza. Vedendo il seggiolone sotto il ne-spolo, una specie di cattedra di legno, Graziano ricordòla piccola cassa di pioppo. Ecco la morte che cosa signi-ficava: non tornare mai piú. Ma la vecchietta era stataaccomodata cosí bene, in mezzo alle vigne, davanti allaAlpi, nella cappella dipinta a stelle che sembravaun’abitazione gradevole...

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Il ragazzo uscí dal giardino senza desiderio di venirviun’altra volta. Clemenza lasciò apposta la chiave nellatoppa perché tutti vi potessero entrare. E da ciò nacqueche l’aspra servetta di Costante ogni mattina andò a co-gliervi senza discrezione la frutta e Barbara una volta laaspettò di pié fermo all’uscita per farle rimproveri e indifesa della serva accorse il cavaliere. Questa lite fu ilsegno che la vita ricominciava quasi come per l’innanzi.Da Rebbia le signorine si fecero portare dei giornali dimode per progettare abiti da lutto nuovi, fatti bene. Dinuovo Mercurino camminava su e giú per la spianatastudiando ad alta voce. Di nuovo il professor Gregoriocommentava il suo giornale stantío: – La Questioned’Oriente è il vivaio dove si coltiva la guerra, una guer-ra che sconvolgerà l’Europa. – Clemenza protestava:Voi, babbo, prevedete sempre la fin del mondo! – Incasa la prima ad uscire in una risata fu Barbara; la quale,accorgendosene, si suggellò la bocca con una mano.

Il principio d’autunno era tutto serenità e splendore.Sulle colline incominciava la vendemmia, e da moltianni non s’era veduto un raccolto cosí abbondante:nell’aria si sentiva questa ricchezza. Il professore e le fi-glie stavano in ansia per la divisione dell’eredità conCostante, non dubitando che avrebbe causati contrasti enoie. Né era un grande patrimonio quello lasciato dallanonna. – Continuerò a fare il vocabolario – diceva Cle-menza. Pure, il pensiero di possedere un po’ di roba, di-ventando padroni di ciò che la vegliarda aveva sempretenuto dispoticamente in suo dominio, dava gusto

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Il ragazzo uscí dal giardino senza desiderio di venirviun’altra volta. Clemenza lasciò apposta la chiave nellatoppa perché tutti vi potessero entrare. E da ciò nacqueche l’aspra servetta di Costante ogni mattina andò a co-gliervi senza discrezione la frutta e Barbara una volta laaspettò di pié fermo all’uscita per farle rimproveri e indifesa della serva accorse il cavaliere. Questa lite fu ilsegno che la vita ricominciava quasi come per l’innanzi.Da Rebbia le signorine si fecero portare dei giornali dimode per progettare abiti da lutto nuovi, fatti bene. Dinuovo Mercurino camminava su e giú per la spianatastudiando ad alta voce. Di nuovo il professor Gregoriocommentava il suo giornale stantío: – La Questioned’Oriente è il vivaio dove si coltiva la guerra, una guer-ra che sconvolgerà l’Europa. – Clemenza protestava:Voi, babbo, prevedete sempre la fin del mondo! – Incasa la prima ad uscire in una risata fu Barbara; la quale,accorgendosene, si suggellò la bocca con una mano.

Il principio d’autunno era tutto serenità e splendore.Sulle colline incominciava la vendemmia, e da moltianni non s’era veduto un raccolto cosí abbondante:nell’aria si sentiva questa ricchezza. Il professore e le fi-glie stavano in ansia per la divisione dell’eredità conCostante, non dubitando che avrebbe causati contrasti enoie. Né era un grande patrimonio quello lasciato dallanonna. – Continuerò a fare il vocabolario – diceva Cle-menza. Pure, il pensiero di possedere un po’ di roba, di-ventando padroni di ciò che la vegliarda aveva sempretenuto dispoticamente in suo dominio, dava gusto

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all’esistenza. Il professore non s’era mai tenuto in tascaaltro che i soldi per il tabacco; non pensò nemmeno didire alle figlie che avrebbero amministrato loro, poichéquesto s’intendeva. Barbara si era trovata sciolta dallacatena della nonna, libera d’andar via di là, se voleva;era molto animata, sebbene alla libertà si dovesse ancorabituare e paresse incerta riguardo a quel che avrebbefatto. Clemenza, nel vestito nero aderente alla persona,era piú bella; i suoi capelli avevano un colore piú vi-brante; ella si mostrava irrequieta, svagata, parlava mol-to di Torino. Le giornate s’andavano accorciando, lesere diventavano fresche: facevan già sentire la fine del-la villeggiatura. A Claudia giungevano lettere di Sisto,che accennavano al tempo del ritorno, alla vita cheavrebbero ripresa insieme, ai suoi progetti. Anche Gra-ziano pensava con piacere a tornare in città.

Dall’alba alla sera l’orizzonte era pieno di quel lavorodi vendemmiare, simile ad una festa. Su tutte le straderisonavano gli incitamenti alle bestie attaccate ai carichid’uva troppo grevi. Da ogni parte venivano i cori, rozzie lenti, che parevano ripeter sempre un medesimo canto.Un mattino Graziano, da solo, prese una delle stradescendenti ai poderi, per camminare in mezzo alla ven-demmia. Dietro le siepi non c’erano che vigne: l’uvaraccolta, nera o bianca o rossa, ben matura, si vedevadappertutto, nelle corbe e nelle bigonce radunate pressoi capanni, sui carri staccati dinanzi ai cancelli, sopra iquali stavano le tinozze fatte a navicello, dove i ven-demmiatori piú forti venivano a vuotar le ceste. Si respi-

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all’esistenza. Il professore non s’era mai tenuto in tascaaltro che i soldi per il tabacco; non pensò nemmeno didire alle figlie che avrebbero amministrato loro, poichéquesto s’intendeva. Barbara si era trovata sciolta dallacatena della nonna, libera d’andar via di là, se voleva;era molto animata, sebbene alla libertà si dovesse ancorabituare e paresse incerta riguardo a quel che avrebbefatto. Clemenza, nel vestito nero aderente alla persona,era piú bella; i suoi capelli avevano un colore piú vi-brante; ella si mostrava irrequieta, svagata, parlava mol-to di Torino. Le giornate s’andavano accorciando, lesere diventavano fresche: facevan già sentire la fine del-la villeggiatura. A Claudia giungevano lettere di Sisto,che accennavano al tempo del ritorno, alla vita cheavrebbero ripresa insieme, ai suoi progetti. Anche Gra-ziano pensava con piacere a tornare in città.

Dall’alba alla sera l’orizzonte era pieno di quel lavorodi vendemmiare, simile ad una festa. Su tutte le straderisonavano gli incitamenti alle bestie attaccate ai carichid’uva troppo grevi. Da ogni parte venivano i cori, rozzie lenti, che parevano ripeter sempre un medesimo canto.Un mattino Graziano, da solo, prese una delle stradescendenti ai poderi, per camminare in mezzo alla ven-demmia. Dietro le siepi non c’erano che vigne: l’uvaraccolta, nera o bianca o rossa, ben matura, si vedevadappertutto, nelle corbe e nelle bigonce radunate pressoi capanni, sui carri staccati dinanzi ai cancelli, sopra iquali stavano le tinozze fatte a navicello, dove i ven-demmiatori piú forti venivano a vuotar le ceste. Si respi-

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rava un odor di mosto ma ancora zuccherino. Tra i filarisi udiva movere la gente, quasi sempre senza vederla.Se qualche faccia appariva, vi era scritta la soddisfazio-ne di quell’abbondanza. In ogni vigna, tagliando i grap-poli, i giovani cantavano; e talvolta le voci erano assaivicine alla strada, voci di ragazze e di maschi, che colgioco degli alti e dei bassi cercavano effetti d’armonia.Quasi sempre il canto era guidato da una donna, la qualecon tutta la sua forza metteva fuori un’acuta voce di te-sta. Ma ciò che quel cantare esprimeva, era una malin-conia: come se venisse su dall’animo dei cantori senzache essi lo volessero.

La strada era stretta. Graziano dovette fermarsi a farpassare uno dei carri, tirato da due grandi cavalli, unoalle stanghe e l’altro di punta. Li conduceva un giovine;dietro il carro veniva l’uomo gagliardo, dai baffi ancorabiondi, che fermava sempre Claudia per discorrere. Da-niele del Tessitore. Anche ora, veduto il ragazzo, si fer-mò, con la sua aria fiera e la giacca appesa ad una spal-la. Salutò, rimproverò per ischerzo Graziano perché an-dava a passeggio invece di aiutar a vendemmiare; mapoi, moderando la voce, gli chiese: – E dello zio Alera-mo che notizie si hanno?

— Come? – disse il ragazzo tra sorpreso ed inquieto.– Lo zio è morto.

Con un moto risentito di tutta la persona l’uomo lofissò: – Morto? Ma quando?

— Io non so. Sarà molto tempo.

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rava un odor di mosto ma ancora zuccherino. Tra i filarisi udiva movere la gente, quasi sempre senza vederla.Se qualche faccia appariva, vi era scritta la soddisfazio-ne di quell’abbondanza. In ogni vigna, tagliando i grap-poli, i giovani cantavano; e talvolta le voci erano assaivicine alla strada, voci di ragazze e di maschi, che colgioco degli alti e dei bassi cercavano effetti d’armonia.Quasi sempre il canto era guidato da una donna, la qualecon tutta la sua forza metteva fuori un’acuta voce di te-sta. Ma ciò che quel cantare esprimeva, era una malin-conia: come se venisse su dall’animo dei cantori senzache essi lo volessero.

La strada era stretta. Graziano dovette fermarsi a farpassare uno dei carri, tirato da due grandi cavalli, unoalle stanghe e l’altro di punta. Li conduceva un giovine;dietro il carro veniva l’uomo gagliardo, dai baffi ancorabiondi, che fermava sempre Claudia per discorrere. Da-niele del Tessitore. Anche ora, veduto il ragazzo, si fer-mò, con la sua aria fiera e la giacca appesa ad una spal-la. Salutò, rimproverò per ischerzo Graziano perché an-dava a passeggio invece di aiutar a vendemmiare; mapoi, moderando la voce, gli chiese: – E dello zio Alera-mo che notizie si hanno?

— Come? – disse il ragazzo tra sorpreso ed inquieto.– Lo zio è morto.

Con un moto risentito di tutta la persona l’uomo lofissò: – Morto? Ma quando?

— Io non so. Sarà molto tempo.

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— Ah...! – fece Daniele. Scosse la testa e si rimise incammino, come pensando: «È inutile che parliamo se tunon sai».

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— Ah...! – fece Daniele. Scosse la testa e si rimise incammino, come pensando: «È inutile che parliamo se tunon sai».

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Metello Farra aveva la persona imponente ed i grandiocchi del padre; sua madre gli aveva dato quel colorbiondo rosso dei capelli indocili; i lunghi baffi spioventierano da guerriero barbaro, ma ogni tanto egli afferravale forbici, in due colpi ne faceva saltar via le punte. In-verno ed estate portava sempre lo stesso abito, con unlogoro fazzoletto di seta al collo come usavano gli ope-rai. Occupava una camera ammobiliata ed uno stanzinoin un’alta casa abitata da operai, in mezzo a prati d’unsobborgo. Appesi ai muri, radunati negli angoli, accata-stati sopra la guardaroba ed anche sui bauli dello stanzi-no, erano studi e tele dipinti da lui, la maggior partepaesaggi di toni chiari ed eleganti, che non erano o nonparevano finiti. Sotto il letto scarpe buttate; libri anchesulle sedie; in terra monti e pacchi di giornali: in un trat-to di parete stampe coi ritratti di Marx e di qualche suoseguace italiano. Infilata in uno specchio una piccola fo-tografia del padre e della madre, sposi.

Proibiva severamente che si toccasse nulla. – Spolve-ro io. – Qualche volta ci si provava soffiando sui libri esui mucchi di carte. Dal balcone si vedevano le case altee brutte del sobborgo nascente, una grande officina delgas, i prati con le vie tracciate da file di lampioni, le rive

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Metello Farra aveva la persona imponente ed i grandiocchi del padre; sua madre gli aveva dato quel colorbiondo rosso dei capelli indocili; i lunghi baffi spioventierano da guerriero barbaro, ma ogni tanto egli afferravale forbici, in due colpi ne faceva saltar via le punte. In-verno ed estate portava sempre lo stesso abito, con unlogoro fazzoletto di seta al collo come usavano gli ope-rai. Occupava una camera ammobiliata ed uno stanzinoin un’alta casa abitata da operai, in mezzo a prati d’unsobborgo. Appesi ai muri, radunati negli angoli, accata-stati sopra la guardaroba ed anche sui bauli dello stanzi-no, erano studi e tele dipinti da lui, la maggior partepaesaggi di toni chiari ed eleganti, che non erano o nonparevano finiti. Sotto il letto scarpe buttate; libri anchesulle sedie; in terra monti e pacchi di giornali: in un trat-to di parete stampe coi ritratti di Marx e di qualche suoseguace italiano. Infilata in uno specchio una piccola fo-tografia del padre e della madre, sposi.

Proibiva severamente che si toccasse nulla. – Spolve-ro io. – Qualche volta ci si provava soffiando sui libri esui mucchi di carte. Dal balcone si vedevano le case altee brutte del sobborgo nascente, una grande officina delgas, i prati con le vie tracciate da file di lampioni, le rive

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alberate del Po, la collina. Di rado Metello rimaneva incasa a scrivere: allora gli piaceva cucinare sul fornellodello stanzino, tra i cavalletti, i tubi di colore schiacciatie gli abiti vecchi appesi ai chiodi. Abitualmente erasempre fuori. Faceva cento cose. Perduto un impiegogovernativo, lavorava nello studio d’un ingegnere; erabuon disegnatore e gli veniva perdonato – anche perchélo stipendio era avaro – se ogni tanto dimenticavad’andare all’ufficio. Scriveva quasi da solo I diritti delpopolo, settimanale fondato da lui; era uno dei capidell’Unione operaia, per il partito socialista teneva regi-stri, parlava nelle riunioni; molte ore le passava nellemisere tipografie dove si stampavano I diritti ed un set-timanale d’arte e letteratura anche creato da lui; inse-gnava in scuole serali per operai, disegno e geometria.Pieno di salute, non era mai stanco, poche ore di sonnogli bastavano.

Tacere e star solo gli sarebbe piaciuto piú d’ogni altracosa, ma viveva sempre tra molta gente. Negli ultimianni aveva provato cinque volte il carcere, arrestato permisure di polizia e presto rilasciato; fin che per un arti-colo dei Diritti aveva scontati tre mesi di reclusione. Aldenaro dava poca importanza; non beveva, non fumava,mangiava qua e là in piccole trattorie ed osterie in ognu-na delle quali aveva amici e faceva propaganda. Essersuperiore alle regole ed esigenze della vita borghese,non aver quasi bisogni, gli dava un sentimento di eroicopotere e di libertà. Era convinto di vivere da poverocome gli operai. Se doveva aiutar qualcuno che non ave-

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alberate del Po, la collina. Di rado Metello rimaneva incasa a scrivere: allora gli piaceva cucinare sul fornellodello stanzino, tra i cavalletti, i tubi di colore schiacciatie gli abiti vecchi appesi ai chiodi. Abitualmente erasempre fuori. Faceva cento cose. Perduto un impiegogovernativo, lavorava nello studio d’un ingegnere; erabuon disegnatore e gli veniva perdonato – anche perchélo stipendio era avaro – se ogni tanto dimenticavad’andare all’ufficio. Scriveva quasi da solo I diritti delpopolo, settimanale fondato da lui; era uno dei capidell’Unione operaia, per il partito socialista teneva regi-stri, parlava nelle riunioni; molte ore le passava nellemisere tipografie dove si stampavano I diritti ed un set-timanale d’arte e letteratura anche creato da lui; inse-gnava in scuole serali per operai, disegno e geometria.Pieno di salute, non era mai stanco, poche ore di sonnogli bastavano.

Tacere e star solo gli sarebbe piaciuto piú d’ogni altracosa, ma viveva sempre tra molta gente. Negli ultimianni aveva provato cinque volte il carcere, arrestato permisure di polizia e presto rilasciato; fin che per un arti-colo dei Diritti aveva scontati tre mesi di reclusione. Aldenaro dava poca importanza; non beveva, non fumava,mangiava qua e là in piccole trattorie ed osterie in ognu-na delle quali aveva amici e faceva propaganda. Essersuperiore alle regole ed esigenze della vita borghese,non aver quasi bisogni, gli dava un sentimento di eroicopotere e di libertà. Era convinto di vivere da poverocome gli operai. Se doveva aiutar qualcuno che non ave-

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va mangiato, si trovava sempre in tasca un po’ di spic-cioli.

La sera, presto o tardi, andava alla Scacchiera. Un an-tico caffé che aveva conosciuti splendidi tempi, convitidi gaudenti, pazzie di giocatori, estri di belle bevitrici disciampagna nei gabinetti riservati, ed ora, in quella gal-leria vetrata dove non passava piú nessuno, sembravasopravvissuto ad una catastrofe. Infatti stava sempre sot-to la minaccia del fallimento: i vecchi coniugi che n’era-no proprietari, i camerieri magri e tossicolosi sembrava-no aver scritto in viso «Ultimo giorno». Morivano pianopiano anche gli specchi nelle cornici bianche; un freddofunebre era nei tavolini di marmo, rotondi, con un gros-so piede; i grappoli di globi dei lampadari a gas manda-vano una luce desolata sul velluto azzurro dei divani or-mai senza pelo. Perduti nelle lunghe sale – sotto glispecchi nei quali eran passate le figure del Risorgimen-to, gli emigrati, i deputati famosi, gli ufficiali tra unacampagna e l’altra – stavano vecchi lettori di giornali, egruppi d’altri vecchi discorrevano sottovoce. Ma tutte lesere vi si riuniva una compagnia che pareva di vivi en-trati senz’accorgersene in un caffè di trapassati. Eranoscultori e pittori, un professore di ginnasio tutto nero,barba, abito, cravatta, pensieri, un poeta autodidatta fi-glio di contadini, alcuni studiosi di scienze sociali e dieconomia, liberi docenti dell’università, alcuni medici,un impiegato delle ferrovie che era il primo deputato so-cialista della città. Qualche ebreo, tra essi, d’ingegnosottile. Parlavano d’arte, sostenendo quella che quegli

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va mangiato, si trovava sempre in tasca un po’ di spic-cioli.

La sera, presto o tardi, andava alla Scacchiera. Un an-tico caffé che aveva conosciuti splendidi tempi, convitidi gaudenti, pazzie di giocatori, estri di belle bevitrici disciampagna nei gabinetti riservati, ed ora, in quella gal-leria vetrata dove non passava piú nessuno, sembravasopravvissuto ad una catastrofe. Infatti stava sempre sot-to la minaccia del fallimento: i vecchi coniugi che n’era-no proprietari, i camerieri magri e tossicolosi sembrava-no aver scritto in viso «Ultimo giorno». Morivano pianopiano anche gli specchi nelle cornici bianche; un freddofunebre era nei tavolini di marmo, rotondi, con un gros-so piede; i grappoli di globi dei lampadari a gas manda-vano una luce desolata sul velluto azzurro dei divani or-mai senza pelo. Perduti nelle lunghe sale – sotto glispecchi nei quali eran passate le figure del Risorgimen-to, gli emigrati, i deputati famosi, gli ufficiali tra unacampagna e l’altra – stavano vecchi lettori di giornali, egruppi d’altri vecchi discorrevano sottovoce. Ma tutte lesere vi si riuniva una compagnia che pareva di vivi en-trati senz’accorgersene in un caffè di trapassati. Eranoscultori e pittori, un professore di ginnasio tutto nero,barba, abito, cravatta, pensieri, un poeta autodidatta fi-glio di contadini, alcuni studiosi di scienze sociali e dieconomia, liberi docenti dell’università, alcuni medici,un impiegato delle ferrovie che era il primo deputato so-cialista della città. Qualche ebreo, tra essi, d’ingegnosottile. Parlavano d’arte, sostenendo quella che quegli

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artisti facevano pensando di aiutar con le loro opere lerivendicazioni sociali o cercando forme «spirituali» inodio al vecchio verismo; discutevano fatti e scandali delParlamento, l’azione socialista. Con qualcuno dei pittoriMetello era andato la domenica a dipingere in campa-gna, ma ora non ne aveva piú voglia. Per gusto di svi-scerare gli argomenti, per amore di polemica, nel caffèdisputavano sempre con ardore e violenza: quando levoci s’alzavano molto, i camerieri, bianchi come le lorocravattine, e poi il padrone col suo bianco cranio ornatodi capelli che vi parevano dipinti, giravano intorno allacompagnia sperando di muovere in tal modo a compas-sione, rassegnati del resto da un pezzo a qualunque pati-re. Il padrone qualche volta avvertiva che nelle sales’era vista una faccia di spia, e forse era vero.

Da uno dei medici, il dottor Polo, che poteva avereinformazioni segrete, Metello aspettava di saper l’esitodel concorso a cui aveva preso parte Sisto per una catte-dra in una università di secondo ordine. Era morto im-provvisamente il professore Sparvieri, senz’avere predi-sposto nulla; il suo antagonista Francesco Pòrpora,dell’università di Roma, che curava la tubercolosi conun siero preparato da lui, notoriamente inefficace, avevapotuto far nominare a quel posto un allievo suo, dellabanda del siero. E nei tre o quattro anni ormai passatidalla scomparsa del maestro, Sisto aveva dovuto tenace-mente difenderne la memoria ed il metodo, difendereanche il posto di direttore che aveva nell’ospedale diSanta Chiara: quasi solo in mezzo alla gran lega degli

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artisti facevano pensando di aiutar con le loro opere lerivendicazioni sociali o cercando forme «spirituali» inodio al vecchio verismo; discutevano fatti e scandali delParlamento, l’azione socialista. Con qualcuno dei pittoriMetello era andato la domenica a dipingere in campa-gna, ma ora non ne aveva piú voglia. Per gusto di svi-scerare gli argomenti, per amore di polemica, nel caffèdisputavano sempre con ardore e violenza: quando levoci s’alzavano molto, i camerieri, bianchi come le lorocravattine, e poi il padrone col suo bianco cranio ornatodi capelli che vi parevano dipinti, giravano intorno allacompagnia sperando di muovere in tal modo a compas-sione, rassegnati del resto da un pezzo a qualunque pati-re. Il padrone qualche volta avvertiva che nelle sales’era vista una faccia di spia, e forse era vero.

Da uno dei medici, il dottor Polo, che poteva avereinformazioni segrete, Metello aspettava di saper l’esitodel concorso a cui aveva preso parte Sisto per una catte-dra in una università di secondo ordine. Era morto im-provvisamente il professore Sparvieri, senz’avere predi-sposto nulla; il suo antagonista Francesco Pòrpora,dell’università di Roma, che curava la tubercolosi conun siero preparato da lui, notoriamente inefficace, avevapotuto far nominare a quel posto un allievo suo, dellabanda del siero. E nei tre o quattro anni ormai passatidalla scomparsa del maestro, Sisto aveva dovuto tenace-mente difenderne la memoria ed il metodo, difendereanche il posto di direttore che aveva nell’ospedale diSanta Chiara: quasi solo in mezzo alla gran lega degli

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avversari. Una lotta feroce era pure condotta contro unaclinica privata ch’egli aveva potuto creare con l’aiuto dialcuni capitalisti. Ma la decisione del concorso tardava.

Alla Scacchiera veniva a cercar Metello, mostrandoun certo coraggio sdegnoso, una signorina suitrent’anni, bella ma sempre bizzarramente acconciatacon piume e penne, con un luccichio addosso, e col nasoimperioso pizzicato da occhiali d’oro. Era segno cheMetello mancava agli appuntamenti, non si faceva piúvedere nel negozio che ella aveva ereditato dal padre:ordinatissimo luogo pieno di lucidi oggetti di gomma edi quel freddo nauseante odore della gomma e dell’ince-rata. Metello forse amava la tornita Sabina, che stavadietro il banco come una maestra in cattedra; ma spessola dimenticava, preso dalla politica o dal lavoro, oppurereagiva a quel sentirsi vigilato, assoggettato, voleva re-spirare. Poiché riusciva simpatico alle donne, aveva an-che molti amori leggeri, relazioncelle con giovani can-tanti, con maestrine che scrivevano. Allora, per non la-sciarsi trovare, disertava il caffè, e Sabina lo andava acercare all’Unione, nelle trattorie del sobborgo, a casa.Un giorno in quella casa volle metter ordine e fu sorpre-sa da lui: non dimenticò piú gli atti disperati che vide, leparole di fuoco che udí. Ma il disordine di quella abita-zione piaceva all’assestata venditrice nello stesso modocome l’attraeva la vita di Metello per le sue idee rischio-se.

A mezzanotte il padrone del caffè era costretto a chiu-der dentro Metello e gli amici ed attendere con pazienza

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avversari. Una lotta feroce era pure condotta contro unaclinica privata ch’egli aveva potuto creare con l’aiuto dialcuni capitalisti. Ma la decisione del concorso tardava.

Alla Scacchiera veniva a cercar Metello, mostrandoun certo coraggio sdegnoso, una signorina suitrent’anni, bella ma sempre bizzarramente acconciatacon piume e penne, con un luccichio addosso, e col nasoimperioso pizzicato da occhiali d’oro. Era segno cheMetello mancava agli appuntamenti, non si faceva piúvedere nel negozio che ella aveva ereditato dal padre:ordinatissimo luogo pieno di lucidi oggetti di gomma edi quel freddo nauseante odore della gomma e dell’ince-rata. Metello forse amava la tornita Sabina, che stavadietro il banco come una maestra in cattedra; ma spessola dimenticava, preso dalla politica o dal lavoro, oppurereagiva a quel sentirsi vigilato, assoggettato, voleva re-spirare. Poiché riusciva simpatico alle donne, aveva an-che molti amori leggeri, relazioncelle con giovani can-tanti, con maestrine che scrivevano. Allora, per non la-sciarsi trovare, disertava il caffè, e Sabina lo andava acercare all’Unione, nelle trattorie del sobborgo, a casa.Un giorno in quella casa volle metter ordine e fu sorpre-sa da lui: non dimenticò piú gli atti disperati che vide, leparole di fuoco che udí. Ma il disordine di quella abita-zione piaceva all’assestata venditrice nello stesso modocome l’attraeva la vita di Metello per le sue idee rischio-se.

A mezzanotte il padrone del caffè era costretto a chiu-der dentro Metello e gli amici ed attendere con pazienza

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che volessero andarsene dalla parte del cortile. AllaScacchiera mettevano insieme Battaglie d’arte, il perio-dico che campava con denaro d’uno di loro, ricco con-ciatore d’origine tedesca al quale piaceva essere «il te-soriere» dei ribelli. Là Metello Farra scriveva molti arti-coli per I diritti, sotto il fuoco incrociato delle discussio-ni, senza nemmeno scostarsi. Poi, a tarda notte, se neandava a piedi fino ai prati, sotto le stelle o sotto lapioggia; camminando nel mezzo delle vie deserte pensa-va al lavoro da fare per il partito, all’avvenire, con l’ani-mo pieno di quel sentimento che bisognava cambiare ilmondo ed anche con fiducia che sarebbe stato cambiato.Quando rivedeva le case del sobborgo tra le file degliultimi lampioni, era contento di ritornare tra i poveri.

Una sera, correndo a riportar bozze alla tipografia chestava per chiudersi, incontrò il dottor Polo. Anche questiaveva fretta ma si fermò un istante; sapeva l’esito delconcorso, gli disse i nomi compresi nella terna: Sistonon c’era. Il dolore di Metello fu vivo. Suo fratello sitrovava ad un punto della carriera nel quale la provaavrebbe dovuto vincerla; l’insuccesso poteva avere con-seguenze gravi. Certamente era stata commessaun’ingiustizia. Metello rinunziò ad andare alla tipografiaper portar subito la notizia a Sisto ed impedire ch’eglil’avesse altrimenti, senza parole di conforto. Un tranvai,col trotto arruffato dei cavallucci e coi colpi di fischiettodel cocchiere che sembravano allegri, lo portò sull’altrariva del fiume, in un piazzale ove stavano le guardie deldazio. Di là egli salí lunghe scale che accorciavano la

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che volessero andarsene dalla parte del cortile. AllaScacchiera mettevano insieme Battaglie d’arte, il perio-dico che campava con denaro d’uno di loro, ricco con-ciatore d’origine tedesca al quale piaceva essere «il te-soriere» dei ribelli. Là Metello Farra scriveva molti arti-coli per I diritti, sotto il fuoco incrociato delle discussio-ni, senza nemmeno scostarsi. Poi, a tarda notte, se neandava a piedi fino ai prati, sotto le stelle o sotto lapioggia; camminando nel mezzo delle vie deserte pensa-va al lavoro da fare per il partito, all’avvenire, con l’ani-mo pieno di quel sentimento che bisognava cambiare ilmondo ed anche con fiducia che sarebbe stato cambiato.Quando rivedeva le case del sobborgo tra le file degliultimi lampioni, era contento di ritornare tra i poveri.

Una sera, correndo a riportar bozze alla tipografia chestava per chiudersi, incontrò il dottor Polo. Anche questiaveva fretta ma si fermò un istante; sapeva l’esito delconcorso, gli disse i nomi compresi nella terna: Sistonon c’era. Il dolore di Metello fu vivo. Suo fratello sitrovava ad un punto della carriera nel quale la provaavrebbe dovuto vincerla; l’insuccesso poteva avere con-seguenze gravi. Certamente era stata commessaun’ingiustizia. Metello rinunziò ad andare alla tipografiaper portar subito la notizia a Sisto ed impedire ch’eglil’avesse altrimenti, senza parole di conforto. Un tranvai,col trotto arruffato dei cavallucci e coi colpi di fischiettodel cocchiere che sembravano allegri, lo portò sull’altrariva del fiume, in un piazzale ove stavano le guardie deldazio. Di là egli salí lunghe scale che accorciavano la

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strada della collina; raggiunse la massa leggera, traspa-rente di luce, della clinica. Dentro, un candore, un silen-zio, una semplicità, un vuoto, che significavano miseriaumana incasellata, regolata, quasi fatta vita normale.Nello studio di Sisto lo vide alzarsi dal cerchio di lucefermo sulla scrivania, col càmice bianco. Quel visoesprimeva simpatia ma anche ansietà: – Che succede,Metello?

Metello, parlando basso, si scagliò contro le universi-tà; ch’erano in mano a bande d’intriganti, a consorterie.Il fratello impallidí. – Nemmeno nella terna! – dissequando ebbe uditi i nomi. All’improvviso tutto gli parvecoprirsi d’una tinta d’angoscia; pareti, mobili, ogni for-ma del luogo che gli era caro; si guastò in lui, si feceoscura quell’idea della vita e del domani che ciascunolegge ad ogni istante sulla superficie delle cose. Comeun lampo gli attraversò la coscienza un pensiero, comeun lampo che rischiarasse tutto l’avvenire. «Non riusci-rò. Il mio destino è mediocre. Non sono di quegli uomi-ni chiamati alle cose grandi, alla vita potente».

— Siedi, – disse al fratello guardando l’ora. – Scen-deremo insieme. – Rifece una pila ordinata delle cartellecliniche che stava studiando; ed ora provava disgusto diquel lavoro e dell’ospedale e di tutto ciò che era la suafatica, la sua opera; ricordava le grandi intenzioni e spe-ranze di prima, e ne aveva compassione. Ma ebbe ancheuno scatto d’ira: – Sai quel che m’han fatto? Qui,all’Accademia di medicina, è stata letta una memorianella quale si vorrebbe dimostrare, sulla base di pretese

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strada della collina; raggiunse la massa leggera, traspa-rente di luce, della clinica. Dentro, un candore, un silen-zio, una semplicità, un vuoto, che significavano miseriaumana incasellata, regolata, quasi fatta vita normale.Nello studio di Sisto lo vide alzarsi dal cerchio di lucefermo sulla scrivania, col càmice bianco. Quel visoesprimeva simpatia ma anche ansietà: – Che succede,Metello?

Metello, parlando basso, si scagliò contro le universi-tà; ch’erano in mano a bande d’intriganti, a consorterie.Il fratello impallidí. – Nemmeno nella terna! – dissequando ebbe uditi i nomi. All’improvviso tutto gli parvecoprirsi d’una tinta d’angoscia; pareti, mobili, ogni for-ma del luogo che gli era caro; si guastò in lui, si feceoscura quell’idea della vita e del domani che ciascunolegge ad ogni istante sulla superficie delle cose. Comeun lampo gli attraversò la coscienza un pensiero, comeun lampo che rischiarasse tutto l’avvenire. «Non riusci-rò. Il mio destino è mediocre. Non sono di quegli uomi-ni chiamati alle cose grandi, alla vita potente».

— Siedi, – disse al fratello guardando l’ora. – Scen-deremo insieme. – Rifece una pila ordinata delle cartellecliniche che stava studiando; ed ora provava disgusto diquel lavoro e dell’ospedale e di tutto ciò che era la suafatica, la sua opera; ricordava le grandi intenzioni e spe-ranze di prima, e ne aveva compassione. Ma ebbe ancheuno scatto d’ira: – Sai quel che m’han fatto? Qui,all’Accademia di medicina, è stata letta una memorianella quale si vorrebbe dimostrare, sulla base di pretese

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esperienze, che il metodo Sparvieri può causare la morterapida del paziente. Hanno messo in giro la voce chenella mia clinica dei malati sono appunto morti in pochigiorni. Uccisi! – Quel metodo, che aiutava la guarigioneimmobilizzando uno dei polmoni, era invece senza ri-schi e dava in molti casi risultati eccellenti. Sisto chia-mò il medico di guardia, giovine d’aspetto molto grave,gli diede istruzioni per la notte. Uscendo con Metello in-contrò nel corridoio la superiora delle monache, la qualesi fermò addossandosi al muro e facendo un inchino.

Sulle scale della collina Sisto mise una mano sulbraccio del fratello: – Non ti ho nemmeno ringraziatod’esser venuto. – L’altro disse piano che dappertutto vierano bassi intrighi, ma che Sisto aveva del tempo in-nanzi a sé. Si procurasse però altri appoggi; cercasse dicomportarsi diversamente, badando al fine, senza irrigi-dirsi nei principi morali né obbedire troppo alla superbiadella coscienza. Davanti a loro, in basso, erano il fiume,tra geometriche rive di luce, e la città tagliata dalle filedi lumi in figure anch’esse regolari. Sisto guardava conl’impressione che tutto avesse ora cessato di appartener-gli. Giú al dazio, per andar a visitare un malato, chiamòuna vettura pubblica, vi salí con Metello: nel tragitto, trail frastuono delle ruote e dei vetri, volle da lui notizie diquel che facesse. Si separarono sul portone.

Uscito poi da questo palazzo, Sisto si avviò a piediverso casa. Nelle vie, dove poche botteghe erano ancoraaperte, passavano carrozze padronali al trotto schioccan-te delle belle pariglie che portavano già la gente ai tea-

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esperienze, che il metodo Sparvieri può causare la morterapida del paziente. Hanno messo in giro la voce chenella mia clinica dei malati sono appunto morti in pochigiorni. Uccisi! – Quel metodo, che aiutava la guarigioneimmobilizzando uno dei polmoni, era invece senza ri-schi e dava in molti casi risultati eccellenti. Sisto chia-mò il medico di guardia, giovine d’aspetto molto grave,gli diede istruzioni per la notte. Uscendo con Metello in-contrò nel corridoio la superiora delle monache, la qualesi fermò addossandosi al muro e facendo un inchino.

Sulle scale della collina Sisto mise una mano sulbraccio del fratello: – Non ti ho nemmeno ringraziatod’esser venuto. – L’altro disse piano che dappertutto vierano bassi intrighi, ma che Sisto aveva del tempo in-nanzi a sé. Si procurasse però altri appoggi; cercasse dicomportarsi diversamente, badando al fine, senza irrigi-dirsi nei principi morali né obbedire troppo alla superbiadella coscienza. Davanti a loro, in basso, erano il fiume,tra geometriche rive di luce, e la città tagliata dalle filedi lumi in figure anch’esse regolari. Sisto guardava conl’impressione che tutto avesse ora cessato di appartener-gli. Giú al dazio, per andar a visitare un malato, chiamòuna vettura pubblica, vi salí con Metello: nel tragitto, trail frastuono delle ruote e dei vetri, volle da lui notizie diquel che facesse. Si separarono sul portone.

Uscito poi da questo palazzo, Sisto si avviò a piediverso casa. Nelle vie, dove poche botteghe erano ancoraaperte, passavano carrozze padronali al trotto schioccan-te delle belle pariglie che portavano già la gente ai tea-

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tri. Egli che sempre andava in fretta, provò il bisogno dirallentare il passo. Rimasticava come un tossico il pen-siero della prova fallita, del torto che gli era stato fatto,dell’affronto; si ridiceva i nomi della terna. Che valevail merito? La malafede e l’intrigo regnavano. Ma egli sidomandava pure se quegli altri non avessero in realtàmeriti maggiori dei suoi, se in ogni modo non fosseropiú abili a vivere. La vedeva, la sua casa. Claudia ed ilfiglio avevano già cenato; stavano ad aspettare il suo ri-torno. Per dargli un saluto prima di essere messa a letto,lo attendeva anche la piccola Gabriella che non avevaancora tre anni. Uscita la bambina, egli si sarebbe sedu-to a tavola. La stanza era molto quieta e la reticella dellalampada a gas gettava sulla mensa una luce bianca, net-ta. Ecco, Claudia e Graziano lo guardavano, aspettandodi sentire le cose piú importanti della giornata.

* * *

I ragazzi della terza ginnasiale sono in ginocchio neibanchi presso l’altare. È una mattina di sole e le tenderosse delle finestre vicine alla volta sembrano tele dilanterne accese. Un servo lava la corsia della cappellacon segatura bagnata. Uno dei compagni esce dallostretto spazio tra l’altare ed il muro dell’abside, ove stail confessore, e subito un altro vi sparisce. Con angosciaGraziano vede ridursi il numero di coloro che devonoprecederlo. Nella via passa un carro; poi, di nuovo quelsilenzio nel quale si ode il sussurrare dolciastro di Don

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tri. Egli che sempre andava in fretta, provò il bisogno dirallentare il passo. Rimasticava come un tossico il pen-siero della prova fallita, del torto che gli era stato fatto,dell’affronto; si ridiceva i nomi della terna. Che valevail merito? La malafede e l’intrigo regnavano. Ma egli sidomandava pure se quegli altri non avessero in realtàmeriti maggiori dei suoi, se in ogni modo non fosseropiú abili a vivere. La vedeva, la sua casa. Claudia ed ilfiglio avevano già cenato; stavano ad aspettare il suo ri-torno. Per dargli un saluto prima di essere messa a letto,lo attendeva anche la piccola Gabriella che non avevaancora tre anni. Uscita la bambina, egli si sarebbe sedu-to a tavola. La stanza era molto quieta e la reticella dellalampada a gas gettava sulla mensa una luce bianca, net-ta. Ecco, Claudia e Graziano lo guardavano, aspettandodi sentire le cose piú importanti della giornata.

* * *

I ragazzi della terza ginnasiale sono in ginocchio neibanchi presso l’altare. È una mattina di sole e le tenderosse delle finestre vicine alla volta sembrano tele dilanterne accese. Un servo lava la corsia della cappellacon segatura bagnata. Uno dei compagni esce dallostretto spazio tra l’altare ed il muro dell’abside, ove stail confessore, e subito un altro vi sparisce. Con angosciaGraziano vede ridursi il numero di coloro che devonoprecederlo. Nella via passa un carro; poi, di nuovo quelsilenzio nel quale si ode il sussurrare dolciastro di Don

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Archetto dietro l’altare. Tra pochi momenti verrà il tur-no, bisognerà andare, niente potrà evitarlo. Graziano, te-nendo il volto nascosto nelle mani, vede egualmente lacappella, i compagni, Padre Raineri che li sorveglia pre-gando inginocchiato sul pavimento per penitenza, in-fiammato nel giovine e magro viso. Cosí vede le statuedipinte, l’armonio con la fodera verde sopra un piccolopalco. Da tutto ciò gli viene affanno e vergogna. Cercale parole con cui dire a Don Archetto quel peccato; tro-va allusioni vaghe, giri di frase; ma una confessione nonsincera sarebbe sacrilegio. Suo malgrado la memoria glirappresenta il fatto assai bene: Stefania nella stanza dalavoro delle donne, Stefania bionda carnosa fiorente,viso un poco cattivo e denti bianchi. Forse egli non havoluto quel che ha commesso, è stato preso. La ragazza.rideva piano come giocando, rapida, decisa; vesti calde,carni calde; non il vero «atto» certamente, tuttavia unpeccato orribile. Se egli morisse ora, all’improvviso, sa-rebbe dannato. Il ricordo non gli procura soltanto vergo-gna e rimorso ma anche un dolore oscuro come perun’offesa che abbia fatta a se stesso. «Non si salva l’ani-ma senza la purità» ripete spesso Padre Raineri. Grazia-no risente il suono strano, quasi tremante e straziato, chesulle labbra del giovine maestro ha questa parola Purità.Un compagno lo tocca nel braccio. Andare. Nell’ombradietro l’altare si vede il fazzoletto bianco che Don Ar-chetto tiene sempre tra mani quando confessa.

Ma il piccolo prete non parve dare un’importanzatroppo grande a ciò che, bene o male, gli fu detto dal ra-

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Archetto dietro l’altare. Tra pochi momenti verrà il tur-no, bisognerà andare, niente potrà evitarlo. Graziano, te-nendo il volto nascosto nelle mani, vede egualmente lacappella, i compagni, Padre Raineri che li sorveglia pre-gando inginocchiato sul pavimento per penitenza, in-fiammato nel giovine e magro viso. Cosí vede le statuedipinte, l’armonio con la fodera verde sopra un piccolopalco. Da tutto ciò gli viene affanno e vergogna. Cercale parole con cui dire a Don Archetto quel peccato; tro-va allusioni vaghe, giri di frase; ma una confessione nonsincera sarebbe sacrilegio. Suo malgrado la memoria glirappresenta il fatto assai bene: Stefania nella stanza dalavoro delle donne, Stefania bionda carnosa fiorente,viso un poco cattivo e denti bianchi. Forse egli non havoluto quel che ha commesso, è stato preso. La ragazza.rideva piano come giocando, rapida, decisa; vesti calde,carni calde; non il vero «atto» certamente, tuttavia unpeccato orribile. Se egli morisse ora, all’improvviso, sa-rebbe dannato. Il ricordo non gli procura soltanto vergo-gna e rimorso ma anche un dolore oscuro come perun’offesa che abbia fatta a se stesso. «Non si salva l’ani-ma senza la purità» ripete spesso Padre Raineri. Grazia-no risente il suono strano, quasi tremante e straziato, chesulle labbra del giovine maestro ha questa parola Purità.Un compagno lo tocca nel braccio. Andare. Nell’ombradietro l’altare si vede il fazzoletto bianco che Don Ar-chetto tiene sempre tra mani quando confessa.

Ma il piccolo prete non parve dare un’importanzatroppo grande a ciò che, bene o male, gli fu detto dal ra-

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gazzo. Succhiava come sempre una pasticca; un sorrisodi donnetta non abbandonava la sua faccia rotonda. –Quanti anni hai? – domandò. Arrossendo ora, Grazianorispose che ne aveva compiuti tredici. Il confessore dis-se che le tentazioni bisognava vincerle pensando a Gesúin croce, ma soprattutto evitarle; gli assegnò una peni-tenza un poco piú lunga del solito. Ritornato nei banchi,Graziano si chiuse di nuovo il viso tra le mani, come fa-cevano parecchi dei compagni, per recitar con fervore lepreghiere; a misura che le diceva, si sentiva come chi silava con molt’acqua fresca. Alla fine alzò gli occhi aguardare Padre Raineri, il quale si stropicciava energica-mente il volto con la destra, con un gesto che ripetevaspesso, un gesto di peccatore che abbia orrore di sé.

La giornata ridivenne simile a tutte le altre. Nel lorosuccedersi esse componevano per Graziano una vitagradevole. Era il primo della classe ma senza sforzo pe-noso, anzi, come per natura. I compagni non destavanoin lui un vero interesse, ma alcuni gli erano simpatici; ailoro giochi tumultuosi nel cortile si univa per un obbligoche sentiva di mostrarsi eguale agli altri ragazzi. Ognisera ripigliava la via di casa con piacere. Una quietemorbida era nell’aria familiare, un senso di comodità esicurezza. La madre stava a leggere per lunghe ore e Ga-briella era sempre con lei. La sorella: ormai Grazianonon riusciva a ricordare il giorno in cui l’aveva vedutala prima volta, tanto piccola con un collo sottile e vizzoma con una faccina bella la quale ripeteva i lineamentidel babbo in un modo curioso e perciò faceva ridere.

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gazzo. Succhiava come sempre una pasticca; un sorrisodi donnetta non abbandonava la sua faccia rotonda. –Quanti anni hai? – domandò. Arrossendo ora, Grazianorispose che ne aveva compiuti tredici. Il confessore dis-se che le tentazioni bisognava vincerle pensando a Gesúin croce, ma soprattutto evitarle; gli assegnò una peni-tenza un poco piú lunga del solito. Ritornato nei banchi,Graziano si chiuse di nuovo il viso tra le mani, come fa-cevano parecchi dei compagni, per recitar con fervore lepreghiere; a misura che le diceva, si sentiva come chi silava con molt’acqua fresca. Alla fine alzò gli occhi aguardare Padre Raineri, il quale si stropicciava energica-mente il volto con la destra, con un gesto che ripetevaspesso, un gesto di peccatore che abbia orrore di sé.

La giornata ridivenne simile a tutte le altre. Nel lorosuccedersi esse componevano per Graziano una vitagradevole. Era il primo della classe ma senza sforzo pe-noso, anzi, come per natura. I compagni non destavanoin lui un vero interesse, ma alcuni gli erano simpatici; ailoro giochi tumultuosi nel cortile si univa per un obbligoche sentiva di mostrarsi eguale agli altri ragazzi. Ognisera ripigliava la via di casa con piacere. Una quietemorbida era nell’aria familiare, un senso di comodità esicurezza. La madre stava a leggere per lunghe ore e Ga-briella era sempre con lei. La sorella: ormai Grazianonon riusciva a ricordare il giorno in cui l’aveva vedutala prima volta, tanto piccola con un collo sottile e vizzoma con una faccina bella la quale ripeteva i lineamentidel babbo in un modo curioso e perciò faceva ridere.

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Adesso era forte, robusta; però gentile di carattere ed af-fettuosa; con vestiti gonfi e leggeri, con nastri nei capel-li scuri, sempre stava all’ombra della mamma, parlandocon lei anche se non riceveva risposta. Era già una per-sona, e la sua espressione era di bontà, di lieta fiducia intutte le creature e cose.

In mezzo al cortile del palazzo si alzava un vecchioenorme olmo, meraviglia di tutti dentro quei muri. Ilcorpo dell’edifizio che guardava una magnifica piazzaantica, era interamente occupato dal proprietari, i mar-chesi di Staffarda: il marchese era anziano, alto e curvo,la moglie giovine, e talvolta la si vedeva uscirenell’atrio avviluppata in pellicce, splendente di diaman-ti, reggendosi un lungo strascico per salire nel landò, lesere in cui andava all’opera od ai balli, quando la genteminuta si radunava a veder l’entrata ed il giorno seguen-te la borghesia leggeva nei giornali della città com’eranvestite le dame. Sopra le scuderie e le rimesse vi era unavecchia terrazza, dall’appartamento dei Farra vi si pote-va andare; scendevano a passeggiarvi dei colombi, sem-pre gli stessi, uno dei quali camminava sopra un monco-ne di zampina. Da un angolo del cortile veniva su unatorre, con vetri rotti alle finestre e grondaie guaste, dellaquale pareva che nessuno si ricordasse.

Le mattine di bel tempo Claudia portava Gabriella neigiardini. Nel pomeriggio andava ogni tanto a trovaredelle cugine nobili – parenti per parte di sua madre, Ga-briella Andosio, uscita da una famiglia nobile della pro-vincia, i Romero di Cervasco – le quali abitavano coi

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Adesso era forte, robusta; però gentile di carattere ed af-fettuosa; con vestiti gonfi e leggeri, con nastri nei capel-li scuri, sempre stava all’ombra della mamma, parlandocon lei anche se non riceveva risposta. Era già una per-sona, e la sua espressione era di bontà, di lieta fiducia intutte le creature e cose.

In mezzo al cortile del palazzo si alzava un vecchioenorme olmo, meraviglia di tutti dentro quei muri. Ilcorpo dell’edifizio che guardava una magnifica piazzaantica, era interamente occupato dal proprietari, i mar-chesi di Staffarda: il marchese era anziano, alto e curvo,la moglie giovine, e talvolta la si vedeva uscirenell’atrio avviluppata in pellicce, splendente di diaman-ti, reggendosi un lungo strascico per salire nel landò, lesere in cui andava all’opera od ai balli, quando la genteminuta si radunava a veder l’entrata ed il giorno seguen-te la borghesia leggeva nei giornali della città com’eranvestite le dame. Sopra le scuderie e le rimesse vi era unavecchia terrazza, dall’appartamento dei Farra vi si pote-va andare; scendevano a passeggiarvi dei colombi, sem-pre gli stessi, uno dei quali camminava sopra un monco-ne di zampina. Da un angolo del cortile veniva su unatorre, con vetri rotti alle finestre e grondaie guaste, dellaquale pareva che nessuno si ricordasse.

Le mattine di bel tempo Claudia portava Gabriella neigiardini. Nel pomeriggio andava ogni tanto a trovaredelle cugine nobili – parenti per parte di sua madre, Ga-briella Andosio, uscita da una famiglia nobile della pro-vincia, i Romero di Cervasco – le quali abitavano coi

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loro mariti e figli in vie silenziose e grige dove sopra iportoni erano stemmi di pietra. Una, imbronciata e di-gnitosa, viveva in un ritiro di signore decadute. Claudiavestiva con semplicità, quasi sempre di nero, e cosí sot-tile pareva una giovinetta. A farle visita venivano anchedelle compagne di collegio, sposate, alcune vivaci, sma-niose, altre malinconiche e piene d’afflizioni che versa-van fuori piano piano.

Graziano amava la sua città. Vi stava come se al mon-do tutte fossero eguali a questa. Nell’andare e tornare dascuola cambiava strada, per vederla. Piazze e vie sem-bravano inventate da una mente sola; in molti luoghi sisentiva che il passato contava piú del presente, si sentivala storia sempre vicina, ed una storia grave, ordinata, digentiluomini. Qua e là, in mezzo ai severi edifizi, giardi-ni pubblici lindi come lavori di pazienza; sulle rive delfiume, nel parco, nei nuovi quartieri dei ricchi, anchenei prati e campi fuor di cinta, quella esattezza che eraquasi il segno d’una religione civica. Dalle montagnescendevano nell’inverno donne con le palpebre arrossateda malattie che apposta coltivavano, con molti mocciosiavuti in prestito, e giravano mendicando. Altri accattonistavano sui canti dei palazzi, sulle porte delle chiese,vecchi minatori accecati da esplosioni, vecchie che sem-pre ripetevano ad alta voce gli stessi lamenti, tutti vestitid’abiti rozzi coperti di toppe ma assettati come in uni-formi del mestiere, e ciascuno di essi stava sempre nelmedesimo luogo, vivendo contro quel muro. Con lapunta delle dita inguantate le signore lasciavan cadere

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loro mariti e figli in vie silenziose e grige dove sopra iportoni erano stemmi di pietra. Una, imbronciata e di-gnitosa, viveva in un ritiro di signore decadute. Claudiavestiva con semplicità, quasi sempre di nero, e cosí sot-tile pareva una giovinetta. A farle visita venivano anchedelle compagne di collegio, sposate, alcune vivaci, sma-niose, altre malinconiche e piene d’afflizioni che versa-van fuori piano piano.

Graziano amava la sua città. Vi stava come se al mon-do tutte fossero eguali a questa. Nell’andare e tornare dascuola cambiava strada, per vederla. Piazze e vie sem-bravano inventate da una mente sola; in molti luoghi sisentiva che il passato contava piú del presente, si sentivala storia sempre vicina, ed una storia grave, ordinata, digentiluomini. Qua e là, in mezzo ai severi edifizi, giardi-ni pubblici lindi come lavori di pazienza; sulle rive delfiume, nel parco, nei nuovi quartieri dei ricchi, anchenei prati e campi fuor di cinta, quella esattezza che eraquasi il segno d’una religione civica. Dalle montagnescendevano nell’inverno donne con le palpebre arrossateda malattie che apposta coltivavano, con molti mocciosiavuti in prestito, e giravano mendicando. Altri accattonistavano sui canti dei palazzi, sulle porte delle chiese,vecchi minatori accecati da esplosioni, vecchie che sem-pre ripetevano ad alta voce gli stessi lamenti, tutti vestitid’abiti rozzi coperti di toppe ma assettati come in uni-formi del mestiere, e ciascuno di essi stava sempre nelmedesimo luogo, vivendo contro quel muro. Con lapunta delle dita inguantate le signore lasciavan cadere

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nei cappellacci grandi monete di rame. Nel cuore dellacittà era un incrociarsi di vie strette tra case nude e scu-re; vi camminavano sotto rintocchi insistenti di campanemolti gobbi e storpi, beghine che parlavano tra loro, fan-ciulli senza sangue. Anche per istrada si udiva discorre-re della guerra d’Africa, dopo i combattimenti disgrazia-ti nei quali interi reparti di truppe erano stati massacratida orde di neri: avvenimenti d’un paese cosí lontano danon potersi nemmeno capire. Nella pianura nascevanoopifici, sobborghi per gli operai, ma rimanevano scono-sciuti ed i loro nomi prendevano un colore sinistro.

Sisto usciva la mattina molto presto per andarall’ospedale di Santa Chiara, dove teneva il suo corso li-bero sulle malattie dell’apparato respiratorio; poi salivaalla clinica della collina, vedeva molti malati, faceva co-lazione lassú, scendeva soltanto la sera, per qualche vi-sita al letto; rincasava tardi, e dopo cena quasi sempre simetteva al trattato che stava scrivendo su quelle malat-tie, continuava fino a notte inoltrata. In ogni momentomostrava d’intendere l’esistenza come un rigoroso im-pegno: ma in lui, con l’alto concetto dei suoi studi, sisentiva anche la compiacenza di poter ogni giorno vera-mente far del bene a qualcuno, a molti, alleviando pati-menti, ridando speranze, talora guarendo.

Senz’averne dato avviso per lettera arrivò il vecchioFarra. Era disceso all’albergo, non accettò nemmeno uninvito a pranzo: diceva di voler avere la sua «indipen-denza». Nei suoi rapporti con la famiglia appariva sem-pre una distanza; egli la ristabiliva ogni volta con un

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nei cappellacci grandi monete di rame. Nel cuore dellacittà era un incrociarsi di vie strette tra case nude e scu-re; vi camminavano sotto rintocchi insistenti di campanemolti gobbi e storpi, beghine che parlavano tra loro, fan-ciulli senza sangue. Anche per istrada si udiva discorre-re della guerra d’Africa, dopo i combattimenti disgrazia-ti nei quali interi reparti di truppe erano stati massacratida orde di neri: avvenimenti d’un paese cosí lontano danon potersi nemmeno capire. Nella pianura nascevanoopifici, sobborghi per gli operai, ma rimanevano scono-sciuti ed i loro nomi prendevano un colore sinistro.

Sisto usciva la mattina molto presto per andarall’ospedale di Santa Chiara, dove teneva il suo corso li-bero sulle malattie dell’apparato respiratorio; poi salivaalla clinica della collina, vedeva molti malati, faceva co-lazione lassú, scendeva soltanto la sera, per qualche vi-sita al letto; rincasava tardi, e dopo cena quasi sempre simetteva al trattato che stava scrivendo su quelle malat-tie, continuava fino a notte inoltrata. In ogni momentomostrava d’intendere l’esistenza come un rigoroso im-pegno: ma in lui, con l’alto concetto dei suoi studi, sisentiva anche la compiacenza di poter ogni giorno vera-mente far del bene a qualcuno, a molti, alleviando pati-menti, ridando speranze, talora guarendo.

Senz’averne dato avviso per lettera arrivò il vecchioFarra. Era disceso all’albergo, non accettò nemmeno uninvito a pranzo: diceva di voler avere la sua «indipen-denza». Nei suoi rapporti con la famiglia appariva sem-pre una distanza; egli la ristabiliva ogni volta con un

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Page 63: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

tono asciutto che non escludeva la stima né l’affetto. Ilsuo carattere lo portava a far da sé, non accettare vinco-li, non cercar mai consigli, avido di sentirsi sempre ilpadrone di se stesso. Un uomo buono e generoso masenza amici. Dopo la morte della moglie, della bellaamatissima Severa dai capelli d’oro rosso, falciata inpochi giorni, non aveva piú mostrato un bisogno d’affe-zione: ma quel carattere, a resistere in solitudine alle av-versità, si era fatto aspro. Venne in casa una sera e sichiuse con Sisto nello studio. Cominciò a dire che glioccorreva denaro per sostenere la stamperia ed il Pen-siero liberale nella guerra che gli facevano i partiti: aRebbia vi erano adesso una tipografia dei cattolici eduna dei socialisti, entrambe mandavan fuori un settima-nale. Questo discorso significava che delle somme rica-vate un tempo dalla vendita delle terre paterne non glirestava nulla. Suo padre era un possidente ricco che, al-largando sempre la possessione, era vissuto e morto dacontadino.

— Della modesta dote di Claudia – disse Sisto – pocorimane, ma ella te lo presterà di buon grado.

Non questo voleva il vecchio. Né voleva accettare ilprestito che gli era offerto da gente di Rebbia, non ri-chiesto. Camminava per la stanza a lunghi passi vibrati;si piantò davanti alla poltrona dov’era seduto il figlio,ergendo il busto e quel capo fiero, coi pugni sprofondatinelle tasche della lunga giacca nera: – Laggiú voglionofarmi il prestito per metter le mani sulla stamperia e im-padronirsi del giornale. Comprarmi! – Fingeva di ridere

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tono asciutto che non escludeva la stima né l’affetto. Ilsuo carattere lo portava a far da sé, non accettare vinco-li, non cercar mai consigli, avido di sentirsi sempre ilpadrone di se stesso. Un uomo buono e generoso masenza amici. Dopo la morte della moglie, della bellaamatissima Severa dai capelli d’oro rosso, falciata inpochi giorni, non aveva piú mostrato un bisogno d’affe-zione: ma quel carattere, a resistere in solitudine alle av-versità, si era fatto aspro. Venne in casa una sera e sichiuse con Sisto nello studio. Cominciò a dire che glioccorreva denaro per sostenere la stamperia ed il Pen-siero liberale nella guerra che gli facevano i partiti: aRebbia vi erano adesso una tipografia dei cattolici eduna dei socialisti, entrambe mandavan fuori un settima-nale. Questo discorso significava che delle somme rica-vate un tempo dalla vendita delle terre paterne non glirestava nulla. Suo padre era un possidente ricco che, al-largando sempre la possessione, era vissuto e morto dacontadino.

— Della modesta dote di Claudia – disse Sisto – pocorimane, ma ella te lo presterà di buon grado.

Non questo voleva il vecchio. Né voleva accettare ilprestito che gli era offerto da gente di Rebbia, non ri-chiesto. Camminava per la stanza a lunghi passi vibrati;si piantò davanti alla poltrona dov’era seduto il figlio,ergendo il busto e quel capo fiero, coi pugni sprofondatinelle tasche della lunga giacca nera: – Laggiú voglionofarmi il prestito per metter le mani sulla stamperia e im-padronirsi del giornale. Comprarmi! – Fingeva di ridere

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facendo sobbalzare le larghe spalle, ma pareva che sin-ghiozzasse. Si curvò a fissare il figlio negli occhi, da vi-cino; disse piano: – Sisto, ti chiedo aiuto. Non posso la-sciarmi togliere tutto! E vendermi non voglio!

Non si udivano rumori, lo studio era pieno d’ombre;il figlio non riconobbe quella faccia, tanto era alterata,con gli occhi pieni di terrore; ebbe la sensazione che ilvecchio non si sarebbe salvato. Doveva aiutarlo a trova-re qui, subito, una somma abbastanza forte dando ipote-ca sulla casa di Rebbia; vi si provò come seppe meglio;al termine d’una settimana Ascanio fu costretto ad an-darsene e non si era ottenuto niente e non rimaneva al-cuna prova da tentare. Ripartí senza dire piú parola aquel proposito, né dire ciò che pensasse di fare. In appa-renza era come prima, ferro. Durante la sua permanenzaMetello aveva chiesto di vederlo, ma il padre s’era rifiu-tato d’incontrarlo.

Per motivi di denaro Sisto aveva fastidi suoi proprii.Aveva messa la firma, per avallo, su certe cambiali delcognato. La sorella di Claudia, Ortensia, ai suoi tempiaveva fatto un matrimonio matto sposando per amore ilmaestro di Luvo; e questi s’era dato ad affari di com-mercio, sempre con esito pessimo, cambiando ogni tan-to città; ora vivevano lontano, in una città di mare, ed ilmarito tentava nuovi traffici, anche adesso in difficoltà egrovigli. Non pagate dal cognato, quelle cambiali eranonella vita di Sisto e Claudia un incubo sciocco: perestinguerle a poco a poco senza intaccare il resto delladote, Sisto doveva servirsi d’un prestatore, usuraio di

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facendo sobbalzare le larghe spalle, ma pareva che sin-ghiozzasse. Si curvò a fissare il figlio negli occhi, da vi-cino; disse piano: – Sisto, ti chiedo aiuto. Non posso la-sciarmi togliere tutto! E vendermi non voglio!

Non si udivano rumori, lo studio era pieno d’ombre;il figlio non riconobbe quella faccia, tanto era alterata,con gli occhi pieni di terrore; ebbe la sensazione che ilvecchio non si sarebbe salvato. Doveva aiutarlo a trova-re qui, subito, una somma abbastanza forte dando ipote-ca sulla casa di Rebbia; vi si provò come seppe meglio;al termine d’una settimana Ascanio fu costretto ad an-darsene e non si era ottenuto niente e non rimaneva al-cuna prova da tentare. Ripartí senza dire piú parola aquel proposito, né dire ciò che pensasse di fare. In appa-renza era come prima, ferro. Durante la sua permanenzaMetello aveva chiesto di vederlo, ma il padre s’era rifiu-tato d’incontrarlo.

Per motivi di denaro Sisto aveva fastidi suoi proprii.Aveva messa la firma, per avallo, su certe cambiali delcognato. La sorella di Claudia, Ortensia, ai suoi tempiaveva fatto un matrimonio matto sposando per amore ilmaestro di Luvo; e questi s’era dato ad affari di com-mercio, sempre con esito pessimo, cambiando ogni tan-to città; ora vivevano lontano, in una città di mare, ed ilmarito tentava nuovi traffici, anche adesso in difficoltà egrovigli. Non pagate dal cognato, quelle cambiali eranonella vita di Sisto e Claudia un incubo sciocco: perestinguerle a poco a poco senza intaccare il resto delladote, Sisto doveva servirsi d’un prestatore, usuraio di

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professione; cosí altre cambiali nascevano, giravano, ri-comparivano alle loro date, morendo con tormentosalentezza. Quando alla porta si presentava un signoregrassoccio, con bianchi capelli, d’aspetto bonario, cheteneva nel portafogli le odiose strisce di carta, e la ca-meriera diceva il suo nome, un disagio prendeva i Farracome se fossero costretti ad accogliere un ignobile com-plice.

Graziano sentiva spesso la potenza misteriosa del de-naro, di questa cosa di cui tutti parlavano, cercata da tut-ti e sempre nascosta. Sentiva la ricchezza di alcuni com-pagni di collegio attesi all’uscita da scintillanti equipag-gi. Era ancora nell’aria il polverio di catastrofe che s’eraalzato in città per il crollo di una banca, accompagnatodai colpi di revolver dei suicidi. Egli vedeva dalle soffit-te del palazzo scendere abitatori vergognosi, puliti neivecchi abitucci, con facce smorte. Udiva accenni del pa-dre alla miseria che alle corsie di Santa Chiara mandavai fantocci senza carne che erano i tisici. Da quanto cono-sceva dell’esistenza paterna capiva la battaglia che devesostenere un uomo; con impressione invariata di stuporesentiva soprattutto l’odio da cui un vivente è avvolto,anche se vuole soltanto il bene di tutti; suo padre gli pa-reva accerchiato dagli avversari come da una tribú dicacciatori di teste. Ma in casa sentiva l’aria diversa daquella d’ogni altro luogo. Il babbo non aveva mai piúparlato del concorso, poco parlava dell’avvenire; pure,guardava sempre avanti, lontano; la madre respirava lavita di Sisto e dei figli, quell’avvenire di tutti loro, e con

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professione; cosí altre cambiali nascevano, giravano, ri-comparivano alle loro date, morendo con tormentosalentezza. Quando alla porta si presentava un signoregrassoccio, con bianchi capelli, d’aspetto bonario, cheteneva nel portafogli le odiose strisce di carta, e la ca-meriera diceva il suo nome, un disagio prendeva i Farracome se fossero costretti ad accogliere un ignobile com-plice.

Graziano sentiva spesso la potenza misteriosa del de-naro, di questa cosa di cui tutti parlavano, cercata da tut-ti e sempre nascosta. Sentiva la ricchezza di alcuni com-pagni di collegio attesi all’uscita da scintillanti equipag-gi. Era ancora nell’aria il polverio di catastrofe che s’eraalzato in città per il crollo di una banca, accompagnatodai colpi di revolver dei suicidi. Egli vedeva dalle soffit-te del palazzo scendere abitatori vergognosi, puliti neivecchi abitucci, con facce smorte. Udiva accenni del pa-dre alla miseria che alle corsie di Santa Chiara mandavai fantocci senza carne che erano i tisici. Da quanto cono-sceva dell’esistenza paterna capiva la battaglia che devesostenere un uomo; con impressione invariata di stuporesentiva soprattutto l’odio da cui un vivente è avvolto,anche se vuole soltanto il bene di tutti; suo padre gli pa-reva accerchiato dagli avversari come da una tribú dicacciatori di teste. Ma in casa sentiva l’aria diversa daquella d’ogni altro luogo. Il babbo non aveva mai piúparlato del concorso, poco parlava dell’avvenire; pure,guardava sempre avanti, lontano; la madre respirava lavita di Sisto e dei figli, quell’avvenire di tutti loro, e con

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un libro aperto sui ginocchi contemplava i sogni. –Mamma, dove sei? – le domandava Gabriella girandoleattorno con le piccole mani volanti come uccellini. Inrealtà essi erano un’anima sola, ed in rari momenti, pernecessità, scendevano nella zona bassa ove giravano lecambiali e le sètte intrigavano e il denaro dava lo splen-dore o la morte. Dal padre e dalla madre veniva un calo-re di fede: Graziano non avrebbe saputo dire di qualefede.

All’ora in cui Sisto rincasava, ogni tanto comparivainaspettato Metello, col suo logoro fazzoletto al collo econ fasci di carte e giornali uscenti dalle tasche. In casavi erano alcuni suoi quadri; egli li osservava un istante:– Ci vuol altro che tela dipinta! – Gli facevano festa. Si-sto, avendo alcuni anni piú di lui, lo considerava concerta benevolenza paterna. Metello sedeva nelle poltro-ne piú comode fingendo per ischerzo di gustare il benes-sere «borghese»; non veniva piú spesso – diceva, sem-pre celiando – per non compromettere i parenti. Claudiavoleva sapere quel che facesse per il partito, quel che fa-cevano e pensavano gli operai; anche Sisto ascoltavacon interesse quando egli diceva che il partito progredi-va rapidamente e l’azione sociale guadagnava terreno inogni parte d’Europa.

— L’avvenire è del socialismo, – proclamava Metelloscompigliandosi i capelli come usava nei momenti difervore. – Il mondo sarà socialista

Oltre la simpatia, Sisto e Claudia sentivano anche unacompiacenza orgogliosa d’aver con loro quest’uomo ar-

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un libro aperto sui ginocchi contemplava i sogni. –Mamma, dove sei? – le domandava Gabriella girandoleattorno con le piccole mani volanti come uccellini. Inrealtà essi erano un’anima sola, ed in rari momenti, pernecessità, scendevano nella zona bassa ove giravano lecambiali e le sètte intrigavano e il denaro dava lo splen-dore o la morte. Dal padre e dalla madre veniva un calo-re di fede: Graziano non avrebbe saputo dire di qualefede.

All’ora in cui Sisto rincasava, ogni tanto comparivainaspettato Metello, col suo logoro fazzoletto al collo econ fasci di carte e giornali uscenti dalle tasche. In casavi erano alcuni suoi quadri; egli li osservava un istante:– Ci vuol altro che tela dipinta! – Gli facevano festa. Si-sto, avendo alcuni anni piú di lui, lo considerava concerta benevolenza paterna. Metello sedeva nelle poltro-ne piú comode fingendo per ischerzo di gustare il benes-sere «borghese»; non veniva piú spesso – diceva, sem-pre celiando – per non compromettere i parenti. Claudiavoleva sapere quel che facesse per il partito, quel che fa-cevano e pensavano gli operai; anche Sisto ascoltavacon interesse quando egli diceva che il partito progredi-va rapidamente e l’azione sociale guadagnava terreno inogni parte d’Europa.

— L’avvenire è del socialismo, – proclamava Metelloscompigliandosi i capelli come usava nei momenti difervore. – Il mondo sarà socialista

Oltre la simpatia, Sisto e Claudia sentivano anche unacompiacenza orgogliosa d’aver con loro quest’uomo ar-

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dito ch’era uscito dal cerchio dei pregiudizi e che, lavo-rando per un mondo nuovo, facendo il ribelle, amavaogni disagio e rischio della sua condizione. A Graziano,nell’ascoltare, venivano in mente i mesi di carcere scon-tati dallo zio: lo ammirava e pensava che fosse moltocontento di sé. Ma ad un tratto Metello ammutoliva, conun viso pensieroso si metteva a sfogliar le carte che ave-va in tasca, oppure meditava col mento sul petto, dimen-ticando completamente dove si trovasse e chi avesse in-torno; poi salutava e se ne andava, come dibattendo trasé un grave ed urgente problema del quale si fosse ricor-dato all’improvviso. Per qualche tempo non lo vedevanopiú.

Un mattino, mentre Claudia ed i figli erano a tavola,udirono una musica insieme ad un calpestio e rumoriodi molta gente. Dal balcone del cortile un breve trattodella piazza si scorgeva, attraverso il portone del palaz-zo. Passò della truppa accanto alla quale camminava lafolla, e pareva che questa facesse alti lamenti, pianges-se, volesse dire: «No, non andate!» Erano altri soldatiche partivano per l’Africa. Nel pomeriggio entrò in sa-lotto una figura muliebre tutta nera, avvolta nel velo dalutto che alzò con una lunga mano magra: ClemenzaBreme. Baciò Claudia. Non piangeva ma non potevaparlare. – Paoletto! – disse infine. Non nell’ultima batta-glia era morto; qualche mese prima, in uno dei terribiliagguati dei neri. Non avevano piú ricevute sue lettere, esoltanto adesso era giunta la notizia che era stato ucciso.Graziano, chiamato dalla madre, non comprese subito

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dito ch’era uscito dal cerchio dei pregiudizi e che, lavo-rando per un mondo nuovo, facendo il ribelle, amavaogni disagio e rischio della sua condizione. A Graziano,nell’ascoltare, venivano in mente i mesi di carcere scon-tati dallo zio: lo ammirava e pensava che fosse moltocontento di sé. Ma ad un tratto Metello ammutoliva, conun viso pensieroso si metteva a sfogliar le carte che ave-va in tasca, oppure meditava col mento sul petto, dimen-ticando completamente dove si trovasse e chi avesse in-torno; poi salutava e se ne andava, come dibattendo trasé un grave ed urgente problema del quale si fosse ricor-dato all’improvviso. Per qualche tempo non lo vedevanopiú.

Un mattino, mentre Claudia ed i figli erano a tavola,udirono una musica insieme ad un calpestio e rumoriodi molta gente. Dal balcone del cortile un breve trattodella piazza si scorgeva, attraverso il portone del palaz-zo. Passò della truppa accanto alla quale camminava lafolla, e pareva che questa facesse alti lamenti, pianges-se, volesse dire: «No, non andate!» Erano altri soldatiche partivano per l’Africa. Nel pomeriggio entrò in sa-lotto una figura muliebre tutta nera, avvolta nel velo dalutto che alzò con una lunga mano magra: ClemenzaBreme. Baciò Claudia. Non piangeva ma non potevaparlare. – Paoletto! – disse infine. Non nell’ultima batta-glia era morto; qualche mese prima, in uno dei terribiliagguati dei neri. Non avevano piú ricevute sue lettere, esoltanto adesso era giunta la notizia che era stato ucciso.Graziano, chiamato dalla madre, non comprese subito

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chi vi fosse dentro quel nero funebre; ora Clemenzapiangeva, col capo chinato e col fazzoletto agli occhi.Paoletto morto! Il ragazzo lo aveva nella memoria pienodi vita e parlante: era venuto a trovarli prima di partire,promosso sergente maggiore.

— Il pazzo felice... – disse la signorina soffiandosi ilnaso. Graziano ricordò le mattine della Stellata quandoPaoletto faceva il bagno nella peschiera ed egli l’avevavisto correr nudo al sole cantando. Pensava che cosafosse accaduto di quel gran corpo in mezzo ai nemicibarbari.

Mentre Clemenza raccontava a Claudia il poco chesapevano della sua fine e come aveva ricevuta la notiziail professor Gregorio ed altre cose simili, Graziano laguardava. Dietro il canapé era già accesa una lampadache aveva un altissimo piede ed un paralume con nastrid’oro. Ella veniva in visita ogni tanto e da un pezzo nongli piaceva piú, con la persona cosí magra e le vesti di-messe. Ora il ragazzo aveva l’impressione che sempreavesse dovuto portare tutto quel nero e piangere; né glipareva vero d’averla mai baciata. Venne Stefania a ser-vire il tè, la conversazione prese altra via, si parlò diLuvo. Barbara, non essendosi mai decisa a lasciar ilpaese, vi aveva sposato un misuratore di terreni, unbuon giovine sodo e forte quanto lei; abitava in una casadel marito, ma continuava a combattere con lo zio Co-stante, perché questi non voleva vendere la parte suadella Stellata e non si poteva vender l’altra senza spre-carla. Claudia domandò di palazzo Andosio. La novità

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chi vi fosse dentro quel nero funebre; ora Clemenzapiangeva, col capo chinato e col fazzoletto agli occhi.Paoletto morto! Il ragazzo lo aveva nella memoria pienodi vita e parlante: era venuto a trovarli prima di partire,promosso sergente maggiore.

— Il pazzo felice... – disse la signorina soffiandosi ilnaso. Graziano ricordò le mattine della Stellata quandoPaoletto faceva il bagno nella peschiera ed egli l’avevavisto correr nudo al sole cantando. Pensava che cosafosse accaduto di quel gran corpo in mezzo ai nemicibarbari.

Mentre Clemenza raccontava a Claudia il poco chesapevano della sua fine e come aveva ricevuta la notiziail professor Gregorio ed altre cose simili, Graziano laguardava. Dietro il canapé era già accesa una lampadache aveva un altissimo piede ed un paralume con nastrid’oro. Ella veniva in visita ogni tanto e da un pezzo nongli piaceva piú, con la persona cosí magra e le vesti di-messe. Ora il ragazzo aveva l’impressione che sempreavesse dovuto portare tutto quel nero e piangere; né glipareva vero d’averla mai baciata. Venne Stefania a ser-vire il tè, la conversazione prese altra via, si parlò diLuvo. Barbara, non essendosi mai decisa a lasciar ilpaese, vi aveva sposato un misuratore di terreni, unbuon giovine sodo e forte quanto lei; abitava in una casadel marito, ma continuava a combattere con lo zio Co-stante, perché questi non voleva vendere la parte suadella Stellata e non si poteva vender l’altra senza spre-carla. Claudia domandò di palazzo Andosio. La novità

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era che i Lanciarossa avevano tolta di collegio ed ora te-nevano presso di loro la figlia, Jenny. Aveva sedici o di-ciassette anni, era piuttosto sviluppata e grassa; guidavagià la pariglia stando impettita come il padre, e dall’altodella carrozza scoperta tutta rilucente non rispondeva alsaluto dei paesani.

Claudia seguiva un altro pensiero. – Quella casa nonpotrò mai riaverla? – disse. Ma sorrise, come se avessemostrato di desiderare un regno sulle nuvole.

* * *

In principio la primavera aveva portata molta pioggia,quel tempo nel quale le cose sembravano perdere il co-lore ed ammalarsi; ma poi vennero giornate perfette.Nel cortile piccole e tenere foglie vestivano d’un costu-me giovanile il vecchio albero; dal basso saliva l’odoretepido e piacevole delle scuderie pulite; i palafrenieri at-taccavano agli anelli i cavalli magnifici per lustrarlicome oggetti, e gli animali, venendo all’aperto, nitriva-no a lungo. I marchesi di Staffarda partivano per le cor-se o per le feste nei giardini, sopra alte carrozze da esta-te cariche di signore che parevano farfalle. Nei pomerig-gi di vacanza Graziano, invece d’andare con alcunicompagni a teatro od al circo equestre che molto gli pia-ceva, faceva con loro passeggiate in campagna, anche inbicicletta. Per amici aveva scelti ragazzoni di buon ca-rattere, non molto intelligenti. Uno era figlio d’un riccoaffittavolo e li invitava a giocare alla palla in una fatto-

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era che i Lanciarossa avevano tolta di collegio ed ora te-nevano presso di loro la figlia, Jenny. Aveva sedici o di-ciassette anni, era piuttosto sviluppata e grassa; guidavagià la pariglia stando impettita come il padre, e dall’altodella carrozza scoperta tutta rilucente non rispondeva alsaluto dei paesani.

Claudia seguiva un altro pensiero. – Quella casa nonpotrò mai riaverla? – disse. Ma sorrise, come se avessemostrato di desiderare un regno sulle nuvole.

* * *

In principio la primavera aveva portata molta pioggia,quel tempo nel quale le cose sembravano perdere il co-lore ed ammalarsi; ma poi vennero giornate perfette.Nel cortile piccole e tenere foglie vestivano d’un costu-me giovanile il vecchio albero; dal basso saliva l’odoretepido e piacevole delle scuderie pulite; i palafrenieri at-taccavano agli anelli i cavalli magnifici per lustrarlicome oggetti, e gli animali, venendo all’aperto, nitriva-no a lungo. I marchesi di Staffarda partivano per le cor-se o per le feste nei giardini, sopra alte carrozze da esta-te cariche di signore che parevano farfalle. Nei pomerig-gi di vacanza Graziano, invece d’andare con alcunicompagni a teatro od al circo equestre che molto gli pia-ceva, faceva con loro passeggiate in campagna, anche inbicicletta. Per amici aveva scelti ragazzoni di buon ca-rattere, non molto intelligenti. Uno era figlio d’un riccoaffittavolo e li invitava a giocare alla palla in una fatto-

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ria della pianura. Ogni domenica la città si svegliava dibuon umore, le case si vuotavano; i signori nelle carroz-ze scoperte passavano tra le correnti della gente a piedi,e tutto procedeva secondo le regole in bell’ordine; magli operai si spargevano nelle osterie suburbane, la serapoi agli ospedali ne veniva portato qualcuno che avevaricevuto un colpo di coltello.

Stefania, quando in casa incontrava Graziano solo, glirivolgeva piú sfrontata quel sorriso che diceva beffardo:«Tu hai paura». Il ragazzo la evitava sempre. Con fasti-dio riceveva da lei quella sensazione d’una donna tuttacarne, tutta istinto, nella sua stagione piú calda, e datacon franchezza all’istinto, alle voglie, ma esperta dei ri-schi e delle astuzie per evitarli. Sapeva che ella avevaun compagno delle feste, che chiamava il suo fidanzato.Piú che altro, la odiava. Ma era inquieto, scontento ditutto. Non aveva alcuna idea riguardo a ciò che avrebbefatto nella vita; né mai se lo domandava. Lo studio, ora,lo interessava meno. Con passione faceva soltanto ilcomponimento italiano, nel quale s’era sempre distinto;oltre la soddisfazione di superar gli altri, vi trovava unvivo piacere d’inventare fatti, esprimere pensieri, e qua-si giocare con le parole. Non amava piú il collegio, ordi-ne grigio e lucido, pieno di cose che non sarebbero maicambiate; talvolta gli piacevano ancora le funzioni dellefeste grandi nella cappella coperta di addobbi, quandosopra la distesa degli alunni e dei parenti scendevanodalla tribuna le voci dei cantori e passava l’odordell’incenso come profumo celeste; dentro uno dei pi-

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ria della pianura. Ogni domenica la città si svegliava dibuon umore, le case si vuotavano; i signori nelle carroz-ze scoperte passavano tra le correnti della gente a piedi,e tutto procedeva secondo le regole in bell’ordine; magli operai si spargevano nelle osterie suburbane, la serapoi agli ospedali ne veniva portato qualcuno che avevaricevuto un colpo di coltello.

Stefania, quando in casa incontrava Graziano solo, glirivolgeva piú sfrontata quel sorriso che diceva beffardo:«Tu hai paura». Il ragazzo la evitava sempre. Con fasti-dio riceveva da lei quella sensazione d’una donna tuttacarne, tutta istinto, nella sua stagione piú calda, e datacon franchezza all’istinto, alle voglie, ma esperta dei ri-schi e delle astuzie per evitarli. Sapeva che ella avevaun compagno delle feste, che chiamava il suo fidanzato.Piú che altro, la odiava. Ma era inquieto, scontento ditutto. Non aveva alcuna idea riguardo a ciò che avrebbefatto nella vita; né mai se lo domandava. Lo studio, ora,lo interessava meno. Con passione faceva soltanto ilcomponimento italiano, nel quale s’era sempre distinto;oltre la soddisfazione di superar gli altri, vi trovava unvivo piacere d’inventare fatti, esprimere pensieri, e qua-si giocare con le parole. Non amava piú il collegio, ordi-ne grigio e lucido, pieno di cose che non sarebbero maicambiate; talvolta gli piacevano ancora le funzioni dellefeste grandi nella cappella coperta di addobbi, quandosopra la distesa degli alunni e dei parenti scendevanodalla tribuna le voci dei cantori e passava l’odordell’incenso come profumo celeste; dentro uno dei pi-

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viali d’oro degli officianti vedeva però Don Archettocon la sua aria goffa, e l’emozione si guastava. Di sénon era contento. La sua condizione di ragazzo gli appa-riva quasi ridicola; talvolta, in mezzo a molta gente, sene vergognava. Sebbene fosse alto di statura, avesse belviso, begli occhi, non amava il proprio aspetto. Leggevamolto: vivere nei mondi fantastici gli piaceva, ma si ac-corgeva di non intendere tutto ciò che nei libri vi era, ilsenso misterioso della poesia. Aveva sovente un pensie-ro, strano, di esser diverso dagli altri e non adatto allavita.

Un giorno Claudia si affacciò alla porta del figlio, gliaccennò di seguirla, con l’espressione che questi le ve-deva da qualche tempo, come se riguardo a lui la mam-ma avesse un proposito segreto. Nella camera di Clau-dia non vi era la bambina. Ella aprí il cassettone, e disotto la sua biancheria bene ordinata tolse una lettera; siportò nel vano d’una finestra, che aveva i vetri copertidi tendine rosa; gli tese quella lettera. Era scritta soprauno stampato di una «Regia Casa di pena», con l’indica-zione Corrispondenza del recluso Andosio Aleramo econ un numero d’ordine.

— Sai già? – domandò Claudia a bassa voce. Nellamente di Graziano si mossero idee confuse, sospetti an-tichi, ricordi di parole udite, in una luce livida.

— È mio fratello che scrive, – riprese decisamente lamadre, toccando la lettera che il ragazzo scorreva conesitazione. – È fuori del mondo da piú di vent’anni, po-vero Aleramo. Ora che sei grande devi sapere. Egli cre-

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viali d’oro degli officianti vedeva però Don Archettocon la sua aria goffa, e l’emozione si guastava. Di sénon era contento. La sua condizione di ragazzo gli appa-riva quasi ridicola; talvolta, in mezzo a molta gente, sene vergognava. Sebbene fosse alto di statura, avesse belviso, begli occhi, non amava il proprio aspetto. Leggevamolto: vivere nei mondi fantastici gli piaceva, ma si ac-corgeva di non intendere tutto ciò che nei libri vi era, ilsenso misterioso della poesia. Aveva sovente un pensie-ro, strano, di esser diverso dagli altri e non adatto allavita.

Un giorno Claudia si affacciò alla porta del figlio, gliaccennò di seguirla, con l’espressione che questi le ve-deva da qualche tempo, come se riguardo a lui la mam-ma avesse un proposito segreto. Nella camera di Clau-dia non vi era la bambina. Ella aprí il cassettone, e disotto la sua biancheria bene ordinata tolse una lettera; siportò nel vano d’una finestra, che aveva i vetri copertidi tendine rosa; gli tese quella lettera. Era scritta soprauno stampato di una «Regia Casa di pena», con l’indica-zione Corrispondenza del recluso Andosio Aleramo econ un numero d’ordine.

— Sai già? – domandò Claudia a bassa voce. Nellamente di Graziano si mossero idee confuse, sospetti an-tichi, ricordi di parole udite, in una luce livida.

— È mio fratello che scrive, – riprese decisamente lamadre, toccando la lettera che il ragazzo scorreva conesitazione. – È fuori del mondo da piú di vent’anni, po-vero Aleramo. Ora che sei grande devi sapere. Egli cre-

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de che noi ti abbiamo già detto, e vuole che tu gli scriva.Era un bellissimo giovine, montava bene a cavallo, so-nava il violoncello. Il piú anziano di noi. Io ero unabambina quando è morto nostro padre; Aleramo uscivaallora dall’età minore, rimase padrone di sé. Una fatalitàlo portava: non si può pensare diversamente. Sua mo-glie... Un viso non bello e strano, occhi scuri, capellichiarissimi, un corpo stupendo. Era di famiglia moltoricca. Era cattiva. Pazza anche lei, forse. La poveretta hapagato con la vita. Egli l’ha seguita che andava inun’altra città a trovare un amante; sapeva con certezza;le ha sparato mentre scendeva dal treno.

Claudia parlava con calma come chi racconta un fattogià ripensato infinite volte; ma ad un tratto volse il visoverso il muro; Graziano vide una lacrima staccarsi e ba-gnarle il vestito sul petto; allora le passò un braccio in-torno alle spalle, la baciò senza poter parlare.

— Pensa sempre a noi. Sa tutto di te e di Gabriella,quel che fate, vi vede crescere. Vent’anni di quella esi-stenza. Lavora da sarto, là dentro. Vorrebbe avere la gra-zia. È stata una sentenza severa: a vita. I parenti di lei sisono comportati ferocemente.

Graziano non sentiva stupore di ciò che aveva appre-so; credeva, anzi, di averlo saputo sempre; pure, piú chetristezza provava orrore, come se quei fatti fossero re-centi: vedeva un lungo corpo di donna disteso nel san-gue caldo. Sentiva anche la vicinanza d’uno sconosciutochiuso in un penitenziario, che sapeva di lui e che glivoleva bene. Da tutte quelle cose accadute un giorno od

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de che noi ti abbiamo già detto, e vuole che tu gli scriva.Era un bellissimo giovine, montava bene a cavallo, so-nava il violoncello. Il piú anziano di noi. Io ero unabambina quando è morto nostro padre; Aleramo uscivaallora dall’età minore, rimase padrone di sé. Una fatalitàlo portava: non si può pensare diversamente. Sua mo-glie... Un viso non bello e strano, occhi scuri, capellichiarissimi, un corpo stupendo. Era di famiglia moltoricca. Era cattiva. Pazza anche lei, forse. La poveretta hapagato con la vita. Egli l’ha seguita che andava inun’altra città a trovare un amante; sapeva con certezza;le ha sparato mentre scendeva dal treno.

Claudia parlava con calma come chi racconta un fattogià ripensato infinite volte; ma ad un tratto volse il visoverso il muro; Graziano vide una lacrima staccarsi e ba-gnarle il vestito sul petto; allora le passò un braccio in-torno alle spalle, la baciò senza poter parlare.

— Pensa sempre a noi. Sa tutto di te e di Gabriella,quel che fate, vi vede crescere. Vent’anni di quella esi-stenza. Lavora da sarto, là dentro. Vorrebbe avere la gra-zia. È stata una sentenza severa: a vita. I parenti di lei sisono comportati ferocemente.

Graziano non sentiva stupore di ciò che aveva appre-so; credeva, anzi, di averlo saputo sempre; pure, piú chetristezza provava orrore, come se quei fatti fossero re-centi: vedeva un lungo corpo di donna disteso nel san-gue caldo. Sentiva anche la vicinanza d’uno sconosciutochiuso in un penitenziario, che sapeva di lui e che glivoleva bene. Da tutte quelle cose accadute un giorno od

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ancora esistenti oggi, veniva sulla famiglia, sulla suapropria vita un riflesso d’infamia; e non si poteva fareche ciò non fosse vero, nessuno poteva. La madre andòad uno stipo, del quale aveva presa la chiave tra la bian-cheria, e ne tolse due vecchie fotografie. Una, di piccoloformato, mostrava la nonna Gabriella, giovine, con ve-ste a campana e minuscolo parasole aperto appoggiatoalla spalla, che teneva per mano un ragazzetto impauritodel fotografo; nell’altra piú grande, si vedeva un giovinealto che portava cilindro, giacca di velluto, calzoni chia-ri con le staffe, e si appoggiava ad una colonnina tenen-do in mano uno scudiscio e guardando con bellissimiocchi. «Non sapeva ancora – pensava Graziano – cheavrebbe ucciso».

Claudia pronunziò il nome «Aleramo» come per ri-sentire tutto ciò che per lei significava. Poi riprese: –Chissà com’è, adesso. Aveva un carattere bizzarro. Mat-to per il gioco, generoso, mani bucate. Rimasto senzaguida troppo presto. In sei anni ebbe il patrimonio, lasposa, viaggiò l’Europa, fu ferito in duello, provò ognicosa, bruciò tutto!

Come una storia dipinta sopra un muro, Graziano ve-deva il passato degli Andosio: la nonna morta di parto,ancora giovine, dissanguata; il nonno portato via prestoda una malattia di cuore o dai dispiaceri, lasciando i fi-gli in mani estranee; quella vita di Aleramo; il matrimo-nio strambo di Ortensia e la sua decadenza irrimediabi-le. Non erano governati quegli avvenimenti da una po-

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ancora esistenti oggi, veniva sulla famiglia, sulla suapropria vita un riflesso d’infamia; e non si poteva fareche ciò non fosse vero, nessuno poteva. La madre andòad uno stipo, del quale aveva presa la chiave tra la bian-cheria, e ne tolse due vecchie fotografie. Una, di piccoloformato, mostrava la nonna Gabriella, giovine, con ve-ste a campana e minuscolo parasole aperto appoggiatoalla spalla, che teneva per mano un ragazzetto impauritodel fotografo; nell’altra piú grande, si vedeva un giovinealto che portava cilindro, giacca di velluto, calzoni chia-ri con le staffe, e si appoggiava ad una colonnina tenen-do in mano uno scudiscio e guardando con bellissimiocchi. «Non sapeva ancora – pensava Graziano – cheavrebbe ucciso».

Claudia pronunziò il nome «Aleramo» come per ri-sentire tutto ciò che per lei significava. Poi riprese: –Chissà com’è, adesso. Aveva un carattere bizzarro. Mat-to per il gioco, generoso, mani bucate. Rimasto senzaguida troppo presto. In sei anni ebbe il patrimonio, lasposa, viaggiò l’Europa, fu ferito in duello, provò ognicosa, bruciò tutto!

Come una storia dipinta sopra un muro, Graziano ve-deva il passato degli Andosio: la nonna morta di parto,ancora giovine, dissanguata; il nonno portato via prestoda una malattia di cuore o dai dispiaceri, lasciando i fi-gli in mani estranee; quella vita di Aleramo; il matrimo-nio strambo di Ortensia e la sua decadenza irrimediabi-le. Non erano governati quegli avvenimenti da una po-

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tenza misteriosa ed avversa, da una sorte nera della fa-miglia?

— Sai che vuol dire non aver conosciuta la mamma?– disse Claudia che dallo stipo aveva prese altre fotogra-fie ed ora le contemplava nella finestra. – Rimane persempre una sete dell’anima, che non si potrà mai appa-gare. – I suoi occhi erano asciutti, il viso tranquillo; latrasparenza rosea delle tendine coloriva il suo pallore.Pensava il figlio quali prove ella aveva già attraversate,e la vedeva intatta; la vedeva diversa dalla storia deglialtri Andosio e da ogni miseria del mondo. Ella lo ca-rezzò: – Saprai meglio piú tardi, ma ora io ti dico che adAleramo puoi volergli bene. Che cosa gli scriverai?

Il ragazzo immaginò se stesso davanti ad un foglio dariempire per mandarlo a quell’uomo del penitenziario,che era il fratello di sua madre. La situazione era peno-sa. Ma da qualche tempo egli incominciava a vedere ciòche nella vita stava dietro le apparenze, dietro le faccia-te. La rivelazione avveniva giorno per giorno. Una cosamolto seria, la vita; una realtà piena di segreti, di fatticomplicati e dolorosi, piena di difficoltà e di circostanzesuperiori alla volontà umana. Tutti lo sapevano ed ave-vano la forza necessaria a viverla; avevano anche orebelle: nell’avvenire era come uno splendore che attrae-va.

— Non ha figli, – disse ancora sua madre. – Non hache noi.

— Scriverò certamente, mamma. Bisogna che ci pen-si.

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tenza misteriosa ed avversa, da una sorte nera della fa-miglia?

— Sai che vuol dire non aver conosciuta la mamma?– disse Claudia che dallo stipo aveva prese altre fotogra-fie ed ora le contemplava nella finestra. – Rimane persempre una sete dell’anima, che non si potrà mai appa-gare. – I suoi occhi erano asciutti, il viso tranquillo; latrasparenza rosea delle tendine coloriva il suo pallore.Pensava il figlio quali prove ella aveva già attraversate,e la vedeva intatta; la vedeva diversa dalla storia deglialtri Andosio e da ogni miseria del mondo. Ella lo ca-rezzò: – Saprai meglio piú tardi, ma ora io ti dico che adAleramo puoi volergli bene. Che cosa gli scriverai?

Il ragazzo immaginò se stesso davanti ad un foglio dariempire per mandarlo a quell’uomo del penitenziario,che era il fratello di sua madre. La situazione era peno-sa. Ma da qualche tempo egli incominciava a vedere ciòche nella vita stava dietro le apparenze, dietro le faccia-te. La rivelazione avveniva giorno per giorno. Una cosamolto seria, la vita; una realtà piena di segreti, di fatticomplicati e dolorosi, piena di difficoltà e di circostanzesuperiori alla volontà umana. Tutti lo sapevano ed ave-vano la forza necessaria a viverla; avevano anche orebelle: nell’avvenire era come uno splendore che attrae-va.

— Non ha figli, – disse ancora sua madre. – Non hache noi.

— Scriverò certamente, mamma. Bisogna che ci pen-si.

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Vennero giornate di maggio scaldate da un vento mol-le che aveva passato molto mare. Eran quelle in cuiClaudia ripeteva: – Vorrei essere a Luvo. – Per un pocol’incerta figura di Aleramo campeggiò nella coscienzadi Graziano; poi questi sentimenti e pensieri si confuse-ro col malessere di prima, col suo turbamento senza mo-tivo. Gli facevano male la bellezza e la luminosità dellastagione; soffriva anche fisicamente, aveva dolori sparsinelle membra, una stanchezza grande, forse febbre. Sa-peva che era effetto della pubertà; la sua voce s’era fattacavernosa, gli spuntavano sulle guance grossi e duripeli; sapeva, ed anche questo trapasso simile ad una ma-lattia lo avviliva. Da Stefania si teneva lontano ma vipensava suo malgrado, sentendo un’attrazione come dicose celate, animalesche. Se stava a studiare alla fine-stra, davanti alla terrazza dove scendevano i colombi, sidistraeva. Spesso ricordava Padre Raineri. Questi dicevadi vivere per guadagnarsi il paradiso, pure sembrava in-felice, coi gesti improvvisi di sgomento, col giovineviso scarno nel quale le mascelle avevano contrazionidolorose; pareva esaltarsi nella visione del paradiso perdare a se stesso una ragione del proprio stato, dal qualenon poteva uscire. L’eternità: premio o castigo, un se-guito alla vita che non dovesse mai aver fine! Pensieroterribile.

Al tramonto Graziano guardava girare, molto in alto opiú in basso, passando fulminei, stridendo inebbriati, glistuoli dei rondoni. Guardava anche la torre del palazzo,del tutto sola nell’aria. Erano strane, le cose. Talora gli

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Vennero giornate di maggio scaldate da un vento mol-le che aveva passato molto mare. Eran quelle in cuiClaudia ripeteva: – Vorrei essere a Luvo. – Per un pocol’incerta figura di Aleramo campeggiò nella coscienzadi Graziano; poi questi sentimenti e pensieri si confuse-ro col malessere di prima, col suo turbamento senza mo-tivo. Gli facevano male la bellezza e la luminosità dellastagione; soffriva anche fisicamente, aveva dolori sparsinelle membra, una stanchezza grande, forse febbre. Sa-peva che era effetto della pubertà; la sua voce s’era fattacavernosa, gli spuntavano sulle guance grossi e duripeli; sapeva, ed anche questo trapasso simile ad una ma-lattia lo avviliva. Da Stefania si teneva lontano ma vipensava suo malgrado, sentendo un’attrazione come dicose celate, animalesche. Se stava a studiare alla fine-stra, davanti alla terrazza dove scendevano i colombi, sidistraeva. Spesso ricordava Padre Raineri. Questi dicevadi vivere per guadagnarsi il paradiso, pure sembrava in-felice, coi gesti improvvisi di sgomento, col giovineviso scarno nel quale le mascelle avevano contrazionidolorose; pareva esaltarsi nella visione del paradiso perdare a se stesso una ragione del proprio stato, dal qualenon poteva uscire. L’eternità: premio o castigo, un se-guito alla vita che non dovesse mai aver fine! Pensieroterribile.

Al tramonto Graziano guardava girare, molto in alto opiú in basso, passando fulminei, stridendo inebbriati, glistuoli dei rondoni. Guardava anche la torre del palazzo,del tutto sola nell’aria. Erano strane, le cose. Talora gli

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accadeva di vederle come se fosse la prima volta, anzi,come se nessuno si fosse mai accorto di ciò che le cosesono, gli edifizi, le persone, gli alberi. D’inverno, facen-do il còmpito sotto la lampada a gas, fissava qualchevolta l’interno del paralume di porcellana bianca, egualead una cupola, e la superficie bianca liscia, dove nonc’era niente, produceva in lui un’impressione sconcer-tante come guardar la luna nel cannocchiale, come seproprio vedesse succedere quel fatto misterioso: un og-getto esistere, una cosa stare nell’universo. L’impressio-ne era che tutte le cose e la vita non servissero a niente.Il cielo dove i cerchi dei rondoni giravano, stridevano,non era che aria e luce; ma, a tenervi lo sguardo, si desi-derava salirvi e si pensava a vivere in un modo degno diquell’alto spazio.

Erano i momenti nei quali Graziano cercava piú spes-so con la mente suo padre. Il babbo viveva altamente, eforse le sue speranze non erano di salvar l’anima, nonerano il paradiso. Una sera il ragazzo pensò di parlargli.Di che cosa? Dirgli che stava male, dirgli di Stefania?Non sapeva quali cose gli avrebbe dette, ma voleva con-fidarsi con lui. Di rado Sisto usciva dopo cena se nondoveva visitare un ammalato grave; proprio quella sera,alzatosi da tavola, disse al figlio che, come sempre, ave-va assistito al suo rapido pasto: – Vuoi venire con me?Scendiamo a passeggiare. – Graziano pensò che avesseinteso l’animo suo. Raggiunsero un viale dove sonavanoorchestrine di caffè e la gente camminava adagio in pro-cessione; lo seguirono fino al Po. Le luci dei fanali

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accadeva di vederle come se fosse la prima volta, anzi,come se nessuno si fosse mai accorto di ciò che le cosesono, gli edifizi, le persone, gli alberi. D’inverno, facen-do il còmpito sotto la lampada a gas, fissava qualchevolta l’interno del paralume di porcellana bianca, egualead una cupola, e la superficie bianca liscia, dove nonc’era niente, produceva in lui un’impressione sconcer-tante come guardar la luna nel cannocchiale, come seproprio vedesse succedere quel fatto misterioso: un og-getto esistere, una cosa stare nell’universo. L’impressio-ne era che tutte le cose e la vita non servissero a niente.Il cielo dove i cerchi dei rondoni giravano, stridevano,non era che aria e luce; ma, a tenervi lo sguardo, si desi-derava salirvi e si pensava a vivere in un modo degno diquell’alto spazio.

Erano i momenti nei quali Graziano cercava piú spes-so con la mente suo padre. Il babbo viveva altamente, eforse le sue speranze non erano di salvar l’anima, nonerano il paradiso. Una sera il ragazzo pensò di parlargli.Di che cosa? Dirgli che stava male, dirgli di Stefania?Non sapeva quali cose gli avrebbe dette, ma voleva con-fidarsi con lui. Di rado Sisto usciva dopo cena se nondoveva visitare un ammalato grave; proprio quella sera,alzatosi da tavola, disse al figlio che, come sempre, ave-va assistito al suo rapido pasto: – Vuoi venire con me?Scendiamo a passeggiare. – Graziano pensò che avesseinteso l’animo suo. Raggiunsero un viale dove sonavanoorchestrine di caffè e la gente camminava adagio in pro-cessione; lo seguirono fino al Po. Le luci dei fanali

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splendevano in linee diritte lungo il grande canale pienodi riflessi, in cui si udivano voci e barche passare. Fin làGraziano ed il padre si erano scambiate rare parole; oraSisto prese il ragazzo per il braccio, lo avvicinò un pocoal proprio fianco e regolò il passo sul suo. – È buonaquest’aria, – disse. – Ho lavorato molto. E tu? Racconta-mi quello che hai fatto.

Graziano si senti piú alto, piú forte, un compagno delbabbo; e non ricordava piú di aver sofferto.

* * *

Nel centro della città, entro i cortili dei palazzi, si ve-devano file di fantaccini appoggiati al fucile, tra gli zai-ni allineati in terra; anche negli altri quartieri percorre-vano le lunghe vie pattuglie di cavalleggeri, coi mo-schetti appesi all’arcione delle selle guernite di pelle dicapra. Mattina calda; nuvole scure nelle striscie di cielotra un tetto e l’altro. Quel giorno le madri non avevanmandati i figli a scuola; i negozi di lusso ed anche qual-che piccola bottega erano a metà chiusi; non carrozzepadronali in giro. Era stato dichiarato lo sciopero e do-veva tenersi – non si sapeva dove – una riunione di ope-rai, in segno di protesta perché in un lontano paese delMezzogiorno alcuni contadini erano rimasti uccisi inuno scontro con la pubblica forza. Era la prima voltache la città doveva assistere ad una simile manifestazio-ne. Nelle vie e piazze quasi vuote architetture e statuespiccavano meglio del solito, in una maniera diversa.

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splendevano in linee diritte lungo il grande canale pienodi riflessi, in cui si udivano voci e barche passare. Fin làGraziano ed il padre si erano scambiate rare parole; oraSisto prese il ragazzo per il braccio, lo avvicinò un pocoal proprio fianco e regolò il passo sul suo. – È buonaquest’aria, – disse. – Ho lavorato molto. E tu? Racconta-mi quello che hai fatto.

Graziano si senti piú alto, piú forte, un compagno delbabbo; e non ricordava piú di aver sofferto.

* * *

Nel centro della città, entro i cortili dei palazzi, si ve-devano file di fantaccini appoggiati al fucile, tra gli zai-ni allineati in terra; anche negli altri quartieri percorre-vano le lunghe vie pattuglie di cavalleggeri, coi mo-schetti appesi all’arcione delle selle guernite di pelle dicapra. Mattina calda; nuvole scure nelle striscie di cielotra un tetto e l’altro. Quel giorno le madri non avevanmandati i figli a scuola; i negozi di lusso ed anche qual-che piccola bottega erano a metà chiusi; non carrozzepadronali in giro. Era stato dichiarato lo sciopero e do-veva tenersi – non si sapeva dove – una riunione di ope-rai, in segno di protesta perché in un lontano paese delMezzogiorno alcuni contadini erano rimasti uccisi inuno scontro con la pubblica forza. Era la prima voltache la città doveva assistere ad una simile manifestazio-ne. Nelle vie e piazze quasi vuote architetture e statuespiccavano meglio del solito, in una maniera diversa.

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Donnette scese dalle soffitte a far piccole provviste,stringendo i loro pacchi al petto si scambiavano frasi af-frettate, come se stesse per entrare un esercito nemico.Sulla porta d’una latteria il bottegaio, grasso, con ungrembiale sporco arrotolato intorno al ventre, venne aguardar fuori: pensava se, in caso di saccheggio, si sa-rebbe potuto trovare il denaro nascosto in casa sua sottouna mattonella del pavimento. Intorno ad un giardinopubblico, chiuso, passò un colonnello di cavalleria se-guito da un tenente e da due soldati, tutti a cavallo. Lagente chiamata alle finestre dallo scalpitio li ammirava esi sentiva rassicurata.

Per ordine dell’autorità il comizio si teneva nel subur-bio, dentro lo steccato d’un vasto terreno che si stendevadietro l’ammazzatoio. La folla, che non riempiva quellospazio interamente, era in gran parte formata di ragazzedegli opifici, vestite come quando andavano al lavoro,di giovani con cappelli a larga tesa e cravatte rosse; matra essi erano pure operai vecchi e bonaccioni, qualchetipo di stravagante ed alcuni giovinastri di losco aspetto.Gli agenti della polizia, con lunghe daghe e cheppí luci-di, rimanevano fuori del recinto, in squadre. Sempre piúbrutte, venendo dalle montagne, le nuvole correvanosulla pianura ma ancora indecise se fare o no il tempora-le. Si udiva il tuono molto distante. Sopra un palco im-provvisato con certe casse si succedettero parecchi ora-tori; uno era il poeta autodidatta, piccolo, con occhiali astanghetta sopra una faccia quadra, che frequentava ilcaffè della Scacchiera. In prima fila dinanzi al palco

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Donnette scese dalle soffitte a far piccole provviste,stringendo i loro pacchi al petto si scambiavano frasi af-frettate, come se stesse per entrare un esercito nemico.Sulla porta d’una latteria il bottegaio, grasso, con ungrembiale sporco arrotolato intorno al ventre, venne aguardar fuori: pensava se, in caso di saccheggio, si sa-rebbe potuto trovare il denaro nascosto in casa sua sottouna mattonella del pavimento. Intorno ad un giardinopubblico, chiuso, passò un colonnello di cavalleria se-guito da un tenente e da due soldati, tutti a cavallo. Lagente chiamata alle finestre dallo scalpitio li ammirava esi sentiva rassicurata.

Per ordine dell’autorità il comizio si teneva nel subur-bio, dentro lo steccato d’un vasto terreno che si stendevadietro l’ammazzatoio. La folla, che non riempiva quellospazio interamente, era in gran parte formata di ragazzedegli opifici, vestite come quando andavano al lavoro,di giovani con cappelli a larga tesa e cravatte rosse; matra essi erano pure operai vecchi e bonaccioni, qualchetipo di stravagante ed alcuni giovinastri di losco aspetto.Gli agenti della polizia, con lunghe daghe e cheppí luci-di, rimanevano fuori del recinto, in squadre. Sempre piúbrutte, venendo dalle montagne, le nuvole correvanosulla pianura ma ancora indecise se fare o no il tempora-le. Si udiva il tuono molto distante. Sopra un palco im-provvisato con certe casse si succedettero parecchi ora-tori; uno era il poeta autodidatta, piccolo, con occhiali astanghetta sopra una faccia quadra, che frequentava ilcaffè della Scacchiera. In prima fila dinanzi al palco

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Page 79: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

ascoltava i discorsi un commissario. Grida battimaniclamori si levavano a ventate dall’adunanza. Ultimoparlò Metello Farra: spiegò quale miseria aveva mossi icontadini in quel paese laggiú, che cosa volevano e qua-le era il significato della risposta data loro coi fucili. Adun tratto, alla gente che lo applaudiva egli si rivolse conveemenza, guardando intorno a sé il luogo dove si tro-vavano: – Ma che facciamo qua? Perché dobbiamo starfuori della città, dentro uno steccato? Abbiamo forse lapeste, siamo lebbrosi? E perché è stato dato quest’ordi-ne, non saremo capaci di muoverci? No, noi non abbia-mo paura. Contro quel sangue sparso vogliamo protesta-re, come è nostro dovere, ma vogliamo che la protestasia sentita da tutti. La città deve vederci, chi siamo,come siamo, conoscere la nostra forza. Difendiamo unacausa giusta, diritti sacrosanti chi ci potrà fermare?Dunque in marcia, tutti insieme, avanti!

Il commissario aveva tentato d’interromperlo, ma alledomande, agli incitamenti di Metello Farra la folla ave-va subito risposto ribollendo, con piú alti clamori; seguíun trambusto, si udirono schianti delle barriere qua e làabbattute; e la gente uscí da quei varchi, dilagò nei prati,divisa si avviò per diverse strade, sebbene le squadredella polizia si fossero lanciate contro quelle correnti edafferrassero anche alcuni uomini, che poi si vedevanocon le braccia unite sullo stomaco, suggellati dalle ma-nette. Del resto, le correnti erano rade e nel tragitto mol-ta gente si perse; tuttavia giunsero fino al grande edifi-zio dell’Unione operaia, non lontano dal cuore della cit-

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ascoltava i discorsi un commissario. Grida battimaniclamori si levavano a ventate dall’adunanza. Ultimoparlò Metello Farra: spiegò quale miseria aveva mossi icontadini in quel paese laggiú, che cosa volevano e qua-le era il significato della risposta data loro coi fucili. Adun tratto, alla gente che lo applaudiva egli si rivolse conveemenza, guardando intorno a sé il luogo dove si tro-vavano: – Ma che facciamo qua? Perché dobbiamo starfuori della città, dentro uno steccato? Abbiamo forse lapeste, siamo lebbrosi? E perché è stato dato quest’ordi-ne, non saremo capaci di muoverci? No, noi non abbia-mo paura. Contro quel sangue sparso vogliamo protesta-re, come è nostro dovere, ma vogliamo che la protestasia sentita da tutti. La città deve vederci, chi siamo,come siamo, conoscere la nostra forza. Difendiamo unacausa giusta, diritti sacrosanti chi ci potrà fermare?Dunque in marcia, tutti insieme, avanti!

Il commissario aveva tentato d’interromperlo, ma alledomande, agli incitamenti di Metello Farra la folla ave-va subito risposto ribollendo, con piú alti clamori; seguíun trambusto, si udirono schianti delle barriere qua e làabbattute; e la gente uscí da quei varchi, dilagò nei prati,divisa si avviò per diverse strade, sebbene le squadredella polizia si fossero lanciate contro quelle correnti edafferrassero anche alcuni uomini, che poi si vedevanocon le braccia unite sullo stomaco, suggellati dalle ma-nette. Del resto, le correnti erano rade e nel tragitto mol-ta gente si perse; tuttavia giunsero fino al grande edifi-zio dell’Unione operaia, non lontano dal cuore della cit-

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tà. Di là, nuovamente divisa in parecchi rami, la follascese verso la piazza dov’era la questura, col propositodi ottenere la liberazione degli arrestati. Innanzi allaschiera piú folta era l’insegna dell’Unione, stendardo divelluto con ruote d’ingranaggi e spighe ricamate in oro;e qualche cartello veniva portato in cima a bastoni. So-pra uno c’era scritto: «Piombo per pane». Ogni colonnaprocedeva scucita, come composta di gente riunitasi acaso, senza un’idea chiara di ciò che dovesse fare. Qual-che sbarramento di fanteria fu rotto perché nemmeno isoldati sapevano in quale modo comportarsi, si lasciaro-no passare le onde intorno. Invece le schiere che incon-trarono soldati a cavallo non poterono proseguire.

Insieme al deputato socialista e ad altri capi del parti-to, Metello camminava alla testa d’una massa piuttostodensa; aveva al collo il solito fazzoletto ed in capo unvecchio cappello che ogni tanto levava per asciugarsi ilsudore con gesto nervoso. Guardando le case, sulle fac-ce delle quali era l’espressione di un ordine arcigno edegoista, egli sentiva quel che tra esse passava d’incon-sueto e di nuovo, sentiva il disordine di cui anch’egli erauna causa. L’avvenimento diceva che la plebe, gli operaiavevano qualche coscienza di sé e prendevano coraggio.Non s’era mai compiaciuto tanto di essere un uomo sen-za classe, che andava coi plebei. Provava anche unasoddisfazione di guidare e comandare. Sboccarono nellapiazza. Era lunga, nobile, contornata di palazzi non alti,tutti d’un disegno, che sembravano la ripetizione d’unsolo pensiero; ed apparve sgombra. Sopra uno dei lati

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tà. Di là, nuovamente divisa in parecchi rami, la follascese verso la piazza dov’era la questura, col propositodi ottenere la liberazione degli arrestati. Innanzi allaschiera piú folta era l’insegna dell’Unione, stendardo divelluto con ruote d’ingranaggi e spighe ricamate in oro;e qualche cartello veniva portato in cima a bastoni. So-pra uno c’era scritto: «Piombo per pane». Ogni colonnaprocedeva scucita, come composta di gente riunitasi acaso, senza un’idea chiara di ciò che dovesse fare. Qual-che sbarramento di fanteria fu rotto perché nemmeno isoldati sapevano in quale modo comportarsi, si lasciaro-no passare le onde intorno. Invece le schiere che incon-trarono soldati a cavallo non poterono proseguire.

Insieme al deputato socialista e ad altri capi del parti-to, Metello camminava alla testa d’una massa piuttostodensa; aveva al collo il solito fazzoletto ed in capo unvecchio cappello che ogni tanto levava per asciugarsi ilsudore con gesto nervoso. Guardando le case, sulle fac-ce delle quali era l’espressione di un ordine arcigno edegoista, egli sentiva quel che tra esse passava d’incon-sueto e di nuovo, sentiva il disordine di cui anch’egli erauna causa. L’avvenimento diceva che la plebe, gli operaiavevano qualche coscienza di sé e prendevano coraggio.Non s’era mai compiaciuto tanto di essere un uomo sen-za classe, che andava coi plebei. Provava anche unasoddisfazione di guidare e comandare. Sboccarono nellapiazza. Era lunga, nobile, contornata di palazzi non alti,tutti d’un disegno, che sembravano la ripetizione d’unsolo pensiero; ed apparve sgombra. Sopra uno dei lati

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maggiori stava schierato su due file uno squadrone dicavalleggeri; al riparo di questa truppa pochi passantispaventati s’erano rifugiati sotto i portici. Nell’angolodov’era la questura, stavano ammassate molte guardie,le quali si gettarono correndo verso la via donde il gros-so dei dimostranti arrivava. Ma la folla, gridante, com-patta, le travolse; poi, come attratta dal vuoto che vide,di corsa venne innanzi. Sul calpestio e rumorio sordo legrida si alzavano incomprensibili.

La piazza era attonita. Soprattutto a causa delle grida,essa pareva un salone invaso dalla poveraglia. Il coman-dante dello squadrone strapazzava la bocca del cavallo,che girava sopra se stesso e s’impennava. Questo capita-no, uomo assai alto, al quale il colbacco col sottogolaabbassato faceva un bel viso guerriero, dalle prime oredel mattino fremeva, guardando il suo squadrone con di-spetto, perché combattere in piazza non gli sembravadegno di soldati. Quando però aveva udito i dimostrantiavvicinarsi e li aveva visti, si era subito rafforzata in luila persuasione che si trattasse di straccioni malvissuti iquali volessero sfogare l’odio contro i signori e creare ildisordine per fini ignobili, prendendo a pretesto assurdee false idee. Ora gli pareva veramente d’aver di frontedei nemici, anche suoi. Si chiedeva perché si tardassetanto a reagire.

Squilli di tromba della polizia trapassavano il clamo-re. Finalmente al capitano fu portato un ordine. La pri-ma linea dello squadrone si mosse. Allora la massaumana, che non occupava la piazza interamente, turbinò

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maggiori stava schierato su due file uno squadrone dicavalleggeri; al riparo di questa truppa pochi passantispaventati s’erano rifugiati sotto i portici. Nell’angolodov’era la questura, stavano ammassate molte guardie,le quali si gettarono correndo verso la via donde il gros-so dei dimostranti arrivava. Ma la folla, gridante, com-patta, le travolse; poi, come attratta dal vuoto che vide,di corsa venne innanzi. Sul calpestio e rumorio sordo legrida si alzavano incomprensibili.

La piazza era attonita. Soprattutto a causa delle grida,essa pareva un salone invaso dalla poveraglia. Il coman-dante dello squadrone strapazzava la bocca del cavallo,che girava sopra se stesso e s’impennava. Questo capita-no, uomo assai alto, al quale il colbacco col sottogolaabbassato faceva un bel viso guerriero, dalle prime oredel mattino fremeva, guardando il suo squadrone con di-spetto, perché combattere in piazza non gli sembravadegno di soldati. Quando però aveva udito i dimostrantiavvicinarsi e li aveva visti, si era subito rafforzata in luila persuasione che si trattasse di straccioni malvissuti iquali volessero sfogare l’odio contro i signori e creare ildisordine per fini ignobili, prendendo a pretesto assurdee false idee. Ora gli pareva veramente d’aver di frontedei nemici, anche suoi. Si chiedeva perché si tardassetanto a reagire.

Squilli di tromba della polizia trapassavano il clamo-re. Finalmente al capitano fu portato un ordine. La pri-ma linea dello squadrone si mosse. Allora la massaumana, che non occupava la piazza interamente, turbinò

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e si sparse; molti fuggirono verso gli sbocchi o ripararo-no sotto i portici del lato opposto. Di fronte alla trupparimase tuttavia molta gente. Rumoreggiò il tuono ormaivicino, come se dovesse aver parte in ciò che stava ac-cadendo. Subito la lunga linea dei cavalleggeri si divisein due ali, che presero il trotto manovrando separata-mente per spazzare il terreno. Con le vellose selle, coimoschetti all’arcione, con le sciabole sguainate, coi col-bacchi, col fitto scalpitio, cavalieri e cavalli erano pe-santi, solidi, potenti a paragone della folla contro la qua-le avanzavano. Alle donne, nel fuggire, subito si scio-glievano i capelli; alcune per poter correre s’erano rial-zate le vesti sgraziatamente; fuggendo, molte mandava-no strilli acuti; uomini vecchi o corpacciuti stentavano amoversi rapidamente ed avevano negli occhi il terrore diessere raggiunti. Fin dalle prime mosse della truppa al-cuni dei dimostranti eran caduti, per paura o inciampan-do o urtati dai quadrupedi, ma senza che fosse calpesta-to nessuno. Su lastre di pietra scivolarono cavalli, trasci-nando a terra i loro soldati con rumor di metallo. Colpi-to da una sassata andò in pezzi il globo d’un lampione.Nei luoghi ove la gente si era diradata, addosso ad uo-mini sparsi si gettavano drappelli di guardie. Sotto i por-tici di quel lato i fuggiti cercavano di ripigliar fiato; ledonne si rialzavano le calze; alcuni guardavano ciò cheaccadeva nella piazza, e tra questi era il poeta dellaScacchiera, il quale osservava attraverso gli occhialicon attenta curiosità, sporgendo il grosso capo da un pi-lastro. Un certo numero di dimostranti, tutti uomini, re-

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e si sparse; molti fuggirono verso gli sbocchi o ripararo-no sotto i portici del lato opposto. Di fronte alla trupparimase tuttavia molta gente. Rumoreggiò il tuono ormaivicino, come se dovesse aver parte in ciò che stava ac-cadendo. Subito la lunga linea dei cavalleggeri si divisein due ali, che presero il trotto manovrando separata-mente per spazzare il terreno. Con le vellose selle, coimoschetti all’arcione, con le sciabole sguainate, coi col-bacchi, col fitto scalpitio, cavalieri e cavalli erano pe-santi, solidi, potenti a paragone della folla contro la qua-le avanzavano. Alle donne, nel fuggire, subito si scio-glievano i capelli; alcune per poter correre s’erano rial-zate le vesti sgraziatamente; fuggendo, molte mandava-no strilli acuti; uomini vecchi o corpacciuti stentavano amoversi rapidamente ed avevano negli occhi il terrore diessere raggiunti. Fin dalle prime mosse della truppa al-cuni dei dimostranti eran caduti, per paura o inciampan-do o urtati dai quadrupedi, ma senza che fosse calpesta-to nessuno. Su lastre di pietra scivolarono cavalli, trasci-nando a terra i loro soldati con rumor di metallo. Colpi-to da una sassata andò in pezzi il globo d’un lampione.Nei luoghi ove la gente si era diradata, addosso ad uo-mini sparsi si gettavano drappelli di guardie. Sotto i por-tici di quel lato i fuggiti cercavano di ripigliar fiato; ledonne si rialzavano le calze; alcuni guardavano ciò cheaccadeva nella piazza, e tra questi era il poeta dellaScacchiera, il quale osservava attraverso gli occhialicon attenta curiosità, sporgendo il grosso capo da un pi-lastro. Un certo numero di dimostranti, tutti uomini, re-

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stavano ancora nello spazio dove la truppa manovrava:mandando grida, insultando i soldati, si destreggiavanoper non essere cacciati; anche scappando dinanzi ai ca-valli gridavano ed insultavano sempre. Allora i caval-leggeri li cercarono ad uno ad uno, colpendoli con rab-bia a piattonate. Come portati da una furia dei cavalli,ne arrivarono di quei soldati anche sotto i portici, ove sialzarono strida altissime.

In breve la piazza fu di nuovo sgombra. E la dimo-strazione era finita, senza che vi fosse stata lotta, senzauno sparo. Metello, grondante di sudore, allontanandosiadagio per una via all’avanguardia d’un centinaiod’uomini che non si volevano separare, posava a caso losguardo sopra coloro che aveva attorno: una figura palli-da di fornaio, figura d’uomo che non dormiva abbastan-za, ed un vecchio operaio stracco che aveva una manicaquasi staccata, ed un ragazzo sudicio che cantava l’innoda solo, con quanto fiato aveva. Ricordava gli agentidella polizia, le manette colle quali destramente piglia-van gente; rivedeva la folla mentre scappava davantialla cavalleria. Ancora a questo punto era il lavoro chesi doveva fare.

Da una via attigua giunse un vocío; alcuni dimostrantine tornarono di corsa, gridando: – Gli arrestati! – E Me-tello si buttò in quella direzione. Passava uno dei carroz-zoni senza finestre, sgangherati e stinti, tirati da magricavalli, nei quali venivano trasportati i detenuti. Oraportava certamente qualcuno degli arrestati alle carceri.Lo scortavano quattro carabinieri a cavallo con le scia-

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stavano ancora nello spazio dove la truppa manovrava:mandando grida, insultando i soldati, si destreggiavanoper non essere cacciati; anche scappando dinanzi ai ca-valli gridavano ed insultavano sempre. Allora i caval-leggeri li cercarono ad uno ad uno, colpendoli con rab-bia a piattonate. Come portati da una furia dei cavalli,ne arrivarono di quei soldati anche sotto i portici, ove sialzarono strida altissime.

In breve la piazza fu di nuovo sgombra. E la dimo-strazione era finita, senza che vi fosse stata lotta, senzauno sparo. Metello, grondante di sudore, allontanandosiadagio per una via all’avanguardia d’un centinaiod’uomini che non si volevano separare, posava a caso losguardo sopra coloro che aveva attorno: una figura palli-da di fornaio, figura d’uomo che non dormiva abbastan-za, ed un vecchio operaio stracco che aveva una manicaquasi staccata, ed un ragazzo sudicio che cantava l’innoda solo, con quanto fiato aveva. Ricordava gli agentidella polizia, le manette colle quali destramente piglia-van gente; rivedeva la folla mentre scappava davantialla cavalleria. Ancora a questo punto era il lavoro chesi doveva fare.

Da una via attigua giunse un vocío; alcuni dimostrantine tornarono di corsa, gridando: – Gli arrestati! – E Me-tello si buttò in quella direzione. Passava uno dei carroz-zoni senza finestre, sgangherati e stinti, tirati da magricavalli, nei quali venivano trasportati i detenuti. Oraportava certamente qualcuno degli arrestati alle carceri.Lo scortavano quattro carabinieri a cavallo con le scia-

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bole nude: udendo il calpestio e le voci di coloro cheavevan seguito Metello, essi voltarono le cavalcatureper respingere gli accorrenti, che si sbandarono. Ma Me-tello non si sviò. Cadevano le prime gocce del tempora-le. Seguitando a correre verso il carrozzone, egli videcon la mente se stesso, un uomo massiccio e sfiatato,con un aspetto di scritturale, che inseguiva il veicoloignobile: tuttavia era convinto che agire in quel modofosse il suo dovere. Si attaccò, sempre trottando, ad unfanale del carrozzone; cercò di afferrare le redini. Il gui-datore, malvestito, che pareva egli medesimo un ladrood un falso monetario, impugnò la frusta a rovescio, nesbatté il manico sulla fronte dell’assalitore. Volò via ilcappello. Metello barcollò, alzando un poco le braccia, ecadde a terra come un sacco, con un fiotto di sangue so-pra un occhio.

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bole nude: udendo il calpestio e le voci di coloro cheavevan seguito Metello, essi voltarono le cavalcatureper respingere gli accorrenti, che si sbandarono. Ma Me-tello non si sviò. Cadevano le prime gocce del tempora-le. Seguitando a correre verso il carrozzone, egli videcon la mente se stesso, un uomo massiccio e sfiatato,con un aspetto di scritturale, che inseguiva il veicoloignobile: tuttavia era convinto che agire in quel modofosse il suo dovere. Si attaccò, sempre trottando, ad unfanale del carrozzone; cercò di afferrare le redini. Il gui-datore, malvestito, che pareva egli medesimo un ladrood un falso monetario, impugnò la frusta a rovescio, nesbatté il manico sulla fronte dell’assalitore. Volò via ilcappello. Metello barcollò, alzando un poco le braccia, ecadde a terra come un sacco, con un fiotto di sangue so-pra un occhio.

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Page 85: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

1898

Quando nel pozzo della trebbiatrice cadeva un’ondapiú pesante di messe, il rumore era cupo, strozzato; lamacchina soffriva. Il rombo continuo, il gridar dellagente per farsi intendere, la fretta di chi porgeva i covo-ni, il rapido va e vieni dello stantuffo sopra la locomobi-le ed il girar del volante, tutto ciò metteva nell’aria unaffanno. Nel cortile dell’Amistà era strano vedere il fo-chista che gettava carbone nel focolaio: col viso tinto ecol camiciotto turchino faceva pensare ai macchinistidella ferrovia. Graziano guardava anche i coloni, i vicinivenuti ad aiutare; vecchi e giovani eran presi daquell’ardore febbrile che forse era creato dalla macchinae che egli pure sentiva. Avvolti d’uno splendore di co-raggio eran gli uomini ritti sul piano della trebbiatrice adar la messe, perché in ogni estate accadeva che da quelposto qualcuno scivolasse dentro i terribili ingranaggi.Graziano ammirava specialmente Giusto, il secondo fi-glio dei mezzadri, il quale aveva soltanto vent’anni e fa-ceva quel lavoro. Ansietà nell’aria, ma ancheun’impressione di festa, il piacere della ricchezza uscen-te dalla macchina come se non dovesse piú cessare.

Regina, la maggiore delle ragazze, venne sull’aia aportar altri sacchi vuoti; aveva capelli biondi scuri tirati

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Quando nel pozzo della trebbiatrice cadeva un’ondapiú pesante di messe, il rumore era cupo, strozzato; lamacchina soffriva. Il rombo continuo, il gridar dellagente per farsi intendere, la fretta di chi porgeva i covo-ni, il rapido va e vieni dello stantuffo sopra la locomobi-le ed il girar del volante, tutto ciò metteva nell’aria unaffanno. Nel cortile dell’Amistà era strano vedere il fo-chista che gettava carbone nel focolaio: col viso tinto ecol camiciotto turchino faceva pensare ai macchinistidella ferrovia. Graziano guardava anche i coloni, i vicinivenuti ad aiutare; vecchi e giovani eran presi daquell’ardore febbrile che forse era creato dalla macchinae che egli pure sentiva. Avvolti d’uno splendore di co-raggio eran gli uomini ritti sul piano della trebbiatrice adar la messe, perché in ogni estate accadeva che da quelposto qualcuno scivolasse dentro i terribili ingranaggi.Graziano ammirava specialmente Giusto, il secondo fi-glio dei mezzadri, il quale aveva soltanto vent’anni e fa-ceva quel lavoro. Ansietà nell’aria, ma ancheun’impressione di festa, il piacere della ricchezza uscen-te dalla macchina come se non dovesse piú cessare.

Regina, la maggiore delle ragazze, venne sull’aia aportar altri sacchi vuoti; aveva capelli biondi scuri tirati

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forte all’indietro ed era gentilina, con la vita sottile stret-ta nella cintura della veste di cotone; mostrava bei dentibianchi sorridendo; stordita gradevolmente dal frastuo-no, vi pareva capitata per caso. A ricevere i sacchi trovòRemo, il servitore del podere vicino, che aveva dentibelli come i suoi in un bel viso magro e bruciato. Nelpassarsi questi sacchi, presso le bocche della trebbiatricedalle quali sgorgava il grano, le loro mani si toccaronoun istante senza volere, ed ella abbassò gli occhi ed eglipensava forse di dirle che ancora non l’aveva potuta ve-dere in tutta la mattina; ma lo strepito empiva il capo.Regina tese la destra a raccogliere un po’ di grano, chemandava un odore forte e freddo; il giovine posò i sac-chi in terra con gran riguardo; vissero un momento pie-no di delizia ed a loro il rumore sembrava una nube cheli separasse da tutti. Ma apparve un altro vicino. Minot-to, col suo muso gonfio e nero e coi piccoli occhi mali-ziosi; mise tra i due il testone impolverato, gridando: –Si sta bene all’ombra? – Regina scappò via.

Vagamente si udirono i paesi sonar mezzogiorno. Lagente e la macchina, però, non diedero segno d’accor-gersene: prima di mangiare si doveva aver trebbiatol’ultimo covone. Cresceva il monte della paglia, cresce-vano le file dei sacchi posati in piedi contro il muro delportico, e sempre la trebbiatrice ingoiava messe, lo stan-tuffo andava fulmineo avanti e indietro, la cinghia ditrasmissione oscillando scorreva, dentro l’aria, fragoro-sa e calda, sotto il sole abbagliante. Graziano salí a cola-zione poi ridiscese con un libro da leggere al fresco, ma

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forte all’indietro ed era gentilina, con la vita sottile stret-ta nella cintura della veste di cotone; mostrava bei dentibianchi sorridendo; stordita gradevolmente dal frastuo-no, vi pareva capitata per caso. A ricevere i sacchi trovòRemo, il servitore del podere vicino, che aveva dentibelli come i suoi in un bel viso magro e bruciato. Nelpassarsi questi sacchi, presso le bocche della trebbiatricedalle quali sgorgava il grano, le loro mani si toccaronoun istante senza volere, ed ella abbassò gli occhi ed eglipensava forse di dirle che ancora non l’aveva potuta ve-dere in tutta la mattina; ma lo strepito empiva il capo.Regina tese la destra a raccogliere un po’ di grano, chemandava un odore forte e freddo; il giovine posò i sac-chi in terra con gran riguardo; vissero un momento pie-no di delizia ed a loro il rumore sembrava una nube cheli separasse da tutti. Ma apparve un altro vicino. Minot-to, col suo muso gonfio e nero e coi piccoli occhi mali-ziosi; mise tra i due il testone impolverato, gridando: –Si sta bene all’ombra? – Regina scappò via.

Vagamente si udirono i paesi sonar mezzogiorno. Lagente e la macchina, però, non diedero segno d’accor-gersene: prima di mangiare si doveva aver trebbiatol’ultimo covone. Cresceva il monte della paglia, cresce-vano le file dei sacchi posati in piedi contro il muro delportico, e sempre la trebbiatrice ingoiava messe, lo stan-tuffo andava fulmineo avanti e indietro, la cinghia ditrasmissione oscillando scorreva, dentro l’aria, fragoro-sa e calda, sotto il sole abbagliante. Graziano salí a cola-zione poi ridiscese con un libro da leggere al fresco, ma

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non poté stare molto tempo lontano da quel lavorío.Quando l’ultima bracciata fu scomparsa nel pozzo, ilmacchinista, fermata la macchina, s’attaccò al fischio, ilquale fece sapere a tutta la campagna, sibilando a lungo,che il grano dell’Amistà era trebbiato. Dopo, il silenzioparve strano, come se non potesse durare; di nuovo eb-bero importanza i voli delle rondini. Per il pranzo aquanti avevan lavorato, la mensa era preparata con assee cavalletti sotto il portico, e dalla cucina giungeval’odore dei galletti e dei conigli cotti nelle salse aromati-che: già le donne accomodavano le tagliatelle nei piattigrandi come catini. Gli uomini corsero a lavarsinell’abbeveratoio accanto alla porta di stalla. Mentre poila pappata era al principio, attraversò il cortile Claudiacon Gabriella, ed intorno alla gran tavola si levò un corodi voci a salutar la signora e farle inviti cordiali.

L’indomani sull’aia splendeva il pagliaio nuovo e gliuomini gettavano il frumento all’aria per pulirlo, unapalata dopo l’altra; ma il luogo era tranquillo. Era unavecchia casa di campagna, messa sopra un colle in mez-zo ad una valle non grande, con un bel podere a praticampi vigne boschi. Sul cielo si profilava Luvo, distesoin cresta d’una collina piú alta. All’Amistà Claudia ave-va passate tutte le vacanze prima di sposarsi, orfanellache i ricchi cugini Gallant ritiravano dal collegio. Den-tro la casa, tutta divertente e modesta, fatta di stanzette esale con l’ammattonato, durava sempre quel tempo edanche l’altro piú remoto nel quale la villa era nata. So-pra le pareti sempre quegli affreschi sempliciotti con la-

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non poté stare molto tempo lontano da quel lavorío.Quando l’ultima bracciata fu scomparsa nel pozzo, ilmacchinista, fermata la macchina, s’attaccò al fischio, ilquale fece sapere a tutta la campagna, sibilando a lungo,che il grano dell’Amistà era trebbiato. Dopo, il silenzioparve strano, come se non potesse durare; di nuovo eb-bero importanza i voli delle rondini. Per il pranzo aquanti avevan lavorato, la mensa era preparata con assee cavalletti sotto il portico, e dalla cucina giungeval’odore dei galletti e dei conigli cotti nelle salse aromati-che: già le donne accomodavano le tagliatelle nei piattigrandi come catini. Gli uomini corsero a lavarsinell’abbeveratoio accanto alla porta di stalla. Mentre poila pappata era al principio, attraversò il cortile Claudiacon Gabriella, ed intorno alla gran tavola si levò un corodi voci a salutar la signora e farle inviti cordiali.

L’indomani sull’aia splendeva il pagliaio nuovo e gliuomini gettavano il frumento all’aria per pulirlo, unapalata dopo l’altra; ma il luogo era tranquillo. Era unavecchia casa di campagna, messa sopra un colle in mez-zo ad una valle non grande, con un bel podere a praticampi vigne boschi. Sul cielo si profilava Luvo, distesoin cresta d’una collina piú alta. All’Amistà Claudia ave-va passate tutte le vacanze prima di sposarsi, orfanellache i ricchi cugini Gallant ritiravano dal collegio. Den-tro la casa, tutta divertente e modesta, fatta di stanzette esale con l’ammattonato, durava sempre quel tempo edanche l’altro piú remoto nel quale la villa era nata. So-pra le pareti sempre quegli affreschi sempliciotti con la-

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ghi e castelli, o le tappezzerie raffiguranti foreste verginipiene d’uccelli del paradiso; in ogni stanza i mobili conle ghirlande napoleoniche o le cetre; nei corridoi lestampe con le scene di «Paolo e Virginia», ingiallite sot-to il vetro; da cassetti ed armadi venivan fuori vesti dibisnonne, campanelli da tavola, scacchiere, almanacchi.Nomi incisi con la punta delle forbici si leggevano sullepietre dei davanzali, e sopra gli stipiti delle porte era se-gnata la statura di ragazzi che adesso erano dei vecchiod erano già morti.

Casimiro Gallant, celibe, che viveva da solo a Reb-bia, essendosi deciso a fare qualche restauro dopo lungoabbandono, aveva poi offerta la casa ai Farra per la vil-leggiatura; questa era la seconda estate ch’essi vi tra-scorrevano. Ora la villa aveva le facciate ridipinte; da unlato guardava il giardino, dall’altro l’aia e la casa dei co-loni; ma molte bellezze gli anni le avevano guaste – gio-chi d’acqua, statue, pergolati – e nel rinnovamento era-no scomparse. Claudia godeva di trovarsi là insieme aifigli, ripensando se stessa, «la povera bambina tanto di-sgraziata»; e nel profilo di Luvo poteva vedere palazzoAndosio.

La sensazione che la campagna procurava sempre aGraziano era d’aver lasciato un mondo artificiale, tuttolisce pietre e linee geometriche e regole severe e gestiobbligati, per tornar ad una vita semplice e calda, inmezzo alla sincerità delle cose naturali, alla bellezzadelle opere in cui la terra e gli uomini mostravano un fe-lice accordo. Ma in nessuna vacanza non s’era mai sen-

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ghi e castelli, o le tappezzerie raffiguranti foreste verginipiene d’uccelli del paradiso; in ogni stanza i mobili conle ghirlande napoleoniche o le cetre; nei corridoi lestampe con le scene di «Paolo e Virginia», ingiallite sot-to il vetro; da cassetti ed armadi venivan fuori vesti dibisnonne, campanelli da tavola, scacchiere, almanacchi.Nomi incisi con la punta delle forbici si leggevano sullepietre dei davanzali, e sopra gli stipiti delle porte era se-gnata la statura di ragazzi che adesso erano dei vecchiod erano già morti.

Casimiro Gallant, celibe, che viveva da solo a Reb-bia, essendosi deciso a fare qualche restauro dopo lungoabbandono, aveva poi offerta la casa ai Farra per la vil-leggiatura; questa era la seconda estate ch’essi vi tra-scorrevano. Ora la villa aveva le facciate ridipinte; da unlato guardava il giardino, dall’altro l’aia e la casa dei co-loni; ma molte bellezze gli anni le avevano guaste – gio-chi d’acqua, statue, pergolati – e nel rinnovamento era-no scomparse. Claudia godeva di trovarsi là insieme aifigli, ripensando se stessa, «la povera bambina tanto di-sgraziata»; e nel profilo di Luvo poteva vedere palazzoAndosio.

La sensazione che la campagna procurava sempre aGraziano era d’aver lasciato un mondo artificiale, tuttolisce pietre e linee geometriche e regole severe e gestiobbligati, per tornar ad una vita semplice e calda, inmezzo alla sincerità delle cose naturali, alla bellezzadelle opere in cui la terra e gli uomini mostravano un fe-lice accordo. Ma in nessuna vacanza non s’era mai sen-

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tito l’animo cosí chiaro e vibrante come ora. Avevaquindici anni; terminato il ginnasio, aveva lasciati persempre i maestri in veste nera e le lucide loro scuole; inautunno sarebbe andato al liceo governativo. Le terredell’Amistà erano vaste, piene di cose da scoprire, edegli viveva le sue giornate all’aperto. Sul filo della colli-na il podere aveva due boschi, l’uno in alto, l’altro piúin basso, secondo l’inclinazione di quella cresta; nel pri-mo era uno stagno grande circondato di vecchi pioppi,dove giravano sornione le tinche ed i pesci rossi scioc-camente venivano ad annusar le foglie cadutesull’acqua; l’altro bosco aveva una montagnola con uncerchio d’olmi in cima. Prati e campi sembravano im-mensi. Dovunque alberi da frutto; un fico sporgeva irami carichi sopra la terrazza di casa; nel giardino gran-di larici agitavano fronde solenni e gli oleandri ridevanorossi e bianchi; tutto pareva esistere solamente per la fe-licità degli ospiti. La valle finiva in un burrone che sifingeva selvatico e non era. Piaceva a Graziano guardarle cose anche attraverso la scienza imparata: cercava neiprati piante descritte nel trattato di botanica; aprendosiun passaggio tra l’alte fragili erbe del burrone umido,cercava sulle pareti di tufo le strisce degli strati geologi-ci, contento di riscontrare la verità di ciò che aveva stu-diato. Tutto era egualmente certo, nel mondo, facile daconoscere; e ciò che sapeva, gli sarebbe poi servito ma-gnificamente. Ma amava le cose anche perché erano bel-le e perché vi sentiva significati misteriosi: nei fossatelliove scendeva un filo d’acqua, come nelle enormi zucche

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tito l’animo cosí chiaro e vibrante come ora. Avevaquindici anni; terminato il ginnasio, aveva lasciati persempre i maestri in veste nera e le lucide loro scuole; inautunno sarebbe andato al liceo governativo. Le terredell’Amistà erano vaste, piene di cose da scoprire, edegli viveva le sue giornate all’aperto. Sul filo della colli-na il podere aveva due boschi, l’uno in alto, l’altro piúin basso, secondo l’inclinazione di quella cresta; nel pri-mo era uno stagno grande circondato di vecchi pioppi,dove giravano sornione le tinche ed i pesci rossi scioc-camente venivano ad annusar le foglie cadutesull’acqua; l’altro bosco aveva una montagnola con uncerchio d’olmi in cima. Prati e campi sembravano im-mensi. Dovunque alberi da frutto; un fico sporgeva irami carichi sopra la terrazza di casa; nel giardino gran-di larici agitavano fronde solenni e gli oleandri ridevanorossi e bianchi; tutto pareva esistere solamente per la fe-licità degli ospiti. La valle finiva in un burrone che sifingeva selvatico e non era. Piaceva a Graziano guardarle cose anche attraverso la scienza imparata: cercava neiprati piante descritte nel trattato di botanica; aprendosiun passaggio tra l’alte fragili erbe del burrone umido,cercava sulle pareti di tufo le strisce degli strati geologi-ci, contento di riscontrare la verità di ciò che aveva stu-diato. Tutto era egualmente certo, nel mondo, facile daconoscere; e ciò che sapeva, gli sarebbe poi servito ma-gnificamente. Ma amava le cose anche perché erano bel-le e perché vi sentiva significati misteriosi: nei fossatelliove scendeva un filo d’acqua, come nelle enormi zucche

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tonde dell’orto che poi si vedevano sventrate in casa deicoloni. Amava stare coricato tra le piante del bosco agoderne la compagnia; amava l’odor d’incenso che ave-vano le galle delle querce, il cielo visto tra le vette fre-sche, ch’era un cielo diverso.

Dei mezzadri, il cui nome era Crivelli, si vedevanosempre al lavoro il vecchio Urbano, bifolco, ed il nipoteGiusto. Lavoravano talvolta insieme, ma piú spesso lozio, con la gran barba piuttosto gialla che bianca, a lun-ghi passi tracciava i solchi dietro la mole ondeggiantedei bovi che qualcuna delle ragazze tirava per una pic-cola corda. Dove si udivano le voci dell’aratore o i colpisordi delle zappe nella terra, sempre giungeva Graziano;si portava una zappa ed anch’egli lavorava, fin che eraspossato e gli pareva che tutto il sole, tutta l’aria dellacampagna divenissero vita nelle sue vene. Era in simpa-tia con ciò che gli stava intorno; pensava che la terra eraegualmente bella ovunque si potesse arrivare e che egliavrebbe sempre posseduta quella bellezza.

In una stanza della villa, appartata e tenuta buia per-ché non serviva, c’era sopra un cassettone una vetrinapiena di libri. Il giorno della scoperta il ragazzo avevaletti con emozione nomi e titoli; la sua impressione erastata d’aver messe le mani sopra una ricchezza abbando-nata. Amava quei volumi anche come oggetti: collezionidi classici stampate nella prima metà del secolo, rilegatecon belle costole di pelle rossa o verde o nera, con ritrat-ti fantastici degli autori e odor d’antico tra le pagine.Era lettura, era sogno il tempo ch’egli passava in riva

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tonde dell’orto che poi si vedevano sventrate in casa deicoloni. Amava stare coricato tra le piante del bosco agoderne la compagnia; amava l’odor d’incenso che ave-vano le galle delle querce, il cielo visto tra le vette fre-sche, ch’era un cielo diverso.

Dei mezzadri, il cui nome era Crivelli, si vedevanosempre al lavoro il vecchio Urbano, bifolco, ed il nipoteGiusto. Lavoravano talvolta insieme, ma piú spesso lozio, con la gran barba piuttosto gialla che bianca, a lun-ghi passi tracciava i solchi dietro la mole ondeggiantedei bovi che qualcuna delle ragazze tirava per una pic-cola corda. Dove si udivano le voci dell’aratore o i colpisordi delle zappe nella terra, sempre giungeva Graziano;si portava una zappa ed anch’egli lavorava, fin che eraspossato e gli pareva che tutto il sole, tutta l’aria dellacampagna divenissero vita nelle sue vene. Era in simpa-tia con ciò che gli stava intorno; pensava che la terra eraegualmente bella ovunque si potesse arrivare e che egliavrebbe sempre posseduta quella bellezza.

In una stanza della villa, appartata e tenuta buia per-ché non serviva, c’era sopra un cassettone una vetrinapiena di libri. Il giorno della scoperta il ragazzo avevaletti con emozione nomi e titoli; la sua impressione erastata d’aver messe le mani sopra una ricchezza abbando-nata. Amava quei volumi anche come oggetti: collezionidi classici stampate nella prima metà del secolo, rilegatecon belle costole di pelle rossa o verde o nera, con ritrat-ti fantastici degli autori e odor d’antico tra le pagine.Era lettura, era sogno il tempo ch’egli passava in riva

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allo stagno o sulla montagnola con uno di quei libri?Ora capiva meglio ciò che stava avvolto nelle parole,quel segreto, quell’incanto; ma spesso il suo spiritos’allontanava dalle pagine come portato dalle spired’una musica. E un desiderio profondo si faceva sentirein lui, di scrivere. Era anche una volontà. La vita, tuttele cose che si vedevano, erano cosí belle e piene d’inte-resse, che bisognava scriverle per impadronirsene piena-mente. Si accennava nella sua coscienza l’idea d’averqualcosa di comune con quegli autori, con gli uominimeravigliosi la cui esistenza s’era versata in opere im-mortali; di essere uno di loro; ma cosí vaga, ch’egli nonpoteva nemmeno capire quanto fosse bizzarra. In qual-che momento sentiva, come una realtà nascente dentrodi lui, ancora informe, la poesia che avrebbe espressa.Non era mai stato cosí contento. Aveva la sensazioneche il cielo il sole gli alberi le colline sapessero chi era ene fossero soddisfatti: avrebbe voluto accarezzare l’aria,parlar con gli alberi, baciare la terra.

Una mattina presto, per spartire il grano, giunse il cu-gino Casimiro. Aveva cinquant’anni passati ed era pic-colo, magro, brutto, molto cortese, con lunghi baffi benlisciati. Guidava un carrozzino a due posti tirato da unanziano cavallo di lusso; vestiva da cacciatore, con alteuose; aveva accanto il fucile ed un ragazzetto palafre-niere in guanti e berretto da fantino. Dal tappeto del vei-colo balzaron su due grandi bellissimi cani, i qualiscambiarono latrati chiassosi col cane dei contadini. Daun pezzo i mezzadri, scendendo in città, sollecitavano il

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allo stagno o sulla montagnola con uno di quei libri?Ora capiva meglio ciò che stava avvolto nelle parole,quel segreto, quell’incanto; ma spesso il suo spiritos’allontanava dalle pagine come portato dalle spired’una musica. E un desiderio profondo si faceva sentirein lui, di scrivere. Era anche una volontà. La vita, tuttele cose che si vedevano, erano cosí belle e piene d’inte-resse, che bisognava scriverle per impadronirsene piena-mente. Si accennava nella sua coscienza l’idea d’averqualcosa di comune con quegli autori, con gli uominimeravigliosi la cui esistenza s’era versata in opere im-mortali; di essere uno di loro; ma cosí vaga, ch’egli nonpoteva nemmeno capire quanto fosse bizzarra. In qual-che momento sentiva, come una realtà nascente dentrodi lui, ancora informe, la poesia che avrebbe espressa.Non era mai stato cosí contento. Aveva la sensazioneche il cielo il sole gli alberi le colline sapessero chi era ene fossero soddisfatti: avrebbe voluto accarezzare l’aria,parlar con gli alberi, baciare la terra.

Una mattina presto, per spartire il grano, giunse il cu-gino Casimiro. Aveva cinquant’anni passati ed era pic-colo, magro, brutto, molto cortese, con lunghi baffi benlisciati. Guidava un carrozzino a due posti tirato da unanziano cavallo di lusso; vestiva da cacciatore, con alteuose; aveva accanto il fucile ed un ragazzetto palafre-niere in guanti e berretto da fantino. Dal tappeto del vei-colo balzaron su due grandi bellissimi cani, i qualiscambiarono latrati chiassosi col cane dei contadini. Daun pezzo i mezzadri, scendendo in città, sollecitavano il

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padrone a far la divisione; egli non trovava mai il tem-po.

— Dove le avete levate, le pernici? – domandò, e su-bito se ne andò in giro col ragazzetto che portava il car-niere e fischiava ai cani sguinzagliati. La caccia eranell’annata la sua attività principale, però non trovavamolto tempo nemmeno per questa. Quando gli avvocatied i possidenti della piccola città combinavano le partiteche servivan di pretesto soprattutto a copiose e magi-strali imbandigioni, sovente Casimiro si scusava all’ulti-mo istante. Era sempre occupato in singolari faccende.Nella sua comoda abitazione di Rebbia aveva accantoalla camera da letto una specie di laboratorio dove ese-guiva lavori minuziosi e perfetti accomodando quanto vifosse d’accomodabile nella sua casa ed in quelle degliamici; la sera, spesso, si ritrovava ancora in pantofolecon la barba da fare. L’amore della perfezione era unsuo malanno: studiava nei manuali i metodi di coltivaree quelli di fare il vino, ma non gli riusciva nessun espe-rimento; i suoi cani dovevano essere i migliori dellaprovincia, i fucili erano i piú costosi; sulla scelta dellepolveri e del piombo sosteneva al caffè lunghe discus-sioni. Il suo affannarsi per un genere di cose o per l’altroavveniva sempre ad estri, non durava. Nel circolo dei si-gnori scoppiavano ad intervalli febbri contagiose di gio-co d’azzardo: Casimiro vi aveva lasciate assai penne.Ma la parte maggiore della giornata svaniva nei sonnich’egli faceva sopra i sofà e le poltrone dell’apparta-mento. Con tutto ciò era sempre il rappresentante d’una

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padrone a far la divisione; egli non trovava mai il tem-po.

— Dove le avete levate, le pernici? – domandò, e su-bito se ne andò in giro col ragazzetto che portava il car-niere e fischiava ai cani sguinzagliati. La caccia eranell’annata la sua attività principale, però non trovavamolto tempo nemmeno per questa. Quando gli avvocatied i possidenti della piccola città combinavano le partiteche servivan di pretesto soprattutto a copiose e magi-strali imbandigioni, sovente Casimiro si scusava all’ulti-mo istante. Era sempre occupato in singolari faccende.Nella sua comoda abitazione di Rebbia aveva accantoalla camera da letto una specie di laboratorio dove ese-guiva lavori minuziosi e perfetti accomodando quanto vifosse d’accomodabile nella sua casa ed in quelle degliamici; la sera, spesso, si ritrovava ancora in pantofolecon la barba da fare. L’amore della perfezione era unsuo malanno: studiava nei manuali i metodi di coltivaree quelli di fare il vino, ma non gli riusciva nessun espe-rimento; i suoi cani dovevano essere i migliori dellaprovincia, i fucili erano i piú costosi; sulla scelta dellepolveri e del piombo sosteneva al caffè lunghe discus-sioni. Il suo affannarsi per un genere di cose o per l’altroavveniva sempre ad estri, non durava. Nel circolo dei si-gnori scoppiavano ad intervalli febbri contagiose di gio-co d’azzardo: Casimiro vi aveva lasciate assai penne.Ma la parte maggiore della giornata svaniva nei sonnich’egli faceva sopra i sofà e le poltrone dell’apparta-mento. Con tutto ciò era sempre il rappresentante d’una

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delle prime famiglie del luogo; godeva ancora il riflessodella grandezza di suo padre, il quale era stato un sinda-co pieno di generosità e di fantasia.

Per la colazione si fece molto attendere ma tornò condue pernici. A tavola uno degli argomenti della conver-sazione fu il vecchio Farra. – Non lo vede nessuno, – di-ceva il cugino. – Non è piú d’accordo con nessuno. Inpolitica non c’è uomo in tutta la città che da lui sia sti-mato. Nel suo giornale esprime se stesso. E chi è? Qualiprincipii rappresenta? Il «liberalismo storico» dice.Combatte i socialisti ma non vuole alleanze coi cattolici.Spreca molto denaro, nel giornale. Avrebbe dovuto ven-dere ogni cosa quando c’era chi comprava; smettere difar lo stampatore ed il libraio! Adesso ha l’ipoteca sullacasa; col prestito che gli è stato concesso dalla banca, lotengono nelle loro mani. È questione di tempo. Perché siostina? Tutto il giorno sta chiuso nel cosí detto ufficio.È la maniera di vivere?

Mentre il cugino ne parlava, con un tono dispettoso incui si sentiva un disprezzo per la bottega e la stamperia,Graziano ricordava il nonno come l’aveva visto durantela visita che di recente gli aveva fatta passando a Reb-bia. Dalla porticina della stamperia il vecchio gli avevamostrato che dalla macchina usciva sempre quel suo fo-glio. «Tacere? Non possumus». Ma gli era parso impa-ziente d’esser lasciato solo.

Quando sull’aia vi fu ombra abbastanza, Casimiroscese a fare la spartizione. I coloni versavano dai sacchinello staio; egli stando in piedi col cappello un poco di

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delle prime famiglie del luogo; godeva ancora il riflessodella grandezza di suo padre, il quale era stato un sinda-co pieno di generosità e di fantasia.

Per la colazione si fece molto attendere ma tornò condue pernici. A tavola uno degli argomenti della conver-sazione fu il vecchio Farra. – Non lo vede nessuno, – di-ceva il cugino. – Non è piú d’accordo con nessuno. Inpolitica non c’è uomo in tutta la città che da lui sia sti-mato. Nel suo giornale esprime se stesso. E chi è? Qualiprincipii rappresenta? Il «liberalismo storico» dice.Combatte i socialisti ma non vuole alleanze coi cattolici.Spreca molto denaro, nel giornale. Avrebbe dovuto ven-dere ogni cosa quando c’era chi comprava; smettere difar lo stampatore ed il libraio! Adesso ha l’ipoteca sullacasa; col prestito che gli è stato concesso dalla banca, lotengono nelle loro mani. È questione di tempo. Perché siostina? Tutto il giorno sta chiuso nel cosí detto ufficio.È la maniera di vivere?

Mentre il cugino ne parlava, con un tono dispettoso incui si sentiva un disprezzo per la bottega e la stamperia,Graziano ricordava il nonno come l’aveva visto durantela visita che di recente gli aveva fatta passando a Reb-bia. Dalla porticina della stamperia il vecchio gli avevamostrato che dalla macchina usciva sempre quel suo fo-glio. «Tacere? Non possumus». Ma gli era parso impa-ziente d’esser lasciato solo.

Quando sull’aia vi fu ombra abbastanza, Casimiroscese a fare la spartizione. I coloni versavano dai sacchinello staio; egli stando in piedi col cappello un poco di

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traverso e con un lungo sigaro in bocca, dava un colpodi rastrello ad assestare il grano e poi un altro a radere lamisura, fiero della destrezza con la quale operava. Alsecondo figlio dei mezzadri, Giusto, mostrò che uno deisacchi aveva un buco, donde il grano usciva.

— Sarà stato un topo – disse il giovine, e si grattòsorridendo.

— No, – replicò serio il padrone – sono le tue sorelleche temono di guastarsi le mani a cucire la tela grossa.Ma non c’è da ridere e non sta bene grattarsi. – Finita ladivisione, risalí nel carrozzino, tra l’abbaiare contentodei suoi cani che uno dopo l’altro vi saltarono. Si udípoi a lungo per la discesa lo stridore delle ruote frenate.

Graziano s’era accorto che Giusto, del rimprovero ri-cevuto in presenza di tutti, era rimasto offeso ed avevacontinuato a lavorare col broncio. Guardò nell’aia, nonlo vide piú. Andò a cercar fuori, dove fosse; girò al-quanto, fin che sentí la sua voce, sola nello spazio tran-quillo. Tagliando canne in fondo ad un prato il giovinecantava, piú forte che potesse, la storia di un anarchicogiustiziato in Francia quell’anno, che nessuno dei suoigli lasciava mai cantare.

«Disse al carnefice:— Non mi toccar!La ghigliottinavoglio guardar».

* * *

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traverso e con un lungo sigaro in bocca, dava un colpodi rastrello ad assestare il grano e poi un altro a radere lamisura, fiero della destrezza con la quale operava. Alsecondo figlio dei mezzadri, Giusto, mostrò che uno deisacchi aveva un buco, donde il grano usciva.

— Sarà stato un topo – disse il giovine, e si grattòsorridendo.

— No, – replicò serio il padrone – sono le tue sorelleche temono di guastarsi le mani a cucire la tela grossa.Ma non c’è da ridere e non sta bene grattarsi. – Finita ladivisione, risalí nel carrozzino, tra l’abbaiare contentodei suoi cani che uno dopo l’altro vi saltarono. Si udípoi a lungo per la discesa lo stridore delle ruote frenate.

Graziano s’era accorto che Giusto, del rimprovero ri-cevuto in presenza di tutti, era rimasto offeso ed avevacontinuato a lavorare col broncio. Guardò nell’aia, nonlo vide piú. Andò a cercar fuori, dove fosse; girò al-quanto, fin che sentí la sua voce, sola nello spazio tran-quillo. Tagliando canne in fondo ad un prato il giovinecantava, piú forte che potesse, la storia di un anarchicogiustiziato in Francia quell’anno, che nessuno dei suoigli lasciava mai cantare.

«Disse al carnefice:— Non mi toccar!La ghigliottinavoglio guardar».

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La famiglia Crivelli, che aveva migliorata grande-mente l’Amistà, la amava come terra sua, e forse nonpensava piú che non fosse sua. Urbano e Cleto, fratelli,vi erano dal tempo in cui, per cercare collocamento piúredditizio nella regione delle vigne, avevan lasciata lapianura dov’erano nati, non tanto lontana, della qualeessi parlavano come d’un’altra parte del mondo. Il lorovecchissimo padre, inabile al lavoro, non aveva volutoabbandonarla, era entrato in un piccolo ospizio e là erapoi morto. Sulle colline Cleto era venuto con la mogliee tre figli; tre altri erano nati qui. Un buon podere; maerano sempre senza denaro, nemmeno al tempo dei rac-colti non riuscivano a liberarsi dai debiti contratti coibottegai di Luvo e della città. Perché Casimiro Gallantnon aggiustava mai le partite; con infinita pena gli sistrappava qualche acconto. Succedeva che Cleto nonpotesse pagare i giornalieri ed alla domenica gli man-cassero quei pochi soldi da dare ai figli; pure, col padro-ne andavano innanzi all’amichevole, al sistema avevanofatta l’abitudine. Marta, la massaia, si confidava con lasignora Farra perdendosi in lunghe lamentazioni che lestavano bene a viso avendo ella un’espressione di Ma-donna Addolorata. Brava gente, onesta e poco curantedell’interesse. Cleto non voleva pensare ai fastidi; scher-zava sopra tutte le cose con una punta d’ironia benigna.«Proviamo un po’» aveva per intercalare. Il suo pensie-ro era che bene o male si viveva, anzi bene, insomma.Se era chiamato arbitro in una questione o se andava acomprare vendere bestie in città si ubbriacava un poco;

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La famiglia Crivelli, che aveva migliorata grande-mente l’Amistà, la amava come terra sua, e forse nonpensava piú che non fosse sua. Urbano e Cleto, fratelli,vi erano dal tempo in cui, per cercare collocamento piúredditizio nella regione delle vigne, avevan lasciata lapianura dov’erano nati, non tanto lontana, della qualeessi parlavano come d’un’altra parte del mondo. Il lorovecchissimo padre, inabile al lavoro, non aveva volutoabbandonarla, era entrato in un piccolo ospizio e là erapoi morto. Sulle colline Cleto era venuto con la mogliee tre figli; tre altri erano nati qui. Un buon podere; maerano sempre senza denaro, nemmeno al tempo dei rac-colti non riuscivano a liberarsi dai debiti contratti coibottegai di Luvo e della città. Perché Casimiro Gallantnon aggiustava mai le partite; con infinita pena gli sistrappava qualche acconto. Succedeva che Cleto nonpotesse pagare i giornalieri ed alla domenica gli man-cassero quei pochi soldi da dare ai figli; pure, col padro-ne andavano innanzi all’amichevole, al sistema avevanofatta l’abitudine. Marta, la massaia, si confidava con lasignora Farra perdendosi in lunghe lamentazioni che lestavano bene a viso avendo ella un’espressione di Ma-donna Addolorata. Brava gente, onesta e poco curantedell’interesse. Cleto non voleva pensare ai fastidi; scher-zava sopra tutte le cose con una punta d’ironia benigna.«Proviamo un po’» aveva per intercalare. Il suo pensie-ro era che bene o male si viveva, anzi bene, insomma.Se era chiamato arbitro in una questione o se andava acomprare vendere bestie in città si ubbriacava un poco;

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ed allora non rincasava che a buio, di nascosto raggiun-geva il suo letto, per non farsi vedere da nessuno. Nonancora vecchio, egli non faceva un gran lavoro, non vireggeva piú. Lavorava poco anche il maggiore dei figli,Dionisio, bel giovine alto, con lunghi baffi e viso nobile,ma pallido, senza fibra. Ad una strana malattia di cuiaveva sofferto anni prima, nessun medico del luogo nédell’ospedale di Rebbia aveva saputo dare un nome concertezza; lo avevano giudicato paralitico spacciato, edinvece era guarito ma gli era rimasta quella stanchezza,gli era soprattutto rimasta la persuasione di non poterpiú fare fatiche, un animo di malato. Era il preferito diMarta che lo viziava. Gli altri pensavano che ora eglifingesse per poltroneria.

Pure, le molte opere necessarie si compivano, le colti-vazioni dell’Amistà erano esemplari. Celibe, di alcunianni piú anziano di Cleto, Urbano viveva in casa comeun fratello minore, ma nei lavori comandava lui, era ilmaestro. La prima idea di chi lo vedeva, piú che d’unuomo era d’un albero, tanto la sua alta gagliarda perso-na, risecchita dall’età, appariva dura e resistente, tantola pelle del viso e delle mani somigliava alla cortecciadegli alberi. Andava sempre a passi lunghi e non stavamai a sedere; le rare volte che rideva, mostrava lunghidenti robusti; la sua bellezza era la barba di patriarca,ma durante la settimana vi faceva dei nodi, per scio-glierla soltanto alla festa. Egli stabiliva il giorno di cia-scun lavoro, distribuiva le fatiche; teneva all’ordine icarri, gli attrezzi, sorvegliava tutti ed era il custode

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ed allora non rincasava che a buio, di nascosto raggiun-geva il suo letto, per non farsi vedere da nessuno. Nonancora vecchio, egli non faceva un gran lavoro, non vireggeva piú. Lavorava poco anche il maggiore dei figli,Dionisio, bel giovine alto, con lunghi baffi e viso nobile,ma pallido, senza fibra. Ad una strana malattia di cuiaveva sofferto anni prima, nessun medico del luogo nédell’ospedale di Rebbia aveva saputo dare un nome concertezza; lo avevano giudicato paralitico spacciato, edinvece era guarito ma gli era rimasta quella stanchezza,gli era soprattutto rimasta la persuasione di non poterpiú fare fatiche, un animo di malato. Era il preferito diMarta che lo viziava. Gli altri pensavano che ora eglifingesse per poltroneria.

Pure, le molte opere necessarie si compivano, le colti-vazioni dell’Amistà erano esemplari. Celibe, di alcunianni piú anziano di Cleto, Urbano viveva in casa comeun fratello minore, ma nei lavori comandava lui, era ilmaestro. La prima idea di chi lo vedeva, piú che d’unuomo era d’un albero, tanto la sua alta gagliarda perso-na, risecchita dall’età, appariva dura e resistente, tantola pelle del viso e delle mani somigliava alla cortecciadegli alberi. Andava sempre a passi lunghi e non stavamai a sedere; le rare volte che rideva, mostrava lunghidenti robusti; la sua bellezza era la barba di patriarca,ma durante la settimana vi faceva dei nodi, per scio-glierla soltanto alla festa. Egli stabiliva il giorno di cia-scun lavoro, distribuiva le fatiche; teneva all’ordine icarri, gli attrezzi, sorvegliava tutti ed era il custode

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d’ogni cosa. Compito suo particolare era il governo del-le bestie, con tutte le bisogne attinenti, portar il grano almolino, arare, condurre le vacche dove alla loro stagio-ne era necessario. Dei grandi e docili buoi, ed anche del-le vacche, mansuete o bizzarre, e dei vitelli ch’esse face-vano, mostrava un rispetto religioso: non chiedeva maipiú del lavoro o dell’utile che potevano dare, badavaprima alle bestie e poi a se stesso. Sovente, quando tor-nava col carro da Luvo o dalla città, mangiava tardi, dasolo, adagio, e ciò gli piaceva molto.

Il suo allievo migliore era Giusto. Non si dicevanomai niente se non per necessità, ma sapevano la stimache l’uno aveva dell’altro. Delle ragazze il vecchio bi-folco era il tiranno; voleva trattarle come maschi; a mi-sura che crescevano, si mostrava piú aspro, strapazzaval’istinto femmineo che le volgeva alla vanità e che le al-lontanava dalle fatiche grosse. Per il cortile, sotto il por-tico della casa colonica si trovavano sempre sparse cosedi Urbano, formidabili scarpe, cappelli modellati dallungo uso, il suo pungolo di frassino con l’impugnaturalucidata dalla mano. Anche se non si vedeva quella granpersona e non si udiva la voce potente che stimolava ibuoi, la sua presenza all’Amistà si sentiva sempre. Per ilsuo lavorare egli riceveva solamente abiti, cibo, qualchesoldo da comprar il tabacco da masticare. Non chiedevamai niente. Era contento, andando attorno, di sentirsi lo-dare la bella barba, e gli piaceva il posto distinto cheaveva nelle processioni; ma di queste debolezze umanesi rimproverava. Il luogo perfetto della sua esistenza, il

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d’ogni cosa. Compito suo particolare era il governo del-le bestie, con tutte le bisogne attinenti, portar il grano almolino, arare, condurre le vacche dove alla loro stagio-ne era necessario. Dei grandi e docili buoi, ed anche del-le vacche, mansuete o bizzarre, e dei vitelli ch’esse face-vano, mostrava un rispetto religioso: non chiedeva maipiú del lavoro o dell’utile che potevano dare, badavaprima alle bestie e poi a se stesso. Sovente, quando tor-nava col carro da Luvo o dalla città, mangiava tardi, dasolo, adagio, e ciò gli piaceva molto.

Il suo allievo migliore era Giusto. Non si dicevanomai niente se non per necessità, ma sapevano la stimache l’uno aveva dell’altro. Delle ragazze il vecchio bi-folco era il tiranno; voleva trattarle come maschi; a mi-sura che crescevano, si mostrava piú aspro, strapazzaval’istinto femmineo che le volgeva alla vanità e che le al-lontanava dalle fatiche grosse. Per il cortile, sotto il por-tico della casa colonica si trovavano sempre sparse cosedi Urbano, formidabili scarpe, cappelli modellati dallungo uso, il suo pungolo di frassino con l’impugnaturalucidata dalla mano. Anche se non si vedeva quella granpersona e non si udiva la voce potente che stimolava ibuoi, la sua presenza all’Amistà si sentiva sempre. Per ilsuo lavorare egli riceveva solamente abiti, cibo, qualchesoldo da comprar il tabacco da masticare. Non chiedevamai niente. Era contento, andando attorno, di sentirsi lo-dare la bella barba, e gli piaceva il posto distinto cheaveva nelle processioni; ma di queste debolezze umanesi rimproverava. Il luogo perfetto della sua esistenza, il

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suo possedimento era lo stanzino ove dormiva. C’era unsaccone ed una sedia; i muri eran tappezzati d’immaginisacre a colori, tra le quali una grande oleografia in cuierano raffigurati, con un numero sopra il capo e colnome di ciascuno in un elenco, tutti i pontefici da SanPietro in poi. Otto di loro avevano portato il nome diUrbano, come lui. Lo stanzino era in fondo al portico;oltre l’ingresso non aveva altra apertura che una strettafinestra, la quale guardava un ripido prato: il vecchiopensava che era la sua cella. Vi teneva sopra un’assemolti libri religiosi, storie di martiri e di santi.

Tutta la vita l’aveva trascorsa sulla terra coltivata,fuorché gli anni in cui era stato soldato in una Sicilia ri-mastagli in mente come un paese favoloso; era poi sem-pre vissuto insieme alla famiglia del fratello. Parlava dirado del proprio passato; del resto, non parlava quasimai di se stesso; nessuno l’aveva mai inteso dire: «Hofame, ho sete, sono stanco»; mai protestava contro ilfreddo o il caldo o il maltempo. Mangiasse solo oppurecon gli altri, anche quando il pasto si consumava incampagna, prima recitava il Benedicite stando in piedi,alto e rigido. Sul lavoro gli accadeva però di lasciarsitrasportare dalla collera, di strepitare; dominandosi chi-nava la barba sul petto con aria pentito. Ogni ritaglio ditempo lo impiegava in quei lavori ch’erano tanto neces-sari e che nessun altro sapeva o voleva fare, come rimet-ter pioli ad una scala, accomodare le museruole deibovi. Chi passava di notte per la strada sotto l’Amistàgià immersa nel sonno, vedeva qualche volta un po’ di

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suo possedimento era lo stanzino ove dormiva. C’era unsaccone ed una sedia; i muri eran tappezzati d’immaginisacre a colori, tra le quali una grande oleografia in cuierano raffigurati, con un numero sopra il capo e colnome di ciascuno in un elenco, tutti i pontefici da SanPietro in poi. Otto di loro avevano portato il nome diUrbano, come lui. Lo stanzino era in fondo al portico;oltre l’ingresso non aveva altra apertura che una strettafinestra, la quale guardava un ripido prato: il vecchiopensava che era la sua cella. Vi teneva sopra un’assemolti libri religiosi, storie di martiri e di santi.

Tutta la vita l’aveva trascorsa sulla terra coltivata,fuorché gli anni in cui era stato soldato in una Sicilia ri-mastagli in mente come un paese favoloso; era poi sem-pre vissuto insieme alla famiglia del fratello. Parlava dirado del proprio passato; del resto, non parlava quasimai di se stesso; nessuno l’aveva mai inteso dire: «Hofame, ho sete, sono stanco»; mai protestava contro ilfreddo o il caldo o il maltempo. Mangiasse solo oppurecon gli altri, anche quando il pasto si consumava incampagna, prima recitava il Benedicite stando in piedi,alto e rigido. Sul lavoro gli accadeva però di lasciarsitrasportare dalla collera, di strepitare; dominandosi chi-nava la barba sul petto con aria pentito. Ogni ritaglio ditempo lo impiegava in quei lavori ch’erano tanto neces-sari e che nessun altro sapeva o voleva fare, come rimet-ter pioli ad una scala, accomodare le museruole deibovi. Chi passava di notte per la strada sotto l’Amistàgià immersa nel sonno, vedeva qualche volta un po’ di

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lume nella sua finestrella: Urbano leggeva le vite deisanti. Una pace meravigliosa occupava allora l’animodel vecchio bifolco; egli si sentiva intorno l’onesta casae la campagna da lui lavorata, e nello stesso tempo eravicino al cielo dei santi, alla vita di Dio. Ma sempreaveva di tutte le cose un’idea semplice: lavorar la terra,guadagnarsi il paradiso. Cosí vedeva la propria esisten-za. Alla gente mostrava un’umiltà di vecchio peccatoreappena degno d’entrare in chiesa restando nelle ultimefile; anche davanti a se stesso si umiliava; pure, a volteaveva il pensiero di somigliare un poco ai santi e forsedi essere un santo.

Quasi ogni giorno alla tavola dei Crivelli, in quellacucina nera di fumo e lucente dalla quale si udivano nel-la stalla attigua i buoi soffiare, sedevano ospiti: qualchegiovine dei dintorni venuto ad aiutare nell’opere piúgravose. Saliva a dare un saluto chi capitava da quelleparti; la domenica uomini e donne tornanti dai vespri diLuvo venivano in visita; tutta gente povera, mezzadri opiccoli possidenti, ma di buon umore. Comparivanospesso il vicino Minotto dal viso gonfio e nero, innamo-rato di tutte le ragazze, un rozzo Taureno che faceva ilchirurgo dei cani per diletto, ed un ragazzo soprannomi-nato Lilibeo, figlio d’un contadino morto pazzo, chepassava da un podere all’altro parlando parlando parlan-do. Parecchi dei visitatori venivano anche per farsi leg-gere i giornali dati dai Farra.

La vita dell’Amistà aveva un colore vivace e nei din-torni se ne discorreva sempre. Quella piccola valle che

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lume nella sua finestrella: Urbano leggeva le vite deisanti. Una pace meravigliosa occupava allora l’animodel vecchio bifolco; egli si sentiva intorno l’onesta casae la campagna da lui lavorata, e nello stesso tempo eravicino al cielo dei santi, alla vita di Dio. Ma sempreaveva di tutte le cose un’idea semplice: lavorar la terra,guadagnarsi il paradiso. Cosí vedeva la propria esisten-za. Alla gente mostrava un’umiltà di vecchio peccatoreappena degno d’entrare in chiesa restando nelle ultimefile; anche davanti a se stesso si umiliava; pure, a volteaveva il pensiero di somigliare un poco ai santi e forsedi essere un santo.

Quasi ogni giorno alla tavola dei Crivelli, in quellacucina nera di fumo e lucente dalla quale si udivano nel-la stalla attigua i buoi soffiare, sedevano ospiti: qualchegiovine dei dintorni venuto ad aiutare nell’opere piúgravose. Saliva a dare un saluto chi capitava da quelleparti; la domenica uomini e donne tornanti dai vespri diLuvo venivano in visita; tutta gente povera, mezzadri opiccoli possidenti, ma di buon umore. Comparivanospesso il vicino Minotto dal viso gonfio e nero, innamo-rato di tutte le ragazze, un rozzo Taureno che faceva ilchirurgo dei cani per diletto, ed un ragazzo soprannomi-nato Lilibeo, figlio d’un contadino morto pazzo, chepassava da un podere all’altro parlando parlando parlan-do. Parecchi dei visitatori venivano anche per farsi leg-gere i giornali dati dai Farra.

La vita dell’Amistà aveva un colore vivace e nei din-torni se ne discorreva sempre. Quella piccola valle che

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dava l’idea di un luogo privato, chiuso, con le terre i ca-sali le strade le borgate che si vedevano mandando ingiro lo sguardo, era qualcosa di unito e d’armonico. Ciòche vi accadeva, era una rustica rappresentazione a cuitutti prendevan parte. Sembrava grande come la mano;si udivano le chiese scampanare, i bambini piangere, ipiani meccanici e le bande sonare nei giorni delle feste;si conoscevano da lontano le voci delle persone; si sape-vano i fatti di ognuno. Cosí tutti sapevano che da Reb-bia un sensale di matrimoni era venuto a parlare ai geni-tori di Regina per un possidente ricco che la voleva. Co-stui risiedeva nella pianura presso la città; incontratauna volta la ragazza alla festa d’un santuario, se n’erainnamorato. Regina non aveva ancora diciott’anni.Quando a casa impastava le tagliatelle sulla madia, conle braccia fini e bianche scoperte, con quel sorriso unpo’ riservato, pareva sempre una signorina che facesseper capriccio; mentre sua sorella Fede, quindicenne, eraingombrante e rumorosa. Regina parlava poco ma avevail capo pieno di fantasie. Una grande occasione per unafiglia di poveri mezzadri quella richiesta. Si sapeva peròa chi pensava Regina. Nominavano Remo, quel giovanetanto bello che la domenica a Luvo tutte le donne guar-davano ma che era soltanto un servitore di campagna.Con Remo la ragazza aveva parlato raramente; insiemead amiche era stata qualche volta accompagnata da luiandando a messa; non aveva nemmeno mai ballato colvicino, essendo il ballo proibito in paese dal severissimoprete che sempre lo governava. Pure, essi sapevan bene

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dava l’idea di un luogo privato, chiuso, con le terre i ca-sali le strade le borgate che si vedevano mandando ingiro lo sguardo, era qualcosa di unito e d’armonico. Ciòche vi accadeva, era una rustica rappresentazione a cuitutti prendevan parte. Sembrava grande come la mano;si udivano le chiese scampanare, i bambini piangere, ipiani meccanici e le bande sonare nei giorni delle feste;si conoscevano da lontano le voci delle persone; si sape-vano i fatti di ognuno. Cosí tutti sapevano che da Reb-bia un sensale di matrimoni era venuto a parlare ai geni-tori di Regina per un possidente ricco che la voleva. Co-stui risiedeva nella pianura presso la città; incontratauna volta la ragazza alla festa d’un santuario, se n’erainnamorato. Regina non aveva ancora diciott’anni.Quando a casa impastava le tagliatelle sulla madia, conle braccia fini e bianche scoperte, con quel sorriso unpo’ riservato, pareva sempre una signorina che facesseper capriccio; mentre sua sorella Fede, quindicenne, eraingombrante e rumorosa. Regina parlava poco ma avevail capo pieno di fantasie. Una grande occasione per unafiglia di poveri mezzadri quella richiesta. Si sapeva peròa chi pensava Regina. Nominavano Remo, quel giovanetanto bello che la domenica a Luvo tutte le donne guar-davano ma che era soltanto un servitore di campagna.Con Remo la ragazza aveva parlato raramente; insiemead amiche era stata qualche volta accompagnata da luiandando a messa; non aveva nemmeno mai ballato colvicino, essendo il ballo proibito in paese dal severissimoprete che sempre lo governava. Pure, essi sapevan bene

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di amarsi. Della proposta del ricco nessuno in famigliadiscorreva mai con Regina; soltanto la madre gliene fa-ceva parola, dicendo: – Pensa che ha della terra! – Unadomenica il pretendente venne. Era un uomo grassoccio,timido, vestito di nero, che entrò nel cortile asciugandoil cuoio del cappello bagnato di sudore e mostrando lafronte già troppo alta. Giusto non era ben disposto versoquel possidente che voleva sposare la sua sorella senzanulla: se ne andò in campagna per non conoscerlo.

A causa del poco lavoro che facevano Cleto ed il fi-glio Dionisio, quasi sempre vi era nel podere qualchebracciante avventizio. Sempre i medesimi individuistrambi che campavano passando da un podere all’altroe facendo nell’annata il giro della regione. Veniva Fran-zino, buon diavolo di brutto ceffo, che parlava solamen-te alla festa, perché aveva bevuto, ed allora diceva tuttociò che aveva taciuto lungo la settimana. Si seguivano,talora a distanza di pochi giorni, Ciro e la Riccia, vecchifratelli ch’erano stati anch’essi mezzadri: la donna ave-va un gruzzolo, non si sapeva dove, e sfuggiva il fratelloper timore che volesse denaro. Bell’uomo e buon lavo-ratore era ancora Magallo, sebbene innanzi negli anni,persona amante dell’ordine la quale aveva la campagnaper guardaroba e lasciava capi di vestiario ed oggetti incustodia ove passava a lavorare. Magallo era stato sol-dato nella spedizione di Crimea, e dappertutto racconta-va sempre quel tempo grande della sua esistenza, comese ciò fosse il vero scopo del suo andar girando.

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di amarsi. Della proposta del ricco nessuno in famigliadiscorreva mai con Regina; soltanto la madre gliene fa-ceva parola, dicendo: – Pensa che ha della terra! – Unadomenica il pretendente venne. Era un uomo grassoccio,timido, vestito di nero, che entrò nel cortile asciugandoil cuoio del cappello bagnato di sudore e mostrando lafronte già troppo alta. Giusto non era ben disposto versoquel possidente che voleva sposare la sua sorella senzanulla: se ne andò in campagna per non conoscerlo.

A causa del poco lavoro che facevano Cleto ed il fi-glio Dionisio, quasi sempre vi era nel podere qualchebracciante avventizio. Sempre i medesimi individuistrambi che campavano passando da un podere all’altroe facendo nell’annata il giro della regione. Veniva Fran-zino, buon diavolo di brutto ceffo, che parlava solamen-te alla festa, perché aveva bevuto, ed allora diceva tuttociò che aveva taciuto lungo la settimana. Si seguivano,talora a distanza di pochi giorni, Ciro e la Riccia, vecchifratelli ch’erano stati anch’essi mezzadri: la donna ave-va un gruzzolo, non si sapeva dove, e sfuggiva il fratelloper timore che volesse denaro. Bell’uomo e buon lavo-ratore era ancora Magallo, sebbene innanzi negli anni,persona amante dell’ordine la quale aveva la campagnaper guardaroba e lasciava capi di vestiario ed oggetti incustodia ove passava a lavorare. Magallo era stato sol-dato nella spedizione di Crimea, e dappertutto racconta-va sempre quel tempo grande della sua esistenza, comese ciò fosse il vero scopo del suo andar girando.

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Inoltre l’Amistà vedeva ricomparire ad intervalli imercanti girovaghi ed i randagi quasi pazzi che riusciva-no a campare senza lavorare. Ogni giorno qualcuna diqueste figure si mostrava, tra l’abbaiar furioso del cane,all’ingresso del cortile; ogni notte il fienile dava ricove-ro a qualcuno. Con la gente vagabonda venivano le noti-zie di quanto succedeva oltre le colline; anche delle col-tivazioni e dei raccolti. Una franca allegria entrava nelportone con Ghianda, il piú contento straccione che bat-tesse le strade: costui s’era mangiato quanto possedeva,e girava a piedi nudi nella medesima regione dov’erastato padrone di poderi, sempre scotendo l’aria con lar-ghe risate.

A Graziano l’Amistà piaceva tutta. Ma di tante perso-ne una sola aveva con lui vera confidenza. Giusto. Que-sto tarchiato ragazzo aveva già baffi grossi, barba cosífitta e nera che alla festa, rasato, pareva un altro conquella pelle biancazzurra intorno al viso. Il carattere del-la sua testa, rotonda, dura, dalla mandibola un poco pro-minente, coi capelli tagliati corti, era di cocciuto conta-dino. La domenica si metteva il vestito buono, al collo ilfazzoletto di seta, orologio e catena, e andava a Luvo,alle borgate. A volte lo si vedeva presto di ritorno, per-ché preso dalla noia o perché non aveva soldi da stare incompagnia. Nei giorni feriali non aveva indosso che cal-zoni rotti, una camicia aperta sul petto, zoccoli o scar-pacce non allacciate. Talora prendeva lo schioppo cheserviva a custodir le vigne quando l’uva era matura, escappava nei boschi; ma non pigliava che piccolissimi

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Inoltre l’Amistà vedeva ricomparire ad intervalli imercanti girovaghi ed i randagi quasi pazzi che riusciva-no a campare senza lavorare. Ogni giorno qualcuna diqueste figure si mostrava, tra l’abbaiar furioso del cane,all’ingresso del cortile; ogni notte il fienile dava ricove-ro a qualcuno. Con la gente vagabonda venivano le noti-zie di quanto succedeva oltre le colline; anche delle col-tivazioni e dei raccolti. Una franca allegria entrava nelportone con Ghianda, il piú contento straccione che bat-tesse le strade: costui s’era mangiato quanto possedeva,e girava a piedi nudi nella medesima regione dov’erastato padrone di poderi, sempre scotendo l’aria con lar-ghe risate.

A Graziano l’Amistà piaceva tutta. Ma di tante perso-ne una sola aveva con lui vera confidenza. Giusto. Que-sto tarchiato ragazzo aveva già baffi grossi, barba cosífitta e nera che alla festa, rasato, pareva un altro conquella pelle biancazzurra intorno al viso. Il carattere del-la sua testa, rotonda, dura, dalla mandibola un poco pro-minente, coi capelli tagliati corti, era di cocciuto conta-dino. La domenica si metteva il vestito buono, al collo ilfazzoletto di seta, orologio e catena, e andava a Luvo,alle borgate. A volte lo si vedeva presto di ritorno, per-ché preso dalla noia o perché non aveva soldi da stare incompagnia. Nei giorni feriali non aveva indosso che cal-zoni rotti, una camicia aperta sul petto, zoccoli o scar-pacce non allacciate. Talora prendeva lo schioppo cheserviva a custodir le vigne quando l’uva era matura, escappava nei boschi; ma non pigliava che piccolissimi

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uccelli o le gazze di dura carne, che poi voleva farsi cu-cinare. All’infuori dei momenti di luna, nei quali appenarispondeva, il suo maggior piacere era discorrere conGraziano. Ai suoi occhi questi rappresentava «i signo-ri», la vita della città grande, e soprattutto quella impor-tante e fortunata condizione che era lo studiare.

La sera dopo cena sedevano insieme sopra un troncod’albero che serviva di panca nel viale d’accesso al po-dere; il contadino rivolgeva all’altro molte domande. Incima al vasto declivio dei prati e dei campi, guardandola collina scura di Luvo con pochi lumi e le grandi stelleestive, rimanevano finché la voce perentoria di Urbanochiamava il nipote e lo mandava al fienile dove in quellastagione dormiva. Giusto voleva talvolta sapere come simovono le stelle e che cos’era l’Impero romano; in altresere s’accontentava di sentir descrivere i tranvai elettricie le automobili che cominciavano a girare nelle grandicittà. Egli non era mai andato piú lontano che a Rebbia.

— Noi, poveri cavaterra, non vediamo niente, nonsappiamo niente. – Parlava del continuo «strapparsi ilcollo», del faticare tutta l’annata, come d’una condanna.Anche dell’inverno parlava: neve, notti lunghe, dormirecome marmotte. Ma ad ogni altro discorso preferivaquello riguardante Metello Farra, questo deputato socia-lista che poc’anzi, a Milano, era stato tra i capi d’unagrande insurrezione e poi non s’era lasciato prendere.Era vero che aveva potuto passar la frontiera? E che sa-rebbe tornato per il processo? Graziano rivedeva una

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uccelli o le gazze di dura carne, che poi voleva farsi cu-cinare. All’infuori dei momenti di luna, nei quali appenarispondeva, il suo maggior piacere era discorrere conGraziano. Ai suoi occhi questi rappresentava «i signo-ri», la vita della città grande, e soprattutto quella impor-tante e fortunata condizione che era lo studiare.

La sera dopo cena sedevano insieme sopra un troncod’albero che serviva di panca nel viale d’accesso al po-dere; il contadino rivolgeva all’altro molte domande. Incima al vasto declivio dei prati e dei campi, guardandola collina scura di Luvo con pochi lumi e le grandi stelleestive, rimanevano finché la voce perentoria di Urbanochiamava il nipote e lo mandava al fienile dove in quellastagione dormiva. Giusto voleva talvolta sapere come simovono le stelle e che cos’era l’Impero romano; in altresere s’accontentava di sentir descrivere i tranvai elettricie le automobili che cominciavano a girare nelle grandicittà. Egli non era mai andato piú lontano che a Rebbia.

— Noi, poveri cavaterra, non vediamo niente, nonsappiamo niente. – Parlava del continuo «strapparsi ilcollo», del faticare tutta l’annata, come d’una condanna.Anche dell’inverno parlava: neve, notti lunghe, dormirecome marmotte. Ma ad ogni altro discorso preferivaquello riguardante Metello Farra, questo deputato socia-lista che poc’anzi, a Milano, era stato tra i capi d’unagrande insurrezione e poi non s’era lasciato prendere.Era vero che aveva potuto passar la frontiera? E che sa-rebbe tornato per il processo? Graziano rivedeva una

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fronte accesa, col segno che da tempo portava, di uncolpo di frusta.

Alle persone della propria famiglia Giusto non facevaun sorriso; non accettava gesti d’affetto neanche dallamadre, come cose da fanciullo, prove d’animo debole.Tra lui ed il fratello pallido era una freddezza terribile:si passavano accanto, lavoravano insieme, mangiavanoalla stessa tavola, come senza vedersi. Del resto, lo stes-so Urbano parlava poco al nipote «malato», poco loguardava, giudicandolo tra sé un signore sbagliato, unuomo indegno di vivere sulla terra coltivata.

A Graziano l’amico Giusto sembrava completamentesolo, separato da tutto il mondo. In qualche momento diriposo il giovine contadino stava seduto in disparte, apensare, e guardava sopra le colline come un carceratoguarda sopra il muro della prigione.

* * *

Nel pesce appena tolto dal barattolo, che si dibattevacon scatti elastici, Graziano non aveva avuto il coraggiodi affondare la punta del temperino. «Cyprinus aura-tus»: tra quelli dello stagno uno dei piú grandi, roseocon macchie color ciliegia e coda a frange dorate. Loaveva lasciato in secco sul tavolino perché morisse, malo ritrovava sempre vivo. Il giorno dopo, finalmente, eraimmobile e la lama osò incidere il tenero ventre. Il ra-gazzo sapeva come si tiene il ferro anatomico. Questaoccupazione, poiché egli pensava che lo rendesse un

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fronte accesa, col segno che da tempo portava, di uncolpo di frusta.

Alle persone della propria famiglia Giusto non facevaun sorriso; non accettava gesti d’affetto neanche dallamadre, come cose da fanciullo, prove d’animo debole.Tra lui ed il fratello pallido era una freddezza terribile:si passavano accanto, lavoravano insieme, mangiavanoalla stessa tavola, come senza vedersi. Del resto, lo stes-so Urbano parlava poco al nipote «malato», poco loguardava, giudicandolo tra sé un signore sbagliato, unuomo indegno di vivere sulla terra coltivata.

A Graziano l’amico Giusto sembrava completamentesolo, separato da tutto il mondo. In qualche momento diriposo il giovine contadino stava seduto in disparte, apensare, e guardava sopra le colline come un carceratoguarda sopra il muro della prigione.

* * *

Nel pesce appena tolto dal barattolo, che si dibattevacon scatti elastici, Graziano non aveva avuto il coraggiodi affondare la punta del temperino. «Cyprinus aura-tus»: tra quelli dello stagno uno dei piú grandi, roseocon macchie color ciliegia e coda a frange dorate. Loaveva lasciato in secco sul tavolino perché morisse, malo ritrovava sempre vivo. Il giorno dopo, finalmente, eraimmobile e la lama osò incidere il tenero ventre. Il ra-gazzo sapeva come si tiene il ferro anatomico. Questaoccupazione, poiché egli pensava che lo rendesse un

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poco simile a suo padre, gli diede un senso d’orgoglio. Ivisceri semplici e puliti che tante volte aveva visto usci-re da ventri di pesci sotto le forbici d’una cuoca, ora liconfrontava con una figura del libro di zoologia: A, ilbulbo arteriale; B, la vescica natatoria; C, il fegato. Si ri-conoscevano bene. Anche la scienza era un modod’impadronirsi della realtà. Provava però un’impressio-ne strana, uno spiacevole sentimento, come se la veritàche aveva sott’occhio, quella materia organizzata, quellavoro della natura, fosse misero e brutto. E poi, s’eglinon l’avesse tolto, il pesce ora continuerebbe a girarnell’acqua tranquilla agitando le pinne come molli ven-tagli e mandando su bolle d’aria.

Dal giardino la madre lo chiamò con festosa fretta.Graziano scese di corsa. Era giunta una lettera da Jena,dove il padre era andato per un congresso sul tema dellatubercolosi. Scriveva brevemente ma con calore che larelazione da lui fatta in tedesco aveva avuto successo;che la traduzione tedesca del suo trattato era accolta conmolto favore; infine che aveva accettato per l’anno pros-simo l’invito a tenere un corso di lezioni dimostrativesul metodo Sparvieri, con la variante trovata da lui,nell’università di Berlino.

Il sole, già tanto bello, divenne ancora piú luminoso;l’aspetto delle cose familiari si fece ancora piú amiche-vole; tutto ciò che i sensi percepivano, era gioia e pro-messa di felicità. Sopra la busta della lettera i francobol-li ed i timbri stranieri dicevano: «È vostro tutto il mon-do». Claudia andò in cerca della bambina per dare la no-

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poco simile a suo padre, gli diede un senso d’orgoglio. Ivisceri semplici e puliti che tante volte aveva visto usci-re da ventri di pesci sotto le forbici d’una cuoca, ora liconfrontava con una figura del libro di zoologia: A, ilbulbo arteriale; B, la vescica natatoria; C, il fegato. Si ri-conoscevano bene. Anche la scienza era un modod’impadronirsi della realtà. Provava però un’impressio-ne strana, uno spiacevole sentimento, come se la veritàche aveva sott’occhio, quella materia organizzata, quellavoro della natura, fosse misero e brutto. E poi, s’eglinon l’avesse tolto, il pesce ora continuerebbe a girarnell’acqua tranquilla agitando le pinne come molli ven-tagli e mandando su bolle d’aria.

Dal giardino la madre lo chiamò con festosa fretta.Graziano scese di corsa. Era giunta una lettera da Jena,dove il padre era andato per un congresso sul tema dellatubercolosi. Scriveva brevemente ma con calore che larelazione da lui fatta in tedesco aveva avuto successo;che la traduzione tedesca del suo trattato era accolta conmolto favore; infine che aveva accettato per l’anno pros-simo l’invito a tenere un corso di lezioni dimostrativesul metodo Sparvieri, con la variante trovata da lui,nell’università di Berlino.

Il sole, già tanto bello, divenne ancora piú luminoso;l’aspetto delle cose familiari si fece ancora piú amiche-vole; tutto ciò che i sensi percepivano, era gioia e pro-messa di felicità. Sopra la busta della lettera i francobol-li ed i timbri stranieri dicevano: «È vostro tutto il mon-do». Claudia andò in cerca della bambina per dare la no-

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tizia anche a lei. Passando dal giardino nei prati, Grazia-no portò – cosí gli pareva – l’anima a godersi la festa.Ad un tratto si trovò in mente l’idea di mettersi subito ascrivere, per essere degno del padre e fare anch’egliqualchecosa. Si trovò pure il soggetto da trattare. Vede-va Ghianda, il randagio, piú bello forse che non era ve-ramente, disegnato con contorni ancora piú marcati econ piú teatrale fantasia. L’uomo di bronzo che ridendoandava a piedi nudi, testa nuda, petto scoperto, sotto ilsole d’agosto e nella neve, camminava attraverso la vitacome un estraneo. Perché? Che cosa lo faceva tanto di-verso dagli altri? Come si era liberato dai doveri, dallaservitú, dai dolori di tutti gli altri? Essi faticavano, ed alui non importava niente dei raccolti, del denaro, deigiorni che passavano. Mangiava la minestra degli altri,dormiva nell’ombra che gli altri non erano capaci di go-dere. Diceva poche parole e sempre le medesime, dondeveniva, dove sarebbe andato. Rideva, non faceva altroche ridere. Per ciò, forse, tutti lo vedevano volentieri, loamavano. E non era affatto un idiota. Anzi, la gente ave-va l’impressione ch’egli sapesse una cosa importanteignorata da tutti e che sempre vi pensasse. Ghianda, ilvagabondo bello come un dio un poco invecchiato, puli-to come ripuliscono la pioggia ed il sole. Nel suo lento econtinuo girare, un giorno capitava in uno dei poderich’erano stati suoi, rimasto tal quale; rideva, mangiavala minestra, tornava a ridere; ma non diceva una parola,nemmeno una. Per paura che là il segreto gli sfuggisse;perché gli altri non venissero a sapere ch’egli era

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tizia anche a lei. Passando dal giardino nei prati, Grazia-no portò – cosí gli pareva – l’anima a godersi la festa.Ad un tratto si trovò in mente l’idea di mettersi subito ascrivere, per essere degno del padre e fare anch’egliqualchecosa. Si trovò pure il soggetto da trattare. Vede-va Ghianda, il randagio, piú bello forse che non era ve-ramente, disegnato con contorni ancora piú marcati econ piú teatrale fantasia. L’uomo di bronzo che ridendoandava a piedi nudi, testa nuda, petto scoperto, sotto ilsole d’agosto e nella neve, camminava attraverso la vitacome un estraneo. Perché? Che cosa lo faceva tanto di-verso dagli altri? Come si era liberato dai doveri, dallaservitú, dai dolori di tutti gli altri? Essi faticavano, ed alui non importava niente dei raccolti, del denaro, deigiorni che passavano. Mangiava la minestra degli altri,dormiva nell’ombra che gli altri non erano capaci di go-dere. Diceva poche parole e sempre le medesime, dondeveniva, dove sarebbe andato. Rideva, non faceva altroche ridere. Per ciò, forse, tutti lo vedevano volentieri, loamavano. E non era affatto un idiota. Anzi, la gente ave-va l’impressione ch’egli sapesse una cosa importanteignorata da tutti e che sempre vi pensasse. Ghianda, ilvagabondo bello come un dio un poco invecchiato, puli-to come ripuliscono la pioggia ed il sole. Nel suo lento econtinuo girare, un giorno capitava in uno dei poderich’erano stati suoi, rimasto tal quale; rideva, mangiavala minestra, tornava a ridere; ma non diceva una parola,nemmeno una. Per paura che là il segreto gli sfuggisse;perché gli altri non venissero a sapere ch’egli era

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l’uomo felice. Nella immaginazione di Graziano tuttociò era perfettamente vivo, illuminato e sonoro. Nel rac-conto si sarebbe veduta la campagna intorno all’Amistà,con la vera gente che l’abitava. Quando tornò al suo ta-volino per incominciare senz’altro, vi trovò il pesce coivisceri fuori, del quale s’era dimenticato, e andò a but-tarlo sul letamaio.

Anche nel fare i componimenti di scuola aveva pro-vato, dinanzi alla carta bianca da riempire, un turbamen-to: un dividersi in due individui, l’uno che scrive el’altro che giudica e dissente; il senso d’una responsabi-lità, di un pericolo, del pericolo di tradire se stesso. Benpiú forte lo provava ora che non aveva alcun obbligo discrivere. Insomma, si diceva per farsi coraggio, non erache una prova. Il lavoro doveva avere proporzioni mo-deste, tuttavia gli usciva dalla penna adagio; ad ognipasso egli rifaceva, ed era sempre piú scontento, quasideluso di sé. Ciò che nella mente era tanto chiaro, vivo,e tanto bello, sulla carta si guastava. Quel felice strac-cione, la campagna, la vita, il mondo, ch’erano solidi,splendenti di verità, diventavano molli e falsi; e somi-gliavano a qualche cosa già scritta da altri, già stampata.Sotto la penna gli venivano parole come quelle usate neicomponimenti, espressioni dei classici che ora leggeva,ed anche altre lette chissà dove. Come c’entravano conGhianda, con le terre di Luvo? Guastavano il lavoro,mentre egli sapeva cosí bene come le cose erano, le ave-va davanti agli occhi. Un avvilimento. Poi, nel rileggere,il racconto gli pareva opera d’un altro: era uno specchio

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l’uomo felice. Nella immaginazione di Graziano tuttociò era perfettamente vivo, illuminato e sonoro. Nel rac-conto si sarebbe veduta la campagna intorno all’Amistà,con la vera gente che l’abitava. Quando tornò al suo ta-volino per incominciare senz’altro, vi trovò il pesce coivisceri fuori, del quale s’era dimenticato, e andò a but-tarlo sul letamaio.

Anche nel fare i componimenti di scuola aveva pro-vato, dinanzi alla carta bianca da riempire, un turbamen-to: un dividersi in due individui, l’uno che scrive el’altro che giudica e dissente; il senso d’una responsabi-lità, di un pericolo, del pericolo di tradire se stesso. Benpiú forte lo provava ora che non aveva alcun obbligo discrivere. Insomma, si diceva per farsi coraggio, non erache una prova. Il lavoro doveva avere proporzioni mo-deste, tuttavia gli usciva dalla penna adagio; ad ognipasso egli rifaceva, ed era sempre piú scontento, quasideluso di sé. Ciò che nella mente era tanto chiaro, vivo,e tanto bello, sulla carta si guastava. Quel felice strac-cione, la campagna, la vita, il mondo, ch’erano solidi,splendenti di verità, diventavano molli e falsi; e somi-gliavano a qualche cosa già scritta da altri, già stampata.Sotto la penna gli venivano parole come quelle usate neicomponimenti, espressioni dei classici che ora leggeva,ed anche altre lette chissà dove. Come c’entravano conGhianda, con le terre di Luvo? Guastavano il lavoro,mentre egli sapeva cosí bene come le cose erano, le ave-va davanti agli occhi. Un avvilimento. Poi, nel rileggere,il racconto gli pareva opera d’un altro: era uno specchio

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nel quale egli si trovava assai diverso da quel che crede-va d’essere.

