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Focus sulle modificheal codice di procedura civile

Risvolti applicativi in materia tributaria

DIREZIONE REGIONALE DELLA SICILIA

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PRESENtAZIONE

Il “Focus sulle modifiche al Codice di procedura civile. Risvolti applicativi in materia tributaria” è il numero zero della collana di approfondimenti sulle tematiche fiscali che rivestono particolare interesse per l’attività degli uffici dell’Agenzia delle Entrate, sia sotto il profilo dell’attualità sia per i risvolti operativi che comportano.

L’iniziativa si inserisce in un percorso di formazione e sviluppo del personale il cui obiettivo è porre al servizio degli Uffici un patrimonio di conoscenze costantemente aggiornato.

Punto di partenza la legge n. 69 del 18 giugno del 2009 di riforma del codice di procedura civile. Vista la portata delle innovazioni introdotte dal legislatore nel rito civile, ed i risvolti applicativi che ciò comporta in ambito tributario, è parso opportuno analizzare ed approfondire gli aspetti più rilevanti per il lavoro svolto nei nostri uffici, con particolare riguardo al contenzioso.

Le tematiche affrontate sono “Il Giudizio di legittimità”, “Termini processuali e prove”, “Notifiche, comunicazioni e spese processuali”.

Febbraio 2010

Castrenze Giamportone Direttore regionale della Sicilia

Hanno collaborato:Paolo Amari, Cinzia Bondì, Laura Caggegi, Pietro Cascio, Stefano Compagno, Benedetta D’Angelo, Salvatore Di Giglia, Mauro Farina, Dora Fucarino, Valeria Giacchino, Giuseppe D. Giunta, Eleonora Lanza, Nicola Li Causi, Cristina Livoti, Maria Antonietta Lucchese, Antonella Mazzola, Giuseppina Saporita, Alessia Tripi

INDICE

Presentazione ...........................................................................................................................................................................................................pag. 3

Premessa ...........................................................................................................................................................................................................................pag. 7

Capitolo 1Le spese processuali .......................................................................................................................................................................................... “ 13 1.1 - La condanna alle spese - art. 91 c.p.c.1.1.1 - La condanna alle spese nel procedimento cautelare 1.2 - La compensazione delle spese di lite - art. 92 c.p.c. 1.3 - La c.d. responsabilità aggravata e la condanna della parte soccombente - art. 96 c.p.c. 1.4 - La riforma del sistema di recupero delle spese di giustizia e delle pene pecuniarie 1.5 - Gli effetti della riforma sulla spese del processo tributario.

Capitolo 2:Il contraddittorio obbligatorio sulle questioni rilevabili d’ufficio:art. 101 c.p.c. ............................................................................................................................................................................................... “ 26

Capitolo 3:Il principio di non contestazione ............................................................................................................................................. “ 30 3.1 – Il principio di non contestazione nel processo civile – art. 115 c.p.c. 3.2 - Operatività del principio di non contestazione nel processo tributario.

Capitolo 4Comunicazioni e notificazioni ..................................................................................................................................................... “ 37 4.1 - Comunicazioni4.1.1 - Telefax 4.1.2 - Posta elettronica 4.2 - Notificazioni4.2.1 - Le novità della legge n. 80/20054.2.2 - Le novità della legge n. 133/20084.2.3 - Le notificazioni per via telematica4.2.4 - Notifica e prova scritta della conoscenza 4.3 - Gli effetti della riforma sulla notifica degli atti tributari

Capitolo 5Rimessione in termini ................................................................................................................................................................................... “ 50

5.1 - Rimessione in termini nel processo civile: abrogazione dell’art.184-bis c.p.c. e riformulazione dell’art.153 c.p.c.

5.2 - Operatività della rimessione in termini nel processo tributario

Capitolo 6Istruzione probatoria ..................................................................................................................................................................................... “ 57 6.1 - La consulenza tecnica nel processo civile 6.2 - La consulenza tecnica nel processo tributario 6.3 - La testimonianza scritta nel processo civile 6.4 - Applicabilità della testimonianza scritta nel processo tributario6.4.1 - Le dichiarazioni rese da terzi

Capitolo 7Istituti accidentali del processo: sospensione, interruzione, estinzione e riassunzione ................................................................................. “ 70 7.1 - Sospensione del processo civile 7.2 - Interruzione del processo civile 7.3 - Estinzione del processo civile 7.4 - Sospensione e interruzione nel processo tributario 7.5 - Estinzione nel processo tributario 7.6 - Altri casi di riassunzione7.6.1 - Rimessione al primo giudice per ragioni di giurisdizione7.6.2 - Cassazione della sentenza di merito con rinvio

Capitolo 8Il termine lungo di impugnazione delle sentenze .................................................................................... “ 79 8.1 - Il nuovo termine lungo di impugnazione nel processo civile 8.2 - Il nuovo termine lungo di impugnazione nel processo tributario8.2.1 - Modalità di calcolo del termine lungo.

Capitolo 9Deposito di documenti nuovi in appello ................................................................................................................... “ 85 9.1 - Lineamenti generali del giudizio di appello

9.2 - Produzione di documenti nuovi in appello: differenza tra appello tributario e appello civile riformato

Capitolo 10Giudizio di legittimità ................................................................................................................................................................................... “ 9110.1 - La funzione nomofilattica e la riforma del codice di rito10.2 - L’inammissibilità del ricorso alla luce della legge n. 69/200910.3 - Le categorie processuali della inammissibilità e della infondatezza.10.4 - I motivi di inammissibilità del ricorso10.5 - L’abrogazione del quesito di diritto10.6 - Il procedimento per la decisione in Camera di consiglio10.7 - Efficacia della decisione della sezione filtro10.8 - Il giudizio di legittimità e la giurisprudenza della Corte di Giustizia della

Comunità Europea

Capitolo 11translatio iudicii ............................................................................................................................................................................................... “ 10711.1 - La natura11.2 - Le regole procedurali11.3 – Gli effetti

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PREmESSA

Con la legge 18 giugno 2009 n. 69 sono state introdotte nel nostro ordinamento importanti modifiche al codice di procedura civile.

Lo scopo, sin dall’inizio dichiarato, è quello di deflazionare il carico dei tribunali e di accelerare lo svolgimento dei processi. Il contenimento dei tempi dei processi rappresenta un’esigenza imprescindibile: sia per lo Stato che deve dimostrarsi capace di amministrare la giustizia sia per i cittadini che hanno diritto ad un giudizio entro limiti temporali adeguati così come costituzionalmente garantito dall’art. 111 della nostra Carta Costituzionale che, al comma 2, espressamente dispone che “la legge assicura la ragionevole durata di ogni processo”.

L’esigenza di celebrare i processi entro un termine ragionevole, per altro, è stata avvertita, prima ancora che a livello nazionale, a livello comunitario: infatti, l’art. 111 della Costituzione è stato modificato in applicazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, il cui art. 6 così recita:

“Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente,pubblicamente ed entro un termine ragionevole…”

ossia assicurando una durata che possa coniugare le esigenze di celerità con il rispetto delle altre tutele costituzionali in materia e, quindi, anche in relazione al diritto delle parti di agire e difendersi in giudizio, garantito dall’art. 24 Cost.

Gli obiettivi dichiarati della riforma sono stati realizzati mediante interventi mirati di modifica del codice di procedura civile e soprattutto riducendo i termini processuali, valorizzando il principio di lealtà processuale e favorendo la conciliazione stragiudiziale, inserendo il nuovo processo sommario di cognizione, introducendo un c.d. filtro in Cassazione.

In particolare, possiamo individuare nelle modifiche al Libro I del codice di rito (Disposizioni generali) gli interventi che rafforzano taluni principi di carattere generale come il principio di lealtà processuale (introducendo un meccanismo sanzionatorio per la parte che abbia rifiutato senza giustificato motivo una proposta conciliativa e valorizzando l’istituto della lite temeraria), il principio di non contestazione (secondo cui il giudice può porre a fondamento della decisione anche fatti non specificamente contestati imponendo così alle parti di prendere posizione chiara ed immediata sui fatti di causa), il principio del contraddittorio (prevedendo che nei casi in cui il giudice ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio deve assegnare alle parti un termine per depositare in cancelleria memorie sulla questione). Ulteriori modifiche al Libro I riguardano la rilevanza delle questioni di competenza, la riduzione del termine per la riassunzione, la condanna

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alle spese, la semplificazione del contenuto della sentenza (è stato eliminato l’obbligo di includere nella sentenza la concisa esposizione dello svolgimento del processo, limitando tale obbligo alle ragioni di fatto e di diritto della decisione), le modalità delle notificazioni, la rimessione in termini.

Le modifiche al Libro II (Del processo di cognizione) intervengono, invece, nell’ambito del processo di cognizione ove sono stati ridotti molti termini processuali (quali quello della sospensione, della riassunzione, della estinzione per inattività delle parti e soprattutto il termine lungo per impugnare), è stata snellita la fase della consulenza tecnica, è stata introdotta la testimonianza scritta, è stata ridotta la possibilità di produrre nuovi documenti in appello, sono stati introdotti nuovi motivi di inammissibilità del ricorso in Cassazione (c.d. filtro in Cassazione) ed è stata abrogata la disposizione introdotta nel 2006 che prevedeva l’enunciazione del quesito di diritto nel ricorso per cassazione a pena di inammissibilità.

Tra le modifiche più significative al Libro III (Del processo di esecuzione) è da menzionare l’introduzione di una forma di coercizione indiretta degli obblighi di fare infungibile e di non fare consistente nella possibilità per il giudice di fissare una somma di denaro che l’obbligato deve versare in caso di inosservanza o ritardi nell’esecuzione del provvedimento.

Nel Libro IV è stato introdotto il capo III-bis avente ad oggetto il nuovo procedimento sommario di cognizione che dovrebbe essere applicato ogni volta che una causa presenti caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione.

Infine, una novità di rilievo è quella della disciplina specifica dell’istituto della translatio iudicii tra le varie giurisdizioni.

Delega per la riduzione e semplificazione dei procedimenti civili che rientrano nella giurisdizione ordinaria

Oltre alle modifiche al codice di procedura civile la legge n. 69/2009 prevede, all’art. 54, una delega al Governo per adottare, entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore della suddetta legge, uno o più decreti legislativi in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla legislazione speciale, come appunto quella tributaria (D.Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992 e successive modifiche ed integrazioni). La riforma deve, in ogni caso, realizzare il necessario ed equilibrato coordinamento con le altre disposizioni vigenti.

Nell’esercizio della delega, il Governo deve attenersi ai seguenti principi e criteri direttivi:

a) restano fermi per il momento i criteri di competenza nonché i criteri di composizione dell’organo giudicante, previsti dalla legislazione vigente;

b) i procedimenti civili di natura contenziosa, autonomamente regolati dalla legislazione speciale, devono essere ricondotti ad uno dei seguenti modelli processuali previsti dal codice di procedura civile:

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1) i procedimenti in cui sono prevalenti caratteri di concentrazione processuale, ovvero di officiosità dell’istruzione, sono ricondotti al rito disciplinato dal libro secondo, titolo IV, capo I, del codice di procedura civile (norme per le controversie in materia di lavoro);

2) i procedimenti, anche se in camera di consiglio, in cui sono prevalenti caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa, sono ricondotti al procedimento sommario di cognizione di cui al libro quarto, titolo I, capo III-bis, del codice di procedura civile, come introdotto dall’art. 51 della nuova legge, restando tuttavia esclusa per tali procedimenti la possibilità di conversione nel rito ordinario;

3) tutti gli altri procedimenti sono ricondotti al rito ordinario di cui al libro secondo, titolo I e III, ovvero titolo II, del codice di procedura civile (processo di cognizione).

In ogni caso, la riconduzione ad uno dei riti di cui ai precedenti numeri 1), 2) e 3) non comporta l’abrogazione delle disposizioni previste dalla legislazione speciale che attribuiscono al giudice poteri officiosi, ovvero di quelle finalizzate a produrre effetti che non possono conseguirsi con le norme contenute nel codice di procedura civile.

In sostanza, la legge delega restituisce centralità ed importanza al codice di procedura civile.

Da ultimo, restano in ogni caso ferme le disposizioni processuali in materia di:- procedure concorsuali, in attesa della riforma del penale fallimentare;- famiglia e minori;- cambiali ed assegni (bancari e circolari);- legge 20 maggio 1970 n. 300 (Statuto dei lavoratori), in tema di repressione

della condotta antisindacale;- proprietà industriale (D.Lgs. n. 30 del 10 febbraio 2005);- codice del consumo (D.Lgs. n. 206 del 06 settembre 2005).Sono state, infine, abrogate tutte le norme processuali in tema di processo

societario e di quello per il risarcimento dei danni da incidente stradale.

