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SALERNO EDITRICE ROMA « DI MANO PROPRIA ». GLI AUTOGRAFI DEI LETTERATI ITALIANI Atti del Convegno internazionale di Forlí 24-27 novembre 2008 in collaborazione con il dipartimento di italianistica dell’università di padova a cura di GUIDO BALDASSARRI, MATTEO MOTOLESE, PAOLO PROCACCIOLI, EMILIO RUSSO

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SALERNO EDITRICEROMA

« DI MANO PROPRIA ». GLI AUTOGRAFI

DEI LETTERATI ITALIANI

Atti del Convegno internazionale di Forlí 24-27 novembre 2008

in collaborazione con il dipartimento di italianistica

dell’università di padova

a cura di

GUIDO BALDASSARRI, MATTEO MOTOLESE, PAOLO PROCACCIOLI, EMILIO RUSSO

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ISBN 978-88-8402-690-3

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Il volume è stato stampato con i contributi di: Dipartimento di Italianistica dell’Università di Padova

Dipartimento di Studi filologici, linguistici e letterari della « Sapienza » Università di Roma

Dipartimento di Storia e culture del testo e del documento dell’Università della Tuscia

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Maurizio Campanelli

aUTografIa e fIlologIa alle orIgInI della STamPa

Nel 1472 furono stampate a Venezia le opere di Virgilio. Non si trattava della princeps, e neppure della seconda edizione, né il volu-me recava epistole prefatorie di filologi. Rischiava di passare per un prodotto banale, concepito per uno smercio che si poteva pre-sumere facile. Ma gli ignoti stampatori premisero al testo un’av-vertenza che suggeriva caldamente di acquistare il volume a chiun-que lo avesse aperto, « cum ab ipsis propriis Maronis exemplaribus, quae Romae in aede divi Pauli reposita sunt, integrum, purum ni-tidumque opus hoc effluxerit natumque sit » è il frontespizio del-l’incunabolo citato a n. 1. Un libro che riproduceva, integro, puro e nitido, l’originale di Virgilio in fondo avrebbe potuto comprar-selo anche chi un Virgilio lo possedeva già, considerando anche il prezzo del nuovo volume, a noi purtroppo ignoto, ma che possia-mo immaginare relativamente contenuto.1

Ogni testo manoscritto è ovviamente un autografo, ma l’auto-grafo acquisisce un valore immediato solo quando se ne conosce o riconosce la mano che l’ha vergato, sia o meno quella dell’autore del testo. La storia dell’Umanesimo è anche storia di grafie condi-vise e di mani riconosciute, fin dalla prima stagione umanistica, quella delle scoperte dei manoscritti antichi, delle riforme grafi-che e del recupero del greco; e rimarrà tale anche nell’età della stam-pa, che per la cultura umanistica è l’età della filologia. Una delle prime lettere dell’epistolario del Poliziano è indirizzata ad Ermo-lao Barbaro, che tramite Francesco Gaddi, ambasciatore di Loren-

1. L’incunabolo è attribuito alla tipografia dell’Ausonio, che secondo alcuni potrebbe essere quella di Bartolomeo Girardini: ISTC iv00154000. Dal punto di vista filologico non è un prodotto spregevole: si veda l’ottimo studio che ne ha fatto M. Venier, Per una storia del testo di Virgilio nella prima età del libro a stampa (1469-1519), Udine, Forum, 2001, pp. 66-70.

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zo a Venezia e grande bibliofilo, aveva espresso il desiderio di po-ter leggere un volumen emendatum di Dioscoride. Lorenzo si era detto prontissimo ad esaudire il desiderio e ne aveva incaricato Poliziano, che spediva quindi ad Ermolao un Dioscoride « satis emendatum – ni fallor –, certo veterem »; lo pregava naturalmente di restituirlo, ma non come glielo aveva mandato: « non tam – quae tua est diligentia – incolumem, quam doctissima ista notatum manu, quo pretium volumini aliquod ex te atque autoritas acce-dat ».2 La mano postillatrice dell’amico avrebbe accresciuto il valo-re e l’auctoritas del già autorevole e prezioso volume greco.3

La mano del grande maestro, ritrovata da allievi e ammiratori nei margini dei suoi libri, sembra diventare garanzia dell’alacrità e della bontà del suo lavoro, quasi a prescindere dalla valutazione dei risultati. Girolamo Avanzi, esponente di punta della cerchia uma-nistica veronese, ebbe modo di vedere i libri di Domizio Calderi-ni, tornati a Verona dopo la morte del loro possessore, una figura che tante controversie aveva suscitato durante la sua vita. Ciò che faceva di quei libri un corpus unitario era la mano di Calderini nei margini: « Domitius namque nihil animadvertendum praelege-bat, quod non in codicum margine signaret atque cum aliis aucto-ribus conferret, ut quaeque promptuaria teneret ».4 Del tutto ana-

2. È l’epistola undecima del primo libro, edita nell’edizione delle opere poli-zianee uscita a Basilea nel 1553, ristampata anastaticamente in A. Politianus, Opera omnia, a cura di I. Maïer, to. i. Scripta in editione Basilensi anno mdliii collecta, Torino, Bottega d’Erasmo, 1971, p. 8; si può leggere ora anche in A. Poliziano, Letters, vol. i books i-iv, ed. and transl. by S. Butler, Cambridge (Mass.)-London, Harvard Univ. Press, 2006, p. 38.

3. Il manoscritto potrebbe identificarsi con l’attuale Laur. 74 23, secondo E.B. Fryde, Greek manuscripts in the private library of the Medici (1469-1510), Aberystwyth, The National Libray of Wales, 1996, vol. ii p. 649.

4. È quanto mai probabile che l’Avanzi avesse in mente quanto Plinio il giova-ne scriveva dello zio nell’epistola a Bebio Macro (iii 5 10: « […] liber legebatur, adnotabat excerpebatque. Nihil enim legit, quod non excerperet »), anche perché certamente l’Avanzi avrà ritenuto che Plinio il vecchio fosse nativo di Verona. Il brano sui libri di Calderini, riportato da C. Dionisotti, Calderini, Poliziano e altri, in « Italia medioevale e umanistica », xi 1968, pp. 151-85, a p. 175 (per un profilo dell’Avanzi vd. pp. 173-79), si legge a f. a 5v della prima edizione delle Emendatio-

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loga la testimonianza di Girolamo Amaseo, studente in arti, il quale incontrò Filippo Beroaldo, lo salutò in latino, gli mostrò un carme che aveva composto in suo onore e si guadagnò cosí un in-vito a cena seguito da un tour della biblioteca, che al giovane ap-parve come una grande raccolta di annotazioni dell’umanista: « li-bros habebat complures et a vertice ad plantas omnis annotatos; vi -di et iuris civilis et canonici volumina, quae se perlegisse non ibat inficias extabantque in margine annotationes ».5

I grandi professori degli Studia umanistici sono tra le figure do-minanti della cultura dell’ultimo Quattrocento. Basta scorrere l’e-pistolario del Poliziano per capire che si trattava di un ceto ormai pienamente consapevole del suo ruolo e del suo prestigio. Questi personaggi erano oggetto di un autentico culto della personalità da parte dei loro allievi, un culto che si estendeva ai loro libri, ri-cercati e venerati come reliquie. Marco Antonio Sabellico scrisse una biografia di Pomponio Leto in cui sottolineò che Pomponio non portava a lezione altro che libri scritti di suo pugno: « Nihil fere legit unquam nisi ex suo chirographo ».6 La notizia trova con-ferma in una lettera in morte del Leto, che è anch’essa una bio-grafia, inviata da Michele Ferno a Iacopo Antiquario: « Nam cor-rigendi et erigendi Latinam linguam studiosus adeo fuit ut non unum ille volumen profiteretur quod idem manu sua non tran-sferret ».7 Da una pluralità di testimonianze sappiamo che profes-

nes in Catullum, stampata a Venezia nel 1495 da G. Tacuino per I. Zilleto (ISTC ia01407000); in questo incunabolo le Emendationes portano la data del 14 ottobre 1493.

5. G. Pozzi, Da Padova a Firenze nel 1493, in « Italia medioevale e umanistica », ix 1966, pp. 191-227, in partic. p. 197 (l’articolo di Pozzi consiste nell’edizione e nel commento della lunga lettera dell’Amaseo, che offre una nutrita galleria di fatti e personaggi degli ambienti umanistici di Padova e Firenze).

6. La Pomponii vita del Sabellico, scritta in forma di lettera a Marco Antonio Morosini, fu stampata in appendice all’edizione postuma, curata dallo stesso Sa-bellico, del Romanae historiae compendium ab interitu Gordiani iunioris usque ad Iusti-num III di Pomponio (Venezia, B. Vitali, 23 iv 1499, ISTC il00024000; il passo ci-tato si trova a f. p3r).