Tuttavia, nelle pause, tornando alla vita solita, si sen-tiva piacevolmente cambiato, come se vedesse ancormeglio la bellezza delle cose; era in uno stato di leggeraebbrezza, come uno che abbia appena cessato di cantare.Scriveva presso il balcone della sua camera, sporgentesul piccolo giardino. Ne saliva una pace dolce, conl’odore stimolante degli oleandri, dei larici; i rumoridella campagna eran lontani, ma lontani gli sembravanoanche quelli dell’Amistà. Nel giardino ogni tanto la ma-dre e Gabriella si parlavano. Gabriella era cresciuta as-sai, piena di forza vitale, bruna, coi grandi occhi deiFarra; giocava con ago e tela a cucire accanto alla mam-ma; quando aveva il permesso, amava anche pascolar levacche insieme ad Uliva, la figlia minore dei Crivelli, omodellar fantocci di creta insieme a bimbe dei vicini:sempre linda, però, con i suoi nastri intatti.

Appena il racconto, dopo qualche giorno, fu termina-to e ricopiato, Graziano lo lesse alla madre, la quale sa-peva soltanto ch’egli si era messo ad una piccola prova.Non s’era dissipato nel ragazzo quel senso di delusione;lavorando aveva sentito mancargli l’ispirazione, una for-za segreta che operasse da sé. Ma leggendo, solo con lamadre nella vecchia sala, la vide vibrare, consentirecome se lo scritto fosse anche suo; si sentí unito a lei,suo figlio, in una maniera nuova. Dalla madre, senzache ella parlasse, veniva una fiducia che lo rinfrancava.– È bello. Sono contenta, – disse Claudia alla fine. – Fai

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nel quale egli si trovava assai diverso da quel che crede-va d’essere.

Tuttavia, nelle pause, tornando alla vita solita, si sen-tiva piacevolmente cambiato, come se vedesse ancormeglio la bellezza delle cose; era in uno stato di leggeraebbrezza, come uno che abbia appena cessato di cantare.Scriveva presso il balcone della sua camera, sporgentesul piccolo giardino. Ne saliva una pace dolce, conl’odore stimolante degli oleandri, dei larici; i rumoridella campagna eran lontani, ma lontani gli sembravanoanche quelli dell’Amistà. Nel giardino ogni tanto la ma-dre e Gabriella si parlavano. Gabriella era cresciuta as-sai, piena di forza vitale, bruna, coi grandi occhi deiFarra; giocava con ago e tela a cucire accanto alla mam-ma; quando aveva il permesso, amava anche pascolar levacche insieme ad Uliva, la figlia minore dei Crivelli, omodellar fantocci di creta insieme a bimbe dei vicini:sempre linda, però, con i suoi nastri intatti.

Appena il racconto, dopo qualche giorno, fu termina-to e ricopiato, Graziano lo lesse alla madre, la quale sa-peva soltanto ch’egli si era messo ad una piccola prova.Non s’era dissipato nel ragazzo quel senso di delusione;lavorando aveva sentito mancargli l’ispirazione, una for-za segreta che operasse da sé. Ma leggendo, solo con lamadre nella vecchia sala, la vide vibrare, consentirecome se lo scritto fosse anche suo; si sentí unito a lei,suo figlio, in una maniera nuova. Dalla madre, senzache ella parlasse, veniva una fiducia che lo rinfrancava.– È bello. Sono contenta, – disse Claudia alla fine. – Fai

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bene a scegliere queste cose che ti stanno davanti agliocchi. – Lo abbracciò lungamente. Il figlio pensò cheaveva appena quindici anni e che avrebbe imparato ascrivere le cose come le vedeva. Del manoscritto feceun plico; lo mandò ad una rivista importante diretta dauno scrittore anziano e fortunato, il quale nelle fotogra-fie mostrava un viso di galantuomo. Presto incominciòad aspettare la risposta.

Da Luvo fu portata la notizia che la figlia dei Lancia-rossa era ammalata di tifo. Aveva adesso quasi dicianno-ve anni, era sempre piú grassa. Si sapeva che i genitorisognavano per lei un matrimonio straordinario ed ave-vano in progetto di passare l’inverno prossimo a Torinoper trovarle lo sposo. La malattia prese una piega assaicattiva. – È ancora peggiorata. Difficilmente la scampa.– Un mattino la notizia fu che Jenny era morta. Le vocidel paese descrissero il dolore terribile del padre, la ma-dre quasi impazzita; e la rapida morte, venendo giudica-ta un castigo divino a quei genitori, si tingeva d’un colo-re pauroso e solenne. Quanto al partecipare o no ai fune-rali, perché la signorina non era figlia legittima, la popo-lazione si divise; fu però piú grande il numero dei pieto-si. La signora Farra mandò una donna di servizio con unmazzo di fiori.

Ella saliva a Luvo solamente la domenica per la mes-sa. Ma del vecchio paese decaduto si conosceva giornoper giorno quella che bisognava pur chiamare vita. Lamaligna opposizione di Costante Breme aveva sempreimpedita la vendita della Stellata; egli aveva data la sua

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bene a scegliere queste cose che ti stanno davanti agliocchi. – Lo abbracciò lungamente. Il figlio pensò cheaveva appena quindici anni e che avrebbe imparato ascrivere le cose come le vedeva. Del manoscritto feceun plico; lo mandò ad una rivista importante diretta dauno scrittore anziano e fortunato, il quale nelle fotogra-fie mostrava un viso di galantuomo. Presto incominciòad aspettare la risposta.

Da Luvo fu portata la notizia che la figlia dei Lancia-rossa era ammalata di tifo. Aveva adesso quasi dicianno-ve anni, era sempre piú grassa. Si sapeva che i genitorisognavano per lei un matrimonio straordinario ed ave-vano in progetto di passare l’inverno prossimo a Torinoper trovarle lo sposo. La malattia prese una piega assaicattiva. – È ancora peggiorata. Difficilmente la scampa.– Un mattino la notizia fu che Jenny era morta. Le vocidel paese descrissero il dolore terribile del padre, la ma-dre quasi impazzita; e la rapida morte, venendo giudica-ta un castigo divino a quei genitori, si tingeva d’un colo-re pauroso e solenne. Quanto al partecipare o no ai fune-rali, perché la signorina non era figlia legittima, la popo-lazione si divise; fu però piú grande il numero dei pieto-si. La signora Farra mandò una donna di servizio con unmazzo di fiori.

Ella saliva a Luvo solamente la domenica per la mes-sa. Ma del vecchio paese decaduto si conosceva giornoper giorno quella che bisognava pur chiamare vita. Lamaligna opposizione di Costante Breme aveva sempreimpedita la vendita della Stellata; egli aveva data la sua

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serva ambiziosa in moglie al figlio, Mercurino, il qualenon aveva mai affrontato l’esame, e questa donnetta erala vera padrona del luogo, vi trionfava. Con le schededel vocabolario non ancora terminato, il professor Gre-gorio e Clemenza andavano a villeggiare altrove, intor-no a Torino, per non vedere la nuova parente. Barbara,già madre di tre figli, viveva adesso in un podere chesuo marito aveva ereditato, alla Madonna dei fiori. Sem-pre vivo era il Re dei Re, il Messia acconciato come Ga-ribaldi; caduto però da una pianta su cui era salito a co-glier fichi, s’era spezzata una gamba e doveva predicaredal letto, senza speranza di riportare in piazza la suasciarpa rossa ed i suoi ciondoli.

Saliva di rado al paese anche Graziano. In ogni estatevi incontrava piú volte Daniele del Tessitore, semprebell’uomo sebbene i baffi biondi si fossero scoloriti,sempre col suo tono altero e con quel modo severo diguardare. Ogni volta Daniele si mostrava contento dipoter parlare di Aleramo. Aveva spiegato ch’erano statiamici fin da ragazzi. – Ho tre anni piú di lui; mi davaretta quasi sempre. – Anche quell’anno chiese a Grazia-no se lo avessero cambiato di penitenziario e come sop-portasse la pena. – Lavorare da sarto, pover’uomo! Eranato gran signore. – Graziano comprendeva che l’inte-resse del contadino per il recluso nasceva da sentimentisinceri e nobili; provava tuttavia un certo dispettoch’egli volesse entrare nel segreto della famiglia, averciquasi una parte.

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serva ambiziosa in moglie al figlio, Mercurino, il qualenon aveva mai affrontato l’esame, e questa donnetta erala vera padrona del luogo, vi trionfava. Con le schededel vocabolario non ancora terminato, il professor Gre-gorio e Clemenza andavano a villeggiare altrove, intor-no a Torino, per non vedere la nuova parente. Barbara,già madre di tre figli, viveva adesso in un podere chesuo marito aveva ereditato, alla Madonna dei fiori. Sem-pre vivo era il Re dei Re, il Messia acconciato come Ga-ribaldi; caduto però da una pianta su cui era salito a co-glier fichi, s’era spezzata una gamba e doveva predicaredal letto, senza speranza di riportare in piazza la suasciarpa rossa ed i suoi ciondoli.

Saliva di rado al paese anche Graziano. In ogni estatevi incontrava piú volte Daniele del Tessitore, semprebell’uomo sebbene i baffi biondi si fossero scoloriti,sempre col suo tono altero e con quel modo severo diguardare. Ogni volta Daniele si mostrava contento dipoter parlare di Aleramo. Aveva spiegato ch’erano statiamici fin da ragazzi. – Ho tre anni piú di lui; mi davaretta quasi sempre. – Anche quell’anno chiese a Grazia-no se lo avessero cambiato di penitenziario e come sop-portasse la pena. – Lavorare da sarto, pover’uomo! Eranato gran signore. – Graziano comprendeva che l’inte-resse del contadino per il recluso nasceva da sentimentisinceri e nobili; provava tuttavia un certo dispettoch’egli volesse entrare nel segreto della famiglia, averciquasi una parte.

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— L’età è ancora buona, – concludeva l’uomo. – Bi-sogna che resista, per poter tornare fuori. La grazial’avrà.

Dopo settimane di arsura che alla gente cominciavanoad ispirare inquietudine, una mattina si vide il tempomutare. Attraversarono il cielo grosse nubi bianche, iso-late, che sembravano portare qualche avviso misterioso;nel pomeriggio altre ne comparvero ma scure ed unite,salirono dall’orizzonte come un coperchio che si chiu-desse; scomparve il sole, si diffuse nello spazio una lucemorta, triste, sebbene l’aria rimanesse trasparente; unvento veloce, che anch’esso dava brividi di tristezza,prese a rader la terra agitando gli alberi, strappando fo-glie, mulinando paglia e fuscelli sempre piú rabbiosa-mente. Poi, sotto il coperchio del tutto chiuso, si collo-carono molto bassi – come prendendo un posto loro as-segnato – dei nembi neri; ed allora si fece un’oscuritànella quale le cose parevano aver cambiata natura, tantoera sinistro il loro aspetto. Lampi lividi, vicini; tuoni po-tenti. All’Amistà primi a ritirarsi erano stati le galline edil gallo; quindi comparve Dionisio, pieno di freddo; ledonne corsero a raccogliere panni sciorinati, gridando;tutti tornavano a casa, con viso ansioso, anche Urbanoche in fretta fece entrare i buoi nella stalla. Turbate era-no anche le rondini; pure, continuavano a volar sull’aia,tra fulmini piú abbaglianti e scoppi piú fragorosi. – Pre-gate – disse il bifolco, riapparendo sull’uscio di stalla,alle donne che guardavano il cielo dalle soglie dellestanze. Si fece un gran segno di croce.

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— L’età è ancora buona, – concludeva l’uomo. – Bi-sogna che resista, per poter tornare fuori. La grazial’avrà.

Dopo settimane di arsura che alla gente cominciavanoad ispirare inquietudine, una mattina si vide il tempomutare. Attraversarono il cielo grosse nubi bianche, iso-late, che sembravano portare qualche avviso misterioso;nel pomeriggio altre ne comparvero ma scure ed unite,salirono dall’orizzonte come un coperchio che si chiu-desse; scomparve il sole, si diffuse nello spazio una lucemorta, triste, sebbene l’aria rimanesse trasparente; unvento veloce, che anch’esso dava brividi di tristezza,prese a rader la terra agitando gli alberi, strappando fo-glie, mulinando paglia e fuscelli sempre piú rabbiosa-mente. Poi, sotto il coperchio del tutto chiuso, si collo-carono molto bassi – come prendendo un posto loro as-segnato – dei nembi neri; ed allora si fece un’oscuritànella quale le cose parevano aver cambiata natura, tantoera sinistro il loro aspetto. Lampi lividi, vicini; tuoni po-tenti. All’Amistà primi a ritirarsi erano stati le galline edil gallo; quindi comparve Dionisio, pieno di freddo; ledonne corsero a raccogliere panni sciorinati, gridando;tutti tornavano a casa, con viso ansioso, anche Urbanoche in fretta fece entrare i buoi nella stalla. Turbate era-no anche le rondini; pure, continuavano a volar sull’aia,tra fulmini piú abbaglianti e scoppi piú fragorosi. – Pre-gate – disse il bifolco, riapparendo sull’uscio di stalla,alle donne che guardavano il cielo dalle soglie dellestanze. Si fece un gran segno di croce.

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I paesi misero in moto le campane, che non sembra-vano quelle degli altri giorni. Si respirava con pena, siaveva l’idea confusa che dovesse accadere un fatto terri-bile. Presto, dopo un breve picchiar di goccioloni,l’acqua cadde a fasci, a schiaffi, a ondate, e tutto ciò eraun’acqua sola, come se potesse cadere ad un tratto quan-ta ve n’era in alto, per essersi rotta chi sa quale cosa nelcielo. Non si vedeva niente altro; l’acqua. E quasi pare-va notte. Poi s’intese sulle tegole, sui muri, sugli attrez-zi, il batter della grandine. Le palline di gelo divennerosubito straordinariamente fitte; saltavano sul terrenocome animate; quel rumore, sopra i tetti i vetri gli alberiil suolo, cresceva cresceva. In breve l’aia fu bianca, itetti furono disegnati di bianco, e questo biancore davaun senso di rovina come il freddo che s’era sparsonell’aria. Gli uomini, con le mani in tasca, guardavanoimmobili stando sotto il portico o sotto l’arco del fieni-le; ad intervalli si udivano ancora, ma come moribonde,le campane. Cleto scappò dentro casa per non piú vede-re; Urbano, in ginocchio nel suo stanzino, continuava apregare. Straziante era il pensiero che sotto le sferzed’acciaio bianco stavano i filari delle vigne coi lorograppoli. Dopo un tempo che nessuno avrebbe saputodire quanto lungo, insieme alla grandine riprese a cadereacqua, i chicchi si fecero sempre piú radi, cessarono. Al-zatosi di nuovo il vento, le nuvole piú brutte si allonta-narono come una banda di assassini quando il delitto ècompiuto; per la volta squarciata passò una luceanch’essa d’acciaio, inumana, e non si cambiava

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I paesi misero in moto le campane, che non sembra-vano quelle degli altri giorni. Si respirava con pena, siaveva l’idea confusa che dovesse accadere un fatto terri-bile. Presto, dopo un breve picchiar di goccioloni,l’acqua cadde a fasci, a schiaffi, a ondate, e tutto ciò eraun’acqua sola, come se potesse cadere ad un tratto quan-ta ve n’era in alto, per essersi rotta chi sa quale cosa nelcielo. Non si vedeva niente altro; l’acqua. E quasi pare-va notte. Poi s’intese sulle tegole, sui muri, sugli attrez-zi, il batter della grandine. Le palline di gelo divennerosubito straordinariamente fitte; saltavano sul terrenocome animate; quel rumore, sopra i tetti i vetri gli alberiil suolo, cresceva cresceva. In breve l’aia fu bianca, itetti furono disegnati di bianco, e questo biancore davaun senso di rovina come il freddo che s’era sparsonell’aria. Gli uomini, con le mani in tasca, guardavanoimmobili stando sotto il portico o sotto l’arco del fieni-le; ad intervalli si udivano ancora, ma come moribonde,le campane. Cleto scappò dentro casa per non piú vede-re; Urbano, in ginocchio nel suo stanzino, continuava apregare. Straziante era il pensiero che sotto le sferzed’acciaio bianco stavano i filari delle vigne coi lorograppoli. Dopo un tempo che nessuno avrebbe saputodire quanto lungo, insieme alla grandine riprese a cadereacqua, i chicchi si fecero sempre piú radi, cessarono. Al-zatosi di nuovo il vento, le nuvole piú brutte si allonta-narono come una banda di assassini quando il delitto ècompiuto; per la volta squarciata passò una luceanch’essa d’acciaio, inumana, e non si cambiava

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quell’aura di gelo, di morte. Si vide che in terra eranomolti ramicelli e foglie; c’era anche molta grandine chenon si scioglieva, e nessuno la toccava, era guardata conorrore. Improvvisamente tornò a mostrarsi il sole: tuttele cose, lustre e gocciolanti, brillarono. Senza dire unaparola, Giusto andò nelle vigne a veder il danno; poi an-darono gli altri uomini ed anche le donne; rientraronocon facce ancora piú scure.

Dopo la visita del pretendente, Regina avrebbe dovu-to prendere una decisione perché i suoi gli potesserodare una risposta: ella non aveva piú parlato, il sensalenon era riapparso, in famiglia nessuno le aveva piú dettoniente a quel proposito, cosí la ragazza s’era abbandona-ta alla speranza che il progetto fosse da tutti dimentica-to. Ma ora si rimise a pensare all’uomo maturo il qualepossedeva belle terre vicino alla città, con un doloreamaro, disperato, come ad una necessità che non si po-tesse piú evitare. Vedeva un’invernata di angustie, acausa della grandine, e sentiva un obbligo di alleggeriredel proprio peso la famiglia, di procurarle aiuto; vedevaanche tutto un avvenire di raccolti incerti, di fatica sullaterra altrui, un avvenire di povera gente, e le sembravauna colpa rifiutar quei prati, quei grassi orti, quelle stal-le piene di bestiame.

Una mattina udí la voce di Remo. Quando lavoravada solo nei campi confinanti con l’Amistà, il giovinecantava assai forte, per farsi udire da lei. Regina scappòin camera un momento a ravviarsi di nascosto i capelli,a darsi un po’ di cipria davanti allo specchio rotto; si

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quell’aura di gelo, di morte. Si vide che in terra eranomolti ramicelli e foglie; c’era anche molta grandine chenon si scioglieva, e nessuno la toccava, era guardata conorrore. Improvvisamente tornò a mostrarsi il sole: tuttele cose, lustre e gocciolanti, brillarono. Senza dire unaparola, Giusto andò nelle vigne a veder il danno; poi an-darono gli altri uomini ed anche le donne; rientraronocon facce ancora piú scure.

Dopo la visita del pretendente, Regina avrebbe dovu-to prendere una decisione perché i suoi gli potesserodare una risposta: ella non aveva piú parlato, il sensalenon era riapparso, in famiglia nessuno le aveva piú dettoniente a quel proposito, cosí la ragazza s’era abbandona-ta alla speranza che il progetto fosse da tutti dimentica-to. Ma ora si rimise a pensare all’uomo maturo il qualepossedeva belle terre vicino alla città, con un doloreamaro, disperato, come ad una necessità che non si po-tesse piú evitare. Vedeva un’invernata di angustie, acausa della grandine, e sentiva un obbligo di alleggeriredel proprio peso la famiglia, di procurarle aiuto; vedevaanche tutto un avvenire di raccolti incerti, di fatica sullaterra altrui, un avvenire di povera gente, e le sembravauna colpa rifiutar quei prati, quei grassi orti, quelle stal-le piene di bestiame.

Una mattina udí la voce di Remo. Quando lavoravada solo nei campi confinanti con l’Amistà, il giovinecantava assai forte, per farsi udire da lei. Regina scappòin camera un momento a ravviarsi di nascosto i capelli,a darsi un po’ di cipria davanti allo specchio rotto; si

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mise un grembiale quasi nuovo; poi andò nel bosco alto,dall’orlo del quale si scorgevano quei campi dei vicini.Il servitore era là a romper con la zappa zolle enormi. Ditra i cespugli Regina lo chiamò. Egli venne, stupito,asciugandosi la fronte che grondava. La sua giovine ro-busta bellezza splendeva; sebbene egli non avesse in-dosso che cenci da lavoro, il suo viso – come dicevanole donne – era da signore. Non entrò nel bosco, stettedall’altra parte del confine. La ragazza strappava fogliealle acacie e se ne riempiva le mani.

— Remo, – disse, guardando queste foglie – mi han-no chiesta.

— Lo so – rispose il giovine.Dopo un poco Regina ripigliò: – Io non volevo... –

Lasciò cadere tutte le foglie a terra. Egli guardava lazappa, rimasta piantata in una zolla, come se non potes-se pensar altro che di tornare al lavoro; ma il suo sorri-so, l’espressione del suo bel volto eran umili e dicevano:«Io sono solamente un povero servo di campagna».

— Remo, – incominciò di nuovo la ragazza. Si stu-diava un braccio dove aveva, vicino al polso, il segno diun’antica scottatura; poi si fece forza a guardar in facciail giovine, mostrando i bianchi denti in un sorriso chepareva quello di sempre. – Non ci siamo mai parlati. –Pensava che proprio per la prima volta si trovavano soliinsieme. – Se io avessi avuto un po’ di terra...

Il giovine si chinò a raccogliere un grosso grumo dalcampo, lo sbriciolò tra le dita guardandolo ricadere inpolvere. Adesso eran gli occhi di lui che non osavano

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mise un grembiale quasi nuovo; poi andò nel bosco alto,dall’orlo del quale si scorgevano quei campi dei vicini.Il servitore era là a romper con la zappa zolle enormi. Ditra i cespugli Regina lo chiamò. Egli venne, stupito,asciugandosi la fronte che grondava. La sua giovine ro-busta bellezza splendeva; sebbene egli non avesse in-dosso che cenci da lavoro, il suo viso – come dicevanole donne – era da signore. Non entrò nel bosco, stettedall’altra parte del confine. La ragazza strappava fogliealle acacie e se ne riempiva le mani.

— Remo, – disse, guardando queste foglie – mi han-no chiesta.

— Lo so – rispose il giovine.Dopo un poco Regina ripigliò: – Io non volevo... –

Lasciò cadere tutte le foglie a terra. Egli guardava lazappa, rimasta piantata in una zolla, come se non potes-se pensar altro che di tornare al lavoro; ma il suo sorri-so, l’espressione del suo bel volto eran umili e dicevano:«Io sono solamente un povero servo di campagna».

— Remo, – incominciò di nuovo la ragazza. Si stu-diava un braccio dove aveva, vicino al polso, il segno diun’antica scottatura; poi si fece forza a guardar in facciail giovine, mostrando i bianchi denti in un sorriso chepareva quello di sempre. – Non ci siamo mai parlati. –Pensava che proprio per la prima volta si trovavano soliinsieme. – Se io avessi avuto un po’ di terra...

Il giovine si chinò a raccogliere un grosso grumo dalcampo, lo sbriciolò tra le dita guardandolo ricadere inpolvere. Adesso eran gli occhi di lui che non osavano

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piú alzarsi, ma la sua bocca disse ciò che il viso espri-meva: – Io sono un povero servitore.

Un’amarezza intollerabile provava Regina; il cuore lepesava. Era certa che avrebbe sposato l’uomo grassoc-cio vestito di nero. Remo aggiunse: – Non ci ho maipensato a voi. – E intendeva dire che non aveva maiavuta alcuna speranza.

— Vi rincresce che sono venuta?Si posavano ogni tanto lo sguardo in faccia; piú spes-

so guardavano il terreno o badavano se non arrivassegente. Entrambi avrebbero voluto che quel momento du-rasse sempre, ma Remo fu il primo ad allontanarsi per-ché non sapeva piú che cosa dire. Si salutarono appena.Attraversando il bosco Regina udí ch’egli zappava dinuovo senza cantare, ed ebbe l’idea che quella zappaavrebbe sempre sempre dati i colpi.

La risposta favorevole fu mandata. Il pretendente, ilquale ormai disperava di essere gradito, volle senz’altrolegar il nodo; ritornò col sensale, piú presto che poté, ascambiare la promessa e portare i regali. Le nozze si sa-rebbero fatte a carnevale, com’era l’uso. Portò regaliricchi, collane d’oro, orecchini, due o tre anelli, l’orolo-gio: con un viso d’innamorato entusiasta. Regina fecedomandare alla signora Farra il permesso di salire a mo-strarle i doni. Era un poco esaltata dall’oro, dalle pietrepreziose, ed anche dal vedersi cosí amata da un uomoch’ella conosceva appena. Giunse da Claudia tutta ri-dente, coi gioielli dentro gli astucci di peluzzo rosso eturchino; ma, mentre la signora li osservava lodandoli e

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piú alzarsi, ma la sua bocca disse ciò che il viso espri-meva: – Io sono un povero servitore.

Un’amarezza intollerabile provava Regina; il cuore lepesava. Era certa che avrebbe sposato l’uomo grassoc-cio vestito di nero. Remo aggiunse: – Non ci ho maipensato a voi. – E intendeva dire che non aveva maiavuta alcuna speranza.

— Vi rincresce che sono venuta?Si posavano ogni tanto lo sguardo in faccia; piú spes-

so guardavano il terreno o badavano se non arrivassegente. Entrambi avrebbero voluto che quel momento du-rasse sempre, ma Remo fu il primo ad allontanarsi per-ché non sapeva piú che cosa dire. Si salutarono appena.Attraversando il bosco Regina udí ch’egli zappava dinuovo senza cantare, ed ebbe l’idea che quella zappaavrebbe sempre sempre dati i colpi.

La risposta favorevole fu mandata. Il pretendente, ilquale ormai disperava di essere gradito, volle senz’altrolegar il nodo; ritornò col sensale, piú presto che poté, ascambiare la promessa e portare i regali. Le nozze si sa-rebbero fatte a carnevale, com’era l’uso. Portò regaliricchi, collane d’oro, orecchini, due o tre anelli, l’orolo-gio: con un viso d’innamorato entusiasta. Regina fecedomandare alla signora Farra il permesso di salire a mo-strarle i doni. Era un poco esaltata dall’oro, dalle pietrepreziose, ed anche dal vedersi cosí amata da un uomoch’ella conosceva appena. Giunse da Claudia tutta ri-dente, coi gioielli dentro gli astucci di peluzzo rosso eturchino; ma, mentre la signora li osservava lodandoli e

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Page 116: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

rallegrandosi con lei, Regina pensò al carnevale che sa-sebbe pur venuto, al bel volto di Remo, all’obbligo incui il destino l’aveva messa, e tutto ad un tratto scoppiòa piangere. Senza volere, si gettò sulla spalla di Claudia,che l’abbracciò con compassione e le fece qualche ca-rezza.

— Coraggio, Regina – disse la signora. – È unbrav’uomo. Ora piangi e poi sarai contenta. – Cercòqualche altro conforto, qualche speranza piú lieta damostrarle: non trovò niente.

* * *

Tra i giornali e le cartoline della solita corrispondenzaGraziano vide un giorno una busta grande con l’intesta-zione della rivista alla quale aveva mandato il racconto.Non era passato poi molto tempo, ma s’era già convintoche non gli avrebbero nemmeno risposto. Ora la sensa-zione gioiosa immediatamente si guastò: la busta eratroppo grande. Infatti conteneva il suo manoscritto. Lalettera accompagnatoria non era dello scrittore famoso;portava, per il direttore, una firma qualunque; dicevache lo scritto, pur dimostrando giovanile inesperienza,non era privo di qualità promettenti, ma che la rivistanon poteva accettar nuovi collaboratori, a motivo deitroppi impegni.

— Avevo pensato – disse Claudia con qualche pena –che l’avrebbero pubblicato appunto perché si sente ch’èd’un ragazzo, in una bella maniera. Non importa. Hai

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rallegrandosi con lei, Regina pensò al carnevale che sa-sebbe pur venuto, al bel volto di Remo, all’obbligo incui il destino l’aveva messa, e tutto ad un tratto scoppiòa piangere. Senza volere, si gettò sulla spalla di Claudia,che l’abbracciò con compassione e le fece qualche ca-rezza.

— Coraggio, Regina – disse la signora. – È unbrav’uomo. Ora piangi e poi sarai contenta. – Cercòqualche altro conforto, qualche speranza piú lieta damostrarle: non trovò niente.

* * *

Tra i giornali e le cartoline della solita corrispondenzaGraziano vide un giorno una busta grande con l’intesta-zione della rivista alla quale aveva mandato il racconto.Non era passato poi molto tempo, ma s’era già convintoche non gli avrebbero nemmeno risposto. Ora la sensa-zione gioiosa immediatamente si guastò: la busta eratroppo grande. Infatti conteneva il suo manoscritto. Lalettera accompagnatoria non era dello scrittore famoso;portava, per il direttore, una firma qualunque; dicevache lo scritto, pur dimostrando giovanile inesperienza,non era privo di qualità promettenti, ma che la rivistanon poteva accettar nuovi collaboratori, a motivo deitroppi impegni.

— Avevo pensato – disse Claudia con qualche pena –che l’avrebbero pubblicato appunto perché si sente ch’èd’un ragazzo, in una bella maniera. Non importa. Hai

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tanto tempo! – Graziano, rivedendo la propria scritturasu quei fogli, immaginava la città grande e lontana doveil manoscritto s’era avventurato; capiva l’ingenuitàd’averlo mandato a quella rivista. Senza voler tentare laprova con altre né tanto meno offrirlo a periodici dipoco conto, nascose il plico in un cassetto dove non po-tesse cadergli facilmente sott’occhio. Gli rimase unvago avvilimento, ed anche l’impressione di un mondoche lo respingesse, d’un mondo in cui erano posti como-di e onorifici come quello del direttore dal viso di galan-tuomo ma dove ogni cosa era regolata segretamente el’entrata custodita bene.

Quasi si era dimenticato il dispiacere quando, pochigiorni appresso, giunse all’Amistà una persona che pro-metteva sempre il suo arrivo e non veniva mai. Fu unmomento straordinario quello nel quale la cugina Olim-pia, scendendo da uno dei soliti calessi di campagna,mise piede nel cortile. Eran corse a vederla le ragazze eduscí fuori anche qualcuno degli uomini e tutti stavanocon gli occhi larghi; le cose intorno eran divenute piúumili e rozze, anche la gente, a paragone con lei, con lasua figura, coi suoi gesti, col suo vestito di stoffa legge-ra e chiara e col cappello ondeggiante di paglia sopraffi-na che portava; pareva discesa, anziché dal calesse, daun grazioso carro celeste tirato da colombi o da unabianca nube. Non era soltanto una bella signora: era labellezza stessa. Con la fantasia Graziano si era rappre-sentato il piacere d’aver in casa quella ospite; la realtà

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tanto tempo! – Graziano, rivedendo la propria scritturasu quei fogli, immaginava la città grande e lontana doveil manoscritto s’era avventurato; capiva l’ingenuitàd’averlo mandato a quella rivista. Senza voler tentare laprova con altre né tanto meno offrirlo a periodici dipoco conto, nascose il plico in un cassetto dove non po-tesse cadergli facilmente sott’occhio. Gli rimase unvago avvilimento, ed anche l’impressione di un mondoche lo respingesse, d’un mondo in cui erano posti como-di e onorifici come quello del direttore dal viso di galan-tuomo ma dove ogni cosa era regolata segretamente el’entrata custodita bene.

Quasi si era dimenticato il dispiacere quando, pochigiorni appresso, giunse all’Amistà una persona che pro-metteva sempre il suo arrivo e non veniva mai. Fu unmomento straordinario quello nel quale la cugina Olim-pia, scendendo da uno dei soliti calessi di campagna,mise piede nel cortile. Eran corse a vederla le ragazze eduscí fuori anche qualcuno degli uomini e tutti stavanocon gli occhi larghi; le cose intorno eran divenute piúumili e rozze, anche la gente, a paragone con lei, con lasua figura, coi suoi gesti, col suo vestito di stoffa legge-ra e chiara e col cappello ondeggiante di paglia sopraffi-na che portava; pareva discesa, anziché dal calesse, daun grazioso carro celeste tirato da colombi o da unabianca nube. Non era soltanto una bella signora: era labellezza stessa. Con la fantasia Graziano si era rappre-sentato il piacere d’aver in casa quella ospite; la realtà

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fu molto superiore all’attesa, l’emozione piú intensa,come se la sua vita si fosse enormemente arricchita.

Per la bellezza Olimpia era una delle meraviglie diRebbia, ove risiedeva. Aveva ventiquattro anni, un bam-bino, un marito direttore d’un filatoio. Il suo modo diesistere e di sentire era questa bellezza; ella sapeva diprodurre un’impressione profonda ovunque si presentas-se, avvolta dal desiderio degli uomini, dall’invidia delledonne; queste l’avviluppavano anche di giudizi maligni,di mormorazioni, di calunnie; sempre aveva tutti glisguardi addosso, se usciva sul balcone, se passeggiavain città, la domenica quando la banda sonava nel giardi-no pubblico e d’inverno quando al teatro vi era la sta-gione di opera. Un vivere sopra un palcoscenico: ella sirammaricava in segreto che il suo regno fosse soltantoquella città meschina. All’Amistà era venuta sola; que-sto soggiorno doveva essere una pausa di riposo lontanodalla ribalta; ma non si curava di goder la campagna, sialzava tardi, faceva toletta interminabilmente, temeva ilsole, non amava camminare. E la sua bellezza indicavaquesto modo di vivere, era bianca e voluttuosa, una bel-lezza da salotto, da ballo; faceva anche pensare ad unricco e soffice letto. Ella era alta, aveva uno di quei cor-pi ai quali si sente sempre che le vesti sono di troppo,come sarebbero ad una dea di marmo; occhi scuri conriflessi d’oro, aveva, capelli castani dorati che portavaacconciati in certa maniera facile, con una treccia ritortaed alzata dalla nuca verso il sommo del capo come lacresta d’un elmo; il labbro superiore era un tantino ar-

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fu molto superiore all’attesa, l’emozione piú intensa,come se la sua vita si fosse enormemente arricchita.

Per la bellezza Olimpia era una delle meraviglie diRebbia, ove risiedeva. Aveva ventiquattro anni, un bam-bino, un marito direttore d’un filatoio. Il suo modo diesistere e di sentire era questa bellezza; ella sapeva diprodurre un’impressione profonda ovunque si presentas-se, avvolta dal desiderio degli uomini, dall’invidia delledonne; queste l’avviluppavano anche di giudizi maligni,di mormorazioni, di calunnie; sempre aveva tutti glisguardi addosso, se usciva sul balcone, se passeggiavain città, la domenica quando la banda sonava nel giardi-no pubblico e d’inverno quando al teatro vi era la sta-gione di opera. Un vivere sopra un palcoscenico: ella sirammaricava in segreto che il suo regno fosse soltantoquella città meschina. All’Amistà era venuta sola; que-sto soggiorno doveva essere una pausa di riposo lontanodalla ribalta; ma non si curava di goder la campagna, sialzava tardi, faceva toletta interminabilmente, temeva ilsole, non amava camminare. E la sua bellezza indicavaquesto modo di vivere, era bianca e voluttuosa, una bel-lezza da salotto, da ballo; faceva anche pensare ad unricco e soffice letto. Ella era alta, aveva uno di quei cor-pi ai quali si sente sempre che le vesti sono di troppo,come sarebbero ad una dea di marmo; occhi scuri conriflessi d’oro, aveva, capelli castani dorati che portavaacconciati in certa maniera facile, con una treccia ritortaed alzata dalla nuca verso il sommo del capo come lacresta d’un elmo; il labbro superiore era un tantino ar-

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ricciato, un piccolo neo vi sembrava finto. S’era portativestiti da campagna freschissimi. Alla semplicità di essiera come una smentita il profumo che spargevano, ricer-cato, difficile da comprendere: un profumo che le stavaintorno come un alone amoroso. Le voci della città le at-tribuivano sempre un amante, ora questo ora quello.

Insieme a lei ed alla madre Graziano fece qualchebreve passeggiata; rimase talvolta a discorrere da solocon Olimpia, ma per poco. La cugina si compiaceva diesercitare su quel gentile ragazzo di quindici anni unpoco del proprio fascino, però con prudenza, avendo perClaudia grande affezione e rispetto. In presenza di que-sta, Olimpia ed il ragazzo giocavano qualche volta a rin-corrersi, nascondere roba; finiva che Olimpia lo batteva,ed era un modo di carezzarlo. Forse Graziano era felice.Aveva l’impressione di possedere quella bellezza per sé,ossia d’averla vicina in un luogo dove non vi era nessunaltro a vederla. Andava in giardino a guardar le persianechiuse della sua camera mentre ella dormiva ancora;nella camera, mandato da lei a cercar qualchecosa, eraentrato un giorno e vi aveva visti appesi all’attaccapannialcuni suoi vestiti, che mandavano il suo profumo, cosívivente, cosí carnale, da non parer vero che vi fosse ilprofumo e non Olimpia. Ma gli piaceva soprattutto os-servar la cugina quando ella stava con Claudia a leggereo ricamare, donna con donna, senza sapere di esserguardata.

Ogni maniera di pensare a lei o di guardarla era unimpadronirsi della bellissima creatura; però, senza alcu-

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ricciato, un piccolo neo vi sembrava finto. S’era portativestiti da campagna freschissimi. Alla semplicità di essiera come una smentita il profumo che spargevano, ricer-cato, difficile da comprendere: un profumo che le stavaintorno come un alone amoroso. Le voci della città le at-tribuivano sempre un amante, ora questo ora quello.

Insieme a lei ed alla madre Graziano fece qualchebreve passeggiata; rimase talvolta a discorrere da solocon Olimpia, ma per poco. La cugina si compiaceva diesercitare su quel gentile ragazzo di quindici anni unpoco del proprio fascino, però con prudenza, avendo perClaudia grande affezione e rispetto. In presenza di que-sta, Olimpia ed il ragazzo giocavano qualche volta a rin-corrersi, nascondere roba; finiva che Olimpia lo batteva,ed era un modo di carezzarlo. Forse Graziano era felice.Aveva l’impressione di possedere quella bellezza per sé,ossia d’averla vicina in un luogo dove non vi era nessunaltro a vederla. Andava in giardino a guardar le persianechiuse della sua camera mentre ella dormiva ancora;nella camera, mandato da lei a cercar qualchecosa, eraentrato un giorno e vi aveva visti appesi all’attaccapannialcuni suoi vestiti, che mandavano il suo profumo, cosívivente, cosí carnale, da non parer vero che vi fosse ilprofumo e non Olimpia. Ma gli piaceva soprattutto os-servar la cugina quando ella stava con Claudia a leggereo ricamare, donna con donna, senza sapere di esserguardata.

Ogni maniera di pensare a lei o di guardarla era unimpadronirsi della bellissima creatura; però, senza alcu-

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na impurità di pensiero; quel profumo amoroso il ragaz-zo lo respirava con gioia e senza turbamento, forse pereffetto dell’aria tanto pulita dell’Amistà; né egli provavauna vera esaltazione sentimentale; era un poco vibrante,sí, come sotto l’azione leggera di una droga, ma non in-namorato. Forse, piú che una donna, Olimpia era ai suoiocchi la personificazione della vita com’egli la sentivain quel tempo, seducente e piena di promesse. Quindicianni: non era poi tanto lontana l’età splendida che sichiamava «Vent’anni». Non si poteva innamorare ancheperché la bellissima cugina aveva uno spirito opaco edera piuttosto ignorante; se non si parlava di mode o dellameschina società di Rebbia o dei divertimenti della cittàgrande, non sapeva che dire, si annoiava. Ella rimase so-lamente pochi giorni.

L’ultima sera si accesero in tutta la campagna grandifuochi per la Madonna di settembre. Prima del tramontoUrbano e Giusto avevano preparato nel prato vicino acasa un’alta catasta di fascine; alcuni dei falò incomin-ciarono ad accendersi presto, prima che fosse buio;quando furono chiamati dalla gente dell’Amistà, i signo-ri andarono a vedere. Tutto l’orizzonte, ormai scuro, erasparso di quei roghi; già Giusto aveva appiccato il fuocoalla catasta, e le fascine ammucchiate intorno all’alta ca-locchia si movevano crepitando; dinanzi ai falò lontanisi vedevano nere figurine agitarsi; quelli piú vicini mo-stravano facce di case, filari di viti, ballanti nei riflessi;grida e voci allegre attraversavano lo spazio. Dal rogodell’Amistà le fiamme si levavano sempre piú alte, stri-

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na impurità di pensiero; quel profumo amoroso il ragaz-zo lo respirava con gioia e senza turbamento, forse pereffetto dell’aria tanto pulita dell’Amistà; né egli provavauna vera esaltazione sentimentale; era un poco vibrante,sí, come sotto l’azione leggera di una droga, ma non in-namorato. Forse, piú che una donna, Olimpia era ai suoiocchi la personificazione della vita com’egli la sentivain quel tempo, seducente e piena di promesse. Quindicianni: non era poi tanto lontana l’età splendida che sichiamava «Vent’anni». Non si poteva innamorare ancheperché la bellissima cugina aveva uno spirito opaco edera piuttosto ignorante; se non si parlava di mode o dellameschina società di Rebbia o dei divertimenti della cittàgrande, non sapeva che dire, si annoiava. Ella rimase so-lamente pochi giorni.

L’ultima sera si accesero in tutta la campagna grandifuochi per la Madonna di settembre. Prima del tramontoUrbano e Giusto avevano preparato nel prato vicino acasa un’alta catasta di fascine; alcuni dei falò incomin-ciarono ad accendersi presto, prima che fosse buio;quando furono chiamati dalla gente dell’Amistà, i signo-ri andarono a vedere. Tutto l’orizzonte, ormai scuro, erasparso di quei roghi; già Giusto aveva appiccato il fuocoalla catasta, e le fascine ammucchiate intorno all’alta ca-locchia si movevano crepitando; dinanzi ai falò lontanisi vedevano nere figurine agitarsi; quelli piú vicini mo-stravano facce di case, filari di viti, ballanti nei riflessi;grida e voci allegre attraversavano lo spazio. Dal rogodell’Amistà le fiamme si levavano sempre piú alte, stri-

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dendo schioccando, parevano dover crescere sempre,ma non avevano aspetto malvagio, erano fiamme da fe-sta. Tutti provavano una lieta eccitazione, il piacere diquesta vampa, delle colline ornate di fuochi, ed ancheun sentimento profondo e strano che forse era un ricor-do innato di quando i primi uomini abitavano la terra.Anche l’odore del fuoco e del fumo esaltava. Nessunostava fermo. I volti colpiti dalla rossa luce sembravanoin delirio; Gabriella gridava acutamente, Giusto si affan-nava col forcone ad attizzare, gridavano e ridevano lesue sorelle; si vide ad un tratto Dionisio, con le sue mo-venze molli, prender la rincorsa e saltare attraverso ilfalò. Ma già molti fuochi s’erano spenti, altri calavano,languivano; anche il rogo dell’Amistà fini di consumarsilasciando un cerchio di cenere nel prato ed il calore del-la brace. Pareva che del divertimento tutti pensassero:«È stato troppo breve».

Come Graziano ed i suoi furori risaliti nell’apparta-mento, Claudia andò a mettere a letto la bambina, Olim-pia ed il ragazzo rimasero soli, seduti alla tavola dellasala da pranzo. La cugina sfogliava una rivista illustrata.Ad un tratto, come ancora preso e fatto ardito da quellagioia del fuoco, Graziano si alzò, s’accostò ad Olimpia,per guardar le immagini con lei. Ed allora sentí vicino alviso quel bel viso, quella bianca guancia; una avidità dibaciarla gli tormentò le labbra, una sete; provava anchevergogna di far quell’atto, ma si disse che ormai dovevabaciarla, in fretta avvicinò la bocca: ella si voltò e, comeper caso, ricevette il bacio sulle labbra. Subito Graziano

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dendo schioccando, parevano dover crescere sempre,ma non avevano aspetto malvagio, erano fiamme da fe-sta. Tutti provavano una lieta eccitazione, il piacere diquesta vampa, delle colline ornate di fuochi, ed ancheun sentimento profondo e strano che forse era un ricor-do innato di quando i primi uomini abitavano la terra.Anche l’odore del fuoco e del fumo esaltava. Nessunostava fermo. I volti colpiti dalla rossa luce sembravanoin delirio; Gabriella gridava acutamente, Giusto si affan-nava col forcone ad attizzare, gridavano e ridevano lesue sorelle; si vide ad un tratto Dionisio, con le sue mo-venze molli, prender la rincorsa e saltare attraverso ilfalò. Ma già molti fuochi s’erano spenti, altri calavano,languivano; anche il rogo dell’Amistà fini di consumarsilasciando un cerchio di cenere nel prato ed il calore del-la brace. Pareva che del divertimento tutti pensassero:«È stato troppo breve».

Come Graziano ed i suoi furori risaliti nell’apparta-mento, Claudia andò a mettere a letto la bambina, Olim-pia ed il ragazzo rimasero soli, seduti alla tavola dellasala da pranzo. La cugina sfogliava una rivista illustrata.Ad un tratto, come ancora preso e fatto ardito da quellagioia del fuoco, Graziano si alzò, s’accostò ad Olimpia,per guardar le immagini con lei. Ed allora sentí vicino alviso quel bel viso, quella bianca guancia; una avidità dibaciarla gli tormentò le labbra, una sete; provava anchevergogna di far quell’atto, ma si disse che ormai dovevabaciarla, in fretta avvicinò la bocca: ella si voltò e, comeper caso, ricevette il bacio sulle labbra. Subito Graziano

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se ne distolse, come se tutto fosse compiuto e non rima-nesse niente da fare. Di quella bocca aveva appena potu-to sentir la dolcezza, ma l’impressione che gli rimase fud’un grande avvenimento; quando sua madre rientrònella stanza, egli ebbe timore che glielo dovesse leggerenegli occhi e stette un poco affacciato alla finestra.

Partita Olimpia, il ragazzo sentiva con stupore il vuo-to lasciato da lei nella casa, nelle sue giornate, nell’aria.Somigliava assai ad una malinconia amorosa lo sconten-to che provava; tuttavia non si alterava affatto il suo ac-cordo con l’esistenza; anzi, egli sentiva piú forte il desi-derio d’avere vent’anni. L’avvenire era un immensoorizzonte, limpido, tutto sole, attraversato da una stradasenza fine: intorno stava la vita, realtà che si poteva toc-care e prendere. Pensò il soggetto d’un dramma, la mor-te della figlia Lanciarossa; tra questi pensieri gli tornavail ricordo della dolce bocca che si era voltata a lui.

Con Giusto e le sue sorelle piú giovani, Urbano andòuna mattina presto a tagliar l’ultimo fieno d’una prateriaappartenente all’Amistà ma molto lontana, nella pianurain riva al fiume. Per svagarsi Graziano li andò a rag-giungere nel pomeriggio con una rapida camminata giúper la collina e poi nel piano, sempre per strade rustichee sentieri. La prateria era rigata di canali e fossiall’ombra dei salici, si udiva l’acqua correre; il cielosembrava assai piú largo che sulla collina; ovunque sisentiva la vicinanza del fiume, che era bello, aveva isolecoperte d’alberi. Faceva un curioso effetto vedere i benconosciuti buoi dell’Amistà in quel luogo diverso, ed

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se ne distolse, come se tutto fosse compiuto e non rima-nesse niente da fare. Di quella bocca aveva appena potu-to sentir la dolcezza, ma l’impressione che gli rimase fud’un grande avvenimento; quando sua madre rientrònella stanza, egli ebbe timore che glielo dovesse leggerenegli occhi e stette un poco affacciato alla finestra.

Partita Olimpia, il ragazzo sentiva con stupore il vuo-to lasciato da lei nella casa, nelle sue giornate, nell’aria.Somigliava assai ad una malinconia amorosa lo sconten-to che provava; tuttavia non si alterava affatto il suo ac-cordo con l’esistenza; anzi, egli sentiva piú forte il desi-derio d’avere vent’anni. L’avvenire era un immensoorizzonte, limpido, tutto sole, attraversato da una stradasenza fine: intorno stava la vita, realtà che si poteva toc-care e prendere. Pensò il soggetto d’un dramma, la mor-te della figlia Lanciarossa; tra questi pensieri gli tornavail ricordo della dolce bocca che si era voltata a lui.

Con Giusto e le sue sorelle piú giovani, Urbano andòuna mattina presto a tagliar l’ultimo fieno d’una prateriaappartenente all’Amistà ma molto lontana, nella pianurain riva al fiume. Per svagarsi Graziano li andò a rag-giungere nel pomeriggio con una rapida camminata giúper la collina e poi nel piano, sempre per strade rustichee sentieri. La prateria era rigata di canali e fossiall’ombra dei salici, si udiva l’acqua correre; il cielosembrava assai piú largo che sulla collina; ovunque sisentiva la vicinanza del fiume, che era bello, aveva isolecoperte d’alberi. Faceva un curioso effetto vedere i benconosciuti buoi dell’Amistà in quel luogo diverso, ed

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anch’essi erano meravigliati d’esser là. Tramontò il solepoi si spensero i colori: i Crivelli continuavano a gettarfieno sul carico già grande; anche Graziano aveva unforcone e lavorava. Un fumo lievissimo di nebbias’alzava qua e là, od era soltanto il brivido della notteumida che veniva. Infine si prese la via del ritorno, edera quasi buio. Le ragazze se ne andarono per le scorcia-toie; Graziano seguí la strada lunga con Giusto che ac-compagnava lo zio ed il carro. I due giovani cammina-rono insieme quasi senza discorrere per un pezzo, finche il carro fu uscito dalle praterie, ebbe girato intorno aRebbia (Graziano pensava che là era Olimpia) e se ne fuallontanato per un lungo viale dove si vedevano rari fa-nali a gas, lumi di botteghe, tendine rosse d’osterie, ed ilmovimento della gente che sta per rintanarsi. Al terminedel viale i due amici si arrampicarono sul fieno attac-candosi alle corde con cui era assicurato. Distesi colventre sull’erba che odorava forte, gustavano il riposo,soprattutto Giusto che aveva faticato molto. Il cielos’era rannuvolato, non una stella: s’incontravano fanalidi carrozzini, altri carichi di paglia o di fieno, neri; siscorgeva un lume fioco dentro una casa a filo della stra-da; ma tutto era incerto, misterioso, come gli alberi lesiepi le alture ai lati dello stradale. Sebbene Urbano, in-nanzi ai buoi, si voltasse sovente a stimolarli con lavoce e col pungolo, il carro andava come se non doves-se mai piú arrivare.

Giusto, riposato, riprese poi a parlare. Disse a Grazia-no, ed era stupito egli stesso dell’idea che gli veniva: –

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anch’essi erano meravigliati d’esser là. Tramontò il solepoi si spensero i colori: i Crivelli continuavano a gettarfieno sul carico già grande; anche Graziano aveva unforcone e lavorava. Un fumo lievissimo di nebbias’alzava qua e là, od era soltanto il brivido della notteumida che veniva. Infine si prese la via del ritorno, edera quasi buio. Le ragazze se ne andarono per le scorcia-toie; Graziano seguí la strada lunga con Giusto che ac-compagnava lo zio ed il carro. I due giovani cammina-rono insieme quasi senza discorrere per un pezzo, finche il carro fu uscito dalle praterie, ebbe girato intorno aRebbia (Graziano pensava che là era Olimpia) e se ne fuallontanato per un lungo viale dove si vedevano rari fa-nali a gas, lumi di botteghe, tendine rosse d’osterie, ed ilmovimento della gente che sta per rintanarsi. Al terminedel viale i due amici si arrampicarono sul fieno attac-candosi alle corde con cui era assicurato. Distesi colventre sull’erba che odorava forte, gustavano il riposo,soprattutto Giusto che aveva faticato molto. Il cielos’era rannuvolato, non una stella: s’incontravano fanalidi carrozzini, altri carichi di paglia o di fieno, neri; siscorgeva un lume fioco dentro una casa a filo della stra-da; ma tutto era incerto, misterioso, come gli alberi lesiepi le alture ai lati dello stradale. Sebbene Urbano, in-nanzi ai buoi, si voltasse sovente a stimolarli con lavoce e col pungolo, il carro andava come se non doves-se mai piú arrivare.

Giusto, riposato, riprese poi a parlare. Disse a Grazia-no, ed era stupito egli stesso dell’idea che gli veniva: –

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Noi contadini facciamo sempre questa vita, che voi oggiavete fatta per ischerzo. – Soggiunse: – È troppo pocoessere un contadino. Peggio ancora un contadino senzaterra.

Graziano, come faceva sempre con lui, disse ciò chepensava cercando che riuscisse facile da intendere: –Quello che siamo, la condizione tua o la mia, non im-porta. Importa il modo in cui si vive: quel che ci si met-te dentro, nella vita. Capisci? Come ogni altro uomo, uncontadino può raggiungere lo scopo dell’esistenza, che èdi adoperar bene le nostre forze, la nostra capacità, sen-za sprecare niente di quello che ci è dato, nei limiti delnostro destino.

Nemmeno nella mente di Graziano l’idea era benchiara; pure, egli sentí che in qualche misura era statacompresa. Giusto ribatté subito: – Sicuro, il nostro desti-no. Il padre di mio padre è morto decrepito nell’ospiziodov’era stato otto anni. Del resto, quando è l’ora di mo-rire, essere zappaterra o imperatore non fa differenza.

— Pensi all’ora di morire? Hai vent’anni.— Alle cose della religione io non so credere. E se

quelle cose non son vere, se non c’è un’altra vita, perchési viene al mondo?

Graziano, studiando una risposta per non lasciar quel-la domanda sospesa nell’aria, guardava nell’oscurità allaquale i suoi occhi s’erano ormai assuefatti, con un biso-gno di trovarvi cose solide e riconoscibili. Gli parevache il carro col suo lento moto camminasse in un luogosenza sostanza, senza limiti. Sentiva di non poter rassi-

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Noi contadini facciamo sempre questa vita, che voi oggiavete fatta per ischerzo. – Soggiunse: – È troppo pocoessere un contadino. Peggio ancora un contadino senzaterra.

Graziano, come faceva sempre con lui, disse ciò chepensava cercando che riuscisse facile da intendere: –Quello che siamo, la condizione tua o la mia, non im-porta. Importa il modo in cui si vive: quel che ci si met-te dentro, nella vita. Capisci? Come ogni altro uomo, uncontadino può raggiungere lo scopo dell’esistenza, che èdi adoperar bene le nostre forze, la nostra capacità, sen-za sprecare niente di quello che ci è dato, nei limiti delnostro destino.

Nemmeno nella mente di Graziano l’idea era benchiara; pure, egli sentí che in qualche misura era statacompresa. Giusto ribatté subito: – Sicuro, il nostro desti-no. Il padre di mio padre è morto decrepito nell’ospiziodov’era stato otto anni. Del resto, quando è l’ora di mo-rire, essere zappaterra o imperatore non fa differenza.

— Pensi all’ora di morire? Hai vent’anni.— Alle cose della religione io non so credere. E se

quelle cose non son vere, se non c’è un’altra vita, perchési viene al mondo?

Graziano, studiando una risposta per non lasciar quel-la domanda sospesa nell’aria, guardava nell’oscurità allaquale i suoi occhi s’erano ormai assuefatti, con un biso-gno di trovarvi cose solide e riconoscibili. Gli parevache il carro col suo lento moto camminasse in un luogosenza sostanza, senza limiti. Sentiva di non poter rassi-

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curare Giusto; anzi d’essere preso egli stesso da dubbiangosciosi. Che dire? Il pensiero svaniva perdendosinella notte nera. Davanti ai bovi si vedeva però l’ombradi Urbano, il quale andava calmo e sicuro. Il vecchionon cedeva mai quel posto a nessuno.

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curare Giusto; anzi d’essere preso egli stesso da dubbiangosciosi. Che dire? Il pensiero svaniva perdendosinella notte nera. Davanti ai bovi si vedeva però l’ombradi Urbano, il quale andava calmo e sicuro. Il vecchionon cedeva mai quel posto a nessuno.

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Il caffè era grande, tutto specchi e luce, affollato an-che in quell’ora del pomeriggio. Ascanio Farra avevavoluto provare ad entrarvi e rimanervi un poco, ma tuttilo guardavano. Gli erano sfuggiti gesti, parole? O si po-teva vedere ch’egli pensava in quella maniera? Andòvia. E non sapeva che fare, non aveva mai niente dafare. Aveva l’impressione di non essere piú nessuno;sentiva di esistere senza contare niente. Di Torino nongliene importava; non riusciva ad interessarsi di nulla;non cercava nemmeno i luoghi ove tanti ricordi dellasua gioventú dovevano essere rimasti.

Ogni mattina si sforzava di restare a letto, con queipensieri nel capo, finché non sentiva nella casa risve-gliarsi anche qualcun altro. Guardava le pareti, i mobilicome se fosse in un albergo. In un canto stavano i pac-chi di carte e di libri come li aveva fatti a Rebbia. Infinesi vestiva, in fretta ma con cura come sempre; nellospecchio dell’armadio si guardava le larghe spalle, gliocchi imperiosi, il color roseo del viso, sulle guance, acontrasto coi baffi, col pizzo, coi capelli, bianchi affatto.Gli veniva spontaneo l’atto di rizzare il busto mandandole spalle indietro, ma poi si dava un’occhiata sprezzante:— Ti hanno cacciato via! – Entrava a portargli il caffè

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Il caffè era grande, tutto specchi e luce, affollato an-che in quell’ora del pomeriggio. Ascanio Farra avevavoluto provare ad entrarvi e rimanervi un poco, ma tuttilo guardavano. Gli erano sfuggiti gesti, parole? O si po-teva vedere ch’egli pensava in quella maniera? Andòvia. E non sapeva che fare, non aveva mai niente dafare. Aveva l’impressione di non essere piú nessuno;sentiva di esistere senza contare niente. Di Torino nongliene importava; non riusciva ad interessarsi di nulla;non cercava nemmeno i luoghi ove tanti ricordi dellasua gioventú dovevano essere rimasti.

Ogni mattina si sforzava di restare a letto, con queipensieri nel capo, finché non sentiva nella casa risve-gliarsi anche qualcun altro. Guardava le pareti, i mobilicome se fosse in un albergo. In un canto stavano i pac-chi di carte e di libri come li aveva fatti a Rebbia. Infinesi vestiva, in fretta ma con cura come sempre; nellospecchio dell’armadio si guardava le larghe spalle, gliocchi imperiosi, il color roseo del viso, sulle guance, acontrasto coi baffi, col pizzo, coi capelli, bianchi affatto.Gli veniva spontaneo l’atto di rizzare il busto mandandole spalle indietro, ma poi si dava un’occhiata sprezzante:— Ti hanno cacciato via! – Entrava a portargli il caffè

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un domestico pallido, che bisbigliava il buongiorno conaria vile. Il vecchio andava alla finestra, scostava unatendina: spesso il cielo era grigio, pioveva o vi era neb-bia; nel giardino non c’erano che crisantemi; in distanzasi vedevano gli alberi del Valentino; nel cortile il coc-chiere attaccava il cavallo nero per condurre Sisto allaclinica. Che ci faceva egli, Ascanio, in questa città, inquesta casa tutta ordinata, indifferente? Suo figlio gua-dagnava molto, aveva comprato il villino, ma non gliaveva piú dato alcun aiuto. Chi avrebbe mosso un ditoper la sua salvezza? Del resto, salvarlo non sarebbe statopossibile.

La carrozza si metteva in moto, se ne andava. Biso-gnava fingere di cominciare una giornata; ma egli nonaveva piú ordini da dare, operai da sorvegliare; nessunolo aspettava; non doveva piú decidere niente: non erapiú nessuno. In camera vi era uno scaffale vuoto, ma didisfare i pacchi, riveder quei libri e quelle carte non neaveva voglia. In cantina stavano le sue casse; dentroc’erano anche le armi di San Martino e le annate delgiornale morto. Perché non era stato capace di lasciartutto, buttar via tutto, bruciare tutto, mentre aveva rega-late tante cose alla vecchia serva e tanti oggetti li avevafracassati col martello? Meglio sarebbe stato incenerireo gettare nella fossa della spazzatura tutto quanto. Ses-santotto anni di vita: niente, quei rottami, quella cenere.

Usciva, perché restando in casa non aveva un mo-mento di tregua dai pensieri, sempre i medesimi. Ma ap-pena fuori sarebbe voluto rientrare; anche in mezzo al

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un domestico pallido, che bisbigliava il buongiorno conaria vile. Il vecchio andava alla finestra, scostava unatendina: spesso il cielo era grigio, pioveva o vi era neb-bia; nel giardino non c’erano che crisantemi; in distanzasi vedevano gli alberi del Valentino; nel cortile il coc-chiere attaccava il cavallo nero per condurre Sisto allaclinica. Che ci faceva egli, Ascanio, in questa città, inquesta casa tutta ordinata, indifferente? Suo figlio gua-dagnava molto, aveva comprato il villino, ma non gliaveva piú dato alcun aiuto. Chi avrebbe mosso un ditoper la sua salvezza? Del resto, salvarlo non sarebbe statopossibile.

La carrozza si metteva in moto, se ne andava. Biso-gnava fingere di cominciare una giornata; ma egli nonaveva piú ordini da dare, operai da sorvegliare; nessunolo aspettava; non doveva piú decidere niente: non erapiú nessuno. In camera vi era uno scaffale vuoto, ma didisfare i pacchi, riveder quei libri e quelle carte non neaveva voglia. In cantina stavano le sue casse; dentroc’erano anche le armi di San Martino e le annate delgiornale morto. Perché non era stato capace di lasciartutto, buttar via tutto, bruciare tutto, mentre aveva rega-late tante cose alla vecchia serva e tanti oggetti li avevafracassati col martello? Meglio sarebbe stato incenerireo gettare nella fossa della spazzatura tutto quanto. Ses-santotto anni di vita: niente, quei rottami, quella cenere.

Usciva, perché restando in casa non aveva un mo-mento di tregua dai pensieri, sempre i medesimi. Ma ap-pena fuori sarebbe voluto rientrare; anche in mezzo al

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movimento della città, oppure in mezzo ai prati ed aicampi se camminava per stancarsi, quel pensare s’inter-rompeva poco; era una ruota che girava girava riportan-do sempre le stesse idee, le stesse visioni. Quando anco-ra stava nello stanzino accanto alla stamperia, e di là lemacchine seguitavano a fare i loro movimenti, a batterei loro colpi, macinando tanto denaro quanto se ne mette-va, ed egli vedeva giungere una dopo l’altra le scadenzedelle cambiali, avvicinarsi fatalmente anche la scadenzadel prestito, il giorno di pagare questo debito od esserespogliato di tutto ciò che era suo, molte volte desideravala fine del supplizio, a qualunque costo. La vita che vi-veva adesso era peggio. E che poteva fare per cambiar-la? Non c’era alcuna speranza: doveva rimanere in casadi Sisto a farsi mantenere come un inutile vecchio. Pen-sando che intorno a questa casa s’incominciasse a cono-scerlo, a sapere che campava alle spalle del figlio, arros-siva di vergogna. Gli erano rimaste poche migliaia dilire. Bruciarle! Di tutto ciò che aveva posseduto, di tuttii suoi affari, di tutto il suo lavoro gli restavano quei po-chi miserabili biglietti di banca.

Ascanio faceva sobbalzare le robuste spalle come seridesse di se stesso. Egli stava nello stanzino a sfogliarei registri, a fare e rifare conti, a logorarsi il cervello; nel-la stamperia badava che si raccogliessero i ritagli, chenon si sciupasse inchiostro, nemmeno quanto la punta diun coltello; e gli individui che s’erano messi d’accordocontro di lui, contavano i giorni, aspettavano la sua rovi-na certa. Tutta Rebbia era stata ad assistere come ad un

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movimento della città, oppure in mezzo ai prati ed aicampi se camminava per stancarsi, quel pensare s’inter-rompeva poco; era una ruota che girava girava riportan-do sempre le stesse idee, le stesse visioni. Quando anco-ra stava nello stanzino accanto alla stamperia, e di là lemacchine seguitavano a fare i loro movimenti, a batterei loro colpi, macinando tanto denaro quanto se ne mette-va, ed egli vedeva giungere una dopo l’altra le scadenzedelle cambiali, avvicinarsi fatalmente anche la scadenzadel prestito, il giorno di pagare questo debito od esserespogliato di tutto ciò che era suo, molte volte desideravala fine del supplizio, a qualunque costo. La vita che vi-veva adesso era peggio. E che poteva fare per cambiar-la? Non c’era alcuna speranza: doveva rimanere in casadi Sisto a farsi mantenere come un inutile vecchio. Pen-sando che intorno a questa casa s’incominciasse a cono-scerlo, a sapere che campava alle spalle del figlio, arros-siva di vergogna. Gli erano rimaste poche migliaia dilire. Bruciarle! Di tutto ciò che aveva posseduto, di tuttii suoi affari, di tutto il suo lavoro gli restavano quei po-chi miserabili biglietti di banca.

Ascanio faceva sobbalzare le robuste spalle come seridesse di se stesso. Egli stava nello stanzino a sfogliarei registri, a fare e rifare conti, a logorarsi il cervello; nel-la stamperia badava che si raccogliessero i ritagli, chenon si sciupasse inchiostro, nemmeno quanto la punta diun coltello; e gli individui che s’erano messi d’accordocontro di lui, contavano i giorni, aspettavano la sua rovi-na certa. Tutta Rebbia era stata ad assistere come ad un

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trattenimento. All’infuori dei mercati non succedevamai niente in quella città. Se egli era costretto ad andareper le viuzze vuote, dove i bottegai venivano sulle portequando udivano un passo; se doveva attraversare lapiazza addormentata intorno al vecchio duomo, cammi-nava deciso, a testa alta, senza guardar nessuno, ma sen-tiva gli occhi che dietro le gelosie osservavano maligna-mente la sua faccia. Forse ridacchiavano di lui anche glioperai della stamperia, che vi erano da trent’anni. Dellasua rovina avevano goduto tutti, gli uomini di ogni par-tito, i fannulloni che stavano nelle osterie a giocare a ta-rocchi, le donne che s’annoiavano in casa a far le ma-glie. «Adesso muore, il tuo giornale. È finita la storiadella tua indipendenza. Vattene via, onest’uomo chesei»! Per l’incanto volontario i fogli del bando sventola-vano attaccati al portone della sua casa, e tutti si ferma-vano a leggerli; a veder la casa dentro, era venuta genteche non aveva alcuna intenzione di comprare, erano ve-nuti i vicini, a curiosare, mentre egli si occupava delleproprie faccende come se non li sentisse neppure. Ades-so era del pastaio che aveva bottega dall’altra parte dellavia, la casa, coi famosi fregi di terracotta. Ma l’insegnadella facciata egli, Ascanio, l’aveva fatta calare un gior-no di mercato ed a mezzodí, in sua presenza, come am-mainando la bandiera.

Ora, in famiglia, non aveva voglia di parlare con nes-suno; rimaneva sempre in camera. Dalla finestra vedevail cocchiere lavar la carrozza, il giardiniere lavorare nel-la serra, Graziano andare al liceo o tornare, Claudia

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trattenimento. All’infuori dei mercati non succedevamai niente in quella città. Se egli era costretto ad andareper le viuzze vuote, dove i bottegai venivano sulle portequando udivano un passo; se doveva attraversare lapiazza addormentata intorno al vecchio duomo, cammi-nava deciso, a testa alta, senza guardar nessuno, ma sen-tiva gli occhi che dietro le gelosie osservavano maligna-mente la sua faccia. Forse ridacchiavano di lui anche glioperai della stamperia, che vi erano da trent’anni. Dellasua rovina avevano goduto tutti, gli uomini di ogni par-tito, i fannulloni che stavano nelle osterie a giocare a ta-rocchi, le donne che s’annoiavano in casa a far le ma-glie. «Adesso muore, il tuo giornale. È finita la storiadella tua indipendenza. Vattene via, onest’uomo chesei»! Per l’incanto volontario i fogli del bando sventola-vano attaccati al portone della sua casa, e tutti si ferma-vano a leggerli; a veder la casa dentro, era venuta genteche non aveva alcuna intenzione di comprare, erano ve-nuti i vicini, a curiosare, mentre egli si occupava delleproprie faccende come se non li sentisse neppure. Ades-so era del pastaio che aveva bottega dall’altra parte dellavia, la casa, coi famosi fregi di terracotta. Ma l’insegnadella facciata egli, Ascanio, l’aveva fatta calare un gior-no di mercato ed a mezzodí, in sua presenza, come am-mainando la bandiera.

Ora, in famiglia, non aveva voglia di parlare con nes-suno; rimaneva sempre in camera. Dalla finestra vedevail cocchiere lavar la carrozza, il giardiniere lavorare nel-la serra, Graziano andare al liceo o tornare, Claudia

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Page 130: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

uscire con la bambina: egli non era in questa vita chevedeva, e non vi sarebbe potuto entrare. Perfino il cane,grosso, velloso che si gettava al cancello se qualcuno sifermava o se comparivano altri cani, aveva il suo postoin quella vita. Il vecchio tentava di leggere almeno igiornali, d’interessarsi delle notizie, ma non vi riusciva:sempre doveva badare alle idee giranti nella sua mentecome sopra una ruota. Questo pensare lo spossava piú diun faticoso lavoro; gli faceva dolere il capo. Egli si sfor-zava di seguire altri pensieri, di fermar l’attenzione sullecose che aveva intorno nella stanza, di stare ad aspettarle poche persone e vetture che passavano nella via silen-ziosa; ad ora fissa passavano a frotte gli studenti che an-davano alle lezioni nei vicini istituti dell’università; masubito si trovava caduto in quei pensieri, in quei ricordi,che lo tenevano come tiene un dolore fisico, comel’ostinato tormento di un nervo ammalato. Lo prendevaun’angoscia: sapeva di non esser piú l’uomo di prima, sisentiva perduto. Non di rado si confondeva, pensando didover ancora provvedere a tutto ciò che ormai era fatto eterminato, estinguere cambiali, andare dal direttore dellabanca, pagare gli operai. Accorgendosi dell’errore, siguardava attorno come a domandarsi perché avesse po-tuto sbagliare.

Ogni sera vedeva l’imbrunire con apprensione. «Eccoun’altra notte» pensava poi sentendo entrare la carrozzadi Sisto. Non poteva mai prendere sonno. Mentre stavain letto ad occhi larghi, guardando le pareti ed i mobiliche gli erano estranei e odiosi, il girar della ruota dive-

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uscire con la bambina: egli non era in questa vita chevedeva, e non vi sarebbe potuto entrare. Perfino il cane,grosso, velloso che si gettava al cancello se qualcuno sifermava o se comparivano altri cani, aveva il suo postoin quella vita. Il vecchio tentava di leggere almeno igiornali, d’interessarsi delle notizie, ma non vi riusciva:sempre doveva badare alle idee giranti nella sua mentecome sopra una ruota. Questo pensare lo spossava piú diun faticoso lavoro; gli faceva dolere il capo. Egli si sfor-zava di seguire altri pensieri, di fermar l’attenzione sullecose che aveva intorno nella stanza, di stare ad aspettarle poche persone e vetture che passavano nella via silen-ziosa; ad ora fissa passavano a frotte gli studenti che an-davano alle lezioni nei vicini istituti dell’università; masubito si trovava caduto in quei pensieri, in quei ricordi,che lo tenevano come tiene un dolore fisico, comel’ostinato tormento di un nervo ammalato. Lo prendevaun’angoscia: sapeva di non esser piú l’uomo di prima, sisentiva perduto. Non di rado si confondeva, pensando didover ancora provvedere a tutto ciò che ormai era fatto eterminato, estinguere cambiali, andare dal direttore dellabanca, pagare gli operai. Accorgendosi dell’errore, siguardava attorno come a domandarsi perché avesse po-tuto sbagliare.

Ogni sera vedeva l’imbrunire con apprensione. «Eccoun’altra notte» pensava poi sentendo entrare la carrozzadi Sisto. Non poteva mai prendere sonno. Mentre stavain letto ad occhi larghi, guardando le pareti ed i mobiliche gli erano estranei e odiosi, il girar della ruota dive-

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niva terribile. Non si fermava piú, non un istante! Alloraegli udiva i rumori delle macchine nella stamperia; ve-deva, come se li avesse veramente dinanzi nella stanza,gli uomini che avevano voluta la sua rovina; sentiva leparole di compatimento untuoso, di rincrescimento falsocolle quali il direttore della banca aveva rifiutato di ri-mandar ancora una volta la scadenza del prestito. A trat-ti cadeva nel sonno per l’immensa stanchezza che ave-va; presto, però, era di nuovo sveglio, e subito quelleidee riprendevano a moversi. Erano formiche che cam-minavano per i meandri del suo cervello facendogli unintollerabile solletico. Allora scendeva a bagnarsi lafronte; la casa era in un silenzio profondo; egli si studia-va nello specchio gli occhi, che gli parevano avere unosguardo strano, fisso, e che nel bianco erano iniettati disangue. Guardava l’ora: l’alba era ancora molto lontana.Non poteva chiamar nessuno. Un terrore s’impadronivadi lui. – Sono malato – si diceva –. Diventerò pazzo?

Anche la sua famiglia, segretamente, aveva lo stessotimore. Poiché il vecchio se n’era sempre stato da sé, te-nendosi lontano, in principio tutti avevano avutal’impressione di conoscerlo poco, questo nonno ch’eravenuto in casa. Gabriella lo studiava senza farsene ac-corgere, con serietà. Egli era sempre taciturno; mangia-va pochissimo; qualche volta non volle scendere a tavo-la, bisognò mandargli roba in camera, ed accettò soltan-to pane e frutta. Stava fuori parecchie ore e non dicevamai dove fosse andato, quel che avesse fatto. Piú che unuomo diverso da loro, chiuso in se stesso, il vecchio co-

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niva terribile. Non si fermava piú, non un istante! Alloraegli udiva i rumori delle macchine nella stamperia; ve-deva, come se li avesse veramente dinanzi nella stanza,gli uomini che avevano voluta la sua rovina; sentiva leparole di compatimento untuoso, di rincrescimento falsocolle quali il direttore della banca aveva rifiutato di ri-mandar ancora una volta la scadenza del prestito. A trat-ti cadeva nel sonno per l’immensa stanchezza che ave-va; presto, però, era di nuovo sveglio, e subito quelleidee riprendevano a moversi. Erano formiche che cam-minavano per i meandri del suo cervello facendogli unintollerabile solletico. Allora scendeva a bagnarsi lafronte; la casa era in un silenzio profondo; egli si studia-va nello specchio gli occhi, che gli parevano avere unosguardo strano, fisso, e che nel bianco erano iniettati disangue. Guardava l’ora: l’alba era ancora molto lontana.Non poteva chiamar nessuno. Un terrore s’impadronivadi lui. – Sono malato – si diceva –. Diventerò pazzo?

Anche la sua famiglia, segretamente, aveva lo stessotimore. Poiché il vecchio se n’era sempre stato da sé, te-nendosi lontano, in principio tutti avevano avutal’impressione di conoscerlo poco, questo nonno ch’eravenuto in casa. Gabriella lo studiava senza farsene ac-corgere, con serietà. Egli era sempre taciturno; mangia-va pochissimo; qualche volta non volle scendere a tavo-la, bisognò mandargli roba in camera, ed accettò soltan-to pane e frutta. Stava fuori parecchie ore e non dicevamai dove fosse andato, quel che avesse fatto. Piú che unuomo diverso da loro, chiuso in se stesso, il vecchio co-

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minciava a sembrare a tutti, senza che si dicesse, quasiun nemico. Un giorno, mentre della famiglia erano incasa soltanto Claudia e la bambina, egli si mise a prepa-rarsi una valigia. Avvertita, Claudia salí da lui. Con visofosco Ascanio disse che voleva andar a Rebbia, «a vede-re». Sí, subito, vi erano ancora treni. Ella tentò di per-suaderlo a parlarne prima con Sisto. – Ma chi sono io? –protestò il vecchio, diritto sulla persona, tenendole ad-dosso uno sguardo che aveva un fuoco sinistro. – Unbambino? Non ho piú libertà? Voglio andar via, andarvia! – Claudia mandò alla clinica a chiamare d’urgenzaSisto; il quale fece avvisare anche un medico amico, unmedico dei pazzi. Nel frattempo Ascanio si accorsed’essere guardato a vista: scacciò il domestico che stavasenza far rumore nel corridoio. Sisto trovò il padre sedu-to in un angolo, sopra una sedia che non aveva scostatadal muro, con le braccia conserte, col viso un poco alza-to e duro come pietra. Non distante da lui vi era la vali-gia pronta. Quasi senza movere, il vecchio disse: – È lamaniera di ridurre un uomo? Non sono piú padrone dime. Che diritto hai di tenermi per forza? – Tuttavia ac-consentí a far entrare in camera l’altro medico; risposealle sue domande, da solo a solo. – So anch’io che nonsto bene – gli disse. – Vivendo in questo modo! Diventomatto certamente.

Il medico, anziano e famoso, giudicò il caso non gra-ve. Vi era uno stato maniaco che poteva durare e produr-re altre crisi, ma non pericolose. Egli e Sisto ragionaro-no lungamente. A dare piena libertà al vecchio non si

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minciava a sembrare a tutti, senza che si dicesse, quasiun nemico. Un giorno, mentre della famiglia erano incasa soltanto Claudia e la bambina, egli si mise a prepa-rarsi una valigia. Avvertita, Claudia salí da lui. Con visofosco Ascanio disse che voleva andar a Rebbia, «a vede-re». Sí, subito, vi erano ancora treni. Ella tentò di per-suaderlo a parlarne prima con Sisto. – Ma chi sono io? –protestò il vecchio, diritto sulla persona, tenendole ad-dosso uno sguardo che aveva un fuoco sinistro. – Unbambino? Non ho piú libertà? Voglio andar via, andarvia! – Claudia mandò alla clinica a chiamare d’urgenzaSisto; il quale fece avvisare anche un medico amico, unmedico dei pazzi. Nel frattempo Ascanio si accorsed’essere guardato a vista: scacciò il domestico che stavasenza far rumore nel corridoio. Sisto trovò il padre sedu-to in un angolo, sopra una sedia che non aveva scostatadal muro, con le braccia conserte, col viso un poco alza-to e duro come pietra. Non distante da lui vi era la vali-gia pronta. Quasi senza movere, il vecchio disse: – È lamaniera di ridurre un uomo? Non sono piú padrone dime. Che diritto hai di tenermi per forza? – Tuttavia ac-consentí a far entrare in camera l’altro medico; risposealle sue domande, da solo a solo. – So anch’io che nonsto bene – gli disse. – Vivendo in questo modo! Diventomatto certamente.

Il medico, anziano e famoso, giudicò il caso non gra-ve. Vi era uno stato maniaco che poteva durare e produr-re altre crisi, ma non pericolose. Egli e Sisto ragionaro-no lungamente. A dare piena libertà al vecchio non si

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poteva pensare; né era conveniente chiuderlo in unacasa di cura; bisognava custodirlo senza fargli tropposentire la custodia, curarlo in famiglia; inutile provare adistrarlo, meglio lasciarlo stare solo fin che cercasse dasé di occuparsi in qualche cosa. L’indomani Ascanio,senza difficoltà, fu condotto alla clinica per un’altra vi-sita, dalla quale il suo organismo risultò sano. Il figlio,esaminandolo, rivide su quel corpo asciutto il segno diuna ferita da lui riportata nella battaglia di San Martino:una palla di fucile gli aveva spezzata una costola stri-sciando poi sul fianco, dove ne era rimasto il solco.

Primo effetto dell’avvenimento fu che si dovetteprender la decisione di allontanare Gabriella. Una bam-bina di sette anni in collegio! Sua madre si sentiva man-care il cuore; pure, col pericolo che il vecchio avesse al-tre crisi, forse piú gravi, non era possibile continuare atenerla in casa. Gabriella, alta e robusta, con gli occhiscuri sempre piú grandi, era una bambina che giocava,discorreva, studiava i suoi libriccioli, ma sempre deside-rava soprattutto la compagnia della mamma. Quando levenne parlato di collegio, pianse molto; poi finí di accet-tare quel che le toccava. – Appena guarisce, torno acasa. Me lo prometti? – disse alla madre. Dopo la sepa-razione Claudia seguitò per molti giorni a versar lacrimedi nascosto; e piú di ogni altra cosa la mancanza di Ga-briella fece sentire ch’era successa una disgrazia.

Ascanio parve adattarsi alla sua condizione di malato.Gli fu destinato un domestico nuovo, ed egli sapevach’era un infermiere. Prendeva i rimedi. Ma non parlava

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poteva pensare; né era conveniente chiuderlo in unacasa di cura; bisognava custodirlo senza fargli tropposentire la custodia, curarlo in famiglia; inutile provare adistrarlo, meglio lasciarlo stare solo fin che cercasse dasé di occuparsi in qualche cosa. L’indomani Ascanio,senza difficoltà, fu condotto alla clinica per un’altra vi-sita, dalla quale il suo organismo risultò sano. Il figlio,esaminandolo, rivide su quel corpo asciutto il segno diuna ferita da lui riportata nella battaglia di San Martino:una palla di fucile gli aveva spezzata una costola stri-sciando poi sul fianco, dove ne era rimasto il solco.

Primo effetto dell’avvenimento fu che si dovetteprender la decisione di allontanare Gabriella. Una bam-bina di sette anni in collegio! Sua madre si sentiva man-care il cuore; pure, col pericolo che il vecchio avesse al-tre crisi, forse piú gravi, non era possibile continuare atenerla in casa. Gabriella, alta e robusta, con gli occhiscuri sempre piú grandi, era una bambina che giocava,discorreva, studiava i suoi libriccioli, ma sempre deside-rava soprattutto la compagnia della mamma. Quando levenne parlato di collegio, pianse molto; poi finí di accet-tare quel che le toccava. – Appena guarisce, torno acasa. Me lo prometti? – disse alla madre. Dopo la sepa-razione Claudia seguitò per molti giorni a versar lacrimedi nascosto; e piú di ogni altra cosa la mancanza di Ga-briella fece sentire ch’era successa una disgrazia.

Ascanio parve adattarsi alla sua condizione di malato.Gli fu destinato un domestico nuovo, ed egli sapevach’era un infermiere. Prendeva i rimedi. Ma non parlava

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piú affatto: sembrava un uomo profondamente offeso eterribilmente imbronciato. Non scese mai piú a tavola;mangiava in camera, pane e frutta oppure minestra,nient’altro. Quando uscí a passeggio, gli fu mandato ap-presso l’infermiere; ed egli si fermò ad aspettarlo: – Vie-ni addirittura con me. Non facciamo commedie. – Dira-dò le uscite; rimaneva in camera giornate intere ed an-che piú giorni di seguito; non toccò i pacchi; ad una pa-rete era appeso un calendario da staccarne i fogli: lofece portar via. Se un momento discendeva in giardino arespirare, non dava neanche un’occhiata al buon cane,che ogni volta gli veniva attorno con le sue maniere cor-diali e chiassone. Anche contro le cose pareva avere unrancore; non fermava mai lo sguardo sopra nessuna.Nell’aspetto era sempre eguale, per la cura della personaper quell’aria di fiera dignità; ma l’espressionedell’occhio era cattiva. Stando in camera non facevaniente, mai. Gli erano portati giornali e non li apriva.Passeggiava, passeggiava; sempre, di sotto, si sentivanosul soffitto quei passi. Pensava sempre? Guardava lun-gamente dalla finestra, scostando appena le tendine;guardava piovere, guardava cader la neve. Lo udivanoparlar da solo a bassa voce, ma di rado. In giornate sere-ne talvolta comandava all’infermiere di accompagnarloe andava a far lunghe camminate fuori di città, col cu-stode a fianco, senza mai rivolgergli la parola né darglirisposta. Salivano a trovarlo Graziano, tornando dal li-ceo, e Sisto quando rincasava, la sera tardi; spesso ilvecchio stava nell’angolo, seduto su quella sedia, a

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piú affatto: sembrava un uomo profondamente offeso eterribilmente imbronciato. Non scese mai piú a tavola;mangiava in camera, pane e frutta oppure minestra,nient’altro. Quando uscí a passeggio, gli fu mandato ap-presso l’infermiere; ed egli si fermò ad aspettarlo: – Vie-ni addirittura con me. Non facciamo commedie. – Dira-dò le uscite; rimaneva in camera giornate intere ed an-che piú giorni di seguito; non toccò i pacchi; ad una pa-rete era appeso un calendario da staccarne i fogli: lofece portar via. Se un momento discendeva in giardino arespirare, non dava neanche un’occhiata al buon cane,che ogni volta gli veniva attorno con le sue maniere cor-diali e chiassone. Anche contro le cose pareva avere unrancore; non fermava mai lo sguardo sopra nessuna.Nell’aspetto era sempre eguale, per la cura della personaper quell’aria di fiera dignità; ma l’espressionedell’occhio era cattiva. Stando in camera non facevaniente, mai. Gli erano portati giornali e non li apriva.Passeggiava, passeggiava; sempre, di sotto, si sentivanosul soffitto quei passi. Pensava sempre? Guardava lun-gamente dalla finestra, scostando appena le tendine;guardava piovere, guardava cader la neve. Lo udivanoparlar da solo a bassa voce, ma di rado. In giornate sere-ne talvolta comandava all’infermiere di accompagnarloe andava a far lunghe camminate fuori di città, col cu-stode a fianco, senza mai rivolgergli la parola né darglirisposta. Salivano a trovarlo Graziano, tornando dal li-ceo, e Sisto quando rincasava, la sera tardi; spesso ilvecchio stava nell’angolo, seduto su quella sedia, a

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guardare il soffitto; restituiva il saluto con un brontolio etosto riprendeva a guardare in su, senza battere palpebrané prestare attenzione ad alcun discorso. Il suo silenzioera terribilmente solido: dava l’idea ch’egli vi fosse mu-rato dentro. Ma le persone della famiglia non riuscivanoa vincere del tutto la sensazione ch’egli si comportassein quella maniera per una cattiva volontà.

Metello non aveva piú potuto rivedere il padre da die-ci anni. Liberato da un’amnistia dopo un anno di reclu-sione per la rivolta di Milano, aveva ripresa la sua vitacon l’energia accumulata in carcere; era sempre in viag-gio per la penisola; chiese tuttavia al fratello di prepara-re il vecchio ad una sua visita. Appena Sisto ne ebbepronunziato il nome, Ascanio crollò le spalle, gli gettòun’occhiata che diceva: «Questo nome non lo vogliosentire»! Anche le giornate di Sisto erano sempre intera-mente impegnate; faceva spesso rapide gite in altre città,chiamato a consulto. L’inverno sembrava terminato mavenne ancora una gran nevicata, e la mattina seguente sivide splendere il sole su tutto quel bianco. Allora Sistotardò ad andare alla clinica, salí dal padre offrendogli diuscire insieme: il vecchio lo seguí senza aprir bocca.Andarono a piedi al Valentino, che non era distante.Ascanio lasciò che il figlio, discorrendo tranquillamen-te, infilasse il braccio sotto il suo; però camminavacome se intorno a lui non esistesse niente. Si rassomi-gliavano, i due, anche nella espressione severa; la pocagente che incontrarono, osservava un istante quel vec-chio signore cosí imbronciato. Nel parco Sisto gli fece

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guardare il soffitto; restituiva il saluto con un brontolio etosto riprendeva a guardare in su, senza battere palpebrané prestare attenzione ad alcun discorso. Il suo silenzioera terribilmente solido: dava l’idea ch’egli vi fosse mu-rato dentro. Ma le persone della famiglia non riuscivanoa vincere del tutto la sensazione ch’egli si comportassein quella maniera per una cattiva volontà.

Metello non aveva piú potuto rivedere il padre da die-ci anni. Liberato da un’amnistia dopo un anno di reclu-sione per la rivolta di Milano, aveva ripresa la sua vitacon l’energia accumulata in carcere; era sempre in viag-gio per la penisola; chiese tuttavia al fratello di prepara-re il vecchio ad una sua visita. Appena Sisto ne ebbepronunziato il nome, Ascanio crollò le spalle, gli gettòun’occhiata che diceva: «Questo nome non lo vogliosentire»! Anche le giornate di Sisto erano sempre intera-mente impegnate; faceva spesso rapide gite in altre città,chiamato a consulto. L’inverno sembrava terminato mavenne ancora una gran nevicata, e la mattina seguente sivide splendere il sole su tutto quel bianco. Allora Sistotardò ad andare alla clinica, salí dal padre offrendogli diuscire insieme: il vecchio lo seguí senza aprir bocca.Andarono a piedi al Valentino, che non era distante.Ascanio lasciò che il figlio, discorrendo tranquillamen-te, infilasse il braccio sotto il suo; però camminavacome se intorno a lui non esistesse niente. Si rassomi-gliavano, i due, anche nella espressione severa; la pocagente che incontrarono, osservava un istante quel vec-chio signore cosí imbronciato. Nel parco Sisto gli fece

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rallentare il passo, gli parlò a voce piú bassa: – Babbo,dimmi qualchecosa. Non stare sempre chiuso in te. Iocomprendo la tua condizione, ma non devi pensare sem-pre a ciò ch’è accaduto. Ora sei con noi; io sono certoche finirai di trovarti bene; abbi fiducia!

Il braccio del padre parve ammorbidirsi un poco, seb-bene egli continuasse a guardar diritto innanzi a sé, a te-sta alta. Sisto riprese: – Hai avuto dolori, sfortuna; tihanno fatta la guerra, hai patito dei torti; ma non seimica il solo! Tu ignori quello che sopporto io. Neanchea me non perdonano. Anzi, devo sempre scontare dura-mente ogni successo, la fortuna della clinica, gli onoriche mi sono stati resi all’estero, perfino i guadagni. Ilmetodo Sparvieri, con la mia variante, è ormai accettatoin tutto il mondo: la banda del Pòrpora, la banda del sie-ro, non me lo perdona. Essi mi hanno tolto anche il cor-so libero. Quando ho lasciato l’ospedale di Santa Chia-ra, la Facoltà non mi ha permesso d’insegnare nella miaclinica. Vedi che so anch’io che cosa vuol dire aver deinemici.

Sotto il sole brillante, nell’aria freddina e pulita, inmezzo ad una distesa bianca dove da poco, con lo spaz-zaneve, era stato aperto un passaggio, Ascanio cammi-nava rigido e silenzioso come prima; pure, ascoltava. Edil figlio si sentiva venir su dal fondo dell’animo paroleche non ne erano mai uscite; non le trattenne. – Ho sof-ferto e soffro molto. Nessuno lo sa. Ho sempre volutosalire alla sfera piú alta degli studi, alla scienza pura, esempre il destino mi ha ricacciato giú, come se non ne

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rallentare il passo, gli parlò a voce piú bassa: – Babbo,dimmi qualchecosa. Non stare sempre chiuso in te. Iocomprendo la tua condizione, ma non devi pensare sem-pre a ciò ch’è accaduto. Ora sei con noi; io sono certoche finirai di trovarti bene; abbi fiducia!

Il braccio del padre parve ammorbidirsi un poco, seb-bene egli continuasse a guardar diritto innanzi a sé, a te-sta alta. Sisto riprese: – Hai avuto dolori, sfortuna; tihanno fatta la guerra, hai patito dei torti; ma non seimica il solo! Tu ignori quello che sopporto io. Neanchea me non perdonano. Anzi, devo sempre scontare dura-mente ogni successo, la fortuna della clinica, gli onoriche mi sono stati resi all’estero, perfino i guadagni. Ilmetodo Sparvieri, con la mia variante, è ormai accettatoin tutto il mondo: la banda del Pòrpora, la banda del sie-ro, non me lo perdona. Essi mi hanno tolto anche il cor-so libero. Quando ho lasciato l’ospedale di Santa Chia-ra, la Facoltà non mi ha permesso d’insegnare nella miaclinica. Vedi che so anch’io che cosa vuol dire aver deinemici.

Sotto il sole brillante, nell’aria freddina e pulita, inmezzo ad una distesa bianca dove da poco, con lo spaz-zaneve, era stato aperto un passaggio, Ascanio cammi-nava rigido e silenzioso come prima; pure, ascoltava. Edil figlio si sentiva venir su dal fondo dell’animo paroleche non ne erano mai uscite; non le trattenne. – Ho sof-ferto e soffro molto. Nessuno lo sa. Ho sempre volutosalire alla sfera piú alta degli studi, alla scienza pura, esempre il destino mi ha ricacciato giú, come se non ne

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fossi degno. Il destino: che altro? Per qualche tempo,m’illudo che la sorte cambi, mi dia ragione, poi rico-mincia, vuole tirarmi in basso. Ma io so bene ciò chevalgo! Soltanto la morte mi farà cedere. E non disperoaffatto. Mi sento nel pieno delle forze.

Giunsero in riva al Po, sul quale si vedeva un cavato-re di sabbia risalire adagio la corrente con la sua barcapuntando il lungo remo sul fondo. Si fermarono. Sistostudiava il viso del padre, ne cercava lo sguardo; gli dis-se sorridendo: – Vedi? Mi sono confessato. Abbi fiduciaanche tu. Parla! – Ma il vecchio guardava il fiume. S’eraaperto il cappotto, sbottonata la giacca; sul panciottoluccicava la sua grossa catena d’oro, e gli occhi di Sistosi posarono sopra la medaglia che sempre ne aveva vistapendere: egli pensò con amarezza che era proprio suopadre, questo vecchio che non parlava piú; era lo stessoche a Rebbia lavorava nello stanzino della stamperia.Con le sue pupille cattive Ascanio seguiva il cavatore disabbia. Ad un tratto disse: – Quell’uomo è libero. Puòandare dove vuole. – Ed il figlio riudí con meraviglia ilsuono della sua voce. – Tu dove vorresti andare? – glidomandò. Ma l’altro non diede risposta; s’era levato ilcappello e si tastava le ossa del cranio, cautamente,come toccando una cosa guasta. Sisto mandò un profon-do sospiro e lo ricondusse a casa.

In quei giorni la stagione fece un colpo di scena: lagente si trovò all’improvviso in primavera. Gli alberidei viali misero le gemme, che subito scoppiarono in fo-glie tenere; i giardinieri s’affrettarono a piantare in tutte

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fossi degno. Il destino: che altro? Per qualche tempo,m’illudo che la sorte cambi, mi dia ragione, poi rico-mincia, vuole tirarmi in basso. Ma io so bene ciò chevalgo! Soltanto la morte mi farà cedere. E non disperoaffatto. Mi sento nel pieno delle forze.

Giunsero in riva al Po, sul quale si vedeva un cavato-re di sabbia risalire adagio la corrente con la sua barcapuntando il lungo remo sul fondo. Si fermarono. Sistostudiava il viso del padre, ne cercava lo sguardo; gli dis-se sorridendo: – Vedi? Mi sono confessato. Abbi fiduciaanche tu. Parla! – Ma il vecchio guardava il fiume. S’eraaperto il cappotto, sbottonata la giacca; sul panciottoluccicava la sua grossa catena d’oro, e gli occhi di Sistosi posarono sopra la medaglia che sempre ne aveva vistapendere: egli pensò con amarezza che era proprio suopadre, questo vecchio che non parlava piú; era lo stessoche a Rebbia lavorava nello stanzino della stamperia.Con le sue pupille cattive Ascanio seguiva il cavatore disabbia. Ad un tratto disse: – Quell’uomo è libero. Puòandare dove vuole. – Ed il figlio riudí con meraviglia ilsuono della sua voce. – Tu dove vorresti andare? – glidomandò. Ma l’altro non diede risposta; s’era levato ilcappello e si tastava le ossa del cranio, cautamente,come toccando una cosa guasta. Sisto mandò un profon-do sospiro e lo ricondusse a casa.

In quei giorni la stagione fece un colpo di scena: lagente si trovò all’improvviso in primavera. Gli alberidei viali misero le gemme, che subito scoppiarono in fo-glie tenere; i giardinieri s’affrettarono a piantare in tutte

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le aiuole tulipani e giacinti. Al liceo una mattina, il pro-fessore di storia, un buon uomo grassoccio, fece aprirele finestre: – Poiché la primavera è venuta, abbia buonaaccoglienza. – Poi prese a parlare della Lega di Cam-brai, col sorriso sulla larga faccia, con quel suo modo diraccontar la storia come se si trattasse di cose che, in-somma, erano andate a finir bene. Nella prima fila dibanchi scrivevano in fretta le sue parole eguali eguali leragazze, alcune belline, altre bruttine, tutte con qualchesegno della primavera addosso, nei nastri che portavanoal collo, nella pettinatura bene architettata. «Le conqui-ste della Serenissima Repubblica di Venezia avevanodestate gelosie e suscitati timori, si può dire, in tutti imaggiori Stati dell’Europa occidentale emeridionale...». Graziano sentiva la voce dell’insegnan-te come il ronzío d’una macchinetta che non potesse si-gnificare nulla. Portava distrattamente lo sguardo dibanco in banco, da un lato della classe all’altro, sullefile di compagni che si sforzavano di seguire il filo delracconto o parlottavano tra vicini o leggevano di nasco-sto un libro posato sui ginocchi. Era presente anche Spi-netta, un giovine dai baffi già lunghi, il quale aveva gi-rati parecchi licei e veniva a scuola quando non sapevache far di meglio. Bruto Corese, appoggiando la largaschiena al banco che aveva dietro e tenendo incrociatele braccia, ascoltava il professore con cert’aria sdegno-sa. In capo ad un banco vicino ad una finestra scrivevaassortamente, come occupato in una faccenda molto piúimportante che la lezione, un ragazzo piuttosto tarchia-

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le aiuole tulipani e giacinti. Al liceo una mattina, il pro-fessore di storia, un buon uomo grassoccio, fece aprirele finestre: – Poiché la primavera è venuta, abbia buonaaccoglienza. – Poi prese a parlare della Lega di Cam-brai, col sorriso sulla larga faccia, con quel suo modo diraccontar la storia come se si trattasse di cose che, in-somma, erano andate a finir bene. Nella prima fila dibanchi scrivevano in fretta le sue parole eguali eguali leragazze, alcune belline, altre bruttine, tutte con qualchesegno della primavera addosso, nei nastri che portavanoal collo, nella pettinatura bene architettata. «Le conqui-ste della Serenissima Repubblica di Venezia avevanodestate gelosie e suscitati timori, si può dire, in tutti imaggiori Stati dell’Europa occidentale emeridionale...». Graziano sentiva la voce dell’insegnan-te come il ronzío d’una macchinetta che non potesse si-gnificare nulla. Portava distrattamente lo sguardo dibanco in banco, da un lato della classe all’altro, sullefile di compagni che si sforzavano di seguire il filo delracconto o parlottavano tra vicini o leggevano di nasco-sto un libro posato sui ginocchi. Era presente anche Spi-netta, un giovine dai baffi già lunghi, il quale aveva gi-rati parecchi licei e veniva a scuola quando non sapevache far di meglio. Bruto Corese, appoggiando la largaschiena al banco che aveva dietro e tenendo incrociatele braccia, ascoltava il professore con cert’aria sdegno-sa. In capo ad un banco vicino ad una finestra scrivevaassortamente, come occupato in una faccenda molto piúimportante che la lezione, un ragazzo piuttosto tarchia-

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to, Valente Mazzè; e la sua testa grossa, pesante di riccineri, una testa da operaio, pareva piú rozza nella luce se-rena e dorata da cui era avvolto.

Nelle finestre si vedevano dei tetti, una terrazza sullaquale non compariva mai nessuno, e la cima d’una vec-chia chiesa, sul cielo azzurrino. In quello spazio ove pa-reva sospesa una leggera polvere d’oro ci s’aspettava diveder volare piccoli angeli. Con gli occhi Graziano viandò, si librava lontano. «Leda» egli disse a fior di lab-bra; ripeté il nome alcune volte, come se nel pronunziar-lo si sentisse vicina la donna a cui esso apparteneva.Dov’era Leda in quel momento? Stava sul balcone?Camminava per la città? Bel viso, corpo stupendo; unasuperbia ed insieme una morbidezza, in tutto, nei linea-menti, nelle movenze, nel modo di guardare. Egli nesentiva la presenza, là fuori, come se il mondo non fosseche il suo regno. L’aveva incontrata per la prima voltaun mattino, con quella donnetta accanto ch’era sua ma-dre; sembrava una principessa ed anche un’amazzone dicirco. Aveva sui capelli d’oro un piccolo berretto diastrakan; le disegnava il busto, il seno ardito una giac-chetta guernita della stessa pelliccia; sotto la lunga vestenera s’indovinavano nel passo gambe che parevano av-vezze a cavalcare vigorosi cavalli. Lo aveva guardato unpo’ di sbieco, in un modo che non si poteva capire bene.Poi, incontrandolo da sola, gli aveva rivolto un sorrisofiero, invitante ed ironico. Qualche giorno dopo, un ra-gazzetto del ginnasio, topolino furbo, gli aveva conse-gnato un biglietto con l’alta scrittura e la firma «Leda».

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to, Valente Mazzè; e la sua testa grossa, pesante di riccineri, una testa da operaio, pareva piú rozza nella luce se-rena e dorata da cui era avvolto.

Nelle finestre si vedevano dei tetti, una terrazza sullaquale non compariva mai nessuno, e la cima d’una vec-chia chiesa, sul cielo azzurrino. In quello spazio ove pa-reva sospesa una leggera polvere d’oro ci s’aspettava diveder volare piccoli angeli. Con gli occhi Graziano viandò, si librava lontano. «Leda» egli disse a fior di lab-bra; ripeté il nome alcune volte, come se nel pronunziar-lo si sentisse vicina la donna a cui esso apparteneva.Dov’era Leda in quel momento? Stava sul balcone?Camminava per la città? Bel viso, corpo stupendo; unasuperbia ed insieme una morbidezza, in tutto, nei linea-menti, nelle movenze, nel modo di guardare. Egli nesentiva la presenza, là fuori, come se il mondo non fosseche il suo regno. L’aveva incontrata per la prima voltaun mattino, con quella donnetta accanto ch’era sua ma-dre; sembrava una principessa ed anche un’amazzone dicirco. Aveva sui capelli d’oro un piccolo berretto diastrakan; le disegnava il busto, il seno ardito una giac-chetta guernita della stessa pelliccia; sotto la lunga vestenera s’indovinavano nel passo gambe che parevano av-vezze a cavalcare vigorosi cavalli. Lo aveva guardato unpo’ di sbieco, in un modo che non si poteva capire bene.Poi, incontrandolo da sola, gli aveva rivolto un sorrisofiero, invitante ed ironico. Qualche giorno dopo, un ra-gazzetto del ginnasio, topolino furbo, gli aveva conse-gnato un biglietto con l’alta scrittura e la firma «Leda».

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Gli appuntamenti erano dati sempre in vie remote; pas-seggiavano un quarto d’ora lungo assiti di case in co-struzione, sui marciapiedi di collegi impassibili; quindiella se ne andava in fretta. Da vicino Graziano avevanotato che il naso di Leda somigliava un tantino al bec-co dei rapaci, e che agli occhi non grandi davaun’espressione equivoca il bistro con cui erano fatti.Cessato il freddo, ella venne con un vestito nero attilla-to, con un grappolo di glicine finto puntato sul seno econ un piccolo cuore di corallo appeso nella scollatura;tutto ciò sapeva di povertà e ricomparve poi sempre;soltanto i fiori finti furono cambiati. Ma anche i difettidi Leda piacevano a Graziano molto. Il suo aspetto erapiuttosto di donna che di ragazza. Ella gli aveva dettosubito di avere già ventidue anni; sapeva ch’era figliodel professore Farra, sapeva com’era composta la suafamiglia, sapeva che il villino era di loro proprietà. Vo-lentieri lo faceva parlare di queste cose, della loro vita.Nel discorrere lo guardava come per curiosità, socchiu-dendo le labbra carnose sui denti voraci, in quel sorrisoincomprensibile. Lo trattava con maniere di superiorità.– Noi siamo poveri – gli disse una volta, sempre in tonoaltero. Oltre i biglietti con gli appuntamenti gli scrivevaqualche lettera, e vi era un amore appassionato e sotto-messo nel quale Graziano non riusciva a riconoscerla.Quando egli le portò fiori del suo giardino, Leda li presenelle belle lunghe mani con un fare indulgente, comepensando che i fiori non servivano a nulla. Abitualmen-te il contegno ch’ella teneva con lui, pareva significare:

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Gli appuntamenti erano dati sempre in vie remote; pas-seggiavano un quarto d’ora lungo assiti di case in co-struzione, sui marciapiedi di collegi impassibili; quindiella se ne andava in fretta. Da vicino Graziano avevanotato che il naso di Leda somigliava un tantino al bec-co dei rapaci, e che agli occhi non grandi davaun’espressione equivoca il bistro con cui erano fatti.Cessato il freddo, ella venne con un vestito nero attilla-to, con un grappolo di glicine finto puntato sul seno econ un piccolo cuore di corallo appeso nella scollatura;tutto ciò sapeva di povertà e ricomparve poi sempre;soltanto i fiori finti furono cambiati. Ma anche i difettidi Leda piacevano a Graziano molto. Il suo aspetto erapiuttosto di donna che di ragazza. Ella gli aveva dettosubito di avere già ventidue anni; sapeva ch’era figliodel professore Farra, sapeva com’era composta la suafamiglia, sapeva che il villino era di loro proprietà. Vo-lentieri lo faceva parlare di queste cose, della loro vita.Nel discorrere lo guardava come per curiosità, socchiu-dendo le labbra carnose sui denti voraci, in quel sorrisoincomprensibile. Lo trattava con maniere di superiorità.– Noi siamo poveri – gli disse una volta, sempre in tonoaltero. Oltre i biglietti con gli appuntamenti gli scrivevaqualche lettera, e vi era un amore appassionato e sotto-messo nel quale Graziano non riusciva a riconoscerla.Quando egli le portò fiori del suo giardino, Leda li presenelle belle lunghe mani con un fare indulgente, comepensando che i fiori non servivano a nulla. Abitualmen-te il contegno ch’ella teneva con lui, pareva significare:

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«Tu saresti mio, se io volessi; ma ho tante cose per ilcapo e tanti corteggiatori!». Una volta, di pieno giorno,gli posò le labbra sulla bocca. Nei momenti passati in-sieme a lei, era tutto nuovo ciò che Graziano provava,immensamente piú bello che il resto della vita, e gli ri-maneva poi nell’animo. L’idea ch’egli aveva di Leda,era d’una creatura meravigliosa, misteriosa, piena di fa-scino come di una potenza; la quale per ragioni oscureviveva in mezzo ad una misera famiglia, portava queivestiti rimediati e quel monile da poche lire, il cuore dicorallo.

Gli giunse improvviso lo squillare del campanelloelettrico in classe. Era il segnale che schiudeva la portaa quella sezione della seconda liceale come a tutto il re-gio liceo-ginnasio. Successe il solito rimescolio, poi iltorrenziale riversarsi delle scolaresche nella strada. Gra-ziano scappò via solo. Voleva passare sotto le finestre diLeda. Egli aveva ora diciassette anni; era alto, alquantosottile ma di aspetto sano; aveva piccoli baffi lisciati congran cura. Della famiglia di Leda aveva saputo che ilpadre era un commerciante fallito, i fratelli portavanoattorno le scarpe rotte senza volontà di lavorare, e su perle scale di casa strepitavano ogni tanto dei creditori nonpagati. La madre egli l’aveva vista: sotto un cappelluc-cio sciupato due occhi pungenti, coi quali cercava sem-pre in giro come se andasse scovando qualcuno, nonpromettevano niente di buono. Abitavano in una via nonmolto distante dalla sua ma fatta di grigi e trascurati ca-samenti gremiti di piccoli borghesi. Su quel balcone del

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«Tu saresti mio, se io volessi; ma ho tante cose per ilcapo e tanti corteggiatori!». Una volta, di pieno giorno,gli posò le labbra sulla bocca. Nei momenti passati in-sieme a lei, era tutto nuovo ciò che Graziano provava,immensamente piú bello che il resto della vita, e gli ri-maneva poi nell’animo. L’idea ch’egli aveva di Leda,era d’una creatura meravigliosa, misteriosa, piena di fa-scino come di una potenza; la quale per ragioni oscureviveva in mezzo ad una misera famiglia, portava queivestiti rimediati e quel monile da poche lire, il cuore dicorallo.

Gli giunse improvviso lo squillare del campanelloelettrico in classe. Era il segnale che schiudeva la portaa quella sezione della seconda liceale come a tutto il re-gio liceo-ginnasio. Successe il solito rimescolio, poi iltorrenziale riversarsi delle scolaresche nella strada. Gra-ziano scappò via solo. Voleva passare sotto le finestre diLeda. Egli aveva ora diciassette anni; era alto, alquantosottile ma di aspetto sano; aveva piccoli baffi lisciati congran cura. Della famiglia di Leda aveva saputo che ilpadre era un commerciante fallito, i fratelli portavanoattorno le scarpe rotte senza volontà di lavorare, e su perle scale di casa strepitavano ogni tanto dei creditori nonpagati. La madre egli l’aveva vista: sotto un cappelluc-cio sciupato due occhi pungenti, coi quali cercava sem-pre in giro come se andasse scovando qualcuno, nonpromettevano niente di buono. Abitavano in una via nonmolto distante dalla sua ma fatta di grigi e trascurati ca-samenti gremiti di piccoli borghesi. Su quel balcone del

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terzo piano adesso Leda non c’era. La sua finestra Gra-ziano la conosceva, ma non vide apparirvi la bella figu-ra, e nemmeno nell’altre: subito gli sembrò che fossevuoto il mondo. Dopo aver atteso un poco, a qualche di-stanza, andò via; ma non aveva piú voglia di rincasarené di continuar la giornata; sentiva alla gola un nodo ditristezza. Si domandava perché si trovasse obbligato apensare a lei, occuparsi di lei; perché dovesse soffrire senon la vedeva e non riceveva i suoi biglietti. Se n’era in-namorato; l’innamorarsi era questo. Ma come era potutocapitargli senza che fosse accaduto alcun fatto importan-te, senza nessuna ragione se non quella che Leda eracosí bella? Egli n’era sempre stupito e ne provava ancheun po’ di sdegno e di rabbia. A casa, chiusa in un casset-to insieme ai biglietti ed alle lettere di lei, aveva una suapiccola fotografia, fatta non sapeva da chi né dove, laquale la mostrava in cima ad una gradinata, con un cap-pello di paglia appeso per i nastri ad una mano. Nonvolle cercare il ritratto. A guardarlo sentiva sempre unvago dolore, come se vi leggesse: «Questa è Leda, cosíbella, ma non tua. È in una vita che non è la tua».

Invano aspettò un altro appuntamento. Poiché eranoincominciati al Valentino i concerti della banda civicaed ella gli aveva detto che vi andava, anche Graziano laprima domenica vi andò. Nell’aria oziosa del pomerig-gio festivo si spargeva un pezzo d’opera con «a solo» dicornetta. Il palco della musica era in fondo ad un viale;tra una sonata e l’altra il pubblico passeggiava sotto gliippocastani, una gran folla. I suoni, poi questo lento mo-

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terzo piano adesso Leda non c’era. La sua finestra Gra-ziano la conosceva, ma non vide apparirvi la bella figu-ra, e nemmeno nell’altre: subito gli sembrò che fossevuoto il mondo. Dopo aver atteso un poco, a qualche di-stanza, andò via; ma non aveva piú voglia di rincasarené di continuar la giornata; sentiva alla gola un nodo ditristezza. Si domandava perché si trovasse obbligato apensare a lei, occuparsi di lei; perché dovesse soffrire senon la vedeva e non riceveva i suoi biglietti. Se n’era in-namorato; l’innamorarsi era questo. Ma come era potutocapitargli senza che fosse accaduto alcun fatto importan-te, senza nessuna ragione se non quella che Leda eracosí bella? Egli n’era sempre stupito e ne provava ancheun po’ di sdegno e di rabbia. A casa, chiusa in un casset-to insieme ai biglietti ed alle lettere di lei, aveva una suapiccola fotografia, fatta non sapeva da chi né dove, laquale la mostrava in cima ad una gradinata, con un cap-pello di paglia appeso per i nastri ad una mano. Nonvolle cercare il ritratto. A guardarlo sentiva sempre unvago dolore, come se vi leggesse: «Questa è Leda, cosíbella, ma non tua. È in una vita che non è la tua».

Invano aspettò un altro appuntamento. Poiché eranoincominciati al Valentino i concerti della banda civicaed ella gli aveva detto che vi andava, anche Graziano laprima domenica vi andò. Nell’aria oziosa del pomerig-gio festivo si spargeva un pezzo d’opera con «a solo» dicornetta. Il palco della musica era in fondo ad un viale;tra una sonata e l’altra il pubblico passeggiava sotto gliippocastani, una gran folla. I suoni, poi questo lento mo-

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versi della gente in su ed in giú, nel parco bene ordinatoe di nuovo tutto verde, sembrarono inutili al ragazzo chenon trovava Leda; ma infine la vide. Aveva un vestitonuovo, chiaro, aperto a punta sul petto, con un largocappello ornato di papaveri e con guanti neri fino al go-mito. Anche questo abbigliamento dava un’idea di cosastentata; ella, però, con l’alta persona vigorosa ed elasti-ca, con quel passo principesco, col seno stretto nel cor-petto aderente, col collo nudo, con l’oro dei capelli, conlo sguardo un poco beffardo nella falsa dolcezza delviso, era assai bella e sentiva la propria bellezza. Passa-va come se la festa fosse in suo onore. Era guardata an-che dalle donne; gli occhi degli uomini non se ne sape-vano staccare. Compagnie di giovinotti si voltavano, fa-cendo commenti, perché la conoscevano; e subito dietrolei camminavano, con un’intenzione di corteggiamentoaudace, due giovani ufficiali d’artiglieria. Accompagna-va Leda uno dei suoi fratelli, lungo, dinoccolato, con unsottile sigaro tra i denti, che non mostrava d’accorgersidi nulla. Dopo averla incontrata, Graziano le ripassò ac-canto piú volte, con la corrente: ella non lo vide. Mai ilragazzo aveva sentito cosí nettamente che non contavaaffatto nell’esistenza di Leda; gli pareva, anzi, ch’ellaappartenesse a chi la voleva, ma non a lui. Chiamarla,afferrarla per le braccia inguantate, a dispetto di tutti!Invece, uscito dal viale, la osservò di lontano, ora fer-mandosi ora andando presto, pieno d’angoscia ed agita-to da una sorda rabbia. Quegli ufficiali seguivano sem-pre Leda. Insieme dolore e sollievo provò Graziano

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versi della gente in su ed in giú, nel parco bene ordinatoe di nuovo tutto verde, sembrarono inutili al ragazzo chenon trovava Leda; ma infine la vide. Aveva un vestitonuovo, chiaro, aperto a punta sul petto, con un largocappello ornato di papaveri e con guanti neri fino al go-mito. Anche questo abbigliamento dava un’idea di cosastentata; ella, però, con l’alta persona vigorosa ed elasti-ca, con quel passo principesco, col seno stretto nel cor-petto aderente, col collo nudo, con l’oro dei capelli, conlo sguardo un poco beffardo nella falsa dolcezza delviso, era assai bella e sentiva la propria bellezza. Passa-va come se la festa fosse in suo onore. Era guardata an-che dalle donne; gli occhi degli uomini non se ne sape-vano staccare. Compagnie di giovinotti si voltavano, fa-cendo commenti, perché la conoscevano; e subito dietrolei camminavano, con un’intenzione di corteggiamentoaudace, due giovani ufficiali d’artiglieria. Accompagna-va Leda uno dei suoi fratelli, lungo, dinoccolato, con unsottile sigaro tra i denti, che non mostrava d’accorgersidi nulla. Dopo averla incontrata, Graziano le ripassò ac-canto piú volte, con la corrente: ella non lo vide. Mai ilragazzo aveva sentito cosí nettamente che non contavaaffatto nell’esistenza di Leda; gli pareva, anzi, ch’ellaappartenesse a chi la voleva, ma non a lui. Chiamarla,afferrarla per le braccia inguantate, a dispetto di tutti!Invece, uscito dal viale, la osservò di lontano, ora fer-mandosi ora andando presto, pieno d’angoscia ed agita-to da una sorda rabbia. Quegli ufficiali seguivano sem-pre Leda. Insieme dolore e sollievo provò Graziano

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quando la perdette di vista e non poté piú ritrovare tra lafolla l’alta figura, i papaveri. Qualche giorno dopo ebbeda lei uno dei suoi cartoncini, con poche linee che dice-vano: «Mia madre ha trovate le tue lettere. Infinite noie.Tu sei troppo giovine. Devo per forza chiederti di nonpensare piú a me, e sono triste». Cadde in un avvilimen-to profondo, in una malinconia amarissima; non potevapiú studiare né mangiare.

Claudia se ne accorse e molto vagamente indovinava.Entrando spesso nella sua camera, gli andava vicina: –Che cos’hai, Graziano? – Ma il figlio non ammettevad’esser diverso dal solito e s’infastidiva delle carezze.Claudia conservava la sua grazia snella di giovinetta,sempre vestita nella maniera piú semplice, anche per an-dare a passeggio o in visita, avvolta d’un profumo divioletta tanto leggero che appena si conosceva qualeprofumo fosse. Talvolta mostrava un fervore un poconervoso che le faceva brillar gli occhi, come un punti-glio d’aver ragione di ogni difficoltà. Il vecchio «amma-lato» viveva sempre allo stesso modo; crisi gravi non ven’erano state; aveva periodi d’agitazione nei quali il suosguardo era piú cattivo ed egli comandava con impa-zienza all’infermiere di accompagnarlo, per far le lun-ghe camminate fuori di città. In famiglia si pensava chesarebbe rimasto sempre cosí. Gabriella, ormai, non do-mandava piú: – Quando guarisce? – Nei giorni di vacan-za la bambina veniva a casa con la bizzarra uniforme diquel collegio, fatta alla moda di settant’anni prima: cap-pello a mantice di carrozza, foderato di raso azzurro;

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quando la perdette di vista e non poté piú ritrovare tra lafolla l’alta figura, i papaveri. Qualche giorno dopo ebbeda lei uno dei suoi cartoncini, con poche linee che dice-vano: «Mia madre ha trovate le tue lettere. Infinite noie.Tu sei troppo giovine. Devo per forza chiederti di nonpensare piú a me, e sono triste». Cadde in un avvilimen-to profondo, in una malinconia amarissima; non potevapiú studiare né mangiare.

Claudia se ne accorse e molto vagamente indovinava.Entrando spesso nella sua camera, gli andava vicina: –Che cos’hai, Graziano? – Ma il figlio non ammettevad’esser diverso dal solito e s’infastidiva delle carezze.Claudia conservava la sua grazia snella di giovinetta,sempre vestita nella maniera piú semplice, anche per an-dare a passeggio o in visita, avvolta d’un profumo divioletta tanto leggero che appena si conosceva qualeprofumo fosse. Talvolta mostrava un fervore un poconervoso che le faceva brillar gli occhi, come un punti-glio d’aver ragione di ogni difficoltà. Il vecchio «amma-lato» viveva sempre allo stesso modo; crisi gravi non ven’erano state; aveva periodi d’agitazione nei quali il suosguardo era piú cattivo ed egli comandava con impa-zienza all’infermiere di accompagnarlo, per far le lun-ghe camminate fuori di città. In famiglia si pensava chesarebbe rimasto sempre cosí. Gabriella, ormai, non do-mandava piú: – Quando guarisce? – Nei giorni di vacan-za la bambina veniva a casa con la bizzarra uniforme diquel collegio, fatta alla moda di settant’anni prima: cap-pello a mantice di carrozza, foderato di raso azzurro;

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giacchetta a vita, listata di velluto azzurro; gonnellagonfia, tutta pieghe. Sembrava vestita cosí per ischerzo.Arrivando, correva per il giardino, a vedere come s’erafatto bello; giocava un momento con Fiocco, il cane.Alcuni anni prima questo cane era stato comprato picci-no, grazioso come tutti gli animali nati da poco; secondoil venditore, doveva rimanere suppergiú la matassa dilana che era; invece non finiva mai di crescere, i Farraavevan visto venirne fuori una grossa bestia tutta arro-tondata dal pelo che pareva sempre sporco, un cane ab-bastanza somigliante a quelli che guidavano i ciechi.Però, l’intelligenza gli splendeva negli occhi rotondi edil suo carattere era festoso e bonario. Nessuno volle maidire che un cane cosí brutto non si potesse tenere. PoiGabriella si attaccava alla mamma, non la lasciava piú.All’ora di ripartire l’abbracciava di nuovo molte volte,sospirando. La rassegnazione dimostrata dalla bambinariapriva la ferita di Claudia piú che non avrebbero fattosmanie e pianti.

Tra le afflizioni nuove duravano quelle antiche. AdOrtensia ella mandava spesso del denaro; da lontano ve-deva con accoramento la decadenza della sorella conti-nuare nei suoi figli, sebbene tutta la famiglia si mante-nesse limpidamente onesta ed i giovani, dandosi a pic-coli impieghi, a lavori umili, non paressero scontenti.Ad intervalli regolari giungevano sempre le lettere diAleramo. Da un penitenziario, dopo qualche anno, egliera trasferito ad un altro; cambiavano in testa ai foglicarcerari quei nomi che indicavano piccole isole inca-

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giacchetta a vita, listata di velluto azzurro; gonnellagonfia, tutta pieghe. Sembrava vestita cosí per ischerzo.Arrivando, correva per il giardino, a vedere come s’erafatto bello; giocava un momento con Fiocco, il cane.Alcuni anni prima questo cane era stato comprato picci-no, grazioso come tutti gli animali nati da poco; secondoil venditore, doveva rimanere suppergiú la matassa dilana che era; invece non finiva mai di crescere, i Farraavevan visto venirne fuori una grossa bestia tutta arro-tondata dal pelo che pareva sempre sporco, un cane ab-bastanza somigliante a quelli che guidavano i ciechi.Però, l’intelligenza gli splendeva negli occhi rotondi edil suo carattere era festoso e bonario. Nessuno volle maidire che un cane cosí brutto non si potesse tenere. PoiGabriella si attaccava alla mamma, non la lasciava piú.All’ora di ripartire l’abbracciava di nuovo molte volte,sospirando. La rassegnazione dimostrata dalla bambinariapriva la ferita di Claudia piú che non avrebbero fattosmanie e pianti.

Tra le afflizioni nuove duravano quelle antiche. AdOrtensia ella mandava spesso del denaro; da lontano ve-deva con accoramento la decadenza della sorella conti-nuare nei suoi figli, sebbene tutta la famiglia si mante-nesse limpidamente onesta ed i giovani, dandosi a pic-coli impieghi, a lavori umili, non paressero scontenti.Ad intervalli regolari giungevano sempre le lettere diAleramo. Da un penitenziario, dopo qualche anno, egliera trasferito ad un altro; cambiavano in testa ai foglicarcerari quei nomi che indicavano piccole isole inca-

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stonate negli splendenti mari del Mezzogiorno; sempreil recluso chiedeva la libertà, ossia la grazia; per averlamandava innanzi la sua «pratica» fondandosi sul codice,sui regolamenti penali, che conosceva a perfezione, ma-novrando dal reclusorio tutte le leve sulle quali si potes-se agire. I suoi gridi per la libertà prendevano forme cu-rialesche, diventavano argomentazioni d’avvocato; maattraverso le parole legali si mostrava l’uomo, come unviso dietro un’inferriata: «Io vedo uscir di qua con lagrazia sovrana i briganti, – scriveva – e per me non vie-ne mai il giorno della riparazione». Parlava ogni voltadell’ingiusta severità della sentenza che lo voleva segre-gato dal mondo per tutta la vita; della famiglia di lei, disua moglie, che aveva provocata ferocemente quellasentenza, e del Pubblico Ministero che aveva aiutata lavendetta. Quasi in ogni lettera vi erano cancellature im-penetrabili fatte dal direttore della casa di pena. Leggen-do, Claudia vedeva il recluso come Sisto lo aveva vedu-to visitandolo nell’uno o nell’altro penitenziario: uomopallido con la casacca a strisce e con le carni flaccide ditutti gli altri condannati chiusi negli stanzoni a cucire ofare ricami con le macchine, ma sorretto da una durissi-ma volontà. Passavano gli anni, e nelle lettere si sentivasempre quella medesima volontà di tornare al mondo.Sisto, per procurargli la grazia, non risparmiava sforzi.Ma in un vecchio palazzo d’una piccola città della pro-vincia consumava le giornate sopra un seggiolone, para-litica e vecchissima, la madre dell’uccisa; ed in lei il fat-to era sempre vivo, come tanti anni prima, come il gior-

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stonate negli splendenti mari del Mezzogiorno; sempreil recluso chiedeva la libertà, ossia la grazia; per averlamandava innanzi la sua «pratica» fondandosi sul codice,sui regolamenti penali, che conosceva a perfezione, ma-novrando dal reclusorio tutte le leve sulle quali si potes-se agire. I suoi gridi per la libertà prendevano forme cu-rialesche, diventavano argomentazioni d’avvocato; maattraverso le parole legali si mostrava l’uomo, come unviso dietro un’inferriata: «Io vedo uscir di qua con lagrazia sovrana i briganti, – scriveva – e per me non vie-ne mai il giorno della riparazione». Parlava ogni voltadell’ingiusta severità della sentenza che lo voleva segre-gato dal mondo per tutta la vita; della famiglia di lei, disua moglie, che aveva provocata ferocemente quellasentenza, e del Pubblico Ministero che aveva aiutata lavendetta. Quasi in ogni lettera vi erano cancellature im-penetrabili fatte dal direttore della casa di pena. Leggen-do, Claudia vedeva il recluso come Sisto lo aveva vedu-to visitandolo nell’uno o nell’altro penitenziario: uomopallido con la casacca a strisce e con le carni flaccide ditutti gli altri condannati chiusi negli stanzoni a cucire ofare ricami con le macchine, ma sorretto da una durissi-ma volontà. Passavano gli anni, e nelle lettere si sentivasempre quella medesima volontà di tornare al mondo.Sisto, per procurargli la grazia, non risparmiava sforzi.Ma in un vecchio palazzo d’una piccola città della pro-vincia consumava le giornate sopra un seggiolone, para-litica e vecchissima, la madre dell’uccisa; ed in lei il fat-to era sempre vivo, come tanti anni prima, come il gior-

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no in cui il sangue era stato versato. Non si poteva otte-nere, com’era necessario, che sotto la domanda di graziaella mettesse la sua firma.

* * *

Bruto Corese aveva avuto il nome romano, due voltesimbolico, dal padre di sua madre, ch’era stato capitanodi Garibaldi. Nella famiglia si manteneva un certo ardo-re garibaldino, un resto di passione eroica per la libertàe la repubblica. Il ragazzo era indeciso tra due vie daprendere, a suo tempo: farsi avvocato e darsi alla politi-ca repubblicana, o studiare recitazione e divenire attore.Non era stato un fiero repubblicano il grande attore Gu-stavo Modena? La figura di Bruto prometteva di adattar-si bene all’una come all’altra carriera: buona statura,quelle quadrate spalle, ricca chioma bionda, viso espres-sivo ben rasato, con un naso aquilino e con occhi azzurrinei quali erano i riflessi dell’acciaio. Egli aveva robustoanche l’ingegno; se ne mostrava orgoglioso quanto dellabella apparenza, ma in una maniera franca, virile, chenon dispiaceva.

Per un bisogno nuovo d’amicizia, a sostituire in qual-che maniera l’amore, Graziano si avvicinò a questocompagno, essendovi tra loro stima e simpatia recipro-ca. Con Bruto incominciò a fare, la sera, delle passeg-giate che spesso diventavano interminabili dialoghi so-pra la vita, la morte, l’anima, l’infinito. Nessuno dei dueaveva in quel tempo una buona opinione dell’universo;

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no in cui il sangue era stato versato. Non si poteva otte-nere, com’era necessario, che sotto la domanda di graziaella mettesse la sua firma.

* * *

Bruto Corese aveva avuto il nome romano, due voltesimbolico, dal padre di sua madre, ch’era stato capitanodi Garibaldi. Nella famiglia si manteneva un certo ardo-re garibaldino, un resto di passione eroica per la libertàe la repubblica. Il ragazzo era indeciso tra due vie daprendere, a suo tempo: farsi avvocato e darsi alla politi-ca repubblicana, o studiare recitazione e divenire attore.Non era stato un fiero repubblicano il grande attore Gu-stavo Modena? La figura di Bruto prometteva di adattar-si bene all’una come all’altra carriera: buona statura,quelle quadrate spalle, ricca chioma bionda, viso espres-sivo ben rasato, con un naso aquilino e con occhi azzurrinei quali erano i riflessi dell’acciaio. Egli aveva robustoanche l’ingegno; se ne mostrava orgoglioso quanto dellabella apparenza, ma in una maniera franca, virile, chenon dispiaceva.

Per un bisogno nuovo d’amicizia, a sostituire in qual-che maniera l’amore, Graziano si avvicinò a questocompagno, essendovi tra loro stima e simpatia recipro-ca. Con Bruto incominciò a fare, la sera, delle passeg-giate che spesso diventavano interminabili dialoghi so-pra la vita, la morte, l’anima, l’infinito. Nessuno dei dueaveva in quel tempo una buona opinione dell’universo;

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Bruto era però convinto che al mondo avrebbe saputoviverci e fare molta strada. Entrarono insieme in unastessa società di canottieri; insieme, nell’ore libere, ve-stiti delle belle maglie bianche con stemma rosso, solca-rono il Po avanti e indietro, filando sulle imbarcazionisottili come coltelli al piede dei muraglioni o lungo lerive del Valentino, godendo lo sforzo delle membra dalquale nasceva l’impeto liscio dello scafo sull’acquascorrente. Passarono sul fiume tutte le domeniche, viag-giando verso qualche paese dove poi pranzavano nelletrattorie che avevano terrazze e pergolati presso gli ap-prodi. In mezzo alla campagna tiravano in secco la bar-ca e si gettavano a nuoto; riposavano stando in piedi neibassi fondi e rompevano il silenzio con voci tonanti, conle canzoni degli studenti. Allora Graziano ricordava ilsergentaccio ch’era morto in Africa, Paoletto, quandofaceva il bagno nella peschiera della Stellata. In queimomenti sognava pure di essere veduto da Leda, comese ella potesse trovarsi – chissà come e perché – suquelle sponde. Sapeva dal ragazzetto del ginnasio cheLeda aveva cambiata casa ed ora abitava in un sobbor-go; ma non ne aveva piú avuto segno di vita. Anchenell’ampio spazio sereno, sotto il sole che faceva scintil-lare la corrente in mezzo all’aria viva, odorosa di cam-pagna e di quell’acqua linda, il pensiero di lei subito ri-svegliava il dolore amaro, la nera gelosia; e Grazianos’affrettava a scuotere il capo per cacciarlo. Aveva fattain proposito qualche confidenza a Bruto; il quale gli di-

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Bruto era però convinto che al mondo avrebbe saputoviverci e fare molta strada. Entrarono insieme in unastessa società di canottieri; insieme, nell’ore libere, ve-stiti delle belle maglie bianche con stemma rosso, solca-rono il Po avanti e indietro, filando sulle imbarcazionisottili come coltelli al piede dei muraglioni o lungo lerive del Valentino, godendo lo sforzo delle membra dalquale nasceva l’impeto liscio dello scafo sull’acquascorrente. Passarono sul fiume tutte le domeniche, viag-giando verso qualche paese dove poi pranzavano nelletrattorie che avevano terrazze e pergolati presso gli ap-prodi. In mezzo alla campagna tiravano in secco la bar-ca e si gettavano a nuoto; riposavano stando in piedi neibassi fondi e rompevano il silenzio con voci tonanti, conle canzoni degli studenti. Allora Graziano ricordava ilsergentaccio ch’era morto in Africa, Paoletto, quandofaceva il bagno nella peschiera della Stellata. In queimomenti sognava pure di essere veduto da Leda, comese ella potesse trovarsi – chissà come e perché – suquelle sponde. Sapeva dal ragazzetto del ginnasio cheLeda aveva cambiata casa ed ora abitava in un sobbor-go; ma non ne aveva piú avuto segno di vita. Anchenell’ampio spazio sereno, sotto il sole che faceva scintil-lare la corrente in mezzo all’aria viva, odorosa di cam-pagna e di quell’acqua linda, il pensiero di lei subito ri-svegliava il dolore amaro, la nera gelosia; e Grazianos’affrettava a scuotere il capo per cacciarlo. Aveva fattain proposito qualche confidenza a Bruto; il quale gli di-

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ceva in tono rustico e canzonatorio: – Ricordati che ladonna è soltanto la femmina dell’animale uomo.

Bruto era in amicizia stretta con un altro compagno,Valente Mazzè. Ne conosceva la famiglia, andava a tro-varla fuori di città, in un loro vecchio casale dove ave-vano impiantata un’officina. La madre era un’arpistache da giovine era stata famosa in tutta Europa; il padre,chimico, avendo consumato molto denaro in ricerche edinvenzioni d’ogni genere, s’era messo in testa di rifarsicostruendo motori per le automobili, insieme a due figliche studiavano da ingegneri meccanici. Di due ragazze,l’una dipingeva e l’altra dava lezioni di musica. Il figliomaggiore era da anni andato nel Sud Africa, e non neavevano piú notizie. Straordinariamente attivi ed irre-quieti, tutti. Valente, che a tempo perso lavorava eglipure nell’officina, aveva mani da meccanico, quei capel-li neri ricci duri, il naso schiacciato in conseguenzad’una caduta fatta da bambino; parlava poco, esprimen-dosi sempre in termini recisi. Al liceo stava di fronte aiprofessori con cert’aria di eguale; ma sapeva semprequel che bisognava sapere. Finite le lezioni, spariva sen-za accompagnarsi con nessuno. Di sera frequentava uncircolo di lettura, ne andava e veniva carico di libri; maqualche volta capitava a cercar Bruto per passeggiarecon lui. Nelle discussioni aveva l’abitudine di ribatteredicendo: «Nego, nego». E spesso l’amico lo interpellavacon questo soprannome, Nego, che gli stava bene, aven-done in risposta un sorriso che altrimenti schiariva assaidi rado la sua faccia piatta.

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ceva in tono rustico e canzonatorio: – Ricordati che ladonna è soltanto la femmina dell’animale uomo.

Bruto era in amicizia stretta con un altro compagno,Valente Mazzè. Ne conosceva la famiglia, andava a tro-varla fuori di città, in un loro vecchio casale dove ave-vano impiantata un’officina. La madre era un’arpistache da giovine era stata famosa in tutta Europa; il padre,chimico, avendo consumato molto denaro in ricerche edinvenzioni d’ogni genere, s’era messo in testa di rifarsicostruendo motori per le automobili, insieme a due figliche studiavano da ingegneri meccanici. Di due ragazze,l’una dipingeva e l’altra dava lezioni di musica. Il figliomaggiore era da anni andato nel Sud Africa, e non neavevano piú notizie. Straordinariamente attivi ed irre-quieti, tutti. Valente, che a tempo perso lavorava eglipure nell’officina, aveva mani da meccanico, quei capel-li neri ricci duri, il naso schiacciato in conseguenzad’una caduta fatta da bambino; parlava poco, esprimen-dosi sempre in termini recisi. Al liceo stava di fronte aiprofessori con cert’aria di eguale; ma sapeva semprequel che bisognava sapere. Finite le lezioni, spariva sen-za accompagnarsi con nessuno. Di sera frequentava uncircolo di lettura, ne andava e veniva carico di libri; maqualche volta capitava a cercar Bruto per passeggiarecon lui. Nelle discussioni aveva l’abitudine di ribatteredicendo: «Nego, nego». E spesso l’amico lo interpellavacon questo soprannome, Nego, che gli stava bene, aven-done in risposta un sorriso che altrimenti schiariva assaidi rado la sua faccia piatta.

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Cosí accadde che le passeggiate serali riunirono avolte i tre compagni. Valente Mazzè provava per Gra-ziano un’avversione, come se lo trovasse troppo bello eraffinato; non gliela nascondeva, evitava di guardarlo, dirivolgergli la parola direttamente. L’espressione del suoviso e le sue maniere erano d’uomo fatto. Portava unberretto da ciclista, cosí pesante che quasi sempre lo te-neva sotto l’ascella. Camminando camminando, i tretrascinavano dispute filosofiche, con voci alte ed aspreche facevano allargar gli occhi ai passanti. Per ischerzoBruto e Graziano amavano semplificare la realtà in unmodo che voleva essere scientifico, rappresentando laterra come una palla di sostanza minerale coperta dimuffe e di parassiti, chiamando gli uomini «protoplasmapensante» e considerando il sentimento amoroso comeun effetto dell’attività di alcune ghiandole.

— Che credete di dire – protestava Valente – dicendoquesto? – Quando s’irritava, il suo largo viso rimanevainvariato, soltanto i ricci parevano agitarsi viperinamen-te. La sua opinione fondamentale era un disprezzodell’intelligenza. Platone, Dante, Vico, Kant, gran cer-velli. E che cosa avevano capito? Che conoscevano?Anche la scienza, da un secolo all’altro, non era che unadiversa maniera di combinar errori e fantasticherie. Gliscienziati credevano di osservare, pesare, analizzare lamateria, atomi e nebulose, mentre la materia non esiste-va, era soltanto un inganno dei sensi. Non esistevano lecostellazioni come non esistevano i colori veduti da tut-ti, i suoni uditi da tutti.

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Cosí accadde che le passeggiate serali riunirono avolte i tre compagni. Valente Mazzè provava per Gra-ziano un’avversione, come se lo trovasse troppo bello eraffinato; non gliela nascondeva, evitava di guardarlo, dirivolgergli la parola direttamente. L’espressione del suoviso e le sue maniere erano d’uomo fatto. Portava unberretto da ciclista, cosí pesante che quasi sempre lo te-neva sotto l’ascella. Camminando camminando, i tretrascinavano dispute filosofiche, con voci alte ed aspreche facevano allargar gli occhi ai passanti. Per ischerzoBruto e Graziano amavano semplificare la realtà in unmodo che voleva essere scientifico, rappresentando laterra come una palla di sostanza minerale coperta dimuffe e di parassiti, chiamando gli uomini «protoplasmapensante» e considerando il sentimento amoroso comeun effetto dell’attività di alcune ghiandole.

— Che credete di dire – protestava Valente – dicendoquesto? – Quando s’irritava, il suo largo viso rimanevainvariato, soltanto i ricci parevano agitarsi viperinamen-te. La sua opinione fondamentale era un disprezzodell’intelligenza. Platone, Dante, Vico, Kant, gran cer-velli. E che cosa avevano capito? Che conoscevano?Anche la scienza, da un secolo all’altro, non era che unadiversa maniera di combinar errori e fantasticherie. Gliscienziati credevano di osservare, pesare, analizzare lamateria, atomi e nebulose, mentre la materia non esiste-va, era soltanto un inganno dei sensi. Non esistevano lecostellazioni come non esistevano i colori veduti da tut-ti, i suoni uditi da tutti.

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— Lo sappiamo – disse Graziano. – Ma allora perchéleggi, perché studi?

Nego lo guardò un istante, quasi sorpreso d’aver avu-ta da lui un’obiezione valida: – Hai ragione. Non dovrei.

Quando si separavano, Graziano si chiedeva semprese veramente questo compagno gli era superiore. Fortelo sentiva, ma senza comprendere qual’era la sua forza.Pensava che Valente, giudicandolo sfavorevolmente,non avesse torto. Era tempo di cambiar vita o piuttostod’incominciare a vivere. Ossia a scrivere: nel proprioavvenire non vedeva altro. Ma per scrivere era necessa-rio imparar a guardare il mondo; gli venivano in mentesoggetti di racconti, drammi, romanzi, poi si convincevache non avevano alcun significato; lo scrivere dovevaessere uno stare di fronte alla vita e giudicarla; ciò cheadesso poteva scrivere, gli faceva pietà. Del resto, ognivolta che si metteva a tavolino e guardava il foglio bian-co, da quel vuoto della pagina ove avrebbe dovuto trac-ciar parole gli veniva una malinconia, un sentimento tri-ste e largo di sfiducia. Forse era il dubbio che lo scriverenon servisse a niente. Che cosa vedeva d’infinito, d’irre-parabile, nella bianchezza vuota del foglio?

Una sera Sisto, salito come sempre a vedere il padre,ridiscese con una notizia sorprendente: alcuni dei pac-chi, sempre rimasti nella camera perché non s’era volutoparlargli di levarli, erano disfatti; parecchi libri si alli-neavano sui piani dello scaffale, filze di carte, mucchi dilettere stavano sulla scrivania e sulle sedie; il vecchio,seduto sul bordo del letto, contemplava il suo lavoro. Si-

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— Lo sappiamo – disse Graziano. – Ma allora perchéleggi, perché studi?

Nego lo guardò un istante, quasi sorpreso d’aver avu-ta da lui un’obiezione valida: – Hai ragione. Non dovrei.

Quando si separavano, Graziano si chiedeva semprese veramente questo compagno gli era superiore. Fortelo sentiva, ma senza comprendere qual’era la sua forza.Pensava che Valente, giudicandolo sfavorevolmente,non avesse torto. Era tempo di cambiar vita o piuttostod’incominciare a vivere. Ossia a scrivere: nel proprioavvenire non vedeva altro. Ma per scrivere era necessa-rio imparar a guardare il mondo; gli venivano in mentesoggetti di racconti, drammi, romanzi, poi si convincevache non avevano alcun significato; lo scrivere dovevaessere uno stare di fronte alla vita e giudicarla; ciò cheadesso poteva scrivere, gli faceva pietà. Del resto, ognivolta che si metteva a tavolino e guardava il foglio bian-co, da quel vuoto della pagina ove avrebbe dovuto trac-ciar parole gli veniva una malinconia, un sentimento tri-ste e largo di sfiducia. Forse era il dubbio che lo scriverenon servisse a niente. Che cosa vedeva d’infinito, d’irre-parabile, nella bianchezza vuota del foglio?

Una sera Sisto, salito come sempre a vedere il padre,ridiscese con una notizia sorprendente: alcuni dei pac-chi, sempre rimasti nella camera perché non s’era volutoparlargli di levarli, erano disfatti; parecchi libri si alli-neavano sui piani dello scaffale, filze di carte, mucchi dilettere stavano sulla scrivania e sulle sedie; il vecchio,seduto sul bordo del letto, contemplava il suo lavoro. Si-

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sto, Claudia ed il ragazzo si domandarono se avrebbecontinuato. Ma da qualche tempo avevan già visto cherispondeva ai saluti e che, scendendo in giardino, rivol-geva qualche parola a Fiocco, il quale gli mostrava lapropria riconoscenza mettendogli le zampe addosso. In-fatti tutte le carte vennero collocate nei cassetti e tutti ilibri presero posto sullo scaffale. Un mattino Ascanio at-tese il figlio nell’ora in cui andava alla clinica; gli chiesese poteva portar a spasso il cane, da solo. – E senza se-guito, – aggiunse come scherzando ma con la faccia fie-ra.

— Certamente! – rispose Sisto dopo averlo studiatoun istante. Fece informare Claudia e dirle che lo avver-tisse se il vecchio tardava troppo a rientrare. L’infermie-re ebbe ordine di rimanere a casa. Si comprese che ilcane non era solamente il pretesto dell’uscita da solo mauna garanzia delle buone intenzioni.

Quando Ascanio uscí insieme a Fiocco dal cancello,la bestia non cessava piú di saltargli attorno abbaiando.Con piglio deciso il vecchio si diresse al viale piú vici-no: passando accanto alle persone che incontrava, stavaattento ai loro sguardi, ma non vi era sospetto di nulla,era guardato come ogni altro. Non gli sembrava vero dinon aver a fianco quell’uomo, l’infermiere, dal quale sisentiva tenuto come per una corda invisibile. Il viale erapiú lungo, il cielo piú spazioso, ogni cosa diversadall’altre volte. Egli provava anche un leggero timore diessere ad un tratto richiamato; si sentiva però straordina-riamente forte, ed il suo passo si fece sempre piú sciolto.

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sto, Claudia ed il ragazzo si domandarono se avrebbecontinuato. Ma da qualche tempo avevan già visto cherispondeva ai saluti e che, scendendo in giardino, rivol-geva qualche parola a Fiocco, il quale gli mostrava lapropria riconoscenza mettendogli le zampe addosso. In-fatti tutte le carte vennero collocate nei cassetti e tutti ilibri presero posto sullo scaffale. Un mattino Ascanio at-tese il figlio nell’ora in cui andava alla clinica; gli chiesese poteva portar a spasso il cane, da solo. – E senza se-guito, – aggiunse come scherzando ma con la faccia fie-ra.

— Certamente! – rispose Sisto dopo averlo studiatoun istante. Fece informare Claudia e dirle che lo avver-tisse se il vecchio tardava troppo a rientrare. L’infermie-re ebbe ordine di rimanere a casa. Si comprese che ilcane non era solamente il pretesto dell’uscita da solo mauna garanzia delle buone intenzioni.

Quando Ascanio uscí insieme a Fiocco dal cancello,la bestia non cessava piú di saltargli attorno abbaiando.Con piglio deciso il vecchio si diresse al viale piú vici-no: passando accanto alle persone che incontrava, stavaattento ai loro sguardi, ma non vi era sospetto di nulla,era guardato come ogni altro. Non gli sembrava vero dinon aver a fianco quell’uomo, l’infermiere, dal quale sisentiva tenuto come per una corda invisibile. Il viale erapiú lungo, il cielo piú spazioso, ogni cosa diversadall’altre volte. Egli provava anche un leggero timore diessere ad un tratto richiamato; si sentiva però straordina-riamente forte, ed il suo passo si fece sempre piú sciolto.

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Era dunque vero che guariva? Nella sua testa un cam-biamento era avvenuto. Da principio egli aveva capitoche la ruota dei pensieri non girava piú nella stessa ma-niera terribile; s’era accorto che ogni tanto li dimentica-va, che tornavano dopo pause sempre piú lunghe, e cheerano meno tormentosi, quei pensieri, quasi una nebbia.Di notte dormiva per ore. Pure, non si poteva liberardella paura che la ruota ripigliasse a girare come prima.

Intanto Fiocco, secondo il suo pessimo costume, cor-reva innanzi allontanandosi molto, scantonava in ognivia, oppure restava indietro a far il chiasso con cani piúgiovani. Quando pareva scomparso affatto, ritornavaall’improvviso presso il vecchio, di gran carriera, gli gi-rava intorno a bocca aperta, anelante, fissandolo comeper dirgli: «Vedi che non scappo?» Ascanio volle pro-varsi in luoghi piú difficili; si portò in una via attigua,interminabile ed assai animata. A quell’ora, malgrado ilsole di giugno, non faceva ancora caldo. Ciò che vide, ilrapido scorrere dei tranvai, il va e vieni delle serve daun vicino mercato, le botteghe riversanti roba fin sullastrada, i chioschi dei giornalai, tutto gli riuscí nuovo.Osservava delle donne ferme sui portoni a chiacchiera-re, un vecchione che se ne andava in ciabatte, con lapipa in bocca e la sporta per la spesa, dicendosi che tuttivivevano senza pensarvi, tranquillamente e con facilità.Mentre gli altri passavano il tempo in questo modo, eglise n’era stato rinchiuso per volontà propria o aveva gira-to sotto sorveglianza; ma non per colpa di nessuno, acausa di quella malattia della sua mente. In mezzo alla

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Era dunque vero che guariva? Nella sua testa un cam-biamento era avvenuto. Da principio egli aveva capitoche la ruota dei pensieri non girava piú nella stessa ma-niera terribile; s’era accorto che ogni tanto li dimentica-va, che tornavano dopo pause sempre piú lunghe, e cheerano meno tormentosi, quei pensieri, quasi una nebbia.Di notte dormiva per ore. Pure, non si poteva liberardella paura che la ruota ripigliasse a girare come prima.

Intanto Fiocco, secondo il suo pessimo costume, cor-reva innanzi allontanandosi molto, scantonava in ognivia, oppure restava indietro a far il chiasso con cani piúgiovani. Quando pareva scomparso affatto, ritornavaall’improvviso presso il vecchio, di gran carriera, gli gi-rava intorno a bocca aperta, anelante, fissandolo comeper dirgli: «Vedi che non scappo?» Ascanio volle pro-varsi in luoghi piú difficili; si portò in una via attigua,interminabile ed assai animata. A quell’ora, malgrado ilsole di giugno, non faceva ancora caldo. Ciò che vide, ilrapido scorrere dei tranvai, il va e vieni delle serve daun vicino mercato, le botteghe riversanti roba fin sullastrada, i chioschi dei giornalai, tutto gli riuscí nuovo.Osservava delle donne ferme sui portoni a chiacchiera-re, un vecchione che se ne andava in ciabatte, con lapipa in bocca e la sporta per la spesa, dicendosi che tuttivivevano senza pensarvi, tranquillamente e con facilità.Mentre gli altri passavano il tempo in questo modo, eglise n’era stato rinchiuso per volontà propria o aveva gira-to sotto sorveglianza; ma non per colpa di nessuno, acausa di quella malattia della sua mente. In mezzo alla

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gente ed ai veicoli Fiocco seguitava a comportarsi sva-gatamente, senza disciplina, ed Ascanio temeva si faces-se schiacciare o si smarrisse; quindi finí di badare sol-tanto a lui. Sentiva anche un certo obbligo di non starfuori tanto; dopo un’ora decise di tornare. Senza darnesegno, tutte le persone di casa lo stavano aspettando; ve-dendo ricomparire entrambi, il vecchio ed il cane, respi-rarono meglio.

Invitato da Claudia a scendere a colazione con lei ecol ragazzo, Ascanio ne fu contento, accettò subito. Nelsuo aspetto la malattia non aveva lasciate tracce; ora dalviso e dagli occhi era sparita l’espressione di profondorancore. Soltanto si notò in lui, anche nei giorni seguen-ti, malgrado l’abituale portamento fiero, una specie di ti-midezza; sembrava dubbioso di poter disporre di sé estare in mezzo agli altri. Il vecchio si trovava indossouna stanchezza grave, ma non del corpo, come se fosseuscito da una terribile avventura. Pure, sentiva che dinuovo la sua volontà era padrona dei suoi pensieri; ri-cordava le idee che tanto gli avevano fatto dolere le ossadel cranio, come un convalescente ricorda le visioni deldelirio. Cercava di occuparsi un poco con le sue carte edava una scorsa ai giornali. Vi trovò una volta un di-scorso tenuto da Metello alla Camera sulla condizionedelle donne e dei fanciulli nei lavori agrari; lo lesse dacima a fondo, lo rilesse; ed il discorso ebbe un successoclamoroso, una risonanza che durò piú giorni. Ascaniosentí desiderio di rivedere questo figlio, quasi di cono-scerlo, poiché pensava che infatti non lo conosceva piú,

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gente ed ai veicoli Fiocco seguitava a comportarsi sva-gatamente, senza disciplina, ed Ascanio temeva si faces-se schiacciare o si smarrisse; quindi finí di badare sol-tanto a lui. Sentiva anche un certo obbligo di non starfuori tanto; dopo un’ora decise di tornare. Senza darnesegno, tutte le persone di casa lo stavano aspettando; ve-dendo ricomparire entrambi, il vecchio ed il cane, respi-rarono meglio.

Invitato da Claudia a scendere a colazione con lei ecol ragazzo, Ascanio ne fu contento, accettò subito. Nelsuo aspetto la malattia non aveva lasciate tracce; ora dalviso e dagli occhi era sparita l’espressione di profondorancore. Soltanto si notò in lui, anche nei giorni seguen-ti, malgrado l’abituale portamento fiero, una specie di ti-midezza; sembrava dubbioso di poter disporre di sé estare in mezzo agli altri. Il vecchio si trovava indossouna stanchezza grave, ma non del corpo, come se fosseuscito da una terribile avventura. Pure, sentiva che dinuovo la sua volontà era padrona dei suoi pensieri; ri-cordava le idee che tanto gli avevano fatto dolere le ossadel cranio, come un convalescente ricorda le visioni deldelirio. Cercava di occuparsi un poco con le sue carte edava una scorsa ai giornali. Vi trovò una volta un di-scorso tenuto da Metello alla Camera sulla condizionedelle donne e dei fanciulli nei lavori agrari; lo lesse dacima a fondo, lo rilesse; ed il discorso ebbe un successoclamoroso, una risonanza che durò piú giorni. Ascaniosentí desiderio di rivedere questo figlio, quasi di cono-scerlo, poiché pensava che infatti non lo conosceva piú,

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dopo dieci anni. Lo disse a Sisto. La difficoltà era diraggiungerlo, Metello: continuamente si spostava da unestremo all’altro d’Italia, con un peso sempre crescented’incarichi, di lavoro; il viaggiare in ferrovia non gli co-stava, ed egli passava in treno quante notti poteva, pernon spendere all’albergo, viaggiando in terza classe seb-bene avesse diritto alla prima. Gli fu scritto a casa; ap-pena tornato da Roma, egli venne.

Al faticoso modo di vivere Metello resisteva ottima-mente; anzi, con suo dispetto, si faceva alquanto grasso.Il vecchio discese ad incontrarlo nel giardino, dove era-no splendide rose dell’estate. Metello afferrò subito lamano del padre, poi gli gettò le braccia al collo, lo ba-ciò. – Ho letto il tuo discorso – disse Ascanio. – Un beldiscorso! – Lo guardava come se tornasse dopo moltotempo da lontano, ed era soddisfatto della sua figura,della sua salute; considerò attentamente la cicatrice chetagliava di traverso la fronte del figlio. Questi ora, siagitava, attorcigliandosi i lunghi baffi spioventi, toccan-do le carte ed i giornali che gli uscivan di tasca, per na-scondere la commozione. Erano presenti Claudia e Si-sto, i quali facevano anch’essi gran festa al visitatore.Lo vedevano molto raramente. Di questo tribuno, depu-tato, giornalista, che con la sua attività instancabile e ge-nerosa interessava tutti, amatissimo dalla folla operaia,simpatico anche a molta gente delle altre classi sociali,erano largamente noti non soltanto i discorsi e gli artico-li ma i motti satirici che diceva nei comizi, le rispostecolle quali in Parlamento riduceva al silenzio gli avver-

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dopo dieci anni. Lo disse a Sisto. La difficoltà era diraggiungerlo, Metello: continuamente si spostava da unestremo all’altro d’Italia, con un peso sempre crescented’incarichi, di lavoro; il viaggiare in ferrovia non gli co-stava, ed egli passava in treno quante notti poteva, pernon spendere all’albergo, viaggiando in terza classe seb-bene avesse diritto alla prima. Gli fu scritto a casa; ap-pena tornato da Roma, egli venne.

Al faticoso modo di vivere Metello resisteva ottima-mente; anzi, con suo dispetto, si faceva alquanto grasso.Il vecchio discese ad incontrarlo nel giardino, dove era-no splendide rose dell’estate. Metello afferrò subito lamano del padre, poi gli gettò le braccia al collo, lo ba-ciò. – Ho letto il tuo discorso – disse Ascanio. – Un beldiscorso! – Lo guardava come se tornasse dopo moltotempo da lontano, ed era soddisfatto della sua figura,della sua salute; considerò attentamente la cicatrice chetagliava di traverso la fronte del figlio. Questi ora, siagitava, attorcigliandosi i lunghi baffi spioventi, toccan-do le carte ed i giornali che gli uscivan di tasca, per na-scondere la commozione. Erano presenti Claudia e Si-sto, i quali facevano anch’essi gran festa al visitatore.Lo vedevano molto raramente. Di questo tribuno, depu-tato, giornalista, che con la sua attività instancabile e ge-nerosa interessava tutti, amatissimo dalla folla operaia,simpatico anche a molta gente delle altre classi sociali,erano largamente noti non soltanto i discorsi e gli artico-li ma i motti satirici che diceva nei comizi, le rispostecolle quali in Parlamento riduceva al silenzio gli avver-

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sari, ed anche i suoi gesti bizzarri, quel modo di vivere.Della popolarità egli era forse un poco vano; curava inse stesso il personaggio che aveva creato, conservandoperò la franchezza nativa e rimanendo accessibile achiunque. In città si sapeva il suo legame con la formosaSabina, che teneva sempre il negozio della gomma; Me-tello s’era deciso a farne dichiaratamente la sua compa-gna, e ciò voleva dire che aveva trasportati i suoi libri, ivecchi dipinti, le cartacce in casa della donna. I Farra,senza averla mai avvicinata, conoscevano la sua figuraenergica impettita, ornata di penne, di ori, di tinte stona-te; sapevano il tormento ch’ella soffriva, gelosa e malerassegnata, aspettando nella lucida bottega le apparizio-ni di quest’uomo sempre pieno di fretta, d’impegni e diimpetuosi pensieri.

Quasi subito Metello ed il vecchio furono lasciati soliin un salotto. Non volendo parlare del tempo in cui ilpadre era stato infermo, né tanto meno di Rebbia, Me-tello era da principio imbarazzato, non sapeva che dire;ma Ascanio riprese a lodare il discorso, volle avere in-formazioni riguardo alla legge sul lavoro delle donne edei fanciulli, chiesta dal gruppo socialista; poi lo feceparlare del partito, degli operai, della sua vita tra i comi-zi, le sedute di Montecitorio, le polemiche.

— Nel giudicare il socialismo – dichiarò il vecchio –io non ero spassionato. Ero certamente troppo attaccatoa idee d’altri tempi. Posso dire che non avevo mai con-siderato bene ciò che tu pensassi e facessi. – Mettendo

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sari, ed anche i suoi gesti bizzarri, quel modo di vivere.Della popolarità egli era forse un poco vano; curava inse stesso il personaggio che aveva creato, conservandoperò la franchezza nativa e rimanendo accessibile achiunque. In città si sapeva il suo legame con la formosaSabina, che teneva sempre il negozio della gomma; Me-tello s’era deciso a farne dichiaratamente la sua compa-gna, e ciò voleva dire che aveva trasportati i suoi libri, ivecchi dipinti, le cartacce in casa della donna. I Farra,senza averla mai avvicinata, conoscevano la sua figuraenergica impettita, ornata di penne, di ori, di tinte stona-te; sapevano il tormento ch’ella soffriva, gelosa e malerassegnata, aspettando nella lucida bottega le apparizio-ni di quest’uomo sempre pieno di fretta, d’impegni e diimpetuosi pensieri.

Quasi subito Metello ed il vecchio furono lasciati soliin un salotto. Non volendo parlare del tempo in cui ilpadre era stato infermo, né tanto meno di Rebbia, Me-tello era da principio imbarazzato, non sapeva che dire;ma Ascanio riprese a lodare il discorso, volle avere in-formazioni riguardo alla legge sul lavoro delle donne edei fanciulli, chiesta dal gruppo socialista; poi lo feceparlare del partito, degli operai, della sua vita tra i comi-zi, le sedute di Montecitorio, le polemiche.

— Nel giudicare il socialismo – dichiarò il vecchio –io non ero spassionato. Ero certamente troppo attaccatoa idee d’altri tempi. Posso dire che non avevo mai con-siderato bene ciò che tu pensassi e facessi. – Mettendo

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una mano sulla spalla del figlio, domandò piano: –Quanto tempo hai passato in carcere?

Senza rispondere a questa domanda, Metello disse –Il lavoro è ancora indietro. Né tutto quel che si fa, èbuono. Vi sono uomini meschini e bassi anche tra noi.Ma, insomma, si vede un avvenire; la necessità della no-stra epoca è questa trasformazione dei lavoratori. – Dinuovo si tirava i baffi rossicci, e si schiariva la gola fa-cendo udire come un breve ruggito; poi si alzò perchéaveva impegni; abbracciò un’altra volta il padre. E que-sti disse: – Bravo, Metello! – Accompagnandolo al can-cello, gli chiese di venirlo a trovare quando potesse;spiccò una bella rosa e gliela diede.

Da quel giorno Ascanio cercò sempre Metello neigiornali, dove fosse, che dicesse alla Camera; compròanche il maggior giornale socialista per leggere i suoiarticoli. E poiché il figlio lo aveva trattato come unuomo sanissimo di mente, che anzi non fosse mai statoammalato, il vecchio acquistò piú fiducia in se stesso,piú coraggio. Claudia e Sisto risolsero di riprendere infamiglia la bambina, senza aspettar la fine dell’anno discuola. Una domenica, venendo a casa, Gabriella trovòsul suo lettino un bel vestito all’ultima moda, tutto fiori.

— Provalo un po’ – disse la madre.— Perché, mamma, se non lo posso portare?— Provalo solamente.In fretta la bambina si liberò della giacchetta listata di

velluto azzurro, della gonnella gonfia; entrata con l’aiu-to di Claudia nel vestito nuovo, parve un’altra, parve ve-

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una mano sulla spalla del figlio, domandò piano: –Quanto tempo hai passato in carcere?

Senza rispondere a questa domanda, Metello disse –Il lavoro è ancora indietro. Né tutto quel che si fa, èbuono. Vi sono uomini meschini e bassi anche tra noi.Ma, insomma, si vede un avvenire; la necessità della no-stra epoca è questa trasformazione dei lavoratori. – Dinuovo si tirava i baffi rossicci, e si schiariva la gola fa-cendo udire come un breve ruggito; poi si alzò perchéaveva impegni; abbracciò un’altra volta il padre. E que-sti disse: – Bravo, Metello! – Accompagnandolo al can-cello, gli chiese di venirlo a trovare quando potesse;spiccò una bella rosa e gliela diede.

Da quel giorno Ascanio cercò sempre Metello neigiornali, dove fosse, che dicesse alla Camera; compròanche il maggior giornale socialista per leggere i suoiarticoli. E poiché il figlio lo aveva trattato come unuomo sanissimo di mente, che anzi non fosse mai statoammalato, il vecchio acquistò piú fiducia in se stesso,piú coraggio. Claudia e Sisto risolsero di riprendere infamiglia la bambina, senza aspettar la fine dell’anno discuola. Una domenica, venendo a casa, Gabriella trovòsul suo lettino un bel vestito all’ultima moda, tutto fiori.

— Provalo un po’ – disse la madre.— Perché, mamma, se non lo posso portare?— Provalo solamente.In fretta la bambina si liberò della giacchetta listata di

velluto azzurro, della gonnella gonfia; entrata con l’aiu-to di Claudia nel vestito nuovo, parve un’altra, parve ve-

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stita per una festa. Non si staccava dallo specchio dinan-zi al quale si rigirava.

— Se ti piace, – disse la madre fissandola con occhiridenti – non levarlo piú. Buttiamo via l’uniforme.

Col collegio ogni cosa era già segretamente regolata.La felicità di ritrovarsi a vivere a casa fu per Gabriellacosí grande, che per qualche tempo non ebbe fermezza anulla, nemmeno a ricercare nei suoi cassetti le collane,le vecchie bambole, i nastri; ogni momento correva dal-la madre a ringraziarla, le chiedeva il permesso di rima-nere accanto a lei; pareva aver bisogno di spendere subi-to l’amore che per tanti mesi non aveva potuto darle.Claudia era felice di specchiarsi di nuovo continuamen-te in quei larghi occhi che l’adoravano. Col nonno labambina tenne dapprima un contegno riservato, anchecon l’idea di non fargli comprendere che adesso era unapersona trattabile e prima no; ma spesso il vecchio scen-deva in giardino quando vi era Gabriella, scambiava conlei qualche parola allegra da lontano, la guardava gioca-re con Fiocco. Una volta egli le chiese: – Prima non civedevamo mai. Perché ti avevano messa in collegio?

— Io non lo so davvero – rispose la bambina guar-dandolo coraggiosamente. – Ma non ci tornerò, sai.

S’incominciò a stabilire tra loro un po’ di confidenza.Nell’ora dopo il desinare, se Ascanio non veniva subitonel giardino, una voce d’argento chiamava: – Nonno, tiaspetto!

Per provare al vecchio che anch’egli era nella lorovita, una sera Sisto, presente Claudia, lo fece entrare nel

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stita per una festa. Non si staccava dallo specchio dinan-zi al quale si rigirava.

— Se ti piace, – disse la madre fissandola con occhiridenti – non levarlo piú. Buttiamo via l’uniforme.

Col collegio ogni cosa era già segretamente regolata.La felicità di ritrovarsi a vivere a casa fu per Gabriellacosí grande, che per qualche tempo non ebbe fermezza anulla, nemmeno a ricercare nei suoi cassetti le collane,le vecchie bambole, i nastri; ogni momento correva dal-la madre a ringraziarla, le chiedeva il permesso di rima-nere accanto a lei; pareva aver bisogno di spendere subi-to l’amore che per tanti mesi non aveva potuto darle.Claudia era felice di specchiarsi di nuovo continuamen-te in quei larghi occhi che l’adoravano. Col nonno labambina tenne dapprima un contegno riservato, anchecon l’idea di non fargli comprendere che adesso era unapersona trattabile e prima no; ma spesso il vecchio scen-deva in giardino quando vi era Gabriella, scambiava conlei qualche parola allegra da lontano, la guardava gioca-re con Fiocco. Una volta egli le chiese: – Prima non civedevamo mai. Perché ti avevano messa in collegio?

— Io non lo so davvero – rispose la bambina guar-dandolo coraggiosamente. – Ma non ci tornerò, sai.

S’incominciò a stabilire tra loro un po’ di confidenza.Nell’ora dopo il desinare, se Ascanio non veniva subitonel giardino, una voce d’argento chiamava: – Nonno, tiaspetto!

Per provare al vecchio che anch’egli era nella lorovita, una sera Sisto, presente Claudia, lo fece entrare nel

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suo studio e gli mostrò i disegni dei corpi di fabbricanuovi che si costruivano per la clinica, ormai quasi ter-minati. Sisto studiava la tubercolosi negli strati socialiinferiori, la sua diffusione, i rapporti tra i mestieri e lamalattia; gli azionisti dell’istituto avevano consentito adestinare uno dei nuovi edifici alla cura dei poveri.Mentre il figlio spiegava, Ascanio considerava la qua-dratura vigorosa della sua persona, i corti baffi nerissimied i capelli imbiancati sopra le tempia, gli occhi severidietro larghe lenti rotonde, tra i sopraccigli una profondaruga; ed aveva confusamente nella memoria il discorsoche Sisto gli aveva tenuto in riva al Po, un mattino tantolontano, quella confessione. Claudia, guardando sotto lemani forti di Sisto i fogli dei disegni, che si volevanosempre arrotolare, ripensava un progetto del quale ellanon aveva ancora parlato a nessuno. Voleva avere unacasa a Luvo, costruire un’altra casa invece di quella chenon si poteva ritogliere agli estranei; non importavadove, purché fosse sotto il medesimo cielo, nei luoghiche avevan visto lo splendore degli Andosio, dove eranovenuti al mondo lei e i fratelli, dove i genitori eranomorti. L’avrebbero poi posseduta i figli e sarebbe duratalungamente.

Ma, cosí pensando, Claudia si disse com’era Grazia-no in quel tempo. Ella e Sisto erano inquieti sul suo con-to, e scontenti di lui come se li tradisse, come se volessediventar diverso da quello ch’essi avevano in mente. Erasvagato, indifferente con loro, anzi, insofferente di ogniparola ed attenzione; studiava male, stava sempre fuori

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suo studio e gli mostrò i disegni dei corpi di fabbricanuovi che si costruivano per la clinica, ormai quasi ter-minati. Sisto studiava la tubercolosi negli strati socialiinferiori, la sua diffusione, i rapporti tra i mestieri e lamalattia; gli azionisti dell’istituto avevano consentito adestinare uno dei nuovi edifici alla cura dei poveri.Mentre il figlio spiegava, Ascanio considerava la qua-dratura vigorosa della sua persona, i corti baffi nerissimied i capelli imbiancati sopra le tempia, gli occhi severidietro larghe lenti rotonde, tra i sopraccigli una profondaruga; ed aveva confusamente nella memoria il discorsoche Sisto gli aveva tenuto in riva al Po, un mattino tantolontano, quella confessione. Claudia, guardando sotto lemani forti di Sisto i fogli dei disegni, che si volevanosempre arrotolare, ripensava un progetto del quale ellanon aveva ancora parlato a nessuno. Voleva avere unacasa a Luvo, costruire un’altra casa invece di quella chenon si poteva ritogliere agli estranei; non importavadove, purché fosse sotto il medesimo cielo, nei luoghiche avevan visto lo splendore degli Andosio, dove eranovenuti al mondo lei e i fratelli, dove i genitori eranomorti. L’avrebbero poi posseduta i figli e sarebbe duratalungamente.

Ma, cosí pensando, Claudia si disse com’era Grazia-no in quel tempo. Ella e Sisto erano inquieti sul suo con-to, e scontenti di lui come se li tradisse, come se volessediventar diverso da quello ch’essi avevano in mente. Erasvagato, indifferente con loro, anzi, insofferente di ogniparola ed attenzione; studiava male, stava sempre fuori

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di casa, con ogni sorta di pretesti. Tra sé, Claudia stabilídi guardare nelle sue carte, se scoprisse qualche segreto;e l’indomani lo fece, mentre Graziano era a scuola. Tro-vò quasi subito, nascosta ingenuamente sotto la pendoladel caminetto, la chiave della sua scrivania, ed in fondoal cassetto trovò – insieme ad un piccolo fazzoletto fine– due fotografie d’una stessa ragazza o donna, e letterefirmate «Leda», anche di data recente. Non le volle leg-gere. Avrebbe fatto interrogare il figlio da Sisto.

Ora Ascanio dimostrava abbastanza simpatia per lapropria camera, dove figuravano pure, venuti su dallacantina, i grandi volumi del «Pensiero liberale» e learmi di San Martino. Usciva però volentieri. Andò a ri-vedere l’antica Torino. Il palazzo dell’università era talequale; ma i professori che aveva ascoltati nelle aule,adesso stavano intorno al cortile, nell’ombra del portica-to, statue di marmo, busti di bronzo. Egli ricordava stu-denti dei compagni che poi eran divenuti avvocati digrido, giuristi famosi, ministri. Pensava al proprionome, Ascanio Farra, che allora gli era parso predestina-to alla celebrità. «Invece si consumerà con la pietra del-la mia tomba». Andò nei quartieri piú vecchi, cosí inva-riati con le chiese nere, con le viuzze tra case bassedov’erano sempre gli stessi androni e le stesse botteghe,ch’egli credeva di respirarvi proprio l’aria di quandostava nella città a studiare. In una piazzetta nascostadentro isole di queste vecchie case, rivide il balconcinosul quale Severa fingeva di occuparsi di quattro vasi difiori aspettando ch’egli passasse. Capigliatura d’oro ros-

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di casa, con ogni sorta di pretesti. Tra sé, Claudia stabilídi guardare nelle sue carte, se scoprisse qualche segreto;e l’indomani lo fece, mentre Graziano era a scuola. Tro-vò quasi subito, nascosta ingenuamente sotto la pendoladel caminetto, la chiave della sua scrivania, ed in fondoal cassetto trovò – insieme ad un piccolo fazzoletto fine– due fotografie d’una stessa ragazza o donna, e letterefirmate «Leda», anche di data recente. Non le volle leg-gere. Avrebbe fatto interrogare il figlio da Sisto.

Ora Ascanio dimostrava abbastanza simpatia per lapropria camera, dove figuravano pure, venuti su dallacantina, i grandi volumi del «Pensiero liberale» e learmi di San Martino. Usciva però volentieri. Andò a ri-vedere l’antica Torino. Il palazzo dell’università era talequale; ma i professori che aveva ascoltati nelle aule,adesso stavano intorno al cortile, nell’ombra del portica-to, statue di marmo, busti di bronzo. Egli ricordava stu-denti dei compagni che poi eran divenuti avvocati digrido, giuristi famosi, ministri. Pensava al proprionome, Ascanio Farra, che allora gli era parso predestina-to alla celebrità. «Invece si consumerà con la pietra del-la mia tomba». Andò nei quartieri piú vecchi, cosí inva-riati con le chiese nere, con le viuzze tra case bassedov’erano sempre gli stessi androni e le stesse botteghe,ch’egli credeva di respirarvi proprio l’aria di quandostava nella città a studiare. In una piazzetta nascostadentro isole di queste vecchie case, rivide il balconcinosul quale Severa fingeva di occuparsi di quattro vasi difiori aspettando ch’egli passasse. Capigliatura d’oro ros-

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so, vita sottile: dal mezzanino era tanto vicina alla stra-da, che quasi avrebbero potuto darsi la mano. La rin-ghiera del balcone era la stessa, lo stesso era l’aspetto ditutte le cose. Ad Ascanio riapparve l’esistenza di suamoglie, il giorno delle nozze, le nascite dei figli, le do-meniche di Rebbia, il libro ch’ella portava a messa, levisite che gli faceva nello studiolo della stamperia, lepasseggiate in campagna coi ragazzi: quella serie digiorni, di anni, fino alla notte in cui era morta accomo-dandosi bene le coperte come per dormire. Gli tornava-no anche, straordinariamente vivi, i ricordi del propriopadre, sebbene questi non fosse mai voluto venire nellacittà grande dove lo aveva messo agli studi. Una figuradi contadino sapiente ed orgoglioso ch’era sempre vis-suto sulle sue terre, lavorandovi egli medesimo anchevecchissimo. Queste vite Ascanio le vedeva ciascunacome in un quadro, e gli parevano belle da guardare,opere compiute e perfette. Che importava l’esito? Qualerisultato poteva mai avere la vita?

Passeggiando un mattino di là dal Po, lungo un gran-de quartiere nato dov’egli aveva visto ai suoi tempicampagna, si fermò ad osservare i lavori di un ponte dipietra che si veniva costruendo per sostituire un vecchioponte sospeso. Nell’aria tranquilla le gru si movevanoadagio, sulle armature degli archi collocavano massienormi, intorno ai quali s’affannavano mucchi di operai,empiendo a poco a poco il vuoto rimanente nella corni-ce di ogni arco. Si capiva già come la costruzione fossegrandiosa e solida; si capiva ch’era fatta per un lontano

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so, vita sottile: dal mezzanino era tanto vicina alla stra-da, che quasi avrebbero potuto darsi la mano. La rin-ghiera del balcone era la stessa, lo stesso era l’aspetto ditutte le cose. Ad Ascanio riapparve l’esistenza di suamoglie, il giorno delle nozze, le nascite dei figli, le do-meniche di Rebbia, il libro ch’ella portava a messa, levisite che gli faceva nello studiolo della stamperia, lepasseggiate in campagna coi ragazzi: quella serie digiorni, di anni, fino alla notte in cui era morta accomo-dandosi bene le coperte come per dormire. Gli tornava-no anche, straordinariamente vivi, i ricordi del propriopadre, sebbene questi non fosse mai voluto venire nellacittà grande dove lo aveva messo agli studi. Una figuradi contadino sapiente ed orgoglioso ch’era sempre vis-suto sulle sue terre, lavorandovi egli medesimo anchevecchissimo. Queste vite Ascanio le vedeva ciascunacome in un quadro, e gli parevano belle da guardare,opere compiute e perfette. Che importava l’esito? Qualerisultato poteva mai avere la vita?

Passeggiando un mattino di là dal Po, lungo un gran-de quartiere nato dov’egli aveva visto ai suoi tempicampagna, si fermò ad osservare i lavori di un ponte dipietra che si veniva costruendo per sostituire un vecchioponte sospeso. Nell’aria tranquilla le gru si movevanoadagio, sulle armature degli archi collocavano massienormi, intorno ai quali s’affannavano mucchi di operai,empiendo a poco a poco il vuoto rimanente nella corni-ce di ogni arco. Si capiva già come la costruzione fossegrandiosa e solida; si capiva ch’era fatta per un lontano

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avvenire; vederla formarsi dava piacere. Sempre altri la-vori, altra gente; la città era molto cresciuta. Vi eranoparecchie persone ferme presso i muraglioni a guardare;i bambini si alzavano in punta di piedi; qualche sfaccen-dato povero s’era seduto sul parapetto. Come tutti,Ascanio pensava al giorno in cui sul ponte si sarebbepotuto passare.

* * *

Tra le facciate di piazza San Marco, che sono un im-pasto morbido di bianco e di nero, la folla va su e giúcon riguardo, parlando piano, vestita bene; altra follaoccupa le distese di tavolini, dietro le file di lampioniche portano grappoli di luci moderate; gli ori della basi-lica appaiono con velato splendore in una lontananza, ilcampanile fila diritto verso il cielo oscuro. In Piazzettasta la massa del Palazzo ducale, somigliante alle sue im-magini tanto note eppure diverso, vero e fantastico, anti-co e giovine. Oltre le due colonne del molo, la lagunacon la chiesa di San Giorgio in mezzo all’acqua, coilumi brillanti e piccoli del Lido, dà l’idea d’uno spazioove non si possa andare, d’un divertimento da goderesoltanto con gli occhi. «Gondola, gondola!» ripetono,invitando la folla, i gondolieri allineati in margineall’approdo. E la Riva degli Schiavoni è una terrazza in-terminabile, coperta d’un brulicar di gente che s’incro-cia e mescola senz’alcun intoppo: marinai bianchi ed az-zurri, coppie straniere confuse con delizia tra gli ignoti,

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avvenire; vederla formarsi dava piacere. Sempre altri la-vori, altra gente; la città era molto cresciuta. Vi eranoparecchie persone ferme presso i muraglioni a guardare;i bambini si alzavano in punta di piedi; qualche sfaccen-dato povero s’era seduto sul parapetto. Come tutti,Ascanio pensava al giorno in cui sul ponte si sarebbepotuto passare.

* * *

Tra le facciate di piazza San Marco, che sono un im-pasto morbido di bianco e di nero, la folla va su e giúcon riguardo, parlando piano, vestita bene; altra follaoccupa le distese di tavolini, dietro le file di lampioniche portano grappoli di luci moderate; gli ori della basi-lica appaiono con velato splendore in una lontananza, ilcampanile fila diritto verso il cielo oscuro. In Piazzettasta la massa del Palazzo ducale, somigliante alle sue im-magini tanto note eppure diverso, vero e fantastico, anti-co e giovine. Oltre le due colonne del molo, la lagunacon la chiesa di San Giorgio in mezzo all’acqua, coilumi brillanti e piccoli del Lido, dà l’idea d’uno spazioove non si possa andare, d’un divertimento da goderesoltanto con gli occhi. «Gondola, gondola!» ripetono,invitando la folla, i gondolieri allineati in margineall’approdo. E la Riva degli Schiavoni è una terrazza in-terminabile, coperta d’un brulicar di gente che s’incro-cia e mescola senz’alcun intoppo: marinai bianchi ed az-zurri, coppie straniere confuse con delizia tra gli ignoti,

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scialletti neri stretti addosso a corpi svelti di ragazze, si-gnori uscenti dagli alberghi in abito da sera, compagniedi forestieri eccitate e clamorose, gente tranquilla dellacittà. È un biancheggiare di volti femminei, un risplen-dere di bei denti, un luccichio di diamanti e di collane divetro, uno zampillar di parole d’ogni lingua e di paroleveneziane, un sorridere o ridere, un vivere con gioia masenza fretta in un’aria toccata da qualche soffio della la-guna, che odora di salsedine, di giardini e d’acqua sta-gnante.

Arrivato a Venezia da due ore, Graziano vede la festaper la prima volta. Non tarda a venirgli il pensiero: «An-che Leda esiste in questo momento. Con chi è? Che fa?»E subito respira male, si sente straziare l’animo. Esservenuto qui non giova a niente; egli ha sofferto troppo, edentro s’è portato tutto ciò che lo ha fatto soffrire. Attra-verso le vetrate aperte del Danieli si scorge nel saloneuna signora vestita di rosa, con un’ampia scollatura sulpetto magro, la quale suona in sordina al pianoforte unadelle tante canzoni dei negri d’America, che sono dimoda.

Leda era molto cambiata quando s’erano riveduti. Loaveva cercato lei, scrivendogli. Aveva vestiti elegantis-simi, braccialetti d’oro massiccio, un anello con ungrande smeraldo; era profumata finemente, ancora piúbella. Ed aveva un’espressione... Di donna soddisfattanella vanità, di donna che ha denaro da spendere? O sivedeva che s’era data non a qualcuno ma all’amore? Fe-lice, no; anzi, sempre irritata contro tutti, anche contro

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scialletti neri stretti addosso a corpi svelti di ragazze, si-gnori uscenti dagli alberghi in abito da sera, compagniedi forestieri eccitate e clamorose, gente tranquilla dellacittà. È un biancheggiare di volti femminei, un risplen-dere di bei denti, un luccichio di diamanti e di collane divetro, uno zampillar di parole d’ogni lingua e di paroleveneziane, un sorridere o ridere, un vivere con gioia masenza fretta in un’aria toccata da qualche soffio della la-guna, che odora di salsedine, di giardini e d’acqua sta-gnante.

Arrivato a Venezia da due ore, Graziano vede la festaper la prima volta. Non tarda a venirgli il pensiero: «An-che Leda esiste in questo momento. Con chi è? Che fa?»E subito respira male, si sente straziare l’animo. Esservenuto qui non giova a niente; egli ha sofferto troppo, edentro s’è portato tutto ciò che lo ha fatto soffrire. Attra-verso le vetrate aperte del Danieli si scorge nel saloneuna signora vestita di rosa, con un’ampia scollatura sulpetto magro, la quale suona in sordina al pianoforte unadelle tante canzoni dei negri d’America, che sono dimoda.

Leda era molto cambiata quando s’erano riveduti. Loaveva cercato lei, scrivendogli. Aveva vestiti elegantis-simi, braccialetti d’oro massiccio, un anello con ungrande smeraldo; era profumata finemente, ancora piúbella. Ed aveva un’espressione... Di donna soddisfattanella vanità, di donna che ha denaro da spendere? O sivedeva che s’era data non a qualcuno ma all’amore? Fe-lice, no; anzi, sempre irritata contro tutti, anche contro

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se stessa. In un tratto della Riva, entro un cerchio di sol-dati, marinai e donnette, richiama lo sguardo di Grazia-no un gobbo ritto sopra una cassa, illuminato di sotto insu da una lampada ad acetilene posta sopra un tavolino:vende cartelle d’una lotteria. Graziano distrattamente siferma, poi ripiglia a camminare. Leda aveva semprepoca libertà, ma gli mandava gran biglietti con appunta-menti, per passeggiare di nuovo insieme in luoghi deser-ti. Era sempre piú impaziente, piú inquieta; mostrava ti-more d’essere veduta. Una sera, presso una piccola sta-zione dove si udiva una macchina manovrare, s’eranobaciati a lungo. La dolcezza, il calore, il molle respiro,la vita misteriosa che erano su quelle labbra! Ciò chel’esistenza di Leda conteneva di nuovo, di segreto,d’inconfessabile, egli lo aveva sentito subito. Leda do-veva odiare, o certamente non amare, l’uomo che era ilsuo amante. In quelle passeggiate di sera, quando si fer-mavano e non vi era nessuno e non giungevano rumori,adagio ella gli posava un braccio sopra una spalla e loguardava negli occhi con profonda avidità ma comeguardando una cosa lontana; diceva il suo nome due, trevolte, a se stessa; poi lo baciava. Voleva che parlasse disé. «Che farai poi, Graziano? Vorrei sapere il tuo avve-nire». Sempre vi era tra loro una grande distanza, e forseLeda si teneva apposta cosí distante. Dal fondo dell’ani-mo le veniva su a volte un sentimento disperato «Dovreiandarmene, sola, che nessuno sapesse dove!».

Graziano vede la Riva degli Schiavoni allargarsi e sulmargine farsi quasi deserta; vi sono ormeggiati a lumi

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se stessa. In un tratto della Riva, entro un cerchio di sol-dati, marinai e donnette, richiama lo sguardo di Grazia-no un gobbo ritto sopra una cassa, illuminato di sotto insu da una lampada ad acetilene posta sopra un tavolino:vende cartelle d’una lotteria. Graziano distrattamente siferma, poi ripiglia a camminare. Leda aveva semprepoca libertà, ma gli mandava gran biglietti con appunta-menti, per passeggiare di nuovo insieme in luoghi deser-ti. Era sempre piú impaziente, piú inquieta; mostrava ti-more d’essere veduta. Una sera, presso una piccola sta-zione dove si udiva una macchina manovrare, s’eranobaciati a lungo. La dolcezza, il calore, il molle respiro,la vita misteriosa che erano su quelle labbra! Ciò chel’esistenza di Leda conteneva di nuovo, di segreto,d’inconfessabile, egli lo aveva sentito subito. Leda do-veva odiare, o certamente non amare, l’uomo che era ilsuo amante. In quelle passeggiate di sera, quando si fer-mavano e non vi era nessuno e non giungevano rumori,adagio ella gli posava un braccio sopra una spalla e loguardava negli occhi con profonda avidità ma comeguardando una cosa lontana; diceva il suo nome due, trevolte, a se stessa; poi lo baciava. Voleva che parlasse disé. «Che farai poi, Graziano? Vorrei sapere il tuo avve-nire». Sempre vi era tra loro una grande distanza, e forseLeda si teneva apposta cosí distante. Dal fondo dell’ani-mo le veniva su a volte un sentimento disperato «Dovreiandarmene, sola, che nessuno sapesse dove!».

Graziano vede la Riva degli Schiavoni allargarsi e sulmargine farsi quasi deserta; vi sono ormeggiati a lumi

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spenti battelli della laguna, già in riposo; avvicinatosiall’acqua, egli siede sopra una delle bitte a cui si anno-dano le gomene; là presso due vecchi pescatori o mari-nai fumano discorrendo. Come ha sofferto! Di ciò cheimmaginava e quasi sapeva, di quello che ignorava, delveder Leda tanto bella ed elegante, di ogni cosa nuovach’ella avesse, anche d’un parasole o d’un ventaglio.Non aveva mai fatte domande, e lei non parlava. «Me-glio che tu non sappia» diceva il suo viso qualche volta.Pure, se riceveva uno dei biglietti con gli appuntamenti,egli si sentiva un altro; soltanto nei momenti passati conlei gli era parso di vivere. Ed aveva avuta, una sera, lafelicità breve e strana, che non sembrava vera. In quelsobborgo Leda abitava una piccola casa con giardino;quasi tutte le sere egli scappava fin là, a guardare lacasa, a vedere se la finestra di Leda fosse illuminata, afar ogni specie di congetture, con una gelosia brucianteo con una rassegnazione piena di disprezzo per se stes-so. Né sapeva quel che volesse; esserle vicino, sentirsisolo con lei, sarebbe bastato. Capiva il significato sen-suale della sua bellezza, ma non pensava di poter venirecon lei ad atti diversi dai baci. E Leda lo trattava semprecome un ragazzo. Quella sera, invece, mentre tutta lacasa era buia e pareva vuota, ella era uscita nel giardino;in silenzio, in fretta lo aveva fatto entrare; ciò ch’erasuccesso nella stanza sconosciuta, dove giungeva un po’di luce dai fanali della strada, quel tempo cosí brevedopo il quale Leda lo aveva subito mandato via, ancoralo faceva tremare d’amore, ricordando. Leda s’era ac-

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spenti battelli della laguna, già in riposo; avvicinatosiall’acqua, egli siede sopra una delle bitte a cui si anno-dano le gomene; là presso due vecchi pescatori o mari-nai fumano discorrendo. Come ha sofferto! Di ciò cheimmaginava e quasi sapeva, di quello che ignorava, delveder Leda tanto bella ed elegante, di ogni cosa nuovach’ella avesse, anche d’un parasole o d’un ventaglio.Non aveva mai fatte domande, e lei non parlava. «Me-glio che tu non sappia» diceva il suo viso qualche volta.Pure, se riceveva uno dei biglietti con gli appuntamenti,egli si sentiva un altro; soltanto nei momenti passati conlei gli era parso di vivere. Ed aveva avuta, una sera, lafelicità breve e strana, che non sembrava vera. In quelsobborgo Leda abitava una piccola casa con giardino;quasi tutte le sere egli scappava fin là, a guardare lacasa, a vedere se la finestra di Leda fosse illuminata, afar ogni specie di congetture, con una gelosia brucianteo con una rassegnazione piena di disprezzo per se stes-so. Né sapeva quel che volesse; esserle vicino, sentirsisolo con lei, sarebbe bastato. Capiva il significato sen-suale della sua bellezza, ma non pensava di poter venirecon lei ad atti diversi dai baci. E Leda lo trattava semprecome un ragazzo. Quella sera, invece, mentre tutta lacasa era buia e pareva vuota, ella era uscita nel giardino;in silenzio, in fretta lo aveva fatto entrare; ciò ch’erasuccesso nella stanza sconosciuta, dove giungeva un po’di luce dai fanali della strada, quel tempo cosí brevedopo il quale Leda lo aveva subito mandato via, ancoralo faceva tremare d’amore, ricordando. Leda s’era ac-

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corta che egli era nuovo alla prova. «Caro! – gli avevadetto. – Ti ho fatto mio per sempre. Non mi dimentiche-rai piú».

Graziano si alza; dalla Veneta Marina prende la viapopolare e brutta che si allontana dal bacino. Pochi gior-ni dopo l’avvenimento, Leda lo aveva appena raggiuntoin uno dei soliti luoghi deserti, quando uno dei suoi fra-telli era apparso; indubbiamente l’aveva seguita, la spia-va; ma era passato accanto a loro senza dire niente, conl’andatura fiacca, col sottile sigaro in bocca, e si era al-lontanato. «Quella gente – aveva detto lei – mi vuoleschiava in tutto! Mi vuol togliere te». Poi egli era rima-sto senza notizie di Leda; proprio mentre doveva fare gliesami, era trascorsa una settimana senza che giungesseun suo biglietto; forse ella era andata fuori di città conqualcuno. «Graziano, – gli aveva detto il padre quandolo aveva chiamato alla clinica – sei cambiato. Hai fattogli esami mediocremente. E si vede che soffri. Vogliosaperne la ragione: devi essere sincero», Non pareva al-tro che un medico, col càmice bianco indosso. Grazianoaveva viste le ali nuove dell’edifizio, che già si veniva-no sistemando, e sulle grandi logge dei reparti antichi imalati distesi sulle sedie a sdraio a prender aria. Al bab-bo non aveva nascosto niente; a misura che le parole gliuscivano di bocca, la condizione nella quale si trovavadi fronte a Leda, gli era sembrata assurda, come se com-prendesse quelle cose soltanto allora. Aveva sentito lamano del padre battergli qualche colpo leggero sullaguancia: «Tutti siamo stati ragazzi; sono malattie che bi-

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corta che egli era nuovo alla prova. «Caro! – gli avevadetto. – Ti ho fatto mio per sempre. Non mi dimentiche-rai piú».

Graziano si alza; dalla Veneta Marina prende la viapopolare e brutta che si allontana dal bacino. Pochi gior-ni dopo l’avvenimento, Leda lo aveva appena raggiuntoin uno dei soliti luoghi deserti, quando uno dei suoi fra-telli era apparso; indubbiamente l’aveva seguita, la spia-va; ma era passato accanto a loro senza dire niente, conl’andatura fiacca, col sottile sigaro in bocca, e si era al-lontanato. «Quella gente – aveva detto lei – mi vuoleschiava in tutto! Mi vuol togliere te». Poi egli era rima-sto senza notizie di Leda; proprio mentre doveva fare gliesami, era trascorsa una settimana senza che giungesseun suo biglietto; forse ella era andata fuori di città conqualcuno. «Graziano, – gli aveva detto il padre quandolo aveva chiamato alla clinica – sei cambiato. Hai fattogli esami mediocremente. E si vede che soffri. Vogliosaperne la ragione: devi essere sincero», Non pareva al-tro che un medico, col càmice bianco indosso. Grazianoaveva viste le ali nuove dell’edifizio, che già si veniva-no sistemando, e sulle grandi logge dei reparti antichi imalati distesi sulle sedie a sdraio a prender aria. Al bab-bo non aveva nascosto niente; a misura che le parole gliuscivano di bocca, la condizione nella quale si trovavadi fronte a Leda, gli era sembrata assurda, come se com-prendesse quelle cose soltanto allora. Aveva sentito lamano del padre battergli qualche colpo leggero sullaguancia: «Tutti siamo stati ragazzi; sono malattie che bi-

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sogna passare; ma ora devi guarirti da te, tagliare. Ionon te ne parlerò piú. Andrai a fare un piccolo viaggio,da solo». Nello studio tutto era bianco, le pareti, i mobilidi ferro; alle pareti stavano appesi fotografie di preparatimicroscopici, radiografie, un ritratto del maestro di suopadre, Antonio Sparvieri, viso magro acuto sbarbato,occhi chiari, ciuffo candido. L’odore dei disinfettanti eragradevole come qualcosa di estremamente pulito.

Graziano si accorge d’essersi inoltrato per questa vialunga e brutta; torna alla Riva, a passo piú rapido rientranella festa; sempre sui ponti di marmo scorre su e giú lafolla, sempre i gondolieri chiamano e dietro di loro sivedono i pettini delle gondole alzarsi ed abbassarsi pia-no; tra i riflessi d’ogni colore moventi sulla laguna, va-poretti e gondole continuano il loro va e vieni come pergioco; dalla «galleggiante» carica di lanterne si spargo-no suoni e voci di cantori. Ma Graziano non vuole piúsaperne della festa; andrà a dormire. Piazza San Marco,gremita, manda un ronzio dolce e denso. All’imboccodella calletta che porta all’albergo, vi è un crocchio didonne in scialle nero, intorno alle quali gira una vecchiastracciata, sdentata, piegata in due da qualche male. –Ero bella anch’io, piú di voi! Denaro finché ne volevo.Orecchini, braccialetti! – grida con voce stridula, gettan-do loro nomi ingiuriosi; ed esse cercano di cacciarlacome una lurida bestia.

Nei giorni seguenti Graziano si diede al gran lavorodi vedere tutti i musei, i palazzi, le chiese, le isole. Da-vanti alle fastose architetture, nelle immense sale dorate,

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sogna passare; ma ora devi guarirti da te, tagliare. Ionon te ne parlerò piú. Andrai a fare un piccolo viaggio,da solo». Nello studio tutto era bianco, le pareti, i mobilidi ferro; alle pareti stavano appesi fotografie di preparatimicroscopici, radiografie, un ritratto del maestro di suopadre, Antonio Sparvieri, viso magro acuto sbarbato,occhi chiari, ciuffo candido. L’odore dei disinfettanti eragradevole come qualcosa di estremamente pulito.

Graziano si accorge d’essersi inoltrato per questa vialunga e brutta; torna alla Riva, a passo piú rapido rientranella festa; sempre sui ponti di marmo scorre su e giú lafolla, sempre i gondolieri chiamano e dietro di loro sivedono i pettini delle gondole alzarsi ed abbassarsi pia-no; tra i riflessi d’ogni colore moventi sulla laguna, va-poretti e gondole continuano il loro va e vieni come pergioco; dalla «galleggiante» carica di lanterne si spargo-no suoni e voci di cantori. Ma Graziano non vuole piúsaperne della festa; andrà a dormire. Piazza San Marco,gremita, manda un ronzio dolce e denso. All’imboccodella calletta che porta all’albergo, vi è un crocchio didonne in scialle nero, intorno alle quali gira una vecchiastracciata, sdentata, piegata in due da qualche male. –Ero bella anch’io, piú di voi! Denaro finché ne volevo.Orecchini, braccialetti! – grida con voce stridula, gettan-do loro nomi ingiuriosi; ed esse cercano di cacciarlacome una lurida bestia.

Nei giorni seguenti Graziano si diede al gran lavorodi vedere tutti i musei, i palazzi, le chiese, le isole. Da-vanti alle fastose architetture, nelle immense sale dorate,

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in mezzo allo splendore dei dipinti, aveva l’impressioned’una vita creata da giganti dei quali si fosse poi perdutala razza. Ma lo infastidiva tutto ciò che nella città si ve-deva di logoro e fracido, le fondamenta corrosedall’acqua, le gradinate sconnesse, gli spigoli limati dal-le barche dentro gli stretti canali dov’era un odor dimare imputridito; gli davano un senso di artifizio tedio-so i tramonti, gli effetti di luna, il profilo stesso della cit-tà posata sul piano colorato dell’acqua, come spettacolirifatti sempre sul modello delle vedute da pochi soldisparse in ogni luogo. Se s’infilava nei corridoi dei se-stieri poveri, provava vergogna di quella miseria invete-rata e pitocca che mandava sciami di fanciulli, comemosche, addosso ai forestieri a chiedere la monetina edintanto imprecava sottovoce contro i «bastardi» che ve-nivano a cacciarsi là. Ma troppe cose gli dispiacevano:capiva di aver torto. Stando una volta nell’armeria diPalazzo ducale dinanzi ad una vetrina di morioni ed’archibugi, gli tornarono alla memoria gli ultimi mo-menti passati con Leda. Le aveva dichiarato duramentedi voler finire quella loro storia, ed ella aveva accettatala decisione senza protestare né far cenno di quanto erastato sempre taciuto, di tutti i segreti della propria vita.Quegli occhi dipinti, con superbia ma attraverso grosselacrime, avevano lungamente studiato il suo viso, i suoiocchi come per ricordarli poi sempre. Ella aveva detto:«Non saprai mai che cosa sei stato per me, che cosa cer-cavo». Nell’atto di staccarsi da lui, Leda aveva alzate lebraccia ad aprire il parasole, ed un istante egli le aveva

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in mezzo allo splendore dei dipinti, aveva l’impressioned’una vita creata da giganti dei quali si fosse poi perdutala razza. Ma lo infastidiva tutto ciò che nella città si ve-deva di logoro e fracido, le fondamenta corrosedall’acqua, le gradinate sconnesse, gli spigoli limati dal-le barche dentro gli stretti canali dov’era un odor dimare imputridito; gli davano un senso di artifizio tedio-so i tramonti, gli effetti di luna, il profilo stesso della cit-tà posata sul piano colorato dell’acqua, come spettacolirifatti sempre sul modello delle vedute da pochi soldisparse in ogni luogo. Se s’infilava nei corridoi dei se-stieri poveri, provava vergogna di quella miseria invete-rata e pitocca che mandava sciami di fanciulli, comemosche, addosso ai forestieri a chiedere la monetina edintanto imprecava sottovoce contro i «bastardi» che ve-nivano a cacciarsi là. Ma troppe cose gli dispiacevano:capiva di aver torto. Stando una volta nell’armeria diPalazzo ducale dinanzi ad una vetrina di morioni ed’archibugi, gli tornarono alla memoria gli ultimi mo-menti passati con Leda. Le aveva dichiarato duramentedi voler finire quella loro storia, ed ella aveva accettatala decisione senza protestare né far cenno di quanto erastato sempre taciuto, di tutti i segreti della propria vita.Quegli occhi dipinti, con superbia ma attraverso grosselacrime, avevano lungamente studiato il suo viso, i suoiocchi come per ricordarli poi sempre. Ella aveva detto:«Non saprai mai che cosa sei stato per me, che cosa cer-cavo». Nell’atto di staccarsi da lui, Leda aveva alzate lebraccia ad aprire il parasole, ed un istante egli le aveva

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veduta sotto le ascelle la seta leggera del vestito un pocobagnata di sudore. Risentiva adesso l’ira provata alloranascostamente, un odio di quel corpo che non avrebbemai piú posseduto.

Di forestieri la città traboccava. Ogni gondola passan-te nei rii conteneva una coppia straniera convinta di vi-vere il famoso idillio veneziano; drappelli tedeschi cam-minavano per le chiese facendo sonare le scarpe chioda-te; la sera in Piazza comparivano coi loro amanti donnedi meravigliosa bellezza ed eleganza, venute come in unviaggio trionfale da lontane metropoli; i grandi alberghidel Lido ospitavano famiglie di Cresi americani. La va-rietà della folla faceva pensare ad una vita che avesseper teatro il mondo intero. Ogni tanto comparivano nellaressa facce negre, occhiuzzi cinesi, turbanti indù; e gliindividui d’un colore passavano accanto a quelli di colo-re diverso senza mostrare alcun interesse. Dagli oziosidella Riva, Graziano udiva parlare di piroscafi in arrivoda Trieste, da Fiume, luoghi che erano in una lontananzafavolosa. Sbarcavano di là compagnie venute in gita, or-nate di coccarde dai colori austriaci od ungheresi, classidi collegiali che portavano il cheppì degli eserciti impe-riali; in cima agli alberi delle navi con cui erano giunti,si moveva la bandiera dell’Impero. Intorno a Venezia, infondo all’orizzonte, pareva sentirsi il grande vecchioOrco, quello stesso che in altri tempi, dal palazzo deiDogi, aveva fatto leggere ai patriotti italiani sentenzecrudeli: ancora ringhioso e pieno di malvage intenzioni.

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veduta sotto le ascelle la seta leggera del vestito un pocobagnata di sudore. Risentiva adesso l’ira provata alloranascostamente, un odio di quel corpo che non avrebbemai piú posseduto.