Decorrenza delle modificheLa disciplina del momento temporale a partire dal quale trovano applicazione

le norme del codice di procedura civile così come modificate dalla legge 18 giugno 2009 n. 69 è contenuta nell’art. 58.

In linea generale le nuove disposizioni si applicano “ai giudizi instaurati dopo la data di entrata in vigore della legge di riforma” ossia instaurati dopo il 4 luglio 2009.

Pertanto, per i giudizi civili incardinati con citazione deve farsi riferimento al momento di notificazione dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado1, per il processo tributario, poiché la notifica del ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria provinciale costituisce l’atto introduttivo del processo stesso2, deve ritenersi 1 Cfr. Cass. civ. sez. I n. 16347/04.2 Ai sensi dell’art. 18, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992, “il processo è introdotto con ricorso

alla Commissione tributaria provinciale”.

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che le modifiche (ove applicabili) trovino applicazione per i giudizi tributari instaurati con ricorso proposto, nei modi di cui al combinato disposto degli artt. 16 e 20 del D.Lgs. n. 546/1992, dopo il 4 luglio 2009 (salve le eccezione di cui infra).

Al riguardo, si annota che, già in altra occasione, l’Agenzia delle Entrate3, chiamata ad interpretare altra disposizione transitoria che faceva pur sempre riferimento a procedimenti instaurati successivamente ad una certa data, ha espresso l’avviso che per “procedimenti instaurati” successivamente ad una certa data “si devono intendere tutti i giudizi per i quali è stato proposto ricorso, ai sensi dell’art. 20 del D.Lgs. n. 546/1992, successivamente (…)” a tale data, chiarendo che “il processo [tributario] si intende instaurato con la notifica del ricorso di primo grado” e che “non rileva, invece, la successiva data di costituzione in giudizio del ricorrente”.

Alla regola generale sono apportate talune eccezioni dal comma 2 dell’art. 58, e precisamente: ai giudizi pendenti in primo grado alla data del 4 luglio 2009 si applicano le seguenti norme così come modificate:

art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att.: secondo cui la sentenza non deve più - contenere l’esposizione dello svolgimento del processo, in tal modo si rende più semplice il contenuto della sentenza e si riducono i tempi necessari per la sua estensione;art. 345 c.p.c. secondo cui non possono essere prodotti nuovi documenti - in appello;art. 616 c.p.c. secondo cui è possibile ricorrere in appello verso la sentenza - che abbia deciso sull’opposizione all’esecuzione.

Ulteriore norma sulla decorrenza delle modifiche riguarda il giudizio di legittimità e, in particolare, l’introduzione dell’art. 360-bis c.p.c. (e le modifiche collegate) riguardante i nuovi motivi di inammissibilità del ricorso.

Ebbene, le nuove disposizioni in merito si applicano alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione è stato pubblicato ovvero, nei casi in cui non sia prevista la pubblicazione, depositato successivamente alla data di entrata in vigore della legge.

Quindi, la valutazione di inammissibilità per i nuovi motivi introdotti dall’art. 360-bis c.p.c. andrà effettuata sui ricorsi per cassazione proposti nei confronti di provvedimenti pubblicati o depositati dopo il 4 luglio 2009.

Discorso diverso vale per la nuova disciplina della translatio iudicii introdotta con l’art. 59 della legge n. 69/2009, in quanto, trattandosi di disciplina autonoma che non modifica il codice di procedura civile, troverà applicazione anche ai giudizi pendenti alla data del 4 luglio 2009.

L’immeditata valenza della disposizione de qua anche a tutto il contenzioso pendente si evince, oltreché dalla considerazione che siamo in presenza di una norma avente natura processuale, altresì dalla mancanza di uno specifico divieto in tal senso.

Ed invero, le disposizioni di che trattasi non contengono alcuna modifica delle

3 Cfr. Circolare n. 56/E del 2007, paragrafo 4.

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disposizioni del codice di rito o delle disposizioni attuative del codice processuale e, conseguentemente, assurgono al rango di principio generale applicabile, in quanto tale, a tutti i giudizi pendenti.

Applicabilità delle modifiche al processo tributarioNell’ambito del processo tributario, l’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992

prevede il c.d. principio di integrazione del sistema processuale tributario disponendo che “i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”.

La circolare ministeriale n. 98 del 1996 in proposito annota che la disciplina del processo tributario recata dal D.Lgs. n. 546/1992 si completa, per quanto non espressamente previsto, con un ampio rinvio a tutte le norme del codice di procedura civile (e non soltanto a quelle del libro I, come contemplato dal previgente sistema) compatibili con quelle proprie del processo tributario.

Tale rinvio è, però, subordinato alle seguenti condizioni:a) che nessuna norma del decreto legislativo n. 546 del 1992 disciplini la

fattispecie sia pure mediante interpretazione estensiva;b) che la norma processualcivilistica, astrattamente applicabile alla fattispecie,

sia compatibile con quelle del decreto legislativo medesimo.Per l’accertamento di compatibilità soccorre il principio enunciato della

Suprema Corte di Cassazione (cfr. Cass. SS. UU. 16.01.1986, n. 210) secondo il quale, in primo luogo, l’indagine deve tendere ad accertare se anche nel processo tributario possa configurarsi una situazione processuale avente le medesime caratteristiche di quella oggetto delle disposizioni richiamate, ed, in secondo luogo, se la disciplina risultante sia o meno compatibile con le norme del processo tributario e dell’ordinamento tributario in generale.

Il giudizio di compatibilità avrà esito positivo non solo quando non vi è contrasto assoluto tra le norme, ma anche quando l’applicazione della norma richiamata non comporti una disarmonia non giustificata.

In conclusione, si può schematizzare nel modo seguente:ove il processo tributario prevede una disciplina specifica, anche - eventualmente analoga a quella civilistica, non vi può essere interferenza o sovrapposizione e le due discipline processualistiche rimangono autonome;ove il processo tributario prevede un rinvio espresso ad una o più - disposizioni del processo civile, si realizza un’applicazione diretta della norma processual-civilistica richiamata e delle sue eventuali modifiche (c.d. rinvio dinamico);ove il processo tributario presenta una lacuna di disciplina, si - applica per analogia la norma processual-civilistica (principio di integrazione) ove compatibile con la struttura del processo tributario e con l’ordinamento tributario nel suo complesso.

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L’Agenzia delle Entrate si è espressa in alcuni casi per la compatibilità o incompatibilità di specifiche norme processual-civilistiche. In particolare, con circ. n. 56 del 2007 l’Agenzia ha ritenuto applicabile al processo tributario il comma 5 dell’art. 155 c.p.c. per effetto del quale se un termine relativo ad atti da compiersi fuori udienza viene a scadere di sabato, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo.

Invece, con circ. n. 73 del 2001 l’Agenzia ha ritenuto non applicabile nel processo tributario il potere di sospensiva disciplinato dall’art. 373 c.p.c. sul presupposto della mancanza di disciplina, nel D.Lgs. n. 546/1992, della tutela cautelare nei gradi di giudizio successivi al primo. L’incompatibilità è stata fondata sulla peculiarità del processo tributario per quanto concerne la disciplina della tutela cautelare in contrapposizione al processo civile, anche per quanto riguarda la disciplina della provvisoria esecuzione delle sentenze, autonomamente prevista, dall’art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992.

Sul punto, si è espressa la Corte Costituzionale con sentenza del 25 maggio 2000, n. 165, depositata il 31 maggio 2000, che nel confermare che la disponibilità di misure cautelari costituisce componente essenziale della tutela giurisdizionale garantita dall’art. 24 della Costituzione, ha statuito che, nel processo tributario, “la tutela cautelare debba ritenersi imposta solo fino al momento in cui non intervenga una pronuncia di merito che accolga, con efficacia esecutiva, la domanda, rendendo superflua l’adozione di ulteriori misure cautelari, ovvero la respinga, negando in tal modo, con cognizione piena, la sussistenza del diritto e dunque il presupposto stesso della invocata tutela”.

Del resto, la particolarità innanzi evidenziata rientra nella discrezionalità del legislatore costantemente ammessa dalla giurisprudenza della Corte che ha escluso (cfr. Cass. n. 18/2000 e n. 82/1996) l’esistenza di un principio, costituzionalmente rilevante, di necessaria uniformità tra i vari tipi di processo.

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CAPItOLO 1Le spese processuali

Sul fronte delle spese processuali, l’innovazione certamente più significativa è quella di cui al comma 1 dell’art. 91 c.p.c., che ha lo scopo di indurre le parti ad avviare una trattativa seria per la definizione conciliativa della controversia ed evitare che tale trattativa fallisca per motivi strumentali. Tuttavia, anche la limitazione della possibilità di ricorrere alla compensazione, conseguente alle modifiche apportate al comma 2 dell’art. 92 c.p.c., offre una spinta non indifferente verso una lite fondata che non sia esclusivamente strumentale alla volontà di procrastinare il più possibile il ripristino della legalità.

Va poi sottolineata anche l’importanza dell’introduzione, per effetto del nuovo art. 96 c.p.c., del principio della responsabilità aggravata, espressione di una più incisiva valutazione del comportamento delle parti durante il processo e del generale dovere di lealtà e probità posto in capo alle parti del processo.

Passando ad esaminare più nel dettaglio le novità che possono essere accomunate dall’essere rivolte a limitare l’abuso del processo civile, devono, innanzitutto, prendersi in considerazioni le seguenti tematiche:

la condanna alle spesea. la compensazione delle speseb. la responsabilità aggravata e la nuova condanna del soccombentec. la riforma del sistema di recupero delle spese di giustizia e delle pene d. pecuniarie.

1.1 - La condanna alle spese - art. 91 c.p.c.

Il processo civile può comportare, per le parti, l’esborso di ingenti somme, corrispondenti ai costi sostenuti nel corso del giudizio.

Tali importi, comunemente definiti spese processuali o di giudizio, sono stati posti, dal nostro legislatore, a carico della parte soccombente.

L’art. 91 c.p.c., e specificatamente il primo periodo del comma 1, dispone, infatti, che “il giudice condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari della difesa”.

Di fronte all’alternativa tra l’individuare un criterio genericamente valido per imputare le spese di giudizio ad una delle parti in causa ed il mantenere le stesse a carico di chi le ha anticipate, a prescindere dall’esito dell’azione, il legislatore ha disposto nel senso di condannare al pagamento degli oneri il soccombente.

La soluzione adottata nel codice di rito sembra voler far sì che la parte

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giudiziale che ha inutilmente resistito, pur non avendone diritto, sia sottoposta ad una sorta di ulteriore sanzione civile. In realtà più che di una sanzione, si tratta di uno degli effetti dovuti ad una certa condotta processuale. Tale criterio ha il pregio, inoltre, di essere avvertito come socialmente corretto nel maggior numero dei casi poiché anche “l’uomo qualunque può valutare ingiusto il comportamento di chi ha resistito, o se attore ha agito, pur non avendone ragione e per ciò stesso, e anche per avere inutilmente impegnato le forze della giustizia, deve essere punito”.

Le spese sono di varia origine e natura.Vi sono, ad esempio, quelle necessarie al pagamento degli onorari e dei diritti

spettanti all’avvocato che difende la parte in giudizio; seguono i vari depositi e oneri tributari gravanti sul processo dall’inizio alla sua fine; ovvero le spese per una consulenza tecnica (CTU).

Le spese sono ripartite:in via preventiva- : ciascuna parte deve anticipare le spese degli atti che compie, di quelli che chiede e di ogni altro atto necessario, quando l’anticipazione sia posta a suo carico dalla legge o dal giudice.in via successiva- : il giudice, con la sentenza che chiude il processo dinanzi a se, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore di quella vittoriosa e ne liquida l’ammontare nella sentenza insieme con gli onorari di difesa. Tuttavia, il giudice può decidere di compensare totalmente o parzialmente le spese. Compensare vuol dire porle in varia misura a carico delle parti, condannando al rimborso della sola eventuale eccedenza favorevole ad alcune di esse.

Dopo l’entrata in vigore della legge di riforma del 2009, il secondo periodo del comma 1 dell’art. 91 c.p.c. stabilisce che il giudice “ (…) Se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’art. 92 .”

Si tratta di una significativa innovazione nella disciplina delle spese processuali la cui ratio è quella di indurre le parti ad avviare una trattativa per la definizione conciliativa della controversia evitando, in tal modo, il processo.

In forza della nuova norma, infatti, la parte contro cui è rivolta la domanda ha senz’altro un interesse specifico a formulare una proposta conciliativa, atteso che, se quest’ultima venisse rifiutata senza motivo, il giudice potrebbe non condannare il convenuto al pagamento delle spese processuali pur in presenza di un accoglimento, sia pure parziale, della domanda dell’attore.