7. La lettera fu pubblicata dal Mansi negli addenda all’edizione della Bibliotheca

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sori e studenti condividevano manoscritti e appunti, durante le lezioni e fuori dalle lezioni. In questo modo gli studenti assorbiva-no non solo il metodo di lavoro e gli inventa dei maestri, ma anche le grafie. Il caso piú celebre è proprio quello di Pomponio Leto, il quale, con i suoi vezzi grafici di marca antiquaria, fondò uno stile di scrittura molto caratteristico, che gli sopravvisse per almeno un paio di generazioni nelle mani dei suoi numerosi allievi, e degli allievi degli allievi.8

Proprio quando l’avvento della stampa sembrerà restringere lo spazio della scrittura a mano, sarà la filologia a valorizzare la scrit-tura autografa, collocandola sull’altare dell’auctoritas. Nell’aprile del 1494 Poliziano fu raggiunto da una lettera di Beroaldo, che lo in-formava dell’arrivo a Bologna di un tale che andava diffondendo (il verbo è venditet) una silloge di annotazioni polizianee alle Silvae di Stazio. Questo costrinse Poliziano ad una lunga risposta, nella quale precisò in primo luogo che non si trattava di materiali del suo corso universitario sulle Silvae, ma di note vergate sui margini di un domesticus codex nella sua prima gioventú; quindi elencò le annotazioni, nel corpo della lettera, per evitare tanto i rischi di pla-gio quanto la parimenti temibile eventualità che, nei passaggi di mano in mano, finissero per essergli attribuiti materiali non suoi. La vera forza dell’ignoto mercante di filologia stava, secondo quan-to scrive Poliziano, nel fatto che si andava vantando di aver tra-scritto le annotazioni ex nostris autographis.9

Latina mediae et infimae aetatis del Fabricius, curata dallo stesso Mansi (Padova, G. Manfrè, 1754, vol. vi pp. 6-10; il passo citato è a p. 8 col. b).

8. Il panorama piú completo sulle mani dei pomponiani rimane quello di P. Scarcia Piacentini, Note storico-paleografiche in margine all’Accademia Romana, in Le chiavi della memoria. Miscellanea in occasione del i centenario della Scuola Vaticana di Pa-leografia, Diplomatica e Archivistica, a cura della Associazione degli ex allievi, Città del Vaticano, Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica, 1984, pp. 491-549.

9. Questa vicenda è stata ricostruita dall’indimenticata L. Cesarini Marti-nelli, Le ‘Selve’ di Stazio nella critica testuale del Poliziano, in « Studi italiani di filolo-gia classica », xlvii 1975, pp. 130-74, alle pp. 133-35. Si veda anche F. Lo Monaco, Apografi di postillati del Poliziano: vicende e fruizioni, in Talking to the Text. “Marginalia ”

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Gli autografi di Poliziano, ovvero i libri della sua biblioteca, fu-rono oggetto di eccezionale interesse fin dal momento in cui egli morí, come è ben noto, e si trattò di vicende spesso oscure, al limi-te, e oltre il limite, del furto.10 Non erano certo motivi estetici, né ansia di collezionismo, quelli che muovevano la caccia all’autogra-fo polizianeo, ma la volontà di appropriarsi di frammenti piú o meno cospicui di un monumento filologico che, già Poliziano vi-vente, si era stagliato nel panorama della filologia umanistica come qualcosa di colossale e straordinario. Pier Vettori si presentò sem-pre, con buon diritto, come il legittimo erede della filologia poli-zianea, e per accreditarsi come tale cercò di rimettere insieme i di-siecta membra di quel monumento, riportandolo alla luce del so le e restituendo in questo modo a Poliziano quel che era di Poliziano. Fra le tante cose che ostavano a questa impresa c’era anche la scrit-tura del filologo quattrocentesco, facile a riconoscersi ma difficile a leggersi. In un brano delle Variae lectiones il Vettori ripercorreva, sulla scorta di un capitolo dei Miscellanea, la vicenda della scoperta del Festo integro, che sarebbe divenuto uno dei testi piú importan-ti dell’antiquaria e della filologia cinquecentesca, e rivelava quindi di aver ritrovato qualche anno prima in una taberna libraria una rac-colta di adversaria, tra i quali figurava la trascrizione dei frammenti di Festo; il Vettori non aveva esitato a comprarli, « manu Politiani cognita ». Ma leggerli poteva essere un esercizio disperante:

Tanta tamen ille celeritate in scribendo usus fuerat, literisque adeo minu-tis, ac saepe etiam per notas totis vocibus indicatis, quod suum proprium-que hominis erat, cum huiuscemodi aliquid, quod ipsius tantum usibus serviret, in commentariis adnotaret, ut vix intelligi possint.11

from Papyri to Print. Proceedings of a Conference held at Erice, 26th September-3rd October 1998, a cura di V. Fera, G. Ferraú, S. Rizzo, Messina, Centro interdipar-timentale di studi umanistici, 2002, vol. ii pp. 618-19.

10. Sulle quali mi limito a rinviare a F. Lo Monaco, On the Prehistory of Poli tian’s ‘Miscellaneorum centuria secunda’, in « Journal of the Warburg and Courtauld Insti-tutes », lii 1989, pp. 52-55, e Id., Apografi, cit., p. 621.

11. P. Victorii Variarum lectionum libri xxv, Firenze, Torrentino, 1553, p. 253 (lib. xvii, cap. ii).

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Il carattere minuto, l’abbondanza di abbreviazioni, in definitiva il fatto di usare una scrittura privatissima e quindi visivamente im-penetrabile, tollerato con filiale pazienza dal Vettori, aveva invece indispettito il Budé, che, come quasi tutti i filologi francesi, non era disposto a concedere nulla al Poliziano, e quindi, posto di fron-te ad un altro autografo di quelli che noi eufemisticamente defini-remmo “di difficile lettura” (probabilmente si trattava delle anno-tazioni alle Pandette), non esitò ad affermare che Poliziano aveva usato di proposito una scrittura di quel tipo, perché cosí nessuno avrebbe potuto leggere le sue cose, qualora fossero finite in mani non sicure.12 È questo un episodio di una storia che rimane ancora in larghissima parte da scrivere, ovvero la storia della fortuna e del-l’uso degli autografi quattrocenteschi durante il Cinquecento. In una ricostruzione complessiva dei percorsi attraverso i quali l’Uma-nesimo influenzò la successiva cultura letteraria italiana, non biso-gnerebbe trascurare gli autografi di Poliziano, perché nel Cinque-cento furono certamente tra i piú ricercati ed ebbero vicende par-ticolarmente complesse.

Se nell’età della stampa si ritagliò per l’autografia uno spazio d’ec-cellenza, è anche vero che si finí per funzionalizzarla ai fini del nuovo strumento, e poiché le origini della stampa furono domina-te dalle polemiche, questa funzionalizzazione fu talora brutale. Domizio Calderini, che visse da protagonista i primi anni di diffu-sione della stampa in un centro d’eccezione quale Roma, soleva recarsi in tipografia con gli studenti: era pur sempre il mezzo piú sicuro per venire a conoscenza delle novità editoriali e commen-tarle in presa diretta, con improvvisati seminari di studio. Un gior-

12. Si trattava di un quaternio trovato dal Budé in casa del Crinito, « in quo an-notationes pauculae erant, consulta, ut videbatur, obscuritate congestae, ut, si forte interciderent, a nullo legi possent »; il brano, tratto dalle annotazioni alle Pandette, si legge nel Catalogo della Mostra del Poliziano nella Biblioteca Medicea Laurenziana: manoscritti, libri rari, autografi e documenti, Firenze, 23 settembre-30 no-vembre 1954, a cura di A. Perosa, Firenze, Sansoni, 1955, p. 82; vd. A. Poliziano, Miscellaneorum centuria secunda, ed. critica per cura di V. Branca e M. Pastore Stocchi, Firenze, Alinari, 1972, vol. i p. 75.

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no trovò nella bottega di Sweynheym e Pannartz, suoi amici, il Marziale servito come modello per l’edizione curata dal suo mor-tale nemico, Niccolò Perotti.13 Che quel libro provenisse da Perot-ti lo garantiva la presenza della sua mano ad emendare il testo de-gli epigrammi:

Superioribus diebus cum apud librarios ex Martialis codice eius manu emendato nonum et decimum legerem nonnullique auditores adessent, cum multa nos offenderunt, tum risu abstinere non potui quom incidi in illud epigramma […].