Di forestieri la città traboccava. Ogni gondola passan-te nei rii conteneva una coppia straniera convinta di vi-vere il famoso idillio veneziano; drappelli tedeschi cam-minavano per le chiese facendo sonare le scarpe chioda-te; la sera in Piazza comparivano coi loro amanti donnedi meravigliosa bellezza ed eleganza, venute come in unviaggio trionfale da lontane metropoli; i grandi alberghidel Lido ospitavano famiglie di Cresi americani. La va-rietà della folla faceva pensare ad una vita che avesseper teatro il mondo intero. Ogni tanto comparivano nellaressa facce negre, occhiuzzi cinesi, turbanti indù; e gliindividui d’un colore passavano accanto a quelli di colo-re diverso senza mostrare alcun interesse. Dagli oziosidella Riva, Graziano udiva parlare di piroscafi in arrivoda Trieste, da Fiume, luoghi che erano in una lontananzafavolosa. Sbarcavano di là compagnie venute in gita, or-nate di coccarde dai colori austriaci od ungheresi, classidi collegiali che portavano il cheppì degli eserciti impe-riali; in cima agli alberi delle navi con cui erano giunti,si moveva la bandiera dell’Impero. Intorno a Venezia, infondo all’orizzonte, pareva sentirsi il grande vecchioOrco, quello stesso che in altri tempi, dal palazzo deiDogi, aveva fatto leggere ai patriotti italiani sentenzecrudeli: ancora ringhioso e pieno di malvage intenzioni.

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Volentieri Graziano stava alla finestra della sua came-ra d’albergo, a guardar l’acqua verde d’uno stretto cana-le che sempre trascinava piano una bottiglia, scorze dicocòmeri, rottami; a guardar gente passare un piccoloponte senza che si scorgesse donde veniva né dove an-dava; ad osservar le case, quei muri e quei tetti vecchis-simi, gli scalini sui quali l’acqua saliva adagio. Dall’altocalavano ogni tanto le pesanti onde delle campane diSan Marco. Una finestra dirimpetto alla sua lasciava ve-dere una camera in cui due giovani sorelle, l’una biondae l’altra bruna, belle abbastanza, si offrivano alla sua vi-sta giocando sul letto, poco vestite, strillando ridendonervosamente, dandosi baci e morsi. Cosí breve era ladistanza, che si sarebbe potuto far conversazione a vocebassa; ma Graziano non fece neanche un sorriso, e perdispetto la minore delle ragazze finí di mostrargli tuttala lingua.

Un mattino, essendosi svegliato assai presto, il giovi-ne pensò di andare a sedersi oziosamente in punta allaDogana, come aveva desiderato ogni volta che l’avevavista. Passò il Canal Grande al traghetto della Salute, la-sciò da parte la mole gonfia e leggera di questa chiesa esi portò dove il molo è simile ad una prua in mezzoall’acqua. Non vi era che un ganzèr, uno dei vecchi gon-dolieri risecchiti che si guadagnavano un po’ di pane edi tabacco afferrando con un gancio le gondole appro-danti. Tutto stava immerso in un’aria fresca e nitida nel-la quale ogni piú lieve rumore spiccava netto, in unaluce ancora senza forza, eterea, che sembrava diversa da

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Volentieri Graziano stava alla finestra della sua came-ra d’albergo, a guardar l’acqua verde d’uno stretto cana-le che sempre trascinava piano una bottiglia, scorze dicocòmeri, rottami; a guardar gente passare un piccoloponte senza che si scorgesse donde veniva né dove an-dava; ad osservar le case, quei muri e quei tetti vecchis-simi, gli scalini sui quali l’acqua saliva adagio. Dall’altocalavano ogni tanto le pesanti onde delle campane diSan Marco. Una finestra dirimpetto alla sua lasciava ve-dere una camera in cui due giovani sorelle, l’una biondae l’altra bruna, belle abbastanza, si offrivano alla sua vi-sta giocando sul letto, poco vestite, strillando ridendonervosamente, dandosi baci e morsi. Cosí breve era ladistanza, che si sarebbe potuto far conversazione a vocebassa; ma Graziano non fece neanche un sorriso, e perdispetto la minore delle ragazze finí di mostrargli tuttala lingua.

Un mattino, essendosi svegliato assai presto, il giovi-ne pensò di andare a sedersi oziosamente in punta allaDogana, come aveva desiderato ogni volta che l’avevavista. Passò il Canal Grande al traghetto della Salute, la-sciò da parte la mole gonfia e leggera di questa chiesa esi portò dove il molo è simile ad una prua in mezzoall’acqua. Non vi era che un ganzèr, uno dei vecchi gon-dolieri risecchiti che si guadagnavano un po’ di pane edi tabacco afferrando con un gancio le gondole appro-danti. Tutto stava immerso in un’aria fresca e nitida nel-la quale ogni piú lieve rumore spiccava netto, in unaluce ancora senza forza, eterea, che sembrava diversa da

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quella che aveva sempre illuminato il mondo. Intorno albacino ogni cosa era prodigiosamente bella, i palazzidella Piazzetta e la Riva degli Schiavoni, le massed’alberi dei Giardini, il Lido lontano, le case basse dellaGiudecca; ed in mezzo alla chiarissima laguna color diperla, San Giorgo con la lancia del suo campanile. Veni-vano dalla Giudecca barconi neri colmi di ortaggi e difrutti; qualche vaporetto andava già cercando i suoi ap-prodi uno dopo l’altro; ma l’impressione era egualmenteche in quello spazio non vi fosse piú la gente di prima eche incominciasse una vita diversa, indicibilmente sem-plice e serena.

Il ganzèr, seduto sul molo con le gambe pendenti ver-so l’acqua, borbottando commentava a se stesso ciò chescopriva d’interessante nel bacino, tutto ciò che vi appa-risse. Presso l’isola di San Giorgio stavano all’ancora al-cune navi da guerra, col bucato dell’equipaggio svento-lante a prora; intorno ai loro alberi di ferro giravano adali ferme i gabbiani, che poi si posavano parlottandosulla chiarezza dell’acqua. Attraccati alla punta dellaDogana erano rozzi velieri, dipinti con gusto fanciulle-sco e portanti scritti a poppa nomi come «Buona Volon-tà», «Fratelli audaci»; sopra coperta vi lavoravano pochiuomini d’ogni età, senza fretta, come se fossero venutilà solamente per amore di quel navigare. Dal canale del-la Giudecca, attraversando con prudenza la laguna a cer-car l’uscita, spuntò un piroscafo lucente di vernice nuo-va, nero con una fascia rossa. – I soliti greci, – si disse il

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quella che aveva sempre illuminato il mondo. Intorno albacino ogni cosa era prodigiosamente bella, i palazzidella Piazzetta e la Riva degli Schiavoni, le massed’alberi dei Giardini, il Lido lontano, le case basse dellaGiudecca; ed in mezzo alla chiarissima laguna color diperla, San Giorgo con la lancia del suo campanile. Veni-vano dalla Giudecca barconi neri colmi di ortaggi e difrutti; qualche vaporetto andava già cercando i suoi ap-prodi uno dopo l’altro; ma l’impressione era egualmenteche in quello spazio non vi fosse piú la gente di prima eche incominciasse una vita diversa, indicibilmente sem-plice e serena.

Il ganzèr, seduto sul molo con le gambe pendenti ver-so l’acqua, borbottando commentava a se stesso ciò chescopriva d’interessante nel bacino, tutto ciò che vi appa-risse. Presso l’isola di San Giorgio stavano all’ancora al-cune navi da guerra, col bucato dell’equipaggio svento-lante a prora; intorno ai loro alberi di ferro giravano adali ferme i gabbiani, che poi si posavano parlottandosulla chiarezza dell’acqua. Attraccati alla punta dellaDogana erano rozzi velieri, dipinti con gusto fanciulle-sco e portanti scritti a poppa nomi come «Buona Volon-tà», «Fratelli audaci»; sopra coperta vi lavoravano pochiuomini d’ogni età, senza fretta, come se fossero venutilà solamente per amore di quel navigare. Dal canale del-la Giudecca, attraversando con prudenza la laguna a cer-car l’uscita, spuntò un piroscafo lucente di vernice nuo-va, nero con una fascia rossa. – I soliti greci, – si disse il

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ganzèr. – Atene, Costantinopoli, linea del Mar Nero. Perlustro è lustro. Di fuori.

Graziano era meravigliosamente contento di quantovedeva: una vita bella, degna del luogo, di quella luce edel giorno che incominciava, diverso da ogni altro. Unacalma perfetta era in lui; si sentiva pieno di fiducia eleggero come i gabbiani. Il suo sguardo non cessava maidi fare il gran giro e contemplare ogni cosa. Si volse alportico di marmo della Dogana, alla donna d’oro che, inequilibrio sul globo del mondo, dava alla brezza unapiccola vela d’oro e girava un tantino: non era la Fortu-na, come dicevano, ma la Fantasia, l’insegna di quellavita. Egli sentiva un intenso desiderio di vivere, un desi-derio dell’avvenire, ma per rimanere sempre come inquest’ora, in un sogno, senza sapere ciò che le cose fos-sero veramente.

Sulla coperta del veliero che gli era piú vicino, si ve-deva soltanto un ragazzo, con nerissimi capelli scarmi-gliati e con una maglia indosso tutta buchi, il qualespaccava un po’ di legna per la cucina. Accorgendosi adun tratto che non aveva piú scambiata parola con alcu-no, Graziano ebbe voglia di discorrere; si alzò, si portòpresso il bordo impeciato del bastimento. – Voialtri –domandò al mozzo – di dove venite?

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ganzèr. – Atene, Costantinopoli, linea del Mar Nero. Perlustro è lustro. Di fuori.

Graziano era meravigliosamente contento di quantovedeva: una vita bella, degna del luogo, di quella luce edel giorno che incominciava, diverso da ogni altro. Unacalma perfetta era in lui; si sentiva pieno di fiducia eleggero come i gabbiani. Il suo sguardo non cessava maidi fare il gran giro e contemplare ogni cosa. Si volse alportico di marmo della Dogana, alla donna d’oro che, inequilibrio sul globo del mondo, dava alla brezza unapiccola vela d’oro e girava un tantino: non era la Fortu-na, come dicevano, ma la Fantasia, l’insegna di quellavita. Egli sentiva un intenso desiderio di vivere, un desi-derio dell’avvenire, ma per rimanere sempre come inquest’ora, in un sogno, senza sapere ciò che le cose fos-sero veramente.

Sulla coperta del veliero che gli era piú vicino, si ve-deva soltanto un ragazzo, con nerissimi capelli scarmi-gliati e con una maglia indosso tutta buchi, il qualespaccava un po’ di legna per la cucina. Accorgendosi adun tratto che non aveva piú scambiata parola con alcu-no, Graziano ebbe voglia di discorrere; si alzò, si portòpresso il bordo impeciato del bastimento. – Voialtri –domandò al mozzo – di dove venite?

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Intorno all’Amistà era ancora la notte quando Cleto eMarta, restando in letto al buio, riprendevano a discorre-re adagio, a voce bassa, di ciò che pesava sull’animoloro anche nel sonno. Nell’inferriata della finestrinascintillava qualche stella. Essi ripetevano le cose giàmolte volte dette. Se il padrone moriva, quale sarebbe lasorte dell’Amistà? Casimiro – come tra loro lo chiama-vano – nel mandar giú il cibo aveva sentito alla boccadello stomaco un leggero imbarazzo, che a poco a pocoera cresciuto; andato a farsi visitare a Torino, l’avevanorimandato a casa, ma pareva che non vi fosse niente dafare, nemmeno un’operazione da tentare; era condanna-to. Il male doveva essere il medesimo che aveva portativia sua madre poi una sorella poi un fratello. Egli nonaveva altri parenti stretti che i figli di quel fratello e diquella sorella, i quali vivevano in città lontane e non ve-nivano mai a Rebbia. Era possibile che Casimiro, cosítrascurato e pigro, avesse pensato al testamento? Adessosperava ancora di guarire. Un erede, chiunque fosse, po-teva avere i suoi motivi di cambiar i coloni. Ma il peri-colo piú grave era che i nipoti vendessero i possedimen-ti, chissà come, e che l’Amistà fosse fatta a pezzi, divisa

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Intorno all’Amistà era ancora la notte quando Cleto eMarta, restando in letto al buio, riprendevano a discorre-re adagio, a voce bassa, di ciò che pesava sull’animoloro anche nel sonno. Nell’inferriata della finestrinascintillava qualche stella. Essi ripetevano le cose giàmolte volte dette. Se il padrone moriva, quale sarebbe lasorte dell’Amistà? Casimiro – come tra loro lo chiama-vano – nel mandar giú il cibo aveva sentito alla boccadello stomaco un leggero imbarazzo, che a poco a pocoera cresciuto; andato a farsi visitare a Torino, l’avevanorimandato a casa, ma pareva che non vi fosse niente dafare, nemmeno un’operazione da tentare; era condanna-to. Il male doveva essere il medesimo che aveva portativia sua madre poi una sorella poi un fratello. Egli nonaveva altri parenti stretti che i figli di quel fratello e diquella sorella, i quali vivevano in città lontane e non ve-nivano mai a Rebbia. Era possibile che Casimiro, cosítrascurato e pigro, avesse pensato al testamento? Adessosperava ancora di guarire. Un erede, chiunque fosse, po-teva avere i suoi motivi di cambiar i coloni. Ma il peri-colo piú grave era che i nipoti vendessero i possedimen-ti, chissà come, e che l’Amistà fosse fatta a pezzi, divisa

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tra molti compratori. Là attorno era accaduto di altri bel-lissimi poderi.

Cleto e la moglie sentivano che il luogo dov’eranoper tanti anni vissuti lavorando, non apparteneva a loroin nessuna maniera, e non apparteneva a loro neanche lavalle dove avevano tranquillamente regnato per tantotempo. Non avevano alcun diritto di rimanervi. Già sivedevano, un giorno qualunque, uscire dal portone conle masserizie sui carri, per andar chissà dove. Discorre-vano con poche parole e con molti sospiri, facendo pau-se lunghe. Parlavano pure di Fede e di Dionisio che lilasciavano. Fede sposava il servitore del podere vicino,Remo, il quale aveva messo da parte qualche soldo perandare a stabilirsi a Torino. Voleva cambiar vita ancheDionisio ma andando in Francia. Chi avrebbe avutocuore, anche potendo, di obbligare i figli a restar conta-dini? Nella finestrina le stelle impallidivano; si mostra-va nel cielo il chiarore livido con cui i giorni ricomin-ciano; bisognava alzarsi. Già Urbano aveva abbeverati ibuoi; Giusto, disceso dal fienile dove sempre preferivadormire, s’era scosso dai panni il fieno che vi stava at-taccato, s’era lavato nell’abbeveratoio, ed in cucina ab-brustoliva sulla brace una fetta di polenta per strofinarlapoi con uno spicchio d’aglio.

Tutta la giornata Giusto lavorava senza mai parlare diCasimiro né di quel che poteva succedere: come non cu-randosene o non volendoci pensare. Egli aveva fatto ilsoldato per due anni, negli Alpini; era tornato da poco;poiché al servizio militare c’era andato con l’idea che

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tra molti compratori. Là attorno era accaduto di altri bel-lissimi poderi.

Cleto e la moglie sentivano che il luogo dov’eranoper tanti anni vissuti lavorando, non apparteneva a loroin nessuna maniera, e non apparteneva a loro neanche lavalle dove avevano tranquillamente regnato per tantotempo. Non avevano alcun diritto di rimanervi. Già sivedevano, un giorno qualunque, uscire dal portone conle masserizie sui carri, per andar chissà dove. Discorre-vano con poche parole e con molti sospiri, facendo pau-se lunghe. Parlavano pure di Fede e di Dionisio che lilasciavano. Fede sposava il servitore del podere vicino,Remo, il quale aveva messo da parte qualche soldo perandare a stabilirsi a Torino. Voleva cambiar vita ancheDionisio ma andando in Francia. Chi avrebbe avutocuore, anche potendo, di obbligare i figli a restar conta-dini? Nella finestrina le stelle impallidivano; si mostra-va nel cielo il chiarore livido con cui i giorni ricomin-ciano; bisognava alzarsi. Già Urbano aveva abbeverati ibuoi; Giusto, disceso dal fienile dove sempre preferivadormire, s’era scosso dai panni il fieno che vi stava at-taccato, s’era lavato nell’abbeveratoio, ed in cucina ab-brustoliva sulla brace una fetta di polenta per strofinarlapoi con uno spicchio d’aglio.

Tutta la giornata Giusto lavorava senza mai parlare diCasimiro né di quel che poteva succedere: come non cu-randosene o non volendoci pensare. Egli aveva fatto ilsoldato per due anni, negli Alpini; era tornato da poco;poiché al servizio militare c’era andato con l’idea che

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fosse una ingiusta schiavitú, la disciplina gli era parsapesante; ma aveva rigato dritto; del resto, la vita dellacaserma, in una piccola città vicina alle Alpi, durava po-chi mesi all’anno, poi si stava sulle montagne; e queisoldati eran tutti montanari o contadini. Qualcosa dellavita militare, nel portamento, nei modi, anche nel viso,gli era rimasto. Da principio l’avevano visto rientrarenei suoi vecchi abiti e ripigliare i soliti lavori come con-tro voglia; dopo, era ridiventato quello di prima, cheparlava poco, non risparmiava mai la fatica e si curavadi tutto ciò che bisognava fare come d’un dovere cheavesse verso il podere, verso la terra. La domenica an-dava da solo fino a Rebbia, oppure rimaneva a casa aleggere, giornali se ne aveva o qualche libro logoro, tut-to orecchie, che aveva portato con sé tornando in conge-do. L’annata sembrava favorevole, il tempo buono noncostringeva ad ozî forzati, il lavoro dava soddisfazione.

Spesso capitava Remo, per discorrere con Fede delloro prossimo matrimonio. Quando Marta aveva altrefaccende, chiamava a sorvegliare i colloqui l’ultima suafiglia, Uliva, ragazzetta pungente che accettava l’incari-co con molto dispetto. Remo era sempre un bel giovine,con quei denti bianchi nel viso abbronzato; aveva pensa-to di sposare Fede come per compenso di non aver potu-to prendere Regina; Fede aveva ora diciott’anni, l’età diRegina quando era innamorata di lui, ma non era cosífine, aveva spalle di contadina e larghi occhi che si mo-vevano lenti in una faccia quadrata. Si volevano bene ifidanzati; sotto gli sguardi di Uliva si bisticciavano non

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fosse una ingiusta schiavitú, la disciplina gli era parsapesante; ma aveva rigato dritto; del resto, la vita dellacaserma, in una piccola città vicina alle Alpi, durava po-chi mesi all’anno, poi si stava sulle montagne; e queisoldati eran tutti montanari o contadini. Qualcosa dellavita militare, nel portamento, nei modi, anche nel viso,gli era rimasto. Da principio l’avevano visto rientrarenei suoi vecchi abiti e ripigliare i soliti lavori come con-tro voglia; dopo, era ridiventato quello di prima, cheparlava poco, non risparmiava mai la fatica e si curavadi tutto ciò che bisognava fare come d’un dovere cheavesse verso il podere, verso la terra. La domenica an-dava da solo fino a Rebbia, oppure rimaneva a casa aleggere, giornali se ne aveva o qualche libro logoro, tut-to orecchie, che aveva portato con sé tornando in conge-do. L’annata sembrava favorevole, il tempo buono noncostringeva ad ozî forzati, il lavoro dava soddisfazione.

Spesso capitava Remo, per discorrere con Fede delloro prossimo matrimonio. Quando Marta aveva altrefaccende, chiamava a sorvegliare i colloqui l’ultima suafiglia, Uliva, ragazzetta pungente che accettava l’incari-co con molto dispetto. Remo era sempre un bel giovine,con quei denti bianchi nel viso abbronzato; aveva pensa-to di sposare Fede come per compenso di non aver potu-to prendere Regina; Fede aveva ora diciott’anni, l’età diRegina quando era innamorata di lui, ma non era cosífine, aveva spalle di contadina e larghi occhi che si mo-vevano lenti in una faccia quadrata. Si volevano bene ifidanzati; sotto gli sguardi di Uliva si bisticciavano non

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potendosi baciare; col desiderio affrettavano il tempodelle nozze, anche perché vedevano in una luce brillantela vita che li aspettava nella grande città. Remo si senti-va già uscito dalla sua condizione di povero servitore.

A preparar vestiti ed un po’ di corredo alla sposa ven-ne da Torino una parente. Questa Irene, figlia d’una so-rella di Marta che aveva sposato un operaio delle ferro-vie, lavorava in una tessitura ma era anche abile nel ta-gliare e cucire; poiché la fabbrica, minacciata dal falli-mento, aveva licenziata molta gente, e trovar subito oc-cupazione altrove era difficile, la ragazza era stata con-tenta di venire all’Amistà mentre s’avvicinava l’estate,quasi in villeggiatura. Era alta, aveva la magrezza ner-vosa, l’occhio smaliziato, il parlare sciolto delle ragazzedi fabbrica; sapeva vestirsi, acconciarsi bene; portavasempre ai polsi cerchi e catene d’argento che accompa-gnavano ogni suo gesto con un suono piacevole; ridevaper mostrare i denti e non temeva di annerirsi un tantinola pelle prendendo sole. Nel lavoro era svelta e vi mette-va impegno.

Giusto non la rivedeva da molti anni: da quando ellaera venuta qui con sua madre alla vendemmia e s’arram-picava sugli alberi. Ora gli piaceva molto; in lei sentivala vita della città grande, il modo di pensare, di espri-mersi proprio di quella gente tanto diversa; anche nelcorpo magro Irene aveva una vivezza, un’eleganza chela rendevano diversa da qualunque ragazza di campa-gna. Finita la giornata, sebbene stanco, egli si lavavabene, e dopo cena scambiava con lei qualche parola

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potendosi baciare; col desiderio affrettavano il tempodelle nozze, anche perché vedevano in una luce brillantela vita che li aspettava nella grande città. Remo si senti-va già uscito dalla sua condizione di povero servitore.

A preparar vestiti ed un po’ di corredo alla sposa ven-ne da Torino una parente. Questa Irene, figlia d’una so-rella di Marta che aveva sposato un operaio delle ferro-vie, lavorava in una tessitura ma era anche abile nel ta-gliare e cucire; poiché la fabbrica, minacciata dal falli-mento, aveva licenziata molta gente, e trovar subito oc-cupazione altrove era difficile, la ragazza era stata con-tenta di venire all’Amistà mentre s’avvicinava l’estate,quasi in villeggiatura. Era alta, aveva la magrezza ner-vosa, l’occhio smaliziato, il parlare sciolto delle ragazzedi fabbrica; sapeva vestirsi, acconciarsi bene; portavasempre ai polsi cerchi e catene d’argento che accompa-gnavano ogni suo gesto con un suono piacevole; ridevaper mostrare i denti e non temeva di annerirsi un tantinola pelle prendendo sole. Nel lavoro era svelta e vi mette-va impegno.

Giusto non la rivedeva da molti anni: da quando ellaera venuta qui con sua madre alla vendemmia e s’arram-picava sugli alberi. Ora gli piaceva molto; in lei sentivala vita della città grande, il modo di pensare, di espri-mersi proprio di quella gente tanto diversa; anche nelcorpo magro Irene aveva una vivezza, un’eleganza chela rendevano diversa da qualunque ragazza di campa-gna. Finita la giornata, sebbene stanco, egli si lavavabene, e dopo cena scambiava con lei qualche parola

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sull’aia, se poteva avvicinarla da solo. Irene faceva tal-volta un po’ di chiasso con Uliva, solleticando e trasci-nando a correre la ragazzetta bisbetica; scherzava contutti, anche con Dionisio e Cleto, si udivano le sue vocicapricciose, le sue risate improvvise; insegnava canzonialle cugine. Ma tutto questo faceva come una signora incampagna e canzonando sempre un poco tutti quanti.Mostrava di stare piú volentieri con Giusto che con Dio-nisio, il quale anche insieme a lei non perdeva la suafiacca. La domenica, andando per il podere a cercar frut-ta con Fede e Uliva, chiamava Giusto. Anche con lui,scherzando, stuzzicandolo alquanto, lasciandosi serviregalantemente, era sempre una ragazza di città di frontead un contadino. Le sue parole, i suoi gesti, quel mododi fare, si potevano però comprendere in molte maniere.Il giovine restava timido, non osava sfiorarla, si teneva arispettosa distanza, con una cert’aria contenta ed un luc-cicore nello sguardo. Anche lavorando pensava a lei;scendendo dal fienile alla prima luce, volgeva subito gliocchi all’uscio d’una stanza sotto il portico ch’era statadata ad Irene; si sentiva preso da lei e non si difendeva,non provava diffidenza.

Accadde che una mattina il vecchio Urbano non riu-scí a levarsi dal suo saccone. Per curarsi il nervo di unagamba, dal quale era tormentato da qualche tempo, dopoesser andato a consultare nella campagna una donna chedava rimedi, s’era messo al calcagno un vescicante. Sitrovò una gran piaga. Provò a calzare egualmente lascarpa, poi a camminare con quel piede ravvolto in un

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sull’aia, se poteva avvicinarla da solo. Irene faceva tal-volta un po’ di chiasso con Uliva, solleticando e trasci-nando a correre la ragazzetta bisbetica; scherzava contutti, anche con Dionisio e Cleto, si udivano le sue vocicapricciose, le sue risate improvvise; insegnava canzonialle cugine. Ma tutto questo faceva come una signora incampagna e canzonando sempre un poco tutti quanti.Mostrava di stare piú volentieri con Giusto che con Dio-nisio, il quale anche insieme a lei non perdeva la suafiacca. La domenica, andando per il podere a cercar frut-ta con Fede e Uliva, chiamava Giusto. Anche con lui,scherzando, stuzzicandolo alquanto, lasciandosi serviregalantemente, era sempre una ragazza di città di frontead un contadino. Le sue parole, i suoi gesti, quel mododi fare, si potevano però comprendere in molte maniere.Il giovine restava timido, non osava sfiorarla, si teneva arispettosa distanza, con una cert’aria contenta ed un luc-cicore nello sguardo. Anche lavorando pensava a lei;scendendo dal fienile alla prima luce, volgeva subito gliocchi all’uscio d’una stanza sotto il portico ch’era statadata ad Irene; si sentiva preso da lei e non si difendeva,non provava diffidenza.

Accadde che una mattina il vecchio Urbano non riu-scí a levarsi dal suo saccone. Per curarsi il nervo di unagamba, dal quale era tormentato da qualche tempo, dopoesser andato a consultare nella campagna una donna chedava rimedi, s’era messo al calcagno un vescicante. Sitrovò una gran piaga. Provò a calzare egualmente lascarpa, poi a camminare con quel piede ravvolto in un

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cencio; non poté reggere al dolore, fu costretto ad avver-tire Giusto e darsi vinto. Volle che il nipote lasciasse laporta aperta: il nervo infiammato e la piaga gli causava-no sofferenze crudeli; pure, dalla sua cella egli stette aguardare come sull’aia le bestie venissero abbeverate edattaccate al carro. Il peggior dolore era di non riprendereil suo posto mentre una giornata incominciava. Non per-mise che fosse chiamato il medico ma si rassegnò a nonfare niente e stare sul saccone finché il male non se neandasse. Presto capí che ci sarebbe voluto molto tempo;cessò di contare i giorni. Nello stanzino tappezzatod’immagini sacre, tra le quali gli era vicino, sulla pareteaccanto al letto, il quadro con tutti i papi, sopportava latortura spietata. – Pazienza, pazienza – ripeteva serran-do le robuste mascelle se lo spasimo s’inaspriva. Neisuoi libri leggeva le penitenze degli eremiti, i supplizidei martiri, dicendosi che al confronto il suo male nonera niente; scoteva con rammarico la barba, sempre an-nodata, ogni qualvolta gli giungevano i rumori dei boviche andavano ai campi o ne tornavano. Giusto venivaspesso a rendergli conto dei lavori in corso e parlarglidelle bestie. Da solo, pregando, il vecchio offriva i suoipatimenti a Dio perché aiutasse la famiglia nel pericoloda cui era minacciata. Non sperava che il padrone gua-risse né che la famiglia rimanesse all’Amistà dopo la suamorte; sperava si potesse trovare un altro buon podere,sebbene i giovani ad uno ad uno si allontanassero. Perquanto lo riguardava, la sua speranza era soltanto diguarire presto, di lavorar la terra e guadagnarsi il Paradi-

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cencio; non poté reggere al dolore, fu costretto ad avver-tire Giusto e darsi vinto. Volle che il nipote lasciasse laporta aperta: il nervo infiammato e la piaga gli causava-no sofferenze crudeli; pure, dalla sua cella egli stette aguardare come sull’aia le bestie venissero abbeverate edattaccate al carro. Il peggior dolore era di non riprendereil suo posto mentre una giornata incominciava. Non per-mise che fosse chiamato il medico ma si rassegnò a nonfare niente e stare sul saccone finché il male non se neandasse. Presto capí che ci sarebbe voluto molto tempo;cessò di contare i giorni. Nello stanzino tappezzatod’immagini sacre, tra le quali gli era vicino, sulla pareteaccanto al letto, il quadro con tutti i papi, sopportava latortura spietata. – Pazienza, pazienza – ripeteva serran-do le robuste mascelle se lo spasimo s’inaspriva. Neisuoi libri leggeva le penitenze degli eremiti, i supplizidei martiri, dicendosi che al confronto il suo male nonera niente; scoteva con rammarico la barba, sempre an-nodata, ogni qualvolta gli giungevano i rumori dei boviche andavano ai campi o ne tornavano. Giusto venivaspesso a rendergli conto dei lavori in corso e parlarglidelle bestie. Da solo, pregando, il vecchio offriva i suoipatimenti a Dio perché aiutasse la famiglia nel pericoloda cui era minacciata. Non sperava che il padrone gua-risse né che la famiglia rimanesse all’Amistà dopo la suamorte; sperava si potesse trovare un altro buon podere,sebbene i giovani ad uno ad uno si allontanassero. Perquanto lo riguardava, la sua speranza era soltanto diguarire presto, di lavorar la terra e guadagnarsi il Paradi-

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so, come sempre. Terra ve n’era tanta, e per quel fineera tutta eguale.

Casimiro Gallant peggiorava. Ormai si trascinava dal-la poltrona al letto, non poteva piú mangiare; il suo visoera divenuto grigio come la polvere: non v’era dubbioche si trattasse d’un tumore maligno. I soliti accattoniche facevan tanta strada, i lavoratori avventizi che gira-vano da un paese all’altro, lo andavano dicendo moltemiglia distante quale malattia aveva colpito il padronedell’Amistà, quale incerta sorte stava sospesa sul poderee sui mezzadri. I Crivelli non avevano nemici; a moltagente rincresceva che forse dovesse finire il loro regnobonario su quella collina. Giusto era persuaso che vera-mente il tempo dell’Amistà stava per terminare; ma neilavori non abbandonava la regola severa, anzi, provve-deva sempre a tutto ciò che lo zio non poteva fare, aiuta-to con stento dal padre e da Dionisio, con buon volere epoca esperienza dal fratello minore, Donato. La sera eratalvolta spossato; tuttavia seguitava a ripulirsi bene perfar conversazione con Irene, seduti presso il pagliaio so-pra la paglia scivolata giú. Ad un tratto la grossa voce diUrbano dalla cella gli comandava di andar a dormire, edegli subito obbediva. Insieme ad Irene, alle sorelle ed aRemo, che aveva preso un barroccio in prestito, andòalla sagra d’un paese non tanto vicino, e fu una bellissi-ma giornata di festa, tra il padiglione del ballo, i banchidelle ciambelle, le osterie improvvisate, nei prati pienidi gente e di suoni. Con lui la ragazza era sempre lastessa; sempre quel parlare leggero e capriccioso, quel

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so, come sempre. Terra ve n’era tanta, e per quel fineera tutta eguale.

Casimiro Gallant peggiorava. Ormai si trascinava dal-la poltrona al letto, non poteva piú mangiare; il suo visoera divenuto grigio come la polvere: non v’era dubbioche si trattasse d’un tumore maligno. I soliti accattoniche facevan tanta strada, i lavoratori avventizi che gira-vano da un paese all’altro, lo andavano dicendo moltemiglia distante quale malattia aveva colpito il padronedell’Amistà, quale incerta sorte stava sospesa sul poderee sui mezzadri. I Crivelli non avevano nemici; a moltagente rincresceva che forse dovesse finire il loro regnobonario su quella collina. Giusto era persuaso che vera-mente il tempo dell’Amistà stava per terminare; ma neilavori non abbandonava la regola severa, anzi, provve-deva sempre a tutto ciò che lo zio non poteva fare, aiuta-to con stento dal padre e da Dionisio, con buon volere epoca esperienza dal fratello minore, Donato. La sera eratalvolta spossato; tuttavia seguitava a ripulirsi bene perfar conversazione con Irene, seduti presso il pagliaio so-pra la paglia scivolata giú. Ad un tratto la grossa voce diUrbano dalla cella gli comandava di andar a dormire, edegli subito obbediva. Insieme ad Irene, alle sorelle ed aRemo, che aveva preso un barroccio in prestito, andòalla sagra d’un paese non tanto vicino, e fu una bellissi-ma giornata di festa, tra il padiglione del ballo, i banchidelle ciambelle, le osterie improvvisate, nei prati pienidi gente e di suoni. Con lui la ragazza era sempre lastessa; sempre quel parlare leggero e capriccioso, quel

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guardare come per divertirsi, quell’aria di forestiera; glirideva francamente in faccia se egli, tornando appostadai campi, le passava vicino come per caso, mentre ellastava da sola a cucire sull’erba in qualche luogo fresco.Giusto maturava adagio un’idea nella testa cocciuta;non trovava mai il coraggio di parlarne con la ragazza enemmeno quello di dirle ciò che sentiva per lei, avendosempre l’impressione che fosse d’una condizione supe-riore. Ma Irene non sapeva già benissimo ogni cosa? Ilgiovane si immaginava che avrebbe finito per parlarle eche lei avrebbe capita la sua idea, accettando la propo-sta.

Alla metà di luglio, come nell’altre estati, arrivarono iFarra. Si rividero bauli e valige, le finestre della villa siriaprirono, successe il solito affaccendarsi della servitú;e riapparve coi figli la signora Claudia. Quell’anno Gra-ziano portò un cavallo da sella: un sauro di mezzo san-gue, con piccola testa ardita ed occhi lampeggianti, pie-no di fuoco ma sincero. Passando per Rebbia, Claudiaaveva visto Casimiro Gallant; non si alzava piú dal letto,non pesava piú niente, era un’ombra, ma sperava sem-pre di guarire, poiché i medici non gli avevano detta laverità. A Marta – che venne da lei a versar lacrime, colsuo viso di Addolorata nel quale si scavavano di anno inanno piú profonde le rughe di contadina – la signora nonlasciò alcuna illusione riguardo all’esito della malattia.Allora la massaia le disse la segreta speranza sua e diCleto, che l’Amistà venisse comprata da lei. AncheClaudia pensava con pena che potesse fare una cattiva

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guardare come per divertirsi, quell’aria di forestiera; glirideva francamente in faccia se egli, tornando appostadai campi, le passava vicino come per caso, mentre ellastava da sola a cucire sull’erba in qualche luogo fresco.Giusto maturava adagio un’idea nella testa cocciuta;non trovava mai il coraggio di parlarne con la ragazza enemmeno quello di dirle ciò che sentiva per lei, avendosempre l’impressione che fosse d’una condizione supe-riore. Ma Irene non sapeva già benissimo ogni cosa? Ilgiovane si immaginava che avrebbe finito per parlarle eche lei avrebbe capita la sua idea, accettando la propo-sta.

Alla metà di luglio, come nell’altre estati, arrivarono iFarra. Si rividero bauli e valige, le finestre della villa siriaprirono, successe il solito affaccendarsi della servitú;e riapparve coi figli la signora Claudia. Quell’anno Gra-ziano portò un cavallo da sella: un sauro di mezzo san-gue, con piccola testa ardita ed occhi lampeggianti, pie-no di fuoco ma sincero. Passando per Rebbia, Claudiaaveva visto Casimiro Gallant; non si alzava piú dal letto,non pesava piú niente, era un’ombra, ma sperava sem-pre di guarire, poiché i medici non gli avevano detta laverità. A Marta – che venne da lei a versar lacrime, colsuo viso di Addolorata nel quale si scavavano di anno inanno piú profonde le rughe di contadina – la signora nonlasciò alcuna illusione riguardo all’esito della malattia.Allora la massaia le disse la segreta speranza sua e diCleto, che l’Amistà venisse comprata da lei. AncheClaudia pensava con pena che potesse fare una cattiva

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fine il luogo amato dove aveva trascorse le sue vacanzedi giovinetta; ma il podere era costoso e vecchio, ed eraun’opera dei Gallant mentre ella voleva creare una cosasua, una cosa dei Farra. Non illuse la buona donna nem-meno a questo proposito.

Ogni giorno Graziano faceva lunghe cavalcate. Gode-va la forza vibrante, lo slancio del bell’animale; gli pia-cevano il crocchiar della sella, il rumore delle zampe de-cise e leggere sugli stradali; scendeva nella pianura e,dov’era possibile lanciare il cavallo al galoppo, si senti-va unito alla bestia in una stessa gioia di vita, di movi-mento, di giovinezza; poi cercava tutte le strade dellecolline. Nell’aria fresca del mattino o sotto il sole ga-gliardo, respirando gli odori della campagna, si figuravad’esser uno che andasse per il mondo alla ventura e nondovesse mai tornare ad una casa. Ricordava la fatica fat-ta a tavolino empiendosi il cervello di matematica, dichimica per gli esami di licenza, e si scopriva il capoperché il vento portasse via questa roba che ormai nongli serviva piú. Quando usciva dall’Amistà o rientrava,sempre vedeva Irene seduta nel prato presso un olmodel viale, diritta sulla vita in mezzo a mucchi di stoffe,vestita e pettinata come se avesse lasciato in quel mo-mento lo specchio. Ella lo guardava bene negli occhi,con un sorriso che diceva «Sono qui. Ti piaccio?»; e gligettava l’esca per chiacchierare.

Spesso Graziano a cavallo passava per Luvo. Erasempre un paese deserto, anzi, morente; sulla piazza,dove la farmacia e le poche botteghe sembravano ab-

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fine il luogo amato dove aveva trascorse le sue vacanzedi giovinetta; ma il podere era costoso e vecchio, ed eraun’opera dei Gallant mentre ella voleva creare una cosasua, una cosa dei Farra. Non illuse la buona donna nem-meno a questo proposito.

Ogni giorno Graziano faceva lunghe cavalcate. Gode-va la forza vibrante, lo slancio del bell’animale; gli pia-cevano il crocchiar della sella, il rumore delle zampe de-cise e leggere sugli stradali; scendeva nella pianura e,dov’era possibile lanciare il cavallo al galoppo, si senti-va unito alla bestia in una stessa gioia di vita, di movi-mento, di giovinezza; poi cercava tutte le strade dellecolline. Nell’aria fresca del mattino o sotto il sole ga-gliardo, respirando gli odori della campagna, si figuravad’esser uno che andasse per il mondo alla ventura e nondovesse mai tornare ad una casa. Ricordava la fatica fat-ta a tavolino empiendosi il cervello di matematica, dichimica per gli esami di licenza, e si scopriva il capoperché il vento portasse via questa roba che ormai nongli serviva piú. Quando usciva dall’Amistà o rientrava,sempre vedeva Irene seduta nel prato presso un olmodel viale, diritta sulla vita in mezzo a mucchi di stoffe,vestita e pettinata come se avesse lasciato in quel mo-mento lo specchio. Ella lo guardava bene negli occhi,con un sorriso che diceva «Sono qui. Ti piaccio?»; e gligettava l’esca per chiacchierare.

Spesso Graziano a cavallo passava per Luvo. Erasempre un paese deserto, anzi, morente; sulla piazza,dove la farmacia e le poche botteghe sembravano ab-

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bandonate dalla gente, il palazzo degli Andosio mostra-va la faccia enigmatica, con le persiane chiuse, col por-tone chiuso. Le case delle vecchie famiglie borghesi in-frollivano sempre piú; anche nelle dinastie di contadiniricchi, che avevano pur esse una lunga storia, non vi erapiú fiducia, non volontà di piantar vigne nuove, comprarterre, costruire. Molti giovani se ne andavano, ognianno, i ricchi facendosi avvocati o preti, i poveri emi-grando. Il vecchietto dalla fascia rossa, il Messia, erapoi morto. Qualche volta Graziano arrivava alla Stella-ta, la costeggiava scendendo per la stradetta allegra delcamposanto. I pilastri senza cancello, coperti di spine, ilcasale roso dal tempo, la spianata, gli parevano moltorimpiccoliti. Sul margine della spianata passeggiava unvecchio dai grossi baffi bianchi, tenuto sottobraccio dauna donnetta grassoccia, entrambi vestiti a lutto: il cava-lier Costante con quella ch’era stata la sua servetta eadesso era la vedova di Mercurino. In primavera il timi-do Mercurino s’era appeso ad un chiodo nello stanzonedel teatro – forse perché aveva finalmente capito il gio-co che gli avevano fatto combinando il suo matrimonio– dopo avere scritta al padre una lunga lettera in bellissi-ma calligrafia. Tutta la Stellata era sempre dei Breme;ma, a causa di questo avvenimento, non soltanto Cle-menza e suo padre non ci venivano piú; se ne tenevalontana anche Barbara, aspettando vendette dall’avveni-re. Costante e la donna grassoccia vi erano rimasti soli.

Un giorno, sulla piazza del paese, dove non vi era cheun girovago a rassettar padelle in un angolo, Graziano

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bandonate dalla gente, il palazzo degli Andosio mostra-va la faccia enigmatica, con le persiane chiuse, col por-tone chiuso. Le case delle vecchie famiglie borghesi in-frollivano sempre piú; anche nelle dinastie di contadiniricchi, che avevano pur esse una lunga storia, non vi erapiú fiducia, non volontà di piantar vigne nuove, comprarterre, costruire. Molti giovani se ne andavano, ognianno, i ricchi facendosi avvocati o preti, i poveri emi-grando. Il vecchietto dalla fascia rossa, il Messia, erapoi morto. Qualche volta Graziano arrivava alla Stella-ta, la costeggiava scendendo per la stradetta allegra delcamposanto. I pilastri senza cancello, coperti di spine, ilcasale roso dal tempo, la spianata, gli parevano moltorimpiccoliti. Sul margine della spianata passeggiava unvecchio dai grossi baffi bianchi, tenuto sottobraccio dauna donnetta grassoccia, entrambi vestiti a lutto: il cava-lier Costante con quella ch’era stata la sua servetta eadesso era la vedova di Mercurino. In primavera il timi-do Mercurino s’era appeso ad un chiodo nello stanzonedel teatro – forse perché aveva finalmente capito il gio-co che gli avevano fatto combinando il suo matrimonio– dopo avere scritta al padre una lunga lettera in bellissi-ma calligrafia. Tutta la Stellata era sempre dei Breme;ma, a causa di questo avvenimento, non soltanto Cle-menza e suo padre non ci venivano piú; se ne tenevalontana anche Barbara, aspettando vendette dall’avveni-re. Costante e la donna grassoccia vi erano rimasti soli.

Un giorno, sulla piazza del paese, dove non vi era cheun girovago a rassettar padelle in un angolo, Graziano

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incontrò Aroldo Lanciarossa. Questi era a piedi; daqualche distanza si mise ad osservare il sauro con oc-chio d’intenditore; si toccò l’ala del largo cappello congesto grandioso. – Bella bestia! – disse. – Magnificoportamento! – E mosse deciso verso il giovine. Grazia-no fermò Ilisso, al quale l’altro batté una mano sul colloper farlo stare quieto. Sotto una corta giacca nera orlatadi gallone il Lanciarossa portava una camicia di setaampiamente aperta intorno alla gola scottata dal sole; ilpizzetto, i capelli mandati indietro con vigorosi colpi dispazzola erano ormai piú bianchi che grigi; egli si alza-va col dorso della destra i baffi rudi, faceva alla piccolabarba la punta, sorridendo e guardando con pupille scin-tillanti come se fosse dinanzi ad un invisibile pubblico.Si sapeva che aveva sempre ripeschi con contadine bellee che era molto generoso.

— Poiché amate i cavalli, – propose a bruciapelo aGraziano – venite a vedere i miei.

Graziano, non sapendo come ricusare e sentendo an-che con piacere che poteva penetrare in quel luogo sco-nosciuto e misterioso, la casa dei nonni, accettò. Il Lan-ciarossa andò in fretta alla gradinata, la salí con saltielastici, entrò a ordinare che si aprisse il cancello delgiardino; ed il giovane fece al trotto il giro dallo strada-le. Varcato l’ingresso, vide quei begli alberi che avevanotanti anni, le grandi gabbie nelle quali passeggiavano fa-giani d’oro e d’argento, gridavano pappagalli, volavanoin ogni senso piccoli uccelli di penne colorite. Provavauno stupore d’esser là. Facilmente distingueva le cose

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incontrò Aroldo Lanciarossa. Questi era a piedi; daqualche distanza si mise ad osservare il sauro con oc-chio d’intenditore; si toccò l’ala del largo cappello congesto grandioso. – Bella bestia! – disse. – Magnificoportamento! – E mosse deciso verso il giovine. Grazia-no fermò Ilisso, al quale l’altro batté una mano sul colloper farlo stare quieto. Sotto una corta giacca nera orlatadi gallone il Lanciarossa portava una camicia di setaampiamente aperta intorno alla gola scottata dal sole; ilpizzetto, i capelli mandati indietro con vigorosi colpi dispazzola erano ormai piú bianchi che grigi; egli si alza-va col dorso della destra i baffi rudi, faceva alla piccolabarba la punta, sorridendo e guardando con pupille scin-tillanti come se fosse dinanzi ad un invisibile pubblico.Si sapeva che aveva sempre ripeschi con contadine bellee che era molto generoso.

— Poiché amate i cavalli, – propose a bruciapelo aGraziano – venite a vedere i miei.

Graziano, non sapendo come ricusare e sentendo an-che con piacere che poteva penetrare in quel luogo sco-nosciuto e misterioso, la casa dei nonni, accettò. Il Lan-ciarossa andò in fretta alla gradinata, la salí con saltielastici, entrò a ordinare che si aprisse il cancello delgiardino; ed il giovane fece al trotto il giro dallo strada-le. Varcato l’ingresso, vide quei begli alberi che avevanotanti anni, le grandi gabbie nelle quali passeggiavano fa-giani d’oro e d’argento, gridavano pappagalli, volavanoin ogni senso piccoli uccelli di penne colorite. Provavauno stupore d’esser là. Facilmente distingueva le cose

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che non erano degli Andosio: le aiuole incorniciate diterracotta, un puttino di marmo che riceveva sopra unombrello di zinco lo zampillo d’una fontana, ed in fondoad un viale il bersaglio dove il Lanciarossa abitualmentesi esercitava con la pistola facendo udire di fuori i colpi.Il tempo degli Andosio si vedeva bene sulle facciate in-terne del palazzo, formanti un angolo su due lati del cor-tile; l’intonaco era vecchio ma sopra certe finestre delprimo piano recava ancora una meridiana, quasi cancel-lata, che Claudia ricordava. Invece le scuderie erano ri-fatte, lucidissime; i cavalli non meno lucidi che vi stava-no, alla chiamata del padrone risposero agitandosi, qual-cuno nitrí.

— Ora dovete salir di sopra – disse poi il Lanciaros-sa; ed aggiunse con un inchino cavalleresco: – È la casadei vostri avi.

Nel palazzo l’atrio, lo scalone di pietra, i larghi corri-doi, le finestre munite d’un gradino per potervisi affac-ciare, le porte scolpite, la cucina grande come quellad’un convento, mostravano una maniera antica di fab-bricare e la solida agiatezza di chi aveva fatto costruirel’edificio. Di pietra, di stucco o dipinto, in molti luoghisi trovava lo stemma degli Andosio, tre cipressi sopraun monticello. Nel salone principale, che aveva l’altezzadi due piani e la tribuna per l’orchestra, erano ancoraappesi alle pareti i lumi a specchi dei balli di cui parlavaClaudia per averne anch’ella udito parlare. Quei nonni,morti tanto tempo prima ch’egli nascesse, Graziano ave-va l’impressione che fossero appena andati via. Pensava

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che non erano degli Andosio: le aiuole incorniciate diterracotta, un puttino di marmo che riceveva sopra unombrello di zinco lo zampillo d’una fontana, ed in fondoad un viale il bersaglio dove il Lanciarossa abitualmentesi esercitava con la pistola facendo udire di fuori i colpi.Il tempo degli Andosio si vedeva bene sulle facciate in-terne del palazzo, formanti un angolo su due lati del cor-tile; l’intonaco era vecchio ma sopra certe finestre delprimo piano recava ancora una meridiana, quasi cancel-lata, che Claudia ricordava. Invece le scuderie erano ri-fatte, lucidissime; i cavalli non meno lucidi che vi stava-no, alla chiamata del padrone risposero agitandosi, qual-cuno nitrí.

— Ora dovete salir di sopra – disse poi il Lanciaros-sa; ed aggiunse con un inchino cavalleresco: – È la casadei vostri avi.

Nel palazzo l’atrio, lo scalone di pietra, i larghi corri-doi, le finestre munite d’un gradino per potervisi affac-ciare, le porte scolpite, la cucina grande come quellad’un convento, mostravano una maniera antica di fab-bricare e la solida agiatezza di chi aveva fatto costruirel’edificio. Di pietra, di stucco o dipinto, in molti luoghisi trovava lo stemma degli Andosio, tre cipressi sopraun monticello. Nel salone principale, che aveva l’altezzadi due piani e la tribuna per l’orchestra, erano ancoraappesi alle pareti i lumi a specchi dei balli di cui parlavaClaudia per averne anch’ella udito parlare. Quei nonni,morti tanto tempo prima ch’egli nascesse, Graziano ave-va l’impressione che fossero appena andati via. Pensava

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ai bisnonni ed a coloro dai quali essi erano nati, sentivain quel passato le proprie radici. Sotto le alte volte sicompiaceva di far sonare gli speroni. Però nelle stanzeveramente abitate dai Lanciarossa vi era la vita diquest’altra gente, tra mobili con le fodere, scatole di ta-bacco, vedute di Monte Carlo, gomitoli di lana; sopraogni tavolino o mensola fotografie di Jenny ad ogni età,la quale in salotto stava impettita e florida in un dipintoad olio ricavato da una di quelle fotografie.

Il Lanciarossa si comportava come il vero padronedella casa, guidando l’ospite con aria d’uomo di mondoritirato in un paese. In uno dei corridoi bussò legger-mente ad una porta, l’aprí tanto da passarvi il capo: –Sofia, permetti? – L’ampio vano dove il giovine fu in-trodotto, era piuttosto magazzino che dispensa; nella pe-nombra che facevano gli scuri accostati, s’intravvedeva-no sacchi di grano appoggiati ai muri ed in un canto unpeso a bilico. Prendeva dei pomodori seccati al sole, daun’asse posta sopra due sedie, una donna non alta, gras-sa, coi capelli ancora neri, che aveva un naso curvo benfatto, da duchessa, pizzicato dagli occhiali. Ella vestivaa lutto, modestamente, sebbene la morte della figlia fos-se avvenuta da tre anni. Si scusò col visitatore del lavo-ro che faceva, ma la voce ed i gesti significavano cheormai non le importava piú di nulla. Qualche indiziod’una vita diversa nella sua persona rimaneva nella pelledel viso, delle mani, bianche e morbide, nella bocca,una di quelle bocche che hanno molto baciato.

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ai bisnonni ed a coloro dai quali essi erano nati, sentivain quel passato le proprie radici. Sotto le alte volte sicompiaceva di far sonare gli speroni. Però nelle stanzeveramente abitate dai Lanciarossa vi era la vita diquest’altra gente, tra mobili con le fodere, scatole di ta-bacco, vedute di Monte Carlo, gomitoli di lana; sopraogni tavolino o mensola fotografie di Jenny ad ogni età,la quale in salotto stava impettita e florida in un dipintoad olio ricavato da una di quelle fotografie.

Il Lanciarossa si comportava come il vero padronedella casa, guidando l’ospite con aria d’uomo di mondoritirato in un paese. In uno dei corridoi bussò legger-mente ad una porta, l’aprí tanto da passarvi il capo: –Sofia, permetti? – L’ampio vano dove il giovine fu in-trodotto, era piuttosto magazzino che dispensa; nella pe-nombra che facevano gli scuri accostati, s’intravvedeva-no sacchi di grano appoggiati ai muri ed in un canto unpeso a bilico. Prendeva dei pomodori seccati al sole, daun’asse posta sopra due sedie, una donna non alta, gras-sa, coi capelli ancora neri, che aveva un naso curvo benfatto, da duchessa, pizzicato dagli occhiali. Ella vestivaa lutto, modestamente, sebbene la morte della figlia fos-se avvenuta da tre anni. Si scusò col visitatore del lavo-ro che faceva, ma la voce ed i gesti significavano cheormai non le importava piú di nulla. Qualche indiziod’una vita diversa nella sua persona rimaneva nella pelledel viso, delle mani, bianche e morbide, nella bocca,una di quelle bocche che hanno molto baciato.

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Graziano fu colto ad un tratto da un’impazienzad’andarsene. – Se avete piacere di provare i miei cavalli,– gli disse il Lanciarossa accompagnandolo nell’atrio –sono vostri. Venite quando volete. – Quando il giovine,risalito in sella, uscí e riprese la solita strada, si trovòsubito un rimorso addosso. Ripensava che quella genteveniva da un passato losco e s’era insediata là per mez-zo di affari non meno loschi, approfittando della sventu-ra di Aleramo; ripensava come tutto ciò era visto da suamadre, che considerava la presenza dei Lanciarossa nel-la casa paterna uno sfregio alla storia degli Andosio;aveva anche una sensazione d’essere stato giocato dalfinto gentiluomo, come se questi gli avesse fatto appro-vare ed accettare ogni cosa con quella semplice visita.Non raccontò a sua madre l’avvenimento.

Sempre Irene, rilisciata e saettante sguardi furbi, simostrava sul passaggio del giovine; gli chiedeva che leinsegnasse a montar a cavallo; una volta scappò via conle sue stoffe perché egli le portò Ilisso vicino. Stettero adiscorrere piú lungamente quando Graziano girava apiedi per il podere: la ragazza si mise a lavorare distanteda casa, all’ombra d’una fila di noccioli. Di sera ella sifaceva sentire a rider forte sull’aia, ma le stava sempreinsieme qualcuno. La giornata dell’Amistà si regolavacol sole; tutti s’alzavano presto e presto si coricavano;quando attraverso l’oscurità venivano dal campanile diLuvo dodici rintocchi che non terminavano mai, la villail podere la valle erano nel miglior sonno da un pezzo.Graziano stava qualche sera alzato a scrivere, abbozzan-

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Graziano fu colto ad un tratto da un’impazienzad’andarsene. – Se avete piacere di provare i miei cavalli,– gli disse il Lanciarossa accompagnandolo nell’atrio –sono vostri. Venite quando volete. – Quando il giovine,risalito in sella, uscí e riprese la solita strada, si trovòsubito un rimorso addosso. Ripensava che quella genteveniva da un passato losco e s’era insediata là per mez-zo di affari non meno loschi, approfittando della sventu-ra di Aleramo; ripensava come tutto ciò era visto da suamadre, che considerava la presenza dei Lanciarossa nel-la casa paterna uno sfregio alla storia degli Andosio;aveva anche una sensazione d’essere stato giocato dalfinto gentiluomo, come se questi gli avesse fatto appro-vare ed accettare ogni cosa con quella semplice visita.Non raccontò a sua madre l’avvenimento.

Sempre Irene, rilisciata e saettante sguardi furbi, simostrava sul passaggio del giovine; gli chiedeva che leinsegnasse a montar a cavallo; una volta scappò via conle sue stoffe perché egli le portò Ilisso vicino. Stettero adiscorrere piú lungamente quando Graziano girava apiedi per il podere: la ragazza si mise a lavorare distanteda casa, all’ombra d’una fila di noccioli. Di sera ella sifaceva sentire a rider forte sull’aia, ma le stava sempreinsieme qualcuno. La giornata dell’Amistà si regolavacol sole; tutti s’alzavano presto e presto si coricavano;quando attraverso l’oscurità venivano dal campanile diLuvo dodici rintocchi che non terminavano mai, la villail podere la valle erano nel miglior sonno da un pezzo.Graziano stava qualche sera alzato a scrivere, abbozzan-

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Page 187: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

do un romanzo attorno ad un figura di donna che somi-gliava a Leda; prima di andare a letto s’affacciava albalcone e magari scendeva a fare un breve viaggionell’Amistà dormente. La stagione era ancora calda.Trovava un’aria immobile sotto un cielo tutto traversatodal polverìo della Via lattea. Dal giardino passava alcortile, oscurità piú calda, dove il cane dei coloni gli ve-niva intorno alle gambe silenziosamente. Nella cellachiusa Urbano, non potendo dormire per i dolori, recita-va preghiere: alcune parole dette forte tenevano luogo dilamenti.

Questo tormento del bifolco finí prima che non si cre-desse. La piaga prese a guarire, in poco tempo si chiuse,ed egli sentí mitigarsi anche l’implacabile ferocia delnervo, il quale gli era parso un diavolo ficcato dentro lasua gamba. Ora benediceva solennemente la medicastrada cui aveva avuto il crudele rimedio. Provò ad alzarsi ecamminare un poco nell’aia appoggiandosi ad un basto-ne; una mattina sull’albeggiare Giusto lo vide uscir dal-lo stanzino come se non avesse mai interrotto il corsodelle sue opere. Abbeverate le bestie e dato ad esse ilfieno, il vecchio guardò se era in ordine un carro di leta-me da portare ai campi. – Fa’ i fatti tuoi – disse al nipoteche voleva ancora occuparsi di questo lavoro. Quandoebbe attaccati i bovi, nel momento di mettersi innanziagli animali per chiamarli col pungolo, si tolse il cappel-lo e si segnò lentamente.

Giusto si trovò allora alleggerito di molte fatiche:provava quasi un fastidio di non aver da lavorare abba-

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do un romanzo attorno ad un figura di donna che somi-gliava a Leda; prima di andare a letto s’affacciava albalcone e magari scendeva a fare un breve viaggionell’Amistà dormente. La stagione era ancora calda.Trovava un’aria immobile sotto un cielo tutto traversatodal polverìo della Via lattea. Dal giardino passava alcortile, oscurità piú calda, dove il cane dei coloni gli ve-niva intorno alle gambe silenziosamente. Nella cellachiusa Urbano, non potendo dormire per i dolori, recita-va preghiere: alcune parole dette forte tenevano luogo dilamenti.

Questo tormento del bifolco finí prima che non si cre-desse. La piaga prese a guarire, in poco tempo si chiuse,ed egli sentí mitigarsi anche l’implacabile ferocia delnervo, il quale gli era parso un diavolo ficcato dentro lasua gamba. Ora benediceva solennemente la medicastrada cui aveva avuto il crudele rimedio. Provò ad alzarsi ecamminare un poco nell’aia appoggiandosi ad un basto-ne; una mattina sull’albeggiare Giusto lo vide uscir dal-lo stanzino come se non avesse mai interrotto il corsodelle sue opere. Abbeverate le bestie e dato ad esse ilfieno, il vecchio guardò se era in ordine un carro di leta-me da portare ai campi. – Fa’ i fatti tuoi – disse al nipoteche voleva ancora occuparsi di questo lavoro. Quandoebbe attaccati i bovi, nel momento di mettersi innanziagli animali per chiamarli col pungolo, si tolse il cappel-lo e si segnò lentamente.

Giusto si trovò allora alleggerito di molte fatiche:provava quasi un fastidio di non aver da lavorare abba-

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stanza, d’essere troppo libero. Avrebbe potuto avvicina-re piú spesso Irene, ma di fronte a lei si sentiva incertoed umile peggio di prima, perché nella cugina aveva no-tato un cambiamento; conservando il tono scherzoso,ella lo guardava ancor piú dall’alto, lasciava compren-dere che non se lo vedeva intorno volentieri. In un po-meriggio, avendo finito presto di tagliar fascine in unaripa, risalí a casa attraverso il prato dei noccioli, col suofalcetto attaccato sulle reni alla cintura; tra due di quellepiante, come in una stanza verde, vi erano Irene e Gra-ziano; egli stava in piedi e la ragazza, seduta tra la robada cucire, s’era attaccata ad una sua mano cercando difarlo cadere accanto a lei. Il gioco era silenzioso. Essinon si accorsero di chi passava in distanza, e Giusto nonsi fermò, non vide altro: aveva però avuta una scossa alsangue. Gli tornò alla memoria, con una sinistra espres-sione, come un avviso che prima non avesse capito, ilrumore inteso una volta svegliandosi sul fienile assaiavanti giorno, il rumore d’un uscio che sotto il porticogirasse sui cardini piano piano. Agitato, pieno d’ansietà,d’un turbamento rabbioso e quasi anche d’una certezza,decise di spiare.

Quella sera, appena l’Amistà parve tutta addormenta-ta, ridiscese scalzo dal fienile, si coricò al piede del pa-gliaio, sulla paglia scivolata a terra, dove s’era sedutocon Irene a discorrere. L’affanno lo tenne ben desto perore; sopra l’aia stavano molte stelle, grandi come sel’estate le avesse un poco sfatte, ma egli non alzava gliocchi per non disavvezzarli dall’oscurità da cui era cir-

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stanza, d’essere troppo libero. Avrebbe potuto avvicina-re piú spesso Irene, ma di fronte a lei si sentiva incertoed umile peggio di prima, perché nella cugina aveva no-tato un cambiamento; conservando il tono scherzoso,ella lo guardava ancor piú dall’alto, lasciava compren-dere che non se lo vedeva intorno volentieri. In un po-meriggio, avendo finito presto di tagliar fascine in unaripa, risalí a casa attraverso il prato dei noccioli, col suofalcetto attaccato sulle reni alla cintura; tra due di quellepiante, come in una stanza verde, vi erano Irene e Gra-ziano; egli stava in piedi e la ragazza, seduta tra la robada cucire, s’era attaccata ad una sua mano cercando difarlo cadere accanto a lei. Il gioco era silenzioso. Essinon si accorsero di chi passava in distanza, e Giusto nonsi fermò, non vide altro: aveva però avuta una scossa alsangue. Gli tornò alla memoria, con una sinistra espres-sione, come un avviso che prima non avesse capito, ilrumore inteso una volta svegliandosi sul fienile assaiavanti giorno, il rumore d’un uscio che sotto il porticogirasse sui cardini piano piano. Agitato, pieno d’ansietà,d’un turbamento rabbioso e quasi anche d’una certezza,decise di spiare.

Quella sera, appena l’Amistà parve tutta addormenta-ta, ridiscese scalzo dal fienile, si coricò al piede del pa-gliaio, sulla paglia scivolata a terra, dove s’era sedutocon Irene a discorrere. L’affanno lo tenne ben desto perore; sopra l’aia stavano molte stelle, grandi come sel’estate le avesse un poco sfatte, ma egli non alzava gliocchi per non disavvezzarli dall’oscurità da cui era cir-

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condato, nella quale ormai distingueva ogni cosa. Sequalche carro o qualche latrato si udivano nella campa-gna, il cane balzava su ad abbaiare; egli non lo facevatacere; presto ritornava quel silenzio dove si moveva aonde il canto dei grilli, delicato, fragile ed immenso.Quando Giusto si sentí svanire un poco nel sonno, andòcautamente a bagnarsi il capo con l’acqua dell’abbeve-ratoio; camminò per il cortile, adagio, tenendosi lontanodal portico e non cessando mai di sorvegliarlo. A levan-te finí per apparire il primo barlume. La prova d’unanotte non voleva dire niente; pure egli sentiva sollievo esperanza. Non vide nulla nemmeno la notte seguente. Ela terza, spossato dalle altre veglie, si addormentò. Fu ri-destato dall’umidore freddo della rugiada; era riposato;la voce lontana di Luvo disse che erano le tre. Pocodopo sotto il portico un uscio si aperse alquanto, ed eraquello della stanza d’Irene e fece esattamente il rumoreche Giusto aveva udito l’altra volta. Un’ombra d’uomo,lunga, uscí piano, richiuse, andò alla porta della villa,dove scomparve. Per un momento Giusto provò unaprofonda meraviglia nel vedere che era vero tutto ciòche aveva in mente; poi, fu come se una fiamma gli av-volgesse il capo. Uccidere! Uccidere! Pensò al fucile colquale sparava alle gazze, appeso in cucina. Uccidere!Sparare su Irene nel suo letto, chiamare Graziano e spa-rargli, sparare contro se stesso. Uccidere tutti, distrugge-re ogni cosa, mandarsi la testa in pezzi. Irene si diverti-va col figlio dei signori. Il contadino si portò le mani alviso, per farsi male. Si strappò da quel terreno dove sta-

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condato, nella quale ormai distingueva ogni cosa. Sequalche carro o qualche latrato si udivano nella campa-gna, il cane balzava su ad abbaiare; egli non lo facevatacere; presto ritornava quel silenzio dove si moveva aonde il canto dei grilli, delicato, fragile ed immenso.Quando Giusto si sentí svanire un poco nel sonno, andòcautamente a bagnarsi il capo con l’acqua dell’abbeve-ratoio; camminò per il cortile, adagio, tenendosi lontanodal portico e non cessando mai di sorvegliarlo. A levan-te finí per apparire il primo barlume. La prova d’unanotte non voleva dire niente; pure egli sentiva sollievo esperanza. Non vide nulla nemmeno la notte seguente. Ela terza, spossato dalle altre veglie, si addormentò. Fu ri-destato dall’umidore freddo della rugiada; era riposato;la voce lontana di Luvo disse che erano le tre. Pocodopo sotto il portico un uscio si aperse alquanto, ed eraquello della stanza d’Irene e fece esattamente il rumoreche Giusto aveva udito l’altra volta. Un’ombra d’uomo,lunga, uscí piano, richiuse, andò alla porta della villa,dove scomparve. Per un momento Giusto provò unaprofonda meraviglia nel vedere che era vero tutto ciòche aveva in mente; poi, fu come se una fiamma gli av-volgesse il capo. Uccidere! Uccidere! Pensò al fucile colquale sparava alle gazze, appeso in cucina. Uccidere!Sparare su Irene nel suo letto, chiamare Graziano e spa-rargli, sparare contro se stesso. Uccidere tutti, distrugge-re ogni cosa, mandarsi la testa in pezzi. Irene si diverti-va col figlio dei signori. Il contadino si portò le mani alviso, per farsi male. Si strappò da quel terreno dove sta-

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va come piombo; ma, invece di correre alla cucina, sigettò verso il portone, lo aprí a fatica perché era pesantee sgangherato, si lanciò fuori, cosí a piedi nudi, vestitosoltanto di camicia e calzoni. In un istante fu in fondo alviale del podere; continuò a correre su per la strada chesaliva a Luvo, erta; andava sobbalzando, inciampando,urtando pietre con le unghie dei piedi, senza sentireniente, e tra i denti digrignati gli uscivano bestemmie,ingiurie, maledizioni a tutto il mondo. Infine gli mancòil fiato, dovette lasciarsi cadere sopra un mucchio dibreccia; gli scoppiava il cuore. Le siepi della strada era-no ancora nere e le colline nel sonno. Insieme al respirotornarono a Giusto lembi d’idee. «Ecco la ragazza di cit-tà che volevi sposare. Un bell’arnese! Sposarti, lei, aiu-tarti a diventare un operaio...! Non capisci mai niente».Egli non osava nemmeno parlarle, e Graziano l’andavaa trovare in letto. Forse si facevano beffe di lui. Grazia-no, un ragazzo di diciott’anni. Ora essi riposavano sod-disfatti. I signori avevano tutto ciò che volevano; ilmondo era per loro.

— Cavaterra! Tu sei un misero cavaterra. Tu sei unpovero cane, un cavaterra.

Alla solita ora, mentre il cielo schiariva, Giusto eranel cortile dell’Amistà; e piú tardi si mise al suo lavorodella giornata, di sfrondar le viti in una delle vigne. Nonmangiò con gli altri, non si mostrò a nessuno. L’indoma-ni Marta vide che d’un po’ di biancheria e d’abiti facevaun fagotto. Interrogato con prudenza, il figlio le dissesoltanto: – Vado via. – Il padre cercò di farsi dare una

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va come piombo; ma, invece di correre alla cucina, sigettò verso il portone, lo aprí a fatica perché era pesantee sgangherato, si lanciò fuori, cosí a piedi nudi, vestitosoltanto di camicia e calzoni. In un istante fu in fondo alviale del podere; continuò a correre su per la strada chesaliva a Luvo, erta; andava sobbalzando, inciampando,urtando pietre con le unghie dei piedi, senza sentireniente, e tra i denti digrignati gli uscivano bestemmie,ingiurie, maledizioni a tutto il mondo. Infine gli mancòil fiato, dovette lasciarsi cadere sopra un mucchio dibreccia; gli scoppiava il cuore. Le siepi della strada era-no ancora nere e le colline nel sonno. Insieme al respirotornarono a Giusto lembi d’idee. «Ecco la ragazza di cit-tà che volevi sposare. Un bell’arnese! Sposarti, lei, aiu-tarti a diventare un operaio...! Non capisci mai niente».Egli non osava nemmeno parlarle, e Graziano l’andavaa trovare in letto. Forse si facevano beffe di lui. Grazia-no, un ragazzo di diciott’anni. Ora essi riposavano sod-disfatti. I signori avevano tutto ciò che volevano; ilmondo era per loro.

— Cavaterra! Tu sei un misero cavaterra. Tu sei unpovero cane, un cavaterra.

Alla solita ora, mentre il cielo schiariva, Giusto eranel cortile dell’Amistà; e piú tardi si mise al suo lavorodella giornata, di sfrondar le viti in una delle vigne. Nonmangiò con gli altri, non si mostrò a nessuno. L’indoma-ni Marta vide che d’un po’ di biancheria e d’abiti facevaun fagotto. Interrogato con prudenza, il figlio le dissesoltanto: – Vado via. – Il padre cercò di farsi dare una

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spiegazione e di trattenerlo. Anche a lui, con viso foscoed accento inesorabile, il giovine disse sol tanto: – Vadovia. Ne ho abbastanza. – Si comprese che qualcosa digrave era accaduto, forse solamente dentro di lui; se neparlava sottovoce; forse aveva qualche soldo da parte.Quel giorno stesso Giusto partí, senza salutare nessuno.

Trascorsa appena una settimana, fu visto ritornare, colsuo fagotto, non meno scuro di prima ma come scaricodi quella volontà che l’aveva portato altrove. Riprese afaticare, senza guardar nient’altro; anche nel lavoro pro-curava d’esser solo. Pensava a Torino, dov’era andato, aquel che aveva veduto e conosciuto. Un ordine, un’esat-tezza come in una macchina; molte delle vie non si po-tevano distinguere l’una dall’altra; ovunque pietra, fer-ro, cristalli, cose lisciate e lucenti, fili elettrici, rotaie.Nei giardini pubblici l’erba pareva una stoffa. I viali tut-ti eguali da cima a fondo, con alberi che somigliavano aipali di ferro in mezzo ai quali stavano. La terra! Sempremisurata a spanne, chiusa entro muri o cancellate, me-schina, malata. Sopra le vie il cielo non era niente, nes-suno lo guardava. Veicoli e gente si movevano sempresecondo una regola; anche i poveri sembravano ben ve-stiti, per obbligo; si sentiva in tutte le cose un rigore. Edegli, là in mezzo, era un contadino spaesato, incapaceanche di trovar la strada, guardato come un po-ver’uomo. Quanto aveva girato! Nei quartieri operai levie erano sguernite, le case altissime; officine, officine;anche la luce era sporca di fumo. Era andato a veder difuori officine meccaniche, concerie, fabbriche di cande-

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spiegazione e di trattenerlo. Anche a lui, con viso foscoed accento inesorabile, il giovine disse sol tanto: – Vadovia. Ne ho abbastanza. – Si comprese che qualcosa digrave era accaduto, forse solamente dentro di lui; se neparlava sottovoce; forse aveva qualche soldo da parte.Quel giorno stesso Giusto partí, senza salutare nessuno.

Trascorsa appena una settimana, fu visto ritornare, colsuo fagotto, non meno scuro di prima ma come scaricodi quella volontà che l’aveva portato altrove. Riprese afaticare, senza guardar nient’altro; anche nel lavoro pro-curava d’esser solo. Pensava a Torino, dov’era andato, aquel che aveva veduto e conosciuto. Un ordine, un’esat-tezza come in una macchina; molte delle vie non si po-tevano distinguere l’una dall’altra; ovunque pietra, fer-ro, cristalli, cose lisciate e lucenti, fili elettrici, rotaie.Nei giardini pubblici l’erba pareva una stoffa. I viali tut-ti eguali da cima a fondo, con alberi che somigliavano aipali di ferro in mezzo ai quali stavano. La terra! Sempremisurata a spanne, chiusa entro muri o cancellate, me-schina, malata. Sopra le vie il cielo non era niente, nes-suno lo guardava. Veicoli e gente si movevano sempresecondo una regola; anche i poveri sembravano ben ve-stiti, per obbligo; si sentiva in tutte le cose un rigore. Edegli, là in mezzo, era un contadino spaesato, incapaceanche di trovar la strada, guardato come un po-ver’uomo. Quanto aveva girato! Nei quartieri operai levie erano sguernite, le case altissime; officine, officine;anche la luce era sporca di fumo. Era andato a veder difuori officine meccaniche, concerie, fabbriche di cande-

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le, fonderie, cercando di capirle dagli alti camini, dallefacciate coperte di nera polvere, dalle vetrate, da quelche si scorgeva attraverso le finestre. Ne uscivano battitidi macchine, sempre eguali, fruscii di pulegge, colpi chefacevano tremare il suolo; e l’aria aveva odor di cuoio odi grasso o di fucina. I cancelli erano severamente cu-stoditi. Di sera, da nudi cortili, da piazzali ove s’alzava-no montagne di carbone, da tettoie male illuminate, ave-va visto sgorgare sotto gli ululati delle sirene torrentid’uomini e donne che parevano liberati da prigioni perqualche ora. Essi entravano, uscivano, mangiavano alcomando di quei fischi; lavoravano come macchine e gliorologi in cima alle facciate erano i loro padroni. Eraandato a trovare, di domenica, un compaesano stabilitoin città da qualche anno: con la moglie ed i figli abitavain piccole stanze d’una di quelle case enormi, nella qua-le viveva, stendeva i suoi panni, gettava le sue voci unafolla di gente come loro. Quella vita come si poteva far-la?

Stando in una vigna o in un campo, con tanta campa-gna intorno, Giusto guardava la terra che lavorava,com’era sana, piena di forza; la toccava smovendo qual-che zolla con la sua grossa scarpa, che n’era sempre tin-ta e sembrava anch’essa terra.

* * *

Tra le colline ben coltivate Graziano notò una cimache pareva roba di nessuno, poiché la copriva un bosco

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le, fonderie, cercando di capirle dagli alti camini, dallefacciate coperte di nera polvere, dalle vetrate, da quelche si scorgeva attraverso le finestre. Ne uscivano battitidi macchine, sempre eguali, fruscii di pulegge, colpi chefacevano tremare il suolo; e l’aria aveva odor di cuoio odi grasso o di fucina. I cancelli erano severamente cu-stoditi. Di sera, da nudi cortili, da piazzali ove s’alzava-no montagne di carbone, da tettoie male illuminate, ave-va visto sgorgare sotto gli ululati delle sirene torrentid’uomini e donne che parevano liberati da prigioni perqualche ora. Essi entravano, uscivano, mangiavano alcomando di quei fischi; lavoravano come macchine e gliorologi in cima alle facciate erano i loro padroni. Eraandato a trovare, di domenica, un compaesano stabilitoin città da qualche anno: con la moglie ed i figli abitavain piccole stanze d’una di quelle case enormi, nella qua-le viveva, stendeva i suoi panni, gettava le sue voci unafolla di gente come loro. Quella vita come si poteva far-la?

Stando in una vigna o in un campo, con tanta campa-gna intorno, Giusto guardava la terra che lavorava,com’era sana, piena di forza; la toccava smovendo qual-che zolla con la sua grossa scarpa, che n’era sempre tin-ta e sembrava anch’essa terra.

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Tra le colline ben coltivate Graziano notò una cimache pareva roba di nessuno, poiché la copriva un bosco

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di pini come in tempi remoti si dovevano vedere su tuttequelle alture. A cavallo vi andò. Una strada c’era ma siperdeva presto, e piú in alto si perdevano anche i sentie-ri; conducendo Ilisso a mano, il giovine si aperse il pas-saggio tra il selvatico. Gli arbusti ed il fogliame non sa-livano proprio fino alla cima; là i pini, con le chiometonde, coi tronchi a grosse squame, davano appuntol’idea di cose rimaste da un lontanissimo tempo, di anti-chi monumenti. Tra le colonne era visibile l’intero cer-chio dell’orizzonte, fino alle montagne: da grande altez-za si scorgevano le spire lucenti del fiume presso il qua-le dall’Amistà andavano a far il fieno. Si respirava ariasottile ed il silenzio era larghissimo. – Questo è il luogoper la casa – si disse Graziano pensando al proposito disua madre.

Attaccò per le redini il cavallo ad un pino. Aveva unlibro – di quelli che allora gli piacevano, storia della fi-losofia, perché s’interessava di sapere come gli uominiavessero considerata la loro situazione nell’universo –ma non lo aprí. Mentre Ilisso masticava l’erba magra fa-cendo sonare il morso in bocca, egli stava seduto a mo-ver lo sguardo come sopra un immenso quadrante.Guardava i poggi rigati di vigne, i nastri bianchi dellestrade nelle valli, le isole alberate in mezzo ai bracci delfiume, paesi sparsi qua e là, le Alpi coi loro contorni chegli parevano scrivere sul cielo qualcosa ch’egli sapesseperfettamente a memoria. Tutto era splendente e quieto,non si mostrava il piú leggero fiocco di nuvola. Sebbenela luce rimanesse invariata come avviene nelle prime

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di pini come in tempi remoti si dovevano vedere su tuttequelle alture. A cavallo vi andò. Una strada c’era ma siperdeva presto, e piú in alto si perdevano anche i sentie-ri; conducendo Ilisso a mano, il giovine si aperse il pas-saggio tra il selvatico. Gli arbusti ed il fogliame non sa-livano proprio fino alla cima; là i pini, con le chiometonde, coi tronchi a grosse squame, davano appuntol’idea di cose rimaste da un lontanissimo tempo, di anti-chi monumenti. Tra le colonne era visibile l’intero cer-chio dell’orizzonte, fino alle montagne: da grande altez-za si scorgevano le spire lucenti del fiume presso il qua-le dall’Amistà andavano a far il fieno. Si respirava ariasottile ed il silenzio era larghissimo. – Questo è il luogoper la casa – si disse Graziano pensando al proposito disua madre.

Attaccò per le redini il cavallo ad un pino. Aveva unlibro – di quelli che allora gli piacevano, storia della fi-losofia, perché s’interessava di sapere come gli uominiavessero considerata la loro situazione nell’universo –ma non lo aprí. Mentre Ilisso masticava l’erba magra fa-cendo sonare il morso in bocca, egli stava seduto a mo-ver lo sguardo come sopra un immenso quadrante.Guardava i poggi rigati di vigne, i nastri bianchi dellestrade nelle valli, le isole alberate in mezzo ai bracci delfiume, paesi sparsi qua e là, le Alpi coi loro contorni chegli parevano scrivere sul cielo qualcosa ch’egli sapesseperfettamente a memoria. Tutto era splendente e quieto,non si mostrava il piú leggero fiocco di nuvola. Sebbenela luce rimanesse invariata come avviene nelle prime

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ore del pomeriggio, Graziano s’accorgeva che il sole fa-ceva il suo cammino; sentiva un’ora andarsene per sem-pre. Dietro il limite dell’orizzonte stava nascosto il do-mani, tutto il tempo che doveva venire. Ricordò una de-cisione che aveva da prendere. Prima ch’egli partisseper la campagna, il padre gli aveva detto di pensare qua-li studi scegliere, aggiungendo che a suo parere gli sa-rebbe convenuto darsi alla medicina per lavorare in se-guito con lui. La madre gli aveva detto invece che locredeva nato scrittore, ma che con questi studi si sareb-be preparato forse meglio che con altri. «Rabelais, perdirne uno solo, era medico». Ora Graziano tornava conla mente alla clinica paterna, vedeva lo studio con le ra-diografie, gli schedari delle cartelle cliniche, le fotogra-fie di preparati microscopici; pensava le giornate di suopadre nella sala operatoria, nelle corsie, nelle case degliinfermi. Studiare medicina, perché? Ma suo padre avevaragione di credere che potesse con indifferenza mettersiper una via o per un’altra: non aveva ancora fatto cheprove inconcludenti; scriveva e lasciava nel cassetto enon finiva; anche il romanzo di Leda lo stava abbando-nando. Questa invenzione era senza importanza comequella storia vera. Non aveva mai riveduta la donna, chepoi aveva lasciata la città. Ripensava che Leda avrebbevoluto conoscere il suo avvenire. Già, come poteva es-sere l’avvenire? Egli non ne aveva un’idea. Si alzò inpiedi, fece ancora con gli occhi il giro dell’orizzonte, siaccostò ad Ilisso che ormai scavava il terreno con una

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ore del pomeriggio, Graziano s’accorgeva che il sole fa-ceva il suo cammino; sentiva un’ora andarsene per sem-pre. Dietro il limite dell’orizzonte stava nascosto il do-mani, tutto il tempo che doveva venire. Ricordò una de-cisione che aveva da prendere. Prima ch’egli partisseper la campagna, il padre gli aveva detto di pensare qua-li studi scegliere, aggiungendo che a suo parere gli sa-rebbe convenuto darsi alla medicina per lavorare in se-guito con lui. La madre gli aveva detto invece che locredeva nato scrittore, ma che con questi studi si sareb-be preparato forse meglio che con altri. «Rabelais, perdirne uno solo, era medico». Ora Graziano tornava conla mente alla clinica paterna, vedeva lo studio con le ra-diografie, gli schedari delle cartelle cliniche, le fotogra-fie di preparati microscopici; pensava le giornate di suopadre nella sala operatoria, nelle corsie, nelle case degliinfermi. Studiare medicina, perché? Ma suo padre avevaragione di credere che potesse con indifferenza mettersiper una via o per un’altra: non aveva ancora fatto cheprove inconcludenti; scriveva e lasciava nel cassetto enon finiva; anche il romanzo di Leda lo stava abbando-nando. Questa invenzione era senza importanza comequella storia vera. Non aveva mai riveduta la donna, chepoi aveva lasciata la città. Ripensava che Leda avrebbevoluto conoscere il suo avvenire. Già, come poteva es-sere l’avvenire? Egli non ne aveva un’idea. Si alzò inpiedi, fece ancora con gli occhi il giro dell’orizzonte, siaccostò ad Ilisso che ormai scavava il terreno con una

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delle zampe anteriori e mordeva la scorza del pino. In-somma, per decidere vi era ancora del tempo.

All’Amistà arrivò Sisto. Era andato a Rebbia a visita-re Casimiro Gallant o piuttosto a dargli l’illusione che imedici avessero ancora qualchecosa da fare intorno alui; dopo, venne a passare un paio di giorni con la fami-glia. Dell’infermo disse: – Tutto il suo sangue se ne vadalla piaga nascosta; ma può ancora vivere molte setti-mane. – Claudia e i figli lo guardavano con stupore, tan-to usciva di rado dai luoghi e dalle abitudini del suo la-voro; nella luce della campagna il suo viso sembravaancora piú serio: leggeva anche là gli opuscoli, le rivistemediche che s’era portati. – Ma ora non studiare, babbo!– lo rimproverava Gabriella. Egli diede notizie di Asca-nio, il quale non si voleva movere da Torino; s’era mes-so a preparare un libro sul Risorgimento, stando in mez-zo ai suoi volumi ed ai suoi documenti.

La mattina del giorno successivo Sisto chiamò il fi-glio in giardino, lo fece sedere sopra una panca accantoa sé, all’ombra dei larici che lasciavano cadere versoterra i pesanti addobbi dei loro rami. Come le altre mat-tine, si udiva Gabriella far gli esercizi sul vecchio cèm-balo della sala mettendo nell’aria suoni gracili e saltel-lanti. Attraverso gli alberi la villa mostrava i balconcinile persiane le grondaie le tegole, carichi di anni e dipace.

— Dunque, – domandò Sisto – che hai deciso?Graziano rispose che ancora stava pensando. Il padre

gli parlò della clinica, dove da qualche mese erano aper-

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delle zampe anteriori e mordeva la scorza del pino. In-somma, per decidere vi era ancora del tempo.

All’Amistà arrivò Sisto. Era andato a Rebbia a visita-re Casimiro Gallant o piuttosto a dargli l’illusione che imedici avessero ancora qualchecosa da fare intorno alui; dopo, venne a passare un paio di giorni con la fami-glia. Dell’infermo disse: – Tutto il suo sangue se ne vadalla piaga nascosta; ma può ancora vivere molte setti-mane. – Claudia e i figli lo guardavano con stupore, tan-to usciva di rado dai luoghi e dalle abitudini del suo la-voro; nella luce della campagna il suo viso sembravaancora piú serio: leggeva anche là gli opuscoli, le rivistemediche che s’era portati. – Ma ora non studiare, babbo!– lo rimproverava Gabriella. Egli diede notizie di Asca-nio, il quale non si voleva movere da Torino; s’era mes-so a preparare un libro sul Risorgimento, stando in mez-zo ai suoi volumi ed ai suoi documenti.

La mattina del giorno successivo Sisto chiamò il fi-glio in giardino, lo fece sedere sopra una panca accantoa sé, all’ombra dei larici che lasciavano cadere versoterra i pesanti addobbi dei loro rami. Come le altre mat-tine, si udiva Gabriella far gli esercizi sul vecchio cèm-balo della sala mettendo nell’aria suoni gracili e saltel-lanti. Attraverso gli alberi la villa mostrava i balconcinile persiane le grondaie le tegole, carichi di anni e dipace.

— Dunque, – domandò Sisto – che hai deciso?Graziano rispose che ancora stava pensando. Il padre

gli parlò della clinica, dove da qualche mese erano aper-

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te le nuove sezioni. Poi adagio gli disse che sperava diavere in lui il migliore degli allievi, un alleato, anche, edil successore. Aspettò che alla sua volta parlasse.

— Io non ho mai sentita questa vocazione, – disseGraziano. – Non ho le qualità necessarie per questa car-riera. Alla scienza non mi sento tagliato e nemmeno allaprofessione, alla vita che fai tu, babbo.

— Oh, la tua intelligenza è forte quanto occorre. An-che il carattere: non ti manca né volontà né pazienza.Potrai abituarti senza difficoltà al metodo scientifico, adun ordine di fatti e di idee che ora ti sembra estraneo.Con gli studi ti verrà la passione, quella che scalda ilpensiero, indurisce nello sforzo, moltiplica le energie.Quella che fa i prodigi! Lo scopo di aiutar a vincere, oforse di vincere da solo, un castigo dell’umanità com’èla tubercolosi, non ti pare alto? Una tale opera sarebbeun impiego magnifico dell’esistenza.

Sisto parlava con una calma vigorosa come dicendocose lungamente meditate prima. Teneva fermo sul fi-glio lo sguardo leale. Vi comparve a quel punto una lucedi pensieri segreti, di sentimenti piú profondi; il figlio selo sentí sul viso come una robusta carezza. – Graziano,– riprese Sisto abbassando la voce – ho molta fede in te.Credo che potrai fare piú che io non faccia. Potrai di-ventare quello che avrei voluto essere e non sarò.

Queste parole colpirono con forza, in una manieranuova, la coscienza di Graziano. Ora conosceva la veraragione per cui il padre voleva metterlo su quella via.Non aveva mai considerato seriamente che cosa valesse

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te le nuove sezioni. Poi adagio gli disse che sperava diavere in lui il migliore degli allievi, un alleato, anche, edil successore. Aspettò che alla sua volta parlasse.

— Io non ho mai sentita questa vocazione, – disseGraziano. – Non ho le qualità necessarie per questa car-riera. Alla scienza non mi sento tagliato e nemmeno allaprofessione, alla vita che fai tu, babbo.

— Oh, la tua intelligenza è forte quanto occorre. An-che il carattere: non ti manca né volontà né pazienza.Potrai abituarti senza difficoltà al metodo scientifico, adun ordine di fatti e di idee che ora ti sembra estraneo.Con gli studi ti verrà la passione, quella che scalda ilpensiero, indurisce nello sforzo, moltiplica le energie.Quella che fa i prodigi! Lo scopo di aiutar a vincere, oforse di vincere da solo, un castigo dell’umanità com’èla tubercolosi, non ti pare alto? Una tale opera sarebbeun impiego magnifico dell’esistenza.

Sisto parlava con una calma vigorosa come dicendocose lungamente meditate prima. Teneva fermo sul fi-glio lo sguardo leale. Vi comparve a quel punto una lucedi pensieri segreti, di sentimenti piú profondi; il figlio selo sentí sul viso come una robusta carezza. – Graziano,– riprese Sisto abbassando la voce – ho molta fede in te.Credo che potrai fare piú che io non faccia. Potrai di-ventare quello che avrei voluto essere e non sarò.

Queste parole colpirono con forza, in una manieranuova, la coscienza di Graziano. Ora conosceva la veraragione per cui il padre voleva metterlo su quella via.Non aveva mai considerato seriamente che cosa valesse

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la vita paterna, come affermazione dell’intelligenza econquista morale; che cosa valesse la sua riuscita. Il pa-dre non ne era contento. E voleva passarlo a lui il pro-gramma che pensava di non saper attuare egli stesso;voleva rifare in lui la propria vita. Ancora giovine e va-lido, era: perché non sperava piú? Come si giudicava? Ilfiglio guardò la sua persona ben costrutta, le mani fortiche teneva poggiate sui ginocchi, la ruga profondamenteincisa dallo studio, dai tenaci pensieri tra i suoi soprac-cigli, gli occhi che lo interrogavano. Provò una compas-sione. «Come può avere tanta fede in me?» si chiese.Ma sentí anche di non esser libero, d’avere sopra di séquel volere del padre; tutte le sue parole gli parevano le-gami dai quali non si potesse già piú sciogliere. Posavalo sguardo sopra una sconnessa scalinata del giardino,sugli oleandri fioriti dentro i vecchi mastelli; simili adun gioco infantile, le note del cèmbalo continuavano asaltellare nell’aria raccolta: una mattina come le altre,ma si doveva decidere di tutto il suo avvenire.

— Ebbene? – domandò Sisto.— Prima che tu parta, babbo, ti dirò.Ma non aveva che un giorno. Claudia, vedendolo tur-

bato, gli parlò da solo a sola: – Perché ti affliggi tanto?Puoi fare una prova. Se quegli studi non ti andranno, lilascerai. – Cosí il giovine restò d’accordo col padre. Sipentí dell’impegno appena Sisto fu lontano; notte e gior-no aveva quell’idea: «Dovrò studiare l’anatomia, la chi-mica. Diventerò un medico, lavorerò al microscopio, vi-siterò ammalati». Come aveva ceduto ora, non avrebbe

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la vita paterna, come affermazione dell’intelligenza econquista morale; che cosa valesse la sua riuscita. Il pa-dre non ne era contento. E voleva passarlo a lui il pro-gramma che pensava di non saper attuare egli stesso;voleva rifare in lui la propria vita. Ancora giovine e va-lido, era: perché non sperava piú? Come si giudicava? Ilfiglio guardò la sua persona ben costrutta, le mani fortiche teneva poggiate sui ginocchi, la ruga profondamenteincisa dallo studio, dai tenaci pensieri tra i suoi soprac-cigli, gli occhi che lo interrogavano. Provò una compas-sione. «Come può avere tanta fede in me?» si chiese.Ma sentí anche di non esser libero, d’avere sopra di séquel volere del padre; tutte le sue parole gli parevano le-gami dai quali non si potesse già piú sciogliere. Posavalo sguardo sopra una sconnessa scalinata del giardino,sugli oleandri fioriti dentro i vecchi mastelli; simili adun gioco infantile, le note del cèmbalo continuavano asaltellare nell’aria raccolta: una mattina come le altre,ma si doveva decidere di tutto il suo avvenire.

— Ebbene? – domandò Sisto.— Prima che tu parta, babbo, ti dirò.Ma non aveva che un giorno. Claudia, vedendolo tur-

bato, gli parlò da solo a sola: – Perché ti affliggi tanto?Puoi fare una prova. Se quegli studi non ti andranno, lilascerai. – Cosí il giovine restò d’accordo col padre. Sipentí dell’impegno appena Sisto fu lontano; notte e gior-no aveva quell’idea: «Dovrò studiare l’anatomia, la chi-mica. Diventerò un medico, lavorerò al microscopio, vi-siterò ammalati». Come aveva ceduto ora, non avrebbe

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saputo liberarsi piú tardi. E ciò che aveva in sé, un mon-do immaginario, un moversi di figure ancora nebbioseche volevano diventar vita, si sarebbe spento. Si vedevanella clinica, per sempre. Suo padre soffriva di non esserl’uomo che aveva voluto, e non capiva che condannavalui a tradirsi fin dal principio, a fallire in una manierapeggiore.

Incominciava un settembre d’oro. Nel podere si se-guivano i soliti avvenimenti: nasceva un vitello, unavolta per settimana si spargeva nell’aria l’odor gioiosodel pane tolto dal forno, giungevano e ripartivano i va-gabondi, i lavoratori avventizi, tornava dai prati il carrodel fieno, nelle vigne maturava la vendemmia mentregià i buoi aravano i campi perché di nuovo potessero ri-cevere la semente. Cosí accadeva in tutta la valle;l’annata girava sul cerchio delle stagioni, delle opere,dei raccolti; sempre la campagna era bella e l’Amistà eral’Amistà. I preparativi per le nozze di Fede davano piúda fare e da dire; Irene non aveva respiro: la sposa, suamadre ed anche Uliva si provavano i vestiti; le donneandavano a Luvo ed a Rebbia a far compere; Remo, chestava per abbandonare il suo servizio, ricompariva ognimomento. Vi era nella famiglia un timore che il padronemorisse prima del giorno fissato per lo sposalizio. Giu-sto non era mai a casa; si faceva portar da mangiaredove lavorava, dormiva in un casotto delle vigne; salu-tava appena; gli altri si contentavano del suo gran fatica-re, senza piú domandarsi quale fosse il suo dispiacerenascosto, senza parlare di lui.

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saputo liberarsi piú tardi. E ciò che aveva in sé, un mon-do immaginario, un moversi di figure ancora nebbioseche volevano diventar vita, si sarebbe spento. Si vedevanella clinica, per sempre. Suo padre soffriva di non esserl’uomo che aveva voluto, e non capiva che condannavalui a tradirsi fin dal principio, a fallire in una manierapeggiore.

Incominciava un settembre d’oro. Nel podere si se-guivano i soliti avvenimenti: nasceva un vitello, unavolta per settimana si spargeva nell’aria l’odor gioiosodel pane tolto dal forno, giungevano e ripartivano i va-gabondi, i lavoratori avventizi, tornava dai prati il carrodel fieno, nelle vigne maturava la vendemmia mentregià i buoi aravano i campi perché di nuovo potessero ri-cevere la semente. Cosí accadeva in tutta la valle;l’annata girava sul cerchio delle stagioni, delle opere,dei raccolti; sempre la campagna era bella e l’Amistà eral’Amistà. I preparativi per le nozze di Fede davano piúda fare e da dire; Irene non aveva respiro: la sposa, suamadre ed anche Uliva si provavano i vestiti; le donneandavano a Luvo ed a Rebbia a far compere; Remo, chestava per abbandonare il suo servizio, ricompariva ognimomento. Vi era nella famiglia un timore che il padronemorisse prima del giorno fissato per lo sposalizio. Giu-sto non era mai a casa; si faceva portar da mangiaredove lavorava, dormiva in un casotto delle vigne; salu-tava appena; gli altri si contentavano del suo gran fatica-re, senza piú domandarsi quale fosse il suo dispiacerenascosto, senza parlare di lui.

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Ogni settimana Graziano andava a visitare il cuginoCasimiro. Il palazzotto dei Gallant, col cortile dove cre-sceva l’erba ed in fondo al quale era un giardino chiuso,pareva sapere la sorte del padrone. Nella cameradell’infermo il letto era nascosto da una tenda ch’egliaveva fatta appendere alla meglio ad una corda; pressole persiane chiuse del balcone una monaca stava a leg-gere un libro di preghiere, seduta con riserbo sul bordod’una seggiola. Vi era sempre anche un giovine medicoche aveva maniere di domestico timido; questa voltastava accomodando sotto il corpo del malato la ciambel-la di gomma, e Graziano non si fece avanti prima cheavesse finito. In tono dispettoso Casimiro disse al visita-tore – Questi medici non sanno niente. – Nel suo viso,sbiancato come se di sangue non gliene rimanesse goc-cia, tutto naso occhiaie barba mal cresciuta, nel corposoltanto coperto del lenzuolo, tutt’ossa, si vedeva beneun uomo che andava diventando un morto; il suo morireaveva ancora progredito nei pochi giorni passatidall’ultima visita di Graziano. Il roditore, per fortunadell’infermo, lavorava senza farsi sentire; egli soffrivaperché adesso il suo corpo era acutamente sensibile inogni parte, ma l’invisibile piaga non lo mordeva. Tutta-via i giorni e le notti non eran piú per lui che una guerracontro le persone e le cose da cui era circondato; ilghiaccio era amaro, dalle finestre veniva troppa luce, leporte stridevano, il lenzuolo pesava, i medici e la suoralo toccavano senza riguardo. Aveva capito che il suomale era il medesimo da cui erano stati uccisi sua ma-

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Ogni settimana Graziano andava a visitare il cuginoCasimiro. Il palazzotto dei Gallant, col cortile dove cre-sceva l’erba ed in fondo al quale era un giardino chiuso,pareva sapere la sorte del padrone. Nella cameradell’infermo il letto era nascosto da una tenda ch’egliaveva fatta appendere alla meglio ad una corda; pressole persiane chiuse del balcone una monaca stava a leg-gere un libro di preghiere, seduta con riserbo sul bordod’una seggiola. Vi era sempre anche un giovine medicoche aveva maniere di domestico timido; questa voltastava accomodando sotto il corpo del malato la ciambel-la di gomma, e Graziano non si fece avanti prima cheavesse finito. In tono dispettoso Casimiro disse al visita-tore – Questi medici non sanno niente. – Nel suo viso,sbiancato come se di sangue non gliene rimanesse goc-cia, tutto naso occhiaie barba mal cresciuta, nel corposoltanto coperto del lenzuolo, tutt’ossa, si vedeva beneun uomo che andava diventando un morto; il suo morireaveva ancora progredito nei pochi giorni passatidall’ultima visita di Graziano. Il roditore, per fortunadell’infermo, lavorava senza farsi sentire; egli soffrivaperché adesso il suo corpo era acutamente sensibile inogni parte, ma l’invisibile piaga non lo mordeva. Tutta-via i giorni e le notti non eran piú per lui che una guerracontro le persone e le cose da cui era circondato; ilghiaccio era amaro, dalle finestre veniva troppa luce, leporte stridevano, il lenzuolo pesava, i medici e la suoralo toccavano senza riguardo. Aveva capito che il suomale era il medesimo da cui erano stati uccisi sua ma-

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dre, sua sorella, suo fratello; poi sembrava essersene di-menticato; si aspettava la guarigione da ogni cura nuovache i medici fingessero di provare, quasi da ogni cuc-chiaio di rimedio. Ai nipoti aveva fatto scrivere che nonvenissero a trovarlo; non voleva essere un malato grave;non lasciò piú entrare in camera un amico perché gliaveva vagamente consigliato di fare testamento.

Coi saluti di tutti Graziano gli portò notizie dell’Ami-stà: l’infermo non diede alcun segno d’interesse, comese il mondo finisse alla tenda appesa in fondo al suo let-to. Il visitatore, guardando la porta della stanza, pensavache Casimiro vi sarebbe passato dentro la bara.Nell’appartamento aveva riveduto, come sempre, il ri-tratto d’un Casimiro con artistica pettinatura d’altri tem-pi e sguardo vivace; aveva rivedute in una gran cornicele medaglie da lui guadagnate nelle gare di tiro, e nelsuo «laboratorio» i ferruzzi, gli orologi guasti, le serra-ture da accomodare. Il cugino era andato a caccia, avevadormicchiato sopra le poltrone, coltivato in città qualcheamoretto, e senz’accorgersene era giunto alla soglia del-la vecchiaia; allora si era trovata addosso quella malat-tia, e non vi era niente da fare, bisognava piano pianodiventare un morto. Veduta dalla fine, la sua esistenzaappariva brevissima: una serie di fatti incredibilmentemeschini, per la quale sembrava assurdo che il destinomettesse al mondo un essere umano.

La monaca si alzò. Aveva in viso quasi lo stesso colo-re dell’infermo, le mani senza sangue come le sue. Cau-tamente gli versò un dito di sciampagna in una coppa di

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dre, sua sorella, suo fratello; poi sembrava essersene di-menticato; si aspettava la guarigione da ogni cura nuovache i medici fingessero di provare, quasi da ogni cuc-chiaio di rimedio. Ai nipoti aveva fatto scrivere che nonvenissero a trovarlo; non voleva essere un malato grave;non lasciò piú entrare in camera un amico perché gliaveva vagamente consigliato di fare testamento.

Coi saluti di tutti Graziano gli portò notizie dell’Ami-stà: l’infermo non diede alcun segno d’interesse, comese il mondo finisse alla tenda appesa in fondo al suo let-to. Il visitatore, guardando la porta della stanza, pensavache Casimiro vi sarebbe passato dentro la bara.Nell’appartamento aveva riveduto, come sempre, il ri-tratto d’un Casimiro con artistica pettinatura d’altri tem-pi e sguardo vivace; aveva rivedute in una gran cornicele medaglie da lui guadagnate nelle gare di tiro, e nelsuo «laboratorio» i ferruzzi, gli orologi guasti, le serra-ture da accomodare. Il cugino era andato a caccia, avevadormicchiato sopra le poltrone, coltivato in città qualcheamoretto, e senz’accorgersene era giunto alla soglia del-la vecchiaia; allora si era trovata addosso quella malat-tia, e non vi era niente da fare, bisognava piano pianodiventare un morto. Veduta dalla fine, la sua esistenzaappariva brevissima: una serie di fatti incredibilmentemeschini, per la quale sembrava assurdo che il destinomettesse al mondo un essere umano.

La monaca si alzò. Aveva in viso quasi lo stesso colo-re dell’infermo, le mani senza sangue come le sue. Cau-tamente gli versò un dito di sciampagna in una coppa di

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cristallo che aveva il solito brillio da festa. Ella era làsoltanto per avvertire al momento giusto il morituro cheprovvedesse all’anima, ed aspettava con pazienza; ma lasua figura non faceva pensare che vi fosse dopo la morteun’altra vita; faceva pensare invece alle fiammelle delletorce, al rosario che avrebbe legate quelle mani traspa-renti di Casimiro. Il giovine dottore, avendo messo almalato il termometro, ora leggeva la temperatura comese ignorasse di far cosa perfettamente inutile. – Che oraè? – domandò Casimiro. Attendeva l’altro suo medico,uomo anziano e studioso il quale volentieri mostrava unsorriso scettico; questi, sedutosi al capezzale, avrebbetastato il polso al canceroso, chiedendogli se aveva pre-so l’uovo nel brodo, poi si sarebbe messo a parlar dellastagione o di fatterelli della città, guardato dall’infermocome uno che potesse guarirlo e non volesse. «È scienzamedica anche questa, – si diceva Graziano – vita da me-dico».

Poiché il malato doveva soddisfare un bisogno corpo-rale, il giovine dottore si dispose ad aiutarlo, mentre lasuora portava in cucina il piatto vuoto del ghiaccio. Gra-ziano uscí sul balcone. Nella casa abitavano anche deipigionali; un cavallo attaccato ad un carrozzino, in unangolo del cortile, aspettava qualcuno sonnecchiando;sopra un marciapiede in ombra una grassa ragazza face-va camminare un bambino che teneva per le dande, par-landogli piano per non disturbare; in fondo al giardino siudivano appena l’uggiolio ed i latrati dei cani di Casimi-ro rinchiusi nel canile. Fuori della camera tutto era puli-

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cristallo che aveva il solito brillio da festa. Ella era làsoltanto per avvertire al momento giusto il morituro cheprovvedesse all’anima, ed aspettava con pazienza; ma lasua figura non faceva pensare che vi fosse dopo la morteun’altra vita; faceva pensare invece alle fiammelle delletorce, al rosario che avrebbe legate quelle mani traspa-renti di Casimiro. Il giovine dottore, avendo messo almalato il termometro, ora leggeva la temperatura comese ignorasse di far cosa perfettamente inutile. – Che oraè? – domandò Casimiro. Attendeva l’altro suo medico,uomo anziano e studioso il quale volentieri mostrava unsorriso scettico; questi, sedutosi al capezzale, avrebbetastato il polso al canceroso, chiedendogli se aveva pre-so l’uovo nel brodo, poi si sarebbe messo a parlar dellastagione o di fatterelli della città, guardato dall’infermocome uno che potesse guarirlo e non volesse. «È scienzamedica anche questa, – si diceva Graziano – vita da me-dico».

Poiché il malato doveva soddisfare un bisogno corpo-rale, il giovine dottore si dispose ad aiutarlo, mentre lasuora portava in cucina il piatto vuoto del ghiaccio. Gra-ziano uscí sul balcone. Nella casa abitavano anche deipigionali; un cavallo attaccato ad un carrozzino, in unangolo del cortile, aspettava qualcuno sonnecchiando;sopra un marciapiede in ombra una grassa ragazza face-va camminare un bambino che teneva per le dande, par-landogli piano per non disturbare; in fondo al giardino siudivano appena l’uggiolio ed i latrati dei cani di Casimi-ro rinchiusi nel canile. Fuori della camera tutto era puli-

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to e sano. Un cielo pieno di sole si allargava sulle tre alidel palazzotto e sui tetti di basse case attigue; non eradistante la ferrovia, vi passò il fischio d’un treno e fecesentire che si poteva andar via. Con un sentimento digioia e di forza Graziano pensò: «Tu non sarai un medi-co. Nessuno potrà costringerti ad una vita che non sia latua. Nessuno ti cambierà».

* * *

Le nozze di Fede si fecero la terza domenica di set-tembre; modestamente, per riguardo al padrone e perchénon vi era denaro da buttare. La giornata era veramenteda nozze; tutte le cose parevano piú belle che non fosse-ro mai state; dopo la solenne pulizia della casa colonica,Urbano aveva annaffiata l’aia con lo sterco di bue sciol-to nell’acqua, come quando si doveva ventilare il grano.Per tener fresco il portico, erano appese ai suoi archimolte frasche. La prima a giungere fu Regina, sopra unbarroccio di lusso guidato dal marito che era sempre tut-to vestito di nero, serio ed un poco vergognoso di averemolti anni piú della moglie. Ella portava con sé i suoidue bambini, il minore stretto in dure fasce ricamate chegli imprigionavano anche le braccia e formavano unaspecie di bozzolo; scendendo nel cortile per assistere aquel matrimonio di Remo con sua sorella, era molto pal-lida ma disse ch’era a causa del freddo preso partendo dimattina presto. Sempre gentilina, coi biondi capelli leg-geri e col sorriso signorile; però si moveva piú adagio,

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to e sano. Un cielo pieno di sole si allargava sulle tre alidel palazzotto e sui tetti di basse case attigue; non eradistante la ferrovia, vi passò il fischio d’un treno e fecesentire che si poteva andar via. Con un sentimento digioia e di forza Graziano pensò: «Tu non sarai un medi-co. Nessuno potrà costringerti ad una vita che non sia latua. Nessuno ti cambierà».

* * *

Le nozze di Fede si fecero la terza domenica di set-tembre; modestamente, per riguardo al padrone e perchénon vi era denaro da buttare. La giornata era veramenteda nozze; tutte le cose parevano piú belle che non fosse-ro mai state; dopo la solenne pulizia della casa colonica,Urbano aveva annaffiata l’aia con lo sterco di bue sciol-to nell’acqua, come quando si doveva ventilare il grano.Per tener fresco il portico, erano appese ai suoi archimolte frasche. La prima a giungere fu Regina, sopra unbarroccio di lusso guidato dal marito che era sempre tut-to vestito di nero, serio ed un poco vergognoso di averemolti anni piú della moglie. Ella portava con sé i suoidue bambini, il minore stretto in dure fasce ricamate chegli imprigionavano anche le braccia e formavano unaspecie di bozzolo; scendendo nel cortile per assistere aquel matrimonio di Remo con sua sorella, era molto pal-lida ma disse ch’era a causa del freddo preso partendo dimattina presto. Sempre gentilina, coi biondi capelli leg-geri e col sorriso signorile; però si moveva piú adagio,

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parlava poco, era smagrita. Remo non l’aveva piú visto.S’incontrarono in presenza di molte persone della fami-glia, ed il giovine non sapeva come comportarsi; Reginagli tese una mano rigida, guardando in terra, poi si volsesubito ad Urbano, il quale la chiamava forte, allegra-mente, volendo conoscere il bimbo in fasce venutoall’Amistà per la prima volta.

I parenti di Remo, gente molto povera, non s’eranomossi dal paese lontano in cui vivevano. Arrivarono in-vece i testimoni, tra essi Taureno, il chirurgo dei cani,sempre piú corpacciuto, con una camicia nuova che glidava fastidio e con la giacca appesa ad una spalla. Vesti-ta alla moda di città, Fede sembrava piú tozza e contadi-na; aveva il vestito nuovo anche Uliva. Giusto non volleandare alla chiesa. Gli altri finirono per mettersi in ordi-ne, s’incamminarono verso Luvo a piedi prendendo unascorciatoia che saliva all’ombra; andarono adagio, ba-dando a risparmiar anche le parole – soprattutto le don-ne – per non arrivare in paese sciupati. Lassú vi era lagente della domenica; il matrimonio fu celebrato primadi messa grande, nella chiesa gremita; i fedeli guardava-no gli sposi ma anche Irene ed il largo cappello che por-tava, carico di fiori. Nel suo solito banco era presente lasignora Farra con Gabriella. Rifacendo la scorciatoia alritorno, il drappello dello sposalizio era piú contento erumoroso; toltosi il cappello, Irene mangiava le moredelle siepi; da lontano si udivano scendere le voci, do-minate da quella di Taureno, una voce acuta che in ogniluogo si faceva sempre sentire sopra le altre.

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parlava poco, era smagrita. Remo non l’aveva piú visto.S’incontrarono in presenza di molte persone della fami-glia, ed il giovine non sapeva come comportarsi; Reginagli tese una mano rigida, guardando in terra, poi si volsesubito ad Urbano, il quale la chiamava forte, allegra-mente, volendo conoscere il bimbo in fasce venutoall’Amistà per la prima volta.

I parenti di Remo, gente molto povera, non s’eranomossi dal paese lontano in cui vivevano. Arrivarono in-vece i testimoni, tra essi Taureno, il chirurgo dei cani,sempre piú corpacciuto, con una camicia nuova che glidava fastidio e con la giacca appesa ad una spalla. Vesti-ta alla moda di città, Fede sembrava piú tozza e contadi-na; aveva il vestito nuovo anche Uliva. Giusto non volleandare alla chiesa. Gli altri finirono per mettersi in ordi-ne, s’incamminarono verso Luvo a piedi prendendo unascorciatoia che saliva all’ombra; andarono adagio, ba-dando a risparmiar anche le parole – soprattutto le don-ne – per non arrivare in paese sciupati. Lassú vi era lagente della domenica; il matrimonio fu celebrato primadi messa grande, nella chiesa gremita; i fedeli guardava-no gli sposi ma anche Irene ed il largo cappello che por-tava, carico di fiori. Nel suo solito banco era presente lasignora Farra con Gabriella. Rifacendo la scorciatoia alritorno, il drappello dello sposalizio era piú contento erumoroso; toltosi il cappello, Irene mangiava le moredelle siepi; da lontano si udivano scendere le voci, do-minate da quella di Taureno, una voce acuta che in ogniluogo si faceva sempre sentire sopra le altre.

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Per il pranzo lavorava in cucina, arrossata in viso daifuochi, una buona donna del vicinato; e l’aiutavano duedegli abituali ospiti dell’Amistà, la vecchia Riccia mez-za matta, che faceva poco e brontolava molto, col redu-ce della Crimea, il lindo Magallo, il quale si occupavacon estrema attenzione dei piatti, dei bicchieri, del vino.I soli convitati estranei alla famiglia erano i testimoni;ma sotto il portico, accanto alla tavola del pranzo n’erapreparata un’altra assai lunga per un rinfresco agli amiciche sarebbero venuti dopo. Urbano, con la barba liberatadai nodi e sparsa in tutta la sua abbondanza, prima di se-dersi alla mensa disse il Benedicite, alto e rigido piú chemai. I figli minori dei Crivelli ebbero gli ultimi posti:Donato, ragazzo robusto e rozzo, pensava soltanto allamangiata; Uliva, la serpicina dispettosa, pareva invidio-sa della sorella che si sposava. Il bimbo in fasce di Regi-na era stato messo a dormire nella vecchia cuna di casatratta giú apposta dalla soffitta, ed ella teneva accanto asé l’altro bambino curandosi di lui come se non vedessenient’altro. Giusto sedeva lontano da Irene, la quale do-veva partire la sera insieme agli sposi.

Quando già erano stati serviti piatti grandiosi di ta-gliatelle, di carne lessa, e giravano con l’arrosto catinid’insalata, Taureno uscí a dire, parlando a tutti: – È ungran peccato che il nostro Casimiro voglia morire! – Ilmarito di Regina, seduto accanto a lui, lo avvertí pianodi tacere, e Taureno si portò alla bocca una coscia dicappone, tenendosi per un poco la voce nel corpaccio.L’allegria di un pranzo di nozze non si sentiva. Marta,

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Per il pranzo lavorava in cucina, arrossata in viso daifuochi, una buona donna del vicinato; e l’aiutavano duedegli abituali ospiti dell’Amistà, la vecchia Riccia mez-za matta, che faceva poco e brontolava molto, col redu-ce della Crimea, il lindo Magallo, il quale si occupavacon estrema attenzione dei piatti, dei bicchieri, del vino.I soli convitati estranei alla famiglia erano i testimoni;ma sotto il portico, accanto alla tavola del pranzo n’erapreparata un’altra assai lunga per un rinfresco agli amiciche sarebbero venuti dopo. Urbano, con la barba liberatadai nodi e sparsa in tutta la sua abbondanza, prima di se-dersi alla mensa disse il Benedicite, alto e rigido piú chemai. I figli minori dei Crivelli ebbero gli ultimi posti:Donato, ragazzo robusto e rozzo, pensava soltanto allamangiata; Uliva, la serpicina dispettosa, pareva invidio-sa della sorella che si sposava. Il bimbo in fasce di Regi-na era stato messo a dormire nella vecchia cuna di casatratta giú apposta dalla soffitta, ed ella teneva accanto asé l’altro bambino curandosi di lui come se non vedessenient’altro. Giusto sedeva lontano da Irene, la quale do-veva partire la sera insieme agli sposi.

Quando già erano stati serviti piatti grandiosi di ta-gliatelle, di carne lessa, e giravano con l’arrosto catinid’insalata, Taureno uscí a dire, parlando a tutti: – È ungran peccato che il nostro Casimiro voglia morire! – Ilmarito di Regina, seduto accanto a lui, lo avvertí pianodi tacere, e Taureno si portò alla bocca una coscia dicappone, tenendosi per un poco la voce nel corpaccio.L’allegria di un pranzo di nozze non si sentiva. Marta,

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col vestito nuovo ma da contadina, non stava al suo po-sto, andava e veniva dalla casa. I testimoni delle nozzeparlavano a Dionisio come ad uno che, anch’egli, eraprossimo a mettersi in viaggio; bevendo piú che nonmangiasse, con le sue maniere stracche, il giovine sorri-deva sotto i grossi baffi all’idea d’andar lontano, fuori dipatria, a fare tutt’altra vita. Urbano, che di fronte a luilentamente lavorava con le poderose mascelle, suo mal-grado lo vedeva e udiva, pensando: «Non è mai statocome noi. Anche Fede e Remo se ne vanno dalla cam-pagna. I giovani non vogliono piú rimanere nella condi-zione in cui il Signore li ha messi; cercano le città, pienedi divertimenti, di vizi e di miserie». Appena si fu levatol’appetito, si alzò, ritirandosi nella sua cella a leggerevite di santi.

Cominciarono ad arrivare gli invitati; amiche di Fede,amici di Remo, i vicini, gente della valle, gente venutada Luvo ed anche da piú distante. Non finivano mai; av-volgevano gli sposi di voci e gesti vivaci; le donne por-tavano dei fiori. Per il viale si udí avvicinarsi una fisar-monica che sonava un ballabile; tutti gridarono: – Mi-notto! Minotto! – Sul portone si vide infatti comparirequesto rustico buffone, che sonando ballava e facevamovere in ogni maniera il muso gonfio e nero, i labbro-ni, gli occhietti lucidi d’una voglia di goder la festa; magli andò subito attorno Marta, e l’istrumento si rassegnòa stare zitto. Arrivò pure Lilibeo, il figlio del vicinomorto pazzo, il quale doveva presto andare alla leva macontinuava a parlare parlare parlare e sempre portava

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col vestito nuovo ma da contadina, non stava al suo po-sto, andava e veniva dalla casa. I testimoni delle nozzeparlavano a Dionisio come ad uno che, anch’egli, eraprossimo a mettersi in viaggio; bevendo piú che nonmangiasse, con le sue maniere stracche, il giovine sorri-deva sotto i grossi baffi all’idea d’andar lontano, fuori dipatria, a fare tutt’altra vita. Urbano, che di fronte a luilentamente lavorava con le poderose mascelle, suo mal-grado lo vedeva e udiva, pensando: «Non è mai statocome noi. Anche Fede e Remo se ne vanno dalla cam-pagna. I giovani non vogliono piú rimanere nella condi-zione in cui il Signore li ha messi; cercano le città, pienedi divertimenti, di vizi e di miserie». Appena si fu levatol’appetito, si alzò, ritirandosi nella sua cella a leggerevite di santi.

Cominciarono ad arrivare gli invitati; amiche di Fede,amici di Remo, i vicini, gente della valle, gente venutada Luvo ed anche da piú distante. Non finivano mai; av-volgevano gli sposi di voci e gesti vivaci; le donne por-tavano dei fiori. Per il viale si udí avvicinarsi una fisar-monica che sonava un ballabile; tutti gridarono: – Mi-notto! Minotto! – Sul portone si vide infatti comparirequesto rustico buffone, che sonando ballava e facevamovere in ogni maniera il muso gonfio e nero, i labbro-ni, gli occhietti lucidi d’una voglia di goder la festa; magli andò subito attorno Marta, e l’istrumento si rassegnòa stare zitto. Arrivò pure Lilibeo, il figlio del vicinomorto pazzo, il quale doveva presto andare alla leva macontinuava a parlare parlare parlare e sempre portava

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uno stesso cappello piccolo tondo aguzzo con l’orlo ro-sicchiato. Venne perfino Maria la bianca da Sottoriva,modesto podere a cui la fama della bellezza di questadonna dava uno splendore; ella era sui venticinque anni,alta, con una carnagione di latte, trecce nere, occhi scuripieni di scintille, seno impetuoso; ma aveva un conte-gno timido, come se quella bellezza la tenesse in sogge-zione, e suo marito non si staccava da lei un momento.A tutti venivano presentati piatti di frittelle, vassoi diconfetture, canestri di frutta; si faceva un gran versarevino rosso e bianco, forte e dolce; Magallo e la Ricciafaticavano a sostituire con bottiglie e caraffe piene quel-le vuote. Aiutando a servire per cortesia, Irene andavaattorno col vitino elegante e coi modi briosi; aveva giàbevuto un poco e rideva assai. Le altre ragazze, ancheUliva, non le toglievano gli occhi di dosso.

Qua e là tra gli invitati si parlava a bassa voce di Ca-simiro Gallant, com’era diventato. Tutti si domandava-no: – L’ha fatto il testamento? – Ma nella giornata radio-sa il cortile con l’enorme pagliaio, il portico ove adessoil sole obliquo batteva sulle lunghe tavole facendo bril-lare ogni cosa, la gente folta vestita da festa, tutto eracosí lieto! Vino, vino: ne arrivava sempre. Cleto, coi po-melli rossi, passava da una tavola all’altra, dall’unoall’altro crocchio, protestando che non si beveva abba-stanza; era già un tantino brillo, ed aveva ritrovato il suointercalare: – Proviamo un po’. – Nel cortile era ormaiun vocío, tra il quale s’alzavano scoppi di risa semprepiú frequenti; e la voce di Taureno che s’era sbottonata

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uno stesso cappello piccolo tondo aguzzo con l’orlo ro-sicchiato. Venne perfino Maria la bianca da Sottoriva,modesto podere a cui la fama della bellezza di questadonna dava uno splendore; ella era sui venticinque anni,alta, con una carnagione di latte, trecce nere, occhi scuripieni di scintille, seno impetuoso; ma aveva un conte-gno timido, come se quella bellezza la tenesse in sogge-zione, e suo marito non si staccava da lei un momento.A tutti venivano presentati piatti di frittelle, vassoi diconfetture, canestri di frutta; si faceva un gran versarevino rosso e bianco, forte e dolce; Magallo e la Ricciafaticavano a sostituire con bottiglie e caraffe piene quel-le vuote. Aiutando a servire per cortesia, Irene andavaattorno col vitino elegante e coi modi briosi; aveva giàbevuto un poco e rideva assai. Le altre ragazze, ancheUliva, non le toglievano gli occhi di dosso.

Qua e là tra gli invitati si parlava a bassa voce di Ca-simiro Gallant, com’era diventato. Tutti si domandava-no: – L’ha fatto il testamento? – Ma nella giornata radio-sa il cortile con l’enorme pagliaio, il portico ove adessoil sole obliquo batteva sulle lunghe tavole facendo bril-lare ogni cosa, la gente folta vestita da festa, tutto eracosí lieto! Vino, vino: ne arrivava sempre. Cleto, coi po-melli rossi, passava da una tavola all’altra, dall’unoall’altro crocchio, protestando che non si beveva abba-stanza; era già un tantino brillo, ed aveva ritrovato il suointercalare: – Proviamo un po’. – Nel cortile era ormaiun vocío, tra il quale s’alzavano scoppi di risa semprepiú frequenti; e la voce di Taureno che s’era sbottonata

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sul petto quella fastidiosa camicia, non taceva piú unistante. Minotto diceva a Maria la bianca che, quandola vedeva, non poteva piú dormire; vicino alla donnacome sempre, il marito rideva di buona voglia, perchécolui, con la sua faccia libidinosa d’Arlecchino, non erache un buffone. Intanto con la fisarmonica Minotto riat-taccava i ballabili, che Marta o qualcun altro si ostinavaa far cessare.

Dalla villa uscí Graziano. Tutti sapevano che la si-gnora Farra aveva fatto alla sposa un generoso regalo indenaro; l’apparizione del giovine fu accolta con accla-mazioni e battimani. Lesta, Irene prese da una delle ta-vole un bicchiere pulito, lo empí di vino bianco e glieloofferse, sotto gli sguardi di tutti, dopo che Grazianoebbe stretta la mano agli sposi; ella prese allora il pro-prio bicchiere e fu la prima, dopo Fede e Remo, a toccarcon lui dicendo con occhi assai brillanti: – Addio allafesta! – Adesso Giusto sedeva da solo in fondo al porti-co, sul bordo del pozzo; lasciò cadere a terra il mezzosigaro che fumava, adagio lo schiacciò col piede, poi siallontanò, passando tra la gente senza badare a nessuno.

Il sole stava per calare dietro l’alta collina di Luvo.Giusto andò per il podere. «Ha voluto dargli il saluto inpubblico – pensava. – Ma se ne va. Via, via! Al suo de-stino». Nell’aria limpida si sentiva la domenica, si senti-va che nessuno lavorava in campagna; soltanto la voced’un ragazzo che cantava, da qualche luogo nascosto sa-liva dritta al cielo. Nella vigna dove s’era messo a cam-minare, il contadino guardava i filari carichi d’uva quasi

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sul petto quella fastidiosa camicia, non taceva piú unistante. Minotto diceva a Maria la bianca che, quandola vedeva, non poteva piú dormire; vicino alla donnacome sempre, il marito rideva di buona voglia, perchécolui, con la sua faccia libidinosa d’Arlecchino, non erache un buffone. Intanto con la fisarmonica Minotto riat-taccava i ballabili, che Marta o qualcun altro si ostinavaa far cessare.

Dalla villa uscí Graziano. Tutti sapevano che la si-gnora Farra aveva fatto alla sposa un generoso regalo indenaro; l’apparizione del giovine fu accolta con accla-mazioni e battimani. Lesta, Irene prese da una delle ta-vole un bicchiere pulito, lo empí di vino bianco e glieloofferse, sotto gli sguardi di tutti, dopo che Grazianoebbe stretta la mano agli sposi; ella prese allora il pro-prio bicchiere e fu la prima, dopo Fede e Remo, a toccarcon lui dicendo con occhi assai brillanti: – Addio allafesta! – Adesso Giusto sedeva da solo in fondo al porti-co, sul bordo del pozzo; lasciò cadere a terra il mezzosigaro che fumava, adagio lo schiacciò col piede, poi siallontanò, passando tra la gente senza badare a nessuno.

Il sole stava per calare dietro l’alta collina di Luvo.Giusto andò per il podere. «Ha voluto dargli il saluto inpubblico – pensava. – Ma se ne va. Via, via! Al suo de-stino». Nell’aria limpida si sentiva la domenica, si senti-va che nessuno lavorava in campagna; soltanto la voced’un ragazzo che cantava, da qualche luogo nascosto sa-liva dritta al cielo. Nella vigna dove s’era messo a cam-minare, il contadino guardava i filari carichi d’uva quasi

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matura; poteva dire quando era stata piantata e di chespecie era ciascuna vite; conosceva il terreno palmo apalmo ed ogni albero da frutto in capo ai filari, passò di-nanzi al casotto nel quale ora dormiva, attraversando unbreve spazio piano macchiato di verderame. Dare il ver-derame, dare lo zolfo, portar le canestre unte di mosto,mordere con la zappa tutta quella terra: quante giornatedi fatica, un anno dopo l’altro! «Suda, bestia!» La fineera che forse bisognava andarsene. E dove? Un altro po-sto doveva cercarlo lui. Che potevano fare i vecchi?

Non portava giacca, si aprí anche il panciotto, sotto ilquale aveva una camicia da festa ed un fazzoletto diseta, quasi nuovo, per cravatta. Era sceso per il versanteda cui non si vedeva Luvo; poi, risalendo lungo un cam-po arato costeggiando uno dei boschi, era tornato a ve-der il paese stampato casa per casa sul cielo rosso; edora scendeva quest’altro versante della collina, dov’erail prato dei noccioli. Là egli aveva vista Irene con Gra-ziano. Andar via era ben meglio: questo luogo glieloavevano guastato. Udiva di nuovo il vocío delle nozze,le risa, la fisarmonica. Fede e Remo se ne andavano,senza curarsi della terra, dei vecchi, di niente. E nonavevano paura della città, essi, nemmeno Dionisio cosífiacco.

Attraversò altri prati, dove da fanciullo aveva pasco-late le vacche, e campi nei quali aveva imparato a tirarper la cordicella i bovi mentre Urbano arava. Raggiunseun confine dell’Amistà, segnato da un semplice fossatel-lo; di là da questo vi era un grande orto con una vasca

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matura; poteva dire quando era stata piantata e di chespecie era ciascuna vite; conosceva il terreno palmo apalmo ed ogni albero da frutto in capo ai filari, passò di-nanzi al casotto nel quale ora dormiva, attraversando unbreve spazio piano macchiato di verderame. Dare il ver-derame, dare lo zolfo, portar le canestre unte di mosto,mordere con la zappa tutta quella terra: quante giornatedi fatica, un anno dopo l’altro! «Suda, bestia!» La fineera che forse bisognava andarsene. E dove? Un altro po-sto doveva cercarlo lui. Che potevano fare i vecchi?

Non portava giacca, si aprí anche il panciotto, sotto ilquale aveva una camicia da festa ed un fazzoletto diseta, quasi nuovo, per cravatta. Era sceso per il versanteda cui non si vedeva Luvo; poi, risalendo lungo un cam-po arato costeggiando uno dei boschi, era tornato a ve-der il paese stampato casa per casa sul cielo rosso; edora scendeva quest’altro versante della collina, dov’erail prato dei noccioli. Là egli aveva vista Irene con Gra-ziano. Andar via era ben meglio: questo luogo glieloavevano guastato. Udiva di nuovo il vocío delle nozze,le risa, la fisarmonica. Fede e Remo se ne andavano,senza curarsi della terra, dei vecchi, di niente. E nonavevano paura della città, essi, nemmeno Dionisio cosífiacco.

Attraversò altri prati, dove da fanciullo aveva pasco-late le vacche, e campi nei quali aveva imparato a tirarper la cordicella i bovi mentre Urbano arava. Raggiunseun confine dell’Amistà, segnato da un semplice fossatel-lo; di là da questo vi era un grande orto con una vasca

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circondata d’un muricciolo; tra le canne e le foglied’una coltivazione di fagioli qualcuno si moveva facen-do cigolare una secchia. Era l’Avventina, la figlia unicadel possidente al quale l’orto apparteneva. Era lunga, dipelle scura, asciutta nella persona e nel viso come secosí la bruciassero non i raggi del sole ma le fatiche;sebbene molto giovine, portava sempre vesti scure chele davano un aspetto di monaca campagnola, e nessunol’aveva mai vista ridere. Uscí di tra le canne per prende-re acqua: piú lunga, piú nera nella luce scendentedall’alto cielo che il tramonto colorava di vivi e sfumaticolori. Per attingere alla cisterna non esisteva alcunmeccanismo; ella vi calò il secchio attaccato ad una cor-da e lo ritirò piegandosi in due sul muricciolo.

— Lavori alla domenica, Avventina? – disse Giustocon voce forte. La ragazza girò il capo a cercar dovefosse; rispose: – Se no le piante muoiono. – Ma tosto simosse verso i solchi, come se qualcuno nascosto o l’ariastessa potesse rimproverarle di perdere un istante; ripi-gliò a versar l’acqua con parsimonia. Insieme al padre,vedovo da molti anni ed avaro, insieme a vecchi servito-ri, coltivava un vasto podere ed altre terre sparse neidintorni. Anch’ella doveva aver la passione di mettereda parte roba e denaro; ma era gente data soprattutto allareligione, i servi non meno dei padroni. Poiché si chia-mava l’Avvento il luogo appartenente alla famiglia damolte generazioni, a lei avevano messo quel sopranno-me, ed ella lo portava come il suo nome vero.

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circondata d’un muricciolo; tra le canne e le foglied’una coltivazione di fagioli qualcuno si moveva facen-do cigolare una secchia. Era l’Avventina, la figlia unicadel possidente al quale l’orto apparteneva. Era lunga, dipelle scura, asciutta nella persona e nel viso come secosí la bruciassero non i raggi del sole ma le fatiche;sebbene molto giovine, portava sempre vesti scure chele davano un aspetto di monaca campagnola, e nessunol’aveva mai vista ridere. Uscí di tra le canne per prende-re acqua: piú lunga, piú nera nella luce scendentedall’alto cielo che il tramonto colorava di vivi e sfumaticolori. Per attingere alla cisterna non esisteva alcunmeccanismo; ella vi calò il secchio attaccato ad una cor-da e lo ritirò piegandosi in due sul muricciolo.

— Lavori alla domenica, Avventina? – disse Giustocon voce forte. La ragazza girò il capo a cercar dovefosse; rispose: – Se no le piante muoiono. – Ma tosto simosse verso i solchi, come se qualcuno nascosto o l’ariastessa potesse rimproverarle di perdere un istante; ripi-gliò a versar l’acqua con parsimonia. Insieme al padre,vedovo da molti anni ed avaro, insieme a vecchi servito-ri, coltivava un vasto podere ed altre terre sparse neidintorni. Anch’ella doveva aver la passione di mettereda parte roba e denaro; ma era gente data soprattutto allareligione, i servi non meno dei padroni. Poiché si chia-mava l’Avvento il luogo appartenente alla famiglia damolte generazioni, a lei avevano messo quel sopranno-me, ed ella lo portava come il suo nome vero.

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Dal confine Giusto si scostò di pochi passi, sedettesull’orlo d’un sentiero. L’Avventina non lo guardavapiú, seguitando ad andare e venire dalla cisterna comese fosse sola; egli udiva soltanto i tonfi del secchio nellavasca, l’acqua versata nei solchi; ma sapeva quali sguar-di gli rivolgeva la ragazza incontrandolo sulle strade equanto volentieri scambiava con lui qualche parola. «Tivuol bene, l’Avventina. Una ragazza che zappa la terracome te ed ha i calli alle mani. Non guarda nessun altro.Ma è ricca, ne possiede molta, della terra; non è per teneanche l’Avventina». I colori del cielo si spegnevano;morto il rosso, anche il viola si sfreddava, piccole nuvo-le immobili sopra Luvo erano già cenere. Ed in terra lecose s’ammollivano in un’aria turchina sempre piú fre-sca. – Giusto! – chiamò la ragazza. Stava presso al con-fine, ferma, rivolta a lui, la monaca di campagna, colsecchio vuoto pendente da un braccio e con la corda so-pra una spalla: – Perché non sei alla festa? – domandò,poi subito gli diede la buona sera e si allontanò per unaviottola. La sua casa era distante; di là non si vedeva.Cosí nera, ella si perdette presto nella molle oscurità.Giusto pensò che era l’ora della partenza per quelli chese ne andavano; si mosse. Tra le voci e le risa che glivennero incontro dalla festa, la musica della fisarmonicasi sfogava ora senza freno.

Nel cortile erano stati portati candelieri, lumi ad olio,lanterne, messi sulle tavole, sulla pietra del pozzo, suidavanzali delle finestre; da mangiare non restava piúniente ma vino ce n’era ancora e si continuava ad empir

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Dal confine Giusto si scostò di pochi passi, sedettesull’orlo d’un sentiero. L’Avventina non lo guardavapiú, seguitando ad andare e venire dalla cisterna comese fosse sola; egli udiva soltanto i tonfi del secchio nellavasca, l’acqua versata nei solchi; ma sapeva quali sguar-di gli rivolgeva la ragazza incontrandolo sulle strade equanto volentieri scambiava con lui qualche parola. «Tivuol bene, l’Avventina. Una ragazza che zappa la terracome te ed ha i calli alle mani. Non guarda nessun altro.Ma è ricca, ne possiede molta, della terra; non è per teneanche l’Avventina». I colori del cielo si spegnevano;morto il rosso, anche il viola si sfreddava, piccole nuvo-le immobili sopra Luvo erano già cenere. Ed in terra lecose s’ammollivano in un’aria turchina sempre piú fre-sca. – Giusto! – chiamò la ragazza. Stava presso al con-fine, ferma, rivolta a lui, la monaca di campagna, colsecchio vuoto pendente da un braccio e con la corda so-pra una spalla: – Perché non sei alla festa? – domandò,poi subito gli diede la buona sera e si allontanò per unaviottola. La sua casa era distante; di là non si vedeva.Cosí nera, ella si perdette presto nella molle oscurità.Giusto pensò che era l’ora della partenza per quelli chese ne andavano; si mosse. Tra le voci e le risa che glivennero incontro dalla festa, la musica della fisarmonicasi sfogava ora senza freno.

Nel cortile erano stati portati candelieri, lumi ad olio,lanterne, messi sulle tavole, sulla pietra del pozzo, suidavanzali delle finestre; da mangiare non restava piúniente ma vino ce n’era ancora e si continuava ad empir

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bicchieri e vuotarli. Per non mostrarsi malsicuri sullegambe, gli uomini anziani stavano contegnosi; i giovanischerzavano con le ragazze, che strillavano; perfino Uli-va ne aveva qualcuno intorno per chiasso e batteva fortesulle mani a tutti. Lilibeo lo sciocco volevano ubbriacar-lo, ma egli passava dall’uno all’altro dei bicchieri chegli venivano offerti, ripetendo con parole innumerevoliche sua madre non voleva che bevesse ed una voltal’aveva bastonato. In mezzo all’aia, seduto sulla spallie-ra d’una sedia coi piedi sopra il sedile, Minotto allarga-va e ristringeva con mosse abili e buffe la fisarmonica,volgendo in giro il mascherone sempre piú lucido, gliocchi di Arlecchino: – Cosa aspettate, ragazze? Giovi-notti, chi prende prende! – Sapeva molte arie e ricamavaogni pezzo con ghirigori di sua invenzione saltando daitoni gravi agli acuti, facendo strani accompagnamentiche ronfavano o singhiozzavano. Nessuno gli dava piúnoia perché non sonasse, ma ballare no, non si ballava.Sopra il vocío le risate, gli strilli, i suoni, ogni tanto siudiva qualcosa di lacerante, d’insuperabile, le parole diTaureno.

Graziano non c’era piú da un pezzo. Per educazionegli sposi rimanevano in mezzo agli invitati ma eranostanchi ed impazienti; Maria la bianca aveva uno sguar-do velato che talora si smarriva dov’erano i giovani piúbelli; stava però seduta insieme alle donne attempate, edil marito la custodiva piú strettamente che mai; con loroera Marta, che discorreva sottovoce lamentandosi. Inve-ce Cleto girava sempre tra gli ospiti, facendosi vento col

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bicchieri e vuotarli. Per non mostrarsi malsicuri sullegambe, gli uomini anziani stavano contegnosi; i giovanischerzavano con le ragazze, che strillavano; perfino Uli-va ne aveva qualcuno intorno per chiasso e batteva fortesulle mani a tutti. Lilibeo lo sciocco volevano ubbriacar-lo, ma egli passava dall’uno all’altro dei bicchieri chegli venivano offerti, ripetendo con parole innumerevoliche sua madre non voleva che bevesse ed una voltal’aveva bastonato. In mezzo all’aia, seduto sulla spallie-ra d’una sedia coi piedi sopra il sedile, Minotto allarga-va e ristringeva con mosse abili e buffe la fisarmonica,volgendo in giro il mascherone sempre piú lucido, gliocchi di Arlecchino: – Cosa aspettate, ragazze? Giovi-notti, chi prende prende! – Sapeva molte arie e ricamavaogni pezzo con ghirigori di sua invenzione saltando daitoni gravi agli acuti, facendo strani accompagnamentiche ronfavano o singhiozzavano. Nessuno gli dava piúnoia perché non sonasse, ma ballare no, non si ballava.Sopra il vocío le risate, gli strilli, i suoni, ogni tanto siudiva qualcosa di lacerante, d’insuperabile, le parole diTaureno.

Graziano non c’era piú da un pezzo. Per educazionegli sposi rimanevano in mezzo agli invitati ma eranostanchi ed impazienti; Maria la bianca aveva uno sguar-do velato che talora si smarriva dov’erano i giovani piúbelli; stava però seduta insieme alle donne attempate, edil marito la custodiva piú strettamente che mai; con loroera Marta, che discorreva sottovoce lamentandosi. Inve-ce Cleto girava sempre tra gli ospiti, facendosi vento col

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fazzoletto, incerto ma felice, col vago pensiero che quel-la festa non sarebbe mai finita, mai finita.

Notte. I lumi sembravano divenuti piú belli. Urbanovenne a cercare uno dopo l’altro coloro che dovevanopartire e li avvisò ch’era tempo. Due dei vicini avrebbe-ro portati coi loro barrocci gli sposi ed Irene alla stazio-ne di Rebbia; Regina ed il marito sarebbero scesi conloro. I tre cavalli, trovandosi in luogo inconsueto, traluci e strepito, erano nervosi, non volevano lasciarsi at-taccare, e maggiormente li eccitavano i padroni non ac-corgendosi di parlar cosí forte né di avere le mani tantovigorose. Senza dir niente, Giusto riguardava se le be-stie erano attaccate bene. Per tutta la giornata Reginas’era tenuta in disparte con la scusa di badare ai bambi-ni; ora, attendendo il momento di andarli a prendere nel-la camera dei nonni ove dormivano, da una finestra del-la cucina guardava sull’aia i barrocci, i fagotti di Remoe di Fede già portati là fuori; guardava con occhi larghi;se qualcuno l’avesse chiamata, l’avrebbe fatta trasalire.

Ricomparve Irene col suo cappello carico di fiori; ri-comparvero anche gli sposi; quindi Regina salí al suoposto, a ricevere dalla madre i bambini. Tutti stavano in-torno ai barrocci, ma Cleto s’era nascosto per non assi-stere alla partenza. Quando sui veicoli furono all’ordinepasseggeri e guidatori, si alzò il clamore dei saluti, suc-cesse tra quelli che restavano un rimescolio, un agitarsidi braccia che fece partir di scatto, inseguendosi, i trecavalli. Lilibeo gettò in aria il suo cappelluccio. Mentreil carro la portava via, Irene si voltò a guardare ancora

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fazzoletto, incerto ma felice, col vago pensiero che quel-la festa non sarebbe mai finita, mai finita.

Notte. I lumi sembravano divenuti piú belli. Urbanovenne a cercare uno dopo l’altro coloro che dovevanopartire e li avvisò ch’era tempo. Due dei vicini avrebbe-ro portati coi loro barrocci gli sposi ed Irene alla stazio-ne di Rebbia; Regina ed il marito sarebbero scesi conloro. I tre cavalli, trovandosi in luogo inconsueto, traluci e strepito, erano nervosi, non volevano lasciarsi at-taccare, e maggiormente li eccitavano i padroni non ac-corgendosi di parlar cosí forte né di avere le mani tantovigorose. Senza dir niente, Giusto riguardava se le be-stie erano attaccate bene. Per tutta la giornata Reginas’era tenuta in disparte con la scusa di badare ai bambi-ni; ora, attendendo il momento di andarli a prendere nel-la camera dei nonni ove dormivano, da una finestra del-la cucina guardava sull’aia i barrocci, i fagotti di Remoe di Fede già portati là fuori; guardava con occhi larghi;se qualcuno l’avesse chiamata, l’avrebbe fatta trasalire.

Ricomparve Irene col suo cappello carico di fiori; ri-comparvero anche gli sposi; quindi Regina salí al suoposto, a ricevere dalla madre i bambini. Tutti stavano in-torno ai barrocci, ma Cleto s’era nascosto per non assi-stere alla partenza. Quando sui veicoli furono all’ordinepasseggeri e guidatori, si alzò il clamore dei saluti, suc-cesse tra quelli che restavano un rimescolio, un agitarsidi braccia che fece partir di scatto, inseguendosi, i trecavalli. Lilibeo gettò in aria il suo cappelluccio. Mentreil carro la portava via, Irene si voltò a guardare ancora

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una volta la sua stanza sotto il portico. Per un poco siudirono le ruote, le voci sulla strada scendente a valle.Incominciarono ad andar via anche gli invitati. – Doma-ni ci sono i lavori – ripeteva Urbano a coloro che non sivolevano avviare; frattanto mandò a letto Uliva e Dona-to e Dionisio, il quale si reggeva male. Si mosse infineanche Taureno con Minotto; Lilibeo fu l’ultimo. Presto,su per la strada di Luvo, si fece risentire la fisarmonica.

Chi doveva andare, era fuori; chi doveva stare, era acasa. Nella cucina la Riccia e Magallo asciugavano leposate, movendo adagio perché avevano faticato moltoed avevano anche bevuto; con loro movevano le lorograndi ombre; forse non s’erano accorti che la festa eraterminata. Magallo parlava forte del solito cosacco deisuoi racconti: – Mi veniva addosso per infilzarmi, congli occhi fuori della testa, sopra un cavalluccio che face-va fiamme. Io ho alzato il fucile con la baionetta, poi misono trovato in terra, ma accanto a me c’era il Russo tra-passato da parte a parte. – La Riccia, al solito, borbotta-va tra sé e non lo ascoltava affatto.

Dalla stalla, dov’era andato a veder le bestie, Giustotornò nel cortile silenzioso. Sua madre piangeva, sedutasopra uno scalino; Urbano, dicendo a mezza voce le pre-ghiere, girava a spegnere lumi e lanterne, a soffiar suimozziconi di candele; si vedevano meglio le stelle chestavano sopra l’aia. Il giovine andò al portone e chiusecon cura i due enormi battenti.

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una volta la sua stanza sotto il portico. Per un poco siudirono le ruote, le voci sulla strada scendente a valle.Incominciarono ad andar via anche gli invitati. – Doma-ni ci sono i lavori – ripeteva Urbano a coloro che non sivolevano avviare; frattanto mandò a letto Uliva e Dona-to e Dionisio, il quale si reggeva male. Si mosse infineanche Taureno con Minotto; Lilibeo fu l’ultimo. Presto,su per la strada di Luvo, si fece risentire la fisarmonica.

Chi doveva andare, era fuori; chi doveva stare, era acasa. Nella cucina la Riccia e Magallo asciugavano leposate, movendo adagio perché avevano faticato moltoed avevano anche bevuto; con loro movevano le lorograndi ombre; forse non s’erano accorti che la festa eraterminata. Magallo parlava forte del solito cosacco deisuoi racconti: – Mi veniva addosso per infilzarmi, congli occhi fuori della testa, sopra un cavalluccio che face-va fiamme. Io ho alzato il fucile con la baionetta, poi misono trovato in terra, ma accanto a me c’era il Russo tra-passato da parte a parte. – La Riccia, al solito, borbotta-va tra sé e non lo ascoltava affatto.

Dalla stalla, dov’era andato a veder le bestie, Giustotornò nel cortile silenzioso. Sua madre piangeva, sedutasopra uno scalino; Urbano, dicendo a mezza voce le pre-ghiere, girava a spegnere lumi e lanterne, a soffiar suimozziconi di candele; si vedevano meglio le stelle chestavano sopra l’aia. Il giovine andò al portone e chiusecon cura i due enormi battenti.

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1902

Nell’alto atrio tappezzato di cartelloni ove spiccavanobottiglie d’acqua minerale, piroscafi, vedute fantastichedi paesi, stava aspettando molta gente in mezzo allaquale una guardia civica teneva aperto un passaggio: eral’ora dei treni che avevano viaggiato tutta la notte. Sistoed il figlio non si parlavano. Dalle porte di ferro uscíuno stuolo di viaggiatori, ma giungevano da una lineadel nord. Sotto la tettoia esterna si udirono vetture met-tersi in moto; la giornata era piovosa e la luce smorta.Venne cambiata la tabella che annunziava il treno in ar-rivo. «Ora – pensò Graziano – egli sarebbe apparso»;ciò che stava per succedere era imbarazzante. Uscironole persone discese per prime da quel treno, le solite figu-re di viaggiatori che avevano dormito male; Sisto cerca-va di veder lontano, dentro l’una e l’altra porta; mentrevenivano innanzi le ondate piú grosse, diede segno di ri-conoscere colui che attendevano. Era un uomo già vec-chio, alto, dal viso poco sano senza barba né baffi, ilquale portava abiti scuri con cert’aria d’ufficiale in bor-ghese, camminava a testa alta senza guardarsi intornoma aveva un passo molle come per fiacchezza dellegambe. Vide Sisto, che s’era avvicinato, lo riconobbe,gli tese le due mani con gesto calmo e reciso: – Ah, sei

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Nell’alto atrio tappezzato di cartelloni ove spiccavanobottiglie d’acqua minerale, piroscafi, vedute fantastichedi paesi, stava aspettando molta gente in mezzo allaquale una guardia civica teneva aperto un passaggio: eral’ora dei treni che avevano viaggiato tutta la notte. Sistoed il figlio non si parlavano. Dalle porte di ferro uscíuno stuolo di viaggiatori, ma giungevano da una lineadel nord. Sotto la tettoia esterna si udirono vetture met-tersi in moto; la giornata era piovosa e la luce smorta.Venne cambiata la tabella che annunziava il treno in ar-rivo. «Ora – pensò Graziano – egli sarebbe apparso»;ciò che stava per succedere era imbarazzante. Uscironole persone discese per prime da quel treno, le solite figu-re di viaggiatori che avevano dormito male; Sisto cerca-va di veder lontano, dentro l’una e l’altra porta; mentrevenivano innanzi le ondate piú grosse, diede segno di ri-conoscere colui che attendevano. Era un uomo già vec-chio, alto, dal viso poco sano senza barba né baffi, ilquale portava abiti scuri con cert’aria d’ufficiale in bor-ghese, camminava a testa alta senza guardarsi intornoma aveva un passo molle come per fiacchezza dellegambe. Vide Sisto, che s’era avvicinato, lo riconobbe,gli tese le due mani con gesto calmo e reciso: – Ah, sei

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qui. – Sisto si voltò a indicargli il figlio. – Diamine! –disse l’uomo. – È proprio un bel ragazzo. – Si accertòche il facchino con le valige lo seguisse, poi chiese: –Non c’è altri, non è vero?

Era Aleramo Andosio che veniva da ventisette anni dipenitenziario. E Graziano pensava appunto che ciò sidovesse vedere da tutti; invece nessuno se ne curava. In-sieme ai Farra, Aleramo si accostò alla loro carrozzacome se gli fosse accaduto molte volte di arrivare inquel modo; ma quando fu seduto nella vettura chiusa edil cavallo, uscendo dal portico, si mise al trotto, egliposò una mano sul ginocchio di Sisto che gli sedeva ac-canto, premendo forte, voltando verso lui un viso diven-tato piú bianco, piú floscio; dopo strinse un braccio delnipote, che aveva di fronte, strinse forte; non parlavaperché non voleva piangere.

— Ventisette anni – disse quando sentí che potevanon piangere – sempre pensando a questo giorno.

— Hai avuta molta forza – disse Sisto.Aleramo serrò le mascelle, corrugò le sopracciglia,

che aveva scure e spesse: – In ogni momento la stessavolontà: se cedo, non esco vivo; devo resistere.

Le sue valige, affidate al cocchiere, erano nuove; an-che il vestiario, dal cappello alle scarpe, era nuovissimoe si vedeva appena ch’era stato comprato in un magazzi-no d’abiti fatti. Al paragone era molto logoro quel viso,che in una pasta senza colore mostrava le tracce d’unalunghissima e terribile fatica; gli occhi erano un pocoannebbiati ed esitanti, disavvezzi a guardar lontano,

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qui. – Sisto si voltò a indicargli il figlio. – Diamine! –disse l’uomo. – È proprio un bel ragazzo. – Si accertòche il facchino con le valige lo seguisse, poi chiese: –Non c’è altri, non è vero?

Era Aleramo Andosio che veniva da ventisette anni dipenitenziario. E Graziano pensava appunto che ciò sidovesse vedere da tutti; invece nessuno se ne curava. In-sieme ai Farra, Aleramo si accostò alla loro carrozzacome se gli fosse accaduto molte volte di arrivare inquel modo; ma quando fu seduto nella vettura chiusa edil cavallo, uscendo dal portico, si mise al trotto, egliposò una mano sul ginocchio di Sisto che gli sedeva ac-canto, premendo forte, voltando verso lui un viso diven-tato piú bianco, piú floscio; dopo strinse un braccio delnipote, che aveva di fronte, strinse forte; non parlavaperché non voleva piangere.

— Ventisette anni – disse quando sentí che potevanon piangere – sempre pensando a questo giorno.

— Hai avuta molta forza – disse Sisto.Aleramo serrò le mascelle, corrugò le sopracciglia,

che aveva scure e spesse: – In ogni momento la stessavolontà: se cedo, non esco vivo; devo resistere.

Le sue valige, affidate al cocchiere, erano nuove; an-che il vestiario, dal cappello alle scarpe, era nuovissimoe si vedeva appena ch’era stato comprato in un magazzi-no d’abiti fatti. Al paragone era molto logoro quel viso,che in una pasta senza colore mostrava le tracce d’unalunghissima e terribile fatica; gli occhi erano un pocoannebbiati ed esitanti, disavvezzi a guardar lontano,

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all’aperto; però si volgevano alle case, ai passanti, aiveicoli, alle vetrine come se non dovessero vedere nien-te di nuovo. Nell’animo di Graziano era il ricordo vagodella prima volta che gli era stato parlato d’uno zio re-cluso, il ricordo delle sue lettere, delle scatole di sigariche gli venivano spedite, dei nomi che avevano le casedi pena, nomi di luoghi maledetti; ed ora tutto ciò nonsembrava piú vero; ora nella carrozza, coi ginocchi vici-ni ai suoi vi era quest’uomo libero, vestito come gli al-tri, con una cravatta tessuta ad ancore verdi. In un palaz-zo d’una piccola città della provincia la vecchia paraliti-ca non esisteva piú, e dai suoi figli s’era potuto ottenerela firma sotto la supplica al re.

Nel giardino di casa venne intorno a chi scendevadalla carrozza il cane. – Questo è Fiocco – disse subitoAleramo. Claudia si mostrò in cima alla gradinata delpianterreno, ed accanto a lei era un’altra signora, sua so-rella Ortensia, arrivata il giorno prima per incontrare ilreduce. Lo lasciarono appena entrare nel vestibolo,quindi Ortensia gli si gettò al collo scoppiando in sin-ghiozzi, e non se ne staccava mai; ma anche Claudia vo-leva baciarlo, stringerlo, piangendo allungava le braccia;tra queste braccia Aleramo, liberatosi un momentodall’altra sorella, si gettò a capo basso per nascondere ilviso. Nessuno diceva una parola, si udiva soltanto ilpiangere. Aleramo tolse dal taschino il fazzoletto e sicoprí gli occhi: – Dove andiamo? – domandò. Sisto ed ilfiglio lo fecero entrare in un salotto come un cieco. Il re-duce si strofinò vigorosamente il volto, che adesso era

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all’aperto; però si volgevano alle case, ai passanti, aiveicoli, alle vetrine come se non dovessero vedere nien-te di nuovo. Nell’animo di Graziano era il ricordo vagodella prima volta che gli era stato parlato d’uno zio re-cluso, il ricordo delle sue lettere, delle scatole di sigariche gli venivano spedite, dei nomi che avevano le casedi pena, nomi di luoghi maledetti; ed ora tutto ciò nonsembrava piú vero; ora nella carrozza, coi ginocchi vici-ni ai suoi vi era quest’uomo libero, vestito come gli al-tri, con una cravatta tessuta ad ancore verdi. In un palaz-zo d’una piccola città della provincia la vecchia paraliti-ca non esisteva piú, e dai suoi figli s’era potuto ottenerela firma sotto la supplica al re.

Nel giardino di casa venne intorno a chi scendevadalla carrozza il cane. – Questo è Fiocco – disse subitoAleramo. Claudia si mostrò in cima alla gradinata delpianterreno, ed accanto a lei era un’altra signora, sua so-rella Ortensia, arrivata il giorno prima per incontrare ilreduce. Lo lasciarono appena entrare nel vestibolo,quindi Ortensia gli si gettò al collo scoppiando in sin-ghiozzi, e non se ne staccava mai; ma anche Claudia vo-leva baciarlo, stringerlo, piangendo allungava le braccia;tra queste braccia Aleramo, liberatosi un momentodall’altra sorella, si gettò a capo basso per nascondere ilviso. Nessuno diceva una parola, si udiva soltanto ilpiangere. Aleramo tolse dal taschino il fazzoletto e sicoprí gli occhi: – Dove andiamo? – domandò. Sisto ed ilfiglio lo fecero entrare in un salotto come un cieco. Il re-duce si strofinò vigorosamente il volto, che adesso era

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colorito e macero come se avesse pianto molte ore; tras-se un lungo respiro, rialzò la testa con un movimento ri-soluto. – Claudia, – disse, osservando la sorella piú gio-vane che lo guardava attraverso grosse lacrime – seiproprio come ti pensavo, molto meglio che nei ritratti. –Si voltò ad Ortensia squadrandola burbero: – Ehi, Teta,sei grigia. Ed ora, via i fazzoletti, basta col piangere. –Si avvicinò a Sisto; con cenni chiamò a sé Graziano e listrinse in un abbraccio tutt’e due: – Brava gente, gented’oro! – Vedendo entrare nel salotto l’alta figura diAscanio, gli andò incontro con un franco sorriso: – Bab-bo Farra! Il primo galantuomo di Rebbia. Vedete chi ètornato? Andrò anche a Rebbia, a Luvo. – Invitato final-mente a sedere, prese invece a moversi per la stanza daun angolo all’altro osservando tutto, sempre con quelpasso stanco e con un po’ di esitazione come se qualcu-no potesse comandargli di star fermo. Alzata la tendinad’una finestra, rimase a guardar con piacere il cielo pio-vigginoso, opaco: – Ero nel piú bel luogo del mondo, fa-moso già nei tempi antichi, tra Posillipo e Baia – dissecon ironia boriosa. – Non se ne vedeva niente, ma il cie-lo, si vedeva, cobalto, sempre cobalto!

Ortensia e Claudia non gli levavan gli occhi di dosso.La sorella maggiore, sebbene la casa fosse riscaldatabene, s’era messa una giacca di lontra, ormai spelac-chiata e rossiccia; teneva le braccia conserte, semprepiena di freddo; intorno alla fronte aveva i capelli strina-ti dal ferro col quale piú volte al giorno si faceva i riccidistrattamente; non s’accomodava mai sulle sedie e sui

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colorito e macero come se avesse pianto molte ore; tras-se un lungo respiro, rialzò la testa con un movimento ri-soluto. – Claudia, – disse, osservando la sorella piú gio-vane che lo guardava attraverso grosse lacrime – seiproprio come ti pensavo, molto meglio che nei ritratti. –Si voltò ad Ortensia squadrandola burbero: – Ehi, Teta,sei grigia. Ed ora, via i fazzoletti, basta col piangere. –Si avvicinò a Sisto; con cenni chiamò a sé Graziano e listrinse in un abbraccio tutt’e due: – Brava gente, gented’oro! – Vedendo entrare nel salotto l’alta figura diAscanio, gli andò incontro con un franco sorriso: – Bab-bo Farra! Il primo galantuomo di Rebbia. Vedete chi ètornato? Andrò anche a Rebbia, a Luvo. – Invitato final-mente a sedere, prese invece a moversi per la stanza daun angolo all’altro osservando tutto, sempre con quelpasso stanco e con un po’ di esitazione come se qualcu-no potesse comandargli di star fermo. Alzata la tendinad’una finestra, rimase a guardar con piacere il cielo pio-vigginoso, opaco: – Ero nel piú bel luogo del mondo, fa-moso già nei tempi antichi, tra Posillipo e Baia – dissecon ironia boriosa. – Non se ne vedeva niente, ma il cie-lo, si vedeva, cobalto, sempre cobalto!

Ortensia e Claudia non gli levavan gli occhi di dosso.La sorella maggiore, sebbene la casa fosse riscaldatabene, s’era messa una giacca di lontra, ormai spelac-chiata e rossiccia; teneva le braccia conserte, semprepiena di freddo; intorno alla fronte aveva i capelli strina-ti dal ferro col quale piú volte al giorno si faceva i riccidistrattamente; non s’accomodava mai sulle sedie e sui

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sofà, come gli altri, invece sedeva sui braccioli o si ap-poggiava ad una tavola, ogni momento cambiava posi-zione. Guardando il reduce, Graziano aveva presto tro-vato nel suo aspetto e nel suo contegno l’uomo ch’erastato un tempo, ciò che in lui rimaneva del rompicolloelegante, del cavallerizzo, di quel giovine che in una fo-tografia teneva con signorile noncuranza lo scudiscio;ma le mani erano ruvide, sformate, erano quelle cheavevan fatti grossi lavori da sarto per ventisette anni.

Claudia, uscita dalla stanza, ricomparve con Gabriel-la, che era molto sviluppata per i suoi nove anni ed ave-va una ricca capigliatura bruna sciolta sulle spalle. Que-sto zio ritornato – era stato detto alla bambina – avevavissuto qua e là in tutto il mondo. Ella sentiva, però, chela sua storia doveva essere ben diversa, misteriosa, e silasciò baciare senza sorridere e fu contenta di potersi ri-tirare subito. Quindi Sisto dovette andare alla clinica, edanche Ascanio e Graziano si ritirarono; il reduce salí alprimo piano con le sorelle, nella camera destinata a lui,dove rimasero soli. Appena fu chiusa la porta, Ortensiasi gettò di nuovo addosso al fratello, a stringerlo, a ba-ciarlo, guardarlo da vicino; poi batteva le mani, rideva,piangeva un poco, rideva un’altra volta – Ramo, ti ricor-di quando a Luvo sei saltato sul cavallo che il medicoaveva lasciato in piazza, e l’hai portato in fondo allavalle? E il mazzo d’ortaggi mandato alla damigella Roa-sio che ti voleva sposare, te lo ricordi? – Ortensia si ri-volse a Claudia: – Era un diavolo.

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sofà, come gli altri, invece sedeva sui braccioli o si ap-poggiava ad una tavola, ogni momento cambiava posi-zione. Guardando il reduce, Graziano aveva presto tro-vato nel suo aspetto e nel suo contegno l’uomo ch’erastato un tempo, ciò che in lui rimaneva del rompicolloelegante, del cavallerizzo, di quel giovine che in una fo-tografia teneva con signorile noncuranza lo scudiscio;ma le mani erano ruvide, sformate, erano quelle cheavevan fatti grossi lavori da sarto per ventisette anni.

Claudia, uscita dalla stanza, ricomparve con Gabriel-la, che era molto sviluppata per i suoi nove anni ed ave-va una ricca capigliatura bruna sciolta sulle spalle. Que-sto zio ritornato – era stato detto alla bambina – avevavissuto qua e là in tutto il mondo. Ella sentiva, però, chela sua storia doveva essere ben diversa, misteriosa, e silasciò baciare senza sorridere e fu contenta di potersi ri-tirare subito. Quindi Sisto dovette andare alla clinica, edanche Ascanio e Graziano si ritirarono; il reduce salí alprimo piano con le sorelle, nella camera destinata a lui,dove rimasero soli. Appena fu chiusa la porta, Ortensiasi gettò di nuovo addosso al fratello, a stringerlo, a ba-ciarlo, guardarlo da vicino; poi batteva le mani, rideva,piangeva un poco, rideva un’altra volta – Ramo, ti ricor-di quando a Luvo sei saltato sul cavallo che il medicoaveva lasciato in piazza, e l’hai portato in fondo allavalle? E il mazzo d’ortaggi mandato alla damigella Roa-sio che ti voleva sposare, te lo ricordi? – Ortensia si ri-volse a Claudia: – Era un diavolo.

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— Io, diavolo? – protestò allegro il fratello. – Teta,Teta, non farmi parlare.

Da una tasca della pelliccia Ortensia levò una scatoladi sigarette fini, ne offerse agli altri, che non ne accetta-rono, e si mise a fumare. I ricordi balzavano su dallamente sua e di Aleramo come fuochi da una sparata dirazzi, uno sull’altro, impetuosamente, incessantemente;ed essi se li scambiavano senza lasciarsi a vicenda finireil racconto, saltando con quelle frasi da luogo a luogo,andando innanzi e indietro nel tempo. Claudia, bambinaquando essi erano sui vent’anni, stava quasi soltanto adascoltare, raccogliendo le loro parole con avidità, riden-do con loro, appena un tantino gelosa dell’amicizia cheaveva uniti la primogenita ed il fratello e nella quale ellanon era potuta entrare; gettando però nel dialogo qual-che tema, accenni a cose di cui ella aveva solamenteudita la narrazione. Parlavano d’un vestito di tulle bian-co con nodi di nastro rosso che la loro madre aveva por-tato ad un gran ballo di Rebbia, e della sua bellezza, pel-le bianca, occhi neri, straordinaria; parlavano d’un giar-diniere di casa, che a novant’anni voleva ancora lavora-re; ricordavano un fratello adolescente, morto d’un col-po di sole, del quale Ortensia conservava il piccolo vio-lino su cui imparava a sonare; parlavano del cocchieredel padre, intarsiatore per diletto, e si dicevano i nomidei cavalli d’Aleramo; ricordavano il fratello della non-na materna, il conte Blanchi di Cortenuova, ch’era statoministro del re di Sardegna a Londra, e la moglie, «lazia Onorata», che in quella capitale aveva salvati i suoi

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— Io, diavolo? – protestò allegro il fratello. – Teta,Teta, non farmi parlare.

Da una tasca della pelliccia Ortensia levò una scatoladi sigarette fini, ne offerse agli altri, che non ne accetta-rono, e si mise a fumare. I ricordi balzavano su dallamente sua e di Aleramo come fuochi da una sparata dirazzi, uno sull’altro, impetuosamente, incessantemente;ed essi se li scambiavano senza lasciarsi a vicenda finireil racconto, saltando con quelle frasi da luogo a luogo,andando innanzi e indietro nel tempo. Claudia, bambinaquando essi erano sui vent’anni, stava quasi soltanto adascoltare, raccogliendo le loro parole con avidità, riden-do con loro, appena un tantino gelosa dell’amicizia cheaveva uniti la primogenita ed il fratello e nella quale ellanon era potuta entrare; gettando però nel dialogo qual-che tema, accenni a cose di cui ella aveva solamenteudita la narrazione. Parlavano d’un vestito di tulle bian-co con nodi di nastro rosso che la loro madre aveva por-tato ad un gran ballo di Rebbia, e della sua bellezza, pel-le bianca, occhi neri, straordinaria; parlavano d’un giar-diniere di casa, che a novant’anni voleva ancora lavora-re; ricordavano un fratello adolescente, morto d’un col-po di sole, del quale Ortensia conservava il piccolo vio-lino su cui imparava a sonare; parlavano del cocchieredel padre, intarsiatore per diletto, e si dicevano i nomidei cavalli d’Aleramo; ricordavano il fratello della non-na materna, il conte Blanchi di Cortenuova, ch’era statoministro del re di Sardegna a Londra, e la moglie, «lazia Onorata», che in quella capitale aveva salvati i suoi

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bambini nell’incendio del palazzo dove abitavano, e chepoi vedova a Torino, riceveva visite di personaggi im-portanti, di milordi, in un convento nel quale si era riti-rata. Parlavano di cose scomparse, di splendori spenti,di gente da tanto tempo morta, come di persone vive edi fatti recenti, come di cose che si potessero sempre ri-vedere.

— Sai – disse Aleramo ad Ortensia – che Daniele, ilfiglio di quello che chiamavano il Tessitore, mi ha scrit-to tutti gli anni? Quella lettera da Luvo mi faceva moltopiacere.

Animatamente discorrendo, Ortensia ed Aleramo era-no sempre piú rassomiglianti: nella persona costruttacon una solida impalcatura d’ossa e poca carne, nelviso, negli occhi, nei gesti nervosi, in un brio strano chesapeva di malinconia, soprattutto nell’aria che entrambiavevano di gente passata attraverso terribili prove percolpa propria ma in un certo modo fantastico, senza la-sciarsi troppo cambiare nell’animo. E la grande diversitàd’aspetto tra loro e Claudia mostrava, piú ancora che ladifferenza d’età, la maniera diversa in cui la sorella mi-nore era vissuta, secondo un concetto sensato dell’esi-stenza, senza avventure strambe, senza fare tragedie.

— Quel Lanciarossa – chiese ad un tratto Aleramocambiando espressione – non vi sarà mezzo di levarlodalla nostra casa? La vedrei volentieri crollata, se lo po-tesse schiacciare!

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bambini nell’incendio del palazzo dove abitavano, e chepoi vedova a Torino, riceveva visite di personaggi im-portanti, di milordi, in un convento nel quale si era riti-rata. Parlavano di cose scomparse, di splendori spenti,di gente da tanto tempo morta, come di persone vive edi fatti recenti, come di cose che si potessero sempre ri-vedere.

— Sai – disse Aleramo ad Ortensia – che Daniele, ilfiglio di quello che chiamavano il Tessitore, mi ha scrit-to tutti gli anni? Quella lettera da Luvo mi faceva moltopiacere.

Animatamente discorrendo, Ortensia ed Aleramo era-no sempre piú rassomiglianti: nella persona costruttacon una solida impalcatura d’ossa e poca carne, nelviso, negli occhi, nei gesti nervosi, in un brio strano chesapeva di malinconia, soprattutto nell’aria che entrambiavevano di gente passata attraverso terribili prove percolpa propria ma in un certo modo fantastico, senza la-sciarsi troppo cambiare nell’animo. E la grande diversitàd’aspetto tra loro e Claudia mostrava, piú ancora che ladifferenza d’età, la maniera diversa in cui la sorella mi-nore era vissuta, secondo un concetto sensato dell’esi-stenza, senza avventure strambe, senza fare tragedie.

— Quel Lanciarossa – chiese ad un tratto Aleramocambiando espressione – non vi sarà mezzo di levarlodalla nostra casa? La vedrei volentieri crollata, se lo po-tesse schiacciare!

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— È calato sulla tua roba come un corvo – disse Or-tensia. – L’usuraio gentiluomo. Da lontano aveva adoc-chiato tutto quanto. Un vero genio del male.

— Voglio vedere la sua faccia il giorno che andrò aLuvo. Nel palazzo, il re del paese, questo malandrino!Suo padre era ispettore dei giochi a Montecarlo; era par-tito dal Piemonte col fagotto, suo padre. Lui imparò laprofessione di richiamar gente alla bisca e prestare a chiperdeva. Mai stato mio amico, non è vero! Quando ionon potevo piú far niente per difendermi, ha tirate fuorile cambiali.

— Nella nostra casa ha portato il suo romanzod’appendice – disse ancora Ortensia, seduta a bracciaconserte sul bordo del letto.

— La belle jardinière – sogghignò Aleramo alzandole spalle. – Il marito della donna coltivava i fiori e lei livendeva a caro prezzo. Grassa, alta una spanna! Il nego-zio gliel’aveva messo su un francese di gran famiglia,un Rohan. Il marito è sempre vivo ed il figlio, a quantoso, è degno dei genitori, un lestofante.

Dette da Aleramo, tutte le cose parevano inverosimili,favolose. Claudia osservò: – La morte della figlia ille-gittima è stata un severo castigo. Ma ora non pensiamoa quella gente.

— Ben detto, Claudia – rispose il fratello piantandosisui due piedi e facendo viso allegro. – È meglio pensareall’avvenire. – Alle sue spalle era una specchiera e vi sivedevano muovere, con quel brio a scatti, la testa quasicalva, la schiena stanca d’un vecchio. Per l’avvenire

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— È calato sulla tua roba come un corvo – disse Or-tensia. – L’usuraio gentiluomo. Da lontano aveva adoc-chiato tutto quanto. Un vero genio del male.

— Voglio vedere la sua faccia il giorno che andrò aLuvo. Nel palazzo, il re del paese, questo malandrino!Suo padre era ispettore dei giochi a Montecarlo; era par-tito dal Piemonte col fagotto, suo padre. Lui imparò laprofessione di richiamar gente alla bisca e prestare a chiperdeva. Mai stato mio amico, non è vero! Quando ionon potevo piú far niente per difendermi, ha tirate fuorile cambiali.

— Nella nostra casa ha portato il suo romanzod’appendice – disse ancora Ortensia, seduta a bracciaconserte sul bordo del letto.

— La belle jardinière – sogghignò Aleramo alzandole spalle. – Il marito della donna coltivava i fiori e lei livendeva a caro prezzo. Grassa, alta una spanna! Il nego-zio gliel’aveva messo su un francese di gran famiglia,un Rohan. Il marito è sempre vivo ed il figlio, a quantoso, è degno dei genitori, un lestofante.

Dette da Aleramo, tutte le cose parevano inverosimili,favolose. Claudia osservò: – La morte della figlia ille-gittima è stata un severo castigo. Ma ora non pensiamoa quella gente.

— Ben detto, Claudia – rispose il fratello piantandosisui due piedi e facendo viso allegro. – È meglio pensareall’avvenire. – Alle sue spalle era una specchiera e vi sivedevano muovere, con quel brio a scatti, la testa quasicalva, la schiena stanca d’un vecchio. Per l’avvenire

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ogni decisione era stata presa prima che Aleramo uscis-se dalla casa di pena: egli andava a vivere presso la fa-miglia di Ortensia; coi suoi risparmi di recluso e conuna buona somma di cui gli faceva dono Claudia, si sa-rebbe dato agli affari, ai commerci, chissà, a qualche la-voro originale.

— Non credere – disse Ortensia al fratello – di trovaruna casa come questa.

— Già, – protestò egli col suo tono ironico e brusco –io sono disceso dalla luna, non so niente!

Era impaziente d’incominciare a far qualchecosa eperciò di partire. Malgrado le premure di Claudia nonrestò piú di tre giorni; durante i quali era sempre in giroper la città, con le due sorelle o con Ortensia sola; ovun-que, egli voleva mostrare che conosceva tutto, sapevagià tutto, e che nessuna cosa lo poteva sorprendere. Peruscire, Ortensia si metteva uno dei cappelli che raffaz-zonava da sé senza badare alla moda, un paio di guantidai quali sbucava la punta di qualche dito; si ornava loscollo della pelliccia con una spilla di bronzo sulla qualeera la corona comitale dei Cervasco e dei Cortenuova. Ed’avere aspetto di signora decaduta non gliene importa-va o forse non se ne ricordava piú; ma si sarebbe offesase la sorella le avesse offerto un paio di guanti nuovi.

Prima di partire Aleramo diede di nascosto a Grazia-no un manoscritto rilegato che pareva un registro – Leg-gerai con calma, quando vorrai. Il destino d’un uomo.Potrai capire perché ho fatto ciò che ho fatto.

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ogni decisione era stata presa prima che Aleramo uscis-se dalla casa di pena: egli andava a vivere presso la fa-miglia di Ortensia; coi suoi risparmi di recluso e conuna buona somma di cui gli faceva dono Claudia, si sa-rebbe dato agli affari, ai commerci, chissà, a qualche la-voro originale.

— Non credere – disse Ortensia al fratello – di trovaruna casa come questa.

— Già, – protestò egli col suo tono ironico e brusco –io sono disceso dalla luna, non so niente!

Era impaziente d’incominciare a far qualchecosa eperciò di partire. Malgrado le premure di Claudia nonrestò piú di tre giorni; durante i quali era sempre in giroper la città, con le due sorelle o con Ortensia sola; ovun-que, egli voleva mostrare che conosceva tutto, sapevagià tutto, e che nessuna cosa lo poteva sorprendere. Peruscire, Ortensia si metteva uno dei cappelli che raffaz-zonava da sé senza badare alla moda, un paio di guantidai quali sbucava la punta di qualche dito; si ornava loscollo della pelliccia con una spilla di bronzo sulla qualeera la corona comitale dei Cervasco e dei Cortenuova. Ed’avere aspetto di signora decaduta non gliene importa-va o forse non se ne ricordava piú; ma si sarebbe offesase la sorella le avesse offerto un paio di guanti nuovi.

Prima di partire Aleramo diede di nascosto a Grazia-no un manoscritto rilegato che pareva un registro – Leg-gerai con calma, quando vorrai. Il destino d’un uomo.Potrai capire perché ho fatto ciò che ho fatto.

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La sera il giovine lo sfogliò; vide ch’era un memoria-le scritto con uno stile antiquato, con un’esaltazione pie-na di enfasi, ma senza tacere i particolari piú intimi; etosto lo richiuse a chiave in un cassetto, per un senso dipudore ed anche per disgusto di penetrare nei segretid’una vita. «Io mi avvidi quasi di repente che il cuoredella mia adorata Fulvia non mi apparteneva piú, erad’un altro». Una vita dov’era stato sparso quel sangue.

Ma da qualche tempo ogni fatto, ogni avvenimento,gli episodi di qualunque esistenza, anche se pieni di pas-sioni o di dolore, a Graziano parevano privi d’importan-za. Egli cessò presto di pensare alla visita del reduce.Frequentava regolarmente l’università; una mattina,come tante altre, andò all’istituto anatomico, che nonera lontano da casa sua; entrò nella galleria riservata alleesercitazioni delle studentesse; vi era soltanto una ma-gra bionda lentigginosa, del quarto corso, che voleva de-dicarsi all’insegnamento dell’anatomia, e stava lavoran-do piano piano al tronco, tagliato sotto le costole, d’ungiovinetto morto di tisi. Il cadavere aveva una testinapulita, d’una bianchezza diafana, con la pelle ben tesasulle ossa, con gli occhi a metà nascosti sotto le palpe-bre e coi denti scoperti come a sorridere. La studentessaalzò appena il viso un istante. «Forse un giorno costeimetterà al mondo dei figli» si disse Graziano. Passò nel-la sala grande, dove intorno a tutte le tavole di marmoerano gruppi di studenti coi camici neri, al lavoro.L’odor di carne morta era freddo e dolciastro, ma untanfo denso mandava qualche corpo sventrato da cui

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La sera il giovine lo sfogliò; vide ch’era un memoria-le scritto con uno stile antiquato, con un’esaltazione pie-na di enfasi, ma senza tacere i particolari piú intimi; etosto lo richiuse a chiave in un cassetto, per un senso dipudore ed anche per disgusto di penetrare nei segretid’una vita. «Io mi avvidi quasi di repente che il cuoredella mia adorata Fulvia non mi apparteneva piú, erad’un altro». Una vita dov’era stato sparso quel sangue.

Ma da qualche tempo ogni fatto, ogni avvenimento,gli episodi di qualunque esistenza, anche se pieni di pas-sioni o di dolore, a Graziano parevano privi d’importan-za. Egli cessò presto di pensare alla visita del reduce.Frequentava regolarmente l’università; una mattina,come tante altre, andò all’istituto anatomico, che nonera lontano da casa sua; entrò nella galleria riservata alleesercitazioni delle studentesse; vi era soltanto una ma-gra bionda lentigginosa, del quarto corso, che voleva de-dicarsi all’insegnamento dell’anatomia, e stava lavoran-do piano piano al tronco, tagliato sotto le costole, d’ungiovinetto morto di tisi. Il cadavere aveva una testinapulita, d’una bianchezza diafana, con la pelle ben tesasulle ossa, con gli occhi a metà nascosti sotto le palpe-bre e coi denti scoperti come a sorridere. La studentessaalzò appena il viso un istante. «Forse un giorno costeimetterà al mondo dei figli» si disse Graziano. Passò nel-la sala grande, dove intorno a tutte le tavole di marmoerano gruppi di studenti coi camici neri, al lavoro.L’odor di carne morta era freddo e dolciastro, ma untanfo denso mandava qualche corpo sventrato da cui

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uscivano gonfi gli intestini. Sebbene giungesse una buo-na luce dalle finestre, le lampade elettriche erano acce-se; sotto esse, in mezzo agli studenti, stavano sulle lastrecadaveri di vecchi e di vecchie, sformati e flaccidi, o ca-daveri piú belli, di giovani, ma assai scarni; su tavolinipresso le finestre erano qua una gamba, altrove una testaod un braccio, ai quali coi ferri lucidi lavoravano stu-denti isolati; gli inservienti, coperti con trascuratezza dicàmici bianchi sporchi, giravano come operai svogliati.Ad un tratto, intorno ad un cadavere di donna moltogrande ed ancora intatto, alcuni degli studenti si miseroin posa, scherzando, imitando i quadri o le stampe degliantichi teatri anatomici, ed un altro fece la fotografiadella scena. Sull’architrave della porta d’ingresso lucci-cavano parole dorate: Hic est locus ubi mors dignat suc-currere vitae.

Nell’istituto Graziano non si curava affatto dellascienza. Le cose che si vedevano là dentro, l’edifiziostesso lo attraevano suo malgrado, ed egli se ne interes-sava con curiosità e compiacenza malsane. Salí al primopiano, dove il museo anatomico era sistemato assai benein lunghe sale bianche, piene d’una luce filtrata da ten-dine bianche nettissime. Scaffali e vetrine scintillavano;sotto campane di vetro si vedevano tronchi umani im-balsamati; corpi interi erano conservati entro vasche sot-to lastre di vetro spesso; accosto alle pareti ed in mezzoalle sale, in vetrine d’ogni forma, erano pezzi essiccati,barattoli contenenti in un liquido torbido visceri, teste,feti; vi erano anche, dentro tavole col coperchio di cri-

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uscivano gonfi gli intestini. Sebbene giungesse una buo-na luce dalle finestre, le lampade elettriche erano acce-se; sotto esse, in mezzo agli studenti, stavano sulle lastrecadaveri di vecchi e di vecchie, sformati e flaccidi, o ca-daveri piú belli, di giovani, ma assai scarni; su tavolinipresso le finestre erano qua una gamba, altrove una testaod un braccio, ai quali coi ferri lucidi lavoravano stu-denti isolati; gli inservienti, coperti con trascuratezza dicàmici bianchi sporchi, giravano come operai svogliati.Ad un tratto, intorno ad un cadavere di donna moltogrande ed ancora intatto, alcuni degli studenti si miseroin posa, scherzando, imitando i quadri o le stampe degliantichi teatri anatomici, ed un altro fece la fotografiadella scena. Sull’architrave della porta d’ingresso lucci-cavano parole dorate: Hic est locus ubi mors dignat suc-currere vitae.

Nell’istituto Graziano non si curava affatto dellascienza. Le cose che si vedevano là dentro, l’edifiziostesso lo attraevano suo malgrado, ed egli se ne interes-sava con curiosità e compiacenza malsane. Salí al primopiano, dove il museo anatomico era sistemato assai benein lunghe sale bianche, piene d’una luce filtrata da ten-dine bianche nettissime. Scaffali e vetrine scintillavano;sotto campane di vetro si vedevano tronchi umani im-balsamati; corpi interi erano conservati entro vasche sot-to lastre di vetro spesso; accosto alle pareti ed in mezzoalle sale, in vetrine d’ogni forma, erano pezzi essiccati,barattoli contenenti in un liquido torbido visceri, teste,feti; vi erano anche, dentro tavole col coperchio di cri-

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stallo, sezioni di cadaveri congelati, sottili come unaasse, esatti come modelli: uomini adulti, donne incinte.«Tu saresti ancora piú sottile, faresti una figura piú me-schina» si diceva Graziano. Nell’aria non si sentiva cheun odor chimico simile a quello dell’alcole; ciascun og-getto era distinto da un cartello; ed il museo aveva loaspetto d’un magazzino tenuto con cura. Il giovine erasolo, non udiva alcun rumore. Nel centro d’una sala de-dicata ad un celebre anatomico che alcuni anni primaaveva insegnato nell’istituto, si alzava un’edicola tuttacristallo; vi stava diritto lo scheletro di un uomo gagliar-do, le cui ossa eran tenute assieme da ganci e filid’argento; aveva tra i piedi una coppa con un cervello, edavanti a questa si vedeva, nel liquido d’un vaso di ve-tro, la pelle d’un capo con la faccia gonfia come quellad’un annegato: il celebre anatomico. In una cornice ap-pesa all’edicola era la sua fotografia, alla quale quelcapo somigliava ancora; e si poteva leggere il passo deltestamento con cui egli aveva fatto al museo quel dono.

Avvicinatosi ad una finestra, Graziano sollevò la ten-dina a guardar fuori. Nel viale arrivava un tranvai; in unpiazzale del parco vicino era il monumento equestred’un principe; piú lontano, dietro edifizi nuovi d’offici-ne, si scorgeva la parte alta d’un carcere di donne; matutte le cose rappresentavano una vita senz’alcuna ansie-tà, un ordine ragionato, sul quale il sole d’inverno getta-va il suo polverío leggero. Adagio un vecchio attraver-sava il binario a poca distanza dal carrozzone soprag-giungente: se il tranvai lo avesse schiacciato, subito sa-

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stallo, sezioni di cadaveri congelati, sottili come unaasse, esatti come modelli: uomini adulti, donne incinte.«Tu saresti ancora piú sottile, faresti una figura piú me-schina» si diceva Graziano. Nell’aria non si sentiva cheun odor chimico simile a quello dell’alcole; ciascun og-getto era distinto da un cartello; ed il museo aveva loaspetto d’un magazzino tenuto con cura. Il giovine erasolo, non udiva alcun rumore. Nel centro d’una sala de-dicata ad un celebre anatomico che alcuni anni primaaveva insegnato nell’istituto, si alzava un’edicola tuttacristallo; vi stava diritto lo scheletro di un uomo gagliar-do, le cui ossa eran tenute assieme da ganci e filid’argento; aveva tra i piedi una coppa con un cervello, edavanti a questa si vedeva, nel liquido d’un vaso di ve-tro, la pelle d’un capo con la faccia gonfia come quellad’un annegato: il celebre anatomico. In una cornice ap-pesa all’edicola era la sua fotografia, alla quale quelcapo somigliava ancora; e si poteva leggere il passo deltestamento con cui egli aveva fatto al museo quel dono.

Avvicinatosi ad una finestra, Graziano sollevò la ten-dina a guardar fuori. Nel viale arrivava un tranvai; in unpiazzale del parco vicino era il monumento equestred’un principe; piú lontano, dietro edifizi nuovi d’offici-ne, si scorgeva la parte alta d’un carcere di donne; matutte le cose rappresentavano una vita senz’alcuna ansie-tà, un ordine ragionato, sul quale il sole d’inverno getta-va il suo polverío leggero. Adagio un vecchio attraver-sava il binario a poca distanza dal carrozzone soprag-giungente: se il tranvai lo avesse schiacciato, subito sa-

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rebbe arrivata l’ambulanza a portar via il corpo, a can-cellare la macchia di sangue, e subito si sarebbe rivedu-to il perfetto ordine. Ma come sembravano fragili i sol-dati – una squadra di reclute – che lungo una fila di al-beri andavano innanzi e indietro imparando a marciare!Cosí giovani e robusti, erano fragili come i loro visceri,come le arterie.

Quel giorno, dopo colazione, Graziano uscí a cavallo.Per una questione di mercedi erano stati serrati dai pa-droni gli stabilimenti meccanici ed in risposta gli operaidelle altre industrie avevano disertati cantieri e fabbri-che. Il giovine andava verso la campagna; a misura chesi avvicinava all’orlo della città, sentiva meglio l’avve-nimento insolito e quel che vi era nell’aria, un fermento,una passione oscura e indecisa di guerra civile; gli edifi-zi delle officine piú grandi, chiusi e senza rumori, eranocustoditi da carabinieri, vi giravano intorno pattuglie dicavalleria; nei quartieri operai capannelli d’uomini sta-vano a discutere sui portoni, sui canti delle vie, un vocíousciva dalle osterie gremite, mentre donne e bambiniguardavano con ansietà dalle finestre; anche dove dellacittà non si vedeva piú che il disegno abbozzato, opificie case popolari sperduti nei prati tra le file di lampioniche ad un tratto cessavano, lo sciopero si scorgeva subi-to, nell’inerzia delle fonderie, delle fornaci, in quel cam-minare a drappelli e radunarsi e sciogliersi degli uominisfaccendati. Da un terreno cinto d’una palizzata, entro ilquale erano molti giocatori di bocce, partirono gridaostili e fischi all’indirizzo d’una squadra di ciclisti della

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rebbe arrivata l’ambulanza a portar via il corpo, a can-cellare la macchia di sangue, e subito si sarebbe rivedu-to il perfetto ordine. Ma come sembravano fragili i sol-dati – una squadra di reclute – che lungo una fila di al-beri andavano innanzi e indietro imparando a marciare!Cosí giovani e robusti, erano fragili come i loro visceri,come le arterie.

Quel giorno, dopo colazione, Graziano uscí a cavallo.Per una questione di mercedi erano stati serrati dai pa-droni gli stabilimenti meccanici ed in risposta gli operaidelle altre industrie avevano disertati cantieri e fabbri-che. Il giovine andava verso la campagna; a misura chesi avvicinava all’orlo della città, sentiva meglio l’avve-nimento insolito e quel che vi era nell’aria, un fermento,una passione oscura e indecisa di guerra civile; gli edifi-zi delle officine piú grandi, chiusi e senza rumori, eranocustoditi da carabinieri, vi giravano intorno pattuglie dicavalleria; nei quartieri operai capannelli d’uomini sta-vano a discutere sui portoni, sui canti delle vie, un vocíousciva dalle osterie gremite, mentre donne e bambiniguardavano con ansietà dalle finestre; anche dove dellacittà non si vedeva piú che il disegno abbozzato, opificie case popolari sperduti nei prati tra le file di lampioniche ad un tratto cessavano, lo sciopero si scorgeva subi-to, nell’inerzia delle fonderie, delle fornaci, in quel cam-minare a drappelli e radunarsi e sciogliersi degli uominisfaccendati. Da un terreno cinto d’una palizzata, entro ilquale erano molti giocatori di bocce, partirono gridaostili e fischi all’indirizzo d’una squadra di ciclisti della

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polizia, che passava in lontananza. In città Ilisso parevasempre stizzito d’ogni cosa; anche ora non faceva chepuntar gli orecchi, andava a passi corti e rapidi come sela terra scottasse.

Graziano giunse ad un vecchio borgo dove veniva so-vente; di qua si mise per la campagna, ritrovò l’immen-sa pianura libera fino al cerchio delle Alpi, campi e pra-terie con pochi paesi ai quali conducevano strade segna-late da filari di pioppi. Sulle montagne si adagiava qual-che nuvola, ma il resto del cielo era sgombro, pieno diluce; correndo passava il rumore d’un treno invisibile;in mezzo ad un prato alcuni contadini lavoravano ad ungigantesco albero abbattuto, ed i colpi delle scuri inquella vastità non avevano forza; dentro un fosso, trascatole di latta e mucchi di cocci, gorgogliava l’acqua.Lo sguardo di Graziano seguiva con piacere le righenettamente tracciate dai fili telegrafici nell’aria pulita;ma il suo pensiero era in vastissime aule dell’università,quelle di chimica e di fisica, in cui centinaia di studenti,aspettando le lezioni, cantavano in coro a squarciagolastrofe violente e beffarde. «Noi sappiamo bene ciò chevale la vita» volevano dire gli studenti. Combinazionichimiche, fenomeni fisici, funzionamento di visceri, de-gli schifosi visceri, lavorío di cellule, di umori, di mi-crobi: la sorte umana stava tutta dentro questi limiti. Trala nascita e la morte vi era quest’avventura miserabileed incerta. Non era niente, non serviva a niente.

Il cavallo alzava il muso fine a odorar la campagnafredda, faceva la bava tormentandosi col morso da cui

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polizia, che passava in lontananza. In città Ilisso parevasempre stizzito d’ogni cosa; anche ora non faceva chepuntar gli orecchi, andava a passi corti e rapidi come sela terra scottasse.

Graziano giunse ad un vecchio borgo dove veniva so-vente; di qua si mise per la campagna, ritrovò l’immen-sa pianura libera fino al cerchio delle Alpi, campi e pra-terie con pochi paesi ai quali conducevano strade segna-late da filari di pioppi. Sulle montagne si adagiava qual-che nuvola, ma il resto del cielo era sgombro, pieno diluce; correndo passava il rumore d’un treno invisibile;in mezzo ad un prato alcuni contadini lavoravano ad ungigantesco albero abbattuto, ed i colpi delle scuri inquella vastità non avevano forza; dentro un fosso, trascatole di latta e mucchi di cocci, gorgogliava l’acqua.Lo sguardo di Graziano seguiva con piacere le righenettamente tracciate dai fili telegrafici nell’aria pulita;ma il suo pensiero era in vastissime aule dell’università,quelle di chimica e di fisica, in cui centinaia di studenti,aspettando le lezioni, cantavano in coro a squarciagolastrofe violente e beffarde. «Noi sappiamo bene ciò chevale la vita» volevano dire gli studenti. Combinazionichimiche, fenomeni fisici, funzionamento di visceri, de-gli schifosi visceri, lavorío di cellule, di umori, di mi-crobi: la sorte umana stava tutta dentro questi limiti. Trala nascita e la morte vi era quest’avventura miserabileed incerta. Non era niente, non serviva a niente.

Il cavallo alzava il muso fine a odorar la campagnafredda, faceva la bava tormentandosi col morso da cui

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era trattenuto, camminava di traverso, smanioso di lan-ciarsi nelle praterie. – Aspetta! – gli diceva Graziano.Un arco di muratura fiancheggiato da grossi olmi, di-nanzi al quale la strada passava, era quanto rimanevadell’ingresso d’una villa distrutta; già altre volte egli neaveva avuta l’impressione d’un luogo adatto per ucci-dersi; gli piacque di nuovo guardare dove avrebbe potu-to, stando sdraiato a terra, spararsi. Il mondo gli sembra-va molto lontano. Uno scherzo da fare: con un gestouscire dal destino di tutti. Subito dopo, la strada scende-va attraversando un grandissimo scavo dov’era sempreun va e vieni di carrettieri a prender ghiaia; l’orizzontespariva, non si vedevano che le pareti franose, ed ogginon vi lavorava nessuno. Il giovine si sentí solo. Nonera strano ch’egli fosse là? Perché gli piaceva allonta-narsi dalla gente, star solo? Quelli che aveva avuti com-pagni di liceo e che poi avevano prese negli studi vie di-verse, tranquillamente andavano alle lezioni o pensava-no a divertirsi. Bruto Corese, deciso a farsi attore, passa-va le giornate in una scuola di recitazione. E Nego? Lasua faccia schiacciata non l’aveva piú rivista; non ne sa-peva piú niente. Era forte, Nego, con quella testaccia. Dilà la sua casa non era lontana, ma forse lo avrebbe ac-colto malamente.

Presto la strada risaliva fuori della cava, sull’immensasuperficie piana. Il sole, avvicinandosi alle montagne,ne mostrava meglio le forme ma facendole leggere, in-corporee. Finalmente Graziano lasciò entrare il cavalloin una prateria, allentò le redini e fu portato via al galop-

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era trattenuto, camminava di traverso, smanioso di lan-ciarsi nelle praterie. – Aspetta! – gli diceva Graziano.Un arco di muratura fiancheggiato da grossi olmi, di-nanzi al quale la strada passava, era quanto rimanevadell’ingresso d’una villa distrutta; già altre volte egli neaveva avuta l’impressione d’un luogo adatto per ucci-dersi; gli piacque di nuovo guardare dove avrebbe potu-to, stando sdraiato a terra, spararsi. Il mondo gli sembra-va molto lontano. Uno scherzo da fare: con un gestouscire dal destino di tutti. Subito dopo, la strada scende-va attraversando un grandissimo scavo dov’era sempreun va e vieni di carrettieri a prender ghiaia; l’orizzontespariva, non si vedevano che le pareti franose, ed ogginon vi lavorava nessuno. Il giovine si sentí solo. Nonera strano ch’egli fosse là? Perché gli piaceva allonta-narsi dalla gente, star solo? Quelli che aveva avuti com-pagni di liceo e che poi avevano prese negli studi vie di-verse, tranquillamente andavano alle lezioni o pensava-no a divertirsi. Bruto Corese, deciso a farsi attore, passa-va le giornate in una scuola di recitazione. E Nego? Lasua faccia schiacciata non l’aveva piú rivista; non ne sa-peva piú niente. Era forte, Nego, con quella testaccia. Dilà la sua casa non era lontana, ma forse lo avrebbe ac-colto malamente.

Presto la strada risaliva fuori della cava, sull’immensasuperficie piana. Il sole, avvicinandosi alle montagne,ne mostrava meglio le forme ma facendole leggere, in-corporee. Finalmente Graziano lasciò entrare il cavalloin una prateria, allentò le redini e fu portato via al galop-

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po; sfogando la passione lungamente costretta, Ilisso vo-lava, piú che non toccasse il terreno, con un respiro ar-dente e felice; però obbediva alla guida come se godessea descrivere i circoli, le linee continuamente variate cheil cavaliere voleva. Questi, preso dalla stessa febbredell’animale, teneva quel prato quanto era grande; vede-va il suolo ancora coperto del logoro tappeto invernale,file d’alberi sui margini, un gregge al pascolo, le Alpi;non aveva piú un pensiero, in mezzo a quello spaziopieno di cose che piacevolmente giravano. Quando fusazio, si portò ad una estremità della prateria e, fatti sen-tire all’animale gli sproni, la percorse tutta di gran car-riera.

«Vado da Nego» si disse dopo che ebbe rimesso soprala strada il cavallo, il quale restava ancora vibrantecome un fanciullo costretto a cessare giochi impetuosi.La casa dei Mazzè era tra campi ed orti, un vecchio edi-fizio esteso e basso racchiudente un cortile; sull’arco delportone avevano dipinto «Officina meccanica – Motorie motocicli». Ilisso fece molto rumore nell’androne,dove da un finestrino tentò sporgersi un operaio grassoche gridò: – Chi cercate? – Smontato nel cortile, Grazia-no vide una stalla col fienile vuoto, i finestroni polverosidell’officina, un carretto a mano con le stanghe all’aria,latte di benzina e masselli d’acciaio posati in ordinepresso una pompa d’acqua, uno scoiattolo che faceva,girare in fretta la sua ruota dentro una gabbia attaccataal muro. Al primo piano era ripulita una parte della fac-ciata; sopra un ballatoio, lungo il quale s’allineavano le

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po; sfogando la passione lungamente costretta, Ilisso vo-lava, piú che non toccasse il terreno, con un respiro ar-dente e felice; però obbediva alla guida come se godessea descrivere i circoli, le linee continuamente variate cheil cavaliere voleva. Questi, preso dalla stessa febbredell’animale, teneva quel prato quanto era grande; vede-va il suolo ancora coperto del logoro tappeto invernale,file d’alberi sui margini, un gregge al pascolo, le Alpi;non aveva piú un pensiero, in mezzo a quello spaziopieno di cose che piacevolmente giravano. Quando fusazio, si portò ad una estremità della prateria e, fatti sen-tire all’animale gli sproni, la percorse tutta di gran car-riera.

«Vado da Nego» si disse dopo che ebbe rimesso soprala strada il cavallo, il quale restava ancora vibrantecome un fanciullo costretto a cessare giochi impetuosi.La casa dei Mazzè era tra campi ed orti, un vecchio edi-fizio esteso e basso racchiudente un cortile; sull’arco delportone avevano dipinto «Officina meccanica – Motorie motocicli». Ilisso fece molto rumore nell’androne,dove da un finestrino tentò sporgersi un operaio grassoche gridò: – Chi cercate? – Smontato nel cortile, Grazia-no vide una stalla col fienile vuoto, i finestroni polverosidell’officina, un carretto a mano con le stanghe all’aria,latte di benzina e masselli d’acciaio posati in ordinepresso una pompa d’acqua, uno scoiattolo che faceva,girare in fretta la sua ruota dentro una gabbia attaccataal muro. Al primo piano era ripulita una parte della fac-ciata; sopra un ballatoio, lungo il quale s’allineavano le

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finestre d’un appartamento civile, vi erano vasi di foglieverdi. Chiamato dal custode, Valente Mazzè uscídall’officina; una giacca di tela unta, una grossa cravattadi lana intorno al collo, il solito berrettone gettatoall’indietro sulla capigliatura nera riccia dura lo rende-vano piú massiccio; egli teneva le mani sospese davantial petto come chi ha interrotto un lavoro che sporca, stu-diando il visitatore con faccia brutta. – Ah, sei tu – disseinfine; si voltò per rientrare: – Vieni, vieni.

L’officina era un portico chiuso con vetrate; ai ban-chi, ai tornii lavoravano alcuni operai, con raspar dilime, stridere di punte d’acciaio, rotare di pulegge, ru-mori e movimenti chiusi in un vano troppo stretto. Negotornò al banco ove stava smontando un congegno untodi grasso; poiché Graziano accennava alla serrata dellealtre officine, rispose alzando le spalle. In fondo al por-tico una tramezza formava una specie di ufficio, ove siscorgevano un uomo anziano ed un giovine piegati so-pra una tavola da disegno, entrambi somiglianti a Nego.Con la figura slanciata, gli stivali di pelle bulgara, unabacchetta di bambú sotto l’ascella, Graziano appariva làdentro fuor di posto; ma Valente sentí subito che il com-pagno aveva qualche cosa da dirgli, che voleva qualchecosa, ed alzò un istante gli occhi a guardarlo di nuovosebbene stesse togliendo dal congegno una mollettinacon la delicatezza d’un chirurgo che tragga una scheggiada una ferita. Alle pareti erano appesi fogli laceri di di-segni, ruote, sagome di legno; un operaio, al banco diprova, mise in movimento un motore che empí l’officina

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finestre d’un appartamento civile, vi erano vasi di foglieverdi. Chiamato dal custode, Valente Mazzè uscídall’officina; una giacca di tela unta, una grossa cravattadi lana intorno al collo, il solito berrettone gettatoall’indietro sulla capigliatura nera riccia dura lo rende-vano piú massiccio; egli teneva le mani sospese davantial petto come chi ha interrotto un lavoro che sporca, stu-diando il visitatore con faccia brutta. – Ah, sei tu – disseinfine; si voltò per rientrare: – Vieni, vieni.

L’officina era un portico chiuso con vetrate; ai ban-chi, ai tornii lavoravano alcuni operai, con raspar dilime, stridere di punte d’acciaio, rotare di pulegge, ru-mori e movimenti chiusi in un vano troppo stretto. Negotornò al banco ove stava smontando un congegno untodi grasso; poiché Graziano accennava alla serrata dellealtre officine, rispose alzando le spalle. In fondo al por-tico una tramezza formava una specie di ufficio, ove siscorgevano un uomo anziano ed un giovine piegati so-pra una tavola da disegno, entrambi somiglianti a Nego.Con la figura slanciata, gli stivali di pelle bulgara, unabacchetta di bambú sotto l’ascella, Graziano appariva làdentro fuor di posto; ma Valente sentí subito che il com-pagno aveva qualche cosa da dirgli, che voleva qualchecosa, ed alzò un istante gli occhi a guardarlo di nuovosebbene stesse togliendo dal congegno una mollettinacon la delicatezza d’un chirurgo che tragga una scheggiada una ferita. Alle pareti erano appesi fogli laceri di di-segni, ruote, sagome di legno; un operaio, al banco diprova, mise in movimento un motore che empí l’officina

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di terribili scoppi. Graziano osservava il compagnocome i ragazzi osservano un altro ragazzo che faccia uninteressante lavoro da uomo. Ad un tratto Valente si for-bí le mani, dito per dito, con un viluppo di filacce e glidisse: – Andiamo di sopra un momento. – Nell’ufficiosuo padre e suo fratello non diedero alcun segno d’averveduto il visitatore.