La norma in questione è sicuramente da valutare positivamente sia perché ribadisce, implicitamente, l’esistenza dei doveri di lealtà e probità (che esplicitamente sono affermati agli artt. 88 e 175 c.p.c.), sia perché attribuisce nuovamente al processo il suo ruolo meramente strumentale all’affermazione del diritto della parte; quando questa può trovare soddisfazione indipendentemente

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dalla celebrazione del processo, quest’ultimo cessa di essere indispensabile, e costituisce soltanto un costo per la società, che deve essere eliminato.

È del tutto evidente, infatti, l’inutilità del processo se all’esito di esso la parte ottiene ciò che fin dall’inizio l’altra si è dichiarata disposta ad offrire.

A tal fine, la riforma ha, quindi, previsto e introdotto un vero e proprio meccanismo sanzionatorio (il pagamento delle spese del processo) a carico della parte che abbia rifiutato, senza giustificato motivo, una proposta conciliativa avanzata dalla controparte.

E senza dubbio può essere considerato ingiustificato l’arroccarsi nelle proprie posizioni in un confronto dalla soluzione incerta, rifiutando un accordo proporzionato agli interessi in gioco. La circostanza, poi, che il giudice finisca per attribuire alla parte vincitrice la stessa utilità che questa avrebbe ottenuto con l’accettare la proposta conciliativa, conduce a rilevare che la sua protratta insistenza nel giudizio, pur dopo la proposta transattiva, era irragionevole e, per questo aspetto, può essere individuata, a danno della parte, una quota di soccombenza sostanziale.

In tal senso, la nuova norma costituisce una deroga al principio della soccombenza in base al quale il criterio a fondamento della responsabilità per le spese processuali viene individuato dal primo capoverso dell’art. 91 c.p.c. nel fatto oggettivo della soccombenza.

In forza di tale principio l’individuazione della parte tenuta al rimborso avviene in modo quasi del tutto automatico, privo di qualsiasi connotazione sanzionatoria, sulla base del mero riscontro della sola soccombenza prescindendo, quindi, dalla valutazione di qualsiasi elemento soggettivo.

In merito all’ambito di riferimento della nuova norma si può ragionevolmente ritenere che essa trovi applicazione laddove sia possibile effettuare un confronto tra quantità chieste, proposte e ottenute. Così, a titolo di esempio, nelle controversie di lavoro può ritenersi esistente una comparazione tra “quantità ”, intese in senso lato, quando il giudizio verta su qualifiche superiori richieste per le diverse mansioni espletate e l’oggetto dell’accordo, trovato sulla base della proposta conciliativa, sia costituito invece da mansioni intermedie.

In queste situazioni, così come in tutti quei casi in cui si possa fare riferimento a un confronto tra prestazioni oggettivamente misurabili nel loro ammontare e nel loro valore, la nuova regola, concernente il pagamento delle spese per la mancata accettazione di proposte transattive oggettivamente fondate, appare applicabile.

Con riferimento, invece, al momento del processo in cui la proposta conciliativa può essere formulata, occorre dire che, in una precedente versione del testo di legge, discussa in parlamento, era presente la frase “tempestivamente formulata”, quale condizione che doveva necessariamente caratterizzare la proposta al fine di produrre gli effetti di accollo delle spese nell’ipotesi di ingiustificato rifiuto.

La successiva eliminazione della predetta locuzione, nella versione definitivamente approvata del testo di legge, fa ragionevolmente supporre che la proposta conciliativa possa essere formulata in qualsiasi fase del processo.

In assenza di esplicite limitazioni, è da ritenere che la disciplina relativa alla

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condanna alle spese, dettata dall’art. 91 c.p.c., sia applicabile anche nel giudizio d’appello.

La legge di riforma è intervenuta anche in tema di condanna alle spese nel giudizio di legittimità dinanzi alla Corte di Cassazione abrogando l’ultimo comma dell’art. 385 c.p.c. (che era stato aggiunto dall’art. 13 del D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40) recante una disposizione che, volta ad impedire ricorsi pretestuosi, permetteva alla Corte di Cassazione, che si pronunciava sulle spese, di condannare, altresì, “la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave.”

Con riferimento agli effetti di tale abrogazione si rimanda alla trattazione riguardante la responsabilità aggravata, in considerazione del fatto che la facoltà dianzi descritta, prima concessa alla Corte di Cassazione dalla norma abrogata, viene adesso disciplinata dal nuovo ultimo comma dell’art. 96 c.p.c.

Tornando alle innovazioni apportate all’art. 91, merita un accenno anche la soppressione, da parte della legge di riforma, dell’originario secondo periodo del comma 1 della norma citata che disponeva “Eguale provvedimento (di condanna alle spese e di liquidazione dell’ammontare) emette nella sua sentenza il giudice che regola la competenza ”.

Si discute se, a seguito della modifica abrogativa, il provvedimento avente ad oggetto esclusivamente la pronuncia sulla competenza non debba più disporre sulle spese del processo o se - tesi che trova più consensi in dottrina - la liquidazione delle stesse continui ugualmente in quanto, a seguito delle modifiche in materia di pronuncia sulle questioni di competenza, il giudice può pronunciarsi sulle spese processuali tutte le volte che emana un provvedimento che definisce il processo davanti a lui, qualunque sia la forma adottata (prima si parlava solo di sentenza).

1.1.1 5 La condanna alle spese nel procedimento cautelare

In tema di condanna alle spese, è opportuno segnalare anche due modifiche apportate nell’ambito del procedimento cautelare.

La prima è costituita dalla modifica del comma 3 dell’art. 669–septies c.p.c.: in seguito alla riforma, rimane la disposizione secondo cui “La condanna alle spese è immediatamente esecutiva” ma, viene soppressa l’ulteriore disposizione in forza della quale tale condanna “è opponibile ai sensi degli artt. 645 ss. in quanto applicabili, nel termine perentorio di venti giorni dalla pronuncia dell’ordinanza se avvenuta in udienza o altrimenti dalla sua comunicazione”.

Si tratta di un intervento di razionalizzazione dei rimedi avverso le misure cautelari da accogliere positivamente. A seguito della sentenza n. 253 del 23 giugno 1994 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 669–terdecies c.p.c., nella parte in cui non ammette il reclamo ivi previsto anche avverso l’ordinanza con cui sia stata rigettata la domanda di

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provvedimento cautelare, si era, infatti, venuta a creare l’incongruenza per la quale il provvedimento con cui il giudice si pronuncia sull’istanza cautelare, essendo soggetto a reclamo, era sottoposto nuovamente a cognizione sommaria, mentre la pronuncia sulle spese era impugnabile con un diverso strumento che apriva un processo a cognizione piena.

Con la riforma del 2009, ogni pronuncia resa con il provvedimento cautelare è suscettibile di essere reclamata, in modo che, il giudice del reclamo, nel modificare o revocare la misura cautelare può, altresì, contestualmente adottare i conseguenti provvedimenti in tema di condanna delle spese.

L’altra modifica riguarda i provvedimenti di urgenza, ex art.700 c.p.c, gli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito nonché i provvedimenti emessi a seguito di denunzia di nuova opera o di danno temuto. In queste fattispecie, poiché, la decisione di accoglimento della richiesta cautelare poteva regolare la situazione concreta tra le parti come atto tra esse definitivo ed equivalente nella sostanza ad una decisione giudiziale emessa nella forma della sentenza, occorreva che con essa si disponesse altresì sulle spese processuali sostenute nel procedimento.

Mancava, al riguardo, una esplicita disposizione nel diritto positivo. Esattamente in tal senso dispone, quindi, il nuovo comma 7 dell’art. 669–octies del codice di procedura civile.

1.2 - La compensazione delle spese di lite - art. 92 c.p.c.

L’art. 92 c.p.c. fissa una serie di criteri che consentono di correggere e mitigare il rigore della fondamentale regola contenuta nel comma 1 dell’art. 91 c.p.c., allorché l’applicazione di essa possa apparire iniqua o inopportuna.

Il comma 2 della predetta norma (che disciplina la compensazione delle spese) prevedeva, nella sua prima versione originaria, il potere del giudice di compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti in caso di soccombenza reciproca o nel caso in cui concorressero gravi motivi.

Successivamente, il comma citato è stato sostituito ad opera dell’art.2, comma 1, lett. a) della legge 28 dicembre 2005, n. 263 che aveva previsto che quando “concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”; il legislatore aveva così inteso limitare la discrezionalità del giudice, imponendo di motivare esplicitamente la decisione di compensare le spese di giudizio.

L’obbligo di indicare le ragioni della compensazione tra le parti (riferite all’esistenza di giusti motivi) fu imposto al giudice come strumento di moderazione per decisioni che, troppo spesso, erano divenute di comodo e frutto di semplificazione negligente.

La legge di riforma del 2009 ha ulteriormente modificato il comma 2 dell’art. 92 c.p.c., limitando la possibilità per il giudice di compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti solo se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre

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gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione. La modifica più recente impone, infatti, notevoli, ulteriori limiti al potere

del giudice. I giusti motivi sono divenuti “gravi ed eccezionali ragioni”, da indicare esplicitamente nella motivazione.

Fermo, dunque, il precedente obbligo di motivare, l’attenzione del legislatore si è rivolta a definire i presupposti per la compensazione con indicazioni meno generiche nella loro idoneità a descriverli.

“Per grave” si intende una ragione che ha un fondamento apprezzabile ed un contenuto di peso rilevante, che abbia il connotato di una oggettiva valenza e che sia desunta, ovviamente, da quanto è avvenuto nel corso del processo e dalla sistemazione effettiva degli interessi oggetto della decisione. In altre parole, può ovviamente sussistere un motivo che induca a non far accollare le spese, in tutto o parzialmente, ad una parte sola in virtù magari dell’aleatorietà delle sorti o della difficoltà della materia. Ma in forza della riforma adesso questo motivo deve essere assolutamente rilevante; non è più sufficiente che sia aderente ad un senso di giustizia istintivamente sentito ma occorre che abbia il connotato di una oggettiva, speciale, valenza.

“Per eccezionali” si intendono, invece, eventi che deviano dalla regola e ne costituiscono una eccezione. Al requisito dell’eccezionalità deve, però, essere attribuito un significato riferito non tanto ad uno scostamento da una linea statistica di principio quanto, piuttosto alla sostanza del rapporto tra le parti. Deve esserci, cioè, una precisa circostanza, ben individuabile che imponga al giudice di sollevare, totalmente o parzialmente, una parte soccombente dall’onere di rimborsare le spese di processo all’avversario vincitore.

La riforma è stata preceduta dalla pronuncia della Corte di Cassazione a sezioni unite che ha inteso porre in essere un definitivo componimento del contrasto giurisprudenziale esistente, nel tempo, tra un orientamento più risalente, che escludeva un vero e proprio obbligo del giudice di motivare la compensazione delle spese, e quello più recente, caratterizzato dall’affermazione di un preciso dovere – obbligo del giudice di esplicitare o comunque rendere comprensibili le ragioni della compensazione, propendendo per quest’ultimo.

In tale sentenza le Sezioni Unite hanno, infatti, affermato che il potere del giudice di pronunciare la compensazione, fra le parti, dell’onere relativo al sostenimento delle spese del giudizio non è arbitrario, discrezionale o svincolato dalla disposizione che impone di gravare, in conformità ai canoni del giusto processo, il soccombente del costo economico della lite. Ne consegue che, laddove il giudice ritenga di derogare a tale principio, devono essere specificate in modo chiaro le ragioni che conducono a detta conclusione.

Alla stregua dei principi sopra esposti, dovrà, pertanto, ritenersi assolto l’obbligo del giudice di dare conto delle ragioni della compensazione totale o parziale delle spese, oltre che in presenza di argomenti specificamente riferiti a detta statuizione, anche allorché le argomentazioni svolte per la statuizione di merito contengano in sé considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare la regolazione delle spese adottata.

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La Suprema Corte ritiene che possa considerarsi assolto l’obbligo di motivazione ove si dia atto, per esempio, nella motivazione del provvedimento di merito (ma sarebbe anche sufficiente che fosse desumibile in modo inequivoco dal contesto delle argomentazioni) di oscillazioni giurisprudenziali sulla questione decisiva, ovvero di oggettive difficoltà di accertamenti in fatto idonee a incidere sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti, o anche di una palese sproporzione tra l’interesse concreto realizzato dalla parte vittoriosa e il costo delle attività processuali richieste (Cass., SS.UU. 30.07.2008, n. 20598).