Il dato era di particolare rilievo, poiché l’edizione era apparsa sen-za nome di curatore. Appurata quindi l’autografia di Perotti, l’ani-mus pugnandi di Calderini poteva dilagare senza remore, su una ba-se tanto per lui sicura da indurlo, con scontata dose di sarcasmo, a pregare il comune amico Gurello Carafa di avvertire Perotti riguar-do ad un particolare errore, perché ne potesse impedire la diffusio-ne negli esemplari che si stavano proprio in quel momento stam-pando: « Monebis igitur statim depravatum locum recognoscat ne uno exemplo compluribus menda imprimatur ».14 Una situazione analoga si produsse con un altro testo di capitale importanza, la Naturalis historia di Plinio il vecchio, di cui pure Perotti aveva cura-to un’edizione a stampa, apparsa an ch’essa senza nome di curato-re, appena una settimana dopo il Marziale (ISTC ip00789000). In questo caso Calderini, con la compiacenza dei suoi amici Sweyn-heym e Pannartz, stampatori dell’edizione perottina, era riuscito a portarsi a casa il codex corretto di mano del suo avversario (quasi

13. Finita di stampare a Roma, appunto da Sweynheym e Pannartz, il 30. iv. 1473 (ISTC im00299000).

14. Cito dalla Defensio contro Perotti collocata in chiusura di D. Calderini Veronensis Commentarii in M. Valerium Martialem, Roma, J. Gensberg, ed. G.L. Toscani, 22.iii.1474 (ISTC ic00036000), ff. [314]v-[315]r. L’epigramma è il venti-seiesimo del x libro, nel primo verso del quale Calderini ripristina la lezione Vare, Paraetonias Latia modo vite per urbes / nobilis, rinvenuta anche in un codice an-tico, contro Vare, Paraetonias lata modo voce per urbes / nobilis, che è quanto effettiva-mente si legge nella stampa curata da Perotti.

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certamente, come già per il Marziale, una copia di un’edizione a stampa precedente), e lo mostrava a chi andava a trovarlo, perché non si potessero nutrire dubbi sulla paternità degli errori. Ancora una volta ad inchiodare Perotti era la sua stessa manus:

Negas te in eo [scil. in Plinio depravando] laborasse? At manus tua in mar-gine codicis Pliniani est, quem librariis pro exemplo tradidisti. Hic apud me est et in tuae ignorantiae testimonium multis ad me venientibus sae-pe profertur. Inficiaris? At quadringenti codices, qui ex tuo exemplo ma-narunt, testes sunt.15

Altrove Calderini entrava nel dettaglio descrivendo l’aspetto di una correzione perottina, vergata « duobus in locis, ut multi apud me viderunt, in media pagina et in margine […] et quidem gran-dioribus litteris ».16

Potremmo disporre riferimenti come quelli calderiniani lungo un ideale asse sincronico, in cui chi produce l’autografo (Perotti), chi lo procura (i tipografi), chi lo usa (Calderini, ma prima di lui i tipografi stessi) ed il pubblico chiamato a valutarlo (i multi che Calderini invoca a testimoni) agiscono nello stesso momento, e in questo caso perfino nello stesso spazio (Roma). Una sincronia di questo tipo è tipica dei contesti polemici, ma non esclusiva di essi. Nel 1495 Aldo Manuzio iniziò la sua carriera di editore con una stampa degli Erotemata del Lascari. Nella lettera prefatoria Aldo sottolineava che la sua edizione era di gran lunga piú corretta ri-spetto alle quattro precedenti, perché il Lascari stesso l’aveva emen-data in circa 150 luoghi, eliminando alcune cose, correggendone molte, aggiungendone moltissime.17 Tutte queste modifiche era-

15. Il passo si legge nella Defensio adversus Brotheum grammaticum (soprannome affibbiato da Calderini a Perotti), posta in appendice a D. Calderini Veronensis Commentarii in Satyras Iuuenalis, Venezia, J. Le Rouge, 24. iv. 1475 (ISTC ij00642000), f. [93]v.

16. Ivi, f. [96]r (la correzione era relativa a Plin., Nat., vii 71).17. Le parole di Aldo costituiscono una sorta di rovesciamento di quella ti-

pologia delle corruttele testuali che si trova tante volte esposta in prefazioni e de-diche dell’età degli incunaboli. Per fare un solo esempio, Taddeo Ugoleto nel-

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no attendibili perché operate dalla mano del Lascari stesso in un libro portato direttamente dalla Sicilia e prestato ad Aldo da due allievi d’eccezione del maestro greco, Pietro Bembo e Angelo Ga-briele, recentemente rientrati dalla Sicilia a Padova.18

A questo ideale asse sincronico, in cui la patente di autografia è data vivente o addirittura presente l’autore, se ne affianca uno dia-cronico, in cui riconoscere le mani di personaggi d’eccezione con-figura un primo abbozzo di quella che noi chiameremmo la storia della tradizione di un testo, di cui quelle mani incarnano momen-ti salienti. Il lavoro piú impegnativo di Calderini, stando a quanto ne scrive lui stesso, fu l’edizione latina della Geographia di Tolo-meo progettata da Sweynheym, per cui Domizio rivide le tavole, i numeri di latitudine e longitudine e corresse il testo della vecchia traduzione di Iacopo Angeli. Sfortunatamente Calderini morí pri-ma di veder stampato il volume, ma arrivò a scriverne l’epistola prefatoria a Sisto IV, in cui ricordava di aver collazionato i mano-scritti greci, dall’indistinto novero dei quali emergeva un codex ve-tustissimus un tempo emendato da Giorgio Gemisto Pletone, che Domizio aveva posto a fondamento del proprio lavoro:

Graecorum codices una contuli, et ex iis vetustissimum quendam a Ge-misto [Temisto ms.] Spartano, philosopho mathematicoque nobilissimo, olim emendatum, ad cuius praescriptum et exemplum hunc nostrum multis in locis tota plerunque pagina correxi, locorum nomina ferme omnia depravata ad certam redegi lineam ac scriptionem.19

la prefatoria all’editio princeps delle Declamationes minores attribuite a Quintiliano (Par ma 1494) scriverà: « cum trifariam exemplaria depraventur, appositione aut commutatione aut subtractione […] » (vd. al riguardo M. Campanelli, De anti-quissimis Latinorum scriptorum editionibus saec. XV in Italia impressis, in « Bibliotheca », v 2006, pp. 87-116, alle pp. 111-12).

18. Per il testo rinvio ad Aldo Manuzio editore. Dediche, prefazioni, note ai testi, intr. di C. Dionisotti, testo latino con trad. e note a cura di G. Orlandi, Milano, Il Polifilo, 1975, vol. i p. 3.

19. La prefazione ci è stata conservata dal ms. CCLVII della Biblioteca Capi-tolare di Verona, ai ff. 262r-265r (il passo citato è a f. 263r). Il termine post quem della stesura del testo è il mese di settembre del 1476, quando Calderini ritornò dal viaggio ad Avignone al seguito di Giuliano Della Rovere, di cui la prefazione

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Ma è solo con Poliziano che la frequentazione dei manoscritti, antichi e meno antichi, acquisisce un carattere di sistematicità. Po-liziano fu l’uomo giusto nel posto giusto: la libera frequentazione delle biblioteche medicee, in cui era finita tanta parte dei mano-scritti di testi classici sui quali si era fondata la prima stagione del-l’Umanesimo e dai quali molte tradizioni avevano preso le mosse, e la conoscenza profonda, quasi fossero un tesoro domestico, degli scritti dell’umanesimo fiorentino del primo Quattrocento, unita-mente ad una sensibilità codicologica non inferiore a quella ecdo-tica, lo portarono non solo ad ordinare i manoscritti secondo gradi di maggiore o minore antichità, che quasi sempre voleva dire affi-dabilità, ma anche ad individuare mani il cui riconoscimento tal-volta era decisivo per orientarsi nella storia del testo. Ai primi Mi-scellanea e all’abbozzo dei secondi Poliziano affidò i risultati mi-gliori dei suoi studi, e con questi il catalogo dei manoscritti sui quali aveva lavorato.20 Tale catalogo includeva un antichissimo vo-

contiene un vivido ricordo (vd. A. Perosa, Calderini, Domizio, in Dizionario biogra-fico degli Italiani, Roma, Ist. della Enciclopedia Italiana, vol. xvi 1973, p. 602). Dopo la morte di Sweynheym (1477) e di Calderini (giugno 1478), la stampa della Geo-graphia fu compiuta da Arnold Buckinck il 10.x.1478 (ISTC ip01083000), con una prefazione anonima fondata su quella calderiniana, in cui si esplicitava che l’e-mendazione dell’antichissimo manoscritto era stata opera della manus del Pleto-ne: « Qua in re ne librariorum inscitia tuae Sanctitatis aures offenderet, Domitius Calderinus Veronensis, cui huius emendationis provintia demandata fuerat, eam curam suscepit, asserens cum vetustissimo Graeco manu Gemisti philosophi emendato Latinos codices se collaturum [collocaturum inc., exspectes contulisse] ». Quale fosse questo manoscritto, per quali vie fosse giunto a Calderini e come questi sapesse che era stato corretto dal Pletone (morto a Mistrà nel 1452), resta ancora tutto da appurare; vd. la scheda di S. Gentile sulla stampa del 1478 nel Catalogo della mostra Firenze e la scoperta dell’America. Umanesimo e geografia nel ’400 fiorentino, a cura di S. Gentile, Firenze, Olschki, 1992, pp. 219-21, con la bibliogra-fia precedente.