Aprendo la porta dell’appartamento, Nego si mise aparlar forte per dare l’avviso che entrava un estraneo. Ailati d’un lungo corridoio erano stanze tutte aperte in cuisi vedevano dei mobili di cinquanta o cent’anni prima,un mucchio di vesti da donna sopra un letto, quadri anti-chi, una macchina da cucire, una ragazza ritta davanti adun cavalletto a dipingere, la quale aveva la grossa testadi Valente ma con ricci biondi e indossava un chimonosciupato. Da una delle porte uscí subito una signora pic-cola e grassoccia, con molti ricciolini ancora biondastriintorno ad un viso rotondetto. Quando il figlio le ebbedetto chi era il giovine, ella si diresse alla sala portandobene in fuori uno strano petto che sembrava finto. Lasala era ordinata e lucida; ne occupava una buona parteun pianoforte a coda; coprivano le pareti quadri, qua-dretti, miniature, lettere e diplomi in cornice, ed in uncanto, sotto un velo rosa, stava una grande arpa dorata.– Voi somigliate straordinariamente a qualcuno che ioho conosciuto – disse la signora appena ebbe considera-to Graziano. – Forse a Dubitzky, il violinista. No, non aDubitzky. Non posso ricordare bene: ho conosciuta tantagente! – Portava un abito stinto di velluto turchino con

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di terribili scoppi. Graziano osservava il compagnocome i ragazzi osservano un altro ragazzo che faccia uninteressante lavoro da uomo. Ad un tratto Valente si for-bí le mani, dito per dito, con un viluppo di filacce e glidisse: – Andiamo di sopra un momento. – Nell’ufficiosuo padre e suo fratello non diedero alcun segno d’averveduto il visitatore.

Aprendo la porta dell’appartamento, Nego si mise aparlar forte per dare l’avviso che entrava un estraneo. Ailati d’un lungo corridoio erano stanze tutte aperte in cuisi vedevano dei mobili di cinquanta o cent’anni prima,un mucchio di vesti da donna sopra un letto, quadri anti-chi, una macchina da cucire, una ragazza ritta davanti adun cavalletto a dipingere, la quale aveva la grossa testadi Valente ma con ricci biondi e indossava un chimonosciupato. Da una delle porte uscí subito una signora pic-cola e grassoccia, con molti ricciolini ancora biondastriintorno ad un viso rotondetto. Quando il figlio le ebbedetto chi era il giovine, ella si diresse alla sala portandobene in fuori uno strano petto che sembrava finto. Lasala era ordinata e lucida; ne occupava una buona parteun pianoforte a coda; coprivano le pareti quadri, qua-dretti, miniature, lettere e diplomi in cornice, ed in uncanto, sotto un velo rosa, stava una grande arpa dorata.– Voi somigliate straordinariamente a qualcuno che ioho conosciuto – disse la signora appena ebbe considera-to Graziano. – Forse a Dubitzky, il violinista. No, non aDubitzky. Non posso ricordare bene: ho conosciuta tantagente! – Portava un abito stinto di velluto turchino con

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un largo collo di pizzo sul quale era appuntata per fer-maglio una medaglia d’oro.

— Renato è uscito con una macchina? – disse al fi-glio. – Ha ancora la testa fasciata.

Poi parlò di sé al visitatore, del proprio passato, intono entusiastico, indicando l’arpa come se fosse unapersona dormente, mostrando nelle cornici medaglie so-netti diplomi in cui risaltava il suo nome di ragazza, ilnome ch’era stato famoso, Serafina Ro. Suo figlio, pres-so la porta, aspettava. La signora lo indicò a Graziano –Tempi da meccanici. Non ha voluto continuare gli studi.Con questi motori ci siamo mangiato tanto denaro! Malo rifaremo abbondantemente. L’avvenire è dei motori.Musica di scoppi, altro che arpe!

— Vieni – disse Valente al compagno. – Mia madreparlerebbe fino a domani.

La camera dove condusse Graziano era assai piccola;la empivano un cassettone con uno specchio anneritodal tempo, una sedia, uno scaffale con libri in disordine,un letto che anch’esso per Nego sembrava troppo picco-lo. Dal letto un gatto rosso acciambellato guardò con oc-chi socchiusi e non si mosse. Attraverso i vetri delle fi-nestre si vedevan le montagne. Poiché Graziano si avvi-cinò ai libri per leggerne qua e là i titoli, l’altro disse: –Non li tocco piú. O piuttosto mi sforzo di perdere l’abi-tudine, ma ogni tanto ci ricasco. Il tornio, i metalli, il la-voro manuale: non voglio altro.

— Io vado a passeggio per la campagna.— Non sei all’università?

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un largo collo di pizzo sul quale era appuntata per fer-maglio una medaglia d’oro.

— Renato è uscito con una macchina? – disse al fi-glio. – Ha ancora la testa fasciata.

Poi parlò di sé al visitatore, del proprio passato, intono entusiastico, indicando l’arpa come se fosse unapersona dormente, mostrando nelle cornici medaglie so-netti diplomi in cui risaltava il suo nome di ragazza, ilnome ch’era stato famoso, Serafina Ro. Suo figlio, pres-so la porta, aspettava. La signora lo indicò a Graziano –Tempi da meccanici. Non ha voluto continuare gli studi.Con questi motori ci siamo mangiato tanto denaro! Malo rifaremo abbondantemente. L’avvenire è dei motori.Musica di scoppi, altro che arpe!

— Vieni – disse Valente al compagno. – Mia madreparlerebbe fino a domani.

La camera dove condusse Graziano era assai piccola;la empivano un cassettone con uno specchio anneritodal tempo, una sedia, uno scaffale con libri in disordine,un letto che anch’esso per Nego sembrava troppo picco-lo. Dal letto un gatto rosso acciambellato guardò con oc-chi socchiusi e non si mosse. Attraverso i vetri delle fi-nestre si vedevan le montagne. Poiché Graziano si avvi-cinò ai libri per leggerne qua e là i titoli, l’altro disse: –Non li tocco piú. O piuttosto mi sforzo di perdere l’abi-tudine, ma ogni tanto ci ricasco. Il tornio, i metalli, il la-voro manuale: non voglio altro.

— Io vado a passeggio per la campagna.— Non sei all’università?

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— Medicina.— Medico non ti vedo.— È tutto eguale. E forse non sono capace di far

niente, non m’importa di niente.Nego aperse la finestra e precedette il compagno so-

pra un balconcino. Gli mostrò l’orto che stava di sotto,ampio, rigato da file di cavoli. – Lavoro anche la terra –disse. – Una fatica che fa bene. – Ormai molto vicino alprofilo delle Alpi, il sole stendeva sulla pianura fasci diluce radente dalla quale ogni cosa era colpita con forzaallegra, gli alberi, le antenne delle condutture elettriche,i paesi; e le nuvole prendevano fuoco. Nego mostrò lemani, grosse, forti, con le dita già guaste dai duri stru-menti che adoperavano; per la prima volta alzò sorriden-do lo sguardo in viso a Graziano, poi riprese: – Il pen-siero è il peggiore dei vizi. Gli uomini, in genere, pensa-no troppo. E si dà troppa importanza alla vita. Crediamoche sia chissà che cosa; vorremmo farne un uso grandio-so, non sappiamo in che maniera. – Con le mani si attac-cò alla ringhiera e presentò al tramonto la larga faccia,la quale ne era tutta accesa e pareva bella; non sorridevapiú ma aveva un’espressione di riposo.

Rimasero un poco a contemplare l’orizzonte in silen-zio. Graziano avrebbe voluto che quel momento non fi-nisse piú; ad un tratto, invece, disse: – Ora bisogna chevada: ti ho già fatto perdere molto tempo. Torneròun’altra volta, se non ti spiace. Forse t’invidio, forse hairagione tu. – Riattraversando la camera, vide nello spec-

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— Medicina.— Medico non ti vedo.— È tutto eguale. E forse non sono capace di far

niente, non m’importa di niente.Nego aperse la finestra e precedette il compagno so-

pra un balconcino. Gli mostrò l’orto che stava di sotto,ampio, rigato da file di cavoli. – Lavoro anche la terra –disse. – Una fatica che fa bene. – Ormai molto vicino alprofilo delle Alpi, il sole stendeva sulla pianura fasci diluce radente dalla quale ogni cosa era colpita con forzaallegra, gli alberi, le antenne delle condutture elettriche,i paesi; e le nuvole prendevano fuoco. Nego mostrò lemani, grosse, forti, con le dita già guaste dai duri stru-menti che adoperavano; per la prima volta alzò sorriden-do lo sguardo in viso a Graziano, poi riprese: – Il pen-siero è il peggiore dei vizi. Gli uomini, in genere, pensa-no troppo. E si dà troppa importanza alla vita. Crediamoche sia chissà che cosa; vorremmo farne un uso grandio-so, non sappiamo in che maniera. – Con le mani si attac-cò alla ringhiera e presentò al tramonto la larga faccia,la quale ne era tutta accesa e pareva bella; non sorridevapiú ma aveva un’espressione di riposo.

Rimasero un poco a contemplare l’orizzonte in silen-zio. Graziano avrebbe voluto che quel momento non fi-nisse piú; ad un tratto, invece, disse: – Ora bisogna chevada: ti ho già fatto perdere molto tempo. Torneròun’altra volta, se non ti spiace. Forse t’invidio, forse hairagione tu. – Riattraversando la camera, vide nello spec-

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chio che gli era andata di traverso l’alta cravatta di telabianca e si fermò un istante ad accomodarla.

Quando, dirigendosi a casa, rientrò nei quartieri ope-rai, si avvide subito che era accaduto qualcosa di serio.Vi erano dappertutto crocchi di uomini eccitati che par-lavano tutti assieme con gesti violenti; donne giravanoinquiete tenendo i bambini per la mano; certe parole checoglieva Graziano, dicevano di spari, di morti, di feriti;si udirono, in qualche via non distante, le sirene deipompieri, ed alcuni ragazzi si misero a correre per andara vedere. Sparito il sole, l’aria si faceva fredda rapida-mente. Nelle osterie, nelle botteghe le luci eran già ac-cese. Il giovine s’accorgeva di essere molto guardatodalla gente, si sentiva addosso un’attenzione ostile; dallevie passò ad un viale nuovo, sempre tra officine e casepopolari; Ilisso ricominciava ad irritarsi. Nel viale Gra-ziano era appena giunto, che udí delle voci tagliar l’aria:– Poltrone! Mantenuto! Mangiapane a tradimento – Gliinsulti gli cadevano intorno come sassi; ma egli tardò unistante a comprendere ch’erano diretti a lui; guardandodonde venivano, scorse a breve distanza, davanti allevetrate d’un bar, un gruppo di operai coi visi voltati dal-la sua parte, i quali avevano presi atteggiamenti minac-ciosi e continuavano ad inveire, come se proprio avesse-ro riconosciuto un nemico. La prima impressione diGraziano fu di sorpresa. Una di quelle voci, piú fortedelle altre, beffarda, disse: – Scendi! Vieni qua! – edegli, in un moto irragionevole di ardire e d’amor pro-prio, voltò il cavallo, si avvicinò al gruppo, decisamen-

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chio che gli era andata di traverso l’alta cravatta di telabianca e si fermò un istante ad accomodarla.

Quando, dirigendosi a casa, rientrò nei quartieri ope-rai, si avvide subito che era accaduto qualcosa di serio.Vi erano dappertutto crocchi di uomini eccitati che par-lavano tutti assieme con gesti violenti; donne giravanoinquiete tenendo i bambini per la mano; certe parole checoglieva Graziano, dicevano di spari, di morti, di feriti;si udirono, in qualche via non distante, le sirene deipompieri, ed alcuni ragazzi si misero a correre per andara vedere. Sparito il sole, l’aria si faceva fredda rapida-mente. Nelle osterie, nelle botteghe le luci eran già ac-cese. Il giovine s’accorgeva di essere molto guardatodalla gente, si sentiva addosso un’attenzione ostile; dallevie passò ad un viale nuovo, sempre tra officine e casepopolari; Ilisso ricominciava ad irritarsi. Nel viale Gra-ziano era appena giunto, che udí delle voci tagliar l’aria:– Poltrone! Mantenuto! Mangiapane a tradimento – Gliinsulti gli cadevano intorno come sassi; ma egli tardò unistante a comprendere ch’erano diretti a lui; guardandodonde venivano, scorse a breve distanza, davanti allevetrate d’un bar, un gruppo di operai coi visi voltati dal-la sua parte, i quali avevano presi atteggiamenti minac-ciosi e continuavano ad inveire, come se proprio avesse-ro riconosciuto un nemico. La prima impressione diGraziano fu di sorpresa. Una di quelle voci, piú fortedelle altre, beffarda, disse: – Scendi! Vieni qua! – edegli, in un moto irragionevole di ardire e d’amor pro-prio, voltò il cavallo, si avvicinò al gruppo, decisamen-

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te, puntando lo sguardo su quegli uomini, sebbene nonvedesse che figure sconosciute, mal comprensibili sullosfondo luminoso delle vetrate. Subito alcuni di coloro simossero, scesero dal marciapiede venendogli intorno. Ilgiovane poté distinguere un individuo piccolo e magroche aveva il cappello sugli occhi; vide un altro, anzianoe panciuto, che pareva un maniscalco, alzare un pugnomassiccio; notò anche una faccia grassa, vicina, con labocca storta a fare smorfie. Ora essi gli lanciavano le in-giurie come sputi. Sul primo che gli venne a tiro, questodella faccia grassa, Graziano calò la bacchetta di bambú.Gli altri si gettarono avanti, gridando piú rabbiosi; unosi attaccò alle redini ma il cavallo con un’impennata siliberò; facendo fare alla bestia un giro su se stessa, Gra-ziano scostò anche gli altri, però il maniscalco non fu le-sto abbastanza, venne urtato, andò in terra. Lo scalpitaredi Ilisso, le grida avevano intanto richiamata l’attenzio-ne di chi stava nel bar ed anche della gente ch’era sulviale: accorrevano altri uomini. L’individuo dal cappellosugli occhi tornò subito ad avvicinarsi, con mosse insi-diose, dalla parte della groppa; Graziano, voltandosi, lovide piccolo e curvo venir avanti a salti; troppo tardis’accorse che teneva in mano una cosa luccicante, e sisentí portar via da un gran balzo del cavallo e poi da al-tri balzi; cercò inutilmente di riprendere il dominiodell’animale. Con la testa all’aria, col collo tutto tesocome se le redini non facessero alcuna forza ed i ginoc-chi del cavaliere, stretti come una morsa, non gli toccas-sero nemmeno i fianchi, Ilisso fuggí per il viale a folate

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te, puntando lo sguardo su quegli uomini, sebbene nonvedesse che figure sconosciute, mal comprensibili sullosfondo luminoso delle vetrate. Subito alcuni di coloro simossero, scesero dal marciapiede venendogli intorno. Ilgiovane poté distinguere un individuo piccolo e magroche aveva il cappello sugli occhi; vide un altro, anzianoe panciuto, che pareva un maniscalco, alzare un pugnomassiccio; notò anche una faccia grassa, vicina, con labocca storta a fare smorfie. Ora essi gli lanciavano le in-giurie come sputi. Sul primo che gli venne a tiro, questodella faccia grassa, Graziano calò la bacchetta di bambú.Gli altri si gettarono avanti, gridando piú rabbiosi; unosi attaccò alle redini ma il cavallo con un’impennata siliberò; facendo fare alla bestia un giro su se stessa, Gra-ziano scostò anche gli altri, però il maniscalco non fu le-sto abbastanza, venne urtato, andò in terra. Lo scalpitaredi Ilisso, le grida avevano intanto richiamata l’attenzio-ne di chi stava nel bar ed anche della gente ch’era sulviale: accorrevano altri uomini. L’individuo dal cappellosugli occhi tornò subito ad avvicinarsi, con mosse insi-diose, dalla parte della groppa; Graziano, voltandosi, lovide piccolo e curvo venir avanti a salti; troppo tardis’accorse che teneva in mano una cosa luccicante, e sisentí portar via da un gran balzo del cavallo e poi da al-tri balzi; cercò inutilmente di riprendere il dominiodell’animale. Con la testa all’aria, col collo tutto tesocome se le redini non facessero alcuna forza ed i ginoc-chi del cavaliere, stretti come una morsa, non gli toccas-sero nemmeno i fianchi, Ilisso fuggí per il viale a folate

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impetuose, cieco di furore, pazzo, con quel dolore dellacoltellata piantato nelle carni. Il giovine vedeva il vialescorrere fulmineamente, alberi, gente; udiva i colpi vee-menti e ritmici delle zampe di Ilisso; udiva anche uncontinuo gridare: intravvedeva sempre ai due lati deltragitto un moversi concitato di persone, e gli pareva dipassare in mezzo ad una folla che tutta lo volesse morto.Egli era sicuro che il cavallo non poteva cadere; la suavolontà s’irrigidiva nello sforzo di tenersi coi ginocchialla sella, ma la lunghezza del viale s’andava rapida-mente consumando. Passò tra veicoli che s’erano scan-sati o fermati appena in tempo per evitare l’urto, tra per-sone che fuggivano urlando.

Ad un tratto sentí il respiro della bestia farsi piú gre-ve, stanco, e quel collo cedere alla forza delle redini,l’impeto della corsa scemare, ammollirsi. Attraversandoun crocevia, pur sempre al galoppo, poté accorgersi cheuna lunga strada laterale era nera di scioperanti e che deisoldati a cavallo vi si rigiravano come in un campo digrano. Subito dopo sentí di avere nuovamente Ilisso nel-le mani; lo rimise al passo, gli batté sul collo mentrel’animale sbruffava, nitriva; lo fece scantonare, si trovòin una piazza deserta, tra un giardinetto pubblico e lafacciata d’un collegio. Smontò – ansante, con gli abiti indisordine, con le braccia rotte dallo sforzo – a vederedove fosse la ferita. Il coltello aveva colpito in una co-scia, che era inverniciata di sangue rappreso sul qualescendeva ancora altro sangue. Del portone del collegiosoltanto il portello era aperto, e vi stava affacciato un

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impetuose, cieco di furore, pazzo, con quel dolore dellacoltellata piantato nelle carni. Il giovine vedeva il vialescorrere fulmineamente, alberi, gente; udiva i colpi vee-menti e ritmici delle zampe di Ilisso; udiva anche uncontinuo gridare: intravvedeva sempre ai due lati deltragitto un moversi concitato di persone, e gli pareva dipassare in mezzo ad una folla che tutta lo volesse morto.Egli era sicuro che il cavallo non poteva cadere; la suavolontà s’irrigidiva nello sforzo di tenersi coi ginocchialla sella, ma la lunghezza del viale s’andava rapida-mente consumando. Passò tra veicoli che s’erano scan-sati o fermati appena in tempo per evitare l’urto, tra per-sone che fuggivano urlando.

Ad un tratto sentí il respiro della bestia farsi piú gre-ve, stanco, e quel collo cedere alla forza delle redini,l’impeto della corsa scemare, ammollirsi. Attraversandoun crocevia, pur sempre al galoppo, poté accorgersi cheuna lunga strada laterale era nera di scioperanti e che deisoldati a cavallo vi si rigiravano come in un campo digrano. Subito dopo sentí di avere nuovamente Ilisso nel-le mani; lo rimise al passo, gli batté sul collo mentrel’animale sbruffava, nitriva; lo fece scantonare, si trovòin una piazza deserta, tra un giardinetto pubblico e lafacciata d’un collegio. Smontò – ansante, con gli abiti indisordine, con le braccia rotte dallo sforzo – a vederedove fosse la ferita. Il coltello aveva colpito in una co-scia, che era inverniciata di sangue rappreso sul qualescendeva ancora altro sangue. Del portone del collegiosoltanto il portello era aperto, e vi stava affacciato un

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custode in uniforme, colle mani nelle tasche d’un cap-potto. Era un uomo robusto. In margine al giardino Gra-ziano aveva vista una fontana; chiamò il custode, gli in-segnò a tenere il cavallo standogli davanti e non lascian-do le redini per nessuna ragione; poi, imbevuto il fazzo-letto di acqua, cominciò a bagnar gli occhi alla bestia, arinfrescarle le narici; ed Ilisso tirava fuori la lingua perbere le poche gocce che colavano; infine, cautamente, fulavata la ferita. Nella piazza s’accesero all’improvviso ilampioni. Graziano lavò e strizzò il fazzoletto, che tutta-via rimase rosso; rimontò in sella.

Dopo un poco ritrovò la città solita, la vita d’ognigiorno, luoghi che mostravano di non saper niente diquanto era accaduto. Non distante da casa la bella chiesadel Salvatore faceva scendere nell’aria scura, sopraenormi isole di case decorose e buie, un suono di cam-pane; ed erano onde lente, rade, adatte a quell’ora, comese non si dovesse turbare la notte che veniva. La chiesaera grande, ma intorno non aveva che vie strette conquelle case tutte eguali; soltanto davanti alla facciata erastato tagliato nel quartiere un piazzale, e vi cresceval’erba, tanto era tranquillo. Da tutte le vie, lunghe e di-ritte, venivano i fedeli, con qualche fretta ed in ordine;processioni di queste formiche salivano la gradinata daogni parte ed entravano nelle porte spalancate. Le cam-pane chiamavano sempre, con la loro voce pacata chesembrava venire da tutto il cielo. Attraversando pianocol suo cavallo il piazzale, Graziano guardò bene l’altamole, le due torri portanti in cima come fiori guglie do-

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custode in uniforme, colle mani nelle tasche d’un cap-potto. Era un uomo robusto. In margine al giardino Gra-ziano aveva vista una fontana; chiamò il custode, gli in-segnò a tenere il cavallo standogli davanti e non lascian-do le redini per nessuna ragione; poi, imbevuto il fazzo-letto di acqua, cominciò a bagnar gli occhi alla bestia, arinfrescarle le narici; ed Ilisso tirava fuori la lingua perbere le poche gocce che colavano; infine, cautamente, fulavata la ferita. Nella piazza s’accesero all’improvviso ilampioni. Graziano lavò e strizzò il fazzoletto, che tutta-via rimase rosso; rimontò in sella.

Dopo un poco ritrovò la città solita, la vita d’ognigiorno, luoghi che mostravano di non saper niente diquanto era accaduto. Non distante da casa la bella chiesadel Salvatore faceva scendere nell’aria scura, sopraenormi isole di case decorose e buie, un suono di cam-pane; ed erano onde lente, rade, adatte a quell’ora, comese non si dovesse turbare la notte che veniva. La chiesaera grande, ma intorno non aveva che vie strette conquelle case tutte eguali; soltanto davanti alla facciata erastato tagliato nel quartiere un piazzale, e vi cresceval’erba, tanto era tranquillo. Da tutte le vie, lunghe e di-ritte, venivano i fedeli, con qualche fretta ed in ordine;processioni di queste formiche salivano la gradinata daogni parte ed entravano nelle porte spalancate. Le cam-pane chiamavano sempre, con la loro voce pacata chesembrava venire da tutto il cielo. Attraversando pianocol suo cavallo il piazzale, Graziano guardò bene l’altamole, le due torri portanti in cima come fiori guglie do-

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rate; guardò il rosone trasparente coi vetri di colori mi-steriosi, ove si scorgevano piccoli santi ed angeli; per leporte, sopra la moltitudine nera dei fedeli che entravanoo che già occupavano gran parte delle navate, vide la ca-vità del tempio, in fondo alla quale splendeva l’altarmaggiore carico di fiammelle. In quello spazio chiuso eprofondo si dilatò ad un tratto la musica dell’organo,gonfia maestosa lenta, e pareva morire appena uscitadalla chiesa.

Tra la gente che raggiungeva in quel momento la gra-dinata e saliva piú presto, attirata dai suoni, Graziano di-stinse la figura del nonno, assai facile da riconoscere,oltre che per la statura ed il portamento, per un mantel-lone nero che d’inverno gli piaceva portare. Ascanio sa-liva i gradini col suo passo vigoroso, sicuro, e teneva ilviso alzato verso il lontano altare splendente, in modoche si poteva vedere quel suo profilo netto accentuatodalla barba acuta. Graziano fermò il cavallo, finché ilvecchio si fu confuso con gli altri sotto l’arco pieno diluce donde la musica usciva come un solenne respiro.

* * *

Sulla collina dei pini salivano tra gli urli acuti dei car-rettieri i barrocci che portavano calce, mattoni, sabbia;quando ridiscendevano vuoti, i cavalli di rinforzo se neandavano sciolti ed i carrettieri cantavano. Proprio sullacima, in mezzo ai pini piú grandi, nasceva la casa: i gar-zoni con le secchie non si fermavano un istante, su e giú

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rate; guardò il rosone trasparente coi vetri di colori mi-steriosi, ove si scorgevano piccoli santi ed angeli; per leporte, sopra la moltitudine nera dei fedeli che entravanoo che già occupavano gran parte delle navate, vide la ca-vità del tempio, in fondo alla quale splendeva l’altarmaggiore carico di fiammelle. In quello spazio chiuso eprofondo si dilatò ad un tratto la musica dell’organo,gonfia maestosa lenta, e pareva morire appena uscitadalla chiesa.

Tra la gente che raggiungeva in quel momento la gra-dinata e saliva piú presto, attirata dai suoni, Graziano di-stinse la figura del nonno, assai facile da riconoscere,oltre che per la statura ed il portamento, per un mantel-lone nero che d’inverno gli piaceva portare. Ascanio sa-liva i gradini col suo passo vigoroso, sicuro, e teneva ilviso alzato verso il lontano altare splendente, in modoche si poteva vedere quel suo profilo netto accentuatodalla barba acuta. Graziano fermò il cavallo, finché ilvecchio si fu confuso con gli altri sotto l’arco pieno diluce donde la musica usciva come un solenne respiro.

* * *

Sulla collina dei pini salivano tra gli urli acuti dei car-rettieri i barrocci che portavano calce, mattoni, sabbia;quando ridiscendevano vuoti, i cavalli di rinforzo se neandavano sciolti ed i carrettieri cantavano. Proprio sullacima, in mezzo ai pini piú grandi, nasceva la casa: i gar-zoni con le secchie non si fermavano un istante, su e giú

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per i ponti, mentre le murature crescevano a vistad’occhio tra le mani dei maestri, i quali sembravano im-pazienti che la costruzione andasse innanzi. Presso ilcantiere file di braccianti con le carriole trasportavanoterra per il giardino. Si sentiva gente nel bosco, che lopuliva dalla sterpaglia, abbatteva qualche albero morto;gli sterpi venivano radunati sull’orlo della nuova stradain mucchi ai quali si dava fuoco, e bruciavano adagio,con molto fumo. Era una giornata del principio di mag-gio, ancora piena di dolcezza e d’intimità; nell’aria odo-rante di resina giungevano di lontano versi d’uccelli, fe-stosi e puerili; tutto chiarezza era quel vasto orizzonteche si vedeva tra i grandi alberi. Per fare posto alla casaqualcuno dei pini s’era dovuto sacrificarlo; ma gli altri,con le loro radici a fior di terra, coi tronchi coperti discaglie, con le chiome tonde imbevute di sole, stavanosempre impassibili come monumenti.

Questa era la prima volta che Claudia veniva a vederei lavori. Ad ogni momento i suoi occhi cercavano il fi-glio, salito sui ponti, cercavano Gabriella che era ineb-briata dalla campagna ma voleva darsi un contegno disignorina e girava a guardare ogni cosa con serietà. Gliordini erano di far piú presto che si potesse; ed ora, sottolo sguardo dei padroni, tutti gli uomini si movevano infretta; pure, nel modo loro di lavorare vi era anche qual-cosa di bonario e di pacifico, come nei lavori campestri.I muratori erano tutti di Luvo e possedevano un po’ diterra che coltivavano con religione; all’aspetto sembra-vano appunto contadini che sapessero tirar su le muratu-

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per i ponti, mentre le murature crescevano a vistad’occhio tra le mani dei maestri, i quali sembravano im-pazienti che la costruzione andasse innanzi. Presso ilcantiere file di braccianti con le carriole trasportavanoterra per il giardino. Si sentiva gente nel bosco, che lopuliva dalla sterpaglia, abbatteva qualche albero morto;gli sterpi venivano radunati sull’orlo della nuova stradain mucchi ai quali si dava fuoco, e bruciavano adagio,con molto fumo. Era una giornata del principio di mag-gio, ancora piena di dolcezza e d’intimità; nell’aria odo-rante di resina giungevano di lontano versi d’uccelli, fe-stosi e puerili; tutto chiarezza era quel vasto orizzonteche si vedeva tra i grandi alberi. Per fare posto alla casaqualcuno dei pini s’era dovuto sacrificarlo; ma gli altri,con le loro radici a fior di terra, coi tronchi coperti discaglie, con le chiome tonde imbevute di sole, stavanosempre impassibili come monumenti.

Questa era la prima volta che Claudia veniva a vederei lavori. Ad ogni momento i suoi occhi cercavano il fi-glio, salito sui ponti, cercavano Gabriella che era ineb-briata dalla campagna ma voleva darsi un contegno disignorina e girava a guardare ogni cosa con serietà. Gliordini erano di far piú presto che si potesse; ed ora, sottolo sguardo dei padroni, tutti gli uomini si movevano infretta; pure, nel modo loro di lavorare vi era anche qual-cosa di bonario e di pacifico, come nei lavori campestri.I muratori erano tutti di Luvo e possedevano un po’ diterra che coltivavano con religione; all’aspetto sembra-vano appunto contadini che sapessero tirar su le muratu-

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re. Uno, un bell’uomo alto che portava larghi calzoni divelluto ed una sciarpa di molti colori per cintura, era fi-glio di Mariolina, la donna ch’era stata al servizio degliAndosio e preparava i pranzi famosi quando Claudia erabambina. I piú anziani gettavano alla signora frequentisguardi, come se avessero sempre nella memoria le sto-rie della sua famiglia e fossero contenti che ella era dinuovo ricca.

«Eccola, – pensava Claudia – la nostra nuova casa diLuvo. Non è piú un sogno». Ricordava ciò che era statomesso sotto la pietra votiva, monete ed una medagliadella Vergine incoronata di stelle; dal palazzo paterno,quando era stato perduto, Ortensia aveva portato via unmartello da uscio, un delfino, e adesso glielo aveva datoperché lo mettesse alla sua porta. Del paese si vedevasoltanto il campanile, essendo le case nascoste dietroun’altra collina; ma quando sonava le ore, si udivanobene, ed il suono era veramente una cara voce che leparlava, una voce che non cambiava mai. L’idea cheAleramo non era piú chiuso in un penitenziario la stupi-va ancora ogni volta che le tornava in mente. AncheAleramo, dunque, sarebbe poi venuto ad ascoltar di quail campanile, a guardare il nastro bianco in mezzo allevigne, che era la strada di Luvo, quella dove un tempopassavano il babbo e la mamma in landò. E non era veroche nel destino della famiglia tutto fosse soltanto deca-denza e rovina: ella costruiva questa casa, come costrui-va l’avvenire dei suoi figli.

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re. Uno, un bell’uomo alto che portava larghi calzoni divelluto ed una sciarpa di molti colori per cintura, era fi-glio di Mariolina, la donna ch’era stata al servizio degliAndosio e preparava i pranzi famosi quando Claudia erabambina. I piú anziani gettavano alla signora frequentisguardi, come se avessero sempre nella memoria le sto-rie della sua famiglia e fossero contenti che ella era dinuovo ricca.

«Eccola, – pensava Claudia – la nostra nuova casa diLuvo. Non è piú un sogno». Ricordava ciò che era statomesso sotto la pietra votiva, monete ed una medagliadella Vergine incoronata di stelle; dal palazzo paterno,quando era stato perduto, Ortensia aveva portato via unmartello da uscio, un delfino, e adesso glielo aveva datoperché lo mettesse alla sua porta. Del paese si vedevasoltanto il campanile, essendo le case nascoste dietroun’altra collina; ma quando sonava le ore, si udivanobene, ed il suono era veramente una cara voce che leparlava, una voce che non cambiava mai. L’idea cheAleramo non era piú chiuso in un penitenziario la stupi-va ancora ogni volta che le tornava in mente. AncheAleramo, dunque, sarebbe poi venuto ad ascoltar di quail campanile, a guardare il nastro bianco in mezzo allevigne, che era la strada di Luvo, quella dove un tempopassavano il babbo e la mamma in landò. E non era veroche nel destino della famiglia tutto fosse soltanto deca-denza e rovina: ella costruiva questa casa, come costrui-va l’avvenire dei suoi figli.

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Continuavano ad arrivare i barrocci dei mattoni, dellacalce; la pineta era piena di rumori, l’intera collina sem-brava coperta di gente al lavoro. Claudia sentiva quantoera grande l’impresa alla quale si erano messi e che ave-va prese quelle proporzioni a poco a poco, una decisionedopo l’altra. Della cima si faceva un parco; intorno, ilbosco si trasformava in vigne e campi; per arrotondarela possessione erano stati comprati campi e vigne confi-nanti, con la loro casa colonica. Denaro ce ne volevamolto, ma Sisto guadagnava sempre di piú. Ella non sa-peva quanto, sapeva solamente le cifre dei depositi allebanche, che crescevano sempre. Del denaro Sisto nonparlava volentieri; doveva anche trattare affari, e nongliene aveva mai detta una parola, li nascondeva comecose di cui si vergognasse. Per non fargli domande, ellasopportava quel mistero, sebbene con amarezza. Comeavrebbe potuto non fidarsi pienamente di lui?

La gioia della giornata di primavera, stando sempresopra un ponte della fabbrica e guardando l’enorme spa-zio sereno, Graziano se la sentiva nelle vene come unaforza. Era contento della vita nella quale in quell’ora sitrovava: dei pini che alzavano al sole d’oro le gran teste;della casa che si costruiva; dei rumori di quel lavoro,dell’allegria che mettevano nell’aria i carrettieri quando,allontanandosi, facevano schioccar la frusta per diverti-mento. Pensava al dramma che aveva scritto, Le notti.Glien’era venuta la prima idea vedendo il nonno entrarenella chiesa, ma i fatti ed i personaggi erano inventati.Quale opinione hanno dell’esistenza i vecchi, essi che la

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Continuavano ad arrivare i barrocci dei mattoni, dellacalce; la pineta era piena di rumori, l’intera collina sem-brava coperta di gente al lavoro. Claudia sentiva quantoera grande l’impresa alla quale si erano messi e che ave-va prese quelle proporzioni a poco a poco, una decisionedopo l’altra. Della cima si faceva un parco; intorno, ilbosco si trasformava in vigne e campi; per arrotondarela possessione erano stati comprati campi e vigne confi-nanti, con la loro casa colonica. Denaro ce ne volevamolto, ma Sisto guadagnava sempre di piú. Ella non sa-peva quanto, sapeva solamente le cifre dei depositi allebanche, che crescevano sempre. Del denaro Sisto nonparlava volentieri; doveva anche trattare affari, e nongliene aveva mai detta una parola, li nascondeva comecose di cui si vergognasse. Per non fargli domande, ellasopportava quel mistero, sebbene con amarezza. Comeavrebbe potuto non fidarsi pienamente di lui?

La gioia della giornata di primavera, stando sempresopra un ponte della fabbrica e guardando l’enorme spa-zio sereno, Graziano se la sentiva nelle vene come unaforza. Era contento della vita nella quale in quell’ora sitrovava: dei pini che alzavano al sole d’oro le gran teste;della casa che si costruiva; dei rumori di quel lavoro,dell’allegria che mettevano nell’aria i carrettieri quando,allontanandosi, facevano schioccar la frusta per diverti-mento. Pensava al dramma che aveva scritto, Le notti.Glien’era venuta la prima idea vedendo il nonno entrarenella chiesa, ma i fatti ed i personaggi erano inventati.Quale opinione hanno dell’esistenza i vecchi, essi che la

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guardano dalla fine? Non ne parlano mai, come per do-vere di custodir un segreto. Il dramma era stato termina-to in pochi mesi.

Un vecchio professore, famoso per i suoi studi sugliantichi dialetti greci, ha dovuto ripudiare – dopo averneavuti molti fastidi e dolori – uno dei suoi figli, incorreg-gibile vizioso, che si è ridotto a vivere malamente in unpaese straniero. Questo figlio ritorna; per il tramite dellamadre chiede ancora aiuto; ma il professore rifiuta disoccorrerlo, non vuole vederlo, non vuole piú che se neparli. Colui sparisce di nuovo; dopo qualche tempo ètrovato morto sopra una panca d’un viale, forse per ma-lattia, forse per fame. «Si poteva salvarlo! – dice al vec-chio la moglie. – Lo hai ucciso tu». È il pensiero di tuttala famiglia. L’avvenimento produce nella coscienza delprofessore una crisi definitiva; egli lascia l’università,dove insegnava, lascia la famiglia, se ne va solo. È quasiun uscir dalla vita ciò ch’egli fa. Senza informarne nes-suno, si ritira in un paese qualunque, il piú nascosto cheha trovato sulle montagne per viverci solo, come se nonabbia e non voglia piú nessuno. Ha guardata la propriavita. Ai dialetti greci pensa scrollando le spalle. E la vitadi tutti che cosa vale? Non ha senso; è dolore inutile.Ma perché non dirlo, non vendicarsi? Nessuno lo ha maifatto. Il vecchio si mette a scrivere: un processo di terri-bile chiarezza e sincerità contro la vita, pieno di fatti, diesempi, un libello, un atto di rivolta, una maledizione.Vive per questo, sebbene si accorga d’esser ammalatoseriamente; il suo cuore non ha sopportato il cambia-

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guardano dalla fine? Non ne parlano mai, come per do-vere di custodir un segreto. Il dramma era stato termina-to in pochi mesi.

Un vecchio professore, famoso per i suoi studi sugliantichi dialetti greci, ha dovuto ripudiare – dopo averneavuti molti fastidi e dolori – uno dei suoi figli, incorreg-gibile vizioso, che si è ridotto a vivere malamente in unpaese straniero. Questo figlio ritorna; per il tramite dellamadre chiede ancora aiuto; ma il professore rifiuta disoccorrerlo, non vuole vederlo, non vuole piú che se neparli. Colui sparisce di nuovo; dopo qualche tempo ètrovato morto sopra una panca d’un viale, forse per ma-lattia, forse per fame. «Si poteva salvarlo! – dice al vec-chio la moglie. – Lo hai ucciso tu». È il pensiero di tuttala famiglia. L’avvenimento produce nella coscienza delprofessore una crisi definitiva; egli lascia l’università,dove insegnava, lascia la famiglia, se ne va solo. È quasiun uscir dalla vita ciò ch’egli fa. Senza informarne nes-suno, si ritira in un paese qualunque, il piú nascosto cheha trovato sulle montagne per viverci solo, come se nonabbia e non voglia piú nessuno. Ha guardata la propriavita. Ai dialetti greci pensa scrollando le spalle. E la vitadi tutti che cosa vale? Non ha senso; è dolore inutile.Ma perché non dirlo, non vendicarsi? Nessuno lo ha maifatto. Il vecchio si mette a scrivere: un processo di terri-bile chiarezza e sincerità contro la vita, pieno di fatti, diesempi, un libello, un atto di rivolta, una maledizione.Vive per questo, sebbene si accorga d’esser ammalatoseriamente; il suo cuore non ha sopportato il cambia-

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mento di altitudine, né gli affanni. Vi è qui un medico,ubbriacone mezzo abbrutito, che vorrebbe curarlo; eglilo tiene lontano quanto può.

I figli sono rimasti strettamente uniti alla madre; peressi il padre è un uomo inflessibile ed aspro che l’età hafatto cattivo e che si è staccato da loro come aveva re-spinto l’altro. Hanno potuto sapere dov’è; tuttavia non simovono finché non giunge una lettera di quel medico.Allora è mandata l’unica figlia, Marzia, mentre comin-cia la buona stagione. È una ragazza già sullo sfiorire,che ha sofferto profondamente ciò che è accaduto. Con-vincere il vecchio a rientrare nel mondo non è possibile;passano i mesi, viene e se ne va l’estate, ed ella rimanesempre. Come potrebbe abbandonare là il padre? Questivive penosamente, ha degli accessi, ma è di quegli infer-mi che possono durare non si sa quanto: continua il suolibro, vi lavora qualche volta anche di notte per timoreche la morte gli tolga la penna di mano. Ha tentato di ri-mandare la figlia, cedendo però alla «debolezza» di nonvolersene di nuovo separare.

Presso il misero paese vi è una piccola miniera, dipoco rendimento e lasciata per questo in uno stadio pri-mitivo. Il capo è poco piú d’un operaio, un uomo ancoragiovine portato là da un istinto di solitudine o diventatoselvatico per effetto della solitudine. Fa amicizia conMarzia, che lo introduce in casa e stabilisce una speciedi accordo tra il padre e lui. Il giovine ha la convinzioneche la vita sia bella e che basti volervi scendere e che ungiorno egli si deciderà a scendervi. Il vecchio non dice

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mento di altitudine, né gli affanni. Vi è qui un medico,ubbriacone mezzo abbrutito, che vorrebbe curarlo; eglilo tiene lontano quanto può.

I figli sono rimasti strettamente uniti alla madre; peressi il padre è un uomo inflessibile ed aspro che l’età hafatto cattivo e che si è staccato da loro come aveva re-spinto l’altro. Hanno potuto sapere dov’è; tuttavia non simovono finché non giunge una lettera di quel medico.Allora è mandata l’unica figlia, Marzia, mentre comin-cia la buona stagione. È una ragazza già sullo sfiorire,che ha sofferto profondamente ciò che è accaduto. Con-vincere il vecchio a rientrare nel mondo non è possibile;passano i mesi, viene e se ne va l’estate, ed ella rimanesempre. Come potrebbe abbandonare là il padre? Questivive penosamente, ha degli accessi, ma è di quegli infer-mi che possono durare non si sa quanto: continua il suolibro, vi lavora qualche volta anche di notte per timoreche la morte gli tolga la penna di mano. Ha tentato di ri-mandare la figlia, cedendo però alla «debolezza» di nonvolersene di nuovo separare.

Presso il misero paese vi è una piccola miniera, dipoco rendimento e lasciata per questo in uno stadio pri-mitivo. Il capo è poco piú d’un operaio, un uomo ancoragiovine portato là da un istinto di solitudine o diventatoselvatico per effetto della solitudine. Fa amicizia conMarzia, che lo introduce in casa e stabilisce una speciedi accordo tra il padre e lui. Il giovine ha la convinzioneche la vita sia bella e che basti volervi scendere e che ungiorno egli si deciderà a scendervi. Il vecchio non dice

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niente. Quello che scrive, soltanto Marzia lo sa, perchélegge di nascosto.

Sulla montagna si stende il lungo e pesante inverno.Poi finisce. Un’altra volta si può sentire la primaveraanche tra quelle metalliche rocce. Una notte il vecchio,svegliato da un accesso, scopre che la figlia non è incasa; la vede poi rientrare di nascosto. Marzia gli dicesubito che viene dalla casa del loro amico, dov’è andataaltre notti, da tempo, e che si sposeranno presto perchéuna creatura è in cammino. Tutto è accaduto come sequalcuno al disopra di loro abbia comandato ed essi ab-biano obbedito; ma ella ha sentita la necessità di tacerecol padre, di vivere segretamente, come se egli non vo-lesse piú che si vivesse. Immediatamente il vecchio lamanda a chiamare l’uomo. Pensa a ciò che la vita ha fat-to mentre egli voleva distruggerla scrivendo. Ma questavolta l’assalto del suo male è l’ultimo, è la morte cheviene. Pensa al figlio morto, alla famiglia spezzata, allafiglia che si unisce ad un uomo povero e rozzo. Tutto ècolpa sua. Ha bisogno di chiedere perdono. Dice: «Per-donatemi, mio Dio». Si inginocchia e a Dio chiede per-dono anche di quello che ha scritto per maledire la vita.Deve distruggerlo, quello che ha scritto, perché dopo lasua morte non sia letto nemmeno da un solo. Gli mancail respiro, non può rialzarsi, non potrà mai arrivare finoa quei fogli, gettarli nel camino, bruciarli! Invece, congrandi sforzi, cercando ad ogni tratto l’aria che gli man-ca, riesce a far tutto. Le carte fanno una gran fiamma,sono distrutte quando Marzia e l’uomo giungono. Ai

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niente. Quello che scrive, soltanto Marzia lo sa, perchélegge di nascosto.

Sulla montagna si stende il lungo e pesante inverno.Poi finisce. Un’altra volta si può sentire la primaveraanche tra quelle metalliche rocce. Una notte il vecchio,svegliato da un accesso, scopre che la figlia non è incasa; la vede poi rientrare di nascosto. Marzia gli dicesubito che viene dalla casa del loro amico, dov’è andataaltre notti, da tempo, e che si sposeranno presto perchéuna creatura è in cammino. Tutto è accaduto come sequalcuno al disopra di loro abbia comandato ed essi ab-biano obbedito; ma ella ha sentita la necessità di tacerecol padre, di vivere segretamente, come se egli non vo-lesse piú che si vivesse. Immediatamente il vecchio lamanda a chiamare l’uomo. Pensa a ciò che la vita ha fat-to mentre egli voleva distruggerla scrivendo. Ma questavolta l’assalto del suo male è l’ultimo, è la morte cheviene. Pensa al figlio morto, alla famiglia spezzata, allafiglia che si unisce ad un uomo povero e rozzo. Tutto ècolpa sua. Ha bisogno di chiedere perdono. Dice: «Per-donatemi, mio Dio». Si inginocchia e a Dio chiede per-dono anche di quello che ha scritto per maledire la vita.Deve distruggerlo, quello che ha scritto, perché dopo lasua morte non sia letto nemmeno da un solo. Gli mancail respiro, non può rialzarsi, non potrà mai arrivare finoa quei fogli, gettarli nel camino, bruciarli! Invece, congrandi sforzi, cercando ad ogni tratto l’aria che gli man-ca, riesce a far tutto. Le carte fanno una gran fiamma,sono distrutte quando Marzia e l’uomo giungono. Ai

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due che lo guardano attoniti giacente a terra presso quel-la cenere, il vecchio può ancora dire: «Parlate di me avostro figlio».

Graziano, ricordando là il proprio lavoro, provavauna soddisfazione di non essere vissuto in quegli ultimimesi per nulla. A Claudia, intanto, s’era avvicinata Ga-briella per darle in custodia il cappello che s’era tolto;ravviandole gli scuri capelli cadenti sulle spalle, la si-gnora disse: – Ti piace la pineta? È per voi. Ci verretesempre sempre.

— Anche tu, mamma, ci verrai sempre.— Ma sí, cara, certamente.— Come sei bella! – soggiunse piano la bambina.Claudia indossava una giacca leggera di panno grigio,

dalla quale sgorgava sul petto la gala arricciata d’unacamicetta rosa; sul piccolo cappello di paglia portavauna spuma di tulle rosa; ed aveva un viso molto giovine,felice. Gabriella si allontanò, questa volta correndo, e simise a raccogliere margherite sotto i pini. Disceso daiponti, Graziano venne accanto alla madre a domandarlese avesse visto dove ora vivevano i Crivelli; seguito dalei, si portò sopra un rialzo del terreno, le indicò sulfianco d’una stretta valle, molto in basso e già in ombra,un podere dove anche le coltivazioni avevano un’appa-renza di vecchiaia e povertà, come il caseggiato, cheaveva accosto due soli alberi, due gran pioppi messi insimmetria.

— Non c’è confronto con l’Amistà, povera gente! –disse Claudia.

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due che lo guardano attoniti giacente a terra presso quel-la cenere, il vecchio può ancora dire: «Parlate di me avostro figlio».

Graziano, ricordando là il proprio lavoro, provavauna soddisfazione di non essere vissuto in quegli ultimimesi per nulla. A Claudia, intanto, s’era avvicinata Ga-briella per darle in custodia il cappello che s’era tolto;ravviandole gli scuri capelli cadenti sulle spalle, la si-gnora disse: – Ti piace la pineta? È per voi. Ci verretesempre sempre.

— Anche tu, mamma, ci verrai sempre.— Ma sí, cara, certamente.— Come sei bella! – soggiunse piano la bambina.Claudia indossava una giacca leggera di panno grigio,

dalla quale sgorgava sul petto la gala arricciata d’unacamicetta rosa; sul piccolo cappello di paglia portavauna spuma di tulle rosa; ed aveva un viso molto giovine,felice. Gabriella si allontanò, questa volta correndo, e simise a raccogliere margherite sotto i pini. Disceso daiponti, Graziano venne accanto alla madre a domandarlese avesse visto dove ora vivevano i Crivelli; seguito dalei, si portò sopra un rialzo del terreno, le indicò sulfianco d’una stretta valle, molto in basso e già in ombra,un podere dove anche le coltivazioni avevano un’appa-renza di vecchiaia e povertà, come il caseggiato, cheaveva accosto due soli alberi, due gran pioppi messi insimmetria.

— Non c’è confronto con l’Amistà, povera gente! –disse Claudia.

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Vicino a loro stava cercando un travicello in un muc-chio di legname un muratore che all’Amistà era venutoqualche volta per brevi lavori, un ometto di pelle scura edi bianchissimi capelli. – L’Amistà, signora, non c’è piú– disse con timidezza.

Essendo Casimiro Gallant morto senza testamento, inipoti avevano vendute le possessioni agli ebrei di Reb-bia; questi ebrei avevano un grande negozio, pieno diroba, dove attiravano tutti i contadini dei dintorni conbelle stoffe, con gli ori per le spose; vendevano anche acredito, pigliando le cambiali; ma il negozio serviva acoprire un altro commercio. Sempre umili e servizievo-li, conoscendo la campagna palmo a palmo entro un rag-gio di cinquanta miglia, e gli affari di tutti, i buoni ebreimettevano le mani sulle terre dei piccoli proprietari edanche dei signori dissestati, per rivenderle a bracciacome se fossero stoffa, disfacendo le vecchie ville e ipoderi. Claudia sapeva che l’Amistà era andata divisacosí tra i contadini dei dintorni, i quali avevano distruttii boschetti, prosciugato lo stagno, levato ogni ornamen-to, dispersi i ricordi; ma non voleva sentirne parlare.

— Per fortuna – rispose – di qua non la vediamo.Guardando la casa dei pioppi, Graziano pensava a

Dionisio lo svogliato, che adesso era in Francia e nei la-vori d’una ferrovia portava a spalla le rotaie. La madregli passò una mano sotto braccio, si avanzò con lui entroun gruppo di pini che stavano proprio nel punto piú altodel colle; quindi uscí in pieno sole ed aperse l’ombrelli-no, cupola stretta con un largo bordo volante, piuttosto

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Vicino a loro stava cercando un travicello in un muc-chio di legname un muratore che all’Amistà era venutoqualche volta per brevi lavori, un ometto di pelle scura edi bianchissimi capelli. – L’Amistà, signora, non c’è piú– disse con timidezza.

Essendo Casimiro Gallant morto senza testamento, inipoti avevano vendute le possessioni agli ebrei di Reb-bia; questi ebrei avevano un grande negozio, pieno diroba, dove attiravano tutti i contadini dei dintorni conbelle stoffe, con gli ori per le spose; vendevano anche acredito, pigliando le cambiali; ma il negozio serviva acoprire un altro commercio. Sempre umili e servizievo-li, conoscendo la campagna palmo a palmo entro un rag-gio di cinquanta miglia, e gli affari di tutti, i buoni ebreimettevano le mani sulle terre dei piccoli proprietari edanche dei signori dissestati, per rivenderle a bracciacome se fossero stoffa, disfacendo le vecchie ville e ipoderi. Claudia sapeva che l’Amistà era andata divisacosí tra i contadini dei dintorni, i quali avevano distruttii boschetti, prosciugato lo stagno, levato ogni ornamen-to, dispersi i ricordi; ma non voleva sentirne parlare.

— Per fortuna – rispose – di qua non la vediamo.Guardando la casa dei pioppi, Graziano pensava a

Dionisio lo svogliato, che adesso era in Francia e nei la-vori d’una ferrovia portava a spalla le rotaie. La madregli passò una mano sotto braccio, si avanzò con lui entroun gruppo di pini che stavano proprio nel punto piú altodel colle; quindi uscí in pieno sole ed aperse l’ombrelli-no, cupola stretta con un largo bordo volante, piuttosto

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Page 247: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

per rimanere del tutto sola col figlio che per ripararsi: –Devo dirti una cosa che mi addolora. Tra il babbo e tesento una distanza che cresce sempre. Mi pare che ab-biate rinunziato a comprendervi. Perché? Tu non ritornimai alla clinica, non mostri alcun interesse per questabella opera di tuo padre, cosí importante, cosí fortunata.Dell’università non parli. E non fai niente perché egli siinteressi della tua vera ambizione. Non c’è senso. È unmalinteso che deve finire.

Graziano strisciava la punta d’un piede sul terreno,tra l’erba rada e gli aghi caduti dai pini, senza saper chedire. – No, – insisté la madre – voglio che vi parliate.Dovete aver fiducia l’uno nell’altro, esser franchi. A meil dramma da leggere l’hai dato; perché non lo dài ancheal babbo? Bisogna che veda quel che sai fare.

— Hai ragione – disse il giovine. – Glielo darò. Ungiorno vado alla clinica e gli porto il dramma. Forse do-mani. – Col braccio premé forte la mano della madre,che di nuovo lo teneva. Mandando lo sguardo fino al li-mite dell’orizzonte, respirando l’aria sottile, aveva lasensazione di bere come un nèttare anche la luce.

Alle loro spalle una voce di donna, vicina, chiamòcon riguardo: – Signora Claudia! – Si volsero e videroMariolina. Vestita bene, con un fazzoletto di seta biancaa fiorami ricadente dal capo sulla schiena come un cap-puccio, con un grembiale di seta nera ben lucida, Mario-lina era sempre la stessa: trecce piú nere che grige, oc-chi neri piccoli vispi, pomelli rosei con venuzze viola.Informata dal figlio che quel giorno era attesa alla pine-

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per rimanere del tutto sola col figlio che per ripararsi: –Devo dirti una cosa che mi addolora. Tra il babbo e tesento una distanza che cresce sempre. Mi pare che ab-biate rinunziato a comprendervi. Perché? Tu non ritornimai alla clinica, non mostri alcun interesse per questabella opera di tuo padre, cosí importante, cosí fortunata.Dell’università non parli. E non fai niente perché egli siinteressi della tua vera ambizione. Non c’è senso. È unmalinteso che deve finire.

Graziano strisciava la punta d’un piede sul terreno,tra l’erba rada e gli aghi caduti dai pini, senza saper chedire. – No, – insisté la madre – voglio che vi parliate.Dovete aver fiducia l’uno nell’altro, esser franchi. A meil dramma da leggere l’hai dato; perché non lo dài ancheal babbo? Bisogna che veda quel che sai fare.

— Hai ragione – disse il giovine. – Glielo darò. Ungiorno vado alla clinica e gli porto il dramma. Forse do-mani. – Col braccio premé forte la mano della madre,che di nuovo lo teneva. Mandando lo sguardo fino al li-mite dell’orizzonte, respirando l’aria sottile, aveva lasensazione di bere come un nèttare anche la luce.

Alle loro spalle una voce di donna, vicina, chiamòcon riguardo: – Signora Claudia! – Si volsero e videroMariolina. Vestita bene, con un fazzoletto di seta biancaa fiorami ricadente dal capo sulla schiena come un cap-puccio, con un grembiale di seta nera ben lucida, Mario-lina era sempre la stessa: trecce piú nere che grige, oc-chi neri piccoli vispi, pomelli rosei con venuzze viola.Informata dal figlio che quel giorno era attesa alla pine-

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ta la visita della signora, aveva voluto venire a riverirla.Presentò un canestro piuttosto grande nel quale, tra fo-glie di fico e di vite, erano baccelli teneri, ciliege, zuc-chine, ed in cima al resto quattro uova enormi, candidecome la neve. Lo porgeva senza dire nulla, guardandofisso con quelle pupille lustre che non si capiva mai sevolessero ridere o piangere.

— O Mariolina! – esclamò Claudia con stupore. Pen-sava ch’ella venisse dal palazzo degli Andosio, dal tem-po di sua madre e di suo padre. L’abbracciò, la baciò,badando a non far danno al bel canestro. Poi subito videspuntar dalla strada e venire verso loro, ora correndo orafermandosi esitanti, con occhi larghi e col viso lavatoche pareva troppo bianco, i fanciulli della casa colonicada poco tempo acquistata: una ragazzetta a cui era statomesso un nastro di velluto intorno ai capelli bagnati, an-cora rigati dal pettine, ed un suo fratello minore, vestitocome alla domenica, con le scarpe, entrambi magri eselvatici. Ciascuno di loro teneva a due mani un mazzodi felci e fiori, non sapeva piú che farne.

— Per me? – domandò Claudia tendendo le braccia.Il muratore dai capelli bianchi guardava dall’alto d’un

ponte e disse: – Vedete, signora? Tutti vi fanno onore.

* * *

Metello Farra, seduto al tavolino troppo piccolo sottola lampada elettrica appesa al soffitto, sfogliava mucchidi carte; intorno a lui erano sparsi sul pavimento della

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ta la visita della signora, aveva voluto venire a riverirla.Presentò un canestro piuttosto grande nel quale, tra fo-glie di fico e di vite, erano baccelli teneri, ciliege, zuc-chine, ed in cima al resto quattro uova enormi, candidecome la neve. Lo porgeva senza dire nulla, guardandofisso con quelle pupille lustre che non si capiva mai sevolessero ridere o piangere.

— O Mariolina! – esclamò Claudia con stupore. Pen-sava ch’ella venisse dal palazzo degli Andosio, dal tem-po di sua madre e di suo padre. L’abbracciò, la baciò,badando a non far danno al bel canestro. Poi subito videspuntar dalla strada e venire verso loro, ora correndo orafermandosi esitanti, con occhi larghi e col viso lavatoche pareva troppo bianco, i fanciulli della casa colonicada poco tempo acquistata: una ragazzetta a cui era statomesso un nastro di velluto intorno ai capelli bagnati, an-cora rigati dal pettine, ed un suo fratello minore, vestitocome alla domenica, con le scarpe, entrambi magri eselvatici. Ciascuno di loro teneva a due mani un mazzodi felci e fiori, non sapeva piú che farne.

— Per me? – domandò Claudia tendendo le braccia.Il muratore dai capelli bianchi guardava dall’alto d’un

ponte e disse: – Vedete, signora? Tutti vi fanno onore.

* * *

Metello Farra, seduto al tavolino troppo piccolo sottola lampada elettrica appesa al soffitto, sfogliava mucchidi carte; intorno a lui erano sparsi sul pavimento della

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cameraccia fascicoli degli atti parlamentari e giornali;poiché la notte era calda, stava senza giacca, a collonudo, ed ogni tanto beveva un sorso dell’acqua conghiaccio che teneva in un bicchierone; poi rimaneva im-mobile a pensare, stiracchiandosi uno dei lunghi baffirossicci, attorcigliati e pendenti. Attraverso la ringhieradel balcone vedeva giú, sul ripiano marmoreo di piazzaNavona, il banco d’un venditore di cocomeri con i globiverdi e le mezzelune rosa e con la gente che si movevadavanti ad una fiammella d’acetilene. Insieme al frusciodelle tre fontane venivano scoppi di voci, risate, lechiacchiere delle donne radunate sulle panche.

Il dibattito alla Camera durava da tre giorni; sulla ri-chiesta del governo, di altri milioni per nuovi armamen-ti, avevano già parlato quasi tutti i piú noti oratori deipartiti, alcuni ascoltati, altri coperti d’invettive; l’indo-mani doveva parlare lui, ultimo dei socialisti nell’ultimaseduta, come il gruppo aveva stabilito, dando l’attaccofinale con l’arma segreta che possedeva. Riudiva i tu-multi dell’assemblea, sentiva quell’aria ardente nellaquale s’incrociavano ingiurie, motti corrosivi, scherni.Nel bicchiere non era ormai rimasto che un ditod’acqua: egli lo bevve, quindi si versò in una manol’ultimo pezzo di ghiaccio, lo sgretolò coi denti robusti.Una politica di grandezze, denaro per i cannoni e lenavi, mentre tanta parte del paese si trovava in arretratocon la civiltà e la gente affamata gridava invano perchéle fossero date da lavorare le terre incolte. Altri milioni!Il presidente del consiglio era forse un uomo onesto, ma

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cameraccia fascicoli degli atti parlamentari e giornali;poiché la notte era calda, stava senza giacca, a collonudo, ed ogni tanto beveva un sorso dell’acqua conghiaccio che teneva in un bicchierone; poi rimaneva im-mobile a pensare, stiracchiandosi uno dei lunghi baffirossicci, attorcigliati e pendenti. Attraverso la ringhieradel balcone vedeva giú, sul ripiano marmoreo di piazzaNavona, il banco d’un venditore di cocomeri con i globiverdi e le mezzelune rosa e con la gente che si movevadavanti ad una fiammella d’acetilene. Insieme al frusciodelle tre fontane venivano scoppi di voci, risate, lechiacchiere delle donne radunate sulle panche.

Il dibattito alla Camera durava da tre giorni; sulla ri-chiesta del governo, di altri milioni per nuovi armamen-ti, avevano già parlato quasi tutti i piú noti oratori deipartiti, alcuni ascoltati, altri coperti d’invettive; l’indo-mani doveva parlare lui, ultimo dei socialisti nell’ultimaseduta, come il gruppo aveva stabilito, dando l’attaccofinale con l’arma segreta che possedeva. Riudiva i tu-multi dell’assemblea, sentiva quell’aria ardente nellaquale s’incrociavano ingiurie, motti corrosivi, scherni.Nel bicchiere non era ormai rimasto che un ditod’acqua: egli lo bevve, quindi si versò in una manol’ultimo pezzo di ghiaccio, lo sgretolò coi denti robusti.Una politica di grandezze, denaro per i cannoni e lenavi, mentre tanta parte del paese si trovava in arretratocon la civiltà e la gente affamata gridava invano perchéle fossero date da lavorare le terre incolte. Altri milioni!Il presidente del consiglio era forse un uomo onesto, ma

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privo di forza, minato da una malattia; ed alle sue spallecerti ministri curavano indubbiamente i loro affari aiu-tando quelli della grande industria. Nel mondo un impe-ratore faceva spettacolose parate di truppe e pronunzia-va discorsi lampeggianti e tonanti; gli eserciti delle na-zioni maggiori diventavano sempre piú numerosi, pos-sedevano armi sempre piú micidiali; quelle nazioni con-tendevano tra loro per gli ultimi lembi di terra vergineche rimanevano sul globo. Pompe medioevali, rumor diferro, massacri, la guerra continuamente ripresa qua elà, fuoco mai spento. La scienza in rapido progressocambiava l’aspetto del mondo, ma la guerra duravasempre, il sistema dell’età della pietra. Soltanto un ac-cordo dei lavoratori d’ogni nazione e razza, unione dimasse enormi, lo poteva abolire.

Troppe idee, troppe cose: il discorso doveva inveceessere breve, un urto violento, di sorpresa. Con affannoMetello girava lo sguardo nella camera dozzinale; fissa-va una donna a lui sconosciuta, maestosa, che dalla cor-nice d’un ingrandimento fotografico guardava amezz’aria con un sorriso di trent’anni prima. L’essenzia-le era che i milioni per gli armamenti non cadessero nel-le mani di quegli uomini sospetti; ad ottenere lo scopodoveva bastare l’argomento segreto di cui era in posses-so: i prezzi delle forniture nei contratti già conclusi dalgoverno, dei quali era riuscito ad avere le copie. Si misea scrivere intingendo la penna in una boccetta da pochisoldi, con le larghe spalle, le braccia ed il grosso capo insudore radunati sul tavolino, per costringersi a tracciare

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privo di forza, minato da una malattia; ed alle sue spallecerti ministri curavano indubbiamente i loro affari aiu-tando quelli della grande industria. Nel mondo un impe-ratore faceva spettacolose parate di truppe e pronunzia-va discorsi lampeggianti e tonanti; gli eserciti delle na-zioni maggiori diventavano sempre piú numerosi, pos-sedevano armi sempre piú micidiali; quelle nazioni con-tendevano tra loro per gli ultimi lembi di terra vergineche rimanevano sul globo. Pompe medioevali, rumor diferro, massacri, la guerra continuamente ripresa qua elà, fuoco mai spento. La scienza in rapido progressocambiava l’aspetto del mondo, ma la guerra duravasempre, il sistema dell’età della pietra. Soltanto un ac-cordo dei lavoratori d’ogni nazione e razza, unione dimasse enormi, lo poteva abolire.

Troppe idee, troppe cose: il discorso doveva inveceessere breve, un urto violento, di sorpresa. Con affannoMetello girava lo sguardo nella camera dozzinale; fissa-va una donna a lui sconosciuta, maestosa, che dalla cor-nice d’un ingrandimento fotografico guardava amezz’aria con un sorriso di trent’anni prima. L’essenzia-le era che i milioni per gli armamenti non cadessero nel-le mani di quegli uomini sospetti; ad ottenere lo scopodoveva bastare l’argomento segreto di cui era in posses-so: i prezzi delle forniture nei contratti già conclusi dalgoverno, dei quali era riuscito ad avere le copie. Si misea scrivere intingendo la penna in una boccetta da pochisoldi, con le larghe spalle, le braccia ed il grosso capo insudore radunati sul tavolino, per costringersi a tracciare

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uno schema del discorso; non si mosse prima d’aver fi-nito. Allora s’alzò subito, spazzando via col piede lacarta sparsa sul pavimento. Si accorse che dalla piazzaveniva un po’ di fresco e che non vi era piú gente. Uscísul balcone, ad un’estremità del lungo spazio chiuso in-torno al quale case palazzi chiese giravano ad elissi; so-pra la piattaforma di marmo le fontane eran rimaste solee parevano scrosciare piú forte. Asciugandosi la frontepiena di quelle cose che avrebbe dette, Metello pensavacon piacere all’indomani.

In quei giorni era a Roma anche Graziano, per la pri-ma volta. Lo zio doveva accompagnarlo da un attore deipiú famosi, al quale portare il dramma; bisognava aspet-tare che ne avesse il tempo. Come le schiere dei pelle-grini, come le file di vetture cariche di forestieri, il gio-vine andava per la città da mattina a sera. Talvolta aveval’impressione di vivere in uno degli innumerevoli «al-bum» di vedute; con noia ritrovava nelle vetrine sempregli stessi cammei, le sciarpe romane, le Veneri scolpitein un marmo simile allo zucchero. Roma gli sembravabizzarra. I monumenti antichi, coi custodi servili, conl’aspetto di abbandono, in mezzo a quartieri vecchi epoveri, s’impiccolivano; molto difficile era pensare chele colonne, le rotte murature delle terme, gli archi fosse-ro mai stati opere intatte, cose vive; alla gran fossa delForo Traiano s’avvicinavano vecchie portanti gli avanzidella loro cucina ai gatti gettati là; nei quartieri papali,rimasti in dominio di osti e carbonai, era un brulicare diplebe ciabattona; nelle tinozze imperiali delle fontane

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uno schema del discorso; non si mosse prima d’aver fi-nito. Allora s’alzò subito, spazzando via col piede lacarta sparsa sul pavimento. Si accorse che dalla piazzaveniva un po’ di fresco e che non vi era piú gente. Uscísul balcone, ad un’estremità del lungo spazio chiuso in-torno al quale case palazzi chiese giravano ad elissi; so-pra la piattaforma di marmo le fontane eran rimaste solee parevano scrosciare piú forte. Asciugandosi la frontepiena di quelle cose che avrebbe dette, Metello pensavacon piacere all’indomani.

In quei giorni era a Roma anche Graziano, per la pri-ma volta. Lo zio doveva accompagnarlo da un attore deipiú famosi, al quale portare il dramma; bisognava aspet-tare che ne avesse il tempo. Come le schiere dei pelle-grini, come le file di vetture cariche di forestieri, il gio-vine andava per la città da mattina a sera. Talvolta aveval’impressione di vivere in uno degli innumerevoli «al-bum» di vedute; con noia ritrovava nelle vetrine sempregli stessi cammei, le sciarpe romane, le Veneri scolpitein un marmo simile allo zucchero. Roma gli sembravabizzarra. I monumenti antichi, coi custodi servili, conl’aspetto di abbandono, in mezzo a quartieri vecchi epoveri, s’impiccolivano; molto difficile era pensare chele colonne, le rotte murature delle terme, gli archi fosse-ro mai stati opere intatte, cose vive; alla gran fossa delForo Traiano s’avvicinavano vecchie portanti gli avanzidella loro cucina ai gatti gettati là; nei quartieri papali,rimasti in dominio di osti e carbonai, era un brulicare diplebe ciabattona; nelle tinozze imperiali delle fontane

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galleggiavano i rifiuti dei mercati che agitavan colori estrepito intorno ai massicci palazzi principeschi. Appenasi scantonava dalle vie nuove, nelle quali sfoggiavanoarchitetture di stucco i ministeri e le banche, si era inuna vita meschina e meridionale dove la gente si parlavadalle finestre e tra i cartelli delle camere da affittare ri-secchivano le corone d’alloro appese alle lapidi patriot-tiche.

Ma cos’era il respiro che in tanti luoghi si sentivauscire dagli edifizi, dai ruderi? Gli obelischi, le epigrafiimperiali, il triregno e le chiavi dei papi, enormi, incima alle facciate, tutte le antiche pietre mostravano unaforza prodigiosa. In quelle giornate di giugno senza unanuvola Graziano sentiva una grandezza violenta, appenasopportabile, manifestarsi anche nel cielo, nel sole, neicaldi colori che ovunque dicevano Roma, nelle forme enel vigore di tutto ciò che nasceva dalla terra, pini ci-pressi oleandri palme allori, i quali dicevano RomaRoma. Imparando a conoscere il Palatino coperto diquell’ardore e di silenzio, le basiliche che alzavano santigiganteschi a picco sulle piazze abbaglianti, il tragittosenza principio né fine della via Appia antica in mezzoalla campagna infocata dal tramonto, il Campidogliosotto una volta notturna, egli sapeva di fare un acquistodefinitivo. In quei luoghi era espressa una verità solen-ne, alta, qualcosa d’invariabile che si voleva compren-dere e non si poteva. Forse, come un’aura, sopravvivevaun poco il sentimento di quella vita antica, piena d’unameravigliosa fiducia nella potenza umana.

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galleggiavano i rifiuti dei mercati che agitavan colori estrepito intorno ai massicci palazzi principeschi. Appenasi scantonava dalle vie nuove, nelle quali sfoggiavanoarchitetture di stucco i ministeri e le banche, si era inuna vita meschina e meridionale dove la gente si parlavadalle finestre e tra i cartelli delle camere da affittare ri-secchivano le corone d’alloro appese alle lapidi patriot-tiche.

Ma cos’era il respiro che in tanti luoghi si sentivauscire dagli edifizi, dai ruderi? Gli obelischi, le epigrafiimperiali, il triregno e le chiavi dei papi, enormi, incima alle facciate, tutte le antiche pietre mostravano unaforza prodigiosa. In quelle giornate di giugno senza unanuvola Graziano sentiva una grandezza violenta, appenasopportabile, manifestarsi anche nel cielo, nel sole, neicaldi colori che ovunque dicevano Roma, nelle forme enel vigore di tutto ciò che nasceva dalla terra, pini ci-pressi oleandri palme allori, i quali dicevano RomaRoma. Imparando a conoscere il Palatino coperto diquell’ardore e di silenzio, le basiliche che alzavano santigiganteschi a picco sulle piazze abbaglianti, il tragittosenza principio né fine della via Appia antica in mezzoalla campagna infocata dal tramonto, il Campidogliosotto una volta notturna, egli sapeva di fare un acquistodefinitivo. In quei luoghi era espressa una verità solen-ne, alta, qualcosa d’invariabile che si voleva compren-dere e non si poteva. Forse, come un’aura, sopravvivevaun poco il sentimento di quella vita antica, piena d’unameravigliosa fiducia nella potenza umana.

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A casa, suo padre era venuto una notte a risvegliarlo;aveva letto allora il dramma, s’era commosso ed avevasubito voluto dirgli che lasciasse pure gli studi di medi-cina, che non pensasse a dare esami ma invece a trovarechi lo rappresentasse degnamente. Graziano tornavaspesso a questo ricordo, godendone sempre come d’unmomento in cui fosse stato liberato e restituito a se stes-so. Il babbo era rimasto un pezzo a discorrere presso ilsuo letto e nell’andarsene lo aveva baciato. Ma qui aRoma quell’opera nella quale la vita era veduta con tri-stezza ed accettata per una specie di legge oscura, glipareva stranamente diversa dalla gente che egli si vede-va attorno; deputati, affittacamere, uomini d’affari, belledonne carnali e vane, la plebe dei vicoli, gli avventoridelle osterie, la folla, tutti badavano ai fatti loro, si da-vano bel tempo, motteggiavano, cercavano il denaro, lafortuna, tiravano a campare – come il popolo diceva –senza bisogno di ragionarci su.

— Va a Villa d’Este, al lago di Nemi! – gli era statorisposto dallo zio quando aveva mostrato desiderio diassistere alle sedute della Camera. Non poteva mai avvi-cinarlo; ritornava sovente all’albergo per vedere se gliavesse scritto. La lettera giunse il giorno nel quale si sa-peva che Metello doveva parlare, e l’appuntamento eraper la sera stessa. Furono ore d’impazienza. Mentre arri-vava dal mare un vento leggero ed incominciava il pas-seggio, i giornali pomeridiani, sparsi dalle bande di stril-loni invadenti le vie con urli e facce di ossessi, recaronole prime impressioni del violento attacco e della seduta

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A casa, suo padre era venuto una notte a risvegliarlo;aveva letto allora il dramma, s’era commosso ed avevasubito voluto dirgli che lasciasse pure gli studi di medi-cina, che non pensasse a dare esami ma invece a trovarechi lo rappresentasse degnamente. Graziano tornavaspesso a questo ricordo, godendone sempre come d’unmomento in cui fosse stato liberato e restituito a se stes-so. Il babbo era rimasto un pezzo a discorrere presso ilsuo letto e nell’andarsene lo aveva baciato. Ma qui aRoma quell’opera nella quale la vita era veduta con tri-stezza ed accettata per una specie di legge oscura, glipareva stranamente diversa dalla gente che egli si vede-va attorno; deputati, affittacamere, uomini d’affari, belledonne carnali e vane, la plebe dei vicoli, gli avventoridelle osterie, la folla, tutti badavano ai fatti loro, si da-vano bel tempo, motteggiavano, cercavano il denaro, lafortuna, tiravano a campare – come il popolo diceva –senza bisogno di ragionarci su.

— Va a Villa d’Este, al lago di Nemi! – gli era statorisposto dallo zio quando aveva mostrato desiderio diassistere alle sedute della Camera. Non poteva mai avvi-cinarlo; ritornava sovente all’albergo per vedere se gliavesse scritto. La lettera giunse il giorno nel quale si sa-peva che Metello doveva parlare, e l’appuntamento eraper la sera stessa. Furono ore d’impazienza. Mentre arri-vava dal mare un vento leggero ed incominciava il pas-seggio, i giornali pomeridiani, sparsi dalle bande di stril-loni invadenti le vie con urli e facce di ossessi, recaronole prime impressioni del violento attacco e della seduta

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che durava ancora. In mezzo al testo del discorso figura-va il ritratto del deputato Farra; sui marciapiedi, nei caf-fè, sulla soglia delle botteghe tutti leggevano ciò cheMetello aveva detto: «Invece di fucili, che poi farebberofuoco nelle nostre piazze, invece di cannoni per conqui-stare sabbie africane, date all’Italia delle scuole, datel’acqua, date medici a quelle popolazioni nostre che nesono prive; se volete della terra, strappate le paludi allamalaria! Voi stendete il tricolore e ci dite: – Qua sottonon dovete ficcar lo sguardo. – Ma noi rivendichiamoinesorabilmente il diritto di vedere i conti. Vogliamo sa-pere quale uso è fatto del denaro pubblico. Il denaro delpopolo, la sua fatica, li vogliamo difendere come difen-diamo il suo sangue! Oggi i conti noi ve li abbiamo fattie vi diciamo: Giú le mani da questo denaro!»

In piazza Montecitorio, tra l’obelisco e i gradini delParlamento, una folla sempre piú densa guardava l’altafacciata sulla quale una smisurata bandiera era agitatadalla brezza; osservava la livrea del guardaportone e idue soldati di sentinella. Informazioni venute non si sa-peva come: – Parla il presidente del consiglio. È comin-ciata la votazione. – Dalla torretta dell’orologio scende-vano i rintocchi che segnavano anche i quarti con suonibriosi; tutt’intorno alla piazza si radunavano le carrozzee carrozzelle che avrebbero portati via i deputati; il solenon colpiva piú che i tetti degli edifizi, mostrando vec-chie terrazze e fumaioli. Dal Parlamento vennero fuoricorrendo dei fattorini, poi incominciarono ad uscire al-cuni deputati, alla spicciolata, con qualcosa d’insolito

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che durava ancora. In mezzo al testo del discorso figura-va il ritratto del deputato Farra; sui marciapiedi, nei caf-fè, sulla soglia delle botteghe tutti leggevano ciò cheMetello aveva detto: «Invece di fucili, che poi farebberofuoco nelle nostre piazze, invece di cannoni per conqui-stare sabbie africane, date all’Italia delle scuole, datel’acqua, date medici a quelle popolazioni nostre che nesono prive; se volete della terra, strappate le paludi allamalaria! Voi stendete il tricolore e ci dite: – Qua sottonon dovete ficcar lo sguardo. – Ma noi rivendichiamoinesorabilmente il diritto di vedere i conti. Vogliamo sa-pere quale uso è fatto del denaro pubblico. Il denaro delpopolo, la sua fatica, li vogliamo difendere come difen-diamo il suo sangue! Oggi i conti noi ve li abbiamo fattie vi diciamo: Giú le mani da questo denaro!»

In piazza Montecitorio, tra l’obelisco e i gradini delParlamento, una folla sempre piú densa guardava l’altafacciata sulla quale una smisurata bandiera era agitatadalla brezza; osservava la livrea del guardaportone e idue soldati di sentinella. Informazioni venute non si sa-peva come: – Parla il presidente del consiglio. È comin-ciata la votazione. – Dalla torretta dell’orologio scende-vano i rintocchi che segnavano anche i quarti con suonibriosi; tutt’intorno alla piazza si radunavano le carrozzee carrozzelle che avrebbero portati via i deputati; il solenon colpiva piú che i tetti degli edifizi, mostrando vec-chie terrazze e fumaioli. Dal Parlamento vennero fuoricorrendo dei fattorini, poi incominciarono ad uscire al-cuni deputati, alla spicciolata, con qualcosa d’insolito

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nell’aspetto. Subito la piazza seppe che il ministero eracaduto. Intanto dal portone prese a sgorgare tutta la mol-titudine dei deputati, la maggior parte uniti in frotte cheparlavano concitatamente. Le vetture, movendosi, co-persero il rumorío della folla; ma si udirono degli abbas-so e degli evviva alzarsi qua e là, e molte voci gridava-no: «Viva Farra». Nelle vie del centro non tardarono adirrompere un’altra volta gli strilloni con l’edizionestraordinaria; ripetendo incessantemente la notizia conquella rabbia, parevano correre e sfiatarsi soltanto per-ché tutti sapessero ciò che era accaduto; i fogli si move-vano ovunque, si moltiplicavano a vista d’occhio, e dap-pertutto venivan ripetute le stesse parole, il nome Farraera su tutte le bocche, tra gesti vivaci e commenti sono-ri; nasceva anche qualche discussione. Ma per il Corso,nella passeggiata che a quell’ora si rifaceva da secoli,continuavano a scorrere le due file di equipaggi ricchi,di carrozzelle lustre col vetturino elegante, di carrozzel-le sgangherate col cavallo fiacco; intorno ai tavolini deicaffè regnavano le belle donne ingioiellate, sotto larghicappelli; e già si parlava d’altro. Al Pincio una confusio-ne lenta di signore e di ragazze nei chiari vestiti nuovi,di giovinotti, d’ufficiali, si godeva il miglior momentodi Roma, tra giorno e notte prima della cena tardiva, e laterrazza su piazza del Popolo portava gente quanta ve nepoteva stare. In basso la città si allargava densa, con legran chiese, coi vecchi tetti, mostrando i suoi colli co-perti di edifizi illustri, dentro il limite delle alture mag-giori incoronate di neri alberi, sotto un cielo ancor caldo

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nell’aspetto. Subito la piazza seppe che il ministero eracaduto. Intanto dal portone prese a sgorgare tutta la mol-titudine dei deputati, la maggior parte uniti in frotte cheparlavano concitatamente. Le vetture, movendosi, co-persero il rumorío della folla; ma si udirono degli abbas-so e degli evviva alzarsi qua e là, e molte voci gridava-no: «Viva Farra». Nelle vie del centro non tardarono adirrompere un’altra volta gli strilloni con l’edizionestraordinaria; ripetendo incessantemente la notizia conquella rabbia, parevano correre e sfiatarsi soltanto per-ché tutti sapessero ciò che era accaduto; i fogli si move-vano ovunque, si moltiplicavano a vista d’occhio, e dap-pertutto venivan ripetute le stesse parole, il nome Farraera su tutte le bocche, tra gesti vivaci e commenti sono-ri; nasceva anche qualche discussione. Ma per il Corso,nella passeggiata che a quell’ora si rifaceva da secoli,continuavano a scorrere le due file di equipaggi ricchi,di carrozzelle lustre col vetturino elegante, di carrozzel-le sgangherate col cavallo fiacco; intorno ai tavolini deicaffè regnavano le belle donne ingioiellate, sotto larghicappelli; e già si parlava d’altro. Al Pincio una confusio-ne lenta di signore e di ragazze nei chiari vestiti nuovi,di giovinotti, d’ufficiali, si godeva il miglior momentodi Roma, tra giorno e notte prima della cena tardiva, e laterrazza su piazza del Popolo portava gente quanta ve nepoteva stare. In basso la città si allargava densa, con legran chiese, coi vecchi tetti, mostrando i suoi colli co-perti di edifizi illustri, dentro il limite delle alture mag-giori incoronate di neri alberi, sotto un cielo ancor caldo

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ove la luce passava di colore in colore lentissimamente.La cupola di San Pietro svaniva, s’accendevano i lumi,le campane si mettevano a sonare tutte assieme, enell’aria si stendeva la robusta malinconia di tutte lesere romane.

In quelle ore Graziano aveva sentita la vittoria di Me-tello con una piacevole febbre. I resoconti gli avevanodata un’idea netta di quanto era successo alla Camera:Metello s’era imposto all’assemblea fin dal principio deldiscorso, malgrado gli sforzi degli avversari per darglisulla voce; il suo attacco aveva trovato un consensosempre piú vasto; alla fine la rivelazione dei prezzi ave-va prodotto un effetto profondo, prima tra un grande si-lenzio, poi scatenando un tumulto e lasciando gli avver-sari in preda al panico; la risposta data da quel presiden-te del consiglio ammalato, piú pallido del solito, nonaveva cambiata l’atmosfera; nella votazione i sí ed i noparevano colpi di fucile in un combattimento, e la diffe-renza in favore del governo era stata minima; dopo unapausa molto breve nella seduta, il presidente era rientra-to ad annunziare le dimissioni come un colpevole, tre-mando. Graziano aveva avuta un’impressione nuova diciò che era Metello.

Andò ad attendere lo zio sul portone della Posta,come gli aveva scritto. Aspettò piú di un’ora; la gentes’era diradata, il giovine aveva perduta la speranza,quando Metello arrivò, a piedi, affannato: – Non ti chie-do scusa, tu capisci le circostanze. Adesso andiamo amangiare. – Camminandogli a fianco per quelle strade

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ove la luce passava di colore in colore lentissimamente.La cupola di San Pietro svaniva, s’accendevano i lumi,le campane si mettevano a sonare tutte assieme, enell’aria si stendeva la robusta malinconia di tutte lesere romane.

In quelle ore Graziano aveva sentita la vittoria di Me-tello con una piacevole febbre. I resoconti gli avevanodata un’idea netta di quanto era successo alla Camera:Metello s’era imposto all’assemblea fin dal principio deldiscorso, malgrado gli sforzi degli avversari per darglisulla voce; il suo attacco aveva trovato un consensosempre piú vasto; alla fine la rivelazione dei prezzi ave-va prodotto un effetto profondo, prima tra un grande si-lenzio, poi scatenando un tumulto e lasciando gli avver-sari in preda al panico; la risposta data da quel presiden-te del consiglio ammalato, piú pallido del solito, nonaveva cambiata l’atmosfera; nella votazione i sí ed i noparevano colpi di fucile in un combattimento, e la diffe-renza in favore del governo era stata minima; dopo unapausa molto breve nella seduta, il presidente era rientra-to ad annunziare le dimissioni come un colpevole, tre-mando. Graziano aveva avuta un’impressione nuova diciò che era Metello.

Andò ad attendere lo zio sul portone della Posta,come gli aveva scritto. Aspettò piú di un’ora; la gentes’era diradata, il giovine aveva perduta la speranza,quando Metello arrivò, a piedi, affannato: – Non ti chie-do scusa, tu capisci le circostanze. Adesso andiamo amangiare. – Camminandogli a fianco per quelle strade

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vecchie senza sapere dove fossero diretti, Graziano dis-se qualche parola a rallegrarsi del successo. Metelloalzò le spalle: – Verrà al governo gente tale quale. – Por-tava un cappello di paglia poco diverso da quelli che sivendevano ai contadini nelle fiere, una cravatta a farfal-la, ed all’occhiello qualcuno gli aveva infilata una violadel pensiero. Prima di giungere ad una trattoria che te-neva le tavole in un cortile, fu inseguito da giornalisti,fermato da altri deputati, ma se ne liberava subito; nellatrattoria, dov’erano molti avventori, si accostarono an-cora alla sua tavola deputati e giornalisti a parlardell’avvenimento: – Un gran discorso! Giornata memo-rabile! – Rispondeva appena, senza alzare il capo dalpiatto, distruggendo in fretta un buon volume di cibo. AGraziano non badava nessuno. Involontariamente losguardo del giovine tornava sempre alla fronte di Metel-lo, al segno che la incideva da un sopracciglio ad unatempia, piú chiaro che il resto del viso; ed egli avevamolti pensieri in uno: l’uomo col quale si trovava, era ilfratello di suo padre; un giorno aveva ricevuto quel col-po d’una frusta, ora aveva rovesciato il governo. Nelcortile venne un cieco a sonare il violino, insieme aduna donna pingue che lo accompagnava colla chitarra ecantava. In un angolo della tavola, tra la caraffadell’acqua e la saliera, stava il copione del dramma diGraziano, arrotolato. – Dimmi di nuovo l’argomento –fece lo zio. – Non me lo ricordo bene. – Attraverso lamusica dei sonatori ambulanti il giovane raccontò inbreve il soggetto; parlò del vecchio che aveva voluto

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vecchie senza sapere dove fossero diretti, Graziano dis-se qualche parola a rallegrarsi del successo. Metelloalzò le spalle: – Verrà al governo gente tale quale. – Por-tava un cappello di paglia poco diverso da quelli che sivendevano ai contadini nelle fiere, una cravatta a farfal-la, ed all’occhiello qualcuno gli aveva infilata una violadel pensiero. Prima di giungere ad una trattoria che te-neva le tavole in un cortile, fu inseguito da giornalisti,fermato da altri deputati, ma se ne liberava subito; nellatrattoria, dov’erano molti avventori, si accostarono an-cora alla sua tavola deputati e giornalisti a parlardell’avvenimento: – Un gran discorso! Giornata memo-rabile! – Rispondeva appena, senza alzare il capo dalpiatto, distruggendo in fretta un buon volume di cibo. AGraziano non badava nessuno. Involontariamente losguardo del giovine tornava sempre alla fronte di Metel-lo, al segno che la incideva da un sopracciglio ad unatempia, piú chiaro che il resto del viso; ed egli avevamolti pensieri in uno: l’uomo col quale si trovava, era ilfratello di suo padre; un giorno aveva ricevuto quel col-po d’una frusta, ora aveva rovesciato il governo. Nelcortile venne un cieco a sonare il violino, insieme aduna donna pingue che lo accompagnava colla chitarra ecantava. In un angolo della tavola, tra la caraffadell’acqua e la saliera, stava il copione del dramma diGraziano, arrotolato. – Dimmi di nuovo l’argomento –fece lo zio. – Non me lo ricordo bene. – Attraverso lamusica dei sonatori ambulanti il giovane raccontò inbreve il soggetto; parlò del vecchio che aveva voluto

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uscire, vivo, dalla vita e rinnegarla, ma poi aveva vistoche essa deve sempre ricominciare. Metello, passato unbraccio all’indietro sulla spalliera della sedia, ascoltavafacendosi aria col tovagliolo. – È strano – disse poi –come ti dài pensiero di quel che valga la vita. Adesso iltuo lavoro me lo ricordo: il vecchio è disegnato bene; visono delle scene che possono scuotere il pubblico. –Trasse dal taschino un grosso orologio d’argento; sialzò.

Giunsero al teatro per una viuzza buia dove eral’ingresso degli artisti; il custode indicò la scaletta delpalcoscenico al deputato Farra con gesti di vivace sim-patia; di sopra, in una mezza oscurità, passeggiava cautoqualche attore imbellettato e vestito per la scena; attra-verso le pareti di carta si udivano vicine le voci di chirecitava, dominate da quella del celebre artista, la qualetrascinava lenta le parole e risonava cavernosa, con ungioco d’effetti che di qua parevano molto esagerati evolgari. Terminava il penultimo atto d’un vecchio dram-ma che era una delle interpretazioni piú applaudite diquell’attore e che egli rappresentava sovente. Ruggitisuoi, parole acute d’una donna, qualche passo concitato;poi un pompiere di servizio si staccò da una quinta, sisentirono gli applausi, piú o meno lontani se il velarioveniva chiuso o riaperto; la voce del grande artista stra-pazzò qualcuno, forse gli uomini dai quali il velario eramanovrato; infine, mentre i macchinisti assalivano gliscenari, egli comparve, dirigendosi al suo camerino sen-za guardare nessuno. Chiamato da Metello familiarmen-

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uscire, vivo, dalla vita e rinnegarla, ma poi aveva vistoche essa deve sempre ricominciare. Metello, passato unbraccio all’indietro sulla spalliera della sedia, ascoltavafacendosi aria col tovagliolo. – È strano – disse poi –come ti dài pensiero di quel che valga la vita. Adesso iltuo lavoro me lo ricordo: il vecchio è disegnato bene; visono delle scene che possono scuotere il pubblico. –Trasse dal taschino un grosso orologio d’argento; sialzò.

Giunsero al teatro per una viuzza buia dove eral’ingresso degli artisti; il custode indicò la scaletta delpalcoscenico al deputato Farra con gesti di vivace sim-patia; di sopra, in una mezza oscurità, passeggiava cautoqualche attore imbellettato e vestito per la scena; attra-verso le pareti di carta si udivano vicine le voci di chirecitava, dominate da quella del celebre artista, la qualetrascinava lenta le parole e risonava cavernosa, con ungioco d’effetti che di qua parevano molto esagerati evolgari. Terminava il penultimo atto d’un vecchio dram-ma che era una delle interpretazioni piú applaudite diquell’attore e che egli rappresentava sovente. Ruggitisuoi, parole acute d’una donna, qualche passo concitato;poi un pompiere di servizio si staccò da una quinta, sisentirono gli applausi, piú o meno lontani se il velarioveniva chiuso o riaperto; la voce del grande artista stra-pazzò qualcuno, forse gli uomini dai quali il velario eramanovrato; infine, mentre i macchinisti assalivano gliscenari, egli comparve, dirigendosi al suo camerino sen-za guardare nessuno. Chiamato da Metello familiarmen-

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te, si volse a guardarlo con severità; appena lo ebbe ri-conosciuto, allargò le braccia, arrotondò la bocca, cac-ciò fuori anche di piú gli occhi che sempre volevanouscirgli dalle orbite: – Farra! Quale onore! Vieni, vieni.– Come Metello fu entrato nel camerino, l’attore si misea sgombrare una delle sedie, tutte coperte di roba, conpremura dignitosa: – Ti rivedo in un gran giorno. Bravo,bravo! Sei un colosso. – La voce era quella del palco-scenico, con altro tono ed altri effetti che parevanoegualmente esagerati. Metello indicò il nipote; e tostol’attore vide il rotolo da questi tenuto tra le mani, manon diede segno d’essersene accorto; sgombrò un pocopiú adagio un’altra sedia. Tirata la tenda della porta, ri-prese a discorrere con Metello come un grand’uomo conun altro grande, come una potenza con un’altra. Metellosi rallegrò dei piú recenti successi dell’artista, parlò diun giro nelle capitali europee che era stato annunziato; equegli abbassava il capo, agitava una mano in aria comead allontanar le lodi, però gonfiandosi e mettendo fuorila voce sempre piú rotondamente. Abiti, camicie usate,tovaglie sporche pendevano dagli attaccapanni, copriva-no un baule. Graziano notò che davanti allo specchiodella toletta, crudamente illuminata da una lampadinasenza paralume, tra pettini lettere cosmetici vi erano an-che dei copioni. Sebbene robusto, l’attore ansava unpoco, per asma; facendo la parte di un vagabondo, vesti-va una giacca di velluto come nessuno ne aveva mai vi-ste indosso ai vagabondi; il suo viso, alterato grossola-namente dalla pittura e dal pelo finto appiccicato, il

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te, si volse a guardarlo con severità; appena lo ebbe ri-conosciuto, allargò le braccia, arrotondò la bocca, cac-ciò fuori anche di piú gli occhi che sempre volevanouscirgli dalle orbite: – Farra! Quale onore! Vieni, vieni.– Come Metello fu entrato nel camerino, l’attore si misea sgombrare una delle sedie, tutte coperte di roba, conpremura dignitosa: – Ti rivedo in un gran giorno. Bravo,bravo! Sei un colosso. – La voce era quella del palco-scenico, con altro tono ed altri effetti che parevanoegualmente esagerati. Metello indicò il nipote; e tostol’attore vide il rotolo da questi tenuto tra le mani, manon diede segno d’essersene accorto; sgombrò un pocopiú adagio un’altra sedia. Tirata la tenda della porta, ri-prese a discorrere con Metello come un grand’uomo conun altro grande, come una potenza con un’altra. Metellosi rallegrò dei piú recenti successi dell’artista, parlò diun giro nelle capitali europee che era stato annunziato; equegli abbassava il capo, agitava una mano in aria comead allontanar le lodi, però gonfiandosi e mettendo fuorila voce sempre piú rotondamente. Abiti, camicie usate,tovaglie sporche pendevano dagli attaccapanni, copriva-no un baule. Graziano notò che davanti allo specchiodella toletta, crudamente illuminata da una lampadinasenza paralume, tra pettini lettere cosmetici vi erano an-che dei copioni. Sebbene robusto, l’attore ansava unpoco, per asma; facendo la parte di un vagabondo, vesti-va una giacca di velluto come nessuno ne aveva mai vi-ste indosso ai vagabondi; il suo viso, alterato grossola-namente dalla pittura e dal pelo finto appiccicato, il

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capo coperto d’una pesante parrucca gialla davanol’idea d’una testa posticcia. Nel guardarlo, Grazianopensava alla rappresentazione, al dramma che si recita-va, con un vago disgusto.

Poiché Metello ebbe detto che il nipote portava un la-voro a leggere, l’attore fece al giovine un inchino teatra-le: – Comincia presto. Non avrà nemmeno vent’anni. –Tese la destra a ricevere il copione come se fosse unacosa assai preziosa, e lo posò sulla toletta con gli altri.

Già alcune volte la tenda era stata scostata con riguar-do da persone che poi l’avevan lasciata ricadere dile-guandosi; l’amministratore della compagnia invece en-trò con molte scuse, per consegnare al capocomico il fo-glio degli incassi ed un telegramma. Graziano si sentivaun ragazzo, un estraneo che non contava niente. Avendonella mente i personaggi del suo dramma con le loro pa-role, non gli sembrava possibile che prendessero l’aspet-to, la voce di questo attore e degli altri, in mezzo allepareti di carta. Letto il telegramma, il capocomico lopassò a Metello: vi era indicato il teatro definitivamentefissato per le sue rappresentazioni a Parigi. Poi si rivolseal giovine con un sorriso tollerante; spiegò che avevamolti impegni, valanghe di copioni, ma che per il nipotedi Metello Farra avrebbe fatto l’impossibile. Si tolse lagiacca, dovendo cambiarsi, ed i visitatori si congedaro-no sebbene invitati a restare.

— Vedrai, – disse ancora Metello – la figura del pro-tagonista è disegnata con forza e vi sono scene che pos-sono scuotere il pubblico. – Uscendo a ritroso e guar-

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capo coperto d’una pesante parrucca gialla davanol’idea d’una testa posticcia. Nel guardarlo, Grazianopensava alla rappresentazione, al dramma che si recita-va, con un vago disgusto.

Poiché Metello ebbe detto che il nipote portava un la-voro a leggere, l’attore fece al giovine un inchino teatra-le: – Comincia presto. Non avrà nemmeno vent’anni. –Tese la destra a ricevere il copione come se fosse unacosa assai preziosa, e lo posò sulla toletta con gli altri.

Già alcune volte la tenda era stata scostata con riguar-do da persone che poi l’avevan lasciata ricadere dile-guandosi; l’amministratore della compagnia invece en-trò con molte scuse, per consegnare al capocomico il fo-glio degli incassi ed un telegramma. Graziano si sentivaun ragazzo, un estraneo che non contava niente. Avendonella mente i personaggi del suo dramma con le loro pa-role, non gli sembrava possibile che prendessero l’aspet-to, la voce di questo attore e degli altri, in mezzo allepareti di carta. Letto il telegramma, il capocomico lopassò a Metello: vi era indicato il teatro definitivamentefissato per le sue rappresentazioni a Parigi. Poi si rivolseal giovine con un sorriso tollerante; spiegò che avevamolti impegni, valanghe di copioni, ma che per il nipotedi Metello Farra avrebbe fatto l’impossibile. Si tolse lagiacca, dovendo cambiarsi, ed i visitatori si congedaro-no sebbene invitati a restare.

— Vedrai, – disse ancora Metello – la figura del pro-tagonista è disegnata con forza e vi sono scene che pos-sono scuotere il pubblico. – Uscendo a ritroso e guar-

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dando ancora, dietro l’uomo dalla testa posticcia, il ca-merino con le tovaglie i cosmetici i copioni, Grazianoimmaginava un gesto che avrebbe voluto fare: il gestoviolento di riprendere il suo dramma dal mucchio.

Dopo, Metello volle andare alla direzione d’un gior-nale socialista e sull’ingresso pregò Graziano di attende-re; tornò presto, mentre il nipote s’era preparato a pa-zientare molto tempo. – Ora passeggiamo un poco.Vuoi? Godremo il fresco e parleremo tranquillamente. –Salirono dal Corso a piazza di Spagna; Metello tenevain una mano il suo cappello di paglia e ripassava l’altranei capelli arruffati perché prendessero piú aria. Qual-che carrozza riportava gente dai teatri; la gradinata dellaTrinità dei Monti, coi banchi dei fiorai in abbandono,coi globi dei lampioni che mandavano una luce fioca erossiccia, era deserta; nella piazza alcuni giovani eranoscesi nel cavo della fontana a bere; poche persone cam-minavano adagio lungo le case silenziose, e nessuna di-scorreva di politica, nessuna parlava della seduta allaCamera: ciò che era avvenuto qualche ora innanzi, pare-va già svanito dalla città. Poiché lo zio gli aveva chiestoche cosa pensasse ora di scrivere, il giovine accennavaalcune idee; ma Metello, pure dicendogli ogni tantoqualche parola, seguiva altri pensieri, confusamente.Pensava ai diciannove anni di Graziano, all’ambizioneche aveva, all’impresa che incominciava; pensava a sestesso, quando a quell’età voleva diventare un grandepittore e andava a dipingere per la campagna, sognando

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dando ancora, dietro l’uomo dalla testa posticcia, il ca-merino con le tovaglie i cosmetici i copioni, Grazianoimmaginava un gesto che avrebbe voluto fare: il gestoviolento di riprendere il suo dramma dal mucchio.

Dopo, Metello volle andare alla direzione d’un gior-nale socialista e sull’ingresso pregò Graziano di attende-re; tornò presto, mentre il nipote s’era preparato a pa-zientare molto tempo. – Ora passeggiamo un poco.Vuoi? Godremo il fresco e parleremo tranquillamente. –Salirono dal Corso a piazza di Spagna; Metello tenevain una mano il suo cappello di paglia e ripassava l’altranei capelli arruffati perché prendessero piú aria. Qual-che carrozza riportava gente dai teatri; la gradinata dellaTrinità dei Monti, coi banchi dei fiorai in abbandono,coi globi dei lampioni che mandavano una luce fioca erossiccia, era deserta; nella piazza alcuni giovani eranoscesi nel cavo della fontana a bere; poche persone cam-minavano adagio lungo le case silenziose, e nessuna di-scorreva di politica, nessuna parlava della seduta allaCamera: ciò che era avvenuto qualche ora innanzi, pare-va già svanito dalla città. Poiché lo zio gli aveva chiestoche cosa pensasse ora di scrivere, il giovine accennavaalcune idee; ma Metello, pure dicendogli ogni tantoqualche parola, seguiva altri pensieri, confusamente.Pensava ai diciannove anni di Graziano, all’ambizioneche aveva, all’impresa che incominciava; pensava a sestesso, quando a quell’età voleva diventare un grandepittore e andava a dipingere per la campagna, sognando

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intanto di fare anche una rivoluzione per metter su la re-pubblica.

Raggiunsero il Tritone, ridiscesero a piazza Colonna:incontrarono un po’ piú di gente, e qualcuno discorrevao discuteva della crisi, ma la città aveva nel silenzio tut-ta la sua grandiosa indifferenza; da una cantonata unavecchia offriva i giornali con la voce stracca di ogni not-te. Passarono davanti al gran palazzo di Montecitorio;era chiuso e buio, pareva che non vi fosse mai accadutoniente.

Anche a Metello la seduta, il suo discorso, quello chene era seguito, adesso sembravano lontani; ricordavacon un senso di stanchezza e di tedio le cose che l’indo-mani doveva fare. Presero le vie strette e storte scenden-ti al Pantheon. Ora Graziano taceva, accanto allo zio cheandava come se fosse solo, colle mani dietro la schiena,improvvisamente imbronciato. Osterie e piccoli caffè sipreparavano alla chiusura, ancora pieni di omacci benpasciuti, di voci gagliarde che scherzavano. Quando idue furono sboccati di fronte al volume oscuro del tem-pio che mostrava le colonne enormi, l’attico poderoso,la cupola massiccia, in fondo alla piazza inclinata comese la mole pesasse troppo, Metello si fermò, alzò il men-to a guardare, sempre tacendo. Poi ad un tratto disse: –Ora ci lasciamo. Torna indietro. Buona notte.

Il giovine tornò infatti sui suoi passi, ma per poco;provò una curiosità di vedere Metello Farra, l’uomo cheaveva rovesciato il governo, mentre se ne andava a quelmodo. Piano si portò di nuovo sul canto della piazza.

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intanto di fare anche una rivoluzione per metter su la re-pubblica.

Raggiunsero il Tritone, ridiscesero a piazza Colonna:incontrarono un po’ piú di gente, e qualcuno discorrevao discuteva della crisi, ma la città aveva nel silenzio tut-ta la sua grandiosa indifferenza; da una cantonata unavecchia offriva i giornali con la voce stracca di ogni not-te. Passarono davanti al gran palazzo di Montecitorio;era chiuso e buio, pareva che non vi fosse mai accadutoniente.

Anche a Metello la seduta, il suo discorso, quello chene era seguito, adesso sembravano lontani; ricordavacon un senso di stanchezza e di tedio le cose che l’indo-mani doveva fare. Presero le vie strette e storte scenden-ti al Pantheon. Ora Graziano taceva, accanto allo zio cheandava come se fosse solo, colle mani dietro la schiena,improvvisamente imbronciato. Osterie e piccoli caffè sipreparavano alla chiusura, ancora pieni di omacci benpasciuti, di voci gagliarde che scherzavano. Quando idue furono sboccati di fronte al volume oscuro del tem-pio che mostrava le colonne enormi, l’attico poderoso,la cupola massiccia, in fondo alla piazza inclinata comese la mole pesasse troppo, Metello si fermò, alzò il men-to a guardare, sempre tacendo. Poi ad un tratto disse: –Ora ci lasciamo. Torna indietro. Buona notte.

Il giovine tornò infatti sui suoi passi, ma per poco;provò una curiosità di vedere Metello Farra, l’uomo cheaveva rovesciato il governo, mentre se ne andava a quelmodo. Piano si portò di nuovo sul canto della piazza.

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Davanti alla massa del Pantheon stava la fontana, coigetti lucenti tra i lampioni; qualche vetturino dormivanella sua carrozzella; e tutto era molto piccolo, al para-gone. Nell’aria immobile si sentiva ciò che era Roma, sisentiva un momento passare adagio nel tempo senzafine. Metello, colle mani dietro la schiena e col suo pas-so pesante si avvicinava ad una stretta via accanto altempio. Vi disparve. La mole dava un’impressione diprodigiosa solidità; ma sopra la forma della cupola ilcielo era scavato dalla luce di una luna che non si vede-va, forse nata da poco: era un abisso aereo, un immensovuoto, sotto il quale la solidità del monumento non ave-va alcuna importanza.

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Davanti alla massa del Pantheon stava la fontana, coigetti lucenti tra i lampioni; qualche vetturino dormivanella sua carrozzella; e tutto era molto piccolo, al para-gone. Nell’aria immobile si sentiva ciò che era Roma, sisentiva un momento passare adagio nel tempo senzafine. Metello, colle mani dietro la schiena e col suo pas-so pesante si avvicinava ad una stretta via accanto altempio. Vi disparve. La mole dava un’impressione diprodigiosa solidità; ma sopra la forma della cupola ilcielo era scavato dalla luce di una luna che non si vede-va, forse nata da poco: era un abisso aereo, un immensovuoto, sotto il quale la solidità del monumento non ave-va alcuna importanza.

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1906-1907

Già da cinque anni i Crivelli erano ai «Cavalieri» equel podere aveva preso un altro aspetto. Ma quando ipadroni venivano da Rebbia, sempre all’improvviso,guardavano i cancelli le siepi le strade i sentieri rimessiin ordine, le vigne rifatte, i campi ben lavorati, tuttaquella terra che pareva nuovamente giovine, guardavanoprepararsi con abbondanza le messi ed i tagli di fieno,caricarsi d’uva i filari, crescere nell’orto i prodotti distagione: come se queste cose non fossero mai statemeno floride. Arrivavano sopra un barroccio di campa-gna, lustro e tirato da un buon cavallo; ne scendevanomaestosi, la moglie sempre col cappello, il marito concravatta di molti colori e scarpe crocchianti, con baffi ecapelli arricciati, un po’ tinti, lei alta, egli piú basso, tar-chiato. Non facevano un sorriso; parlando, la donnaschiudeva appena le labbra sottili, l’uomo sfoggiavavoce sonora e larghi gesti. Per cavar da loro il denarooccorrente alle migliorie era necessaria una straordinariapazienza. Il podere l’avevan comprato per poco da unadelle tante vecchie famiglie della città che andavano inrovina. I coloni che essi vi avevan trovati, si erano di-sgustati subito dei padroni nuovi e se n’erano andati la-sciando il posto ai Crivelli.

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1906-1907

Già da cinque anni i Crivelli erano ai «Cavalieri» equel podere aveva preso un altro aspetto. Ma quando ipadroni venivano da Rebbia, sempre all’improvviso,guardavano i cancelli le siepi le strade i sentieri rimessiin ordine, le vigne rifatte, i campi ben lavorati, tuttaquella terra che pareva nuovamente giovine, guardavanoprepararsi con abbondanza le messi ed i tagli di fieno,caricarsi d’uva i filari, crescere nell’orto i prodotti distagione: come se queste cose non fossero mai statemeno floride. Arrivavano sopra un barroccio di campa-gna, lustro e tirato da un buon cavallo; ne scendevanomaestosi, la moglie sempre col cappello, il marito concravatta di molti colori e scarpe crocchianti, con baffi ecapelli arricciati, un po’ tinti, lei alta, egli piú basso, tar-chiato. Non facevano un sorriso; parlando, la donnaschiudeva appena le labbra sottili, l’uomo sfoggiavavoce sonora e larghi gesti. Per cavar da loro il denarooccorrente alle migliorie era necessaria una straordinariapazienza. Il podere l’avevan comprato per poco da unadelle tante vecchie famiglie della città che andavano inrovina. I coloni che essi vi avevan trovati, si erano di-sgustati subito dei padroni nuovi e se n’erano andati la-sciando il posto ai Crivelli.

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Erano di Rebbia, i due; si erano incontrati a NuovaYork, dove prima avevan fatti, probabilmente, spregiatimestieri; essendosi sposati, piano piano erano risaliti te-nendo botteghe di fruttaioli in quella metropoli; là eramorto, ucciso da un petardo il giorno della festa nazio-nale, l’unico loro figlio. Oltre che per interesse, ancheper vanità si compiacevano di veder trasformarsi il po-dere; avevano dispetto che la gente continuasse a chia-marlo col nome antico, i «Cavalieri», invece di dire «iBardissone»; però si davano molta cura di non sembrartroppo ricchi.

Ai mezzadri rimproveravano sempre che le spese era-no eccessive; giravano dappertutto, l’uomo da una partee la moglie da un’altra, entrando anche nell’abitazionedei coloni, frugandovi con gli occhi in ogni angolo, in-terrogando tutti, con fare autorevole e severo; ogni lorocenno o parola significava: «Badate, queste piante nonsono vostre, questi muri delle stanze non sono vostri; laterra su cui camminate, è nostra, tutto è nostro». Conaria di biasimo per il tempo sprecato osservavano unpergolato di canne fatto da Giusto dietro casa per man-giarvi al fresco, e il bordo d’ireos da lui piantatovi attor-no; ma una volta portarono col barroccio due gobbi diterracotta e li misero ai lati della porta del fabbricato ci-vile, dove s’erano adattato alla meglio un paio di stanze.Girando per ore, la donna non s’impolverava nemmenol’orlo della veste, il marito non si scomponeva la petti-natura. Ordini ed insegnamenti non ne risparmiavano anessuno. Un giorno il padrone, vedendo passare Urbano

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Erano di Rebbia, i due; si erano incontrati a NuovaYork, dove prima avevan fatti, probabilmente, spregiatimestieri; essendosi sposati, piano piano erano risaliti te-nendo botteghe di fruttaioli in quella metropoli; là eramorto, ucciso da un petardo il giorno della festa nazio-nale, l’unico loro figlio. Oltre che per interesse, ancheper vanità si compiacevano di veder trasformarsi il po-dere; avevano dispetto che la gente continuasse a chia-marlo col nome antico, i «Cavalieri», invece di dire «iBardissone»; però si davano molta cura di non sembrartroppo ricchi.

Ai mezzadri rimproveravano sempre che le spese era-no eccessive; giravano dappertutto, l’uomo da una partee la moglie da un’altra, entrando anche nell’abitazionedei coloni, frugandovi con gli occhi in ogni angolo, in-terrogando tutti, con fare autorevole e severo; ogni lorocenno o parola significava: «Badate, queste piante nonsono vostre, questi muri delle stanze non sono vostri; laterra su cui camminate, è nostra, tutto è nostro». Conaria di biasimo per il tempo sprecato osservavano unpergolato di canne fatto da Giusto dietro casa per man-giarvi al fresco, e il bordo d’ireos da lui piantatovi attor-no; ma una volta portarono col barroccio due gobbi diterracotta e li misero ai lati della porta del fabbricato ci-vile, dove s’erano adattato alla meglio un paio di stanze.Girando per ore, la donna non s’impolverava nemmenol’orlo della veste, il marito non si scomponeva la petti-natura. Ordini ed insegnamenti non ne risparmiavano anessuno. Un giorno il padrone, vedendo passare Urbano

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col carro, gli gridò di attaccare piú corti i buoi al timo-ne. Il vecchio si piantò sui due piedi, si levò il cappello:– Voi, signor padrone, v’intendete di molte cose, ma ibuoi so meglio io come vanno attaccati. – E si rimise ilcappello e andò innanzi.

L’epoca della trebbiatura o della vendemmia era atte-sa dalla famiglia con angoscia perché i Bardissone sistabilivano nel podere fin che il lavoro non era termina-to ed il raccolto diviso, e per qualche tempo bisognavavederseli intorno a tener d’occhio i sacchi o le ceste, aguardar tutti nelle mani come in mezzo ad una banda diladri. I Crivelli, anziché avidi, quasi indifferenti per laroba che non gli spettasse, si sentivano molto al disopradei padroni; tuttavia ci soffrivano, ed in quei giorni Cle-to e Marta non potevan mangiare. Nell’andarsene i pa-droni, seduti duri e maestosi nel barroccio, davano anco-ra lunghe occhiate in giro, come a registrar bene nellamemoria ciò che lasciavano.

Sapevano i Crivelli che chi aveva posti buoni se li te-neva, e che si poteva capitare anche peggio; inoltre, ivecchi non avrebbero ormai piú voluto allontanarsi trop-po da Luvo. Urbano diceva a se stesso che anche questaera una prova mandata da Dio: sopportandola con pa-zienza, egli si faceva nuovi meriti per l’altra vita. A mi-gliorar il podere s’erano messi subito, per vergogna divivere su terre cosí rovinate, per istinto di agricoltori,per ricordo delle terre dell’Amistà; Giusto s’era datoall’impresa interamente, come inventandosi una ragionedi vivere, ed Urbano lo aiutava da par suo. Ma ai «Ca-

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col carro, gli gridò di attaccare piú corti i buoi al timo-ne. Il vecchio si piantò sui due piedi, si levò il cappello:– Voi, signor padrone, v’intendete di molte cose, ma ibuoi so meglio io come vanno attaccati. – E si rimise ilcappello e andò innanzi.

L’epoca della trebbiatura o della vendemmia era atte-sa dalla famiglia con angoscia perché i Bardissone sistabilivano nel podere fin che il lavoro non era termina-to ed il raccolto diviso, e per qualche tempo bisognavavederseli intorno a tener d’occhio i sacchi o le ceste, aguardar tutti nelle mani come in mezzo ad una banda diladri. I Crivelli, anziché avidi, quasi indifferenti per laroba che non gli spettasse, si sentivano molto al disopradei padroni; tuttavia ci soffrivano, ed in quei giorni Cle-to e Marta non potevan mangiare. Nell’andarsene i pa-droni, seduti duri e maestosi nel barroccio, davano anco-ra lunghe occhiate in giro, come a registrar bene nellamemoria ciò che lasciavano.

Sapevano i Crivelli che chi aveva posti buoni se li te-neva, e che si poteva capitare anche peggio; inoltre, ivecchi non avrebbero ormai piú voluto allontanarsi trop-po da Luvo. Urbano diceva a se stesso che anche questaera una prova mandata da Dio: sopportandola con pa-zienza, egli si faceva nuovi meriti per l’altra vita. A mi-gliorar il podere s’erano messi subito, per vergogna divivere su terre cosí rovinate, per istinto di agricoltori,per ricordo delle terre dell’Amistà; Giusto s’era datoall’impresa interamente, come inventandosi una ragionedi vivere, ed Urbano lo aiutava da par suo. Ma ai «Ca-

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valieri» non s’affezionavano; era morta in tutti l’illusio-ne che il lavorar la terra fosse un creare qualchecosa,poiché avevano conosciuto per prova come la terra, a la-vorarla, non cessava di essere roba altrui; in tutti eramorta la fede nel giro delle annate, l’idea che i raccolti,la trebbiatura, i tagli del fieno, le gite al molino fosserofeste. E poi il luogo, cosí basso sul fianco della valle si-lenziosa, con quella casa cadente, era triste. Nei duepioppi, soli e decrepiti, veniva voglia di piantar la scure.

Del passato si parlava ben poco, in famiglia; pure,l’Amistà era sempre nell’animo di tutti: il loro regno inmezzo all’altra valle piena di vita. Nel ricordo dell’Ami-stà durava sempre l’amarezza d’essere stati frodati daglieredi di Casimiro Gallant perché dalle sue carte in disor-dine, dal groviglio dei vecchi conti non era risultato chei Crivelli fossero creditori, e le prove ch’essi ne aveva-no, foglietti scritti da loro, non erano bastate. Cosí, ve-nendo via di là, si erano tirata dietro la catena dei debiticontratti in passato a Luvo, a Rebbia, per vestirsi, per ri-comprare qualche animale morto di malattia; e non riu-scivano a liberarsene. Ma la loro grande tristezza era nelpensare che non esistevano piú quei boschi, lo stagnoera interrato, la casa in parte demolita in parte rifatta, eche il podere – quel mondo – se n’era andato in ritagli diterra. Soffrivano a rivedere i vicini che ora possedevanoquei ritagli. Del resto i legami con la gente d’allora era-no quasi spezzati; fino ai «Cavalieri» amici non ne veni-vano; i Bardissone non volevano visite, non lavoratoriavventizi perché costavano, non vagabondi perché «ru-

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valieri» non s’affezionavano; era morta in tutti l’illusio-ne che il lavorar la terra fosse un creare qualchecosa,poiché avevano conosciuto per prova come la terra, a la-vorarla, non cessava di essere roba altrui; in tutti eramorta la fede nel giro delle annate, l’idea che i raccolti,la trebbiatura, i tagli del fieno, le gite al molino fosserofeste. E poi il luogo, cosí basso sul fianco della valle si-lenziosa, con quella casa cadente, era triste. Nei duepioppi, soli e decrepiti, veniva voglia di piantar la scure.

Del passato si parlava ben poco, in famiglia; pure,l’Amistà era sempre nell’animo di tutti: il loro regno inmezzo all’altra valle piena di vita. Nel ricordo dell’Ami-stà durava sempre l’amarezza d’essere stati frodati daglieredi di Casimiro Gallant perché dalle sue carte in disor-dine, dal groviglio dei vecchi conti non era risultato chei Crivelli fossero creditori, e le prove ch’essi ne aveva-no, foglietti scritti da loro, non erano bastate. Cosí, ve-nendo via di là, si erano tirata dietro la catena dei debiticontratti in passato a Luvo, a Rebbia, per vestirsi, per ri-comprare qualche animale morto di malattia; e non riu-scivano a liberarsene. Ma la loro grande tristezza era nelpensare che non esistevano piú quei boschi, lo stagnoera interrato, la casa in parte demolita in parte rifatta, eche il podere – quel mondo – se n’era andato in ritagli diterra. Soffrivano a rivedere i vicini che ora possedevanoquei ritagli. Del resto i legami con la gente d’allora era-no quasi spezzati; fino ai «Cavalieri» amici non ne veni-vano; i Bardissone non volevano visite, non lavoratoriavventizi perché costavano, non vagabondi perché «ru-

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bavano». Alla fine d’ogni inverno giungeva notizia chequalcuno dei piú vecchi frequentatori dell’Amistà eramorto: in una stalla come Magallo il reduce della Cri-mea, o nell’acqua d’un fosso, ubbriaco, come Franzino,il buon manovale di brutto ceffo che parlava soltantoalla domenica.

In famiglia vi era adesso una nuora: una donna suiventiquattro anni, sana, carnosa, piuttosto taciturna, conbegli occhi in un viso rustico, la quale portava volentieriscalzi i suoi grossi piedi. Era Camilla, moglie di Giusto.Prima che i Crivelli lasciassero il podere condannato,Giusto era stato fermato sulla strada dall’Avventina, lafiglia unica del ricco vicino, la giovine monaca di cam-pagna; ella gli aveva detto che, se un giorno si fossesposata, sarebbe stata contenta di prendere lui; con po-che parole e con una stretta di mano il contadino avevaaccettato il patto; poi aveva atteso senza fretta, ma perdue anni l’ereditiera non s’era fatta viva, finché, incon-trandolo a Rebbia sul mercato, lo aveva informato che ilpadre non le dava il consenso, non voleva che si sposas-se, con nessuno. Dopo un altro anno Giusto aveva presain moglie Camilla, figlia di poveri mezzadri, come lui,robusta ignorante tranquilla: per darsi definitivamente alproprio destino e non pensarvi piú. Il contegno delladonna era quello d’una buona serva; faticava, obbedivaa tutti, si vergognava a mangiare; la festa saliva al paeseper la prima messa, impacciata in un duro vestito, e su-bito ritornava; non aveva mai niente da dire e forse non

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bavano». Alla fine d’ogni inverno giungeva notizia chequalcuno dei piú vecchi frequentatori dell’Amistà eramorto: in una stalla come Magallo il reduce della Cri-mea, o nell’acqua d’un fosso, ubbriaco, come Franzino,il buon manovale di brutto ceffo che parlava soltantoalla domenica.

In famiglia vi era adesso una nuora: una donna suiventiquattro anni, sana, carnosa, piuttosto taciturna, conbegli occhi in un viso rustico, la quale portava volentieriscalzi i suoi grossi piedi. Era Camilla, moglie di Giusto.Prima che i Crivelli lasciassero il podere condannato,Giusto era stato fermato sulla strada dall’Avventina, lafiglia unica del ricco vicino, la giovine monaca di cam-pagna; ella gli aveva detto che, se un giorno si fossesposata, sarebbe stata contenta di prendere lui; con po-che parole e con una stretta di mano il contadino avevaaccettato il patto; poi aveva atteso senza fretta, ma perdue anni l’ereditiera non s’era fatta viva, finché, incon-trandolo a Rebbia sul mercato, lo aveva informato che ilpadre non le dava il consenso, non voleva che si sposas-se, con nessuno. Dopo un altro anno Giusto aveva presain moglie Camilla, figlia di poveri mezzadri, come lui,robusta ignorante tranquilla: per darsi definitivamente alproprio destino e non pensarvi piú. Il contegno delladonna era quello d’una buona serva; faticava, obbedivaa tutti, si vergognava a mangiare; la festa saliva al paeseper la prima messa, impacciata in un duro vestito, e su-bito ritornava; non aveva mai niente da dire e forse non

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ascoltava nemmeno quel che dicevano gli altri; ma do-veva esser contenta del matrimonio e di ogni cosa.

Cleto aveva un’infermità da cui era costretto a portareuno strumento di tortura, un cinto, e non poteva piú faresforzi, ogni lavoro lo fiaccava subito; la piú gran partedella giornata stava seduto sullo scalino di casa o nellestanze, scoraggito; ma, appena sentiva qualcuno, si ri-metteva in piedi. Marta aveva parecchi anni meno delmarito, tuttavia il suo viso, con quella smorfia del piantosempre piú marcata, era già di vecchia, ed ella continua-va i suoi lavori come se non le rimanesse speranza disorta. Sola con Cleto ripigliava il discorso che agli altrinon piaceva, quello dei figli lontani. A Torino Fede eRemo dovevano aspramente combattere per il pane, leilavorando in fabbrica, l’uomo dando a nolo qua e là, allapeggio, le sue braccia di contadino che non sapeva farnulla. Avevano avuto un solo bambino, morto dopoqualche mese. La famiglia non li aveva piú riveduti.Due o tre volte all’anno veniva Regina, sempre piú ma-gra, talora con un figlio nuovo; nella pianura i possedi-menti del marito si allargavano; ella dava del denaro allamadre, la invitava a passar un po’ di tempo da lei, eMarta diceva: – Un’altra volta. – Dionisio scriveva dallaFrancia assai di rado. Portava sue notizie qualche com-paesano che arrivava di là: era a Marsiglia, parlava beneil francese, sembrava un francese. Segretamente la ma-dre pensava sempre a lui. A Luvo se ne sapeva altro, eGiusto ne aveva sentore; il fratello cambiava lavoroogni tre mesi, facendo la vita degli emigrati viziosi, nei

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ascoltava nemmeno quel che dicevano gli altri; ma do-veva esser contenta del matrimonio e di ogni cosa.

Cleto aveva un’infermità da cui era costretto a portareuno strumento di tortura, un cinto, e non poteva piú faresforzi, ogni lavoro lo fiaccava subito; la piú gran partedella giornata stava seduto sullo scalino di casa o nellestanze, scoraggito; ma, appena sentiva qualcuno, si ri-metteva in piedi. Marta aveva parecchi anni meno delmarito, tuttavia il suo viso, con quella smorfia del piantosempre piú marcata, era già di vecchia, ed ella continua-va i suoi lavori come se non le rimanesse speranza disorta. Sola con Cleto ripigliava il discorso che agli altrinon piaceva, quello dei figli lontani. A Torino Fede eRemo dovevano aspramente combattere per il pane, leilavorando in fabbrica, l’uomo dando a nolo qua e là, allapeggio, le sue braccia di contadino che non sapeva farnulla. Avevano avuto un solo bambino, morto dopoqualche mese. La famiglia non li aveva piú riveduti.Due o tre volte all’anno veniva Regina, sempre piú ma-gra, talora con un figlio nuovo; nella pianura i possedi-menti del marito si allargavano; ella dava del denaro allamadre, la invitava a passar un po’ di tempo da lei, eMarta diceva: – Un’altra volta. – Dionisio scriveva dallaFrancia assai di rado. Portava sue notizie qualche com-paesano che arrivava di là: era a Marsiglia, parlava beneil francese, sembrava un francese. Segretamente la ma-dre pensava sempre a lui. A Luvo se ne sapeva altro, eGiusto ne aveva sentore; il fratello cambiava lavoroogni tre mesi, facendo la vita degli emigrati viziosi, nei

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vicoli del porto, nelle bettole, sempre squattrinato; ma atornare non pensava affatto.

Sulla cima dell’alta collina di fronte si vedeva la pi-neta dei Farra, con la casa bianca tra i grandi alberi, «inmezzo ai boschi», come diceva la gente dei dintorni.Guardando, Marta si domandava ancora perché la signo-ra non avesse voluto comprar l’Amistà, salvare il poderee salvar loro. D’estate i Farra venivano a trovarli manon si parlava piú di quel tempo. Anche Giusto guarda-va talvolta la pineta e pensava; Irene, ciò che era acca-duto in una certa estate, ciò ch’egli aveva sofferto, tuttoera estremamente lontano; e Graziano stava in una vitacosí diversa dalla sua!

Gli ultimi figli dei Crivelli adesso erano grandi. Do-nato, ragazzo di vent’anni, sapeva appena leggere e ladomenica andava per le osterie; egli non era capaced’immaginare altra sorte che quella del contadino, perògli spiaceva che il mangiare fosse sempre scarso alla suafame e che i soldi datigli dal padre in fine di settimanafossero pochi a paragone del lavoro fatto. La sorella Uli-va non somigliava a nessuno. Si faceva bella sebbene, adiciassette anni, ancora acerba e scarna; guardava in ter-ra, poi ad un tratto piantava in faccia due occhi chiari ecattivi. Detestava il lavoro dei campi, attendeva malvo-lentieri anche a quello di casa tornando ogni momentoallo specchietto della sua camera; spariva, e non si sape-va dove andasse; ricomparendo, dava spiegazioni assur-de o non ne voleva dare; mentiva in tutte le cose, per di-vertimento; trattata bene rispondeva male, presa colle

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vicoli del porto, nelle bettole, sempre squattrinato; ma atornare non pensava affatto.

Sulla cima dell’alta collina di fronte si vedeva la pi-neta dei Farra, con la casa bianca tra i grandi alberi, «inmezzo ai boschi», come diceva la gente dei dintorni.Guardando, Marta si domandava ancora perché la signo-ra non avesse voluto comprar l’Amistà, salvare il poderee salvar loro. D’estate i Farra venivano a trovarli manon si parlava piú di quel tempo. Anche Giusto guarda-va talvolta la pineta e pensava; Irene, ciò che era acca-duto in una certa estate, ciò ch’egli aveva sofferto, tuttoera estremamente lontano; e Graziano stava in una vitacosí diversa dalla sua!

Gli ultimi figli dei Crivelli adesso erano grandi. Do-nato, ragazzo di vent’anni, sapeva appena leggere e ladomenica andava per le osterie; egli non era capaced’immaginare altra sorte che quella del contadino, perògli spiaceva che il mangiare fosse sempre scarso alla suafame e che i soldi datigli dal padre in fine di settimanafossero pochi a paragone del lavoro fatto. La sorella Uli-va non somigliava a nessuno. Si faceva bella sebbene, adiciassette anni, ancora acerba e scarna; guardava in ter-ra, poi ad un tratto piantava in faccia due occhi chiari ecattivi. Detestava il lavoro dei campi, attendeva malvo-lentieri anche a quello di casa tornando ogni momentoallo specchietto della sua camera; spariva, e non si sape-va dove andasse; ricomparendo, dava spiegazioni assur-de o non ne voleva dare; mentiva in tutte le cose, per di-vertimento; trattata bene rispondeva male, presa colle

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cattive s’andava a buttare sul letto e non si moveva piú;non c’era verso di addomesticarla. Sfidava anche Giu-sto. Il vecchio Urbano si ostinava a combattere con lei,scagliandole anatemi pesanti che rimbalzavano sul fred-do sogghigno della ragazza come pietre sul ghiaccio.Forse, Uliva s’era disegnato nella mente un avvenire asuo capriccio, fuori della vita dei parenti. I ragazzi gran-di dei contorni gironzavano sui confini del podere.

Giusto non le badava piú. Egli non faceva che lavora-re; la festa si riposava. Non sentiva piú affatto la piccolavanità dei contadini, d’andar la domenica al paese vesti-ti bene, di frequentare i mercati, le sagre. I conoscenticoi quali si sarebbe potuto intrattenere, gli sembravanouomini che non avessero alcuna idea delle cose delmondo. Se vi era un motivo, scendeva a Rebbia lungo lasettimana e ne tornava con giornali socialisti che poi ri-leggeva piú volte. La forza dei suoi muscoli era ancoracresciuta, la sua persona aveva qualcosa di quadrato;ogni tanto, anche d’inverno, si faceva radere fino allacute quella testa ostinata; lavorando o pensando sporge-va innanzi la mascella gagliarda; non pronunziava paro-la senza necessità. Qualche volta, se non era osservato,guardava la moglie, gran pezzo di carne giovine che erasuo: una ottusa contadina che non sapeva niente, nonpensava a niente, nemmeno chi fosse lui e perché fosseandato a prenderla. Figli non gliene aveva ancora fatti,né c’era segno che dovessero arrivarne. Di fronte ai Bar-dissone, Giusto stava calmo e sicuro, senza dar loroconfidenza. Ora egli guardava la valle come uno che

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cattive s’andava a buttare sul letto e non si moveva piú;non c’era verso di addomesticarla. Sfidava anche Giu-sto. Il vecchio Urbano si ostinava a combattere con lei,scagliandole anatemi pesanti che rimbalzavano sul fred-do sogghigno della ragazza come pietre sul ghiaccio.Forse, Uliva s’era disegnato nella mente un avvenire asuo capriccio, fuori della vita dei parenti. I ragazzi gran-di dei contorni gironzavano sui confini del podere.

Giusto non le badava piú. Egli non faceva che lavora-re; la festa si riposava. Non sentiva piú affatto la piccolavanità dei contadini, d’andar la domenica al paese vesti-ti bene, di frequentare i mercati, le sagre. I conoscenticoi quali si sarebbe potuto intrattenere, gli sembravanouomini che non avessero alcuna idea delle cose delmondo. Se vi era un motivo, scendeva a Rebbia lungo lasettimana e ne tornava con giornali socialisti che poi ri-leggeva piú volte. La forza dei suoi muscoli era ancoracresciuta, la sua persona aveva qualcosa di quadrato;ogni tanto, anche d’inverno, si faceva radere fino allacute quella testa ostinata; lavorando o pensando sporge-va innanzi la mascella gagliarda; non pronunziava paro-la senza necessità. Qualche volta, se non era osservato,guardava la moglie, gran pezzo di carne giovine che erasuo: una ottusa contadina che non sapeva niente, nonpensava a niente, nemmeno chi fosse lui e perché fosseandato a prenderla. Figli non gliene aveva ancora fatti,né c’era segno che dovessero arrivarne. Di fronte ai Bar-dissone, Giusto stava calmo e sicuro, senza dar loroconfidenza. Ora egli guardava la valle come uno che

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non si curasse di quel che esisteva altrove; credevad’essersi adattato alla propria sorte; ma nell’animo ave-va un odio oscuro ed in testa l’idea che era necessariofar qualchecosa per cambiare il mondo. Fantasticava dipoter conoscere, per mezzo dei Farra, Metello e parlarelungamente con lui.

Lo stanzino che il vecchio Urbano occupava ai «Ca-valieri» non era molto diverso da quello dell’Amistà; viaveva il saccone di prima, le vite dei santi sopra l’assi-cella fissata al muro, le immagini sacre e la stampa deipontefici appese alle pareti allo stesso modo chenell’altra cella. Là dentro si credeva ancora all’Amistà.Mentre di notte faceva le sue letture inginocchiato sulpavimento, con le mani ed il libro sul saccone, col lumead olio posato accanto a sé sopra uno sgabello, guardavaogni tanto la propria ombra sul muro ed era contentoche somigliasse agli eremiti veduti nelle immagini. Sta-gioni e giornate portavano i soliti lavori, le piogge, il se-reno, le ore dei pasti e del sonno: tutto veniva da Dio, edegli col pensiero ridava tutto a Dio, consacrava ognicosa a Lui. Un poco piú lunga era la strada per salire aLuvo, ma la chiesa, le funzioni, le processioni nelle qua-li egli camminava davanti alla statua della Madonna,eran sempre le stesse; egli commetteva ancora qualchepeccato d’impazienza e d’ira, e sempre il Signore perdo-nava, guardando tutta la sua esistenza, già lunga. Daqualche tempo il bifolco sentiva in una maniera vaga estrana che nel suo corpo era avvenuto un cambiamento,nelle vene, forse; non si sentiva piú sicuro di sé, quanto

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non si curasse di quel che esisteva altrove; credevad’essersi adattato alla propria sorte; ma nell’animo ave-va un odio oscuro ed in testa l’idea che era necessariofar qualchecosa per cambiare il mondo. Fantasticava dipoter conoscere, per mezzo dei Farra, Metello e parlarelungamente con lui.

Lo stanzino che il vecchio Urbano occupava ai «Ca-valieri» non era molto diverso da quello dell’Amistà; viaveva il saccone di prima, le vite dei santi sopra l’assi-cella fissata al muro, le immagini sacre e la stampa deipontefici appese alle pareti allo stesso modo chenell’altra cella. Là dentro si credeva ancora all’Amistà.Mentre di notte faceva le sue letture inginocchiato sulpavimento, con le mani ed il libro sul saccone, col lumead olio posato accanto a sé sopra uno sgabello, guardavaogni tanto la propria ombra sul muro ed era contentoche somigliasse agli eremiti veduti nelle immagini. Sta-gioni e giornate portavano i soliti lavori, le piogge, il se-reno, le ore dei pasti e del sonno: tutto veniva da Dio, edegli col pensiero ridava tutto a Dio, consacrava ognicosa a Lui. Un poco piú lunga era la strada per salire aLuvo, ma la chiesa, le funzioni, le processioni nelle qua-li egli camminava davanti alla statua della Madonna,eran sempre le stesse; egli commetteva ancora qualchepeccato d’impazienza e d’ira, e sempre il Signore perdo-nava, guardando tutta la sua esistenza, già lunga. Daqualche tempo il bifolco sentiva in una maniera vaga estrana che nel suo corpo era avvenuto un cambiamento,nelle vene, forse; non si sentiva piú sicuro di sé, quanto

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al corpo; aveva fame come prima ma dormiva pochissi-mo, di notte lo prendeva spesso un ardore penoso,un’ansia. Credeva che presto si sarebbe ammalato vera-mente e che avrebbe potuto far penitenza dei peccatisoffrendo lunghi tormenti nel suo letto. Pensava piú so-vente al Paradiso: immensa adunata di santi e sante, dipapi e martiri, messi in bell’ordine intorno ai personaggidivini secondo la loro importanza, e molto in basso erail posto dei poveri bifolchi, i quali però portavanoanch’essi mantelli dorati simili a piviali.

Vennero i giorni dell’autunno, quando sul terrenoumido e scuro si vedono le macchie gialle delle foglieed al mattino veli di nebbia tardano a lacerarsi, attaccatialle file di gelsi. Non essendovi piú niente da spartire, iBardissone non dovevano ritornare almeno per una set-timana; finché, cominciandosi le semine, sarebbero ve-nuti ad assicurarsi che non si rubasse la semente. Ma ilpodere, la casa, infreddoliti sotto il cielo grigio, eranoancora piú tristi. Giusto pensava all’invernata ches’avvicinava, alle notti lunghe in mezzo alla campagnasepolta sotto la neve.

Una mattina Urbano con Uliva finiva di arare un va-sto campo non lontano da casa. La ragazza tirava per lacordicella la coppia di enormi buoi, battendoli di trattoin tratto con un ramo di salice sul muso umido e fuman-te; portava sulle spalle una giacca da uomo ed in capoun fazzolettaccio della madre, dava sguardi di rabbia atutte le cose intorno. Avendo già fatti molti solchi, erastanca, disattenta; il vecchio doveva continuamente get-

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al corpo; aveva fame come prima ma dormiva pochissi-mo, di notte lo prendeva spesso un ardore penoso,un’ansia. Credeva che presto si sarebbe ammalato vera-mente e che avrebbe potuto far penitenza dei peccatisoffrendo lunghi tormenti nel suo letto. Pensava piú so-vente al Paradiso: immensa adunata di santi e sante, dipapi e martiri, messi in bell’ordine intorno ai personaggidivini secondo la loro importanza, e molto in basso erail posto dei poveri bifolchi, i quali però portavanoanch’essi mantelli dorati simili a piviali.

Vennero i giorni dell’autunno, quando sul terrenoumido e scuro si vedono le macchie gialle delle foglieed al mattino veli di nebbia tardano a lacerarsi, attaccatialle file di gelsi. Non essendovi piú niente da spartire, iBardissone non dovevano ritornare almeno per una set-timana; finché, cominciandosi le semine, sarebbero ve-nuti ad assicurarsi che non si rubasse la semente. Ma ilpodere, la casa, infreddoliti sotto il cielo grigio, eranoancora piú tristi. Giusto pensava all’invernata ches’avvicinava, alle notti lunghe in mezzo alla campagnasepolta sotto la neve.

Una mattina Urbano con Uliva finiva di arare un va-sto campo non lontano da casa. La ragazza tirava per lacordicella la coppia di enormi buoi, battendoli di trattoin tratto con un ramo di salice sul muso umido e fuman-te; portava sulle spalle una giacca da uomo ed in capoun fazzolettaccio della madre, dava sguardi di rabbia atutte le cose intorno. Avendo già fatti molti solchi, erastanca, disattenta; il vecchio doveva continuamente get-

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tarle aspri comandi e rimproveri, mentre egli guidaval’aratro, pungeva gli animali, si teneva in equilibrio conle grosse scarpe sopra le zolle voluminose formate dalvomero davanti ai suoi passi. Anch’egli era stanco, mavoleva terminare il lavoro. Ad un certo punto, poichéUliva non si curava piú d’andar diritto, le gridò di fer-marsi, le indicò la casa col pungolo, a braccio teso, terri-bilmente: – Vattene! Lo fai apposta. Serpe! Non ti vo-glio mai piú a lavorare con me. – Ella se ne andò viaadagio, sporgendo il labbro di sotto e battendosi le gam-be col ramo di salice. Non era ancora in cima al campoquando Urbano, che al termine d’un solco stava voltan-do i bovi, si sentí dentro il capo come un vortice: anchel’orizzonte girava e tutte le cose si perdevano in unamezza oscurità. Si rizzò, lasciando la stiva ed appog-giandosi al pungolo. Infine la vertigine passò, ma eglinon avrebbe saputo dire quanto fosse durata. Uliva nonc’era piú. Ancora tre solchi bisognava fare. Il bifolcodiede la voce ai buoi, li punse; di nuovo il ferro lucenteentrò nella terra, che era abbastanza morbida e non trop-po umida; gli animali ripresero ad avanzare piano, on-deggiando, facendo stridere il vimine del giogo, e dinuovo le grandi zolle cadevano ai due lati del vomerocome onde rotte. Il vecchio, però, s’accorgeva di stareancora molto male; sulla terra si sarebbe voluto stenderea dormire; il capo era di piombo e dentro vi era tropposangue, che premeva alle tempia, negli orecchi; davantialle cose sempre un velo oscuro. Un’ansietà, una pauratenevano l’animo dell’aratore, che si mise a pregar forte.

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tarle aspri comandi e rimproveri, mentre egli guidaval’aratro, pungeva gli animali, si teneva in equilibrio conle grosse scarpe sopra le zolle voluminose formate dalvomero davanti ai suoi passi. Anch’egli era stanco, mavoleva terminare il lavoro. Ad un certo punto, poichéUliva non si curava piú d’andar diritto, le gridò di fer-marsi, le indicò la casa col pungolo, a braccio teso, terri-bilmente: – Vattene! Lo fai apposta. Serpe! Non ti vo-glio mai piú a lavorare con me. – Ella se ne andò viaadagio, sporgendo il labbro di sotto e battendosi le gam-be col ramo di salice. Non era ancora in cima al campoquando Urbano, che al termine d’un solco stava voltan-do i bovi, si sentí dentro il capo come un vortice: anchel’orizzonte girava e tutte le cose si perdevano in unamezza oscurità. Si rizzò, lasciando la stiva ed appog-giandosi al pungolo. Infine la vertigine passò, ma eglinon avrebbe saputo dire quanto fosse durata. Uliva nonc’era piú. Ancora tre solchi bisognava fare. Il bifolcodiede la voce ai buoi, li punse; di nuovo il ferro lucenteentrò nella terra, che era abbastanza morbida e non trop-po umida; gli animali ripresero ad avanzare piano, on-deggiando, facendo stridere il vimine del giogo, e dinuovo le grandi zolle cadevano ai due lati del vomerocome onde rotte. Il vecchio, però, s’accorgeva di stareancora molto male; sulla terra si sarebbe voluto stenderea dormire; il capo era di piombo e dentro vi era tropposangue, che premeva alle tempia, negli orecchi; davantialle cose sempre un velo oscuro. Un’ansietà, una pauratenevano l’animo dell’aratore, che si mise a pregar forte.

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Certamente il solco veniva storto. Invece di guidarel’aratro, egli si faceva reggere, ma non poteva piú farforza, non poteva piú. Alle parole delle preghiere me-scolava le voci ai buoi: – E tira, Rosso! A subitanea etimprovisa morte libera me, Domine. – Ripeteva «Domi-ne, Domine!» come se chiamasse. Il campo era tantogrande! E l’aratro andava sempre piú adagio, la terranon si voleva piú aprire.

Prima che tutto quel solco fosse inciso, gli enormibuoi, il rosso ed il bianco, sentirono cessare ad un trattola presa – quella durezza della terra ch’essi dovevanovincere con la loro mole – e l’aratro era divenuto unpeso sciocco, sobbalzante. Non udivano piú la vocedell’uomo; punture nelle cosce o sul dorso non ne arri-vavano; si fermarono. Il bove di sinistra, il bianco, guar-dò dalla sua parte e vide sul margine del campo pianteselvatiche che avevano grosse foglie buone da mangia-re; vi pensò un poco e poi si mosse a quella volta, ac-compagnato docilmente dall’altro; d’accordo incomin-ciarono a strappare e masticare adagio il fogliame. Mainfine, dal fatto che nessuno veniva a punirli compren-dendo d’esser soli, gli animali furono presi da timore;lasciarono del tutto di mangiare per mandar lunghi mug-giti, prima il rosso e dopo il bianco oppure insieme, colmuso alzato verso casa. Comparve lassú Donato e subi-to si gettò per il pendio a gran salti. Aveva creduto chepresso i buoi non fosse rimasto nessuno; come vide chenel campo stava lungo e disteso lo zio, si fermò, lo chia-mò. Le bestie avevano cessato di muggire, c’era un gran

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Certamente il solco veniva storto. Invece di guidarel’aratro, egli si faceva reggere, ma non poteva piú farforza, non poteva piú. Alle parole delle preghiere me-scolava le voci ai buoi: – E tira, Rosso! A subitanea etimprovisa morte libera me, Domine. – Ripeteva «Domi-ne, Domine!» come se chiamasse. Il campo era tantogrande! E l’aratro andava sempre piú adagio, la terranon si voleva piú aprire.

Prima che tutto quel solco fosse inciso, gli enormibuoi, il rosso ed il bianco, sentirono cessare ad un trattola presa – quella durezza della terra ch’essi dovevanovincere con la loro mole – e l’aratro era divenuto unpeso sciocco, sobbalzante. Non udivano piú la vocedell’uomo; punture nelle cosce o sul dorso non ne arri-vavano; si fermarono. Il bove di sinistra, il bianco, guar-dò dalla sua parte e vide sul margine del campo pianteselvatiche che avevano grosse foglie buone da mangia-re; vi pensò un poco e poi si mosse a quella volta, ac-compagnato docilmente dall’altro; d’accordo incomin-ciarono a strappare e masticare adagio il fogliame. Mainfine, dal fatto che nessuno veniva a punirli compren-dendo d’esser soli, gli animali furono presi da timore;lasciarono del tutto di mangiare per mandar lunghi mug-giti, prima il rosso e dopo il bianco oppure insieme, colmuso alzato verso casa. Comparve lassú Donato e subi-to si gettò per il pendio a gran salti. Aveva creduto chepresso i buoi non fosse rimasto nessuno; come vide chenel campo stava lungo e disteso lo zio, si fermò, lo chia-mò. Le bestie avevano cessato di muggire, c’era un gran

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silenzio. Ripreso coraggio, il ragazzo scese fino a duepassi dal vecchio. Non era possibile non capire che eramorto: stava nell’ultimo tratto del solco non finito, colviso nello scavo, con le braccia larghe e col pungolo an-cora stretto nella destra; il cappello era a breve distanzadalla testa calva, che era bianca perché egli la tenevasempre coperta; da un piede gli s’era sfilata la grossascarpa, come se si fosse fatto trascinare un momento ag-grappato alla stiva. Per la strada principale del poderearrivava Giusto ed ai richiami violenti del fratellos’avvicinò in fretta. Mandò subito il ragazzo a casa achiamar tutti. Mentre li aspettava, Giusto si chinò sulmorto cercando di vedergli il viso, ma nemmeno lui lotoccò.

Vennero correndo Marta e Camilla, insieme, seguiteda Cleto che correre non poteva e che si sentiva manca-re il cuore a misura che s’avvicinava a quel corpo; arri-vò Uliva, la quale mangiava una mela cotta e ad un cer-to punto buttò via quel che ne avanzava. Camilla porta-va le coperte dei buoi e Donato trascinava da solo la ba-rella di cui si servivano a levar lo strame dalla stalla. –Oh! – faceva Cleto guardando fisso il fratello disteso nelsolco. – Oh! – Marta singhiozzava, Camilla perdevagrosse lacrime ma col fiato affannato soltanto dalla cor-sa; ora piangeva anche Uliva, corrugando la fronte. Poi-ché li ebbe tutti vicini, Giusto tolse il pungolo dallamano del morto e lo diede alla moglie perché lo tenesse.Quando egli e Donato ebbero voltato il corpo per posar-lo sulla barella, dove Marta aveva distese le coperte, si

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silenzio. Ripreso coraggio, il ragazzo scese fino a duepassi dal vecchio. Non era possibile non capire che eramorto: stava nell’ultimo tratto del solco non finito, colviso nello scavo, con le braccia larghe e col pungolo an-cora stretto nella destra; il cappello era a breve distanzadalla testa calva, che era bianca perché egli la tenevasempre coperta; da un piede gli s’era sfilata la grossascarpa, come se si fosse fatto trascinare un momento ag-grappato alla stiva. Per la strada principale del poderearrivava Giusto ed ai richiami violenti del fratellos’avvicinò in fretta. Mandò subito il ragazzo a casa achiamar tutti. Mentre li aspettava, Giusto si chinò sulmorto cercando di vedergli il viso, ma nemmeno lui lotoccò.

Vennero correndo Marta e Camilla, insieme, seguiteda Cleto che correre non poteva e che si sentiva manca-re il cuore a misura che s’avvicinava a quel corpo; arri-vò Uliva, la quale mangiava una mela cotta e ad un cer-to punto buttò via quel che ne avanzava. Camilla porta-va le coperte dei buoi e Donato trascinava da solo la ba-rella di cui si servivano a levar lo strame dalla stalla. –Oh! – faceva Cleto guardando fisso il fratello disteso nelsolco. – Oh! – Marta singhiozzava, Camilla perdevagrosse lacrime ma col fiato affannato soltanto dalla cor-sa; ora piangeva anche Uliva, corrugando la fronte. Poi-ché li ebbe tutti vicini, Giusto tolse il pungolo dallamano del morto e lo diede alla moglie perché lo tenesse.Quando egli e Donato ebbero voltato il corpo per posar-lo sulla barella, dove Marta aveva distese le coperte, si

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vide che il vecchio aveva la bocca piena di terra. Gli oc-chi erano tranquilli, sebbene cosí immobili; la barbamostrava i soliti nodi dei giorni di lavoro.

Per portarlo a casa si formò un piccolo corteo. Ulivacamminava innanzi a testa bassa, pensando ad un vec-chio che la sgridava e col quale bisognava per ore andarsu e giú a fare i solchi; Donato era il primo portatoredella barella, Giusto il secondo; dietro venivano Marta,che aveva già tirato fuori di tasca il rosario ma continua-va solamente a singhiozzare, e Camilla imbarazzata dalpungolo che non sapeva come tenere; Cleto, portando ilcappello e la scarpa del morto, seguiva a qualche passodi distanza e camminava come se avesse fatto moltissi-mo cammino. Incontro a tutti accorse il cane di casa al-legramente; veduta la barella con quel che vi stava, ab-bassò la coda ed uscí in fretta dalla strada. Dopo averposato, con l’aiuto del fratello, il corpo sul saccone dellacella, Giusto lo compose con cura mentre le donne, fuo-ri, cercavano candelieri, si chiamavano, senza far rumo-re. Giusto non entrava mai nello stanzino di Urbano; so-pra l’asse dei libri vide un mezzo pane lasciatovi dalvecchio; allora capí veramente che era finita la vita del-lo zio, tutto quel lavorare e pregare, e che un vero ami-co, quell’uomo severo e coraggioso, era uscito per sem-pre dall’esistenza della famiglia.

Si ricordò dei buoi rimasti nel campo; senza direniente andò per prenderli. Ma laggiú si accorse che re-stava soltanto da fare un paio di solchi; allora rimise glianimali nella direzione giusta, piantò l’aratro dove la

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vide che il vecchio aveva la bocca piena di terra. Gli oc-chi erano tranquilli, sebbene cosí immobili; la barbamostrava i soliti nodi dei giorni di lavoro.

Per portarlo a casa si formò un piccolo corteo. Ulivacamminava innanzi a testa bassa, pensando ad un vec-chio che la sgridava e col quale bisognava per ore andarsu e giú a fare i solchi; Donato era il primo portatoredella barella, Giusto il secondo; dietro venivano Marta,che aveva già tirato fuori di tasca il rosario ma continua-va solamente a singhiozzare, e Camilla imbarazzata dalpungolo che non sapeva come tenere; Cleto, portando ilcappello e la scarpa del morto, seguiva a qualche passodi distanza e camminava come se avesse fatto moltissi-mo cammino. Incontro a tutti accorse il cane di casa al-legramente; veduta la barella con quel che vi stava, ab-bassò la coda ed uscí in fretta dalla strada. Dopo averposato, con l’aiuto del fratello, il corpo sul saccone dellacella, Giusto lo compose con cura mentre le donne, fuo-ri, cercavano candelieri, si chiamavano, senza far rumo-re. Giusto non entrava mai nello stanzino di Urbano; so-pra l’asse dei libri vide un mezzo pane lasciatovi dalvecchio; allora capí veramente che era finita la vita del-lo zio, tutto quel lavorare e pregare, e che un vero ami-co, quell’uomo severo e coraggioso, era uscito per sem-pre dall’esistenza della famiglia.

Si ricordò dei buoi rimasti nel campo; senza direniente andò per prenderli. Ma laggiú si accorse che re-stava soltanto da fare un paio di solchi; allora rimise glianimali nella direzione giusta, piantò l’aratro dove la

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traccia finiva, fece sentire la voce. E le bestie ripresero atirare finché il lavoro fu terminato.

* * *

Tra le pareti bianche, lungo le quali lucevano i mobilidi cristallo e di ferro verniciato di bianco, l’aria era tepi-da, ferma. Di là Sisto sentiva il suo grande istituto, coimolti corpi di fabbrica dov’erano di piano in piano lecorsie e le stanze dei malati, le sale operatorie, le galle-rie vetrate, i laboratori, la cappella, gli atrii, gli ascenso-ri, i sotterranei delle macchine. Tutto era silenzioso enetto. Dentro gli alti edifizi eguali ogni giorno arrivava-no gli infermi per essere ricoverati; si eseguivano leoperazioni, gli assistenti facevano le analisi chimiche,gli esami col microscopio, coi raggi; gli infermieri pren-devano le temperature, le suore passavano senza toccarterra dalle corsie alla cappella; gli ammalati avevano gliaccessi di febbre, gli sbocchi di sangue, si aggravavanoo miglioravano, guarivano o morivano; e tutto andavacome un orologio.

Sulla scrivania Sisto aveva innanzi a sé fotografie dipreparati microscopici e cartelle di appunti. Da qualchetempo s’era dato a studiare nella tubercolosi il problemadell’eredità. Ma ora non riusciva a tener la mente inquei pensieri; era in un’attesa affannosa. Se ne erano ac-corti, nella clinica, del suo turbamento; la superiora del-le monache gli aveva domandato: «Professore, non statebene?».

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traccia finiva, fece sentire la voce. E le bestie ripresero atirare finché il lavoro fu terminato.

* * *

Tra le pareti bianche, lungo le quali lucevano i mobilidi cristallo e di ferro verniciato di bianco, l’aria era tepi-da, ferma. Di là Sisto sentiva il suo grande istituto, coimolti corpi di fabbrica dov’erano di piano in piano lecorsie e le stanze dei malati, le sale operatorie, le galle-rie vetrate, i laboratori, la cappella, gli atrii, gli ascenso-ri, i sotterranei delle macchine. Tutto era silenzioso enetto. Dentro gli alti edifizi eguali ogni giorno arrivava-no gli infermi per essere ricoverati; si eseguivano leoperazioni, gli assistenti facevano le analisi chimiche,gli esami col microscopio, coi raggi; gli infermieri pren-devano le temperature, le suore passavano senza toccarterra dalle corsie alla cappella; gli ammalati avevano gliaccessi di febbre, gli sbocchi di sangue, si aggravavanoo miglioravano, guarivano o morivano; e tutto andavacome un orologio.

Sulla scrivania Sisto aveva innanzi a sé fotografie dipreparati microscopici e cartelle di appunti. Da qualchetempo s’era dato a studiare nella tubercolosi il problemadell’eredità. Ma ora non riusciva a tener la mente inquei pensieri; era in un’attesa affannosa. Se ne erano ac-corti, nella clinica, del suo turbamento; la superiora del-le monache gli aveva domandato: «Professore, non statebene?».

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Perché l’agente non telefonava? La riunione pomeri-diana della Borsa doveva esser terminata. Non potendopiú rimanere seduto, il professor Farra si avvicinòall’ampio finestrone dello studio. Si vedeva dall’alto,sulla riva opposta del Po, l’intera città, che sembravastendersi nella pianura fino alle Alpi, sotto un grigio cie-lo d’inverno: cupole, cime di palazzi, un mare di tetti,tagli di vie, campanili, officine innumerevoli coperte diuno strato di fumo. Ascoltando si udiva un rumorio con-fuso. Là succedeva quella rovina. Sisto guardava dove,press’a poco, stava la Borsa, come per comprendere aquale punto era il disastro. Nella mattina i titoli eranoancora calati spaventosamente; tutta la città aveva lafebbre, faceva vendere vendere, quelle azioni delle fab-briche d’automobili che prima la folla si strappava dimano, quando salivano vertiginosamente e davano gua-dagni a chi ne voleva. Squillò sulla scrivania il telefono;Sisto vi accorse, ma parlava l’amministrazione della cli-nica ed egli rispose con impazienza poi tornò ad aspetta-re davanti al finestrone. Perché si tardava tanto ad infor-marlo? Non distante dal fiume, dietro la lunga macchiarossiccia del Valentino, vi era la sua casa, nascosta; lasua famiglia viveva come sempre, del disastro incomin-ciato non sapeva niente. Di nuovo risuonò il campanellodel telefono; parlava un medico della città, per un mala-to. Rispondendo, Sisto alzò gli occhi alla pendola appe-sa, ad una parete: le due e quarantacinque. Quali notiziegravi aveva da dargli l’agente, che ritardava a quelmodo? Se in Borsa vi fosse stata una ripresa, certamente

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Perché l’agente non telefonava? La riunione pomeri-diana della Borsa doveva esser terminata. Non potendopiú rimanere seduto, il professor Farra si avvicinòall’ampio finestrone dello studio. Si vedeva dall’alto,sulla riva opposta del Po, l’intera città, che sembravastendersi nella pianura fino alle Alpi, sotto un grigio cie-lo d’inverno: cupole, cime di palazzi, un mare di tetti,tagli di vie, campanili, officine innumerevoli coperte diuno strato di fumo. Ascoltando si udiva un rumorio con-fuso. Là succedeva quella rovina. Sisto guardava dove,press’a poco, stava la Borsa, come per comprendere aquale punto era il disastro. Nella mattina i titoli eranoancora calati spaventosamente; tutta la città aveva lafebbre, faceva vendere vendere, quelle azioni delle fab-briche d’automobili che prima la folla si strappava dimano, quando salivano vertiginosamente e davano gua-dagni a chi ne voleva. Squillò sulla scrivania il telefono;Sisto vi accorse, ma parlava l’amministrazione della cli-nica ed egli rispose con impazienza poi tornò ad aspetta-re davanti al finestrone. Perché si tardava tanto ad infor-marlo? Non distante dal fiume, dietro la lunga macchiarossiccia del Valentino, vi era la sua casa, nascosta; lasua famiglia viveva come sempre, del disastro incomin-ciato non sapeva niente. Di nuovo risuonò il campanellodel telefono; parlava un medico della città, per un mala-to. Rispondendo, Sisto alzò gli occhi alla pendola appe-sa, ad una parete: le due e quarantacinque. Quali notiziegravi aveva da dargli l’agente, che ritardava a quelmodo? Se in Borsa vi fosse stata una ripresa, certamente

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lo avrebbe avvertito prima. Ma come poteva esservi unaripresa? L’apparecchio chiamò ancora quasi subito, eadesso parlava l’agente: i titoli avevano perduti molti al-tri punti, molto altro denaro era andato in polvere inquelle poche ore, e bisognava continuare a vendere.

La voce, nel telefono, parve a Sisto quella di un per-secutore, quasi di un carnefice. Posato il ricevitore, ebbeuna certezza terribile, che la discesa dei valori non si sa-rebbe piú fermata e che in fondo al pendío sul quale egliandava scivolando c’era la distruzione di tutto quantopossedeva, la rovina. Si mise a camminare intorno allastanza e guardava le cose come se non le avesse mai vi-ste. Dov’era il ritratto di Antonio Sparvieri, si fermò,sotto lo sguardo chiaro del maestro. Ecco, aveva traditose stesso, il proprio passato, abbandonandosi alla pas-sione del guadagno; non era nemmeno piú capace distudiare, fingeva; ed il risultato doveva esser questo, laperdita di quanto possedeva. Era un castigo ben merita-to.

Colpi leggeri furono battuti all’uscio. In fretta Sisto sirimise alla scrivania, dinanzi alle carte. – Avanti. – Colpasso feltrato entrò la superiora e disse che desideravaparlare al professore una donna anziana. – È una dei po-veri: la madre di quel giovine che si chiama Reano –precisò la monaca, che conosceva e ricordava la vitadell’ospedale in ogni particolare. Avendo il direttore fat-to cenno che fosse introdotta, si presentò di lí a pocouna gran donna vestita umilmente di scuro, che parevaanche piú grande e piú scura nella bianchezza della

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lo avrebbe avvertito prima. Ma come poteva esservi unaripresa? L’apparecchio chiamò ancora quasi subito, eadesso parlava l’agente: i titoli avevano perduti molti al-tri punti, molto altro denaro era andato in polvere inquelle poche ore, e bisognava continuare a vendere.

La voce, nel telefono, parve a Sisto quella di un per-secutore, quasi di un carnefice. Posato il ricevitore, ebbeuna certezza terribile, che la discesa dei valori non si sa-rebbe piú fermata e che in fondo al pendío sul quale egliandava scivolando c’era la distruzione di tutto quantopossedeva, la rovina. Si mise a camminare intorno allastanza e guardava le cose come se non le avesse mai vi-ste. Dov’era il ritratto di Antonio Sparvieri, si fermò,sotto lo sguardo chiaro del maestro. Ecco, aveva traditose stesso, il proprio passato, abbandonandosi alla pas-sione del guadagno; non era nemmeno piú capace distudiare, fingeva; ed il risultato doveva esser questo, laperdita di quanto possedeva. Era un castigo ben merita-to.

Colpi leggeri furono battuti all’uscio. In fretta Sisto sirimise alla scrivania, dinanzi alle carte. – Avanti. – Colpasso feltrato entrò la superiora e disse che desideravaparlare al professore una donna anziana. – È una dei po-veri: la madre di quel giovine che si chiama Reano –precisò la monaca, che conosceva e ricordava la vitadell’ospedale in ogni particolare. Avendo il direttore fat-to cenno che fosse introdotta, si presentò di lí a pocouna gran donna vestita umilmente di scuro, che parevaanche piú grande e piú scura nella bianchezza della

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stanza, una madre di famiglia come se ne vedevano nel-le case operaie, robusta, provata dalla miseria e dalle av-versità ma fortissima.

— Professore, scusatemi. Mio figlio adesso sta bene.Perfettamente! Lavora da meccanico come prima. Nes-suno direbbe che avesse quel male.

Nemmeno la donna, pensava Sisto, sembrava la ma-dre di un tisico; rammentò che di tubercolosi era mortoil padre del giovine. La donna continuava: – Ma io ave-vo proprio necessità di parlarvi. Volevo vedervi, profes-sore. Voi lo avete visitato, lo avete operato. Mio figlio èstato tenuto qui tre mesi, gli hanno dati i rimedi, lo hanfatto tornare per le visite, e non abbiamo pagato niente.Non avremmo potuto pagare. Mio figlio mi ha detto chisiete voi, come lo trattavate. È vero, è vero. Si vede an-che dal vostro viso, dalla vostra persona!

La visitatrice lo considerava cogli occhi larghi, umididi lacrime, piegando un poco verso di lui, che stavasempre seduto alla scrivania, la gagliarda statura; e Sistoaveva la sensazione meravigliosa d’esser visto come unuomo diverso dagli altri, un uomo piú potente e piú buo-no degli altri. La donna guardò intorno, se proprio fos-sero soli: – Professore, sono venuta qui apposta, sonovenuta da sola apposta; se vi fosse qualcuno, non oserei:lasciatemi inginocchiare davanti a voi. – Si appoggiòcon ambe le mani alla tavola, come avrebbe fatto, fati-cosamente, per mettersi a pregare dinanzi ad un altare.

Per un istante Sisto sentí soltanto che cosa era lascienza, com’erano alti questo lavoro, questa meditazio-

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stanza, una madre di famiglia come se ne vedevano nel-le case operaie, robusta, provata dalla miseria e dalle av-versità ma fortissima.

— Professore, scusatemi. Mio figlio adesso sta bene.Perfettamente! Lavora da meccanico come prima. Nes-suno direbbe che avesse quel male.

Nemmeno la donna, pensava Sisto, sembrava la ma-dre di un tisico; rammentò che di tubercolosi era mortoil padre del giovine. La donna continuava: – Ma io ave-vo proprio necessità di parlarvi. Volevo vedervi, profes-sore. Voi lo avete visitato, lo avete operato. Mio figlio èstato tenuto qui tre mesi, gli hanno dati i rimedi, lo hanfatto tornare per le visite, e non abbiamo pagato niente.Non avremmo potuto pagare. Mio figlio mi ha detto chisiete voi, come lo trattavate. È vero, è vero. Si vede an-che dal vostro viso, dalla vostra persona!

La visitatrice lo considerava cogli occhi larghi, umididi lacrime, piegando un poco verso di lui, che stavasempre seduto alla scrivania, la gagliarda statura; e Sistoaveva la sensazione meravigliosa d’esser visto come unuomo diverso dagli altri, un uomo piú potente e piú buo-no degli altri. La donna guardò intorno, se proprio fos-sero soli: – Professore, sono venuta qui apposta, sonovenuta da sola apposta; se vi fosse qualcuno, non oserei:lasciatemi inginocchiare davanti a voi. – Si appoggiòcon ambe le mani alla tavola, come avrebbe fatto, fati-cosamente, per mettersi a pregare dinanzi ad un altare.

Per un istante Sisto sentí soltanto che cosa era lascienza, com’erano alti questo lavoro, questa meditazio-

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ne, questa pazienza, questo sacrificio che si risolvevanoin aiuto a tanta gente che soffriva; ma pensò subito chiegli era veramente, che altro aveva fatto, immischiatonegli «affari», preso dalla passione del gioco, del dena-ro; e un brivido di vergogna gli corse da cima a fondo.Non era degno del posto che occupava, del bene che po-teva fare. Si piegò prestamente in avanti, verso la donna,toccò quelle mani posate sul piano di cristallo; le disse,prima che i duri ginocchi si fossero posati sul pavimen-to: – No, no! Non fate questo. Mi bastano le parole diringraziamento, che mi sono molto care. – Mostrava unpoco di agitazione e di confusione; tosto riprese, però, lemaniere del medico, del direttore: – La clinica esiste aquesto scopo, per curare, per guarire quando si può. Etutti vi sono trattati alla stessa maniera. – Premé il botto-ne d’un campanello; la suora riapparve immediatamen-te.

— Badate che vostro figlio non lavori troppo – disseancora Sisto alla visitatrice, mentre con uno sguardo or-dinava alla suora di riaccompagnarla. – Si nutrisca benee conduca una vita regolata.

La donna sembrava scontenta di non aver potutocompiere l’atto che voleva, ma si riprese; a testa alta silasciò sospingere fuori dalla monaca, e nell’uscire dallaporta non si volse piú indietro. Sisto tolse da un attacca-panni il suo càmice bianco e lo infilò per fare un gironella clinica. Poteva pur sempre sollevarsi al disopra deivili «affari», non pensar al denaro, stare nel suo veromondo, ritrovare se stesso. Certamente, ma l’indomani

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ne, questa pazienza, questo sacrificio che si risolvevanoin aiuto a tanta gente che soffriva; ma pensò subito chiegli era veramente, che altro aveva fatto, immischiatonegli «affari», preso dalla passione del gioco, del dena-ro; e un brivido di vergogna gli corse da cima a fondo.Non era degno del posto che occupava, del bene che po-teva fare. Si piegò prestamente in avanti, verso la donna,toccò quelle mani posate sul piano di cristallo; le disse,prima che i duri ginocchi si fossero posati sul pavimen-to: – No, no! Non fate questo. Mi bastano le parole diringraziamento, che mi sono molto care. – Mostrava unpoco di agitazione e di confusione; tosto riprese, però, lemaniere del medico, del direttore: – La clinica esiste aquesto scopo, per curare, per guarire quando si può. Etutti vi sono trattati alla stessa maniera. – Premé il botto-ne d’un campanello; la suora riapparve immediatamen-te.

— Badate che vostro figlio non lavori troppo – disseancora Sisto alla visitatrice, mentre con uno sguardo or-dinava alla suora di riaccompagnarla. – Si nutrisca benee conduca una vita regolata.

La donna sembrava scontenta di non aver potutocompiere l’atto che voleva, ma si riprese; a testa alta silasciò sospingere fuori dalla monaca, e nell’uscire dallaporta non si volse piú indietro. Sisto tolse da un attacca-panni il suo càmice bianco e lo infilò per fare un gironella clinica. Poteva pur sempre sollevarsi al disopra deivili «affari», non pensar al denaro, stare nel suo veromondo, ritrovare se stesso. Certamente, ma l’indomani

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il tracollo delle azioni sarebbe continuato, e poi nei gior-ni seguenti; non bastava non pensarvi. Non bastavanemmeno lasciare che questa ricchezza diventasse cene-re: bisognava sapere, occuparsi per forza di quelle cose,vivere la catastrofe giorno per giorno, ora per ora. Intan-to era necessario informar la famiglia. Come avrebbeparlato? Cosí tardi! Adagio riuniva sulla scrivania le fo-tografie, le note, le richiudeva in un cassetto, e ad untratto si trovò deciso a dir tutto a Claudia la sera stessa.

A casa cenava sempre dopo gli altri e Claudia gli te-neva compagnia discorrendo. Quella sera egli non poténemmeno provarsi a mangiare; le disse subito: – Vienidi sopra –; salí con lei nel proprio studio. Ella aveva ca-pito di dover apprendere cose assai gravi. Già l’angosciadella crisi pesava su tutta la città; anche le signore nonparlavano che di questo, e si diceva di gente ormaisull’orlo dell’abisso, si temeva un gran crollo. Sisto nonle aveva nascosto d’aver contribuito con una somma im-portante a creare una nuova industria, una fonderia cheproduceva metalli per le automobili ed i velivoli; ellasapeva che quelle azioni erano andate cadendo cometante altre, ma Sisto le aveva lasciato sperare che potes-sero ancora risalire. Ora le disse che quel denaro biso-gnava considerarlo perduto. – Erano duecentomila lire.– S’era fermato in mezzo alla stanza e parlava a vocebassa, in tono aspro, rimanendo in piedi. Andata in visi-ta, Claudia indossava ancora un vestito nero, attillato ericamato di giaietto che sotto il lampadario scintillava;guardava il marito senza aprir bocca né fare un gesto,

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il tracollo delle azioni sarebbe continuato, e poi nei gior-ni seguenti; non bastava non pensarvi. Non bastavanemmeno lasciare che questa ricchezza diventasse cene-re: bisognava sapere, occuparsi per forza di quelle cose,vivere la catastrofe giorno per giorno, ora per ora. Intan-to era necessario informar la famiglia. Come avrebbeparlato? Cosí tardi! Adagio riuniva sulla scrivania le fo-tografie, le note, le richiudeva in un cassetto, e ad untratto si trovò deciso a dir tutto a Claudia la sera stessa.

A casa cenava sempre dopo gli altri e Claudia gli te-neva compagnia discorrendo. Quella sera egli non poténemmeno provarsi a mangiare; le disse subito: – Vienidi sopra –; salí con lei nel proprio studio. Ella aveva ca-pito di dover apprendere cose assai gravi. Già l’angosciadella crisi pesava su tutta la città; anche le signore nonparlavano che di questo, e si diceva di gente ormaisull’orlo dell’abisso, si temeva un gran crollo. Sisto nonle aveva nascosto d’aver contribuito con una somma im-portante a creare una nuova industria, una fonderia cheproduceva metalli per le automobili ed i velivoli; ellasapeva che quelle azioni erano andate cadendo cometante altre, ma Sisto le aveva lasciato sperare che potes-sero ancora risalire. Ora le disse che quel denaro biso-gnava considerarlo perduto. – Erano duecentomila lire.– S’era fermato in mezzo alla stanza e parlava a vocebassa, in tono aspro, rimanendo in piedi. Andata in visi-ta, Claudia indossava ancora un vestito nero, attillato ericamato di giaietto che sotto il lampadario scintillava;guardava il marito senza aprir bocca né fare un gesto,

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perché sentiva che doveva udire di peggio. Infatti eglicontinuò, affrettando le parole: – Ma possiedo anchemolte altre azioni, di queste che precipitano. Molte! Esono anche impegnato nel gioco a riporto. Sai che cos’è:cifre sui fogli di carta degli agenti, le differenze alla finedel mese. Perdo molto e non posso ritirarmi; non servi-rebbe piú a nulla.

Claudia aveva un’impressione di smarrimento, comese attorno a lei il mondo stesse per disfarsi. Guardavasempre il marito, diritta, immobile, senza dire niente.Fatto qualche passo per scostarsi, Sisto si voltò, si pian-tò bruscamente, incrociando le braccia con uno dei suoimoti severi, come giudicando un altro. Disse: – Era de-naro vostro! – Il suo viso appariva alterato da una soffe-renza profonda e la voce gli tremava, sembrava doversirompere in pianto: – Anche se l’avevo guadagnato io,col lavoro e con gli affari, era vostro, l’avevo voluto pervoi. Era l’avvenire dei figli.

Nel volto di Claudia, piú bianco del consueto, gli oc-chi avevano l’ardore dei suoi momenti di febbre. – Cre-di che il ribasso non si fermerà?

— È un panico, tutti vendono. È anche la fine di ungioco, di una frode. È qualchecosa che si sfascia, sonopezzi di carta che volano via.

— Allora perderemo tutto?Sisto allargò un poco le braccia, le lasciò ricadere.

Ella sedette sulla sedia che aveva piú vicina, mettendosia piangere; e non aveva fazzoletto per asciugarsi le la-crime: – Dammi il tuo fazzoletto – disse.

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perché sentiva che doveva udire di peggio. Infatti eglicontinuò, affrettando le parole: – Ma possiedo anchemolte altre azioni, di queste che precipitano. Molte! Esono anche impegnato nel gioco a riporto. Sai che cos’è:cifre sui fogli di carta degli agenti, le differenze alla finedel mese. Perdo molto e non posso ritirarmi; non servi-rebbe piú a nulla.

Claudia aveva un’impressione di smarrimento, comese attorno a lei il mondo stesse per disfarsi. Guardavasempre il marito, diritta, immobile, senza dire niente.Fatto qualche passo per scostarsi, Sisto si voltò, si pian-tò bruscamente, incrociando le braccia con uno dei suoimoti severi, come giudicando un altro. Disse: – Era de-naro vostro! – Il suo viso appariva alterato da una soffe-renza profonda e la voce gli tremava, sembrava doversirompere in pianto: – Anche se l’avevo guadagnato io,col lavoro e con gli affari, era vostro, l’avevo voluto pervoi. Era l’avvenire dei figli.

Nel volto di Claudia, piú bianco del consueto, gli oc-chi avevano l’ardore dei suoi momenti di febbre. – Cre-di che il ribasso non si fermerà?

— È un panico, tutti vendono. È anche la fine di ungioco, di una frode. È qualchecosa che si sfascia, sonopezzi di carta che volano via.

— Allora perderemo tutto?Sisto allargò un poco le braccia, le lasciò ricadere.

Ella sedette sulla sedia che aveva piú vicina, mettendosia piangere; e non aveva fazzoletto per asciugarsi le la-crime: – Dammi il tuo fazzoletto – disse.

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Intorno allo studio stavano ricchi scaffali scuri con li-bri bene in ordine, e sopra una tavola, nel vaso di vetrodove Claudia faceva ogni giorno metter fiori, brillavanodelle rose rosse. Sisto riprese ad un tratto: – Io non tiavevo mai parlato! Non ti ho chiesto un consiglio! Que-gli affari non erano degni di me ed io lo sapevo; mi sareivergognato a parlarne.

Claudia, che teneva il capo basso, lo rialzò vivamen-te: – Ed io, perché non ho parlato? Perché non ho tenta-to di sapere? Finché si sentiva la prosperità, la fortuna,si andava innanzi senza cercar altro. Non hai avuto unringraziamento, mai, da nessuno. La colpa di quello chesuccede, è anche mia. – Continuando a piangere, loguardò con un’attenzione diversa; e credette di accor-gersi per la prima volta che il marito era già sulla sogliadella vecchiaia: aveva anche i corti baffi lucentid’argento come le tempia, due pieghe stanche ai lati del-la bocca; in tutta la sua persona si accentuava la somi-glianza col padre, come se l’invecchiamento dovesse ri-petersi preciso, punto per punto. Ella lo chiamò a sé ten-dendogli una mano. E Sisto ebbe per un attimo il desi-derio di baciare questa mano; invece la strinse appena,calda, vibrante, poi s’andò a sedere alla scrivania doveaveva passate tante ore lavorando nel silenzio delle not-ti; vi accese la lampada per abitudine.

Perdere tutto quanto si possedeva – pensava Claudia:– poteva succedere questo e non vi era niente da fare.All’improvviso le venne in mente, e le mise addosso unfreddo di paura, il destino degli Andosio. Aveva sperato

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Intorno allo studio stavano ricchi scaffali scuri con li-bri bene in ordine, e sopra una tavola, nel vaso di vetrodove Claudia faceva ogni giorno metter fiori, brillavanodelle rose rosse. Sisto riprese ad un tratto: – Io non tiavevo mai parlato! Non ti ho chiesto un consiglio! Que-gli affari non erano degni di me ed io lo sapevo; mi sareivergognato a parlarne.

Claudia, che teneva il capo basso, lo rialzò vivamen-te: – Ed io, perché non ho parlato? Perché non ho tenta-to di sapere? Finché si sentiva la prosperità, la fortuna,si andava innanzi senza cercar altro. Non hai avuto unringraziamento, mai, da nessuno. La colpa di quello chesuccede, è anche mia. – Continuando a piangere, loguardò con un’attenzione diversa; e credette di accor-gersi per la prima volta che il marito era già sulla sogliadella vecchiaia: aveva anche i corti baffi lucentid’argento come le tempia, due pieghe stanche ai lati del-la bocca; in tutta la sua persona si accentuava la somi-glianza col padre, come se l’invecchiamento dovesse ri-petersi preciso, punto per punto. Ella lo chiamò a sé ten-dendogli una mano. E Sisto ebbe per un attimo il desi-derio di baciare questa mano; invece la strinse appena,calda, vibrante, poi s’andò a sedere alla scrivania doveaveva passate tante ore lavorando nel silenzio delle not-ti; vi accese la lampada per abitudine.

Perdere tutto quanto si possedeva – pensava Claudia:– poteva succedere questo e non vi era niente da fare.All’improvviso le venne in mente, e le mise addosso unfreddo di paura, il destino degli Andosio. Aveva sperato

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sottrarsi a quel destino di decadenza, di distruzione. Do-veva invece subirlo come gli altri? La ricchezza per i fi-gli sfumava, il loro avvenire non era piú sicuro. Anchein loro doveva continuar la sfortuna? Aleramo ed Orten-sia, dopo aver litigato per causa di affari bizzarri tentatiassieme e mal riusciti, si erano già divisi; Aleramo eradeluso della libertà, scriveva: «Non sono che un galeot-to a spasso». Voleva espatriare, andare a Parigi; forsegiocava di nuovo. Ma perché tutta la famiglia dovevaportare la stessa maledizione ed arrivare sempre a qual-che rovina?

Claudia andò ad una finestra, scostò una delle tendeleggere; il giardino loro e gli altri accanto, i fanali dellavia, gli alberi lontani del parco stavano immersi in unanebbia rada, e la notte invernale pareva piena di perico-li; subito ella si rivolse verso la stanza. Sisto s’era messii grandi occhiali ma non leggeva né scriveva, guardavavagamente innanzi a sé nell’aria. Con le pupille febbrilinel viso pallido, col busto di giaietto che scintillava,Claudia gli venne vicina, si piegò ad abbracciarlo; vide,cosí da presso, una delle sue tempia incanutite e vi posòle labbra. – Che importa ciò che perderemo? – gli disse.– Ci restano tante cose belle!

Poiché ebbe incarico di avvertire gli altri, l’indomaniella parlò separatamente ai figli e ad Ascanio. Provaro-no tutti lo stesso stupore e quel dolore di vedere una talericchezza distruggersi ad un tratto senza che si potessefare niente; però si mostrarono coraggiosi, non volleroapparire al capo di casa troppo diversi da prima. Ga-

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sottrarsi a quel destino di decadenza, di distruzione. Do-veva invece subirlo come gli altri? La ricchezza per i fi-gli sfumava, il loro avvenire non era piú sicuro. Anchein loro doveva continuar la sfortuna? Aleramo ed Orten-sia, dopo aver litigato per causa di affari bizzarri tentatiassieme e mal riusciti, si erano già divisi; Aleramo eradeluso della libertà, scriveva: «Non sono che un galeot-to a spasso». Voleva espatriare, andare a Parigi; forsegiocava di nuovo. Ma perché tutta la famiglia dovevaportare la stessa maledizione ed arrivare sempre a qual-che rovina?

Claudia andò ad una finestra, scostò una delle tendeleggere; il giardino loro e gli altri accanto, i fanali dellavia, gli alberi lontani del parco stavano immersi in unanebbia rada, e la notte invernale pareva piena di perico-li; subito ella si rivolse verso la stanza. Sisto s’era messii grandi occhiali ma non leggeva né scriveva, guardavavagamente innanzi a sé nell’aria. Con le pupille febbrilinel viso pallido, col busto di giaietto che scintillava,Claudia gli venne vicina, si piegò ad abbracciarlo; vide,cosí da presso, una delle sue tempia incanutite e vi posòle labbra. – Che importa ciò che perderemo? – gli disse.– Ci restano tante cose belle!

Poiché ebbe incarico di avvertire gli altri, l’indomaniella parlò separatamente ai figli e ad Ascanio. Provaro-no tutti lo stesso stupore e quel dolore di vedere una talericchezza distruggersi ad un tratto senza che si potessefare niente; però si mostrarono coraggiosi, non volleroapparire al capo di casa troppo diversi da prima. Ga-

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briella portava ancora la bruna capigliatura sparsa sullespalle sebbene fosse allo sboccio di una rigogliosa pu-bertà; era alta, soda, pesante; leggeva con passione, so-nava bene il pianoforte, amava molto la musica e pocogli altri studi; le piaceva parlare di argomenti seri, poi laripigliavano momenti di svagatezza infantile. – Non sa-remo mica proprio poveri? – disse alla madre. Il nonnopensò che dovesse finire l’esistenza alla quale si era gra-devolmente abituato: andare a passeggio, scrivere tran-quillamente i suoi ricordi del Risorgimento. In Grazianodurava una meraviglia che il padre si fosse lasciatoprendere da quegli affari, da quel gioco. Ma il seguitodella crisi fu cosí rapido ed inesorabile da non dar tem-po a riflessioni.

Ogni riunione della Borsa era per la città un avveni-mento nefasto; uscivano da quel luogo ventate di rovina,le azioni ne erano portate come foglie secche; non sol-tanto la caduta dei valori non aveva soste, ma le quotefacevano da un giorno all’altro salti sempre piú paurosiverso il precipizio. Non si udiva che questo discorso; lagente aspettava con ansia le edizioni dei giornali, si ad-densava dinanzi alle vetrine delle banche a leggerel’ultimo bollettino, ripeteva quelle cifre; nel gioco eranorimasti presi anche i piccoli possidenti, gli speculatori dicorto fiato, ed eran loro che si agitavano di piú, lagnan-dosi piú altamente; le giornate, le ore eran sentite passa-re con affanno, come se portassero la sventura di tutti,anche da coloro che non sapevano bene che cosa fossela Borsa né avevano mai comprato un titolo. Accadeva-

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briella portava ancora la bruna capigliatura sparsa sullespalle sebbene fosse allo sboccio di una rigogliosa pu-bertà; era alta, soda, pesante; leggeva con passione, so-nava bene il pianoforte, amava molto la musica e pocogli altri studi; le piaceva parlare di argomenti seri, poi laripigliavano momenti di svagatezza infantile. – Non sa-remo mica proprio poveri? – disse alla madre. Il nonnopensò che dovesse finire l’esistenza alla quale si era gra-devolmente abituato: andare a passeggio, scrivere tran-quillamente i suoi ricordi del Risorgimento. In Grazianodurava una meraviglia che il padre si fosse lasciatoprendere da quegli affari, da quel gioco. Ma il seguitodella crisi fu cosí rapido ed inesorabile da non dar tem-po a riflessioni.

Ogni riunione della Borsa era per la città un avveni-mento nefasto; uscivano da quel luogo ventate di rovina,le azioni ne erano portate come foglie secche; non sol-tanto la caduta dei valori non aveva soste, ma le quotefacevano da un giorno all’altro salti sempre piú paurosiverso il precipizio. Non si udiva che questo discorso; lagente aspettava con ansia le edizioni dei giornali, si ad-densava dinanzi alle vetrine delle banche a leggerel’ultimo bollettino, ripeteva quelle cifre; nel gioco eranorimasti presi anche i piccoli possidenti, gli speculatori dicorto fiato, ed eran loro che si agitavano di piú, lagnan-dosi piú altamente; le giornate, le ore eran sentite passa-re con affanno, come se portassero la sventura di tutti,anche da coloro che non sapevano bene che cosa fossela Borsa né avevano mai comprato un titolo. Accadeva-

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no gli stessi fatti nelle altre città, e da quelle Borse giun-gevano cifre egualmente disastrose, talvolta peggiori,previsioni fosche. Le officine e le macchine, gli operaied il loro lavoro, non parevano piú niente, cose devasta-te; molte fabbriche s’erano veramente chiuse; d’altraparte, alcune delle officine di cui si trafficavano le azio-ni, non avevano mai neppure incominciato a lavorare. Ilgioco era di carta e di voci, di telegrammi, di annotazio-ni sui taccuini, di parole urlate nelle Borse, di parolegettate per telefono. Vendere, vendere! Quanti possede-vano azioni compromesse, erano in preda alla smania didisfarsene, a quella febbre. Per salvarsi, certuni si dava-no disperatamente a comprar titoli d’altro genere, a ri-venderli, roteati in un vortice di nomi strani e di cifreche talora facevano brevi balzi all’insú per riprenderepoi a cadere anch’esse, a fare i salti verso il precipizio.Sisto si sforzava ogni giorno di comprendere per sommicapi quale fosse la propria situazione. In casa nessunogli domandava nulla. Tra la gente della quale si sapevache già aveva subite perdite gravi, erano conoscenti deiFarra; una delle vecchie cugine nobili di Claudia era ri-dotta alla miseria; chi se ne lagnava e chi sopportava ta-cendo. Per la città si faceva un gran gridare d’essere de-rubati; nomi di banchieri e di capitani delle nuove indu-strie, sospettati di aver congegnato l’inganno e d’insac-care ciò che tanti altri perdevano, venivano pronunziaticon odio. Altri orditori d’affari erano però travolti dallafrana, in tutta l’Italia.

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no gli stessi fatti nelle altre città, e da quelle Borse giun-gevano cifre egualmente disastrose, talvolta peggiori,previsioni fosche. Le officine e le macchine, gli operaied il loro lavoro, non parevano piú niente, cose devasta-te; molte fabbriche s’erano veramente chiuse; d’altraparte, alcune delle officine di cui si trafficavano le azio-ni, non avevano mai neppure incominciato a lavorare. Ilgioco era di carta e di voci, di telegrammi, di annotazio-ni sui taccuini, di parole urlate nelle Borse, di parolegettate per telefono. Vendere, vendere! Quanti possede-vano azioni compromesse, erano in preda alla smania didisfarsene, a quella febbre. Per salvarsi, certuni si dava-no disperatamente a comprar titoli d’altro genere, a ri-venderli, roteati in un vortice di nomi strani e di cifreche talora facevano brevi balzi all’insú per riprenderepoi a cadere anch’esse, a fare i salti verso il precipizio.Sisto si sforzava ogni giorno di comprendere per sommicapi quale fosse la propria situazione. In casa nessunogli domandava nulla. Tra la gente della quale si sapevache già aveva subite perdite gravi, erano conoscenti deiFarra; una delle vecchie cugine nobili di Claudia era ri-dotta alla miseria; chi se ne lagnava e chi sopportava ta-cendo. Per la città si faceva un gran gridare d’essere de-rubati; nomi di banchieri e di capitani delle nuove indu-strie, sospettati di aver congegnato l’inganno e d’insac-care ciò che tanti altri perdevano, venivano pronunziaticon odio. Altri orditori d’affari erano però travolti dallafrana, in tutta l’Italia.

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Nelle mani di Sisto molti dei titoli, prima che si po-tesse tentar di venderli, divennero veramente cartaccia;altri furono venduti a prezzi dieci o venti volte inferiorial costo, ed il ricavato lo ingoiarono le perdite nel giocoal riporto. Alla resa dei conti risultò che le differenze di-voravano tutto il danaro di cui egli ancora disponeva, eche rimaneva un debito ingente. Bisognava vendere lacasa di città. Subito Sisto provvide a far cercare un com-pratore. Tutto il male era previsto; pure, quando fu acca-duto interamente, la famiglia si trovò in un dolore nuo-vo, piú crudele, ed in un avvilimento come se ciascunosi sentisse cambiato e privo di forze. Poco conforto da-vano le circostanze del disastro che era quasi una cala-mità pubblica. Con Sisto ne parlava soltanto Claudia lasera quando egli rincasava. La sua parte di proprietà del-la clinica ed i larghi guadagni di consulente assicurava-no sempre un’esistenza signorile; ma la catastrofe avevamessa in tutti una passione di vivere diversamente e difar qualchecosa; Gabriella disse alla madre che volevacontinuare al Conservatorio lo studio del pianoforte perfarsi una carriera; Ascanio fece trovare al figlio, sullascrivania dello studio, una lettera nella quale diceva cheavrebbe potuto guadagnarsi seriamente uno stipendio la-vorando nell’amministrazione della clinica; e Sisto ri-spose, pure per iscritto, che non vi era affatto questa ne-cessità e che egli aveva già lavorato abbastanza, mamise la lettera del vecchio tra le sue carte piú preziose.In quei giorni Claudia si domandava, studiandosi il visonello specchio, se non fosse troppo tardi per ricostruire

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Nelle mani di Sisto molti dei titoli, prima che si po-tesse tentar di venderli, divennero veramente cartaccia;altri furono venduti a prezzi dieci o venti volte inferiorial costo, ed il ricavato lo ingoiarono le perdite nel giocoal riporto. Alla resa dei conti risultò che le differenze di-voravano tutto il danaro di cui egli ancora disponeva, eche rimaneva un debito ingente. Bisognava vendere lacasa di città. Subito Sisto provvide a far cercare un com-pratore. Tutto il male era previsto; pure, quando fu acca-duto interamente, la famiglia si trovò in un dolore nuo-vo, piú crudele, ed in un avvilimento come se ciascunosi sentisse cambiato e privo di forze. Poco conforto da-vano le circostanze del disastro che era quasi una cala-mità pubblica. Con Sisto ne parlava soltanto Claudia lasera quando egli rincasava. La sua parte di proprietà del-la clinica ed i larghi guadagni di consulente assicurava-no sempre un’esistenza signorile; ma la catastrofe avevamessa in tutti una passione di vivere diversamente e difar qualchecosa; Gabriella disse alla madre che volevacontinuare al Conservatorio lo studio del pianoforte perfarsi una carriera; Ascanio fece trovare al figlio, sullascrivania dello studio, una lettera nella quale diceva cheavrebbe potuto guadagnarsi seriamente uno stipendio la-vorando nell’amministrazione della clinica; e Sisto ri-spose, pure per iscritto, che non vi era affatto questa ne-cessità e che egli aveva già lavorato abbastanza, mamise la lettera del vecchio tra le sue carte piú preziose.In quei giorni Claudia si domandava, studiandosi il visonello specchio, se non fosse troppo tardi per ricostruire

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almeno in parte ciò ch’era stato distrutto. In segreto te-meva di non poter conservare la villa della pineta: in po-chi anni la casa e la collina avevano presa una bell’ariafamiliare, ma bisognava sempre spendervi molto. Prestoella mostrò tuttavia, col suo brio nervoso, che aveva ri-trovate le speranze.

Nel disastro Graziano aveva soprattutto avuta una im-pressione violenta del mondo, della folla che si avevaintorno e della maniera come si viveva. La crisi dellaBorsa gli aveva fatto sentire una specie di guerra nellaquale il denaro veniva rubato, si disfacevano le ricchez-ze, si spargevano rovine, mentre le solite leggi e regolesembravano rispettate e le cose conservavano l’apparen-za solita. Tutto ciò era ammesso; si sapeva bene che lavita era una lotta, combattuta con metodi complicati,con fredda intelligenza, con ferocia nascosta. Ciascunolavorava, intrigava, faceva i suoi calcoli, combatteva, esoltanto in questo modo credeva di vivere. Egli solo nonfaceva niente. In disparte guardava appena ciò che acca-deva. Non era niente. Dopo l’insuccesso del drammanon aveva piú avuta volontà di niente. Un insuccesso?No, un avvenimento finito subito nel silenzio. Il famosoattore aveva rappresentate «Le notti» a Milano e poi inaltre città importanti; c’erano stati applausi, nei giornaligiudizi favorevoli e giudizi contrarii, in ogni luogo qual-che replica; e tutto era rimasto come prima. Ormai eranopassati quattro anni, ma egli ricordava le ore vissute aMilano, passeggiando da solo mentre aspettava di torna-re a teatro per la seconda recita: la città, al termine

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almeno in parte ciò ch’era stato distrutto. In segreto te-meva di non poter conservare la villa della pineta: in po-chi anni la casa e la collina avevano presa una bell’ariafamiliare, ma bisognava sempre spendervi molto. Prestoella mostrò tuttavia, col suo brio nervoso, che aveva ri-trovate le speranze.

Nel disastro Graziano aveva soprattutto avuta una im-pressione violenta del mondo, della folla che si avevaintorno e della maniera come si viveva. La crisi dellaBorsa gli aveva fatto sentire una specie di guerra nellaquale il denaro veniva rubato, si disfacevano le ricchez-ze, si spargevano rovine, mentre le solite leggi e regolesembravano rispettate e le cose conservavano l’apparen-za solita. Tutto ciò era ammesso; si sapeva bene che lavita era una lotta, combattuta con metodi complicati,con fredda intelligenza, con ferocia nascosta. Ciascunolavorava, intrigava, faceva i suoi calcoli, combatteva, esoltanto in questo modo credeva di vivere. Egli solo nonfaceva niente. In disparte guardava appena ciò che acca-deva. Non era niente. Dopo l’insuccesso del drammanon aveva piú avuta volontà di niente. Un insuccesso?No, un avvenimento finito subito nel silenzio. Il famosoattore aveva rappresentate «Le notti» a Milano e poi inaltre città importanti; c’erano stati applausi, nei giornaligiudizi favorevoli e giudizi contrarii, in ogni luogo qual-che replica; e tutto era rimasto come prima. Ormai eranopassati quattro anni, ma egli ricordava le ore vissute aMilano, passeggiando da solo mentre aspettava di torna-re a teatro per la seconda recita: la città, al termine

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d’una giornata di lavoro, era animata e festosa, e non sicurava affatto de «Le notti», non se n’era accorta. Egliaveva sentito che l’opera era mancata. Dopo, non avevascritto e pubblicato che qualche racconto. Era rimastofuori dell’università, frequentando soltanto il vecchiopalazzo per fare lunghe letture in biblioteca. Abbozzatealtre opere di teatro, le aveva lasciate subito. Non sape-va che far di sé ed aveva addosso una gran noia. Piú chemai lo scrivere gli pareva fatica inutile; del resto, pensa-va di nuovo che fossero inutili tutte le cose e che nonvalesse la pena di occuparsi di nulla. Suo padre si eraun’altra volta allontanato da lui, certamente delusodall’esito del dramma; nella madre la delusione non sivedeva, ma forse ella aspettava per lui un avvenire an-cora molto distante. Quegli anni erano passati cosí.Anni! A riguardarli non erano che ozio e noia, tempovuoto.

Per la casa si trovò il compratore. Frattanto erano stativenduti i cavalli e le carrozze, anche un grande cavalloirlandese, ottimo saltatore, che aveva sostituito Ilisso.La famiglia andò ad occupare un appartamento preso apigione in una delle tante case nuove di ferro e cemento,enorme, dove ancora duravano gli odori del lavoro ap-pena finito. Era stata ridotta la servitú. Sisto pareva es-sersi imposta una disciplina ancor piú severa. Il figliodecise che non si sarebbe piú lasciato mantenere comeprima. Le passeggiate doveva adesso farle a piedi, tutta-via continuava ad uscire nella campagna; lo agitava unbisogno di vivere come gli altri, di entrare in quella lot-

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d’una giornata di lavoro, era animata e festosa, e non sicurava affatto de «Le notti», non se n’era accorta. Egliaveva sentito che l’opera era mancata. Dopo, non avevascritto e pubblicato che qualche racconto. Era rimastofuori dell’università, frequentando soltanto il vecchiopalazzo per fare lunghe letture in biblioteca. Abbozzatealtre opere di teatro, le aveva lasciate subito. Non sape-va che far di sé ed aveva addosso una gran noia. Piú chemai lo scrivere gli pareva fatica inutile; del resto, pensa-va di nuovo che fossero inutili tutte le cose e che nonvalesse la pena di occuparsi di nulla. Suo padre si eraun’altra volta allontanato da lui, certamente delusodall’esito del dramma; nella madre la delusione non sivedeva, ma forse ella aspettava per lui un avvenire an-cora molto distante. Quegli anni erano passati cosí.Anni! A riguardarli non erano che ozio e noia, tempovuoto.

Per la casa si trovò il compratore. Frattanto erano stativenduti i cavalli e le carrozze, anche un grande cavalloirlandese, ottimo saltatore, che aveva sostituito Ilisso.La famiglia andò ad occupare un appartamento preso apigione in una delle tante case nuove di ferro e cemento,enorme, dove ancora duravano gli odori del lavoro ap-pena finito. Era stata ridotta la servitú. Sisto pareva es-sersi imposta una disciplina ancor piú severa. Il figliodecise che non si sarebbe piú lasciato mantenere comeprima. Le passeggiate doveva adesso farle a piedi, tutta-via continuava ad uscire nella campagna; lo agitava unbisogno di vivere come gli altri, di entrare in quella lot-

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ta, e cercava una via. Gli pareva d’essere rimasto moltotempo sdraiato in terra e d’aver ripreso a moversi.

Una sera batté alla porta del nuovo studio del padre.Sebbene Claudia avesse disposta ogni cosa in manierache Sisto potesse credersi sempre nella solita stanza, evi fossero delle rose sulla tavola, si sentiva bene di esse-re in una casa sconosciuta, piena di gente estranea. Sistostava alla scrivania curvo sulle sue carte nella luce rac-colta della lampada come se niente fosse cambiato. Inquelle ore non andava a disturbarlo nessuno.

— Scusa, – disse Graziano – ho una notizia da darti.Il padre si tolse gli occhiali, guardò meglio il giovine,

lo fece sedere accanto alla scrivania. La notizia era cheGraziano era stato accettato nella redazione del piú im-portante giornale della città.

— Ah, sono contento – disse Sisto. – Credo sia unabuona prova quella che vuoi fare. – Osservava il figlio.Questi aveva sempre una figura slanciata ed elegantema, facendosi uomo, s’era rinvigorito. In viso a Sistospuntò un sorriso: – Tuo nonno pubblicava un giornale;Metello è anch’egli giornalista; si può dire che seguiuna tradizione di famiglia.

— È vero – riconobbe Graziano. – Non ci avevo pen-sato. Mi pare di mettermi cosí in una corrente, di entrarenella vita. Non so spiegarmi. Voglio lavorare come tuttigli altri.

— Ti capisco.— Non so neanche bene che cosa mi faranno fare, ma

non m’importerebbe d’incominciare col lavoro piú ma-

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ta, e cercava una via. Gli pareva d’essere rimasto moltotempo sdraiato in terra e d’aver ripreso a moversi.

Una sera batté alla porta del nuovo studio del padre.Sebbene Claudia avesse disposta ogni cosa in manierache Sisto potesse credersi sempre nella solita stanza, evi fossero delle rose sulla tavola, si sentiva bene di esse-re in una casa sconosciuta, piena di gente estranea. Sistostava alla scrivania curvo sulle sue carte nella luce rac-colta della lampada come se niente fosse cambiato. Inquelle ore non andava a disturbarlo nessuno.

— Scusa, – disse Graziano – ho una notizia da darti.Il padre si tolse gli occhiali, guardò meglio il giovine,

lo fece sedere accanto alla scrivania. La notizia era cheGraziano era stato accettato nella redazione del piú im-portante giornale della città.

— Ah, sono contento – disse Sisto. – Credo sia unabuona prova quella che vuoi fare. – Osservava il figlio.Questi aveva sempre una figura slanciata ed elegantema, facendosi uomo, s’era rinvigorito. In viso a Sistospuntò un sorriso: – Tuo nonno pubblicava un giornale;Metello è anch’egli giornalista; si può dire che seguiuna tradizione di famiglia.

— È vero – riconobbe Graziano. – Non ci avevo pen-sato. Mi pare di mettermi cosí in una corrente, di entrarenella vita. Non so spiegarmi. Voglio lavorare come tuttigli altri.

— Ti capisco.— Non so neanche bene che cosa mi faranno fare, ma

non m’importerebbe d’incominciare col lavoro piú ma-

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teriale. Penso un po’ agli ingegneri che si mettono a la-vorare al tornio, da operai. Non è vero?

— Certo. L’importante è di fare, di mettersi, comedici, nella vita, con gli altri. Non c’è lavoro materialeche possa far danno all’intelligenza, se lo spirito vi par-tecipa.