Con la modifica apportata all’art. 92 c.p.c., il legislatore è così intervenuto per porre un limite all’abuso (rilevato negli ultimi anni, come è stato dianzi evidenziato, dalla giurisprudenza di legittimità) che giudizialmente è stato fatto del potere di compensare tra le parti le spese processuali, in casi diversi da quelli in cui ricorre una soccombenza reciproca, e al fine anche di ammettere la sindacabilità, in sede di legittimità per violazione di legge, della pronuncia del giudice sotto il profilo dell’omessa motivazione ovvero della sua illogicità o contraddittorietà.

1.3 - La c.d. responsabilità aggravata e la condanna della parte soccombente - art. 96 c.p.c.

L’art. 45 della legge di riforma del 2009 introduce una novità rilevante anche in tema di condanna del soccombente, sotto il profilo della responsabilità processuale aggravata.

L’art. 96 c.p.c., rubricato “Responsabilità aggravata”, si arricchisce, infatti, di un ulteriore comma nel quale il legislatore prevede la possibilità da parte del giudice, in sede di condanna alle spese ex art. 91 c.p.c., “di condannare la parte soccombente al pagamento, a favore delle controparte, di una somma equitativamente determinata”.

L’art. 96 c.p.c., disciplinando integralmente tutti i casi di responsabilità risarcitoria per atti o comportamenti processuali delle parti, si caratterizza per la sua specialità rispetto all’art. 2043 c.c. che detta i principi generali della responsabilità per fatto illecito. Pertanto spetta, in via esclusiva, al giudice che conosce il merito della causa decidere in ordine all’an ed al quantum attinenti la responsabilità aggravata.

La valutazione del presupposto della responsabilità processuale è, infatti, strettamente connessa con la decisione di merito, per cui la domanda di risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c. è proponibile esclusivamente nello stesso giudizio nel quale si accerti l’insorgenza della responsabilità aggravata. Si applica, in questo caso, il principio della cosiddetta competenza funzionale, alla luce del quale solo il giudice di merito può conoscere e quindi valutare il comportamento processuale delle parti e il danno che ne consegue.

La natura processuale della responsabilità di cui trattasi risiede nel comportamento, doloso o colposo, tenuto nel processo, o ad esso connesso o

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successivo, mentre i danni di cui si chiede il risarcimento, essendo di qualunque tipo (ovvero perdite o mancate acquisizioni patrimoniali), devono essere richiesti e liquidati nella stessa sentenza con cui il giudice si pronuncia in merito alla causa.

Alle due condotte già previste nei primi commi dell’art. 96 c.p.c., la prima qualificata dal dolo, la seconda da colpa lieve, si aggiunge una terza ipotesi in applicazione dei principi di rafforzamento delle cosiddette sanzioni processuali in base alla quale il giudice può, oggi, condannare la parte soccombente, anche d’ufficio, al pagamento di una qualunque somma equitativamente determinata.

Sparisce, dunque, il vincolo previsto nel progetto originario per il giudice il quale poteva determinare il risarcimento, a favore della controparte, nei limiti di una somma non inferiore alla metà e non superiore al doppio dei massimari tariffari. Criterio subito sostituito dalla Camera, in un primo emendamento, dalla previsione di una somma non inferiore a euro 1.000 e non superiore a euro 20.000, e poi abbandonato del tutto, in sede di esame al Senato, fino all’attuale versione del comma 3 dell’art. 96 c.p.c.

La legge di riforma ribadisce il generale dovere di lealtà e probità delle parti, sulla scorta di quanto affermato dall’Ufficio Studi del Senato che, nella scheda di lettura del ddl S1082, pone l’accento sul potere deterrente che l’utilizzo sistematico dell’art. 96 c.p.c. da parte dei giudici potrebbe avere nei confronti delle liti temerarie, che costituiscono il presupposto della condanna al risarcimento dei danni.

Può, quindi, ravvisarsi nell’attuale formulazione dell’art. 96 c.p.c. un deterrente all’eccessiva litigiosità che provoca inevitabilmente l’intasamento dell’attività processuale.

Infatti, la condanna al pagamento di una somma di denaro ulteriore rispetto alle spese di lite, considerata automaticamente conseguente all’accertamento della condotta illecita, ai sensi del comma 3 dell’art. 96 c.p.c., può incidere senza dubbio più efficacemente sul comportamento delle parti.

In ordine poi al potere sanzionatorio della nuova norma, il comma 3 dell’art. 96 c.p.c., pur essendo inserito nell’ambito della “responsabilità aggravata”, non sembra strettamente collegato a questa ove stabilisce che il giudice possa irrogare la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91”.

Nel caso in cui il giudice accerti la responsabilità aggravata del soccombente potrà, anche d’ufficio, liquidare una somma equitativa del danno in favore della parte vittoriosa, sulla quale non grava l’onere della prova, ad eccezione del caso in cui la stessa ritenga di aver subito un danno maggiore.

L’interesse che il legislatore intende tutelare con la nuova formulazione dell’art. 96 c.p.c. consiste, sostanzialmente, nell’evitare che il giudizio venga instaurato senza ragioni.

La mancanza nel comma 3 dell’art.96 c.p.c. di alcun riferimento al danno subito dalla parte dichiarata vittoriosa in giudizio introduce, in tema di responsabilità aggravata, una sorta di responsabilità oggettiva del soccombente che consente al Giudice di pronunciarsi in merito indipendentemente dalla sussistenza dei

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presupposti previsti nelle due ipotesi tradizionali, ovvero la verifica di un danno subito dalla parte vittoriosa o di un illecito commesso con dolo o colpa.

Tutto ciò in netta controtendenza rispetto all’interpretazione costituzionalmente orientata, secondo la quale la pronuncia di condanna a carico della parte soccombente che ha agito o resistito in giudizio con dolo o colpa grave deve essere effettuata dal giudice secondo una valutazione equitativa del danno, anche sulla scorta degli standard e dei precedenti giurisprudenziali adottati in casi simili dalla Corte Europea.

Vengono in tal modo ampliate le ipotesi nelle quali è permesso al Giudice di pronunciare condanne per responsabilità aggravata.

Costituendo una condanna accessoria, successiva cioè alla decisione, la fattispecie prospettata nel comma 3 dell’art. 96 c.p.c. non implica l’obbligo di informare previamente le parti ai sensi del nuovo art. 101 c.p.c., poiché non rientra tra le questioni rilevabili d’ufficio qualora il giudice ritenga di fondare sulle stesse la decisione della causa.

Con la legge di riforma il legislatore ha, infine, abrogato il comma 4 dell’art. 385 c.p.c., aggiunto dall’art. 13 D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che disciplinava la previsione corrispondente per la Corte di Cassazione, poiché rientra nella nuova disposizione dell’art. 96 c.p.c. avente valenza generale.

Il predetto comma è stato abrogato in un’ottica di riforma che ha inteso modificare anche il disposto dell’art. 96 c.p.c. nel quale adesso va ricompresa la facoltà della Corte di condannare il soccombente ad una pena pecuniaria che prima era disciplinata dal soppresso comma dell’art. 385 c.p.c. Con tale abrogazione si è preferito, in sostanza, sostituire ad una normativa frammentaria un’unica norma (l’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c.) di applicazione generalizzata per ogni grado di giudizio, compreso quello di legittimità. Anche in questo grado di giudizio, quindi, al criterio basato sulla parametrazione delle tabelle forensi si sostituisce l’assoluta discrezionalità del giudice nella determinazione equitativa della somma che può irrogare alla parte soccombente.

1.4 - La riforma del sistema di recupero delle spese di giustizia e delle pene pecuniarie.

Da ultimo occorre fare un breve cenno al fatto che, nell’ambito della legge n. 69/2009 (art. 67) è stata inserita anche un’importante riforma del sistema di recupero delle spese di giustizia e delle pene pecuniarie.

Le linee guida fondamentali di questo intervento sono le seguenti. La normativa previgente stabiliva che le spese anticipate dall’erario 1) fossero recuperate per intero.

La quantificazione del credito veniva effettuata dal funzionario addetto all’ufficio giudiziario su base cartacea. Ciò rendeva quasi certa l’incompletezza delle spese annotate, anche per i farraginosi e numerosi adempimenti connessi alla fase di liquidazione e di pagamento della spesa.

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La riforma introduce una procedura di recupero ad hoc per i crediti erariali dell’ente creditore Giustizia, differenziata dal resto dei crediti riscossi dalla società di riscossione, che tiene conto della peculiarità della loro natura e della necessità che i tempi del loro recupero garantiscano l’effettivo rispetto delle norme del codice penale e di procedura penale che li riguardano.

La maggior parte delle spese processuali penali sarà recuperata in misura fissa, semplificando così ulteriormente la procedura di quantificazione del credito attraverso un sistema di forfetizzazione per gradi di giudizio, a seconda del tipo di procedimento, senza vincolo solidale fra le parti.

2) È stato inoltre abbandonato il principio per il quale, in caso di coimputati, il debito è solidale.

L’abbandono del vincolo di solidarietà mira a sollevare l’agente della riscossione da interminabili e quasi sempre infruttuose ricerche del debitore solvibile. Tali ricerche aggravano infatti inutilmente i tempi e i costi della procedura di riscossione, senza arrecare alcun reale beneficio: anche i debitori più solvibili tendono infatti a sottrarsi alla procedura esecutiva, sapendo di essere tenuti al pagamento dell’intero e di dover poi esercitare nei confronti dei condebitori solidali un’azione di rivalsa. Se il debito del coimputato è pro quota, ciò costituirà un maggior incentivo al pagamento spontaneo da parte sua.

Inoltre, attraverso l’abbandono della solidarietà, sarà possibile creare delle partite di credito su base personale, in cui sono sommate le spese da ciascun imputato dovute, più facilmente calcolabili, e le eventuali pene pecuniarie da lui dovute.

In tal modo, sarà anche possibile ridurre il numero delle prescrizioni delle pene pecuniarie, che in passato dovevano attendere, per essere riscosse, l’esaurimento della procedura di riscossione solidale delle spese.

3) La riforma ha poi rafforzato il ruolo di Equitalia Giustizia S.p.a.Tale società, da poco costituita e già incaricata di gestire il Fondo Unico

Giustizia, si sostituirà interamente agli uffici giudiziari nella quantificazione delle spese di giustizia e nell’iscrizione a ruolo, consentendo alle cancellerie di essere sgravate da compiti puramente contabili per dedicarsi interamente alle attività ordinarie di assistenza alla funzione giudiziaria.

1.5 - Gli effetti della riforma sulla spese del processo tributario.

Sulla scorta del principio secondo cui il processo tributario è più celere dell’ordinario procedimento civile, consentendo un’adeguata difesa personale, l’art. 39 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, estrometteva espressamente dall’ambito del processo tributario il rinvio alle norme in tema di “Responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali”, dettate agli artt. 90-97 del codice di procedura civile.

Principio superato dal legislatore che, con l’art. 30, comma 1, lettera i), ultima parte, della legge 30/12/1991, n. 413, contenente la delega al Governo ad emanare

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uno o più decreti legislativi per la revisione della disciplina e l’organizzazione del processo tributario, ha sancito, tra i principi e criteri da osservare, proprio il “regime delle spese processuali in base al principio della soccombenza”.

Il principio costituzionale del diritto alla difesa (art.24 Cost.) ha trovato così piena attuazione con l’art. 15 del D. Lgs. n. 546/1992, che si pone come logica conseguenza della obbligatorietà dell’assistenza tecnico-professionale nel processo davanti alle Commissioni tributarie (limitatamente alle liti di valore superiore a euro 2.582,28). In particolare, l’art. 15 così recita: “La parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza. La commissione tributaria può dichiarare compensate in tutto o in parte le spese, a norma dell’art. 92, comma 2, del codice di procedura civile.”

Con l’introduzione di tale norma il legislatore si è prefisso di l’obiettivo di deflazionare il contenzioso tributario, scoraggiando la presentazione di ricorsi meramente pretestuosi e dilatori, nonostante le Commissioni tributarie abbiano abusato dell’istituto della compensazione (utilizzata di regola in casi eccezionali e straordinari) anziché dare attuazione alla regola generale della soccombenza.

In forza di tale rinvio si applicano, quindi, al processo tributario anche le modifiche apportate dall’art. 45 della legge n.69/2009 al comma 2 dell’art. 92 del c.p.c. con il chiaro intento di contrastare la prassi, adottata da più commissioni tributarie e da più parti deprecata, di disporre la compensazione tra le parti delle spese giudiziali in modo estremamente generalizzato ed ingiustificato.

In realtà, il ricorso, spesso eccessivo, dei giudici tributari all’istituto della compensazione delle spese in giudizio, sulla base dei “giusti motivi” era già stato frenato con l’introduzione del comma 2 all’art.92 c.p.c. operata dall’articolo 2 della legge n.263 del 28 dicembre 20054 (cfr. par.1.2).