20. Il panorama piú completo sulle presenze di manoscritti antichi nelle opere polizianee rimane S. Rizzo, Il lessico filologico degli umanisti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1973, pp. 147-64, a cui rinvio anche per l’identificazione dei mano-scritti che citerò qui di seguito. Per il testo dei primi Miscellanea seguo l’editio prin-ceps, stampata ex archetypo da A. Miscomini (Firenze, 19.ix.1489; ISTC ip00890000); per i secondi mi servo di Poliziano, Miscellaneorum centuria secunda, cit.

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lume delle Familiari di Cicerone appartenuto un tempo al Filelfo, quindi venuto in possesso di Lorenzo, da cui era precedentemente derivato un apografo – secondo alcuni scritto di mano del Petrarca – che aveva dato origine a tutti gli altri codici dell’epistolario cice-roniano (i 25); e includeva anche un Ausonio di mano del Boccac-cio conservato nella biblioteca di Santo Spirito (i 39). Venendo al-l’età delle scoperte, erano noti a Poliziano un Columella « quem de vetusto exemplari Nicolaus Nicolus […] sua manu perscripsit » (i 35); un codice di Gellio che Niccoli aveva trascritto « ex vetustis-simo exemplari fideliter pro suo more » (i 41); un codice di Plauto « quem Nicolaus Nicolus Florentinus manu sua descripsit ex vetu-sto exemplari » (ii 23). Poliziano conosceva le epistole in cui Poggio Bracciolini narrava le sue scoperte di nuovi autori e nuovi mano-scritti, e le successive spedizioni dei nuovi testi in Italia: il ricono-scimento delle mani e l’esame delle scritture gli consentivano di dare corpo a quelle testimonianze, di trasformare capitoli di storia della cultura in palestre di filologia. Questo accadde quando Tad-deo Ugoleto gli prestò un codice degli Argonautica di Valerio Flac-co, nei cui margini Poliziano riconobbe la « Nicolai Nicoli ma-nus »; il codice era caratterizzato da spostamenti accidentali di al-cune pagine, che avevano prodotto slittamenti di blocchi di cin-quanta versi, o multipli di cinquanta, ricorrenti nell’intera tradizio-ne, non escluso il codice che il Niccoli si era copiato di suo pugno e che Poliziano poteva consultare nella biblioteca di San Marco; non v’era dubbio quindi che quello fosse il codice da cui l’intera tradizione, tutta umanistica, aveva preso le mosse (ii 2). Poliziano conosceva inoltre il codex Poggianus contenente gli Astronomica di Manilio (ii 33) e le Silvae di Stazio, che in una testimonianza della seconda centuria definirà « mendosus ille quidem utpote Gallicani cuiusdam indocti hominis manu descriptus, sed ex antiquo, ut ar-bitror » (ii 49), in sintonia con quanto narrava Poggio in una nota lettera a Francesco Barbaro: « is qui libros transcripsit ignorantissi-mus omnium viventium fuit (divinare oportet, non legere) ».21

21. Il problema dell’identificazione del Poggianus ha fatto scorrere fiumi d’in-

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In Poliziano il riconoscimento delle mani era parte, in verità piuttosto piccola, del piú generale richiamo ai manoscritti, prefe-ribilmente antichi. Il problema a cui tale richiamo sperava di po-ter dare risposta era lo stesso che aveva agitato i filologi dei primi anni ’70, ovvero quello del testo vulgato dalle edizioni a stampa. Non a caso nella prefazione ai primi Miscellanea Poliziano pone-va la stampa al culmine dell’appassionata requisitoria, condotta in forma di allocuzione al libellus, nei confronti dei delitti capitali che ogni giorno, a suo dire, venivano commessi contro i testi, con vio-lenza e impudenza direttamente proporzionali all’impunità di cui sembravano godere gli adulteratori: « quodque his omnibus pesti-lentius, occasione quoque recentis artificii, quamlibet stolidissi-mas opiniones in mille voluminum traduces momento propaga-ri ». A queste aberrazioni Poliziano contrapponeva il suo modo di lavorare, in cui ogni dato era verificato e verificabile, in particolare per quanto riguardava i manoscritti:

nusquam aliquando veteris scripturae testimonium citavimus, ne quid adscriptitium neve quid usquam superductitium praevaleret, quin sua quodque facie repraesentaverimus et apposuerimus eas notas unde ex qui-ri penitus usque a stirpe possit autoritas.22

Poliziano poteva polemizzare tanto duramente contro le edizioni a stampa e chi le curava perché l’arte tipografica aveva alfine forni-to a tutti un testo univoco, che potesse esser preso a riferimento per una discussione pubblica. Fu questa la grande novità che la stampa portò nel mondo della filologia. Testo univoco significava testo fisso, almeno in teoria non suscettibile di mutamenti, ovve-ro sottratto all’incontrollabile deriva della tradizione manoscritta,

chiostro, per una mappa dei quali, e per un punto sulla questione, mi limito a rinviare alla praefatio di E. Courtney alla sua edizione delle Silvae (Oxonii, e typ. Clarendoniano, 1990).

22. Sull’uso dei manoscritti antichi nei Miscellanea polizianei mi sono soffer-mato in M. Campanelli, « Si in antiquis exemplaribus incideris … »: i manoscritti tra letteratura filologica e gusto antiquario, in « Segno e testo. International Journal on Manuscripts and Text Transmission », vi 2008, pp. 459-99, alle pp. 472-77.

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come scrisse Giovanni Antonio Campano nella prefatoria alla sua edizione di Livio,23 quando rilevò che gli stampatori, basandosi su un solo exemplar, vagliato ed emendato, riproducevano codices a vo-lontà una opera unoque tenore, mentre i copisti, abbandonati al loro arbitrio, corrompevano il testo a loro piacimento, ovunque aves-sero incontrato una pur minima difficoltà.24 Quello che Campano presenta come un dato di fatto era in realtà soltanto una speranza, destinata ad essere reiteratamente disattesa. Ma certo l’innegabile fissazione del testo, che spesso avveniva già con le editiones princi-pes, causò un’onda di ritorno verso i manoscritti, secondo grada-zioni che andavano dal recupero di nuovi testimoni di opere dalla tradizione esigua ad approfondimenti sul valore testuale dei sin-goli codici, che nei casi migliori potevano portare ad embrionali ricostruzioni della storia della tradizione. In realtà il testo comune offerto dalla stampa apparve, soprattutto nella primissima fase di diffusione del nuovo mezzo, come una filologica terra di nessuno. Occorreva dare un’identità a quella terra, in altre parole occorreva che i testi si presentassero dotati di fides, non solo per poter essere venduti, ma anche per poter entrare nel dibattito filologico dalla porta principale. La fides di un’edizione aveva due possibili fonti, l’autorevolezza del curatore e quella del manoscritto usato come exemplar.

Se il manoscritto piú autorevole è ovviamente l’autografo del-l’autore, la caccia a questo genere di autografi si impone presto co-me una delle note salienti della tipografia delle origini, non solo e non tanto per i testi letterari, quanto piuttosto in settori nei quali l’affidabilità del testo stampato poteva avere conseguenze pra tiche immediate, come accade con le opere giuridiche, ambito in cui fi-gurano edizioni che vedono direttamente coinvolti gli autori. È il

23. Roma, U. Han (prima del 3 agosto 1470; ISTC il00237000).24. « Nec idem erunt impressorum futuri errores qui fuerunt exscriptorum: ii

uno exemplari eoque prospecto atque emendato quot volent codices una opera unoque tenore conficient; illi, dum singulus quisque arbitrio abutitur suo, nun-quam inter se ita conveniunt ut, ubi paulo sit protractior oratio aut implicatior, non diverse corrumpant ».