Sisto si alzò, venne presso il figlio; messagli unamano sopra una spalla, posò nei suoi occhi lo sguardodei momenti migliori, quando saliva alla superficie tuttala bontà che stava nel profondo dell’animo suo. – La no-tizia che mi hai data, è molto buona. Te ne ringrazio.

Tornò al suo posto ma senza sedersi; toccò le cartesparse, ne alzò qualcuna lasciandola tosto ricadere; dinuovo fermò lo sguardo in faccia a Graziano, poi dissepiano: – Ho ripreso a studiare. Riguardo alla trasmissio-ne ereditaria della tubercolosi non si sa niente, o benpoco. Anche per me il problema è ancora quasi del tuttooscuro. Ma ho fede. Forse la chiave del segreto, cosíprezioso, è negli elementi del sangue. Non posso ancoradirti nulla: mi sembra d’avere già in mente la soluzionedel problema, ancora ignota anche a me, come qualcosache si chiarirà adagio, a forza di pazienza. Oppure, chis-sà, all’improvviso. E adesso va, caro, lasciami lavorare.

* * *

Nel vasto letto antico la donna sembrava ancora piúgiovine; il suo corpo sottile non aveva peso. Era nellastanza una mezza oscurità. Fuori si sentiva, appena un

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teriale. Penso un po’ agli ingegneri che si mettono a la-vorare al tornio, da operai. Non è vero?

— Certo. L’importante è di fare, di mettersi, comedici, nella vita, con gli altri. Non c’è lavoro materialeche possa far danno all’intelligenza, se lo spirito vi par-tecipa.

Sisto si alzò, venne presso il figlio; messagli unamano sopra una spalla, posò nei suoi occhi lo sguardodei momenti migliori, quando saliva alla superficie tuttala bontà che stava nel profondo dell’animo suo. – La no-tizia che mi hai data, è molto buona. Te ne ringrazio.

Tornò al suo posto ma senza sedersi; toccò le cartesparse, ne alzò qualcuna lasciandola tosto ricadere; dinuovo fermò lo sguardo in faccia a Graziano, poi dissepiano: – Ho ripreso a studiare. Riguardo alla trasmissio-ne ereditaria della tubercolosi non si sa niente, o benpoco. Anche per me il problema è ancora quasi del tuttooscuro. Ma ho fede. Forse la chiave del segreto, cosíprezioso, è negli elementi del sangue. Non posso ancoradirti nulla: mi sembra d’avere già in mente la soluzionedel problema, ancora ignota anche a me, come qualcosache si chiarirà adagio, a forza di pazienza. Oppure, chis-sà, all’improvviso. E adesso va, caro, lasciami lavorare.

* * *

Nel vasto letto antico la donna sembrava ancora piúgiovine; il suo corpo sottile non aveva peso. Era nellastanza una mezza oscurità. Fuori si sentiva, appena un

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poco piú in basso, la piazza dove una matrona di marmostava sempre sola in mezzo ad un quadrato di tigli; maattraverso le tende e le imposte socchiuse si vedeva sol-tanto il disegno delle inferriate, sul verde degli alberi.Nella stanza scorreva un tempo diverso da quello diogni altro luogo; ogni istante vi era denso e lungo, men-tre le ore si consumavano con rapidità; presto la luce de-clinava, la specchiera le porte i muri coperti d’un vec-chio damasco diventavano vaghi come semplici appa-renze, ed i rumori radi della piazza si facevano semprepiú lontani.

Guardato ad un tratto il piccolo orologio che una stri-scia di velluto le stringeva al polso, Fenice si riprende-va, balzava dal letto, ed il suo corpo era sveglio ed ela-stico come quando ella era giunta. Pareva obbedire allo-ra ad un comando. Non molto alta, bianca di pelle conpiccoli seni ben fatti, aveva capelli biondi pieni di vita,occhi azzurri, labbra un poco ansiose che non si chiude-vano mai completamente sui denti nitidi. A rivestirsi fa-ceva in fretta; quei capelli, appena toccati dal pettine,erano in ordine. Graziano la vedeva ridiventare quellache era tra la gente; la sentiva allontanarsi da lui primache uscisse. Poi, subito ella se ne andava con piglio de-ciso.

Viveva due esistenze, l’una libera e l’altra obbligata.Di questa parlava poco ma non nascondeva di subirlacome una condanna terribile ed ingiusta. I suoi genitoril’avevano data giovanissima ad un uomo che avevavent’anni piú di lei; e quest’uomo era pallido, di aspetto

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poco piú in basso, la piazza dove una matrona di marmostava sempre sola in mezzo ad un quadrato di tigli; maattraverso le tende e le imposte socchiuse si vedeva sol-tanto il disegno delle inferriate, sul verde degli alberi.Nella stanza scorreva un tempo diverso da quello diogni altro luogo; ogni istante vi era denso e lungo, men-tre le ore si consumavano con rapidità; presto la luce de-clinava, la specchiera le porte i muri coperti d’un vec-chio damasco diventavano vaghi come semplici appa-renze, ed i rumori radi della piazza si facevano semprepiú lontani.

Guardato ad un tratto il piccolo orologio che una stri-scia di velluto le stringeva al polso, Fenice si riprende-va, balzava dal letto, ed il suo corpo era sveglio ed ela-stico come quando ella era giunta. Pareva obbedire allo-ra ad un comando. Non molto alta, bianca di pelle conpiccoli seni ben fatti, aveva capelli biondi pieni di vita,occhi azzurri, labbra un poco ansiose che non si chiude-vano mai completamente sui denti nitidi. A rivestirsi fa-ceva in fretta; quei capelli, appena toccati dal pettine,erano in ordine. Graziano la vedeva ridiventare quellache era tra la gente; la sentiva allontanarsi da lui primache uscisse. Poi, subito ella se ne andava con piglio de-ciso.

Viveva due esistenze, l’una libera e l’altra obbligata.Di questa parlava poco ma non nascondeva di subirlacome una condanna terribile ed ingiusta. I suoi genitoril’avevano data giovanissima ad un uomo che avevavent’anni piú di lei; e quest’uomo era pallido, di aspetto

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gracile; aveva un carattere freddo e meschino; avvocato,non esercitava la professione, occupandosi con rigoremeticoloso di terre che possedeva e di opere pie dellequali era amministratore; amava i titoli cavallereschi, lecariche onorarie; la sua passione era di mostrarsi soprail palco delle autorità nelle cerimonie. Pur evitandoquanto poteva di parlarne, Fenice rivelava per lui unodio implacabile. Nutriva anche un profondo rancorecontro la propria madre, che aveva voluta quell’unionesacrificando un’innocente; anche se doveva soltanto no-minarla, faceva sentire il modo in cui la giudicava: unadonna massiccia, dura, mossa da un egoismo che avevasopraffatto ogni sentimento di maternità. Dal matrimo-nio era nato un bambino; aveva ora cinque anni e Fenicene mostrava compassione come se non fosse suo, comese fosse un bambino senza mamma.

Quando Graziano l’aveva veduta le prime volte nellabiblioteca dell’università, nelle immense sale dove gliscaffali alti fino al soffitto, le muraglie di libri, i bustiingialliti dentro le nicchie mandavano un alito di vec-chiezza, ella consultava i cataloghi, prendeva appunti,copiava dei testi come le ragazze delle facoltà di letteree di legge, ma non era possibile crederla una studentes-sa. Cercava di confondersi con le studentesse e viverecome loro; frequentava corsi di letteratura e di storia, sifaceva assegnare dei temi dai professori, usciva con glistudenti. Graziano e lei avevano scambiata qualche pa-rola aspettando i libri dai distributori; poi avevano co-minciato a passeggiare insieme, soli. A quel tempo Feni-

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gracile; aveva un carattere freddo e meschino; avvocato,non esercitava la professione, occupandosi con rigoremeticoloso di terre che possedeva e di opere pie dellequali era amministratore; amava i titoli cavallereschi, lecariche onorarie; la sua passione era di mostrarsi soprail palco delle autorità nelle cerimonie. Pur evitandoquanto poteva di parlarne, Fenice rivelava per lui unodio implacabile. Nutriva anche un profondo rancorecontro la propria madre, che aveva voluta quell’unionesacrificando un’innocente; anche se doveva soltanto no-minarla, faceva sentire il modo in cui la giudicava: unadonna massiccia, dura, mossa da un egoismo che avevasopraffatto ogni sentimento di maternità. Dal matrimo-nio era nato un bambino; aveva ora cinque anni e Fenicene mostrava compassione come se non fosse suo, comese fosse un bambino senza mamma.

Quando Graziano l’aveva veduta le prime volte nellabiblioteca dell’università, nelle immense sale dove gliscaffali alti fino al soffitto, le muraglie di libri, i bustiingialliti dentro le nicchie mandavano un alito di vec-chiezza, ella consultava i cataloghi, prendeva appunti,copiava dei testi come le ragazze delle facoltà di letteree di legge, ma non era possibile crederla una studentes-sa. Cercava di confondersi con le studentesse e viverecome loro; frequentava corsi di letteratura e di storia, sifaceva assegnare dei temi dai professori, usciva con glistudenti. Graziano e lei avevano scambiata qualche pa-rola aspettando i libri dai distributori; poi avevano co-minciato a passeggiare insieme, soli. A quel tempo Feni-

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ce pareva andar cercando intorno a sé, nella vita, qual-checosa: senza saper che cosa, ma con un ardore di spe-ranza. Quasi subito si era stretta al giovine, lo volevavedere sempre piú spesso e gli lasciava comprendere lapropria condizione. Gli aveva portata un giorno una fo-tografia di quando era fidanzata; vi si vedeva una giovi-netta lieve come i veli che le avvolgevano le spalle, conl’aria felice delle fanciulle ricche e belle. Poi aveva fattealtre confidenze. Il marito, senza mai discutere, parlan-do sempre in tono dolciastro, aveva accettata una sepa-razione definitiva, a patto di restare in una finta vita co-niugale che evitasse scandali, salvasse il decoro. Egli siallontanava spesso per andare nei suoi possedimenti;aveva forse, con le sue fredde cautele, qualche relazioneamorosa.

— Se non ci fosse il bambino... – diceva Fenice. Iltormento piú grave era per lei di non poter amare il fi-glio, perché nato da quella unione, somigliante aquell’uomo, pallido come lui. Ma tutto ciò ch’ella confi-dava, non era bastante a spiegare l’inesorabile odio, ri-volto anche contro sua madre; vi era certamente un’altracausa che non voleva svelare. Graziano sospettava cheprima del matrimonio la madre fosse stata l’amante dicostui e che Fenice lo avesse capito troppo tardi.

Dall’amicizia che diveniva amore, il giovine era statopreso facilmente nel tempo in cui era sfiduciato ed iner-te; aveva sentiti in Fenice una coraggiosa volontà di rad-drizzare il proprio destino ed un entusiasmo che si riac-cendeva. Da quando si ritrovavano nel luogo segreto, la

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ce pareva andar cercando intorno a sé, nella vita, qual-checosa: senza saper che cosa, ma con un ardore di spe-ranza. Quasi subito si era stretta al giovine, lo volevavedere sempre piú spesso e gli lasciava comprendere lapropria condizione. Gli aveva portata un giorno una fo-tografia di quando era fidanzata; vi si vedeva una giovi-netta lieve come i veli che le avvolgevano le spalle, conl’aria felice delle fanciulle ricche e belle. Poi aveva fattealtre confidenze. Il marito, senza mai discutere, parlan-do sempre in tono dolciastro, aveva accettata una sepa-razione definitiva, a patto di restare in una finta vita co-niugale che evitasse scandali, salvasse il decoro. Egli siallontanava spesso per andare nei suoi possedimenti;aveva forse, con le sue fredde cautele, qualche relazioneamorosa.

— Se non ci fosse il bambino... – diceva Fenice. Iltormento piú grave era per lei di non poter amare il fi-glio, perché nato da quella unione, somigliante aquell’uomo, pallido come lui. Ma tutto ciò ch’ella confi-dava, non era bastante a spiegare l’inesorabile odio, ri-volto anche contro sua madre; vi era certamente un’altracausa che non voleva svelare. Graziano sospettava cheprima del matrimonio la madre fosse stata l’amante dicostui e che Fenice lo avesse capito troppo tardi.

Dall’amicizia che diveniva amore, il giovine era statopreso facilmente nel tempo in cui era sfiduciato ed iner-te; aveva sentiti in Fenice una coraggiosa volontà di rad-drizzare il proprio destino ed un entusiasmo che si riac-cendeva. Da quando si ritrovavano nel luogo segreto, la

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ricordava sempre con desiderio e credeva di amarla ve-ramente. Fenice guardava le inferriate delle finestre, glispessi muri, col sentimento di essere in un rifugio; ma dirado le accadeva di obliarsi interamente come in un so-gno; qualcosa in lei rimaneva sempre vigile. Seguitavaintanto la vita universitaria, ed a casa studiava molto,traduceva poeti inglesi e tedeschi. La sua ossessioneerano gli orologi, dai quali le venivano ingrati comandi;si capiva dal modo come vi gettava lo sguardo. I conve-gni non erano troppo frequenti. – Non voglio infastidirti– diceva a Graziano. – E voglio che tu lavori. – Ma so-vente il giovine, uscendo di casa, vedeva apparire sulsuo cammino quella figura sottile ed agile, vestita fine-mente; ella gli veniva incontro senza curarsi di nessuno,con lo sguardo animoso, colla bocca un poco anelanteche sorrideva e con qualche libro sotto braccio. S’inte-ressava del lavoro ch’egli faceva ora per il giornale: –Ma non basta. Devi dirmi che hai cominciato a scriverealtre cose.

Il giornale occupava un edifizio d’aspetto trasandato;nell’interno l’ingresso ove stavano rozzi uscieri, gli uffi-ci dell’amministrazione, le file di stanze in cui i redatto-ri scrivevano sopra tavolini zoppi o sopra lunghe tavolemacchiate d’inchiostro, tutto pareva messo su da qual-cuno che non potesse far meglio e non vi badasse. Il di-rettore era anche il proprietario: un uomo ancor giovine,pieno d’energia, che non scriveva mai una riga ma eraassai abile nel far lavorare gli altri, governando dispoti-camente dal suo studio, dove manovrava una logora ta-

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ricordava sempre con desiderio e credeva di amarla ve-ramente. Fenice guardava le inferriate delle finestre, glispessi muri, col sentimento di essere in un rifugio; ma dirado le accadeva di obliarsi interamente come in un so-gno; qualcosa in lei rimaneva sempre vigile. Seguitavaintanto la vita universitaria, ed a casa studiava molto,traduceva poeti inglesi e tedeschi. La sua ossessioneerano gli orologi, dai quali le venivano ingrati comandi;si capiva dal modo come vi gettava lo sguardo. I conve-gni non erano troppo frequenti. – Non voglio infastidirti– diceva a Graziano. – E voglio che tu lavori. – Ma so-vente il giovine, uscendo di casa, vedeva apparire sulsuo cammino quella figura sottile ed agile, vestita fine-mente; ella gli veniva incontro senza curarsi di nessuno,con lo sguardo animoso, colla bocca un poco anelanteche sorrideva e con qualche libro sotto braccio. S’inte-ressava del lavoro ch’egli faceva ora per il giornale: –Ma non basta. Devi dirmi che hai cominciato a scriverealtre cose.

Il giornale occupava un edifizio d’aspetto trasandato;nell’interno l’ingresso ove stavano rozzi uscieri, gli uffi-ci dell’amministrazione, le file di stanze in cui i redatto-ri scrivevano sopra tavolini zoppi o sopra lunghe tavolemacchiate d’inchiostro, tutto pareva messo su da qual-cuno che non potesse far meglio e non vi badasse. Il di-rettore era anche il proprietario: un uomo ancor giovine,pieno d’energia, che non scriveva mai una riga ma eraassai abile nel far lavorare gli altri, governando dispoti-camente dal suo studio, dove manovrava una logora ta-

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stiera di campanelli ed un vecchio telefono. Si fingevasempre nei guai ed arricchiva. In puliti sotterranei splen-devano colossali rotative nuove.

Graziano ebbe un giorno la visita di Bruto Corese.Nello stanzino chiamato salotto trovò un pezzo d’uomosbarbato di fresco, con un abito color d’albicocca e conuna spilla di brillanti in una cravatta sfarzosa, il qualegli diede una grandiosa stretta di mano e gli batté sullaspalla: un vero attore. Il compagno faceva parti di terzoordine in una buona compagnia che ora recitava in città.

— Dunque, mi rallegro – disse. – Pubblichi articolitra firme illustri. Il giornale è la vera potenza del nostrotempo!

Parlava in tono ironico e nelle sue pupille era un pic-colo lume cattivo. O forse Graziano non aveva mai os-servati cosí bene quegli occhi d’acciaio? Il compagnopassò subito ad esporre il motivo per cui era venuto; vo-leva essere raccomandato al critico teatrale, che facesseil suo nome: «Degno di nota Bruto Corese nella brevema non facile parte di...». Graziano era andato una seraa vederlo recitare ed ora lo ricordava, vestito da guerrie-ro del Trecento, che declamava i pochi versi sonoramen-te esagerando i moti della sua faccia risentita: ricordavaanche il liceo, e non sentiva alcun legame tra quel perio-do della loro vita e ciò ch’era venuto dopo. Primad’andarsene Bruto gli batté di nuovo sulla spalla, dicen-do con certa ostentazione di franchezza; – Però, bisognatener la mira in alto. Sta’ attento a non perderti. Puoifare di meglio.

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stiera di campanelli ed un vecchio telefono. Si fingevasempre nei guai ed arricchiva. In puliti sotterranei splen-devano colossali rotative nuove.

Graziano ebbe un giorno la visita di Bruto Corese.Nello stanzino chiamato salotto trovò un pezzo d’uomosbarbato di fresco, con un abito color d’albicocca e conuna spilla di brillanti in una cravatta sfarzosa, il qualegli diede una grandiosa stretta di mano e gli batté sullaspalla: un vero attore. Il compagno faceva parti di terzoordine in una buona compagnia che ora recitava in città.

— Dunque, mi rallegro – disse. – Pubblichi articolitra firme illustri. Il giornale è la vera potenza del nostrotempo!

Parlava in tono ironico e nelle sue pupille era un pic-colo lume cattivo. O forse Graziano non aveva mai os-servati cosí bene quegli occhi d’acciaio? Il compagnopassò subito ad esporre il motivo per cui era venuto; vo-leva essere raccomandato al critico teatrale, che facesseil suo nome: «Degno di nota Bruto Corese nella brevema non facile parte di...». Graziano era andato una seraa vederlo recitare ed ora lo ricordava, vestito da guerrie-ro del Trecento, che declamava i pochi versi sonoramen-te esagerando i moti della sua faccia risentita: ricordavaanche il liceo, e non sentiva alcun legame tra quel perio-do della loro vita e ciò ch’era venuto dopo. Primad’andarsene Bruto gli batté di nuovo sulla spalla, dicen-do con certa ostentazione di franchezza; – Però, bisognatener la mira in alto. Sta’ attento a non perderti. Puoifare di meglio.

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Queste parole gli diedero un leggero malessere e glirimasero nell’animo per un poco; s’era visto nel giudi-zio del compagno come in uno specchio. Ma la sera, nelsolito lavoro affrettato della redazione, se ne dimenticò.In tutta l’Italia il popolo era sempre piú irrequieto, acca-devano tumulti, sommosse; in una regione di latifondidisordini gravi erano stati repressi ancor una volta a fu-cilate; si temeva uno sciopero generale. E questa fu lamateria della quale dovette occuparsi rivedendo i tele-grammi e fonogrammi, tra un va e vieni di fattorini,mentre squillavano i telefoni e dalla tipografia le mac-chine da comporre mandavano un rumore fitto come digrandinata. Le ore fuggivano. Venne il tempo in cui gliimpaginatori si radunavano intorno ai banconi come atavole operatorie; per le finestre aperte si sentiva fuori laquiete notturna e nei sotterranei risonavano i colpi deglioperai che preparavano i piombi. Ad un tratto, sorpren-dente come sempre, si udí nelle fondamenta dell’edifi-zio scatenarsi una forza paurosa, scorrere in onde mec-caniche con un’esatta rapidità; ed erano le rotative chegiravano, divorando i giganteschi rotoli bianchi, molti-plicando migliaia migliaia migliaia di volte, le pagine, lenotizie, le firme. Tosto venne il capomacchina con le co-pie umide d’inchiostro, e tutti guardarono quella cosasempre nuova, il giornale, come fosse riuscito.

Graziano se ne andò, solo, con la sua copia in tasca.Lo accompagnò per un tratto il rumore delle rotative,sempre piú sordo, poi il suo passo echeggiò in un pienosilenzio tra facciate dormenti. La città era bella come

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Queste parole gli diedero un leggero malessere e glirimasero nell’animo per un poco; s’era visto nel giudi-zio del compagno come in uno specchio. Ma la sera, nelsolito lavoro affrettato della redazione, se ne dimenticò.In tutta l’Italia il popolo era sempre piú irrequieto, acca-devano tumulti, sommosse; in una regione di latifondidisordini gravi erano stati repressi ancor una volta a fu-cilate; si temeva uno sciopero generale. E questa fu lamateria della quale dovette occuparsi rivedendo i tele-grammi e fonogrammi, tra un va e vieni di fattorini,mentre squillavano i telefoni e dalla tipografia le mac-chine da comporre mandavano un rumore fitto come digrandinata. Le ore fuggivano. Venne il tempo in cui gliimpaginatori si radunavano intorno ai banconi come atavole operatorie; per le finestre aperte si sentiva fuori laquiete notturna e nei sotterranei risonavano i colpi deglioperai che preparavano i piombi. Ad un tratto, sorpren-dente come sempre, si udí nelle fondamenta dell’edifi-zio scatenarsi una forza paurosa, scorrere in onde mec-caniche con un’esatta rapidità; ed erano le rotative chegiravano, divorando i giganteschi rotoli bianchi, molti-plicando migliaia migliaia migliaia di volte, le pagine, lenotizie, le firme. Tosto venne il capomacchina con le co-pie umide d’inchiostro, e tutti guardarono quella cosasempre nuova, il giornale, come fosse riuscito.

Graziano se ne andò, solo, con la sua copia in tasca.Lo accompagnò per un tratto il rumore delle rotative,sempre piú sordo, poi il suo passo echeggiò in un pienosilenzio tra facciate dormenti. La città era bella come

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ogni notte, distesa in prospettive interminabili e vuote;non vi esistevano che cose, – globi elettrici, monumenti,insegne, rotaie dei tram incise nel lastrico – cose immo-bili in uno spazio incantato. Graziano vi camminava conun senso di facilità, godendo le vie e le piazze come luo-ghi appartenenti a lui solo; ed anche la notte gli parevasolamente sua. Giunto ad un viale, fu avvolto da un sof-fio leggero che odorava di campagna, di fieno; pensòalla collina dei pini come se quel soffio venisse di là.Sua madre aveva voluto andarvi piú presto degli altrianni ed anche il nonno era là, insieme a Gabriella. Qual-che giorno innanzi la sorella gli aveva scritto raccontan-do con dolore la morte di Fiocco. Già vecchio, il caneera stato mandato lassú quando avevano cambiata casa;ma la buona bestia, quasi cieca, lontana dai padronis’era immalinconita e non voleva mangiare; al loro arri-vo sembrava tornata di buon umore, però una mattinaera scomparsa; l’avevano cercata, chiamata inutilmente,finché il ragazzo dei contadini l’aveva vista sulla stradatrascinarsi per tornar alla villa; dopo pochi altri passis’era coricata ed era morta. Gabriella descriveva anchela sepoltura.

Ora Graziano pensava alla madre. Si ritrovava semprein alto pensando a lei, come in un’altra esistenza. Certa-mente egli le rassomigliava, aveva lo stesso istinto diguardare in alto, di respirare aria pura: non avrebbe tra-dita la sua fiducia. Assai vaghi, questi pensieri lo avvol-gevano con dolcezza; ed egli aveva pure in mentel’Amistà, quelle lontane vacanze, quel tempo tanto faci-

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ogni notte, distesa in prospettive interminabili e vuote;non vi esistevano che cose, – globi elettrici, monumenti,insegne, rotaie dei tram incise nel lastrico – cose immo-bili in uno spazio incantato. Graziano vi camminava conun senso di facilità, godendo le vie e le piazze come luo-ghi appartenenti a lui solo; ed anche la notte gli parevasolamente sua. Giunto ad un viale, fu avvolto da un sof-fio leggero che odorava di campagna, di fieno; pensòalla collina dei pini come se quel soffio venisse di là.Sua madre aveva voluto andarvi piú presto degli altrianni ed anche il nonno era là, insieme a Gabriella. Qual-che giorno innanzi la sorella gli aveva scritto raccontan-do con dolore la morte di Fiocco. Già vecchio, il caneera stato mandato lassú quando avevano cambiata casa;ma la buona bestia, quasi cieca, lontana dai padronis’era immalinconita e non voleva mangiare; al loro arri-vo sembrava tornata di buon umore, però una mattinaera scomparsa; l’avevano cercata, chiamata inutilmente,finché il ragazzo dei contadini l’aveva vista sulla stradatrascinarsi per tornar alla villa; dopo pochi altri passis’era coricata ed era morta. Gabriella descriveva anchela sepoltura.

Ora Graziano pensava alla madre. Si ritrovava semprein alto pensando a lei, come in un’altra esistenza. Certa-mente egli le rassomigliava, aveva lo stesso istinto diguardare in alto, di respirare aria pura: non avrebbe tra-dita la sua fiducia. Assai vaghi, questi pensieri lo avvol-gevano con dolcezza; ed egli aveva pure in mentel’Amistà, quelle lontane vacanze, quel tempo tanto faci-

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le della sua vita, i Crivelli ed i cambiamenti cheanch’essi avevano fatti. Vide all’improvviso un libroche avrebbe potuto scrivere e che sarebbe piaciuto a suamadre, col semplice racconto di quanto era accaduto aiCrivelli: come vivessero per una terra ed un giorno fos-sero costretti a lasciarla, per darsi ad un’altra che nem-meno essa non apparteneva a loro, e cosí altre volte,fino alla fine, contadini senza terra. Si disse a mezzavoce il titolo «Senza terra», con gioia, nella città vuotache odorava di campagna. Ma già il cielo si alzava,s’ingrandiva, furtivamente invaso da un’alba fredda chealle cose dava un’apparenza spettrale; scendevano aimercati file di carri sovraccarichi sotto i quali dondola-vano ancora lanterne accese; avvicinandosi finalmente acasa, Graziano udí giungere da un crocicchio uno scal-pitio ordinato di molti cavalli, e presto si trovò sul pas-saggio di uno squadrone con le lance che andava a pren-der servizio in qualche sobborgo. Che cosa poteva suc-cedere in quel giorno che incominciava?

A casa il giovine s’addormentò subito d’un sonno cal-mo e profondo. Era quasi mezzogiorno quando si sve-gliò. Andò a guardare attraverso le persiane se in un edi-fizio in costruzione vi fossero degli operai: nella granluce di sole il cantiere era deserto. La donna rimasta aservire lui ed il padre aveva un viso spaventato; disseche non andavano i tram e nemmeno i treni, che gliscioperanti avevano assalita una fabbrica dove si lavora-va ed i soldati avevano sparato ed allora la folla avevafatte le barricate; disse che nel palazzo della Camera del

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le della sua vita, i Crivelli ed i cambiamenti cheanch’essi avevano fatti. Vide all’improvviso un libroche avrebbe potuto scrivere e che sarebbe piaciuto a suamadre, col semplice racconto di quanto era accaduto aiCrivelli: come vivessero per una terra ed un giorno fos-sero costretti a lasciarla, per darsi ad un’altra che nem-meno essa non apparteneva a loro, e cosí altre volte,fino alla fine, contadini senza terra. Si disse a mezzavoce il titolo «Senza terra», con gioia, nella città vuotache odorava di campagna. Ma già il cielo si alzava,s’ingrandiva, furtivamente invaso da un’alba fredda chealle cose dava un’apparenza spettrale; scendevano aimercati file di carri sovraccarichi sotto i quali dondola-vano ancora lanterne accese; avvicinandosi finalmente acasa, Graziano udí giungere da un crocicchio uno scal-pitio ordinato di molti cavalli, e presto si trovò sul pas-saggio di uno squadrone con le lance che andava a pren-der servizio in qualche sobborgo. Che cosa poteva suc-cedere in quel giorno che incominciava?

A casa il giovine s’addormentò subito d’un sonno cal-mo e profondo. Era quasi mezzogiorno quando si sve-gliò. Andò a guardare attraverso le persiane se in un edi-fizio in costruzione vi fossero degli operai: nella granluce di sole il cantiere era deserto. La donna rimasta aservire lui ed il padre aveva un viso spaventato; disseche non andavano i tram e nemmeno i treni, che gliscioperanti avevano assalita una fabbrica dove si lavora-va ed i soldati avevano sparato ed allora la folla avevafatte le barricate; disse che nel palazzo della Camera del

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Lavoro vi era gente asserragliata come in una fortezza eche si parlava di combattimenti in tutte le città. Grazia-no pensò che aveva dormito cosí tranquillo. Si domandòove fosse e che facesse lo zio Metello.

Dopo colazione andò subito al giornale. Nella peniso-la i morti ed i feriti erano già molti; in un paese del sudun carabiniere era caduto nelle mani dei rivoltosi, chel’avevan legato ad un albero e torturato; in una regionedel nord era stato incendiato nei campi il grano maturo;nelle grandi città il lavoro era quasi interamente cessato,le centrali elettriche, le officine del gas venivano assali-te; un treno aveva potuto fermarsi a pochi metri da untratto di binario distrutto con la dinamite. Dappertutto laforza pubblica sparava. Ciò che aveva detto la donna,delle barricate in città, era vero: bande armate le aveva-no fatte per impedire ai soldati d’entrare nei sobborghi ele avevano difese ostinatamente. Da altri quartieri popo-lari colonne di rivoltosi avevano tentato di scendere alcentro. Tra gli uccisi vi era pure un soldato. Lo spargi-mento di sangue aveva infiammata la folla; anche latruppa, di fronte a quel furore ed al pericolo, si eccitava,sparava nei mucchi senza aspettare ordini. Per telefonoe per telegrafo, intanto, continuavano ad arrivar notiziefosche da molte province.

Dall’edifizio del giornale la Camera del Lavoro nonera lontana; sebbene piena di quella gente armata, nes-sun combattimento vi era scoppiato, perché la parte av-versa non si mostrava. Le rotative avevano incominciatoa stampare l’edizione della sera e dal cortile erano uscite

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Lavoro vi era gente asserragliata come in una fortezza eche si parlava di combattimenti in tutte le città. Grazia-no pensò che aveva dormito cosí tranquillo. Si domandòove fosse e che facesse lo zio Metello.

Dopo colazione andò subito al giornale. Nella peniso-la i morti ed i feriti erano già molti; in un paese del sudun carabiniere era caduto nelle mani dei rivoltosi, chel’avevan legato ad un albero e torturato; in una regionedel nord era stato incendiato nei campi il grano maturo;nelle grandi città il lavoro era quasi interamente cessato,le centrali elettriche, le officine del gas venivano assali-te; un treno aveva potuto fermarsi a pochi metri da untratto di binario distrutto con la dinamite. Dappertutto laforza pubblica sparava. Ciò che aveva detto la donna,delle barricate in città, era vero: bande armate le aveva-no fatte per impedire ai soldati d’entrare nei sobborghi ele avevano difese ostinatamente. Da altri quartieri popo-lari colonne di rivoltosi avevano tentato di scendere alcentro. Tra gli uccisi vi era pure un soldato. Lo spargi-mento di sangue aveva infiammata la folla; anche latruppa, di fronte a quel furore ed al pericolo, si eccitava,sparava nei mucchi senza aspettare ordini. Per telefonoe per telegrafo, intanto, continuavano ad arrivar notiziefosche da molte province.

Dall’edifizio del giornale la Camera del Lavoro nonera lontana; sebbene piena di quella gente armata, nes-sun combattimento vi era scoppiato, perché la parte av-versa non si mostrava. Le rotative avevano incominciatoa stampare l’edizione della sera e dal cortile erano uscite

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le prime vetture con le copie, quando un fattorino in bi-cicletta giunse affannato ad avvertire che gli scioperantiavevano rovesciate quelle vetture, incendiate le copie, eche una grossa colonna, partita dalla fortezza, avanzavaminacciosa alla volta del giornale. Se ne intese il rumo-re. Era un calpestio, un brontolio confuso su cui si alza-vano grida; ma in una parte della colonna le voci eranoinvece ordinate e compatte, cantavano. Quando furonopiú vicine, si sentí la marcia cambiarsi all’improvviso inuna corsa veemente e la moltitudine intera gridare. Gliingressi dell’edifizio – che era alto, nudo, tutto finestre,e da un lato aveva tettoie circondate da un muro – eranostati chiusi; in ogni reparto il direttore mandò l’ordine dinon mostrarsi alle finestre; dal fabbricato non usciva al-tro rumore che quello delle rotative nei sotterranei. Da-vanti alla facciata scoppiò un clamore violento tra ilquale ogni tanto si potevano distinguere grida imperio-se: – Fermate le macchine! – Tosto le porte ed i portonirimbombarono dei colpi che vi erano dati dalla folla,forse con pali adoperati come arieti; di dentro si lavorò arafforzarsi con ogni mezzo; alcuni degli assalitori tenta-rono di scalare i muri dei cortili, senza riuscirvi; arriva-vano sassate, andavano in frantumi dei vetri. Il direttore,con le sue maniere brusche e con gli occhi sfavillanti divolontà, impedí che si telefonasse a chiamar la forza eche le macchine fossero fermate. La moltitudine, le gri-da, i colpi nelle porte sembravano crescere continua-mente. Sopra un muro passò a volo un rottame di ferro ecadde su un vecchio che con un altro operaio trasporta-

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le prime vetture con le copie, quando un fattorino in bi-cicletta giunse affannato ad avvertire che gli scioperantiavevano rovesciate quelle vetture, incendiate le copie, eche una grossa colonna, partita dalla fortezza, avanzavaminacciosa alla volta del giornale. Se ne intese il rumo-re. Era un calpestio, un brontolio confuso su cui si alza-vano grida; ma in una parte della colonna le voci eranoinvece ordinate e compatte, cantavano. Quando furonopiú vicine, si sentí la marcia cambiarsi all’improvviso inuna corsa veemente e la moltitudine intera gridare. Gliingressi dell’edifizio – che era alto, nudo, tutto finestre,e da un lato aveva tettoie circondate da un muro – eranostati chiusi; in ogni reparto il direttore mandò l’ordine dinon mostrarsi alle finestre; dal fabbricato non usciva al-tro rumore che quello delle rotative nei sotterranei. Da-vanti alla facciata scoppiò un clamore violento tra ilquale ogni tanto si potevano distinguere grida imperio-se: – Fermate le macchine! – Tosto le porte ed i portonirimbombarono dei colpi che vi erano dati dalla folla,forse con pali adoperati come arieti; di dentro si lavorò arafforzarsi con ogni mezzo; alcuni degli assalitori tenta-rono di scalare i muri dei cortili, senza riuscirvi; arriva-vano sassate, andavano in frantumi dei vetri. Il direttore,con le sue maniere brusche e con gli occhi sfavillanti divolontà, impedí che si telefonasse a chiamar la forza eche le macchine fossero fermate. La moltitudine, le gri-da, i colpi nelle porte sembravano crescere continua-mente. Sopra un muro passò a volo un rottame di ferro ecadde su un vecchio che con un altro operaio trasporta-

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va un rotolo di carta alla stamperia, gli fracassò unaspalla. Da una finestra del giornale partirono colpi di re-volver; allora la folla si sollevò come se vi fosse piovutoolio bollente, gesti e grida divennero feroci, ed i proiet-tili si schiacciavano contro la facciata o per le vetrateaperte entravano nelle stanze. Contro le porte venneroammucchiati stracci, carta, vi fu appiccato il fuoco; trale inferiate dei sotterranei si allungavano braccia chesparavano, ma le rotative erano nella parte interna econtinuavano ad andare.

Fuori era la luce d’un crepuscolo rannuvolato, falsa.Per una finestra spalancata, stando nascosto dietro lospigolo della parete, Graziano poteva però vedere abba-stanza bene la gente che si agitava in quel tratto dellavia. Essa gli faceva paura. Scorgeva facce alteratedall’ira; altre, piú calme, avevano un’espressione di ter-ribile severità; quanti si movevano, urlando e cambian-dosi incessantemente nel poco spazio ove giungeva ilsuo sguardo, si comportavano come se nell’edifizio vifossero nemici mortali. – Assassini! Assassini! – grida-va acutamente una donna. Ciò che lo turbava maggior-mente era veder uomini d’ogni età, ragazzi, giovanidonne, nei quali credeva di riconoscere coloro che ognigiorno gli eran passati accanto, coloro che tante volteaveva visti entrare od uscire dagli opifici, guidare i carriper le strade, lavorare sui ponti di fabbrica. La strutturadella città s’era scomposta. Ragazzi, donne, uomini,avevano portato con sé rumore d’ingranaggi, strepito ditelai, odor di fucine, di acidi, l’aria delle loro case, vi-

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va un rotolo di carta alla stamperia, gli fracassò unaspalla. Da una finestra del giornale partirono colpi di re-volver; allora la folla si sollevò come se vi fosse piovutoolio bollente, gesti e grida divennero feroci, ed i proiet-tili si schiacciavano contro la facciata o per le vetrateaperte entravano nelle stanze. Contro le porte venneroammucchiati stracci, carta, vi fu appiccato il fuoco; trale inferiate dei sotterranei si allungavano braccia chesparavano, ma le rotative erano nella parte interna econtinuavano ad andare.

Fuori era la luce d’un crepuscolo rannuvolato, falsa.Per una finestra spalancata, stando nascosto dietro lospigolo della parete, Graziano poteva però vedere abba-stanza bene la gente che si agitava in quel tratto dellavia. Essa gli faceva paura. Scorgeva facce alteratedall’ira; altre, piú calme, avevano un’espressione di ter-ribile severità; quanti si movevano, urlando e cambian-dosi incessantemente nel poco spazio ove giungeva ilsuo sguardo, si comportavano come se nell’edifizio vifossero nemici mortali. – Assassini! Assassini! – grida-va acutamente una donna. Ciò che lo turbava maggior-mente era veder uomini d’ogni età, ragazzi, giovanidonne, nei quali credeva di riconoscere coloro che ognigiorno gli eran passati accanto, coloro che tante volteaveva visti entrare od uscire dagli opifici, guidare i carriper le strade, lavorare sui ponti di fabbrica. La strutturadella città s’era scomposta. Ragazzi, donne, uomini,avevano portato con sé rumore d’ingranaggi, strepito ditelai, odor di fucine, di acidi, l’aria delle loro case, vi-

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sioni di strumenti massicci, di vita povera; ma sembra-vano decisamente usciti da tutte quelle cose. Graziano sistupiva che fino a quel giorno fossero andati sempre alloro lavoro fossero rimasti nei loro quartieri, ai postidov’erano messi. Ormai quasi nel buio, la gente seguita-va a mareggiare gridando; sulla facciata d’una casa difronte si movevano i riflessi dei fuochi accesi alle portedel giornale. Perché non si illuminava ancora la via?Graziano pensò un’altra volta dove si trovasse e che po-tesse fare Metello. Presso il portone principale un gridiopiú frenetico parve annunziare che il varco fosse peraprirsi. Nella stanza, in cui prima Graziano era solo, en-trò un altro redattore, un giovine lungo, dinoccolato, cheportava spessi occhiali di miope; si avvicinò a lui ma,invece di tenersi nascosto, si mostrò alla finestra perfare atto di bravura; subito, mentre giú nella via di nuo-vo risonava qualche sparo, questo giovine fu gettatoall’indietro come da una spinta; si toccò con una manouna mascella, sentí e vide sangue, cadde svenuto. Gliocchiali non si staccarono dal suo grosso naso. Nel pocotempo occorso perché, ai richiami di Graziano, venissequalcuno e lo aiutasse a portar il ferito al pianterreno,nella stanza dei soccorsi d’urgenza, si udí finalmenteuno scalpitio di cavalli circondare l’edifizio mettendo infuga la folla. S’eran anche accesi i globi elettrici dellastrada. Nel silenzio che presto si fece, Graziano si ac-corse che le rotative erano ferme.

Fu chiamato al telefono. La voce di Fenice. – Grazia-no, sei tu? – Non gli era mai parsa cosí bella, questa

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sioni di strumenti massicci, di vita povera; ma sembra-vano decisamente usciti da tutte quelle cose. Graziano sistupiva che fino a quel giorno fossero andati sempre alloro lavoro fossero rimasti nei loro quartieri, ai postidov’erano messi. Ormai quasi nel buio, la gente seguita-va a mareggiare gridando; sulla facciata d’una casa difronte si movevano i riflessi dei fuochi accesi alle portedel giornale. Perché non si illuminava ancora la via?Graziano pensò un’altra volta dove si trovasse e che po-tesse fare Metello. Presso il portone principale un gridiopiú frenetico parve annunziare che il varco fosse peraprirsi. Nella stanza, in cui prima Graziano era solo, en-trò un altro redattore, un giovine lungo, dinoccolato, cheportava spessi occhiali di miope; si avvicinò a lui ma,invece di tenersi nascosto, si mostrò alla finestra perfare atto di bravura; subito, mentre giú nella via di nuo-vo risonava qualche sparo, questo giovine fu gettatoall’indietro come da una spinta; si toccò con una manouna mascella, sentí e vide sangue, cadde svenuto. Gliocchiali non si staccarono dal suo grosso naso. Nel pocotempo occorso perché, ai richiami di Graziano, venissequalcuno e lo aiutasse a portar il ferito al pianterreno,nella stanza dei soccorsi d’urgenza, si udí finalmenteuno scalpitio di cavalli circondare l’edifizio mettendo infuga la folla. S’eran anche accesi i globi elettrici dellastrada. Nel silenzio che presto si fece, Graziano si ac-corse che le rotative erano ferme.

Fu chiamato al telefono. La voce di Fenice. – Grazia-no, sei tu? – Non gli era mai parsa cosí bella, questa

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voce, cosí amica. Voleva all’istante saper tutto: se nongli era accaduto niente di male; a che punto erano ades-so le cose. – Parlami, parlami.

— Cara, è tutto finito. Non è successo niente. Un po’di rumore.

— Non mi dici la verità.— Sí, puoi credermi. Soltanto, è proibito uscire.— Meglio. Non uscire ancora!— Tu dove sei?— Non darti pensiero di me.L’edifizio era circondato da truppa a piedi, mentre la

cavalleria sgombrava vie e piazze attigue. Al direttoreera venuto l’ordine di non far uscire nemmeno i feriti. Aprendere il redattore che aveva la mascella spezzata el’operaio che, per la sua spalla rotta, mandava dallastanza dei soccorsi alti e continui lamenti, fu inviato uncarro dell’ambulanza militare con una scorta. Le barellespuntavano dal portone principale, mezzo bruciato,quando vi arrivò una donna giovine e sottile la qualenon portava cappello ma aveva una sciarpa nera avvoltaintorno al capo ed al viso: Fenice, riuscita a passar tra isoldati malgrado la consegna. Appena fu avvertito, Gra-ziano la fece entrare nel misero salotto. Ella aveva labocca e quegli occhi azzurri un poco piú ansiosi delconsueto; posò una mano sulla spalla del giovine e, al-zando il volto, lo baciò. Si raccontarono la giornata.Quando aveva inteso parlare di un assalto al giornale,Fenice era accorsa; giunta nelle vicinanze, non aveva

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voce, cosí amica. Voleva all’istante saper tutto: se nongli era accaduto niente di male; a che punto erano ades-so le cose. – Parlami, parlami.

— Cara, è tutto finito. Non è successo niente. Un po’di rumore.

— Non mi dici la verità.— Sí, puoi credermi. Soltanto, è proibito uscire.— Meglio. Non uscire ancora!— Tu dove sei?— Non darti pensiero di me.L’edifizio era circondato da truppa a piedi, mentre la

cavalleria sgombrava vie e piazze attigue. Al direttoreera venuto l’ordine di non far uscire nemmeno i feriti. Aprendere il redattore che aveva la mascella spezzata el’operaio che, per la sua spalla rotta, mandava dallastanza dei soccorsi alti e continui lamenti, fu inviato uncarro dell’ambulanza militare con una scorta. Le barellespuntavano dal portone principale, mezzo bruciato,quando vi arrivò una donna giovine e sottile la qualenon portava cappello ma aveva una sciarpa nera avvoltaintorno al capo ed al viso: Fenice, riuscita a passar tra isoldati malgrado la consegna. Appena fu avvertito, Gra-ziano la fece entrare nel misero salotto. Ella aveva labocca e quegli occhi azzurri un poco piú ansiosi delconsueto; posò una mano sulla spalla del giovine e, al-zando il volto, lo baciò. Si raccontarono la giornata.Quando aveva inteso parlare di un assalto al giornale,Fenice era accorsa; giunta nelle vicinanze, non aveva

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Page 307: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

trovato il coraggio di accostarsi maggiormente, perchéudiva sparare molto e vedeva le fiamme.

— Disordini dappertutto. Gente uccisa. Ho provatosubito a telefonare, qui non rispondeva nessuno. Stavoin gran pena e non sapevo che cosa fare. Si diceva,dov’ero, che gli assalitori erano entrati. Anch’io, guar-dando, temevo questo.

Uscita dal giornale con Graziano, gli disse che pote-vano rimanere insieme, quando egli fosse libero, tutta lanotte. Volle accompagnarlo all’ospedale dove il giovinedesiderava prender notizie di quei due feriti. Pesava sul-la città un caldo torpido; molte vie erano deserte, in altresi sentiva il passo delle pattuglie; erano chiusi i caffè, glialberghi; dei portoni si apriva soltanto uno spiraglio e didentro qualcuno spiava con prudenza; a zone illuminatene succedevano alcune completamente immersenell’oscurità. Si pensava ad una sera di guerra. In unapiazza dei soldati avevan fatti i fasci dei fucili e mangia-vano pane e carne in scatola sui marciapiedi di un palaz-zo in fronte al quale luceva d’oro il nome di una banca:tra loro si discorreva dei fatti della giornata, dei morti eferiti con cert’aria di indifferenza. Assai rare le finestreilluminate; il silenzio dava l’idea che la popolazionefosse fuggita. Un gran rumore fece, passando al trotto,una delle ambulanze militari con le croci rosse e le ten-de sventolanti. Graziano e Fenice incontrarono un pic-colo uomo il quale pareva un impiegato che per forzafosse rimasto fino a quell’ora chiuso in un ufficio; poiun ragazzetto che domandò: – Dove potrei comprare

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trovato il coraggio di accostarsi maggiormente, perchéudiva sparare molto e vedeva le fiamme.

— Disordini dappertutto. Gente uccisa. Ho provatosubito a telefonare, qui non rispondeva nessuno. Stavoin gran pena e non sapevo che cosa fare. Si diceva,dov’ero, che gli assalitori erano entrati. Anch’io, guar-dando, temevo questo.

Uscita dal giornale con Graziano, gli disse che pote-vano rimanere insieme, quando egli fosse libero, tutta lanotte. Volle accompagnarlo all’ospedale dove il giovinedesiderava prender notizie di quei due feriti. Pesava sul-la città un caldo torpido; molte vie erano deserte, in altresi sentiva il passo delle pattuglie; erano chiusi i caffè, glialberghi; dei portoni si apriva soltanto uno spiraglio e didentro qualcuno spiava con prudenza; a zone illuminatene succedevano alcune completamente immersenell’oscurità. Si pensava ad una sera di guerra. In unapiazza dei soldati avevan fatti i fasci dei fucili e mangia-vano pane e carne in scatola sui marciapiedi di un palaz-zo in fronte al quale luceva d’oro il nome di una banca:tra loro si discorreva dei fatti della giornata, dei morti eferiti con cert’aria di indifferenza. Assai rare le finestreilluminate; il silenzio dava l’idea che la popolazionefosse fuggita. Un gran rumore fece, passando al trotto,una delle ambulanze militari con le croci rosse e le ten-de sventolanti. Graziano e Fenice incontrarono un pic-colo uomo il quale pareva un impiegato che per forzafosse rimasto fino a quell’ora chiuso in un ufficio; poiun ragazzetto che domandò: – Dove potrei comprare

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Page 308: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

delle candele? – Le facce di costoro erano spaurite, magente sospetta in giro non ve n’era, non succedeva piúnulla. Graziano e la compagna camminavano di buonpasso. Sebbene la città avesse quel tetro aspetto e l’ariasembrasse piena di ciò ch’era accaduto, Fenice avevaora nell’animo una gioia profonda, quasi un senso di fe-licità; mascherata con la sua sciarpa, si teneva stretta albraccio del giovine, parlando animatamente e guardan-dolo spesso; ed anche Graziano era contento di attraver-sar la città a quel modo, insieme a lei. Pensavano confu-samente di essere rimasti al mondo essi due soli, e pen-savano alla notte che potevano vivere insieme nel luogoche apparteneva soltanto a loro.

Presso l’ospedale una squadra della polizia, a moltipassi di distanza, intimò di fermarsi; dopo che Grazianoebbe mostrato qualche documento, poterono passare.L’antico edifizio, enorme, aveva intorno il suo odore diacido fenico. Nell’atrio, mal rischiarato da una lampadi-na elettrica dentro una grossa lanterna, dei carabinieristavano in silenzio sopra panche, lungo le pareti copertedi lapidi polverose. Un corpulento custode dichiarò cheassolutamente non si poteva vedere alcun ferito: notiziesi poteva averne all’Accettazione, dov’erano stati medi-cati. Graziano e Fenice entrarono allora da un altro por-tone; in una stanza bianca attigua alla sala operatoriapassò una monaca, infermieri aspettavano in crocchio,con le maniche dei càmici rimboccate; uno di loro diededi malavoglia notizie di quei feriti, che non erano troppocattive. Si spalancò ad un tratto la grande vetrata della

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delle candele? – Le facce di costoro erano spaurite, magente sospetta in giro non ve n’era, non succedeva piúnulla. Graziano e la compagna camminavano di buonpasso. Sebbene la città avesse quel tetro aspetto e l’ariasembrasse piena di ciò ch’era accaduto, Fenice avevaora nell’animo una gioia profonda, quasi un senso di fe-licità; mascherata con la sua sciarpa, si teneva stretta albraccio del giovine, parlando animatamente e guardan-dolo spesso; ed anche Graziano era contento di attraver-sar la città a quel modo, insieme a lei. Pensavano confu-samente di essere rimasti al mondo essi due soli, e pen-savano alla notte che potevano vivere insieme nel luogoche apparteneva soltanto a loro.

Presso l’ospedale una squadra della polizia, a moltipassi di distanza, intimò di fermarsi; dopo che Grazianoebbe mostrato qualche documento, poterono passare.L’antico edifizio, enorme, aveva intorno il suo odore diacido fenico. Nell’atrio, mal rischiarato da una lampadi-na elettrica dentro una grossa lanterna, dei carabinieristavano in silenzio sopra panche, lungo le pareti copertedi lapidi polverose. Un corpulento custode dichiarò cheassolutamente non si poteva vedere alcun ferito: notiziesi poteva averne all’Accettazione, dov’erano stati medi-cati. Graziano e Fenice entrarono allora da un altro por-tone; in una stanza bianca attigua alla sala operatoriapassò una monaca, infermieri aspettavano in crocchio,con le maniche dei càmici rimboccate; uno di loro diededi malavoglia notizie di quei feriti, che non erano troppocattive. Si spalancò ad un tratto la grande vetrata della

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sala operatoria e venne innanzi un carrello. Con motoistintivo Fenice si strinse al compagno. Sul carrello, sot-to una coperta che lasciava vedere due robuste spallenude, giaceva un uomo il cui capo era tutto strettamentebendato; le bende, giranti sotto il mento ed intorno allagola, parevano un’armatura leggera e candida. Del visosi scorgevano gli occhi, chiusi, un naso diritto; una boc-ca suggellata: il viso d’un dormente, ma bianco come lebende e segnato da un riposo, da un oblio piú perfettoche il sonno. Vivo? Nella immobilità di quel viso eraun’espressione di purità e d’innocenza. Il carrello passò,scomparve per un corridoio.

— Trapanazione del cranio – si degnò di rispondereancora a Graziano l’infermiere di prima. – Stava su untetto a sparare ai soldati, ne ha ucciso uno, s’è presa unapallottola nel capo. Cinquantasei minuti di cloroformio.

Graziano e Fenice avevano nella mente il viso bianco,gli occhi chiusi, quel sonno cosí puro nel quale l’uomoera immerso. Egli veniva dalla giornata di lotta, avevaucciso. Ora non sapeva piú niente di ciò che aveva fatto,della sorte a cui apparteneva, del mondo, piú niente.

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sala operatoria e venne innanzi un carrello. Con motoistintivo Fenice si strinse al compagno. Sul carrello, sot-to una coperta che lasciava vedere due robuste spallenude, giaceva un uomo il cui capo era tutto strettamentebendato; le bende, giranti sotto il mento ed intorno allagola, parevano un’armatura leggera e candida. Del visosi scorgevano gli occhi, chiusi, un naso diritto; una boc-ca suggellata: il viso d’un dormente, ma bianco come lebende e segnato da un riposo, da un oblio piú perfettoche il sonno. Vivo? Nella immobilità di quel viso eraun’espressione di purità e d’innocenza. Il carrello passò,scomparve per un corridoio.

— Trapanazione del cranio – si degnò di rispondereancora a Graziano l’infermiere di prima. – Stava su untetto a sparare ai soldati, ne ha ucciso uno, s’è presa unapallottola nel capo. Cinquantasei minuti di cloroformio.

Graziano e Fenice avevano nella mente il viso bianco,gli occhi chiusi, quel sonno cosí puro nel quale l’uomoera immerso. Egli veniva dalla giornata di lotta, avevaucciso. Ora non sapeva piú niente di ciò che aveva fatto,della sorte a cui apparteneva, del mondo, piú niente.

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Altro tempo era passato. Gabriella coi larghi occhiscuri nel bel viso sereno, era adesso un’alta e forte ra-gazza che tuttavia non dimostrava piú dei suoi diciottoanni. Era tra sé molto orgogliosa di somigliare al padre.Amava sempre la musica, sonava bene; ma non avevapiú pensato a studiare il piano al Conservatorio, le erauscita di mente da un pezzo l’idea che potesse aver biso-gno di guadagnarsi la vita con la musica. Non avevaamiche intime, non amava il ballo; usciva con la madreoppure stava in casa a ricamare ed a leggere; diceva diaver una passione per la storia, cercava soprattutto levite delle regine e delle eroine, tra le quali preferivaGiovanna d’Arco. Contenta dell’esistenza familiare, for-se non si perdeva mai in sogni; aspettando con fiducia esenza impazienza, compiacendosi anzi che fosse ancoralontana, una vita diversa, la sua vita di donna.

Un giorno d’aprile, essendo alla finestra con la madrea guardar nel viale sottostante, la osservò in piena luce enon si poté trattenere: – Ma tu non stai ancora bene,mammina! – Quel viso era infatti cambiato: il palloresano diveniva uno strano colore, offuscato d’ombre gri-gie.

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Altro tempo era passato. Gabriella coi larghi occhiscuri nel bel viso sereno, era adesso un’alta e forte ra-gazza che tuttavia non dimostrava piú dei suoi diciottoanni. Era tra sé molto orgogliosa di somigliare al padre.Amava sempre la musica, sonava bene; ma non avevapiú pensato a studiare il piano al Conservatorio, le erauscita di mente da un pezzo l’idea che potesse aver biso-gno di guadagnarsi la vita con la musica. Non avevaamiche intime, non amava il ballo; usciva con la madreoppure stava in casa a ricamare ed a leggere; diceva diaver una passione per la storia, cercava soprattutto levite delle regine e delle eroine, tra le quali preferivaGiovanna d’Arco. Contenta dell’esistenza familiare, for-se non si perdeva mai in sogni; aspettando con fiducia esenza impazienza, compiacendosi anzi che fosse ancoralontana, una vita diversa, la sua vita di donna.

Un giorno d’aprile, essendo alla finestra con la madrea guardar nel viale sottostante, la osservò in piena luce enon si poté trattenere: – Ma tu non stai ancora bene,mammina! – Quel viso era infatti cambiato: il palloresano diveniva uno strano colore, offuscato d’ombre gri-gie.

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Page 311: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

Le parole della ragazza penetrarono profondamentenell’animo di Claudia. Ella non si sentiva meglio davve-ro; le cresceva un peso nel ventre, era sempre affaticata,e si aggravava in lei il sentimento d’essere malata. Ga-briella ignorava la circostanza piú inquietante: le perditedi sangue. Sisto l’aveva fatta visitare da parecchi medi-ci, anche da un famoso chirurgo, e nessuno di loro ave-va detto niente di chiaro, almeno davanti a lei, però ri-manevano molto seri. In Sisto ella scorgeva una preoc-cupazione mal celata. Quando era incominciato tuttoquesto? Non se ne ricordava neppure: in principio diquell’anno, forse.

Piú volte ripeté a se stessa le parole di Gabriella, eduna decisione si maturò subito in lei. Il giorno seguente,senza dir nulla, da sola, vestita di scuro, andò a farsi vi-sitare da un ginecologo che sapeva molto stimato e dalquale non era conosciuta; diede un nome qualunque,disse al medico che era mandata dal professore Farra eche questi lo pregava di consegnarle, in busta chiusa, lasua diagnosi. Dopo l’esame questo medico rimase serioe riservato quanto gli altri; scrisse rapidamente la dia-gnosi, la mise in una busta che suggellò, scrivendovi ilnome del collega. Claudia pensava di andar a leggerla inun giardino pubblico. Appena discesa in istrada, invece,lacerò la busta. «Ritengo indubbio trattarsi di neoplasmatipico, in una fase piuttosto accentuata di sviluppo. Oltreil viscere principale, le neoformazioni interessano gliannessi, sul lato destro. A causa della sede e del modo dipropagarsi escludo la possibilità dell’intervento chirur-

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Le parole della ragazza penetrarono profondamentenell’animo di Claudia. Ella non si sentiva meglio davve-ro; le cresceva un peso nel ventre, era sempre affaticata,e si aggravava in lei il sentimento d’essere malata. Ga-briella ignorava la circostanza piú inquietante: le perditedi sangue. Sisto l’aveva fatta visitare da parecchi medi-ci, anche da un famoso chirurgo, e nessuno di loro ave-va detto niente di chiaro, almeno davanti a lei, però ri-manevano molto seri. In Sisto ella scorgeva una preoc-cupazione mal celata. Quando era incominciato tuttoquesto? Non se ne ricordava neppure: in principio diquell’anno, forse.

Piú volte ripeté a se stessa le parole di Gabriella, eduna decisione si maturò subito in lei. Il giorno seguente,senza dir nulla, da sola, vestita di scuro, andò a farsi vi-sitare da un ginecologo che sapeva molto stimato e dalquale non era conosciuta; diede un nome qualunque,disse al medico che era mandata dal professore Farra eche questi lo pregava di consegnarle, in busta chiusa, lasua diagnosi. Dopo l’esame questo medico rimase serioe riservato quanto gli altri; scrisse rapidamente la dia-gnosi, la mise in una busta che suggellò, scrivendovi ilnome del collega. Claudia pensava di andar a leggerla inun giardino pubblico. Appena discesa in istrada, invece,lacerò la busta. «Ritengo indubbio trattarsi di neoplasmatipico, in una fase piuttosto accentuata di sviluppo. Oltreil viscere principale, le neoformazioni interessano gliannessi, sul lato destro. A causa della sede e del modo dipropagarsi escludo la possibilità dell’intervento chirur-

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gico, come devo escludere l’utilità di ogni altro mezzodi cura». Cogliendo rapidamente le parole su cui i suoiocchi cadevano, Claudia ebbe una violenta scossa alcuore ed in tutte le membra, in tutte le fibre, poi si sentíaddosso un gelo. Sentí la morte, a cui era condannata.Sul biglietto la scrittura era arruffata; la diagnosi eraespressa sommariamente, in termini per lei un pocooscuri; ma fin dal primo istante il significato fu alla suamente chiarissimo, fu un lampo sinistro. Si trovava inun quartiere di vie diritte e vecchie, tra palazzotti silen-ziosi, in un’ora pomeridiana alquanto insonnita: avrebbevoluto veder gente, cercar gente, come per riceverneaiuto. No, non vi era nessuno che la potesse aiutare, nes-suno al mondo! Era condannata e nessuno poteva sal-varla. Volle rileggere il biglietto ma non vi riusciva piú;accorgendosi che anche delle lacrime le impedivano divedere, le asciugò subito, non volle piangere. E adessodove andare?

Ciò che le parve assolutamente impossibile, fu di tor-nare a casa. Affrettò il passo, cambiò strada. Aveval’idea vaga che servisse a qualcosa allontanarsi dallacasa del medico: lo ricordava mentre l’aveva interroga-ta, mentre scriveva; ancora soffriva un poco del malech’egli le aveva fatto esaminandola. Sempre le tornava-no in mente quelle parole – esatte e odiose – della suasentenza di morte. Camminava con decisione come sesapesse dove voleva andare, ma non aveva altro propo-sito che di raggiungere qualche luogo del tutto deserto,od almeno remoto, in margine alla città. Morire; era

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gico, come devo escludere l’utilità di ogni altro mezzodi cura». Cogliendo rapidamente le parole su cui i suoiocchi cadevano, Claudia ebbe una violenta scossa alcuore ed in tutte le membra, in tutte le fibre, poi si sentíaddosso un gelo. Sentí la morte, a cui era condannata.Sul biglietto la scrittura era arruffata; la diagnosi eraespressa sommariamente, in termini per lei un pocooscuri; ma fin dal primo istante il significato fu alla suamente chiarissimo, fu un lampo sinistro. Si trovava inun quartiere di vie diritte e vecchie, tra palazzotti silen-ziosi, in un’ora pomeridiana alquanto insonnita: avrebbevoluto veder gente, cercar gente, come per riceverneaiuto. No, non vi era nessuno che la potesse aiutare, nes-suno al mondo! Era condannata e nessuno poteva sal-varla. Volle rileggere il biglietto ma non vi riusciva piú;accorgendosi che anche delle lacrime le impedivano divedere, le asciugò subito, non volle piangere. E adessodove andare?

Ciò che le parve assolutamente impossibile, fu di tor-nare a casa. Affrettò il passo, cambiò strada. Aveval’idea vaga che servisse a qualcosa allontanarsi dallacasa del medico: lo ricordava mentre l’aveva interroga-ta, mentre scriveva; ancora soffriva un poco del malech’egli le aveva fatto esaminandola. Sempre le tornava-no in mente quelle parole – esatte e odiose – della suasentenza di morte. Camminava con decisione come sesapesse dove voleva andare, ma non aveva altro propo-sito che di raggiungere qualche luogo del tutto deserto,od almeno remoto, in margine alla città. Morire; era

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condannata a morire. Ecco che cosa era incominciataqualche mese prima, la sua fine. Ed aveva quarantanoveanni, soltanto quarantanove anni. Tutto finito, non c’erapiú avvenire, non c’era piú vita. Morire. In un viale lun-ghissimo, abitato da gente di modesta condizione, dueragazzi, uscendo di corsa da un portone, la urtarono conviolenza poi ripresero a correre ridendo in modo sguaia-to e cattivo; ed ella si sentiva una povera cosa che nonmeritasse ormai alcun rispetto. C’era in fondo a quelviale un magro prato e vi stavano alcune baracche dafiera, ma chiuse; fanciulli scamiciati, a sciami, ne alza-vano le tele per veder dentro; era aperto solamente untiro al bersaglio e dietro il banco una vecchia, che pare-va un omaccio, strepitava per allontanare alcuni di queifanciulli. Sull’ultima panca del viale Claudia sedette.

Il biglietto del medico lo aveva rimesso nella busta elo teneva sempre tra mani, insieme ai guanti. Pensavach’era un pezzo di carta qualunque con poche righe discrittura, ma che non si poteva far niente contro ciò chevi era detto. Nemmeno fuggendo ella non si sarebbe li-berata. Non rilesse la diagnosi; senza ritogliere il carton-cino dalla busta, lo stracciò; si alzò un momento per chi-narsi a ficcare i frammenti tra i ferri d’un pozzetto, ba-dando che non ne rimanesse fuori uno. Tornò a sedersi,e la disperazione di dover morire le lacerava l’animo, laempiva di un’amarezza insopportabile. Tre o quattrosoldati s’erano accostati al tiro a segno; si misero a spa-rare, attirando gli sciami dei fanciulli. Ecco – pensavaClaudia – ella stava sulla panca d’un brutto viale, lonta-

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condannata a morire. Ecco che cosa era incominciataqualche mese prima, la sua fine. Ed aveva quarantanoveanni, soltanto quarantanove anni. Tutto finito, non c’erapiú avvenire, non c’era piú vita. Morire. In un viale lun-ghissimo, abitato da gente di modesta condizione, dueragazzi, uscendo di corsa da un portone, la urtarono conviolenza poi ripresero a correre ridendo in modo sguaia-to e cattivo; ed ella si sentiva una povera cosa che nonmeritasse ormai alcun rispetto. C’era in fondo a quelviale un magro prato e vi stavano alcune baracche dafiera, ma chiuse; fanciulli scamiciati, a sciami, ne alza-vano le tele per veder dentro; era aperto solamente untiro al bersaglio e dietro il banco una vecchia, che pare-va un omaccio, strepitava per allontanare alcuni di queifanciulli. Sull’ultima panca del viale Claudia sedette.

Il biglietto del medico lo aveva rimesso nella busta elo teneva sempre tra mani, insieme ai guanti. Pensavach’era un pezzo di carta qualunque con poche righe discrittura, ma che non si poteva far niente contro ciò chevi era detto. Nemmeno fuggendo ella non si sarebbe li-berata. Non rilesse la diagnosi; senza ritogliere il carton-cino dalla busta, lo stracciò; si alzò un momento per chi-narsi a ficcare i frammenti tra i ferri d’un pozzetto, ba-dando che non ne rimanesse fuori uno. Tornò a sedersi,e la disperazione di dover morire le lacerava l’animo, laempiva di un’amarezza insopportabile. Tre o quattrosoldati s’erano accostati al tiro a segno; si misero a spa-rare, attirando gli sciami dei fanciulli. Ecco – pensavaClaudia – ella stava sulla panca d’un brutto viale, lonta-

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na da casa, e non sapeva piú che fare, perché avevaquella orribile malattia mortale. Un’altra volta le velaro-no la vista grosse lacrime. «Posso anche piangere – sidisse. – Che m’importa se mi vedono?». Si coprí gli oc-chi con una mano che teneva il fazzoletto, pianse silen-ziosamente, commiserando se stessa che aveva credutala vita ancor tanto lunga ed invece doveva già andarse-ne. Andarsene; lasciare tutte le cose del mondo, lasciarei figli, Sisto, tutti. E prima soffrire atrocemente, subirela miserabile decadenza. I fucili del tiro a segno conti-nuavano a sparare, ma i colpi le sembravano in un altromondo.

Ad un tratto, vicino a sé, udí una voce. Diceva – Si-gnora, vi è caduto un guanto. – Una donnetta del popo-lo, anziana, la guardava con la facile e curiosa compas-sione che ha la gente minuta. Claudia la ringraziò conun cenno del capo, raccolse il guanto, lo pulí con cura,ma senza guardare piú la donna, la quale si decise ad al-lontanarsi. Infine guardò l’ora e pensò che a casa dove-va ritornare. Dai suoi si sentiva già separata, poiché essinon erano dei condannati a morte. Invece doveva tornartra loro; questo le pareva uno sforzo superiore alle sueforze. S’incamminò adagio. Piú chiaramente le venneun pensiero che prima era confuso: la sua condanna si-gnificava sventura, dolore anche per loro, per Sisto, perGabriella, per Graziano che adesso era lontano, per ilvecchio Ascanio, per Aleramo ed Ortensia, anche. Seella non era capace di rassegnarsi, di accettare tutto ciòche doveva venire, di sopportare fortemente tutto ciò

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na da casa, e non sapeva piú che fare, perché avevaquella orribile malattia mortale. Un’altra volta le velaro-no la vista grosse lacrime. «Posso anche piangere – sidisse. – Che m’importa se mi vedono?». Si coprí gli oc-chi con una mano che teneva il fazzoletto, pianse silen-ziosamente, commiserando se stessa che aveva credutala vita ancor tanto lunga ed invece doveva già andarse-ne. Andarsene; lasciare tutte le cose del mondo, lasciarei figli, Sisto, tutti. E prima soffrire atrocemente, subirela miserabile decadenza. I fucili del tiro a segno conti-nuavano a sparare, ma i colpi le sembravano in un altromondo.

Ad un tratto, vicino a sé, udí una voce. Diceva – Si-gnora, vi è caduto un guanto. – Una donnetta del popo-lo, anziana, la guardava con la facile e curiosa compas-sione che ha la gente minuta. Claudia la ringraziò conun cenno del capo, raccolse il guanto, lo pulí con cura,ma senza guardare piú la donna, la quale si decise ad al-lontanarsi. Infine guardò l’ora e pensò che a casa dove-va ritornare. Dai suoi si sentiva già separata, poiché essinon erano dei condannati a morte. Invece doveva tornartra loro; questo le pareva uno sforzo superiore alle sueforze. S’incamminò adagio. Piú chiaramente le venneun pensiero che prima era confuso: la sua condanna si-gnificava sventura, dolore anche per loro, per Sisto, perGabriella, per Graziano che adesso era lontano, per ilvecchio Ascanio, per Aleramo ed Ortensia, anche. Seella non era capace di rassegnarsi, di accettare tutto ciòche doveva venire, di sopportare fortemente tutto ciò

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che aveva da soffrire, senza dar segno di conoscere laverità, la sventura era per i suoi ancora piú terribile, ildolore piú tormentoso. Bisognava non dire niente, farsicoraggio, fingere,... e rassegnarsi! Poco dopo ella chia-mò una vettura di piazza, diede l’indirizzo di casa.

Da quel giorno si ritirò in se stessa. Di uscire e vedergente non aveva piú voglia; le era penoso anche il tro-varsi in compagnia di Gabriella o del vecchio Ascanio;perciò, essendo sempre stata grande lettrice, fingevad’immergersi maggiormente nei libri. Qualche volta sisforzava a fare le solite passeggiate e compere, perché lafiglia non voleva andare senza lei. Da sola, Claudia me-ditava. L’idea era sempre la medesima, che bisognavamorire. Quando? Tra quanti mesi? Mesi, non altro. Esempre questa verità s’avvolgeva nella sua mente d’unostupore profondo. La necessità terribile ella avrebbe vo-luto che non fosse, ma il volere non serviva a niente;non esisteva nessun mezzo per fermarsi sulla stradadove camminava. Il suo tempo di stare al mondo era or-mai consumato. Bisognava abituarsi all’idea ed abban-donarsi alla sorte. Ma che senso aveva la sua vita, tantobreve e senza conclusione, tagliata a quel modo? Cosíera il suo destino. Ciascuno ha il suo destino. Ella pen-sava al fratello da lei non conosciuto, che un colpo disole aveva ucciso nell’adolescenza e del quale rimanevasoltanto il piccolo violino su cui imparava a sonare.Guardava le stanze. La casa nuova, quella casa di tantagente, non le aveva portata fortuna. Presto sarebbe usci-ta per sempre di tra le sottili pareti di cemento, avrebbe

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che aveva da soffrire, senza dar segno di conoscere laverità, la sventura era per i suoi ancora piú terribile, ildolore piú tormentoso. Bisognava non dire niente, farsicoraggio, fingere,... e rassegnarsi! Poco dopo ella chia-mò una vettura di piazza, diede l’indirizzo di casa.

Da quel giorno si ritirò in se stessa. Di uscire e vedergente non aveva piú voglia; le era penoso anche il tro-varsi in compagnia di Gabriella o del vecchio Ascanio;perciò, essendo sempre stata grande lettrice, fingevad’immergersi maggiormente nei libri. Qualche volta sisforzava a fare le solite passeggiate e compere, perché lafiglia non voleva andare senza lei. Da sola, Claudia me-ditava. L’idea era sempre la medesima, che bisognavamorire. Quando? Tra quanti mesi? Mesi, non altro. Esempre questa verità s’avvolgeva nella sua mente d’unostupore profondo. La necessità terribile ella avrebbe vo-luto che non fosse, ma il volere non serviva a niente;non esisteva nessun mezzo per fermarsi sulla stradadove camminava. Il suo tempo di stare al mondo era or-mai consumato. Bisognava abituarsi all’idea ed abban-donarsi alla sorte. Ma che senso aveva la sua vita, tantobreve e senza conclusione, tagliata a quel modo? Cosíera il suo destino. Ciascuno ha il suo destino. Ella pen-sava al fratello da lei non conosciuto, che un colpo disole aveva ucciso nell’adolescenza e del quale rimanevasoltanto il piccolo violino su cui imparava a sonare.Guardava le stanze. La casa nuova, quella casa di tantagente, non le aveva portata fortuna. Presto sarebbe usci-ta per sempre di tra le sottili pareti di cemento, avrebbe

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lasciate le cose familiari amate, e sarebbe uscita dallavita dei suoi. Finito di stare a fianco di Sisto, di avviareed aiutare i figli. Finito tutto. Gli ultimi anni erano statiabbastanza buoni; si era già potuto metter da parte altrodenaro; il tempo ch’ella aveva creduto di avere per ve-der rifatto ciò ch’era andato perduto, non c’era piú.

Sempre, anche stando in compagnia e discorrendo,Claudia sentiva dinanzi a sé il termine della vita, quellacosa terribile e vuota, la morte. Sentiva e vedeva un im-menso muro, il limite, ma fatto di niente, di sola tene-bra. E provava l’amarezza insopportabile, il dolore pro-fondissimo, che era un sentirsi l’animo avvelenato mor-talmente. Pensava che tutti se ne dovessero accorgere;invece i suoi non le vedevano che un aspetto di stan-chezza e di malinconia.

— Sí, cara, – rispondeva a Gabriella – mi prende unpo’ di malinconia. Dicono che sia l’età.

Le era venuto fin dai primi giorni il pensiero di darmarito alla figlia, per lasciarla accasata ed anche perchéfosse in condizione di sopportare meglio la prova chel’aspettava, povera Gabriella! Sapeva chi darle in sposo.D’estate veniva qualche volta alla villa dei pini un gio-vine che apparteneva ad una delle antiche famiglie diRebbia ora ridotte a modesta fortuna; quando egli avevaventiquattro anni ed era appena uscito dall’universitàcon la laurea d’ingegnere meccanico, s’era innamoratodi Gabriella quattordicenne, ma vergognandosene moltoe cercando di non farsene accorgere, come se fosse cosada averne rimorso, sebbene la ragazza fosse cosí svilup-

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lasciate le cose familiari amate, e sarebbe uscita dallavita dei suoi. Finito di stare a fianco di Sisto, di avviareed aiutare i figli. Finito tutto. Gli ultimi anni erano statiabbastanza buoni; si era già potuto metter da parte altrodenaro; il tempo ch’ella aveva creduto di avere per ve-der rifatto ciò ch’era andato perduto, non c’era piú.

Sempre, anche stando in compagnia e discorrendo,Claudia sentiva dinanzi a sé il termine della vita, quellacosa terribile e vuota, la morte. Sentiva e vedeva un im-menso muro, il limite, ma fatto di niente, di sola tene-bra. E provava l’amarezza insopportabile, il dolore pro-fondissimo, che era un sentirsi l’animo avvelenato mor-talmente. Pensava che tutti se ne dovessero accorgere;invece i suoi non le vedevano che un aspetto di stan-chezza e di malinconia.

— Sí, cara, – rispondeva a Gabriella – mi prende unpo’ di malinconia. Dicono che sia l’età.

Le era venuto fin dai primi giorni il pensiero di darmarito alla figlia, per lasciarla accasata ed anche perchéfosse in condizione di sopportare meglio la prova chel’aspettava, povera Gabriella! Sapeva chi darle in sposo.D’estate veniva qualche volta alla villa dei pini un gio-vine che apparteneva ad una delle antiche famiglie diRebbia ora ridotte a modesta fortuna; quando egli avevaventiquattro anni ed era appena uscito dall’universitàcon la laurea d’ingegnere meccanico, s’era innamoratodi Gabriella quattordicenne, ma vergognandosene moltoe cercando di non farsene accorgere, come se fosse cosada averne rimorso, sebbene la ragazza fosse cosí svilup-

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pata e robusta. Da principio era parso rustico e bizzarro,troppo portato alle matematiche, alle idee pratiche, etroppo appassionato delle montagne, dove faceva diffi-cili ascensioni ogni volta che potesse avere un po’ ditempo; sempre mal vestito, con una barbetta selvatica ela pipa in bocca, mostrava un’avversione per i libri «diamena lettura», come diceva ironicamente; ma era vigo-roso, asciutto di membra, con viso scarno, bruciato e pu-pille chiare, e nel carattere aveva un fondo di semplicitàquasi infantile. Occupava ora un posto appena discretoin un grande stabilimento che fabbricava orologi a sve-glia, e volentieri ci scherzava su; certamente, però,avrebbe saputo farsi strada. Gabriella gli si era affezio-nata tranquillamente. Un sorriso spuntava sul volto cine-reo di Claudia se ripensava alle visite che Aurelio avevafatte in quegli anni alla pineta, sempre con l’aria impac-ciata di un uomo onesto innamorato d’una bambina.Ella era sicura che l’unione sarebbe riuscita ottima; ladote che si poteva dare a Gabriella era sufficiente; mabisognava affrettarsi, fare le nozze prima che venisse iltempo nel quale sarebbero diventate impossibili.

E quante volte al giorno la mente di Claudia si volge-va a Graziano? Era in America, negli Stati Uniti. Unagran pena le stringeva il cuore se pensava che nonl’avrebbe avuto accanto negli ultimi mesi in cui rimane-va al mondo; ma il figlio era là per il suo giornale, edavevano ottenuto molto successo le corrispondenze chemandava studiando quel vastissimo paese, nuovo riccofiorente strepitoso, ancora mal conosciuto dall’Europa.

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pata e robusta. Da principio era parso rustico e bizzarro,troppo portato alle matematiche, alle idee pratiche, etroppo appassionato delle montagne, dove faceva diffi-cili ascensioni ogni volta che potesse avere un po’ ditempo; sempre mal vestito, con una barbetta selvatica ela pipa in bocca, mostrava un’avversione per i libri «diamena lettura», come diceva ironicamente; ma era vigo-roso, asciutto di membra, con viso scarno, bruciato e pu-pille chiare, e nel carattere aveva un fondo di semplicitàquasi infantile. Occupava ora un posto appena discretoin un grande stabilimento che fabbricava orologi a sve-glia, e volentieri ci scherzava su; certamente, però,avrebbe saputo farsi strada. Gabriella gli si era affezio-nata tranquillamente. Un sorriso spuntava sul volto cine-reo di Claudia se ripensava alle visite che Aurelio avevafatte in quegli anni alla pineta, sempre con l’aria impac-ciata di un uomo onesto innamorato d’una bambina.Ella era sicura che l’unione sarebbe riuscita ottima; ladote che si poteva dare a Gabriella era sufficiente; mabisognava affrettarsi, fare le nozze prima che venisse iltempo nel quale sarebbero diventate impossibili.

E quante volte al giorno la mente di Claudia si volge-va a Graziano? Era in America, negli Stati Uniti. Unagran pena le stringeva il cuore se pensava che nonl’avrebbe avuto accanto negli ultimi mesi in cui rimane-va al mondo; ma il figlio era là per il suo giornale, edavevano ottenuto molto successo le corrispondenze chemandava studiando quel vastissimo paese, nuovo riccofiorente strepitoso, ancora mal conosciuto dall’Europa.

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Page 318: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

E che dirgli per richiamarlo? Tra questi dubbi ella nonsapeva come risolversi; pensava che lo avrebbe rivedutosoltanto negli ultimi suoi giorni.

La malattia si comportava stranamente. Dolori ellanon ne aveva; molte volte, se non moveva, non sentivanemmeno la pesantezza malvagia del ventre, ed allora siabbandonava alla speranza di poter guarire, immaginan-do che quel medico della sentenza si fosse sbagliato;poi, ad un tratto, come un avviso segreto ed inesorabile,ritornavano le perdite di sangue. Ogni tanto veniva a vi-sitarla il medico curante, piccolo e timido, il quale sistudiava di dirle parole ambigue, inventando spiegazioniche non spiegavano nulla. Sebbene in faccia a Sisto fos-se la consueta espressione di forza ed egli volesse pareretranquillo, in fondo ai suoi occhi Claudia leggeva la tri-ste certezza. Del resto se lo sentiva bene nell’animod’essere malata a morte: qualche volta la prendeva unorrore di sé, per il male che aveva dentro, il cui solonome faceva rabbrividire; ricordava il cugino Casimirorosicchiato nello stomaco; temeva d’aver messo un si-mile germe nei figli, quantunque nessuno dei suoi geni-tori e dei nonni fosse morto di tale malattia. Sopra di sée sopra tutti sentiva una potenza oscura contro la qualenon valeva la volontà, non valevano le speranze né i so-gni.

A richiamar Graziano aveva pensato il padre. Nellalettera non gli aveva precisata la natura del male né det-to che si trattasse di cosa disperata, gli aveva però fattocapire esser conveniente che la mamma lo avesse vici-

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E che dirgli per richiamarlo? Tra questi dubbi ella nonsapeva come risolversi; pensava che lo avrebbe rivedutosoltanto negli ultimi suoi giorni.

La malattia si comportava stranamente. Dolori ellanon ne aveva; molte volte, se non moveva, non sentivanemmeno la pesantezza malvagia del ventre, ed allora siabbandonava alla speranza di poter guarire, immaginan-do che quel medico della sentenza si fosse sbagliato;poi, ad un tratto, come un avviso segreto ed inesorabile,ritornavano le perdite di sangue. Ogni tanto veniva a vi-sitarla il medico curante, piccolo e timido, il quale sistudiava di dirle parole ambigue, inventando spiegazioniche non spiegavano nulla. Sebbene in faccia a Sisto fos-se la consueta espressione di forza ed egli volesse pareretranquillo, in fondo ai suoi occhi Claudia leggeva la tri-ste certezza. Del resto se lo sentiva bene nell’animod’essere malata a morte: qualche volta la prendeva unorrore di sé, per il male che aveva dentro, il cui solonome faceva rabbrividire; ricordava il cugino Casimirorosicchiato nello stomaco; temeva d’aver messo un si-mile germe nei figli, quantunque nessuno dei suoi geni-tori e dei nonni fosse morto di tale malattia. Sopra di sée sopra tutti sentiva una potenza oscura contro la qualenon valeva la volontà, non valevano le speranze né i so-gni.

A richiamar Graziano aveva pensato il padre. Nellalettera non gli aveva precisata la natura del male né det-to che si trattasse di cosa disperata, gli aveva però fattocapire esser conveniente che la mamma lo avesse vici-

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no. Graziano arrivò. Si era fatto molto robusto ed avevapreso del paese dove era vissuto, di quel mondo diverso,della lingua straniera che aveva parlata. Rivedendo lamadre, provò una stretta d’angoscia: non era piú quellache aveva lasciata, quella che sembrava ancor giovineanche a fianco di Gabriella, piú vibrante di lei; la tintasinistra diffusa sul suo volto dava subito un’idea di ma-lattia grave, dallo sguardo era scomparso il brillio, lapersona appariva sformata.

— Parliamo di te, parliamo di te! – gli disse Claudia.– Che bell’aria! Mi racconterai tante cose.

Si agitava come se non volesse esser guardata dal fi-glio. Qualche giorno dopo l’arrivo, il giovine andò allaclinica, chiamato da Sisto. – Bisogna prepararsi, caroGraziano – disse il professore in certo tono deciso erude. – Non c’è speranza che la mamma guarisca. –Spiegò quale era il male. Seduto alla scrivania, col cà-mice bianco indosso, fissava il figlio, con la sua profon-da ruga in mezzo ai sopraccigli. La chiamata alla clinicaaveva tosto aggravati i sospetti del giovine; tuttavia sen-tí con sorpresa la sventura che gli era annunziata; la fi-gura del padre, gli oggetti dello studio ben noto, il silen-zio dell’ospedale divennero per lui terribili come le pa-role udite, tutto esprimeva la condanna ch’egli non vole-va credere e che doveva pur credere e che lo empivad’un dolore straziante. Ora – continuava Sisto – biso-gnava lasciare che la madre potesse illudersi di guarire,e piú avanti alleviarne le sofferenze: non vi era altro dafare.

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no. Graziano arrivò. Si era fatto molto robusto ed avevapreso del paese dove era vissuto, di quel mondo diverso,della lingua straniera che aveva parlata. Rivedendo lamadre, provò una stretta d’angoscia: non era piú quellache aveva lasciata, quella che sembrava ancor giovineanche a fianco di Gabriella, piú vibrante di lei; la tintasinistra diffusa sul suo volto dava subito un’idea di ma-lattia grave, dallo sguardo era scomparso il brillio, lapersona appariva sformata.

— Parliamo di te, parliamo di te! – gli disse Claudia.– Che bell’aria! Mi racconterai tante cose.

Si agitava come se non volesse esser guardata dal fi-glio. Qualche giorno dopo l’arrivo, il giovine andò allaclinica, chiamato da Sisto. – Bisogna prepararsi, caroGraziano – disse il professore in certo tono deciso erude. – Non c’è speranza che la mamma guarisca. –Spiegò quale era il male. Seduto alla scrivania, col cà-mice bianco indosso, fissava il figlio, con la sua profon-da ruga in mezzo ai sopraccigli. La chiamata alla clinicaaveva tosto aggravati i sospetti del giovine; tuttavia sen-tí con sorpresa la sventura che gli era annunziata; la fi-gura del padre, gli oggetti dello studio ben noto, il silen-zio dell’ospedale divennero per lui terribili come le pa-role udite, tutto esprimeva la condanna ch’egli non vole-va credere e che doveva pur credere e che lo empivad’un dolore straziante. Ora – continuava Sisto – biso-gnava lasciare che la madre potesse illudersi di guarire,e piú avanti alleviarne le sofferenze: non vi era altro dafare.

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Infine lo abbracciò, stringendolo forte. Ma, nell’usci-re dalla clinica, il giovine aveva una sensazione di esse-re stato trattato molto duramente, quasi con brutalità.Comprese poi subito che il padre aveva voluto tagliare ebruciare, col fuoco stesso della verità ridurre a cicatricela piaga che non gli poteva risparmiare. E cercava ancheaiuto, il padre, a sopportare ciò che doveva succedere;aveva bisogno che qualcuno accanto a lui sapesse, senzadir parole che ammollissero l’animo. A Gabriella nonaveva parlato e nemmeno ad Ascanio. Da allora, ognivolta che si presentava alla madre, Graziano provò ungrave imbarazzo. Stando solo, pensava: la creatura dallaquale veniva, la sua fonte, egli doveva già perderla. Fan-ciullo, quando lo prendeva l’idea della morte, si doman-dava se sarebbe morta anche la mamma. In America nonaveva mai avuto ansietà, mai presentimenti, mentre quisi preparava un tal dolore. Avrebbe ancora dovuto vive-re molti anni, sua madre: questa condanna era un tradi-mento, era contraria alla legge della natura. E tutto acca-deva cosí semplicemente! «Ella mi capiva, aveva fidu-cia in me; ma ora non c’è piú tempo perché veda checosa posso fare. Ne ho perduto troppo, del tempo. Nonme lo perdonerò mai». La storia dei Senza terra, di cuiella aveva letto ogni capitolo appena scritto e che amavatanto, non era finita; il romanzo era stato trascurato per iviaggi, per il soggiorno a Londra e negli Stati Uniti; lecorrispondenze al giornale erano riuscite bene ed aveva-no dato un valore alla sua firma, ma di questo non glie-ne importava niente. Al romanzo aveva lavorato soprat-

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Infine lo abbracciò, stringendolo forte. Ma, nell’usci-re dalla clinica, il giovine aveva una sensazione di esse-re stato trattato molto duramente, quasi con brutalità.Comprese poi subito che il padre aveva voluto tagliare ebruciare, col fuoco stesso della verità ridurre a cicatricela piaga che non gli poteva risparmiare. E cercava ancheaiuto, il padre, a sopportare ciò che doveva succedere;aveva bisogno che qualcuno accanto a lui sapesse, senzadir parole che ammollissero l’animo. A Gabriella nonaveva parlato e nemmeno ad Ascanio. Da allora, ognivolta che si presentava alla madre, Graziano provò ungrave imbarazzo. Stando solo, pensava: la creatura dallaquale veniva, la sua fonte, egli doveva già perderla. Fan-ciullo, quando lo prendeva l’idea della morte, si doman-dava se sarebbe morta anche la mamma. In America nonaveva mai avuto ansietà, mai presentimenti, mentre quisi preparava un tal dolore. Avrebbe ancora dovuto vive-re molti anni, sua madre: questa condanna era un tradi-mento, era contraria alla legge della natura. E tutto acca-deva cosí semplicemente! «Ella mi capiva, aveva fidu-cia in me; ma ora non c’è piú tempo perché veda checosa posso fare. Ne ho perduto troppo, del tempo. Nonme lo perdonerò mai». La storia dei Senza terra, di cuiella aveva letto ogni capitolo appena scritto e che amavatanto, non era finita; il romanzo era stato trascurato per iviaggi, per il soggiorno a Londra e negli Stati Uniti; lecorrispondenze al giornale erano riuscite bene ed aveva-no dato un valore alla sua firma, ma di questo non glie-ne importava niente. Al romanzo aveva lavorato soprat-

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tutto quando era andato sulla collina dei pini per breviriposi. Ora lo voleva finire. Dal giornale si fece dare uncongedo, si rimise subito a quel lavoro: cosí stava lun-ghe ore in casa, non lontano dalla madre, e scrivendosentiva di vivere degnamente quel tempo terribile.

Aspettando il seguito del romanzo, Claudia volle ri-leggere la parte già fatta. Era sempre informata delle vi-cende dei Crivelli. L’anno avanti era morta Camilla, lamoglie di Giusto, quella forte contadina senza parole esenza idee; l’aveva presa un gran mal di gola, una granfebbre, la gola s’era gonfiata in maniera che non poteva-no piú darle da bere; non aveva piú parlato affatto e sen-za un lamento la sera del quarto giorno era spirata; sen-za lasciare figli, se n’era andata com’era venuta. Allora iBardissone, che avevano già brontolato alla morte diUrbano, avevano licenziati i coloni perché la famiglianon era piú abbastanza numerosa, ostinati a non volereche prendessero lavoratori avventizi. La fatica di mi-gliorar «i Cavalieri» era andata perduta. I Crivelli stava-no ora in un podere molto piccolo e rovinato, ancora piúlontano da Luvo, sul ciglio di un’antica frana che conti-nuava a mangiarsi quella terra. Del cambiamento avevaapprofittato Uliva, la «serpe», che aveva fatto valere lasua età maggiore per venir anche lei a Torino, magari afare la serva. Il padre, Cleto, non contata piú nulla, uninvalido; Marta invece badava da sola alla casa, seppuresvogliatamente; Giusto lavorava quella terraccia insie-me al fratello Donato, riprendendo da capo la solita fati-ca. Nel romanzo essi avevano una bellissima e forte

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tutto quando era andato sulla collina dei pini per breviriposi. Ora lo voleva finire. Dal giornale si fece dare uncongedo, si rimise subito a quel lavoro: cosí stava lun-ghe ore in casa, non lontano dalla madre, e scrivendosentiva di vivere degnamente quel tempo terribile.

Aspettando il seguito del romanzo, Claudia volle ri-leggere la parte già fatta. Era sempre informata delle vi-cende dei Crivelli. L’anno avanti era morta Camilla, lamoglie di Giusto, quella forte contadina senza parole esenza idee; l’aveva presa un gran mal di gola, una granfebbre, la gola s’era gonfiata in maniera che non poteva-no piú darle da bere; non aveva piú parlato affatto e sen-za un lamento la sera del quarto giorno era spirata; sen-za lasciare figli, se n’era andata com’era venuta. Allora iBardissone, che avevano già brontolato alla morte diUrbano, avevano licenziati i coloni perché la famiglianon era piú abbastanza numerosa, ostinati a non volereche prendessero lavoratori avventizi. La fatica di mi-gliorar «i Cavalieri» era andata perduta. I Crivelli stava-no ora in un podere molto piccolo e rovinato, ancora piúlontano da Luvo, sul ciglio di un’antica frana che conti-nuava a mangiarsi quella terra. Del cambiamento avevaapprofittato Uliva, la «serpe», che aveva fatto valere lasua età maggiore per venir anche lei a Torino, magari afare la serva. Il padre, Cleto, non contata piú nulla, uninvalido; Marta invece badava da sola alla casa, seppuresvogliatamente; Giusto lavorava quella terraccia insie-me al fratello Donato, riprendendo da capo la solita fati-ca. Nel romanzo essi avevano una bellissima e forte

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vita, e Claudia era impaziente di vedere come si moves-sero nel seguito, soprattutto Giusto, consapevole «servodella terra». Ella si confortava molto pensando che il li-bro sarebbe presto finito; questo era un pensiero di vita,di avvenire.

Non trascurò intanto la cosa che doveva condurre abuon esito ella stessa, il matrimonio della figlia. Ne par-lò a Sisto ed ebbe il suo consenso. Gabriella, quando lamadre le tenne la prima volta il discorso, si turbò; disseche era troppo giovine per sposarsi e che voleva ancorastare in casa; poi comprese che la madre doveva avereuna ragione grave, cioè essere malata molto gravemen-te, ed il suo turbamento fu piú profondo; ma pensò chebisognava obbedire. Sforzandosi di non piangere, si na-scose tra le braccia di Claudia; poiché la madre volevaessere certa che sposava Aurelio di buon grado, la rassi-curò baciandola e carezzandola. Quel giovine, sentendociò che poi gli disse il professore Farra, ebbe dapprimasoltanto l’impressione d’essere meravigliosamente favo-rito dalla fortuna e chiamato alla felicità; ma, dopo, daisuoi occhi chiari venne fuori qualche lacrima ch’egliasciugò con la mano sul viso bruciato; non voleva cre-dere che la signora dovesse veramente morire. Il profes-sore non trascurò di ricordargli che generalmente si rite-neva quel male trasmissibile agli eredi. – Se si pensassea queste cose, – rispose Aurelio – non si farebbero piúmatrimoni.

Fenice era informata del ritorno di Graziano, e si rivi-dero; però, soltanto all’aperto, passeggiando. Ella era

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vita, e Claudia era impaziente di vedere come si moves-sero nel seguito, soprattutto Giusto, consapevole «servodella terra». Ella si confortava molto pensando che il li-bro sarebbe presto finito; questo era un pensiero di vita,di avvenire.

Non trascurò intanto la cosa che doveva condurre abuon esito ella stessa, il matrimonio della figlia. Ne par-lò a Sisto ed ebbe il suo consenso. Gabriella, quando lamadre le tenne la prima volta il discorso, si turbò; disseche era troppo giovine per sposarsi e che voleva ancorastare in casa; poi comprese che la madre doveva avereuna ragione grave, cioè essere malata molto gravemen-te, ed il suo turbamento fu piú profondo; ma pensò chebisognava obbedire. Sforzandosi di non piangere, si na-scose tra le braccia di Claudia; poiché la madre volevaessere certa che sposava Aurelio di buon grado, la rassi-curò baciandola e carezzandola. Quel giovine, sentendociò che poi gli disse il professore Farra, ebbe dapprimasoltanto l’impressione d’essere meravigliosamente favo-rito dalla fortuna e chiamato alla felicità; ma, dopo, daisuoi occhi chiari venne fuori qualche lacrima ch’egliasciugò con la mano sul viso bruciato; non voleva cre-dere che la signora dovesse veramente morire. Il profes-sore non trascurò di ricordargli che generalmente si rite-neva quel male trasmissibile agli eredi. – Se si pensassea queste cose, – rispose Aurelio – non si farebbero piúmatrimoni.

Fenice era informata del ritorno di Graziano, e si rivi-dero; però, soltanto all’aperto, passeggiando. Ella era

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sempre la stessa, fine, elegante, con aspetto di ragazzapiú che di signora; malgrado i lunghi periodi di separa-zione, in quegli anni era rimasta legata a lui, fedele a lui,con un rispetto quasi superstizioso dell’unione che ave-va liberamente cercata e che bastava, anche cosí a darleuno scopo di vivere o l’illusione di averlo. Continuavasempre la doppia esistenza, ma si era avvicinata di piúal figlio, che ormai aveva nove anni e le era molto affe-zionato: nel carattere somigliava a lei. Graziano avevaviaggiato, vedute già molte cose, incontrate molte don-ne; non dava piú importanza all’amore; tuttavia gli pia-ceva sentire, anche da lontano, quella unione con Fenicee credere alla sua fedeltà. Della disgrazia che lo avevacolpito, della sorte di sua madre, ella soffriva vivamen-te; si vestiva con semplicità anche maggiore del consue-to; quando era col giovine, non badava nemmeno piúagli orologi; lo ascoltava oppure cercava di distrarlo colsuo discorrere sempre rapido; soprattutto gli faceva ca-pire, nel guardarlo di sotto in su con occhi adoranti, nel-lo stringergli la mano, che sempre rimaneva vicina a lui.Ma s’accontentava di vederlo ogni tanto; sapeva che la-vorava al romanzo e ne era felice. Passava però soventeper il viale dove egli abitava ed anche sotto le sue fine-stre, immaginando di poter salire in casa dei Farra, diessere accettata da Claudia, di entrare veramente nelloro dolore e nella loro vita, pur sapendo che non erapossibile. Qualche volta passò insieme al figlio.

Ascanio non aveva piú cambiata la propria esistenza;la mattina usciva di buon’ora, poi rientrava e stava in

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sempre la stessa, fine, elegante, con aspetto di ragazzapiú che di signora; malgrado i lunghi periodi di separa-zione, in quegli anni era rimasta legata a lui, fedele a lui,con un rispetto quasi superstizioso dell’unione che ave-va liberamente cercata e che bastava, anche cosí a darleuno scopo di vivere o l’illusione di averlo. Continuavasempre la doppia esistenza, ma si era avvicinata di piúal figlio, che ormai aveva nove anni e le era molto affe-zionato: nel carattere somigliava a lei. Graziano avevaviaggiato, vedute già molte cose, incontrate molte don-ne; non dava piú importanza all’amore; tuttavia gli pia-ceva sentire, anche da lontano, quella unione con Fenicee credere alla sua fedeltà. Della disgrazia che lo avevacolpito, della sorte di sua madre, ella soffriva vivamen-te; si vestiva con semplicità anche maggiore del consue-to; quando era col giovine, non badava nemmeno piúagli orologi; lo ascoltava oppure cercava di distrarlo colsuo discorrere sempre rapido; soprattutto gli faceva ca-pire, nel guardarlo di sotto in su con occhi adoranti, nel-lo stringergli la mano, che sempre rimaneva vicina a lui.Ma s’accontentava di vederlo ogni tanto; sapeva che la-vorava al romanzo e ne era felice. Passava però soventeper il viale dove egli abitava ed anche sotto le sue fine-stre, immaginando di poter salire in casa dei Farra, diessere accettata da Claudia, di entrare veramente nelloro dolore e nella loro vita, pur sapendo che non erapossibile. Qualche volta passò insieme al figlio.

Ascanio non aveva piú cambiata la propria esistenza;la mattina usciva di buon’ora, poi rientrava e stava in

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camera a lavorare; la sera, fatto un breve giro, si corica-va molto presto; qualche volta, se il tempo era bellissi-mo, se ne andava nei dintorni della città, ritornando anotte. Una volta chiamò il nipote. – Guarda, – gli dissetenendo sospeso per il margine un fogliuzzo ingiallito –mi è venuto sotto mano per caso. – Un giornale del1837, una di quelle piccole puerili gazzette. La cameradel vecchio era ampia, circondata interamente di scaffalied armadi; aveva preso un aspetto antico; vi erano le an-nate del «Pensiero liberale» e le armi del ’59 come nellacasa del Valentino; filze di documenti, pile di libri in-gombravano una gran tavola, poiché egli seguitava afrugare nella roba che aveva portata da Rebbia in quellecasse.

— Ed il tuo libro – domandò Graziano – quando tidecidi a pubblicarlo?

Nei ricordi del nonno il Risorgimento era rappresen-tato al vivo, con una piacevole naturalezza: la Torinod’allora, la campagna del ’59, i personaggi da lui cono-sciuti, gli avvenimenti a cui aveva assistito. Il vecchio siraddrizzò bene sulla persona, facendo il suo atto di man-dar le spalle indietro: – I miei ricordi! E chi sono, io? Liho scritti per passatempo.

Dal balcone aperto entrava col sole un’aria blanda,leggermente profumata e già un poco calda; giú nel via-le si scorgevano gli alberi, che avevan messe tutte leloro foglie. Ad un tratto Ascanio venne vicino al nipote,gli tenne fermo in viso lo sguardo affettuoso ma semprealquanto focoso ed altero; poi gli batté sulla guancia,

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camera a lavorare; la sera, fatto un breve giro, si corica-va molto presto; qualche volta, se il tempo era bellissi-mo, se ne andava nei dintorni della città, ritornando anotte. Una volta chiamò il nipote. – Guarda, – gli dissetenendo sospeso per il margine un fogliuzzo ingiallito –mi è venuto sotto mano per caso. – Un giornale del1837, una di quelle piccole puerili gazzette. La cameradel vecchio era ampia, circondata interamente di scaffalied armadi; aveva preso un aspetto antico; vi erano le an-nate del «Pensiero liberale» e le armi del ’59 come nellacasa del Valentino; filze di documenti, pile di libri in-gombravano una gran tavola, poiché egli seguitava afrugare nella roba che aveva portata da Rebbia in quellecasse.

— Ed il tuo libro – domandò Graziano – quando tidecidi a pubblicarlo?

Nei ricordi del nonno il Risorgimento era rappresen-tato al vivo, con una piacevole naturalezza: la Torinod’allora, la campagna del ’59, i personaggi da lui cono-sciuti, gli avvenimenti a cui aveva assistito. Il vecchio siraddrizzò bene sulla persona, facendo il suo atto di man-dar le spalle indietro: – I miei ricordi! E chi sono, io? Liho scritti per passatempo.

Dal balcone aperto entrava col sole un’aria blanda,leggermente profumata e già un poco calda; giú nel via-le si scorgevano gli alberi, che avevan messe tutte leloro foglie. Ad un tratto Ascanio venne vicino al nipote,gli tenne fermo in viso lo sguardo affettuoso ma semprealquanto focoso ed altero; poi gli batté sulla guancia,

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scosse il capo, rivolse gli occhi altrove, sospirando, sen-za dire nulla. Il giovine capí che la gazzetta era stato unpretesto e che il nonno aveva voluto fargli sapere cheanch’egli conosceva la sorte di Claudia, mostrarglicome il dolore li univa. Frattanto Ascanio s’era portatosul balcone; con le mani appoggiate alla ringhiera guar-dava nel viale, movendo da un lato e dall’altro il capofiero, mostrando a volte il profilo energico allungato dalpappafico bianco. Graziano lo osservava. Il nonno eraadesso molto avanzato negli anni ma la sua salute eraperfetta: soltanto la ferita di San Martino gli ridolevaancora qualche volta se il tempo doveva cambiare. Pare-va un uomo che sapesse di non aver mai da morire.Sempre forte e calmo, sentiva il dolore degli altri, soffri-va per gli altri, ma senza turbarsi, senza mostrare mail’ombra di quella incertezza che prende l’animo nellasventura o dinanzi allo spettacolo del dolore: «Perchésuccede questo?» Certamente egli viveva ora in un ac-cordo stabile e completo con la vita. Si sapeva che con-tinuava ad andare in chiesa, però non in modo regolare,di tanto in tanto. Graziano si domandava quale fosse ilsegreto della calma che aveva acquistata.

Le nozze di Gabriella si fecero nel giugno. Per il cielomovevano adagio immense nuvole bianche. Le cerimo-nie furono semplici e brevi; non vi era stato invitato al-cun estraneo. In casa, nelle sale e stanze lucidissime,Claudia aveva fatto disporre solamente delle rose, nontroppe; ma sulla mensa splendeva la roba piú bella, to-vaglie, cristalli, argenteria, che ella non voleva mai ado-

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scosse il capo, rivolse gli occhi altrove, sospirando, sen-za dire nulla. Il giovine capí che la gazzetta era stato unpretesto e che il nonno aveva voluto fargli sapere cheanch’egli conosceva la sorte di Claudia, mostrarglicome il dolore li univa. Frattanto Ascanio s’era portatosul balcone; con le mani appoggiate alla ringhiera guar-dava nel viale, movendo da un lato e dall’altro il capofiero, mostrando a volte il profilo energico allungato dalpappafico bianco. Graziano lo osservava. Il nonno eraadesso molto avanzato negli anni ma la sua salute eraperfetta: soltanto la ferita di San Martino gli ridolevaancora qualche volta se il tempo doveva cambiare. Pare-va un uomo che sapesse di non aver mai da morire.Sempre forte e calmo, sentiva il dolore degli altri, soffri-va per gli altri, ma senza turbarsi, senza mostrare mail’ombra di quella incertezza che prende l’animo nellasventura o dinanzi allo spettacolo del dolore: «Perchésuccede questo?» Certamente egli viveva ora in un ac-cordo stabile e completo con la vita. Si sapeva che con-tinuava ad andare in chiesa, però non in modo regolare,di tanto in tanto. Graziano si domandava quale fosse ilsegreto della calma che aveva acquistata.

Le nozze di Gabriella si fecero nel giugno. Per il cielomovevano adagio immense nuvole bianche. Le cerimo-nie furono semplici e brevi; non vi era stato invitato al-cun estraneo. In casa, nelle sale e stanze lucidissime,Claudia aveva fatto disporre solamente delle rose, nontroppe; ma sulla mensa splendeva la roba piú bella, to-vaglie, cristalli, argenteria, che ella non voleva mai ado-

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perare. Lei sola, per non affaticarsi, si era servita di vet-tura, e quelle scosse l’avevano stancata; sotto i suoi oc-chi le ombre grige erano molto grandi. Alla festa non viera Metello, trattenuto a Roma da sedute della Camera;però era giunto un suo telegramma. Mancava ancheAleramo. Questi, che nei primi tempi della sua libera-zione, ormai lontani, era stato preso come da una sma-nia di ricercare i piú lontani parenti ed i conoscenti diprima, come per riannodare quei fili della propria esi-stenza, avendo talvolta trovate accoglienze fredde o cat-tive, si era poi messo ad evitare ostinatamente tuttiquanti. «Mi scuserete: – aveva scritto a Claudia – voisiete persone per bene ed io guasterei». Vi era tra i con-vitati la madre di Aurelio, alta, con larghe spalle virili;vi erano il fratello e la sorella, anch’essi aitanti e di ma-niere franche.

— È matto. È sempre stato matto – disse Ortensia aClaudia quando seppe della lettera di Aleramo. Per lenozze ella s’era fatto fare un vestito da una buona sarta,ma il cappello se lo era raffazzonato a suo gusto anchequesta volta, un cappelluccio di paglia ornato di nastrivecchi, e non se lo volle a nessun costo levare in tutta lagiornata. Alla sposa aveva portato in regalo un ricordodi famiglia, uno di quei monili che in sé non varrebberomolto; era una collana a tre giri fatta di turchesi tenuteinsieme da catenine d’oro, con un grosso fermaglio, estava in un astuccio di cuoio spellato dal quale era quasisvanito lo stemma reale d’Inghilterra: l’aveva donata laregina Vittoria alla «zia Onorata», alla contessa Blanchi

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perare. Lei sola, per non affaticarsi, si era servita di vet-tura, e quelle scosse l’avevano stancata; sotto i suoi oc-chi le ombre grige erano molto grandi. Alla festa non viera Metello, trattenuto a Roma da sedute della Camera;però era giunto un suo telegramma. Mancava ancheAleramo. Questi, che nei primi tempi della sua libera-zione, ormai lontani, era stato preso come da una sma-nia di ricercare i piú lontani parenti ed i conoscenti diprima, come per riannodare quei fili della propria esi-stenza, avendo talvolta trovate accoglienze fredde o cat-tive, si era poi messo ad evitare ostinatamente tuttiquanti. «Mi scuserete: – aveva scritto a Claudia – voisiete persone per bene ed io guasterei». Vi era tra i con-vitati la madre di Aurelio, alta, con larghe spalle virili;vi erano il fratello e la sorella, anch’essi aitanti e di ma-niere franche.

— È matto. È sempre stato matto – disse Ortensia aClaudia quando seppe della lettera di Aleramo. Per lenozze ella s’era fatto fare un vestito da una buona sarta,ma il cappello se lo era raffazzonato a suo gusto anchequesta volta, un cappelluccio di paglia ornato di nastrivecchi, e non se lo volle a nessun costo levare in tutta lagiornata. Alla sposa aveva portato in regalo un ricordodi famiglia, uno di quei monili che in sé non varrebberomolto; era una collana a tre giri fatta di turchesi tenuteinsieme da catenine d’oro, con un grosso fermaglio, estava in un astuccio di cuoio spellato dal quale era quasisvanito lo stemma reale d’Inghilterra: l’aveva donata laregina Vittoria alla «zia Onorata», alla contessa Blanchi

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di Cortenuova, quando a Londra aveva salvati i figlidall’incendio. Un regalo magnifico Gabriella l’aveva ri-cevuto dal nonno: i diamanti che portava agli orecchi lanonna Severa e ch’egli aveva conservati nascostamentesenza voler mai pensare che valessero denaro.

Gabriella non riusciva a vincer lo stupore di esseregià una sposa; si guardava l’anello nuziale, quel cer-chietto; era colorita in volto come sempre ma sorridevapoco. Alla sfuggita osservava la madre, col cuore stret-to. Pregato da lei di dirle la verità, il babbo non avevadata una risposta netta. «Può ancora guarire. Speriamoche guarisca». Pensando che ora doveva allontanarsi perqualche tempo, Gabriella ne aveva rimorso. Lo sposostava piuttosto tranquillo, ma sul suo viso sfaccettato enei suoi occhi chiari era un’espressione animata, gioio-sa; portava un abito non nuovo, tagliato senza pretese;nuova era la cravatta ma annodata male, la sua cortabarba era come sempre selvatica, soldatesca. Tra sé egliricordava quando sulla collina dei pini aveva vista leprime volte una stupenda ragazza di quattordici anni, enon gli pareva vero che poc’anzi fosse stato celebrato illoro matrimonio; si sentiva straordinariamente fortunatosenza suo merito. Pure, se attraverso i fiori della mensaguardava Claudia, se guardava una sua mano ferma perun istante sulla tovaglia, sentiva anche quel che vi era distrano e di tetro nell’aria; per ciò evitava di volgere losguardo da quella parte. Ad un certo punto, prima Aure-lio poi Gabriella si alzarono, insieme fecero il giro dellatavola a salutare, e se ne andarono com’era stabilito.

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di Cortenuova, quando a Londra aveva salvati i figlidall’incendio. Un regalo magnifico Gabriella l’aveva ri-cevuto dal nonno: i diamanti che portava agli orecchi lanonna Severa e ch’egli aveva conservati nascostamentesenza voler mai pensare che valessero denaro.

Gabriella non riusciva a vincer lo stupore di esseregià una sposa; si guardava l’anello nuziale, quel cer-chietto; era colorita in volto come sempre ma sorridevapoco. Alla sfuggita osservava la madre, col cuore stret-to. Pregato da lei di dirle la verità, il babbo non avevadata una risposta netta. «Può ancora guarire. Speriamoche guarisca». Pensando che ora doveva allontanarsi perqualche tempo, Gabriella ne aveva rimorso. Lo sposostava piuttosto tranquillo, ma sul suo viso sfaccettato enei suoi occhi chiari era un’espressione animata, gioio-sa; portava un abito non nuovo, tagliato senza pretese;nuova era la cravatta ma annodata male, la sua cortabarba era come sempre selvatica, soldatesca. Tra sé egliricordava quando sulla collina dei pini aveva vista leprime volte una stupenda ragazza di quattordici anni, enon gli pareva vero che poc’anzi fosse stato celebrato illoro matrimonio; si sentiva straordinariamente fortunatosenza suo merito. Pure, se attraverso i fiori della mensaguardava Claudia, se guardava una sua mano ferma perun istante sulla tovaglia, sentiva anche quel che vi era distrano e di tetro nell’aria; per ciò evitava di volgere losguardo da quella parte. Ad un certo punto, prima Aure-lio poi Gabriella si alzarono, insieme fecero il giro dellatavola a salutare, e se ne andarono com’era stabilito.

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Quasi subito uscí anche Sisto per recarsi alla clinica.Si udí un rumoreggiar di tuono non molto distante. – Untemporale! – disse Ortensia con vivacità. – Io l’avevoprevisto, stamattina. Faceva troppo caldo. – La madre diAurelio, insieme agli altri figli, si accomiatò prima checascasse quell’acqua. Partiti loro, Ortensia, che passeg-giava continuamente fumando sigarette, si accostò allafinestra a contemplare il cielo brutto. Era di buon umo-re; ignorava quale fosse veramente la malattia della so-rella e si era formata l’opinione che si trattasse d’unacosa da niente, anzi, che Claudia non potesse neanchedirsi ammalata: perché in ogni cosa si affidavaall’impressione, e andava sempre ai pareri estremi, ve-dendo nero nero o bianco bianco. Con lei era venuto allenozze suo marito, Marchino. Basso di statura, magro esano, con una cravattina nera sotto un colletto che gli la-sciava libero il collo rugoso, aveva l’aspetto di quel cheera, cioè di un contadino divenuto maestro di campagnae poi preso da quell’estro di madamigella Andosio, trat-to nel romanzesco, trasformato dalla convivenza con labizzarra donna. Dopo il suo matrimonio non aveva fattoche occuparsi di cose delle quali non s’intendeva, sem-pre carico di crucci, sempre agitato dal bisogno di dena-ro sebbene per sé non gli importasse d’averne. In ognigesto, come nel modo di comportarsi nella vita, mostra-va i riflessi del carattere della moglie.

— Il carro del diavolo – disse Marchino dei tuoni ches’avvicinavano. Poco dopo, avendo pensato anche al

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Quasi subito uscí anche Sisto per recarsi alla clinica.Si udí un rumoreggiar di tuono non molto distante. – Untemporale! – disse Ortensia con vivacità. – Io l’avevoprevisto, stamattina. Faceva troppo caldo. – La madre diAurelio, insieme agli altri figli, si accomiatò prima checascasse quell’acqua. Partiti loro, Ortensia, che passeg-giava continuamente fumando sigarette, si accostò allafinestra a contemplare il cielo brutto. Era di buon umo-re; ignorava quale fosse veramente la malattia della so-rella e si era formata l’opinione che si trattasse d’unacosa da niente, anzi, che Claudia non potesse neanchedirsi ammalata: perché in ogni cosa si affidavaall’impressione, e andava sempre ai pareri estremi, ve-dendo nero nero o bianco bianco. Con lei era venuto allenozze suo marito, Marchino. Basso di statura, magro esano, con una cravattina nera sotto un colletto che gli la-sciava libero il collo rugoso, aveva l’aspetto di quel cheera, cioè di un contadino divenuto maestro di campagnae poi preso da quell’estro di madamigella Andosio, trat-to nel romanzesco, trasformato dalla convivenza con labizzarra donna. Dopo il suo matrimonio non aveva fattoche occuparsi di cose delle quali non s’intendeva, sem-pre carico di crucci, sempre agitato dal bisogno di dena-ro sebbene per sé non gli importasse d’averne. In ognigesto, come nel modo di comportarsi nella vita, mostra-va i riflessi del carattere della moglie.

— Il carro del diavolo – disse Marchino dei tuoni ches’avvicinavano. Poco dopo, avendo pensato anche al

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cannone, soggiunse: – Ora si dovrà fare una nuova guer-ra in Africa.

Ortensia gli diede sulla voce immediatamente: – Tucredi a tutto ciò che senti dire.

— I preparativi sono già avanzati: uniformi, munizio-ni. Presto sarà chiamata qualche classe. Me lo ha assicu-rato, non ricordo piú chi, uno che lo può sapere.

— In ogni modo, di guerre se ne sono fatte tante altre,mi sembra.

— Io parlo perché abbiamo tre figli abili alle armi.Parlo per questo.

— Sei sempre il medesimo. Piangi prima che i guaisuccedano.

Ortensia si rivolse di nuovo a guardare il cielo, pen-sando già a tutt’altre cose. Il suo piccolo cappello eraposato sui ricci abbrucciacchiati, né grigi né bianchi nébiondi; sul petto le luccicava la corona comitale di bron-zo. Claudia fece chiudere i vetri ed accender qualchelampada perché le nubi avevano annerita l’aria. Guizzòlivido un fulmine; la sorella ritorse vivamente la faccia,tirandosi però indietro solamente d’un passo. Poco dopoil temporale si ruppe con violenza, ed ella, con le brac-cia conserte, rimaneva presso la finestra, ammirando lafuria della pioggia, aspettando fulmini e tuoni con visi-bile paura ma come se la paura le piacesse. Anche que-sta volta raccontò che a Luvo, quando era piccina, la fa-miglia stava radunata in un salotto durante un temporaleed all’improvviso vi era entrata, non si sapeva di dove,una palla di fuoco che aveva girato per tutto il palazzo

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cannone, soggiunse: – Ora si dovrà fare una nuova guer-ra in Africa.

Ortensia gli diede sulla voce immediatamente: – Tucredi a tutto ciò che senti dire.

— I preparativi sono già avanzati: uniformi, munizio-ni. Presto sarà chiamata qualche classe. Me lo ha assicu-rato, non ricordo piú chi, uno che lo può sapere.

— In ogni modo, di guerre se ne sono fatte tante altre,mi sembra.

— Io parlo perché abbiamo tre figli abili alle armi.Parlo per questo.

— Sei sempre il medesimo. Piangi prima che i guaisuccedano.

Ortensia si rivolse di nuovo a guardare il cielo, pen-sando già a tutt’altre cose. Il suo piccolo cappello eraposato sui ricci abbrucciacchiati, né grigi né bianchi nébiondi; sul petto le luccicava la corona comitale di bron-zo. Claudia fece chiudere i vetri ed accender qualchelampada perché le nubi avevano annerita l’aria. Guizzòlivido un fulmine; la sorella ritorse vivamente la faccia,tirandosi però indietro solamente d’un passo. Poco dopoil temporale si ruppe con violenza, ed ella, con le brac-cia conserte, rimaneva presso la finestra, ammirando lafuria della pioggia, aspettando fulmini e tuoni con visi-bile paura ma come se la paura le piacesse. Anche que-sta volta raccontò che a Luvo, quando era piccina, la fa-miglia stava radunata in un salotto durante un temporaleed all’improvviso vi era entrata, non si sapeva di dove,una palla di fuoco che aveva girato per tutto il palazzo

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senza far danno e poi era scoppiata in giardino spezzan-do l’albero piú alto.

Marchino usava quasi sempre venir fuori con argo-menti che non seguivano affatto il filo della conversa-zione. Ora disse: – Pare che Aleramo, con la sua equita-zione, sia in cattive acque.

Nuovamente Ortensia gli diede subito sulla voce –Che favola! Se la cava benissimo. Di’ questo, piuttosto:un Andosio fare l’affittacavalli!

Dopo gli affari tentati in unione a loro, Aleramo erarimasto con qualche migliaio di lire; allora era andato aMontecarlo a giocar «gli ultimi» ed aveva fatta una di-screta vincita; con questo denaro aveva rilevata, a Mila-no, una scuola di equitazione un tempo famosa ed orapiuttosto decaduta, con l’idea di ridarle splendore, masoprattutto per possedere di nuovo dei cavalli, stare tracavalli e gente amante dell’equitazione, comandare a ca-vallerizzi e stallieri. Marchino sapeva bene che ogni fra-se detta in presenza della moglie gli era interrotta e ri-battuta, ciò durava ormai da tanti anni, ed egli parlavaegualmente. Osservò: – Non è meno decoroso che cer-car di rivendere dei tappeti.

— Tappeti persiani! Ed era un affare d’occasione, nonun commercio stabile. Adesso compra e vende cavalli.

— E lo imbrogliano.— Oh, di cavalli se ne intende. Il povero papà li face-

va comprare da lui che non aveva ancora vent’anni.I fulmini continuavano ad accendersi, i tuoni a scop-

piare, la pioggia a scrosciare; Ortensia e Marchino per

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senza far danno e poi era scoppiata in giardino spezzan-do l’albero piú alto.

Marchino usava quasi sempre venir fuori con argo-menti che non seguivano affatto il filo della conversa-zione. Ora disse: – Pare che Aleramo, con la sua equita-zione, sia in cattive acque.

Nuovamente Ortensia gli diede subito sulla voce –Che favola! Se la cava benissimo. Di’ questo, piuttosto:un Andosio fare l’affittacavalli!

Dopo gli affari tentati in unione a loro, Aleramo erarimasto con qualche migliaio di lire; allora era andato aMontecarlo a giocar «gli ultimi» ed aveva fatta una di-screta vincita; con questo denaro aveva rilevata, a Mila-no, una scuola di equitazione un tempo famosa ed orapiuttosto decaduta, con l’idea di ridarle splendore, masoprattutto per possedere di nuovo dei cavalli, stare tracavalli e gente amante dell’equitazione, comandare a ca-vallerizzi e stallieri. Marchino sapeva bene che ogni fra-se detta in presenza della moglie gli era interrotta e ri-battuta, ciò durava ormai da tanti anni, ed egli parlavaegualmente. Osservò: – Non è meno decoroso che cer-car di rivendere dei tappeti.

— Tappeti persiani! Ed era un affare d’occasione, nonun commercio stabile. Adesso compra e vende cavalli.

— E lo imbrogliano.— Oh, di cavalli se ne intende. Il povero papà li face-

va comprare da lui che non aveva ancora vent’anni.I fulmini continuavano ad accendersi, i tuoni a scop-

piare, la pioggia a scrosciare; Ortensia e Marchino per

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scambiarsi botte e risposte dovevan forzare la voce, di-ventavano rossi in viso; la moglie, sempre in piedi, adogni lampo si portava le mani agli orecchi, però inmodo da udire gli scoppi egualmente. Claudia ascoltavai tuoni e badava poco alle parole, sebbene avesse sullelabbra un accenno di sorriso. A poco a poco il temporalesi allontanò come per riprendere il medesimo lavoro al-trove. Ortensia ed il marito dovevano ripartire, e tutto adun tratto ella fu presa dall’inquietudine di perdere il tre-no: uscirono in fretta. Subito dopo, Ascanio si ritirò nel-la sua camera, Claudia mandò Graziano a lavorare.

Quando fu sola, sentí il peso di quella giornata, si tro-vò immensamente stanca. Anche lei si chiuse in camera;non vi accese lampade. Sebbene nel cielo si rivedessequalche spazio azzurro, l’aria rimaneva oscura perché lenuvole si erano ammassate a ponente nascondendo il ca-lar del sole. Claudia si adagiò in un seggiolone pressouna finestra aperta, dalla quale veniva un fresco odore diterra bagnata. Sola, con la sua condanna a morte.

Non seguiva pensieri ben formati; provava quella tri-stezza pesante, quell’amarezza, e forse l’assaporava conuna vaga compassione di sé. Tutto finito e tutto vano.Potersi almeno addormentare senza soffrire! Ma pianopiano, in quel lieve vaporar di pensieri, ella cominciò aricordare Graziano, poco distante da lei, e Gabriella chequella sera sarebbe giunta con lo sposo alla pineta. «Imiei figli» ella si diceva. Poi non li vide piú comepoc’anzi li aveva visti veramente e uditi parlare. Aveva-no la bellezza leggera che si conosce in sogno. Stavano

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scambiarsi botte e risposte dovevan forzare la voce, di-ventavano rossi in viso; la moglie, sempre in piedi, adogni lampo si portava le mani agli orecchi, però inmodo da udire gli scoppi egualmente. Claudia ascoltavai tuoni e badava poco alle parole, sebbene avesse sullelabbra un accenno di sorriso. A poco a poco il temporalesi allontanò come per riprendere il medesimo lavoro al-trove. Ortensia ed il marito dovevano ripartire, e tutto adun tratto ella fu presa dall’inquietudine di perdere il tre-no: uscirono in fretta. Subito dopo, Ascanio si ritirò nel-la sua camera, Claudia mandò Graziano a lavorare.

Quando fu sola, sentí il peso di quella giornata, si tro-vò immensamente stanca. Anche lei si chiuse in camera;non vi accese lampade. Sebbene nel cielo si rivedessequalche spazio azzurro, l’aria rimaneva oscura perché lenuvole si erano ammassate a ponente nascondendo il ca-lar del sole. Claudia si adagiò in un seggiolone pressouna finestra aperta, dalla quale veniva un fresco odore diterra bagnata. Sola, con la sua condanna a morte.

Non seguiva pensieri ben formati; provava quella tri-stezza pesante, quell’amarezza, e forse l’assaporava conuna vaga compassione di sé. Tutto finito e tutto vano.Potersi almeno addormentare senza soffrire! Ma pianopiano, in quel lieve vaporar di pensieri, ella cominciò aricordare Graziano, poco distante da lei, e Gabriella chequella sera sarebbe giunta con lo sposo alla pineta. «Imiei figli» ella si diceva. Poi non li vide piú comepoc’anzi li aveva visti veramente e uditi parlare. Aveva-no la bellezza leggera che si conosce in sogno. Stavano

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nell’avvenire, ed ella viveva in loro e l’avvenire parevasenza fine.

* * *

Clemenza Breme e Claudia non s’erano piú vedute daanni. La signorina comparve all’improvviso in un caldopomeriggio, subito dopo l’ora di colazione. Sempre lastessa, con quel naso affilato un poco fremente nellepinne, coi pallidi capelli biondi, con quell’aria tra timidae fantastica; ma non era piú troppo magra, portava unbel vestito di crespo chiaro, un cappello grande con fioriviola, mezzi guanti di seta bianca, scarpine di vernicecon la fibbia d’argento, teneva tra mani un parasole vio-la. Tuttavia, anche senza la giacchetta e la cintura dicuoio che una volta erano la sua uniforme, dava l’idead’una istitutrice: una istitutrice in giorno di vacanza.Claudia, appena entrata nel salotto, si posò in un seggio-lone col suo ventre ingrossato. Della sua salute non buo-na la Breme aveva sentito parlare a Luvo; accettò senzainsistere la spiegazione che forse erano disturbi dell’etàe che sarebbero passati col tempo. A paragone col soledi fuori, il salotto era buio: Clemenza non aveva vedutobene l’aspetto dell’amica.

— Io ho appena un paio d’anni meno di voi. – dissecol suo sorriso arguto – ma non ho mica messo giudizio.

Parlava con un fervore nervoso, come sempre, edaveva in sé qualcosa di contento, di amoroso, che la ren-deva abbastanza giovine: Claudia se n’era subito accorta

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nell’avvenire, ed ella viveva in loro e l’avvenire parevasenza fine.

* * *

Clemenza Breme e Claudia non s’erano piú vedute daanni. La signorina comparve all’improvviso in un caldopomeriggio, subito dopo l’ora di colazione. Sempre lastessa, con quel naso affilato un poco fremente nellepinne, coi pallidi capelli biondi, con quell’aria tra timidae fantastica; ma non era piú troppo magra, portava unbel vestito di crespo chiaro, un cappello grande con fioriviola, mezzi guanti di seta bianca, scarpine di vernicecon la fibbia d’argento, teneva tra mani un parasole vio-la. Tuttavia, anche senza la giacchetta e la cintura dicuoio che una volta erano la sua uniforme, dava l’idead’una istitutrice: una istitutrice in giorno di vacanza.Claudia, appena entrata nel salotto, si posò in un seggio-lone col suo ventre ingrossato. Della sua salute non buo-na la Breme aveva sentito parlare a Luvo; accettò senzainsistere la spiegazione che forse erano disturbi dell’etàe che sarebbero passati col tempo. A paragone col soledi fuori, il salotto era buio: Clemenza non aveva vedutobene l’aspetto dell’amica.

— Io ho appena un paio d’anni meno di voi. – dissecol suo sorriso arguto – ma non ho mica messo giudizio.

Parlava con un fervore nervoso, come sempre, edaveva in sé qualcosa di contento, di amoroso, che la ren-deva abbastanza giovine: Claudia se n’era subito accorta

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dalla maniera in cui era stata abbracciata e baciata. Lavisitatrice si tolse il cappello; la sua pettinatura era quel-la semplice d’una volta. Cose da raccontare ne avevamoltissime. Suo padre, morto da cinque anni, aveva la-sciato finito il vocabolario, ma nessun editore lo voleva,giudicandolo tutti già invecchiato; ella non era tornataalla Stellata finché continuava a regnarvi la vedova diMercurino, servita devotamente dal suocero, rimpiccoli-to, tutto baffi bianchi, il quale s’era illuso di raggiungerealmeno l’età di sua madre, ed invece nello scorso inver-no era stato portato anch’egli nella cappelletta dipinta astelle.

— Io ho insegnato in un collegio – continuò Clemen-za alzando ironicamente le sopracciglia. – Alle piccole.Non so bene che cosa.

Ma dopo la scomparsa dello zio Costante erano suc-cesse grandi novità. La nuora, per andar via e prendersiun marito giovine, aveva venduta la sua parte della Stel-lata a Barbara, e Barbara era tornata ad abitarvi e final-mente la regina del luogo era lei, circondata dalla suafamiglia.

— Certi figli! Troppo grossi. Anch’io adesso vivo là.Credo di dar poco fastidio; leggo sempre molto; ho mes-se le mani nella libreria; si potrebbe venderla ma nonvoglio. Passo delle ore nel giardino della nonna, prendoil sole sulla spianata, faccio il bagno come il poveroPaoletto, nella peschiera. Là intorno dicono che non hola testa a posto nemmeno io. Ci resisterò? Ogni tantoscappo, torno qui. Anche ora, per esempio, sono venu-

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dalla maniera in cui era stata abbracciata e baciata. Lavisitatrice si tolse il cappello; la sua pettinatura era quel-la semplice d’una volta. Cose da raccontare ne avevamoltissime. Suo padre, morto da cinque anni, aveva la-sciato finito il vocabolario, ma nessun editore lo voleva,giudicandolo tutti già invecchiato; ella non era tornataalla Stellata finché continuava a regnarvi la vedova diMercurino, servita devotamente dal suocero, rimpiccoli-to, tutto baffi bianchi, il quale s’era illuso di raggiungerealmeno l’età di sua madre, ed invece nello scorso inver-no era stato portato anch’egli nella cappelletta dipinta astelle.

— Io ho insegnato in un collegio – continuò Clemen-za alzando ironicamente le sopracciglia. – Alle piccole.Non so bene che cosa.

Ma dopo la scomparsa dello zio Costante erano suc-cesse grandi novità. La nuora, per andar via e prendersiun marito giovine, aveva venduta la sua parte della Stel-lata a Barbara, e Barbara era tornata ad abitarvi e final-mente la regina del luogo era lei, circondata dalla suafamiglia.

— Certi figli! Troppo grossi. Anch’io adesso vivo là.Credo di dar poco fastidio; leggo sempre molto; ho mes-se le mani nella libreria; si potrebbe venderla ma nonvoglio. Passo delle ore nel giardino della nonna, prendoil sole sulla spianata, faccio il bagno come il poveroPaoletto, nella peschiera. Là intorno dicono che non hola testa a posto nemmeno io. Ci resisterò? Ogni tantoscappo, torno qui. Anche ora, per esempio, sono venu-

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ta... per miei motivi. Cara signora, non tutti i romanzi,nella vita, cominciano al punto giusto. I miei si eranosempre interrotti come se qualcuno strappasse via le al-tre pagine. Questa volta... Ma non voglio pensare comepotrà finire.

Claudia l’ascoltava tranquilla, sorridendo con indul-genza. Di tratto in tratto, sul seggiolone, cambiava posi-zione cautamente, ed allora il suo sorriso spariva perqualche istante. Ma Clemenza seguitava a parlare. Dice-va della Stellata, che voleva sempre cadere e non cade-va mai e in sostanza era sempre tale e quale. Ella cerca-va d’indurre la sorella a far qualche restauro, ma la suaavarizia non si smoveva. – Chi sa, del resto, se la casac-cia non sia meglio cosí? – Vi erano ancora nel teatrinogli scenari a pezzi, le ortiche nei cortili, la cappella coicalcinacci sull’altare, i nidi di rondini sotto il portico, esi ritrovavano qua e là i seggioloni della nonna. Nellaconversazione comparvero, tornati vivi, la vecchia chegirava dappertutto sulle pantofole di velluto facendoudire la voce di pappagallo; Mercurino, con la sua bar-betta rada, quando piangeva perché non imparava; ilprofessor Gregorio, che tirava boccatine dalla pipa pro-fetizzando al mondo terribili catastrofi.

— Quanti morti! – disse Clemenza. – Mi aveva presauna stanchezza di portar il lutto. – Domandò a Claudiase ricordasse gli ingegneri venuti un anno per l’acque-dotto. Era morto il loro capo, il conte Serazzi, che sona-va il vecchio cèmbalo; caduto dall’alto di una diga ilgiorno stesso che era finito questo lavoro. L’ingegnere

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ta... per miei motivi. Cara signora, non tutti i romanzi,nella vita, cominciano al punto giusto. I miei si eranosempre interrotti come se qualcuno strappasse via le al-tre pagine. Questa volta... Ma non voglio pensare comepotrà finire.

Claudia l’ascoltava tranquilla, sorridendo con indul-genza. Di tratto in tratto, sul seggiolone, cambiava posi-zione cautamente, ed allora il suo sorriso spariva perqualche istante. Ma Clemenza seguitava a parlare. Dice-va della Stellata, che voleva sempre cadere e non cade-va mai e in sostanza era sempre tale e quale. Ella cerca-va d’indurre la sorella a far qualche restauro, ma la suaavarizia non si smoveva. – Chi sa, del resto, se la casac-cia non sia meglio cosí? – Vi erano ancora nel teatrinogli scenari a pezzi, le ortiche nei cortili, la cappella coicalcinacci sull’altare, i nidi di rondini sotto il portico, esi ritrovavano qua e là i seggioloni della nonna. Nellaconversazione comparvero, tornati vivi, la vecchia chegirava dappertutto sulle pantofole di velluto facendoudire la voce di pappagallo; Mercurino, con la sua bar-betta rada, quando piangeva perché non imparava; ilprofessor Gregorio, che tirava boccatine dalla pipa pro-fetizzando al mondo terribili catastrofi.

— Quanti morti! – disse Clemenza. – Mi aveva presauna stanchezza di portar il lutto. – Domandò a Claudiase ricordasse gli ingegneri venuti un anno per l’acque-dotto. Era morto il loro capo, il conte Serazzi, che sona-va il vecchio cèmbalo; caduto dall’alto di una diga ilgiorno stesso che era finito questo lavoro. L’ingegnere

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bruno viveva alla capitale, ammogliato, si arricchiva;del piú giovine, del «muratore» che cantava le canzonet-te, non sapeva piú niente.

— Come è vicino tutto questo! – mormorò Claudia. –Tutto fugge in un soffio, par che vada chissà dove, edinvece resta vicino. Il tempo che abbiamo visto passare,non è niente.

La visitatrice, dopo che s’era avvezzata alla penom-bra del salotto, aveva osservate le ombre grige sul voltodell’amica, quel che vi era di stanco e di sfatto nella suapersona, il grosso ventre, e l’improvvisa serietà che ognitanto il suo volto assumeva; ma soltanto queste parole lefecero pensare che fosse ammalata gravemente. Temettedi darle fastidio, volle lasciarla. Con passione Claudia lapregò di trattenersi ancora; riprese: – Mi pare ieri cheero bambina, quando stavo attorno a Mariolina nella cu-cina di casa.

Clemenza si ricordò d’un’altra novità che non avevaancora raccontata. Il marito della compagna del Lancia-rossa, quel tale che coltivava i fiori nel principato diMonaco, anch’egli era morto, lasciando soltanto debiti;cosí l’unione illegittima era divenuta legittimo matrimo-nio benedetto dal prete freddo e fanatico che sempre go-vernava Luvo. E ciò non era ignoto a Claudia. Ma daqualche mese era venuto a vivere coi Lanciarossa il fi-glio di prime nozze della donna. Era un uomo sui qua-rant’anni robusto, grossolano, che parlava francese; an-dava all’osteria coi contadini del paese, tra i quali sdot-torava, spadroneggiava; faceva il padrone anche in casa

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bruno viveva alla capitale, ammogliato, si arricchiva;del piú giovine, del «muratore» che cantava le canzonet-te, non sapeva piú niente.

— Come è vicino tutto questo! – mormorò Claudia. –Tutto fugge in un soffio, par che vada chissà dove, edinvece resta vicino. Il tempo che abbiamo visto passare,non è niente.

La visitatrice, dopo che s’era avvezzata alla penom-bra del salotto, aveva osservate le ombre grige sul voltodell’amica, quel che vi era di stanco e di sfatto nella suapersona, il grosso ventre, e l’improvvisa serietà che ognitanto il suo volto assumeva; ma soltanto queste parole lefecero pensare che fosse ammalata gravemente. Temettedi darle fastidio, volle lasciarla. Con passione Claudia lapregò di trattenersi ancora; riprese: – Mi pare ieri cheero bambina, quando stavo attorno a Mariolina nella cu-cina di casa.

Clemenza si ricordò d’un’altra novità che non avevaancora raccontata. Il marito della compagna del Lancia-rossa, quel tale che coltivava i fiori nel principato diMonaco, anch’egli era morto, lasciando soltanto debiti;cosí l’unione illegittima era divenuta legittimo matrimo-nio benedetto dal prete freddo e fanatico che sempre go-vernava Luvo. E ciò non era ignoto a Claudia. Ma daqualche mese era venuto a vivere coi Lanciarossa il fi-glio di prime nozze della donna. Era un uomo sui qua-rant’anni robusto, grossolano, che parlava francese; an-dava all’osteria coi contadini del paese, tra i quali sdot-torava, spadroneggiava; faceva il padrone anche in casa

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e nei poderi del Lanciarossa, chiamandolo però «monpère» con ostentazione; sovente la sera era ubbriaco, so-vente scendeva a Rebbia a far bagordi; cacciatore, porta-va a casa i cacciatori di mestiere sparsi per la campagna.Dalla madre era considerato un altro grave castigo delsuo passato; il Lanciarossa non aveva mai avuti a Luvoconfidenti né amici e non parlava nemmeno ora, ma pa-reva avvilito, impaurito di questo strano figlio arrivatonella sua esistenza.

— Avrà anche lui il castigo che merita – disse Cle-menza.

Ma del male che poteva accadere a quella gente,Claudia non sentí alcuna compiacenza; si diceva che lasorte punisce anche chi non ha colpe; e che, forse, lacasa degli Andosio sarebbe finita nelle mani di un talbruto. Pensava pure che presto ella non sarebbe piú statanel mondo ove tutte le cose avrebbero avuto il loro se-guito. L’amica continuò a chiacchierare, raccontando levicende della gente di Luvo, descrivendo Barbara, mae-stosa come se avesse un’invisibile corona sul capo, conquel viso sodo che ancora arrossiva; raccontando le pro-prie avventure nel collegio, sempre in maniera bizzarra,divertente. Spesso aveva sete ma non beveva che acquafresca. Ad un certo punto Claudia fece aprire un poco lepersiane dalla cameriera, ed allora Clemenza si accorseche erano passate delle ore, balzò in piedi: – Che visita!Scusatemi. – Invitata a rimanere a pranzo, assolutamen-te non volle. Cercò il cappello, come impaziente di riac-

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e nei poderi del Lanciarossa, chiamandolo però «monpère» con ostentazione; sovente la sera era ubbriaco, so-vente scendeva a Rebbia a far bagordi; cacciatore, porta-va a casa i cacciatori di mestiere sparsi per la campagna.Dalla madre era considerato un altro grave castigo delsuo passato; il Lanciarossa non aveva mai avuti a Luvoconfidenti né amici e non parlava nemmeno ora, ma pa-reva avvilito, impaurito di questo strano figlio arrivatonella sua esistenza.

— Avrà anche lui il castigo che merita – disse Cle-menza.

Ma del male che poteva accadere a quella gente,Claudia non sentí alcuna compiacenza; si diceva che lasorte punisce anche chi non ha colpe; e che, forse, lacasa degli Andosio sarebbe finita nelle mani di un talbruto. Pensava pure che presto ella non sarebbe piú statanel mondo ove tutte le cose avrebbero avuto il loro se-guito. L’amica continuò a chiacchierare, raccontando levicende della gente di Luvo, descrivendo Barbara, mae-stosa come se avesse un’invisibile corona sul capo, conquel viso sodo che ancora arrossiva; raccontando le pro-prie avventure nel collegio, sempre in maniera bizzarra,divertente. Spesso aveva sete ma non beveva che acquafresca. Ad un certo punto Claudia fece aprire un poco lepersiane dalla cameriera, ed allora Clemenza si accorseche erano passate delle ore, balzò in piedi: – Che visita!Scusatemi. – Invitata a rimanere a pranzo, assolutamen-te non volle. Cercò il cappello, come impaziente di riac-

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quistare la propria libertà. – Verremo a trovarvi alla pi-neta – disse prendendo una mano di Claudia.

— È cosí bella, la pineta... – mormorò la signora. –Ma quest’anno è difficile che io ci vada.

Si alzò a fatica. La visitatrice, in piedi davanti ad unospecchio, si metteva il cappello, aggiustandosi la capi-gliatura fine e guardandosi come una donna che vuolpiacere a qualcuno. Interrogata, disse senza voltarsi chesarebbe rimasta in città ancora qualche giorno: – Ho lemie faccende... – tornò a dire con l’arguto sorriso. –Sono rose con molte spine! – Si vedeva bene ch’era feli-ce di aver quei tormenti. Chiese in prestito uno dei libriveduti sopra un tavolino; di nuovo abbracciò e baciòl’amica ma con riguardo; andandosene, dimenticava ilparasole e si rivolse a cercarlo. Claudia l’accompagnòfino alla porta di scala: sentí che Clemenza rientravanella vita mentre lei rimaneva nel misterioso luogodov’era sola, in quel cerchio oscuro al quale si avvicina-va inesorabilmente la morte; ma le parve meschina esenza vera importanza, come se la vedesse dall’alto, lavita a cui l’altra donna andava.

Gabriella ed il suo sposo erano tornati dal colle deipini; abitavano un piccolo appartamento, non molto lon-tano, e Claudia volle andarli a trovare. Fu la sua ultimauscita. Rincasando in carrozza venne presa da doloriben piú forti di quelli che da qualche tempo la mordeva-no brevemente; erano adesso dolori laceranti, malvagi, eparevano non dover mai cessare. Gabriella, al suo ritor-no, aveva visto che la madre era peggiorata. Gli assalti

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quistare la propria libertà. – Verremo a trovarvi alla pi-neta – disse prendendo una mano di Claudia.

— È cosí bella, la pineta... – mormorò la signora. –Ma quest’anno è difficile che io ci vada.

Si alzò a fatica. La visitatrice, in piedi davanti ad unospecchio, si metteva il cappello, aggiustandosi la capi-gliatura fine e guardandosi come una donna che vuolpiacere a qualcuno. Interrogata, disse senza voltarsi chesarebbe rimasta in città ancora qualche giorno: – Ho lemie faccende... – tornò a dire con l’arguto sorriso. –Sono rose con molte spine! – Si vedeva bene ch’era feli-ce di aver quei tormenti. Chiese in prestito uno dei libriveduti sopra un tavolino; di nuovo abbracciò e baciòl’amica ma con riguardo; andandosene, dimenticava ilparasole e si rivolse a cercarlo. Claudia l’accompagnòfino alla porta di scala: sentí che Clemenza rientravanella vita mentre lei rimaneva nel misterioso luogodov’era sola, in quel cerchio oscuro al quale si avvicina-va inesorabilmente la morte; ma le parve meschina esenza vera importanza, come se la vedesse dall’alto, lavita a cui l’altra donna andava.

Gabriella ed il suo sposo erano tornati dal colle deipini; abitavano un piccolo appartamento, non molto lon-tano, e Claudia volle andarli a trovare. Fu la sua ultimauscita. Rincasando in carrozza venne presa da doloriben piú forti di quelli che da qualche tempo la mordeva-no brevemente; erano adesso dolori laceranti, malvagi, eparevano non dover mai cessare. Gabriella, al suo ritor-no, aveva visto che la madre era peggiorata. Gli assalti

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del male, sempre piú strazianti, si ripeterono ogni giornopiú volte, come crisi, costringendola a rimaner coricatasul letto per ore. Un mattino ella non trovò il coraggio dialzarsi: mentalmente segnò la data, pensando che non sisarebbe alzata piú. Continuavano le visite dei medici, iconsulti; si provavano rimedi nuovi, si ricorreva a sierifatti venire da lontano; sempre intorno a lei si parlava inmodo vago, come se il suo male fosse ancora indefinitoe si sperasse veramente che potesse guarire. Claudia nonaveva detto ad alcuno ciò che sapeva; talvolta, malgradoil peggioramento, voleva credere che davvero il suocaso fosse ancora incerto, riprendere un filo di speranza.Con tutti cercava di fingere com’era possibile.

La famiglia non viveva che in questa malattia, nellasventura che giorno per giorno accadeva; ogni altra cosaera lontana ed estranea. Ora anche Gabriella sapeva. Ilpadre non parlava piú affatto dei suoi studi né della cli-nica; del resto, taceva quasi sempre e, se non era nellacamera dell’inferma, stava da sé. Intensamente Grazianolavorava al romanzo; sebbene vi riuscisse soltanto perforza di volontà e non dimenticasse l’altro pensieronemmeno un momento, ciò che gli veniva fatto non tra-diva il penoso sforzo, continuava il libro ottimamente.Egli usciva poco, fuor di casa si trovava a disagio, glidavano fastidio la città, la gente, questa vita che si mo-veva come sempre. Passeggiando con Fenice, sentivabeneficamente la vicinanza e l’amicizia di lei, ma lacasa lo richiamava quasi subito. Ella cercava sempre didividere il peso del suo dolore, tuttavia aveva compreso

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del male, sempre piú strazianti, si ripeterono ogni giornopiú volte, come crisi, costringendola a rimaner coricatasul letto per ore. Un mattino ella non trovò il coraggio dialzarsi: mentalmente segnò la data, pensando che non sisarebbe alzata piú. Continuavano le visite dei medici, iconsulti; si provavano rimedi nuovi, si ricorreva a sierifatti venire da lontano; sempre intorno a lei si parlava inmodo vago, come se il suo male fosse ancora indefinitoe si sperasse veramente che potesse guarire. Claudia nonaveva detto ad alcuno ciò che sapeva; talvolta, malgradoil peggioramento, voleva credere che davvero il suocaso fosse ancora incerto, riprendere un filo di speranza.Con tutti cercava di fingere com’era possibile.

La famiglia non viveva che in questa malattia, nellasventura che giorno per giorno accadeva; ogni altra cosaera lontana ed estranea. Ora anche Gabriella sapeva. Ilpadre non parlava piú affatto dei suoi studi né della cli-nica; del resto, taceva quasi sempre e, se non era nellacamera dell’inferma, stava da sé. Intensamente Grazianolavorava al romanzo; sebbene vi riuscisse soltanto perforza di volontà e non dimenticasse l’altro pensieronemmeno un momento, ciò che gli veniva fatto non tra-diva il penoso sforzo, continuava il libro ottimamente.Egli usciva poco, fuor di casa si trovava a disagio, glidavano fastidio la città, la gente, questa vita che si mo-veva come sempre. Passeggiando con Fenice, sentivabeneficamente la vicinanza e l’amicizia di lei, ma lacasa lo richiamava quasi subito. Ella cercava sempre didividere il peso del suo dolore, tuttavia aveva compreso

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che le tristi circostanze, invece di darle un posto piú in-timo, la respingevano in margine all’esistenza del giovi-ne.

Un mattino di domenica, salito sopra un tram per an-dar da solo dove si cominciasse a vedere campagna,Graziano si trovò accanto un operaio vestito decente-mente ma non da festa, con grosse scarpe e con una ca-micia nera come portavano i meccanici: riconobbe lafaccia schiacciata, lo sguardo penetrante, i duri capelliricci di Nego. Il compagno lo salutò col suo piglio seve-ro e come se soltanto da pochi giorni non si vedessero.Ancora piú robusto, tutto muscoli, disse tranquillamenteche la loro officina era fallita, che i fratelli s’erano tro-vate altre occupazioni e che lui faceva il tornitore in ungrande stabilimento.

— Nessuno sa che io non sia un operaio come gli al-tri. Infatti sono come gli altri diecimila. E mi trovo me-glio di prima. Anche i giornali li leggo di rado, ma soche hai avuto successo e che vai per il mondo.

— Un lavoro manuale come il tuo – rispose Graziano.Valente Mazzè voleva egli pure veder campi e prati e

stare all’aria libera; camminarono insieme. Grazianoraccontò in che maniera aveva vissuto negli anni scorsi,per quel bisogno che provava sempre di fronte al com-pagno, di confessarsi con piena sincerità. S’eran tolta lagiacca ed andavano attraverso la pianura assolata. Negomostrò la propria condizione tra i compagni di lavoro,dei quali poco s’interessava, senza condividere affatto iloro piaceri né i loro ideali. – Le mie opinioni – affermò

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che le tristi circostanze, invece di darle un posto piú in-timo, la respingevano in margine all’esistenza del giovi-ne.

Un mattino di domenica, salito sopra un tram per an-dar da solo dove si cominciasse a vedere campagna,Graziano si trovò accanto un operaio vestito decente-mente ma non da festa, con grosse scarpe e con una ca-micia nera come portavano i meccanici: riconobbe lafaccia schiacciata, lo sguardo penetrante, i duri capelliricci di Nego. Il compagno lo salutò col suo piglio seve-ro e come se soltanto da pochi giorni non si vedessero.Ancora piú robusto, tutto muscoli, disse tranquillamenteche la loro officina era fallita, che i fratelli s’erano tro-vate altre occupazioni e che lui faceva il tornitore in ungrande stabilimento.

— Nessuno sa che io non sia un operaio come gli al-tri. Infatti sono come gli altri diecimila. E mi trovo me-glio di prima. Anche i giornali li leggo di rado, ma soche hai avuto successo e che vai per il mondo.

— Un lavoro manuale come il tuo – rispose Graziano.Valente Mazzè voleva egli pure veder campi e prati e

stare all’aria libera; camminarono insieme. Grazianoraccontò in che maniera aveva vissuto negli anni scorsi,per quel bisogno che provava sempre di fronte al com-pagno, di confessarsi con piena sincerità. S’eran tolta lagiacca ed andavano attraverso la pianura assolata. Negomostrò la propria condizione tra i compagni di lavoro,dei quali poco s’interessava, senza condividere affatto iloro piaceri né i loro ideali. – Le mie opinioni – affermò

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– diventano sempre piú semplici. – Poiché egli non rien-trava ancora in città, dopo qualche tempo si salutarono:soltanto allora Graziano accennò alla malattia mortale disua madre. Il compagno si stupí, lo compianse, com-pianse lei che se ne andava cosí presto; gli prese lamano nella sua mano grossa e piatta. – Ti potrei dire,come penso, che il morire non è niente perché non èniente il vivere; ma tanto soffriresti lo stesso. Fatti co-raggio. Che si deve dire?

Per Claudia era incominciata un’esistenza strana,ogni giorno eguale, regolata come da un tetro metodo.Quasi ad ore fisse tornavano i dolori; riprendevano inmaniera subdola, leggeri, talvolta cambiando un pocoluogo; poi riacquistavano tutta la loro malvagia potenza,erano cento strazi in uno, un tormento che pareva sa-pientemente disposto e che le impediva di pensare ognialtra cosa. Nella sofferenza atroce l’idea della morte lediveniva indifferente. Tutto passava con le punture dimorfina, ma doveva attenderle, sospirarle: le erano mi-surate inflessibilmente. Il ventre continuava a crescere.Le notti scorrevano adagio nell’insonnia vigilate da unainfermiera. Ormai ella si sentiva diversa del tutto daglialtri che erano sani. Ma nei momenti migliori leggevaquanto il figlio veniva scrivendo e ne era contenta. Sottol’azione del narcotico stava immobile a pensare, o piut-tosto a sognare un vago e lento sogno: vedeva se stessanel passato, la buona compagna di Sisto, la buona ispi-ratrice dei figli; sentiva una vita misteriosa nell’immen-so spazio che circonda la vita umana, e morire era torna-

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– diventano sempre piú semplici. – Poiché egli non rien-trava ancora in città, dopo qualche tempo si salutarono:soltanto allora Graziano accennò alla malattia mortale disua madre. Il compagno si stupí, lo compianse, com-pianse lei che se ne andava cosí presto; gli prese lamano nella sua mano grossa e piatta. – Ti potrei dire,come penso, che il morire non è niente perché non èniente il vivere; ma tanto soffriresti lo stesso. Fatti co-raggio. Che si deve dire?

Per Claudia era incominciata un’esistenza strana,ogni giorno eguale, regolata come da un tetro metodo.Quasi ad ore fisse tornavano i dolori; riprendevano inmaniera subdola, leggeri, talvolta cambiando un pocoluogo; poi riacquistavano tutta la loro malvagia potenza,erano cento strazi in uno, un tormento che pareva sa-pientemente disposto e che le impediva di pensare ognialtra cosa. Nella sofferenza atroce l’idea della morte lediveniva indifferente. Tutto passava con le punture dimorfina, ma doveva attenderle, sospirarle: le erano mi-surate inflessibilmente. Il ventre continuava a crescere.Le notti scorrevano adagio nell’insonnia vigilate da unainfermiera. Ormai ella si sentiva diversa del tutto daglialtri che erano sani. Ma nei momenti migliori leggevaquanto il figlio veniva scrivendo e ne era contenta. Sottol’azione del narcotico stava immobile a pensare, o piut-tosto a sognare un vago e lento sogno: vedeva se stessanel passato, la buona compagna di Sisto, la buona ispi-ratrice dei figli; sentiva una vita misteriosa nell’immen-so spazio che circonda la vita umana, e morire era torna-

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re là, in una perfetta purezza, tornare in Dio. Questo eraper lei un modo di pregare.

La guerra che si preparava nella Libia era prossima:tutti lo sapevano dai movimenti di navi, di truppe, e neparlavano; i Farra se ne accorgevano appena. Scoppiaro-no agitazioni per impedire che si facesse, ma sparse edeffimere. Giunse la notizia che Metello era stato arresta-to, a Torino, mentre presso una caserma incitava dei sol-dati a non partire, dopo aver già capeggiata una som-mossa mandando squadre a tagliar linee telegrafiche, di-stogliendo ferrovieri dal loro lavoro. E questo avveni-mento colpí la famiglia con piú forza: al rammarico siuniva nell’animo di ognuno un senso di avversione,d’istintiva ripugnanza, come se Metello avesse presa,per la prima volta, una posizione di nemico della patria.Poiché era nelle carceri della città, Graziano andò tutta-via a visitarlo appena si poté avere il permesso.

Di fuori le mura di cinta ed i corpi dell’edifizio, dimattoni rossi, avevano un aspetto di prigione modello esembravano ancor nuovi; passato il corpo di guardia ed iprimi cancelli, il giovine fu condotto attraverso un corti-le circondato di alberetti, in un angolo del quale unmucchio di povera gente aspettava in silenzio di poterparlare con i carcerati, ed una bambina, chinata al piededi uno di quegli alberi, ingannava l’attesa facendo buchinella terra con un dito. Graziano aveva un permessospeciale; il capo custode, aprendo e riserrando quasi adogni passo cancelli massicci, lo accompagnò per ungrande corridoio nudo e pulito, imbiancato con la calce,

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re là, in una perfetta purezza, tornare in Dio. Questo eraper lei un modo di pregare.

La guerra che si preparava nella Libia era prossima:tutti lo sapevano dai movimenti di navi, di truppe, e neparlavano; i Farra se ne accorgevano appena. Scoppiaro-no agitazioni per impedire che si facesse, ma sparse edeffimere. Giunse la notizia che Metello era stato arresta-to, a Torino, mentre presso una caserma incitava dei sol-dati a non partire, dopo aver già capeggiata una som-mossa mandando squadre a tagliar linee telegrafiche, di-stogliendo ferrovieri dal loro lavoro. E questo avveni-mento colpí la famiglia con piú forza: al rammarico siuniva nell’animo di ognuno un senso di avversione,d’istintiva ripugnanza, come se Metello avesse presa,per la prima volta, una posizione di nemico della patria.Poiché era nelle carceri della città, Graziano andò tutta-via a visitarlo appena si poté avere il permesso.

Di fuori le mura di cinta ed i corpi dell’edifizio, dimattoni rossi, avevano un aspetto di prigione modello esembravano ancor nuovi; passato il corpo di guardia ed iprimi cancelli, il giovine fu condotto attraverso un corti-le circondato di alberetti, in un angolo del quale unmucchio di povera gente aspettava in silenzio di poterparlare con i carcerati, ed una bambina, chinata al piededi uno di quegli alberi, ingannava l’attesa facendo buchinella terra con un dito. Graziano aveva un permessospeciale; il capo custode, aprendo e riserrando quasi adogni passo cancelli massicci, lo accompagnò per ungrande corridoio nudo e pulito, imbiancato con la calce,

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ai lati del quale si vedevano attraverso alte inferriate uo-mini al lavoro, tipografi, falegnami, legatori di libri, tuttivestiti di tela grigia con un berrettino troppo stretto incapo. Graziano non ricordava già piú di trovarsi nellarossa fortezza che si vedeva dal viale, tanto eranell’interno modesta e tranquilla; da certe finestre siscorgevano le fronde di un orto. Ma sempre incontravasbarramenti di ferro, presso i quali vigilavano custodiche sembravano essi medesimi dei carcerati; appenapassato, udiva i cancelli richiudersi col rumore dellegrosse serrature e dei mazzi di chiavi. In fondo ad unandito assai alto che aveva come gli altri una bianca erustica semplicità di convento, era la rotonda del cellu-lare, un vuoto di là dal quale, dietro cancelli altissimi,s’allungavano i bracci con tre piani di celle: davanol’impressione di un casellario ed erano silenziosi comese non vi fosse nessuno. Graziano sperava di arrivarvi,per vedere; colui che lo accompagnava, invece, si fermòpresso la porta di una stanza e ve lo fece entrare.

Non vi era che una panca infissa nella parete. Questocapo carceriere, vestito d’una divisa meschina che pare-va di un’altra epoca, aveva un testone onesto coi capelligrigi. Non parlava. Infine si udirono dei passi veniravanti per il corridoio; nella cornice della porta apparveMetello, seguito da un custode piccolo e bruno, il qualenon entrò. Metello aveva indosso uno dei suoi soliti abi-ti piuttosto sformati, non portava colletto né cravatta;entrando, si attorcigliava uno di quei baffi rossicci pen-denti come corde.

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ai lati del quale si vedevano attraverso alte inferriate uo-mini al lavoro, tipografi, falegnami, legatori di libri, tuttivestiti di tela grigia con un berrettino troppo stretto incapo. Graziano non ricordava già piú di trovarsi nellarossa fortezza che si vedeva dal viale, tanto eranell’interno modesta e tranquilla; da certe finestre siscorgevano le fronde di un orto. Ma sempre incontravasbarramenti di ferro, presso i quali vigilavano custodiche sembravano essi medesimi dei carcerati; appenapassato, udiva i cancelli richiudersi col rumore dellegrosse serrature e dei mazzi di chiavi. In fondo ad unandito assai alto che aveva come gli altri una bianca erustica semplicità di convento, era la rotonda del cellu-lare, un vuoto di là dal quale, dietro cancelli altissimi,s’allungavano i bracci con tre piani di celle: davanol’impressione di un casellario ed erano silenziosi comese non vi fosse nessuno. Graziano sperava di arrivarvi,per vedere; colui che lo accompagnava, invece, si fermòpresso la porta di una stanza e ve lo fece entrare.

Non vi era che una panca infissa nella parete. Questocapo carceriere, vestito d’una divisa meschina che pare-va di un’altra epoca, aveva un testone onesto coi capelligrigi. Non parlava. Infine si udirono dei passi veniravanti per il corridoio; nella cornice della porta apparveMetello, seguito da un custode piccolo e bruno, il qualenon entrò. Metello aveva indosso uno dei suoi soliti abi-ti piuttosto sformati, non portava colletto né cravatta;entrando, si attorcigliava uno di quei baffi rossicci pen-denti come corde.

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— Siedi – disse al nipote indicandogli la panca, maegli non sedette. Chiese subito notizie di Claudia; ascol-tandole, scoteva la testa senza dir niente, stringendo lemascelle. Poi disse da quanti giorni era là dentro, comese Graziano non lo sapesse, ed aggiunse che sarebbe sta-to processato tra poco tempo. Si moveva continuamente,riunendo le mani dietro la schiena o ficcandole nelle ta-sche della giacca, facendo qualche passo avanti e indie-tro, tastando col piede un mattone del pavimento, chenon era fisso. Per disposizione del regolamento il collo-quio doveva essere molto breve ed avvenire in presenzadel capo carceriere; costui, però, si era messo davantialla finestra e teneva lo sguardo al disopra di una tra-moggia di legno che la chiudeva dall’esterno, sebbenenon si potesse vedere che un tratto del muro di cinta.

— Dunque – seguitò Metello – la guerra è comincia-ta. Sul mare, se è vero. Ce ne sarà per un pezzo. E poi,non esistono guerre piccole: tutte sono la guerra. Lamassa del popolo non la vuole; ma quando è l’orad’impedirla, non si move nessuno.

Parlava con irritazione, come un uomo che pensa afaccende di cui è sovraccarico e delle quali non gli èpossibile occuparsi; le pareti, la porta, la finestra, i car-cerieri, non dava segno di vederli. L’altro custode stavafermo sulla soglia della stanza col suo mazzo di chiavi.

— È bene che Gabriella sia sposata – disse poi Metel-lo. – Claudia ci ha pensato. Povera donna, meritava tan-to di rimanere lungamente con voi; la sua vita aveva unbel fine. Gran peccato anche per voi che dobbiate per-

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— Siedi – disse al nipote indicandogli la panca, maegli non sedette. Chiese subito notizie di Claudia; ascol-tandole, scoteva la testa senza dir niente, stringendo lemascelle. Poi disse da quanti giorni era là dentro, comese Graziano non lo sapesse, ed aggiunse che sarebbe sta-to processato tra poco tempo. Si moveva continuamente,riunendo le mani dietro la schiena o ficcandole nelle ta-sche della giacca, facendo qualche passo avanti e indie-tro, tastando col piede un mattone del pavimento, chenon era fisso. Per disposizione del regolamento il collo-quio doveva essere molto breve ed avvenire in presenzadel capo carceriere; costui, però, si era messo davantialla finestra e teneva lo sguardo al disopra di una tra-moggia di legno che la chiudeva dall’esterno, sebbenenon si potesse vedere che un tratto del muro di cinta.

— Dunque – seguitò Metello – la guerra è comincia-ta. Sul mare, se è vero. Ce ne sarà per un pezzo. E poi,non esistono guerre piccole: tutte sono la guerra. Lamassa del popolo non la vuole; ma quando è l’orad’impedirla, non si move nessuno.

Parlava con irritazione, come un uomo che pensa afaccende di cui è sovraccarico e delle quali non gli èpossibile occuparsi; le pareti, la porta, la finestra, i car-cerieri, non dava segno di vederli. L’altro custode stavafermo sulla soglia della stanza col suo mazzo di chiavi.

— È bene che Gabriella sia sposata – disse poi Metel-lo. – Claudia ci ha pensato. Povera donna, meritava tan-to di rimanere lungamente con voi; la sua vita aveva unbel fine. Gran peccato anche per voi che dobbiate per-

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derla; ma sarete sempre degni di lei. Mi rincresce moltoche non la vedrò piú. Eh, no; chissà quando esco. Dilleche mi sono tanto cari i suoi saluti. Dille che sto benissi-mo. Infatti sto benissimo, lo vedi.

La sua persona vigorosa era sempre agitata da unaimpazienza e da una rabbia che faceva sentire una forzapriva di sfogo; nel suo affanno si sentiva anche una sof-ferenza fisica, un mancar d’aria, un orrore dell’essererinchiuso. Egli alzò il mento testardo, soffiò tra le grosselabbra, sotto i baffi di corda: – Al carcere ci sono abitua-to!

Lo sguardo di Graziano si fermò un istante sulla suafronte rigata di sbieco dalla cicatrice sempre netta, masubito se ne distolse. Dalla finestra avvicinandosi allaporta senza fare parola, il capo custode lasciò intendereche il colloquio doveva terminare, ed anche l’altro car-ceriere si mosse. Senza mostrar nemmeno ora d’accor-gersi di loro, come se agisse di propria volontà, Metellotese la mano al giovine, ed insieme uscirono nel corrido-io. – Ah, senti – si rammentò lo zio, – la mia compagna,sai, la buona Sabina, non potrà venirmi a trovare perchénon è mia moglie. Va’ da lei, ti prego, falle sapere comemi hai visto.

Si allontanò per l’andito, verso la rotonda silenziosa,col suo solito passo un poco pesante ma deciso, cammi-nando com’era prescritto accanto al carceriere. Non sirivolse indietro. Graziano, allontanandosi nella direzio-ne opposta a fianco del capo custode, udí presto aprire echiudere alle proprie spalle l’inferriata di quella enorme

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derla; ma sarete sempre degni di lei. Mi rincresce moltoche non la vedrò piú. Eh, no; chissà quando esco. Dilleche mi sono tanto cari i suoi saluti. Dille che sto benissi-mo. Infatti sto benissimo, lo vedi.

La sua persona vigorosa era sempre agitata da unaimpazienza e da una rabbia che faceva sentire una forzapriva di sfogo; nel suo affanno si sentiva anche una sof-ferenza fisica, un mancar d’aria, un orrore dell’essererinchiuso. Egli alzò il mento testardo, soffiò tra le grosselabbra, sotto i baffi di corda: – Al carcere ci sono abitua-to!

Lo sguardo di Graziano si fermò un istante sulla suafronte rigata di sbieco dalla cicatrice sempre netta, masubito se ne distolse. Dalla finestra avvicinandosi allaporta senza fare parola, il capo custode lasciò intendereche il colloquio doveva terminare, ed anche l’altro car-ceriere si mosse. Senza mostrar nemmeno ora d’accor-gersi di loro, come se agisse di propria volontà, Metellotese la mano al giovine, ed insieme uscirono nel corrido-io. – Ah, senti – si rammentò lo zio, – la mia compagna,sai, la buona Sabina, non potrà venirmi a trovare perchénon è mia moglie. Va’ da lei, ti prego, falle sapere comemi hai visto.

Si allontanò per l’andito, verso la rotonda silenziosa,col suo solito passo un poco pesante ma deciso, cammi-nando com’era prescritto accanto al carceriere. Non sirivolse indietro. Graziano, allontanandosi nella direzio-ne opposta a fianco del capo custode, udí presto aprire echiudere alle proprie spalle l’inferriata di quella enorme

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gabbia, e nemmeno lui si voltò. Percorrendo di nuovo icorridoi, ripassando uno dopo l’altro i cancelli, riveden-do nei laboratori i detenuti, scendendo le scale tuttechiuse da ferri, riattraversando il cortile dove ancora eragente che aspettava, aveva già nell’animo la vita che loattendeva fuori e dove era sua madre con la malattia chela portava alla morte. Tutto gli dava una strana impres-sione, Metello carcerato, quella vita che facevano i car-cerieri, i soldati nel posto di guardia, la città con i veico-li e la gente che ritrovò nel viale uscendo dal portone diferro. Gli pareva che nessuno sapesse che al mondo viera la morte.

Ogni notte Graziano lavorava al romanzo fino ad oramolto avanzata. Una volta l’infermiera venne piano avedere se fosse ancora alzato; gli domandò se potevavenire dalla signora, che desiderava parlargli. Da unpezzo Ascanio e Sisto riposavano; un grande silenzioera nell’appartamento, nella casa, tutt’intorno.

— Come sta? – chiese Graziano, inquieto.— Le ho fatta adesso la puntura, solamente mezza

fiala. È tranquilla.Claudia stava infatti immobile sotto le coperte legge-

re, con le spalle ed il capo abbandonati sugli alti guan-ciali, con le mani ferme sul lenzuolo, una delle quali te-neva un ventaglio: aveva l’espressione quasi felice chele dava la cessazione dei dolori. Nella camera era accesasoltanto una debole luce velata; il letto non era lontanodalla finestra, aperta, nella quale si vedeva molto cielo;la serena notte di ottobre rinfrescava già assai, ma Clau-

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gabbia, e nemmeno lui si voltò. Percorrendo di nuovo icorridoi, ripassando uno dopo l’altro i cancelli, riveden-do nei laboratori i detenuti, scendendo le scale tuttechiuse da ferri, riattraversando il cortile dove ancora eragente che aspettava, aveva già nell’animo la vita che loattendeva fuori e dove era sua madre con la malattia chela portava alla morte. Tutto gli dava una strana impres-sione, Metello carcerato, quella vita che facevano i car-cerieri, i soldati nel posto di guardia, la città con i veico-li e la gente che ritrovò nel viale uscendo dal portone diferro. Gli pareva che nessuno sapesse che al mondo viera la morte.

Ogni notte Graziano lavorava al romanzo fino ad oramolto avanzata. Una volta l’infermiera venne piano avedere se fosse ancora alzato; gli domandò se potevavenire dalla signora, che desiderava parlargli. Da unpezzo Ascanio e Sisto riposavano; un grande silenzioera nell’appartamento, nella casa, tutt’intorno.

— Come sta? – chiese Graziano, inquieto.— Le ho fatta adesso la puntura, solamente mezza

fiala. È tranquilla.Claudia stava infatti immobile sotto le coperte legge-

re, con le spalle ed il capo abbandonati sugli alti guan-ciali, con le mani ferme sul lenzuolo, una delle quali te-neva un ventaglio: aveva l’espressione quasi felice chele dava la cessazione dei dolori. Nella camera era accesasoltanto una debole luce velata; il letto non era lontanodalla finestra, aperta, nella quale si vedeva molto cielo;la serena notte di ottobre rinfrescava già assai, ma Clau-

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dia voleva sempre aria aria. Disse al figlio: – Non haisonno? Sta un poco con me. – Mandò l’infermiera inun’altra stanza; rimasero soli, e pareva che su tutta laterra fossero essi soli a vegliare.

— Graziano, vi sono già segni che Gabriella si prepa-ra ad avere un bambino. O una bambina. Chissà? Mel’ha detto oggi. È tanto contenta. Ho voluto che anche tulo sapessi subito.

Poi ella gli chiese del romanzo: a che punto era arri-vato, che cosa aveva scritto quella notte, che cosa sareb-be venuto dopo. Di nuovo gli lodò quanto aveva già let-to. – Sono sicura del risultato. Ed anche del successo. Èun libro che mostra davvero chi sei. Sarà compreso datutti. È vita.

Nel salotto vicino, una vecchia pendola fece sentire ilsuo campanellino acuto. Graziano sedeva accanto al let-to. L’inferma rimaneva sempre abbandonata e tranquillae lo guardava; ma ad un certo momento alzò verso lui ilventaglio, in un breve gesto di autorità. – Figlio mio, –disse – io ti sento di nuovo lontano dal babbo. Sento chetutt’e due volete tenervi distanti a questo modo. Ancheora. Perché? Non capisco.

— Io non me ne accorgo, mamma. Non è vero. Ilbabbo ha il suo lavoro, io il mio. Non ci parliamo molto,ma non è necessario. – Egli pensava che non si parlava-no per non sentir troppo il dolore. E pensava pure chenel dolore ciascuno è solo, non può essere che solo,come ella era sola nel suo destino.

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dia voleva sempre aria aria. Disse al figlio: – Non haisonno? Sta un poco con me. – Mandò l’infermiera inun’altra stanza; rimasero soli, e pareva che su tutta laterra fossero essi soli a vegliare.

— Graziano, vi sono già segni che Gabriella si prepa-ra ad avere un bambino. O una bambina. Chissà? Mel’ha detto oggi. È tanto contenta. Ho voluto che anche tulo sapessi subito.

Poi ella gli chiese del romanzo: a che punto era arri-vato, che cosa aveva scritto quella notte, che cosa sareb-be venuto dopo. Di nuovo gli lodò quanto aveva già let-to. – Sono sicura del risultato. Ed anche del successo. Èun libro che mostra davvero chi sei. Sarà compreso datutti. È vita.

Nel salotto vicino, una vecchia pendola fece sentire ilsuo campanellino acuto. Graziano sedeva accanto al let-to. L’inferma rimaneva sempre abbandonata e tranquillae lo guardava; ma ad un certo momento alzò verso lui ilventaglio, in un breve gesto di autorità. – Figlio mio, –disse – io ti sento di nuovo lontano dal babbo. Sento chetutt’e due volete tenervi distanti a questo modo. Ancheora. Perché? Non capisco.

— Io non me ne accorgo, mamma. Non è vero. Ilbabbo ha il suo lavoro, io il mio. Non ci parliamo molto,ma non è necessario. – Egli pensava che non si parlava-no per non sentir troppo il dolore. E pensava pure chenel dolore ciascuno è solo, non può essere che solo,come ella era sola nel suo destino.

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— Tra un padre ed un figlio come voi siete, – conti-nuava Claudia – dev’esservi ben altra unione. Non sol-tanto un vincolo ma un continuo scambio d’ispirazione,di forza. Desidero e spero tanto che vi diate questo aiu-to: me lo devi promettere.

Riprese a parlare di Gabriella, del suo sposo che erabuono e meritava ogni fiducia, della loro piccola casa,dell’avvenire ch’essi avrebbero avuto. Di Gabriella, di-ceva, anche Graziano doveva prendersi cura. – Mi vuoletroppo bene, troppo bene. – Del resto, la famiglia erasempre vissuta in un accordo, in un amore, in un senti-mento di reciproca stima, che certamente non sarebberocessati mai.

— Non hai freddo? – domandò Graziano indicando lafinestra.

— Oh, lasciala ancora aperta! – L’ammalata mandò losguardo attraverso quell’aria notturna, morbida ed unpoco turchina, lo posò di stella in stella, un momento.Al figlio, che le porgeva da bere, domandò se non fossestanco; ma aggiunse subito: – Rimani ancora un tantino.Vedi che ora tranquilla? – Sembrava volergli dire cheun’altra ora come questa non sarebbe venuta mai piú.Discorreva senza dare indizio di alcuna fatica, piano,con una voce che aveva sempre uno stesso tono grave; eGraziano credeva che questa voce empisse tutto il silen-zio quanto era largo, come empiva l’animo suo. Essaparlava della pineta, di quando era stata creata la villa,della gente che viveva su quella terra, di quei ragazziche un giorno le avevano portati i fiori dell’orto e ades-

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— Tra un padre ed un figlio come voi siete, – conti-nuava Claudia – dev’esservi ben altra unione. Non sol-tanto un vincolo ma un continuo scambio d’ispirazione,di forza. Desidero e spero tanto che vi diate questo aiu-to: me lo devi promettere.

Riprese a parlare di Gabriella, del suo sposo che erabuono e meritava ogni fiducia, della loro piccola casa,dell’avvenire ch’essi avrebbero avuto. Di Gabriella, di-ceva, anche Graziano doveva prendersi cura. – Mi vuoletroppo bene, troppo bene. – Del resto, la famiglia erasempre vissuta in un accordo, in un amore, in un senti-mento di reciproca stima, che certamente non sarebberocessati mai.

— Non hai freddo? – domandò Graziano indicando lafinestra.

— Oh, lasciala ancora aperta! – L’ammalata mandò losguardo attraverso quell’aria notturna, morbida ed unpoco turchina, lo posò di stella in stella, un momento.Al figlio, che le porgeva da bere, domandò se non fossestanco; ma aggiunse subito: – Rimani ancora un tantino.Vedi che ora tranquilla? – Sembrava volergli dire cheun’altra ora come questa non sarebbe venuta mai piú.Discorreva senza dare indizio di alcuna fatica, piano,con una voce che aveva sempre uno stesso tono grave; eGraziano credeva che questa voce empisse tutto il silen-zio quanto era largo, come empiva l’animo suo. Essaparlava della pineta, di quando era stata creata la villa,della gente che viveva su quella terra, di quei ragazziche un giorno le avevano portati i fiori dell’orto e ades-

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so erano già tanto cresciuti. Poi tornò a parlare di lui,del suo caro figlio.

— Esprimersi in qualche bel libro è una grande fortu-na. Tu sei nato per questo: devi sempre ricordartene. Ilresto è vita che passa, sono cose d’ogni giorno. E perscrivere degnamente bisogna stare con l’animo in alto,tener limpida quella fonte pura che è in noi. Ma tu saigià scrivere degnamente.

Graziano sentiva bene che quanto accadeva era uncommiato della madre da lui; non gliene veniva, però,alcuna sofferenza; si sentiva, come era la madre, al diso-pra del dolore, della malattia, della morte; ogni suo pen-siero era vita, avvenire.

— Io sono cosí calma – diceva Claudia. – Voglio chetu lo sappia, che lo sappiate tutti. Sono contenta di tutti,del babbo, dei figli nostri, anche della sorte che ho avu-ta. Non è bella la mia vita, non è bello questo mondoche ho attraversato? Qualunque cosa mi dovesse succe-dere, rimarrei tranquilla. Ho voluto sempre il bene, e mipare che anche adesso sia una forza benefica quella chemi porta. Mi sento in alto, sollevata sempre piú in alto.E tutto è giusto, non c’è niente al mondo di cui non sipossa esser contenti.

Tacque un momento e dopo mandò il figlio a riposa-re. Aveva detto ciò che voleva, ciò che poteva dire. Erastanca, adesso. E il dolore, il morso atroce nelle profon-de viscere ricominciava già, subito cattivo come un ser-pente che si sveglia. Uscito Graziano, apparve immedia-tamente nella cornice della porta l’infermiera, alta, ve-

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so erano già tanto cresciuti. Poi tornò a parlare di lui,del suo caro figlio.

— Esprimersi in qualche bel libro è una grande fortu-na. Tu sei nato per questo: devi sempre ricordartene. Ilresto è vita che passa, sono cose d’ogni giorno. E perscrivere degnamente bisogna stare con l’animo in alto,tener limpida quella fonte pura che è in noi. Ma tu saigià scrivere degnamente.

Graziano sentiva bene che quanto accadeva era uncommiato della madre da lui; non gliene veniva, però,alcuna sofferenza; si sentiva, come era la madre, al diso-pra del dolore, della malattia, della morte; ogni suo pen-siero era vita, avvenire.

— Io sono cosí calma – diceva Claudia. – Voglio chetu lo sappia, che lo sappiate tutti. Sono contenta di tutti,del babbo, dei figli nostri, anche della sorte che ho avu-ta. Non è bella la mia vita, non è bello questo mondoche ho attraversato? Qualunque cosa mi dovesse succe-dere, rimarrei tranquilla. Ho voluto sempre il bene, e mipare che anche adesso sia una forza benefica quella chemi porta. Mi sento in alto, sollevata sempre piú in alto.E tutto è giusto, non c’è niente al mondo di cui non sipossa esser contenti.

Tacque un momento e dopo mandò il figlio a riposa-re. Aveva detto ciò che voleva, ciò che poteva dire. Erastanca, adesso. E il dolore, il morso atroce nelle profon-de viscere ricominciava già, subito cattivo come un ser-pente che si sveglia. Uscito Graziano, apparve immedia-tamente nella cornice della porta l’infermiera, alta, ve-

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stita di bianco. Ella rappresentava la malattia, il destino.Su quel viso impassibile Claudia lesse che non le sareb-be stata fatta un’altra puntura prima che l’ora stabilitavenisse, a nessun patto. Pazienza. Volse di nuovo il capoalla finestra, guardò ancora il cielo. Non ricordava quasipiú dove ella fosse. Che importavano i luoghi? Fissòl’attenzione sopra una costellazione che spiccava, dauna parte, in quello spazio dolce e profondo profondo:stelle che parevano legate tra loro da fili invisibili, unpoco piú grandi delle altre e piú moventi con la luce,messe a formare un disegno che non si capiva, a direqualcosa che non si sarebbe potuto ripetere con parole.Quale costellazione era? Ma che importavano i nomidelle costellazioni? Claudia la vedeva, alta ma non lon-tana. Pensava che ella sarebbe poi salita in quella im-mensità, e che di là avrebbe sempre conosciuta la vitadegli altri, dei suoi cari, sopra la terra.

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stita di bianco. Ella rappresentava la malattia, il destino.Su quel viso impassibile Claudia lesse che non le sareb-be stata fatta un’altra puntura prima che l’ora stabilitavenisse, a nessun patto. Pazienza. Volse di nuovo il capoalla finestra, guardò ancora il cielo. Non ricordava quasipiú dove ella fosse. Che importavano i luoghi? Fissòl’attenzione sopra una costellazione che spiccava, dauna parte, in quello spazio dolce e profondo profondo:stelle che parevano legate tra loro da fili invisibili, unpoco piú grandi delle altre e piú moventi con la luce,messe a formare un disegno che non si capiva, a direqualcosa che non si sarebbe potuto ripetere con parole.Quale costellazione era? Ma che importavano i nomidelle costellazioni? Claudia la vedeva, alta ma non lon-tana. Pensava che ella sarebbe poi salita in quella im-mensità, e che di là avrebbe sempre conosciuta la vitadegli altri, dei suoi cari, sopra la terra.

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1912

«Quel paese è fuori del mondo!» pensava Aleramo. Ilviaggio era scomodo; aveva dovuto cambiar treno piúvolte. Adesso non era lontano da Rebbia e riconoscevaogni tratto della linea, con le piccole stazioni dove mug-givano buoi nei carri bestiame, sotto un pulito soled’inverno. Pensava a Claudia che non vi sarebbe piúpassata: la sorella piú giovine era morta per la prima.Egli andava a Luvo; in dieci anni di libertà non s’eramai deciso; andava a dargli un addio. A Milano la vec-chia baracca della cavallerizza era in malora, i creditoril’avevan fatto fallire; i cavalli, il fabbricato col maneg-gio che pareva un circo da fiera, tutto era stato vendutoall’asta. Uno dei maestri d’equitazione, in un diverbioper ragioni di denaro, gli aveva detto «Con voi è meglionon far questioni. Si sa donde venite».

Nello scompartimento, non essendovi rimasto alcuno,Aleramo si moveva da un finestrino all’altro, con unostupore di ritrovar quella campagna e quelle colline lon-tane che conosceva. I suoi pochi capelli, divenuti bian-chi affatto, erano ben ravviati; il suo viso mostravad’aver preso luce ed aria; egli portava un buon cappottoed un buon abito, nel suo aspetto vi era del cavallerizzoma anche del signore che ha goduta la vita; le mani,

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«Quel paese è fuori del mondo!» pensava Aleramo. Ilviaggio era scomodo; aveva dovuto cambiar treno piúvolte. Adesso non era lontano da Rebbia e riconoscevaogni tratto della linea, con le piccole stazioni dove mug-givano buoi nei carri bestiame, sotto un pulito soled’inverno. Pensava a Claudia che non vi sarebbe piúpassata: la sorella piú giovine era morta per la prima.Egli andava a Luvo; in dieci anni di libertà non s’eramai deciso; andava a dargli un addio. A Milano la vec-chia baracca della cavallerizza era in malora, i creditoril’avevan fatto fallire; i cavalli, il fabbricato col maneg-gio che pareva un circo da fiera, tutto era stato vendutoall’asta. Uno dei maestri d’equitazione, in un diverbioper ragioni di denaro, gli aveva detto «Con voi è meglionon far questioni. Si sa donde venite».

Nello scompartimento, non essendovi rimasto alcuno,Aleramo si moveva da un finestrino all’altro, con unostupore di ritrovar quella campagna e quelle colline lon-tane che conosceva. I suoi pochi capelli, divenuti bian-chi affatto, erano ben ravviati; il suo viso mostravad’aver preso luce ed aria; egli portava un buon cappottoed un buon abito, nel suo aspetto vi era del cavallerizzoma anche del signore che ha goduta la vita; le mani,

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però, eran rimaste quelle del reclusorio, sformate dal la-voro. Anche alla libertà dava l’addio. Non sapeva piúche farsene. Volentieri sarebbe tornato nei penitenziari,a ripetere ogni giorno lo stesso lavoro e la stessa vitasenza essere piú un uomo. Non possedeva niente, nonsapeva fare niente. Voleva entrare in un ospizio; era dif-ficile farsi accettare, ma contava sull’aiuto di Sisto perriuscirvi; poco altro aiuto avrebbe chiesto, qualche soldoogni tanto. Da Claudia non gli era spiaciuto ricevere de-naro, poiché ella dava di buon grado; ma da altri non nevoleva.

Rivedere Luvo una volta prima di rinchiudersi, maanche vendicarsi del Lanciarossa. A parole, nient’altro.«Ecco, ti godi ciò che era mio, e me l’hai preso da stroz-zino offrendomi i prestiti mentre perdevo e poi facendoscadere le cambiali quando non avevo mezzo di difen-dermi. Non ti vergogni di stare in questa casa di signorie di galantuomini, tu, biscazziere figlio di biscazziere?Tu con la degna compagna. Ricordi quando la sua botte-ga di fioraia era piena d’adoratori e la bella aveva sem-pre qualche gioiello nuovo da mostrare»?

Ma questo camino di fornace e questo giardino pub-blico erano Rebbia. Aleramo non aveva valigia, nessunimpiccio; discese lesto dal treno, gettò alla stazione ap-pena un’occhiata, uscí e prese il viale di circonvallazio-ne. Vide qualche casa nuova, di brutta e meschina appa-renza, ma la città era sempre la stessa e pareva strana-mente addormentata. Senza entrarvi, incontrando sola-mente qualche ragazzetto, arrivò dove ricordava una ri-

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però, eran rimaste quelle del reclusorio, sformate dal la-voro. Anche alla libertà dava l’addio. Non sapeva piúche farsene. Volentieri sarebbe tornato nei penitenziari,a ripetere ogni giorno lo stesso lavoro e la stessa vitasenza essere piú un uomo. Non possedeva niente, nonsapeva fare niente. Voleva entrare in un ospizio; era dif-ficile farsi accettare, ma contava sull’aiuto di Sisto perriuscirvi; poco altro aiuto avrebbe chiesto, qualche soldoogni tanto. Da Claudia non gli era spiaciuto ricevere de-naro, poiché ella dava di buon grado; ma da altri non nevoleva.

Rivedere Luvo una volta prima di rinchiudersi, maanche vendicarsi del Lanciarossa. A parole, nient’altro.«Ecco, ti godi ciò che era mio, e me l’hai preso da stroz-zino offrendomi i prestiti mentre perdevo e poi facendoscadere le cambiali quando non avevo mezzo di difen-dermi. Non ti vergogni di stare in questa casa di signorie di galantuomini, tu, biscazziere figlio di biscazziere?Tu con la degna compagna. Ricordi quando la sua botte-ga di fioraia era piena d’adoratori e la bella aveva sem-pre qualche gioiello nuovo da mostrare»?

Ma questo camino di fornace e questo giardino pub-blico erano Rebbia. Aleramo non aveva valigia, nessunimpiccio; discese lesto dal treno, gettò alla stazione ap-pena un’occhiata, uscí e prese il viale di circonvallazio-ne. Vide qualche casa nuova, di brutta e meschina appa-renza, ma la città era sempre la stessa e pareva strana-mente addormentata. Senza entrarvi, incontrando sola-mente qualche ragazzetto, arrivò dove ricordava una ri-

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messa di affittacavalli: la trovò ancora. Vi era gentenuova che non poteva conoscerlo. Mentre aspettava siattaccasse un carrozzino per portarlo al paese, comincia-va a sentire intorno a sé il tempo lontano come se fossenell’aria, ed il ricordo della gente di quel tempo era di-verso da prima, piú vero, anche il ricordo di sua moglie.Poco dopo, il carrozzino prendeva la strada di Luvo,guidato da un uomo rozzo che aveva voglia di discorre-re e tirato da un cavallaccio il quale, appena frustato,passava dal trotto al galoppo scotendo villanamente ilveicolo a due ruote.

La strada saliva con infiniti rigiri. Da una delle svoltesi rivedeva Rebbia con le sue torri, rossa, sempre egua-le. A misura che andava innanzi, Aleramo ritrovava coseche aveva dimenticate; molti poderi eran rimasti comeallora, mostravano vecchie case, vecchi alberi; pressoun cancello vi era sempre una vasca di pietra per abbe-verare le bestie; sembravano quelli di quarant’anni pri-ma i canneti, le siepi, i pali del telegrafo; tutto stava feli-cemente sotto il sole tepido. Anche il cielo era quelloche egli aveva visto là tante volte in belle giornated’inverno. Si ritrovava nella memoria la vita d’allora,dove si movevano il padre, la madre, le sorelle, amici difamiglia, servitori, contadini, e si moveva l’Aleramod’allora; ma erano figure vaghe ch’egli non guardava aduna ad una. In altra maniera vedeva sua moglie, anzi lasentiva. Per questa strada era passato in carrozza conFulvia quando erano venuti a Luvo dopo il viaggio dinozze e poi ogni anno, quando ella si decideva a tornar

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messa di affittacavalli: la trovò ancora. Vi era gentenuova che non poteva conoscerlo. Mentre aspettava siattaccasse un carrozzino per portarlo al paese, comincia-va a sentire intorno a sé il tempo lontano come se fossenell’aria, ed il ricordo della gente di quel tempo era di-verso da prima, piú vero, anche il ricordo di sua moglie.Poco dopo, il carrozzino prendeva la strada di Luvo,guidato da un uomo rozzo che aveva voglia di discorre-re e tirato da un cavallaccio il quale, appena frustato,passava dal trotto al galoppo scotendo villanamente ilveicolo a due ruote.

La strada saliva con infiniti rigiri. Da una delle svoltesi rivedeva Rebbia con le sue torri, rossa, sempre egua-le. A misura che andava innanzi, Aleramo ritrovava coseche aveva dimenticate; molti poderi eran rimasti comeallora, mostravano vecchie case, vecchi alberi; pressoun cancello vi era sempre una vasca di pietra per abbe-verare le bestie; sembravano quelli di quarant’anni pri-ma i canneti, le siepi, i pali del telegrafo; tutto stava feli-cemente sotto il sole tepido. Anche il cielo era quelloche egli aveva visto là tante volte in belle giornated’inverno. Si ritrovava nella memoria la vita d’allora,dove si movevano il padre, la madre, le sorelle, amici difamiglia, servitori, contadini, e si moveva l’Aleramod’allora; ma erano figure vaghe ch’egli non guardava aduna ad una. In altra maniera vedeva sua moglie, anzi lasentiva. Per questa strada era passato in carrozza conFulvia quando erano venuti a Luvo dopo il viaggio dinozze e poi ogni anno, quando ella si decideva a tornar

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per qualche giorno in questo paese che l’annoiava.Grandi occhi scuri, imperiosi, in un viso forte che avevaspesso una strana immobilità; capelli chiarissimi, manilunghe e carnose. Il suo giovine corpo era sempre vesti-to di seta, ornato di frange e nastri, e la scollatura lascia-va scorgere il principio dei seni alti. Ella aveva una vol-ta una cuffia da estate, bianca, con un bordo di rosellineattorno al viso. Una cuffia di Parigi. Non voleva che ve-sti e profumi di Parigi.

Nei tratti dove la salita era dura, il cavallaccio andavaal passo, il carrozzino aveva movimenti meno sgarbati;il vetturale, imbronciato perché il passeggero non vole-va discorrere, guardava la strada di sotto il cappello ches’era tirato sul naso. Rammentando il carattere di Ful-via, ciò che aveva di bizzarro e di malvagio, Aleramo sidomandava che cosa ella volesse, che cercasse. Di nonavere figli era contenta. Vi era stato un tempo nel qualepareva innamorata di lui, sebbene bizzarra ed impazien-te anche allora; poi era stata presa da una smania di bril-lare, d’essere corteggiata, di passare da un divertimentoall’altro, di festa in festa. Chi avrebbe potuto tenerla le-gata a sé? Che fare, quali parole dire per riprenderla?Forse era una donna nata per viver libera e correre ilmondo da sola. Ma il suo destino era invece d’andarealla rovina trascinandovi un altro. Aleramo non avevamai piú voluto pensare queste cose: i pensieri non eranostati che ricordi sprofondati nella coscienza come infondo ad un’acqua. Ora li cercava, mentre continuava aguardare ciò che stava ai lati della strada. Decisamente

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per qualche giorno in questo paese che l’annoiava.Grandi occhi scuri, imperiosi, in un viso forte che avevaspesso una strana immobilità; capelli chiarissimi, manilunghe e carnose. Il suo giovine corpo era sempre vesti-to di seta, ornato di frange e nastri, e la scollatura lascia-va scorgere il principio dei seni alti. Ella aveva una vol-ta una cuffia da estate, bianca, con un bordo di rosellineattorno al viso. Una cuffia di Parigi. Non voleva che ve-sti e profumi di Parigi.

Nei tratti dove la salita era dura, il cavallaccio andavaal passo, il carrozzino aveva movimenti meno sgarbati;il vetturale, imbronciato perché il passeggero non vole-va discorrere, guardava la strada di sotto il cappello ches’era tirato sul naso. Rammentando il carattere di Ful-via, ciò che aveva di bizzarro e di malvagio, Aleramo sidomandava che cosa ella volesse, che cercasse. Di nonavere figli era contenta. Vi era stato un tempo nel qualepareva innamorata di lui, sebbene bizzarra ed impazien-te anche allora; poi era stata presa da una smania di bril-lare, d’essere corteggiata, di passare da un divertimentoall’altro, di festa in festa. Chi avrebbe potuto tenerla le-gata a sé? Che fare, quali parole dire per riprenderla?Forse era una donna nata per viver libera e correre ilmondo da sola. Ma il suo destino era invece d’andarealla rovina trascinandovi un altro. Aleramo non avevamai piú voluto pensare queste cose: i pensieri non eranostati che ricordi sprofondati nella coscienza come infondo ad un’acqua. Ora li cercava, mentre continuava aguardare ciò che stava ai lati della strada. Decisamente

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pensò anche a quanto era accaduto alla fine: quella Ful-via innamorata d’un uomo a lui ignoto, presa da unapassione o da un capriccio; il pretesto col quale avevavoluto partire, l’ostinazione a partire; le ore ch’egli ave-va passate in treno, nascosto, col revolver in tasca; lastazione d’arrivo, dove Fulvia si accostava impetuosa eridente al bel giovine che l’aspettava; i colpi di revolver,la donna che accasciandosi lasciava sfuggire il manicot-to, lo scompiglio tra la gente, un mucchio di uomini ad-dosso a lui. I giorni precedenti erano stati una terribiletortura: il fatto ne era la conseguenza. In quel momentosi era impadronita di lui una forza estranea alla sua vo-lontà. Dopo, egli aveva sempre sentito che s’era trovatonella necessità di compiere quell’atto. Che altro avrebbedovuto fare? Come non ucciderla? Ella si comportavacome se volesse andare a quella fine, essere uccisa.

Finora il carrozzino non aveva incontrato che qualchecarro di campagna con gente giovine, sconosciuta. Arri-vò ad una grande curva disegnata tra prati e vigne,dov’era un fascio di cipressi all’imbocco d’una piccolastrada. Aleramo rammentò che a quel punto doveva cer-care la pineta dei Farra. Voltandosi indietro trovò infattiuna collina coperta di pini, ch’egli non aveva nella me-moria, e vi biancheggiava al sole una villa nuova con lepersiane chiuse. Collina e casa stavano in un oblio tran-quillo: non sapevano che Claudia era morta. Ma ora lostradale andava quasi in piano, il vetturale frustò, il ca-vallo riprese a correre con le sue mossacce e la pinetanon tardò a nascondersi. Subito dopo lo spazio si dilatò

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pensò anche a quanto era accaduto alla fine: quella Ful-via innamorata d’un uomo a lui ignoto, presa da unapassione o da un capriccio; il pretesto col quale avevavoluto partire, l’ostinazione a partire; le ore ch’egli ave-va passate in treno, nascosto, col revolver in tasca; lastazione d’arrivo, dove Fulvia si accostava impetuosa eridente al bel giovine che l’aspettava; i colpi di revolver,la donna che accasciandosi lasciava sfuggire il manicot-to, lo scompiglio tra la gente, un mucchio di uomini ad-dosso a lui. I giorni precedenti erano stati una terribiletortura: il fatto ne era la conseguenza. In quel momentosi era impadronita di lui una forza estranea alla sua vo-lontà. Dopo, egli aveva sempre sentito che s’era trovatonella necessità di compiere quell’atto. Che altro avrebbedovuto fare? Come non ucciderla? Ella si comportavacome se volesse andare a quella fine, essere uccisa.

Finora il carrozzino non aveva incontrato che qualchecarro di campagna con gente giovine, sconosciuta. Arri-vò ad una grande curva disegnata tra prati e vigne,dov’era un fascio di cipressi all’imbocco d’una piccolastrada. Aleramo rammentò che a quel punto doveva cer-care la pineta dei Farra. Voltandosi indietro trovò infattiuna collina coperta di pini, ch’egli non aveva nella me-moria, e vi biancheggiava al sole una villa nuova con lepersiane chiuse. Collina e casa stavano in un oblio tran-quillo: non sapevano che Claudia era morta. Ma ora lostradale andava quasi in piano, il vetturale frustò, il ca-vallo riprese a correre con le sue mossacce e la pinetanon tardò a nascondersi. Subito dopo lo spazio si dilatò

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grandiosamente; apparve l’ampia valle dominata dallacollina di Luvo, sulla cresta della quale si vedeva ilcampanile del paese, messo come uno stendardo nellaprocessione delle case. Anche in questo orizzonte cosívasto Aleramo sentiva che l’aria non era cambiata. Ave-va un po’ di affanno, adesso che stava per arrivare; tene-va le braccia strette al petto studiando Luvo con viso se-vero. Un cantoniere che lavorava a ripulire un fosso,guardò la vettura che passava, ma anch’egli era giovine,non poteva conoscerlo. Con un’ultima svolta lo stradalecelava il paese prima di giungervi; Aleramo ritrovòl’alto muraglione che suo padre aveva donato al comuneper sostenere un terreno; le grosse pietre erano invec-chiate ma vi era ancora la lapide su cui era incisa lascritta: «Emanuele Andosio – per il pubblico bene –1851». Al paese paterno egli ritornava sopra un carroz-zino d’affitto; la casa degli Andosio non appartenevapiú alla famiglia; ed egli era quell’Aleramo che avevauccisa la moglie e passati ventisette anni nei penitenzia-ri. L’uomo che aveva fatto questo era lui, non altri, nonun Aleramo svanito chissà dove. Lui.

Arrivata la vettura sotto il paese, si videro le case del-le antiche famiglie borghesi, mangiate dalla lebbra divecchiezza e miseria; non erano cambiati molto i muc-chi di case rustiche intorno alla chiesa: in cima alla stra-da quella facciata grigia di palazzo Andosio. Qualchecasa nuova in piazza vi era, ma si notava appena. Alera-mo guardava sempre impettito e serio; ed il paese, seb-bene cosí poco cambiato, gli sembrava stranamente di-

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grandiosamente; apparve l’ampia valle dominata dallacollina di Luvo, sulla cresta della quale si vedeva ilcampanile del paese, messo come uno stendardo nellaprocessione delle case. Anche in questo orizzonte cosívasto Aleramo sentiva che l’aria non era cambiata. Ave-va un po’ di affanno, adesso che stava per arrivare; tene-va le braccia strette al petto studiando Luvo con viso se-vero. Un cantoniere che lavorava a ripulire un fosso,guardò la vettura che passava, ma anch’egli era giovine,non poteva conoscerlo. Con un’ultima svolta lo stradalecelava il paese prima di giungervi; Aleramo ritrovòl’alto muraglione che suo padre aveva donato al comuneper sostenere un terreno; le grosse pietre erano invec-chiate ma vi era ancora la lapide su cui era incisa lascritta: «Emanuele Andosio – per il pubblico bene –1851». Al paese paterno egli ritornava sopra un carroz-zino d’affitto; la casa degli Andosio non appartenevapiú alla famiglia; ed egli era quell’Aleramo che avevauccisa la moglie e passati ventisette anni nei penitenzia-ri. L’uomo che aveva fatto questo era lui, non altri, nonun Aleramo svanito chissà dove. Lui.

Arrivata la vettura sotto il paese, si videro le case del-le antiche famiglie borghesi, mangiate dalla lebbra divecchiezza e miseria; non erano cambiati molto i muc-chi di case rustiche intorno alla chiesa: in cima alla stra-da quella facciata grigia di palazzo Andosio. Qualchecasa nuova in piazza vi era, ma si notava appena. Alera-mo guardava sempre impettito e serio; ed il paese, seb-bene cosí poco cambiato, gli sembrava stranamente di-

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verso da quello che ricordava: era un luogo qualunque,meschino, al quale non valeva nemmeno la pena di pen-sare; e pareva che non vi fosse mai accaduto niente, chenon dovesse mai succedervi niente. Il carrozzino si fer-mò davanti ad un piccolo albergo. Egli smontò, disse alvetturale: – Stacca ed aspettami qua.