Le Commissioni tributarie hanno, infatti, spesso fatto ricorso alla compensazione delle spese senza addurre una esplicita motivazione, ritenendo sufficiente il richiamo alla sentenza o alla motivazione del dispositivo o semplicemente alla formula “giusti motivi” di cui all’art. 92 c.p.c., anche perché supportate da un orientamento ormai consolidato dei giudici della Suprema Corte che sancisce l’insindacabilità in Cassazione della pronuncia di condanna alle spese, anche se priva di motivazione5.

Di contro, la Cassazione, sez. trib., con la sentenza 30 giugno 2006 n.15176, pronunciandosi sulla questione, ha precisato che il giudice deve comunque osservare alcuni vincoli nel disporre la compensazione delle spese6.

Poiché, anche la seconda formulazione dell’art. 92, comma 2, c.p.c. non è servita ad evitare l’eccessiva frequenza delle compensazioni delle spese, la legge

4 L’obbligo di motivazione è rimasto, in molti casi, inosservato, poiché la semplice di-chiarazione della sussistenza dei giusti motivi è stata, in molti casi, considerata suffi-ciente al fine di disporre la compensazione delle spese.

5 Cfr. Cass. sez. trib., sent. 15.07.2005, n. 14989.6 In questo senso, Cass. sez. trib., sent. 18.04.2005 n. 8028; Cass. sez. trib., sent 10.02.2004

n. 2505.

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n. 69/2009 ha sostituito nell’art. 92, comma 2, c.p.c., alle parole “giusti motivi” l’espressione “gravi ed eccezionali ragioni”.

Viene meno quindi, anche nel processo tributario (per effetto della disposizione di cui al citato art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992) l’abuso della discrezionalità del giudice e la conseguente insindacabilità delle scelte relative alle spese di lite.

È comunque evidente che solo una corretta interpretazione della norma da parte dei giudici potrà ridare valore al principio della soccombenza, quale regola di carattere generale a tutela del diritto di difesa, derogabile solo in casi eccezionali e non più sulla base di un vago riferimento a giusti motivi privi di una concreta motivazione.

Con riferimento alle altre norme in materia di spese di giudizio, per l’applicabilità al processo tributario occorre effettuare la valutazione di compatibilità di cui all’art.1, comma 2 D.Lgs. n. 546/1992.

Ne consegue che, sussistendo la compatibilità tra disciplina processual-civilistica e tributaria, il nuovo comma 1 dell’art. 91 c.p.c. troverà diretta applicazione nel processo tributario nell’ipotesi di mancata accettazione della proposta di conciliazione giudiziale prevista e disciplinata dall’art. 48 del D.Lgs. n. 546/1992.

Nel caso specifico, infatti, proseguendo il giudizio dinanzi alla Commissione Tributaria, se il giudice determina l’ammontare del tributo o del reddito in misura non superiore alla proposta conciliativa, condanna la parte che l’ha rifiutata, senza giustificato motivo, al pagamento delle spese del giudizio maturate a seguito della proposta conciliativa.

La condanna alle spese si configura per il giudice non come mera facoltà ma come vero e proprio obbligo: infatti, l’uso del verbo “condannare” nella sua forma imperativa, sottende inequivocabilmente l’obbligatorietà per il giudice di addossare le spese del giudizio alla parte che non ha voluto accettare la proposta di conciliazione giudiziale.

Più dibattuta è, invece, l’applicabilità nel processo tributario dell’istituto della responsabilità aggravata. Da un lato, la stessa è stata espressamente esclusa dal Ministero delle Finanze che, con la circolare n. 98/E del 1996, ha rinviato alla normativa sancita negli artt. 91, 92, 93, 94 e 97 del c.p.c., e non all’art. 96 c.p.c.; dall’altro, sia la dottrina prevalente7 che la giurisprudenza di legittimità si sono, invece, espresse in senso favorevole.

Orientamento quest’ultimo confermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che nella sentenza del 5 febbraio 1997, n. 1082, hanno sottolineato la configurabilità della condanna per responsabilità aggravata anche nei confronti del fisco, nel caso ad esempio di c.d. “lite temeraria”, ovvero qualora l’Amministrazione finanziaria agisca o resista in giudizio con mala fede o colpa grave nei confronti del contribuente, facendo valere un credito insussistente perché, ad esempio, già estinto.7 Vedi Lattanzio, La tutela del contribuente nel procedimento tributario 2005, 286-287; Castal-

di, Il nuovo processo tributario, in AA.VV., Milano, 2004, 195; Socci-Sandulli, Manuale del nuovo processo tributario, Bologna, 1997, 34.

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Non sarebbe corretto, infatti, scindere l’art. 96, comma 1, c.p.c. dagli artt. 91 e 92 c.p.c., essendo la responsabilità aggravata espressione della responsabilità del soccombente, nonostante l’art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992 – che disciplina il processo tributario – recepisca l’art. 91 c.p.c. tramite l’espresso richiamo solo all’art. 92 c.p.c.

Si può considerare superato, quindi, l’orientamento della Corte Costituzionale8 che aveva sempre respinto le eccezioni di incostituzionalità sollevate dalle Commissioni tributarie di merito perché ritenevano che l’esclusione della responsabilità aggravata dal processo tributario fosse in contrasto con gli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione.

Infine, va precisato che, in assenza di un esplicito richiamo della norma anche all’art. 96 c.p.c. e in considerazione del fatto che la giurisprudenza ha ritenuto applicabile l’istituto della responsabilità aggravata ai soli casi di lite temeraria per mala fede o colpa grave del soccombente, è da ritenere che non possa trovare automatica applicazione, nell’ambito del processo tributario, la condanna della parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata prevista dal nuovo comma introdotto nell’art. 96 c.p.c. dall’art. 45 della legge di riforma.

Per quanto attiene alla liquidazione delle spese di giudizio sopportate dall’Ufficio in caso di soccombenza del contribuente, questa viene operata direttamente dalla Commissione tributaria con sentenza.

Il decreto legge 8/8/1996, n. 437 (convertito in legge 24/10/1996, n. 556), all’art. 12 comma 2-bis, dispone che nel liquidare le spese a favore dell’Ufficio si applica la tariffa vigente per gli avvocati, con la riduzione del 20% degli onorari di avvocato ivi previsti e sancisce che la riscossione avviene tramite iscrizione a ruolo a titolo definitivo dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

Mentre quindi l’amministrazione può avvalersi di una procedura snella, quale quella dell’iscrizione a ruolo, il contribuente deve, invece, farsi consegnare dalla segreteria la copia spedita in forma esecutiva, secondo quanto disposto dall’art. 475 c.p.c., pagando le relative spese (art. 69 D.Lgs. n. 546/1992) ed eventualmente, in caso di mancato pagamento, agire in sede civile, o in alternativa ricorrere al rimedio del giudizio di ottemperanza (art. 70 D.Lgs. n. 546/1992)9.

8 Cfr. Corte Cost. sent 24.11.1982, n. 196.9 In tal senso, Commissione Tributaria Provinciale di Pescara, sez. I, sent. 22.08.1998 n. 35

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CAPItOLO 2 Il contraddittorio obbligatorio Sulle questioni rilevabili d’ufficio: Art. 101 C.P.C.

Il principio del contraddittorio, sancito dall’art. 101, comma 1, c.p.c., secondo il quale “il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti10, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa”, costituisce l’attuazione dei principi costituzionali dell’uguaglianza (art. 3 Cost.), del diritto di difesa (art. 24, comma 2, Cost.) e del giusto processo (art. 111 Cost.11), garantendo a ciascuno dei destinatari del provvedimento del giudice di potere influire sul contenuto del medesimo.

Al fine di una piena realizzazione del principio del contraddittorio che governa il processo, l’art. 183, comma 3, c.p.c. statuisce poi che “il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”. Quest’ultima disposizione, alla luce della giurisprudenza della Corte di Cassazione consolidatasi tra il 2005 ed il 200812, impone al giudice “il quale ritenga di decidere la lite in base ad una questione rilevata di ufficio (…) di astenersi dal decidere solitariamente e deve procedere alla segnalazione della questione che intende rilevare di ufficio, riaprendo su di essa il dibattito e dando spazio alle consequenziali attività, in quanto, in caso contrario, si avrebbe violazione del diritto di difesa in ragione del mancato esercizio del contraddittorio”.

“Il giudice deve far osservare e deve osservare egli per primo” il principio del contraddittorio, sicché deve segnalare alle parti le questioni rilevabili di ufficio, al fine di consentire che su di esse si apra il dibattito processuale e sia consentito alle parti di svolgere le proprie difese così evitando di esporre i contendenti a “decisioni a sorpresa”13.

Ne consegue, per la giurisprudenza citata, che “è nulla la sentenza che si fonda su una questione rilevata d’ufficio e non sottoposta dal giudice al contraddittorio delle parti”.

Con l’art. 45, comma 13, della legge n. 69/2009 il legislatore ha accolto tale orientamento giurisprudenziale, introducendo nell’art. 101 c.p.c., il nuovo comma 2, secondo il quale “se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle 10 “Ma queste sono eccezioni apparenti, non potendo il principio del contraddittorio soffrire de-

roga alcuna”: Satta, Diritto Processuale Civile - Cedam – 1981. “Le norme dettate a salva-guardare l’attuazione del principio del contraddittorio hanno carattere inderogabile perché il principio indicato attiene all’ordine pubblico”: Cass. 8177/1997.

11 Art. 111, comma 2, Cost.: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.

12 Cfr. Cass. 21108/2005, espressamente richiamata e confermata da Cass. 15194/2008. In senso contrario, però, Cass. 15705/2005.

13 Così testualmente in Cass. 21108/2005.

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parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per i deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione”.

Con tale disposizione, il legislatore, dunque, codifica la nullità di “decisioni a sorpresa”, statuendo che le parti devono essere messe in condizione di discutere non solo gli aspetti della causa dalle stesse proposti ma anche quelli che esse non hanno rilevato o eccepito e che sono, invece, rilevati dal giudice.

In estrema sintesi, il contraddittorio deve operare non solo tra le parti ma anche tra le parti ed il giudice e la novella introduce una regola che concerne il rispetto del principio del contraddittorio sotto il più specifico profilo del comportamento del giudice a tale scopo14.

La legge di riforma del processo civile, dunque, con l’introduzione di un nuovo comma nell’art. 101 c.p.c. ha effettuato l’enunciazione in termini generali di una regola già implicita in una disposizione (art. 183, comma 4, c.p.c.) in tema di trattazione nel processo di cognizione15.

La novella, a norma della disposizione transitoria di cui art. 58, comma 1, della legge n. 69/2009, si applica ai “giudizi instaurati” dopo il 4 luglio 2009, ma come in tutte le ipotesi in cui il legislatore recepisce orientamenti già consolidati nella giurisprudenza dominante, la novità ha più la finalità di cristallizzare una regola iuris del diritto “vivente” che quella dirompente di innovare l’ordinamento giuridico.

Va annotato, comunque, che la novella conserva tutto il suo pregio, da un lato, in quanto consacra nel diritto positivo un principio enucleato ancora solo a livello giurisprudenziale, dall’altro, in quanto rafforza tale principio collocandolo tra le disposizioni generali del Libro I del c.p.c., dove sono enunciati, direttamente o indirettamente, i principi fondamentali della disciplina del processo.

Si annota, infine, che l’istituto del contraddittorio, nei giudizi di merito, sulle questioni rilevabili d’ufficio, ha un suo precedente nell’analoga disposizione contenuta, per il giudizio di cassazione, nel comma 316, dell’art. 384 c.p.c., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006.

Il principio del contraddittorio sulle questioni rilevabili d’ufficio, come introdotto dal nuovo comma 2 dell’art. 101 c.p.c., appare applicabile anche nel processo tributario, che è disciplinato secondo i caratteri propri del processo civile, salvo alcune peculiarità connesse alla specificità della materia tributaria.

Ed invero, ai sensi dell’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, “i giudici tributari applicano le norme del suddetto decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”. La disciplina del processo tributario, pertanto, si completa, per quanto non espressamente previsto, con un ampio rinvio a tutte le norme del codice di procedura civile compatibili con quelle contenute nel D.Lgs. n. 546/1992.

14 Cfr. Mandrioli-Carratta, Come cambia il processo civile - Giappichelli - 2009.15 Cfr. Mandrioli-Carratta, Come cambia il processo civile – Giappichelli – 2009, op. cit.16 Art. 384, comma 3, c.p.c.: “se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione

rilevata d’ufficio, la Corte riserva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti un termine non inferiore a venti giorni e non superiore a sessanta giorni dalla comu-nicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione”.