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caso dei Commentaria alla seconda parte del Digestum vetus del cele-bre Giason del Maino, apparsi in un’edizione senza note tipografi-che, ma attribuita alla tipografia pavese di Cristoforo de Canibus e databile intorno al 1489 (ISTC im00413500). Quest’edizione è in-trodotta da una lettera di Antonio Moreto in cui si raccontano, ri-correndo a toni epici, sia la raccolta dei multiformia exemplaria del-l’opera, corrispondenti alle diverse letture fatte dal giurista nelle varie sedi nelle quali aveva insegnato, sia la consulenza chiesta a molti giuristi – « meo ingenti impendio », sottolinea il Moreto – perché l’opera ricevesse la suprema manus, in maniera tale che in essa non vi fosse piú alcuna manchevolezza. Ma il Moreto, non pago, si rivolse direttamente all’autore, il quale « preterquam quod mihi gratias egit, officium quoque meum, vel ut pietatem dicere malueris, summopere commendavit ». Giasone impartiva al More-to cotanta benedizione anche, se non soprattutto, alla luce della condotta di altri stampatori, che avevano fatto strame delle sue opere per bieca brama di guadagno. Ma con la benedizione arrivò anche un duro colpo alle finanze del Moreto, perché Giasone gli chiese di far trascrivere l’interpretatio e gli auctaria in un nuovo mano-scritto, « laciore et spaciosiore margine », che tenne diutissime presso di sé, aggiungendovi « tot tantaque » che il testo appariva « in univer-sum commutatus et interpolatus ». Le finalità promozionali di que-sto lungo autoincensamento della propria edizione sono sufficien-temente smaccate da non richiedere alcuna sottolineatura, ma vale la pena di rilevare che tutto il discorso sta in una lettera con cui il Moreto chiedeva a Marco Antonio Morosin di fargli ottenere un privilegio di stampa decennale. È anche piuttosto interessante no-tare come il racconto del Moreto configuri un curioso caso di tra-dizione manoscritta che torna nelle mani dell’autore per poter pas-sare alla stampa. Sembra effettivamente che il ricorso all’autografo nella prima età della stampa fosse finalizzato in modo precipuo ad azzerare la tradizione manoscritta e tutti i suoi inconvenienti.

Nel colophon dell’edizione di una silloge di opere di Felino San-dei, stampata a Pisa nel 1484 con lettera prefatoria dell’autore (ISTC is00156500), si precisa:

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Nedum autem circa publice collecta in scolis adhibita est in corrigendo diligentia exactissima, sed in amplis quoque additionibus inserendis quas sub inde ad originalia auctor privatim manu propria addiderat, que ultra tertiam huius operis partem constituunt.

Tuttavia i casi in cui l’autore è presente sono una minoranza fra quelli in cui si evocano autografi.

Ludovico Bolognini fa stampare i Consilia di Giovanni d’Anagni a Bologna nel 1481 (ISTC ij00250000), precisando di averli fatti « ex originalibus propria manu dicti domini Iohannis scriptis apud me solum existentibus fideliter transumere » dal migliore dei suoi al-lievi, Ludovico Cristiani, a sua volta professore di diritto civile; in questo caso dunque l’edizione non è basata sull’autografo, ma su una copia dell’autografo, di cui comunque è precisato l’autore, trat-tandosi di un copista d’eccezione. L’edizione del commento alla prima parte del Digestum novum, opera del celebre Paolo di Castro, stampata a Venezia nel 1483 (ISTC ip00169300), reca un’e pistola prefatoria di Francesco da Moneglia, che afferma di aver tratto l’o-pera dalla biblioteca del figlio del giurista e aggiunge: « ut luben-tius hoc opus perlegas, habuimus scriptum exemplar manu, uti fertur, ipsius optimi viri Pauli a Castro ». Vale la pena di notare co-me nel colophon finale si sia tentato di neutralizzare il dubbio insinuato da quell’uti fertur, segno che nel codice non c’erano so-scrizioni di Paolo e che la certificazione dell’autografia doveva es-sere affidata ad una tradizione orale domestica: « Erat, mihi crede, scriptum exemplar ab ipso inclyto monarcha domino Paulo a Ca-stro »; ma quel mihi crede continuava in realtà a denunciare la man-canza di una prova oggettiva, quale avrebbe potuto essere una so-scrizione. Opposto il caso del l’edizione dei Consilia di Niccolò Te-deschi a cura di Roberto Stroz zi, stampata a Pescia nel 1488 (ISTC ip00032000), nel cui colophon è precisato che il testo deriva « ex exemplari ab originalibus, ut in illo legimus, extracto »: in questo caso la soscrizione ci doveva essere, ma certificava che non si trat-tava di un’originale, bensí di una copia dell’originale. Piú generici l’anonimo editore del commento alla seconda parte del Digestum

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novum di Giovanni da Imola, stampato a Milano nel 1477 (ISTC ij00347600), che afferma di aver pubblicato l’opera « ab auctoris ipsius exemplari correcta », e Sigismondo de’ Libri, curatore della stampa di un commento di Alessandro Tartagni, anch’esso alla se-conda parte del Digestum novum, uscito a Bologna, parimenti nel 1477 (ISTC it00024700). In un’avvertenza posta in fondo a quest’ul-timo volume, nella quale si tenta di ripercorrere l’intricatissima tradizione dell’opera del Tartagni, si legge:

Satis putavit Sigismundus, cuius auspiciis Alexander impressus est, tribu-tum iri et Alexandri memorie et discere cupientibus, si ex ipsius Alexan-dri origine atque exemplari omnia sincere et fidelissime sumerentur, ut ea fierent eterna atque immortalia constaretque emptoribus Alexandri opus se comparare, non diversorum auditorum suppletiones et eas qui-dem vel ineptas vel non necessarias vel falsas.

Le opere giuridiche, nate quasi sempre dall’insegnamento uni-versitario, presentavano in effetti delicatissimi problemi di reda-zioni plurime, ulteriormente complicati dai cospicui apparati di scoli e dalla circolazione delle recollectae degli studenti, ragion per cui aggrapparsi agli originalia o agli autografi dell’autore, veri o pre-sunti, diretti o mediati, era l’unica maniera per fissare un punto di riferimento che nessuno avrebbe potuto mettere in discussione. Ma il richiamo agli originali si ritrova anche in altri ambiti discipli-nari, quali la medicina o la filosofia naturale. La Summula de curis febrium di Giovanni da Concorezzo (Pavia, 1485; ISTC ic00803000) fu tolta « ab originali concesso a prestantissimo artium et medici-ne doctore magistro Lazaro Dataro Placentino, theoricam medici-ne Papie legente » (questo dottore in arti e medicina curò in quegli anni varie edizioni di trattati di medicina pubblicate a Pavia). Una raccolta di Opera medicinalia di Giovanni Mesue fu pubblicata a Lione nel 1478 (ISTC im00511500), « ab originali correcto nec non emendato per egregios ac expertos medicine doctores alme Uni-versitatis Papiensis, magistrum Iohannem Theobaldi, magistrum Marchum de Papia et ceteros ». L’Expositio in i fen iv Canonis Avicen-nae de febribus di Giovanni Arcolano (Ferrara, 1489; ISTC ia00948000)

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fu stampata ex proprio ipsius originali. Dalla tipografia veneziana di Giovanni da Colonia e Giovanni Manthen uscirono nello stesso anno 1476 l’Expositio librorum Naturalium Aristotelis di Paolo Veneto (ISTC ip00210000), « transumpta ex proprio originali manu pro-pria prefati magistri confecto », e la traduzione del De animalibus aristotelico (ISTC ia00973000), opera di Teodoro Gaza, curata da Ludovico Podocataro « ex archetypo ipsius Theodori ». Nel 1481, sempre a Venezia, ma da Filippo di Pietro, fu stampato lo Scriptum super librum Aristotelis De anima di Paolo Veneto (ISTC ip00235000) « ex proprio originali diligenter emendatum ».

È indubbiamente un itinerario scomodo, almeno per chi si oc-cupa di letteratura, quello che passa attraverso i salebrosi sentieri della giurisprudenza e della medicina quattrocentesche, ma è un cammino necessario, non solo perché stampatori ed editori di quel-le opere erano sovente gli stessi che curavano e stampavano opere letterarie, ma anche perché l’interesse per i testi giuridici e scien-tifici è costitutivo della cultura, e in particolare della filologia, uma-nistica; basterà pensare al lavoro valliano sui testi del Digesto, o ad una figura come quella di Ermolao Barbaro, o all’ansia con cui il Poliziano degli ultimi anni ricerca e studia testi di medicina: la fi-lologia umanistica fu ontologicamente interdisciplinare e per com-prenderne appieno metodi e orizzonti bisogna essere disposti a seguirne tutti i percorsi. Questo è vero anche per il piccolo dossier relativo alla percezione dell’autografia alle origini della stampa.