Sopra una panca fuori dell’osteria sedeva al sole unvecchio contadino robusto, con baffi spessi, spesse so-pracciglia, vestito bene di fustagno; gli erano vicini unragazzetto che batteva un chiodo nella panca con un sas-so, ed un cane che s’era alzato da terra all’arrivo dellavettura. Il contadino aveva occhi acuti sotto quelle so-pracciglia: osservava il forestiero come uno sconosciutodi passaggio, ma tosto la sua attenzione si fece piú in-tensa, il suo sguardo misurò l’uomo quanto era alto, glistudiò il viso, la persona, di nuovo il viso, con una cre-scente avidità. Infine disse, come a se medesimo: – Ale-ramo. – Poiché il forestiero si volse a guardarlo, il vec-chio si alzò lasciando appoggiato alla panca un bastoneche aveva.

— Chi siete? – domandò Aleramo..— Ti ho aspettato tanto! Non credevo piú di vederti

arrivare.— Non ti riconosco.— Sono Daniele del Tessitore.Aleramo alzò un poco le braccia, lo considerò ancora,

con piacere, gli strinse forte la mano; poi ebbe un im-pulso improvviso e lo abbracciò. L’altro si portò con luiverso il mezzo della piazza deserta, perché il ragazzo

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verso da quello che ricordava: era un luogo qualunque,meschino, al quale non valeva nemmeno la pena di pen-sare; e pareva che non vi fosse mai accaduto niente, chenon dovesse mai succedervi niente. Il carrozzino si fer-mò davanti ad un piccolo albergo. Egli smontò, disse alvetturale: – Stacca ed aspettami qua.

Sopra una panca fuori dell’osteria sedeva al sole unvecchio contadino robusto, con baffi spessi, spesse so-pracciglia, vestito bene di fustagno; gli erano vicini unragazzetto che batteva un chiodo nella panca con un sas-so, ed un cane che s’era alzato da terra all’arrivo dellavettura. Il contadino aveva occhi acuti sotto quelle so-pracciglia: osservava il forestiero come uno sconosciutodi passaggio, ma tosto la sua attenzione si fece piú in-tensa, il suo sguardo misurò l’uomo quanto era alto, glistudiò il viso, la persona, di nuovo il viso, con una cre-scente avidità. Infine disse, come a se medesimo: – Ale-ramo. – Poiché il forestiero si volse a guardarlo, il vec-chio si alzò lasciando appoggiato alla panca un bastoneche aveva.

— Chi siete? – domandò Aleramo..— Ti ho aspettato tanto! Non credevo piú di vederti

arrivare.— Non ti riconosco.— Sono Daniele del Tessitore.Aleramo alzò un poco le braccia, lo considerò ancora,

con piacere, gli strinse forte la mano; poi ebbe un im-pulso improvviso e lo abbracciò. L’altro si portò con luiverso il mezzo della piazza deserta, perché il ragazzo

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non li udisse. Raccontò che aveva saputo quando era ve-nuta la grazia e che prima aveva sempre cercato di aversue notizie dalla sua povera sorella, dal nipote. In questovecchio alto, un poco irrigidito dall’età ma di aspettoautorevole, Aleramo ritrovava indizi vaghi, parvenze in-certe di colui che era stato uno dei suoi amici di Luvo,dall’infanzia. In gioventú era assai bello; piú anziano dilui, lo salvava da pazzie troppo arrischiate; era figlio dibrava gente onoratissima.

— Avrei voluto venire a trovarti, – disse piano Danie-le – ma eri sempre lontano, nelle isole.

— Meglio cosí. Ti ricordi quando mi prestavi il fuci-le? E quando venivo a mangiare a casa tua? Che mine-stre!

S’intese un rumore di ruote e di cavalli: sulla porta diuna macelleria comparve un uomo grasso in camiciottoa righe rosse; subito arrivò la vettura della posta, che ve-niva da lontani paesi per scendere a Rebbia; qualche al-tra persona si mostrò allora sulle soglie delle botteghe edell’osteria; appena la vettura fu ripartita, tutto ritornòcome prima, nella piazza non rimase che il cane.

— E tu, che hai fatto? – domandò Aleramo al conta-dino. Questi disse in poche parole che aveva divise coifratelli le terre paterne e poi quelle ereditate da uno zio,e le aveva lavorate. Aggiunse: – Adesso non ho piúmolto da fare. Lavorano i figli ed i nipoti.

Aleramo immaginava quella vita tutta vissuta in liber-tà, in mezzo alla famiglia, lavorando la campagna, da redella propria terra. Si misero a camminare innanzi e in-

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non li udisse. Raccontò che aveva saputo quando era ve-nuta la grazia e che prima aveva sempre cercato di aversue notizie dalla sua povera sorella, dal nipote. In questovecchio alto, un poco irrigidito dall’età ma di aspettoautorevole, Aleramo ritrovava indizi vaghi, parvenze in-certe di colui che era stato uno dei suoi amici di Luvo,dall’infanzia. In gioventú era assai bello; piú anziano dilui, lo salvava da pazzie troppo arrischiate; era figlio dibrava gente onoratissima.

— Avrei voluto venire a trovarti, – disse piano Danie-le – ma eri sempre lontano, nelle isole.

— Meglio cosí. Ti ricordi quando mi prestavi il fuci-le? E quando venivo a mangiare a casa tua? Che mine-stre!

S’intese un rumore di ruote e di cavalli: sulla porta diuna macelleria comparve un uomo grasso in camiciottoa righe rosse; subito arrivò la vettura della posta, che ve-niva da lontani paesi per scendere a Rebbia; qualche al-tra persona si mostrò allora sulle soglie delle botteghe edell’osteria; appena la vettura fu ripartita, tutto ritornòcome prima, nella piazza non rimase che il cane.

— E tu, che hai fatto? – domandò Aleramo al conta-dino. Questi disse in poche parole che aveva divise coifratelli le terre paterne e poi quelle ereditate da uno zio,e le aveva lavorate. Aggiunse: – Adesso non ho piúmolto da fare. Lavorano i figli ed i nipoti.

Aleramo immaginava quella vita tutta vissuta in liber-tà, in mezzo alla famiglia, lavorando la campagna, da redella propria terra. Si misero a camminare innanzi e in-

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dietro. – E là dentro? – chiese. Aleramo indicando conun cenno del capo il palazzo. Daniele vi gettò unosguardo duro; poi accennò al matrimonio del Lanciaros-sa ed al figliastro venuto a comandare. Ciò era noto alreduce perché glielo aveva ancora scritto Claudia. Ma ilcontadino seguitava dicendo che nel palazzo dovevasuccedere qualche cosa di fosco. Il figliastro era un de-monio; ubbriaco, inveiva pubblicamente contro la ma-dre, ed il Lanciarossa, mandava loro maledizioni perchél’avevano rovinato fin da fanciullo; aveva venduti i ca-valli di lusso del patrigno; faceva cosí per abbreviarl’esistenza ai due ed entrare piú presto in possesso delpatrimonio. Sua madre piangeva continuamente, a quan-to si sapeva; usciva soltanto alla festa per andar alla pri-ma messa. Il Lanciarossa non era piú lui, sembrava am-malato ed anch’egli si teneva nascosto. Forse il figlia-stro gli dava un veleno, a poco a poco. In paese c’era chivi credeva, a questo, e chi no. – Io dico – conchiuse Da-niele – che là dentro non sta piú molto tempo.

Il palazzo, col portone chiuso in cima alla gradinata,con le grosse inferriate del pianterreno, coi muri grigidai quali erano caduti pezzi d’intonaco, avevaquell’espressione taciturna, impenetrabile. Ora Aleramonon aveva piú voglia d’entrarvi; però si scosse, tese lamano all’amico, mostrandogli con un cenno del capoche vi doveva andare.

— Resto qui – disse l’altro – finché ritorni.Ad aprire il portone venne un servitorello. Aleramo

chiese di parlare col signor Lanciarossa, senza dare il

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dietro. – E là dentro? – chiese. Aleramo indicando conun cenno del capo il palazzo. Daniele vi gettò unosguardo duro; poi accennò al matrimonio del Lanciaros-sa ed al figliastro venuto a comandare. Ciò era noto alreduce perché glielo aveva ancora scritto Claudia. Ma ilcontadino seguitava dicendo che nel palazzo dovevasuccedere qualche cosa di fosco. Il figliastro era un de-monio; ubbriaco, inveiva pubblicamente contro la ma-dre, ed il Lanciarossa, mandava loro maledizioni perchél’avevano rovinato fin da fanciullo; aveva venduti i ca-valli di lusso del patrigno; faceva cosí per abbreviarl’esistenza ai due ed entrare piú presto in possesso delpatrimonio. Sua madre piangeva continuamente, a quan-to si sapeva; usciva soltanto alla festa per andar alla pri-ma messa. Il Lanciarossa non era piú lui, sembrava am-malato ed anch’egli si teneva nascosto. Forse il figlia-stro gli dava un veleno, a poco a poco. In paese c’era chivi credeva, a questo, e chi no. – Io dico – conchiuse Da-niele – che là dentro non sta piú molto tempo.

Il palazzo, col portone chiuso in cima alla gradinata,con le grosse inferriate del pianterreno, coi muri grigidai quali erano caduti pezzi d’intonaco, avevaquell’espressione taciturna, impenetrabile. Ora Aleramonon aveva piú voglia d’entrarvi; però si scosse, tese lamano all’amico, mostrandogli con un cenno del capoche vi doveva andare.

— Resto qui – disse l’altro – finché ritorni.Ad aprire il portone venne un servitorello. Aleramo

chiese di parlare col signor Lanciarossa, senza dare il

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proprio nome. Fu lasciato nell’atrio. Poi comparve unvecchio magro, con una giacchettina stretta alla vita, ilquale aveva ancora i capelli pettinati all’indietro ed ilpizzetto acuto del Lanciarossa di tanti anni prima, mabianchi, ed aveva appena un ricordo del portamento diallora. Guardava il visitatore con aria interrogativa edanche inquieta, senza riconoscerlo. – Aleramo Andosio!– ripeté con stupore quando l’altro si fu nominato. Nonera contento né spiacente: stupito, immensamente stupi-to. Lo condusse subito, parlando piano, nella propria ca-mera; lo fece sedere accanto al caminetto, dove ardevaun po’ di fuoco, e tornò ad accomodarsi nella poltronaove stava prima, tirandosi sui ginocchi un vecchio scial-le che alzandosi, aveva lasciato cadere sul pavimento.

— Credevo che saresti venuto subito,.. appena potevi– disse. – Oggi non ti aspettavo certamente.

Ripensava il giorno in cui s’era saputo che Aleramoaveva uccisa la moglie, e poi il processo e la pena da luiscontata. Fece uno dei suoi gesti abituali passandosi piúvolte la destra sui capelli, in fretta, ma la mano era in-certa ed aveva un forte tremito; il viso era scarnito e lapelle cadeva in grosse pieghe, rimasta vuota; il suosguardo non cessava di moversi inquieto, ed in tutta lasua persona, nel suo contegno, era l’espressione, di unuomo che non si sente sicuro in casa propria. La cameraguardava il giardino; era ampia, col soffitto ornato divecchi fregi in stucco; Aleramo vi aveva riconosciutaquella da lui occupata quando veniva a Luvo con Fulvia.Allora vi stava in un angolo una toletta coperta di velo

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proprio nome. Fu lasciato nell’atrio. Poi comparve unvecchio magro, con una giacchettina stretta alla vita, ilquale aveva ancora i capelli pettinati all’indietro ed ilpizzetto acuto del Lanciarossa di tanti anni prima, mabianchi, ed aveva appena un ricordo del portamento diallora. Guardava il visitatore con aria interrogativa edanche inquieta, senza riconoscerlo. – Aleramo Andosio!– ripeté con stupore quando l’altro si fu nominato. Nonera contento né spiacente: stupito, immensamente stupi-to. Lo condusse subito, parlando piano, nella propria ca-mera; lo fece sedere accanto al caminetto, dove ardevaun po’ di fuoco, e tornò ad accomodarsi nella poltronaove stava prima, tirandosi sui ginocchi un vecchio scial-le che alzandosi, aveva lasciato cadere sul pavimento.

— Credevo che saresti venuto subito,.. appena potevi– disse. – Oggi non ti aspettavo certamente.

Ripensava il giorno in cui s’era saputo che Aleramoaveva uccisa la moglie, e poi il processo e la pena da luiscontata. Fece uno dei suoi gesti abituali passandosi piúvolte la destra sui capelli, in fretta, ma la mano era in-certa ed aveva un forte tremito; il viso era scarnito e lapelle cadeva in grosse pieghe, rimasta vuota; il suosguardo non cessava di moversi inquieto, ed in tutta lasua persona, nel suo contegno, era l’espressione, di unuomo che non si sente sicuro in casa propria. La cameraguardava il giardino; era ampia, col soffitto ornato divecchi fregi in stucco; Aleramo vi aveva riconosciutaquella da lui occupata quando veniva a Luvo con Fulvia.Allora vi stava in un angolo una toletta coperta di velo

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bianco con nodi di nastro azzurro, davanti alla qualeFulvia si faceva pettinare guardandosi in uno specchioincorniciato d’argento. Vi erano altri mobili, adesso, esopra un cassettone stavano molte boccette di medicina-li. Nel giardino si udirono dei passi, delle voci. Una diqueste si alzò subito di tono, sopraffece le altre, impre-cando, ingiuriando; voce grossa e prepotente che arrota-va l’erre e strascicava le parole. – Il padrone. Un tasd’histoires! Qui est-ce qui commande ici? Ve lo facciovedere. Vi metto fuori a calci. Cochons de fainéants! Acalci!

Il Lanciarossa fingeva di non sentire ma s’era comerimpicciolito nel seggiolone e si accomodava lo sciallecon quelle mani tremanti. Cominciò a raccontare piano,o piuttosto ad accennare con brevi frasi sovente lasciatea mezzo, che era venuto a stabilirsi a Luvo con la donnaquasi tre anni dopo che s’erano visti, Aleramo e lui,l’ultima volta. Questa era una maniera per indicare,press’a poco, il tempo della disgrazia di Aleramo.

— Sai che paese è. Ci sono venuto per Sofia. Tu puoicapire... Per averla tutta per me. Se in gioventú si sapes-se ciò che viene dopo, si potesse vedere il seguito dellecose! Del resto, Sofia è stata molto buona.

Continuò parlando della figlia che avevano perduta,Jenny; senza alzarsi prese dal piano del camino una fo-tografia di lei, gliela mostrò: ed Aleramo osservò ancoraquel tremito che le sue mani avevano, forte, molto rapi-do. Poi il Lanciarossa lasciò intendere com’era vissutoin quel paese morto, fuori del mondo, quasi chiuso nella

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bianco con nodi di nastro azzurro, davanti alla qualeFulvia si faceva pettinare guardandosi in uno specchioincorniciato d’argento. Vi erano altri mobili, adesso, esopra un cassettone stavano molte boccette di medicina-li. Nel giardino si udirono dei passi, delle voci. Una diqueste si alzò subito di tono, sopraffece le altre, impre-cando, ingiuriando; voce grossa e prepotente che arrota-va l’erre e strascicava le parole. – Il padrone. Un tasd’histoires! Qui est-ce qui commande ici? Ve lo facciovedere. Vi metto fuori a calci. Cochons de fainéants! Acalci!

Il Lanciarossa fingeva di non sentire ma s’era comerimpicciolito nel seggiolone e si accomodava lo sciallecon quelle mani tremanti. Cominciò a raccontare piano,o piuttosto ad accennare con brevi frasi sovente lasciatea mezzo, che era venuto a stabilirsi a Luvo con la donnaquasi tre anni dopo che s’erano visti, Aleramo e lui,l’ultima volta. Questa era una maniera per indicare,press’a poco, il tempo della disgrazia di Aleramo.

— Sai che paese è. Ci sono venuto per Sofia. Tu puoicapire... Per averla tutta per me. Se in gioventú si sapes-se ciò che viene dopo, si potesse vedere il seguito dellecose! Del resto, Sofia è stata molto buona.

Continuò parlando della figlia che avevano perduta,Jenny; senza alzarsi prese dal piano del camino una fo-tografia di lei, gliela mostrò: ed Aleramo osservò ancoraquel tremito che le sue mani avevano, forte, molto rapi-do. Poi il Lanciarossa lasciò intendere com’era vissutoin quel paese morto, fuori del mondo, quasi chiuso nella

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casa come in una fortezza, senza amici, sempre come unforestiero. S’interruppe, con un debole sorriso: – Manon è inutile parlare di quello che è stato? – Parlò inve-ce del figliastro, asciuttamente, dicendo che si occupavalui della campagna, dei servitori. Considerò Aleramocome se soltanto allora gli venisse in mente di osservar-lo. – Tu stai bene – disse. – Io sono malato: te ne saraiaccorto. I medici dicono che è una malattia di nervi; nongrave, dicono. Ho sempre freddo. E guarda. – Tese gliavambracci innanzi a sé, mostrò come facevano le suemani. Di nuovo si aggiustò la coperta, ed i suoi occhi in-quieti si volsero alle boccette che erano sul cassettone,quindi fecero il giro della stanza come se fosse piena dipericoli.

Quasi senz’avvedersene, Aleramo cominciò anch’eglia raccontare, sottovoce, con mezze frasi. Ma parlò sol-tanto del tempo in cui aveva nuovamente avuta la liber-tà; disse che il mondo era troppo cambiato; disse cheaveva comprata la scuola di equitazione per il gusto distare in mezzo ai cavalli, ma che l’equitazione era pas-sata di moda. Poi parlarono della morte di Claudia.

— La casa dei tuoi l’ho lasciata tale quale – affermòall’improvviso il Lanciarossa, liberandosi maldestra-mente dello scialle ed accennando ad alzarsi. – Vuoi ve-derla?

Aleramo non volle. Si limitò ad avvicinarsi alla fine-stra per guardare nel giardino. Se ne scorgeva un angolocon un pergolato, di là dal quale scendeva un prato. Edil reduce rivide Fulvia, vestita di bianco, col suo petto

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casa come in una fortezza, senza amici, sempre come unforestiero. S’interruppe, con un debole sorriso: – Manon è inutile parlare di quello che è stato? – Parlò inve-ce del figliastro, asciuttamente, dicendo che si occupavalui della campagna, dei servitori. Considerò Aleramocome se soltanto allora gli venisse in mente di osservar-lo. – Tu stai bene – disse. – Io sono malato: te ne saraiaccorto. I medici dicono che è una malattia di nervi; nongrave, dicono. Ho sempre freddo. E guarda. – Tese gliavambracci innanzi a sé, mostrò come facevano le suemani. Di nuovo si aggiustò la coperta, ed i suoi occhi in-quieti si volsero alle boccette che erano sul cassettone,quindi fecero il giro della stanza come se fosse piena dipericoli.

Quasi senz’avvedersene, Aleramo cominciò anch’eglia raccontare, sottovoce, con mezze frasi. Ma parlò sol-tanto del tempo in cui aveva nuovamente avuta la liber-tà; disse che il mondo era troppo cambiato; disse cheaveva comprata la scuola di equitazione per il gusto distare in mezzo ai cavalli, ma che l’equitazione era pas-sata di moda. Poi parlarono della morte di Claudia.

— La casa dei tuoi l’ho lasciata tale quale – affermòall’improvviso il Lanciarossa, liberandosi maldestra-mente dello scialle ed accennando ad alzarsi. – Vuoi ve-derla?

Aleramo non volle. Si limitò ad avvicinarsi alla fine-stra per guardare nel giardino. Se ne scorgeva un angolocon un pergolato, di là dal quale scendeva un prato. Edil reduce rivide Fulvia, vestita di bianco, col suo petto

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alto e con dei fiori infilati nella scollatura. Risentí comeella respirava la buona aria con una gioia carnale. Ricor-dò che un giorno aveva voluto travestirsi da contadina, ecosí mascherata s’era fatta portare da lui al mercato diRebbia, sopra un carrozzino del fattore. Egli capivaadesso che cosa voleva dire averla uccisa: come se fosseritornato al tempo nel quale sua moglie era viva. Sentival’esistenza che aveva troncata. Capiva adesso veramenteciò che aveva fatto. Rimase un pezzo; il sole se n’eraandato ed il Lanciarossa non aveva piú legna da metteresul fuoco; stavano anche senza parlare. Al visitatorel’altro aveva chiesto se voleva del caffè o del vino, macon imbarazzo, senza insistere perché accettasse. Alera-mo sentiva intorno a sé la casa, il giardino, la vita remo-ta; sentiva il padre e la madre, Ortensia che imparava ilpianoforte, Claudia bambina che trottava per i corridoi,il fattore ossequioso ed allegro, il landò con le sonaglie-re che rientrava dalle passeggiate. Non voleva andarenelle altre stanze, nel giardino, per non vedere che quel-la vita non c’era.

Infine si risolse ad uscire. Il Lanciarossa si scusò dinon farlo parlare con la moglie, di non presentargli il fi-gliastro, senza star a dire per quali motivi. Si scusò an-che di non accompagnarlo fino in piazza. – Esco dirado, adesso. – Venne però egli medesimo ad aprirgli ilportone. Qui si salutarono quasi senza parole, perchénon sapevano che dirsi, sebbene pensassero entrambimolte cose e fossero certi che non si sarebbero piú vedu-

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alto e con dei fiori infilati nella scollatura. Risentí comeella respirava la buona aria con una gioia carnale. Ricor-dò che un giorno aveva voluto travestirsi da contadina, ecosí mascherata s’era fatta portare da lui al mercato diRebbia, sopra un carrozzino del fattore. Egli capivaadesso che cosa voleva dire averla uccisa: come se fosseritornato al tempo nel quale sua moglie era viva. Sentival’esistenza che aveva troncata. Capiva adesso veramenteciò che aveva fatto. Rimase un pezzo; il sole se n’eraandato ed il Lanciarossa non aveva piú legna da metteresul fuoco; stavano anche senza parlare. Al visitatorel’altro aveva chiesto se voleva del caffè o del vino, macon imbarazzo, senza insistere perché accettasse. Alera-mo sentiva intorno a sé la casa, il giardino, la vita remo-ta; sentiva il padre e la madre, Ortensia che imparava ilpianoforte, Claudia bambina che trottava per i corridoi,il fattore ossequioso ed allegro, il landò con le sonaglie-re che rientrava dalle passeggiate. Non voleva andarenelle altre stanze, nel giardino, per non vedere che quel-la vita non c’era.

Infine si risolse ad uscire. Il Lanciarossa si scusò dinon farlo parlare con la moglie, di non presentargli il fi-gliastro, senza star a dire per quali motivi. Si scusò an-che di non accompagnarlo fino in piazza. – Esco dirado, adesso. – Venne però egli medesimo ad aprirgli ilportone. Qui si salutarono quasi senza parole, perchénon sapevano che dirsi, sebbene pensassero entrambimolte cose e fossero certi che non si sarebbero piú vedu-

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ti. Quando Aleramo ebbe discesi i gradini, il portone sirichiuse senza rumore.

Quasi buia era la piazza. Il campanile chiamava perqualche piccola funzione della sera; alcune donne si av-viavano col velo nero in testa. Nelle botteghe erano lumiscarsi e deboli. Aleramo vide venirgli incontro Daniele,dietro il quale camminavano una donna ed un uomo, piúvecchi di lui. La donna (lo disse Daniele) era Mariolina.I suoi occhietti lucidi questa volta piangevano davvero;ella afferrò una mano di Aleramo e la voleva baciare,singhiozzando. Dell’altro uomo, piú anziano di tutti,magro, con una barbuccia, il reduce non ritrovò che ri-cordi sbiaditi, quantunque essi cercassero di ravvivarglila memoria dicendo che era il padrone delle case attigueal palazzo e che «l’avvocato Emanuele» passeggiava so-vente con lui. Che importava ad Aleramo di non ricor-darsi? Anche questo vecchio era uno d’allora, era il tem-po lontano, era il paese.

Mariolina era venuta a comprare il lievito per fare ilpane, e Daniele l’aveva segretamente avvisata; segreta-mente egli era anche andato a chiamar l’altro, il piú vec-chio. E i tre, arrivati in mezzo alla piazza con Aleramo,si fermarono, gli si misero intorno. Ora spirava un’ariafredda ma essi non vi badavano.

— Sono contento che siate tornato su questa piazza –disse il contadino piú anziano. – Mi sembra che vostropadre lo debba sapere.

— Povero Aleramo! – disse Mariolina come poté, trai singhiozzi. – Ha patito per tanti anni!

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ti. Quando Aleramo ebbe discesi i gradini, il portone sirichiuse senza rumore.

Quasi buia era la piazza. Il campanile chiamava perqualche piccola funzione della sera; alcune donne si av-viavano col velo nero in testa. Nelle botteghe erano lumiscarsi e deboli. Aleramo vide venirgli incontro Daniele,dietro il quale camminavano una donna ed un uomo, piúvecchi di lui. La donna (lo disse Daniele) era Mariolina.I suoi occhietti lucidi questa volta piangevano davvero;ella afferrò una mano di Aleramo e la voleva baciare,singhiozzando. Dell’altro uomo, piú anziano di tutti,magro, con una barbuccia, il reduce non ritrovò che ri-cordi sbiaditi, quantunque essi cercassero di ravvivarglila memoria dicendo che era il padrone delle case attigueal palazzo e che «l’avvocato Emanuele» passeggiava so-vente con lui. Che importava ad Aleramo di non ricor-darsi? Anche questo vecchio era uno d’allora, era il tem-po lontano, era il paese.

Mariolina era venuta a comprare il lievito per fare ilpane, e Daniele l’aveva segretamente avvisata; segreta-mente egli era anche andato a chiamar l’altro, il piú vec-chio. E i tre, arrivati in mezzo alla piazza con Aleramo,si fermarono, gli si misero intorno. Ora spirava un’ariafredda ma essi non vi badavano.

— Sono contento che siate tornato su questa piazza –disse il contadino piú anziano. – Mi sembra che vostropadre lo debba sapere.

— Povero Aleramo! – disse Mariolina come poté, trai singhiozzi. – Ha patito per tanti anni!

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E Daniele alla sua volta: – È stato disgraziato. Non lomeritava.

Volevano fargli sapere che non aveva piú nessunacolpa, che tutto era cancellato. Aleramo udiva con pia-cere le loro parole e li ricompensava con strette dimano; ma ora sapeva invece che cosa significava tron-care una vita, che cosa aveva fatto uccidendo Fulvia.Non era vero che si potesse perdonarlo. Ciò che era suc-cesso, non sarebbe mai stato in alcun modo cancellato:nemmeno gli anni passati nei reclusori non cambiavanoniente. Cercò il vetturale, che dormiva col capo soprauna tavola dell’osteria; gli ordinò d’attaccare. Appena ilcarrozzino venne fuori dal cortile, baciò Mariolina, ab-bracciò i due uomini, e salí.

Il vetturale doveva aver bevuto, era imbronciato piúdi prima, litigava a frustate col cavallaccio. Mentre ilveicolo andava forte per lo stradale già buio, dove i fa-nali gettavano l’ombra enorme della bestia, Aleramo sicompiaceva di pensare ad un ospizio dove sarebbe en-trato, uno qualunque, molto grande, con innumerevolifinestre. Gli piaceva anche pensare che avrebbe portatoun’uniforme, un berrettino con un numero.

* * *

I Farra abitavano ora in una via del centro, piena dirumore. L’appartamento nuovo era molto diversodall’altro, come aveva desiderato Sisto. Già erano pas-sati l’autunno, l’inverno, una parte della primavera, e

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E Daniele alla sua volta: – È stato disgraziato. Non lomeritava.

Volevano fargli sapere che non aveva piú nessunacolpa, che tutto era cancellato. Aleramo udiva con pia-cere le loro parole e li ricompensava con strette dimano; ma ora sapeva invece che cosa significava tron-care una vita, che cosa aveva fatto uccidendo Fulvia.Non era vero che si potesse perdonarlo. Ciò che era suc-cesso, non sarebbe mai stato in alcun modo cancellato:nemmeno gli anni passati nei reclusori non cambiavanoniente. Cercò il vetturale, che dormiva col capo soprauna tavola dell’osteria; gli ordinò d’attaccare. Appena ilcarrozzino venne fuori dal cortile, baciò Mariolina, ab-bracciò i due uomini, e salí.

Il vetturale doveva aver bevuto, era imbronciato piúdi prima, litigava a frustate col cavallaccio. Mentre ilveicolo andava forte per lo stradale già buio, dove i fa-nali gettavano l’ombra enorme della bestia, Aleramo sicompiaceva di pensare ad un ospizio dove sarebbe en-trato, uno qualunque, molto grande, con innumerevolifinestre. Gli piaceva anche pensare che avrebbe portatoun’uniforme, un berrettino con un numero.

* * *

I Farra abitavano ora in una via del centro, piena dirumore. L’appartamento nuovo era molto diversodall’altro, come aveva desiderato Sisto. Già erano pas-sati l’autunno, l’inverno, una parte della primavera, e

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Graziano non si allontanava, per non lasciare il padre.Se svanivano i ricordi della malattia di Claudia, deigiorni funebri nei quali i superstiti non avevan respiratoche morte; se era finito il tempo in cui cercavano soltan-to l’aria immobile del camposanto, nella vita familiarerimaneva sempre visibile il posto vuoto.

Del dolore sofferto Graziano provava ancora unagrande stanchezza. Sentiva in tutto l’essere suo la perdi-ta subita; sentiva ch’era stato reciso in lui un legame mi-sterioso. Era morto l’albero del quale era il frutto. O erastata tagliata la radice per la quale egli era cresciuto so-pra la terra? Soffriva sempre del tremendo distacco dallapropria origine. E la madre perduta era quella donna no-bile e pura che tanto lo amava, quella che lo comprende-va in una maniera cosí intima e gli stava sempre vicina,anche quando erano separati o quando ella si teneva indisparte per lasciarlo a se stesso. Il giovine aveva assur-de e confuse idee che talvolta all’improvviso si precisa-vano: credeva di dover scrivere a lei raccontando ciòche accadeva, o pensava che la madre dovesse tornareda un viaggio. Stando a lavorare in camera, s’aspettavache ad un tratto entrasse e gli venisse accanto, come fa-ceva, per dar uno sguardo a ciò ch’egli scriveva, la-sciandogli poi un’ombra del suo profumo di violetta.Ma queste cose non potevano piú succedere: Grazianovedeva come d’or innanzi doveva vivere da sé, con leproprie forze.

In una notte di febbraio, mentre cadeva una nevicatafestosa, Gabriella aveva messa al mondo una bambina,

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Graziano non si allontanava, per non lasciare il padre.Se svanivano i ricordi della malattia di Claudia, deigiorni funebri nei quali i superstiti non avevan respiratoche morte; se era finito il tempo in cui cercavano soltan-to l’aria immobile del camposanto, nella vita familiarerimaneva sempre visibile il posto vuoto.

Del dolore sofferto Graziano provava ancora unagrande stanchezza. Sentiva in tutto l’essere suo la perdi-ta subita; sentiva ch’era stato reciso in lui un legame mi-sterioso. Era morto l’albero del quale era il frutto. O erastata tagliata la radice per la quale egli era cresciuto so-pra la terra? Soffriva sempre del tremendo distacco dallapropria origine. E la madre perduta era quella donna no-bile e pura che tanto lo amava, quella che lo comprende-va in una maniera cosí intima e gli stava sempre vicina,anche quando erano separati o quando ella si teneva indisparte per lasciarlo a se stesso. Il giovine aveva assur-de e confuse idee che talvolta all’improvviso si precisa-vano: credeva di dover scrivere a lei raccontando ciòche accadeva, o pensava che la madre dovesse tornareda un viaggio. Stando a lavorare in camera, s’aspettavache ad un tratto entrasse e gli venisse accanto, come fa-ceva, per dar uno sguardo a ciò ch’egli scriveva, la-sciandogli poi un’ombra del suo profumo di violetta.Ma queste cose non potevano piú succedere: Grazianovedeva come d’or innanzi doveva vivere da sé, con leproprie forze.

In una notte di febbraio, mentre cadeva una nevicatafestosa, Gabriella aveva messa al mondo una bambina,

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che aveva chiamata Claudia; ed il vecchio Ascanio, ilquale si recava al camposanto piú spesso di tutti, era to-sto andato a darne avviso a quella ch’era là. Con la per-fetta salute il nonno conservava sempre il calmo vigoredi spirito che pareva l’effetto di una certezza segreta edincrollabile. Quando Gabriella veniva a trovare il vec-chio ed il fratello, oppure essi andavano insieme a vederla bambina, colei che avevano perduta era tra loro comeviva; ma non ne parlavano, non potevano ancora.

Graziano non aveva ripreso un posto nella redazionedel giornale; scriveva a casa qualche articolo, spessocon grande sforzo. Il romanzo dei Senza terra era dapoco tempo apparso: aveva un successo impetuoso, sor-prendente, che cresceva sempre. Si erano subito mossi asegnalarlo come una rivelazione tutti i critici maggiori;li avevano imitati in fretta quanti si occupavano di librinei giornali, nelle riviste; s’interessavano del romanzocritici stranieri autorevoli; già se ne preparavano tradu-zioni. Anche ai lettori piaceva il mondo che vi era fattovivere, semplice e sinceramente umano. Il giovine n’eracontento come di una prova che non si era sbagliato giu-dicando se stesso; ora vedeva meglio di avere una statu-ra alta; ma non gli andava al capo nessun fumo. Soventeera scontento di ciò che diventava la sua opera in pos-sesso degli altri: non mancavano giudizi sfavorevoli, edin alcuni traspariva l’invidia; ma i piú accorrevano inaiuto del vincitore, e molte lodi erano sciocche, noiose.Riceveva lettere di sconosciuti, di donne, quasi sempreirritanti. E del pubblico anonimo egli pensava che so-

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che aveva chiamata Claudia; ed il vecchio Ascanio, ilquale si recava al camposanto piú spesso di tutti, era to-sto andato a darne avviso a quella ch’era là. Con la per-fetta salute il nonno conservava sempre il calmo vigoredi spirito che pareva l’effetto di una certezza segreta edincrollabile. Quando Gabriella veniva a trovare il vec-chio ed il fratello, oppure essi andavano insieme a vederla bambina, colei che avevano perduta era tra loro comeviva; ma non ne parlavano, non potevano ancora.

Graziano non aveva ripreso un posto nella redazionedel giornale; scriveva a casa qualche articolo, spessocon grande sforzo. Il romanzo dei Senza terra era dapoco tempo apparso: aveva un successo impetuoso, sor-prendente, che cresceva sempre. Si erano subito mossi asegnalarlo come una rivelazione tutti i critici maggiori;li avevano imitati in fretta quanti si occupavano di librinei giornali, nelle riviste; s’interessavano del romanzocritici stranieri autorevoli; già se ne preparavano tradu-zioni. Anche ai lettori piaceva il mondo che vi era fattovivere, semplice e sinceramente umano. Il giovine n’eracontento come di una prova che non si era sbagliato giu-dicando se stesso; ora vedeva meglio di avere una statu-ra alta; ma non gli andava al capo nessun fumo. Soventeera scontento di ciò che diventava la sua opera in pos-sesso degli altri: non mancavano giudizi sfavorevoli, edin alcuni traspariva l’invidia; ma i piú accorrevano inaiuto del vincitore, e molte lodi erano sciocche, noiose.Riceveva lettere di sconosciuti, di donne, quasi sempreirritanti. E del pubblico anonimo egli pensava che so-

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prattutto si volgeva al rumore, a quel po’ di fortuna.Aveva una strana impressione della folla in mezzo allaquale bisognava vivere: per chi si scrivevano i libri? Eracercato da editori, da giornali e riviste; riceveva ancheinviti mondani, che non accettava; non si curava affattodi essere uno scrittore come lo volevano vedere gli altri.

I Senza terra erano soprattutto una cosa dedicata asua madre; egli aveva questo pensiero anche quandonelle vetrine dei librai ritrovava il volume. Vi era la buo-na gente di campagna ch’ella aveva amata; ed il libro,scritto per sua ispirazione, terminato poco prima chemorisse, era stato letto da lei fino all’ultima parola. Nonpensava a scriverne un altro. Nell’animo gli rimanevaciò che vi aveva messo quella morte: un bisogno di te-nersi fuori della vita, il desiderio di una realtà misteriosanella quale il dolore da lui sofferto e il dolore di tuttitrovassero una ragione. Non era triste; pensava volentie-ri che aveva soltanto ventinove anni. Nell’adolescenza,quando riceveva l’ostia nella Comunione, si sentiva di-venuto prezioso egli stesso; cosí ora aveva in sé quellacosa santa che era la memoria materna. La città che ri-trovava uscendo di casa, sempre eguale, gli sembravatroppo solida e netta, ingombra di pesante materia.Spesso rivedeva Fenice, sempre ansiosa, obbediente, edora esaltata dal successo del romanzo; nell’inverno era-no andati insieme a qualche concerto, adesso uscivanoin campagna a goder la primavera; ma soltanto in questomodo si erano ritrovati. All’altro amore che tra loro viera stato, Graziano pensava come ad una storia finita.

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prattutto si volgeva al rumore, a quel po’ di fortuna.Aveva una strana impressione della folla in mezzo allaquale bisognava vivere: per chi si scrivevano i libri? Eracercato da editori, da giornali e riviste; riceveva ancheinviti mondani, che non accettava; non si curava affattodi essere uno scrittore come lo volevano vedere gli altri.

I Senza terra erano soprattutto una cosa dedicata asua madre; egli aveva questo pensiero anche quandonelle vetrine dei librai ritrovava il volume. Vi era la buo-na gente di campagna ch’ella aveva amata; ed il libro,scritto per sua ispirazione, terminato poco prima chemorisse, era stato letto da lei fino all’ultima parola. Nonpensava a scriverne un altro. Nell’animo gli rimanevaciò che vi aveva messo quella morte: un bisogno di te-nersi fuori della vita, il desiderio di una realtà misteriosanella quale il dolore da lui sofferto e il dolore di tuttitrovassero una ragione. Non era triste; pensava volentie-ri che aveva soltanto ventinove anni. Nell’adolescenza,quando riceveva l’ostia nella Comunione, si sentiva di-venuto prezioso egli stesso; cosí ora aveva in sé quellacosa santa che era la memoria materna. La città che ri-trovava uscendo di casa, sempre eguale, gli sembravatroppo solida e netta, ingombra di pesante materia.Spesso rivedeva Fenice, sempre ansiosa, obbediente, edora esaltata dal successo del romanzo; nell’inverno era-no andati insieme a qualche concerto, adesso uscivanoin campagna a goder la primavera; ma soltanto in questomodo si erano ritrovati. All’altro amore che tra loro viera stato, Graziano pensava come ad una storia finita.

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Come prima della malattia di Claudia, il padre nonrientrava che la sera; Graziano ed Ascanio lo aspettava-no per cenare; discorrevano poco, e mai nominavanoquella che non c’era piú. Dopo cena Sisto si chiudevanello studio od usciva di nuovo. Era molto invecchiato;anzi, stanco nello sguardo ed incerto nelle mosse comeun uomo mal guarito d’una malattia grave. Sebbenestesse ancora dentro la tristezza del lutto, cercava unoscampo, guardava da un’altra parte. Con profonda penai suoi figli ed Ascanio assistevano ad un avvenimentoche nessuno si sarebbe mai atteso come conseguenza diquel lutto: un suo lento e continuo allontanarsi dalla vitafamiliare, dal passato comune, dalla religione della mor-ta. Avevano saputo che gli era venuta intorno, come at-tratta dal suo dolore, la sorella di un assistente della cli-nica, non molto giovine né bella; capivano ch’egli avevaaccettata quell’amicizia di donna e se ne lasciava pren-dere, non senza tormentarsi, provarne rimorso.

Una sera chiamò nel suo studio il figlio. Per la primavolta gli parlò di quella donna, dicendo ch’ella venivaalla clinica e che aveva letto il suo romanzo; accennòall’amicizia, al conforto che vi trovava; disse infine cheVittoria (la chiamò soltanto cosí) provava molta simpa-tia per lui, come per Gabriella, ed avrebbe desideratoconoscerli. Il giovine rispose senza impegnarsi e conviso ostile, con un accento duro del quale subito si pentí,poiché il padre gli aveva parlato con umiltà, quasi consommessione. Lo guardò alzarsi dalla scrivania, avvici-narsi ad uno scaffale, infilandosi gli occhiali, per cercare

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Come prima della malattia di Claudia, il padre nonrientrava che la sera; Graziano ed Ascanio lo aspettava-no per cenare; discorrevano poco, e mai nominavanoquella che non c’era piú. Dopo cena Sisto si chiudevanello studio od usciva di nuovo. Era molto invecchiato;anzi, stanco nello sguardo ed incerto nelle mosse comeun uomo mal guarito d’una malattia grave. Sebbenestesse ancora dentro la tristezza del lutto, cercava unoscampo, guardava da un’altra parte. Con profonda penai suoi figli ed Ascanio assistevano ad un avvenimentoche nessuno si sarebbe mai atteso come conseguenza diquel lutto: un suo lento e continuo allontanarsi dalla vitafamiliare, dal passato comune, dalla religione della mor-ta. Avevano saputo che gli era venuta intorno, come at-tratta dal suo dolore, la sorella di un assistente della cli-nica, non molto giovine né bella; capivano ch’egli avevaaccettata quell’amicizia di donna e se ne lasciava pren-dere, non senza tormentarsi, provarne rimorso.

Una sera chiamò nel suo studio il figlio. Per la primavolta gli parlò di quella donna, dicendo ch’ella venivaalla clinica e che aveva letto il suo romanzo; accennòall’amicizia, al conforto che vi trovava; disse infine cheVittoria (la chiamò soltanto cosí) provava molta simpa-tia per lui, come per Gabriella, ed avrebbe desideratoconoscerli. Il giovine rispose senza impegnarsi e conviso ostile, con un accento duro del quale subito si pentí,poiché il padre gli aveva parlato con umiltà, quasi consommessione. Lo guardò alzarsi dalla scrivania, avvici-narsi ad uno scaffale, infilandosi gli occhiali, per cercare

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una delle solite custodie di cartone piene di documenti:pareva logorato da una grave fatica; anche nei suoi passisi vedeva un principio di esitazione, come se il piedenon si fidasse del pavimento; il suo capo di robustastruttura s’era molto imbiancato ed i capelli erano inerti,senili; ma quel che si notava soprattutto nella sua perso-na, nel modo di guardare, di muoversi, di tener le spalle,era un’espressione dubbiosa ed umile, un’espressione didebolezza. Comunque Graziano lo ricercasse nel passa-to, non lo vedeva che forte, padrone di sé. Per la fami-glia, per i figli l’idea del padre e quella della forza eranosempre state unite; la sua forza era apparsa qualche vol-ta severa ma sempre sicura, una forza da non potersimai guastare. Adesso era cosí. Graziano dubitava che inlui fosse incominciata una decadenza grave, per un malemisterioso che lo insidiasse; e nell’avvenire sentivaqualcosa di oscuro, come se il malvagio lavoro del de-stino non fosse terminato.

Ogni volta che era piú profondamente turbato, Gra-ziano ricordava ancora Nego e desiderava parlargli, sen-za saper bene perché. Lo credeva superiore a tutti nelmodo di pensare. Andò una domenica a cercarlo nellapianura; intorno alla casa dei Mazzè il sobborgo era cre-sciuto ma questa casa conservava il suo aspetto rustico;il portone era chiuso e sull’arco era stata cancellata lascritta che indicava l’officina; venne ad aprire una servala quale disse che poteva parlare con la signora, se vole-va, perché non vi erano altri. Dal cortile, vuoto e silen-zioso, era sparito anche lo scoiattolo. Di sopra, la madre

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una delle solite custodie di cartone piene di documenti:pareva logorato da una grave fatica; anche nei suoi passisi vedeva un principio di esitazione, come se il piedenon si fidasse del pavimento; il suo capo di robustastruttura s’era molto imbiancato ed i capelli erano inerti,senili; ma quel che si notava soprattutto nella sua perso-na, nel modo di guardare, di muoversi, di tener le spalle,era un’espressione dubbiosa ed umile, un’espressione didebolezza. Comunque Graziano lo ricercasse nel passa-to, non lo vedeva che forte, padrone di sé. Per la fami-glia, per i figli l’idea del padre e quella della forza eranosempre state unite; la sua forza era apparsa qualche vol-ta severa ma sempre sicura, una forza da non potersimai guastare. Adesso era cosí. Graziano dubitava che inlui fosse incominciata una decadenza grave, per un malemisterioso che lo insidiasse; e nell’avvenire sentivaqualcosa di oscuro, come se il malvagio lavoro del de-stino non fosse terminato.

Ogni volta che era piú profondamente turbato, Gra-ziano ricordava ancora Nego e desiderava parlargli, sen-za saper bene perché. Lo credeva superiore a tutti nelmodo di pensare. Andò una domenica a cercarlo nellapianura; intorno alla casa dei Mazzè il sobborgo era cre-sciuto ma questa casa conservava il suo aspetto rustico;il portone era chiuso e sull’arco era stata cancellata lascritta che indicava l’officina; venne ad aprire una servala quale disse che poteva parlare con la signora, se vole-va, perché non vi erano altri. Dal cortile, vuoto e silen-zioso, era sparito anche lo scoiattolo. Di sopra, la madre

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di Valente accolse il visitatore con la sua solita vivacità,lo fece entrare nel salotto, dove si vedevano sempre i di-plomi in cornice e l’arpa d’oro sotto il velo rosa. La si-gnora, coi ricciolini pendenti intorno al viso grassoccio,tutta rotonda ed insaccata, col petto che pareva finto,non era cambiata affatto.

— Valente! Noi non sappiamo piú dove sia. – Spiegòche da parecchio tempo il figlio viveva indipendente;veniva talvolta alla domenica, poi non l’avevano piú ve-duto; erano andati a cercarlo dove abitava e dove lavo-rava, non c’era piú, non aveva lasciate tracce; probabil-mente se n’era andato in qualche altra città, forseall’estero. Ella raccontava questo nella sua maniera con-citata, ma senza alcuna emozione.

— Noi siamo gente irrequieta, sapete. Valente avràvoluto sentirsi piú libero. I miei figli vanno e vengonoma ritornano sempre, ritornano. Figuratevi ch’è tornatoquello che era andato nel Sud Africa tanti anni or sono enon aveva mai scritto. È meglio vedere un po’ di mon-do, vivere da sé, alla ventura. Io ero andata da sola a darconcerti in Russia a ventidue anni.

Disse poi che non voleva stare a parlargli di quantoera accaduto dall’ultima sua visita: cose già lontane.Avevano salvata la casa; l’avrebbero venduta quando ilvalore del terreno fosse cresciuto abbastanza, e dovevacrescere straordinariamente; suo marito e gli altri figliavevano trovati buoni impieghi, studiavano nuovi pro-getti, che certamente avrebbero dati risultati ottimi. Par-lò anche del romanzo di Graziano, con entusiasmo, di-

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di Valente accolse il visitatore con la sua solita vivacità,lo fece entrare nel salotto, dove si vedevano sempre i di-plomi in cornice e l’arpa d’oro sotto il velo rosa. La si-gnora, coi ricciolini pendenti intorno al viso grassoccio,tutta rotonda ed insaccata, col petto che pareva finto,non era cambiata affatto.

— Valente! Noi non sappiamo piú dove sia. – Spiegòche da parecchio tempo il figlio viveva indipendente;veniva talvolta alla domenica, poi non l’avevano piú ve-duto; erano andati a cercarlo dove abitava e dove lavo-rava, non c’era piú, non aveva lasciate tracce; probabil-mente se n’era andato in qualche altra città, forseall’estero. Ella raccontava questo nella sua maniera con-citata, ma senza alcuna emozione.

— Noi siamo gente irrequieta, sapete. Valente avràvoluto sentirsi piú libero. I miei figli vanno e vengonoma ritornano sempre, ritornano. Figuratevi ch’è tornatoquello che era andato nel Sud Africa tanti anni or sono enon aveva mai scritto. È meglio vedere un po’ di mon-do, vivere da sé, alla ventura. Io ero andata da sola a darconcerti in Russia a ventidue anni.

Disse poi che non voleva stare a parlargli di quantoera accaduto dall’ultima sua visita: cose già lontane.Avevano salvata la casa; l’avrebbero venduta quando ilvalore del terreno fosse cresciuto abbastanza, e dovevacrescere straordinariamente; suo marito e gli altri figliavevano trovati buoni impieghi, studiavano nuovi pro-getti, che certamente avrebbero dati risultati ottimi. Par-lò anche del romanzo di Graziano, con entusiasmo, di-

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scorrendo dei personaggi come di gente che conoscesse.Quando il visitatore si fu congedato, ella uscí sul balla-toio per salutarlo ancora mentre attraversava il cortile,con molti cenni della mano e del capo a ricciolini.

Nego s’era fatto operaio, si era confuso con gli ope-rai, e adesso si era allontanato senza dire niente alla fa-miglia, chissà dov’era andato: Graziano lo ammiravaanche per questo. Ma di non sapere piú dove fosse, sirattristò. Allora scrisse a Metello. Un’amnistia lo avevaliberato, questa volta, dopo sei mesi di carcere; e di nuo-vo egli ne era uscito con una smania di moversi, con unproposito di riguadagnare il tempo perduto, e nuova-mente era divenuto inafferrabile. Ma dalla reclusioneaveva portate fuori idee che prima non aveva o che nonerano mature. Credeva, prima, in una trasformazionegraduale della società; ora s’era convinto che la lentezzatoglieva all’azione ogni efficacia; soltanto un colpo rapi-do e violento poteva cambiar le cose, una rivoluzione. Epensava necessario farla presto per una ragione precisamolto importante. La terra si veniva coprendo di mac-chine. Nella guerra che si combatteva in Africa avevanogrande parte le mitragliatrici, i cannoni a tiro rapido, icarri automobili, le navi aeree, i velivoli armati. E nellavita detta di pace la meccanica prendeva un posto sem-pre piú ingente; le macchine per correre sulla terra oviaggiare nell’aria realizzavano progressi continui, im-preveduti; si moltiplicavano dappertutto le officine cheproducevano altre macchine di ogni specie per arare, percaricare e scaricar le navi, per sostituire in ogni lavoro

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scorrendo dei personaggi come di gente che conoscesse.Quando il visitatore si fu congedato, ella uscí sul balla-toio per salutarlo ancora mentre attraversava il cortile,con molti cenni della mano e del capo a ricciolini.

Nego s’era fatto operaio, si era confuso con gli ope-rai, e adesso si era allontanato senza dire niente alla fa-miglia, chissà dov’era andato: Graziano lo ammiravaanche per questo. Ma di non sapere piú dove fosse, sirattristò. Allora scrisse a Metello. Un’amnistia lo avevaliberato, questa volta, dopo sei mesi di carcere; e di nuo-vo egli ne era uscito con una smania di moversi, con unproposito di riguadagnare il tempo perduto, e nuova-mente era divenuto inafferrabile. Ma dalla reclusioneaveva portate fuori idee che prima non aveva o che nonerano mature. Credeva, prima, in una trasformazionegraduale della società; ora s’era convinto che la lentezzatoglieva all’azione ogni efficacia; soltanto un colpo rapi-do e violento poteva cambiar le cose, una rivoluzione. Epensava necessario farla presto per una ragione precisamolto importante. La terra si veniva coprendo di mac-chine. Nella guerra che si combatteva in Africa avevanogrande parte le mitragliatrici, i cannoni a tiro rapido, icarri automobili, le navi aeree, i velivoli armati. E nellavita detta di pace la meccanica prendeva un posto sem-pre piú ingente; le macchine per correre sulla terra oviaggiare nell’aria realizzavano progressi continui, im-preveduti; si moltiplicavano dappertutto le officine cheproducevano altre macchine di ogni specie per arare, percaricare e scaricar le navi, per sostituire in ogni lavoro

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bracci di ferro e congegni d’acciaio alle braccia ed allemani degli uomini; e le macchine uscivano dalle fabbri-che in numero sempre piú grande, arrivavano ovunque,davano alla vita la propria rapidità e precisione metalli-ca, imponevano anche agli uomini, ad un numero sem-pre maggiore di uomini, gesti di macchina. La legge deimotori e degli ingranaggi, della corrente elettrica e deicongegni automatici avrebbe cresciuto il suo potere conuna progressione molto rapida, sarebbe divenuta semprepiú tirannica. Entro poche decine d’anni la vita potevaessere terribilmente meccanizzata. E le macchine eranouno strumento di dominio del denaro sui poveri. Biso-gnava impadronirsene prima che fosse troppo tardi: pri-ma che la folla immensa dei lavoratori fosse completa-mente soggiogata dal metallo, dai congegni, e divenissesoltanto una misera parte accessoria dei telai, delle gru,delle dinamo. Comandare le macchine voleva dire avereil comando della vita sociale. Inoltre la potenza mecca-nica, che faceva la guerra sempre piú micidiale, prepara-va una guerra smisurata, perché tutte le macchine guer-resche che si fabbricavano nel mondo, non potevanostare inoperose, un giorno avrebbero voluto funzionare.Bisognava far presto. La visione del mondo meccaniz-zato, panorama fumoso lucido pieno di strepiti, che Me-tello aveva avuta in carcere pensando pensando, era di-ventata per lui quasi un incubo. Egli cercava di agitar lesue idee innanzi agli occhi di tutti, parlando, scrivendo,andando avanti e indietro per l’Italia, sostenendo una fa-tica sempre piú improba.

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bracci di ferro e congegni d’acciaio alle braccia ed allemani degli uomini; e le macchine uscivano dalle fabbri-che in numero sempre piú grande, arrivavano ovunque,davano alla vita la propria rapidità e precisione metalli-ca, imponevano anche agli uomini, ad un numero sem-pre maggiore di uomini, gesti di macchina. La legge deimotori e degli ingranaggi, della corrente elettrica e deicongegni automatici avrebbe cresciuto il suo potere conuna progressione molto rapida, sarebbe divenuta semprepiú tirannica. Entro poche decine d’anni la vita potevaessere terribilmente meccanizzata. E le macchine eranouno strumento di dominio del denaro sui poveri. Biso-gnava impadronirsene prima che fosse troppo tardi: pri-ma che la folla immensa dei lavoratori fosse completa-mente soggiogata dal metallo, dai congegni, e divenissesoltanto una misera parte accessoria dei telai, delle gru,delle dinamo. Comandare le macchine voleva dire avereil comando della vita sociale. Inoltre la potenza mecca-nica, che faceva la guerra sempre piú micidiale, prepara-va una guerra smisurata, perché tutte le macchine guer-resche che si fabbricavano nel mondo, non potevanostare inoperose, un giorno avrebbero voluto funzionare.Bisognava far presto. La visione del mondo meccaniz-zato, panorama fumoso lucido pieno di strepiti, che Me-tello aveva avuta in carcere pensando pensando, era di-ventata per lui quasi un incubo. Egli cercava di agitar lesue idee innanzi agli occhi di tutti, parlando, scrivendo,andando avanti e indietro per l’Italia, sostenendo una fa-tica sempre piú improba.

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Poiché Graziano aveva chiesto allo zio di potergliparlare, ricevette poi quattro righe che fissavano un con-vegno in casa di Gabriella. L’abitazione era quella d’unafamiglia nuova e modesta: stanzette in cima ad una casadi cemento. Metello non si fece aspettare. Arrivò con unviso preoccupato, ma si schiarí appena nel salotto, dovegià stavano Ascanio e Graziano, entrò la nipote portan-do la piccola Claudia. La bambina era al mondo appenada tre mesi; aveva un faccino ben fatto, occhi scuri,un’ombra di capelli neri; strizzava le palpebre per fasti-dio della luce ma senza inquietarsi, e teneva un poco al-zati i pugni chiusi, grandi come due garofani. A parago-ne con la madre vestita di nero e con Ascanio e Grazia-no anch’essi in lutto, la piccola creatura avvolta in pannibianchi, ornata d’un giubbetto rosa, sembrava una cosavivente in un’altra maniera, una cosa tutta lieta. Metellole baciò una guancia con quanta delicatezza era possibi-le.

— Che bella mamma! – disse a Gabriella. – È un pia-cere vederti, cosí giovine, con la tua figliolina in brac-cio.

Gabriella volse lo sguardo a Graziano e rispose –Questo è il mio libro.

Aurelio era alla fabbrica. Quando Gabriella ebbe ri-portata la bambina in un’altra stanza e fu tornata, lo ziodisse che bisognava parlare del babbo. Metello era forseancora ingrassato ma dava sempre la medesima impres-sione di vigore e d’impazienza; nei suoi capelli rossicci,nei baffi non c’era pelo bianco; portava lo stesso abito

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Poiché Graziano aveva chiesto allo zio di potergliparlare, ricevette poi quattro righe che fissavano un con-vegno in casa di Gabriella. L’abitazione era quella d’unafamiglia nuova e modesta: stanzette in cima ad una casadi cemento. Metello non si fece aspettare. Arrivò con unviso preoccupato, ma si schiarí appena nel salotto, dovegià stavano Ascanio e Graziano, entrò la nipote portan-do la piccola Claudia. La bambina era al mondo appenada tre mesi; aveva un faccino ben fatto, occhi scuri,un’ombra di capelli neri; strizzava le palpebre per fasti-dio della luce ma senza inquietarsi, e teneva un poco al-zati i pugni chiusi, grandi come due garofani. A parago-ne con la madre vestita di nero e con Ascanio e Grazia-no anch’essi in lutto, la piccola creatura avvolta in pannibianchi, ornata d’un giubbetto rosa, sembrava una cosavivente in un’altra maniera, una cosa tutta lieta. Metellole baciò una guancia con quanta delicatezza era possibi-le.

— Che bella mamma! – disse a Gabriella. – È un pia-cere vederti, cosí giovine, con la tua figliolina in brac-cio.

Gabriella volse lo sguardo a Graziano e rispose –Questo è il mio libro.

Aurelio era alla fabbrica. Quando Gabriella ebbe ri-portata la bambina in un’altra stanza e fu tornata, lo ziodisse che bisognava parlare del babbo. Metello era forseancora ingrassato ma dava sempre la medesima impres-sione di vigore e d’impazienza; nei suoi capelli rossicci,nei baffi non c’era pelo bianco; portava lo stesso abito

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che Graziano gli aveva visto in carcere, marrone, peròaveva al braccio una larga fascia da lutto. S’era sedutoall’estremità di un divano e gli era accanto Gabriella,accesa in volto dall’emozione. Graziano sedeva di fron-te a loro. Il nonno, diritto, con le mani nelle tasched’una gran giacca, con una cravatta nera, a fiocco sottoil pappafico, stava davanti alla finestra, dalla quale sivedevano i tetti del quartiere.

— Il babbo – cominciò Metello – si lamenta di voi.— La nostra è una situazione difficile – osservò Gra-

ziano. – Che fare? Io sono andato qualche volta alla cli-nica e non so se vi devo tornare: m’è parso di dargli fa-stidio.

— A vedere la bambina viene tanto di rado – disseGabriella. – Non si riesce ad interessarlo di nulla. È unaltro.

— Ma voi dovete capire ciò che succede in lui – Me-tello aveva alzate vivamente le mani e di peso le lasciòricadere sopra i ginocchi. Continuò piú adagio: – Soffre,si tormenta. Certamente è cambiato, ma può riaversi. Ladonna che voi sapete, Vittoria...

Piegando la testa ed abbassando lo sguardo, Gabriellalo interruppe: – Qualche volta lo ha accompagnato alcamposanto!

Graziano aggiunse, con durezza: – Il fratello è assi-stente nella clinica: vi può essere un calcolo in tuttaquell’amicizia.

— La donna – ripigliò Metello – io l’ho vista, le hoparlato. Voi non avete nemmeno voluto conoscerla. Non

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che Graziano gli aveva visto in carcere, marrone, peròaveva al braccio una larga fascia da lutto. S’era sedutoall’estremità di un divano e gli era accanto Gabriella,accesa in volto dall’emozione. Graziano sedeva di fron-te a loro. Il nonno, diritto, con le mani nelle tasched’una gran giacca, con una cravatta nera, a fiocco sottoil pappafico, stava davanti alla finestra, dalla quale sivedevano i tetti del quartiere.

— Il babbo – cominciò Metello – si lamenta di voi.— La nostra è una situazione difficile – osservò Gra-

ziano. – Che fare? Io sono andato qualche volta alla cli-nica e non so se vi devo tornare: m’è parso di dargli fa-stidio.

— A vedere la bambina viene tanto di rado – disseGabriella. – Non si riesce ad interessarlo di nulla. È unaltro.

— Ma voi dovete capire ciò che succede in lui – Me-tello aveva alzate vivamente le mani e di peso le lasciòricadere sopra i ginocchi. Continuò piú adagio: – Soffre,si tormenta. Certamente è cambiato, ma può riaversi. Ladonna che voi sapete, Vittoria...

Piegando la testa ed abbassando lo sguardo, Gabriellalo interruppe: – Qualche volta lo ha accompagnato alcamposanto!

Graziano aggiunse, con durezza: – Il fratello è assi-stente nella clinica: vi può essere un calcolo in tuttaquell’amicizia.

— La donna – ripigliò Metello – io l’ho vista, le hoparlato. Voi non avete nemmeno voluto conoscerla. Non

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credo che i vostri sospetti abbiano fondamento. Per me,è una persona... Come posso dire? Degna.

Il vecchio Ascanio aveva ascoltato senza battere ci-glio. Ora si voltò: – Dunque, si dovrebbe fare il matri-monio?

— Non cosí presto; non subito. – Metello tacque unmomento, guardando Gabriella e poi Graziano. Riprese:– Voi pensate ch’ella prenderebbe il posto di vostra ma-dre. No. Vivrebbe accanto al babbo e indubbiamente glisarebbe di conforto, di aiuto; ma il posto di Claudia èqualcosa che sta nel passato, e nessuno lo tocca.

— Anzi, – disse Graziano amaramente – è proprio ilpassato che si guasta.

Grosse lacrime spuntarono negli occhi di Gabriella.Lo zio si schiarí la gola col breve ruggito che facevasentire quando voleva nascondere d’esser commosso.Rimasero tutti in silenzio per un poco; quindi Metellodisse, molto adagio ed a voce bassa: – Claudia era unacreatura perfetta. La sua memoria è sacra per tutti. – Edopo un’altra pausa soggiunse: – Ma nessuna mortedeve fermare quelli che restano. Bisogna che essi possa-no vivere.

Graziano scosse il capo: – Non l’hai visto il babbo?Non è possibile che cominci un’altra vita.

— Aveva mostrato di sopportare con tanta forza... –mormorò Gabriella. – Poi l’ha perduta.

— Ma ora mi ha parlato dei suoi studi – disse Metel-lo, tornando a parlar forte ed in fretta, come per rianima-re sé e gli altri. – Quelli sull’eredità della tubercolosi

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credo che i vostri sospetti abbiano fondamento. Per me,è una persona... Come posso dire? Degna.

Il vecchio Ascanio aveva ascoltato senza battere ci-glio. Ora si voltò: – Dunque, si dovrebbe fare il matri-monio?

— Non cosí presto; non subito. – Metello tacque unmomento, guardando Gabriella e poi Graziano. Riprese:– Voi pensate ch’ella prenderebbe il posto di vostra ma-dre. No. Vivrebbe accanto al babbo e indubbiamente glisarebbe di conforto, di aiuto; ma il posto di Claudia èqualcosa che sta nel passato, e nessuno lo tocca.

— Anzi, – disse Graziano amaramente – è proprio ilpassato che si guasta.

Grosse lacrime spuntarono negli occhi di Gabriella.Lo zio si schiarí la gola col breve ruggito che facevasentire quando voleva nascondere d’esser commosso.Rimasero tutti in silenzio per un poco; quindi Metellodisse, molto adagio ed a voce bassa: – Claudia era unacreatura perfetta. La sua memoria è sacra per tutti. – Edopo un’altra pausa soggiunse: – Ma nessuna mortedeve fermare quelli che restano. Bisogna che essi possa-no vivere.

Graziano scosse il capo: – Non l’hai visto il babbo?Non è possibile che cominci un’altra vita.

— Aveva mostrato di sopportare con tanta forza... –mormorò Gabriella. – Poi l’ha perduta.

— Ma ora mi ha parlato dei suoi studi – disse Metel-lo, tornando a parlar forte ed in fretta, come per rianima-re sé e gli altri. – Quelli sull’eredità della tubercolosi

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credo li abbia lasciati definitivamente; ma si occupa del-le cure mineralizzanti, fa delle prove con risultati positi-vi. E forse è per lei, per Vittoria, incoraggiato da lei, chesi è rimesso al lavoro.

Ascanio, sempre in piedi, fece il suo atto di mandar lespalle indietro: – Noi pensiamo soltanto ad evitare a Si-sto mali peggiori. Si poteva restare uniti a ricordareClaudia ed onorare la sua memoria. Se dovrà succederediversamente, ci adatteremo.

— Forse tu dubiti – disse Gabriella guardando negliocchi lo zio coi suoi grandi occhi scuri – che noi nonamiamo il babbo abbastanza.

— Ci adatteremo, certamente – dichiarò Graziano, aconchiudere. – E Dio voglia che tutto abbia buon fine.

Alzatosi, Metello gli andò vicino per abbracciarlo;poi si accostò a Gabriella e le posò i grossi baffi sullaguancia. – Sí, tutto avrà buon fine! – Ad un tratto si ac-corse che ad una parete erano appese alcune sue pittured’un tempo, di quelle che Claudia aveva sempre volutoconservare; erano tre paesaggi dipinti come con unaspuma di colori freschi e gentili; dopo averli osservatiun po’ con cert’aria dispettosa, tirò fuori il solito vec-chio orologio d’argento e dichiarò che doveva andare.Volle ancora dar un’occhiata alla piccola Claudia, laquale dormiva nella culla, d’un sonno tenero come lasua bocca socchiusa, ed era la piú leggera e fiduciosavita che si potesse vedere. Infine scappò in fretta.

Rimasti soli tra loro, con quel nero indosso nel salottochiaro e pieno di luce, Graziano, la sorella, il nonno

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credo li abbia lasciati definitivamente; ma si occupa del-le cure mineralizzanti, fa delle prove con risultati positi-vi. E forse è per lei, per Vittoria, incoraggiato da lei, chesi è rimesso al lavoro.

Ascanio, sempre in piedi, fece il suo atto di mandar lespalle indietro: – Noi pensiamo soltanto ad evitare a Si-sto mali peggiori. Si poteva restare uniti a ricordareClaudia ed onorare la sua memoria. Se dovrà succederediversamente, ci adatteremo.

— Forse tu dubiti – disse Gabriella guardando negliocchi lo zio coi suoi grandi occhi scuri – che noi nonamiamo il babbo abbastanza.

— Ci adatteremo, certamente – dichiarò Graziano, aconchiudere. – E Dio voglia che tutto abbia buon fine.

Alzatosi, Metello gli andò vicino per abbracciarlo;poi si accostò a Gabriella e le posò i grossi baffi sullaguancia. – Sí, tutto avrà buon fine! – Ad un tratto si ac-corse che ad una parete erano appese alcune sue pittured’un tempo, di quelle che Claudia aveva sempre volutoconservare; erano tre paesaggi dipinti come con unaspuma di colori freschi e gentili; dopo averli osservatiun po’ con cert’aria dispettosa, tirò fuori il solito vec-chio orologio d’argento e dichiarò che doveva andare.Volle ancora dar un’occhiata alla piccola Claudia, laquale dormiva nella culla, d’un sonno tenero come lasua bocca socchiusa, ed era la piú leggera e fiduciosavita che si potesse vedere. Infine scappò in fretta.

Rimasti soli tra loro, con quel nero indosso nel salottochiaro e pieno di luce, Graziano, la sorella, il nonno

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stettero un poco senza nemmeno guardarsi; quindi par-larono di altre cose, senza importanza; di Sisto non dis-sero piú niente.

* * *

Ogni sera Fenice aiutava il figlio a fare i còmpiti discuola. Temeva sempre per la salute del ragazzo il qualecrescendo rimaneva gracile e pallido, facilmente ricade-va in una leggera infermità: una tosse con un po’ di feb-bre che lo teneva a letto per qualche giorno. Ora Ottaviostudiava già il latino. Sua madre rincasava presto: resta-vano insieme a tavolino un paio d’ore. – Non ti annoi,mamma? – egli le chiedeva; cessava di scrivere perguardarla da vicino e carezzarla. Fin da piccino era statoavido dell’amore materno come se sapesse di non poter-lo avere; aveva poi fatto quanto gli era possibile perconquistarsi quell’amore, timidamente e con pazienza.Sempre aveva sentita nell’aria di casa l’indifferenza chei genitori si dimostravano a vicenda; adesso era in gradodi comprendere com’essi erano separati, nemici inconci-liabili e silenziosi: ma aveva imparato anche egli a tace-re molto e non pensava di chiedere alcuna spiegazionenemmeno alla madre. Si sentiva tutto portato verso lei,credeva ch’ella dovesse aver ragione in confronto delbabbo, per il quale non provava che un’affezione freddacome erano freddi il viso, i gesti paterni e la sua manieradi vivere.

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stettero un poco senza nemmeno guardarsi; quindi par-larono di altre cose, senza importanza; di Sisto non dis-sero piú niente.

* * *

Ogni sera Fenice aiutava il figlio a fare i còmpiti discuola. Temeva sempre per la salute del ragazzo il qualecrescendo rimaneva gracile e pallido, facilmente ricade-va in una leggera infermità: una tosse con un po’ di feb-bre che lo teneva a letto per qualche giorno. Ora Ottaviostudiava già il latino. Sua madre rincasava presto: resta-vano insieme a tavolino un paio d’ore. – Non ti annoi,mamma? – egli le chiedeva; cessava di scrivere perguardarla da vicino e carezzarla. Fin da piccino era statoavido dell’amore materno come se sapesse di non poter-lo avere; aveva poi fatto quanto gli era possibile perconquistarsi quell’amore, timidamente e con pazienza.Sempre aveva sentita nell’aria di casa l’indifferenza chei genitori si dimostravano a vicenda; adesso era in gradodi comprendere com’essi erano separati, nemici inconci-liabili e silenziosi: ma aveva imparato anche egli a tace-re molto e non pensava di chiedere alcuna spiegazionenemmeno alla madre. Si sentiva tutto portato verso lei,credeva ch’ella dovesse aver ragione in confronto delbabbo, per il quale non provava che un’affezione freddacome erano freddi il viso, i gesti paterni e la sua manieradi vivere.

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A poco a poco Fenice s’era stretta al ragazzo. Ottavioconservava nell’aspetto la rassomiglianza col padre, dacui aveva preso quel colore di malatino, lo sguardo unpo’ acquoso, le mani sempre gelide; ma nell’animo in-dubbiamente somigliava a lei, cosí assetato d’affetto,cosí bisognoso d’appassionarsi, cosí pronto ad esaltarsiper qualche cosa che paresse bella; aveva un’intelligen-za viva, ricordava con facilità, si divertiva ad inventareinsieme a lei il racconto d’un viaggio favoloso che con-tinuava, continuava sempre. Ora Fenice voleva renderlointeramente suo, farlo un’altra volta, nella mente enell’animo, perché somigliasse soltanto a lei. Ogni voltache doveva sentire il legame naturale tra Ottavio ed ilpadre, ne soffriva acutamente; se accadeva che il maritovolesse insegnare al ragazzo, prendesse tra mani uno deisuoi libri, a stento riusciva a frenarsi, a tacere. Bei gior-ni quelli in cui il marito andava a vedere i possedimenti.Fenice cercava anche di tener lontano Ottavio dai nonni;le spiaceva che andasse nella loro casa, lucida ed immu-tabile, ch’era ancora quella dove ella era vissuta finoalle disgraziate nozze. Sua madre, corazzata delle vestisolenni che portava, dura anche quando voleva essereaffettuosa, trattava il ragazzo come se appartenesse prin-cipalmente a lei. – Che ne faremo di te? – gli ripetevaguardandolo dall’alto.

Una volta, per uscire con Graziano, Fenice prese consé il ragazzo. – Nell’espressione ti somiglia – le disse ilgiovane. – Ha la tua bocca, il tuo sorriso. – Ella ne fumolto contenta.

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A poco a poco Fenice s’era stretta al ragazzo. Ottavioconservava nell’aspetto la rassomiglianza col padre, dacui aveva preso quel colore di malatino, lo sguardo unpo’ acquoso, le mani sempre gelide; ma nell’animo in-dubbiamente somigliava a lei, cosí assetato d’affetto,cosí bisognoso d’appassionarsi, cosí pronto ad esaltarsiper qualche cosa che paresse bella; aveva un’intelligen-za viva, ricordava con facilità, si divertiva ad inventareinsieme a lei il racconto d’un viaggio favoloso che con-tinuava, continuava sempre. Ora Fenice voleva renderlointeramente suo, farlo un’altra volta, nella mente enell’animo, perché somigliasse soltanto a lei. Ogni voltache doveva sentire il legame naturale tra Ottavio ed ilpadre, ne soffriva acutamente; se accadeva che il maritovolesse insegnare al ragazzo, prendesse tra mani uno deisuoi libri, a stento riusciva a frenarsi, a tacere. Bei gior-ni quelli in cui il marito andava a vedere i possedimenti.Fenice cercava anche di tener lontano Ottavio dai nonni;le spiaceva che andasse nella loro casa, lucida ed immu-tabile, ch’era ancora quella dove ella era vissuta finoalle disgraziate nozze. Sua madre, corazzata delle vestisolenni che portava, dura anche quando voleva essereaffettuosa, trattava il ragazzo come se appartenesse prin-cipalmente a lei. – Che ne faremo di te? – gli ripetevaguardandolo dall’alto.

Una volta, per uscire con Graziano, Fenice prese consé il ragazzo. – Nell’espressione ti somiglia – le disse ilgiovane. – Ha la tua bocca, il tuo sorriso. – Ella ne fumolto contenta.

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Nella sua vita Graziano occupava sempre un gran po-sto; anzi, ella avrebbe potuto amarlo piú che in passato,ma non sperava che tornassero ore simili a quelle vissu-te insieme nella stanza avvolta di silenzio presso la pic-cola piazza deserta. Il sentimento che adesso provavaper lui, aveva una tinta di rassegnazione ed anche di de-lusione. Quando si era deliberatamente unita al giovine,aveva pensato di fare un altro matrimonio, segreto, ilsuo vero matrimonio, senza che egli neppure lo sapesse.Poi, mentre Graziano era all’estero, la donna aveva cre-duto che al suo ritorno l’unione potesse ristabilirsi pie-namente, e durare molti anni, forse una gran parte dellavita. Invece non era che un ricordo dell’amore di prima.Con immensa pena, durante la malattia e dopo la mortedi Claudia Farra, ella aveva sentito che veramente anchei dolori del giovine la respingevano fuori di quella esi-stenza alla quale aveva sognato di appartenere. E capivabene che il legame non poteva avere per Graziano lostesso valore che per lei. Pensava anche che era la piúanziana, di due anni: le sembravano molti.

Del resto, chi era Graziano? Era bello, pareva forte,deciso; pareva un uomo migliore degli altri e non troppodiverso dagli altri; invece vi era in lui qualcosa d’indefi-nibile che lo faceva molto diverso. Di ogni cosa si mo-strava subito sazio, annoiato. Destava interesse, incon-trava simpatie, e non se ne curava affatto. Il suo roman-zo era un bel libro, caldo di umanità, nuovo; ma eglinon godeva del successo e non pensava piú a scrivere.«Anch’io ho sofferto. – si diceva Fenice – tuttavia credo

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Nella sua vita Graziano occupava sempre un gran po-sto; anzi, ella avrebbe potuto amarlo piú che in passato,ma non sperava che tornassero ore simili a quelle vissu-te insieme nella stanza avvolta di silenzio presso la pic-cola piazza deserta. Il sentimento che adesso provavaper lui, aveva una tinta di rassegnazione ed anche di de-lusione. Quando si era deliberatamente unita al giovine,aveva pensato di fare un altro matrimonio, segreto, ilsuo vero matrimonio, senza che egli neppure lo sapesse.Poi, mentre Graziano era all’estero, la donna aveva cre-duto che al suo ritorno l’unione potesse ristabilirsi pie-namente, e durare molti anni, forse una gran parte dellavita. Invece non era che un ricordo dell’amore di prima.Con immensa pena, durante la malattia e dopo la mortedi Claudia Farra, ella aveva sentito che veramente anchei dolori del giovine la respingevano fuori di quella esi-stenza alla quale aveva sognato di appartenere. E capivabene che il legame non poteva avere per Graziano lostesso valore che per lei. Pensava anche che era la piúanziana, di due anni: le sembravano molti.

Del resto, chi era Graziano? Era bello, pareva forte,deciso; pareva un uomo migliore degli altri e non troppodiverso dagli altri; invece vi era in lui qualcosa d’indefi-nibile che lo faceva molto diverso. Di ogni cosa si mo-strava subito sazio, annoiato. Destava interesse, incon-trava simpatie, e non se ne curava affatto. Il suo roman-zo era un bel libro, caldo di umanità, nuovo; ma eglinon godeva del successo e non pensava piú a scrivere.«Anch’io ho sofferto. – si diceva Fenice – tuttavia credo

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in molte cose. Forse Graziano non ama niente perchénon crede a niente. È superiore alla vita comune soltantoperché non la stima. Anche se vive e lavora, se cerca diessere simile agli altri, sembra aver sempre in fondoall’animo la certezza che tutto non vale niente». Unavolta egli le aveva detto che bisognava almeno essere ungenio perché valesse la pena di stare al mondo. Anchenelle ore piú belle vissute con lui, lo aveva sempre sen-tito inafferrabile, come uno che apposta sfuggisse per ri-manere solo con se stesso.

Fenice frequentava ancora l’università, aveva amici-zia con alcuni dei professori, avvicinava molti studenti,e ritrovava anche compagni degli anni passati, ormai en-trati del tutto nella vita. Vedeva talvolta come i suoi oc-chi azzurri piacevano, com’era desiderata la sua personafine di ragazza; desideri, pensieri estrosi, un impulso diriprendersi la libertà per cercare altre esperienze, riaverel’amore, tentare un’altra sorte, non di rado la turbavano.Ma quella fedeltà dedicata a Graziano voleva ancora ri-spettarla; voleva far durare, comunque, l’unione finchési potesse. Ed anche il pensiero del suo figliolo pazienteche ogni sera ritrovava ad aspettarla, la teneva in unavita pura. Il marito aveva dovuto comprendere il suo le-game con Graziano negli ultimi giorni di Claudia Farrae subito dopo la sua morte, perché ella aveva preso parteal dolore ed al lutto con pieno abbandono, senza curarsid’altro. Allora, sebbene soltanto qualche parola fossestata scambiata tra loro a quel proposito, l’odio era rico-minciato come nuovo; finché nella casa era tornato a re-

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in molte cose. Forse Graziano non ama niente perchénon crede a niente. È superiore alla vita comune soltantoperché non la stima. Anche se vive e lavora, se cerca diessere simile agli altri, sembra aver sempre in fondoall’animo la certezza che tutto non vale niente». Unavolta egli le aveva detto che bisognava almeno essere ungenio perché valesse la pena di stare al mondo. Anchenelle ore piú belle vissute con lui, lo aveva sempre sen-tito inafferrabile, come uno che apposta sfuggisse per ri-manere solo con se stesso.

Fenice frequentava ancora l’università, aveva amici-zia con alcuni dei professori, avvicinava molti studenti,e ritrovava anche compagni degli anni passati, ormai en-trati del tutto nella vita. Vedeva talvolta come i suoi oc-chi azzurri piacevano, com’era desiderata la sua personafine di ragazza; desideri, pensieri estrosi, un impulso diriprendersi la libertà per cercare altre esperienze, riaverel’amore, tentare un’altra sorte, non di rado la turbavano.Ma quella fedeltà dedicata a Graziano voleva ancora ri-spettarla; voleva far durare, comunque, l’unione finchési potesse. Ed anche il pensiero del suo figliolo pazienteche ogni sera ritrovava ad aspettarla, la teneva in unavita pura. Il marito aveva dovuto comprendere il suo le-game con Graziano negli ultimi giorni di Claudia Farrae subito dopo la sua morte, perché ella aveva preso parteal dolore ed al lutto con pieno abbandono, senza curarsid’altro. Allora, sebbene soltanto qualche parola fossestata scambiata tra loro a quel proposito, l’odio era rico-minciato come nuovo; finché nella casa era tornato a re-

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gnare il gelido silenzio. Nello sguardo del marito ellavedeva quell’idea, vedeva la gelosia, adesso che da anniviveva come una vergine casta.

Le giunse una lettera di cui ebbe grande piacere. An-nunziava l’arrivo imminente di un’amica austriaca. Au-gusta Weiss. Era vedova dell’archeologo Teodoro Weissche aveva insegnato all’università di Vienna, celebre peri suoi studi sull’Italia prima dei Romani. Veniva in Italiaogni anno, a rivedere i luoghi dove il marito aveva tra-scorso parecchio tempo studiando i monumenti della Si-cilia e poi le necropoli etrusche lungo il litorale del La-zio; ed a riveder gli altri luoghi dov’era stata con lui, so-prattutto Roma, che considerava veramente il centro delmondo. Poiché l’archeologo, fin dalla gioventú, era sta-to amicissimo del professore Vighi, che ora insegnavastoria antica nell’università di Torino, ella non trascura-va mai di venirlo a trovare, in principio od alla fine delsuo viaggio. In casa dei Vighi Fenice l’aveva conosciu-ta, e tra loro si era stabilita una calda intimità, tenutaviva da uno scambio di lettere frequente.

Andò a trovarla all’albergo la mattina stessa del suoarrivo. La straniera era alta, poderosa, con una corona digrosse trecce grige intorno al capo, con un viso di linea-menti semplici e nobili, nettamente tedeschi. La sua fi-gura faceva tosto pensare quale stupenda giovinezza do-vesse aver avuta. Stava in mezzo all’ampia ed alta ca-mera, vestita con cura, tra molte valige aperte; insiemealla solita roba ne aveva tolto un gran numero di coseacquistate in Italia durante il suo giro, e sul caminetto,

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gnare il gelido silenzio. Nello sguardo del marito ellavedeva quell’idea, vedeva la gelosia, adesso che da anniviveva come una vergine casta.

Le giunse una lettera di cui ebbe grande piacere. An-nunziava l’arrivo imminente di un’amica austriaca. Au-gusta Weiss. Era vedova dell’archeologo Teodoro Weissche aveva insegnato all’università di Vienna, celebre peri suoi studi sull’Italia prima dei Romani. Veniva in Italiaogni anno, a rivedere i luoghi dove il marito aveva tra-scorso parecchio tempo studiando i monumenti della Si-cilia e poi le necropoli etrusche lungo il litorale del La-zio; ed a riveder gli altri luoghi dov’era stata con lui, so-prattutto Roma, che considerava veramente il centro delmondo. Poiché l’archeologo, fin dalla gioventú, era sta-to amicissimo del professore Vighi, che ora insegnavastoria antica nell’università di Torino, ella non trascura-va mai di venirlo a trovare, in principio od alla fine delsuo viaggio. In casa dei Vighi Fenice l’aveva conosciu-ta, e tra loro si era stabilita una calda intimità, tenutaviva da uno scambio di lettere frequente.

Andò a trovarla all’albergo la mattina stessa del suoarrivo. La straniera era alta, poderosa, con una corona digrosse trecce grige intorno al capo, con un viso di linea-menti semplici e nobili, nettamente tedeschi. La sua fi-gura faceva tosto pensare quale stupenda giovinezza do-vesse aver avuta. Stava in mezzo all’ampia ed alta ca-mera, vestita con cura, tra molte valige aperte; insiemealla solita roba ne aveva tolto un gran numero di coseacquistate in Italia durante il suo giro, e sul caminetto,

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sopra un tavolino, sulle sedie si scorgevano fotografie dimonumenti e di paesi, collane di rossi coralli, libri ri-guardanti le città, una grande conchiglia marina, mucchidi merletti, lavori di paglia, rami d’ulivo e di alloro. Tut-to ciò splendeva nella luce del mattino di maggio, cheentrava dall’alte finestre attraverso le quali si vedevauna lunga piazza col palazzo reale in fondo.

— La mia piccola Fenice! – Tra le braccia della stra-niera Fenice pareva infatti quasi una bambina. La signo-ra Weiss aggiunse: – E come sta il tuo cuoricino? È tran-quillo? – Parlava l’italiano con ruvido accento tedescoma speditamente e quasi senza errori. Spiegò chequest’anno era partita per l’Italia piú tardi del consuetoperché nell’inverno era stato ammalato il caro Leopol-do; il figlio di suo figlio, che adesso compiva due anni.Indicò con largo gesto gli oggetti comprati. – Vorrei por-tarmi via perfino gli alberi! – Aveva occhi scuri che an-che nel sorridere davano un lampeggiamento fiero. Sulcassettone, in una cornice davanti alla quale era posatoun fascio di fiori non ancora messi in un vaso, staval’ultima fotografia di Teodoro Weiss: bell’uomo di lar-ghe spalle, con occhi chiari, gran barba, grossi baffi,candidi, ben ravviati, di cui si sarebbe pensato che fosseun ministro dell’imperatore.

La signora si trattenne in città parecchi giorni. Erasempre in movimento, infaticabile; andava dai Vighi, daaltri conoscenti, andava a rivedere tutte le cose interes-santi; ma sempre voleva Fenice con sé. Nominava so-vente Teodoro, narrava la sua vita, descriveva il suo ca-

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sopra un tavolino, sulle sedie si scorgevano fotografie dimonumenti e di paesi, collane di rossi coralli, libri ri-guardanti le città, una grande conchiglia marina, mucchidi merletti, lavori di paglia, rami d’ulivo e di alloro. Tut-to ciò splendeva nella luce del mattino di maggio, cheentrava dall’alte finestre attraverso le quali si vedevauna lunga piazza col palazzo reale in fondo.

— La mia piccola Fenice! – Tra le braccia della stra-niera Fenice pareva infatti quasi una bambina. La signo-ra Weiss aggiunse: – E come sta il tuo cuoricino? È tran-quillo? – Parlava l’italiano con ruvido accento tedescoma speditamente e quasi senza errori. Spiegò chequest’anno era partita per l’Italia piú tardi del consuetoperché nell’inverno era stato ammalato il caro Leopol-do; il figlio di suo figlio, che adesso compiva due anni.Indicò con largo gesto gli oggetti comprati. – Vorrei por-tarmi via perfino gli alberi! – Aveva occhi scuri che an-che nel sorridere davano un lampeggiamento fiero. Sulcassettone, in una cornice davanti alla quale era posatoun fascio di fiori non ancora messi in un vaso, staval’ultima fotografia di Teodoro Weiss: bell’uomo di lar-ghe spalle, con occhi chiari, gran barba, grossi baffi,candidi, ben ravviati, di cui si sarebbe pensato che fosseun ministro dell’imperatore.

La signora si trattenne in città parecchi giorni. Erasempre in movimento, infaticabile; andava dai Vighi, daaltri conoscenti, andava a rivedere tutte le cose interes-santi; ma sempre voleva Fenice con sé. Nominava so-vente Teodoro, narrava la sua vita, descriveva il suo ca-

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rattere, ricordava la loro unione; ed in quanto ella dice-va, non vi era alcuna ombra luttuosa, come se il maritoavesse lasciata la terra senza passare attraverso la neramorte. Tra le carte che teneva nelle valige, era la lorofotografia da sposi, nella quale si vedeva una superbacoppia, egli biondo, ella di scurissime chiome, due se-midei del nord vestiti secondo la moda per l’anno 1880.In Italia Teodoro era venuto appena proclamato dottore:aveva passati molti mesi in Sicilia, a studiar le necropoliprimitive sui monti Iblei, solo con qualche guida di queipaesi, che non capiva nemmeno l’italiano. Pure da soloaveva fatte lunghe campagne di studi e di ricerche a Se-linunte, a Segesta. Quei soggiorni gli erano rimastinell’animo come impareggiabili avventure della sua esi-stenza; dopo il matrimonio aveva voluto ritornar subitoin quei luoghi con la sposa, felice di mostrarle soprattut-to certe valli rocciose piene d’innumerevoli celle sepol-crali da lui esplorate. L’esaltazione d’un viaggio amoro-so li aveva accompagnati attraverso le antiche solitudini,nelle povere case ove trovavano alloggio, lungo le sel-vatiche strade o su per i sentieri che si percorrevano adorso di asino. Teodoro aveva cercato Nicolicchio, ilmigliore degli uomini che l’avevano servito dieci anniinnanzi, pieno di fantasia, abile a tutto; ma non l’avevapiú trovato perchè era in America. I giorni piú meravi-gliosi di quel viaggio ella e lo sposo li avevano vissuti aSegesta, a Selinunte, presso i templi enormi, nel paesag-gio sfolgorante e deserto, col turbamento di trovarsi inun mondo rimasto fuori del tempo; ed a Selinunte era

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rattere, ricordava la loro unione; ed in quanto ella dice-va, non vi era alcuna ombra luttuosa, come se il maritoavesse lasciata la terra senza passare attraverso la neramorte. Tra le carte che teneva nelle valige, era la lorofotografia da sposi, nella quale si vedeva una superbacoppia, egli biondo, ella di scurissime chiome, due se-midei del nord vestiti secondo la moda per l’anno 1880.In Italia Teodoro era venuto appena proclamato dottore:aveva passati molti mesi in Sicilia, a studiar le necropoliprimitive sui monti Iblei, solo con qualche guida di queipaesi, che non capiva nemmeno l’italiano. Pure da soloaveva fatte lunghe campagne di studi e di ricerche a Se-linunte, a Segesta. Quei soggiorni gli erano rimastinell’animo come impareggiabili avventure della sua esi-stenza; dopo il matrimonio aveva voluto ritornar subitoin quei luoghi con la sposa, felice di mostrarle soprattut-to certe valli rocciose piene d’innumerevoli celle sepol-crali da lui esplorate. L’esaltazione d’un viaggio amoro-so li aveva accompagnati attraverso le antiche solitudini,nelle povere case ove trovavano alloggio, lungo le sel-vatiche strade o su per i sentieri che si percorrevano adorso di asino. Teodoro aveva cercato Nicolicchio, ilmigliore degli uomini che l’avevano servito dieci anniinnanzi, pieno di fantasia, abile a tutto; ma non l’avevapiú trovato perchè era in America. I giorni piú meravi-gliosi di quel viaggio ella e lo sposo li avevano vissuti aSegesta, a Selinunte, presso i templi enormi, nel paesag-gio sfolgorante e deserto, col turbamento di trovarsi inun mondo rimasto fuori del tempo; ed a Selinunte era

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antico anche il mare. Piú anziano di lei, Teodoro era poimorto a sessant’anni; fino al termine aveva conservatauna gioventú di spirito, una freschezza. Per lo studio siisolava come un cenobita; altrimenti era assai socievole,sonava il contrabbasso in un’orchestra d’amici, ricevevain casa i suoi studenti. Immancabilmente dedicava ognigiorno un’ora al lavoro manuale, facendosi le scarpe dasè. Non molto prima di andarsene aveva pubblicato un«Sizilianer Buch», le impressioni della sua prima cam-pagna archeologica, colorite, con le ombre dei primiabitatori dell’isola e con le opinioni di Nicolicchio.

Augusta veniva in Italia per religione del lavoro che ilmarito vi aveva compiuto, ma soprattutto per rivivere inqualche modo quel passato lieto e fecondo. TeodoroWeiss aveva avuto cordiale amicizia con parecchi italia-ni, e la signora toccava tutte le città ov’essi erano; avevapoi strette anche relazioni nuove; a Fenice si era affezio-nata vivamente, il loro vincolo era diverso da ogni altro.Piacevano alla signora Weiss il fervore che Fenice ave-va addosso, la sua sincerità, il suo bisogno di elevarsicon le letture e gli studi, la sua maniera di vivere all’uni-versità. Era anche una ragione di simpatia tra loro la co-noscenza che Fenice aveva della lingua e della letteratu-ra tedesca. Ogni volta la giovine amica la conducevaall’università, nella biblioteca, le faceva conoscere stu-denti e studentesse.

— Una bella faccia ha la vecchia scuola! – dicevaAugusta. – I buoni fàmuli, gli allegri ragazzi, le carte at-taccate ai muri: questo mi piace molto.

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antico anche il mare. Piú anziano di lei, Teodoro era poimorto a sessant’anni; fino al termine aveva conservatauna gioventú di spirito, una freschezza. Per lo studio siisolava come un cenobita; altrimenti era assai socievole,sonava il contrabbasso in un’orchestra d’amici, ricevevain casa i suoi studenti. Immancabilmente dedicava ognigiorno un’ora al lavoro manuale, facendosi le scarpe dasè. Non molto prima di andarsene aveva pubblicato un«Sizilianer Buch», le impressioni della sua prima cam-pagna archeologica, colorite, con le ombre dei primiabitatori dell’isola e con le opinioni di Nicolicchio.

Augusta veniva in Italia per religione del lavoro che ilmarito vi aveva compiuto, ma soprattutto per rivivere inqualche modo quel passato lieto e fecondo. TeodoroWeiss aveva avuto cordiale amicizia con parecchi italia-ni, e la signora toccava tutte le città ov’essi erano; avevapoi strette anche relazioni nuove; a Fenice si era affezio-nata vivamente, il loro vincolo era diverso da ogni altro.Piacevano alla signora Weiss il fervore che Fenice ave-va addosso, la sua sincerità, il suo bisogno di elevarsicon le letture e gli studi, la sua maniera di vivere all’uni-versità. Era anche una ragione di simpatia tra loro la co-noscenza che Fenice aveva della lingua e della letteratu-ra tedesca. Ogni volta la giovine amica la conducevaall’università, nella biblioteca, le faceva conoscere stu-denti e studentesse.

— Una bella faccia ha la vecchia scuola! – dicevaAugusta. – I buoni fàmuli, gli allegri ragazzi, le carte at-taccate ai muri: questo mi piace molto.

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Ella provava una compassione profonda per la picco-la fine donna che senza sua colpa si trovava in una vitasbagliata e coraggiosamente si agitava per andare innan-zi, riscattarsi. – Io che sono stata nella felice vita di Teo-doro e lui mi guardava come la sua regina, non possonemmeno immaginare la tua disgrazia. Ma tua madreperchè non ti capisce, non ti aiuta? – La causa segreta diogni male Fenice non l’aveva detta neanche a lei. Invecele aveva parlato di Graziano.

— Cosí – commentava la signora Weiss abbraccian-dola – il tuo cuoricino ha un poco di caldo.

Ella parlava continuamente; non perchè usasse molteparole ma perché discorreva di molte cose. Con l’amicaparlava di Vienna, dell’appartamento vicino all’univer-sità, che non aveva lasciato e dov’erano a migliaia i libridi Teodoro, dov’era il suo studio, con il berretto di stu-dente, i disegni fatti in Sicilia, le lauree honoris causa.Diceva del figlio, Rüdiger, avviato a diventare un gran-de avvocato; ma non era contenta di colei che avevasposata, una nobile senza dote, molto orgogliosa e rigi-da; lasciava comprendere un disaccordo insanabile tra lanuora e lei. – La famiglia dovrebbe essere il nostro rifu-gio sicuro, il nostro tempio, ma qualche volta questonon si può avere.

Raccontava pure del proprio padre: il maggiore difanteria Giovanni Salvatore Ritter; era stato calpestatoda un cavallo il 3 luglio del ’66 a Chlum. – Voi chiamatequesta la battaglia di Sadowa. – Era poi vissuto ancoradue anni, paralitico, senza voler piú sentire nemmeno un

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Ella provava una compassione profonda per la picco-la fine donna che senza sua colpa si trovava in una vitasbagliata e coraggiosamente si agitava per andare innan-zi, riscattarsi. – Io che sono stata nella felice vita di Teo-doro e lui mi guardava come la sua regina, non possonemmeno immaginare la tua disgrazia. Ma tua madreperchè non ti capisce, non ti aiuta? – La causa segreta diogni male Fenice non l’aveva detta neanche a lei. Invecele aveva parlato di Graziano.

— Cosí – commentava la signora Weiss abbraccian-dola – il tuo cuoricino ha un poco di caldo.

Ella parlava continuamente; non perchè usasse molteparole ma perché discorreva di molte cose. Con l’amicaparlava di Vienna, dell’appartamento vicino all’univer-sità, che non aveva lasciato e dov’erano a migliaia i libridi Teodoro, dov’era il suo studio, con il berretto di stu-dente, i disegni fatti in Sicilia, le lauree honoris causa.Diceva del figlio, Rüdiger, avviato a diventare un gran-de avvocato; ma non era contenta di colei che avevasposata, una nobile senza dote, molto orgogliosa e rigi-da; lasciava comprendere un disaccordo insanabile tra lanuora e lei. – La famiglia dovrebbe essere il nostro rifu-gio sicuro, il nostro tempio, ma qualche volta questonon si può avere.

Raccontava pure del proprio padre: il maggiore difanteria Giovanni Salvatore Ritter; era stato calpestatoda un cavallo il 3 luglio del ’66 a Chlum. – Voi chiamatequesta la battaglia di Sadowa. – Era poi vissuto ancoradue anni, paralitico, senza voler piú sentire nemmeno un

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accenno alla guerra con la Prussia, tanto era stata perdu-ta malamente in quella battaglia.

— Sono andata nel mio giardino antico – disse oraAugusta perchè nel viaggio si era spinta fino a Siracusa.– L’aria degli Iblei è sempre la piú miracolosa. – Poiaveva passate due settimane nell’isola d’Ischia; a Romaaveva fatte passeggiate nella Campagna; a Fiesole erastata in una villa piena di ragazzi, che erano già i nipotidi un amico di Teodoro, un archeologo italiano. In Italiaogni cosa le piaceva; dove c’erano difetti, non li volevavedere. E tutto il soggiorno doveva essere lieto, altri-menti non sarebbe stato un onore a Teodoro ma un torto.

Invitata a casa di Fenice, con tanto maggior piacereperchè il marito era in visita alle sue terre, Augusta ebbedell’appartamento la medesima impressione che ne ave-va avuta altri anni: grandi stanze impassibili, neutrali se-paravano quelle dove ciascuno dei due nemici convi-venti si chiudeva. Nella camera di Fenice vi era un pic-colo letto; ella aveva inoltre uno studio, tappezzato di li-bri, dove custodiva con cura i suoi quaderni, i sunti dellelezioni. La signora Weiss, sentendo ancora una voltacome non si potesse disfare ciò ch’era stato mal fatto,scosse il capo dicendo all’amica col suo aspro accento –Una gentile persona ancora tanto giovine! Peccato!

Come sempre, Fenice le mostrò il figlio. Ottavio par-lava già il tedesco. Sua madre gli ravviava i capelli, glirassettava la giacchetta; domandava ad Augusta – Comelo trovi? È cresciuto? Desidero che impari molte cosema che diventi anche un forte ragazzo. – La straniera

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accenno alla guerra con la Prussia, tanto era stata perdu-ta malamente in quella battaglia.

— Sono andata nel mio giardino antico – disse oraAugusta perchè nel viaggio si era spinta fino a Siracusa.– L’aria degli Iblei è sempre la piú miracolosa. – Poiaveva passate due settimane nell’isola d’Ischia; a Romaaveva fatte passeggiate nella Campagna; a Fiesole erastata in una villa piena di ragazzi, che erano già i nipotidi un amico di Teodoro, un archeologo italiano. In Italiaogni cosa le piaceva; dove c’erano difetti, non li volevavedere. E tutto il soggiorno doveva essere lieto, altri-menti non sarebbe stato un onore a Teodoro ma un torto.

Invitata a casa di Fenice, con tanto maggior piacereperchè il marito era in visita alle sue terre, Augusta ebbedell’appartamento la medesima impressione che ne ave-va avuta altri anni: grandi stanze impassibili, neutrali se-paravano quelle dove ciascuno dei due nemici convi-venti si chiudeva. Nella camera di Fenice vi era un pic-colo letto; ella aveva inoltre uno studio, tappezzato di li-bri, dove custodiva con cura i suoi quaderni, i sunti dellelezioni. La signora Weiss, sentendo ancora una voltacome non si potesse disfare ciò ch’era stato mal fatto,scosse il capo dicendo all’amica col suo aspro accento –Una gentile persona ancora tanto giovine! Peccato!

Come sempre, Fenice le mostrò il figlio. Ottavio par-lava già il tedesco. Sua madre gli ravviava i capelli, glirassettava la giacchetta; domandava ad Augusta – Comelo trovi? È cresciuto? Desidero che impari molte cosema che diventi anche un forte ragazzo. – La straniera

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Page 387: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

ammoní Ottavio: – Tu dovrai sempre amare molto la tuamamma. – Ed il ragazzo, sebbene timido, non avevasoggezione della maestosa signora; rispondeva facendodi sí con la testa, senza lasciar andare la mano che leaveva presa per guardar un anello ornato di un grossocammeo. Rimase finché la madre non lo rimandò a stu-diare.

Augusta stava rapidamente leggendo Senza terra;lodò il romanzo con le chiare e viventi figure dei conta-dini. L’altra le fece vedere il ritratto di Graziano in unarivista.

— Dunque, possiedi cose preziose per il tuo avvenire– disse la signora Weiss.

Fenice richiuse la rivista, la posò lontana da sè; quin-di volse di nuovo all’amica gli occhi azzurri, ed eranopieni di tristezza, rassegnati. – Graziano non resterà conme, ha la sua strada. Forse, una volta avrei abbandonatotutto per andare con lui, se mi avesse voluta. Ma perchèguastare anche la sua vita? Del resto, egli non vi ha maipensato un momento. Presto se ne andrà tranquillamen-te, senza nemmeno sapere che mi lascia. Ed è bene cheegli sia cosí e si tenga la libertà.

— La mia piccola Fenice ragiona molto forte – disseAugusta. – In estate devi sicuro venire in Austria. Ti hogià pregata tante volte. Anche Ottavio verrà.

Fenice si avvicinò alla poltrona ove sedeva la stranie-ra, le passò un braccio intorno alle spalle, avvicinando ilcapo al suo. Non poteva parlare. Aveva un pensiero con-fuso, ed infine le venne alle labbra: – Sei buona come

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ammoní Ottavio: – Tu dovrai sempre amare molto la tuamamma. – Ed il ragazzo, sebbene timido, non avevasoggezione della maestosa signora; rispondeva facendodi sí con la testa, senza lasciar andare la mano che leaveva presa per guardar un anello ornato di un grossocammeo. Rimase finché la madre non lo rimandò a stu-diare.

Augusta stava rapidamente leggendo Senza terra;lodò il romanzo con le chiare e viventi figure dei conta-dini. L’altra le fece vedere il ritratto di Graziano in unarivista.

— Dunque, possiedi cose preziose per il tuo avvenire– disse la signora Weiss.

Fenice richiuse la rivista, la posò lontana da sè; quin-di volse di nuovo all’amica gli occhi azzurri, ed eranopieni di tristezza, rassegnati. – Graziano non resterà conme, ha la sua strada. Forse, una volta avrei abbandonatotutto per andare con lui, se mi avesse voluta. Ma perchèguastare anche la sua vita? Del resto, egli non vi ha maipensato un momento. Presto se ne andrà tranquillamen-te, senza nemmeno sapere che mi lascia. Ed è bene cheegli sia cosí e si tenga la libertà.

— La mia piccola Fenice ragiona molto forte – disseAugusta. – In estate devi sicuro venire in Austria. Ti hogià pregata tante volte. Anche Ottavio verrà.

Fenice si avvicinò alla poltrona ove sedeva la stranie-ra, le passò un braccio intorno alle spalle, avvicinando ilcapo al suo. Non poteva parlare. Aveva un pensiero con-fuso, ed infine le venne alle labbra: – Sei buona come

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una mamma. – Si rialzò subito; allora Augusta si accor-se che piangeva.

I giorni passavano, la signora Weiss non si decidevapiú a partire, sebbene dicesse, coi mari del Mezzogiornoin mente, che l’Italia delle Alpi non era veramente Ita-lia. Dovette pure risolversi. Prima Fenice volle fare unagita con lei ed Ottavio per rimanere tutti assiemeun’intera giornata; andarono a vedere un’abbazia moltoantica, all’entrata d’una valle, sopra uno dei due montiche sorgevano improvvisi dalla pianura come i pilastridi quell’ingresso. Dopo un tratto di ferrovia bisognavasalire a piedi una lunga ed ardua strada in mezzo ai bo-schi, ma Augusta faceva con gioia una simile fatica. Ivecchi rugosi castagni avevano rimesse le foglie; si sen-tivano acque gorgogliare, uccelli far versi lieti, chiaman-do, sonando campanelli d’argento; sopra gli alberi eraun cielo fresco, e l’aria aveva una sorprendente legge-rezza. Ottavio andava su con la prudenza dei ragazzipallidi, che non dimenticano mai d’essere deboli; peròera molto contento. Sulla cima del monte, a misura chesi saliva, si vedeva farsi piú grande un’acropoli. Vi sor-gevano infatti costruzioni gagliarde che la coprivano in-teramente; erano le abitazioni dei monaci, i loro magaz-zini, le cisterne, le sepolture, la chiesa, ma avevano ilcolore della roccia su cui stavano, e le forme loro erte,disadorne, scavate da intagli verticali, erano quelle delmonte a cui si univano radicandosi coi muri nelle frattu-re della pietra. Forse un tempo vi eran vissuti vigorosimonaci armati, che non avevano timore di soldati nè di

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una mamma. – Si rialzò subito; allora Augusta si accor-se che piangeva.

I giorni passavano, la signora Weiss non si decidevapiú a partire, sebbene dicesse, coi mari del Mezzogiornoin mente, che l’Italia delle Alpi non era veramente Ita-lia. Dovette pure risolversi. Prima Fenice volle fare unagita con lei ed Ottavio per rimanere tutti assiemeun’intera giornata; andarono a vedere un’abbazia moltoantica, all’entrata d’una valle, sopra uno dei due montiche sorgevano improvvisi dalla pianura come i pilastridi quell’ingresso. Dopo un tratto di ferrovia bisognavasalire a piedi una lunga ed ardua strada in mezzo ai bo-schi, ma Augusta faceva con gioia una simile fatica. Ivecchi rugosi castagni avevano rimesse le foglie; si sen-tivano acque gorgogliare, uccelli far versi lieti, chiaman-do, sonando campanelli d’argento; sopra gli alberi eraun cielo fresco, e l’aria aveva una sorprendente legge-rezza. Ottavio andava su con la prudenza dei ragazzipallidi, che non dimenticano mai d’essere deboli; peròera molto contento. Sulla cima del monte, a misura chesi saliva, si vedeva farsi piú grande un’acropoli. Vi sor-gevano infatti costruzioni gagliarde che la coprivano in-teramente; erano le abitazioni dei monaci, i loro magaz-zini, le cisterne, le sepolture, la chiesa, ma avevano ilcolore della roccia su cui stavano, e le forme loro erte,disadorne, scavate da intagli verticali, erano quelle delmonte a cui si univano radicandosi coi muri nelle frattu-re della pietra. Forse un tempo vi eran vissuti vigorosimonaci armati, che non avevano timore di soldati nè di

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Page 389: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

banditi; ora non v’erano rimasti che vecchietti ai quali lastoffa consunta della tonaca pareva pesare eccessiva-mente.

Sotto le mura dell’abbazia scendeva da una parte ildosso boscoso, con un lembo di prato dove un servo lai-co dei monaci pascolava alcune pecore tosate; ma dallaparte opposta il monte cadeva a picco fino al fondo dellavalle: soltanto un basso muricciolo separava dal vuotopauroso una terrazza della roccia. Qui si era come so-spesi nell’aria, distanti dalla superficie della terra. El’aria aveva una perfetta trasparenza, la terra apparivanuova. Si vedeva la pianura sparsa di paesi, la valle trasponde verdi e morbide, della quale rigavano il fondo laferrovia ed una strada, accanto all’acqua lucente di unfiume. Tutto ciò era cosí rimpiccolito che faceva sorri-dere. Le Alpi, vicine, erano una folla di vette compostein una calma riposante, alcune bianche di neve contro ilcielo puro. Non si sentiva la primavera né altra stagionema soltanto un tempo felice. Il sole splendeva e scalda-va. Assai piú in basso che la terrazza qualche falco gira-va con ali immobili, mostrando l’immensità del vuoto.

Lontana, la vita degli altri giorni! Piccola e piattacome la pianura. Subito ciascuno si accorgeva d’esseremigliore che non credesse, e desiderava rimaner semprea quell’altezza. Come ascoltando una nobile musica, tut-ti i pensieri si facevano limpidi ed i sentimenti miglioriacquistavano forza. A Fenice ed alla signora Weiss laloro amicizia appariva piú bella. Stavano in piedi pressoil muricciolo dell’abisso; la poderosa straniera teneva

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banditi; ora non v’erano rimasti che vecchietti ai quali lastoffa consunta della tonaca pareva pesare eccessiva-mente.

Sotto le mura dell’abbazia scendeva da una parte ildosso boscoso, con un lembo di prato dove un servo lai-co dei monaci pascolava alcune pecore tosate; ma dallaparte opposta il monte cadeva a picco fino al fondo dellavalle: soltanto un basso muricciolo separava dal vuotopauroso una terrazza della roccia. Qui si era come so-spesi nell’aria, distanti dalla superficie della terra. El’aria aveva una perfetta trasparenza, la terra apparivanuova. Si vedeva la pianura sparsa di paesi, la valle trasponde verdi e morbide, della quale rigavano il fondo laferrovia ed una strada, accanto all’acqua lucente di unfiume. Tutto ciò era cosí rimpiccolito che faceva sorri-dere. Le Alpi, vicine, erano una folla di vette compostein una calma riposante, alcune bianche di neve contro ilcielo puro. Non si sentiva la primavera né altra stagionema soltanto un tempo felice. Il sole splendeva e scalda-va. Assai piú in basso che la terrazza qualche falco gira-va con ali immobili, mostrando l’immensità del vuoto.

Lontana, la vita degli altri giorni! Piccola e piattacome la pianura. Subito ciascuno si accorgeva d’esseremigliore che non credesse, e desiderava rimaner semprea quell’altezza. Come ascoltando una nobile musica, tut-ti i pensieri si facevano limpidi ed i sentimenti miglioriacquistavano forza. A Fenice ed alla signora Weiss laloro amicizia appariva piú bella. Stavano in piedi pressoil muricciolo dell’abisso; la poderosa straniera teneva

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vicina a sè l’altra donna, cosí sottile, stringendole unamano come per farle sentire che non l’avrebbe mai ab-bandonata.

— Domani sarò triste – disse Fenice.— Ora è la fine di maggio. Pochi mesi, poi Vienna.

Prometti che vieni sicuramente col tuo figlio.— Ottavio! – chiamò Fenice. Il ragazzo aveva trovato

qualche frammento d’una pietra istoriata e, seduto interra col cappelluccio mandato sulla nuca, lo studiava. –Verrai questa estate a Vienna con me? – gli chiese lamadre.

— Ich glaube! – rispose Ottavio arricciando il musoallegramente.

— È inteso – aggiunse Augusta. – Venite e dovete re-stare molto.

Fenice riprese a guardare nello spazio che aveva in-torno, lontano, facendo adagio il giro dell’orizzonte.Pensava: «Molto tempo. Un anno, degli anni, sempre».Il permesso di portarsi via il ragazzo lo poteva ottenere.Andar via voleva dire perdere del tutto Graziano, taglia-re questo filo, allontanarsi dalle ore vissute con lui, per-derne a poco a poco il ricordo. Anche lasciare l’univer-sità, la biblioteca, quei compagni, era una pena. Macom’era largo il cielo; come le montagne bianche brilla-vano nell’aria! Ella si sentiva decisa, decisa. Il mondoera grande e bello. La vita che aveva vissuta, stava tuttain uno stretto cerchio: bastava uscirne, non tornare piúalla casa finta, alla vita finta, alla città che non si scorge-va neppure, là in fondo alla pianura, sotto la luce forte.

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vicina a sè l’altra donna, cosí sottile, stringendole unamano come per farle sentire che non l’avrebbe mai ab-bandonata.

— Domani sarò triste – disse Fenice.— Ora è la fine di maggio. Pochi mesi, poi Vienna.

Prometti che vieni sicuramente col tuo figlio.— Ottavio! – chiamò Fenice. Il ragazzo aveva trovato

qualche frammento d’una pietra istoriata e, seduto interra col cappelluccio mandato sulla nuca, lo studiava. –Verrai questa estate a Vienna con me? – gli chiese lamadre.

— Ich glaube! – rispose Ottavio arricciando il musoallegramente.

— È inteso – aggiunse Augusta. – Venite e dovete re-stare molto.

Fenice riprese a guardare nello spazio che aveva in-torno, lontano, facendo adagio il giro dell’orizzonte.Pensava: «Molto tempo. Un anno, degli anni, sempre».Il permesso di portarsi via il ragazzo lo poteva ottenere.Andar via voleva dire perdere del tutto Graziano, taglia-re questo filo, allontanarsi dalle ore vissute con lui, per-derne a poco a poco il ricordo. Anche lasciare l’univer-sità, la biblioteca, quei compagni, era una pena. Macom’era largo il cielo; come le montagne bianche brilla-vano nell’aria! Ella si sentiva decisa, decisa. Il mondoera grande e bello. La vita che aveva vissuta, stava tuttain uno stretto cerchio: bastava uscirne, non tornare piúalla casa finta, alla vita finta, alla città che non si scorge-va neppure, là in fondo alla pianura, sotto la luce forte.

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Ora Fenice vedeva con meraviglia che cambiar vita eraindicibilmente facile, poichè bastava andar via.

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Ora Fenice vedeva con meraviglia che cambiar vita eraindicibilmente facile, poichè bastava andar via.

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1913

Pioggia continua, a volte dirotta. Le strade, a stentopraticabili, s’arrampicavano sui fianchi aspri delle mon-tagne, scendevano in fondo a strette valli accanto a tor-renti rabbiosi, attraversavano gole ove soffiava un ventogelido. Si vedevano pochi villaggi e s’incontrava pocagente, pastori macilenti che parevano sperduti, essi e leloro gregge; tristi gli uomini, triste la luce; dappertuttoun’aria di paese desolato, malato, inabitabile.

Graziano Farra proseguiva il viaggio con tenacia, sulvecchio cavallo ossuto, logoro anche nel pelo, il qualeandava come se avesse sempre camminato a quel modo;coperto di un mantello pesante col cappuccio, Grazianopercorreva quelle strade, prendeva l’acqua, anch’eglicome se avesse viaggiato sempre in una simile manieraed il cammino non dovesse piú finire. Per bagaglio nonaveva che un sacco con poche cose indispensabili, getta-to sul garrese della cavalcatura. La guida, in groppa adun cavalluccio piú piccolo ma giovine e vivace, lo pre-cedeva di pochi passi; raramente lo aspettava per dirgliqualche parola. Quest’uomo si riparava sotto un cappot-to non indossato, tirato sul capo, di lana ch’era statabianca e ricamata a vivi colori; aveva un paio di stivalitroppo grandi, ci aveva messi degli stracci nelle trombe

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Pioggia continua, a volte dirotta. Le strade, a stentopraticabili, s’arrampicavano sui fianchi aspri delle mon-tagne, scendevano in fondo a strette valli accanto a tor-renti rabbiosi, attraversavano gole ove soffiava un ventogelido. Si vedevano pochi villaggi e s’incontrava pocagente, pastori macilenti che parevano sperduti, essi e leloro gregge; tristi gli uomini, triste la luce; dappertuttoun’aria di paese desolato, malato, inabitabile.

Graziano Farra proseguiva il viaggio con tenacia, sulvecchio cavallo ossuto, logoro anche nel pelo, il qualeandava come se avesse sempre camminato a quel modo;coperto di un mantello pesante col cappuccio, Grazianopercorreva quelle strade, prendeva l’acqua, anch’eglicome se avesse viaggiato sempre in una simile manieraed il cammino non dovesse piú finire. Per bagaglio nonaveva che un sacco con poche cose indispensabili, getta-to sul garrese della cavalcatura. La guida, in groppa adun cavalluccio piú piccolo ma giovine e vivace, lo pre-cedeva di pochi passi; raramente lo aspettava per dirgliqualche parola. Quest’uomo si riparava sotto un cappot-to non indossato, tirato sul capo, di lana ch’era statabianca e ricamata a vivi colori; aveva un paio di stivalitroppo grandi, ci aveva messi degli stracci nelle trombe

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perchè l’acqua non entrasse. Ogni tanto Graziano guar-dava la testa della propria cavalcatura, su cui scorreva lapioggia, quelle orecchie ciondolanti, quella criniera aciuffi rosicchiati; canzonandosi tra sè, pensava ai bei ca-valli posseduti un tempo. Questa bestia l’aveva compra-ta a Scutari per poca moneta; e quando aveva fattol’acquisto, gli si era presentato l’uomo per insegnargli ilcammino, assisterlo nei pericoli, soprattutto difenderloin caso di aggressione, accompagnandolo fino a Valona.

Si chiamava Pali Doda, l’uomo; sapeva spiegarsi inun linguaggio che alla meglio rammentava il veneziano;aveva un piccolo cranio stretto dalla calotta albanese difeltro bianco, un piccolo viso rigato di cicatrici, con oc-chi aguzzi, baffi neri radi e spioventi: un ometto da nul-la, ma con un fare di contadino che qualche volta avessedata una mano ai briganti. Nella sciarpa sfilacciata av-volta intorno alla vita teneva infilati un pugnale e duebelle pistole damaschinate; gli stivali, da soldato turco,li aveva indubbiamente rubati. Nei passaggi piú sinistriil viaggiatore lo sorvegliava, toccando nella custodia dicuoio la propria pistola automatica.

Graziano aveva visto, alla fine dell’assedio di Scutari,i montenegrini impadronirsi della città; ora discendevagran parte dell’Albania per raggiungere il porto dovepotersi imbarcare. Di sera bisognava interrompere ilviaggio appena buio, e con quel tempo il buio venivapresto; perciò era necessario mettersi in camminoall’alba, fare soltanto una sosta molto breve mangiandoun po’ di pane sul bordo della strada mentre le bestie

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perchè l’acqua non entrasse. Ogni tanto Graziano guar-dava la testa della propria cavalcatura, su cui scorreva lapioggia, quelle orecchie ciondolanti, quella criniera aciuffi rosicchiati; canzonandosi tra sè, pensava ai bei ca-valli posseduti un tempo. Questa bestia l’aveva compra-ta a Scutari per poca moneta; e quando aveva fattol’acquisto, gli si era presentato l’uomo per insegnargli ilcammino, assisterlo nei pericoli, soprattutto difenderloin caso di aggressione, accompagnandolo fino a Valona.

Si chiamava Pali Doda, l’uomo; sapeva spiegarsi inun linguaggio che alla meglio rammentava il veneziano;aveva un piccolo cranio stretto dalla calotta albanese difeltro bianco, un piccolo viso rigato di cicatrici, con oc-chi aguzzi, baffi neri radi e spioventi: un ometto da nul-la, ma con un fare di contadino che qualche volta avessedata una mano ai briganti. Nella sciarpa sfilacciata av-volta intorno alla vita teneva infilati un pugnale e duebelle pistole damaschinate; gli stivali, da soldato turco,li aveva indubbiamente rubati. Nei passaggi piú sinistriil viaggiatore lo sorvegliava, toccando nella custodia dicuoio la propria pistola automatica.

Graziano aveva visto, alla fine dell’assedio di Scutari,i montenegrini impadronirsi della città; ora discendevagran parte dell’Albania per raggiungere il porto dovepotersi imbarcare. Di sera bisognava interrompere ilviaggio appena buio, e con quel tempo il buio venivapresto; perciò era necessario mettersi in camminoall’alba, fare soltanto una sosta molto breve mangiandoun po’ di pane sul bordo della strada mentre le bestie

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brucavano erba o masticavano una manciata di fieno.Una giornata succedeva all’altra e sempre si continuavaa viaggiare. Il cavallo di Graziano non affrettava mai ilpasso, però non si arrestava se non era fermato con leredini. Talvolta per passare la notte trovavano solamenteuna misera casa sperduta, dove pecore asini porci ave-vano miglior posto che gli uomini; nelle città, aggrappa-te alle montagne, fatte di case basse e di viuzze, di mi-nareti poveri e di comignoli dai quali le cicogne batteva-no il becco con rumor di legno, la guida procurava inve-ce l’ospitalità di qualche ricco turco ed il giovine dormi-va sopra un materasso posato sul pavimento, con unacoltre di seta. Ai guadi dei fiumi la corrente arrivava aiginocchi dei cavalieri, gorgogliando, spumeggiando, as-saliva i quadrupedi che ad ogni istante parevano doveressere travolti. Ogni sera Pali Doda indicava qua e là nelcielo uno strappo delle nuvole, dicendo: – Doman el sol.– E la mattina seguente ripartivano sotto la pioggia. Mail cammino l’albanese lo conosceva bene.

Graziano girava nei Balcani da parecchi mesi, essen-dovi venuto poco dopo lo scoppio di questa guerra con-tro i turchi. Aveva veduta la vittoria dei serbi a Kumano-vo, coi vincitori era entrato in Uskub; aveva raggiuntaMonastir, anch’essa occupata dai serbi; poi era disceso aSalonicco occupata dai greci, era andato alle linee bul-gare non molto lontane da Costantinopoli; durante latregua e quando era ricominciata la lotta, aveva percorsein ogni senso quelle province nelle quali s’eran riversatieserciti da tutti i paesi confinanti; aveva veduta Adria-

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brucavano erba o masticavano una manciata di fieno.Una giornata succedeva all’altra e sempre si continuavaa viaggiare. Il cavallo di Graziano non affrettava mai ilpasso, però non si arrestava se non era fermato con leredini. Talvolta per passare la notte trovavano solamenteuna misera casa sperduta, dove pecore asini porci ave-vano miglior posto che gli uomini; nelle città, aggrappa-te alle montagne, fatte di case basse e di viuzze, di mi-nareti poveri e di comignoli dai quali le cicogne batteva-no il becco con rumor di legno, la guida procurava inve-ce l’ospitalità di qualche ricco turco ed il giovine dormi-va sopra un materasso posato sul pavimento, con unacoltre di seta. Ai guadi dei fiumi la corrente arrivava aiginocchi dei cavalieri, gorgogliando, spumeggiando, as-saliva i quadrupedi che ad ogni istante parevano doveressere travolti. Ogni sera Pali Doda indicava qua e là nelcielo uno strappo delle nuvole, dicendo: – Doman el sol.– E la mattina seguente ripartivano sotto la pioggia. Mail cammino l’albanese lo conosceva bene.

Graziano girava nei Balcani da parecchi mesi, essen-dovi venuto poco dopo lo scoppio di questa guerra con-tro i turchi. Aveva veduta la vittoria dei serbi a Kumano-vo, coi vincitori era entrato in Uskub; aveva raggiuntaMonastir, anch’essa occupata dai serbi; poi era disceso aSalonicco occupata dai greci, era andato alle linee bul-gare non molto lontane da Costantinopoli; durante latregua e quando era ricominciata la lotta, aveva percorsein ogni senso quelle province nelle quali s’eran riversatieserciti da tutti i paesi confinanti; aveva veduta Adria-

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nopoli assediata e presa dai bulgari; infine si era portatoin Albania, a Scutari, ultimo luogo dove s’era sentito ru-mor di cannoni e mitragliatrici. La guerra: c’era vissutodentro. Aveva ascoltati i fragorosi bombardamenti e dinotte veduti i loro grandiosi fuochi; aveva attraversati ivillaggi distrutti, era stato nelle trincee, s’era trovatosotto il tiro delle mitragliatrici e delle artiglierie, avevaassistito ai combattimenti; aveva viste le truppe che an-davano in linea e quelle che ne ritornavano tenendo as-sai meno strada. Sul terreno delle battaglie aveva trovatii morti, che sempre, cosí abbandonati, facevano stupire;qualche volta, camminando al buio nei paesi in rovina oper la campagna guasta, aveva inciampato in molli sac-chi che erano quei morti. Ricordava soldati che cantava-no intorno ad una botte di vino tratta fuori da qualchecantina saccheggiata, e soldati che durante un alt dormi-vano come cose gettate in terra a mucchi. Uomini dicinque eserciti: sembravano tutti miserabili ad un modo.Morti, feriti, prigionieri, era difficile distinguere di chebandiera fossero. Anche le popolazioni in mezzo allequali era passato, appartenevano a parecchie nazioni di-verse; ma non si pensava fosse gente chiamata in unamaniera piuttosto che in un’altra: vecchie, ragazzi, lat-tanti in braccio alle madri, venditori, ragazze che guar-davano dietro le inferriate, contadini che si tiravano ap-presso una vacca, tutti di aspetto piuttosto gramo, pare-vano in ogni luogo gli stessi. E il disordine che avevanoattorno, la guerra, era dappertutto eguale.

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nopoli assediata e presa dai bulgari; infine si era portatoin Albania, a Scutari, ultimo luogo dove s’era sentito ru-mor di cannoni e mitragliatrici. La guerra: c’era vissutodentro. Aveva ascoltati i fragorosi bombardamenti e dinotte veduti i loro grandiosi fuochi; aveva attraversati ivillaggi distrutti, era stato nelle trincee, s’era trovatosotto il tiro delle mitragliatrici e delle artiglierie, avevaassistito ai combattimenti; aveva viste le truppe che an-davano in linea e quelle che ne ritornavano tenendo as-sai meno strada. Sul terreno delle battaglie aveva trovatii morti, che sempre, cosí abbandonati, facevano stupire;qualche volta, camminando al buio nei paesi in rovina oper la campagna guasta, aveva inciampato in molli sac-chi che erano quei morti. Ricordava soldati che cantava-no intorno ad una botte di vino tratta fuori da qualchecantina saccheggiata, e soldati che durante un alt dormi-vano come cose gettate in terra a mucchi. Uomini dicinque eserciti: sembravano tutti miserabili ad un modo.Morti, feriti, prigionieri, era difficile distinguere di chebandiera fossero. Anche le popolazioni in mezzo allequali era passato, appartenevano a parecchie nazioni di-verse; ma non si pensava fosse gente chiamata in unamaniera piuttosto che in un’altra: vecchie, ragazzi, lat-tanti in braccio alle madri, venditori, ragazze che guar-davano dietro le inferriate, contadini che si tiravano ap-presso una vacca, tutti di aspetto piuttosto gramo, pare-vano in ogni luogo gli stessi. E il disordine che avevanoattorno, la guerra, era dappertutto eguale.

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Nell’autunno fradicio, nell’inverno bianco di neve eghiacciato, poi tra il vento e la pioggia tempestosa dimarzo, Graziano aveva seguitato a moversi per la peni-sola, sulle ferrovie dove miseri treni aspettavano ore edore il passaggio dei convogli militari, in sella a ronzinisfiancati attraverso le campagne, portato da carri di sol-dati o carrette di contadini lungo le strade arate dalleruote d’ogni specie, mangiando alla peggio, perdendo lenotti, riposando come capitava, in una stazione od in uncortile, passando dalle città ove gli abitanti guardavanocon indifferenza gli invasori, ai paesi devastati ai qualitornava di nascosto qualcuno a cercare ciò che restavasotto le macerie. Nelle città, nei villaggi, nelle pianuregrige, in mezzo ai tetri monti, tutte le cose – anche laluce e l’aria – gli facevano sentire sempre un mondo alquale egli era estraneo. Ma forse voleva egli stesso, conl’animo, tenersene separato, assistendo a ciò che avveni-va come semplice spettatore. Sebbene talvolta credessedi trovarsi in quei luoghi da tempo remoto, i mesi eranpassati rapidamente. Aveva scritti i telegrammi e le cor-rispondenze per il giornale, sempre con febbrile fretta,in stanze di albergucci o sul tavolino traballante di unmeschino ufficio postale, al lume d’una candela, oppurein case rovinate, tra un va e vieni di soldati, tenendo ifogli sui ginocchi e facendosi luce con la lampadinaelettrica da tasca. I telegrammi dall’Italia che lo rag-giungevano in qualche tappa, lo trasferivano daun’estremità all’altra della penisola. S’era dato piena-mente al suo lavoro, al suo dovere, con certa soddisfa-

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Nell’autunno fradicio, nell’inverno bianco di neve eghiacciato, poi tra il vento e la pioggia tempestosa dimarzo, Graziano aveva seguitato a moversi per la peni-sola, sulle ferrovie dove miseri treni aspettavano ore edore il passaggio dei convogli militari, in sella a ronzinisfiancati attraverso le campagne, portato da carri di sol-dati o carrette di contadini lungo le strade arate dalleruote d’ogni specie, mangiando alla peggio, perdendo lenotti, riposando come capitava, in una stazione od in uncortile, passando dalle città ove gli abitanti guardavanocon indifferenza gli invasori, ai paesi devastati ai qualitornava di nascosto qualcuno a cercare ciò che restavasotto le macerie. Nelle città, nei villaggi, nelle pianuregrige, in mezzo ai tetri monti, tutte le cose – anche laluce e l’aria – gli facevano sentire sempre un mondo alquale egli era estraneo. Ma forse voleva egli stesso, conl’animo, tenersene separato, assistendo a ciò che avveni-va come semplice spettatore. Sebbene talvolta credessedi trovarsi in quei luoghi da tempo remoto, i mesi eranpassati rapidamente. Aveva scritti i telegrammi e le cor-rispondenze per il giornale, sempre con febbrile fretta,in stanze di albergucci o sul tavolino traballante di unmeschino ufficio postale, al lume d’una candela, oppurein case rovinate, tra un va e vieni di soldati, tenendo ifogli sui ginocchi e facendosi luce con la lampadinaelettrica da tasca. I telegrammi dall’Italia che lo rag-giungevano in qualche tappa, lo trasferivano daun’estremità all’altra della penisola. S’era dato piena-mente al suo lavoro, al suo dovere, con certa soddisfa-

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zione di vivere in una maniera avventurosa, lontano dalresto del mondo e dalla vita donde era venuto, giornoper giorno immerso in ciò che accadeva, nella guerra.Quale guerra? Non gli importava di pensare chi fosserocoloro che si battevano, né perchè lo facessero. La guer-ra. Adesso era finita ed egli andava all’Adriatico per tor-nar a casa.

A lunghi intervalli gli erano giunte lettere del nonno,di Gabriella. Il padre aveva rinunziato all’idea del matri-monio, allontanando da sè quella donna; ma nelle suecondizioni vi era un grave peggioramento; tra la clinica,i consulti, la casa, si era trascinato senza fiducia, sempretriste e taciturno. Era veramente ammalato. Alla malat-tia dello spirito, conseguente alla morte di Claudia, aquel sentirsi anch’egli un poco morto e cercare con an-sia la vita, si univa un male fisico, forse un’alterazionedelle arterie. S’era fatto visitare, ma non voleva che glisi parlasse di queste cose; e si curava senza volontà diguarire. In lui i segni di un’oscura decadenza si accen-tuavano sempre, le mosse incerte, la stanchezza, l’inde-cisione in tutto; allo studio, alla fatica del microscopionon reggeva piú; terribile era il fatto che non aveva piúpotuto fidarsi di sé nella sala operatoria. La famiglia so-spettava o indovinava: egli, da poco, s’era indotto aprendersi un periodo di congedo, senza confidarsi conalcuno. Graziano gli scriveva quando poteva; in rispostaaveva ricevute soltanto poche righe, d’una scrittura divecchio, in fondo a qualche lettera degli altri.

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zione di vivere in una maniera avventurosa, lontano dalresto del mondo e dalla vita donde era venuto, giornoper giorno immerso in ciò che accadeva, nella guerra.Quale guerra? Non gli importava di pensare chi fosserocoloro che si battevano, né perchè lo facessero. La guer-ra. Adesso era finita ed egli andava all’Adriatico per tor-nar a casa.

A lunghi intervalli gli erano giunte lettere del nonno,di Gabriella. Il padre aveva rinunziato all’idea del matri-monio, allontanando da sè quella donna; ma nelle suecondizioni vi era un grave peggioramento; tra la clinica,i consulti, la casa, si era trascinato senza fiducia, sempretriste e taciturno. Era veramente ammalato. Alla malat-tia dello spirito, conseguente alla morte di Claudia, aquel sentirsi anch’egli un poco morto e cercare con an-sia la vita, si univa un male fisico, forse un’alterazionedelle arterie. S’era fatto visitare, ma non voleva che glisi parlasse di queste cose; e si curava senza volontà diguarire. In lui i segni di un’oscura decadenza si accen-tuavano sempre, le mosse incerte, la stanchezza, l’inde-cisione in tutto; allo studio, alla fatica del microscopionon reggeva piú; terribile era il fatto che non aveva piúpotuto fidarsi di sé nella sala operatoria. La famiglia so-spettava o indovinava: egli, da poco, s’era indotto aprendersi un periodo di congedo, senza confidarsi conalcuno. Graziano gli scriveva quando poteva; in rispostaaveva ricevute soltanto poche righe, d’una scrittura divecchio, in fondo a qualche lettera degli altri.

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Infine il viaggiatore e la sua guida ebbero un tempomigliore. Se il cielo non s’era francamente rasserenato,il sole prese però a mostrarsi ogni tanto. Si allontanava-no dalle montagne, avanzando in una regione piú apertadove il terreno collinoso era meno ostile; li avvolgevaun tepore umido. Cominciarono ad incontrare, due o treper volta, dei soldati: avevano assai brutta apparenza,come infermi fuggiti dall’ospedale o da luoghi appesta-ti; le facce erano di fame e disperazione; senza scarpe,essi conservavano pochi resti dell’uniforme; a ciò chemancava, avevano sostituiti cenci presi chissà dove.Tuttavia si vedeva ancora ch’erano soldati e perciò face-vano un effetto piú triste. – Turchi! – aveva detto subitoPali Doda con espressione cattiva ed inquieta. Quei sol-dati, andando come anime erranti, avevano occhi febbri-li oppure senza sguardo. In groppa ad un asino passòuna donna, interamente avvolta in vesti nere e veli neri,piuttosto simile ad un grosso sacco, accompagnata apiedi da due contadini armati di lunghi vecchi fucili;camminavano in fretta come per ansietà di levarsi daqualche guaio. Nella campagna, coperta di pascoli ma-gri, a misura che Graziano avanzava, i soldati turchi di-vennero sempre piú numerosi. Se ne vedeva seduti suipendii in gruppi silenziosi; altri salivano in fila sul pro-filo d’una collina, lentamente. Ve n’era uno dentro unfosso, coricato sul ventre col viso tra le braccia: la suaimmobilità era quella che subito dice morte.

— Colera – spiegò l’albanese voltandosi dall’altraparte e sputando.

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Infine il viaggiatore e la sua guida ebbero un tempomigliore. Se il cielo non s’era francamente rasserenato,il sole prese però a mostrarsi ogni tanto. Si allontanava-no dalle montagne, avanzando in una regione piú apertadove il terreno collinoso era meno ostile; li avvolgevaun tepore umido. Cominciarono ad incontrare, due o treper volta, dei soldati: avevano assai brutta apparenza,come infermi fuggiti dall’ospedale o da luoghi appesta-ti; le facce erano di fame e disperazione; senza scarpe,essi conservavano pochi resti dell’uniforme; a ciò chemancava, avevano sostituiti cenci presi chissà dove.Tuttavia si vedeva ancora ch’erano soldati e perciò face-vano un effetto piú triste. – Turchi! – aveva detto subitoPali Doda con espressione cattiva ed inquieta. Quei sol-dati, andando come anime erranti, avevano occhi febbri-li oppure senza sguardo. In groppa ad un asino passòuna donna, interamente avvolta in vesti nere e veli neri,piuttosto simile ad un grosso sacco, accompagnata apiedi da due contadini armati di lunghi vecchi fucili;camminavano in fretta come per ansietà di levarsi daqualche guaio. Nella campagna, coperta di pascoli ma-gri, a misura che Graziano avanzava, i soldati turchi di-vennero sempre piú numerosi. Se ne vedeva seduti suipendii in gruppi silenziosi; altri salivano in fila sul pro-filo d’una collina, lentamente. Ve n’era uno dentro unfosso, coricato sul ventre col viso tra le braccia: la suaimmobilità era quella che subito dice morte.

— Colera – spiegò l’albanese voltandosi dall’altraparte e sputando.

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Poco oltre, due di quei soldati stavano seduti presso lastrada; uno era appoggiato col dorso ad una sponda er-bosa, teneva spalancata la bocca e fissi innanzi a sé nelvuoto occhi di vetro; da un angolo della bocca gli scen-deva un fil di bava; respirava ancora; vicino a lui, l’altrosi teneva un ginocchio con le mani, guardando con unbarlume di curiosità quegli uomini a cavallo che passa-vano. Ma ora tra le onde del terreno si scorgevano sol-dati ovunque, sdraiati, seduti, fermi in piedi, camminan-ti adagio in frotte slegate; anche quelli in moto mostra-vano di non saper assolutamente dove andare né chefare. Ogni tanto qualche altro morto. L’albanese, però,non cessava di badare con occhiate malevole e pauroseai vivi; aveva rallentato il passo della sua cavalcatura inmodo che la coda di questa sfiorava il muso del cavallodi Graziano. Si volse a dire: – Atenzion! No han da ma-gnur. I sassina. – Da tutti i turchi non si udiva venireuna voce; passò in silenzio anche un soldato lungo, a te-sta nuda, che correva agitando lunghe braccia, con visod’allucinato. Gente del paese non se n’era piú vista. Orapassò qualche vecchio carico di legna, qualche ragazzet-to, con l’aspetto patito che gli abitanti avevano quasitutti. E spuntarono dei minareti.

Questa città, ancora piú rustica e meschina che le al-tre, era piena di soldati; sebbene il pomeriggio fosse ap-pena in principio, Graziano si volle fermare finoall’indomani. L’esercito battuto sul Vardar ed a Mona-stir, tagliato fuori dall’altre province dell’impero otto-mano, s’era smembrato, s’era sparso, forse con la spe-

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Poco oltre, due di quei soldati stavano seduti presso lastrada; uno era appoggiato col dorso ad una sponda er-bosa, teneva spalancata la bocca e fissi innanzi a sé nelvuoto occhi di vetro; da un angolo della bocca gli scen-deva un fil di bava; respirava ancora; vicino a lui, l’altrosi teneva un ginocchio con le mani, guardando con unbarlume di curiosità quegli uomini a cavallo che passa-vano. Ma ora tra le onde del terreno si scorgevano sol-dati ovunque, sdraiati, seduti, fermi in piedi, camminan-ti adagio in frotte slegate; anche quelli in moto mostra-vano di non saper assolutamente dove andare né chefare. Ogni tanto qualche altro morto. L’albanese, però,non cessava di badare con occhiate malevole e pauroseai vivi; aveva rallentato il passo della sua cavalcatura inmodo che la coda di questa sfiorava il muso del cavallodi Graziano. Si volse a dire: – Atenzion! No han da ma-gnur. I sassina. – Da tutti i turchi non si udiva venireuna voce; passò in silenzio anche un soldato lungo, a te-sta nuda, che correva agitando lunghe braccia, con visod’allucinato. Gente del paese non se n’era piú vista. Orapassò qualche vecchio carico di legna, qualche ragazzet-to, con l’aspetto patito che gli abitanti avevano quasitutti. E spuntarono dei minareti.

Questa città, ancora piú rustica e meschina che le al-tre, era piena di soldati; sebbene il pomeriggio fosse ap-pena in principio, Graziano si volle fermare finoall’indomani. L’esercito battuto sul Vardar ed a Mona-stir, tagliato fuori dall’altre province dell’impero otto-mano, s’era smembrato, s’era sparso, forse con la spe-

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ranza di trovar salvezza avvicinandosi al mare. Ma nellamisera regione i viveri erano scarsi, la popolazione liaveva nascosti; quei resti di reggimenti erano presto ca-duti in preda alla fame, non trovavano ricovero, nessunoli aiutava; ciò che si poteva rubare, in poco tempo erastato consumato; il rigido inverno aveva accresciute lesofferenze, malattie contagiose si propagavano rapida-mente. Adesso, sopra vasti territori, quello ch’era statoun esercito si disfaceva, abbandonato a se stesso, senzaalcuna speranza, vagava in agonia, moriva incancrenito.Da mesi. Nella città gli abitanti stavan chiusi in casa: ipochi uomini o ragazzi che andavano attorno, avevanomosse, sguardi come in paese invaso da nemici e dallapeste. I laceri soldati, morsi dalla fame come lupi, tre-manti di febbre, andavano su e giú per le viuzze, oppuregiacevano a terra nei cortili intorno alle moschee; neglistrappi dei vestimenti mostravano carni livide; pochiavevano ancora il fucile, le giberne, ma quasi tutti porta-vano al fianco la baionetta. Che venivano a fare in città?Arrivavano, tornavan via, reggendosi a stento. Tra lorosi riconoscevano degli ufficiali, anch’essi laceri, conbarbe mal cresciute, ed i soldati non li guardavano. Conun ufficiale giovine, assai pallido, ravvolto in un buonmantello, Graziano provò a parlare; ma colui, come unoche camminasse senza essere del tutto sveglio, si allon-tanò dopo aver mormorato: – Allez au Commandement.– Esisteva ancora un Comando? Vi era anche un ospeda-le, negli stanzoni di un grande e basso fabbricato; i ma-lati stavano in gabbie di legno a tre o quattro piani, qua-

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ranza di trovar salvezza avvicinandosi al mare. Ma nellamisera regione i viveri erano scarsi, la popolazione liaveva nascosti; quei resti di reggimenti erano presto ca-duti in preda alla fame, non trovavano ricovero, nessunoli aiutava; ciò che si poteva rubare, in poco tempo erastato consumato; il rigido inverno aveva accresciute lesofferenze, malattie contagiose si propagavano rapida-mente. Adesso, sopra vasti territori, quello ch’era statoun esercito si disfaceva, abbandonato a se stesso, senzaalcuna speranza, vagava in agonia, moriva incancrenito.Da mesi. Nella città gli abitanti stavan chiusi in casa: ipochi uomini o ragazzi che andavano attorno, avevanomosse, sguardi come in paese invaso da nemici e dallapeste. I laceri soldati, morsi dalla fame come lupi, tre-manti di febbre, andavano su e giú per le viuzze, oppuregiacevano a terra nei cortili intorno alle moschee; neglistrappi dei vestimenti mostravano carni livide; pochiavevano ancora il fucile, le giberne, ma quasi tutti porta-vano al fianco la baionetta. Che venivano a fare in città?Arrivavano, tornavan via, reggendosi a stento. Tra lorosi riconoscevano degli ufficiali, anch’essi laceri, conbarbe mal cresciute, ed i soldati non li guardavano. Conun ufficiale giovine, assai pallido, ravvolto in un buonmantello, Graziano provò a parlare; ma colui, come unoche camminasse senza essere del tutto sveglio, si allon-tanò dopo aver mormorato: – Allez au Commandement.– Esisteva ancora un Comando? Vi era anche un ospeda-le, negli stanzoni di un grande e basso fabbricato; i ma-lati stavano in gabbie di legno a tre o quattro piani, qua-

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si come emigranti in un piroscafo, coperti di cenci, den-tro un denso odore di morte. Un medico militare, vec-chio, di bassa statura, pressoché gobbo, con un nasoadunco sopra una barba riccia, agitando mani sporchedisse a Graziano che non c’erano piú medicine né bendené infermieri. Poichè guardava continuamente fuori del-le finestre, sembrava che pensasse a fuggire.

La sera, nella casa dove Graziano aveva avuto allog-gio ed un po’ di cibo, venne a cercarlo Pali Doda. Di-chiarò con gesti nervosi che non intendeva proseguire;non aveva previsto di capitar tra quei soldati; era già sta-ta uccisa molta gente, e per il compenso pattuito eglinon voleva correre ancora quel rischio. Il giovine rispo-se che tornasse pure indietro. Allora Pali Doda pretese ilcompenso intero egualmente, perchè la giornata era sta-ta troppo pericolosa e perchè ritornando doveva passarenegli stessi luoghi. Graziano fu generoso ma tutto il de-naro non lo diede.

— Viagiar ti solo? – domandò l’albanese come presa-gendogli una triste fine. Se poteva contare anche sopraun regalo, lo accompagnava fino a Valona. Il regalo fupromesso, la guida assicurò che prima dell’alba sarebbevenuta a svegliarlo; poi non comparve. Graziano temevad’averci rimessa la cavalcatura, invece la trovò e si rimi-se in cammino senz’altro, da solo. Non gli restava chequel giorno di viaggio. Sotto il cielo nuvoloso la luceera livida, l’aria fredda; nella campagna, dove si vede-vano terreni rotti e sterili, pascoli umidi, campi lavoratipoveramente, i soldati ricominciavano qua e là a mover-

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si come emigranti in un piroscafo, coperti di cenci, den-tro un denso odore di morte. Un medico militare, vec-chio, di bassa statura, pressoché gobbo, con un nasoadunco sopra una barba riccia, agitando mani sporchedisse a Graziano che non c’erano piú medicine né bendené infermieri. Poichè guardava continuamente fuori del-le finestre, sembrava che pensasse a fuggire.

La sera, nella casa dove Graziano aveva avuto allog-gio ed un po’ di cibo, venne a cercarlo Pali Doda. Di-chiarò con gesti nervosi che non intendeva proseguire;non aveva previsto di capitar tra quei soldati; era già sta-ta uccisa molta gente, e per il compenso pattuito eglinon voleva correre ancora quel rischio. Il giovine rispo-se che tornasse pure indietro. Allora Pali Doda pretese ilcompenso intero egualmente, perchè la giornata era sta-ta troppo pericolosa e perchè ritornando doveva passarenegli stessi luoghi. Graziano fu generoso ma tutto il de-naro non lo diede.

— Viagiar ti solo? – domandò l’albanese come presa-gendogli una triste fine. Se poteva contare anche sopraun regalo, lo accompagnava fino a Valona. Il regalo fupromesso, la guida assicurò che prima dell’alba sarebbevenuta a svegliarlo; poi non comparve. Graziano temevad’averci rimessa la cavalcatura, invece la trovò e si rimi-se in cammino senz’altro, da solo. Non gli restava chequel giorno di viaggio. Sotto il cielo nuvoloso la luceera livida, l’aria fredda; nella campagna, dove si vede-vano terreni rotti e sterili, pascoli umidi, campi lavoratipoveramente, i soldati ricominciavano qua e là a mover-

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si, ed in qualche luogo fumavano ancora i fuochi da loroaccesi. Guardando gli uomini piú vicini alla strada comeli avevan fatti la tenebra ed il freddo della notte, Grazia-no aveva l’idea di un campo di battaglia dal quale i mor-ti si venissero rialzando. E di nuovo cadevano sotto ilsuo sguardo cadaveri ed uomini che in mezzo alla cam-pagna vivevano gli ultimi loro momenti; di nuovo glipassavano accanto malati in delirio che andavano senzasaper dove, fantasmi coperti di uniformi stracciate.Qualcuno, che conservava piú forza vitale, aveva pen-sieri malvagi negli occhi che fissava sul giovine stranie-ro, solo, il quale se ne andava a cavallo. Graziano tene-va sfibbiata la custodia della pistola. Il cavallo cammi-nava sempre col suo passo rassegnato.

Col crescere della distanza dalla città, i soldati diveni-vano piú rari; per qualche tratto sparivano, poi ve n’eraancora; infine parve non esservi altro che le onde delterreno. All’improvviso, pochi passi innanzi a Graziano,due di quelle figure balzaron su da un riparo, una bassasponda della strada; a salti, con gambe malferme e gestisgangherati, si gettarono incontro al viaggiatore. L’unodei turchi, alto, con la pelle del viso tirata sulle ossa, ve-stito di un largo caffettano, sventolava una baionettamostrando di volersene certamente servire; l’altro, piut-tosto gonfio che grasso, faceva gran fatica a moversi malanciò un sasso e dopo sollevò un randello che trascina-va. Nella loro lingua pronunziavano parole minacciose,come spendendo l’ultimo fiato. Il cavallo, alzata goffa-mente la testa, prese un trotto fiacco. Con movimenti

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si, ed in qualche luogo fumavano ancora i fuochi da loroaccesi. Guardando gli uomini piú vicini alla strada comeli avevan fatti la tenebra ed il freddo della notte, Grazia-no aveva l’idea di un campo di battaglia dal quale i mor-ti si venissero rialzando. E di nuovo cadevano sotto ilsuo sguardo cadaveri ed uomini che in mezzo alla cam-pagna vivevano gli ultimi loro momenti; di nuovo glipassavano accanto malati in delirio che andavano senzasaper dove, fantasmi coperti di uniformi stracciate.Qualcuno, che conservava piú forza vitale, aveva pen-sieri malvagi negli occhi che fissava sul giovine stranie-ro, solo, il quale se ne andava a cavallo. Graziano tene-va sfibbiata la custodia della pistola. Il cavallo cammi-nava sempre col suo passo rassegnato.

Col crescere della distanza dalla città, i soldati diveni-vano piú rari; per qualche tratto sparivano, poi ve n’eraancora; infine parve non esservi altro che le onde delterreno. All’improvviso, pochi passi innanzi a Graziano,due di quelle figure balzaron su da un riparo, una bassasponda della strada; a salti, con gambe malferme e gestisgangherati, si gettarono incontro al viaggiatore. L’unodei turchi, alto, con la pelle del viso tirata sulle ossa, ve-stito di un largo caffettano, sventolava una baionettamostrando di volersene certamente servire; l’altro, piut-tosto gonfio che grasso, faceva gran fatica a moversi malanciò un sasso e dopo sollevò un randello che trascina-va. Nella loro lingua pronunziavano parole minacciose,come spendendo l’ultimo fiato. Il cavallo, alzata goffa-mente la testa, prese un trotto fiacco. Con movimenti

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già prima pensati, assai pronti, Graziano estrasse la pi-stola, sparò contro l’uomo della baionetta il quale non fucolpito ma si fermò; sparò contro l’altro e lo vide cade-re. Intanto l’animale passò oltre. Graziano si rivolse te-nendo sotto mira il soldato dell’arma, mentre la cavalca-tura continuava il trotto da tacchino; potè per qualcheistante vedere i due: l’uomo gonfio, ferito ad una gambao ad un piede, stava rizzandosi sopra un fianco; il com-pagno scagliò la baionetta sulle orme del cavallo, manon poté mandarla lontano. Poi la strada scendeva ripi-damente una costa e non c’era piú nessuno.

Prima di riporre la pistola nella custodia, Grazianosostituí le cartucce sparate. Aveva l’impressione chequei moribondi non altro avessero voluto che trascinarlonella morte con loro. Giunse all’ultimo fiume da attra-versare, largo, pieno, tra rive squallide; vi era un rozzotraghetto manovrato da molta gente di fosca apparenza,la quale richiese un compenso assai alto; avendo pagatoimpassibilmente, il giovine col suo quadrupede fu pas-sato senz’altro danno. Cominciava adesso una pianuravasta, già piú vicina al mare, ma i paesi stavano versol’interno sopra colline; trovando qualche varco nellenubi, il sole faceva luccicare specchi di paludi, in un si-lenzio inerte. Però si vedevano con qualche frequenzagregge al pascolo, col pastore in mezzo immobile; si in-contravano sulla strada uomini, ragazzi, donne, famiglieintere, tutti a dorso d’asino o in groppa a cavallucci,nessuno mai solo, ogni banda in fila. La donne, ravvoltein quel nero, stoffe e veli, che nascondeva anche la fac-

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già prima pensati, assai pronti, Graziano estrasse la pi-stola, sparò contro l’uomo della baionetta il quale non fucolpito ma si fermò; sparò contro l’altro e lo vide cade-re. Intanto l’animale passò oltre. Graziano si rivolse te-nendo sotto mira il soldato dell’arma, mentre la cavalca-tura continuava il trotto da tacchino; potè per qualcheistante vedere i due: l’uomo gonfio, ferito ad una gambao ad un piede, stava rizzandosi sopra un fianco; il com-pagno scagliò la baionetta sulle orme del cavallo, manon poté mandarla lontano. Poi la strada scendeva ripi-damente una costa e non c’era piú nessuno.

Prima di riporre la pistola nella custodia, Grazianosostituí le cartucce sparate. Aveva l’impressione chequei moribondi non altro avessero voluto che trascinarlonella morte con loro. Giunse all’ultimo fiume da attra-versare, largo, pieno, tra rive squallide; vi era un rozzotraghetto manovrato da molta gente di fosca apparenza,la quale richiese un compenso assai alto; avendo pagatoimpassibilmente, il giovine col suo quadrupede fu pas-sato senz’altro danno. Cominciava adesso una pianuravasta, già piú vicina al mare, ma i paesi stavano versol’interno sopra colline; trovando qualche varco nellenubi, il sole faceva luccicare specchi di paludi, in un si-lenzio inerte. Però si vedevano con qualche frequenzagregge al pascolo, col pastore in mezzo immobile; si in-contravano sulla strada uomini, ragazzi, donne, famiglieintere, tutti a dorso d’asino o in groppa a cavallucci,nessuno mai solo, ogni banda in fila. La donne, ravvoltein quel nero, stoffe e veli, che nascondeva anche la fac-

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cia, somigliavano a penitenti, a schiave, a donne rubate;gli uomini, col viso della malaria, con i loro costumi efucili, facevan pensare a giganti ammalati; presso pove-re abitazioni solitarie erano dei bambini col ventre gon-fio, gialli. La strada si perdette dentro una delle paludied il cavallo continuò ad andare con l’acqua fino allespalle; in quest’acqua stagnante si riflettevano luci ros-sastre del tramonto. Era sera quando Graziano vide ilmare, poi la baia di Valona, poi i minareti della città,dove appariva qualche lumicino.

A Valona, lasciato in una stalla il cavallo che l’indo-mani avrebbe venduto, si cacciò nei corridoi del bazar,tra le botteghe meschinelle, le beccherie infestonate disanguinante carne; andò innanzi al buio tra basse caseche sui comignoli portavano quei nidi spinosi delle cico-gne; arrivò al Consolato italiano. Il console, ch’egli ve-deva per la prima volta, diede qualche segno di turba-mento. Disse che da una settimana era giunto un tele-gramma del deputato Farra, il quale pregava di dargliuna notizia; una notizia non buona, anzi, molto triste; sifacesse coraggio; il professore Sisto Farra era mancatoimprovvisamente. Graziano sentí un urto brutale nel pet-to; ma nel primo istante gli parve di non comprenderebene ciò che udiva, o di non potervi credere. Suo padremorto! Già giunto alla fine, scomparso, entratonell’oscuro silenzio della morte! Graziano sedeva ac-canto al console sopra un divano; chinò la testa, sforzan-dosi di capire interamente ciò che era avvenuto, la mortedi suo padre. Ma perchè era sparito cosí all’improvviso?

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cia, somigliavano a penitenti, a schiave, a donne rubate;gli uomini, col viso della malaria, con i loro costumi efucili, facevan pensare a giganti ammalati; presso pove-re abitazioni solitarie erano dei bambini col ventre gon-fio, gialli. La strada si perdette dentro una delle paludied il cavallo continuò ad andare con l’acqua fino allespalle; in quest’acqua stagnante si riflettevano luci ros-sastre del tramonto. Era sera quando Graziano vide ilmare, poi la baia di Valona, poi i minareti della città,dove appariva qualche lumicino.

A Valona, lasciato in una stalla il cavallo che l’indo-mani avrebbe venduto, si cacciò nei corridoi del bazar,tra le botteghe meschinelle, le beccherie infestonate disanguinante carne; andò innanzi al buio tra basse caseche sui comignoli portavano quei nidi spinosi delle cico-gne; arrivò al Consolato italiano. Il console, ch’egli ve-deva per la prima volta, diede qualche segno di turba-mento. Disse che da una settimana era giunto un tele-gramma del deputato Farra, il quale pregava di dargliuna notizia; una notizia non buona, anzi, molto triste; sifacesse coraggio; il professore Sisto Farra era mancatoimprovvisamente. Graziano sentí un urto brutale nel pet-to; ma nel primo istante gli parve di non comprenderebene ciò che udiva, o di non potervi credere. Suo padremorto! Già giunto alla fine, scomparso, entratonell’oscuro silenzio della morte! Graziano sedeva ac-canto al console sopra un divano; chinò la testa, sforzan-dosi di capire interamente ciò che era avvenuto, la mortedi suo padre. Ma perchè era sparito cosí all’improvviso?

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Domandò se si sapesse com’era morto. Il console glimostrò il telegramma, dove non era detto nient’altro.Lettere non n’erano arrivate. Guardando la data, di tantigiorni innanzi, Graziano vide come quell’avvenimentoera già a qualche distanza nel tempo, cosa passata. An-cora giovine, di maniere fini, il console mise una manosopra una spalla del visitatore, confortandolo con simpa-tia. Rialzato il capo, Graziano volse lo sguardo allo stu-dio ove si trovava, rischiarato soltanto da una lampada apetrolio; uno scaffale di libri, il ritratto del re d’Italia,una carta d’Europa, trofei di armi albanesi. Tutto eranera tristezza.

Non accettò l’invito a pranzo; voleva stare solo. Andòsubito a telegrafare a casa. Uscito dall’ufficio, che erada villaggio, si avviò verso il margine dell’abitato per-correndo viuzze buie, in un’aria anch’essa da villaggio,tra capre e pecore che rientravano nelle strette case,sfiorando ombre di uomini, passando davanti a piccoleporte dalle quali veniva odore di cucina selvatica.Dall’ultima abitazione davanti alla quale passò, giunge-va il vagito rapido e rabbioso di un bambino di pochigiorni. Dopo, Graziano andò per una strada molle difango, incontrando ancora ombre di gente a cavallo,qualche cane inquieto; nell’oscurità intravvedeva ramistorti di fichi e gruppi di cipressi. Ripensava che la mor-te di suo padre era accaduta già da sette giorni: per que-sto avvenimento – dato l’avviso ai suoi che ritornava –egli non aveva da fare nulla, non poteva fare nulla.Come era morto? Provava un’ansietà di sapere questo.

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Domandò se si sapesse com’era morto. Il console glimostrò il telegramma, dove non era detto nient’altro.Lettere non n’erano arrivate. Guardando la data, di tantigiorni innanzi, Graziano vide come quell’avvenimentoera già a qualche distanza nel tempo, cosa passata. An-cora giovine, di maniere fini, il console mise una manosopra una spalla del visitatore, confortandolo con simpa-tia. Rialzato il capo, Graziano volse lo sguardo allo stu-dio ove si trovava, rischiarato soltanto da una lampada apetrolio; uno scaffale di libri, il ritratto del re d’Italia,una carta d’Europa, trofei di armi albanesi. Tutto eranera tristezza.

Non accettò l’invito a pranzo; voleva stare solo. Andòsubito a telegrafare a casa. Uscito dall’ufficio, che erada villaggio, si avviò verso il margine dell’abitato per-correndo viuzze buie, in un’aria anch’essa da villaggio,tra capre e pecore che rientravano nelle strette case,sfiorando ombre di uomini, passando davanti a piccoleporte dalle quali veniva odore di cucina selvatica.Dall’ultima abitazione davanti alla quale passò, giunge-va il vagito rapido e rabbioso di un bambino di pochigiorni. Dopo, Graziano andò per una strada molle difango, incontrando ancora ombre di gente a cavallo,qualche cane inquieto; nell’oscurità intravvedeva ramistorti di fichi e gruppi di cipressi. Ripensava che la mor-te di suo padre era accaduta già da sette giorni: per que-sto avvenimento – dato l’avviso ai suoi che ritornava –egli non aveva da fare nulla, non poteva fare nulla.Come era morto? Provava un’ansietà di sapere questo.

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Pensava a Gabriella, al vecchio nonno. Era pieno di undolore pesante; e la certezza che il padre era morto, siuniva sempre ad una meraviglia, come se non riuscisse acredervi. Pure, aveva ben sentito negli anni scorsi che lasorte stava compiendo un’altra opera malvagia; ed oragli sembrava d’avere visto sempre dove il padre andava.Provava rimorso d’essersi allontanato da casa. Non po-terlo piú ritrovare! Si domandava anche se non si fosse-ro comportati male, se non fossero stati ingiusti, loro, ifigli, contrastando quel matrimonio. Povero babbo! Ilbabbo: questo nome aveva sempre avuto in casa un suo-no caldo ed incoraggiante. La forza che si sentiva in luinei bei tempi, era soltanto capace di fare del bene. Gra-ziano ricordava come lo aveva amato da fanciullo, daragazzo, e come n’era stato ricambiato. Lo rivedeva inepoche diverse, in ore importanti; lo rivedeva vivere,sempre al lavoro, sempre con alti pensieri. L’estate incui era andato al congresso di Jena, ritornandone con-tento di sé, avvolto d’onore... Il suo sguardo serio e buo-no dietro gli occhiali... Nello studio della clinica, col cà-mice bianco indosso, era piú bello che in ogni altroaspetto. Quanti infermi aveva curati, sempre con impe-gno, con bontà, ogni giorno! Ora, tutto era già finito;anch’egli stava, presso la madre, nel grande camposan-to. Una volta, sotto i vecchi larici dell’Amistà, gli avevadetto di non essere diventato ciò che voleva. Non vi erariuscito, infatti. E la fine era stata cosí pietosa. Perchètutto questo? Per niente. Non vi era un perchè, nessunaragione.

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Pensava a Gabriella, al vecchio nonno. Era pieno di undolore pesante; e la certezza che il padre era morto, siuniva sempre ad una meraviglia, come se non riuscisse acredervi. Pure, aveva ben sentito negli anni scorsi che lasorte stava compiendo un’altra opera malvagia; ed oragli sembrava d’avere visto sempre dove il padre andava.Provava rimorso d’essersi allontanato da casa. Non po-terlo piú ritrovare! Si domandava anche se non si fosse-ro comportati male, se non fossero stati ingiusti, loro, ifigli, contrastando quel matrimonio. Povero babbo! Ilbabbo: questo nome aveva sempre avuto in casa un suo-no caldo ed incoraggiante. La forza che si sentiva in luinei bei tempi, era soltanto capace di fare del bene. Gra-ziano ricordava come lo aveva amato da fanciullo, daragazzo, e come n’era stato ricambiato. Lo rivedeva inepoche diverse, in ore importanti; lo rivedeva vivere,sempre al lavoro, sempre con alti pensieri. L’estate incui era andato al congresso di Jena, ritornandone con-tento di sé, avvolto d’onore... Il suo sguardo serio e buo-no dietro gli occhiali... Nello studio della clinica, col cà-mice bianco indosso, era piú bello che in ogni altroaspetto. Quanti infermi aveva curati, sempre con impe-gno, con bontà, ogni giorno! Ora, tutto era già finito;anch’egli stava, presso la madre, nel grande camposan-to. Una volta, sotto i vecchi larici dell’Amistà, gli avevadetto di non essere diventato ciò che voleva. Non vi erariuscito, infatti. E la fine era stata cosí pietosa. Perchètutto questo? Per niente. Non vi era un perchè, nessunaragione.

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Page 407: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

Accanto a Graziano passò un uomo che rientrava inritardo cacciandosi innanzi un asino carico. Ormai ilgiovine s’era avvezzo all’oscurità ed intorno a sè scor-geva la campagna con muriccioli e siepi; non si era sco-stato molto dalla città, udiva giungerne belati, qualchevoce; voltandosi indietro, intravvedeva i minareti; in unmucchio di case si mosse la luce d’una lanterna. Da unlato la campagna era chiusa da monti, dall’altro si allar-gava la baia con un’isola nera nel mezzo. Nuvole nereviaggiavano basse coprendo e scoprendo qualche stella.Anche qui tutte le cose gli erano straniere, aria, odori,rumori. Davano il senso di un paese sperduto. E per lagente che ci viveva sempre, questo era il mondo. In real-tà era mondo, un palmo della terra, che girava nel vuotocon le sue montagne, col mare, con l’isola e con le nu-vole intorno. Le creature umane vi nascevano, come gliagnelli e le cicogne; molte vi trascorrevano la vita inte-ra, senza veder altro, finchè la morte le dava ad un lem-bo di terreno grande come la loro cassa male inchiodata,a quattro passi di distanza dalla strada per cui erano an-dati innanzi e indietro.

Nella mente di Graziano era il ricordo dei luoghi daiquali giungeva, della guerra, degli affamati e colerosibrulicanti nella solitudine, dei due soldati che la mattinavolevano ucciderlo, di quel moribondo grasso ch’egliaveva ferito, dei bambini gialli di malaria presso le palu-di. Portava tutto ciò, la terra, ed intanto girava nel vuoto,metà al sole, metà al buio, con un fumo di nuvole intor-no. Sempre.

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Accanto a Graziano passò un uomo che rientrava inritardo cacciandosi innanzi un asino carico. Ormai ilgiovine s’era avvezzo all’oscurità ed intorno a sè scor-geva la campagna con muriccioli e siepi; non si era sco-stato molto dalla città, udiva giungerne belati, qualchevoce; voltandosi indietro, intravvedeva i minareti; in unmucchio di case si mosse la luce d’una lanterna. Da unlato la campagna era chiusa da monti, dall’altro si allar-gava la baia con un’isola nera nel mezzo. Nuvole nereviaggiavano basse coprendo e scoprendo qualche stella.Anche qui tutte le cose gli erano straniere, aria, odori,rumori. Davano il senso di un paese sperduto. E per lagente che ci viveva sempre, questo era il mondo. In real-tà era mondo, un palmo della terra, che girava nel vuotocon le sue montagne, col mare, con l’isola e con le nu-vole intorno. Le creature umane vi nascevano, come gliagnelli e le cicogne; molte vi trascorrevano la vita inte-ra, senza veder altro, finchè la morte le dava ad un lem-bo di terreno grande come la loro cassa male inchiodata,a quattro passi di distanza dalla strada per cui erano an-dati innanzi e indietro.

Nella mente di Graziano era il ricordo dei luoghi daiquali giungeva, della guerra, degli affamati e colerosibrulicanti nella solitudine, dei due soldati che la mattinavolevano ucciderlo, di quel moribondo grasso ch’egliaveva ferito, dei bambini gialli di malaria presso le palu-di. Portava tutto ciò, la terra, ed intanto girava nel vuoto,metà al sole, metà al buio, con un fumo di nuvole intor-no. Sempre.

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In mezzo ai pini, sempre impassibili come monumen-ti, la casa di color chiaro, con le persiane socchiuse,aveva un’espressione semplice e tranquilla. S’avvicina-va l’estate, le giornate splendevano, il sole scaldava, neicampi il grano era alto; ma alla cima tutta avvolta dispazio giungevano leggeri venti, come qualcosa di viva-ce che passasse invisibile; quando soffiavano piú impe-tuosi, le fronde di quei pini vibravano come pettini equalche tronco si moveva elastico col rumore di un al-bero di veliero. Appese ad una corda tra due dei vecchitronchi si agitavano le vesticciole lavate della piccolaClaudia. La bambina teneva tutto il giardino, movendosicome poteva, custodita da una paziente ragazza;all’ombra leggeva o cuciva Gabriella, seduta pesante-mente col grembo alto e teso, poichè aspettava di nuovod’essere madre.

Qui si poteva credere che Sisto vivesse ancora e fossea Torino: sulla collina era venuto di rado, per soggiornimolto brevi. Si poteva dimenticare. Una mattina era sta-to trovato nel suo letto, immobile per sempre, ben com-posto, ancora tepido; nella camera un lieve odore dimandorle amare aveva fatto comprendere che cosa c’erastato in un bicchiere rimasto vuoto sul comodino. Da ul-timo s’era impossessata di lui un’impazienza di morire,non voleva, non pensava altro. Tutte le parole di Asca-nio e di Gabriella, che tentavano di guarirlo anche ragio-nando, erano state vane, come se non avessero senso.

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In mezzo ai pini, sempre impassibili come monumen-ti, la casa di color chiaro, con le persiane socchiuse,aveva un’espressione semplice e tranquilla. S’avvicina-va l’estate, le giornate splendevano, il sole scaldava, neicampi il grano era alto; ma alla cima tutta avvolta dispazio giungevano leggeri venti, come qualcosa di viva-ce che passasse invisibile; quando soffiavano piú impe-tuosi, le fronde di quei pini vibravano come pettini equalche tronco si moveva elastico col rumore di un al-bero di veliero. Appese ad una corda tra due dei vecchitronchi si agitavano le vesticciole lavate della piccolaClaudia. La bambina teneva tutto il giardino, movendosicome poteva, custodita da una paziente ragazza;all’ombra leggeva o cuciva Gabriella, seduta pesante-mente col grembo alto e teso, poichè aspettava di nuovod’essere madre.

Qui si poteva credere che Sisto vivesse ancora e fossea Torino: sulla collina era venuto di rado, per soggiornimolto brevi. Si poteva dimenticare. Una mattina era sta-to trovato nel suo letto, immobile per sempre, ben com-posto, ancora tepido; nella camera un lieve odore dimandorle amare aveva fatto comprendere che cosa c’erastato in un bicchiere rimasto vuoto sul comodino. Da ul-timo s’era impossessata di lui un’impazienza di morire,non voleva, non pensava altro. Tutte le parole di Asca-nio e di Gabriella, che tentavano di guarirlo anche ragio-nando, erano state vane, come se non avessero senso.

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Il nonno aveva raccontato a Graziano ogni particola-re, con quella calma che sembrava non potersi piú scuo-tere per niente; e la sua forza aveva dato al giovine ungrande sollievo. Sisto non aveva voluto che per lui siportasse il lutto. La sua vita, la sua opera erano state inItalia ricordate degnamente, ravvicinandole a quelle delgrande Sparvieri; avevano onorata la sua memoria an-che le accademie straniere alle quali apparteneva. Ai fi-gli aveva lasciata una lettera piena di affetto. «Voi sape-te perchè non posso piú vivere. Vi chiedo di dimenticareciò che la mia esistenza è stata dopo che ci lasciò vostramadre. Unite il mio ricordo a quello di lei, esempio cosínobile del modo di vivere e di morire. Teneteci entrambiin mezzo a voi. E ricordate sempre come abbiamo volu-to farvi. Mi duole di abbandonarvi, cari figli nostri, epiú di darvi altro dolore; ma avete innanzi a voi moltotempo per essere felici. Per voi la vita sarà buona comemeritate». L’avevano letta una sola volta, ed ora nonparlavano mai di lui, come non parlavano della madre.

Sulla collina non succedeva niente. Ogni cosa vi erasempre serena, come nel grande cerchio del suo oriz-zonte. Ogni giorno somigliava agli altri. Nei campi lebiade si chinavano all’arrivo dei venti, e le rondini lesfioravano con l’ali tese; i tralci delle vigne portavanograppoli ancora minuti come embrioni; passava per lastrada il carro tirato dai bovi ondeggianti e li conduceva,lungo e serio, il ragazzo che una volta era venuto a por-tare a Claudia i primi fiori; ancora piú alta era la sorella,Romilda; ella aveva tante ossa e gesti cosí sgraziati

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Il nonno aveva raccontato a Graziano ogni particola-re, con quella calma che sembrava non potersi piú scuo-tere per niente; e la sua forza aveva dato al giovine ungrande sollievo. Sisto non aveva voluto che per lui siportasse il lutto. La sua vita, la sua opera erano state inItalia ricordate degnamente, ravvicinandole a quelle delgrande Sparvieri; avevano onorata la sua memoria an-che le accademie straniere alle quali apparteneva. Ai fi-gli aveva lasciata una lettera piena di affetto. «Voi sape-te perchè non posso piú vivere. Vi chiedo di dimenticareciò che la mia esistenza è stata dopo che ci lasciò vostramadre. Unite il mio ricordo a quello di lei, esempio cosínobile del modo di vivere e di morire. Teneteci entrambiin mezzo a voi. E ricordate sempre come abbiamo volu-to farvi. Mi duole di abbandonarvi, cari figli nostri, epiú di darvi altro dolore; ma avete innanzi a voi moltotempo per essere felici. Per voi la vita sarà buona comemeritate». L’avevano letta una sola volta, ed ora nonparlavano mai di lui, come non parlavano della madre.

Sulla collina non succedeva niente. Ogni cosa vi erasempre serena, come nel grande cerchio del suo oriz-zonte. Ogni giorno somigliava agli altri. Nei campi lebiade si chinavano all’arrivo dei venti, e le rondini lesfioravano con l’ali tese; i tralci delle vigne portavanograppoli ancora minuti come embrioni; passava per lastrada il carro tirato dai bovi ondeggianti e li conduceva,lungo e serio, il ragazzo che una volta era venuto a por-tare a Claudia i primi fiori; ancora piú alta era la sorella,Romilda; ella aveva tante ossa e gesti cosí sgraziati

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come se dovesse diventare una gigantessa, e se ne ver-gognava; la si sentiva cantar da maschio mentre lavora-va in campagna, senza poterla vedere. Gabriella passavanel giardino la piú gran parte della giornata, insieme allabambina. La piccola Claudia era robusta, camminava abalzelloni con una specie di ardire temerario; la sua pas-sione, però, era di toccar la terra, trascinarvisi sui ginoc-chi, strappare l’erba le foglie i fiori. Graziano amava lafiglia della sorella come se il poco suo peso di carnefosse immensamente prezioso. Cercava d’intendere illinguaggio primitivo del quale ella già si serviva;l’ascoltava quando in braccio a Gabriella diceva mam-ma come nominando con le due sillabe facili una cosaeterna; sentiva la creatura nuova attaccata alla sua radi-ce, una tenera vita legata ad una vita forte; sentiva ciòche si versa da un essere all’altro come di vaso in vaso erimane sempre la stessa vita. Intanto, su tutte le cose ilsole descriveva infallibilmente il suo arco. Veniva prestola sera, l’ora di riunirsi a tavola per la cena, sotto la lam-pada a cui di fuori giungevano impazienti farfalle; e pre-sto si andava a letto; la mattina seguente, riaprendo le fi-nestre, ciascuno ritrovava con gioia l’aria sottile e lechiome rotonde dei pini.

Il vecchio Ascanio girava molto per il podere, con unlargo cappello grigio, camminando deciso, tenendocome un frustino una bacchetta di nocciolo; sempre sivedeva brillare sul suo panciotto di tela bianca la solitamedaglia. Egli rammentava qualche volta Fiocco, ilbuon cane lanoso ch’era stato il primo compagno delle

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come se dovesse diventare una gigantessa, e se ne ver-gognava; la si sentiva cantar da maschio mentre lavora-va in campagna, senza poterla vedere. Gabriella passavanel giardino la piú gran parte della giornata, insieme allabambina. La piccola Claudia era robusta, camminava abalzelloni con una specie di ardire temerario; la sua pas-sione, però, era di toccar la terra, trascinarvisi sui ginoc-chi, strappare l’erba le foglie i fiori. Graziano amava lafiglia della sorella come se il poco suo peso di carnefosse immensamente prezioso. Cercava d’intendere illinguaggio primitivo del quale ella già si serviva;l’ascoltava quando in braccio a Gabriella diceva mam-ma come nominando con le due sillabe facili una cosaeterna; sentiva la creatura nuova attaccata alla sua radi-ce, una tenera vita legata ad una vita forte; sentiva ciòche si versa da un essere all’altro come di vaso in vaso erimane sempre la stessa vita. Intanto, su tutte le cose ilsole descriveva infallibilmente il suo arco. Veniva prestola sera, l’ora di riunirsi a tavola per la cena, sotto la lam-pada a cui di fuori giungevano impazienti farfalle; e pre-sto si andava a letto; la mattina seguente, riaprendo le fi-nestre, ciascuno ritrovava con gioia l’aria sottile e lechiome rotonde dei pini.

Il vecchio Ascanio girava molto per il podere, con unlargo cappello grigio, camminando deciso, tenendocome un frustino una bacchetta di nocciolo; sempre sivedeva brillare sul suo panciotto di tela bianca la solitamedaglia. Egli rammentava qualche volta Fiocco, ilbuon cane lanoso ch’era stato il primo compagno delle

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sue passeggiate in città. Un giorno, insieme a Graziano,si fece portare da un vetturale nel paese non lontanodove era nato; mostrò al nipote le terre appartenute asuo padre, quel contadino sapiente, e la casa nella qualeera venuto al mondo. La festa saliva a piedi a Luvo, persentire la messa nell’antica chiesa, ridipinta e ridorata anuovo, dove regnava sempre quell’arciprete dagli occhichiarissimi e freddi, il quale vi si moveva con un fare dinobile e severo padrone. Inutilmente Graziano aveva inpassato insistito qualche volta perchè il nonno gli la-sciasse portare ad un editore i ricordi che aveva scritti. –Non voglio esordire ad ottant’anni – protestava egli confinto dispetto, e teneva il manoscritto sotto chiave. Se-guitava però ad occuparsi del Risorgimento, ordinandodocumenti, facendone il catalogo, per amore di queltempo e di quelle carte, le quali erano lettere indirizzatea lui, immagini e stampati che conservava da allora, edanche cose che invece aveva comprate quando lavoravaalle memorie. Ogni giorno, nella sua camera, spendevaqualche ora in questa occupazione, che forse era piutto-sto una piacevole fantasticheria.

Un mattino, verso l’ora del desinare, Graziano scen-deva adagio sotto il potente sole la strada grande dellapineta. Sùbito fu mezzogiorno; si misero a sonare lecampane di Rebbia, quelle di Luvo e degli altri paesi,non tutte proprio assieme, come se ciascun luogo avesseun mezzogiorno suo. Lo scampanio faceva sentire me-glio quanto l’aria era limpida e la luce festosa. Ad unasvolta dalla quale si scorgevano nel piano, piccole ed in

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sue passeggiate in città. Un giorno, insieme a Graziano,si fece portare da un vetturale nel paese non lontanodove era nato; mostrò al nipote le terre appartenute asuo padre, quel contadino sapiente, e la casa nella qualeera venuto al mondo. La festa saliva a piedi a Luvo, persentire la messa nell’antica chiesa, ridipinta e ridorata anuovo, dove regnava sempre quell’arciprete dagli occhichiarissimi e freddi, il quale vi si moveva con un fare dinobile e severo padrone. Inutilmente Graziano aveva inpassato insistito qualche volta perchè il nonno gli la-sciasse portare ad un editore i ricordi che aveva scritti. –Non voglio esordire ad ottant’anni – protestava egli confinto dispetto, e teneva il manoscritto sotto chiave. Se-guitava però ad occuparsi del Risorgimento, ordinandodocumenti, facendone il catalogo, per amore di queltempo e di quelle carte, le quali erano lettere indirizzatea lui, immagini e stampati che conservava da allora, edanche cose che invece aveva comprate quando lavoravaalle memorie. Ogni giorno, nella sua camera, spendevaqualche ora in questa occupazione, che forse era piutto-sto una piacevole fantasticheria.

Un mattino, verso l’ora del desinare, Graziano scen-deva adagio sotto il potente sole la strada grande dellapineta. Sùbito fu mezzogiorno; si misero a sonare lecampane di Rebbia, quelle di Luvo e degli altri paesi,non tutte proprio assieme, come se ciascun luogo avesseun mezzogiorno suo. Lo scampanio faceva sentire me-glio quanto l’aria era limpida e la luce festosa. Ad unasvolta dalla quale si scorgevano nel piano, piccole ed in

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un fascio, le torri di Rebbia, stava fermo il vecchio adascoltar la bella musica e contemplare. In quella cittànon era mai piú entrato; non aveva fatto che passarvi ac-canto. Alzando il mento col pappafico candido, la indicòal nipote; disse ch’erano molto lontani gli anni nei qualiviveva laggiú, e che non gli pareva nemmeno di esserelo stesso uomo.

— Non sembra vero: m’ero attaccato a molte cose, aimuri che credevo miei, ai registri dello stanzino, allemacchine della stamperia, povero ferro vecchio. Nonero molto diverso da quegli avvocati che disprezzavo,né dalla loro politica. Temevo la gente che mi spiavadietro le gelosie; non guardavo piú distante che in fondoalle vie; mi parevano importanti, le torri.

Voltò le spalle a Rebbia; col nipote s’incamminò ver-so casa. Riprese: – Nessuno evita il dolore, ma vi sonomaniere diverse di soffrire. Dal dolore bisogna impararea guardar in alto, a portarsi in alto. L’errore piú grave èdi domandarsi: «Qual’è il fine di tutto questo? A cheserve? A che serve?» Deve bastarci che la nostra vita siabella. Intendi? Bella da vedere. Come una nostra opera.Infatti può sempre essere una nostra opera, qualunquesia il destino. Il fine è questo: farla piú bella che si pos-sa. Una ragione! Tutto ciò che esiste e ciò che succede,non potrebbe esistere, succedere se non avesse una leg-ge, se non appartenesse ad un’immensa ed unica neces-sità. Che m’importa di non conoscerla? La sento. A mi-sura che crescono i miei anni, che vedo piú vita, la sentopiú fortemente. E mi riposo in questa immancabile leg-

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un fascio, le torri di Rebbia, stava fermo il vecchio adascoltar la bella musica e contemplare. In quella cittànon era mai piú entrato; non aveva fatto che passarvi ac-canto. Alzando il mento col pappafico candido, la indicòal nipote; disse ch’erano molto lontani gli anni nei qualiviveva laggiú, e che non gli pareva nemmeno di esserelo stesso uomo.

— Non sembra vero: m’ero attaccato a molte cose, aimuri che credevo miei, ai registri dello stanzino, allemacchine della stamperia, povero ferro vecchio. Nonero molto diverso da quegli avvocati che disprezzavo,né dalla loro politica. Temevo la gente che mi spiavadietro le gelosie; non guardavo piú distante che in fondoalle vie; mi parevano importanti, le torri.

Voltò le spalle a Rebbia; col nipote s’incamminò ver-so casa. Riprese: – Nessuno evita il dolore, ma vi sonomaniere diverse di soffrire. Dal dolore bisogna impararea guardar in alto, a portarsi in alto. L’errore piú grave èdi domandarsi: «Qual’è il fine di tutto questo? A cheserve? A che serve?» Deve bastarci che la nostra vita siabella. Intendi? Bella da vedere. Come una nostra opera.Infatti può sempre essere una nostra opera, qualunquesia il destino. Il fine è questo: farla piú bella che si pos-sa. Una ragione! Tutto ciò che esiste e ciò che succede,non potrebbe esistere, succedere se non avesse una leg-ge, se non appartenesse ad un’immensa ed unica neces-sità. Che m’importa di non conoscerla? La sento. A mi-sura che crescono i miei anni, che vedo piú vita, la sentopiú fortemente. E mi riposo in questa immancabile leg-

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ge delle cose, mi affido ad essa, sebbene non ne sappianulla.

Si piantò sui due piedi, sempre a testa alta, col bustoeretto, guardò il giovine col fuoco che avevano le suepupille scure: – Anzi, vedi, non voglio piú sapere!

Graziano era sulla collina dei pini ormai da molte set-timane; immerso in un riposo sempre piú benefico e pie-no. La guerra nella quale era vissuto, i paesi lontani, lepopolazioni che aveva conosciute con la loro tragedia,tutti i ricordi qui si discioglievano nella pace ove non sisentiva torpore ma anzi una larga e continua vita. Anchela famiglia, pur tanto diminuita, gli dava una impressio-ne d’essere in porto, al sicuro. In ogni luogo della villa,in ogni momento della giornata le cose gli rammentava-no come sua madre aveva sognata e voluta questa casain mezzo alla campagna che per lei era il passato degliAndosio. Gli pareva che sul colle tutto avesse preso for-ma da lei, creato soltanto dai suoi pensieri. A volte cre-deva ancora di doverla vedere, come quando ella scen-deva la gradinata per uscire in giardino o si chinava suifiori o veniva per la strada posando leggermente a terrala punta del parasole. Quasi ne udiva la voce. Claudianon amava che le si facesse il ritratto in alcuna maniera;perciò non ne erano rimaste che piccole fotografie fattescherzando; adesso le ultime erano appese in cornicinelle stanze. In uno scaffale della sua camera vi erano li-bri che aveva lasciati l’ultima estate; in un armadio certivestiti leggeri ancora serbavano, od era un’illusione, ilsuo profumo; nei cassetti rimanevano suoi ventagli, or-

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ge delle cose, mi affido ad essa, sebbene non ne sappianulla.

Si piantò sui due piedi, sempre a testa alta, col bustoeretto, guardò il giovine col fuoco che avevano le suepupille scure: – Anzi, vedi, non voglio piú sapere!

Graziano era sulla collina dei pini ormai da molte set-timane; immerso in un riposo sempre piú benefico e pie-no. La guerra nella quale era vissuto, i paesi lontani, lepopolazioni che aveva conosciute con la loro tragedia,tutti i ricordi qui si discioglievano nella pace ove non sisentiva torpore ma anzi una larga e continua vita. Anchela famiglia, pur tanto diminuita, gli dava una impressio-ne d’essere in porto, al sicuro. In ogni luogo della villa,in ogni momento della giornata le cose gli rammentava-no come sua madre aveva sognata e voluta questa casain mezzo alla campagna che per lei era il passato degliAndosio. Gli pareva che sul colle tutto avesse preso for-ma da lei, creato soltanto dai suoi pensieri. A volte cre-deva ancora di doverla vedere, come quando ella scen-deva la gradinata per uscire in giardino o si chinava suifiori o veniva per la strada posando leggermente a terrala punta del parasole. Quasi ne udiva la voce. Claudianon amava che le si facesse il ritratto in alcuna maniera;perciò non ne erano rimaste che piccole fotografie fattescherzando; adesso le ultime erano appese in cornicinelle stanze. In uno scaffale della sua camera vi erano li-bri che aveva lasciati l’ultima estate; in un armadio certivestiti leggeri ancora serbavano, od era un’illusione, ilsuo profumo; nei cassetti rimanevano suoi ventagli, or-

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namenti di poco valore, lettere, e talora il figlio li cerca-va, sebbene gli fosse sempre penoso rivederli. E talora,alzata la ribalta di un suo tavolino da lavoro, ne prende-va e si portava alle labbra piano piano le matassine diseta da lei dimenticate là, una tela dove era rimasto in-compiuto un ricamo di ciliege e di foglie. Graziano la ri-cordava assai bene seduta nel giardino con quel ricamo.

Ora l’aveva nella mente soltanto com’era prima diammalarsi, ed in una luce forse piú serena che non fossestata veramente. Aveva sempre pensato di possedere lamemoria materna come un bene che non si sarebbe maiperduto nè consumato; ma adesso la sentiva vivere pres-so di sè, la sentiva presente. Guardando Gabriella, pres-so la bambina nata dall’unione che la madre aveva volu-ta, raccolta sul suo grembo dove un altro frutto ne matu-rava, sentiva lei, la madre. Della sua bontà, delle suegiornate laboriose ed intime, dell’amore che aveva nu-trito caldamente per la famiglia, dell’amicizia con lagente di campagna, della sua religione per la casa pater-na, del suo onesto e limpido modo d’intendere la vita,dei suoi sogni, Graziano sentiva durare un’eco vivente.Cosí – egli pensava – si viveva dopo la morte. La so-pravvivenza era ciò che rimane nel ricordo degli altri. Enon erano in lui anche quei lineamenti del viso, quelleinclinazioni dell’animo, quei pensieri, quei sogni, ed ilmisterioso soffio vitale, che gli aveva dati la madre?

Ma credeva di trovarla nell’aria stessa: nello spaziointatto che stava sospeso sopra le cime degli alberi, nelvuoto delle valli da cui giungevano rumori di carri lon-

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namenti di poco valore, lettere, e talora il figlio li cerca-va, sebbene gli fosse sempre penoso rivederli. E talora,alzata la ribalta di un suo tavolino da lavoro, ne prende-va e si portava alle labbra piano piano le matassine diseta da lei dimenticate là, una tela dove era rimasto in-compiuto un ricamo di ciliege e di foglie. Graziano la ri-cordava assai bene seduta nel giardino con quel ricamo.

Ora l’aveva nella mente soltanto com’era prima diammalarsi, ed in una luce forse piú serena che non fossestata veramente. Aveva sempre pensato di possedere lamemoria materna come un bene che non si sarebbe maiperduto nè consumato; ma adesso la sentiva vivere pres-so di sè, la sentiva presente. Guardando Gabriella, pres-so la bambina nata dall’unione che la madre aveva volu-ta, raccolta sul suo grembo dove un altro frutto ne matu-rava, sentiva lei, la madre. Della sua bontà, delle suegiornate laboriose ed intime, dell’amore che aveva nu-trito caldamente per la famiglia, dell’amicizia con lagente di campagna, della sua religione per la casa pater-na, del suo onesto e limpido modo d’intendere la vita,dei suoi sogni, Graziano sentiva durare un’eco vivente.Cosí – egli pensava – si viveva dopo la morte. La so-pravvivenza era ciò che rimane nel ricordo degli altri. Enon erano in lui anche quei lineamenti del viso, quelleinclinazioni dell’animo, quei pensieri, quei sogni, ed ilmisterioso soffio vitale, che gli aveva dati la madre?

Ma credeva di trovarla nell’aria stessa: nello spaziointatto che stava sospeso sopra le cime degli alberi, nelvuoto delle valli da cui giungevano rumori di carri lon-

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tani, nel caldo odore che la terra mandava, tutt’intornofin dove giungeva lo sguardo; fino alle montagne legge-re come visioni. Sentiva una vita meravigliosa, tutta fe-lice libertà, in quello spazio che non pareva di nessunocome se fosse soltanto aria e luce. Pensava che avrebbepotuto ritrovare cosí la madre in ogni luogo del mondo;cercandola nell’aria.

Dietro l’altura che nascondeva le case di Luvo, spun-tava quell’alto campanile il quale pareva voler dire sem-pre che il paese era là. Quell’anno a Luvo erano seguitigrandi avvenimenti. Nell’inverno era morto il Lancia-rossa, della strana malattia che aveva lavorato in lui len-tissimamente riducendolo un piccolo scarno uomo tre-molante, incapace di stare in piedi, di parlare ed infinedi respirare. La vedova aveva dovuto aspramente com-battere con suo figlio per fargli funerali grandiosi e di-stribuire abbondanti elemosine, come poi per costruireuna ricca tomba di famiglia, alla quale tuttora si stavalavorando. La morte aveva rinforzata nella gente l’opi-nione che dal figliastro fosse stato propinato al vecchioun veleno sottile; non soltanto il sospetto, copertamente,aveva fatto molto cammino spargendosi nell’intera re-gione, ma erano giunte alla magistratura denunzie ano-nime. Alcune dovevan contenere argomenti non privi dipeso, se due mesi dopo la fine del Lanciarossa erano im-provvisamente venuti in paese magistrati e medici peresumare il corpo, farne l’autopsia nello stesso cimitero eportar via in un grosso barattolo pezzi di visceri neces-sari alla ricerca del supposto veleno. Non se n’era però

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tani, nel caldo odore che la terra mandava, tutt’intornofin dove giungeva lo sguardo; fino alle montagne legge-re come visioni. Sentiva una vita meravigliosa, tutta fe-lice libertà, in quello spazio che non pareva di nessunocome se fosse soltanto aria e luce. Pensava che avrebbepotuto ritrovare cosí la madre in ogni luogo del mondo;cercandola nell’aria.

Dietro l’altura che nascondeva le case di Luvo, spun-tava quell’alto campanile il quale pareva voler dire sem-pre che il paese era là. Quell’anno a Luvo erano seguitigrandi avvenimenti. Nell’inverno era morto il Lancia-rossa, della strana malattia che aveva lavorato in lui len-tissimamente riducendolo un piccolo scarno uomo tre-molante, incapace di stare in piedi, di parlare ed infinedi respirare. La vedova aveva dovuto aspramente com-battere con suo figlio per fargli funerali grandiosi e di-stribuire abbondanti elemosine, come poi per costruireuna ricca tomba di famiglia, alla quale tuttora si stavalavorando. La morte aveva rinforzata nella gente l’opi-nione che dal figliastro fosse stato propinato al vecchioun veleno sottile; non soltanto il sospetto, copertamente,aveva fatto molto cammino spargendosi nell’intera re-gione, ma erano giunte alla magistratura denunzie ano-nime. Alcune dovevan contenere argomenti non privi dipeso, se due mesi dopo la fine del Lanciarossa erano im-provvisamente venuti in paese magistrati e medici peresumare il corpo, farne l’autopsia nello stesso cimitero eportar via in un grosso barattolo pezzi di visceri neces-sari alla ricerca del supposto veleno. Non se n’era però

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trovata traccia; tutto era terminato con un incartamentoche aveva preso posto nell’archivio. Mathieu, il figlia-stro, padrone dispotico dei beni dalla madre ereditati,aveva allora dato libero sfogo alla sua rabbia dichiaran-dosi nemico dell’intero paese. Trattava i contadini deipoderi ed i servi come negri; quando non aveva bevuto,passava fosco e nuvoloso borbottando male parole; ub-briaco, strepitava pubblicamente che lo avevano credutoun avvelenatore e che la perizia aveva dimostrato chierano invece gli assassini, questi salauds di Luvo i qualiavrebbero voluto mandarlo in galera. A bruciapelo do-mandava a chi incontrava, alla gente in piazza: – L’hoavvelenato? Dis moi ça: che veleno? Tu cosa ne pensi?E tu? – Tornava qualche volta coi compagni di caccia od’osteria; sempre se ne staccava tempestando, ripresodall’idea dell’accusa che gli era stata mossa, senzaascoltare le loro proteste d’amicizia.

— Siete tutti eguali! Une bande de lâches. – Immagi-nava però che la denunzia piú efficace, la piú abilmentescritta, con firma o senza, fosse partita dall’arciprete delpaese. L’uomo che da piú di vent’anni governava la par-rocchia, ora aveva grigi i capelli che circondavano lasua calvizie abbronzata, si era ingrassato alquanto; isuoi chiarissimi occhi, senza guardare, continuavano avedere dappertutto, e le sue maniere erano sempre riser-vate e decise come in principio. Contro lui Mathieu an-dava ripetendo torbide minacce; diceva di voler entrareuna domenica in chiesa, mentre predicava dal pulpito, adomandargli coram populo se credesse alla storia del

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trovata traccia; tutto era terminato con un incartamentoche aveva preso posto nell’archivio. Mathieu, il figlia-stro, padrone dispotico dei beni dalla madre ereditati,aveva allora dato libero sfogo alla sua rabbia dichiaran-dosi nemico dell’intero paese. Trattava i contadini deipoderi ed i servi come negri; quando non aveva bevuto,passava fosco e nuvoloso borbottando male parole; ub-briaco, strepitava pubblicamente che lo avevano credutoun avvelenatore e che la perizia aveva dimostrato chierano invece gli assassini, questi salauds di Luvo i qualiavrebbero voluto mandarlo in galera. A bruciapelo do-mandava a chi incontrava, alla gente in piazza: – L’hoavvelenato? Dis moi ça: che veleno? Tu cosa ne pensi?E tu? – Tornava qualche volta coi compagni di caccia od’osteria; sempre se ne staccava tempestando, ripresodall’idea dell’accusa che gli era stata mossa, senzaascoltare le loro proteste d’amicizia.

— Siete tutti eguali! Une bande de lâches. – Immagi-nava però che la denunzia piú efficace, la piú abilmentescritta, con firma o senza, fosse partita dall’arciprete delpaese. L’uomo che da piú di vent’anni governava la par-rocchia, ora aveva grigi i capelli che circondavano lasua calvizie abbronzata, si era ingrassato alquanto; isuoi chiarissimi occhi, senza guardare, continuavano avedere dappertutto, e le sue maniere erano sempre riser-vate e decise come in principio. Contro lui Mathieu an-dava ripetendo torbide minacce; diceva di voler entrareuna domenica in chiesa, mentre predicava dal pulpito, adomandargli coram populo se credesse alla storia del

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veleno. Talvolta s’incontravano: il prete passava oltre,posandogli addosso appena un istante quello sguardogelido e distante, e Mathieu gettava a lui un’occhiata ditraverso ma senza aprire bocca. Sua madre, di nascosto,aveva dato alla parrocchia molto denaro per le pitture edorature nuove.

Graziano, considerando il palazzo degli Andosiocome uscito per sempre dal dominio della famiglia, nons’interessava di quanto si facesse nel paese, né aveva al-cuna voglia d’andarvi. Del resto, passava raramente iconfini del podere. Stava per ore immobile, senza legge-re il libro che teneva con sè, scorrendo appena i giornali.Sedeva a contemplar l’orizzonte nel quale ogni cosa gliera nota, le vigne che rigavano i poggi, i nastri dellestrade, le isole e gli specchi del fiume presso il quale siandava a raccogliere il fieno dall’Amistà. Ma gli piacevaanche stare nella pineta dove non si vedeva che bosco,godendo l’ombra dolce, l’aria silenziosa, senza che da-gli alberi gli fosse tolto niente del cielo nè della luce;sdraiato sul terreno coperto di aghi secchi, presso untronco che dalle scaglie gemeva la resina odorosa, guar-dava un ragno far la tela tra due rami di un arbusto,grosse e lucide formiche viaggiare nella foresta dei filidi erba. Tutto ciò che guardava, fossero le montagne o lechiome dei pini imbevute di sole o i piccoli animali, glidava l’idea gradevole di una realtà che non dovesse maicambiare.

Rammentava le prime volte ch’era venuto là con Ilis-so, quando la collina era ancora selvatica. Pensava a

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veleno. Talvolta s’incontravano: il prete passava oltre,posandogli addosso appena un istante quello sguardogelido e distante, e Mathieu gettava a lui un’occhiata ditraverso ma senza aprire bocca. Sua madre, di nascosto,aveva dato alla parrocchia molto denaro per le pitture edorature nuove.

Graziano, considerando il palazzo degli Andosiocome uscito per sempre dal dominio della famiglia, nons’interessava di quanto si facesse nel paese, né aveva al-cuna voglia d’andarvi. Del resto, passava raramente iconfini del podere. Stava per ore immobile, senza legge-re il libro che teneva con sè, scorrendo appena i giornali.Sedeva a contemplar l’orizzonte nel quale ogni cosa gliera nota, le vigne che rigavano i poggi, i nastri dellestrade, le isole e gli specchi del fiume presso il quale siandava a raccogliere il fieno dall’Amistà. Ma gli piacevaanche stare nella pineta dove non si vedeva che bosco,godendo l’ombra dolce, l’aria silenziosa, senza che da-gli alberi gli fosse tolto niente del cielo nè della luce;sdraiato sul terreno coperto di aghi secchi, presso untronco che dalle scaglie gemeva la resina odorosa, guar-dava un ragno far la tela tra due rami di un arbusto,grosse e lucide formiche viaggiare nella foresta dei filidi erba. Tutto ciò che guardava, fossero le montagne o lechiome dei pini imbevute di sole o i piccoli animali, glidava l’idea gradevole di una realtà che non dovesse maicambiare.

Rammentava le prime volte ch’era venuto là con Ilis-so, quando la collina era ancora selvatica. Pensava a

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molta gente lontana, la vedeva presa nella vita come inun impegno difficile e strambo. Lo zio Aleramo era inun ospizio di vecchi presso Torino, dove aveva per forzavoluto entrare ed era stato accettato a stento. «Se vieni atrovarmi, – gli aveva scritto – chiedi del numero 705».Ma egli non aveva ancora fatta quella visita. Fenices’era stabilita a Vienna col figlio; scriveva di rado, pare-va contenta. E Nego, in quale angolo del mondo si eracacciato? Che faceva per non pensare, con la sua testac-cia riccia? Non se ne sapeva niente. Gli tornava allamente la casa del Valentino, dalla quale andava alle le-zioni di anatomia. Rivedeva anche una ben fatta ragaz-za, con una bocca da mordere, che aveva una piccolapiega cattiva; da Leda, l’anno innanzi, aveva ricevutauna lettera, che veniva addirittura da Sciangai; poichèaveva letti giornali italiani nei quali si parlava del suoromanzo, si diceva contenta che la sua vita fosse bellacome lei l’aveva immaginata. «Io sono tanto lontana!»Risentiva i momenti vissuti con lei nella stanza buia; poivedeva due occhi fieri, ingranditi col bistro e pieni di la-crime, come lo avevano guardato l’ultima volta. Sí, lon-tana: come di un’altra vita. Egli aveva da un pezzo bru-ciati i suoi ritratti. Di ricordo in ricordo risaliva perfinoalla sera dei fuochi di settembre quando aveva dato unbacio alla cugina Olimpia ed ella aveva fatto quel motodel capo per riceverlo sulla bocca. Ora, arrivando a Reb-bia, l’aveva incontrata: era già una donna troppo grassa,improvincialita, che credeva ancora di avere la bellezza

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molta gente lontana, la vedeva presa nella vita come inun impegno difficile e strambo. Lo zio Aleramo era inun ospizio di vecchi presso Torino, dove aveva per forzavoluto entrare ed era stato accettato a stento. «Se vieni atrovarmi, – gli aveva scritto – chiedi del numero 705».Ma egli non aveva ancora fatta quella visita. Fenices’era stabilita a Vienna col figlio; scriveva di rado, pare-va contenta. E Nego, in quale angolo del mondo si eracacciato? Che faceva per non pensare, con la sua testac-cia riccia? Non se ne sapeva niente. Gli tornava allamente la casa del Valentino, dalla quale andava alle le-zioni di anatomia. Rivedeva anche una ben fatta ragaz-za, con una bocca da mordere, che aveva una piccolapiega cattiva; da Leda, l’anno innanzi, aveva ricevutauna lettera, che veniva addirittura da Sciangai; poichèaveva letti giornali italiani nei quali si parlava del suoromanzo, si diceva contenta che la sua vita fosse bellacome lei l’aveva immaginata. «Io sono tanto lontana!»Risentiva i momenti vissuti con lei nella stanza buia; poivedeva due occhi fieri, ingranditi col bistro e pieni di la-crime, come lo avevano guardato l’ultima volta. Sí, lon-tana: come di un’altra vita. Egli aveva da un pezzo bru-ciati i suoi ritratti. Di ricordo in ricordo risaliva perfinoalla sera dei fuochi di settembre quando aveva dato unbacio alla cugina Olimpia ed ella aveva fatto quel motodel capo per riceverlo sulla bocca. Ora, arrivando a Reb-bia, l’aveva incontrata: era già una donna troppo grassa,improvincialita, che credeva ancora di avere la bellezza

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d’allora. Olimpia, la splendida statua viva, allegoriadell’amore e dell’avvenire voluttuoso, dov’era?