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La valutazione della compatibilità deve tendere ad accertare se anche nel processo tributario possa configurasi una situazione processuale avente le medesime caratteristiche di quella oggetto delle disposizioni processual-civilistiche richiamate ed in secondo luogo è subordinata alla condizione che la disciplina risultante sia compatibile con le norme speciali del processo tributario17.

Ora, come recentemente osservato dall’Agenzia delle entrate in occasione di un incontro con la stampa specializzata18, nel D.Lgs. n. 546/1992 non sussistono norme che risultino incompatibili con il novellato art. 101 c.p.c., sicché la modifica introdotta con la riforma del processo civile trova applicazione quando la Commissione tributaria intende porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio.

Si annota, peraltro, che la dottrina19 già riteneva applicabile anche nel processo tributario il principio del contraddittorio sulle questioni rilevabili d’ufficio come enucleato ed enunciato dalla Corte di Cassazione per il processo civile sulla base della disposizione di cui all’art. art. 183, comma 3, c.p.c.

Fermo restando che il concreto recepimento nel processo tributario del divieto di “decisioni a sorpresa” si presenta aperto, anche per la specificità della procedura, ad una pluralità di possibili soluzioni, sul piano operativo può ipotizzarsi che il giudice tributario, esaurita la discussione (in caso di trattazione in pubblica udienza) o comunque prima della decisione (in caso di trattazione in camera di consiglio), “se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio”, deve astenersi dal decidere e con ordinanza deve segnalare la questione alle parti, assegnando alle stesse “un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per i deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione”.

Secondo alcuni primi commentatori20, tuttavia, qualora la questione sia rilevata dal giudice in udienza, dunque nel contraddittorio delle parti, non è chiaro se egli debba concedere comunque il termine alle parti per osservazioni o se queste debbano essere svolte nella stessa udienza. Invero, la presenza delle parti in udienza assicurerebbe già il contraddittorio, fermo restando che il giudice può, su richiesta, concedere il termine per il deposito di osservazioni.

La mancata segnalazione della questione che il giudice intende rilevare d’ufficio, determina, per espressa previsione del nuovo comma 2 dell’art. 101 c.p.c., la nullità della sentenza. È appena il caso di accennare che siffatta nullità deve intendersi in senso meramente processuale, atteso che, ai sensi dell’art. 161 c.p.c., “la nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione” e resta sanata in caso di passaggio in giudicato della sentenza per mancata impugnazione (c.d. principio

17 Cfr. Cass. SS.UU. 210/198618 cfr. Risposte dell’Agenzia delle entrate a “Telefisco 2010”, incontro con la stampa

specializzata del 27 gennaio 2010. La sintesi di alcune delle risposte è pubblicata ne “Il sole 24 Ore” del 30/01/2010, pag. 28

19 cfr. AA.VV., Contenzioso Tributario – Ipsoa – Febbraio 2009, pag. 587: “Al fine di evitare le c.d. decisioni a sorpresa è doveroso che il Collegio instauri sempre il contraddittorio sulle questioni rilevabili d’ufficio non sollevate dalle parti”.

20 Cfr. Demarchi, Il nuovo processo civile - Giuffrè - 2009.

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di assorbimento e di conversione dei vizi di nullità in motivi di impugnazione).Sulla scorta, poi, dell’orientamento della Corte di Cassazione21 sopra

richiamato, sia pure formatosi con riguardo alla norma procedimentale di cui all’art. 183, comma 3, c.p.c., possono trarsi le seguenti riflessioni circa le conseguenze di siffatta nullità.

Qualora la violazione della norma che impone al giudice di segnalare la questione rilevabile d’ufficio avvenga in primo grado, la sua denuncia in appello non dovrebbe determinare la regressione al primo giudice, non vertendosi in una delle ipotesi tassativamente previste per la rimessione della causa al giudice di primo grado. Sicché il giudice di seconde cure potrà decidere nel merito, ammettendo le parti a svolgere nel processo di appello le attività processuali pregiudicate dalla decisione “solitaria” del primo giudice. Si annota, di contro, che, con particolare riguardo al processo tributario, secondo parte della dottrina22, il giudice d’appello dovrebbe, invece, rimettere la lite dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale ai sensi dell’art. 59 (“Rimessione alla Commissione provinciale”), comma 1, lettera b) del D.Lgs. n. 546/1992, posto che la “decisione a sorpresa” costituisce violazione del contraddittorio.

Qualora la violazione, nei termini suindicati, si sia verificata nel giudizio di appello, la sua deduzione in Cassazione determina la cassazione della sentenza con rinvio al giudice di merito.

A titolo esemplificativo, infine, si annota che sono rilevabili d’ufficio per espressa previsione contenuta nella legge sul processo tributario di cui al D.Lgs. n. 546/1992:

il difetto di giurisdizione (art. 3, comma 1);•l’incompetenza territoriale, relativamente al grado cui si riferisce (art. 5, •comma 2);le cause di inammissibilità del ricorso (art. 22, comma 2), nel cui novero •rientrano la tardiva proposizione del ricorso (art. 21) e la tardiva costituzione in giudizio del ricorrente (art. 22, comma 1);nel processo di secondo grado, il mancato (o tardivo• 23) deposito di copia dell’appello presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale, qualora la notifica dell’impugnazione non sia avvenuta a mezzo di ufficiale giudiziario (art. 53, comma 1, ultimo periodo24);la proposizione di domande nuove in appello (art. 57, comma 1).•

21 Cass. n. 21108/200522 AA.VV., Contenzioso Tributario - Ipsoa - Febbraio 2009, op. cit.23 Si segnala la recente sentenza della Corte Costituzionale 4.12.2009 n. 321, che, confermando

la legittimità costituzionale della disposizione recata dall’art. 53, comma 2, ultimo periodo, del D.Lgs. n. 546/1992, ha affermato, altresì, che il termine perentorio per il deposito della copia dell’appello è identificabile, in via interpretativa, con il termine stabilito per la costitu-zione in giudizio dell’appellante (ossia, entra trenta giorni dalla proposizione dell’appello).

24 Introdotto dall’art. 3-bis, comma 7, del D.L. n. 203/2005, convertito dalla legge n. 248/2005.

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CAPItOLO 3 Il principio di non contestazione

3.1 - Il principio di non contestazione nel processo civile - art. 115 c.p.c.

L’art. 2697 cod. civ. fissa un principio fondamentale del processo civile, quello dell’onere della prova, secondo il quale “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” e “chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.

Tuttavia, da più parti si è affermato che tra i principi generali del processo civile vi sia anche quello di non contestazione, secondo il quale i fatti allegati da una delle parti e non specificamente contestati dall’altra o dalle altre non hanno bisogno di essere provati e devono essere considerati come esistenti dal giudice.

Tale orientamento ha trovato linfa e alimento con la modifica apportata all’art. 167 c.p.c. dalla novella del 1990 (legge 353/1990). A seguito di tale modifica l’art. 167, comma 1, c.p.c., stabilisce che il convenuto nella comparsa di risposta deve “proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda”.

La modifica dell’art. 167 c.p.c. introdotta con la legge del 1990 ha rappresentato un parziale adeguamento a quanto già era previsto per il rito del lavoro dall’art. 416, comma 2, c.p.c., il quale già stabiliva che il convenuto dovesse “prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda”.

Si è trattato, come detto, di un adeguamento solo parziale in quanto nell’art. 167 c.p.c. si fa riferimento soltanto all’obbligo di prendere posizione ma non si prevede che tale posizione debba essere presa “in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione”.

Tuttavia, nonostante la modifica dell’art. 167 c.p.c. nei termini sopra indicati, l’opinione dominante in dottrina e l’orientamento largamente prevalente in giurisprudenza hanno continuato a negare l’esistenza del principio di non contestazione come canone generale del processo civile, facendo principalmente leva sull’assenza di preclusioni o di decadenze che sanzionassero le parti per la mancata contestazione dei fatti dedotti dalle controparti.

Si riteneva, invece, che i fatti allegati da una delle parti potessero ritenersi pacifici e, quindi, non bisognevoli di prova, solo quando fossero stati esplicitamente o implicitamente ammessi dalla controparte.

Vi erano, comunque, pronunce di segno diverso. In particolare, la sentenza della Corte di Cassazione SS.UU. 23 gennaio 2002, n. 761, pronunciandosi in materia di rito del lavoro, ma con espliciti riferimenti anche al rito ordinario, ha configurato la non

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contestazione in termini di principio generale del processo civile. Segnatamente, nel corpo della motivazione di detta sentenza, con riferimento ai fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, le Sezioni Unite affermano che “gli artt. 167, comma 1, e 416, comma 3 c.p.c. imponendo al convenuto l’onere di prendere posizione su tali fatti fanno della non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente proprio per la ragione che l’atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua dell’esposta regola di condotta processuale, espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti”.

Per quanto qui maggiormente interessa, tra le pronunce che riconoscevano il principio di non contestazione vi era la recente Cass., sez. trib. 24 gennaio 2007 n. 1540, la quale, dopo avere dato atto della valenza generale del principio di non contestazione nel processo civile, ne ha riconosciuto l’applicabilità nel processo tributario.

Nonostante tali prese di posizione, la giurisprudenza successiva, facendo leva anche sulla diversità della disciplina del rito ordinario rispetto a quella del rito del lavoro, relativamente alla quale si erano specificamente pronunciate le Sezioni unite, ha continuato a negare la vigenza nell’ordinamento processuale civile del principio di non contestazione nei termini sopra indicati.

Può farsi riferimento, da ultimo, a Cass. civ., sez. III 14 marzo 2006 n. 5488: “Nel vigente ordinamento processuale i fatti allegati da una delle parti vanno considerati “pacifici” - e quindi possono essere posti a fondamento della decisione - quando siano stati esplicitamente ammessi dalla controparte oppure quando questa pur non avendoli espressamente contestati abbia tuttavia assunto una posizione difensiva assolutamente incompatibile con la loro negazione, così implicitamente ammettendone l’esistenza”.

Nel quadro qui sinteticamente rappresentato si inserisce la legge n. 69/2009, di riforma del codice di procedura civile, la quale - tra l’altro - nel modificare l’art. 115 c.p.c. (Disponibilità delle prove), ha espressamente previsto il principio di non contestazione, disponendo che il giudice debba porre a fondamento della decisione i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.

Specificamente, il nuovo articolo 115 c.p.c., inserito nel titolo V (poteri del giudice) del libro I (disposizioni generali) del codice di rito, stabilisce, al comma 1, che “salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita”.

Non può più esser dubbio, quindi, che il principio di non contestazione abbia fatto ingresso nel novero dei principi generali del processo civile.

Assai problematica, tuttavia, risulta la comprensione della sua esatta portata ed il suo specifico modo di operare, anche in relazione al regime delle preclusioni e decadenze.

Innanzi tutto, un primo dato indubitabile è che condizione di operatività di detto principio è che la parte che avrebbe interesse a contestare l’esistenza del fatto si sia costituita.

Come espressamente previsto dalla norma, infatti, i fatti che il giudice deve

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porre a fondamento della decisione sono quelli non specificamente contestati dalla parte costituita.

Nei confronti del contumace, pertanto, il principio in questione non trova applicazione.

E qui, come è stato evidenziato, risiede una prima indubbia anomalia, atteso che viene a configurarsi un sistema nel quale la parte che si costituisce in giudizio riceve un trattamento deteriore rispetto a quella che, non costituendosi, resta totalmente inerte, la qual cosa appare ancor meno razionale se esaminata dal punto di vista della parte costituita, la quale andrà incontro ad una disciplina più sfavorevole, sotto il profilo dell’onere probatorio, in caso di mancata costituzione dell’altra.

Un secondo dato certo è che la contestazione deve essere specifica. È stato così recepito l’indirizzo più rigoroso secondo cui la generica contestazione e, a maggior ragione, il mero silenzio di una parte non valgano come idonea contestazione dei fatti allegati dall’altra e lasciano tali fatti non bisognevoli di dimostrazione.

Restano invece non chiariti diversi aspetti già rivelatisi assai dubbi prima dell’ultimo intervento novellatore.

Il primo di tali aspetti è quello relativo alla portata del principio e ciò sotto due distinti profili:

se esso valga in ogni controversia ovvero solo in quelle relative a diritti - disponibili e non anche in quelle aventi ad oggetto diritti indisponibili;se esso valga per tutti i fatti di causa, ossia fatti principali e secondari, - ovvero soltanto per i fatti principali.

Quanto al primo profilo, prima della modifica dell’art. 115 c.p.c., anche nell’orientamento che sosteneva l’esistenza del principio di non contestazione si affermava che esso valesse nelle sole cause relative a diritti disponibili mentre si reputava che nelle cause relative a diritti indisponibili la non contestazione costituisse semplice argomento di prova.