È venuto il momento di tornare al volume veneziano stampato sull’autografo, o meglio sull’exemplar, di Virgilio, con cui si è co-minciato. Forte è la tentazione di sbarazzarsene con una battuta, magari eleggendolo a simbolo dei tanti autografi e archetypi millan-tati negli incunaboli e ancor piú nelle cinquecentine. Eppure quel-l’exemplar virgiliano rischiava di apparire credibile. All’inizio degli anni ’70 Pomponio Leto era riuscito ad avere per le mani il celebre Virgilio Mediceo (oggi Laur. Plut. 39 1), che Gregorio da Crema, abate di Bobbio, trasferendosi presso il monastero di San Paolo fuori le Mura aveva portato con sé a Roma nel 1467. Fin qui solo uno dei tanti codici antichi passati per le mani del Leto, sia pure,

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in questo caso, di antichità eccezionale. Ma Pomponio mostrò il manoscritto ad una delle figure piú affascinanti delle origini della stampa, Giovanni Andrea Bussi, mentre questi era intento a curare una seconda edizione riveduta della sua princeps di Virgi lio (1469; ISTC iv00149000). Il Bussi premise alla nuova edizione (1471; ISTC iv00151400) una lettera in cui ringraziava il Leto per aver fatto sí che « ex manibus tuis antiquissimum Virgilii exemplar, maiuscu-lis characteribus descriptum, vix carptim possem evolvere », e si ri-prometteva di curare una terza edizione nel caso in cui il padrone del manoscritto gli avesse concesso di tenerlo un po’ piú a lungo presso di sé.25 Gli stampatori veneti – i quali, per inciso, non sem-brano aver fatto realmente uso del Virgilio Mediceo –26 certamen-te conoscevano l’edizione del Bussi, ma dovevano aver avuto an-che altre fonti, almeno per la notizia che il manoscritto si trovava nella basilica di San Paolo (ragionando in via di ipotesi, l’idea che si trattasse dell’exemplar di Virgilio potrebbe non essere stata escogi-tata da loro, ma solo recepita e rilanciata a scopi promozionali). La memoria del manoscritto riaffiorerà nel la famosa aldina di Virgilio dell’aprile 1501, il libro con cui Aldo inaugurava la sua serie di clas-sici stampati in carattere corsivo e in formato tascabile; in fondo al volume, che programmaticamente non presenta alcun tipo di ap-parato, compare una brevissima serie di correzioni al testo dell’Enei-de – cinque in tutto –, di cui la prima tenta di dirimere un’annosa questione: « In primo Aeneidos libro, Lavinaque venit, scribe Lavi-nia venit; sic enim in antiquissimo codice Romae in bibliotheca Palatina scriptum est » (andrà senz’altro accolto l’emendamento di Palatina in Paulina, proposto da Mer cati).27

25. Si veda P. Casciano, L’edizione romana del 1471 di Virgilio di Sweynheym e Pannartz, in Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento. Atti del ii Semina-rio, 6-8 maggio 1982, a cura di M. Miglio, Città del Vaticano, Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica, 1983, pp. 653-68, alle pp. 655-56.

26. Al riguardo si veda quanto scrive Venier, Per una storia del testo di Virgilio, cit., p. 69.

27. G. Mercati, Il soggiorno del Virgilio Mediceo a Roma nei secoli XV-XVI, in « Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia », s. iii, xii 1936, pp. 106-8, rist. in Id., Opere minori, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vati-

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Aldo era persona avveduta, e di sicuro non avrebbe mai spaccia-to un manoscritto per autografo o idiografo di Virgilio basandosi su voci di seconda mano. Quando però poté avere fra le mani un pezzo di eccezionale antichità, ovvero un codice in onciale delle epistole di Plinio il giovane, databile tra la fine del V e l’inizio del VI secolo, contenente una porzione di epistolario fino ad allora ignota, si lasciò andare: quel codice non era soltanto correttissimo, ma cosí antico da far pensare che fosse stato scritto ai tempi di Pli-nio. E a questo punto Aldo delineava uno scenario che era tutto suo, ma al tempo stesso esprimeva un sentimento da sempre dif-fuso nell’animo degli umanisti: se quel manoscritto dall’età di Pli-nio era potuto arrivare fino a lui, allora perché non sperare che anche Livio e gli altri, che si credevano perduti o per l’antichità o per l’incuria degli uomini o per effetto di azioni violente e invasio-ni barbariche, esistessero ancora e potessero riemergere da qual-che tetro carcere librario?28

Il manoscritto pliniano non presentava una situazione che con-sentisse di ricollegarlo direttamente all’autore, e cosí Aldo dovette

cana, 1937, vol. iv pp. 526-29; Mercati chiariva anche modi e tempi del passaggio del Mediceo da Bobbio a Roma (pp. 105-6; 525-26 della ristampa), escludendo un reale possesso del manoscritto da parte del Leto. R. Fabbri, Pietro Crinito e il Vir-gilio Aldino del 1501, in « MD. Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici », xvii 1986, pp. 151-60, ha mostrato che i cinque emendamenti elencati nell’ultima carta dell’edizione furono mutuati da una lista di sei correzioni spedita dal Crini-to ad Aldo quando il volume era già in bozze. Per Lavinia però il Crinito si limi-tava a rinviare alle Castigationes Plinianae di Ermolao Barbaro; la menzione del codice romano fu dunque inserita nella tipografia aldina, probabilmente dallo stesso Aldo. La lista di correzioni si legge in Aldo Manuzio editore, cit., pp. 50-51. Per un’approfondita analisi della storia della variante Lavinaque/Lavinia rinvio a Mar-tini Philetici In corruptores Latinitatis, a cura di M.A. Pincelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000, in partic. pp. 30-40.

28. Vale la pena di riportare il testo, da Aldo Manuzio editore, cit., p. 94: « Est enim volumen ipsum non solum correctissimum, sed etiam ita antiquum, ut pu-tem scriptum Plinii temporibus; quamobrem si, ut videtur, a Plinii aetate ad haec usque tempora hoc epistolarum volumen servatum est, fit ut facile credam et T. Livium et alios, quos tum vetustate tum hominum negligentia tum vi aliqua in-cursioneve exterarum gentium periisse credimus, alicubi, tanquam in impio con-clusos carcere, squallidos delitere, speremque exituros in lucem ».

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limitarsi a considerarlo coevo dell’autore. Quando invece Polizia-no ebbe modo di studiare il celeberrimo manoscritto delle Pan-dette giunto a Firenze da Pisa, l’analisi della tipologia di alcune cor-rezioni (« quaedam inducta, expuncta ac superscripta ») lo convin-se che doveva trattarsi senz’altro della mano dell’autore, un auctor cogitans atque generans, e non un copista o un segretario, in partico-lare nella prefazione: questa diagnosi di autografia, frutto esclusi-vo di filologica induzione, consentí a Poliziano, nel cap. 41 della prima centuria dei Miscellanea, di individuare nelle Pandette pisa-ne il codex archetypus, ovvero l’originale d’autore, del Digesto giu-stinianeo. Non stupisce che il manoscritto sia tra i piú citati negli scritti filologici di Poliziano, che se ne serví come di un costante punto di riferimento per dirimere ogni questione relativa all’orto-grafia del latino. Poliziano del resto era stato preceduto da Ficino, il quale nel 1486 terminava una sua expertise del manoscritto notan-do che era stato « proprie ab ipso Iustiniano compositum, neque solum transcriptum ».29 Gli umanisti non avevano motivo di pen-sare che da una qualche biblioteca, o un qualsivoglia angolo del-l’orbe latino, non potesse riemergere un autografo o un originale di un autore antico, cosí come dalla terra tornavano fuori costan-temente, e sovente in modo accidentale, sculture antiche che non di rado portavano firme celebri, Lisippo, Fidia, Prassitele (copie ellenistiche, naturalmente). In questa speranza erano confortati dal loro grande modello antico.

La filologia umanistica ha due grandi numi tutelari, san Girola-mo e Gellio, ma mentre Girolamo è un padre accigliato e quasi intangibile, Gellio è un collega piú anziano dal quale si impara non solo la tecnica del mestiere filologico, ma anche il piacere di esercitarlo, un piacere che, nel caso del maestro, sembra autolegit-timarsi. Gellio testimoniava che autografi e idiografi degli antichi non solo erano esistiti, ma erano finiti in biblioteca o nei circoli dei

29. Vd. S. Caprioli, Visite alla Pisana, in Le Pandette di Giustiniano. Storia e fortuna di un codice illustre. Atti di due giornate di studio, Firenze, 23-24 giugno 1983, Firen-ze, Olschki, 1986, pp. 77-78.