Il pensare che Graziano faceva, era vago, senza pas-sione. Non fermava alcuna delle moventi figure per dir-le: «Aspetta, parlami un poco». Egli stava per compiretrent’anni; era già quel che si dice per davvero un uomo.Vedeva tuttavia ancora il futuro come una strada senzafine. Nei giornali gli capitava sott’occhio il nome diBruto Corese, che adesso compariva nelle cronache tea-trali abbastanza spesso. La sua esistenza gli pareva, diqua, la piú strana ed incredibile di tutte, sempre tra i ca-merini del palcoscenico e la ribalta, con gente camuffa-ta, dentro la grossa finzione che i drammi diventavano.Non aveva mai dimenticate le parole dell’amico, «Mira-re in alto», accompagnate da quella luce d’acciaio deisuoi occhi un poco maligni. Voleva ben scrivere di nuo-vo. Intravvedeva la materia di un romanzo nell’Americache aveva conosciuta: si potevano rappresentare le gran-di città, New York, Chicago, San Francisco, gli immensiStati, e nella struttura ferrea e colossale di quella civiltà,in quella vertigine di movimento e furia di denaro, inquel rimescolarsi di folle e di razze, mostrare l’invaria-bile sostanza della vita umana, gli istinti, i beni, i mali,il dolore, la morte, i fantasmi, raccontando soltantol’esistenza di un uomo. Ma non si moveva dal terrenosul quale si sentiva diventare sempre piú felicementeinerte; anzi, vi si abbandonava del tutto, coricandosi su-pino quanto era lungo, per mandare lo sguardo nel cielo

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d’allora. Olimpia, la splendida statua viva, allegoriadell’amore e dell’avvenire voluttuoso, dov’era?

Il pensare che Graziano faceva, era vago, senza pas-sione. Non fermava alcuna delle moventi figure per dir-le: «Aspetta, parlami un poco». Egli stava per compiretrent’anni; era già quel che si dice per davvero un uomo.Vedeva tuttavia ancora il futuro come una strada senzafine. Nei giornali gli capitava sott’occhio il nome diBruto Corese, che adesso compariva nelle cronache tea-trali abbastanza spesso. La sua esistenza gli pareva, diqua, la piú strana ed incredibile di tutte, sempre tra i ca-merini del palcoscenico e la ribalta, con gente camuffa-ta, dentro la grossa finzione che i drammi diventavano.Non aveva mai dimenticate le parole dell’amico, «Mira-re in alto», accompagnate da quella luce d’acciaio deisuoi occhi un poco maligni. Voleva ben scrivere di nuo-vo. Intravvedeva la materia di un romanzo nell’Americache aveva conosciuta: si potevano rappresentare le gran-di città, New York, Chicago, San Francisco, gli immensiStati, e nella struttura ferrea e colossale di quella civiltà,in quella vertigine di movimento e furia di denaro, inquel rimescolarsi di folle e di razze, mostrare l’invaria-bile sostanza della vita umana, gli istinti, i beni, i mali,il dolore, la morte, i fantasmi, raccontando soltantol’esistenza di un uomo. Ma non si moveva dal terrenosul quale si sentiva diventare sempre piú felicementeinerte; anzi, vi si abbandonava del tutto, coricandosi su-pino quanto era lungo, per mandare lo sguardo nel cielo

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puro, attraverso gli ombrelli trasparenti dei pini. E nonvoleva ricordare che presto sarebbe pur dovuto ripartire.

Una domenica venne il marito di Gabriella, per tornarvia la sera. Era affezionato alla regione dove la sua fa-miglia non possedeva piú che una casa di campagna ri-masta, a forza di vendere, senza una spanna di terra in-torno; alla pineta, poi, sarebbe venuto a piedi da centomiglia di distanza; qui aveva amata di quell’esitanteamore Gabriella giovinetta, qui erano venuti la sera del-le nozze; il luogo gli ricordava sempre la felice avventu-ra. Ora Gabriella era una forte donna che portava il pesodel grembo solennemente, ma negli occhi, nel volto,aveva lo splendore fresco dei suoi venti anni. – Questo èun maschio – ella diceva. Il tempo della nascita non eralontano; il figlio sarebbe nato qui e si doveva chiamareEmanuele, come il nonno Andosio. Aurelio non eracambiato né d’aspetto né di carattere. Sebbene un tempoavesse fatto gran conto della stima che godeva di bravoarrampicatore, aveva sacrificata alla sposa la passionedella montagna; le Alpi le aveva abbandonate del tutto,essendosi impegnato con giuramento a rinunziare alleascensioni rischiose e disprezzando «le belle escursio-ni»; ma il segno delle imprese di quel tempo gli era ri-masto in faccia, come se la scottatura dei nevai non do-vesse piú svanire; gli era rimasta l’aria, piú che di mon-tanaro, di soldato alpino.

Sulla collina, con le mani in tasca, senza cappello,con la corta pipa tra i denti robusti, si mise subito aguardare, cosí da lontano, le montagne, dando un nome

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puro, attraverso gli ombrelli trasparenti dei pini. E nonvoleva ricordare che presto sarebbe pur dovuto ripartire.

Una domenica venne il marito di Gabriella, per tornarvia la sera. Era affezionato alla regione dove la sua fa-miglia non possedeva piú che una casa di campagna ri-masta, a forza di vendere, senza una spanna di terra in-torno; alla pineta, poi, sarebbe venuto a piedi da centomiglia di distanza; qui aveva amata di quell’esitanteamore Gabriella giovinetta, qui erano venuti la sera del-le nozze; il luogo gli ricordava sempre la felice avventu-ra. Ora Gabriella era una forte donna che portava il pesodel grembo solennemente, ma negli occhi, nel volto,aveva lo splendore fresco dei suoi venti anni. – Questo èun maschio – ella diceva. Il tempo della nascita non eralontano; il figlio sarebbe nato qui e si doveva chiamareEmanuele, come il nonno Andosio. Aurelio non eracambiato né d’aspetto né di carattere. Sebbene un tempoavesse fatto gran conto della stima che godeva di bravoarrampicatore, aveva sacrificata alla sposa la passionedella montagna; le Alpi le aveva abbandonate del tutto,essendosi impegnato con giuramento a rinunziare alleascensioni rischiose e disprezzando «le belle escursio-ni»; ma il segno delle imprese di quel tempo gli era ri-masto in faccia, come se la scottatura dei nevai non do-vesse piú svanire; gli era rimasta l’aria, piú che di mon-tanaro, di soldato alpino.

Sulla collina, con le mani in tasca, senza cappello,con la corta pipa tra i denti robusti, si mise subito aguardare, cosí da lontano, le montagne, dando un nome

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a tutte le cime che spuntavano dall’azzurra barriera. Maera venuto a parlar di affari. Si tenne un consiglio a ta-vola, dopo il caffè, e vi prese parte anche Ascanio per-chè i giovani lo vollero. Aurelio aveva l’abitudine discherzare, dove si poteva, anche in argomenti seri, can-zonando un poco se stesso e gli altri, con un umore discolaro studioso ma bizzarro; aveva tratto di tasca un fa-scio di carte, squadernandolo davanti a sè con gesti cari-cati e con un risolino di finta astuzia. Poi si mise a par-lare senz’altre facezie. Propose che Gabriella e Grazianocedessero la parte di proprietà della clinica ereditata dalpadre, per collocare questo denaro, insieme alla dote diGabriella, nella fabbrica di orologi. Ascoltandolo, Gra-ziano provava il tedio che gli procuravano sempre lequestioni e i discorsi d’affari. La sorella pensava che laclinica dava un reddito largo e sicuro; lo disse. Ma en-trambi sentivano soprattutto che la clinica, creazione delpadre, era come una parte della sua esistenza, qualcosache la rappresentava ancora visibilmente; sentivano checedere quella proprietà era come separarsi maggiormen-te da lui, dal loro passato comune, per sempre. Questaidea e questo sentimento furono espressi in poche paro-le, sottovoce, dal nonno.

Aurelio ascoltava i pareri contrarii a capo basso, concerto viso di colpevole, caricando adagio la pipa, chepoi lasciò sulla tavola senza accenderla. Ma tosto ripi-gliò a sostenere la proposta, animandosi come se nonvolesse forzare la volontà altrui e tuttavia il valore deisuoi argomenti lo scaldasse suo malgrado. Della fabbri-

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a tutte le cime che spuntavano dall’azzurra barriera. Maera venuto a parlar di affari. Si tenne un consiglio a ta-vola, dopo il caffè, e vi prese parte anche Ascanio per-chè i giovani lo vollero. Aurelio aveva l’abitudine discherzare, dove si poteva, anche in argomenti seri, can-zonando un poco se stesso e gli altri, con un umore discolaro studioso ma bizzarro; aveva tratto di tasca un fa-scio di carte, squadernandolo davanti a sè con gesti cari-cati e con un risolino di finta astuzia. Poi si mise a par-lare senz’altre facezie. Propose che Gabriella e Grazianocedessero la parte di proprietà della clinica ereditata dalpadre, per collocare questo denaro, insieme alla dote diGabriella, nella fabbrica di orologi. Ascoltandolo, Gra-ziano provava il tedio che gli procuravano sempre lequestioni e i discorsi d’affari. La sorella pensava che laclinica dava un reddito largo e sicuro; lo disse. Ma en-trambi sentivano soprattutto che la clinica, creazione delpadre, era come una parte della sua esistenza, qualcosache la rappresentava ancora visibilmente; sentivano checedere quella proprietà era come separarsi maggiormen-te da lui, dal loro passato comune, per sempre. Questaidea e questo sentimento furono espressi in poche paro-le, sottovoce, dal nonno.

Aurelio ascoltava i pareri contrarii a capo basso, concerto viso di colpevole, caricando adagio la pipa, chepoi lasciò sulla tavola senza accenderla. Ma tosto ripi-gliò a sostenere la proposta, animandosi come se nonvolesse forzare la volontà altrui e tuttavia il valore deisuoi argomenti lo scaldasse suo malgrado. Della fabbri-

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ca era già deciso l’ingrandimento; alcune macchine dalui perfezionate e già messe alla prova avrebbero reso illavoro piú rapido e meno costoso; non insisteva soltantoper il suo interesse ma perchè era sicuro che la fabbricaaveva un grande avvenire. E la convinzione sua si co-municò agli altri, sebbene rimanessero tutti silenziosi.

— Lasciami prima riposare un poco – disse Gabriellaalzandosi, sollevando con riguardo il peso che portava.

Graziano, nel guardare la sorella, sapeva quale deci-sione avrebbero presa prima di sera, e capiva che eranell’ordine naturale delle cose, come la vita voleva. An-che Aurelio sapeva. Senza dire altro si alzò egli pure,col suo viso sfaccettato e rosso, andò fuori ad accenderela pipa.

* * *

Col passar degli anni l’Avventina era divenuta menoscarna, piú bella, ma la sua figura faceva sempre pensa-re ad una monaca. Sempre vestita di scuro, con una gon-na ampia, tutta pieghe anche sui fianchi, con un corpettoliscio che stringeva e spianava il petto; quando andavaper le strade o saliva al paese, i suoi capelli neri, ineso-rabilmente tirati, eran coperti da un fazzoletto scuro an-nodato sotto il mento, che le nascondeva gran parte del-la faccia. Sebbene di pelle cosí bruna, la sua faccia ave-va un’espressione nobile; sotto il fazzoletto si vedevanogli occhi, grandi e morati, con una luce dolce; la bocca,tra labbra asciutte, mostrava denti nitidi e, se non rideva

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ca era già deciso l’ingrandimento; alcune macchine dalui perfezionate e già messe alla prova avrebbero reso illavoro piú rapido e meno costoso; non insisteva soltantoper il suo interesse ma perchè era sicuro che la fabbricaaveva un grande avvenire. E la convinzione sua si co-municò agli altri, sebbene rimanessero tutti silenziosi.

— Lasciami prima riposare un poco – disse Gabriellaalzandosi, sollevando con riguardo il peso che portava.

Graziano, nel guardare la sorella, sapeva quale deci-sione avrebbero presa prima di sera, e capiva che eranell’ordine naturale delle cose, come la vita voleva. An-che Aurelio sapeva. Senza dire altro si alzò egli pure,col suo viso sfaccettato e rosso, andò fuori ad accenderela pipa.

* * *

Col passar degli anni l’Avventina era divenuta menoscarna, piú bella, ma la sua figura faceva sempre pensa-re ad una monaca. Sempre vestita di scuro, con una gon-na ampia, tutta pieghe anche sui fianchi, con un corpettoliscio che stringeva e spianava il petto; quando andavaper le strade o saliva al paese, i suoi capelli neri, ineso-rabilmente tirati, eran coperti da un fazzoletto scuro an-nodato sotto il mento, che le nascondeva gran parte del-la faccia. Sebbene di pelle cosí bruna, la sua faccia ave-va un’espressione nobile; sotto il fazzoletto si vedevanogli occhi, grandi e morati, con una luce dolce; la bocca,tra labbra asciutte, mostrava denti nitidi e, se non rideva

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mai, aveva qualche volta un accenno di sorriso che sem-brava piú bello perchè subito spariva. Era raro che nontenesse attrezzi in spalla o non portasse canestre, sac-chetti: allora camminava con le mani riunite sullo sto-maco, come alla domenica quando andava a messa edaveva il libro. Passava in mezzo alla gente con l’aria didover sbrigare faccende molto serie e di premura; ai sa-luti dei giovani di Luvo rispondeva guardando il terrenoinnanzi a sè. Tutti, in paese e nelle campagne, s’eranoavvezzi a considerarla una persona diversa e separatadalle altre; se ne parlava generalmente come di un’ava-ra.

Ella rassomigliava alla madre, morta giovine. Suo pa-dre era un uomo di bassa statura, mingherlino, con unviso sempre ben rasato, che si moveva in fretta e parla-vo poco. Le aveva negato il consenso al matrimonio conGiusto, perchè i Crivelli erano poveri mezzadri; ma ciòche veramente non voleva, era che si sposasse. «Ti spo-serai quando io sarò morto» le aveva detto. Non ammet-teva nemmeno per idea che la figlia, prendendo marito,andasse a vivere altrove; tantomeno gli sarebbe piaciutolasciar entrare in casa uno sposo, chiunque fosse, lascia-re che un estraneo divenisse un poco padrone della robaloro, ed averlo continuamente dinanzi agli occhi comel’erede, il successore. La loro vita andava bene; non vo-leva cambiamenti. «Ti sposerai quando io sarò morto»;ma si sentiva in ottima salute e pensava che vi era anco-ra un tempo illimitato.

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mai, aveva qualche volta un accenno di sorriso che sem-brava piú bello perchè subito spariva. Era raro che nontenesse attrezzi in spalla o non portasse canestre, sac-chetti: allora camminava con le mani riunite sullo sto-maco, come alla domenica quando andava a messa edaveva il libro. Passava in mezzo alla gente con l’aria didover sbrigare faccende molto serie e di premura; ai sa-luti dei giovani di Luvo rispondeva guardando il terrenoinnanzi a sè. Tutti, in paese e nelle campagne, s’eranoavvezzi a considerarla una persona diversa e separatadalle altre; se ne parlava generalmente come di un’ava-ra.

Ella rassomigliava alla madre, morta giovine. Suo pa-dre era un uomo di bassa statura, mingherlino, con unviso sempre ben rasato, che si moveva in fretta e parla-vo poco. Le aveva negato il consenso al matrimonio conGiusto, perchè i Crivelli erano poveri mezzadri; ma ciòche veramente non voleva, era che si sposasse. «Ti spo-serai quando io sarò morto» le aveva detto. Non ammet-teva nemmeno per idea che la figlia, prendendo marito,andasse a vivere altrove; tantomeno gli sarebbe piaciutolasciar entrare in casa uno sposo, chiunque fosse, lascia-re che un estraneo divenisse un poco padrone della robaloro, ed averlo continuamente dinanzi agli occhi comel’erede, il successore. La loro vita andava bene; non vo-leva cambiamenti. «Ti sposerai quando io sarò morto»;ma si sentiva in ottima salute e pensava che vi era anco-ra un tempo illimitato.

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Page 424: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

La casa dell’Avvento non aveva nulla che non dovesseservire soltanto alle necessità del podere e ad una vita dacontadini: tranne una stanza che, coi suoi mobili lustri,rimaneva sempre chiusa e buia, dove si sarebbero potutiricevere visitatori di riguardo se ne fossero venuti. Lon-tana dalle strade battute, circondata di alberi da frutto, lacasa era di mattoni senza intonaco, con una cornicebianca di calce ben disegnata intorno alle finestre; là enelle terre ogni cosa era tenuta con gran cura, non sola-mente per ricavarne il maggior utile ma per amoredell’ordine, per decoro. Quando era stata smembratal’Amistà, il padre dell’Avventina aveva acquistati prati ecampi confinanti coi suoi; per coltivare tanta campagnadoveva far miracoli, insieme alla ragazza, ai servitorianziani che teneva, uomini e donne laboriosi come loro,austeri come loro. Se ne avesse comprata ancora, sareb-be stato costretto ad affidarla a qualcuno, e non voleva;perciò adesso faticavano, egli e la ragazza, soltanto permetter denaro alla cassa di risparmio. Delle banche nonsi fidavano. Alla cassa, a Rebbia, andava la figlia, por-tando su e giú quei libretti che poi subito riconsegnavaal padre e che egli nascondeva. A vivere spendevanopoco. La famiglia era governata da una regola non dettada nessuno e rispettata rigidamente da tutti: alzarsi pri-ma dell’alba, tener le cose assettate e lucide, mangiarpoco, senza dare importanza al cibo, bere acqua, parlaresolamente se era necessario, osservar i doveri religiosi,coricarsi appena notte. Quando dovevano lavorare ingiorni di festa, lo facevano pregando. Del denaro non

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La casa dell’Avvento non aveva nulla che non dovesseservire soltanto alle necessità del podere e ad una vita dacontadini: tranne una stanza che, coi suoi mobili lustri,rimaneva sempre chiusa e buia, dove si sarebbero potutiricevere visitatori di riguardo se ne fossero venuti. Lon-tana dalle strade battute, circondata di alberi da frutto, lacasa era di mattoni senza intonaco, con una cornicebianca di calce ben disegnata intorno alle finestre; là enelle terre ogni cosa era tenuta con gran cura, non sola-mente per ricavarne il maggior utile ma per amoredell’ordine, per decoro. Quando era stata smembratal’Amistà, il padre dell’Avventina aveva acquistati prati ecampi confinanti coi suoi; per coltivare tanta campagnadoveva far miracoli, insieme alla ragazza, ai servitorianziani che teneva, uomini e donne laboriosi come loro,austeri come loro. Se ne avesse comprata ancora, sareb-be stato costretto ad affidarla a qualcuno, e non voleva;perciò adesso faticavano, egli e la ragazza, soltanto permetter denaro alla cassa di risparmio. Delle banche nonsi fidavano. Alla cassa, a Rebbia, andava la figlia, por-tando su e giú quei libretti che poi subito riconsegnavaal padre e che egli nascondeva. A vivere spendevanopoco. La famiglia era governata da una regola non dettada nessuno e rispettata rigidamente da tutti: alzarsi pri-ma dell’alba, tener le cose assettate e lucide, mangiarpoco, senza dare importanza al cibo, bere acqua, parlaresolamente se era necessario, osservar i doveri religiosi,coricarsi appena notte. Quando dovevano lavorare ingiorni di festa, lo facevano pregando. Del denaro non

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avevano alcuna intenzione di servirsi; se non per deposi-tarne altro o fare scrivere gli interessi, non ne parlavanomai; né vi pensavano segretamente; lo dimenticavano.Però l’Avventina, tenendo lei i conti, un poco ne avevasempre, da disporne di nascosto. Per sé non compravanemmeno un grembiale, senza bisogno; invece aiutavachi veramente meritasse aiuto, raccomandandosi chenon si sapesse, tantomeno dal padre.

Quale sposo dell’Avventina – si domandava il conta-dino – sarebbe potuto entrare nella loro esistenza senzaguastarla? Nessuno. E la figlia, ormai giunta aitrent’anni, pensava che avrebbero vissuto sempre inquesto modo; credeva di non desiderare né volere piúniente altro; ma non si scordava mai di Giusto, avevasempre per lui lo stesso sentimento, come se il temponon lo potesse cambiare. Quando il padre le aveva nega-to il consenso, si era silenziosamente rassegnata ma sof-frendo molto; con la stessa rassegnazione e lo stesso do-lore aveva veduto Giusto unito ad un’altra, ad una don-na povera e rozza. Aveva costantemente seguite le suevicende, quando la moglie gli era morta, quando coi ge-nitori e col fratello s’era ridotto alla Scossa. Il burroneal quale scendeva quella terra, era una spietata bocca;ogni tanto si moveva a divorare un’altra lista di vigna odi campo, e la casa era screpolata da cima a fondo.Come si poteva aver volontà di viverci e lavorare? Sem-pre piú sfortunato era stato Giusto: ella non aveva maipotuto pensare a lui senza provarne compassione, senzasentire ch’era un uomo trattato dalla vita indegnamente,

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avevano alcuna intenzione di servirsi; se non per deposi-tarne altro o fare scrivere gli interessi, non ne parlavanomai; né vi pensavano segretamente; lo dimenticavano.Però l’Avventina, tenendo lei i conti, un poco ne avevasempre, da disporne di nascosto. Per sé non compravanemmeno un grembiale, senza bisogno; invece aiutavachi veramente meritasse aiuto, raccomandandosi chenon si sapesse, tantomeno dal padre.

Quale sposo dell’Avventina – si domandava il conta-dino – sarebbe potuto entrare nella loro esistenza senzaguastarla? Nessuno. E la figlia, ormai giunta aitrent’anni, pensava che avrebbero vissuto sempre inquesto modo; credeva di non desiderare né volere piúniente altro; ma non si scordava mai di Giusto, avevasempre per lui lo stesso sentimento, come se il temponon lo potesse cambiare. Quando il padre le aveva nega-to il consenso, si era silenziosamente rassegnata ma sof-frendo molto; con la stessa rassegnazione e lo stesso do-lore aveva veduto Giusto unito ad un’altra, ad una don-na povera e rozza. Aveva costantemente seguite le suevicende, quando la moglie gli era morta, quando coi ge-nitori e col fratello s’era ridotto alla Scossa. Il burroneal quale scendeva quella terra, era una spietata bocca;ogni tanto si moveva a divorare un’altra lista di vigna odi campo, e la casa era screpolata da cima a fondo.Come si poteva aver volontà di viverci e lavorare? Sem-pre piú sfortunato era stato Giusto: ella non aveva maipotuto pensare a lui senza provarne compassione, senzasentire ch’era un uomo trattato dalla vita indegnamente,

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sprecato. E adesso non era piú che un servitore di cam-pagna. Morto il padre, suo fratello Donato aveva sposatauna figlia di possidenti, ed egli lo aveva seguito, accon-tentandosi di quel posto di servo nel loro podere.

Ogni tanto l’Avventina lo rivedeva, sullo stradalementre tornava dal molino col carro, o sul mercato diRebbia mentre custodiva una coppia di buoi portati avendere. Pareva sempre il medesimo, appena un pocoumiliato, forse. Ella si diceva con amarezza che, posse-dendo tanta terra, tanto denaro, non era in grado di fareniente per quest’uomo al quale avrebbe voluto dare laterra, i libretti del denaro, fin l’ultimo sacco di grano,fin l’ultimo soldo. A quel matrimonio non voleva nep-pure ripensare; sapeva che il divieto era cosa stabilitaper sempre, da non tornarvi su. «Ti sposerai quando iosarò morto». Di quanto s’era passato tra lei e Giusto, lagente non aveva mai avuto il minimo sospetto. Se acca-deva che s’incontrassero in presenza d’altri, appena sisalutavano; invece, quando non vi eran testimoni ed illuogo era sicuro, si fermavano un momento a discorrere:ella incappucciata nel fazzoletto, seria e raccolta in sécome sempre, egli un poco timido ma sorridente e tran-quillo, parlavano del tempo, dei raccolti, di simili cose.

Il podere dove ora vivevano Giusto e Donato, avevanome Santa Lucia; era piú lontano da Luvo che gli altri,sopra un monticello della vallata grande nella qualescorreva il fiume; chi l’aveva visto una volta, se lo ri-cordava perchè sulla cima tonda la casa, grande, dipintad’azzurro, aveva una torricella con la colombaia e la

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sprecato. E adesso non era piú che un servitore di cam-pagna. Morto il padre, suo fratello Donato aveva sposatauna figlia di possidenti, ed egli lo aveva seguito, accon-tentandosi di quel posto di servo nel loro podere.

Ogni tanto l’Avventina lo rivedeva, sullo stradalementre tornava dal molino col carro, o sul mercato diRebbia mentre custodiva una coppia di buoi portati avendere. Pareva sempre il medesimo, appena un pocoumiliato, forse. Ella si diceva con amarezza che, posse-dendo tanta terra, tanto denaro, non era in grado di fareniente per quest’uomo al quale avrebbe voluto dare laterra, i libretti del denaro, fin l’ultimo sacco di grano,fin l’ultimo soldo. A quel matrimonio non voleva nep-pure ripensare; sapeva che il divieto era cosa stabilitaper sempre, da non tornarvi su. «Ti sposerai quando iosarò morto». Di quanto s’era passato tra lei e Giusto, lagente non aveva mai avuto il minimo sospetto. Se acca-deva che s’incontrassero in presenza d’altri, appena sisalutavano; invece, quando non vi eran testimoni ed illuogo era sicuro, si fermavano un momento a discorrere:ella incappucciata nel fazzoletto, seria e raccolta in sécome sempre, egli un poco timido ma sorridente e tran-quillo, parlavano del tempo, dei raccolti, di simili cose.

Il podere dove ora vivevano Giusto e Donato, avevanome Santa Lucia; era piú lontano da Luvo che gli altri,sopra un monticello della vallata grande nella qualescorreva il fiume; chi l’aveva visto una volta, se lo ri-cordava perchè sulla cima tonda la casa, grande, dipintad’azzurro, aveva una torricella con la colombaia e la

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banderuola di latta, e le stava intorno un cerchio d’ippo-castani, perfetto. La terra era buona, bene esposta alsole, ma i Moretto, alla famiglia dei quali appartenevada molte generazioni, non sapevano coltivarla, non neavevano voglia. Vi erano un nonno vecchissimo, il pa-dre e la madre, un esercito di figli e figlie; tutti coman-davano e nessuno obbediva; facevano molto strepito perniente, cercavano ogni pretesto per andar sempre ingiro, abitualmente affannati e squattrinati. La moglie diDonato era grassoccia, bianca, coi capelli piuttosto dimille colori che biondi; gli aveva già dato un grosso fi-glio e non faceva altro che strascicar le ciabatte colbambino in collo.

Giusto e Donato lavoravano qui come sempre. Anco-ra avevano nell’animo il ricordo ingrato della Scossa.Quel burrone in fondo ai campi ed alle vigne era statoper loro come un mostro che dovesse da un momentoall’altro inghiottire tutto e tutti; la Scossa era di signoriche vivevano lontano e che, avendo in orrore quel luogostregato, non rispondevano neanche alle lettere. Soli acondurre il fondo, poichè il padre non era piú capace dinulla, Giusto e Donato non avevano trascurato il lorodovere, però senza piantar una vite nuova né toccare ciòche bene o male durava; il lavoro piú grande era stato dimetter puntelli al fabbricato. Là i due fratelli avevanocominciato a lavorare sempre assieme; sebbene non par-lassero, s’erano assuefatti a sentirsi l’uno accantoall’altro. Nell’aspetto Donato somigliava molto a Giu-sto, ma senza i pensieri, le inquietudini che questi ave-

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banderuola di latta, e le stava intorno un cerchio d’ippo-castani, perfetto. La terra era buona, bene esposta alsole, ma i Moretto, alla famiglia dei quali appartenevada molte generazioni, non sapevano coltivarla, non neavevano voglia. Vi erano un nonno vecchissimo, il pa-dre e la madre, un esercito di figli e figlie; tutti coman-davano e nessuno obbediva; facevano molto strepito perniente, cercavano ogni pretesto per andar sempre ingiro, abitualmente affannati e squattrinati. La moglie diDonato era grassoccia, bianca, coi capelli piuttosto dimille colori che biondi; gli aveva già dato un grosso fi-glio e non faceva altro che strascicar le ciabatte colbambino in collo.

Giusto e Donato lavoravano qui come sempre. Anco-ra avevano nell’animo il ricordo ingrato della Scossa.Quel burrone in fondo ai campi ed alle vigne era statoper loro come un mostro che dovesse da un momentoall’altro inghiottire tutto e tutti; la Scossa era di signoriche vivevano lontano e che, avendo in orrore quel luogostregato, non rispondevano neanche alle lettere. Soli acondurre il fondo, poichè il padre non era piú capace dinulla, Giusto e Donato non avevano trascurato il lorodovere, però senza piantar una vite nuova né toccare ciòche bene o male durava; il lavoro piú grande era stato dimetter puntelli al fabbricato. Là i due fratelli avevanocominciato a lavorare sempre assieme; sebbene non par-lassero, s’erano assuefatti a sentirsi l’uno accantoall’altro. Nell’aspetto Donato somigliava molto a Giu-sto, ma senza i pensieri, le inquietudini che questi ave-

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va; era pieno, invece, d’una vita di buona bestia; alla fe-sta, non avendo mai un soldo da spendere, restava incasa a dormire. Il vecchio Cleto, trascinandosi per ilcortile fino all’ultimo giorno, vergognoso della malattiae di esser di peso agli altri, adagio adagio era morto.Dopo che egli era stato portato dove già erano Urbano eCamilla, col medesimo carro dei bovi che aveva servitoper loro, Regina s’era voluta infine prender con sé lamadre. Aveva cinque figli, Regina, era sempre piú ma-gra, ma stava bene, come può star bene una donna rasse-gnata; suo marito comprava ogni anno altre terre, altrobestiame. Nella grande fattoria presso il fiume, piena digarzoni e di serve, Marta non aveva che da rimanersenetranquilla a far la calza; pure, piangeva piangeva, lasmorfia del pianto continuava a scavarsi nel suo voltopiú profonda: ella avrebbe desiderato soltanto di finirevicino a Luvo, che non era il suo paese nativo ma dovela famiglia aveva conosciuti i tempi belli.

Alla morte del padre Giusto e Donato s’eran subito li-berati dalla Scossa. Donato aveva fatto il matrimonioimbastito da un pezzo; i Moretto gli avevan data la ra-gazza per acquistare senza spesa un buon lavoratore. EGiusto si era trovato pienamente padrone di sé: non ave-va figli, nessun legame, poteva andar a Torino, a farsioperaio, partire quando gli piacesse. Venduti i carri, lebestie, gli attrezzi, aveva voluto pagare i vecchi debiti, enon c’era rimasto niente; ma alla resa dei conti del po-dere un po’ di denaro lo aveva riscosso. Che decisioneprendere? Lungamente era stato a meditare, tenendosi la

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va; era pieno, invece, d’una vita di buona bestia; alla fe-sta, non avendo mai un soldo da spendere, restava incasa a dormire. Il vecchio Cleto, trascinandosi per ilcortile fino all’ultimo giorno, vergognoso della malattiae di esser di peso agli altri, adagio adagio era morto.Dopo che egli era stato portato dove già erano Urbano eCamilla, col medesimo carro dei bovi che aveva servitoper loro, Regina s’era voluta infine prender con sé lamadre. Aveva cinque figli, Regina, era sempre piú ma-gra, ma stava bene, come può star bene una donna rasse-gnata; suo marito comprava ogni anno altre terre, altrobestiame. Nella grande fattoria presso il fiume, piena digarzoni e di serve, Marta non aveva che da rimanersenetranquilla a far la calza; pure, piangeva piangeva, lasmorfia del pianto continuava a scavarsi nel suo voltopiú profonda: ella avrebbe desiderato soltanto di finirevicino a Luvo, che non era il suo paese nativo ma dovela famiglia aveva conosciuti i tempi belli.

Alla morte del padre Giusto e Donato s’eran subito li-berati dalla Scossa. Donato aveva fatto il matrimonioimbastito da un pezzo; i Moretto gli avevan data la ra-gazza per acquistare senza spesa un buon lavoratore. EGiusto si era trovato pienamente padrone di sé: non ave-va figli, nessun legame, poteva andar a Torino, a farsioperaio, partire quando gli piacesse. Venduti i carri, lebestie, gli attrezzi, aveva voluto pagare i vecchi debiti, enon c’era rimasto niente; ma alla resa dei conti del po-dere un po’ di denaro lo aveva riscosso. Che decisioneprendere? Lungamente era stato a meditare, tenendosi la

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testa tra le mani. In lui non si era mai cancellata del tut-to l’impressione che Torino gli aveva fatta tanti anni pri-ma, in quei pochi giorni che vi era rimasto. Ne sentivasempre la stessa paura: per un contadino gli pareva mol-to difficile quella vita. Nemmeno alla morte del padrenon si era piú fatto vedere nessuno dei fratelli che ave-vano cercate le città. A Torino Uliva era commessa sulmercato della verdura, a quanto si sapeva, viveva traquei mercanti e facchini; Fede, che dopo il figlio perdu-to in fasce non ne aveva avuti altri, si era fatta una belladonna, guadagnava ora abbastanza come operaia di fab-brica, ma viveva a modo suo, liberamente, spregiando ilmarito, Remo, restato un tardo manovale. Dalla FranciaDionisio non aveva piú scritto; cambiando sempre me-stiere, aveva girate altre città del mezzogiorno; adesso,tornato a Marsiglia, faceva il verniciatore di bastimenti;beveva liquori, doveva aver con sè una francese; qual-cuno diceva che fosse in pessimo stato. Mentre Giustopensava, i Moretto gli avevan fatto proporre da Donatodi andar da loro, coi patti usuali dei servi di campagna.Volevano, a poco prezzo, anche quest’altro paio di brac-cia, famoso per lavorare. E Giusto non aveva tardato aprendere il suo fagotto e andare a Santa Lucia.

Di nuovo avere delle terra sicura, senza frane! Colti-vare un podere ricco, capace di ripagar le fatiche in bel-lezza, in raccolti! Giusto se n’era subito lasciato prende-re, dalla terra, dal podere, dalla vita di Santa Lucia. Eglied il fratello, di nuovo lavorando insieme, facevano lefatiche grosse, senza staccare per ore, senza mutarle pri-

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testa tra le mani. In lui non si era mai cancellata del tut-to l’impressione che Torino gli aveva fatta tanti anni pri-ma, in quei pochi giorni che vi era rimasto. Ne sentivasempre la stessa paura: per un contadino gli pareva mol-to difficile quella vita. Nemmeno alla morte del padrenon si era piú fatto vedere nessuno dei fratelli che ave-vano cercate le città. A Torino Uliva era commessa sulmercato della verdura, a quanto si sapeva, viveva traquei mercanti e facchini; Fede, che dopo il figlio perdu-to in fasce non ne aveva avuti altri, si era fatta una belladonna, guadagnava ora abbastanza come operaia di fab-brica, ma viveva a modo suo, liberamente, spregiando ilmarito, Remo, restato un tardo manovale. Dalla FranciaDionisio non aveva piú scritto; cambiando sempre me-stiere, aveva girate altre città del mezzogiorno; adesso,tornato a Marsiglia, faceva il verniciatore di bastimenti;beveva liquori, doveva aver con sè una francese; qual-cuno diceva che fosse in pessimo stato. Mentre Giustopensava, i Moretto gli avevan fatto proporre da Donatodi andar da loro, coi patti usuali dei servi di campagna.Volevano, a poco prezzo, anche quest’altro paio di brac-cia, famoso per lavorare. E Giusto non aveva tardato aprendere il suo fagotto e andare a Santa Lucia.

Di nuovo avere delle terra sicura, senza frane! Colti-vare un podere ricco, capace di ripagar le fatiche in bel-lezza, in raccolti! Giusto se n’era subito lasciato prende-re, dalla terra, dal podere, dalla vita di Santa Lucia. Eglied il fratello, di nuovo lavorando insieme, facevano lefatiche grosse, senza staccare per ore, senza mutarle pri-

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ma d’aver finito, mentre i Moretto andavano e venivanodal paese, portavan l’erba ai conigli, cuocevano il pane,chiamandosi a gran voce, litigando, tutti compagni inquel disordine ed in fine sempre d’accordo. Nelle vignee nei campi, sopra il monticello dorato dal sole, l’effettodella volontà e della forza che vi spendevano i due Cri-velli, s’era veduto presto. Ringraziarli? Gli altri fingeva-no di non vedere, di non sapere.

Nella sua grossa testa Donato immaginava d’essereanch’egli un poco padrone del luogo, sebbene per la suaopera non ricevesse un quattrino e non gli fosse maidata ragione di niente. Invece Giusto si giudicava unosciocco perchè sentiva ancora la passione di migliorar ilpodere, perchè non pensava che ai lavori e studiava ilcielo chiamando un tempo favorevole. Sapeva bene diessere ormai soltanto un servitore. Glielo avrebberorammentato gli altri, se l’avesse potuto dimenticare: tuttiavevano ordini da dargli, anche i ragazzi; freddo, piog-gia, sonno, per lui non ci dovevano essere; per mangia-re, il suo posto era in fondo alla tavola, doveva servirsil’ultimo; non lo contavano per nulla, fuorchè nella fati-ca. Era sul piú basso scalino dove un contadino potessestare. E doveva rimanerci sempre, senza speranze? Neigiorni di festa se ne andava da Santa Lucia anche nonavendone voglia; questo era un diritto dei servitori.Scendeva a Rebbia e si comprava giornali ed opuscolisocialisti, che poi leggeva ostinatamente, sforzandosi dicapire, cercando con avidità i fatti, la politica, le idee, lavita che vi erano scritti. Strada facendo, pensava; soltan-

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ma d’aver finito, mentre i Moretto andavano e venivanodal paese, portavan l’erba ai conigli, cuocevano il pane,chiamandosi a gran voce, litigando, tutti compagni inquel disordine ed in fine sempre d’accordo. Nelle vignee nei campi, sopra il monticello dorato dal sole, l’effettodella volontà e della forza che vi spendevano i due Cri-velli, s’era veduto presto. Ringraziarli? Gli altri fingeva-no di non vedere, di non sapere.

Nella sua grossa testa Donato immaginava d’essereanch’egli un poco padrone del luogo, sebbene per la suaopera non ricevesse un quattrino e non gli fosse maidata ragione di niente. Invece Giusto si giudicava unosciocco perchè sentiva ancora la passione di migliorar ilpodere, perchè non pensava che ai lavori e studiava ilcielo chiamando un tempo favorevole. Sapeva bene diessere ormai soltanto un servitore. Glielo avrebberorammentato gli altri, se l’avesse potuto dimenticare: tuttiavevano ordini da dargli, anche i ragazzi; freddo, piog-gia, sonno, per lui non ci dovevano essere; per mangia-re, il suo posto era in fondo alla tavola, doveva servirsil’ultimo; non lo contavano per nulla, fuorchè nella fati-ca. Era sul piú basso scalino dove un contadino potessestare. E doveva rimanerci sempre, senza speranze? Neigiorni di festa se ne andava da Santa Lucia anche nonavendone voglia; questo era un diritto dei servitori.Scendeva a Rebbia e si comprava giornali ed opuscolisocialisti, che poi leggeva ostinatamente, sforzandosi dicapire, cercando con avidità i fatti, la politica, le idee, lavita che vi erano scritti. Strada facendo, pensava; soltan-

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to la festa gli era possibile pensare a suo agio lentamen-te. Qualche volta invece saliva al camposanto di Luvo,col badile, e riaccomodava per bene i tumuli sulle fossedei suoi, che le intemperie guastavano. Sempre portavacon sé quel pensiero di cambiar vita andando in città.

Quando gli accadeva d’incontrare l’Avventina, nelprimo istante Giusto se ne dispiaceva, come se ella do-vesse vedere, anche dal suo aspetto, in quale umile con-dizione ora si trovava. Dopo ne era contento. Se poteva-no stare un poco a discorrere, ricordava poi il colloquio,ne ripensava ogni particolare. Sentiva qualcosa di belloe di prezioso in questa ragazza di trent’anni, per la qualeil tempo scorreva sempre eguale nel lavorare e pregare;in questa ragazza vestita da monaca, che non guardavanessun altro uomo e non parlava con nessuno. Gli piace-vano i suoi occhi scuri sotto il fazzoletto, la bocca chepareva dissuggellarsi a stento, il suo parlare calmo ed unpoco afflitto. Per lui era sempre la stessa; tanti anni eranpassati e gli voleva sempre bene. Era la sola donna chepensava a lui. Ciò che Giusto provava per l’Avventinaera come una riconoscenza segreta. Tanta roba, tantaterra, e pensava ad uno che non aveva piú di suo nean-che la zappa con la quale lavorava. Ma l’affettodell’Avventina gli pareva una beffa della sorte, un mo-strare e non dare, il principio d’una cosa senza seguito.Del resto, per nessuna ragione al mondo egli avrebbeadesso voluto rinunziare alla libertà che aveva, di far disè quel che volesse, quando volesse.

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to la festa gli era possibile pensare a suo agio lentamen-te. Qualche volta invece saliva al camposanto di Luvo,col badile, e riaccomodava per bene i tumuli sulle fossedei suoi, che le intemperie guastavano. Sempre portavacon sé quel pensiero di cambiar vita andando in città.

Quando gli accadeva d’incontrare l’Avventina, nelprimo istante Giusto se ne dispiaceva, come se ella do-vesse vedere, anche dal suo aspetto, in quale umile con-dizione ora si trovava. Dopo ne era contento. Se poteva-no stare un poco a discorrere, ricordava poi il colloquio,ne ripensava ogni particolare. Sentiva qualcosa di belloe di prezioso in questa ragazza di trent’anni, per la qualeil tempo scorreva sempre eguale nel lavorare e pregare;in questa ragazza vestita da monaca, che non guardavanessun altro uomo e non parlava con nessuno. Gli piace-vano i suoi occhi scuri sotto il fazzoletto, la bocca chepareva dissuggellarsi a stento, il suo parlare calmo ed unpoco afflitto. Per lui era sempre la stessa; tanti anni eranpassati e gli voleva sempre bene. Era la sola donna chepensava a lui. Ciò che Giusto provava per l’Avventinaera come una riconoscenza segreta. Tanta roba, tantaterra, e pensava ad uno che non aveva piú di suo nean-che la zappa con la quale lavorava. Ma l’affettodell’Avventina gli pareva una beffa della sorte, un mo-strare e non dare, il principio d’una cosa senza seguito.Del resto, per nessuna ragione al mondo egli avrebbeadesso voluto rinunziare alla libertà che aveva, di far disè quel che volesse, quando volesse.

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Una domenica mattina Graziano Farra mandò dallapineta il ragazzo dei coloni ad avvertire Giusto che nelpomeriggio sarebbe venuto a trovarlo a Santa Lucia. Siincontrarono poi sulla strada che portava a questo pode-re, ad una buona distanza dal monticello, perchè Giustoaveva camminato in fretta, apposta, non volendo mo-strarsi all’altro nel luogo dove stava a servire. E il con-tadino, arrossendo, trovando la scusa che a Santa Luciavi era sempre un gran disordine, fece tornare Grazianosui suoi passi, verso lo stradale di Luvo. Non si vedeva-no da molto tempo: si strinsero la mano con calore; siconsiderarono a vicenda. Giusto aveva indossata la giac-ca anziché gettarla soltanto sopra una spalla; la sua ca-micia era candida, il fazzoletto di seta per cravatta anno-dato con cura; s’era fatta la barba, l’ombra biancazzurragli incorniciava il viso; ora non portava piú baffi, e lasua mascella forte pareva sporgere maggiormente.

— Quante cose avete viste! – egli disse a Graziano. –Compro qualche volta il giornale dove scrivete.

Lo guardava, cosí ringargliardito, alto, elegante, comeuno che avesse le ali e tutto il mondo fosse suo. Pensavaanche, vagamente, ai fatti accaduti all’Amistà in unalontana estate, ma gli apparivano privi d’importanza aconfronto con tutto ciò che dopo era successo. Disse cheaveva pure comprato e conservava Senza terra. – Lestorie raccontate – osservò con un sorriso benevolo –sono molto diverse da come si vivono. Ma è un grandono saper scrivere tanto bene. – Sospirò come se gli in-vidiasse questa capacità.

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Una domenica mattina Graziano Farra mandò dallapineta il ragazzo dei coloni ad avvertire Giusto che nelpomeriggio sarebbe venuto a trovarlo a Santa Lucia. Siincontrarono poi sulla strada che portava a questo pode-re, ad una buona distanza dal monticello, perchè Giustoaveva camminato in fretta, apposta, non volendo mo-strarsi all’altro nel luogo dove stava a servire. E il con-tadino, arrossendo, trovando la scusa che a Santa Luciavi era sempre un gran disordine, fece tornare Grazianosui suoi passi, verso lo stradale di Luvo. Non si vedeva-no da molto tempo: si strinsero la mano con calore; siconsiderarono a vicenda. Giusto aveva indossata la giac-ca anziché gettarla soltanto sopra una spalla; la sua ca-micia era candida, il fazzoletto di seta per cravatta anno-dato con cura; s’era fatta la barba, l’ombra biancazzurragli incorniciava il viso; ora non portava piú baffi, e lasua mascella forte pareva sporgere maggiormente.

— Quante cose avete viste! – egli disse a Graziano. –Compro qualche volta il giornale dove scrivete.

Lo guardava, cosí ringargliardito, alto, elegante, comeuno che avesse le ali e tutto il mondo fosse suo. Pensavaanche, vagamente, ai fatti accaduti all’Amistà in unalontana estate, ma gli apparivano privi d’importanza aconfronto con tutto ciò che dopo era successo. Disse cheaveva pure comprato e conservava Senza terra. – Lestorie raccontate – osservò con un sorriso benevolo –sono molto diverse da come si vivono. Ma è un grandono saper scrivere tanto bene. – Sospirò come se gli in-vidiasse questa capacità.

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Graziano sapeva che ora Giusto era solamente un ser-vo; nel guardarlo ne provava pena, ricordando i Crivellidell’Amistà, e ricordando quel ragazzo che la sera glichiedeva come si movono le stelle, con un’avidità di co-noscere, anche lui, tutte le cose. Però, gli vedeva semprela stessa aria vigorosa; tenendo il cappello in mano per-chè la strada era all’ombra, il contadino mostrava il cra-nio rasato, che sembrava duro come pietra; anche la fac-cia, con la mandibola massiccia, aveva sempre unaespressione di volontà caparbia: ciò che gli era accadutoin quegli anni, non aveva potuto guastarlo. Salivano trasiepi alte di acacie, in mezzo a belle vigne, nel silenzioriposato dei giorni di festa. Giusto parlava senza sogge-zione, con facilità.

— Il tempo passa – disse scotendo un poco il capo – etanta brava gente è già scomparsa.

Ricordarono insieme quei morti; Graziano diceva diUrbano, di Cleto, come li aveva sempre nella memoria.Brava gente, tutta. L’altro accennò poi la storia degliamici e dei tipi bizzarri che venivano all’Amistà: Taure-no e Minotto seguitavano a far chiasso in tutti i pranzi ele feste, il secondo con la fisarmonica e col solito ma-scherone allegro; Lilibeo, il ragazzo che non stava maisenza parlare, aveva sposata una brutta donnetta che lotrattava col bastone; la vecchia Riccia mezza matta eramorta in un fienile e suo fratello Ciro – al quale la noti-zia era giunta molti mesi dopo – andava ancora cercan-do per le campagne dove fossero rimasti i suoi denari,chi li avesse. Da un’idea all’altra, Giusto aveva sempre

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Graziano sapeva che ora Giusto era solamente un ser-vo; nel guardarlo ne provava pena, ricordando i Crivellidell’Amistà, e ricordando quel ragazzo che la sera glichiedeva come si movono le stelle, con un’avidità di co-noscere, anche lui, tutte le cose. Però, gli vedeva semprela stessa aria vigorosa; tenendo il cappello in mano per-chè la strada era all’ombra, il contadino mostrava il cra-nio rasato, che sembrava duro come pietra; anche la fac-cia, con la mandibola massiccia, aveva sempre unaespressione di volontà caparbia: ciò che gli era accadutoin quegli anni, non aveva potuto guastarlo. Salivano trasiepi alte di acacie, in mezzo a belle vigne, nel silenzioriposato dei giorni di festa. Giusto parlava senza sogge-zione, con facilità.

— Il tempo passa – disse scotendo un poco il capo – etanta brava gente è già scomparsa.

Ricordarono insieme quei morti; Graziano diceva diUrbano, di Cleto, come li aveva sempre nella memoria.Brava gente, tutta. L’altro accennò poi la storia degliamici e dei tipi bizzarri che venivano all’Amistà: Taure-no e Minotto seguitavano a far chiasso in tutti i pranzi ele feste, il secondo con la fisarmonica e col solito ma-scherone allegro; Lilibeo, il ragazzo che non stava maisenza parlare, aveva sposata una brutta donnetta che lotrattava col bastone; la vecchia Riccia mezza matta eramorta in un fienile e suo fratello Ciro – al quale la noti-zia era giunta molti mesi dopo – andava ancora cercan-do per le campagne dove fossero rimasti i suoi denari,chi li avesse. Da un’idea all’altra, Giusto aveva sempre

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nuove cose da dire. Parlò dei Bardissone che, non tro-vando piú nessuno che volesse coltivare il podere, ave-van dovuto prendere ai Cavalieri dei lestofanti degni diloro, i quali non lavoravano, li derubavano, facevan dapadroni, costringendo la coppia ad una vita d’inferno.Parlò perfino degli eredi di Casimiro Gallant, quandonon avevano voluto riconoscere i pezzetti di carta coiquali i Crivelli avevano reclamato il loro credito.

— Tutti sapevano chi eravamo noi – disse; poi feceun gesto come a cancellare per sempre quel pensiero.

— Non esiste piú nemmeno l’Amistà, da tanti anni!Salivano adagio, contenti di essere insieme, sentendo

entrambi d’avere ritrovato un amico. Graziano strappa-va a manciate dalle acacie le foglioline che avevano unodore fresco un po’ acre, come una volta. Passarono lun-go un campo di bel frumento; il contadino lo indicò, di-cendo che presto s’incominciava a mietere; al suo com-pagno tornarono in mente le giornate in cui alla Amistàlavorava la trebbiatrice, quelle feste; e gli diede piacerepensar che continuava sempre quel girare delle stagioni,coi lavori e coi raccolti, e che si sarebbe sempre ripetutoallo stesso modo. Giunsero poco dopo allo stradale cheda Luvo scendeva a Rebbia, proprio nel tratto dal qualesi vedeva la collina dei pini. Giusto alzò il viso verso lavilla: – Guardo sempre là, quando passo.

Sedettero sopra un muricciolo. Dal paese, comparen-do improvviso ad una svolta, arrivò un barroccio che an-dava forte per la discesa; vi erano due uomini e due gio-vani donne, che parlavano tutti insieme e ridevano, di ri-

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nuove cose da dire. Parlò dei Bardissone che, non tro-vando piú nessuno che volesse coltivare il podere, ave-van dovuto prendere ai Cavalieri dei lestofanti degni diloro, i quali non lavoravano, li derubavano, facevan dapadroni, costringendo la coppia ad una vita d’inferno.Parlò perfino degli eredi di Casimiro Gallant, quandonon avevano voluto riconoscere i pezzetti di carta coiquali i Crivelli avevano reclamato il loro credito.

— Tutti sapevano chi eravamo noi – disse; poi feceun gesto come a cancellare per sempre quel pensiero.

— Non esiste piú nemmeno l’Amistà, da tanti anni!Salivano adagio, contenti di essere insieme, sentendo

entrambi d’avere ritrovato un amico. Graziano strappa-va a manciate dalle acacie le foglioline che avevano unodore fresco un po’ acre, come una volta. Passarono lun-go un campo di bel frumento; il contadino lo indicò, di-cendo che presto s’incominciava a mietere; al suo com-pagno tornarono in mente le giornate in cui alla Amistàlavorava la trebbiatrice, quelle feste; e gli diede piacerepensar che continuava sempre quel girare delle stagioni,coi lavori e coi raccolti, e che si sarebbe sempre ripetutoallo stesso modo. Giunsero poco dopo allo stradale cheda Luvo scendeva a Rebbia, proprio nel tratto dal qualesi vedeva la collina dei pini. Giusto alzò il viso verso lavilla: – Guardo sempre là, quando passo.

Sedettero sopra un muricciolo. Dal paese, comparen-do improvviso ad una svolta, arrivò un barroccio che an-dava forte per la discesa; vi erano due uomini e due gio-vani donne, che parlavano tutti insieme e ridevano, di ri-

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torno da qualche visita festiva; in silenzio Graziano eGiusto li guardarono passare sobbalzando, tra un granrumore di ferramenti, ed allontanarsi con uno strascicodi polvere. Svanito lo strepito, Giusto ripigliò a parlare,premendo piano le mani sui ginocchi come per aiutarsi adire cose difficili, che avesse ritegno a far sapere e tutta-via volesse confidare: – Adesso sono solo. Intendo chenon ho piú nessuna ragione di stare qui. Cos’è un conta-dino come me? Che può fare, in questi paesi? Nelle cittàgli operai si istruiscono, imparano quel che valgono,sono messi insieme, c’è chi li fa movere, acquistano deidiritti. I contadini contano soltanto nelle pianure, dovela gente può radunarsi, far massa.

Graziano lo osservò di nuovo attentamente; ora lo ri-cordava assai bene quando all’Amistà stava a guardarela barriera delle colline come se fosse il muro d’una pri-gione. Rispose: – Ma gli operai della città sono sconten-ti. Che cosa dicono? Perchè si agitano? Stanno male. Iocredo che in campagna, chi c’è nato, debba vivere me-glio. Il lavoro degli operai è pesante, spesso danneggiala salute; le abitazioni sono misere, in ogni casa c’è unafolla pigiata. Nelle città si hanno altri bisogni, altri tor-menti.

— Io non mi curo di questo. Non cerco il benessere.Meglio spingere la carriola in città che restare qui sper-duto. Se avessi figli, mi sarei già deciso: per farne deglioperai. Avrebbero subito il loro posto, nei ranghi. Quan-do leggo i giornali, rimanere nella mia condizione misembra una viltà. – Giusto parlava con fervore, lascian-

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torno da qualche visita festiva; in silenzio Graziano eGiusto li guardarono passare sobbalzando, tra un granrumore di ferramenti, ed allontanarsi con uno strascicodi polvere. Svanito lo strepito, Giusto ripigliò a parlare,premendo piano le mani sui ginocchi come per aiutarsi adire cose difficili, che avesse ritegno a far sapere e tutta-via volesse confidare: – Adesso sono solo. Intendo chenon ho piú nessuna ragione di stare qui. Cos’è un conta-dino come me? Che può fare, in questi paesi? Nelle cittàgli operai si istruiscono, imparano quel che valgono,sono messi insieme, c’è chi li fa movere, acquistano deidiritti. I contadini contano soltanto nelle pianure, dovela gente può radunarsi, far massa.

Graziano lo osservò di nuovo attentamente; ora lo ri-cordava assai bene quando all’Amistà stava a guardarela barriera delle colline come se fosse il muro d’una pri-gione. Rispose: – Ma gli operai della città sono sconten-ti. Che cosa dicono? Perchè si agitano? Stanno male. Iocredo che in campagna, chi c’è nato, debba vivere me-glio. Il lavoro degli operai è pesante, spesso danneggiala salute; le abitazioni sono misere, in ogni casa c’è unafolla pigiata. Nelle città si hanno altri bisogni, altri tor-menti.

— Io non mi curo di questo. Non cerco il benessere.Meglio spingere la carriola in città che restare qui sper-duto. Se avessi figli, mi sarei già deciso: per farne deglioperai. Avrebbero subito il loro posto, nei ranghi. Quan-do leggo i giornali, rimanere nella mia condizione misembra una viltà. – Giusto parlava con fervore, lascian-

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do venir fuori pensieri ch’erano sempre rimasti chiusi inlui a fermentare; ma tacque un momento, battendo i pu-gni sul muricciolo come per stimolarsi a dire una cosaancora piú difficile ed importante. – Il mondo cambia –disse infine. – Voglio esserci anch’io ed aiutare.

Graziano sentí che il compagno aveva nell’animo lastessa forza che mostrava in faccia, nella persona. Loguardò sorridendo, ma senza ombra d’incertezza né diironia: – Tu hai un’idea, sai che cosa fare della tua vita,dunque va’.

Dal muricciolo rimise d’un salto i piedi a terra, tostoimitato dall’altro. Si avviarono per la discesa. Non si ve-deva piú il globo del sole perchè dalla parte del tramon-to, lungo lo stradale, era un bastione di colline; ma que-ste forme risaltavano sopra uno spazio profondo, pienodi caldi colori, e da ogni lato cielo e campagna parevanoassai piú vasti di prima. Non si udiva un rumore e non siscorgeva nessuno. I due camminavano in silenzio. Giu-sto si sentiva deciso e sicuro; pensava che l’indomaniavrebbe parlato a Donato, per lasciare Santa Lucia a no-vembre, quando si disfacevano i contratti. «Ci vive tantagente, in città; vivrò anch’io».

Da una viottola delle vigne che erano accanto allastrada, sbucò ad un tratto un uomo gagliardo, carico diun sacco e di arnesi, come pentolini e gamelle, che por-tava in spalla infilati ad una pertica. Mentre veniva in-nanzi pestando la polvere coi larghi piedi nudi e mo-strando tra la camicia aperta il largo petto peloso, Gra-ziano riconobbe quella figura che sembrava di un dio bi-

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do venir fuori pensieri ch’erano sempre rimasti chiusi inlui a fermentare; ma tacque un momento, battendo i pu-gni sul muricciolo come per stimolarsi a dire una cosaancora piú difficile ed importante. – Il mondo cambia –disse infine. – Voglio esserci anch’io ed aiutare.

Graziano sentí che il compagno aveva nell’animo lastessa forza che mostrava in faccia, nella persona. Loguardò sorridendo, ma senza ombra d’incertezza né diironia: – Tu hai un’idea, sai che cosa fare della tua vita,dunque va’.

Dal muricciolo rimise d’un salto i piedi a terra, tostoimitato dall’altro. Si avviarono per la discesa. Non si ve-deva piú il globo del sole perchè dalla parte del tramon-to, lungo lo stradale, era un bastione di colline; ma que-ste forme risaltavano sopra uno spazio profondo, pienodi caldi colori, e da ogni lato cielo e campagna parevanoassai piú vasti di prima. Non si udiva un rumore e non siscorgeva nessuno. I due camminavano in silenzio. Giu-sto si sentiva deciso e sicuro; pensava che l’indomaniavrebbe parlato a Donato, per lasciare Santa Lucia a no-vembre, quando si disfacevano i contratti. «Ci vive tantagente, in città; vivrò anch’io».

Da una viottola delle vigne che erano accanto allastrada, sbucò ad un tratto un uomo gagliardo, carico diun sacco e di arnesi, come pentolini e gamelle, che por-tava in spalla infilati ad una pertica. Mentre veniva in-nanzi pestando la polvere coi larghi piedi nudi e mo-strando tra la camicia aperta il largo petto peloso, Gra-ziano riconobbe quella figura che sembrava di un dio bi-

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slacco, vecchio ed invulnerabile, a cui piacesse andarpel mondo sempre stracciato e solo. Veniva dal passatoma non come un’apparizione: era un pezzo di quellavita ritornato tale e quale. Non ne ritrovava però ilnome.

— Ghianda! – chiamò Giusto col tono in cui si chia-mano i buffoni. Il vagabondo, senza gesti, continuandoad avvicinarsi, piegò un poco il capo all’indietro e feceuna risata, larga, sonora, una risata di bronzo. – Dovevai, che viaggi anche di domenica? – gli chiese il conta-dino, quando si furono incontrati e si fermarono. Ghian-da disse il nome d’una borgata. Giusto gli rivolse altredomande, ma egli rispose soltanto a monosillabi oppurecon una specie di grugnito che non significava niente,tuttavia con aria compiacente e con un resto di quel ri-dere ancora scritto sul viso. Come sempre, era a testanuda; ciuffi di capelli grigi o bianchi gli si rizzavano datutte le parti; le sopracciglia eran cespugli, come i baffi,ed anche dalle orecchie gli uscivano ciuffi di peli; la sel-vatica barba aveva invaso interamente il suo viso dicuoio, nel quale gli occhi piccoli e neri luccicavano; nel-la bocca mezza aperta gli si vedeva qualche gran denterimasto. A Graziano il compagno raccontò che un gior-no dello scorso inverno l’uomo era stato raccolto sulbordo d’una strada, nella neve, rovente di febbre; l’ave-vano portato nel piccolo ospedale di un paese, tenuto dacerte suore; in quel luogo lucido e bianco le monache,che non avevan mai nessuno da curare, gli stavano in-torno come ad uno mandato dalla Provvidenza, osando

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slacco, vecchio ed invulnerabile, a cui piacesse andarpel mondo sempre stracciato e solo. Veniva dal passatoma non come un’apparizione: era un pezzo di quellavita ritornato tale e quale. Non ne ritrovava però ilnome.

— Ghianda! – chiamò Giusto col tono in cui si chia-mano i buffoni. Il vagabondo, senza gesti, continuandoad avvicinarsi, piegò un poco il capo all’indietro e feceuna risata, larga, sonora, una risata di bronzo. – Dovevai, che viaggi anche di domenica? – gli chiese il conta-dino, quando si furono incontrati e si fermarono. Ghian-da disse il nome d’una borgata. Giusto gli rivolse altredomande, ma egli rispose soltanto a monosillabi oppurecon una specie di grugnito che non significava niente,tuttavia con aria compiacente e con un resto di quel ri-dere ancora scritto sul viso. Come sempre, era a testanuda; ciuffi di capelli grigi o bianchi gli si rizzavano datutte le parti; le sopracciglia eran cespugli, come i baffi,ed anche dalle orecchie gli uscivano ciuffi di peli; la sel-vatica barba aveva invaso interamente il suo viso dicuoio, nel quale gli occhi piccoli e neri luccicavano; nel-la bocca mezza aperta gli si vedeva qualche gran denterimasto. A Graziano il compagno raccontò che un gior-no dello scorso inverno l’uomo era stato raccolto sulbordo d’una strada, nella neve, rovente di febbre; l’ave-vano portato nel piccolo ospedale di un paese, tenuto dacerte suore; in quel luogo lucido e bianco le monache,che non avevan mai nessuno da curare, gli stavano in-torno come ad uno mandato dalla Provvidenza, osando

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appena moversi; ma dopo due giorni Ghianda era balza-to dal letto strepitando per riavere la sua roba da cammi-nante; sbigottite, le suore gli avevano obbedito, el’uomo se n’era andato, ancora con la febbre addosso.

Ghianda aveva ascoltate attento le parole di Giustofissandolo con gli occhi allegri; quando il racconto futerminato, di nuovo scosse l’aria con la risata di bronzoe si rimise in marcia facendo sonare il suo trofeo di pen-tolini e gamelle. Giusto disse con dispetto: – Una granforza per niente!

Graziano lo rivedeva al tempo dell’Amistà, il piú con-tento straccione che battesse le strade, l’uomo che s’eramangiato quanto possedeva e ridendo girava a piedinudi nella medesima regione dov’era stato padrone dipoderi. Ieri, oggi, domani: che differenza? Lo ammiravada capo a piedi, bello come la pioggia ed il sole l’ave-van fatto, pulito come un bufalo. Ed aveva nettal’impressione di aver nuovamente incontrato l’uomo fe-lice.

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appena moversi; ma dopo due giorni Ghianda era balza-to dal letto strepitando per riavere la sua roba da cammi-nante; sbigottite, le suore gli avevano obbedito, el’uomo se n’era andato, ancora con la febbre addosso.

Ghianda aveva ascoltate attento le parole di Giustofissandolo con gli occhi allegri; quando il racconto futerminato, di nuovo scosse l’aria con la risata di bronzoe si rimise in marcia facendo sonare il suo trofeo di pen-tolini e gamelle. Giusto disse con dispetto: – Una granforza per niente!

Graziano lo rivedeva al tempo dell’Amistà, il piú con-tento straccione che battesse le strade, l’uomo che s’eramangiato quanto possedeva e ridendo girava a piedinudi nella medesima regione dov’era stato padrone dipoderi. Ieri, oggi, domani: che differenza? Lo ammiravada capo a piedi, bello come la pioggia ed il sole l’ave-van fatto, pulito come un bufalo. Ed aveva nettal’impressione di aver nuovamente incontrato l’uomo fe-lice.

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Al formidabile lavoro che le elezioni generali rende-vano necessario, Metello Farra si era dato col solito ar-dore, con la passione che aveva sempre avuta per unatale vita, per il combattere viaggiando, scrivendo, par-lando in pubblico; ma la lotta non era mai stata cosídura. Partiti nuovi s’erano formati, che volevano vinceread ogni costo e per i quali molti giovani si prodigavanocon una disciplina, uno slancio, un coraggio che per laprima volta i socialisti si vedevano opporre. Contro Me-tello vi era l’impegno di spodestarlo del collegio in cuida tanto tempo dominava come se su quel quartiere diTorino avesse un potere invincibile. E nei giornali, neicomizi, nei manifesti, veniva assalito con singolare vee-menza, impiegando tutti i mezzi e le armi che nella lottapotessero servire. Lo combattevano anche quei socialistiche si erano separati dal suo partito con un piano ambi-guo di riforme.

In un foglio satirico fu pubblicata una pagina a colorinella quale Metello Farra era raffigurato come «Il re del-la gomma». Vi appariva molto somigliante, con le pen-denti corde dei baffi e lo sguardo lucido; in capo gli ave-van messa una corona ritagliata nel giornale dove prin-cipalmente scriveva, in una mano uno scettro sormonta-

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Al formidabile lavoro che le elezioni generali rende-vano necessario, Metello Farra si era dato col solito ar-dore, con la passione che aveva sempre avuta per unatale vita, per il combattere viaggiando, scrivendo, par-lando in pubblico; ma la lotta non era mai stata cosídura. Partiti nuovi s’erano formati, che volevano vinceread ogni costo e per i quali molti giovani si prodigavanocon una disciplina, uno slancio, un coraggio che per laprima volta i socialisti si vedevano opporre. Contro Me-tello vi era l’impegno di spodestarlo del collegio in cuida tanto tempo dominava come se su quel quartiere diTorino avesse un potere invincibile. E nei giornali, neicomizi, nei manifesti, veniva assalito con singolare vee-menza, impiegando tutti i mezzi e le armi che nella lottapotessero servire. Lo combattevano anche quei socialistiche si erano separati dal suo partito con un piano ambi-guo di riforme.

In un foglio satirico fu pubblicata una pagina a colorinella quale Metello Farra era raffigurato come «Il re del-la gomma». Vi appariva molto somigliante, con le pen-denti corde dei baffi e lo sguardo lucido; in capo gli ave-van messa una corona ritagliata nel giornale dove prin-cipalmente scriveva, in una mano uno scettro sormonta-

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to dal sole dell’avvenire e nell’altra mano, invecedell’Orbe, una palla da ragazzi a spicchi variopinti; se-deva sopra una pila di ciambelle di gomma ma i piedi,calzati di scarpacce rotte, li teneva sopra un sacco di de-naro. Tutto ciò era disegnato con vigore, s’imprimevanella memoria. Alcuni giornali di combattimento, mi-rando a lui, presero a parlare dell’amor libero, il qualepoteva avere anch’esso le sue unioni di convenienza.Scherzavano sul commercio della gomma; volevano in-sinuare il sospetto ch’egli fosse vissuto alle spalle della«compagna» oppure che, concionando per la rivoluzio-ne sociale, facesse per interposta persona affari da bor-ghese, che lo avessero arricchito.

Sabina era divenuta nelle forme sempre piú vistosa,senza imparare a non mettersi addosso troppi ornamentiné troppe tinte; col naso imperioso pizzicato dagli oc-chiali d’oro, aveva ormai un aspetto di florida ma stra-vagante zitella. Non teneva relazioni con parenti, nonaveva amiche, non discorreva con nessuno; seguiva lavita pubblica di Metello parlandone solamente quando,tra una corsa e l’altra, questi era in vena di dirglienequalchecosa; quanto alla vita privata, la sua antica gelo-sia era diventata rassegnazione. Volendo vedere ciò chei giornali avversi pubblicavano contro il compagno, lileggeva per la via, lontano da casa, sbarazzandosene su-bito. Atroce dolore le causarono gli attacchi nei quali in-direttamente era questione della convivenza con lei e delsuo commercio: aveva l’impressione di essere nella vitadi Metello una macchia, se ne avviliva, si vergognava di

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to dal sole dell’avvenire e nell’altra mano, invecedell’Orbe, una palla da ragazzi a spicchi variopinti; se-deva sopra una pila di ciambelle di gomma ma i piedi,calzati di scarpacce rotte, li teneva sopra un sacco di de-naro. Tutto ciò era disegnato con vigore, s’imprimevanella memoria. Alcuni giornali di combattimento, mi-rando a lui, presero a parlare dell’amor libero, il qualepoteva avere anch’esso le sue unioni di convenienza.Scherzavano sul commercio della gomma; volevano in-sinuare il sospetto ch’egli fosse vissuto alle spalle della«compagna» oppure che, concionando per la rivoluzio-ne sociale, facesse per interposta persona affari da bor-ghese, che lo avessero arricchito.

Sabina era divenuta nelle forme sempre piú vistosa,senza imparare a non mettersi addosso troppi ornamentiné troppe tinte; col naso imperioso pizzicato dagli oc-chiali d’oro, aveva ormai un aspetto di florida ma stra-vagante zitella. Non teneva relazioni con parenti, nonaveva amiche, non discorreva con nessuno; seguiva lavita pubblica di Metello parlandone solamente quando,tra una corsa e l’altra, questi era in vena di dirglienequalchecosa; quanto alla vita privata, la sua antica gelo-sia era diventata rassegnazione. Volendo vedere ciò chei giornali avversi pubblicavano contro il compagno, lileggeva per la via, lontano da casa, sbarazzandosene su-bito. Atroce dolore le causarono gli attacchi nei quali in-direttamente era questione della convivenza con lei e delsuo commercio: aveva l’impressione di essere nella vitadi Metello una macchia, se ne avviliva, si vergognava di

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tornare al negozio; cautamente cercava di capire qualeeffetto simili argomenti avessero prodotto nel compa-gno. Per i guadagni che ella aveva fatti ed i risparmi chepossedeva, si arrovellava molto. Di notte sognava que-ste cose. Era piena di paure, come se gli avversari do-vessero anche piú crudamente infamare la loro unione.Una mattina trovò il quartiere tappezzato di quell’imma-gine del «Re della gomma»: era stata stampata a miglia-ia di esemplari e se ne vedevano sui muri di tutta la cit-tà.

Quel giorno Metello, rincasando all’ora di colazione,la chiamò in camera sua. Nell’appartamento egli occu-pava soltanto questa camera ed un tratto di un corridoionel quale teneva pacchi di giornali, montagne di libri ecarte, riservandosi il diritto di lasciarvi ogni cosa amodo suo, in mezzo all’ordine perfetto dell’altre stanze.Le tele, gli studi che un tempo aveva dipinti, per suo vo-lere stavano nascosti in un armadio. Sul cassettone dellacamera vi era la piccola fotografia dei genitori di Metel-lo, sposi. Egli aveva qualche volta ascoltato distratta-mente ciò che Sabina gli diceva del negozio, dei suoi af-fari, ma non sapeva quanto denaro la compagna posse-desse: da quando convivevano, del denaro aveva semprevoluto dargliene, per pagare la propria parte delle spese;non sarebbe rimasto un giorno di piú se ella non lo aves-se accettato. Quanto alla propria condizione nella casadi Sabina, non ci aveva pensato, come non pensava aquella unione di tanti anni.

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tornare al negozio; cautamente cercava di capire qualeeffetto simili argomenti avessero prodotto nel compa-gno. Per i guadagni che ella aveva fatti ed i risparmi chepossedeva, si arrovellava molto. Di notte sognava que-ste cose. Era piena di paure, come se gli avversari do-vessero anche piú crudamente infamare la loro unione.Una mattina trovò il quartiere tappezzato di quell’imma-gine del «Re della gomma»: era stata stampata a miglia-ia di esemplari e se ne vedevano sui muri di tutta la cit-tà.

Quel giorno Metello, rincasando all’ora di colazione,la chiamò in camera sua. Nell’appartamento egli occu-pava soltanto questa camera ed un tratto di un corridoionel quale teneva pacchi di giornali, montagne di libri ecarte, riservandosi il diritto di lasciarvi ogni cosa amodo suo, in mezzo all’ordine perfetto dell’altre stanze.Le tele, gli studi che un tempo aveva dipinti, per suo vo-lere stavano nascosti in un armadio. Sul cassettone dellacamera vi era la piccola fotografia dei genitori di Metel-lo, sposi. Egli aveva qualche volta ascoltato distratta-mente ciò che Sabina gli diceva del negozio, dei suoi af-fari, ma non sapeva quanto denaro la compagna posse-desse: da quando convivevano, del denaro aveva semprevoluto dargliene, per pagare la propria parte delle spese;non sarebbe rimasto un giorno di piú se ella non lo aves-se accettato. Quanto alla propria condizione nella casadi Sabina, non ci aveva pensato, come non pensava aquella unione di tanti anni.

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— Hai dei grossi risparmi, tu? Un capitale? – le do-mandò. Sabina scoppiò in pianto; si tolse le lenti perasciugarsi gli occhi e non vedeva piú nulla.

— Via, via, fatti coraggio. Io non ho mai usati riguar-di agli avversari e non mi aspettavo certamente di essertrattato bene. Contro le armi, anche avvelenate, ho lapelle dura.

Come una colpa Sabina confessò che qualche rispar-mio l’aveva fatto, ma non precisò niente. Tremava den-tro di sé all’idea che da Metello o dai suoi nemici si sco-prisse che ella aveva comprata in un sobborgo una pic-cola casa di reddito. Da questo argomento Metello nontardò a distrarsi, essendo sovraccarico di pensieri piúgravi e di faccende. I disegni satirici, il lavorio di spar-gere a suo danno sospetti calunniosi, le definizioni in-sultanti che gli erano applicate, gli espedienti per ren-derlo ridicolo, tutto ciò – seppure poteva aver qualcheeffetto sugli elettori – era uno scherzo puerile a parago-ne con gli altri mezzi di lotta di cui gli avversari, e parti-colarmente i giovani dei partiti nuovi, si valevano con-tro lui come in molti altri collegi delle grandi città. Neicomizi venivano a chiedere di parlare in contraddittoriooratori violenti, avvolti da schiere risolute di sostenitori;i loro giornali erano sparsi ovunque, regalati a mucchi;la loro propaganda si arrischiava tra gli operai, nellefabbriche. E si sapeva, si sentiva che i programmi loro,fondati sopra un concetto di gerarchia sociale e sopra unmetodo di ordine, scaldati da un entusiasmo per la na-zione, trovavano un consenso sempre piú largo e deciso.

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— Hai dei grossi risparmi, tu? Un capitale? – le do-mandò. Sabina scoppiò in pianto; si tolse le lenti perasciugarsi gli occhi e non vedeva piú nulla.

— Via, via, fatti coraggio. Io non ho mai usati riguar-di agli avversari e non mi aspettavo certamente di essertrattato bene. Contro le armi, anche avvelenate, ho lapelle dura.

Come una colpa Sabina confessò che qualche rispar-mio l’aveva fatto, ma non precisò niente. Tremava den-tro di sé all’idea che da Metello o dai suoi nemici si sco-prisse che ella aveva comprata in un sobborgo una pic-cola casa di reddito. Da questo argomento Metello nontardò a distrarsi, essendo sovraccarico di pensieri piúgravi e di faccende. I disegni satirici, il lavorio di spar-gere a suo danno sospetti calunniosi, le definizioni in-sultanti che gli erano applicate, gli espedienti per ren-derlo ridicolo, tutto ciò – seppure poteva aver qualcheeffetto sugli elettori – era uno scherzo puerile a parago-ne con gli altri mezzi di lotta di cui gli avversari, e parti-colarmente i giovani dei partiti nuovi, si valevano con-tro lui come in molti altri collegi delle grandi città. Neicomizi venivano a chiedere di parlare in contraddittoriooratori violenti, avvolti da schiere risolute di sostenitori;i loro giornali erano sparsi ovunque, regalati a mucchi;la loro propaganda si arrischiava tra gli operai, nellefabbriche. E si sapeva, si sentiva che i programmi loro,fondati sopra un concetto di gerarchia sociale e sopra unmetodo di ordine, scaldati da un entusiasmo per la na-zione, trovavano un consenso sempre piú largo e deciso.

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Tra i viaggi per tener discorsi in altri collegi, gli arti-coli di polemica da scrivere, le riunioni del partito, i co-mizi in città, Metello non aveva tempo di restar solo conse stesso. Tuttavia si portava dentro un malcontento,un’amarezza, un’inquietudine triste. Non riusciva ascorrere con indifferenza gli scritti nei quali si parlava dilui come di uno che facesse il buffone per guadagno:provava un disgusto pieno di rancore se lo sguardo glicadeva ancora sopra una delle caricature che su pei muriscolorivano lacerandosi. Tra i lavoratori era sempre ac-clamato, l’eco delle sue parole era calda e pronta, maanche queste folle si mostravano divise, vi nascevanocontrasti, zuffe. Eran pure operai quelli che nei comizirumoreggiavano contro di lui. Sebbene avesse la certez-za di essere rieletto, il modo com’era combattuto lo ad-dolorava; e maggiormente soffriva di non aver piú sullemasse operaie l’autorità di un tempo, di sentirsele inparte sfuggire: dopo vent’anni di fatiche, di sacrifizi, dicostante lotta; dopo tante giornate terribili nelle quali lacoscienza aveva tremato per il sangue che doveva scor-rere, per i fatti che bisognava volere; dopo i processi, lamortificazione e soffocazione delle carceri. Nei capi delsuo partito vedeva un dubbio che appena cercavano dinascondergli, il timore della sconfitta.

L’appartamento di Sabina era in una casa pulita etranquilla, abitata da gente di media condizione, impie-gati, un medico, la vedova di un ufficiale; ed a cercarloqui non venivano abitualmente che persone bisognose diaiuto; egli non aveva telefono, non piacendogli servirse-

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Tra i viaggi per tener discorsi in altri collegi, gli arti-coli di polemica da scrivere, le riunioni del partito, i co-mizi in città, Metello non aveva tempo di restar solo conse stesso. Tuttavia si portava dentro un malcontento,un’amarezza, un’inquietudine triste. Non riusciva ascorrere con indifferenza gli scritti nei quali si parlava dilui come di uno che facesse il buffone per guadagno:provava un disgusto pieno di rancore se lo sguardo glicadeva ancora sopra una delle caricature che su pei muriscolorivano lacerandosi. Tra i lavoratori era sempre ac-clamato, l’eco delle sue parole era calda e pronta, maanche queste folle si mostravano divise, vi nascevanocontrasti, zuffe. Eran pure operai quelli che nei comizirumoreggiavano contro di lui. Sebbene avesse la certez-za di essere rieletto, il modo com’era combattuto lo ad-dolorava; e maggiormente soffriva di non aver piú sullemasse operaie l’autorità di un tempo, di sentirsele inparte sfuggire: dopo vent’anni di fatiche, di sacrifizi, dicostante lotta; dopo tante giornate terribili nelle quali lacoscienza aveva tremato per il sangue che doveva scor-rere, per i fatti che bisognava volere; dopo i processi, lamortificazione e soffocazione delle carceri. Nei capi delsuo partito vedeva un dubbio che appena cercavano dinascondergli, il timore della sconfitta.

L’appartamento di Sabina era in una casa pulita etranquilla, abitata da gente di media condizione, impie-gati, un medico, la vedova di un ufficiale; ed a cercarloqui non venivano abitualmente che persone bisognose diaiuto; egli non aveva telefono, non piacendogli servirse-

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ne. Ora vi era un viavai di amici, di fattorini, di segreta-ri, a tutte l’ore. Sabina, nascosta nelle sue stanze, neascoltava passi e voci, sempre piú convinta, a misurache il giorno s’avvicinava, che Metello non sarebbe sta-to rieletto.

Questa domenica giunse. Una nuova legge aveva datoil diritto di voto a molti che prima non l’avevano, e fa-langi enormi di elettori si mossero: anche a Torino, dovela giornata era brutta, piovosa. In qualche altro luogoaccaddero disordini, ma lievi, effetto della passione edel lavorio. Per il partito di Metello l’esito si annunziavain complesso soddisfacente, con l’acquisto di parecchiposti. Dal suo collegio, finché si trattava d’impressionisull’andamento della votazione, le notizie erano giuntebuone; intorno a lui si dava già per sicura una franca vit-toria; ma quando vennero risultati certi, il vantaggio su-gli avversari fu visto calare rapidamente, nel corso delloscrutinio; in molte sezioni i risultati si pareggiavano, inalcune era in lieve maggioranza l’avversario piú temibi-le, quel partito giovanile. Metello ne era sorpreso pro-fondamente. In una stanza degli uffici del partito, men-tre di là dalla porta chiusa si udivano un rimescoliod’altra gente e voci eccitate, ora di giubilo ora di dispet-to, rimaneva ad aspettare tirandosi i baffi, commentandole cifre con quanti aveva intorno. Si era rassegnato adun risultato che non decidesse la partita ed obbligasse aduna seconda votazione. Cosí accadde infatti. Quandonon rimase piú dubbio, Metello provò un avvilimentocome se fosse stato battuto; pensò con angoscia alla pro-

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ne. Ora vi era un viavai di amici, di fattorini, di segreta-ri, a tutte l’ore. Sabina, nascosta nelle sue stanze, neascoltava passi e voci, sempre piú convinta, a misurache il giorno s’avvicinava, che Metello non sarebbe sta-to rieletto.

Questa domenica giunse. Una nuova legge aveva datoil diritto di voto a molti che prima non l’avevano, e fa-langi enormi di elettori si mossero: anche a Torino, dovela giornata era brutta, piovosa. In qualche altro luogoaccaddero disordini, ma lievi, effetto della passione edel lavorio. Per il partito di Metello l’esito si annunziavain complesso soddisfacente, con l’acquisto di parecchiposti. Dal suo collegio, finché si trattava d’impressionisull’andamento della votazione, le notizie erano giuntebuone; intorno a lui si dava già per sicura una franca vit-toria; ma quando vennero risultati certi, il vantaggio su-gli avversari fu visto calare rapidamente, nel corso delloscrutinio; in molte sezioni i risultati si pareggiavano, inalcune era in lieve maggioranza l’avversario piú temibi-le, quel partito giovanile. Metello ne era sorpreso pro-fondamente. In una stanza degli uffici del partito, men-tre di là dalla porta chiusa si udivano un rimescoliod’altra gente e voci eccitate, ora di giubilo ora di dispet-to, rimaneva ad aspettare tirandosi i baffi, commentandole cifre con quanti aveva intorno. Si era rassegnato adun risultato che non decidesse la partita ed obbligasse aduna seconda votazione. Cosí accadde infatti. Quandonon rimase piú dubbio, Metello provò un avvilimentocome se fosse stato battuto; pensò con angoscia alla pro-

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va da rifare; per il lavoro che nei giorni seguenti si do-veva riprendere, credeva di non aver piú forze bastanti.

L’esito accrebbe il fermento che già vi era tra moltioperai della città a causa della lotta e degli attacchi con-tro Metello Farra. Come se ormai avesse conquistata lapiazzaforte, il partito nazionale faceva un clamore gran-de; la campagna era ripresa con piú veemenza. In unanuova caricatura Metello venne rappresentato con la co-rona di traverso, i baffi cascanti del tutto, un grappolo dipalloncini di gomma tenuti per un filo, sui quali era di-pinto il sole dell’avvenire; ed il suo aspetto era bruttocome quello di un venditore abbandonato dalla folla.

Eccitati, pieni d’ira sorda, erano per la maggior partegli operai della ferriera dove lavorava Giusto. Da princi-pio il suo lavoro era stato soltanto di spinger convogli dipiccoli vagoni sopra un binario; poi aveva imparato amanovrare le gru, le catene appese ad enormi rotaie persollevare il ferro lavorato o i calderoni delle fondite.L’officina era immensa. Stava sull’orlo della città, inuna regione ove il terreno era sporco di carbone e di de-triti, l’aria tutta sonante di rumori meccanici, l’orizzonteingombro di gasometri, di alti camini, la pianura giàguasta dalle grandi officine che una dopo l’altra vi na-scevano. Non lontano dalla ferriera Giusto abitava unasoffitta con un letto, una tavola, una sedia e quattro sto-viglie; a mezzogiorno mangiava un po’ di roba che siportava, sedendo presso la ferriera sull’erba avvelenatadal fumo o stando nel portone d’una casa se pioveva; lasera si cuoceva la minestra da sé. Era solo, rimaneva

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va da rifare; per il lavoro che nei giorni seguenti si do-veva riprendere, credeva di non aver piú forze bastanti.

L’esito accrebbe il fermento che già vi era tra moltioperai della città a causa della lotta e degli attacchi con-tro Metello Farra. Come se ormai avesse conquistata lapiazzaforte, il partito nazionale faceva un clamore gran-de; la campagna era ripresa con piú veemenza. In unanuova caricatura Metello venne rappresentato con la co-rona di traverso, i baffi cascanti del tutto, un grappolo dipalloncini di gomma tenuti per un filo, sui quali era di-pinto il sole dell’avvenire; ed il suo aspetto era bruttocome quello di un venditore abbandonato dalla folla.

Eccitati, pieni d’ira sorda, erano per la maggior partegli operai della ferriera dove lavorava Giusto. Da princi-pio il suo lavoro era stato soltanto di spinger convogli dipiccoli vagoni sopra un binario; poi aveva imparato amanovrare le gru, le catene appese ad enormi rotaie persollevare il ferro lavorato o i calderoni delle fondite.L’officina era immensa. Stava sull’orlo della città, inuna regione ove il terreno era sporco di carbone e di de-triti, l’aria tutta sonante di rumori meccanici, l’orizzonteingombro di gasometri, di alti camini, la pianura giàguasta dalle grandi officine che una dopo l’altra vi na-scevano. Non lontano dalla ferriera Giusto abitava unasoffitta con un letto, una tavola, una sedia e quattro sto-viglie; a mezzogiorno mangiava un po’ di roba che siportava, sedendo presso la ferriera sull’erba avvelenatadal fumo o stando nel portone d’una casa se pioveva; lasera si cuoceva la minestra da sé. Era solo, rimaneva

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solo. Tra gli altri operai della ferriera si vergognava an-cora d’essere un contadino da poco venuto via dallacampagna; temeva anche di prendere i difetti che moltidi loro avevano, soprattutto il vizio del bere, nel quale sipoteva cercare un oblio malsano, un conforto vile, edesserne distrutto.

A casa di sua sorella Fede andava di rado. Ciò che vidoveva vedere o indovinare gli dispiaceva: Fede, che la-vorava in una fabbrica di ricami, sembrava ormai nata evissuta sempre in città ma le sue maniere erano spregiu-dicate, insolenti; aveva un gran concetto della propriabellezza, era sempre ben vestita, nelle ore libere non sta-va mai in casa; e quel manovale mal pagato che era ri-masto Remo, o faceva scenate di gelosia, trattato da leicome un ingombrante animale, o s’andava a consolareall’osteria, disgustandosi affatto del lavoro che potevatrovare. Ben piú penoso era stato per Giusto l’apprende-re un giorno che Uliva era in carcere: commessa al mer-cato, il suo padrone l’aveva sorpresa a rubare nel casset-to del banco e fatta condannare. Giusto pensava al nomedella famiglia, ai nomi del padre e della madre scrittinella sentenza: «Crivelli Uliva, del fu Cleto e di Torria-no Marta». Donde veniva l’animo cattivo e disonesto diquesta sorella che pure era nata nel pulito mondodell’Amistà?

Il bracciante che spingeva da mattina a sera i vagonidi rottami o sollevava le lastre di ferro con le gru, avevasognato di potersi far nuovo, innalzarsi, acquistandoistruzione. S’era comprati libri, tra i quali un dizionario

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solo. Tra gli altri operai della ferriera si vergognava an-cora d’essere un contadino da poco venuto via dallacampagna; temeva anche di prendere i difetti che moltidi loro avevano, soprattutto il vizio del bere, nel quale sipoteva cercare un oblio malsano, un conforto vile, edesserne distrutto.

A casa di sua sorella Fede andava di rado. Ciò che vidoveva vedere o indovinare gli dispiaceva: Fede, che la-vorava in una fabbrica di ricami, sembrava ormai nata evissuta sempre in città ma le sue maniere erano spregiu-dicate, insolenti; aveva un gran concetto della propriabellezza, era sempre ben vestita, nelle ore libere non sta-va mai in casa; e quel manovale mal pagato che era ri-masto Remo, o faceva scenate di gelosia, trattato da leicome un ingombrante animale, o s’andava a consolareall’osteria, disgustandosi affatto del lavoro che potevatrovare. Ben piú penoso era stato per Giusto l’apprende-re un giorno che Uliva era in carcere: commessa al mer-cato, il suo padrone l’aveva sorpresa a rubare nel casset-to del banco e fatta condannare. Giusto pensava al nomedella famiglia, ai nomi del padre e della madre scrittinella sentenza: «Crivelli Uliva, del fu Cleto e di Torria-no Marta». Donde veniva l’animo cattivo e disonesto diquesta sorella che pure era nata nel pulito mondodell’Amistà?

Il bracciante che spingeva da mattina a sera i vagonidi rottami o sollevava le lastre di ferro con le gru, avevasognato di potersi far nuovo, innalzarsi, acquistandoistruzione. S’era comprati libri, tra i quali un dizionario

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con figure dal quale sperava d’imparare molte cose. Lasera del sabato aveva provato a frequentar le lezionidell’università popolare, dove si parlava d’astronomia,di storia, s’insegnava come funziona il corpo umano. Edaveva conosciuto l’affanno di non capire, il disperatodolore di non poter capire! Tutto era sempre troppo dif-ficile per lui. Ora si contentava di acquistare una capaci-tà da operaio, diventar qualcosa di piú che un semplicemanovale, avere col tempo mansioni piú difficili e sti-mate. Il suo sogno era adesso di giungere al postodell’uomo che guidava le travi di ferro rovente alle trafi-le sedendo sul carrello apposito che scorreva innanzi eindietro. S’era iscritto nel partito di Metello Farra, il suonome era nei registri; teneva sempre la tessera nella ta-sca interna della giacca, con l’altre carte. Tuttavia chevaleva la sua forza, cioé il suo coraggio, la sua volontàdi partecipare alla guerra sociale? Era pur sempre unuomo solo, un individuo in mezzo ad una enorme massadi sconosciuti.

Ma a continuar la vita nella quale s’era messo, si sen-tiva testardo abbastanza. Vestiva come gli altri operai;nella persona, nelle movenze, però, mostrava ancoradonde veniva. Qualche volta la fatica dell’officinal’opprimeva, mandandolo a casa abbrutito; allora pensa-va che cos’era a Luvo, quale meschino posto vi aveva.Gli succedeva di ricordare Donato, quel fratello col qua-le lavorava d’accordo, il solo della famiglia che restavavolentieri quello ch’era nato; gli scrisse dicendogli cheandasse ogni tanto al camposanto per accomodar la terra

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con figure dal quale sperava d’imparare molte cose. Lasera del sabato aveva provato a frequentar le lezionidell’università popolare, dove si parlava d’astronomia,di storia, s’insegnava come funziona il corpo umano. Edaveva conosciuto l’affanno di non capire, il disperatodolore di non poter capire! Tutto era sempre troppo dif-ficile per lui. Ora si contentava di acquistare una capaci-tà da operaio, diventar qualcosa di piú che un semplicemanovale, avere col tempo mansioni piú difficili e sti-mate. Il suo sogno era adesso di giungere al postodell’uomo che guidava le travi di ferro rovente alle trafi-le sedendo sul carrello apposito che scorreva innanzi eindietro. S’era iscritto nel partito di Metello Farra, il suonome era nei registri; teneva sempre la tessera nella ta-sca interna della giacca, con l’altre carte. Tuttavia chevaleva la sua forza, cioé il suo coraggio, la sua volontàdi partecipare alla guerra sociale? Era pur sempre unuomo solo, un individuo in mezzo ad una enorme massadi sconosciuti.

Ma a continuar la vita nella quale s’era messo, si sen-tiva testardo abbastanza. Vestiva come gli altri operai;nella persona, nelle movenze, però, mostrava ancoradonde veniva. Qualche volta la fatica dell’officinal’opprimeva, mandandolo a casa abbrutito; allora pensa-va che cos’era a Luvo, quale meschino posto vi aveva.Gli succedeva di ricordare Donato, quel fratello col qua-le lavorava d’accordo, il solo della famiglia che restavavolentieri quello ch’era nato; gli scrisse dicendogli cheandasse ogni tanto al camposanto per accomodar la terra

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sopra i loro morti. Ricordava anche l’Avventina, nellasua esistenza di monaca contadina. Nei giorni di riposovedere un po’ di campagna, almeno quella che stava in-torno a Torino, gli sarebbe piaciuto; ma, invece di cede-re alla voglia, andava girando in città, per abituarsi alcielo misero, alle lunghe vie, agli alberi prigionieri, allafolla, oppure visitava i musei con la solita idea di istruir-si.

Nel grande combattimento delle elezioni aveva segui-to appassionatamente quanto riguardava Metello Farra.Al partito aveva dato il suo voto ma in un altro collegio.Il fatto che Metello non era ancora rieletto ed il chiassodegli avversari ed il pericolo che non vincesse, miseronell’animo di Giusto un desiderio, quasi un bisogno, dipresentarsi a lui. Pensava che, parlandogli di Graziano edegli altri Farra, poteva andare; si decise, andò una serauscendo dalla ferriera. Camminava con l’entusiasmo diavvicinare finalmente quest’uomo famoso che aveva vi-sto soltanto alcune volte nei comizi, l’uomo che da tantianni lavorava per la giustizia, per un mondo nuovo, edera stato chiuso nella stessa prigione ove si chiudevanole commesse ladre, e per sé non voleva niente, rimanen-do un povero. Cosí era bello vivere, ma ci volevano isuoi studi, la sua testa. Era una sera fredda. Giusto sentísoggezione quando, entrato nella casa dove Metello abi-tava, trovò quella scala pulita, cosí civile. Ad una vec-chia serva accigliata che gli aperse, disse subito d’essereuno che conosceva Graziano Farra e la sua famiglia; ladonna andò via poi tornò a farsi spiegar meglio la cosa.

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sopra i loro morti. Ricordava anche l’Avventina, nellasua esistenza di monaca contadina. Nei giorni di riposovedere un po’ di campagna, almeno quella che stava in-torno a Torino, gli sarebbe piaciuto; ma, invece di cede-re alla voglia, andava girando in città, per abituarsi alcielo misero, alle lunghe vie, agli alberi prigionieri, allafolla, oppure visitava i musei con la solita idea di istruir-si.

Nel grande combattimento delle elezioni aveva segui-to appassionatamente quanto riguardava Metello Farra.Al partito aveva dato il suo voto ma in un altro collegio.Il fatto che Metello non era ancora rieletto ed il chiassodegli avversari ed il pericolo che non vincesse, miseronell’animo di Giusto un desiderio, quasi un bisogno, dipresentarsi a lui. Pensava che, parlandogli di Graziano edegli altri Farra, poteva andare; si decise, andò una serauscendo dalla ferriera. Camminava con l’entusiasmo diavvicinare finalmente quest’uomo famoso che aveva vi-sto soltanto alcune volte nei comizi, l’uomo che da tantianni lavorava per la giustizia, per un mondo nuovo, edera stato chiuso nella stessa prigione ove si chiudevanole commesse ladre, e per sé non voleva niente, rimanen-do un povero. Cosí era bello vivere, ma ci volevano isuoi studi, la sua testa. Era una sera fredda. Giusto sentísoggezione quando, entrato nella casa dove Metello abi-tava, trovò quella scala pulita, cosí civile. Ad una vec-chia serva accigliata che gli aperse, disse subito d’essereuno che conosceva Graziano Farra e la sua famiglia; ladonna andò via poi tornò a farsi spiegar meglio la cosa.

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Introdotto nel corridoio, dov’era l’odore della cena checuoceva, Giusto passò davanti ad una saletta in cui sivedeva la tavola apparecchiata sotto un modesto lampa-dario.

Metello era raffreddato e teneva intorno al collo unaspessa sciarpa di lana; nella sua camera, con le spalle edil capo curvi sopra una scrivania accanto alla quale era-no cacciati in un cestino e sparsi sul pavimento giornalid’ogni specie, rispondeva ad un mucchio di lettere scri-vendo veloce. – Siedi – disse senza alzare il capo. Il vi-sitatore si posò piano su una sedia lontana dalla scriva-nia, presso uno scaffale di libri. Finita una delle lettere,Metello lo invitò a portarsi la sedia vicino a lui, gli feceripetere ancora quanto aveva detto alla donna. Si ri-schiarò in viso

— Ah, l’Amistà, Graziano, la signora Claudia! Cometi chiami? Crivelli: sí, ricordo, i Crivelli.

Giusto raccontò ch’era andato a cercare Graziano mache non sapeva quando l’avrebbe potuto vedere, perchéviaggiava per l’Europa.

— Gira il mondo – disse Metello con un gesto vivace.– E tu che fai, ora? Dove lavori? Hai bisogno di qual-checosa?

Il visitatore era rinfrancato del tutto e si sentiva feli-ce; sentiva d’essere proprio in presenza di quel MetelloFarra del quale discorreva Graziano, in un tempo im-mensamente remoto. Gli disse che, sebbene non avessepotuto, come voleva, farsi accompagnare da suo nipote,era venuto egualmente perché desiderava da tanti anni

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Introdotto nel corridoio, dov’era l’odore della cena checuoceva, Giusto passò davanti ad una saletta in cui sivedeva la tavola apparecchiata sotto un modesto lampa-dario.

Metello era raffreddato e teneva intorno al collo unaspessa sciarpa di lana; nella sua camera, con le spalle edil capo curvi sopra una scrivania accanto alla quale era-no cacciati in un cestino e sparsi sul pavimento giornalid’ogni specie, rispondeva ad un mucchio di lettere scri-vendo veloce. – Siedi – disse senza alzare il capo. Il vi-sitatore si posò piano su una sedia lontana dalla scriva-nia, presso uno scaffale di libri. Finita una delle lettere,Metello lo invitò a portarsi la sedia vicino a lui, gli feceripetere ancora quanto aveva detto alla donna. Si ri-schiarò in viso

— Ah, l’Amistà, Graziano, la signora Claudia! Cometi chiami? Crivelli: sí, ricordo, i Crivelli.

Giusto raccontò ch’era andato a cercare Graziano mache non sapeva quando l’avrebbe potuto vedere, perchéviaggiava per l’Europa.

— Gira il mondo – disse Metello con un gesto vivace.– E tu che fai, ora? Dove lavori? Hai bisogno di qual-checosa?

Il visitatore era rinfrancato del tutto e si sentiva feli-ce; sentiva d’essere proprio in presenza di quel MetelloFarra del quale discorreva Graziano, in un tempo im-mensamente remoto. Gli disse che, sebbene non avessepotuto, come voleva, farsi accompagnare da suo nipote,era venuto egualmente perché desiderava da tanti anni

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di conoscerlo. L’altro lo aveva rapidamente studiato, no-tando quel cranio cocciuto e la mascella di contadino;ora lo guardava con simpatia tirandosi un baffo; sorri-dendo tra sé, pensava ch’era venuto all’improvviso edall’ora di cena. Ma il manovale aggiunse: – Sono venutouscendo dalla ferriera. – Metello riprese ad interrogarlo,convinto che avesse qualchecosa da chiedere. E Giustorispondeva in poche parole, fervidamente, che non sitrovava ancora a posto nella nuova vita ma che il cam-biamento l’aveva fatto di propria volontà e si sarebbeabituato come tanti altri e sperava di diventare un opera-io capace. Intanto osservava Metello, il suo viso stancocon quei baffi da minatore, l’aria di malato che gli davala sciarpa di lana, e provava una commozione piú viva,come se per lui avesse sempre avuto affetto ed ora nesentisse anche compassione; guardava la camera, i gior-nali gettati, un paio di ciabatte sotto un seggiolone, il ca-lamaio di metallo incrostato d’inchiostro, tutti quei librinegli scaffali ed in cima ad un armadio a specchio. Sifaceva della sua vita un’idea diversa: la vedeva da vici-no.

— Gli operai – affermò – si getterebbero nel fuoco,per voi. Vogliono che vinciate.

— Tu sei del mio collegio?Giusto disse di no, come vergognandosi. La donna di

servizio venne nel corridoio, si mostrò un istante dinan-zi, alla porta, che era aperta. Allora Metello offerse alvisitatore di restar a cena con loro, ma il manovale ar-rossí, si alzò subito, si scusò d’essere venuto a quell’ora,

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di conoscerlo. L’altro lo aveva rapidamente studiato, no-tando quel cranio cocciuto e la mascella di contadino;ora lo guardava con simpatia tirandosi un baffo; sorri-dendo tra sé, pensava ch’era venuto all’improvviso edall’ora di cena. Ma il manovale aggiunse: – Sono venutouscendo dalla ferriera. – Metello riprese ad interrogarlo,convinto che avesse qualchecosa da chiedere. E Giustorispondeva in poche parole, fervidamente, che non sitrovava ancora a posto nella nuova vita ma che il cam-biamento l’aveva fatto di propria volontà e si sarebbeabituato come tanti altri e sperava di diventare un opera-io capace. Intanto osservava Metello, il suo viso stancocon quei baffi da minatore, l’aria di malato che gli davala sciarpa di lana, e provava una commozione piú viva,come se per lui avesse sempre avuto affetto ed ora nesentisse anche compassione; guardava la camera, i gior-nali gettati, un paio di ciabatte sotto un seggiolone, il ca-lamaio di metallo incrostato d’inchiostro, tutti quei librinegli scaffali ed in cima ad un armadio a specchio. Sifaceva della sua vita un’idea diversa: la vedeva da vici-no.

— Gli operai – affermò – si getterebbero nel fuoco,per voi. Vogliono che vinciate.

— Tu sei del mio collegio?Giusto disse di no, come vergognandosi. La donna di

servizio venne nel corridoio, si mostrò un istante dinan-zi, alla porta, che era aperta. Allora Metello offerse alvisitatore di restar a cena con loro, ma il manovale ar-rossí, si alzò subito, si scusò d’essere venuto a quell’ora,

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guardò la porta. Alzatosi egli pure e spenta la lampadasulla scrivania, Metello gli mise una mano sulla largaspalla, insistendo perché rimanesse. Poiché Giusto ricu-sava sempre ed infilava in fretta il corridoio, lo accom-pagnò fino all’uscita, invitandolo a tornare altre volte.Quando ebbe richiuso, Metello si trattenne un momentodietro l’uscio, mentre quel passo scendeva le scale, ri-flettendo che l’uomo era venuto da lui senza voler nien-te, perché aveva provato il bisogno, in quei giorni, dimostrargli che stava con lui, dalla sua parte.

La settimana passava troppo rapida ed insieme lenta.Nel partito vi era una grave apprensione che si dovesseveramente perdere il collegio. Metello poteva compren-dere che alcuni dei capi gli attribuivano la colpa del fat-to che non si era ottenuta una vittoria immediata eschiacciante: come per una diminuzione del suo presti-gio o perché gli fosse mancato vigore nella lotta. I so-cialisti delle riforme rifiutarono i loro voti decidendo diastenersi. Nei due partiti rimasti in gara lo sforzo per lavittoria divenne ancora piú robusto, e la battaglia si sen-tiva nella vita della città come se dall’esito dipendessetutto l’avvenire. Metello continuò la sua fatica parlandonei comizi, scrivendo manifesti ed articoli, sostenendocol suo antagonista un aspro contraddittorio che si svol-se in mezzo ad una tempesta. Accaniti contro lui peggiodi prima, gli avversari lo mordevano da ogni parte, loderidevano come se già fosse vinto. Dentro di séanch’egli dubitava di dover essere sconfitto; vedeva piúcrudamente che tutto il suo passato, con quanto lavoro e

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guardò la porta. Alzatosi egli pure e spenta la lampadasulla scrivania, Metello gli mise una mano sulla largaspalla, insistendo perché rimanesse. Poiché Giusto ricu-sava sempre ed infilava in fretta il corridoio, lo accom-pagnò fino all’uscita, invitandolo a tornare altre volte.Quando ebbe richiuso, Metello si trattenne un momentodietro l’uscio, mentre quel passo scendeva le scale, ri-flettendo che l’uomo era venuto da lui senza voler nien-te, perché aveva provato il bisogno, in quei giorni, dimostrargli che stava con lui, dalla sua parte.

La settimana passava troppo rapida ed insieme lenta.Nel partito vi era una grave apprensione che si dovesseveramente perdere il collegio. Metello poteva compren-dere che alcuni dei capi gli attribuivano la colpa del fat-to che non si era ottenuta una vittoria immediata eschiacciante: come per una diminuzione del suo presti-gio o perché gli fosse mancato vigore nella lotta. I so-cialisti delle riforme rifiutarono i loro voti decidendo diastenersi. Nei due partiti rimasti in gara lo sforzo per lavittoria divenne ancora piú robusto, e la battaglia si sen-tiva nella vita della città come se dall’esito dipendessetutto l’avvenire. Metello continuò la sua fatica parlandonei comizi, scrivendo manifesti ed articoli, sostenendocol suo antagonista un aspro contraddittorio che si svol-se in mezzo ad una tempesta. Accaniti contro lui peggiodi prima, gli avversari lo mordevano da ogni parte, loderidevano come se già fosse vinto. Dentro di séanch’egli dubitava di dover essere sconfitto; vedeva piúcrudamente che tutto il suo passato, con quanto lavoro e

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sacrifizio contenesse, non bastava ad assicurargli di nonessere gettato a terra; ma ciò che lo addolorava piú diogni altra cosa e stupiva, era di provare stanchezza, diavere un desiderio che lo sforzo e l’ansia finissero, inqualunque modo. Non aveva ancora cinquant’anni. Eragià vecchio? Dall’altra parte vi era gente piú giovine,piú forte. Forse erano piú giovani anche le loro idee.

Temeva sempre piú la sconfitta anche Sabina, e stavazitta. Infine l’altra domenica venne. Questa volta il tem-po era buono; si mosse una folla di elettori anche piúgrande; tutta la città era agitata, impaziente. Nei quartie-ri del collegio era nell’aria una febbre; intorno alle scuo-le ove si votava, le vie nereggiavano, vi accadevano ba-ruffe; sugli ingressi i distributori di schede, coi braccialidi vivi colori, stavano come nemici che non potesserovenire alle mani, uomini e donne, o piuttosto come sol-dati di eserciti diversi, legati da una stessa consegna.Metello, col fuoco indosso, cercava di dominarsi; passòdagli uffici al giornale del partito, uscendo, rientrando:quindi tornò a casa e vennero gli informatori. Si tratten-nero con lui alcuni che gli erano sinceramente amici. Ilgioco, a quanto si poteva supporre dagli indizi, era cru-dele: il numero dei voti era quasi eguale per i due avver-sari, ed una scarsa differenza dava il vantaggio orall’uno or all’altro. Prima di sera Sabina uscí silenziosa-mente, andò in una chiesa lontana a pregare. Quindi siseppe che lo scrutinio era cominciato. Giusto aveva gi-rato per tutto il giorno intorno a quelle scuole, cercandodi comprendere come andasse la votazione, interrogan-

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sacrifizio contenesse, non bastava ad assicurargli di nonessere gettato a terra; ma ciò che lo addolorava piú diogni altra cosa e stupiva, era di provare stanchezza, diavere un desiderio che lo sforzo e l’ansia finissero, inqualunque modo. Non aveva ancora cinquant’anni. Eragià vecchio? Dall’altra parte vi era gente piú giovine,piú forte. Forse erano piú giovani anche le loro idee.

Temeva sempre piú la sconfitta anche Sabina, e stavazitta. Infine l’altra domenica venne. Questa volta il tem-po era buono; si mosse una folla di elettori anche piúgrande; tutta la città era agitata, impaziente. Nei quartie-ri del collegio era nell’aria una febbre; intorno alle scuo-le ove si votava, le vie nereggiavano, vi accadevano ba-ruffe; sugli ingressi i distributori di schede, coi braccialidi vivi colori, stavano come nemici che non potesserovenire alle mani, uomini e donne, o piuttosto come sol-dati di eserciti diversi, legati da una stessa consegna.Metello, col fuoco indosso, cercava di dominarsi; passòdagli uffici al giornale del partito, uscendo, rientrando:quindi tornò a casa e vennero gli informatori. Si tratten-nero con lui alcuni che gli erano sinceramente amici. Ilgioco, a quanto si poteva supporre dagli indizi, era cru-dele: il numero dei voti era quasi eguale per i due avver-sari, ed una scarsa differenza dava il vantaggio orall’uno or all’altro. Prima di sera Sabina uscí silenziosa-mente, andò in una chiesa lontana a pregare. Quindi siseppe che lo scrutinio era cominciato. Giusto aveva gi-rato per tutto il giorno intorno a quelle scuole, cercandodi comprendere come andasse la votazione, interrogan-

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do uomini del suo partito; dopo, si portò dinanzi agli uf-fici, in mezzo ad una folla inquieta a cui erano mostrate,a mano a mano, delle cifre su cartelli scombiccheratialla peggio. Nello scrutinio si rinnovava, si precisava ilgioco terribile: in ciascuna sezione la differenza tra ivoti era minima, la somma delle sezioni ad ogni trattotoglieva la vittoria all’uno od all’altro dei candidati. Etuttociò procedeva lento, ritardando la decisione insop-portabilmente. Ovunque fosse gente riunita ad aspettare,s’era fatta silenziosa.

Metello non volle piú restare in casa né tornare al par-tito né aver compagnia; uscí solo nel suo quartiere pocoaffollato, alla luce di rari lampioni. Affrettava il passo;accorgendosene, lo rallentava; gli sfuggivan parole amezza voce; dalle persone che passavano o stavano incrocchi sui portoni, all’entrata dei bar e delle osterie,udiva notizie e commenti diversi, niente di certo. Forsel’avversario lo aveva vinto, il posto gli era già tolto, egliera gettato a terra, e non lo sapeva ancora. L’affannocresceva in lui ad ogni passo. Ad un tratto udí in fondoalla via un clamore, vide una massa nera venir avanti.Non vi distingueva nulla, non poteva intendere quel chegridassero. A poco a poco riuscí a discernere, nella di-sordinata schiera che occupava la via quanto era larga,figure che gli parevano piuttosto del suo partito chedell’altro. E le grida erano eccitate gioiosamente, eranodi vittoria. Tra le altre parole che il clamore portava, udíil suo nome. Metello si sentí improvvisamente liberatodi un peso formidabile, pieno di gioia e di forza. Piú

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do uomini del suo partito; dopo, si portò dinanzi agli uf-fici, in mezzo ad una folla inquieta a cui erano mostrate,a mano a mano, delle cifre su cartelli scombiccheratialla peggio. Nello scrutinio si rinnovava, si precisava ilgioco terribile: in ciascuna sezione la differenza tra ivoti era minima, la somma delle sezioni ad ogni trattotoglieva la vittoria all’uno od all’altro dei candidati. Etuttociò procedeva lento, ritardando la decisione insop-portabilmente. Ovunque fosse gente riunita ad aspettare,s’era fatta silenziosa.

Metello non volle piú restare in casa né tornare al par-tito né aver compagnia; uscí solo nel suo quartiere pocoaffollato, alla luce di rari lampioni. Affrettava il passo;accorgendosene, lo rallentava; gli sfuggivan parole amezza voce; dalle persone che passavano o stavano incrocchi sui portoni, all’entrata dei bar e delle osterie,udiva notizie e commenti diversi, niente di certo. Forsel’avversario lo aveva vinto, il posto gli era già tolto, egliera gettato a terra, e non lo sapeva ancora. L’affannocresceva in lui ad ogni passo. Ad un tratto udí in fondoalla via un clamore, vide una massa nera venir avanti.Non vi distingueva nulla, non poteva intendere quel chegridassero. A poco a poco riuscí a discernere, nella di-sordinata schiera che occupava la via quanto era larga,figure che gli parevano piuttosto del suo partito chedell’altro. E le grida erano eccitate gioiosamente, eranodi vittoria. Tra le altre parole che il clamore portava, udíil suo nome. Metello si sentí improvvisamente liberatodi un peso formidabile, pieno di gioia e di forza. Piú

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chiaro, sempre piú chiaro, gli giungeva ormai all’orec-chio fra le voci violente e festose il suo nome; quellagente gridava per lui, che aveva vinto! Egli si affrettò asvoltare alla prima cantonata, mentre la schiera non neera piú lontana; si fermò dopo qualche passo, in un lem-bo di oscurità. Subito passò la gente, uomini, ragazzi,donne, molti, che andavano a qualche luogo di adunatacamminando presto, quasi correndo, e gridando sempre.Non guardato da nessuno, Metello rimase un poco adascoltar quelle grida che si allontanavano ripetendo ilsuo nome.

* * *

Vienna era molto animata, nella bella estate. Il figliodi Augusta Weiss, capitano di artiglieria nella riserva,era stato richiamato in servizio. Con sua madre, Rüdigersi comportava sempre piú duramente e parlava come senon si fidasse. Egli solo veniva a trovarla: tra Maria Va-leria, sua moglie, ed Augusta le relazioni erano troncateda un pezzo. Figlia di un barone salisburghese che ap-parteneva alla camera dei Signori, Maria Valeria si ina-cidiva nel dispetto di avere sposato un uomo senza titolidi nobiltà, e stava attaccata con meschina passione aisuoi legami con l’aristocrazia. Era alta, assai magra, conun naso tagliente; Leopoldo, il suo bambino, avevaadesso quattro anni; la nonna poteva vederlo solamentedue volte al mese, sempre in presenza dell’istitutrice cheglielo portava a casa; quando il tempo era buono, gli in-

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chiaro, sempre piú chiaro, gli giungeva ormai all’orec-chio fra le voci violente e festose il suo nome; quellagente gridava per lui, che aveva vinto! Egli si affrettò asvoltare alla prima cantonata, mentre la schiera non neera piú lontana; si fermò dopo qualche passo, in un lem-bo di oscurità. Subito passò la gente, uomini, ragazzi,donne, molti, che andavano a qualche luogo di adunatacamminando presto, quasi correndo, e gridando sempre.Non guardato da nessuno, Metello rimase un poco adascoltar quelle grida che si allontanavano ripetendo ilsuo nome.

* * *

Vienna era molto animata, nella bella estate. Il figliodi Augusta Weiss, capitano di artiglieria nella riserva,era stato richiamato in servizio. Con sua madre, Rüdigersi comportava sempre piú duramente e parlava come senon si fidasse. Egli solo veniva a trovarla: tra Maria Va-leria, sua moglie, ed Augusta le relazioni erano troncateda un pezzo. Figlia di un barone salisburghese che ap-parteneva alla camera dei Signori, Maria Valeria si ina-cidiva nel dispetto di avere sposato un uomo senza titolidi nobiltà, e stava attaccata con meschina passione aisuoi legami con l’aristocrazia. Era alta, assai magra, conun naso tagliente; Leopoldo, il suo bambino, avevaadesso quattro anni; la nonna poteva vederlo solamentedue volte al mese, sempre in presenza dell’istitutrice cheglielo portava a casa; quando il tempo era buono, gli in-

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contri dovevano invece avvenire nel gran cortile dellaHofburg o sopra una panca del Volksgarten. Maria Vale-ria non dava importanza all’archeologia né al nome diTeodoro Weiss; aveva sempre detestata l’Italia; trovavaridicolo e spiacevole l’appartamento della suocera, «ilmuseo privato del Sud», come diceva; ed i pellegrinaggiannuali di Augusta, il suo culto per quel paese eranol’argomento principale in cui trovavano sfogo tante altreragioni di scontento e di dissidio.

Rüdiger era orgoglioso d’avere l’uniforme indosso.Egli si sarebbe voluto dare alla carriera militare; poichéil padre glielo aveva impedito, preferendo vederlo inuna professione liberale, ne conservava sempre un rim-pianto amaro, quasi un rancore, sebbene facesse buonariuscita come avvocato. Il barone Reichenhall, sua figliaMaria Valeria, e per il tramite loro Rüdiger, erano a con-tatto con alcune sfere della Corte e dello Stato Maggio-re. In esse tutti mostravano ora di vivere, piuttosto chenel lutto per l’arciduca assassinato a Serajevo, in un sa-cro orrore di quell’avvenimento, con la coscienza di undovere da compiere castigando i nascosti autoridell’uccisione. Nessuno aveva amato l’arciduca; non siparlava piú di lui né della sua fine; si parlava invece deiSerbi da punire perché avevano oltraggiato l’Impero.

Rüdiger non aveva la corporatura imponente dei suoigenitori; era di media statura, atticciato, rigido, col collocorto; somigliava alla nonna materna, la consorte delmaggiore Ritter, la quale era una piccola nobile bavare-se. In quei giorni Augusta lo vedeva tornare da lei piú

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contri dovevano invece avvenire nel gran cortile dellaHofburg o sopra una panca del Volksgarten. Maria Vale-ria non dava importanza all’archeologia né al nome diTeodoro Weiss; aveva sempre detestata l’Italia; trovavaridicolo e spiacevole l’appartamento della suocera, «ilmuseo privato del Sud», come diceva; ed i pellegrinaggiannuali di Augusta, il suo culto per quel paese eranol’argomento principale in cui trovavano sfogo tante altreragioni di scontento e di dissidio.

Rüdiger era orgoglioso d’avere l’uniforme indosso.Egli si sarebbe voluto dare alla carriera militare; poichéil padre glielo aveva impedito, preferendo vederlo inuna professione liberale, ne conservava sempre un rim-pianto amaro, quasi un rancore, sebbene facesse buonariuscita come avvocato. Il barone Reichenhall, sua figliaMaria Valeria, e per il tramite loro Rüdiger, erano a con-tatto con alcune sfere della Corte e dello Stato Maggio-re. In esse tutti mostravano ora di vivere, piuttosto chenel lutto per l’arciduca assassinato a Serajevo, in un sa-cro orrore di quell’avvenimento, con la coscienza di undovere da compiere castigando i nascosti autoridell’uccisione. Nessuno aveva amato l’arciduca; non siparlava piú di lui né della sua fine; si parlava invece deiSerbi da punire perché avevano oltraggiato l’Impero.

Rüdiger non aveva la corporatura imponente dei suoigenitori; era di media statura, atticciato, rigido, col collocorto; somigliava alla nonna materna, la consorte delmaggiore Ritter, la quale era una piccola nobile bavare-se. In quei giorni Augusta lo vedeva tornare da lei piú

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sovente. Stretto nell’alto colletto, nella vita attillata del-la giubba grigia da campo, negli specchianti stivali, ros-so in faccia, col cranio levigato dal rasoio, non riuscivapiú a stare fermo; accompagnato dal suono degli speronid’argento, passeggiava per il salotto, andava alla fine-stra, evitando sempre di guardare i vecchi paesaggi dellaSicilia, dipinti a pastello, che stavano appesi alle pareti.Della madre sembrava veramente diffidare; tuttavia ave-va bisogno di parlar di cose segrete, e lo faceva con bre-vi e vaghi accenni, dicendo di quel castigo da infliggerealla Serbia, della necessità di riaffermare l’Impero e ri-dargli forza morale, unione; parlava anche della potenzatedesca, del destino tedesco, della Germania legataall’Austria e pronta a tutto.

Nel figlio Augusta sentiva riflesso, confusamente macon ardore, il mondo chiuso di coloro che comandava-no, coi loro odi, coi calcoli politici, con la vanità, conl’ambizione, con una smania d’imprese militari, con unbisogno di tentar una prova suprema. Non domandavaciò che Rüdiger non voleva dire, ma aveva egualmentela sensazione di un lavoro condotto di ora in ora, a Vien-na e altrove, per preparare nascostamente grandi e gravifatti. Senza darne segno, ella provava un’ansietà dellaquale non si poteva liberare.

Un giorno Rüdiger arrivò piú agitato che l’altre volte.Disse sottovoce: – Siamo alla guerra.

— Quale guerra?— Quella che Dio vorrà.

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sovente. Stretto nell’alto colletto, nella vita attillata del-la giubba grigia da campo, negli specchianti stivali, ros-so in faccia, col cranio levigato dal rasoio, non riuscivapiú a stare fermo; accompagnato dal suono degli speronid’argento, passeggiava per il salotto, andava alla fine-stra, evitando sempre di guardare i vecchi paesaggi dellaSicilia, dipinti a pastello, che stavano appesi alle pareti.Della madre sembrava veramente diffidare; tuttavia ave-va bisogno di parlar di cose segrete, e lo faceva con bre-vi e vaghi accenni, dicendo di quel castigo da infliggerealla Serbia, della necessità di riaffermare l’Impero e ri-dargli forza morale, unione; parlava anche della potenzatedesca, del destino tedesco, della Germania legataall’Austria e pronta a tutto.

Nel figlio Augusta sentiva riflesso, confusamente macon ardore, il mondo chiuso di coloro che comandava-no, coi loro odi, coi calcoli politici, con la vanità, conl’ambizione, con una smania d’imprese militari, con unbisogno di tentar una prova suprema. Non domandavaciò che Rüdiger non voleva dire, ma aveva egualmentela sensazione di un lavoro condotto di ora in ora, a Vien-na e altrove, per preparare nascostamente grandi e gravifatti. Senza darne segno, ella provava un’ansietà dellaquale non si poteva liberare.

Un giorno Rüdiger arrivò piú agitato che l’altre volte.Disse sottovoce: – Siamo alla guerra.

— Quale guerra?— Quella che Dio vorrà.

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Eretta sulla persona maestosa, con la corona di treccegrigie intorno al capo, Augusta rimase immobile, in ap-parenza tranquilla. Pensò a suo padre, paralitico sullasedia a ruote, com’era tornato dalla battaglia di Koenig-graetz. Ma in Rüdiger, sebbene egli cercasse di modera-re e nascondere la propria eccitazione, era palese unsentimento di piacere, di gioia, come se gli stesse inmente una misteriosa e magnifica avventura. Pur misu-rando le parole e tenendo bassa la voce, parlava assaipiú del consueto; diceva che l’oltraggio sarebbe statovendicato, che si sarebbe spezzata la minaccia slava, chela Germania era formidabile. – Ottimo esercito anche ilnostro! L’artiglieria farà stupire. Abbiamo cannoni ec-cellenti, mai veduti.

Dopo un momento di silenzio Augusta domandò –Che cosa farà l’Italia?

Sul viso sanguigno del figlio comparve una leggerasmorfia d’ironia e disgusto: – L’alleata è senza scarpe.

Passò ancora una settimana, poi l’Austria dichiaròguerra ai Serbi. Appena letta la notizia nei giornali, Au-gusta Weiss mandò a chiamare Fenice. Fenice non abita-va distante; veniva da lei quasi ogni giorno, oppure sitrovavano fuori, insieme andavano ai concerti, alle con-ferenze, a teatro; per Ottavio, il quale si era fatto moltoonore nella scuola che frequentava, la signora Weiss era«la zia Augusta». Tale familiarità con l’italiana e suo fi-glio era anch’essa una ragione del distacco di Maria Va-leria dalla suocera; non potendo soffrire gli italiani, lamoglie di Rüdiger s’era trovata sempre tra i piedi «la

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Eretta sulla persona maestosa, con la corona di treccegrigie intorno al capo, Augusta rimase immobile, in ap-parenza tranquilla. Pensò a suo padre, paralitico sullasedia a ruote, com’era tornato dalla battaglia di Koenig-graetz. Ma in Rüdiger, sebbene egli cercasse di modera-re e nascondere la propria eccitazione, era palese unsentimento di piacere, di gioia, come se gli stesse inmente una misteriosa e magnifica avventura. Pur misu-rando le parole e tenendo bassa la voce, parlava assaipiú del consueto; diceva che l’oltraggio sarebbe statovendicato, che si sarebbe spezzata la minaccia slava, chela Germania era formidabile. – Ottimo esercito anche ilnostro! L’artiglieria farà stupire. Abbiamo cannoni ec-cellenti, mai veduti.

Dopo un momento di silenzio Augusta domandò –Che cosa farà l’Italia?

Sul viso sanguigno del figlio comparve una leggerasmorfia d’ironia e disgusto: – L’alleata è senza scarpe.

Passò ancora una settimana, poi l’Austria dichiaròguerra ai Serbi. Appena letta la notizia nei giornali, Au-gusta Weiss mandò a chiamare Fenice. Fenice non abita-va distante; veniva da lei quasi ogni giorno, oppure sitrovavano fuori, insieme andavano ai concerti, alle con-ferenze, a teatro; per Ottavio, il quale si era fatto moltoonore nella scuola che frequentava, la signora Weiss era«la zia Augusta». Tale familiarità con l’italiana e suo fi-glio era anch’essa una ragione del distacco di Maria Va-leria dalla suocera; non potendo soffrire gli italiani, lamoglie di Rüdiger s’era trovata sempre tra i piedi «la

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piccola divorziata», come la chiamava, e si era ingelosi-ta di lei e del ragazzo, trattati in quella casa come paren-ti. Fenice arrivò subito, sempre snella, giovane, vestitacome una studentessa elegante, con un piccolo cappellovispo in cima al capo.

— La dichiarazione di guerra! – disse. Gli occhi az-zurri erano piú che mai ansiosi e la bocca anelante. –Che verrà dopo? Questo fuoco camminerà. Può inco-minciare la guerra grande, quella che si vedeva soltantocome un’immaginazione romanzesca, tutta l’Europa infiamme! Dimmi il tuo pensiero, Augusta. Ho nell’animauna luce nera.

L’amica non le aveva confidato e non le rivelò quantoaveva saputo da Rüdiger; ma era anch’essa profonda-mente turbata; né volle pronunziare parole rassicurantiche non avrebbero avuto alcun valore. L’abbracciò, nelmodo affettuoso abituale ad entrambe. Erano nel salotto.– Vieni nello studio – disse. – C’è piú aria. – Era questouna stanza assai grande, tappezzata di libri fino al soffit-to; in mezzo ad una parete gli scaffali lasciavano unospazio libero, davanti al quale stavano la scrivania im-mensa ed il seggiolone di Teodoro Weiss; là, da un vec-chio quadro tedesco, guardava una contadina italianache aveva seni rigogliosi nella camicia sbuffante, farset-to rosso, cappello di paglia di Firenze ed un fascio dispighe e papaveri nelle mani; sotto il quadro erano ap-pese fotografie impallidite di scavi e di templi siculi; inun angolo biancheggiava nel marmo di un bustol’archeologo con la sua barba ondosa. Ma presso il bu-

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piccola divorziata», come la chiamava, e si era ingelosi-ta di lei e del ragazzo, trattati in quella casa come paren-ti. Fenice arrivò subito, sempre snella, giovane, vestitacome una studentessa elegante, con un piccolo cappellovispo in cima al capo.

— La dichiarazione di guerra! – disse. Gli occhi az-zurri erano piú che mai ansiosi e la bocca anelante. –Che verrà dopo? Questo fuoco camminerà. Può inco-minciare la guerra grande, quella che si vedeva soltantocome un’immaginazione romanzesca, tutta l’Europa infiamme! Dimmi il tuo pensiero, Augusta. Ho nell’animauna luce nera.

L’amica non le aveva confidato e non le rivelò quantoaveva saputo da Rüdiger; ma era anch’essa profonda-mente turbata; né volle pronunziare parole rassicurantiche non avrebbero avuto alcun valore. L’abbracciò, nelmodo affettuoso abituale ad entrambe. Erano nel salotto.– Vieni nello studio – disse. – C’è piú aria. – Era questouna stanza assai grande, tappezzata di libri fino al soffit-to; in mezzo ad una parete gli scaffali lasciavano unospazio libero, davanti al quale stavano la scrivania im-mensa ed il seggiolone di Teodoro Weiss; là, da un vec-chio quadro tedesco, guardava una contadina italianache aveva seni rigogliosi nella camicia sbuffante, farset-to rosso, cappello di paglia di Firenze ed un fascio dispighe e papaveri nelle mani; sotto il quadro erano ap-pese fotografie impallidite di scavi e di templi siculi; inun angolo biancheggiava nel marmo di un bustol’archeologo con la sua barba ondosa. Ma presso il bu-

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sto la vedova veniva a leggere o fare lavori di lana, rice-veva gli intimi; e Fenice aveva passate molte ore in que-sto angolo. Adesso ella pensava che forse la vita diVienna stava per finire e che bisognava tornare ai luo-ghi, alle cose, alla gente di cui si era dimenticata.

Anche nella primavera di quell’anno Augusta avevafatto il viaggio d’Italia; fronde di Sicilia e di Roma, ri-secchite, stavano ancora sulla scrivania, posate accantoalla vecchia cartella dell’archeologo. La signora si do-mandava se dovesse un giorno trovarsi separata dall’Ita-lia, da quel passato di Teodoro e suo, dagli amici, daquell’altra patria cosí bella. Tra Italia ed Austria, in unaguerra di tutta l’Europa, non si sapeva che potesse suc-cedere.

Nessuna delle due donne nominò l’Italia. Augustaguardava Fenice seduta accanto a lei sopra un vecchiosofà, la sua persona fine, il profilo netto, l’occhio azzur-ro inquieto: ricordava com’erano vissute insieme; senti-va veramente in colei che le stava vicina una parente,una figlia. La rivedeva cosí contenta di esser libera, tuttadata al suo ragazzo ed agli studi, sempre piena di slan-cio e nel fondo dell’animo tranquilla. Sapeva che non leaveva nascosta un’ora della nuova esistenza e che nonaveva nulla da nascondere. Una mano di Fenice si posòsopra la sua destra. Entrambe avevano l’impressione didoversi separare. – Mi pare strana – osservò Fenice – lamaniera come s’incomincia. Con semplicità, facilmente.Questa cosa terribile ci prende senza violenza.

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sto la vedova veniva a leggere o fare lavori di lana, rice-veva gli intimi; e Fenice aveva passate molte ore in que-sto angolo. Adesso ella pensava che forse la vita diVienna stava per finire e che bisognava tornare ai luo-ghi, alle cose, alla gente di cui si era dimenticata.

Anche nella primavera di quell’anno Augusta avevafatto il viaggio d’Italia; fronde di Sicilia e di Roma, ri-secchite, stavano ancora sulla scrivania, posate accantoalla vecchia cartella dell’archeologo. La signora si do-mandava se dovesse un giorno trovarsi separata dall’Ita-lia, da quel passato di Teodoro e suo, dagli amici, daquell’altra patria cosí bella. Tra Italia ed Austria, in unaguerra di tutta l’Europa, non si sapeva che potesse suc-cedere.

Nessuna delle due donne nominò l’Italia. Augustaguardava Fenice seduta accanto a lei sopra un vecchiosofà, la sua persona fine, il profilo netto, l’occhio azzur-ro inquieto: ricordava com’erano vissute insieme; senti-va veramente in colei che le stava vicina una parente,una figlia. La rivedeva cosí contenta di esser libera, tuttadata al suo ragazzo ed agli studi, sempre piena di slan-cio e nel fondo dell’animo tranquilla. Sapeva che non leaveva nascosta un’ora della nuova esistenza e che nonaveva nulla da nascondere. Una mano di Fenice si posòsopra la sua destra. Entrambe avevano l’impressione didoversi separare. – Mi pare strana – osservò Fenice – lamaniera come s’incomincia. Con semplicità, facilmente.Questa cosa terribile ci prende senza violenza.

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Augusta ripensava al fervore di Rüdiger. Ed in tuttaVienna si sentiva un’eccitazione non diversa, come se lagente avesse desiderati avvenimenti nuovi e fosse con-tenta di ciò che incominciava. Pareva che ognuno si di-cesse: «Ora si farà qualchecosa, al mondo!»

La stessa sera giunse a Vienna Graziano e subito andòa trovare Fenice. Ella sapeva ch’era sempre in giro perl’Europa; fu straordinariamente lieta di rivederlo e diaverlo vicino in quelle circostanze; si sentí sollevata. Ilgiovine aveva addosso la febbre degli avvenimenti. –Mi sembri molto cambiato – gli disse Fenice col suosorriso adorante – ma sei sempre piú bello. – AncheGraziano vide lei bella, attraente, ma non glielo disse.Parlò di quanto aveva visto dal treno: i reggimenti inviaggio, le corone di alloro o di abete appese ai carrimerci pieni di soldati, di cannoni, di cavalli, di selle. Eravenuto un tempo diverso, piú rapido, piú denso, cheavrebbe cambiato il mondo; incominciava un altromodo di vivere, grandioso e decisivo; egli ne provavaoppressione ma anche piacere, gioia. Gli Italiani sareb-bero stati presi e portati dalla guerra come gli altri popo-li. Da quale parte? La scelta gli pareva quasi indifferen-te, pur che si entrasse nella lotta che doveva cambiare ilmondo. Era anche un gioco, ossia un rischio, e nell’ariase ne sentiva già il brivido.

— Io ero cosí tranquilla...! – sospirò Fenice. Ottavio,che aveva adesso dodici anni ed era meno bianco, ascol-tava Graziano con viso preoccupato. Osservò cheun’altr’anno la sua scuola non si sarebbe riaperta; poi

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Augusta ripensava al fervore di Rüdiger. Ed in tuttaVienna si sentiva un’eccitazione non diversa, come se lagente avesse desiderati avvenimenti nuovi e fosse con-tenta di ciò che incominciava. Pareva che ognuno si di-cesse: «Ora si farà qualchecosa, al mondo!»

La stessa sera giunse a Vienna Graziano e subito andòa trovare Fenice. Ella sapeva ch’era sempre in giro perl’Europa; fu straordinariamente lieta di rivederlo e diaverlo vicino in quelle circostanze; si sentí sollevata. Ilgiovine aveva addosso la febbre degli avvenimenti. –Mi sembri molto cambiato – gli disse Fenice col suosorriso adorante – ma sei sempre piú bello. – AncheGraziano vide lei bella, attraente, ma non glielo disse.Parlò di quanto aveva visto dal treno: i reggimenti inviaggio, le corone di alloro o di abete appese ai carrimerci pieni di soldati, di cannoni, di cavalli, di selle. Eravenuto un tempo diverso, piú rapido, piú denso, cheavrebbe cambiato il mondo; incominciava un altromodo di vivere, grandioso e decisivo; egli ne provavaoppressione ma anche piacere, gioia. Gli Italiani sareb-bero stati presi e portati dalla guerra come gli altri popo-li. Da quale parte? La scelta gli pareva quasi indifferen-te, pur che si entrasse nella lotta che doveva cambiare ilmondo. Era anche un gioco, ossia un rischio, e nell’ariase ne sentiva già il brivido.

— Io ero cosí tranquilla...! – sospirò Fenice. Ottavio,che aveva adesso dodici anni ed era meno bianco, ascol-tava Graziano con viso preoccupato. Osservò cheun’altr’anno la sua scuola non si sarebbe riaperta; poi

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chiese il permesso di andare a letto, dovendo la mattinaseguente uscir di buon’ora a fare una passeggiata con al-cuni compagni. L’appartamento mobiliato era piccoloma lustro ed arioso, sotto il tetto d’una casa altissima. Siudiva in cucina la serva lavare il pavimento con vigore.Fenice parlò di questa donna, una contadina della Stiriache la domenica andava a messa portando il costume delsuo paese e che si era molto affezionata al ragazzo ed alei. Si affacciarono ad una finestra. Si vedeva tutta unalunga via che veniva dai Ring, con file di piccoli tramche s’incrociavano e col formicolio della gente; ancoravi era nel cielo un po’ di luce del giorno ma la strada erasparsa di lumi e di parole accese; da un lato si alzavanoin mezzo ad un vasto spazio le torri gotiche della ChiesaVotiva e piú indietro, in una gran fila, torri e cupoledell’università, del Rathaus, del Parlamento. Fenice rac-contava la sua vita di Vienna, parlando dei poeti austria-ci che aveva tradotti, delle amicizie che le aveva procu-rate Augusta Weiss, dell’università, ove durava il ricor-do di battaglie tra studenti italiani e tedeschi. Disse diOttavio: – Ora è tutto mio, sai! – Ad un tratto presero agiungere dalla via, lontane e confuse tra gli altri rumori,le voci degli uomini che vendevano un’edizione straor-dinaria dei giornali, quelle voci simili a gridi d’allarme.Quando Graziano, poco dopo, discese, udí subito che lafolla dei passanti portava un nome, Russia Russia, conuna specie di entusiasmo rabbioso.

Il giovine viveva errante per l’Europa da molti mesi.Non aveva piú una casa; il nonno era andato ad abitare

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chiese il permesso di andare a letto, dovendo la mattinaseguente uscir di buon’ora a fare una passeggiata con al-cuni compagni. L’appartamento mobiliato era piccoloma lustro ed arioso, sotto il tetto d’una casa altissima. Siudiva in cucina la serva lavare il pavimento con vigore.Fenice parlò di questa donna, una contadina della Stiriache la domenica andava a messa portando il costume delsuo paese e che si era molto affezionata al ragazzo ed alei. Si affacciarono ad una finestra. Si vedeva tutta unalunga via che veniva dai Ring, con file di piccoli tramche s’incrociavano e col formicolio della gente; ancoravi era nel cielo un po’ di luce del giorno ma la strada erasparsa di lumi e di parole accese; da un lato si alzavanoin mezzo ad un vasto spazio le torri gotiche della ChiesaVotiva e piú indietro, in una gran fila, torri e cupoledell’università, del Rathaus, del Parlamento. Fenice rac-contava la sua vita di Vienna, parlando dei poeti austria-ci che aveva tradotti, delle amicizie che le aveva procu-rate Augusta Weiss, dell’università, ove durava il ricor-do di battaglie tra studenti italiani e tedeschi. Disse diOttavio: – Ora è tutto mio, sai! – Ad un tratto presero agiungere dalla via, lontane e confuse tra gli altri rumori,le voci degli uomini che vendevano un’edizione straor-dinaria dei giornali, quelle voci simili a gridi d’allarme.Quando Graziano, poco dopo, discese, udí subito che lafolla dei passanti portava un nome, Russia Russia, conuna specie di entusiasmo rabbioso.

Il giovine viveva errante per l’Europa da molti mesi.Non aveva piú una casa; il nonno era andato ad abitare

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con Gabriella, ed egli passava da un paese all’altro, daun albergo all’altro. Il suo romanzo d’America era pub-blicato da qualche tempo, il successo pareva anche mag-giore che per Senza terra; ma Graziano si rimproveravadi averlo scritto cosí in fretta, sapendo di non avervirappresentato come voleva il dramma umano, la solitavecchia vita umana, nel meccanismo di quelle grandissi-me città, in quelle moltitudini. Pensava che avrebbe do-vuto rifarlo, ma preferiva dimenticarsene come di unacosa sgradevole rimasta altrove, lontano. Gabriella,nell’ultima lettera, gli aveva chiesto il consenso per ven-dere la casa della pineta; egli non aveva ancora data unarisposta; Gabriella stava lassú, col vecchio Ascanio, conla piccola Claudia e col bambino nato nell’estate prece-dente, Emanuele. Ad Aurelio occorreva adesso altro de-naro per la sua industria. Il capitale toccato a Gabriellaper la cessione della clinica era stato versato nella socie-tà, s’era cambiato in edifizi, in macchine, e tutto si av-viava ottimamente, con una corrente di fortuna. Ma Gra-ziano, per avversione agli affari, ai pensieri di quel ge-nere, non aveva data la propria parte, affidandola inveceal nonno, dal quale si faceva mandare moltissimi quat-trini. S’era messo a vivere come non aveva mai provato,distrattamente, a caso, cercando piaceri, soddisfatto de-gli alberghi sfolgoranti e soffici nei quali alloggiava, deitreni di lusso da cui si faceva portare, dello spendere,del non ricordare talvolta dove fosse. Aveva volato; nonleggeva niente; scriveva per i giornali ma di rado; avvi-cinava, come se le amasse, donne giovani e belle le qua-

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con Gabriella, ed egli passava da un paese all’altro, daun albergo all’altro. Il suo romanzo d’America era pub-blicato da qualche tempo, il successo pareva anche mag-giore che per Senza terra; ma Graziano si rimproveravadi averlo scritto cosí in fretta, sapendo di non avervirappresentato come voleva il dramma umano, la solitavecchia vita umana, nel meccanismo di quelle grandissi-me città, in quelle moltitudini. Pensava che avrebbe do-vuto rifarlo, ma preferiva dimenticarsene come di unacosa sgradevole rimasta altrove, lontano. Gabriella,nell’ultima lettera, gli aveva chiesto il consenso per ven-dere la casa della pineta; egli non aveva ancora data unarisposta; Gabriella stava lassú, col vecchio Ascanio, conla piccola Claudia e col bambino nato nell’estate prece-dente, Emanuele. Ad Aurelio occorreva adesso altro de-naro per la sua industria. Il capitale toccato a Gabriellaper la cessione della clinica era stato versato nella socie-tà, s’era cambiato in edifizi, in macchine, e tutto si av-viava ottimamente, con una corrente di fortuna. Ma Gra-ziano, per avversione agli affari, ai pensieri di quel ge-nere, non aveva data la propria parte, affidandola inveceal nonno, dal quale si faceva mandare moltissimi quat-trini. S’era messo a vivere come non aveva mai provato,distrattamente, a caso, cercando piaceri, soddisfatto de-gli alberghi sfolgoranti e soffici nei quali alloggiava, deitreni di lusso da cui si faceva portare, dello spendere,del non ricordare talvolta dove fosse. Aveva volato; nonleggeva niente; scriveva per i giornali ma di rado; avvi-cinava, come se le amasse, donne giovani e belle le qua-

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li non avevano per lui una biografia né un domani e nondicevano nemmeno il loro nome vero. Passare a questomodo attraverso razze diverse, in paesi di differenti ariee colori, ciascuno dei quali teneva in piedi qua e là gliscenari della propria storia, gli era piaciuto. Comel’America, questa Europa ricca mostrava la smania dellavoro, era coperta di rotaie, di torri d’acciaio, sfoggiavail suo lucente progresso, e faceva denaro, si pagava pia-ceri e sfarzo. Non si sarebbe potuto indovinare che vo-lesse cambiare dandosi alla guerra. Ma anche la guerrache si vedeva incominciare, sembrava un luccicar diprogresso, un lavoro di macchine, lusso, sfarzo.

A Vienna Graziano non era mai venuto. La grande ca-pitale faceva sentire la ricchezza dell’Impero, la sua po-tenza di vecchia data; attorno alla residenza imperiale,nelle piazze sulle quali stavano i palazzi delle famiglieprincipesche, nei giardini pieni di statue agitate, per iviali senza fine listati di costosi edifizi, presso le banchemonumentali e gli uffici della polizia, tutte le cose, purtanto diverse tra loro, apparivano immerse in una stessagloria, la gloria di Vienna, la quale brillava nei getti del-le fontane, grandeggiava sui frontoni oscuri carichi dicorone imperiali, verdeggiava nei parchi pubblici, sottola luce di una estate poco meno fresca che una primave-ra. L’animazione veniva ancora crescendo. Nelle pro-spettive rallegrate dalle bandiere, passavan reggimenticon mazzetti di fiori nelle bocche dei fucili, al suono dibalde e vibranti musiche, e si alzava gaiamente ad accla-marli la gente stipata sui larghi marciapiedi dei caffè.

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li non avevano per lui una biografia né un domani e nondicevano nemmeno il loro nome vero. Passare a questomodo attraverso razze diverse, in paesi di differenti ariee colori, ciascuno dei quali teneva in piedi qua e là gliscenari della propria storia, gli era piaciuto. Comel’America, questa Europa ricca mostrava la smania dellavoro, era coperta di rotaie, di torri d’acciaio, sfoggiavail suo lucente progresso, e faceva denaro, si pagava pia-ceri e sfarzo. Non si sarebbe potuto indovinare che vo-lesse cambiare dandosi alla guerra. Ma anche la guerrache si vedeva incominciare, sembrava un luccicar diprogresso, un lavoro di macchine, lusso, sfarzo.

A Vienna Graziano non era mai venuto. La grande ca-pitale faceva sentire la ricchezza dell’Impero, la sua po-tenza di vecchia data; attorno alla residenza imperiale,nelle piazze sulle quali stavano i palazzi delle famiglieprincipesche, nei giardini pieni di statue agitate, per iviali senza fine listati di costosi edifizi, presso le banchemonumentali e gli uffici della polizia, tutte le cose, purtanto diverse tra loro, apparivano immerse in una stessagloria, la gloria di Vienna, la quale brillava nei getti del-le fontane, grandeggiava sui frontoni oscuri carichi dicorone imperiali, verdeggiava nei parchi pubblici, sottola luce di una estate poco meno fresca che una primave-ra. L’animazione veniva ancora crescendo. Nelle pro-spettive rallegrate dalle bandiere, passavan reggimenticon mazzetti di fiori nelle bocche dei fucili, al suono dibalde e vibranti musiche, e si alzava gaiamente ad accla-marli la gente stipata sui larghi marciapiedi dei caffè.

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Per i viali passavano anche grossi pezzi d’artiglieria,nuovissimi, trainati da pesanti motori ornati d’alloro e diquercia. Ovunque uniformi militari; il loro numero sem-brava aumentare d’ora in ora; ovunque ufficiali, belli,eleganti, impettiti, con le sciarpe gialle, coi cheppí aguz-zi. E tutto ciò che era militare splendeva, nuovo. Ognimomento comparivano stuoli gridanti evviva ed abbas-so: andavano a gridare sotto le finestre di qualche amba-sciata. Graziano si incontrò pure con un drappello disoldati i quali tenevano in mezzo un uomo vestito stra-namente, stracciato, con una testaccia arruffata ed unaselvaggia barba; li seguiva uno strascico di folla e tuttidicevano che si trattava d’una spia. Venuta di dove? Pre-sa dove? Spesso quel che si vedeva, dava l’idea di unospettacolo abilmente ordinato. Ma vi era pure nell’ariaqualcosa che pesava terribilmente; e le ore pesavanoanch’esse, si sapeva bene ciò che portavano.

Graziano ebbe una lettera del nonno. «Anni lontani –diceva il vecchio – li ritrovo vivi dentro di me. Adessovedo bene che il Risorgimento non era terminato. Sentola mia ferita come se rifiorisca. Intendi? Quante cosevorrei scrivere su questo foglio che giungerà a Vienna!»Infatti la marcia allegra che Graziano udiva cosí spesso,era quella di Radetzky; sopra gli stemmi ergeva le dueteste l’aquila arrabbiata. Le insegne dei reggimenti, letracolle e le sciabole degli ufficiali non erano identiche aquelle conservate nei musei italiani accanto a catene diprigionieri, a reliquie d’impiccati? Ormai il giovine sivedeva tra nemici, nel campo nemico. In un incrocio di

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Per i viali passavano anche grossi pezzi d’artiglieria,nuovissimi, trainati da pesanti motori ornati d’alloro e diquercia. Ovunque uniformi militari; il loro numero sem-brava aumentare d’ora in ora; ovunque ufficiali, belli,eleganti, impettiti, con le sciarpe gialle, coi cheppí aguz-zi. E tutto ciò che era militare splendeva, nuovo. Ognimomento comparivano stuoli gridanti evviva ed abbas-so: andavano a gridare sotto le finestre di qualche amba-sciata. Graziano si incontrò pure con un drappello disoldati i quali tenevano in mezzo un uomo vestito stra-namente, stracciato, con una testaccia arruffata ed unaselvaggia barba; li seguiva uno strascico di folla e tuttidicevano che si trattava d’una spia. Venuta di dove? Pre-sa dove? Spesso quel che si vedeva, dava l’idea di unospettacolo abilmente ordinato. Ma vi era pure nell’ariaqualcosa che pesava terribilmente; e le ore pesavanoanch’esse, si sapeva bene ciò che portavano.

Graziano ebbe una lettera del nonno. «Anni lontani –diceva il vecchio – li ritrovo vivi dentro di me. Adessovedo bene che il Risorgimento non era terminato. Sentola mia ferita come se rifiorisca. Intendi? Quante cosevorrei scrivere su questo foglio che giungerà a Vienna!»Infatti la marcia allegra che Graziano udiva cosí spesso,era quella di Radetzky; sopra gli stemmi ergeva le dueteste l’aquila arrabbiata. Le insegne dei reggimenti, letracolle e le sciabole degli ufficiali non erano identiche aquelle conservate nei musei italiani accanto a catene diprigionieri, a reliquie d’impiccati? Ormai il giovine sivedeva tra nemici, nel campo nemico. In un incrocio di

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vie sul cammino di Schönbrunn una mattina vide passa-re rapidamente una carrozza scintillante e leggera tiratada due candidi cavalli con lunghe code, e dentro vi eraun vecchio in uniforme, solo, col piccolo cheppí. Dissea se medesimo quel nome «Francesco Giuseppe» cheveniva da tanto lontano, dal tempo delle cospirazioni edelle campagne per l’indipendenza.

Ogni sera ritornava da Fenice. Si trovavano anche digiorno, fuori di casa, ed Ottavio era con loro; ma la seraella lo aspettava, il ragazzo si coricava presto, ed essi ri-manevano un pezzo alla finestra, a guardare insieme letorri della Chiesa Votiva e le altre forme della città, sulgran cielo, a guardare il movimento ed i lumi della via.Entrambi erano ripresi da un amore dolce, profondo egiovine; sentivano con gioia di essersi ritrovati; ella nonsi lasciava baciare ma gli aveva promesso di passare unanotte con lui. E di questa fuga notturna a qualche gentilealbergo dei dintorni discorrevano tutte le sere, lei con ladecisione animosa di abbandonarsi ad una pazzia. In cu-cina la serva stiriana non cessava di lavare il pavimento.Intanto nel mondo gli avvenimenti si svolgevano comesecondo una regola prefissa, una fase dopo l’altra, maprecipitando; ogni sera si sapeva che un altro irreparabi-le passo era fatto. Il fuoco camminava.

Augusta Weiss vide il figlio giungere da lei una matti-na, come accadeva assai di rado. Rüdiger si sforzava dipadroneggiarsi ma era pieno di collera, pareva ancorapiú stretto nell’uniforme, e la furia del sangue al viso

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vie sul cammino di Schönbrunn una mattina vide passa-re rapidamente una carrozza scintillante e leggera tiratada due candidi cavalli con lunghe code, e dentro vi eraun vecchio in uniforme, solo, col piccolo cheppí. Dissea se medesimo quel nome «Francesco Giuseppe» cheveniva da tanto lontano, dal tempo delle cospirazioni edelle campagne per l’indipendenza.

Ogni sera ritornava da Fenice. Si trovavano anche digiorno, fuori di casa, ed Ottavio era con loro; ma la seraella lo aspettava, il ragazzo si coricava presto, ed essi ri-manevano un pezzo alla finestra, a guardare insieme letorri della Chiesa Votiva e le altre forme della città, sulgran cielo, a guardare il movimento ed i lumi della via.Entrambi erano ripresi da un amore dolce, profondo egiovine; sentivano con gioia di essersi ritrovati; ella nonsi lasciava baciare ma gli aveva promesso di passare unanotte con lui. E di questa fuga notturna a qualche gentilealbergo dei dintorni discorrevano tutte le sere, lei con ladecisione animosa di abbandonarsi ad una pazzia. In cu-cina la serva stiriana non cessava di lavare il pavimento.Intanto nel mondo gli avvenimenti si svolgevano comesecondo una regola prefissa, una fase dopo l’altra, maprecipitando; ogni sera si sapeva che un altro irreparabi-le passo era fatto. Il fuoco camminava.

Augusta Weiss vide il figlio giungere da lei una matti-na, come accadeva assai di rado. Rüdiger si sforzava dipadroneggiarsi ma era pieno di collera, pareva ancorapiú stretto nell’uniforme, e la furia del sangue al viso

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sembrava dovergli far male. – L’Italia – disse – si ècomportata secondo la sua natura. Ha tradito.

Augusta pensò che fosse entrata in guerra contro diloro. Respirò meglio quando seppe che s’era dichiarataneutrale. Ma il figlio continuò dicendo che si era tenutaall’alleanza finché le era servita: al momento buonoaveva disertato. Parlava fissando la madre con severità,come se ella avesse una parte di quelle colpe. Augusta,secondo il solito vestita con molta dignità, ascoltava im-mobile, in piedi presso un tavolino, tenendo alto il capoincoronato di trecce. Disse piano: – Io non credo che visia stato tradimento. Io ho amore per l’Italia ed anchestima.

Rüdiger batté un piede sul tappeto facendo sonare losprone: – Non avrei voluto udire queste parole propriooggi! L’Italia andrà dall’altra parte senza dubbio. Del re-sto, sarebbe stato per lei troppo onore combattere al no-stro fianco, una cosa assurda. È la nostra vera nemica.Abbiamo sbagliato a non schiacciarla prima. Ma torne-remo nel Lombardo-Veneto, e sarà festa per tutti i solda-ti dell’Imperatore!

— Io amo l’Italia – replicò adagio Augusta – perchéamo e venero il nome di tuo padre, la sua vita.

Seccamente Rüdiger ribatté: – Mio padre era austria-co. Anche tu sei austriaca. Non dovresti dimenticarlo.

Ella rimase immobile, non disse altro. Il figlio si ac-comodava la giubba, la sciarpa gialla che aveva a tracol-la perché comandato a qualche servizio: – I fatti apriran-

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sembrava dovergli far male. – L’Italia – disse – si ècomportata secondo la sua natura. Ha tradito.

Augusta pensò che fosse entrata in guerra contro diloro. Respirò meglio quando seppe che s’era dichiarataneutrale. Ma il figlio continuò dicendo che si era tenutaall’alleanza finché le era servita: al momento buonoaveva disertato. Parlava fissando la madre con severità,come se ella avesse una parte di quelle colpe. Augusta,secondo il solito vestita con molta dignità, ascoltava im-mobile, in piedi presso un tavolino, tenendo alto il capoincoronato di trecce. Disse piano: – Io non credo che visia stato tradimento. Io ho amore per l’Italia ed anchestima.

Rüdiger batté un piede sul tappeto facendo sonare losprone: – Non avrei voluto udire queste parole propriooggi! L’Italia andrà dall’altra parte senza dubbio. Del re-sto, sarebbe stato per lei troppo onore combattere al no-stro fianco, una cosa assurda. È la nostra vera nemica.Abbiamo sbagliato a non schiacciarla prima. Ma torne-remo nel Lombardo-Veneto, e sarà festa per tutti i solda-ti dell’Imperatore!

— Io amo l’Italia – replicò adagio Augusta – perchéamo e venero il nome di tuo padre, la sua vita.

Seccamente Rüdiger ribatté: – Mio padre era austria-co. Anche tu sei austriaca. Non dovresti dimenticarlo.

Ella rimase immobile, non disse altro. Il figlio si ac-comodava la giubba, la sciarpa gialla che aveva a tracol-la perché comandato a qualche servizio: – I fatti apriran-

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no gli occhi anche a te. Frattanto speriamo che gli italia-ni se ne vadano di qua, anche i tuoi amici.

Dietro la figura tozza di Rüdiger sua madre credevadi vedere quella lunga ed asciutta di Maria Valeria, lesue mani scarne riunite a tenere un ventaglio con gestadi comando; ma non aperse piú bocca. Parlando per di-fendere i suoi amici stranieri si sarebbe messa controsuo figlio, contro il nipote che amava, Leopoldo, controla stessa Maria Valeria alla quale essi erano legati: ave-va questa penosa sensazione, non volle farlo. E sapevaanche lei che tra l’Austria e l’Italia era sempre stataguerra e doveva esservi ancora guerra. Rüdiger, salutan-dola appena, andò via col passo pesante ed esatto.

Saliva in fretta le scale Fenice. L’ufficiale si portò du-ramente la mano alla visiera senza guardarla in faccia.Ella non se ne stupí e nemmeno di vederlo usciredall’abitazione della madre in ora inconsueta. Ai giorna-li era stato proibito pubblicare quella notizia ma già siandava spargendo rapidamente.

— Hai incontrato Rüdiger – disse Augusta.— Sí. Non l’avevo mai visto in uniforme.— Questa mattina mi sento già stanca – sospirò la si-

gnora Weiss sedendo sopra un seggiolone e indicando aFenice una sedia di fronte a lei.

— Paula, la mia stiriana, è risalita dalla strada pian-gendo perché aveva capito che anche l’Italia facesse laguerra all’Austria. Piange ancora. Dice che gli italianidovranno partire.

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no gli occhi anche a te. Frattanto speriamo che gli italia-ni se ne vadano di qua, anche i tuoi amici.

Dietro la figura tozza di Rüdiger sua madre credevadi vedere quella lunga ed asciutta di Maria Valeria, lesue mani scarne riunite a tenere un ventaglio con gestadi comando; ma non aperse piú bocca. Parlando per di-fendere i suoi amici stranieri si sarebbe messa controsuo figlio, contro il nipote che amava, Leopoldo, controla stessa Maria Valeria alla quale essi erano legati: ave-va questa penosa sensazione, non volle farlo. E sapevaanche lei che tra l’Austria e l’Italia era sempre stataguerra e doveva esservi ancora guerra. Rüdiger, salutan-dola appena, andò via col passo pesante ed esatto.

Saliva in fretta le scale Fenice. L’ufficiale si portò du-ramente la mano alla visiera senza guardarla in faccia.Ella non se ne stupí e nemmeno di vederlo usciredall’abitazione della madre in ora inconsueta. Ai giorna-li era stato proibito pubblicare quella notizia ma già siandava spargendo rapidamente.

— Hai incontrato Rüdiger – disse Augusta.— Sí. Non l’avevo mai visto in uniforme.— Questa mattina mi sento già stanca – sospirò la si-

gnora Weiss sedendo sopra un seggiolone e indicando aFenice una sedia di fronte a lei.

— Paula, la mia stiriana, è risalita dalla strada pian-gendo perché aveva capito che anche l’Italia facesse laguerra all’Austria. Piange ancora. Dice che gli italianidovranno partire.

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— Non siamo a questo punto; ma non ho il coraggiodi guardare innanzi a noi. Sono tanto triste, mia piccolaFenice!

— E tutto va cosí in fretta!— Giorni strani. Non si capisce chi voglia le cose che

accadono. Il mondo è già cambiato. Penso agli amici diRoma, di Torino, e mi sembrano molto piú lontani diprima. Tutta l’Italia mi sembra... di là da un deserto.

Nelle finestre del salotto erano abbassate le persiane,fatte di grosse stecche, attraverso le quali si vedevaegualmente la facciata borghese e bonaria della casa di-rimpetto; nella via passavano i suoni di tromba delle au-tomobili e, adagio, lo scalpitare delle pariglie attaccate agrandi carri, in un silenzio soleggiato.

— La mia felicità di Vienna non poteva durar sem-pre... – osservò Fenice, parlando soprattutto a se stessa.

Com’era sua abitudine, Augusta stava a sedere colbusto eretto, col capo eretto, con le mani posate suibraccioli. Disse, seguendo anch’essa i suoi pensieri: –Mi ha scritto l’altro giorno da Firenze una nipote delbuon vecchio Luserna, dell’archeologo. Sta per prenderemarito. L’avevo vista proprio bambina, sotto i cipressi diFiesole. Con gli amici d’Italia vi era simpatia, fraternità,perché avevamo reciproca stima, ci legavano tanti ricor-di, la vita degli studi, l’intelligenza: ora ci accorgiamo diessere austriaci, italiani. E ciascun popolo ha il suo de-stino, deve andare per la sua strada.

— Anche Ottavio credo che pensi ai compagni chedovrà lasciare qui; ma non mi ha ancora detto niente.

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— Non siamo a questo punto; ma non ho il coraggiodi guardare innanzi a noi. Sono tanto triste, mia piccolaFenice!

— E tutto va cosí in fretta!— Giorni strani. Non si capisce chi voglia le cose che

accadono. Il mondo è già cambiato. Penso agli amici diRoma, di Torino, e mi sembrano molto piú lontani diprima. Tutta l’Italia mi sembra... di là da un deserto.

Nelle finestre del salotto erano abbassate le persiane,fatte di grosse stecche, attraverso le quali si vedevaegualmente la facciata borghese e bonaria della casa di-rimpetto; nella via passavano i suoni di tromba delle au-tomobili e, adagio, lo scalpitare delle pariglie attaccate agrandi carri, in un silenzio soleggiato.

— La mia felicità di Vienna non poteva durar sem-pre... – osservò Fenice, parlando soprattutto a se stessa.

Com’era sua abitudine, Augusta stava a sedere colbusto eretto, col capo eretto, con le mani posate suibraccioli. Disse, seguendo anch’essa i suoi pensieri: –Mi ha scritto l’altro giorno da Firenze una nipote delbuon vecchio Luserna, dell’archeologo. Sta per prenderemarito. L’avevo vista proprio bambina, sotto i cipressi diFiesole. Con gli amici d’Italia vi era simpatia, fraternità,perché avevamo reciproca stima, ci legavano tanti ricor-di, la vita degli studi, l’intelligenza: ora ci accorgiamo diessere austriaci, italiani. E ciascun popolo ha il suo de-stino, deve andare per la sua strada.

— Anche Ottavio credo che pensi ai compagni chedovrà lasciare qui; ma non mi ha ancora detto niente.

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Page 469: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

La signora Weiss ricordò il ragazzo quando la chia-mava «zia Augusta». Cercò con lo sguardo sopra il ta-volino una fotografia di Leopoldo, dalla quale il fanciul-lo le sorrideva: «Nonna Augusta». Insieme a questo ri-tratto vi erano altre grandi fotografie, una di Rüdiger, inborghese, ed una di Maria Valeria vestita di raso bianco,com’era andata ad una festa di Corte qualche anno pri-ma. D’or innanzi bisognava rimanere con loro.

— Sai – disse Fenice – che ora viaggiano solamente itreni militari?

Augusta, invece di rispondere, mormorò: – Al mondonon esistono soltanto i templi antichi, le fatiche deglistudiosi, le belle amicizie. Non abbiamo diritto nemme-no ad un cielo che non sia il nostro. Nemmeno l’aria èdi tutti. Ma ora, cara piccola Fenice, non serve parlarne;non possiamo farci nulla. Quello che succederà poi, lodovremo accettare.

Si era alzata, col consueto vigore, e teneva sollevateall’altezza del capo le sue nobili mani. Subito si alzò an-che Fenice, la guardò con quegli occhi azzurri, nei qualispuntò il luccicore delle lacrime: – Non dimenticheròmai questi anni. E noi ci vorremo bene sempre!

— Oh sí, figlia mia. Speriamo!L’abbraccio che si diedero, fu come se non dovessero

piú rivedersi. Uscita da quella casa, camminando per lavia che tante volte aveva percorsa, guardando le faccia-te, le botteghe che le erano divenute familiari, una lapi-de in memoria di uno storico accanto alla finestra di unmezzanino nella quale si vedeva una gabbia dorata, ri-

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La signora Weiss ricordò il ragazzo quando la chia-mava «zia Augusta». Cercò con lo sguardo sopra il ta-volino una fotografia di Leopoldo, dalla quale il fanciul-lo le sorrideva: «Nonna Augusta». Insieme a questo ri-tratto vi erano altre grandi fotografie, una di Rüdiger, inborghese, ed una di Maria Valeria vestita di raso bianco,com’era andata ad una festa di Corte qualche anno pri-ma. D’or innanzi bisognava rimanere con loro.

— Sai – disse Fenice – che ora viaggiano solamente itreni militari?

Augusta, invece di rispondere, mormorò: – Al mondonon esistono soltanto i templi antichi, le fatiche deglistudiosi, le belle amicizie. Non abbiamo diritto nemme-no ad un cielo che non sia il nostro. Nemmeno l’aria èdi tutti. Ma ora, cara piccola Fenice, non serve parlarne;non possiamo farci nulla. Quello che succederà poi, lodovremo accettare.

Si era alzata, col consueto vigore, e teneva sollevateall’altezza del capo le sue nobili mani. Subito si alzò an-che Fenice, la guardò con quegli occhi azzurri, nei qualispuntò il luccicore delle lacrime: – Non dimenticheròmai questi anni. E noi ci vorremo bene sempre!

— Oh sí, figlia mia. Speriamo!L’abbraccio che si diedero, fu come se non dovessero

piú rivedersi. Uscita da quella casa, camminando per lavia che tante volte aveva percorsa, guardando le faccia-te, le botteghe che le erano divenute familiari, una lapi-de in memoria di uno storico accanto alla finestra di unmezzanino nella quale si vedeva una gabbia dorata, ri-

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conoscendo un grasso portiere seduto entro un portone,cercando il cielo fresco sopra i tetti, Fenice sentivacome quelle cose le erano care e come non erano piúsue. Proruppero dal fondo della via voci di strilloni.«Extra ausgabe! Extra ausgabe!» Gridare le notizie eraproibito. Quali altre notizie? Ella non voleva sapere. Male voci la separavano anch’esse da tutte le cose, diceva-no che la vita di Vienna era proprio finita.

Alcuni sul marciapiede, altri in mezzo alla strada, tut-ti sopra una sola linea, venivano avanti dei richiamati,ancora giovani, coi berretti infiorati e con un portamen-to di contadini marziali. Canticchiavano, ridevano, te-nendosi a braccetto in due o tre. – Ach, die schöne Wie-nerin! – fece uno, piú alto e piú biondo dei camerati,quando fu vicino a Fenice. – Date un bacio, signorina, albravo soldato!

* * *

Graziano aspettava sul Franz Josefs Kai. Nel canaledel Danubio largo e tortuoso l’acqua riscintillava sotto iponti illuminati. L’altra riva portava un’intera città, mol-to densa; di qua, invece, i palazzi, gli alberghi, avevanointorno aria e giardini. Vi era poca gente, poiché tuttiandavano ai Ring, oppure al centro, dove passavano letruppe, le bande militari, le dimostrazioni. Con Feniceera stabilito di andare ad un alberghetto vicino a Nus-sdorf ed alla famosa passeggiata di Beethoven. Ottaviodoveva essere fuori di Vienna, invitato da un compagno.

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conoscendo un grasso portiere seduto entro un portone,cercando il cielo fresco sopra i tetti, Fenice sentivacome quelle cose le erano care e come non erano piúsue. Proruppero dal fondo della via voci di strilloni.«Extra ausgabe! Extra ausgabe!» Gridare le notizie eraproibito. Quali altre notizie? Ella non voleva sapere. Male voci la separavano anch’esse da tutte le cose, diceva-no che la vita di Vienna era proprio finita.

Alcuni sul marciapiede, altri in mezzo alla strada, tut-ti sopra una sola linea, venivano avanti dei richiamati,ancora giovani, coi berretti infiorati e con un portamen-to di contadini marziali. Canticchiavano, ridevano, te-nendosi a braccetto in due o tre. – Ach, die schöne Wie-nerin! – fece uno, piú alto e piú biondo dei camerati,quando fu vicino a Fenice. – Date un bacio, signorina, albravo soldato!

* * *

Graziano aspettava sul Franz Josefs Kai. Nel canaledel Danubio largo e tortuoso l’acqua riscintillava sotto iponti illuminati. L’altra riva portava un’intera città, mol-to densa; di qua, invece, i palazzi, gli alberghi, avevanointorno aria e giardini. Vi era poca gente, poiché tuttiandavano ai Ring, oppure al centro, dove passavano letruppe, le bande militari, le dimostrazioni. Con Feniceera stabilito di andare ad un alberghetto vicino a Nus-sdorf ed alla famosa passeggiata di Beethoven. Ottaviodoveva essere fuori di Vienna, invitato da un compagno.

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Sotto il muraglione del Danubio, presso il ponte Stefa-nia, era l’imbarco del battello che per il canale portava aNussdorf. Ecco spuntare Fenice, venir innanzi in fretta.La sua persona svelta era vestita di un bell’abito di setaleggera a fiori vivi; sui capelli capricciosi aveva un cap-pellino che pareva soltanto un gran nodo di nastro nero;luccicavano le scarpe fini di vernice. Il giovane le mosseincontro con un senso di felicità. Poi le passò una manosotto il braccio inguantato e fece l’atto di avviarsiall’imbarco. Ma ella disse: – No, aspetta. – Soltanto al-lora Graziano si accorse che la bocca, socchiusa ansio-samente come sempre sui denti nitidi, sí, sorrideva, manegli occhi luminosi era qualcosa di non lieto, un turba-mento, un rammarico, una paura. Ella spiegò che nonera possibile rimanere insieme come volevano, perché lagita del ragazzo era stata rimandata, Ottavio era a casa.– Passeggiamo qui. Discorriamo – aggiunse conquell’affanno.

— Ma il battello se ne va – osservò Graziano. – SeOttavio è a casa, tra poco dormirà e domani tu torneraipresto, prima che si svegli.

— No, questo non è possibile. Non mi sento di farquesto. Non insistere, Graziano caro, ti prego! Vieni,passeggiamo.

Presero a camminare lungo il parapetto del canale.Dall’albergo piú vicino giungeva la musica di un tangodell’Argentina e sopra una terrazza a pianterreno alcunecoppie danzavano. A piede del muraglione Fenice eGraziano videro gente imbarcarsi prestamente e poi il

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Sotto il muraglione del Danubio, presso il ponte Stefa-nia, era l’imbarco del battello che per il canale portava aNussdorf. Ecco spuntare Fenice, venir innanzi in fretta.La sua persona svelta era vestita di un bell’abito di setaleggera a fiori vivi; sui capelli capricciosi aveva un cap-pellino che pareva soltanto un gran nodo di nastro nero;luccicavano le scarpe fini di vernice. Il giovane le mosseincontro con un senso di felicità. Poi le passò una manosotto il braccio inguantato e fece l’atto di avviarsiall’imbarco. Ma ella disse: – No, aspetta. – Soltanto al-lora Graziano si accorse che la bocca, socchiusa ansio-samente come sempre sui denti nitidi, sí, sorrideva, manegli occhi luminosi era qualcosa di non lieto, un turba-mento, un rammarico, una paura. Ella spiegò che nonera possibile rimanere insieme come volevano, perché lagita del ragazzo era stata rimandata, Ottavio era a casa.– Passeggiamo qui. Discorriamo – aggiunse conquell’affanno.

— Ma il battello se ne va – osservò Graziano. – SeOttavio è a casa, tra poco dormirà e domani tu torneraipresto, prima che si svegli.

— No, questo non è possibile. Non mi sento di farquesto. Non insistere, Graziano caro, ti prego! Vieni,passeggiamo.

Presero a camminare lungo il parapetto del canale.Dall’albergo piú vicino giungeva la musica di un tangodell’Argentina e sopra una terrazza a pianterreno alcunecoppie danzavano. A piede del muraglione Fenice eGraziano videro gente imbarcarsi prestamente e poi il

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battello partire, risalir la corrente coi suoi lumi allegri.Ella non poteva nascondere la sua agitazione; sebbenevolesse parlare dei nuovi grandi avvenimenti di quelgiorno, nel suo turbamento, si sentiva un’altra causa piúintima. All’altezza del giardino pubblico fiancheggiantela passeggiata Graziano le fece attraversar la strada; en-trarono tra le aiuole e sedettero sopra una panca. Lagente sparsa in quel luogo ordinato era rara e tranquilla;sotto le fronde di un tiglio la panca pareva in una stanza,pur non avendo intorno nessuna siepe; a stento giungevalà, con la luce dei fanali, quella di un crepuscolo lentis-simo. Il giovane cinse col braccio la vita sottile dellacompagna, sentí il suo corpo giovanile vibrare, le acco-stò la bocca alla bocca e si baciarono piano, lungamen-te, piú volte. Tosto non seppero piú della gente, del luo-go dov’erano, della città, di ciò che accadeva al mondo,nulla. Sentirono soltanto di esistere e di essere insieme.Una dolcezza immensa era in loro, come se non avesse-ro peso e si alzassero lentamente nell’aria. Non pensa-vano a nulla, non sapevano quanto tempo scorresse, etuttavia sentivano che fuggiva, il tempo; come una seteprofonda, era in loro un desiderio di non staccarsi maanzi di confondersi insieme, di unirsi perdutamente.

Fenice si tolse i lunghi guanti e nelle mani nude tenneun momento il viso di lui, guardandolo con occhi avidi,felici e tristi. Poi disse: – Le ore che abbiamo passate in-sieme, tutta la mia vita da quando tu vi sei entrato, nonle dimentico mai!

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battello partire, risalir la corrente coi suoi lumi allegri.Ella non poteva nascondere la sua agitazione; sebbenevolesse parlare dei nuovi grandi avvenimenti di quelgiorno, nel suo turbamento, si sentiva un’altra causa piúintima. All’altezza del giardino pubblico fiancheggiantela passeggiata Graziano le fece attraversar la strada; en-trarono tra le aiuole e sedettero sopra una panca. Lagente sparsa in quel luogo ordinato era rara e tranquilla;sotto le fronde di un tiglio la panca pareva in una stanza,pur non avendo intorno nessuna siepe; a stento giungevalà, con la luce dei fanali, quella di un crepuscolo lentis-simo. Il giovane cinse col braccio la vita sottile dellacompagna, sentí il suo corpo giovanile vibrare, le acco-stò la bocca alla bocca e si baciarono piano, lungamen-te, piú volte. Tosto non seppero piú della gente, del luo-go dov’erano, della città, di ciò che accadeva al mondo,nulla. Sentirono soltanto di esistere e di essere insieme.Una dolcezza immensa era in loro, come se non avesse-ro peso e si alzassero lentamente nell’aria. Non pensa-vano a nulla, non sapevano quanto tempo scorresse, etuttavia sentivano che fuggiva, il tempo; come una seteprofonda, era in loro un desiderio di non staccarsi maanzi di confondersi insieme, di unirsi perdutamente.

Fenice si tolse i lunghi guanti e nelle mani nude tenneun momento il viso di lui, guardandolo con occhi avidi,felici e tristi. Poi disse: – Le ore che abbiamo passate in-sieme, tutta la mia vita da quando tu vi sei entrato, nonle dimentico mai!

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— Ricordi una notte, a Torino, dopo una giornata disommossa? Eravamo soli sopra la terra. Anche ora sia-mo noi due soli; siamo io e te in mezzo al mondo.

Teneva entrambi la stessa esaltazione celata, la stessavertigine gradevole; l’uno sentiva nell’altra quel deside-rio, quell’amore che faceva battere il cuore forte ed ac-corciare il respiro. Le cose, intorno, sembravano mera-vigliosamente belle; da tutte veniva dolcemente una per-suasione ad amarsi.

— A Nussdorf – disse sommessamente Graziano conquel respiro breve – si va anche col treno.

Ella non ritirò la mano che stringeva quella del com-pagno; anzi, la stretta divenne piú forte, quasi disperata;sul suo viso, sulla bocca, negli occhi il giovine videesprimersi piú grave il turbamento doloroso, la paura,insieme ad una debolezza implorante.

— No, Graziano caro! Sai come ho sognato di avereuna notte con te. Ora bisogna che tu mi comprenda. Nonposso restare, non posso!

— Che vuoi pensare? Il mondo va a questa guerra.Chissà quali cose succederanno. Una notte: perché pen-sarvi tanto?

— No, senti, Graziano. Ti dirò la verità. Sono io chenon ho permesso ad Ottavio di andar via. Non ho volu-to. Ho vissuti questi anni soltanto per lui, puramente: la-sciami a lui, come sono ora. Lasciami il mio bambinocome lo possiedo ora. Graziano, te ne prego, aiutami!Dovrò tornare nella vita di prima e non avrò che lui.

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— Ricordi una notte, a Torino, dopo una giornata disommossa? Eravamo soli sopra la terra. Anche ora sia-mo noi due soli; siamo io e te in mezzo al mondo.

Teneva entrambi la stessa esaltazione celata, la stessavertigine gradevole; l’uno sentiva nell’altra quel deside-rio, quell’amore che faceva battere il cuore forte ed ac-corciare il respiro. Le cose, intorno, sembravano mera-vigliosamente belle; da tutte veniva dolcemente una per-suasione ad amarsi.

— A Nussdorf – disse sommessamente Graziano conquel respiro breve – si va anche col treno.

Ella non ritirò la mano che stringeva quella del com-pagno; anzi, la stretta divenne piú forte, quasi disperata;sul suo viso, sulla bocca, negli occhi il giovine videesprimersi piú grave il turbamento doloroso, la paura,insieme ad una debolezza implorante.

— No, Graziano caro! Sai come ho sognato di avereuna notte con te. Ora bisogna che tu mi comprenda. Nonposso restare, non posso!

— Che vuoi pensare? Il mondo va a questa guerra.Chissà quali cose succederanno. Una notte: perché pen-sarvi tanto?

— No, senti, Graziano. Ti dirò la verità. Sono io chenon ho permesso ad Ottavio di andar via. Non ho volu-to. Ho vissuti questi anni soltanto per lui, puramente: la-sciami a lui, come sono ora. Lasciami il mio bambinocome lo possiedo ora. Graziano, te ne prego, aiutami!Dovrò tornare nella vita di prima e non avrò che lui.

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Graziano udiva queste parole con un dolore amaro edanche con dispetto; ma capí bene ciò che Fenice non vo-leva guastare, quella sua vita pura; sentiva quanto sof-frisse in quel momento per non macchiarla. Perché nonaverne rispetto? Perché trascinare la compagna come sa-rebbe infine stato facile? Non riuscí a dire niente, ma sirassegnò. Fenice si alzò, adagio lo trasse fuori del giar-dino, fino al parapetto del canale, sul marciapiede, doveripresero a passeggiare. Sotto il cielo nel quale ancheora un po’ di luce crepuscolare durava, il canale oscuropareva piú profondo; brillavano meglio le rive ed i moltiponti complicati; nell’aria era però un senso di luogochiuso, tranquillo. Incontravano donne di servizio cir-condate di fanciulli, vecchi dignitosi che fumavanogrosse pipe tedesche. Adesso Graziano era impazienteche Fenice, col suo corpo snello, col vestito a fiori vivi,col profumo delicato e tepido, si allontanasse da lui.

— Dove andrai dopo Vienna? Che farai? – gli do-mandava la compagna, attaccata strettamente al suobraccio. Rispose che non sapeva. Fenice disse che certa-mente ella non avrebbe potuto tardar molto a rientrare aTorino e che si sarebbero poi riveduti laggiú. – Non averrancore, adesso, contro di me. E restami amico sempre!Ricordati di farmi sempre sapere dove sarai, quel che fa-rai, comunque sia l’avvenire. – In un punto della Elisa-beth Promenade, dove ella non si trovava molto lontanada casa, si fermò, alzò il viso a baciarlo di nuovo mentrenon vi era nessuno. – Caro, caro! – disse ancora. Poi sistaccò, attraversò la strada rapidamente, col passo ani-

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Graziano udiva queste parole con un dolore amaro edanche con dispetto; ma capí bene ciò che Fenice non vo-leva guastare, quella sua vita pura; sentiva quanto sof-frisse in quel momento per non macchiarla. Perché nonaverne rispetto? Perché trascinare la compagna come sa-rebbe infine stato facile? Non riuscí a dire niente, ma sirassegnò. Fenice si alzò, adagio lo trasse fuori del giar-dino, fino al parapetto del canale, sul marciapiede, doveripresero a passeggiare. Sotto il cielo nel quale ancheora un po’ di luce crepuscolare durava, il canale oscuropareva piú profondo; brillavano meglio le rive ed i moltiponti complicati; nell’aria era però un senso di luogochiuso, tranquillo. Incontravano donne di servizio cir-condate di fanciulli, vecchi dignitosi che fumavanogrosse pipe tedesche. Adesso Graziano era impazienteche Fenice, col suo corpo snello, col vestito a fiori vivi,col profumo delicato e tepido, si allontanasse da lui.

— Dove andrai dopo Vienna? Che farai? – gli do-mandava la compagna, attaccata strettamente al suobraccio. Rispose che non sapeva. Fenice disse che certa-mente ella non avrebbe potuto tardar molto a rientrare aTorino e che si sarebbero poi riveduti laggiú. – Non averrancore, adesso, contro di me. E restami amico sempre!Ricordati di farmi sempre sapere dove sarai, quel che fa-rai, comunque sia l’avvenire. – In un punto della Elisa-beth Promenade, dove ella non si trovava molto lontanada casa, si fermò, alzò il viso a baciarlo di nuovo mentrenon vi era nessuno. – Caro, caro! – disse ancora. Poi sistaccò, attraversò la strada rapidamente, col passo ani-

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moso, con la persona sottile vestita di vivi colori, e colcuore pesante di tristezza come piombo. Si rivolse anco-ra un momento; disparve tra alte case buie.

Il giovane, invece, si portò allo sbocco dei Ring e simise per il viale. Sentiva con pena di essere rimastosolo; aveva anche indosso una rabbiuzza di dover rinun-ciare alla notte che si era ripromessa. Rammentò unalettera di Gabriella giunta in quel giorno; la sorella glicomunicava una buona offerta ricevuta per la collina deipini, chiedendo risposta per telegramma; diceva purequanto le spiaceva separarsi dalla cara opera della loromadre, ma ripeteva le ragioni per le quali desiderava lavendita. La lettera era stata aperta, poi richiusa con unastriscia di carta che indicava la censura austriaca.

Dinanzi ad una grande caserma stava gente folta adaspettare un reggimento in partenza. Presto uscí unamusica vibrata e trillante, il reggimento passò, in assettodi guerra, con pesanti scarpe, tutto grigio e compatto ac-correva al suo passaggio altra gente, e tutti mandavanogridi lieti. Vi era un’aria di festa. Andavano attorno sol-dati col permesso serale, molti, a frotte; ovunque eranosalutati allegramente, lanciavano gli evviva e gli abbas-so ed i cittadini li acclamavano, li conducevano a bere labirra. Ve n’erano di quelli isolati, avvolti dalle famiglieo da gruppi di sconosciuti che quasi li portavano intrionfo. Davanti ad una birreria, tra i tavolini che occu-pavano gran parte del marciapiede, due soldati stavanoin mezzo ad una ressa di ammiratori che tendevano taz-ze riboccanti di schiuma; l’uno era assai giovine, milita-

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moso, con la persona sottile vestita di vivi colori, e colcuore pesante di tristezza come piombo. Si rivolse anco-ra un momento; disparve tra alte case buie.

Il giovane, invece, si portò allo sbocco dei Ring e simise per il viale. Sentiva con pena di essere rimastosolo; aveva anche indosso una rabbiuzza di dover rinun-ciare alla notte che si era ripromessa. Rammentò unalettera di Gabriella giunta in quel giorno; la sorella glicomunicava una buona offerta ricevuta per la collina deipini, chiedendo risposta per telegramma; diceva purequanto le spiaceva separarsi dalla cara opera della loromadre, ma ripeteva le ragioni per le quali desiderava lavendita. La lettera era stata aperta, poi richiusa con unastriscia di carta che indicava la censura austriaca.

Dinanzi ad una grande caserma stava gente folta adaspettare un reggimento in partenza. Presto uscí unamusica vibrata e trillante, il reggimento passò, in assettodi guerra, con pesanti scarpe, tutto grigio e compatto ac-correva al suo passaggio altra gente, e tutti mandavanogridi lieti. Vi era un’aria di festa. Andavano attorno sol-dati col permesso serale, molti, a frotte; ovunque eranosalutati allegramente, lanciavano gli evviva e gli abbas-so ed i cittadini li acclamavano, li conducevano a bere labirra. Ve n’erano di quelli isolati, avvolti dalle famiglieo da gruppi di sconosciuti che quasi li portavano intrionfo. Davanti ad una birreria, tra i tavolini che occu-pavano gran parte del marciapiede, due soldati stavanoin mezzo ad una ressa di ammiratori che tendevano taz-ze riboccanti di schiuma; l’uno era assai giovine, milita-

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Page 476: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

re di leva senza un pelo sulla faccia furba, l’altro un ri-chiamato anziano, tutto ossa e baffi, ed il primo gli dice-va: – A che cosa sei buono, tu? Ti metteranno a far laguardia ai ponti. Io andrò subito in prima linea. Io sí hodiritto di bere! – Ma il pubblico, ridendo, voleva fossefatto onore anche alla vecchia Landsturm.

A misura che Graziano procedeva sul gran cerchio deiRing, trovava sempre piú gente, piú brio, piú fervore, trail brillar delle luci ed il continuo scorrere delle automo-bili e dei tranvai. Passavano con aria d’importanza uffi-ciali superiori, molto salutati; ufficialetti giovani anda-vano e venivano in compagnia di eleganti ragazze, tra isorrisi di compiacenza della folla. Nelle vetrine si vede-vano fotografie di generali, di truppe passate in rivista,immagini a colori coi tipi dei soldati dell’Impero. Appe-si ai chioschi e nelle mani dei passanti eran dappertutto ipiccoli fogli stampati in caratteri gotici, dove i titoli di-stesi sull’intera pagina significavano quel che era suc-cesso nella giornata, un moversi di altre grandi nazionicon tutte le loro armi. L’università, il Rathaus, il Parla-mento, i palazzi imperiali si levavano sopra il brulichioed il rumore con espressione di potenza incrollabile. SulRing dell’Opera le orchestre dei caffè – dame vestite dibianco o zingari in costume – alternavano vecchie mar-ce militari ai valzer di Giovanni Strauss non meno glo-riosi. Ogni tanto tra gli altri veicoli apparivano autocarriornati di festoni verdi, sui quali eran mandati in giro sol-dati agitanti fronde di quercia e gridanti. «Belli, i nostrisoldati! – pensava la gente applaudendo. – La quercia e

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re di leva senza un pelo sulla faccia furba, l’altro un ri-chiamato anziano, tutto ossa e baffi, ed il primo gli dice-va: – A che cosa sei buono, tu? Ti metteranno a far laguardia ai ponti. Io andrò subito in prima linea. Io sí hodiritto di bere! – Ma il pubblico, ridendo, voleva fossefatto onore anche alla vecchia Landsturm.

A misura che Graziano procedeva sul gran cerchio deiRing, trovava sempre piú gente, piú brio, piú fervore, trail brillar delle luci ed il continuo scorrere delle automo-bili e dei tranvai. Passavano con aria d’importanza uffi-ciali superiori, molto salutati; ufficialetti giovani anda-vano e venivano in compagnia di eleganti ragazze, tra isorrisi di compiacenza della folla. Nelle vetrine si vede-vano fotografie di generali, di truppe passate in rivista,immagini a colori coi tipi dei soldati dell’Impero. Appe-si ai chioschi e nelle mani dei passanti eran dappertutto ipiccoli fogli stampati in caratteri gotici, dove i titoli di-stesi sull’intera pagina significavano quel che era suc-cesso nella giornata, un moversi di altre grandi nazionicon tutte le loro armi. L’università, il Rathaus, il Parla-mento, i palazzi imperiali si levavano sopra il brulichioed il rumore con espressione di potenza incrollabile. SulRing dell’Opera le orchestre dei caffè – dame vestite dibianco o zingari in costume – alternavano vecchie mar-ce militari ai valzer di Giovanni Strauss non meno glo-riosi. Ogni tanto tra gli altri veicoli apparivano autocarriornati di festoni verdi, sui quali eran mandati in giro sol-dati agitanti fronde di quercia e gridanti. «Belli, i nostrisoldati! – pensava la gente applaudendo. – La quercia e

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l’alloro son veramente fatti per loro». Sebbene si sapes-se poco di quanto avveniva dalla parte di Belgrado, at-traverso la splendida capitale passavano fremiti di vitto-ria. Ma ciò che soprattutto si sentiva, era una festa per laguerra incominciata ed una gioia orgogliosa di avermesso a fuoco il mondo. Al tempo nuovo, alla guerra!Doveva farsi tutto nuovo, il mondo! Che importavaquello che potesse precisamente succedere?

Graziano lasciò i viali piegando verso il centro, presodallo spettacolo e dal fervore della gente quantunque lafesta fosse di nemici in mezzo ai quali egli si trovavacompletamente solo. Sotto un piú ricco drappeggio dibandiere la folla vi era ancora piú densa; anche qui sol-dati e pubblico generoso; pei marciapiedi giravano ra-gazze di ogni qualità, che sorridevano anch’esse ai mili-tari. Di soldati ce n’era un cerchio intorno ad un lampio-ne, e cantavano con serio impegno:

«Gott erhalte, Gott beschützeUnsern Kaiser, unser Land».

Nel bel mezzo della vecchia Vienna, entro la raggieradelle vie luminose che vi convergevano, stava la molenera di Santo Stefano con le alte torri acute. Anche là daogni parte venivano ondate di musiche e di voci; ma ilduomo sembrava estraneo a quanto aveva intorno, e fat-to di massiccio silenzio. Fermatosi a guardarlo dal latoopposto della piazza, Graziano udí tra il va e vieni una

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l’alloro son veramente fatti per loro». Sebbene si sapes-se poco di quanto avveniva dalla parte di Belgrado, at-traverso la splendida capitale passavano fremiti di vitto-ria. Ma ciò che soprattutto si sentiva, era una festa per laguerra incominciata ed una gioia orgogliosa di avermesso a fuoco il mondo. Al tempo nuovo, alla guerra!Doveva farsi tutto nuovo, il mondo! Che importavaquello che potesse precisamente succedere?

Graziano lasciò i viali piegando verso il centro, presodallo spettacolo e dal fervore della gente quantunque lafesta fosse di nemici in mezzo ai quali egli si trovavacompletamente solo. Sotto un piú ricco drappeggio dibandiere la folla vi era ancora piú densa; anche qui sol-dati e pubblico generoso; pei marciapiedi giravano ra-gazze di ogni qualità, che sorridevano anch’esse ai mili-tari. Di soldati ce n’era un cerchio intorno ad un lampio-ne, e cantavano con serio impegno:

«Gott erhalte, Gott beschützeUnsern Kaiser, unser Land».

Nel bel mezzo della vecchia Vienna, entro la raggieradelle vie luminose che vi convergevano, stava la molenera di Santo Stefano con le alte torri acute. Anche là daogni parte venivano ondate di musiche e di voci; ma ilduomo sembrava estraneo a quanto aveva intorno, e fat-to di massiccio silenzio. Fermatosi a guardarlo dal latoopposto della piazza, Graziano udí tra il va e vieni una

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Page 478: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

voce d’uomo, netta e decisa, che chiamava: – Farra!Graziano!

Si voltò, vide un giovine piuttosto tozzo, vestito dinero correttamente, con colletto lucido e cravattuzza,come un operaio tedesco alla domenica, ma senza cap-pello. Dopo un istante riconobbe il viso schiacciato, icapelli neri ricci, lo sguardo penetrante di Valente Maz-zè. Venendo per quel marciapiede, Nego l’aveva visto es’era fermato. Ritrovandosi cosí ad un tratto dinanziquel compagno ch’era sparito senza che nessuno sapes-se come né perché, l’impressione di Graziano fu bizzar-ra: gli parve spuntato dal suolo. Non diversamentedall’altre volte, Nego gli tese la mano come se soltantoda qualche giorno non si fossero incontrati. Ma ancheGraziano uscí subito dal suo stupore, parendogli in mi-sterioso accordo l’apparizione e le straordinarie circo-stanze. – Sei qui? Che fai?

Valente disse che lavorava in una grande officinameccanica dei sobborghi, operaio scelto.

— La tua famiglia lo sa?Valente scosse il capo a rispondere di no. Allora Gra-

ziano raccontò che era andato alcune volte a casa sua;gli parlò della madre, degli altri, del casale come eraadesso. Il compagno ascoltava in silenzio, tranquilla-mente. Poi si mossero, camminarono davanti ai grandicaffè, alle vetrine illuminate, verso il Graben. RaccontòNego di aver anche lavorato in Germania; per brevi ac-cenni spiegò quel che aveva voluto: non essere piú il fi-glio né il fratello di nessuno, tagliare ogni legame con la

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voce d’uomo, netta e decisa, che chiamava: – Farra!Graziano!

Si voltò, vide un giovine piuttosto tozzo, vestito dinero correttamente, con colletto lucido e cravattuzza,come un operaio tedesco alla domenica, ma senza cap-pello. Dopo un istante riconobbe il viso schiacciato, icapelli neri ricci, lo sguardo penetrante di Valente Maz-zè. Venendo per quel marciapiede, Nego l’aveva visto es’era fermato. Ritrovandosi cosí ad un tratto dinanziquel compagno ch’era sparito senza che nessuno sapes-se come né perché, l’impressione di Graziano fu bizzar-ra: gli parve spuntato dal suolo. Non diversamentedall’altre volte, Nego gli tese la mano come se soltantoda qualche giorno non si fossero incontrati. Ma ancheGraziano uscí subito dal suo stupore, parendogli in mi-sterioso accordo l’apparizione e le straordinarie circo-stanze. – Sei qui? Che fai?

Valente disse che lavorava in una grande officinameccanica dei sobborghi, operaio scelto.

— La tua famiglia lo sa?Valente scosse il capo a rispondere di no. Allora Gra-

ziano raccontò che era andato alcune volte a casa sua;gli parlò della madre, degli altri, del casale come eraadesso. Il compagno ascoltava in silenzio, tranquilla-mente. Poi si mossero, camminarono davanti ai grandicaffè, alle vetrine illuminate, verso il Graben. RaccontòNego di aver anche lavorato in Germania; per brevi ac-cenni spiegò quel che aveva voluto: non essere piú il fi-glio né il fratello di nessuno, tagliare ogni legame con la

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città nativa e con l’Italia; essere un operaio che si gua-dagnava la vita un poco in un luogo, in una nazione, unpoco in un altro luogo ed in un’altra nazione; conosciutoper nome, cognome, patria soltanto dalla direzionedell’officina; senza rapporti durevoli con nessuno, senzacamerati né amici né amanti; un uomo al mondo enient’altro, estraneo a tutto, semplice spettatore fuorchéal banco di lavoro; libero, dentro di sé, indipendente datutti; padrone di tutto perché non prendeva niente, innessun luogo. A Vienna c’era da pochi mesi.

Intorno a loro era sempre il rimescolio allegro di uffi-ciali, di soldati, di ragazze, di gente di ogni condizione.– Festa grande – disse Graziano. E si va in fretta. Hailetto che i Tedeschi sono già nel Belgio e che l’Inghil-terra entra in gioco?

— Non c’è bisogno di leggere; queste cose si sannoper forza. Una delle tante guerre che si son fatte e si fa-ranno.

Nel Graben ripassò uno di quei convogli di obici digrosso calibro, trainati da motori ed inghirlandati, i qualianch’essi giravano tutta la giornata: somigliavano ele-fanti quando il circo fa la parata per tirar gente a teatro,già stanchi per aver tanto girato. Ma gli applausi nonmancavano. «Si vincerà presto – pensava il pubblico –con simili mostri al nostro comando». Erano tanto pe-santi ed i motori battevan colpi tanto rudi che il bel pa-vimento ne tremava e le torri di Santo Stefano, là nelbuio, sembravano pericolare, povere vegliarde.

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città nativa e con l’Italia; essere un operaio che si gua-dagnava la vita un poco in un luogo, in una nazione, unpoco in un altro luogo ed in un’altra nazione; conosciutoper nome, cognome, patria soltanto dalla direzionedell’officina; senza rapporti durevoli con nessuno, senzacamerati né amici né amanti; un uomo al mondo enient’altro, estraneo a tutto, semplice spettatore fuorchéal banco di lavoro; libero, dentro di sé, indipendente datutti; padrone di tutto perché non prendeva niente, innessun luogo. A Vienna c’era da pochi mesi.

Intorno a loro era sempre il rimescolio allegro di uffi-ciali, di soldati, di ragazze, di gente di ogni condizione.– Festa grande – disse Graziano. E si va in fretta. Hailetto che i Tedeschi sono già nel Belgio e che l’Inghil-terra entra in gioco?

— Non c’è bisogno di leggere; queste cose si sannoper forza. Una delle tante guerre che si son fatte e si fa-ranno.

Nel Graben ripassò uno di quei convogli di obici digrosso calibro, trainati da motori ed inghirlandati, i qualianch’essi giravano tutta la giornata: somigliavano ele-fanti quando il circo fa la parata per tirar gente a teatro,già stanchi per aver tanto girato. Ma gli applausi nonmancavano. «Si vincerà presto – pensava il pubblico –con simili mostri al nostro comando». Erano tanto pe-santi ed i motori battevan colpi tanto rudi che il bel pa-vimento ne tremava e le torri di Santo Stefano, là nelbuio, sembravano pericolare, povere vegliarde.

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— Presto o tardi spareranno contro di noi – disse Gra-ziano. – Questa scadenza deve venire. E l’orco avrà ilfatto suo, sconterà i vecchi delitti.

Nego voltò la larga faccia verso il compagno mo-strandogli un sogghigno ironico: – Vedo che credi nellastoria. La storia è sempre la stessa. Cambiano i nomi, leuniformi, le insegne. Sí, anche le armi. Ma volgiti indie-tro e dimmi che impressione ti fa tutto il guerreggiareche è successo in passato. Per esempio, le guerre tra As-siri e Babilonesi. Quale senso ci trovi? Ciò che si chia-ma storia, è sempre eguale perché non ha significato enon conclude mai niente. – Il sogghigno gli scavava nelviso pieghe sprezzanti. Aggiunse: – Non eri tu che unavolta parlavi di una certa palla girante nello spazio conun po’ di parassiti addosso? Come dicevi? I bacilli. Au-striaci, Italiani, dovresti guardarli nel microscopio, colti-varteli in vitro.

Da una birreria uscirono dei graduati, con uniformibelle nuove, fiori al berretto, fiocchi sul petto, pipe diporcellana, circondati da borghesi, tutti alquanto brilli. –Oggi carne serba! – proclamava uno dei caporali scher-zando col nome di una pietanza. A gara gli altri vociava-no: – Domani Francia kaput! Gli Inglesi in malora! –Avrebbero vinto il mondo. Gli accompagnatori ridevanoclamorosamente; la gente si fermava, anch’essa ridendo,felice dello scherzo ch’era incominciato, lontano, chissàdove, nei luoghi indefiniti dove si sarebbe fatta la guer-ra. Si alzarono evviva alla Germania, all’esercito allea-

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— Presto o tardi spareranno contro di noi – disse Gra-ziano. – Questa scadenza deve venire. E l’orco avrà ilfatto suo, sconterà i vecchi delitti.

Nego voltò la larga faccia verso il compagno mo-strandogli un sogghigno ironico: – Vedo che credi nellastoria. La storia è sempre la stessa. Cambiano i nomi, leuniformi, le insegne. Sí, anche le armi. Ma volgiti indie-tro e dimmi che impressione ti fa tutto il guerreggiareche è successo in passato. Per esempio, le guerre tra As-siri e Babilonesi. Quale senso ci trovi? Ciò che si chia-ma storia, è sempre eguale perché non ha significato enon conclude mai niente. – Il sogghigno gli scavava nelviso pieghe sprezzanti. Aggiunse: – Non eri tu che unavolta parlavi di una certa palla girante nello spazio conun po’ di parassiti addosso? Come dicevi? I bacilli. Au-striaci, Italiani, dovresti guardarli nel microscopio, colti-varteli in vitro.

Da una birreria uscirono dei graduati, con uniformibelle nuove, fiori al berretto, fiocchi sul petto, pipe diporcellana, circondati da borghesi, tutti alquanto brilli. –Oggi carne serba! – proclamava uno dei caporali scher-zando col nome di una pietanza. A gara gli altri vociava-no: – Domani Francia kaput! Gli Inglesi in malora! –Avrebbero vinto il mondo. Gli accompagnatori ridevanoclamorosamente; la gente si fermava, anch’essa ridendo,felice dello scherzo ch’era incominciato, lontano, chissàdove, nei luoghi indefiniti dove si sarebbe fatta la guer-ra. Si alzarono evviva alla Germania, all’esercito allea-

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to. Qualcuno gridò: – Italia tarantella! Pfui la neutrale! –E la gente rideva, ripeteva: – Pfui! Pfui!

Graziano alzò il mento verso l’amico, commentandocon gli occhi quelle parole; poi disse: – La storia è undestino, anche tuo, mio.

— Ne sto fuori quanto posso – rispose Valente scrol-lando le spalle.

Graziano era contento di aver incontrato il compagno.Anche adesso costui stava in una posizione singolare difronte alle cose, ma tale era il suo modo di essere; qua-lunque idea esprimesse, non vi era niente di meschino,non mostrava nessuna passione bassa; si conoscevasempre in lui quel pensare forte, indipendente, ed unapiena sincerità. A Graziano piaceva inoltre di trovarsicon un amico, con un italiano, in mezzo alla festa deinemici. Ed aveva dimenticata Fenice. Propose a Nego disedere, accennando un caffè del Graben, tutto marmoscuro, lussuoso come una tomba.