La nuova disposizione, come anticipato, non opera alcuna distinzione al riguardo e, quantomeno sul piano letterale, riveste portata generale.

La limitazione del principio alle sole cause relative a diritti disponibili, peraltro, può farsi discendere dalla natura del principio stesso. Infatti, se esso - come taluni ritengono (in questo senso anche Cass. civ., SS. UU. n. 761/2002) - è un riflesso della disponibilità delle parti sul diritto controverso, onde in quest’ottica la non contestazione può essere intesa come atto dispositivo, è conseguenza inevitabile che esso possa valere esclusivamente nelle cause relative a diritti disponibili.

Più difficile, invece, limitare l’operatività del principio nel senso indicato se, come in prevalenza si opina in dottrina, il suo fondamento viene rinvenuto non in relazione alla situazione giuridica sostanziale ma strettamente all’interno del processo. In quest’ottica, in stretta correlazione con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, la ragion d’essere del principio in questione è rinvenuta in superiori esigenze di semplificazione del processo e di economia processuale e la non contestazione è semplicemente un contegno processuale.

Anche riguardo al secondo aspetto, la nuova disposizione introdotta nell’art. 115 c.p.c. non opera alcuna distinzione e, dunque, sembra rivestire portata

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generale, relativa sia ai fatti principali che a quelli secondari.Al riguardo, deve precisarsi che sono fatti principali quelli costituenti la fonte

diretta del diritto oggetto della/e domanda/e ovvero delle relative eccezioni25; fatti secondari sono quelli allegati allo scopo di dimostrare i fatti principali.

Ciò premesso, va ricordato che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella più volte richiamata sentenza 761/2002, hanno sostenuto che la non contestazione opera solo in relazione ai fatti “principali” e non anche per i fatti secondari.

A fondamento della propria conclusione, le Sezioni Unite osservavano che, poiché l’allegazione dei fatti principali rientra nella disponibilità ed autonomia della parte, anche la non contestazione, in quanto espressione della stessa autonomia, vincola il giudice; l’allegazione dei fatti “secondari”, invece, non rientra nella disponibilità della parte e di conseguenza non vincola il giudice ma è un contegno processuale valutabile ai sensi dell’art. 116, comma 2, del codice di rito.

La posizione delle Sezioni Unite, tuttavia, non ha riscosso consensi in dottrina, da parte della quale si è fatto rilevare che la non contestazione è sempre la stessa e non si atteggia diversamente a seconda della natura - principale o secondaria - dei fatti ai quali si riferisce. In quest’ottica, quindi, il principio avrebbe portata generale e si applicherebbe ad ogni genere di fatto allegato o dedotto dalle parti.

Altro punto che la nuova disposizione non chiarisce è quello concernente il momento processuale fino al quale sono ammesse le contestazioni.

Al riguardo, va detto che tra le diverse ipotesi di preclusioni e decadenze previste dalla disciplina codicistica nessuna riguarda la contestazione, sicché potrebbe affermarsi che, avendo le preclusioni e decadenze carattere sicuramente tassativo e non essendo esse previste per le contestazioni, queste ultime potrebbero essere svolte in ogni momento del processo.

Tuttavia, in un quadro in cui si individua la ragion d’essere del principio di non contestazione nell’esigenza di economia processuale, allora l’individuazione di un termine entro il quale potere svolgere le contestazioni può farsi discendere dalla ratio del principio in esame e dal sistema di scansioni temporali previste per l’allegazione dei fatti.

D’altra parte, consistendo la contestazione nella negazione di un fatto, può essere considerata un’allegazione essa stessa (contraria all’allegazione di controparte).

In quest’ottica, i primi commenti della nuova disposizione, rifacendosi anche all’orientamento della dottrina e della giurisprudenza che riconoscevano già da prima l’operatività del principio, sono unanimi nell’affermare l’esistenza di un termine ultimo per effettuare le contestazioni.

L’orientamento prevalente individua tale momento processuale nella prima delle memorie indicate dall’art. 183, comma 6, c.p.c., prevista per la modifica delle domande, eccezioni e conclusioni già proposte26.

25 Fatti “principali” sono: a) i fatti costitutivi, normalmente allegati in giudizio dall’at-tore, ossia quelli posti a fondamento del diritto fatto valere (art. 163, comma 3 n. 4 e art. 414 n. 4 c.p.c.; art. 2697, comma 1 c.c.); b) i fatti impeditivi, modificativi o estintivi di detto diritto, normalmente allegati in giudizio dal convenuto e posti a fondamento delle eccezioni (artt. 167, 180, 416 c.p.c., art. 2697, comma 2 c.c.).

26 Art. 183 c.p.c. (Della trattazione della causa), comma 6: “Se richiesto, il giudice concede

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In questa stessa prospettiva la non contestazione si configura come fenomeno tendenzialmente stabile, ossia non rimediabile con una successiva contestazione, con il limite derivante dall’operatività della rimessione in termini.

3.2 - Operatività del principio di non contestazione nel processo tributario

In merito all’operatività del principio in esame al processo tributario, già prima della codificazione del principio con la modifica dell’art. 115 c.p.c., come già anticipato, la Sezione tributaria della Cassazione si era pronunciata sull’argomento con la sentenza n. 1540 del 24.1.2007, affermandone l’applicabilità nel processo tributario.

La Corte ha escluso che ci siano “controindicazioni” all’applicazione del principio in esame derivanti dalla natura impugnatoria del processo tributario e dalla natura documentale dell’istruttoria.

Ed invero, si può in proposito osservare che la strutturazione del processo come impugnazione di un atto autoritativo dell’amministrazione e l’inammissibilità delle prove dichiarative (testimonianza, giuramento) non risultano interferire sull’aspetto interessato dal principio di non contestazione, ossia la determinazione della materia controversa tra le parti (thema probandum).

La Corte, inoltre, ha argomentato l’applicabilità del principio di non contestazione al processo tributario facendo leva sui profili sistematici che lo accomunano al processo civile (ragionevole durata e carattere dispositivo); inoltre, sul rinvio dell’art. 1 D.Lgs n. 546/1992, con il limite della compatibilità, alle norme del codice di procedura civile, rinvio inteso come relativo non solo alle specifiche disposizioni, ma anche ai principi che regolano l’intero processo civile.

Peraltro, una volta codificato il principio in questione, occorre chiedersi se vi siano degli ostacoli alla sua applicabilità nel processo tributario, in assenza dei quali dovrà giocoforza ammettersene l’applicabilità, considerato anche che l’art. 1, comma 2, D.Lgs n. 546/1992 stabilisce che “i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”.

Dunque, si tratta di accertare se vi siano ragioni di incompatibilità tra l’art. 115 c.p.c., sì come modificato dalla L. n. 69/2009, e le disposizioni del D.Lgs. n. 546/1992 o, più in generale, la natura del processo tributario.

Un primo possibile ostacolo – peraltro non considerato dalla Corte di Cassazione nella richiamata sentenza n. 1540/2007 – potrebbe essere rappresentato dalla natura dell’obbligazione tributaria, la quale viene comunemente ritenuta indisponibile.

Ed invero, come detto affrontando gli aspetti generali del tema in esame, il principio di non contestazione è di regola ritenuto applicabile nei processi aventi ad oggetto diritti disponibili.

Ciò detto, se si rinviene il fondamento del principio di non contestazione nel potere dispositivo delle parti (con conseguente inapplicabilità del medesimo

alle parti i seguenti termini perentori: 1) un termine di ulteriori trenta giorni per il de-posito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte; …”.

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nei processi relativi a diritti indisponibili), come ritenuto da Cass. civ., SS.UU. n. 761/2002, gioco forza il principio non potrà essere ritenuto applicabile nel processo tributario, stante la ritenuta indisponibilità della pretesa tributaria.

Viceversa se il fondamento del principio viene individuato nelle esigenze di semplificazione e di economia processuale, sottese anche al principio costituzionale della ragionevole durata del processo, onde la non contestazione andrebbe vista non come atto dispositivo ma come contegno processuale regolamentato nei termini di cui all’art. 115 c.p.c., non vi sarebbe ragione per ritenere che l’applicabilità del principio in questione sia limitata ai soli processi aventi ad oggetto diritti disponibili, con la conseguenza che, sotto questo profilo, ben potrebbe il principio trovare applicazione anche in ambito tributario.

Un secondo ostacolo all’applicabilità del principio in questione potrebbe essere rappresentato dai poteri istruttori di natura officiosa attribuiti al giudice tributario.

Come già detto, la contestazione e la non contestazione possono essere considerate come vere e proprie allegazioni: la prima come allegazione di un fatto contrario e la seconda come allegazione dello stesso fatto dedotto dalla controparte. La non contestazione si riflette in ambito probatorio con il considerare provati i fatti non contestati.

Orbene, in materia di allegazione il comma 1 dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, nel prevedere che “le commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari e all’ente locale da ciascuna legge d’imposta”, fissa il principio dispositivo.

Allo stesso tempo, però, in materia di prova la stessa norma riconosce alle commissioni tributarie ampi poteri istruttori.

Orbene, se si interpreta detta disposizione nel senso di ritenere i poteri in questione esperibili dalle commissioni tributarie anche in relazione ai fatti dedotti dalle parti che non sono stati oggetto di contestazione, essa assume un significato contrastante con l’attuale formulazione dell’art. 115 c.p.c., il quale, conseguentemente, non potrebbe trovare applicazione nel processo tributario ai sensi dell’art. 1 del D.Lgs. n. 546/1992 perché incompatibile con la specifica disposizione dettata in materia dall’art. 7 di detto decreto.

A conclusione opposta, invece, si perviene se la norma in questione, proprio in considerazione del principio di non contestazione stabilito dall’art. 115 c.p.c., viene interpretata restrittivamente, nel senso che i poteri istruttori officiosi del giudice tributario potrebbero essere esercitati soltanto in relazione ai fatti controversi tra le parti. In quest’ottica, infatti, il principio generale di non contestazione fungerebbe da criterio interpretativo dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 e condurrebbe, inevitabilmente, ad un’interpretazione del medesimo compatibile con l’art. 115 c.p.c..

Se si sposa l’idea dell’applicabilità del principio di non contestazione nel processo tributario, va innanzitutto precisato che esso dovrà essere applicato secondo le regole del processo civile. Pertanto il principio non troverà applicazione nei confronti della parte non costituita. Inoltre la contestazione produrrà i suoi effetti soltanto se specifica.

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In quest’ottica, infine, si pone il problema di individuare i momenti in cui le parti devono procedere alle rispettive contestazioni.

Al riguardo, giova innanzi tutto ricordare che, in generale, il processo tributario si atteggia normalmente come giudizio di impugnazione di un atto autoritativo dell’amministrazione, che ha come suo corollario il fatto che in detto processo il ruolo di attore in senso sostanziale è ricoperto dall’Amministrazione finanziaria.

Tale caratteristica, infatti, ha come effetto fondamentale che la pretesa dell’amministrazione (attore in senso sostanziale) e, quindi, i fatti sui quali la stessa si fonda, risultano delimitati dal contenuto dell’atto impositivo.

Ciò comporta che l’amministrazione non può in giudizio modificare o integrare i fatti posti a fondamento della pretesa tributaria condensata nell’atto impugnato dal contribuente.

Conseguentemente, l’amministrazione non può contestare in giudizio fatti dedotti dal contribuente che avrebbe già potuto contestare nell’atto impositivo.

Si pensi all’ipotesi in cui nell’atto di accertamento si è disconosciuto un costo in quanto non inerente. L’amministrazione non potrà, ad esempio, in sede giudiziale, contestare che il contribuente ha effettivamente sostenuto il costo.

Per quanto riguarda il contribuente, questi è tenuto, ai sensi dell’art. 18 del D.Lgs. n. 546/1992, ad indicare i motivi del ricorso, a pena d’inammissibilità, nello stesso atto introduttivo del giudizio27.

Tra i motivi del ricorso rientra ovviamente anche la eventuale contestazione dei fatti posti dall’amministrazione a fondamento della sua pretesa. Ne deriva che il contribuente è tenuto a svolgere le sue contestazioni con il ricorso.

Resta da vedere, a questo punto, in che modo ed entro quale termine l’amministrazione può contestare i fatti dedotti dal contribuente nel ricorso al fine di negare la fondatezza della pretesa contenuta nel provvedimento impugnato.

L’atto a ciò deputato è chiaramente costituito dalle controdeduzioni previste dai commi 2 e 3 dell’art. 23 del D.Lgs. n. 546/92, con le quali, ai sensi del comma 3 del predetto articolo, l’ufficio “espone le sue difese prendendo posizione sui motivi dedotti dal ricorrente”.