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filologi. Gellio infatti aveva avuto per le mani un libro delle Verri-ne scritto da Tirone, il noto segretario dell’Arpinate (i 7 1-15; vd. anche xiii 21 16); aveva visto l’amico e maestro Antonio Giuliano procurarsi, con molta fatica e spesa, per controllare un solo verso, un volume di Ennio, « summae atque reverendae vetustatis, quem fere constabat Lampadionis manu emendatum » (xviii 5 11). Fido Optato, celebre grammaticus di Roma, gli mostrò un « librum Ae-neidos secundum mirandae vetustatis », che aveva comprato per venti monete d’oro alla fiera dei Sigillaria, un libro « quem ipsius Vergilii fuisse credebatur », in cui compariva una piccola correzio-ne interlineare, l’aggiunta di un’acca in aena. Valerio Probo, dal canto suo, leggeva le Georgiche in un libro « manu ipsius [scil. Vergi-lii] correctus », in cui trovava l’accusativo plurale urbis scritto per ‘i’ litteram (xiii 21 4). Altri ancora, che rimanevano imprecisati, « scrip-serunt idiographum librum Vergilii se inspexisse », in cui si legge-va un dies genitivo (ix 14 7).30 Ma non c’era solo Gellio. Quintiliano proprio all’inizio dell’Institutio oratoria faceva riferimento ad auto-grafi di Cicerone, Virgilio ed Augusto (inst., i 7 20-22); è un passo al quale Poliziano fa esplicito riferimento nel cap. 89 dei Miscella-nea. Certamente nota agli umanisti era anche la testimonianza di Plinio il vecchio, che, parlando della lunga vita assicurata dal papi-ro agli scritti, affermava di aver visto presso il poeta Pomponio Secondo la manus di Tiberio e Gaio Gracco intatta dopo circa due-cento anni, e di aver avuto spesso sotto gli occhi le mani di Cicero-ne, Augusto e Virgilio (nat., xiii 83).

Nessun umanista avrebbe osato mettere in dubbio la fides di

30. Le analisi condotte dai filologi odierni sull’attendibilità degli autografi e delle mani celebri citate da Gellio ovviamente non riguardano il discorso che sto qui conducendo; ma si vedano almeno J.E.G. Zetzel, « Emendavi ad Tironem ». Some Notes on Scholarship in the Second Century A.D., in « Harvard Studies in Classi-cal Philology », lxxvii 1973, pp. 225-43; L. Gamberale, Autografi virgiliani e movi-mento arcaizzante, in Atti del Convegno virgiliano sul bimillenario delle ‘Georgiche’, Na-poli, 17-19 dicembre 1975, Napoli, Ist. Universitario Orientale, 1977, pp. 359-64; e da ultimo L. Holford-Strevens, Aulus Gellius. An Antonine Scholar and his Achie-vement, Oxford, Oxford Univ. Press, 2003, pp. 189-92, con la bibliografia prece-dente.

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Gellio. Se si poteva credere che un amico di Gellio avesse acqui-stato un autografo di Virgilio al mercato dei Sigillaria, che era poi un mercato delle pulci, una sorta di Porta Portese della Roma an-tica, nel Quattrocento non c’era motivo per dubitare a priori del fatto che nella venerandissima basilica di San Paolo si fosse conser-vato l’exemplar di Virgilio, autore a cui nel Medioevo si riconosce-vano anche virtú profetiche, oltreché magiche. Gellio d’altra parte sembra essere piú attento a distinguere tra autografi e idiografi di quanto non lo siano gli umanisti filologi. Infatti dietro le tante in-dicazioni ex archetypo, ma anche ex originali, non accompagnate dal-l’indicazione manu propria o simili, che ricorrono pure nelle prefa-zioni e nei colofoni delle edizioni a stampa, si cela un problema di sostanza, che potrebbe rivestire anche un qualche interesse meto-dologico: si tratta di autografi o di idiografi dell’autore? In molti casi si tratterà sicuramente della seconda ipotesi, ma il fatto che nella filologia, e nella tipografia, umanistica non si senta il bisogno di distinguere piú di tanto è la riprova che l’autografia è concepi-ta quasi solo esclusivamente in chiave di auctoritas, quale garanzia della genuinità del testo, mentre Gellio si muoveva in un mondo che era in parte un mondo di grammatici, ovvero di filologi, ma in parte anche un mondo di antiquari e bibliofili che sfociava nel col-lezionismo.

Alle origini della stampa il riconoscimento o la constatazione dell’autografia non è altro che uno strumento della filologia: da un lato sembra il modo piú sicuro per garantire l’auctoritas del testo, ma dall’altro si rivela sfuggente, manifesta una natura controversa. Pandolfo da Collenuccio aveva scritto a Poliziano chiedendogli alcune amenità, ovvero come si presentasse nei testi dei giurecon-sulti il nome dell’uva che non produce vino e se l’espressione ima dies potesse usarsi per indicare l’ultimo giorno di vita. Tutte cose che stavano tra l’indovinello e la provocazione erudita. Poliziano rispose minutamente.31 Pandolfo mostrò l’epistola polizianea a se-

31. L’epistola polizianea in cui si narra tutta la vicenda è l’ultima del libro vii, e si legge alle pp. 102-3 dell’ed. basileense precedentemente citata.

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dicenti (cosí li definisce Poliziano stesso) eruditi, i quali non solo non si trovarono d’accordo su nulla di quanto Poliziano aveva espo-sto, ma, bontà loro, criticarono pure l’uso di specimen per species ed alcune grafie dell’epistola, ovvero cottidie per quotidie, quotiens per quoties e culcita per culcitra. Considerando il profilo davvero basso delle accuse, Poliziano, contrariamente a quanto avvenne in altri frangenti, volle assumere un atteggiamento distaccato, e cominciò col precisare, un po’ tra le righe, che quella lettera non l’aveva scrit-ta materialmente lui, ma il suo amanuense (« Reprehendunt item quod cottidie noster a manu scripserit, non quotidie […] »). Detto que-sto, Poliziano non intese sottrarsi alla discussione sulle grafie: il suo amanuense aveva scritto cottidie seguendo Quintiliano e quotiens seguendo Prisciano; nel secondo caso si era seguita la proportio, nel primo l’auctoritas. Quanto a culcita, non occorreva far altro che sfo-gliare i codici antichi, terreno sul quale Poliziano si muoveva con l’abituale agilità apparecchiando di fronte al lettore uno Svetonio della Vaticana, un Marziale della biblioteca di San Marco (la Medi-cea publica), entrambi qualificati come « vetustissima exemplaria », e poi un Giovenale pervetus della biblioteca del duca d’Urbino; ma non era il caso di farla troppo lunga, perché la forma culcita si leg-geva anche nelle Pandette archetypae, e veniva finalmente confer-mata dalla ratio.

Poliziano operava infine una decisa svalutazione di tutta la ma-teria del contendere, scrivendo che non avrebbe mai creduto che questioni come quelle andassero vagliate ad obrussam, tanto piú che le forme incriminate non le aveva scritte di suo pugno, ma solo formate nella sua mente, e gli uomini dotti concedono venia pure agli idiografi dei loro colleghi, sia per un sempre riemergen-te disprezzo delle questioni grafiche, sia perché lo stesso Cicerone (cfr. Or., 160) consigliava di uniformarsi alle consuetudini del po-polo nell’uso e di riservare la scienza linguistica per sé. La credibi-lità di questa conclusione era nulla, e anche ai contemporanei non sarà apparsa piú che un gioco retorico, sia rispetto alla lettera che la conteneva, in cui Poliziano si era dilungato da par suo su tutti i rilievi che gli erano stati rivolti, sia rispetto all’intera filologia poli-

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zianea, la cui finalità era proprio quella di recuperare la corretta forma delle parole per arrivare a cogliere in modo corretto lo svi-luppo delle idee che nelle parole trovavano il loro corpo. La lette-ra di Poliziano inviterebbe ad esplorare la frontiera ultima della percezione dell’autografia ai primordi della stampa, ovvero il mo-mento in cui l’autografia o l’idiografia sono invocate a supporto dell’ortografia, divenendo garanzia della correttezza non solo del testo, ma anche della forma delle parole. Era questo un livello in apparenza sovrastrutturale, ma in realtà fondamentale non meno per il contenuto che per i valori formali, piú squisitamente lette-rari.