— Andiamo invece in qualche buca – disse l’altro. –Meno fantocci intorno.

Tornati sui loro passi, si portarono dietro al duomo,ad una weinstube «Alla pergola» sistemata in uno stilecampagnolo da teatro; vi era molta gente nel cortile,poca nelle sale ove entrarono. Bevvero dell’ottimo vinobianco, asciutto e robusto. In cima alle pareti correva unfregio dipinto nel quale, tra grappoli e tralci, serpeggia-vano scritte gotiche in lode del bere. Vicino a loro unvecchio signore con barba ancora macchiata di biondodiceva all’omino che fumava un grosso sigaro, seduto di

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to. Qualcuno gridò: – Italia tarantella! Pfui la neutrale! –E la gente rideva, ripeteva: – Pfui! Pfui!

Graziano alzò il mento verso l’amico, commentandocon gli occhi quelle parole; poi disse: – La storia è undestino, anche tuo, mio.

— Ne sto fuori quanto posso – rispose Valente scrol-lando le spalle.

Graziano era contento di aver incontrato il compagno.Anche adesso costui stava in una posizione singolare difronte alle cose, ma tale era il suo modo di essere; qua-lunque idea esprimesse, non vi era niente di meschino,non mostrava nessuna passione bassa; si conoscevasempre in lui quel pensare forte, indipendente, ed unapiena sincerità. A Graziano piaceva inoltre di trovarsicon un amico, con un italiano, in mezzo alla festa deinemici. Ed aveva dimenticata Fenice. Propose a Nego disedere, accennando un caffè del Graben, tutto marmoscuro, lussuoso come una tomba.

— Andiamo invece in qualche buca – disse l’altro. –Meno fantocci intorno.

Tornati sui loro passi, si portarono dietro al duomo,ad una weinstube «Alla pergola» sistemata in uno stilecampagnolo da teatro; vi era molta gente nel cortile,poca nelle sale ove entrarono. Bevvero dell’ottimo vinobianco, asciutto e robusto. In cima alle pareti correva unfregio dipinto nel quale, tra grappoli e tralci, serpeggia-vano scritte gotiche in lode del bere. Vicino a loro unvecchio signore con barba ancora macchiata di biondodiceva all’omino che fumava un grosso sigaro, seduto di

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Page 482: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

fronte a lui: – Di nuovo il cardinale arcivescovo è statooggi ricevuto dall’Imperatore.

Nego ripigliò il discorso di prima: – Sai perché si fan-no le guerre?

L’amico lo guardava. Le mani eran sempre da tornito-re d’acciaio ma lavate bene; quel viso, che sempre ave-va avuta un’espressione di forza, dava ancor megliol’idea che si potesse violentemente colpirlo senza cam-biarlo mai; i capelli, troppo neri, conservavano la vivez-za viperina. Se la giacchetta nera, il colletto lucido, lacravattina col nodo fatto erano da capo operaio tedesco,in complesso nessuno avrebbe saputo dire chi fosse que-sto bizzarro uomo. Negli occhi pungenti, in quel lavororude della sua maschera, fronte, orbite, naso schiacciato,si vedeva un’intelligenza aggressiva.

— Le guerre si fanno per paura della morte – conti-nuava Nego. – Del resto, tutto ciò che gli uomini fanno,e quindi la storia, non è altro che questo. Paura dellamorte, capisci, non di morire: orrore del vuoto. Il lavo-rare per mangiare, il mettere al mondo dei figli, lo scri-vere poemi o romanzi, il gettarsi contro il fuoco nemico,sono questo. Filosofie, religioni, sono questo. Orrore delvuoto. Si fa ogni tentativo per colmarlo, per gettarviponti, od almeno per non vedere il niente.

— Anche il tuo pensare – disse Graziano, mostrandoalla sua volta un sorriso beffeggiatore – è paura dellamorte. Ma tu contempli il vuoto e lo adori. Non volevipensare, e sei ridotto a fare quasi soltanto questo.

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fronte a lui: – Di nuovo il cardinale arcivescovo è statooggi ricevuto dall’Imperatore.

Nego ripigliò il discorso di prima: – Sai perché si fan-no le guerre?

L’amico lo guardava. Le mani eran sempre da tornito-re d’acciaio ma lavate bene; quel viso, che sempre ave-va avuta un’espressione di forza, dava ancor megliol’idea che si potesse violentemente colpirlo senza cam-biarlo mai; i capelli, troppo neri, conservavano la vivez-za viperina. Se la giacchetta nera, il colletto lucido, lacravattina col nodo fatto erano da capo operaio tedesco,in complesso nessuno avrebbe saputo dire chi fosse que-sto bizzarro uomo. Negli occhi pungenti, in quel lavororude della sua maschera, fronte, orbite, naso schiacciato,si vedeva un’intelligenza aggressiva.

— Le guerre si fanno per paura della morte – conti-nuava Nego. – Del resto, tutto ciò che gli uomini fanno,e quindi la storia, non è altro che questo. Paura dellamorte, capisci, non di morire: orrore del vuoto. Il lavo-rare per mangiare, il mettere al mondo dei figli, lo scri-vere poemi o romanzi, il gettarsi contro il fuoco nemico,sono questo. Filosofie, religioni, sono questo. Orrore delvuoto. Si fa ogni tentativo per colmarlo, per gettarviponti, od almeno per non vedere il niente.

— Anche il tuo pensare – disse Graziano, mostrandoalla sua volta un sorriso beffeggiatore – è paura dellamorte. Ma tu contempli il vuoto e lo adori. Non volevipensare, e sei ridotto a fare quasi soltanto questo.

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L’idea espressa da Nego gli era stata un tempo fami-liare e gli pareva sempre esatta, ma ora la sentiva fred-da, inutile, lontana dalla verità del mondo, avendonell’animo e nel cervello tante cose viventi, calde, ru-morose, piene di sostanza: i treni di soldati, la lettera delnonno che parlava del Risorgimento, le grosse artiglie-rie, le bandiere dell’Impero, la marcia di Radetzky, lecelle dello Spielberg, le edizioni straordinarie dei gior-nali, la carta d’Europa esposta nelle vetrine dei librai, lenazioni che mettevano in moto le loro macchine di guer-ra. Bevve un altro sorso di vino. – Per dirti tutto in po-che parole, io mi sento contento. Mi sembra incomincia-to un tempo che mi trae fuori di me, fuori del cerchiodella mia vita. I giorni ai quali andiamo, li vedo moltoimportanti. Ho anche un’angoscia, s’intende: valga lasolita immagine dell’orizzonte con foschi nembi. Masento che grandi cambiamenti si faranno.

Egli notò che il compagno fumava; forse aveva sem-pre fumato ed egli non ricordava di averlo visto; osservòanche la scatola di sigarette austriache da Valente toltadi tasca con gesto abituale, come se ciò lo mostrasse as-suefatto al paese straniero. Riprese: – Forse ripeto in al-tra forma ciò che tu hai detto. Per istinto i vivi cercanoun mezzo di dare un valore alla vita; cercano qualchescopo piú grandioso che la breve esistenza di ognuno.Hanno inventato il sacrificio. Chiunque parli di sangue,di morte, di sacrificio, è seguito con ardore: le sue paro-le diventano affascinanti promesse. Proprio questa è lafortuna dei vivi, la loro buona sorte, di poter credere in

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L’idea espressa da Nego gli era stata un tempo fami-liare e gli pareva sempre esatta, ma ora la sentiva fred-da, inutile, lontana dalla verità del mondo, avendonell’animo e nel cervello tante cose viventi, calde, ru-morose, piene di sostanza: i treni di soldati, la lettera delnonno che parlava del Risorgimento, le grosse artiglie-rie, le bandiere dell’Impero, la marcia di Radetzky, lecelle dello Spielberg, le edizioni straordinarie dei gior-nali, la carta d’Europa esposta nelle vetrine dei librai, lenazioni che mettevano in moto le loro macchine di guer-ra. Bevve un altro sorso di vino. – Per dirti tutto in po-che parole, io mi sento contento. Mi sembra incomincia-to un tempo che mi trae fuori di me, fuori del cerchiodella mia vita. I giorni ai quali andiamo, li vedo moltoimportanti. Ho anche un’angoscia, s’intende: valga lasolita immagine dell’orizzonte con foschi nembi. Masento che grandi cambiamenti si faranno.

Egli notò che il compagno fumava; forse aveva sem-pre fumato ed egli non ricordava di averlo visto; osservòanche la scatola di sigarette austriache da Valente toltadi tasca con gesto abituale, come se ciò lo mostrasse as-suefatto al paese straniero. Riprese: – Forse ripeto in al-tra forma ciò che tu hai detto. Per istinto i vivi cercanoun mezzo di dare un valore alla vita; cercano qualchescopo piú grandioso che la breve esistenza di ognuno.Hanno inventato il sacrificio. Chiunque parli di sangue,di morte, di sacrificio, è seguito con ardore: le sue paro-le diventano affascinanti promesse. Proprio questa è lafortuna dei vivi, la loro buona sorte, di poter credere in

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qualche cosa, accendersi, lavorare con la fantasia, crearel’immortalità, la gloria, cieli di ogni specie, giganteschelarve. Sognare, insomma.

— Per chi n’è capace, – replicò Nego rigirando il suobicchiere rimasto vuoto – son tutte maniere di non vede-re il niente. Io ho provata quella di lavorare dura mate-ria.

— Anche la guerra può essere un lavoro di tal genere.Preceduti da uno strepito giocoso entrarono nella sa-

letta alcune donne col cappello, alcuni uomini di mode-sta condizione ma vestiti decentemente, accaldati da tut-to ciò che già avevano bevuto altrove; ed in mezzo aloro era un marinaio della flotta, alto, magro, non tantogiovine, forse un richiamato, il quale moveva strana-mente un lungo mento aguzzo dicendo buffonerie. Incima ad un cranio torreggiante aveva il berretto tondo,coi nastri pendenti sulla nuca, e sembrava portarlo perischerzo.

— Leggi il nome scritto su quel berretto – disse Gra-ziano. Il suo compagno lesse Tegetthoff, volse altrove ilcapo con indifferenza. I sopraggiunti si accomodaronoridendo e parlando forte; le donne si davano sulla voceperché non erano d’accordo sulla qualità di vino da sce-gliere; piú brillo di tutti, il marinaio rimase in piedi e simise a cantare una canzonetta in cui si diceva di ragazzeche passeggiavano coi marinai. Avendo osservato chesul braccio aveva il distintivo dei siluristi, Grazianopensò all’Adriatico, a Pola, a Trieste, ricordò il bacinodi San Marco a Venezia con navi da guerra italiane

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qualche cosa, accendersi, lavorare con la fantasia, crearel’immortalità, la gloria, cieli di ogni specie, giganteschelarve. Sognare, insomma.

— Per chi n’è capace, – replicò Nego rigirando il suobicchiere rimasto vuoto – son tutte maniere di non vede-re il niente. Io ho provata quella di lavorare dura mate-ria.

— Anche la guerra può essere un lavoro di tal genere.Preceduti da uno strepito giocoso entrarono nella sa-

letta alcune donne col cappello, alcuni uomini di mode-sta condizione ma vestiti decentemente, accaldati da tut-to ciò che già avevano bevuto altrove; ed in mezzo aloro era un marinaio della flotta, alto, magro, non tantogiovine, forse un richiamato, il quale moveva strana-mente un lungo mento aguzzo dicendo buffonerie. Incima ad un cranio torreggiante aveva il berretto tondo,coi nastri pendenti sulla nuca, e sembrava portarlo perischerzo.

— Leggi il nome scritto su quel berretto – disse Gra-ziano. Il suo compagno lesse Tegetthoff, volse altrove ilcapo con indifferenza. I sopraggiunti si accomodaronoridendo e parlando forte; le donne si davano sulla voceperché non erano d’accordo sulla qualità di vino da sce-gliere; piú brillo di tutti, il marinaio rimase in piedi e simise a cantare una canzonetta in cui si diceva di ragazzeche passeggiavano coi marinai. Avendo osservato chesul braccio aveva il distintivo dei siluristi, Grazianopensò all’Adriatico, a Pola, a Trieste, ricordò il bacinodi San Marco a Venezia con navi da guerra italiane

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all’ancora. Versò nei bicchieri il vino che restava; dissepiano: – Alla colonna di Tegetthoff oggi ho visto chehanno portate corone d’alloro. Peccato che son verdi enon prenderebbero fuoco.

Valente guardò l’ora: – Paghiamo. Abito lontano. –Sceglieva le monete nel cavo di una mano. Alzando infaccia al compagno lo sguardo acuto, soggiunse: – Ionon sento come gli altri, non vedo il mondo come gli al-tri; dunque non voglio agire come gli altri. O forse nonposso. E per la gente, dappertutto, sarò invece un italia-no. Mi crederanno quello che, secondo loro, è un italia-no: qui un traditore, magari una spia. In officina sonogià sorvegliato.

— Che intendi fare? Come ci starai in questa guerra?— Acciaio da tornire se ne trova dovunque. Andrò su

al nord, tra i veri neutrali, nei paesi fuori della storia.Danimarca o Svezia o Norvegia sarà la stessa cosa.Brutti linguaggi ma imparerò anche quelli. Oppure, per-ché no? potrò anche tornare in Italia.

Uscirono. Era passata la mezzanotte ed anche nelcuore della metropoli si era fatta una certa calma. Inlontananza si udirono autocarri che indubbiamente era-no dell’esercito, ma truppe non ne passavano piú ed isoldati sparsi erano svaniti. Dai caffè, ove stava ancoramolta gente sebbene le orchestre avessero cessato di so-nare, uscivano gli ufficialetti, briosi ed eccitati; alcuniavevano ragazze al braccio; ad altri gli amici facevano isaluti: – Auf wiedersehen! Buona fortuna! – Le donnedella notte andavano avanti e indietro in gran numero,

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all’ancora. Versò nei bicchieri il vino che restava; dissepiano: – Alla colonna di Tegetthoff oggi ho visto chehanno portate corone d’alloro. Peccato che son verdi enon prenderebbero fuoco.

Valente guardò l’ora: – Paghiamo. Abito lontano. –Sceglieva le monete nel cavo di una mano. Alzando infaccia al compagno lo sguardo acuto, soggiunse: – Ionon sento come gli altri, non vedo il mondo come gli al-tri; dunque non voglio agire come gli altri. O forse nonposso. E per la gente, dappertutto, sarò invece un italia-no. Mi crederanno quello che, secondo loro, è un italia-no: qui un traditore, magari una spia. In officina sonogià sorvegliato.

— Che intendi fare? Come ci starai in questa guerra?— Acciaio da tornire se ne trova dovunque. Andrò su

al nord, tra i veri neutrali, nei paesi fuori della storia.Danimarca o Svezia o Norvegia sarà la stessa cosa.Brutti linguaggi ma imparerò anche quelli. Oppure, per-ché no? potrò anche tornare in Italia.

Uscirono. Era passata la mezzanotte ed anche nelcuore della metropoli si era fatta una certa calma. Inlontananza si udirono autocarri che indubbiamente era-no dell’esercito, ma truppe non ne passavano piú ed isoldati sparsi erano svaniti. Dai caffè, ove stava ancoramolta gente sebbene le orchestre avessero cessato di so-nare, uscivano gli ufficialetti, briosi ed eccitati; alcuniavevano ragazze al braccio; ad altri gli amici facevano isaluti: – Auf wiedersehen! Buona fortuna! – Le donnedella notte andavano avanti e indietro in gran numero,

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belle e ben vestite o con facce di cocaina e di fame. Nel-la luce ridotta il duomo levava le torri traforate ed unci-nate, con l’espressione che hanno tutti gli antichi edifiziin mezzo alle grandi città quando ai loro piedi cessa iltraffichio e su in alto l’aria della notte diviene densa emolle come in campagna.

Presero le vie interne. Non vi passava quasi nessuno;soltanto le bandiere – qualcuna sormontando lo scudocon l’aquila dall’erte penne e dalle due teste arrabbiate –restavano a muovere sulle facciate dei palazzi ornati eneri, delle banche nuove tutte di marmo. Graziano si ri-sovvenne ad un tratto che doveva dare una risposta aGabriella, e si trovò in capo la decisione di consentirealla vendita. Tutto il mondo era soggetto all’alea potenteche avrebbe distrutto, trasformato, creato come il desti-no voleva. Piccola cosa la collina dei pini in mezzo allaguerra. Avanti, avanti! La lenta vita di prima non si do-veva piú vivere. Ed il passato non era dentro le cose; vi-veva nell’aria, dovunque, come vivevano i morti: egli loportava in sé, come portava la memoria di sua madre.Pensava al lavoro ed alla fortuna di Aurelio, a Gabriellaed ai suoi piccoli figli. Disse a Valente che doveva anda-re al telegrafo. Ed il compagno si piantò sui due piedi,con la facilità che sempre aveva avuta di separarsi daglialtri.

— Ci ritroviamo? – chiese Graziano. L’amico fece unsorriso che diceva di no.

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belle e ben vestite o con facce di cocaina e di fame. Nel-la luce ridotta il duomo levava le torri traforate ed unci-nate, con l’espressione che hanno tutti gli antichi edifiziin mezzo alle grandi città quando ai loro piedi cessa iltraffichio e su in alto l’aria della notte diviene densa emolle come in campagna.

Presero le vie interne. Non vi passava quasi nessuno;soltanto le bandiere – qualcuna sormontando lo scudocon l’aquila dall’erte penne e dalle due teste arrabbiate –restavano a muovere sulle facciate dei palazzi ornati eneri, delle banche nuove tutte di marmo. Graziano si ri-sovvenne ad un tratto che doveva dare una risposta aGabriella, e si trovò in capo la decisione di consentirealla vendita. Tutto il mondo era soggetto all’alea potenteche avrebbe distrutto, trasformato, creato come il desti-no voleva. Piccola cosa la collina dei pini in mezzo allaguerra. Avanti, avanti! La lenta vita di prima non si do-veva piú vivere. Ed il passato non era dentro le cose; vi-veva nell’aria, dovunque, come vivevano i morti: egli loportava in sé, come portava la memoria di sua madre.Pensava al lavoro ed alla fortuna di Aurelio, a Gabriellaed ai suoi piccoli figli. Disse a Valente che doveva anda-re al telegrafo. Ed il compagno si piantò sui due piedi,con la facilità che sempre aveva avuta di separarsi daglialtri.

— Ci ritroviamo? – chiese Graziano. L’amico fece unsorriso che diceva di no.

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— Scriverai a tua madre? Se torni in Italia, andrai acasa? – domandò ancora Graziano. Nego rifece il sorrisoe mosse anche la grossa testa riccia a dir di no.

— Ed in avvenire, a me, mi scriverai? – disse Grazia-no infine. L’altro scosse il capo piú fortemente, gli feceaddio con la mano e subito si allontanò. Anche Grazianosi mosse subito; ma, sentendo quell’uomo rientrare nellasua solitudine, gli parve che uscisse dalla vita.

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— Scriverai a tua madre? Se torni in Italia, andrai acasa? – domandò ancora Graziano. Nego rifece il sorrisoe mosse anche la grossa testa riccia a dir di no.

— Ed in avvenire, a me, mi scriverai? – disse Grazia-no infine. L’altro scosse il capo piú fortemente, gli feceaddio con la mano e subito si allontanò. Anche Grazianosi mosse subito; ma, sentendo quell’uomo rientrare nellasua solitudine, gli parve che uscisse dalla vita.

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1916-1918

Metello Farra arrivò a Zurigo, insieme a due altri de-legati italiani, poco prima dell’ora stabilita per la riunio-ne. Venivano da Milano. Egli non aveva voluto mangia-re coi compagni nella carrozza ristorante; s’era compra-to un po’ di cibo ad una stazione. L’albergo centrale,dove discesero tutti insieme, gli parve troppo lussuoso;nella sua camera, imbottita di tende e cortinaggi, la suavecchia valigia faceva meschina figura; rinfrescandosinel lavabo scintillante, egli si domandava quale prezzoavrebbe dovuto pagare, e soprattutto provava il disagioche gli procuravano le cose troppo comode ed eleganti.

Uscí poi con gli altri. Nel pomeriggio assolato prese-ro la lunga Bahnhofstrasse, dove le banche, i magazzini,gli edifizi occupati da innumerevoli uffici avevano tuttiun aspetto di città nuova e di ricchezza; ma egli cammi-nava con le mani unite dietro la schiena, con tanto dibroncio sotto i baffi pendenti, senza parlare. Aveval’idea del paese neutrale che viveva a modo suo in mez-zo ai belligeranti trovando nella guerra tempi grassi perle sue industrie ed i suoi commerci; l’idea di questa cittàpiena di affari e d’intrighi, dove lavoravano spie e scor-reva denaro di ogni nazione. Non ci si vedeva volentieri.Che succedeva, intanto, in Italia, sugli altipiani veneti

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1916-1918

Metello Farra arrivò a Zurigo, insieme a due altri de-legati italiani, poco prima dell’ora stabilita per la riunio-ne. Venivano da Milano. Egli non aveva voluto mangia-re coi compagni nella carrozza ristorante; s’era compra-to un po’ di cibo ad una stazione. L’albergo centrale,dove discesero tutti insieme, gli parve troppo lussuoso;nella sua camera, imbottita di tende e cortinaggi, la suavecchia valigia faceva meschina figura; rinfrescandosinel lavabo scintillante, egli si domandava quale prezzoavrebbe dovuto pagare, e soprattutto provava il disagioche gli procuravano le cose troppo comode ed eleganti.

Uscí poi con gli altri. Nel pomeriggio assolato prese-ro la lunga Bahnhofstrasse, dove le banche, i magazzini,gli edifizi occupati da innumerevoli uffici avevano tuttiun aspetto di città nuova e di ricchezza; ma egli cammi-nava con le mani unite dietro la schiena, con tanto dibroncio sotto i baffi pendenti, senza parlare. Aveval’idea del paese neutrale che viveva a modo suo in mez-zo ai belligeranti trovando nella guerra tempi grassi perle sue industrie ed i suoi commerci; l’idea di questa cittàpiena di affari e d’intrighi, dove lavoravano spie e scor-reva denaro di ogni nazione. Non ci si vedeva volentieri.Che succedeva, intanto, in Italia, sugli altipiani veneti

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Page 489: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

dove l’esercito austro-ungherese aveva incominciatauna offensiva violenta? I giornali della Svizzera tedescatracciavano il disegno di una spedizione formidabile. Lavisione era fosca anche nei giornali italiani. Castigarel’Italia, si voleva, darle il fatto suo, con quattrocentomi-la uomini e duemila cannoni su quelle rocce. Le lineedel piano strategico tagliavano nel vivo delle provincie.E da qualche giorno quell’esercito era passato di qua dalconfine, veniva avanti.

Camminando, i compagni di Metello discutevano teo-ricamente se dopo la trasformazione sociale del mondosarebbe cessato il progresso delle armi. L’uno era unuomo alto e magro, scettico, ragionatore per divertimen-to; e sosteneva che l’umanità non si sarebbe mai potutaliberare di nessuna forma del progresso meccanico e cheperciò le armi avrebbero continuato a perfezionarsi, adivenire piú micidiali. L’altro, piccolo di statura, con oc-chiali malsicuri stretti ad un grosso naso, affrettando ipassi corti per non restare indietro, diceva invece che,perduto l’animo guerresco, l’animus belli, gli uomininon avrebbero piú pensato a studiare simili perfeziona-menti. Seguendo loro, Metello svoltò a destra, poi piúinnanzi a sinistra; in quel quartiere tutto nuovo, ricco edaffollato, andavano sempre tra colossali edifizi di ban-che, di uffici, tra magazzini coperti di scritte fino al tet-to. – Parla piano – disse il compagno alto al piccolo,poiché la lingua italiana attirava l’attenzione di alcunipassanti.

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dove l’esercito austro-ungherese aveva incominciatauna offensiva violenta? I giornali della Svizzera tedescatracciavano il disegno di una spedizione formidabile. Lavisione era fosca anche nei giornali italiani. Castigarel’Italia, si voleva, darle il fatto suo, con quattrocentomi-la uomini e duemila cannoni su quelle rocce. Le lineedel piano strategico tagliavano nel vivo delle provincie.E da qualche giorno quell’esercito era passato di qua dalconfine, veniva avanti.

Camminando, i compagni di Metello discutevano teo-ricamente se dopo la trasformazione sociale del mondosarebbe cessato il progresso delle armi. L’uno era unuomo alto e magro, scettico, ragionatore per divertimen-to; e sosteneva che l’umanità non si sarebbe mai potutaliberare di nessuna forma del progresso meccanico e cheperciò le armi avrebbero continuato a perfezionarsi, adivenire piú micidiali. L’altro, piccolo di statura, con oc-chiali malsicuri stretti ad un grosso naso, affrettando ipassi corti per non restare indietro, diceva invece che,perduto l’animo guerresco, l’animus belli, gli uomininon avrebbero piú pensato a studiare simili perfeziona-menti. Seguendo loro, Metello svoltò a destra, poi piúinnanzi a sinistra; in quel quartiere tutto nuovo, ricco edaffollato, andavano sempre tra colossali edifizi di ban-che, di uffici, tra magazzini coperti di scritte fino al tet-to. – Parla piano – disse il compagno alto al piccolo,poiché la lingua italiana attirava l’attenzione di alcunipassanti.

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Ora Metello pensava a Graziano. Il giovine era anda-to volontario quando l’Italia era entrata nella guerra;semplice soldato in un reggimento di fanteria, da unanno non faceva che il combattente; nessuno sapeva chiegli fosse stato prima, era un soldato qualunque. Metellonon lo aveva piú veduto, ma dalle poche lettere cono-sceva che si trovava bene, che gli piaceva proprio que-sto, essere soltanto un soldato al fronte, come tanti mi-lioni di altri uomini, e che non gli importava di potermorire. Nei mesi scorsi stava sull’Isonzo, ma adesso av-venivano senza dubbio molti spostamenti di truppe. Nel-la vetrina di un parrucchiere era esposta una gran cartacoi teatri della guerra, e Metello si fermò a guardarla:sui luoghi dell’offensiva austriaca le bandierine segna-vano le linee nuove, facendo una punta verso il cuoredel Veneto, simile ad una lama acuta. Tra i pensieri, piúo meno vaghi, ch’egli aveva nel capo, era anche quellodi Sabina. Alla sua partenza la donna lo aveva appenasalutato: badava sempre al negozio ed in casa stava dasé, molto preoccupata della guerra sebbene con lui neparlasse poco; era cambiata e, se egli avesse dovutospiegare il cambiamento, avrebbe supposto che andassefrequentemente in chiesa e pregasse molto anche incasa.

L’edifizio dinanzi al quale i compagni si piantaronoad aspettare Metello, era anch’esso una grande gabbia dicemento e di vetro occupata interamente da magazzinied uffici. Salirono in ascensore ad un piano assai alto. Illuogo destinato alla riunione doveva essere un ufficio

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Ora Metello pensava a Graziano. Il giovine era anda-to volontario quando l’Italia era entrata nella guerra;semplice soldato in un reggimento di fanteria, da unanno non faceva che il combattente; nessuno sapeva chiegli fosse stato prima, era un soldato qualunque. Metellonon lo aveva piú veduto, ma dalle poche lettere cono-sceva che si trovava bene, che gli piaceva proprio que-sto, essere soltanto un soldato al fronte, come tanti mi-lioni di altri uomini, e che non gli importava di potermorire. Nei mesi scorsi stava sull’Isonzo, ma adesso av-venivano senza dubbio molti spostamenti di truppe. Nel-la vetrina di un parrucchiere era esposta una gran cartacoi teatri della guerra, e Metello si fermò a guardarla:sui luoghi dell’offensiva austriaca le bandierine segna-vano le linee nuove, facendo una punta verso il cuoredel Veneto, simile ad una lama acuta. Tra i pensieri, piúo meno vaghi, ch’egli aveva nel capo, era anche quellodi Sabina. Alla sua partenza la donna lo aveva appenasalutato: badava sempre al negozio ed in casa stava dasé, molto preoccupata della guerra sebbene con lui neparlasse poco; era cambiata e, se egli avesse dovutospiegare il cambiamento, avrebbe supposto che andassefrequentemente in chiesa e pregasse molto anche incasa.

L’edifizio dinanzi al quale i compagni si piantaronoad aspettare Metello, era anch’esso una grande gabbia dicemento e di vetro occupata interamente da magazzinied uffici. Salirono in ascensore ad un piano assai alto. Illuogo destinato alla riunione doveva essere un ufficio

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del partito socialista svizzero; nessuno dei tre aveva aquesto proposito un’opinione sicura. L’uscio era chiuso;dovettero mostrare i documenti, poi furono ricevuti daun uomo grasso, dignitoso e cordiale, un capo di quelpartito, che i tre italiani conoscevano. Un ordine metico-loso era nelle stanze, arredate di mobili lucidi e tappez-zate di diagrammi e tavole statistiche impeccabili. Inuna sala che aveva tutte le porte chiuse e le finestre ripa-rate con gran cura dalle tende, si radunarono a poco apoco coloro ch’erano attesi, tranne alcuni che avevanmandati telegrammi all’ultima ora; in questa sala i dele-gati presero infine posto intorno ad una lunga tavola co-perta di un tappeto turchino; alla parete maggiore eraappesa un’ampia tela con una folla allegorica di lavora-tori dipinti con spessi e crudi colori che sembravano unintonaco. Tra i presenti vi erano degli ungheresi, deifrancesi, dei tedeschi di Germania, degli austriaci; vierano donne munite di gonfie buste di cuoio; una di esseera una vecchia inglese, la quale trattava con autorità glialtri due delegati della sua nazione, uomini di aspettobonaccione; i russi intervenuti erano esuli da tempo inSvizzera; il piú importante di loro era sui cinquant’anni,calvo, con faccia gialla di malato; un altro, piú giovine,bruno, aveva pupille maliziose dietro larghe lenti; il ter-zo era adiposo, sbarbato, con lunghi capelli biondi, e sipuliva le unghie con un temperino. Parecchi dei delega-ti, ebrei, avevan tra loro qualche tratto di somiglianza. Ilcontegno degli intervenuti ricordava quello dei diploma-tici nei congressi. Non mancavano rappresentanti dei

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del partito socialista svizzero; nessuno dei tre aveva aquesto proposito un’opinione sicura. L’uscio era chiuso;dovettero mostrare i documenti, poi furono ricevuti daun uomo grasso, dignitoso e cordiale, un capo di quelpartito, che i tre italiani conoscevano. Un ordine metico-loso era nelle stanze, arredate di mobili lucidi e tappez-zate di diagrammi e tavole statistiche impeccabili. Inuna sala che aveva tutte le porte chiuse e le finestre ripa-rate con gran cura dalle tende, si radunarono a poco apoco coloro ch’erano attesi, tranne alcuni che avevanmandati telegrammi all’ultima ora; in questa sala i dele-gati presero infine posto intorno ad una lunga tavola co-perta di un tappeto turchino; alla parete maggiore eraappesa un’ampia tela con una folla allegorica di lavora-tori dipinti con spessi e crudi colori che sembravano unintonaco. Tra i presenti vi erano degli ungheresi, deifrancesi, dei tedeschi di Germania, degli austriaci; vierano donne munite di gonfie buste di cuoio; una di esseera una vecchia inglese, la quale trattava con autorità glialtri due delegati della sua nazione, uomini di aspettobonaccione; i russi intervenuti erano esuli da tempo inSvizzera; il piú importante di loro era sui cinquant’anni,calvo, con faccia gialla di malato; un altro, piú giovine,bruno, aveva pupille maliziose dietro larghe lenti; il ter-zo era adiposo, sbarbato, con lunghi capelli biondi, e sipuliva le unghie con un temperino. Parecchi dei delega-ti, ebrei, avevan tra loro qualche tratto di somiglianza. Ilcontegno degli intervenuti ricordava quello dei diploma-tici nei congressi. Non mancavano rappresentanti dei

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paesi neutri: gli spagnoli si movevano vivacemente sa-lutando tutti con effusione. Dopo un breve discorso dicortesia, lo svizzero grasso chiamò il piú anziano deirussi al posto in capo alla tavola, davanti al quale eraposato un campanello.

Parlò questo russo. Dopo aver lodato il paese liberoche li ospitava, disse che una simile riunione in tali cir-costanze aveva un alto significato e poteva produrregrandi effetti, poiché da essa dipendeva la condotta chesarebbe stata seguita nell’interesse delle masse lavoratri-ci di tutto il mondo. Parlando sembrava voler risparmiaril fiato; aveva una specie di astuzia mongolica sul visomodellato con pomelli sporgenti e negli occhi cosí stret-tamente tagliati che lo sguardo sovente vi spariva; i baffilunghi e radi, i pochi peli di barba compivano la espres-sione di mistero asiatico che la sua faccia mostrava. Eb-bero poi la parola molti degli altri. Descrivevano le con-dizioni interne dei paesi a cui appartenevano; dipingeva-no lo stato d’animo delle moltitudini, riferivano le ideecorrenti nelle masse organizzate. Parlavano degli avve-nimenti nei quali la guerra si era già avverata; ma, ri-guardo ai fatti militari delle nazioni in cui erano nati ovivevano, conservavano tutti un perfetto riserbo. Secon-do la loro comune opinione, la vittoria di uno qualunquedei due gruppi sarebbe stata dannosa all’interesse delquale si trattava, ma risultati decisivi non erano prevedi-bili, entro breve tempo, da nessuna parte. Alcuni diceva-no cose degne di nota, concisamente, mostrando ideechiare; altri si perdevano nelle parole. Qualche donna

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paesi neutri: gli spagnoli si movevano vivacemente sa-lutando tutti con effusione. Dopo un breve discorso dicortesia, lo svizzero grasso chiamò il piú anziano deirussi al posto in capo alla tavola, davanti al quale eraposato un campanello.

Parlò questo russo. Dopo aver lodato il paese liberoche li ospitava, disse che una simile riunione in tali cir-costanze aveva un alto significato e poteva produrregrandi effetti, poiché da essa dipendeva la condotta chesarebbe stata seguita nell’interesse delle masse lavoratri-ci di tutto il mondo. Parlando sembrava voler risparmiaril fiato; aveva una specie di astuzia mongolica sul visomodellato con pomelli sporgenti e negli occhi cosí stret-tamente tagliati che lo sguardo sovente vi spariva; i baffilunghi e radi, i pochi peli di barba compivano la espres-sione di mistero asiatico che la sua faccia mostrava. Eb-bero poi la parola molti degli altri. Descrivevano le con-dizioni interne dei paesi a cui appartenevano; dipingeva-no lo stato d’animo delle moltitudini, riferivano le ideecorrenti nelle masse organizzate. Parlavano degli avve-nimenti nei quali la guerra si era già avverata; ma, ri-guardo ai fatti militari delle nazioni in cui erano nati ovivevano, conservavano tutti un perfetto riserbo. Secon-do la loro comune opinione, la vittoria di uno qualunquedei due gruppi sarebbe stata dannosa all’interesse delquale si trattava, ma risultati decisivi non erano prevedi-bili, entro breve tempo, da nessuna parte. Alcuni diceva-no cose degne di nota, concisamente, mostrando ideechiare; altri si perdevano nelle parole. Qualche donna

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traeva dalle buste di cuoio pacchi di documenti, li vole-va leggere da cima a fondo. Nella sala chiusa comincia-va a far caldo, tutte le delegate si erano liberate dei cap-pelli, delle giacchette; soltanto la vecchia inglese con-servava intatto il suo costume.

Da ciò che udiva riferire e descrivere, l’attenzione diMetello Farra era talvolta presa; in quei paesi di cui siparlava, egli vedeva le popolazioni che già pativano pri-vazioni, dietro le zone dove lottavano gli eserciti. Maspesso si distraeva. Una parte degli oratori si esprimevain francese, come sapeva; i tedeschi, i neutrali del nordparlavano in tedesco, e lo svizzero cordiale traduceva.Stranamente sonava questa lingua all’orecchio di Metel-lo: gli pareva un linguaggio di guerra, un linguaggio chesoltanto gli eserciti, dall’altra parte, dovessero parlare.Guardando una dopo l’altra le facce di coloro che sede-vano intorno alla tavola, danesi, spagnoli, russi, france-si, egli vedeva come vi era scritta chiaramente la razzada cui uscivano e la particolare civiltà che li aveva for-mati. I delegati tedeschi, comunque pensassero, eranosimili a tutti gli altri tedeschi. In qualche istante Metellodimenticava ogni cosa e stava con gli occhi fissi sopraun tagliacarte che rigirava tra mani, udendo la voce dichi parlava come un rumore senza significato, con l’ani-mo pieno soltanto di una pesante noia. Si domandavaanche chi fossero gli uomini che essi, i delegati, diceva-no di rappresentare: confusamente vedeva in una lonta-nanza dei soldati che combattevano con passione e deglioperai che fabbricavano mitragliatrici e proiettili.

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traeva dalle buste di cuoio pacchi di documenti, li vole-va leggere da cima a fondo. Nella sala chiusa comincia-va a far caldo, tutte le delegate si erano liberate dei cap-pelli, delle giacchette; soltanto la vecchia inglese con-servava intatto il suo costume.

Da ciò che udiva riferire e descrivere, l’attenzione diMetello Farra era talvolta presa; in quei paesi di cui siparlava, egli vedeva le popolazioni che già pativano pri-vazioni, dietro le zone dove lottavano gli eserciti. Maspesso si distraeva. Una parte degli oratori si esprimevain francese, come sapeva; i tedeschi, i neutrali del nordparlavano in tedesco, e lo svizzero cordiale traduceva.Stranamente sonava questa lingua all’orecchio di Metel-lo: gli pareva un linguaggio di guerra, un linguaggio chesoltanto gli eserciti, dall’altra parte, dovessero parlare.Guardando una dopo l’altra le facce di coloro che sede-vano intorno alla tavola, danesi, spagnoli, russi, france-si, egli vedeva come vi era scritta chiaramente la razzada cui uscivano e la particolare civiltà che li aveva for-mati. I delegati tedeschi, comunque pensassero, eranosimili a tutti gli altri tedeschi. In qualche istante Metellodimenticava ogni cosa e stava con gli occhi fissi sopraun tagliacarte che rigirava tra mani, udendo la voce dichi parlava come un rumore senza significato, con l’ani-mo pieno soltanto di una pesante noia. Si domandavaanche chi fossero gli uomini che essi, i delegati, diceva-no di rappresentare: confusamente vedeva in una lonta-nanza dei soldati che combattevano con passione e deglioperai che fabbricavano mitragliatrici e proiettili.

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Impallidiva la luce dietro le tende e furono accese lelampade. Dopo aver lungamente bussato per discrezio-ne, entrarono fattorini che portavano il tè e tazze di bir-ra: lo svizzero grasso rivolgeva agli stranieri sorrisi diospite modesto; la vecchia inglese mise da parte i suoiincartamenti; il russo dal viso di tartaro, insieme al tèprese una pillola che aveva tolta dal taschino.

La maggior parte degli oratori che si eran succeduti,sostenevano che bisognava lavorare in ogni possibilemaniera a creare uno stato d’animo per il quale le popo-lazioni imponessero al piú presto la pace. Metello Farradisse che la cessazione della guerra sarebbe stata impo-sta soltanto se la volontà di pace fosse eguale in tutti ipopoli: riteneva questo impossibile. Il suo compagnoalto e scettico affermò in poche parole che i popoli nonavevano ancora sofferto abbastanza e che quindi laguerra sarebbe continuata. Il terzo italiano, con cennidel capo e delle mani, dava ragione a tutti coloro cheparlavano. Ormai la riunione durava da parecchie ore e idelegati erano stanchi, uscivano, rientravano, scrivevanolettere. A terminar la seduta si levò di nuovo a parlare ilcapo dei russi. Metteva fuori poca voce, non faceva al-cun gesto, nel viso ossuto gli occhi non erano piú chedue tagli: ma si esprimeva con fredda sicurezza e preci-sione, come se annunziasse una legge che il mondoavrebbe certamente seguita, e ciascuna delle sue paroles’incideva nella mente degli ascoltatori. Disse che si do-veva lasciar continuare il conflitto, perché arrivasse alsuo esito naturale rovinando tutte le nazioni impegnate e

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Impallidiva la luce dietro le tende e furono accese lelampade. Dopo aver lungamente bussato per discrezio-ne, entrarono fattorini che portavano il tè e tazze di bir-ra: lo svizzero grasso rivolgeva agli stranieri sorrisi diospite modesto; la vecchia inglese mise da parte i suoiincartamenti; il russo dal viso di tartaro, insieme al tèprese una pillola che aveva tolta dal taschino.

La maggior parte degli oratori che si eran succeduti,sostenevano che bisognava lavorare in ogni possibilemaniera a creare uno stato d’animo per il quale le popo-lazioni imponessero al piú presto la pace. Metello Farradisse che la cessazione della guerra sarebbe stata impo-sta soltanto se la volontà di pace fosse eguale in tutti ipopoli: riteneva questo impossibile. Il suo compagnoalto e scettico affermò in poche parole che i popoli nonavevano ancora sofferto abbastanza e che quindi laguerra sarebbe continuata. Il terzo italiano, con cennidel capo e delle mani, dava ragione a tutti coloro cheparlavano. Ormai la riunione durava da parecchie ore e idelegati erano stanchi, uscivano, rientravano, scrivevanolettere. A terminar la seduta si levò di nuovo a parlare ilcapo dei russi. Metteva fuori poca voce, non faceva al-cun gesto, nel viso ossuto gli occhi non erano piú chedue tagli: ma si esprimeva con fredda sicurezza e preci-sione, come se annunziasse una legge che il mondoavrebbe certamente seguita, e ciascuna delle sue paroles’incideva nella mente degli ascoltatori. Disse che si do-veva lasciar continuare il conflitto, perché arrivasse alsuo esito naturale rovinando tutte le nazioni impegnate e

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determinando cosí automaticamente la rivoluzione so-ciale.

Ma dovevano tenersi altre riunioni l’indomani e nonvenne deliberato niente. Del rimescolio che seguí, Me-tello si valse per uscire da solo. Appena in strada, com-prò i giornali della sera, vi cercò le notizie della batta-glia sugli Altipiani: l’avanzata austriaca continuava. Ifogli svizzeri di lingua tedesca davano grande risalto alsuccesso degli assalitori; parteggiavano per loro accen-nando i probabili sviluppi dell’offensiva; mettevanopure in evidenza che alla grandiosa battaglia partecipa-vano truppe germaniche; bavaresi, dicevano. Nei gior-nali del Canton Ticino vi era anche il comunicato italia-no, ma anch’esso con le succinte frasi indicava che real-mente gli attaccanti guadagnavano terreno. Vi era moltagente a passeggio; le facciate dei cinematografi splende-vano, tutti i ritrovi erano gremiti. Metello lasciò la Bah-nhofstrasse, tagliò per vie meno illuminate presso chiesedormenti, dove si sentiva la sera di maggio rinfrescare;trovata la Limmat, ne seguí la riva in direzione del lago.Ciò che vedeva, la Posta, la Polizia, i ponti, e di là dalfiume le case antiche con le facciate dipinte, i campanilia freccia del Grossmuenster, la città aggrappata alla col-lina, gli davano un senso di vita tedesca, che gli spiace-va.

Pensava quel margine dell’Italia dove la battaglia erain corso. In maniera straordinariamente forte sentiva lamassa nemica in movimento, col suo fuoco terribile, conla sua volontà, con le sue mire; la sentiva venire avanti

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determinando cosí automaticamente la rivoluzione so-ciale.

Ma dovevano tenersi altre riunioni l’indomani e nonvenne deliberato niente. Del rimescolio che seguí, Me-tello si valse per uscire da solo. Appena in strada, com-prò i giornali della sera, vi cercò le notizie della batta-glia sugli Altipiani: l’avanzata austriaca continuava. Ifogli svizzeri di lingua tedesca davano grande risalto alsuccesso degli assalitori; parteggiavano per loro accen-nando i probabili sviluppi dell’offensiva; mettevanopure in evidenza che alla grandiosa battaglia partecipa-vano truppe germaniche; bavaresi, dicevano. Nei gior-nali del Canton Ticino vi era anche il comunicato italia-no, ma anch’esso con le succinte frasi indicava che real-mente gli attaccanti guadagnavano terreno. Vi era moltagente a passeggio; le facciate dei cinematografi splende-vano, tutti i ritrovi erano gremiti. Metello lasciò la Bah-nhofstrasse, tagliò per vie meno illuminate presso chiesedormenti, dove si sentiva la sera di maggio rinfrescare;trovata la Limmat, ne seguí la riva in direzione del lago.Ciò che vedeva, la Posta, la Polizia, i ponti, e di là dalfiume le case antiche con le facciate dipinte, i campanilia freccia del Grossmuenster, la città aggrappata alla col-lina, gli davano un senso di vita tedesca, che gli spiace-va.

Pensava quel margine dell’Italia dove la battaglia erain corso. In maniera straordinariamente forte sentiva lamassa nemica in movimento, col suo fuoco terribile, conla sua volontà, con le sue mire; la sentiva venire avanti

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sulla roccia degli Altipiani. Gli stavano nella mente lecalate di altri tempi. Questa volta gli invasori sarebberostati fermati? Di nuovo pensava a Graziano, ricordandoche era figlio di Sisto e di Claudia, e rivedendolo comel’aveva visto l’ultima volta, già soldato. Dov’era ades-so? Che faceva? Forse stava nelle trincee di quella roc-cia, soldato insieme a tanti altri soldati, sotto quel fuoco,davanti alla massa nemica, a cercare di fermarla.

Andava adagio, con le mani dietro la schiena, separa-to interamente da quanto aveva intorno. La guerra eraun fatto enorme che sovrastava ogni volere di uomini. Inquesta guerra piú grande di tutte il mondo si era rivelatocom’era veramente. «Proletari, unitevi»! Ma la guerra,se anche la ragione non voleva riconoscerla, era una fa-talità che forse non si sarebbe mai spenta. Ed ora nessu-no avrebbe potuto fermarla, la lotta che si stava combat-tendo sulle immense linee e che si moveva sulla terracome un fuoco matto divorando le vite, bruciando lecose, cambiando faccia ai luoghi, prendendo i giorni imesi gli anni. Tutto ciò, questo tremendo urtarsi di po-poli armati, era troppo forte.

Arrivò ad un piazzale sul lago. File di lumi indicava-no le rive; contorni di alte montagne nere si scorgevanosopra un cielo sparso di piccole stelle; sotto la terrazzal’acqua faceva udire colpi sordi e gorgogli, e dal largoveniva un’aria quasi fredda. La pace che stava in quellospazio e soprattutto su certe facciate di grandi alberghi,sembrava a Metello strana: un’inerzia. Tornò indietro,passando all’altra sponda della Limmat, salí alla piazza

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sulla roccia degli Altipiani. Gli stavano nella mente lecalate di altri tempi. Questa volta gli invasori sarebberostati fermati? Di nuovo pensava a Graziano, ricordandoche era figlio di Sisto e di Claudia, e rivedendolo comel’aveva visto l’ultima volta, già soldato. Dov’era ades-so? Che faceva? Forse stava nelle trincee di quella roc-cia, soldato insieme a tanti altri soldati, sotto quel fuoco,davanti alla massa nemica, a cercare di fermarla.

Andava adagio, con le mani dietro la schiena, separa-to interamente da quanto aveva intorno. La guerra eraun fatto enorme che sovrastava ogni volere di uomini. Inquesta guerra piú grande di tutte il mondo si era rivelatocom’era veramente. «Proletari, unitevi»! Ma la guerra,se anche la ragione non voleva riconoscerla, era una fa-talità che forse non si sarebbe mai spenta. Ed ora nessu-no avrebbe potuto fermarla, la lotta che si stava combat-tendo sulle immense linee e che si moveva sulla terracome un fuoco matto divorando le vite, bruciando lecose, cambiando faccia ai luoghi, prendendo i giorni imesi gli anni. Tutto ciò, questo tremendo urtarsi di po-poli armati, era troppo forte.

Arrivò ad un piazzale sul lago. File di lumi indicava-no le rive; contorni di alte montagne nere si scorgevanosopra un cielo sparso di piccole stelle; sotto la terrazzal’acqua faceva udire colpi sordi e gorgogli, e dal largoveniva un’aria quasi fredda. La pace che stava in quellospazio e soprattutto su certe facciate di grandi alberghi,sembrava a Metello strana: un’inerzia. Tornò indietro,passando all’altra sponda della Limmat, salí alla piazza

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del Grossmuenster, deserta, e di qua entrò in una viafiancheggiata da case basse e da taverne. Ben poco ave-va mangiato nella giornata; era tardi, sentí fame, A casoentrò in una modesta e vecchia birreria, ordinò robafredda ed anche un bicchiere di birra per non far la figu-ra d’un pitocco, sebbene preferisse l’acqua. Nell’unicastanza, bassa e lunga, con vetrini tondi alle finestre ecorna di cervo alle pareti, due tavole eran occupate dauomini che giocavano a carte, mentre altri leggevanogiornali: operai, bottegai.

Metello aveva tratti di tasca i molti giornali suoi, an-che d’Italia; appena ebbe il cibo e la bevanda dinanzi, simise tranquillo a mangiare, leggendo, con le larghespalle ed il capo radunati, con le gambe incrociate sottola sedia, vestito alla buona come sempre. Assorto nellalettura, dimenticava il companatico, mordeva grossibocconi nelle fette di pane. Ad un tratto sentí che gli al-tri si occupavano di lui. Alzando gli occhi, vide infatti diavere addosso, da ogni parte, sguardi canzonatori o ma-levoli: un giovine magro, che aveva capelli rossi e stavapresso il banco a discorrere con la servetta, faceva l’attodi sonare mandolino o chitarra. Lo avevano conosciutoper italiano dall’aspetto, forse, o dal giornale che tenevaappoggiato al bicchiere. Metello guardò tutti come adavvertire che non era uno da lasciarsi molestare, ma ri-prese a leggere e si mise in bocca un altro pezzo dipane.

— Franziska, – disse forte uno dei giocatori, biondo,grasso, con un farsetto di panno verde ricamato – porta

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del Grossmuenster, deserta, e di qua entrò in una viafiancheggiata da case basse e da taverne. Ben poco ave-va mangiato nella giornata; era tardi, sentí fame, A casoentrò in una modesta e vecchia birreria, ordinò robafredda ed anche un bicchiere di birra per non far la figu-ra d’un pitocco, sebbene preferisse l’acqua. Nell’unicastanza, bassa e lunga, con vetrini tondi alle finestre ecorna di cervo alle pareti, due tavole eran occupate dauomini che giocavano a carte, mentre altri leggevanogiornali: operai, bottegai.

Metello aveva tratti di tasca i molti giornali suoi, an-che d’Italia; appena ebbe il cibo e la bevanda dinanzi, simise tranquillo a mangiare, leggendo, con le larghespalle ed il capo radunati, con le gambe incrociate sottola sedia, vestito alla buona come sempre. Assorto nellalettura, dimenticava il companatico, mordeva grossibocconi nelle fette di pane. Ad un tratto sentí che gli al-tri si occupavano di lui. Alzando gli occhi, vide infatti diavere addosso, da ogni parte, sguardi canzonatori o ma-levoli: un giovine magro, che aveva capelli rossi e stavapresso il banco a discorrere con la servetta, faceva l’attodi sonare mandolino o chitarra. Lo avevano conosciutoper italiano dall’aspetto, forse, o dal giornale che tenevaappoggiato al bicchiere. Metello guardò tutti come adavvertire che non era uno da lasciarsi molestare, ma ri-prese a leggere e si mise in bocca un altro pezzo dipane.

— Franziska, – disse forte uno dei giocatori, biondo,grasso, con un farsetto di panno verde ricamato – porta

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altro pane! – Tutti risero. Metello comprendeva abba-stanza il tedesco; finse però di non aver udito, non alzòil capo. Allora gli altri, dalle due tavole, tutti d’accordo,quelli che giocavano e quelli che stavan seduti intorno aloro, senza che il gioco s’interrompesse, cominciaronoun dialogo ad alta voce. Inventavano notizie sulla batta-glia degli Altipiani, esagerando grossamente il successodegli attaccanti. In onore dell’Austria alzavano le tazzedi terra, che avevano forma di preti o di maiali, inneg-giando rumorosamente. Un uomo anziano, con grossebasette e giacca di cuoio, doveva essere germanico, poi-ché vennero dedicati evviva anche alla Germania e letazze cercarono la sua, per toccare. Metello diede unascrollata alle spalle e seguitò, con rabbia, a mangiare.

Scialba, con un grembiale a pettorina a scacchi bian-chi e rossi, la servetta si godeva lo spasso guardando disottecchi. Da una porta comparve e venne dietro il ban-co la padrona, alta, stretta nel busto, e disse forte, comese lo straniero non potesse comprendere – Lasciatelotranquillo. – Il giovine dai capelli rossi rifece l’atto disonare il mandolino, canticchiando che i sonatori eranosonati. Metello lo guardò fisso, tirandosi un baffo; guar-dò bene in faccia gli altri uomini.

— Italia traditrice! – sentenziò con gravità il vecchiodalle basette.

— L’Italia comincia a tremare. Non darei un hellerdel duomo di Milano. L’Italia ha bisogno del bastone! –dissero altri, alzando sempre piú la voce per farsi inten-dere tra i rumori.

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altro pane! – Tutti risero. Metello comprendeva abba-stanza il tedesco; finse però di non aver udito, non alzòil capo. Allora gli altri, dalle due tavole, tutti d’accordo,quelli che giocavano e quelli che stavan seduti intorno aloro, senza che il gioco s’interrompesse, cominciaronoun dialogo ad alta voce. Inventavano notizie sulla batta-glia degli Altipiani, esagerando grossamente il successodegli attaccanti. In onore dell’Austria alzavano le tazzedi terra, che avevano forma di preti o di maiali, inneg-giando rumorosamente. Un uomo anziano, con grossebasette e giacca di cuoio, doveva essere germanico, poi-ché vennero dedicati evviva anche alla Germania e letazze cercarono la sua, per toccare. Metello diede unascrollata alle spalle e seguitò, con rabbia, a mangiare.

Scialba, con un grembiale a pettorina a scacchi bian-chi e rossi, la servetta si godeva lo spasso guardando disottecchi. Da una porta comparve e venne dietro il ban-co la padrona, alta, stretta nel busto, e disse forte, comese lo straniero non potesse comprendere – Lasciatelotranquillo. – Il giovine dai capelli rossi rifece l’atto disonare il mandolino, canticchiando che i sonatori eranosonati. Metello lo guardò fisso, tirandosi un baffo; guar-dò bene in faccia gli altri uomini.

— Italia traditrice! – sentenziò con gravità il vecchiodalle basette.

— L’Italia comincia a tremare. Non darei un hellerdel duomo di Milano. L’Italia ha bisogno del bastone! –dissero altri, alzando sempre piú la voce per farsi inten-dere tra i rumori.

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Metello si alzò deciso, andò in mezzo alla stanza,puntando su questo e su quello pupille scintillanti. Sen-za gridare disse in cattivo tedesco che l’Italia faceva laguerra come gli altri popoli, con onore, battendosi comegli altri si battevano, e che era una cosa indegna insulta-re un Paese dove, nelle trincee e nelle case, tanta gentesoffriva. Fu canzonato per il tedesco che parlava, fu pre-so di mira direttamente dagli insulti. Sebbene non appa-rissero alterati, quegli uomini dovevano già aver bevutotanto da sentir caldo nelle vene. – Va’ in trincea! Va’ amangiar la tua polenta! Non sei che uno sporco italiano.– Metello si slanciò sul piú vicino, con un pugno nelpetto lo mandò a terra; afferrò e sollevò una sedia, unadi quelle pesanti sedie tutte legno alla tedesca; non ave-va paura di nessuno, di niente, si sentiva una gran forza,non pensava ad altro che a castigare quei vili, quei ne-mici. Tutti gli altri uomini erano balzati in piedi conl’idea di castigare lui. La padrona si mise a strillare;strillando, la serva corse fuori a cercar poliziotti. Sediesi rovesciarono, altre furono alzate in aria; si rovesciaro-no tazze e bicchieri o si ruppero sull’impiantito; caddein pezzi il vetro di un quadro tedesco di caccia. Con lasua sedia Metello faceva prodigi, tenendo distanti gliavversari; ma uno di questi, massiccio e vigoroso, dopoche addosso all’italiano erano già stati scagliati senzafargli danno un bicchiere ed un piatto, lo prese a tradi-mento standogli alle spalle, gli passò le braccia intornoal petto e riuscí a tenerlo fermo un istante. Subito il gio-vine dai capelli rossi gli calò di traverso sul viso, con

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Metello si alzò deciso, andò in mezzo alla stanza,puntando su questo e su quello pupille scintillanti. Sen-za gridare disse in cattivo tedesco che l’Italia faceva laguerra come gli altri popoli, con onore, battendosi comegli altri si battevano, e che era una cosa indegna insulta-re un Paese dove, nelle trincee e nelle case, tanta gentesoffriva. Fu canzonato per il tedesco che parlava, fu pre-so di mira direttamente dagli insulti. Sebbene non appa-rissero alterati, quegli uomini dovevano già aver bevutotanto da sentir caldo nelle vene. – Va’ in trincea! Va’ amangiar la tua polenta! Non sei che uno sporco italiano.– Metello si slanciò sul piú vicino, con un pugno nelpetto lo mandò a terra; afferrò e sollevò una sedia, unadi quelle pesanti sedie tutte legno alla tedesca; non ave-va paura di nessuno, di niente, si sentiva una gran forza,non pensava ad altro che a castigare quei vili, quei ne-mici. Tutti gli altri uomini erano balzati in piedi conl’idea di castigare lui. La padrona si mise a strillare;strillando, la serva corse fuori a cercar poliziotti. Sediesi rovesciarono, altre furono alzate in aria; si rovesciaro-no tazze e bicchieri o si ruppero sull’impiantito; caddein pezzi il vetro di un quadro tedesco di caccia. Con lasua sedia Metello faceva prodigi, tenendo distanti gliavversari; ma uno di questi, massiccio e vigoroso, dopoche addosso all’italiano erano già stati scagliati senzafargli danno un bicchiere ed un piatto, lo prese a tradi-mento standogli alle spalle, gli passò le braccia intornoal petto e riuscí a tenerlo fermo un istante. Subito il gio-vine dai capelli rossi gli calò di traverso sul viso, con

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quanta forza aveva, una delle stecche che servivano a te-nervi infilati i giornali: gli fece un taglio lungo e profon-do dal quale il sangue venne fuori copiosamente. Sebbe-ne stordito dal colpo, Metello sentí il sangue e vide sullefacce degli altri l’impressione della sua ferita; intanto glisi afflosciarono le gambe, andò in terra, svenuto.

— Fuori! Portatelo fuori! – comandò la padrona, chesull’attimo aveva cessato di strillare ed ora pensava checonveniva non fare strepito. Qualcuno, guardando nellastrada, accennò che era deserta; altri trascinarono finoalla soglia il corpo pesante; la serva, rientrata senz’avertrovati poliziotti, fu messa subito a lavar il sangue rima-sto sull’impiantito. Nella via Metello venne sollevato abraccia, portato qualche passo piú lontano. L’uomo dalfarsetto verde gli gettò accanto il cappello, presodall’attaccapanni. Poi tutti quegli uomini si dispersero.

Trovò sul selciato l’«ubbriaco» una vecchia che tor-nava da casa d’una vicina; vide la faccia insanguinata;compiacendosi di aver parte in un fatto importante, andòfino ad un posto di pubblico soccorso. Una lucida ambu-lanza si mosse; l’uomo fu raccolto con la barella; il vei-colo partí per l’ospedale. Anche sulle selci rimase unamacchia di sangue. Ne aveva perduto parecchio, il feri-to, poiché era tagliata una piccola arteria che continuavaa gettare. Non rinvenne. All’ospedale chi diede unascorsa alle sue carte, capí solamente che era italiano; sigiudicò che fosse un operaio e che, ubbriaco, si fosseconciato a quel modo cadendo.

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quanta forza aveva, una delle stecche che servivano a te-nervi infilati i giornali: gli fece un taglio lungo e profon-do dal quale il sangue venne fuori copiosamente. Sebbe-ne stordito dal colpo, Metello sentí il sangue e vide sullefacce degli altri l’impressione della sua ferita; intanto glisi afflosciarono le gambe, andò in terra, svenuto.

— Fuori! Portatelo fuori! – comandò la padrona, chesull’attimo aveva cessato di strillare ed ora pensava checonveniva non fare strepito. Qualcuno, guardando nellastrada, accennò che era deserta; altri trascinarono finoalla soglia il corpo pesante; la serva, rientrata senz’avertrovati poliziotti, fu messa subito a lavar il sangue rima-sto sull’impiantito. Nella via Metello venne sollevato abraccia, portato qualche passo piú lontano. L’uomo dalfarsetto verde gli gettò accanto il cappello, presodall’attaccapanni. Poi tutti quegli uomini si dispersero.

Trovò sul selciato l’«ubbriaco» una vecchia che tor-nava da casa d’una vicina; vide la faccia insanguinata;compiacendosi di aver parte in un fatto importante, andòfino ad un posto di pubblico soccorso. Una lucida ambu-lanza si mosse; l’uomo fu raccolto con la barella; il vei-colo partí per l’ospedale. Anche sulle selci rimase unamacchia di sangue. Ne aveva perduto parecchio, il feri-to, poiché era tagliata una piccola arteria che continuavaa gettare. Non rinvenne. All’ospedale chi diede unascorsa alle sue carte, capí solamente che era italiano; sigiudicò che fosse un operaio e che, ubbriaco, si fosseconciato a quel modo cadendo.

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Risvegliò Metello il bruciore che senti quando un in-fermiere prese a lavargli la ferita. Si trovò in una stanzabianca, con una luce negli occhi, con camici bianchi at-torno, sul lettuccio operatorio: non ricordava niente, nonsi spiegava come mai si trovasse là. Bruciando la feritaterribilmente, egli tentò di afferrar la mano di chi lo la-vava; allora un altro infermiere lo strinse rudemente alpolso dicendo: – Buona la birra, ma fa cascare. – Metel-lo non disse nulla. Entrò un medico, si lavò le mani concalma poi diede un’occhiata al taglio e si mise a cucirlosenza badare altrimenti al ferito. Metello sentiva l’agoentrar nella carne bruciante ed il filo aspramente scor-rervi, ma serrava i pugni e le mascelle guardando in unangolo l’armadio dei ferri. Gli era tornata la memoria ditutte le cose. Rammentava ciò ch’era accaduto nella ta-verna, la giornata, la guerra.

Finito di cucire, il medico – che era giovine, biondo,ossuto, con gli occhiali tondi – gli domandò severamen-te: – Avevi bevuto?

— Non avevo bevuto. Ho inciampato – rispose Me-tello in tono sdegnoso. Il medico se ne andò. Il taglio ri-cucito attraversava tutta una guancia; i due infermiericominciarono a fare il bendaggio; uno disse al ferito,beffardamente, che aveva già una bella cicatrice sullafronte e che anche quell’altro scherzo avrebbe lasciato ilsegno. Poi, col collega, parlò d’altro, di certe ingiustiziech’erano state commesse variando i turni di guardia; emaneggiavano garza e bende con destrezza.

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Risvegliò Metello il bruciore che senti quando un in-fermiere prese a lavargli la ferita. Si trovò in una stanzabianca, con una luce negli occhi, con camici bianchi at-torno, sul lettuccio operatorio: non ricordava niente, nonsi spiegava come mai si trovasse là. Bruciando la feritaterribilmente, egli tentò di afferrar la mano di chi lo la-vava; allora un altro infermiere lo strinse rudemente alpolso dicendo: – Buona la birra, ma fa cascare. – Metel-lo non disse nulla. Entrò un medico, si lavò le mani concalma poi diede un’occhiata al taglio e si mise a cucirlosenza badare altrimenti al ferito. Metello sentiva l’agoentrar nella carne bruciante ed il filo aspramente scor-rervi, ma serrava i pugni e le mascelle guardando in unangolo l’armadio dei ferri. Gli era tornata la memoria ditutte le cose. Rammentava ciò ch’era accaduto nella ta-verna, la giornata, la guerra.

Finito di cucire, il medico – che era giovine, biondo,ossuto, con gli occhiali tondi – gli domandò severamen-te: – Avevi bevuto?

— Non avevo bevuto. Ho inciampato – rispose Me-tello in tono sdegnoso. Il medico se ne andò. Il taglio ri-cucito attraversava tutta una guancia; i due infermiericominciarono a fare il bendaggio; uno disse al ferito,beffardamente, che aveva già una bella cicatrice sullafronte e che anche quell’altro scherzo avrebbe lasciato ilsegno. Poi, col collega, parlò d’altro, di certe ingiustiziech’erano state commesse variando i turni di guardia; emaneggiavano garza e bende con destrezza.

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«Sí, – pensava Metello, seduto sull’orlo del lettuccio– mi rimarrà anche questo segno». E con un senso vagodi contentezza, con una soddisfazione di se stesso, conuna specie di orgoglio, guardava nel secchio i fiocchi dicotone, i tamponi di garza intrisi nel suo sangue, guar-dava nella bacinella l’acqua rossa del suo sangue.

* * *

In mezzo alla campagna vasta e piana, nella qualeschiere di alberi segnavano i corsi d’acqua invisibili,l’ospizio mostrava enormi corpi di fabbrica perfetta-mente eguali, che da lontano sembravano edifizi magni-fici e da vicino erano grezzi e poveri. Vi abitava un po-polo di vecchi e di vecchie. Nei giorni di festa, nelle ored’uscita un formicolio di gente in uniforme, che si mo-veva stentatamente, era sparso su tutte le strade dei din-torni; uomini coi berrettini e donne con le piccole cuffieriempivano i tranvai che andavano e venivano dalla cit-tà, le botteghe delle borgatelle, le osterie messe tra unorto ed un rustico giardino; e per il viale antico che ta-gliava tutta la pianura, di questi vecchi continuava poiad arrivarne fino a sera. Dentro i fabbricati i vani eranoaltissimi, immensi, con finestroni dinanzi ai quali veni-vano tirate tende larghe come vele di bastimenti. Tra ilettucci nascosti entro gabbie di tela lo spazio si facevasempre piú stretto; anche nei refettori i ricoverati dove-vano sempre piú stringere i gomiti, perché quel popoloseguitava a crescere. D’inverno attraverso le vetrate si

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«Sí, – pensava Metello, seduto sull’orlo del lettuccio– mi rimarrà anche questo segno». E con un senso vagodi contentezza, con una soddisfazione di se stesso, conuna specie di orgoglio, guardava nel secchio i fiocchi dicotone, i tamponi di garza intrisi nel suo sangue, guar-dava nella bacinella l’acqua rossa del suo sangue.

* * *

In mezzo alla campagna vasta e piana, nella qualeschiere di alberi segnavano i corsi d’acqua invisibili,l’ospizio mostrava enormi corpi di fabbrica perfetta-mente eguali, che da lontano sembravano edifizi magni-fici e da vicino erano grezzi e poveri. Vi abitava un po-polo di vecchi e di vecchie. Nei giorni di festa, nelle ored’uscita un formicolio di gente in uniforme, che si mo-veva stentatamente, era sparso su tutte le strade dei din-torni; uomini coi berrettini e donne con le piccole cuffieriempivano i tranvai che andavano e venivano dalla cit-tà, le botteghe delle borgatelle, le osterie messe tra unorto ed un rustico giardino; e per il viale antico che ta-gliava tutta la pianura, di questi vecchi continuava poiad arrivarne fino a sera. Dentro i fabbricati i vani eranoaltissimi, immensi, con finestroni dinanzi ai quali veni-vano tirate tende larghe come vele di bastimenti. Tra ilettucci nascosti entro gabbie di tela lo spazio si facevasempre piú stretto; anche nei refettori i ricoverati dove-vano sempre piú stringere i gomiti, perché quel popoloseguitava a crescere. D’inverno attraverso le vetrate si

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vedeva un’immensa distesa di neve con alberi neri pian-tati dentro; d’estate le vele dei finestroni si gonfiavano eda lontano venivano il rumor dei carri, i fischi dei treni,l’odore del fieno, ed allora i vecchi che non potevan faremolto cammino scendevano nei giardini, alcuni coi ber-retti da notte dell’infermeria.

Aleramo Andosio viveva là ormai da parecchi anni.Indosso a lui l’uniforme pareva quella di un corpo di ve-terani, dando risalto al suo portamento deciso, alle suemaniere di vecchio signore. Come nei reclusori lavoravada sarto; tagliava le divise per gli altri ricoverati, agli or-dini di una monaca severa. Nessuno dei compagni cono-sceva il suo passato: egli si era inventata una storia dapoter raccontare, ma la diceva soltanto in caso di neces-sità. Stava, come aveva voluto, fuori del mondo nel qua-le non aveva piú saputo vivere; ed ogni mattina ricomin-ciava consapevolmente il sacrificio che aveva cercatoper punirsi da sé di quanto aveva commesso. Sempre gliera nella memoria il ricordo di Fulvia, un ricordo né vi-cino né distante, che non gli dava rimorsi, non lo rattri-stava in alcun modo, ma gli faceva sentir il dovere di fi-nire cosí l’esistenza. Egli era un vecchio, ricoverato inun ospizio, e nel suo pensiero durava una giovine signo-ra, bella, piena di respiro e di fantasie, vestita secondo lamoda di un altro tempo. Aleramo considerava qualchevolta com’era stato il suo passaggio sopra la terra, colsentimento amaro che tutto ciò ch’egli aveva fatto, tuttoquanto era accaduto, non si poteva rifare, e che a lui eratoccato di vivere una storia cosí nera. Ma, pur sentendo

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vedeva un’immensa distesa di neve con alberi neri pian-tati dentro; d’estate le vele dei finestroni si gonfiavano eda lontano venivano il rumor dei carri, i fischi dei treni,l’odore del fieno, ed allora i vecchi che non potevan faremolto cammino scendevano nei giardini, alcuni coi ber-retti da notte dell’infermeria.

Aleramo Andosio viveva là ormai da parecchi anni.Indosso a lui l’uniforme pareva quella di un corpo di ve-terani, dando risalto al suo portamento deciso, alle suemaniere di vecchio signore. Come nei reclusori lavoravada sarto; tagliava le divise per gli altri ricoverati, agli or-dini di una monaca severa. Nessuno dei compagni cono-sceva il suo passato: egli si era inventata una storia dapoter raccontare, ma la diceva soltanto in caso di neces-sità. Stava, come aveva voluto, fuori del mondo nel qua-le non aveva piú saputo vivere; ed ogni mattina ricomin-ciava consapevolmente il sacrificio che aveva cercatoper punirsi da sé di quanto aveva commesso. Sempre gliera nella memoria il ricordo di Fulvia, un ricordo né vi-cino né distante, che non gli dava rimorsi, non lo rattri-stava in alcun modo, ma gli faceva sentir il dovere di fi-nire cosí l’esistenza. Egli era un vecchio, ricoverato inun ospizio, e nel suo pensiero durava una giovine signo-ra, bella, piena di respiro e di fantasie, vestita secondo lamoda di un altro tempo. Aleramo considerava qualchevolta com’era stato il suo passaggio sopra la terra, colsentimento amaro che tutto ciò ch’egli aveva fatto, tuttoquanto era accaduto, non si poteva rifare, e che a lui eratoccato di vivere una storia cosí nera. Ma, pur sentendo

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una grande legge inesorabile dalla quale ogni vita eraprestabilita con tutti i suoi beni ed i suoi mali, non vole-va credersi senza colpa né vedere se stesso come unavittima.

A visitarlo veniva qualche volta Ascanio Farra. Resi-steva alla vecchiaia miracolosamente, sempre dirittosulla persona, con quella testa alla quale i lunghi capellicandidi, il pappafico, lo sguardo altero davano semprepiú marcata l’espressione di certe figure del Risorgi-mento. Conservava sui pomelli un lieve rossore giovani-le. Soltanto l’udito si affievoliva, ed egli dichiarava ildifetto portandosi la destra all’orecchio con un moto di-spettoso. Ma, venendo all’ospizio, attraversava a piediun buon tratto della campagna. Ogni volta Gabriella,colla quale seguitava a convivere, lo incaricava di diread Aleramo che si decidesse a lasciar il ricovero, cheella poteva provvedere a lui senza alcuna difficoltà e chelo avrebbe lasciato pienamente libero di vivere dove ecome volesse. Aleramo si affrettava a ringraziare in po-che parole, ricusando. Era proprio la libertà quella chenon voleva. Con Ascanio parlavano di Graziano, chestava in trincea, e dei figli di Gabriella; discorrevano an-che di Rebbia, talora, come di un luogo che non esistes-se piú. A casa della nipote Aleramo non andava quasimai, poiché gli pareva di far torto alla condizione diquella famiglia, lui, un vecchio dell’ospizio, con la suauniforme.

Nel popolo di ricoverati la maggior parte erano scon-tenti o mal rassegnati. Ricordavano sempre ciò che era-

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una grande legge inesorabile dalla quale ogni vita eraprestabilita con tutti i suoi beni ed i suoi mali, non vole-va credersi senza colpa né vedere se stesso come unavittima.

A visitarlo veniva qualche volta Ascanio Farra. Resi-steva alla vecchiaia miracolosamente, sempre dirittosulla persona, con quella testa alla quale i lunghi capellicandidi, il pappafico, lo sguardo altero davano semprepiú marcata l’espressione di certe figure del Risorgi-mento. Conservava sui pomelli un lieve rossore giovani-le. Soltanto l’udito si affievoliva, ed egli dichiarava ildifetto portandosi la destra all’orecchio con un moto di-spettoso. Ma, venendo all’ospizio, attraversava a piediun buon tratto della campagna. Ogni volta Gabriella,colla quale seguitava a convivere, lo incaricava di diread Aleramo che si decidesse a lasciar il ricovero, cheella poteva provvedere a lui senza alcuna difficoltà e chelo avrebbe lasciato pienamente libero di vivere dove ecome volesse. Aleramo si affrettava a ringraziare in po-che parole, ricusando. Era proprio la libertà quella chenon voleva. Con Ascanio parlavano di Graziano, chestava in trincea, e dei figli di Gabriella; discorrevano an-che di Rebbia, talora, come di un luogo che non esistes-se piú. A casa della nipote Aleramo non andava quasimai, poiché gli pareva di far torto alla condizione diquella famiglia, lui, un vecchio dell’ospizio, con la suauniforme.

Nel popolo di ricoverati la maggior parte erano scon-tenti o mal rassegnati. Ricordavano sempre ciò che era-

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no stati, con un rancore contro il destino, contro l’esi-stenza che li aveva gettati là come rifiuti, rottami. Si ve-devano prigionieri, sentivano la durezza della disciplina,trovavano il trattamento misero e crudele, ruvidi i letti,cattivo il cibo; parlavano della direzione come di un pa-drone misterioso e malvagio; tra essi e le monache erauna lotta coperta, alcuni invece le blandivano vilmente.D’estate le donne dovevano portare una mantelletta dipercalle a righe; molte si affrettavano a levarsela appenaerano un poco lontane dall’ospizio. I vecchi e le vecchienon si riunivano nemmeno per le funzioni religiose, ve-nendo queste celebrate in due chiese distinte; però, vierano tra essi coppie di coniugi o di antichi amici e si ri-trovavano all’uscita nelle ore di libertà.

Quasi tutti si tenevano attaccati alla vita donde eranovenuti, al mondo di fuori, a quella che giudicavano lavera vita. Spiaceva loro la lontananza dalla città; quandoera possibile, vi tornavano; prendevan parte agli avveni-menti delle loro famiglie, od almeno fingevano di poter-vi partecipare; i fatti dei figli, delle nuore, dei nipoti,questioni di interesse, casi di ogni specie si ripercoteva-no nell’aria fiacca delle camerate. Il denaro era un’ideache li perseguitava ancora, era uno dei temi piú frequen-ti dei loro discorsi. Per procurarsi qualche soldo moltevecchie facevano piccoli lavori di nascosto e cercavanodi venderli in città. Alcuni dei ricoverati non avevan piúnessuno od erano abbandonati dalle famiglie; altri rac-contavano che i parenti li avrebbero tolti di là, ma senzacredervi nemmeno loro. Non pareva vero che venissero,

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no stati, con un rancore contro il destino, contro l’esi-stenza che li aveva gettati là come rifiuti, rottami. Si ve-devano prigionieri, sentivano la durezza della disciplina,trovavano il trattamento misero e crudele, ruvidi i letti,cattivo il cibo; parlavano della direzione come di un pa-drone misterioso e malvagio; tra essi e le monache erauna lotta coperta, alcuni invece le blandivano vilmente.D’estate le donne dovevano portare una mantelletta dipercalle a righe; molte si affrettavano a levarsela appenaerano un poco lontane dall’ospizio. I vecchi e le vecchienon si riunivano nemmeno per le funzioni religiose, ve-nendo queste celebrate in due chiese distinte; però, vierano tra essi coppie di coniugi o di antichi amici e si ri-trovavano all’uscita nelle ore di libertà.

Quasi tutti si tenevano attaccati alla vita donde eranovenuti, al mondo di fuori, a quella che giudicavano lavera vita. Spiaceva loro la lontananza dalla città; quandoera possibile, vi tornavano; prendevan parte agli avveni-menti delle loro famiglie, od almeno fingevano di poter-vi partecipare; i fatti dei figli, delle nuore, dei nipoti,questioni di interesse, casi di ogni specie si ripercoteva-no nell’aria fiacca delle camerate. Il denaro era un’ideache li perseguitava ancora, era uno dei temi piú frequen-ti dei loro discorsi. Per procurarsi qualche soldo moltevecchie facevano piccoli lavori di nascosto e cercavanodi venderli in città. Alcuni dei ricoverati non avevan piúnessuno od erano abbandonati dalle famiglie; altri rac-contavano che i parenti li avrebbero tolti di là, ma senzacredervi nemmeno loro. Non pareva vero che venissero,

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alcuni, dal passato che narravano o del quale si bisbi-gliava: vecchietti da nulla avevan condotte le locomoti-ve ferroviarie; altri erano reduci da battaglie famose;vecchie deformi erano state modelle di pittori in voga,avevano avuti splendidi amori, trionfi; vecchie similialla miseria in persona erano state floride bottegaie, pos-sidenti che regnavano su case, terre, servitori. I piú nonavevano mai conosciuta altra condizione che quella dicampare poveramente facendo qualche mestiere; manessuno di loro aveva previsto di poter finire all’ospizio,e non s’erano poi riavuti dallo stupore.

Tra quella gente finita ancora si manifestava unagrande varietà di caratteri. I prepotenti volevano ancorasopraffare gli altri, aver sempre ragione, esser temuti;bugiardi e fanfaroni spacciavano vanterie incredibili; ibigotti temevano l’inferno e pregavano pregavano, im-mersi in una religione superstiziosa, attaccando alla pa-rete presso il loro letto tutte le immagini sacre che pos-sedevano. Molti, anche tra le donne, amavano il vino equalche volta rientravano brilli. I pochi quattrini cheavevano, tutti li custodivano gelosamente, ricontandolicome fanno i fanciulli. Sempre agitava i ricoverati unfermentare di invidie, di piccoli intrighi, di maldicenze,di odi. Vi erano anche uomini e donne spenti, che stava-no da sé, non parlavano, si movevano come in un palli-do sogno. Ma in apparenza tutti insieme formavano unafolla d’individui quasi eguali, eran soltanto una moltitu-dine di vesticelle, di giacche col numero, governata dal-la legge immutabile dell’orario. Meravigliosamente forti

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alcuni, dal passato che narravano o del quale si bisbi-gliava: vecchietti da nulla avevan condotte le locomoti-ve ferroviarie; altri erano reduci da battaglie famose;vecchie deformi erano state modelle di pittori in voga,avevano avuti splendidi amori, trionfi; vecchie similialla miseria in persona erano state floride bottegaie, pos-sidenti che regnavano su case, terre, servitori. I piú nonavevano mai conosciuta altra condizione che quella dicampare poveramente facendo qualche mestiere; manessuno di loro aveva previsto di poter finire all’ospizio,e non s’erano poi riavuti dallo stupore.

Tra quella gente finita ancora si manifestava unagrande varietà di caratteri. I prepotenti volevano ancorasopraffare gli altri, aver sempre ragione, esser temuti;bugiardi e fanfaroni spacciavano vanterie incredibili; ibigotti temevano l’inferno e pregavano pregavano, im-mersi in una religione superstiziosa, attaccando alla pa-rete presso il loro letto tutte le immagini sacre che pos-sedevano. Molti, anche tra le donne, amavano il vino equalche volta rientravano brilli. I pochi quattrini cheavevano, tutti li custodivano gelosamente, ricontandolicome fanno i fanciulli. Sempre agitava i ricoverati unfermentare di invidie, di piccoli intrighi, di maldicenze,di odi. Vi erano anche uomini e donne spenti, che stava-no da sé, non parlavano, si movevano come in un palli-do sogno. Ma in apparenza tutti insieme formavano unafolla d’individui quasi eguali, eran soltanto una moltitu-dine di vesticelle, di giacche col numero, governata dal-la legge immutabile dell’orario. Meravigliosamente forti

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e potenti sembravano in mezzo a loro le monache. Datutte le camerate ogni giorno qualcuno spariva, passan-do all’infermeria. Facilmente non ne tornava piú. Diquelli che si ammalavano, di quelli che morivano, gli al-tri discorrevano a voce bassa, come scambiandosi senzaesprimerlo il pensiero: «Domani a chi?» Il depositodove tanto spesso vi era qualcuno ad aspettare il funera-le, non lo nominavano mai.

La guerra che da anni teneva il mondo quanto eragrande, si faceva sentire penosamente anche nell’ospi-zio. Le razioni erano state molto ridotte; non si davanopiú ai ricoverati scarpe nuove, con estrema parsimoniasi cambiavano i capi di vestiario logori. Nelle famigliedei vecchi vi era stata e continuava la falcidia dei morti,dei feriti, dei prigionieri; ognuno che avesse al frontequalche parente, stava con l’animo sospeso; tranne chenegli svaniti, i quali rimanevano indifferenti, sotto i ber-rettini e le cuffie vi era anche l’interesse per l’andamen-to della lotta, la passione per l’immenso contrasto. Veni-vano a sapere tutto, anche ciò che i giornali non pubbli-cavano; nelle camerate, nei refettori circolavano spessonotizie assurde; molti dei vecchi si rappresentavano laguerra, ed il mondo sul quale essa imperversava, in ma-niere favolose, bizzarre. «Non finirà mai piú» dicevaqualcuno crollando il capo. Per i soldati, e perché si vin-cesse, molti stavano lungamente nelle cappelle a prega-re; le donne lavoravano la lana.

Aleramo passava nella sartoria la maggior parte dellagiornata. Lavorare come aveva fatto nei reclusori gli

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e potenti sembravano in mezzo a loro le monache. Datutte le camerate ogni giorno qualcuno spariva, passan-do all’infermeria. Facilmente non ne tornava piú. Diquelli che si ammalavano, di quelli che morivano, gli al-tri discorrevano a voce bassa, come scambiandosi senzaesprimerlo il pensiero: «Domani a chi?» Il depositodove tanto spesso vi era qualcuno ad aspettare il funera-le, non lo nominavano mai.

La guerra che da anni teneva il mondo quanto eragrande, si faceva sentire penosamente anche nell’ospi-zio. Le razioni erano state molto ridotte; non si davanopiú ai ricoverati scarpe nuove, con estrema parsimoniasi cambiavano i capi di vestiario logori. Nelle famigliedei vecchi vi era stata e continuava la falcidia dei morti,dei feriti, dei prigionieri; ognuno che avesse al frontequalche parente, stava con l’animo sospeso; tranne chenegli svaniti, i quali rimanevano indifferenti, sotto i ber-rettini e le cuffie vi era anche l’interesse per l’andamen-to della lotta, la passione per l’immenso contrasto. Veni-vano a sapere tutto, anche ciò che i giornali non pubbli-cavano; nelle camerate, nei refettori circolavano spessonotizie assurde; molti dei vecchi si rappresentavano laguerra, ed il mondo sul quale essa imperversava, in ma-niere favolose, bizzarre. «Non finirà mai piú» dicevaqualcuno crollando il capo. Per i soldati, e perché si vin-cesse, molti stavano lungamente nelle cappelle a prega-re; le donne lavoravano la lana.

Aleramo passava nella sartoria la maggior parte dellagiornata. Lavorare come aveva fatto nei reclusori gli

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piaceva; ma si dava con tranquilla volontà a tutta la vitadell’ospizio, alla rigida regola che governava il refetto-rio, il dormitorio, e nella quale egli ritrovava qualcosa disomigliante alla vita delle case di pena. Soltanto neigiorni di festa approfittava della libertà di uscire, mentregli altri chiedevano il permesso anche lungo la settima-na; andava in città assai di rado; non prendeva mai levacanze nelle solennità tanto aspettate da coloro che po-tevano «passar le feste a casa». Fuori dell’ospizio si ri-trovava ogni volta contento di aver indosso l’uniformecol numero. In mezzo agli altri ricoverati sapeva sem-pre, tra sé, chi era, cioé un signore ed uno che era statoper ventisette anni nei penitenziari; ma si abbandonava aquella eguaglianza, trattava tutti e ne era trattato da paria pari. Si era fatti tra i compagni alcuni amici sceglien-doli, pochi, tra gli uomini ai quali gli anni e le traversieavevan data una certa saggezza che pareva nobiltà; rega-lava loro un po’ del denaro che gli era dato a modestocompenso del suo lavoro; le domeniche di buon tempoandavano a passeggio insieme per le strade della pianu-ra. Discorrevano della guerra; i compagni però, amava-no anche raccontare il passato, le proprie o le altrui av-venture, fatterelli da nulla, la politica d’altri tempi; Ale-ramo aveva egli pure molte cose da dire, del passato,come se fosse sempre vissuto nel mondo. Passeggiandocosí, pensava che la sua vita nell’ospizio era fin troppobella.

Nella sartoria, un pomeriggio, la suora direttrice ven-ne ad avvisarlo che in parlatorio aspettava sua sorella.

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piaceva; ma si dava con tranquilla volontà a tutta la vitadell’ospizio, alla rigida regola che governava il refetto-rio, il dormitorio, e nella quale egli ritrovava qualcosa disomigliante alla vita delle case di pena. Soltanto neigiorni di festa approfittava della libertà di uscire, mentregli altri chiedevano il permesso anche lungo la settima-na; andava in città assai di rado; non prendeva mai levacanze nelle solennità tanto aspettate da coloro che po-tevano «passar le feste a casa». Fuori dell’ospizio si ri-trovava ogni volta contento di aver indosso l’uniformecol numero. In mezzo agli altri ricoverati sapeva sem-pre, tra sé, chi era, cioé un signore ed uno che era statoper ventisette anni nei penitenziari; ma si abbandonava aquella eguaglianza, trattava tutti e ne era trattato da paria pari. Si era fatti tra i compagni alcuni amici sceglien-doli, pochi, tra gli uomini ai quali gli anni e le traversieavevan data una certa saggezza che pareva nobiltà; rega-lava loro un po’ del denaro che gli era dato a modestocompenso del suo lavoro; le domeniche di buon tempoandavano a passeggio insieme per le strade della pianu-ra. Discorrevano della guerra; i compagni però, amava-no anche raccontare il passato, le proprie o le altrui av-venture, fatterelli da nulla, la politica d’altri tempi; Ale-ramo aveva egli pure molte cose da dire, del passato,come se fosse sempre vissuto nel mondo. Passeggiandocosí, pensava che la sua vita nell’ospizio era fin troppobella.

Nella sartoria, un pomeriggio, la suora direttrice ven-ne ad avvisarlo che in parlatorio aspettava sua sorella.

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Non era giorno di visita, – disse la monaca – il lavoroera tanto; ella non avrebbe dovuto dare il permesso; ma,poiché la parente veniva da lontano apposta, andassepure, ricordando di non trattenersi troppo. Ortensia cam-minava su e giú per lo stanzone. Vestiva a lutto, col velorialzato; sul petto aveva il nastro azzurro ed il brilliod’argento di una medaglia al valor militare; dal suoaspetto si capiva che adesso aveva denaro da spendere,sebbene il cappello posato sui ricci né bianchi né gialli,sempre abbruciacchiati, fosse probabilmente rimaneg-giato da lei come per l’addietro. Al collo dell’abito eraappuntata la corona comitale di bronzo. Nel parlatoriostavano alcuni ricoverati coi loro visitatori, ammessi an-che questi per motivi eccezionali; in qualche gruppo eragente che piangeva; una suora giovine, con un gonfioviso rosso che pareva troppo stretto dal soggolo, sorve-gliava immobile presso una porta. Aspettando, Ortensiaguardava con aria sdegnosa le tavole e le panche grezze,le pareti altissime ornate di qualche fregio da imbianchi-ni. Visto entrare il fratello, gli mosse incontro col solitobrio, velato però come da un dolore divenuto abituale. –Sono andata a Luvo, sai. Ne son tornata ieri sera. Qualeeffetto! Ho tante cose da dirti. Tante altre cose, anche.

Aleramo era senza berretto; intorno al cranio calvoabbronzato, i capelli rimasti erano tagliati corti. Vestivadi rigatino ed aveva dimenticato di togliersi dalle spalleil metro da sarto. Ortensia soffriva a vedere quel 705 cu-cito sul bavero della giacca; ma con lo sguardo vi torna-va sempre, senza farlo apposta. Ella chiese di andare in

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Non era giorno di visita, – disse la monaca – il lavoroera tanto; ella non avrebbe dovuto dare il permesso; ma,poiché la parente veniva da lontano apposta, andassepure, ricordando di non trattenersi troppo. Ortensia cam-minava su e giú per lo stanzone. Vestiva a lutto, col velorialzato; sul petto aveva il nastro azzurro ed il brilliod’argento di una medaglia al valor militare; dal suoaspetto si capiva che adesso aveva denaro da spendere,sebbene il cappello posato sui ricci né bianchi né gialli,sempre abbruciacchiati, fosse probabilmente rimaneg-giato da lei come per l’addietro. Al collo dell’abito eraappuntata la corona comitale di bronzo. Nel parlatoriostavano alcuni ricoverati coi loro visitatori, ammessi an-che questi per motivi eccezionali; in qualche gruppo eragente che piangeva; una suora giovine, con un gonfioviso rosso che pareva troppo stretto dal soggolo, sorve-gliava immobile presso una porta. Aspettando, Ortensiaguardava con aria sdegnosa le tavole e le panche grezze,le pareti altissime ornate di qualche fregio da imbianchi-ni. Visto entrare il fratello, gli mosse incontro col solitobrio, velato però come da un dolore divenuto abituale. –Sono andata a Luvo, sai. Ne son tornata ieri sera. Qualeeffetto! Ho tante cose da dirti. Tante altre cose, anche.

Aleramo era senza berretto; intorno al cranio calvoabbronzato, i capelli rimasti erano tagliati corti. Vestivadi rigatino ed aveva dimenticato di togliersi dalle spalleil metro da sarto. Ortensia soffriva a vedere quel 705 cu-cito sul bavero della giacca; ma con lo sguardo vi torna-va sempre, senza farlo apposta. Ella chiese di andare in

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giardino; avendole detto il fratello che era proibito, pro-pose di fare una passeggiata, poiché sul viale l’aspettaval’automobile di rimessa con la quale era venuta; non es-sendo possibile nemmeno questo, si rassegnò a sederesopra una delle panche, in disparte. Diede la piú impor-tante delle notizie che recava: – Non si sa piú niente diGraziano! Da quindici giorni. I suoi hanno fatto fare ri-cerche: niente. – Il giovine era in uno dei reparti che nonvenivan mai tolti dal fuoco, dai luoghi peggiori; ora sulPiave, dove stava terminando la battaglia. Ortensia con-tinuava: – Finora gli era andata bene ma in una battagliacome questa... E meglio non pensarvi. Arriverà una suacartolina.

Nel viso, nella persona costrutta con ossa robuste epoca carne, anche nello sguardo, fratello e sorella si ras-somigliavano sempre; ma in Aleramo il brio nervosoche sapeva di malinconia, era scomparso, come se final-mente egli si fosse quietato. Mostrò di preoccuparsi del-la sorte di Graziano ma senza agitarsi, dicendo che ilgran disordine d’una simile battaglia bastava a spiegarela mancanza di notizie. In una sua borsa nera, grandissi-ma, Ortensia cercò le sigarette; tosto il fratello l’avvertiche non si poteva fumare. Ella borbottò: – Non si puòuscire, non si può scendere in giardino, non si può fu-mare, non si può far niente, qui. Non so come ci resisti!– Ripose sigarette e borsa, si mise a parlare di Luvo:

— Quale effetto, ti dico, il paese! Diventato piccolocome i vecchi che si consumano. La nostra casa è sem-pre bella, un palazzo, veramente, malgrado chi c’è den-

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giardino; avendole detto il fratello che era proibito, pro-pose di fare una passeggiata, poiché sul viale l’aspettaval’automobile di rimessa con la quale era venuta; non es-sendo possibile nemmeno questo, si rassegnò a sederesopra una delle panche, in disparte. Diede la piú impor-tante delle notizie che recava: – Non si sa piú niente diGraziano! Da quindici giorni. I suoi hanno fatto fare ri-cerche: niente. – Il giovine era in uno dei reparti che nonvenivan mai tolti dal fuoco, dai luoghi peggiori; ora sulPiave, dove stava terminando la battaglia. Ortensia con-tinuava: – Finora gli era andata bene ma in una battagliacome questa... E meglio non pensarvi. Arriverà una suacartolina.

Nel viso, nella persona costrutta con ossa robuste epoca carne, anche nello sguardo, fratello e sorella si ras-somigliavano sempre; ma in Aleramo il brio nervosoche sapeva di malinconia, era scomparso, come se final-mente egli si fosse quietato. Mostrò di preoccuparsi del-la sorte di Graziano ma senza agitarsi, dicendo che ilgran disordine d’una simile battaglia bastava a spiegarela mancanza di notizie. In una sua borsa nera, grandissi-ma, Ortensia cercò le sigarette; tosto il fratello l’avvertiche non si poteva fumare. Ella borbottò: – Non si puòuscire, non si può scendere in giardino, non si può fu-mare, non si può far niente, qui. Non so come ci resisti!– Ripose sigarette e borsa, si mise a parlare di Luvo:

— Quale effetto, ti dico, il paese! Diventato piccolocome i vecchi che si consumano. La nostra casa è sem-pre bella, un palazzo, veramente, malgrado chi c’è den-

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tro. Sembra una cosa eterna. Sono andata a cercare Ma-riolina. Povera Mariolina! Non c’è piú. Invece ho trova-to Daniele del Tessitore. Uno dei suoi nipoti è tornato acasa mutilato d’una gamba. Molto vecchio, Daniele;soffre d’artrite. Ti ricordi che bel giovane era? M’ha in-vitata a casa sua; sono andata; intorno, tutta gente chenon conoscevo, figli, nuore, nipoti, mogli dei nipoti. Hopranzato da loro. L’odore della buona cucina d’una vol-ta, Ramo! Proprio quello.

Ella disse poi ciò che aveva saputo riguardo al figliodi Sofia Lanciarossa, quel Mathieu. Tra lui ed il paeseera avvenuta una pace di compromesso; i sospetti sullafine di suo padre e tutto il resto erano caduti nell’oblio.Anche con l’arciprete, sempre il medesimo, era seguitoun accordo; ed il primo passo l’aveva fatto il prete, dis-sipando «il malinteso». Mathieu era accettato da tuttiperché la ricchezza aveva sempre ragione; era un signo-rotto, ma sua madre si vergognava anche ad andare inchiesa. Mathieu le aveva empita la casa di donne: unharem di serve. Povera casa, non sarebbe mai piú uscitada quelle manacce. Ortensia aveva pensato d’avvicinarel’uomo, per sentire se volesse vendere, ma le era bastatovederlo passare: un selvaggio.

Aleramo rimaneva tranquillo. La sorella seguitava: –Ho girato per il paese. I vecchi son morti ed i giovanisono in guerra. Sempre la stessa è la Stellata. Ci vivonole figlie di Gregorio Breme, te le ricordi quelle ragazze?e non ci spendono un soldo, ma la casa sta in piediegualmente. Un figlio di Barbara, è prigioniero in Un-

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tro. Sembra una cosa eterna. Sono andata a cercare Ma-riolina. Povera Mariolina! Non c’è piú. Invece ho trova-to Daniele del Tessitore. Uno dei suoi nipoti è tornato acasa mutilato d’una gamba. Molto vecchio, Daniele;soffre d’artrite. Ti ricordi che bel giovane era? M’ha in-vitata a casa sua; sono andata; intorno, tutta gente chenon conoscevo, figli, nuore, nipoti, mogli dei nipoti. Hopranzato da loro. L’odore della buona cucina d’una vol-ta, Ramo! Proprio quello.

Ella disse poi ciò che aveva saputo riguardo al figliodi Sofia Lanciarossa, quel Mathieu. Tra lui ed il paeseera avvenuta una pace di compromesso; i sospetti sullafine di suo padre e tutto il resto erano caduti nell’oblio.Anche con l’arciprete, sempre il medesimo, era seguitoun accordo; ed il primo passo l’aveva fatto il prete, dis-sipando «il malinteso». Mathieu era accettato da tuttiperché la ricchezza aveva sempre ragione; era un signo-rotto, ma sua madre si vergognava anche ad andare inchiesa. Mathieu le aveva empita la casa di donne: unharem di serve. Povera casa, non sarebbe mai piú uscitada quelle manacce. Ortensia aveva pensato d’avvicinarel’uomo, per sentire se volesse vendere, ma le era bastatovederlo passare: un selvaggio.

Aleramo rimaneva tranquillo. La sorella seguitava: –Ho girato per il paese. I vecchi son morti ed i giovanisono in guerra. Sempre la stessa è la Stellata. Ci vivonole figlie di Gregorio Breme, te le ricordi quelle ragazze?e non ci spendono un soldo, ma la casa sta in piediegualmente. Un figlio di Barbara, è prigioniero in Un-

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Page 512: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

gheria. Ho veduta anche Clemenza. Ricordi? Da bambi-na veniva a giocare con la povera Claudia. Poi era unaragazzetta stramba che aveva la passione di recitare.

— Sí, aveva trovato Shakespeare nella biblioteca e simetteva fiori nei capelli e veli in testa per fare Ofelia.

— I suoi capelli ora son già tutti bianchi, figùrati! Edha una faccia spiritata. Mi ha fatta passeggiare sullaspianata per un’ora, raccontandomi, dice, un romanzo.Tardi s’era innamorata di un professore; dopo qualcheanno questi ha sposata un’altra, naturalmente; e lei nonse n’è capacitata. Sta alla Stellata tutto l’anno; vi gira eva per la campagna come una pazza. La chiamano«l’anima in pena». Già, i Breme ne hanno sempre avutauna vena. Mezzi matti, tutti. Barbara nasconde denarosotto i mattoni dei pavimenti. Clemenza passa ore ed orenella biblioteca, tra i libroni vecchi. Mi ha portata a ve-derla; aveva sopra la scrivania un fascio di fogli mano-scritti alto cosí. Credo che scriva la storia dei suoi amo-ri; perciò il fascio è tanto spesso.

Ortensia parlava rapidamente, sottovoce; dicendo,cose da far sorridere, conservava un tono raccolto, comepensando sempre anche ai suoi dolori, e non sorridevaaffatto. Ogni tanto restava assorta, a capo basso; oppuresi alzava per moversi un poco. Aleramo l’ascoltava:senza muovere aspettava che gli tornasse vicina e ri-prendesse a discorrere. Disse la sorella che a Daniele delTessitore aveva lasciato l’incarico di far eseguire certirestauri necessari alla cappella degli Andosio, nel cam-posanto, perché era molto trascurata e lo stemma in

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gheria. Ho veduta anche Clemenza. Ricordi? Da bambi-na veniva a giocare con la povera Claudia. Poi era unaragazzetta stramba che aveva la passione di recitare.

— Sí, aveva trovato Shakespeare nella biblioteca e simetteva fiori nei capelli e veli in testa per fare Ofelia.

— I suoi capelli ora son già tutti bianchi, figùrati! Edha una faccia spiritata. Mi ha fatta passeggiare sullaspianata per un’ora, raccontandomi, dice, un romanzo.Tardi s’era innamorata di un professore; dopo qualcheanno questi ha sposata un’altra, naturalmente; e lei nonse n’è capacitata. Sta alla Stellata tutto l’anno; vi gira eva per la campagna come una pazza. La chiamano«l’anima in pena». Già, i Breme ne hanno sempre avutauna vena. Mezzi matti, tutti. Barbara nasconde denarosotto i mattoni dei pavimenti. Clemenza passa ore ed orenella biblioteca, tra i libroni vecchi. Mi ha portata a ve-derla; aveva sopra la scrivania un fascio di fogli mano-scritti alto cosí. Credo che scriva la storia dei suoi amo-ri; perciò il fascio è tanto spesso.

Ortensia parlava rapidamente, sottovoce; dicendo,cose da far sorridere, conservava un tono raccolto, comepensando sempre anche ai suoi dolori, e non sorridevaaffatto. Ogni tanto restava assorta, a capo basso; oppuresi alzava per moversi un poco. Aleramo l’ascoltava:senza muovere aspettava che gli tornasse vicina e ri-prendesse a discorrere. Disse la sorella che a Daniele delTessitore aveva lasciato l’incarico di far eseguire certirestauri necessari alla cappella degli Andosio, nel cam-posanto, perché era molto trascurata e lo stemma in

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Page 513: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

cima alla facciata quasi non si decifrava piú. – Danieleti saluta. Il buon uomo pensa sempre a te, al tempoch’eravate ragazzi. Sa che sei all’ospizio; questo mi èrincresciuto. Tutto si viene a sapere.

Nel parlatorio i gruppi s’incominciavano a disfare: sene andavano i visitatori, piano, accompagnati dai parentiricoverati. La monaca stava sempre immobile pressol’entrata. – È una malinconia qua dentro! – disse Orten-sia alzandosi ancora una volta. Seguita dal fratello, siportò nel vano di uno dei finestroni e guardò aiuole pie-ne di fiori rustici e vigorosi, intorno a un bacino tondoin mezzo al quale stava una Madonna di stucco, inverni-ciata, col Bambino in braccio.

— Marchino – domandò Aleramo – non è andato aLuvo?

— Sai com’è ostinato. Distrarsi gli gioverebbe. Nonvuole. Si occupa poco anche degli affari, sebbene sianoprosperi fin troppo. Ma per questi c’è Ludovico: un fi-glio d’oro, non pensa nemmeno a sposarsi, per badareagli affari ed a noi. Marchino tu non l’hai piú visto daquando? Forse da un paio d’anni. Va giú, diventa unomino da niente. Perché mangi, bisogna fare come coibambini. Ha sempre quell’idea storta.

Cominciata la guerra, Marchino aveva felicementepensato di darsi al commercio dei rottami di metallo, eper la prima volta un affare suo si era incamminatobene, anzi, meravigliosamente, poiché il metallo era cer-cato piú del pane. Ce ne voleva tanto, per i cannoni, lemunizioni, il filo spinato. Ma il terzo figlio, Fabio, era

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cima alla facciata quasi non si decifrava piú. – Danieleti saluta. Il buon uomo pensa sempre a te, al tempoch’eravate ragazzi. Sa che sei all’ospizio; questo mi èrincresciuto. Tutto si viene a sapere.

Nel parlatorio i gruppi s’incominciavano a disfare: sene andavano i visitatori, piano, accompagnati dai parentiricoverati. La monaca stava sempre immobile pressol’entrata. – È una malinconia qua dentro! – disse Orten-sia alzandosi ancora una volta. Seguita dal fratello, siportò nel vano di uno dei finestroni e guardò aiuole pie-ne di fiori rustici e vigorosi, intorno a un bacino tondoin mezzo al quale stava una Madonna di stucco, inverni-ciata, col Bambino in braccio.

— Marchino – domandò Aleramo – non è andato aLuvo?

— Sai com’è ostinato. Distrarsi gli gioverebbe. Nonvuole. Si occupa poco anche degli affari, sebbene sianoprosperi fin troppo. Ma per questi c’è Ludovico: un fi-glio d’oro, non pensa nemmeno a sposarsi, per badareagli affari ed a noi. Marchino tu non l’hai piú visto daquando? Forse da un paio d’anni. Va giú, diventa unomino da niente. Perché mangi, bisogna fare come coibambini. Ha sempre quell’idea storta.

Cominciata la guerra, Marchino aveva felicementepensato di darsi al commercio dei rottami di metallo, eper la prima volta un affare suo si era incamminatobene, anzi, meravigliosamente, poiché il metallo era cer-cato piú del pane. Ce ne voleva tanto, per i cannoni, lemunizioni, il filo spinato. Ma il terzo figlio, Fabio, era

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morto nel secondo anno della guerra andando all’assaltodi una posizione, e dopo sei mesi Alberto, il secondoge-nito, era stato ferito durante un bombardamento ed erapoi morto in un ospedale da campo. Marchino s’eramesso in testa che il denaro guadagnato era come ilprezzo del sangue di quei due figli, o piuttosto che laloro morte era un castigo del commercio fatto traffican-do sulla guerra. «Sul metallo della morte» diceva. Maquesto commercio, mandato innanzi dal figlio piú anzia-no, fruttava sempre molto.

— Non c’è bisogno di avvelenarsi il dolore con ri-morsi fantastici – disse Ortensia al fratello. – Sai cheforse vi sarà un riconoscimento anche per la memoria diAlberto? Me ne occupo sempre, vado a destra e sinistra,scrivo, riscrivo. Povero Alberto! Non era meno corag-gioso dell’altro, io lo so: ho le sue lettere. Ma è semprestato modesto e cosí poco fortunato. Anche lui ha datala vita volentieri ed ha sofferto piú del fratello.

Ortensia aveva vissuti questi avvenimenti, la perditadei due figli a breve distanza l’uno dall’altro, comel’intera sua esistenza: sollevando ogni fatto, ogni cosa epersona in una sfera immaginaria, in un mondo ricreatoda lei come i suoi occhi vedevano e la sua mente inven-tava. Tutto vi prendeva luci, aspetti, movimenti esaltan-ti. Perciò, sebbene fosse già passato del tempo che con-tava molto, ella rimaneva in uno stato di fervore, di en-tusiasmo, quasi di dolore felice. Pensava che quei figli«erano finiti bene». Ripeteva sempre che erano degliAndosio anche loro, buona razza, razza antica. Fabio

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morto nel secondo anno della guerra andando all’assaltodi una posizione, e dopo sei mesi Alberto, il secondoge-nito, era stato ferito durante un bombardamento ed erapoi morto in un ospedale da campo. Marchino s’eramesso in testa che il denaro guadagnato era come ilprezzo del sangue di quei due figli, o piuttosto che laloro morte era un castigo del commercio fatto traffican-do sulla guerra. «Sul metallo della morte» diceva. Maquesto commercio, mandato innanzi dal figlio piú anzia-no, fruttava sempre molto.

— Non c’è bisogno di avvelenarsi il dolore con ri-morsi fantastici – disse Ortensia al fratello. – Sai cheforse vi sarà un riconoscimento anche per la memoria diAlberto? Me ne occupo sempre, vado a destra e sinistra,scrivo, riscrivo. Povero Alberto! Non era meno corag-gioso dell’altro, io lo so: ho le sue lettere. Ma è semprestato modesto e cosí poco fortunato. Anche lui ha datala vita volentieri ed ha sofferto piú del fratello.

Ortensia aveva vissuti questi avvenimenti, la perditadei due figli a breve distanza l’uno dall’altro, comel’intera sua esistenza: sollevando ogni fatto, ogni cosa epersona in una sfera immaginaria, in un mondo ricreatoda lei come i suoi occhi vedevano e la sua mente inven-tava. Tutto vi prendeva luci, aspetti, movimenti esaltan-ti. Perciò, sebbene fosse già passato del tempo che con-tava molto, ella rimaneva in uno stato di fervore, di en-tusiasmo, quasi di dolore felice. Pensava che quei figli«erano finiti bene». Ripeteva sempre che erano degliAndosio anche loro, buona razza, razza antica. Fabio

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Page 515: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

aveva fatto il viaggiatore di commercio, Alberto avevatenuto un piccolo impiego in una banca; ma ora non era-no piú altro che degli ufficiali morti combattendo, edella li sentiva nobili come i Cortenuova ed i Cervasco,che avevano tanti dignitari e generali nella serie delleloro generazioni. Non si separava mai dalla medagliadata alla memoria di Fabio; di notte l’appendeva alguanciale. Ogni giorno leggeva qualcuna delle loro let-tere dal fronte. Godeva di aver denaro perché potevaprovvedere alle vedove ed ai ragazzi che quei figli ave-vano lasciati; si occupava continuamente di loro. Parte-cipava a tutte le cerimonie alle quali i parenti dei cadutierano invitati; col velo alzato, perché si vedesse il suovecchio viso, come se tutti dovessero conoscerla e dire:«È proprio la madre di quei due bravi ufficiali».

Nel giardino lavoravano a rastrellare la ghiaia deiviottoli alcuni ricoverati, tenendo in capo un rozzo cap-pello di paglia invece del berrettino; uno di loro, giuntosotto la finestra, fece un cenno confidenziale di salutoad Aleramo, il quale rispose con la sua durezza di vec-chio gentiluomo ma con intenzione amichevole. Sua so-rella parlava sempre: – Marchino sospira: «Purché sivinca? Purché si vinca»! Ma il merito ci sarebbe egual-mente. Merito? Non so come dire. Noi non abbiamo al-cun merito di quanto han fatto quei nostri figli; ma, in-somma, ora mi vedo diversa da prima, coi miei occhi. –Si ritrasse dalla finestra domandando se si poteva alme-no andare su e giú per il parlatorio. Aleramo gettò unosguardo alla monaca che sorvegliava; poi camminò ac-

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aveva fatto il viaggiatore di commercio, Alberto avevatenuto un piccolo impiego in una banca; ma ora non era-no piú altro che degli ufficiali morti combattendo, edella li sentiva nobili come i Cortenuova ed i Cervasco,che avevano tanti dignitari e generali nella serie delleloro generazioni. Non si separava mai dalla medagliadata alla memoria di Fabio; di notte l’appendeva alguanciale. Ogni giorno leggeva qualcuna delle loro let-tere dal fronte. Godeva di aver denaro perché potevaprovvedere alle vedove ed ai ragazzi che quei figli ave-vano lasciati; si occupava continuamente di loro. Parte-cipava a tutte le cerimonie alle quali i parenti dei cadutierano invitati; col velo alzato, perché si vedesse il suovecchio viso, come se tutti dovessero conoscerla e dire:«È proprio la madre di quei due bravi ufficiali».

Nel giardino lavoravano a rastrellare la ghiaia deiviottoli alcuni ricoverati, tenendo in capo un rozzo cap-pello di paglia invece del berrettino; uno di loro, giuntosotto la finestra, fece un cenno confidenziale di salutoad Aleramo, il quale rispose con la sua durezza di vec-chio gentiluomo ma con intenzione amichevole. Sua so-rella parlava sempre: – Marchino sospira: «Purché sivinca? Purché si vinca»! Ma il merito ci sarebbe egual-mente. Merito? Non so come dire. Noi non abbiamo al-cun merito di quanto han fatto quei nostri figli; ma, in-somma, ora mi vedo diversa da prima, coi miei occhi. –Si ritrasse dalla finestra domandando se si poteva alme-no andare su e giú per il parlatorio. Aleramo gettò unosguardo alla monaca che sorvegliava; poi camminò ac-

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Page 516: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

canto alla sorella, posando adagio le grosse scarpe sulpavimento lucido. Sopra una delle panche, insieme adun ricoverato assai vecchio, il quale aveva una testapendente scossa da un tremore, sedeva una giovine don-na e allattava, coprendosi la mammella col fazzoletto,un bambino di poche settimane che certamente ella eravenuta a mostrare per la prima volta a quel nonno.

— I figli di Gabriella, che meraviglia! – ricordò Or-tensia. – Anche l’ultimo, Sisto. Sai che ha quasi dueanni? Il tempo vola. Tre figli, e lei è sempre un bel fiore.Può metterne al mondo quanti vuole; si trovano nellavita un nido bene imbottito. Aurelio s’è già fatto un pa-trimonio. Anche lui col metallo della morte, direbbeMarchino. Ha messe le mani non so in quante industrie.Il brevetto dell’invenzione, da solo, è un filone di oro.Per una cosuccia da niente, pare, un gingillino.

— Sí, una spoletta. Quella cosa che fa scoppiare iproiettili d’artiglieria.

— E che cosa pensi di Graziano? Se fosse viva la po-vera Claudia, passerebbe brutti giorni. Il vecchio Asca-nio vorrebbe andare al fronte a cercare il nipote. Cheuomo! Sempre di ferro.

— Se a Graziano fosse accaduta una disgrazia, proba-bilmente se ne avrebbe notizia.

— Cosí ho detto ai suoi. Ma anche quel ragazzo èstrano: poteva essere ufficiale, non ha voluto; aveva unnome e lo ha nascosto; è un soldato qualunque. Speria-mo che sua madre dal Cielo lo abbia protetto. Sí, biso-gna sempre pensare che tutto vada bene.

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canto alla sorella, posando adagio le grosse scarpe sulpavimento lucido. Sopra una delle panche, insieme adun ricoverato assai vecchio, il quale aveva una testapendente scossa da un tremore, sedeva una giovine don-na e allattava, coprendosi la mammella col fazzoletto,un bambino di poche settimane che certamente ella eravenuta a mostrare per la prima volta a quel nonno.

— I figli di Gabriella, che meraviglia! – ricordò Or-tensia. – Anche l’ultimo, Sisto. Sai che ha quasi dueanni? Il tempo vola. Tre figli, e lei è sempre un bel fiore.Può metterne al mondo quanti vuole; si trovano nellavita un nido bene imbottito. Aurelio s’è già fatto un pa-trimonio. Anche lui col metallo della morte, direbbeMarchino. Ha messe le mani non so in quante industrie.Il brevetto dell’invenzione, da solo, è un filone di oro.Per una cosuccia da niente, pare, un gingillino.

— Sí, una spoletta. Quella cosa che fa scoppiare iproiettili d’artiglieria.

— E che cosa pensi di Graziano? Se fosse viva la po-vera Claudia, passerebbe brutti giorni. Il vecchio Asca-nio vorrebbe andare al fronte a cercare il nipote. Cheuomo! Sempre di ferro.

— Se a Graziano fosse accaduta una disgrazia, proba-bilmente se ne avrebbe notizia.

— Cosí ho detto ai suoi. Ma anche quel ragazzo èstrano: poteva essere ufficiale, non ha voluto; aveva unnome e lo ha nascosto; è un soldato qualunque. Speria-mo che sua madre dal Cielo lo abbia protetto. Sí, biso-gna sempre pensare che tutto vada bene.

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Page 517: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

Entrò nel parlatorio la monaca direttrice della sarto-ria; subito cercò con gli occhi Aleramo e venne verso luicon mosse decise, impazienti, facendo garrire forte lemolte pieghe della sua gonna pesante e tintinnare il ro-sario attaccato alla cintola. – Vi avevo detto...! Sapetequanto lavoro abbiamo! Mi ero fidata di voi!

— Oh, suora! – protestò Ortensia ergendosi sulla per-sona con aria di dignità offesa. Ma Aleramo le posò unamano sul braccio perché tacesse e si calmasse; con lamonaca si scusò, riconoscendo di aver torto, sempreduro nei gesti e nel viso ma parlando come un inferioredisciplinato: – Madre, ora vengo subito.

La monaca tornò via senza dar segno di aver perdona-to e senza un segno di saluto alla signora. Questa, di-spettosamente, andò a prendere borsa e guanti dove liaveva lasciati; poi disse: – Oh senti, Ramo! Voglio chetu ti decida a lasciare questo spiacevole luogo. Che gu-sto ci provi? Vuoi far sempre lo stravagante. Metti giu-dizio una buona volta! – Desiderava che il fratello tor-nasse a vivere con lei; glielo aveva detto appena lo ave-va visto nell’ospizio; insisteva piú vivamente dopo laperdita dei figli, spiegando che per lei era anche unaquestione di decoro, poiché non le mancavano piú imezzi. La medesima idea che aveva Gabriella. Aleramoripeté il solito no, col capo, sorridendo con gli occhisenza ammollire la faccia; poiché Ortensia dava segnodi volersene andare in malo modo, corrucciata, le battécon la destra sopra una guancia, come se fossero ancora

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Entrò nel parlatorio la monaca direttrice della sarto-ria; subito cercò con gli occhi Aleramo e venne verso luicon mosse decise, impazienti, facendo garrire forte lemolte pieghe della sua gonna pesante e tintinnare il ro-sario attaccato alla cintola. – Vi avevo detto...! Sapetequanto lavoro abbiamo! Mi ero fidata di voi!

— Oh, suora! – protestò Ortensia ergendosi sulla per-sona con aria di dignità offesa. Ma Aleramo le posò unamano sul braccio perché tacesse e si calmasse; con lamonaca si scusò, riconoscendo di aver torto, sempreduro nei gesti e nel viso ma parlando come un inferioredisciplinato: – Madre, ora vengo subito.

La monaca tornò via senza dar segno di aver perdona-to e senza un segno di saluto alla signora. Questa, di-spettosamente, andò a prendere borsa e guanti dove liaveva lasciati; poi disse: – Oh senti, Ramo! Voglio chetu ti decida a lasciare questo spiacevole luogo. Che gu-sto ci provi? Vuoi far sempre lo stravagante. Metti giu-dizio una buona volta! – Desiderava che il fratello tor-nasse a vivere con lei; glielo aveva detto appena lo ave-va visto nell’ospizio; insisteva piú vivamente dopo laperdita dei figli, spiegando che per lei era anche unaquestione di decoro, poiché non le mancavano piú imezzi. La medesima idea che aveva Gabriella. Aleramoripeté il solito no, col capo, sorridendo con gli occhisenza ammollire la faccia; poiché Ortensia dava segnodi volersene andare in malo modo, corrucciata, le battécon la destra sopra una guancia, come se fossero ancora

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i giovani fratelli di un tempo: – No, Teta, non dobbiamolitigare.

Pronta a rischiararsi, ella gli prese e strapazzò quellamano: – Ti manderò Ludovico. È piú forte di te, non facomplimenti e ti porterà via. – Uscirono nell’atrio, si sa-lutarono come avrebbero fatto sulla soglia di un palazzoavito. Con gesto discreto Ortensia diede una lauta man-cia al portiere, il quale si sberrettò solennemente; poiraggiunse l’automobile che aspettava.

Con le lunghe gambe arrugginite dall’età Aleramosalí piú presto che poté lo scalone nudo e grigio; entratoin fretta nello stanzone dei sarti, ove stavano a lavorarealcune suore e molti vecchi, passò davanti alla direttrice,seduta ad una tavola messa sopra un palco come unacattedra; le fece un atto d’obbedienza col capo e con lespalle, che non ebbe risposta; quindi ripigliò il lavorosuo, di tagliare con enormi forbici, piano piano, nelladura tela delle uniformi, molte giacche in una volta. Cisi era messo, dopo aver guardata la pendola appesa almuro, con l’impegno di chi vuol riguadagnare il tempoperduto. Dai finestroni entrava la luce della campagna,vivamente colorata dal sole calante che non si vedeva;entrava un’aria odorosa. Pur badando con cura alla suaopera, il vecchio pensava al figlio di Claudia, che pote-va essere ferito gravemente o prigioniero od aver lascia-ta la vita nel fuoco che prendeva tante vite. Pensava aifigli di Ortensia, rimasti sulle montagne, vicini ai luoghidei loro combattimenti, nei cimiteri di guerra ove le filedei tumuli tutti eguali dovevano ancora dar l’idea di

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i giovani fratelli di un tempo: – No, Teta, non dobbiamolitigare.

Pronta a rischiararsi, ella gli prese e strapazzò quellamano: – Ti manderò Ludovico. È piú forte di te, non facomplimenti e ti porterà via. – Uscirono nell’atrio, si sa-lutarono come avrebbero fatto sulla soglia di un palazzoavito. Con gesto discreto Ortensia diede una lauta man-cia al portiere, il quale si sberrettò solennemente; poiraggiunse l’automobile che aspettava.

Con le lunghe gambe arrugginite dall’età Aleramosalí piú presto che poté lo scalone nudo e grigio; entratoin fretta nello stanzone dei sarti, ove stavano a lavorarealcune suore e molti vecchi, passò davanti alla direttrice,seduta ad una tavola messa sopra un palco come unacattedra; le fece un atto d’obbedienza col capo e con lespalle, che non ebbe risposta; quindi ripigliò il lavorosuo, di tagliare con enormi forbici, piano piano, nelladura tela delle uniformi, molte giacche in una volta. Cisi era messo, dopo aver guardata la pendola appesa almuro, con l’impegno di chi vuol riguadagnare il tempoperduto. Dai finestroni entrava la luce della campagna,vivamente colorata dal sole calante che non si vedeva;entrava un’aria odorosa. Pur badando con cura alla suaopera, il vecchio pensava al figlio di Claudia, che pote-va essere ferito gravemente o prigioniero od aver lascia-ta la vita nel fuoco che prendeva tante vite. Pensava aifigli di Ortensia, rimasti sulle montagne, vicini ai luoghidei loro combattimenti, nei cimiteri di guerra ove le filedei tumuli tutti eguali dovevano ancora dar l’idea di

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compagnie o reggimenti. Pensava al bollettino dellagiornata, che una suora avrebbe letto nel refettorio dopoil Benedicite. Ma presto, tra i movimenti misurati diquanti lavoravano con lui, tra i consueti rumori lievi,egli s’immerse nel suo compito, un poco piú affrettatodel solito. Ogni altra cosa, le immagini della vita chestava, cosí vasta, intorno all’ospizio, – la campagna, lacittà, la guerra, Ortensia, tutti i morti ed i vivi – si feceronella sua mente lontane, si confusero, svanirono intera-mente. E tornò a vivere in lui il pensiero che gli eracompagno in ogni ora della giornata, nello scorrereeguale del tempo, di mese in mese, di anno in anno.

Risentiva Fulvia vivente, ma non nell’esistenza cheella aveva vissuta; la vedeva col suo viso giovine, nonpiú cattiva né buona; la vedeva sola. Non era che unacreatura. Una creatura ch’egli aveva tolta dal mondo.Egli non aveva capita la colpa di aver troncata quellavita, quando lo avevano condannato gli altri; poi si eracondannato da sé, dopo che gli altri avevano perdonatoo dimenticato. Si puniva ogni giorno. L’espiazione nonera l’ospizio: era quel volersi castigare, era il rimaneresempre legato al pensiero della donna da lui uccisa, erail ripetersi sempre che non doveva ucciderla.

Fulvia. Una donna che aveva avuto questo nome. Perlui solo era ancora viva. Egli l’avrebbe tenuta viva fin-ché non venisse anche per lui la fine. No, non si sarebbemai allontanato dall’ospizio finché non lo portasserovia: come, ad uno ad uno, erano portati via tutti gli altrivecchi.

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compagnie o reggimenti. Pensava al bollettino dellagiornata, che una suora avrebbe letto nel refettorio dopoil Benedicite. Ma presto, tra i movimenti misurati diquanti lavoravano con lui, tra i consueti rumori lievi,egli s’immerse nel suo compito, un poco piú affrettatodel solito. Ogni altra cosa, le immagini della vita chestava, cosí vasta, intorno all’ospizio, – la campagna, lacittà, la guerra, Ortensia, tutti i morti ed i vivi – si feceronella sua mente lontane, si confusero, svanirono intera-mente. E tornò a vivere in lui il pensiero che gli eracompagno in ogni ora della giornata, nello scorrereeguale del tempo, di mese in mese, di anno in anno.

Risentiva Fulvia vivente, ma non nell’esistenza cheella aveva vissuta; la vedeva col suo viso giovine, nonpiú cattiva né buona; la vedeva sola. Non era che unacreatura. Una creatura ch’egli aveva tolta dal mondo.Egli non aveva capita la colpa di aver troncata quellavita, quando lo avevano condannato gli altri; poi si eracondannato da sé, dopo che gli altri avevano perdonatoo dimenticato. Si puniva ogni giorno. L’espiazione nonera l’ospizio: era quel volersi castigare, era il rimaneresempre legato al pensiero della donna da lui uccisa, erail ripetersi sempre che non doveva ucciderla.

Fulvia. Una donna che aveva avuto questo nome. Perlui solo era ancora viva. Egli l’avrebbe tenuta viva fin-ché non venisse anche per lui la fine. No, non si sarebbemai allontanato dall’ospizio finché non lo portasserovia: come, ad uno ad uno, erano portati via tutti gli altrivecchi.

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Graziano era ospite della sorella. Era un caporale conuna vecchia uniforme indosso; aveva l’occhio contentoe tranquillo di un convalescente che si sentiva tornare leforze. Dopo giorni di pioggia brillava il sole di autunno;il palazzetto era nuovo, in un quartiere di ricchi; nel va-sto giardino si udivano le voci dei figli di Gabriella,come gridi d’uccelli. Sul Piave Graziano aveva avutauna gamba spezzata da una grossa scheggia; i medicierano riusciti a salvarlo dall’amputazione, ma in queimesi era dovuto passare da un ospedale all’altro lascian-dosi riaprir la ferita e spezzare l’osso un’altra volta, sop-portando poi il tormento di cure d’ogni specie. Ora eraveramente guarito e non si serviva nemmeno piú del ba-stone. E la guerra, a quanto s’indovinava, era prossimaalla fine.

Attraverso legioni di morti il giovine rientrava neltempo di pace, che gli sembrava meravigliosamente si-curo. Di essere vivo aveva anche una lieve ombra di ri-morso, sebbene sapesse di non aver fatto niente perscampare. Era stato uno dei tanti che in ferrovia andava-no da un settore all’altro affacciati ai carri bestiame, epoi nell’ozio delle trincee non badavano ai giorni chepassavano; uno di coloro che al buio, sotto il peso delfardello, marciavano in ranghi silenziosi per avvicinarsiai luoghi dei combattimenti, di cui vedevano le vampe eudivano i tuoni; aspettando di salire a rincalzo, si am-mucchiavano dov’era un po’ di riparo, ed infine dalle

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Graziano era ospite della sorella. Era un caporale conuna vecchia uniforme indosso; aveva l’occhio contentoe tranquillo di un convalescente che si sentiva tornare leforze. Dopo giorni di pioggia brillava il sole di autunno;il palazzetto era nuovo, in un quartiere di ricchi; nel va-sto giardino si udivano le voci dei figli di Gabriella,come gridi d’uccelli. Sul Piave Graziano aveva avutauna gamba spezzata da una grossa scheggia; i medicierano riusciti a salvarlo dall’amputazione, ma in queimesi era dovuto passare da un ospedale all’altro lascian-dosi riaprir la ferita e spezzare l’osso un’altra volta, sop-portando poi il tormento di cure d’ogni specie. Ora eraveramente guarito e non si serviva nemmeno piú del ba-stone. E la guerra, a quanto s’indovinava, era prossimaalla fine.

Attraverso legioni di morti il giovine rientrava neltempo di pace, che gli sembrava meravigliosamente si-curo. Di essere vivo aveva anche una lieve ombra di ri-morso, sebbene sapesse di non aver fatto niente perscampare. Era stato uno dei tanti che in ferrovia andava-no da un settore all’altro affacciati ai carri bestiame, epoi nell’ozio delle trincee non badavano ai giorni chepassavano; uno di coloro che al buio, sotto il peso delfardello, marciavano in ranghi silenziosi per avvicinarsiai luoghi dei combattimenti, di cui vedevano le vampe eudivano i tuoni; aspettando di salire a rincalzo, si am-mucchiavano dov’era un po’ di riparo, ed infine dalle

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trincee scattavano su nell’istante prefisso, si gettavanosul terreno impennacchiato di esplosioni, frustato dallepallottole. Molte volte aveva detto a se medesimo «Traqualche momento non sarai piú vivo».

Il caporale mitragliere Farra Graziano. Nella compa-gnia si sapeva che Avanzo era un calzolaio e Peretti ungarzone di molino, ma nessuno sapeva che questo Farraavesse scritti libri. Gli era piaciuto molto vivere insiemea uomini di ogni condizione, tutti la stessa vita, nellaquale i guai erano per tutti press’a poco eguali: ingrana-to nel meccanismo dell’obbedienza, passivo fuorché neigesti limitati e scarsi della propria azione di combatten-te, dato a quel gran fatto tanto piú importante che la vitadi ciascuno. Se non per mandar notizie a casa, non ave-va piú scritta una riga; molte volte gli era parso di nonpensare piú. Era vissuto cosí piú di tre anni. Quandoaveva avute le licenze, nelle giornate senza nemici, neisonni non molestati da calci nel dorso né da razzi illumi-nanti, nell’aria senza colpi, gli era sembrato di trovarequalcosa d’inerte e d’inutile. Forse in guerra, come tantialtri, era stato ripreso da una passione antica quanto ilgenere umano, che faceva amare quel vivere a cieloaperto, le armi, le astuzie guerresche, e faceva odiare inemici. Ricordando ciò che i suoi occhi avevan visto, ri-pensava: «Un’altura non ha neanche un nome, è la quota128; essa sparge gas velenosi, la radono i raggi d’accia-io delle mitragliatrici, è coperta di fuoco, produce orroredolore morte; ma si dice a masse di uomini: – Doveteandarvi, prenderla! – e questi uomini vi s’avventano:

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trincee scattavano su nell’istante prefisso, si gettavanosul terreno impennacchiato di esplosioni, frustato dallepallottole. Molte volte aveva detto a se medesimo «Traqualche momento non sarai piú vivo».

Il caporale mitragliere Farra Graziano. Nella compa-gnia si sapeva che Avanzo era un calzolaio e Peretti ungarzone di molino, ma nessuno sapeva che questo Farraavesse scritti libri. Gli era piaciuto molto vivere insiemea uomini di ogni condizione, tutti la stessa vita, nellaquale i guai erano per tutti press’a poco eguali: ingrana-to nel meccanismo dell’obbedienza, passivo fuorché neigesti limitati e scarsi della propria azione di combatten-te, dato a quel gran fatto tanto piú importante che la vitadi ciascuno. Se non per mandar notizie a casa, non ave-va piú scritta una riga; molte volte gli era parso di nonpensare piú. Era vissuto cosí piú di tre anni. Quandoaveva avute le licenze, nelle giornate senza nemici, neisonni non molestati da calci nel dorso né da razzi illumi-nanti, nell’aria senza colpi, gli era sembrato di trovarequalcosa d’inerte e d’inutile. Forse in guerra, come tantialtri, era stato ripreso da una passione antica quanto ilgenere umano, che faceva amare quel vivere a cieloaperto, le armi, le astuzie guerresche, e faceva odiare inemici. Ricordando ciò che i suoi occhi avevan visto, ri-pensava: «Un’altura non ha neanche un nome, è la quota128; essa sparge gas velenosi, la radono i raggi d’accia-io delle mitragliatrici, è coperta di fuoco, produce orroredolore morte; ma si dice a masse di uomini: – Doveteandarvi, prenderla! – e questi uomini vi s’avventano:

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tanti ne cadono che gli altri riescono a passare, e tutti vicercano una vita piú grande di loro, che duri dopo lamorte».

Adesso che il fratello era con lei, in salvo, la floridaGabriella si mostrava quasi felice, ma alla sua maniera,con la calma, con lo sguardo serio che erano del padreloro. Dalla prodigiosa fortuna Aurelio non era statocambiato. Certamente egli non aveva piú quel fare di in-namorato delle montagne né di modesto ingegnere; ilsuccesso, i guadagni, l’autorità acquistata, anche dal suoaspetto si capivano: era immerso in pensieri nuovi ed inun lavoro piú intenso poiché preparava già la trasforma-zione delle sue officine per il tempo di pace; tuttavia nelfondo del suo carattere erano rimaste la semplicità unpoco rustica e la vena d’ironia che in molte cose impor-tanti gli faceva vedere anche uno scherzo. Canzonavatalvolta Graziano dicendogli: – Beato te che degli affarinon vuoi saperne. Camminerai sempre piú leggero.

Graziano era incapace di pensare al denaro. Del resto,ne aveva ancora abbastanza. In casa egli stava volentiericoi bambini, li cercava nel giardino: Claudina aveva seianni, era una piccola principessa, la quale ignorava or-mai che si potesse vivere senza una grande casa, ungiardino, belle vesti; Emanuele era impetuoso, correva,strepitava finché non cadesse addormentato; l’ultimo ri-deva sempre, con gli occhi chiari di Aurelio. La guerra,ma essi erano fioriti egualmente; l’ultimo c’era nato, neltempo della guerra. Ne sapevano poco anche i piú gran-dicelli, tuttavia mostravano un interesse inesauribile per

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tanti ne cadono che gli altri riescono a passare, e tutti vicercano una vita piú grande di loro, che duri dopo lamorte».

Adesso che il fratello era con lei, in salvo, la floridaGabriella si mostrava quasi felice, ma alla sua maniera,con la calma, con lo sguardo serio che erano del padreloro. Dalla prodigiosa fortuna Aurelio non era statocambiato. Certamente egli non aveva piú quel fare di in-namorato delle montagne né di modesto ingegnere; ilsuccesso, i guadagni, l’autorità acquistata, anche dal suoaspetto si capivano: era immerso in pensieri nuovi ed inun lavoro piú intenso poiché preparava già la trasforma-zione delle sue officine per il tempo di pace; tuttavia nelfondo del suo carattere erano rimaste la semplicità unpoco rustica e la vena d’ironia che in molte cose impor-tanti gli faceva vedere anche uno scherzo. Canzonavatalvolta Graziano dicendogli: – Beato te che degli affarinon vuoi saperne. Camminerai sempre piú leggero.

Graziano era incapace di pensare al denaro. Del resto,ne aveva ancora abbastanza. In casa egli stava volentiericoi bambini, li cercava nel giardino: Claudina aveva seianni, era una piccola principessa, la quale ignorava or-mai che si potesse vivere senza una grande casa, ungiardino, belle vesti; Emanuele era impetuoso, correva,strepitava finché non cadesse addormentato; l’ultimo ri-deva sempre, con gli occhi chiari di Aurelio. La guerra,ma essi erano fioriti egualmente; l’ultimo c’era nato, neltempo della guerra. Ne sapevano poco anche i piú gran-dicelli, tuttavia mostravano un interesse inesauribile per

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il fratello della mamma, questo soldato che veniva di là.Egli non si stancava di guardarle, ascoltarle, le creaturenuove che conoscevano soltanto un mondo benigno.Anche il vecchio Ascanio stava sovente in compagniadei fanciulli, ai quali l’alterezza della sua persona, ilviso fiero non facevano alcun effetto. Sempre Grazianorivedeva con piacere, alla catena dell’orologio del non-no, la medaglia che gli ricordava la stamperia di Rebbia.Gli occhi del vecchio mandavano lampi, ora che era ve-nuta l’ultima battaglia e si vedeva giorno per giorno di-segnarsi la vittoria immensa. L’aveva aspettata come segli fosse stata promessa quando era giovine. – Ora ve-drai che Italia avremo!

Se Graziano usciva da solo a girare tutta la città, Tori-no gli pareva ancora strana, cosí intatta, un poco vuota,circondata di officine che lavoravano notte e giorno. Perprima cosa era andato a guardare la finestra della came-ra dove sua madre si era spenta; un’altra volta era salitoin collina a riveder dall’esterno gli edifizi della clinica,perfettamente eguali a ciò che erano quando là dentrostava suo padre. Ma il passato era sparso nella cittàcome l’aria, come la luce, gli sembrava scritto su tutte lecose. Non essendo capace di separarsi dall’uniforme,andava attorno col berrettuccio, con quella roba fatta dicattiva stoffa, poveri panni stinti che aveva trascinatisulla terra in ore tremende e dove si vedevano assaibene i rammendi fatti da lui. Imbruttito dalle sofferenze,veniva ora ripigliando un aspetto migliore, con l’espres-

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il fratello della mamma, questo soldato che veniva di là.Egli non si stancava di guardarle, ascoltarle, le creaturenuove che conoscevano soltanto un mondo benigno.Anche il vecchio Ascanio stava sovente in compagniadei fanciulli, ai quali l’alterezza della sua persona, ilviso fiero non facevano alcun effetto. Sempre Grazianorivedeva con piacere, alla catena dell’orologio del non-no, la medaglia che gli ricordava la stamperia di Rebbia.Gli occhi del vecchio mandavano lampi, ora che era ve-nuta l’ultima battaglia e si vedeva giorno per giorno di-segnarsi la vittoria immensa. L’aveva aspettata come segli fosse stata promessa quando era giovine. – Ora ve-drai che Italia avremo!

Se Graziano usciva da solo a girare tutta la città, Tori-no gli pareva ancora strana, cosí intatta, un poco vuota,circondata di officine che lavoravano notte e giorno. Perprima cosa era andato a guardare la finestra della came-ra dove sua madre si era spenta; un’altra volta era salitoin collina a riveder dall’esterno gli edifizi della clinica,perfettamente eguali a ciò che erano quando là dentrostava suo padre. Ma il passato era sparso nella cittàcome l’aria, come la luce, gli sembrava scritto su tutte lecose. Non essendo capace di separarsi dall’uniforme,andava attorno col berrettuccio, con quella roba fatta dicattiva stoffa, poveri panni stinti che aveva trascinatisulla terra in ore tremende e dove si vedevano assaibene i rammendi fatti da lui. Imbruttito dalle sofferenze,veniva ora ripigliando un aspetto migliore, con l’espres-

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sione decisa, con la tempra che la vita di guerra gli ave-va data.

Rivide Fenice. Ella lo baciò come una sorella espan-siva. Nell’inverno un’epidemia che aveva uccisa moltagente, si era presa suo marito, come degnandosi di co-gliere anche una vittima tanto fragile. Il legame infeliceed assurdo era troncato. Ma la morte, dove passa, lasciail segno nei sopravviventi. Fenice si sentiva adesso lavedova di quell’uomo, legata a lui dal lutto che portava.Suo figlio aveva ormai sedici anni, era un lungo ragazzopieno di buona volontà; ed ella non guardava che il suoavvenire. Cambiata casa, abitavano un piccolo apparta-mento abbastanza allegro; Fenice, pur lavorando sem-pre, aveva smessa la vita studentesca. Di recente, attra-verso la Croce Rossa, le era giunta una lettera di Augu-sta Weiss, la prima. Pregava d’interessarsi di Rüdiger:«Nel paese dove suo padre ha fatti i bei lavori e passateore sublimi, egli sta prigioniero. Non posso comprende-re se sia rassegnato. Io mi sono rassegnata a tutto, anchea ciò che verrà in seguito. Povera Austria! E poveri noi.Che sarà di Rüdiger, che sarà della nostra famiglia? Ioero tanto sola in questi anni. Sono tanto sola». Conser-vava sempre l’appartamento presso l’università, con tut-ti i vecchi tesori. Pensava di venire in Italia appena pos-sibile, ma per prendere il figlio. E poi chissà? «Nellamia mente tu sei sempre la cara piccola Fenice. Hai ri-cordata qualche volta l’amica di altri tempi? Spero chevivrai felicemente come meriti, col tuo ragazzo; ma misembra che adesso siamo tutti delle cose da nulla. Voi

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sione decisa, con la tempra che la vita di guerra gli ave-va data.

Rivide Fenice. Ella lo baciò come una sorella espan-siva. Nell’inverno un’epidemia che aveva uccisa moltagente, si era presa suo marito, come degnandosi di co-gliere anche una vittima tanto fragile. Il legame infeliceed assurdo era troncato. Ma la morte, dove passa, lasciail segno nei sopravviventi. Fenice si sentiva adesso lavedova di quell’uomo, legata a lui dal lutto che portava.Suo figlio aveva ormai sedici anni, era un lungo ragazzopieno di buona volontà; ed ella non guardava che il suoavvenire. Cambiata casa, abitavano un piccolo apparta-mento abbastanza allegro; Fenice, pur lavorando sem-pre, aveva smessa la vita studentesca. Di recente, attra-verso la Croce Rossa, le era giunta una lettera di Augu-sta Weiss, la prima. Pregava d’interessarsi di Rüdiger:«Nel paese dove suo padre ha fatti i bei lavori e passateore sublimi, egli sta prigioniero. Non posso comprende-re se sia rassegnato. Io mi sono rassegnata a tutto, anchea ciò che verrà in seguito. Povera Austria! E poveri noi.Che sarà di Rüdiger, che sarà della nostra famiglia? Ioero tanto sola in questi anni. Sono tanto sola». Conser-vava sempre l’appartamento presso l’università, con tut-ti i vecchi tesori. Pensava di venire in Italia appena pos-sibile, ma per prendere il figlio. E poi chissà? «Nellamia mente tu sei sempre la cara piccola Fenice. Hai ri-cordata qualche volta l’amica di altri tempi? Spero chevivrai felicemente come meriti, col tuo ragazzo; ma misembra che adesso siamo tutti delle cose da nulla. Voi

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dite briciole». Fenice aspettava il permesso d’andar a vi-sitare il prigioniero nel campo dov’era.

Il casale dei Mazzè, nella pianura, era come prima;appena un poco piú trascurato. La madre di Valente vo-leva mostrare il brio d’una volta ma si era affievolita,pareva piú piccola. – Che cosa vi avevo detto? È ritor-nato. – Parlava di Valente. Nell’epidemia era morta unadelle sue sorelle, la pittrice, ed in quella occasione egliera ricomparso. Cosí la famiglia aveva saputo che dinuovo viveva in città, lavorando in un’officina dove sifabbricavano proiettili d’artiglieria. Adesso continuava astar da sé. – Ma è tornato – insisteva la signora. – Iosono tranquilla. – Facendo poi il giro intorno al casale arivedere l’orto dove Nego aveva coltivati i cavoli, Gra-ziano si diceva che il compagno era pur dovuto rientrarenella vita di tutti, nel dolore della sua famiglia comenella sorte del suo paese. Sorridendo immaginavaquest’uomo, con la testaccia riccia piena d’idee astrattee di negazioni, mentre lavorava al tornio le belle ogivedelle granate che la guerra aspettava, quest’uomo chenon credeva alla storia e voleva tenersene fuori.

Spesso Graziano provava ancora uno stupore di anda-re e venire da solo senza che nessuno gli comandasse, dipoter pensare a se stesso; aveva anche un’impressioned’ozio, si vedeva innanzi un tempo vuoto che bisognavariempire. Avrebbe ricominciato a scrivere. Ora aveva insé, per esprimerlo, un mondo piú forte. A Torino avevaappreso che combattendo era morto, già da due anni,Bruto Corese l’attore. Lo rammentava come lo aveva vi-

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dite briciole». Fenice aspettava il permesso d’andar a vi-sitare il prigioniero nel campo dov’era.

Il casale dei Mazzè, nella pianura, era come prima;appena un poco piú trascurato. La madre di Valente vo-leva mostrare il brio d’una volta ma si era affievolita,pareva piú piccola. – Che cosa vi avevo detto? È ritor-nato. – Parlava di Valente. Nell’epidemia era morta unadelle sue sorelle, la pittrice, ed in quella occasione egliera ricomparso. Cosí la famiglia aveva saputo che dinuovo viveva in città, lavorando in un’officina dove sifabbricavano proiettili d’artiglieria. Adesso continuava astar da sé. – Ma è tornato – insisteva la signora. – Iosono tranquilla. – Facendo poi il giro intorno al casale arivedere l’orto dove Nego aveva coltivati i cavoli, Gra-ziano si diceva che il compagno era pur dovuto rientrarenella vita di tutti, nel dolore della sua famiglia comenella sorte del suo paese. Sorridendo immaginavaquest’uomo, con la testaccia riccia piena d’idee astrattee di negazioni, mentre lavorava al tornio le belle ogivedelle granate che la guerra aspettava, quest’uomo chenon credeva alla storia e voleva tenersene fuori.

Spesso Graziano provava ancora uno stupore di anda-re e venire da solo senza che nessuno gli comandasse, dipoter pensare a se stesso; aveva anche un’impressioned’ozio, si vedeva innanzi un tempo vuoto che bisognavariempire. Avrebbe ricominciato a scrivere. Ora aveva insé, per esprimerlo, un mondo piú forte. A Torino avevaappreso che combattendo era morto, già da due anni,Bruto Corese l’attore. Lo rammentava come lo aveva vi-

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sto l’ultima volta, sulla scena a recitare e poi tra un attoe l’altro in camerino, con quel viso dipinto, con un pom-poso costume indosso; paragonava le pareti di carta, lecose posticce, la vita finta, con la guerra, roccia ferrofuoco sangue, nella quale era destinato a sparire. E loriudiva dirgli quelle parole «Mirare in alto», ma esse gliparlavano ora diversamente, come se la sua morte neavesse rivelato il vero senso.

Gran feste aveva fatte a Graziano lo zio Metello. Pri-ma era andato piú volte a visitarlo negli ospedali; adessovoleva rivederlo sovente; gli disse un giorno, parlandobrusco come quando era commosso: – Ora penserai adavere una famiglia tua. Il nome Farra non deve perdersi.– Il giovine rispose soltanto con un sorriso, ma avevanell’animo uno strano amore. Aveva cominciato in guer-ra a pensare ad una donna, col desiderio di averla persempre e di averne dei figli. Non sapeva chi fosse, dovefosse, né l’aveva mai incontrata, ma la sentiva vivere;vagamente la vedeva, alta, ben fatta, con movenze nobi-li e franche; vedeva un volto bianco nel quale gli occhiscuri lietamente ardevano. Ne conosceva anche il carat-tere. Dopo le giornate delle offensive, che sembravanodi un’altra esistenza, di febbre, di angoscia, di esaltazio-ne, di rinunzia a vivere, quando ancora una volta si ri-trovava vivo con tutto il suo sangue nelle arterie, cerca-va col pensiero quella donna. Non dubitava che a suotempo l’avrebbe trovata. E sapeva bene a quale bontà, aquale animo sincero, a quale amore di cose alte ella so-migliava: a sua madre.

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sto l’ultima volta, sulla scena a recitare e poi tra un attoe l’altro in camerino, con quel viso dipinto, con un pom-poso costume indosso; paragonava le pareti di carta, lecose posticce, la vita finta, con la guerra, roccia ferrofuoco sangue, nella quale era destinato a sparire. E loriudiva dirgli quelle parole «Mirare in alto», ma esse gliparlavano ora diversamente, come se la sua morte neavesse rivelato il vero senso.

Gran feste aveva fatte a Graziano lo zio Metello. Pri-ma era andato piú volte a visitarlo negli ospedali; adessovoleva rivederlo sovente; gli disse un giorno, parlandobrusco come quando era commosso: – Ora penserai adavere una famiglia tua. Il nome Farra non deve perdersi.– Il giovine rispose soltanto con un sorriso, ma avevanell’animo uno strano amore. Aveva cominciato in guer-ra a pensare ad una donna, col desiderio di averla persempre e di averne dei figli. Non sapeva chi fosse, dovefosse, né l’aveva mai incontrata, ma la sentiva vivere;vagamente la vedeva, alta, ben fatta, con movenze nobi-li e franche; vedeva un volto bianco nel quale gli occhiscuri lietamente ardevano. Ne conosceva anche il carat-tere. Dopo le giornate delle offensive, che sembravanodi un’altra esistenza, di febbre, di angoscia, di esaltazio-ne, di rinunzia a vivere, quando ancora una volta si ri-trovava vivo con tutto il suo sangue nelle arterie, cerca-va col pensiero quella donna. Non dubitava che a suotempo l’avrebbe trovata. E sapeva bene a quale bontà, aquale animo sincero, a quale amore di cose alte ella so-migliava: a sua madre.

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Metello era di nuovo solo. Aveva presi a pigione unacamera ed uno stanzino presso una piccola famiglia dioperai, in quella parte della città che un tempo avevapreferita, là dove si vedeva il Po uscire in campagna; mala casa, ancora sperduta in mezzo a prati, era ben piúlontana che quelle da lui abitate in altri anni, poiché lacittà era cresciuta molto. Sabina, mentre stavano ancorainsieme, si era allontanata dal suo compagno come se loavesse visto sotto una luce diversa. S’era data intera-mente alla chiesa.

Doveva avervi ricevuti avvisi e comandi segreti. Tor-mentata dal rimorso della lunga unione illegittima e nonbenedetta, aveva chiesto a Metello di purificarla col ma-trimonio; ma egli, da troppo tempo, era avvezzo a consi-derar le cerimonie ed i vincoli tradizionali come cose in-compatibili col proprio carattere, con le proprie idee; glidispiacevano gli influssi misteriosi ai quali avrebbe do-vuto cedere; tutto ciò gli faceva temere un infiacchimen-to senile; aveva ricusato. Cosí, ripresi i libri, quei muc-chi di carte e giornali, i vecchi dipinti, se n’era andato.

Sopra una guancia di Metello, dalla stessa parte dovela sua fronte portava la cicatrice antica, si vedeva il se-gno della ferita di Zurigo, netto come il taglio d’unasciabola. Egli aveva raccontato di essere stato colpitoper caso da una scheggia di vetro. Nella nuova abitazio-ne aveva sistemata la sua roba alla peggio; sempre in vi-sta sul cassettone era la fotografia dei genitori da sposi,ormai pallida come se invece di persone in carne ed ossal’obiettivo avesse avuti dinanzi due fantasmi. Gli appi-

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Metello era di nuovo solo. Aveva presi a pigione unacamera ed uno stanzino presso una piccola famiglia dioperai, in quella parte della città che un tempo avevapreferita, là dove si vedeva il Po uscire in campagna; mala casa, ancora sperduta in mezzo a prati, era ben piúlontana che quelle da lui abitate in altri anni, poiché lacittà era cresciuta molto. Sabina, mentre stavano ancorainsieme, si era allontanata dal suo compagno come se loavesse visto sotto una luce diversa. S’era data intera-mente alla chiesa.

Doveva avervi ricevuti avvisi e comandi segreti. Tor-mentata dal rimorso della lunga unione illegittima e nonbenedetta, aveva chiesto a Metello di purificarla col ma-trimonio; ma egli, da troppo tempo, era avvezzo a consi-derar le cerimonie ed i vincoli tradizionali come cose in-compatibili col proprio carattere, con le proprie idee; glidispiacevano gli influssi misteriosi ai quali avrebbe do-vuto cedere; tutto ciò gli faceva temere un infiacchimen-to senile; aveva ricusato. Cosí, ripresi i libri, quei muc-chi di carte e giornali, i vecchi dipinti, se n’era andato.

Sopra una guancia di Metello, dalla stessa parte dovela sua fronte portava la cicatrice antica, si vedeva il se-gno della ferita di Zurigo, netto come il taglio d’unasciabola. Egli aveva raccontato di essere stato colpitoper caso da una scheggia di vetro. Nella nuova abitazio-ne aveva sistemata la sua roba alla peggio; sempre in vi-sta sul cassettone era la fotografia dei genitori da sposi,ormai pallida come se invece di persone in carne ed ossal’obiettivo avesse avuti dinanzi due fantasmi. Gli appi-

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gionava la camera un vecchio stipettaio che aveva tenu-ta bottega ed ora andava a lavorare a salario; sua mogliepreparava il vitto al pigionale; un figlio, legatore di libri,viveva in famiglia; e tutti si sentivano grandemente ono-rati d’avere in casa Metello Farra. Alla compagna chenon aveva piú, questi ripensava spesso, ricordandocome la sua vera casa quell’altra. Sabina gli scriveva perle feste solenni.

Accadeva ora che Metello rifiutasse incarichi, si libe-rasse dagli impegni con qualche pretesto. La furiosapassione di muoversi, di lavorare non l’aveva piú; rima-neva in camera a leggicchiare; stava sul balcone a guar-dar la collina con le ville vecchiotte, un tratto del fiume,i prati nei quali le case operaie spuntavano sparsamente.Gli tornavano alla mente ore lontane, quando da altribalconi vedeva press’a poco le stesse cose, ed il suo ani-mo d’allora, ciò che credeva e sperava. Adesso avevacinquantaquattro anni: il meglio della sua esistenza erastato inutile, pensiero, parole, fatiche, lotte, rischi, car-cere? Oggi egli era piú che mai padrone di sé, potevafarne quel che voleva di se stesso; come non desideravavantaggi, cosí non temeva danni; non temeva niente, inuna rivoluzione si sarebbe potuto gettare corpo ed ani-ma. Ma la fiducia d’una volta non c’era piú. Aveva pen-sato, insomma, che si potesse raddrizzar le cose, cam-biar la vita, ricostruire la società umana con la pura ra-gione; al mondo, qualunque aspetto prendesse la civiltàcoi suoi meccanismi sempre piú ingegnosi, avrebberoinvece comandato sempre gli istinti primordiali, le pas-

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gionava la camera un vecchio stipettaio che aveva tenu-ta bottega ed ora andava a lavorare a salario; sua mogliepreparava il vitto al pigionale; un figlio, legatore di libri,viveva in famiglia; e tutti si sentivano grandemente ono-rati d’avere in casa Metello Farra. Alla compagna chenon aveva piú, questi ripensava spesso, ricordandocome la sua vera casa quell’altra. Sabina gli scriveva perle feste solenni.

Accadeva ora che Metello rifiutasse incarichi, si libe-rasse dagli impegni con qualche pretesto. La furiosapassione di muoversi, di lavorare non l’aveva piú; rima-neva in camera a leggicchiare; stava sul balcone a guar-dar la collina con le ville vecchiotte, un tratto del fiume,i prati nei quali le case operaie spuntavano sparsamente.Gli tornavano alla mente ore lontane, quando da altribalconi vedeva press’a poco le stesse cose, ed il suo ani-mo d’allora, ciò che credeva e sperava. Adesso avevacinquantaquattro anni: il meglio della sua esistenza erastato inutile, pensiero, parole, fatiche, lotte, rischi, car-cere? Oggi egli era piú che mai padrone di sé, potevafarne quel che voleva di se stesso; come non desideravavantaggi, cosí non temeva danni; non temeva niente, inuna rivoluzione si sarebbe potuto gettare corpo ed ani-ma. Ma la fiducia d’una volta non c’era piú. Aveva pen-sato, insomma, che si potesse raddrizzar le cose, cam-biar la vita, ricostruire la società umana con la pura ra-gione; al mondo, qualunque aspetto prendesse la civiltàcoi suoi meccanismi sempre piú ingegnosi, avrebberoinvece comandato sempre gli istinti primordiali, le pas-

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sioni ataviche, le necessità brutali dell’esistenza. Forse,nel tempo, la vita umana girava sopra una linea chiusa,sopra un’invariabile orbita, come la terra.

Ogni mattina, risvegliandosi, egli si domandava qualedecisione avrebbe dovuto prendere, che fare, per metter-si d’accordo con se stesso. Non sapeva. Qualche voltaricordava suo fratello, seduto nello studio con l’occhioal microscopio, e le sue ricerche vane, il programma fal-lito della sua esistenza: ora stava dentro l’alveolo di ce-mento di un sotterraneo come in un armadio. Ma Sistoaveva almeno guariti infermi, lenite sofferenze. «Forse,– si diceva allora – anch’io sono stato un medico. Ho al-leviati dolori con l’illusione».

* * *

In questa città dove non era mai stata e che le parvemolto grande, venne l’Avventina. Da Donato Crivelli –il quale non s’era mosso da Santa Lucia – aveva appresoche Giusto era a Torino, in un ospedale militare. Dopoqualche tempo si era decisa al viaggio; aveva messe lepoche cose necessarie dentro un paniere scuro e lucido.Come non aveva mai mostrata una fresca giovinezza,cosí ora non appariva cambiata da questi altri anni tra-scorsi. Era sempre la stessa anche nel vestire monacale;in città s’era tolto il fazzoletto dal capo, sebbene cosí leparesse di non essere veramente vestita; i suoi capelliben ravviati non avevano un filo d’argento. Tra la bian-ca gente cittadina il suo viso nero dava un’impressione

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sioni ataviche, le necessità brutali dell’esistenza. Forse,nel tempo, la vita umana girava sopra una linea chiusa,sopra un’invariabile orbita, come la terra.

Ogni mattina, risvegliandosi, egli si domandava qualedecisione avrebbe dovuto prendere, che fare, per metter-si d’accordo con se stesso. Non sapeva. Qualche voltaricordava suo fratello, seduto nello studio con l’occhioal microscopio, e le sue ricerche vane, il programma fal-lito della sua esistenza: ora stava dentro l’alveolo di ce-mento di un sotterraneo come in un armadio. Ma Sistoaveva almeno guariti infermi, lenite sofferenze. «Forse,– si diceva allora – anch’io sono stato un medico. Ho al-leviati dolori con l’illusione».

* * *

In questa città dove non era mai stata e che le parvemolto grande, venne l’Avventina. Da Donato Crivelli –il quale non s’era mosso da Santa Lucia – aveva appresoche Giusto era a Torino, in un ospedale militare. Dopoqualche tempo si era decisa al viaggio; aveva messe lepoche cose necessarie dentro un paniere scuro e lucido.Come non aveva mai mostrata una fresca giovinezza,cosí ora non appariva cambiata da questi altri anni tra-scorsi. Era sempre la stessa anche nel vestire monacale;in città s’era tolto il fazzoletto dal capo, sebbene cosí leparesse di non essere veramente vestita; i suoi capelliben ravviati non avevano un filo d’argento. Tra la bian-ca gente cittadina il suo viso nero dava un’impressione

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Page 530: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

di vita forte e faceva immaginare campi assolati. Confu-sa, stordita, ella non voleva dar segno d’imbarazzo néchiedere la strada a nessuno, tenendosi a mente le istru-zioni ricevute. Andò ad alloggiare presso certe suorealle quali era raccomandata, in un vasto edifizio silen-zioso dove si educavano ragazze povere; vi passò unanotte, la mattina seguente ascoltò la messa e poi andò atrovare Giusto, dopo aver comprate delle arance da por-targli. La gente aveva un’aria contenta e ripeteva i nomidi Trieste e di Trento: i soldati italiani vi erano entrati.

Questo ospedale militare era allogato alla meglio inuna scuola pubblica; dalla facciata pendeva una delletante bandiere che si erano logorate e stinte rimanendoesposte giorno e notte dal principio della guerra.L’Avventina venne fatta aspettare al pianterreno in unlargo corridoio ov’erano già dei soldati convalescenti in-sieme ai loro visitatori; appartenevano alla scuola lepanche messe lungo le pareti ed i quadri raffiguranti ifunghi velenosi e le misure di capacità. Entrava dalle fi-nestre il sole. Dal fondo del corridoio la donna vide ve-nir innanzi uno di quei soldati malvestiti e pallidi, ilquale camminava come se da poco avesse imparato e te-messe ancora di sbagliare. Soltanto quando fu piú vici-no, ella riconobbe la quadratura della persona di Giusto,la forma del suo capo, i lineamenti duri del suo viso. Lepareva tuttavia di trovarsi davanti un altro uomo, chesempre fosse stato cosí scarno e debole.

— O Avventina, – gli disse abbozzando a fatica unsorriso – che fai qui?

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di vita forte e faceva immaginare campi assolati. Confu-sa, stordita, ella non voleva dar segno d’imbarazzo néchiedere la strada a nessuno, tenendosi a mente le istru-zioni ricevute. Andò ad alloggiare presso certe suorealle quali era raccomandata, in un vasto edifizio silen-zioso dove si educavano ragazze povere; vi passò unanotte, la mattina seguente ascoltò la messa e poi andò atrovare Giusto, dopo aver comprate delle arance da por-targli. La gente aveva un’aria contenta e ripeteva i nomidi Trieste e di Trento: i soldati italiani vi erano entrati.

Questo ospedale militare era allogato alla meglio inuna scuola pubblica; dalla facciata pendeva una delletante bandiere che si erano logorate e stinte rimanendoesposte giorno e notte dal principio della guerra.L’Avventina venne fatta aspettare al pianterreno in unlargo corridoio ov’erano già dei soldati convalescenti in-sieme ai loro visitatori; appartenevano alla scuola lepanche messe lungo le pareti ed i quadri raffiguranti ifunghi velenosi e le misure di capacità. Entrava dalle fi-nestre il sole. Dal fondo del corridoio la donna vide ve-nir innanzi uno di quei soldati malvestiti e pallidi, ilquale camminava come se da poco avesse imparato e te-messe ancora di sbagliare. Soltanto quando fu piú vici-no, ella riconobbe la quadratura della persona di Giusto,la forma del suo capo, i lineamenti duri del suo viso. Lepareva tuttavia di trovarsi davanti un altro uomo, chesempre fosse stato cosí scarno e debole.

— O Avventina, – gli disse abbozzando a fatica unsorriso – che fai qui?

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Anch’ella sorrideva, mostrando un poco tra le labbraasciutte i denti bianchissimi; lo guardava senza abbassa-re subito gli occhi com’era solita: – Proprio cosí lonta-no, e in mezzo al mare, doveva capitarti una disgrazia!

— Tanti altri ci stanno in fondo, a quel mare.— Sí, il Signore ha voluto salvarti.Giusto aveva combattuto di là dell’Adriatico; mentre

il suo reggimento veniva portato in patria, una notte ilpiroscafo aveva urtato in una mina errante ed era andatoa fondo. Egli ricordava poco: il sussulto del bastimento;il momento nel quale aveva respirato acqua inveced’aria e si era detto: «Ecco, Giusto, come è la tua mor-te»; lo svegliarsi al freddo in una scialuppa; poi giornatenell’ospedale d’una città calda piena di marinai; lunghiviaggi in treni ospedali, soffrendo, dormendo. Nel nau-fragio, senza saper come, aveva preso un colpo violentoal dorso ed era rimasto come paralitico. Vi era stato ilsospetto che fosse spezzata la colonna vertebrale, manon era. A Torino aveva ricominciato a reggersi in piedi;gli era stato insegnato a camminare come ad un bambi-no.

— Donato – domandò la donna – ti aveva mandati imiei saluti?

— Mi pare, ma erano difficili da leggere le lettere diDonato.

— A Santa Lucia il capo è lui, il vero padrone, ades-so. Lavora per tutti. Vedrai il podere migliorato, malgra-do i tempi.

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Anch’ella sorrideva, mostrando un poco tra le labbraasciutte i denti bianchissimi; lo guardava senza abbassa-re subito gli occhi com’era solita: – Proprio cosí lonta-no, e in mezzo al mare, doveva capitarti una disgrazia!

— Tanti altri ci stanno in fondo, a quel mare.— Sí, il Signore ha voluto salvarti.Giusto aveva combattuto di là dell’Adriatico; mentre

il suo reggimento veniva portato in patria, una notte ilpiroscafo aveva urtato in una mina errante ed era andatoa fondo. Egli ricordava poco: il sussulto del bastimento;il momento nel quale aveva respirato acqua inveced’aria e si era detto: «Ecco, Giusto, come è la tua mor-te»; lo svegliarsi al freddo in una scialuppa; poi giornatenell’ospedale d’una città calda piena di marinai; lunghiviaggi in treni ospedali, soffrendo, dormendo. Nel nau-fragio, senza saper come, aveva preso un colpo violentoal dorso ed era rimasto come paralitico. Vi era stato ilsospetto che fosse spezzata la colonna vertebrale, manon era. A Torino aveva ricominciato a reggersi in piedi;gli era stato insegnato a camminare come ad un bambi-no.

— Donato – domandò la donna – ti aveva mandati imiei saluti?

— Mi pare, ma erano difficili da leggere le lettere diDonato.

— A Santa Lucia il capo è lui, il vero padrone, ades-so. Lavora per tutti. Vedrai il podere migliorato, malgra-do i tempi.

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Page 532: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

Si erano seduti sopra una panca, lontani dagli altri,abbastanza distanti anche tra loro. Ella stava composta,tenendo in grembo le arance avvolte nel fazzoletto chenon portava piú in capo. Raccontava piano ciò che sape-va, di Dionisio che in Francia era stato chiamato alla vi-sita militare e riformato, e che non aveva mai piú scrit-to; della vecchia Marta, un poco svanita, che in casa diRegina seguitava a piangere facendo calze calze calze;parlò anche di Ghianda, il quale era stato trovato mortodavanti al cancello di una vigna, un giorno d’estate, co-ricato all’ombra con la testa sul suo sacco come quandostava a far la siesta. Le parole della donna mostravano aGiusto che quel mondo era veramente esistito ed esiste-va ancora. Piú di ogni altra cosa lo interessava quel va-gabondo, che s’era addormentato sotto un albero mentregli altri facevano la guerra.

Sempre composta e tranquilla l’Avventina infine glidomandò: – Lo sai che non ho piú mio padre? È stato unanno ad aprile. – Giusto non sapeva. Ella descrisse bre-vemente la malattia; poi, tenendo in viso a lui gli occhigrandi e scuri, disse come aveva governate da sola leterre lavorandole sempre insieme ai servitori vecchi, aragazze. Le buone braccia mancavano. Dappertutto ledonne facevano quel che potevano; ma quanta terra tra-scurata, mal coltivata! Tacque un poco, a prender corag-gio per quel che voleva dire. Soggiunse: – Io pensavo ate, ma nella guerra potevano ancora succedere tantecose... Ti ricordi la promessa che ci eravamo scambiata?

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Si erano seduti sopra una panca, lontani dagli altri,abbastanza distanti anche tra loro. Ella stava composta,tenendo in grembo le arance avvolte nel fazzoletto chenon portava piú in capo. Raccontava piano ciò che sape-va, di Dionisio che in Francia era stato chiamato alla vi-sita militare e riformato, e che non aveva mai piú scrit-to; della vecchia Marta, un poco svanita, che in casa diRegina seguitava a piangere facendo calze calze calze;parlò anche di Ghianda, il quale era stato trovato mortodavanti al cancello di una vigna, un giorno d’estate, co-ricato all’ombra con la testa sul suo sacco come quandostava a far la siesta. Le parole della donna mostravano aGiusto che quel mondo era veramente esistito ed esiste-va ancora. Piú di ogni altra cosa lo interessava quel va-gabondo, che s’era addormentato sotto un albero mentregli altri facevano la guerra.

Sempre composta e tranquilla l’Avventina infine glidomandò: – Lo sai che non ho piú mio padre? È stato unanno ad aprile. – Giusto non sapeva. Ella descrisse bre-vemente la malattia; poi, tenendo in viso a lui gli occhigrandi e scuri, disse come aveva governate da sola leterre lavorandole sempre insieme ai servitori vecchi, aragazze. Le buone braccia mancavano. Dappertutto ledonne facevano quel che potevano; ma quanta terra tra-scurata, mal coltivata! Tacque un poco, a prender corag-gio per quel che voleva dire. Soggiunse: – Io pensavo ate, ma nella guerra potevano ancora succedere tantecose... Ti ricordi la promessa che ci eravamo scambiata?

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Page 533: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

Ora io posso mantenerla, se vuoi. – Stette zitta ad aspet-tare.

Giusto era passato per le mani del soldato barbiere; ilcranio ed il viso rasati coscienziosamente facevan sem-brare piú misera l’uniforme frusta. – Hai la memoriabuona, Avventina! – egli disse rifacendo il sorriso piúvivacemente. Si portò una mano sulla bocca, si fregò lelabbra ed il mento, cercò con gli occhi una finestra perguardar fuori. Lo sguardo gli luceva. Questa donna eraancora per lui quella di un tempo! Aveva l’impressioneche la fedeltà, l’amicizia, quel ricordarsi di lui, non fos-sero soltanto della donna ma di Luvo, dei luoghi dov’eraper tanto tempo vissuto, di tutta la campagna. Pensò chiera costei che gli aveva parlato; pensò il podere vicinoall’Amistà e le altre terre del vecchio scomparso e il de-naro che certamente aveva lasciato: poteva diventarequasi il padrone di tutta quella roba, un ricco possidente,a Luvo, aver la casa presso la collina dell’Amistà. Ellaera venuta ad offrirgli questo. Riportò lo sguardo lucidoe contento sopra la donna vestita di scuro raccolta in sécol piccolo fagotto in grembo, nel quale si vedevano learance. Gli occhi di lei, larghi, lo guardavano aspettan-do.

— Cara Avventina, – disse Giusto – ti ringrazio, tiringrazio.

Ma già altri pensieri gli erano ritornati in mente; siera fatto sentire il proposito che aveva nel profondodell’animo, essendoselo portato dalla guerra donde usci-va, maturato in quegli anni, in quella esperienza. Di-

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Ora io posso mantenerla, se vuoi. – Stette zitta ad aspet-tare.

Giusto era passato per le mani del soldato barbiere; ilcranio ed il viso rasati coscienziosamente facevan sem-brare piú misera l’uniforme frusta. – Hai la memoriabuona, Avventina! – egli disse rifacendo il sorriso piúvivacemente. Si portò una mano sulla bocca, si fregò lelabbra ed il mento, cercò con gli occhi una finestra perguardar fuori. Lo sguardo gli luceva. Questa donna eraancora per lui quella di un tempo! Aveva l’impressioneche la fedeltà, l’amicizia, quel ricordarsi di lui, non fos-sero soltanto della donna ma di Luvo, dei luoghi dov’eraper tanto tempo vissuto, di tutta la campagna. Pensò chiera costei che gli aveva parlato; pensò il podere vicinoall’Amistà e le altre terre del vecchio scomparso e il de-naro che certamente aveva lasciato: poteva diventarequasi il padrone di tutta quella roba, un ricco possidente,a Luvo, aver la casa presso la collina dell’Amistà. Ellaera venuta ad offrirgli questo. Riportò lo sguardo lucidoe contento sopra la donna vestita di scuro raccolta in sécol piccolo fagotto in grembo, nel quale si vedevano learance. Gli occhi di lei, larghi, lo guardavano aspettan-do.

— Cara Avventina, – disse Giusto – ti ringrazio, tiringrazio.

Ma già altri pensieri gli erano ritornati in mente; siera fatto sentire il proposito che aveva nel profondodell’animo, essendoselo portato dalla guerra donde usci-va, maturato in quegli anni, in quella esperienza. Di-

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sparve il sorriso, lo sguardo si fece duro, la mascellaparve divenire piú spessa e piú sporgente. – Ma io nonposso ritornare a Luvo – disse adagio.

La donna provò un dolore acuto, uno smarrimento.Non distolse lo sguardo da quella faccia. A grado a gra-do vi aveva ritrovato l’uomo che conosceva ed amava,quello degli anni passati, perfino il giovine che lavoravanei campi dell’Amistà; ma ora comprese che, dentro, eraun altro. Le sue parole le parvero subito una sentenza ir-revocabile. Pure, disse ancora, come poté con la golaserrata: – Non te ne importa piú niente dei nostri luoghi?Non verrai nemmeno a trovare Donato?

— Non è vero che non me ne importi. Ma non ritor-nerò, nemmeno per un giorno. Voglio restare in città.

Ella pensò che non volesse piú lei perché era unabrutta ragazza invecchiata lavorando la terra, e tra sé glidava ragione, sentendosi una cosa da poco malgrado leterre e il denaro che possedeva. Ben altri erano i pensie-ri di Giusto. Egli guardava nell’avvenire una soffitta si-mile a quella lasciata andando in guerra, per vivercicome prima, solo; guardava, in qualche officina eguale aquella dove aveva lavorato, una trafila del ferro, con uncarrello sul quale sarebbe forse arrivato a sedersi. Videperò la sofferenza in quegli occhi che non cessavano difissarlo; vide l’avvilimento, la bontà delusa. Prese alladonna una delle mani lunghe magre dure; le disse – Tisarò sempre riconoscente, Avventina. Sempre!

Ella si alzò, misurò con lo sguardo il corridoio versol’uscita come dicendosi che per forza doveva andar via;

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sparve il sorriso, lo sguardo si fece duro, la mascellaparve divenire piú spessa e piú sporgente. – Ma io nonposso ritornare a Luvo – disse adagio.

La donna provò un dolore acuto, uno smarrimento.Non distolse lo sguardo da quella faccia. A grado a gra-do vi aveva ritrovato l’uomo che conosceva ed amava,quello degli anni passati, perfino il giovine che lavoravanei campi dell’Amistà; ma ora comprese che, dentro, eraun altro. Le sue parole le parvero subito una sentenza ir-revocabile. Pure, disse ancora, come poté con la golaserrata: – Non te ne importa piú niente dei nostri luoghi?Non verrai nemmeno a trovare Donato?

— Non è vero che non me ne importi. Ma non ritor-nerò, nemmeno per un giorno. Voglio restare in città.

Ella pensò che non volesse piú lei perché era unabrutta ragazza invecchiata lavorando la terra, e tra sé glidava ragione, sentendosi una cosa da poco malgrado leterre e il denaro che possedeva. Ben altri erano i pensie-ri di Giusto. Egli guardava nell’avvenire una soffitta si-mile a quella lasciata andando in guerra, per vivercicome prima, solo; guardava, in qualche officina eguale aquella dove aveva lavorato, una trafila del ferro, con uncarrello sul quale sarebbe forse arrivato a sedersi. Videperò la sofferenza in quegli occhi che non cessavano difissarlo; vide l’avvilimento, la bontà delusa. Prese alladonna una delle mani lunghe magre dure; le disse – Tisarò sempre riconoscente, Avventina. Sempre!

Ella si alzò, misurò con lo sguardo il corridoio versol’uscita come dicendosi che per forza doveva andar via;

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non tese piú la destra a Giusto, ma radunò le forze ed ilfiato per dire: – L’Avvento sai dov’è. Io non cambieròmai. – Si allontanava già quando s’accorse di non aver-gli date le arance; si rivolse subito, sciolse il fagotto, gliconsegnò i frutti, poi se ne andò ripiegando bene il faz-zoletto.

Appena fu ritornata nell’educatorio dov’era ospitata,sebbene nel lungo tragitto, con una tristezza quasi dispe-rata, avesse sempre supplicato Dio di soccorrerla, provòun bruciante desiderio di rimanere anch’ella in questacittà dove Giusto restava. Pensò di non tornare mai piú aLuvo. Nascosto entro alti muri, ordinato, silenzioso,l’istituto, nel quale una pace religiosa si esprimeva incose rare e semplici, sulle candide pareti segnate di cro-cifissi, pareva dirle: – «Non uscire mai piú. Qui sarà iltuo rifugio. Avrai conforto, vi spegnerai tutti i pensieriche ti fanno male». Restarvi era certamente possibile;quel che possedeva, lo avrebbe dato in parte alla chiesaed ai poveri di Luvo, in parte all’educatorio. Ma mentrepensava questo, sentiva anche un amore appassionatoper la sua roba, un amore come se con tutte le sue fibrefosse legata al denaro accumulato dal padre e da lei, allacasa dov’era vissuta come in un santuario ed in un ere-mo, alla terra che avevano lavorata. Amava anche ilpaese, quell’aria, quella vita; ne sentiva il richiamo, chele sembrava di un’esistenza ancor piú bella e piú religio-sa. No, questo era certo; ella sarebbe ritornata là, a zap-pare, a legare i covoni, a tagliar il fieno, a governare tut-ti i lavori, a custodir la casa, a far fruttare la terra, a ra-

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non tese piú la destra a Giusto, ma radunò le forze ed ilfiato per dire: – L’Avvento sai dov’è. Io non cambieròmai. – Si allontanava già quando s’accorse di non aver-gli date le arance; si rivolse subito, sciolse il fagotto, gliconsegnò i frutti, poi se ne andò ripiegando bene il faz-zoletto.

Appena fu ritornata nell’educatorio dov’era ospitata,sebbene nel lungo tragitto, con una tristezza quasi dispe-rata, avesse sempre supplicato Dio di soccorrerla, provòun bruciante desiderio di rimanere anch’ella in questacittà dove Giusto restava. Pensò di non tornare mai piú aLuvo. Nascosto entro alti muri, ordinato, silenzioso,l’istituto, nel quale una pace religiosa si esprimeva incose rare e semplici, sulle candide pareti segnate di cro-cifissi, pareva dirle: – «Non uscire mai piú. Qui sarà iltuo rifugio. Avrai conforto, vi spegnerai tutti i pensieriche ti fanno male». Restarvi era certamente possibile;quel che possedeva, lo avrebbe dato in parte alla chiesaed ai poveri di Luvo, in parte all’educatorio. Ma mentrepensava questo, sentiva anche un amore appassionatoper la sua roba, un amore come se con tutte le sue fibrefosse legata al denaro accumulato dal padre e da lei, allacasa dov’era vissuta come in un santuario ed in un ere-mo, alla terra che avevano lavorata. Amava anche ilpaese, quell’aria, quella vita; ne sentiva il richiamo, chele sembrava di un’esistenza ancor piú bella e piú religio-sa. No, questo era certo; ella sarebbe ritornata là, a zap-pare, a legare i covoni, a tagliar il fieno, a governare tut-ti i lavori, a custodir la casa, a far fruttare la terra, a ra-

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Page 536: Di padre in figlio - Liber Liber · Ai lati della via case chiu-9. se, muri di silenziosi recinti; in fondo a qualche portone ... Graziano non è con noi – motteggiò Barbara. –

dunar altro denaro, per darne un poco mentre viveva achi era bisognoso, e lasciar poi ogni cosa, quando mo-risse, nel nome di Dio.

Giusto, sentendosi guarire, aveva scritto a MetelloFarra; chiedeva notizie di Graziano, del quale non avevamai piú saputo niente. Ed il giovine decise con lo zio direcarsi insieme a trovarlo. – Dunque l’armistizio è fir-mato – disse Metello a Graziano. Intorno a loro udivanola gente ripeter sempre i nomi delle città liberate, ed an-che nominare altri luoghi che l’esercito aveva raggiuntinelle rapide mosse. Era di buon umore, Metello; si tira-va le corde dei baffi con furia contenta. Poche ore dopoche aveva ricevuta la visita dell’Avventina, fu annunzia-to a Giusto quella dei Farra. Entrò nel medesimo corri-doio con quel passo esitante, tenendosi per paura vicinoalla parete. Graziano portava anch’egli l’uniforme strac-ciona. Dopo il colloquio d’una domenica a Luvo nons’erano piú riveduti. Giusto studiava come egli fossecambiato; gli aveva subito guardati i galloni da capora-le; ma era piacevolmente confuso perché era venuto an-che il deputato Farra.

— Ti ricordi – disse Metello – quando sei venuto atrovarmi? Oggi tocca a me. – Con quel viso tagliato e ri-cucito, anch’egli pareva un ferito di guerra. I due com-battenti si raccontarono in poche parole i casi loro; Giu-sto descrisse il naufragio.

— Hai fatta la tua parte! – commentò Graziano.— Che altro avrei potuto fare?

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dunar altro denaro, per darne un poco mentre viveva achi era bisognoso, e lasciar poi ogni cosa, quando mo-risse, nel nome di Dio.

Giusto, sentendosi guarire, aveva scritto a MetelloFarra; chiedeva notizie di Graziano, del quale non avevamai piú saputo niente. Ed il giovine decise con lo zio direcarsi insieme a trovarlo. – Dunque l’armistizio è fir-mato – disse Metello a Graziano. Intorno a loro udivanola gente ripeter sempre i nomi delle città liberate, ed an-che nominare altri luoghi che l’esercito aveva raggiuntinelle rapide mosse. Era di buon umore, Metello; si tira-va le corde dei baffi con furia contenta. Poche ore dopoche aveva ricevuta la visita dell’Avventina, fu annunzia-to a Giusto quella dei Farra. Entrò nel medesimo corri-doio con quel passo esitante, tenendosi per paura vicinoalla parete. Graziano portava anch’egli l’uniforme strac-ciona. Dopo il colloquio d’una domenica a Luvo nons’erano piú riveduti. Giusto studiava come egli fossecambiato; gli aveva subito guardati i galloni da capora-le; ma era piacevolmente confuso perché era venuto an-che il deputato Farra.

— Ti ricordi – disse Metello – quando sei venuto atrovarmi? Oggi tocca a me. – Con quel viso tagliato e ri-cucito, anch’egli pareva un ferito di guerra. I due com-battenti si raccontarono in poche parole i casi loro; Giu-sto descrisse il naufragio.

— Hai fatta la tua parte! – commentò Graziano.— Che altro avrei potuto fare?

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Metello disse: – La fine è venuta. – Nel viso, nel capodi Giusto, Graziano ritrovava la solita espressione osti-nata, e si avvedeva che anche adesso, sotto l’apparenzaimmiserita, debole, conservava il suo vigore.

— Il mondo bisognerà che cambi per forza! – risposeGiusto. – Dalla guerra tutti avranno imparato qualcheco-sa, spero. Tornerò all’officina, da povero manovale; maa far la mia parte sarò buono anche qui. In guerra non siguardava se fossi operaio o contadino: per la trincea erobuono. – Cercava sempre con gli occhi Metello. Questis’era subito oscurato, allungando le grosse labbra; inpiedi in mezzo al corridoio con le mani dietro la schie-na, guardava i cartelli scolastici.

— Mi pare un obbligo – aggiunse Giusto – di essercianch’io.

Metello pensava che quest’operaio o contadino dices-se per lui, ricordasse il dovere a lui. Curvava le spalle, sirannuvolava sempre piú. Ad un tratto si rivolse, fissandoGiusto, con quella faccia imbronciata: – Se fossi in te,tornerei alla campagna, invece, a lavorar la terra. Noncon le macchine, sai. Con la zappa, con l’antica falce,con l’aratro tirato dai bovi. Vorrei essere al tuo posto!

— Penso al vecchio Urbano – disse Graziano. – Lasua è stata una bella vita d’uomo!

— È vero, – replicò Giusto decisamente – ma orasono altri tempi.

Bruscamente Metello annunziò che doveva andar via;batté sulla spalla a Giusto, gli strinse la mano e si allon-

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Metello disse: – La fine è venuta. – Nel viso, nel capodi Giusto, Graziano ritrovava la solita espressione osti-nata, e si avvedeva che anche adesso, sotto l’apparenzaimmiserita, debole, conservava il suo vigore.

— Il mondo bisognerà che cambi per forza! – risposeGiusto. – Dalla guerra tutti avranno imparato qualcheco-sa, spero. Tornerò all’officina, da povero manovale; maa far la mia parte sarò buono anche qui. In guerra non siguardava se fossi operaio o contadino: per la trincea erobuono. – Cercava sempre con gli occhi Metello. Questis’era subito oscurato, allungando le grosse labbra; inpiedi in mezzo al corridoio con le mani dietro la schie-na, guardava i cartelli scolastici.

— Mi pare un obbligo – aggiunse Giusto – di essercianch’io.

Metello pensava che quest’operaio o contadino dices-se per lui, ricordasse il dovere a lui. Curvava le spalle, sirannuvolava sempre piú. Ad un tratto si rivolse, fissandoGiusto, con quella faccia imbronciata: – Se fossi in te,tornerei alla campagna, invece, a lavorar la terra. Noncon le macchine, sai. Con la zappa, con l’antica falce,con l’aratro tirato dai bovi. Vorrei essere al tuo posto!

— Penso al vecchio Urbano – disse Graziano. – Lasua è stata una bella vita d’uomo!

— È vero, – replicò Giusto decisamente – ma orasono altri tempi.

Bruscamente Metello annunziò che doveva andar via;batté sulla spalla a Giusto, gli strinse la mano e si allon-

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tanò da solo, con una pesantezza di uomo ingrassato in-vecchiando.

— Sei già uscito? – chiese allora Graziano al conva-lescente.

— Potrei. Mi manca il coraggio.— Fatti un po’ vedere a camminare.Sorridendo, Giusto mosse qualche passo avanti e in-

dietro, tenendo le mani sollevate come per appoggiarsiall’aria.

— Vai molto bene – giudicò l’altro. – Ti accompagnoio.

Per uscire Graziano passò il braccio sotto il bracciodel compagno; discesero piano la gradinata d’ingresso,si portarono sul passaggio di un tranvai. Nel carrozzonela gente guardava i due soldati con simpatia, si scomo-dava a far loro posto; impacciato, Giusto non ringrazia-va nessuno. La giornata si manteneva limpida, lumino-sa. Davanti alla stazione discesero, s’incamminaronolungo la cancellata del giardino pubblico, pieno di fan-ciulli gridanti. Giusto fece capire all’altro che non vole-va piú essere sorretto; ma i passanti erano numerosi, làpresso scorrevano con strepito molti veicoli; dopo unbreve tratto Giusto fu preso dal pànico e subitamente,prima che l’altro potesse afferrarlo, si piegò sui ginocchicome se apposta si fosse lasciato andar giú. SebbeneGraziano si fosse subito chinato a soccorrerlo, alcuniuomini si precipitarono verso di loro. – Mi alzo da me!– disse Giusto gettando occhiate imperiose attorno. Inrealtà si lasciò aiutare dal compagno a rimettersi in pie-

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tanò da solo, con una pesantezza di uomo ingrassato in-vecchiando.

— Sei già uscito? – chiese allora Graziano al conva-lescente.

— Potrei. Mi manca il coraggio.— Fatti un po’ vedere a camminare.Sorridendo, Giusto mosse qualche passo avanti e in-

dietro, tenendo le mani sollevate come per appoggiarsiall’aria.

— Vai molto bene – giudicò l’altro. – Ti accompagnoio.

Per uscire Graziano passò il braccio sotto il bracciodel compagno; discesero piano la gradinata d’ingresso,si portarono sul passaggio di un tranvai. Nel carrozzonela gente guardava i due soldati con simpatia, si scomo-dava a far loro posto; impacciato, Giusto non ringrazia-va nessuno. La giornata si manteneva limpida, lumino-sa. Davanti alla stazione discesero, s’incamminaronolungo la cancellata del giardino pubblico, pieno di fan-ciulli gridanti. Giusto fece capire all’altro che non vole-va piú essere sorretto; ma i passanti erano numerosi, làpresso scorrevano con strepito molti veicoli; dopo unbreve tratto Giusto fu preso dal pànico e subitamente,prima che l’altro potesse afferrarlo, si piegò sui ginocchicome se apposta si fosse lasciato andar giú. SebbeneGraziano si fosse subito chinato a soccorrerlo, alcuniuomini si precipitarono verso di loro. – Mi alzo da me!– disse Giusto gettando occhiate imperiose attorno. Inrealtà si lasciò aiutare dal compagno a rimettersi in pie-

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di. Sottovoce Graziano gli domandò se volesse riposarsiin qualche luogo o tornare all’ospedale; ma Giusto colcapo rispose di no, poi accennò la via che s’apriva in-nanzi a loro e andava al centro della città: con aria divoler mettersi alla prova sfidando i pericoli. L’altro nonlasciò piú il suo braccio.

Nella folla era un’animazione lieta, ma come se nonsi conoscessero ancora tutti gli avvenimenti.All’improvviso si vide avanzare portando una bandiera,una frotta di giovani che gridavano: – L’armistizio! –Parve essersi levato un prodigioso vento che cambiassela città, toccasse tutte le cose, chiamasse fuori ed accen-desse di febbre tutta la gente. Ne usciva, gente, dai ne-gozi, da ogni porta; ne veniva rapidamente da ogni vialaterale, parlando concitata; si sporgeva dalle finestrecon voci e grida liete; come per incanto sulle facciateapparivano bandiere nuove, innumerevoli, accanto aquelle ch’erano rimaste sempre esposte. La guerra erafinita! La guerra era finita! Con volti radiosi, con sguar-di lucidi, con gesti frenetici, e come in preda ad unaveemente meraviglia, tutti ripetevano questo. Se lo dice-vano, per accertarsene a vicenda, persone di ogni età econdizione, senza conoscersi: come se veramente la finearrivasse improvvisa e ciascuno, prima, avesse pensatoche non potesse mai piú venire. E si aveva la vittoria!Era terminata l’incertezza. Cosí si decideva la sortedell’immenso gioco: i nemici erano schiacciati.L’impresa tanto difficile era compiuta.

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di. Sottovoce Graziano gli domandò se volesse riposarsiin qualche luogo o tornare all’ospedale; ma Giusto colcapo rispose di no, poi accennò la via che s’apriva in-nanzi a loro e andava al centro della città: con aria divoler mettersi alla prova sfidando i pericoli. L’altro nonlasciò piú il suo braccio.

Nella folla era un’animazione lieta, ma come se nonsi conoscessero ancora tutti gli avvenimenti.All’improvviso si vide avanzare portando una bandiera,una frotta di giovani che gridavano: – L’armistizio! –Parve essersi levato un prodigioso vento che cambiassela città, toccasse tutte le cose, chiamasse fuori ed accen-desse di febbre tutta la gente. Ne usciva, gente, dai ne-gozi, da ogni porta; ne veniva rapidamente da ogni vialaterale, parlando concitata; si sporgeva dalle finestrecon voci e grida liete; come per incanto sulle facciateapparivano bandiere nuove, innumerevoli, accanto aquelle ch’erano rimaste sempre esposte. La guerra erafinita! La guerra era finita! Con volti radiosi, con sguar-di lucidi, con gesti frenetici, e come in preda ad unaveemente meraviglia, tutti ripetevano questo. Se lo dice-vano, per accertarsene a vicenda, persone di ogni età econdizione, senza conoscersi: come se veramente la finearrivasse improvvisa e ciascuno, prima, avesse pensatoche non potesse mai piú venire. E si aveva la vittoria!Era terminata l’incertezza. Cosí si decideva la sortedell’immenso gioco: i nemici erano schiacciati.L’impresa tanto difficile era compiuta.

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Continuando a crescere, la folla si moveva semprepiú febbrilmente, mandava incessanti grida; si chiudeva-no le botteghe, si svuotavano gli uffici, le case; le viechiamavano tutti, tutti sentivano un bisogno di mesco-larsi alla folla, diventare folla. Incominciarono a passarealtri drappelli – sempre al seguito di qualcuno che porta-va una bandiera – nei quali erano ragazzi, soldati, don-ne, facchini, vecchi commessi che non avevan mai la-sciato il lavoro a quell’ora; e cantavano inni, canzoni deisoldati. Poi passarono anche fanfare e bande musicali,traendosi dietro masse piú folte. E tutto ciò pareva avereun aspetto ed un significato nuovo: i canti, le musiche,le grida, le bandiere. Anche la gente pareva nuova, ossiarisvegliata ad un tratto, uscita da un incubo. Sempre, amisura che la moltitudine cresceva, si faceva piú grandel’eccitazione; dalla febbre nasceva il delirio, una felicefollia s’impadroniva di tutti. In volti ridenti si vedevanoocchi pieni di lacrime; frotte sparse, anche di donne ebambini, ripetevano i canti che i cortei portavano; tuttinella lieta sorte si sentivano uniti; tra sconosciuti era uncontinuo scambio di saluti e grida, di abbracci; anchedei giovani e delle ragazze, che per la prima voltas’incontravano, fuori di sé si tendevano le braccia, si ba-ciavano, separati poi subito dai movimenti della folla.Combattenti in uniforme camminavano in mezzo allavia come portati da schiere di accompagnatori. Grazianoe Giusto, al pari degli altri militari che volevano rimane-re confusi tra la gente, erano fatti segno a saluti festosi,

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Continuando a crescere, la folla si moveva semprepiú febbrilmente, mandava incessanti grida; si chiudeva-no le botteghe, si svuotavano gli uffici, le case; le viechiamavano tutti, tutti sentivano un bisogno di mesco-larsi alla folla, diventare folla. Incominciarono a passarealtri drappelli – sempre al seguito di qualcuno che porta-va una bandiera – nei quali erano ragazzi, soldati, don-ne, facchini, vecchi commessi che non avevan mai la-sciato il lavoro a quell’ora; e cantavano inni, canzoni deisoldati. Poi passarono anche fanfare e bande musicali,traendosi dietro masse piú folte. E tutto ciò pareva avereun aspetto ed un significato nuovo: i canti, le musiche,le grida, le bandiere. Anche la gente pareva nuova, ossiarisvegliata ad un tratto, uscita da un incubo. Sempre, amisura che la moltitudine cresceva, si faceva piú grandel’eccitazione; dalla febbre nasceva il delirio, una felicefollia s’impadroniva di tutti. In volti ridenti si vedevanoocchi pieni di lacrime; frotte sparse, anche di donne ebambini, ripetevano i canti che i cortei portavano; tuttinella lieta sorte si sentivano uniti; tra sconosciuti era uncontinuo scambio di saluti e grida, di abbracci; anchedei giovani e delle ragazze, che per la prima voltas’incontravano, fuori di sé si tendevano le braccia, si ba-ciavano, separati poi subito dai movimenti della folla.Combattenti in uniforme camminavano in mezzo allavia come portati da schiere di accompagnatori. Grazianoe Giusto, al pari degli altri militari che volevano rimane-re confusi tra la gente, erano fatti segno a saluti festosi,

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avvolti da onde improvvise d’ignoti che parevano averlicercati.

La pace era venuta. E la moltitudine sembrava direcon le sue grida, i suoi atti: «Siamo vivi. Si ricomincia avivere. E sarà una vita nuova». Si sentiva in tutti l’ideadell’avvenire, una fiducia nel tempo che adesso comin-ciava, come se veramente la vita di ognuno e di tutti do-vesse d’or innanzi essere diversa da com’era stata sem-pre, immensamente piú bella. Guidando e rinfrancandocol braccio il compagno, Graziano andava adagio, te-nendosi fuori quanto poteva dall’ondeggiamento. Lagente parlava di fiaccolate, d’una straordinaria illumina-zione che quella sera si sarebbe fatta. Anche le case del-la via, molto vecchie, sembravano ringiovanite. I duesoldati sboccarono nella piazza, chiusa come una sala,che aveva un carattere di antica stampa. Era gremita; lenobili facciate rimandavano musiche e clamori. Intornoa sé Graziano scorgeva gente vecchia o matura, ma an-che molti giovani, ragazzi e ragazze, pieni d’una forzaintatta, e soldati dell’ultima leva, i quali non erano piúgiunti alle trincee. La pace: anch’egli la sentiva comeun’aria nuova che avvolgesse le cose. Accanto a luiGiusto taceva quasi sempre ed il suo sguardo parevanon riconoscere i luoghi. Prima il movimento della follaera stato disordinato, incoerente, follia felice che non sa-peva che fare di se stessa; ora prese a formarsi una grancorrente, la quale s’ingolfava nell’altro tratto della via,movendo verso il cuore della città sempre piú presto.

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avvolti da onde improvvise d’ignoti che parevano averlicercati.

La pace era venuta. E la moltitudine sembrava direcon le sue grida, i suoi atti: «Siamo vivi. Si ricomincia avivere. E sarà una vita nuova». Si sentiva in tutti l’ideadell’avvenire, una fiducia nel tempo che adesso comin-ciava, come se veramente la vita di ognuno e di tutti do-vesse d’or innanzi essere diversa da com’era stata sem-pre, immensamente piú bella. Guidando e rinfrancandocol braccio il compagno, Graziano andava adagio, te-nendosi fuori quanto poteva dall’ondeggiamento. Lagente parlava di fiaccolate, d’una straordinaria illumina-zione che quella sera si sarebbe fatta. Anche le case del-la via, molto vecchie, sembravano ringiovanite. I duesoldati sboccarono nella piazza, chiusa come una sala,che aveva un carattere di antica stampa. Era gremita; lenobili facciate rimandavano musiche e clamori. Intornoa sé Graziano scorgeva gente vecchia o matura, ma an-che molti giovani, ragazzi e ragazze, pieni d’una forzaintatta, e soldati dell’ultima leva, i quali non erano piúgiunti alle trincee. La pace: anch’egli la sentiva comeun’aria nuova che avvolgesse le cose. Accanto a luiGiusto taceva quasi sempre ed il suo sguardo parevanon riconoscere i luoghi. Prima il movimento della follaera stato disordinato, incoerente, follia felice che non sa-peva che fare di se stessa; ora prese a formarsi una grancorrente, la quale s’ingolfava nell’altro tratto della via,movendo verso il cuore della città sempre piú presto.

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Col compagno Graziano entrò in quel canale, mapoco dopo sentí che Giusto si faceva sorreggere piú pe-santemente e gli vide nel viso scarno ombre di fatica.Tornarono indietro per cercare un cammino meno diffi-cile. Andando contro la corrente, scorgevano la folla infaccia, i suoi volti innumerevoli, le bocche che cantava-no o gridavano, le fronti erette, gli occhi incantati, scin-tillanti, ridenti, obliosi, felici. Pareva un popolo interotutto avviato per una strada, in fondo alla quale unasvolta celasse e promettesse insieme un orizzonte nuo-vo. Tutti già lo vedevano con la fantasia, questo oriz-zonte; lo vedevano magnifico, pieno di luce.

Ai due soldati, uscendo dal margine della corrente, siavvicinarono all’improvviso con impeto leggero tre gio-vani donne, alte, belle, coi capelli all’aria, vestite benema come fuggite da casa con impazienza. Anch’esseavevano le bocche aperte a gridi ardenti, con bei dentiche splendevano, avevano brillanti occhi; nello slanciodelle loro persone, in tutte le loro figure, insieme alla fe-licità si mostrava anche un senso d’amore. Si strinsero aquei soldati. Graziano sentí posarsi due braccia morbidee forti sopra le sue spalle, un respiro veemente e puroavvicinarglisi al viso, una bocca piena di vita posarsisulla sua guancia. Non aveva mai provato niente che so-migliasse a ciò che provava. Era un bacio puro ma pienodi forza e d’una volontà d’amore, di un istinto di vita,quello che riceveva. Era un dono che gli veniva fatto daun’ignota, misteriosamente. Era un invito che gli faceva

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Col compagno Graziano entrò in quel canale, mapoco dopo sentí che Giusto si faceva sorreggere piú pe-santemente e gli vide nel viso scarno ombre di fatica.Tornarono indietro per cercare un cammino meno diffi-cile. Andando contro la corrente, scorgevano la folla infaccia, i suoi volti innumerevoli, le bocche che cantava-no o gridavano, le fronti erette, gli occhi incantati, scin-tillanti, ridenti, obliosi, felici. Pareva un popolo interotutto avviato per una strada, in fondo alla quale unasvolta celasse e promettesse insieme un orizzonte nuo-vo. Tutti già lo vedevano con la fantasia, questo oriz-zonte; lo vedevano magnifico, pieno di luce.

Ai due soldati, uscendo dal margine della corrente, siavvicinarono all’improvviso con impeto leggero tre gio-vani donne, alte, belle, coi capelli all’aria, vestite benema come fuggite da casa con impazienza. Anch’esseavevano le bocche aperte a gridi ardenti, con bei dentiche splendevano, avevano brillanti occhi; nello slanciodelle loro persone, in tutte le loro figure, insieme alla fe-licità si mostrava anche un senso d’amore. Si strinsero aquei soldati. Graziano sentí posarsi due braccia morbidee forti sopra le sue spalle, un respiro veemente e puroavvicinarglisi al viso, una bocca piena di vita posarsisulla sua guancia. Non aveva mai provato niente che so-migliasse a ciò che provava. Era un bacio puro ma pienodi forza e d’una volontà d’amore, di un istinto di vita,quello che riceveva. Era un dono che gli veniva fatto daun’ignota, misteriosamente. Era un invito che gli faceva

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la vita: essa aveva quel bel viso, quegli occhi pieni di fi-ducia.

Anche Giusto, che s’era piú strettamente accostato alcompagno, aveva ricevuto l’abbraccio. Qualcuno dellafolla aveva applaudito; grida amichevoli s’erano levatelà presso, anch’esse un poco misteriose come tutto ciòche accadeva ed era cosí bello. Ma la corrente andavarapida; subito la gente cambiò. Le tre donne erano giàlontane, immerse in quelle onde.

«Che ho fatto – pensò Graziano – per meritarmi que-sto?»

La donna che lo aveva baciato, egli l’aveva appenaintravvista. Ma un altro pensiero, vago, gli venne poinella mente: era la sconosciuta che amava e voleva farsua. Non sentí bisogno di rivolgersi a cercarla, nemme-no con uno sguardo. Sapeva che sarebbe tornata sul suocammino, la donna che amava, tornata per sempre nellasua vita.

Ricondusse il compagno all’ospedale. Quando vi fu-rono vicini, sebbene fosse ormai sera, Giusto vide subitoche presso l’entrata vi era l’Avventina. Stava immobilein cima ai gradini, con le sue vesti scure, con le maniriunite sul petto, accostata allo stipite in modo da nonessere d’ingombro alla gente che doveva passare. Aspet-tava come se l’avesse mandata qualcuno.

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la vita: essa aveva quel bel viso, quegli occhi pieni di fi-ducia.

Anche Giusto, che s’era piú strettamente accostato alcompagno, aveva ricevuto l’abbraccio. Qualcuno dellafolla aveva applaudito; grida amichevoli s’erano levatelà presso, anch’esse un poco misteriose come tutto ciòche accadeva ed era cosí bello. Ma la corrente andavarapida; subito la gente cambiò. Le tre donne erano giàlontane, immerse in quelle onde.

«Che ho fatto – pensò Graziano – per meritarmi que-sto?»

La donna che lo aveva baciato, egli l’aveva appenaintravvista. Ma un altro pensiero, vago, gli venne poinella mente: era la sconosciuta che amava e voleva farsua. Non sentí bisogno di rivolgersi a cercarla, nemme-no con uno sguardo. Sapeva che sarebbe tornata sul suocammino, la donna che amava, tornata per sempre nellasua vita.

Ricondusse il compagno all’ospedale. Quando vi fu-rono vicini, sebbene fosse ormai sera, Giusto vide subitoche presso l’entrata vi era l’Avventina. Stava immobilein cima ai gradini, con le sue vesti scure, con le maniriunite sul petto, accostata allo stipite in modo da nonessere d’ingombro alla gente che doveva passare. Aspet-tava come se l’avesse mandata qualcuno.

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