Per capire quanto fosse avvertito il problema dell’ortografia nel-l’universo degli incunaboli bisogna tornare alle edizioni di testi giu-ridici. Citerò in particolare un volume stampato da quello che fu il piú grande, e piú consapevole, tipografo-editore prima di Aldo: si tratta di Nicolas Jenson, francese attivo a Venezia, che fu in pri-ma linea nell’editoria dei testi classici.32 Al termine dell’edizione della Nova Decretalium compilatio Gregorii IX (1° marzo 1475; ISTC ig00449000) è stampata una lettera di Pietro Albignani, coadiutore di Alessandro Nevo nella costituzione del testo, indirizzata a Fran-cesco Colucia, revisore del testo in tipografia, a cui viene rivolta una richiesta di questo tenore:

Tu solitam adhibueris curam et diligentiam, ne ipsius operis constructo-res aut impressores a castigationis tramite exorbitent, ac in omnibus dic-tionibus syllabisque tua scribendi ratione consueta usus fueris, quam orthographiam appellare solemus.

Sono cose che i « bonarum ignari litterarum » considerano super-flue – prosegue l’Albignani –, ma a coloro che hanno retto discer-nimento arrecano tanto piacere quanto lo zucchero sparso sul le

32. Su di lui si vedano almeno M. Lowry, Nicholas Jenson and the Rise of Venetian Publishing in Renaissance Europe, Oxford-Cambridge (Mass.), Blackwell, 1991, e P. Veneziani, Jenson, Nicolas, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. lxii 2004, pp. 205-8.

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vivande; se si trascurassero, il libro rimarrebbe « deformis et in-comptus », come una veste purpurea, cucita con filo candido, che fosse coperta di macchie o d’olio.33 Quello della veste grafica da dare al latino fu un problema spinoso negli ultimi decenni del Quattrocento. Il latino era in una situazione ontologicamente di-versa dal volgare: il volgare doveva crearsi una norma, il latino do-veva recuperare una norma, e nessuno poteva dubitare del fatto che questa norma andasse recuperata nei testi antichi (il problema semmai era quali testi antichi), una volta che, insieme alle lezioni genuine, ne fosse stata ristabilita l’originaria veste grafica. Ma co-me ristabilirla, questa veste grafica, considerato che era la piú ra-pida a corrompersi? Fin da subito ci si rese conto che l’antichità ave va tramandato un generoso corpus di testi in veste originale, idiografi se non autografi, un corpus in continua espansione, quello delle epigrafi. Nel processo di reductio ad unum che avrebbe dovuto portare dall’anarchia della tradizione manoscritta all’originale del-l’autore le epigrafi divennero la pietra di paragone, il pendant di quei manoscritti in capitale, « antiquissimae antiquitatis reliquiae », su cui si poteva sognare che si fosse posata la mano dell’autore, o che fossero stati scritti sotto i suoi occhi. Cosí Poliziano nei Miscel-lanea (i 77) difendeva la grafia Vergilius in luogo di Virgilius citando due mense marmoree che erano state rimontate sotto altari di chie-se a Bolsena e Sutri, ed ormai quasi al termine della vita, per soste-nere la legittimità della forma Carthaginiensis in polemica con Bar-tolomeo Scala citerà un epigramma « quod in antiquo marmore in-cisum Romae adhuc in Transtyberina regione spectatur ».34 Pom-

33. In un’epistola stampata in calce all’edizione del Decreto di Graziano (Ve-nezia, N. Jenson, 28.vi.1474; ISTC ig00363000) Francesco Colucia affermava di aver vegliato sul rispetto dell’ortographia, parola che in questo caso sembra rinvia-re prevalentemente all’ambito dell’interpunzione: « Ego vero, ut ad me nunc ve-niam qui impressoribus presum, quantum mee tenues vires ferre potuerunt, la-boravi ut orthographia, quantum id opus passum est, sententiarum capitibus, pe-riodis, commatibus, interrogationum signis, omni denique distinctionum genere quam castigatissime imprimeretur ».

34. È la terza epistola del libro v; il brano si legge alle pp. 63-64 dell’ed. basi-leense precedentemente citata.

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ponio Leto da parte sua traeva alimento dalle epigrafi piú che dai manoscritti per quelle compiaciute grafie arcaizzanti che traman-dò a piú di una generazione di allievi.35 Alla fine degli anni ’80 del Quattrocento un epigrafista di rango come Fra’ Giocondo, dedi-cando a Lorenzo dei Medici la sua raccolta di iscrizioni, aveva mes-so in guardia dai rischi che presentavano i testi epigrafici, incisi da analfabeti, pressoché impossibili da correggere dopo esser stati scolpiti e rispondenti a consuetudini grafiche non sempre confor-mi a quella classica.36 Naturalmente questo tipo di problemi ri-guardava l’epigrafia di consumo, soprattutto funeraria, e non la committenza dei poteri costituiti, ma anche senza questo distin-guo la passione per le epigrafi, equamente divisa tra collezionismo e filologia, non fece altro che crescere, fino a diventare un elemen-to distintivo della cultura del Rinascimento.

Quando nel 1521 Pierio Valeriano restaurò in forma pressoché definitiva i testi di Virgilio, pubblicando a Roma le Castigationes et varietates Virgilianae lectionis,37 il sogno di ritrovare gli autografi degli

35. Sulla collezione epigrafica del Leto si veda S. Magister, Pomponio Leto col lezionista di antichità. Note sulla tradizione manoscritta di una raccolta epigrafica nella Roma del tardo Quattrocento, in « Xenia Antiqua », vii 1998, pp. 167-96, ed Ead., Pomponio Leto collezionista di antichità: addenda, in Antiquaria a Roma. Intorno a Pom-ponio Leto e Paolo II, a cura di M. Miglio, Roma, Roma nel Rinascimento, 2003, pp. 51-121.

36. Quella di Fra’ Giocondo è in realtà una excusatio volta a prevenire le criti-che al suo lavoro: « Sed animadvertant, qui desidiam et errores in me retorquent, maio res nostros homines fuisse et eadem illis quae et nobis contigisse. Nam si polite, eleganter accurateque componebant, ipsis opificibus in aes aut in marmo-ra caedenda delegabant, qui cum et litterarum ignari essent et abunde errarent, tum eorum errata vel minime notabantur vel litura non commode aut sine lapi-dis iactura superinduci poterat. Orthographiae quoque consuetudinem, quam modo servare videmur, et religionis ritus, quos nunc tenemus, prisci illi non ha-bebant, sed opinionibus aliis inserviebant »; traggo il testo da M. Koortbojian, A col lection of inscriptions for Lorenzo de’ Medici. Two dedicatory letters from Fra Giovanni Giocondo: introduction, texts and translation, in « Papers of the British School at Ro-me », lxx 2002, pp. 297-317, a p. 312.

37. Il 1521 fu un annus mirabilis nella storia dell’epigrafia latina: ad aprile, cioè nello stesso periodo delle Castigationes, erano finalmente usciti dalla tipografia romana del Mazochi gli Epigrammata antiquae Urbis, che rappresentano la mas-

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antichi era ormai tramontato. Pierio sapeva bene che le grafie dei testi virgiliani avrebbero avuto un valore normativo per la poesia latina. Per restaurarle si serví delle epigrafi in misura non minore a quella degli antichi manoscritti. E in un punto delle Castigationes, riflettendo sull’importanza data alle epigrafi nella sua opera, la motivò in linea di principio: i marmora sono preferibili ai mano-scritti perché « non abraduntur aut transcribuntur veluti codices » (p. 111). Ma a quel punto la stagione delle origini della stampa era ormai un ricordo lontano.

sima silloge epigrafica prodotta nel Rinascimento. Sulle Castigationes si vedano G. Savarese, Le ‘Castigationes’ virgiliane di P. Valeriano, in Id., La cultura a Roma tra umanesimo ed ermetismo (1480-1540), Anzio, De Rubeis, 1993, pp. 47-67; A. Graf-ton, Joseph Scaliger. A Study in the History of Classical Scholarship, i. Textual Criticism and Exegesis, Oxford, Oxford Univ. Press, 1983, pp. 48-52; G. Savarese, Echi po-lizianei in Pierio Valeriano, in Agnolo Poliziano poeta scrittore filologo. Atti del Conve-gno internazionale di Montepulciano, 3-6 novembre 1994, a cura di V. Fera e M. Martelli, Firenze, Le Lettere, 1998, pp. 565-73; Venier, Per la storia del testo di Virgilio, cit., pp. 122-25; V. Fera, Dai ‘Miscellanea’ alle ‘Castigationes’ virgilianae, in Umanisti bellunesi fra Quattro e Cinquecento. Atti del Convegno di Belluno, 5 novem-bre 1999, a cura di P. Pellegrini, Firenze, Olschki, 2001, pp. 119-36; P. Pellegri-ni, Pierio Valeriano e la tipografia del Cinquecento. Nascita, storia e bibliografia delle opere di un umanista, Udine, Forum, 2002, pp. 61-66; Campanelli, « Si in antiquis exem-plaribus incideris… », cit., pp. 484-93.