Secondo quanto previsto dall’art. 23, le controdeduzioni vanno depositate dall’ufficio all’atto della sua costituzione in giudizio, la quale deve a sua volta avvenire entro 60 giorni dalla data in cui il ricorso è stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale28.

27 La circolare n. 98/E del 23 aprile 1996 ha precisato che “il ricorrente che non abbia svilup-pato tutti i motivi di impugnazione nel ricorso introduttivo, essendosi limitato ad eccepire soltanto alcuni vizi dell’atto impositivo con riserva di ulteriori eccezioni, non avrà più la possibilità di riaprire successivamente, con memorie aggiuntive, l’ambito della controver-sia, a meno che non ricorra l’ipotesi prevista dall’art. 24” (c.d. “motivi aggiunti”). A propo-sito di quest’ultimo caso, peraltro eccezionale, la medesima circolare ha chiarito che “l’arti-colo in esame, dopo aver regolato le modalità di presentazione dei documenti (comma 1), introduce una rilevante novità in tema di proponibilità di nuovi motivi d’impugnazione ad integrazione di quelli già dedotti con il ricorso introduttivo. Rispetto al passato, l’am-missibilità della c.d. “memoria integrativa” è subordinata al verificarsi di una condizione dipendente da una precisa attività processuale della controparte: il deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione (comma 2)”.

28 Tale termine, tuttavia, non essendo previsto a pena di decadenza, non ha natura perentoria.

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Capitolo 4Comunicazioni e notificazioni

La riforma del codice di procedura civile ad opera della legge n. 69/2009 introduce importanti novità anche in tema di notificazioni e ciò al fine di favorire l’applicazione delle nuove tecnologie informatiche anche nel processo civile, probabilmente in vista del completamento del processo di riforma già, in precedenza, avviato con la legge n. 80/2005 e, successivamente, con la legge n. 133/2008 il cui scopo, espressamente dichiarato, era quello di giungere alla celebrazione in forma telematica del rito processuale.

Le novità introdotte dalle suddette leggi, in realtà, avevano interessato tanto le comunicazioni quanto le notificazioni.

Il regime delle comunicazioni è disciplinato dall’art. 136 c.p.c.:il contenuto della comunicazione è di solito un avviso contenente un a. estratto o un sunto del provvedimento giudiziale che si intende portare a conoscenza; di solito tale atto viene denominato biglietto di cancelleria; il soggetto che forma la comunicazione è il cancelliere; b. il biglietto è consegnato dal cancelliere al destinatario ovvero trasmesso c. all’ufficiale giudiziario che provvede attraverso la notificazione.

Il regime delle notificazioni è, invece, disciplinato dall’art. 137 del c.p.c.:il contenuto dell’atto che si porta a conoscenza dei destinatari è conforme a. all’originale ed è l’intero atto che deve avere rilevanza giuridica; il soggetto che forma l’atto da notificare è solitamente il difensore; b.

c. il soggetto che effettua la notificazione può essere il difensore o l’ufficiale giudiziario.

4.1 - Comunicazioni

Già il legislatore del 2005 aveva previsto importanti novità in materia di comunicazioni. Gli artt. 133, 134, 176 e 183 u.c. c.p.c. prevedono, infatti, la possibilità di comunicazione dei provvedimenti giudiziali a mezzo fax ed a mezzo e-mail.

Le comunicazioni effettuate con mezzi alternativi rispetto alla notificazione a mezzo ufficiale giudiziario costituiscono solo una possibilità e non un obbligo. Infatti ivi si prevede che il difensore indichi nel primo scritto difensivo utile il numero di fax e l’indirizzo di posta elettronica. Non si tratta di un obbligo dal momento che nelle norme citate si specifica: “A tal fine il difensore indica (…)”. L’uso del termine “a tal fine”, unitamente alla facoltatività della trasmissione della comunicazione con strumenti alternativi alla notificazione da parte del

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cancelliere, evidenziano, da un lato, la non obbligatorietà di tali strumenti alternativi e, dall’altro, la non obbligatorietà per il difensore di indicare il fax o l’indirizzo di e mail. D’altronde le stesse norme non prevedono sanzioni di nullità degli atti nell’ipotesi di mancata indicazione da parte del difensore del numero di fax o dell’indirizzo di e mail. L’uso dei due strumenti alternativi alla notificazione classica della comunicazione impone un’analisi su tali strumenti alternativi.

Il telefax e la posta elettronica si distinguono per le modalità di trasmissione e per l’apparecchiatura che consente l’invio.

4.1.1 - Telefax

Il telefax è una modalità di trasmissione diretta attraverso la quale dal fax del mittente il documento viene inviato direttamente al fax del destinatario. Tuttavia la mera indicazione del numero di telefax da parte del mittente può non dare la piena prova dell’avvenuta ricezione del documento da parte del destinatario. Infatti, se quest’ultimo, nei settaggi del proprio fax, non avrà indicato il suo numero di fax, il rapporto di trasmissione che sarà rilasciato dal fax del mittente non conterrà alcun elemento di prova concreta che il fax sia arrivato a quel destinatario. Può altresì accadere che il fax del destinatario sia intasato di documenti ricevuti non stampati per inceppamento della carta, per esaurimento della cartuccia dell’inchiostro, per mancanza improvvisa di energia elettrica ovvero per un malfunzionamento del fax. Nell’ipotesi in cui il difensore destinatario del documento usi un modem fax tutte le problematiche connesse con la sicurezza informatica, l’uso del p.c. e gli eventuali errori di programma costituiscono un potenziale pericolo che il suo p.c. non possa offrirgli in visione quanto inviatogli. La normativa non prevede per il mittente né un obbligo di accertamento dell’avvenuta ricezione del documento da parte del destinatario, né la fissazione di modalità di accertamento. Il cancelliere, quale pubblico ufficiale ha soltanto l’onere di inviare la comunicazione al numero di fax indicato dal difensore e di attestare l’avvenuto invio. Se il destinatario non ha ricevuto il documento, avrà soltanto la possibilità di richiedere, ai sensi dell’art. 184 bis c.p.c., di essere rimesso nei termini, fornendo la prova della mancata ricezione a causa di un malfunzionamento del fax o del modem-fax.

Va evidenziato che il legislatore ha consentito l’invio delle comunicazioni a condizione del rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione del documento teletrasmesso. Nell’ipotesi del telefax non vi è una normativa o una disciplina regolamentare che imponga taluni protocolli per l’uso del fax quale strumento di comunicazione nel processo civile. Ne consegue che, allo stato, la comunicazione potrà avere effettivo valore probatorio solo se il cancelliere si sarà accertato che il documento inviato a mezzo fax sia effettivamente ricevuto per esempio attraverso l’attestazione della ricezione del documento da parte del destinatario per via telefonica ovvero attraverso il reinvio del documento da parte del destinatario siglato per ricezione.

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4.1.2 - Posta elettronica

Diversa è l’ipotesi delle comunicazioni inviate a mezzo posta elettronica. Il legislatore del 2005 non ha previsto in modo generico l’uso di tale strumento attraverso la mera indicazione dell’indirizzo di posta elettronica. Infatti, la posta elettronica non è una forma di trasmissione diretta ma avviene attraverso l’intermediazione di terzi (i provider di posta elettronica). In buona sostanza il messaggio di posta elettronica viene inviato dal mittente al provider di posta che gestisce la messaggistica elettronica del mittente il quale la consegna al provider di posta che gestisce la messaggistica del destinatario che, a sua volta, la consegna al destinatario nella sua casella di posta elettronica. Come è intuibile tale sistema non fornisce la certezza dell’avvenuta ricezione del messaggio di posta inviato ancorché si imposti, nel proprio programma di posta elettronica, la richiesta di avviso di avvenuta ricezione. Non va sottovalutata, altresì, tutta la problematica connessa con la sicurezza informatica che coinvolge inevitabilmente anche la messaggistica a mezzo e mail. Infatti la ricezione di un documento attraverso la posta elettronica non dà certezza assoluta della provenienza del documento dal mittente che, formalmente, potrebbe sembrare avere inviato il messaggio. E’ noto a tutti il fenomeno della fake e-mail.

A ciò si aggiunga la possibilità che il messaggio di posta elettronica possa essere intercettato nel suo tragitto e modificato da potenziali hacker. Per questi motivi il legislatore non ha previsto il semplice invio a mezzo posta elettronica delle comunicazioni a qualsiasi indirizzo che venga fornito dal difensore. Il legislatore del 2005, come per il fax, consente la comunicazione a mezzo posta elettronica purché nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici . Al riguardo, occorre precisare che il nostro legislatore si è sensibilizzato negli ultimi tempi alla informatizzazione della P.A. e, quindi, anche dell’Amministrazione della giustizia, introducendo una serie di disposizioni normative per l’uso delle procedure informatizzate dirette, essenzialmente, alla velocizzazione dei processi informativi e gestionali ed al risparmio di costi determinati dall’uso delle dette procedure informatizzate. Si ricordi il D.P.R. 13 febbraio 2001 n. 123 costituente il Regolamento recante la disciplina sull’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti. In tale normativa è prevista la formazione degli atti e dei provvedimenti del processo come documenti informatici aventi valore legale ai sensi dell’art. 2702 c.c. purché sottoscritti con firma digitale (art. 4). Quanto alle comunicazioni, l’art. 6 ne consente l’invio per via telematica oltre che attraverso il Sistema Informatico Civile anche all’indirizzo di posta elettronica o dal difensore con le modalità previste dall’art. 7, dall’esame del quale si evince che l’indirizzo di posta elettronica dovrà essere un indirizzo qualificato, comunicato al Consiglio dell’Ordine che, a sua volta, lo abiliterà nel Sistema Informatico Civile. Con decreto del Ministro della Giustizia 14 ottobre 2004 sono state dettate le regole tecnico-

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operative per l’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile. Il decreto fissa le regole per la formazione, trasmissione, ricezione, notifica degli atti e/o documenti informatici in funzione dell’avvio del processo telematico. Il suddetto decreto, inoltre, ha introdotto alcuni principi cardine in tema di valore probatorio da attribuire al documento informatico, con particolare riferimento all’uso della posta elettronica certificata. Con D.P.R. n. 68 dell’11 febbraio 2005 il legislatore ha, poi, dettato il regolamento recante disposizioni per l’utilizzo della posta elettronica certificata a norma dell’art. 27 della legge 18 gennaio 2003 n. 3 e, da ultimo, il D.Lgs. 7 marzo 2005 n. 82 (codice dell’amministrazione digitale) all’art. 21 attribuisce valore probatorio, ai sensi del novellato art. 2712 c.c., al documento informatico anche se sottoscritto con firma elettronica non qualificata, nel mentre attribuisce valore probatorio ai sensi dell’art. 2702 c.c. al documento informatico sottoscritto con firma digitale.

Precedentemente all’entrata in vigore del codice dell’amministrazione digitale la giurisprudenza si era occupata del valore probatorio da attribuire al documento informatico pervenendo ad un assimilazione dello stesso ai documenti descritti dall’art. 2712 c.c. La Suprema Corte con la sentenza innovativa n. 11445 del 6 settembre 2001, anticipando quanto fissato dal codice dell’amministrazione digitale, statuì che i documenti informatici privi di firma digitale vanno ricondotti tra le riproduzioni fotografiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose, la cui efficacia probatoria è disciplinata dall’art. 2712 c.c., con la conseguenza che, anche per essi, il disconoscimento della loro conformità ai fatti rappresentati non ha gli stessi effetti del disconoscimento della scrittura privata, previsto dall’art. 215, comma 2, c.p.c., perché, mentre quest’ultimo, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo di questa, preclude l’utilizzazione della scrittura, il primo non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva ritenuto provato il fatto costituente giusta causa di licenziamento di un esattore di casello autostradale sulla base dei dati risultanti dal sistema informatico del datore di lavoro, la cui funzionalità risultava attestata, così come altre circostanze esterne, dalla espletata prova testimoniale).

La P.E.C. (posta elettronica certificata) è lo strumento attraverso il quale si può dare certezza dell’invio e della ricezione del messaggio elettronico. La differenza che può rinvenirsi tra la P.E.C. e la posta elettronica ordinaria è la stessa che vi è tra la corrispondenza inviata via posta ordinaria o prioritaria e quella inviata via posta raccomandata o assicurata a.r.. Con la prima non si ha alcuna prova dell’invio e della ricezione; con la seconda sia l’invio che la ricezione è attestata dall’Ufficio Postale. Con la P.E.C. potranno aversi tre modalità di trasmissione e conseguentemente di attestazione dell’invio e/o della ricezione del messaggio inviato via e-mail.: a) l’invio attraverso un dominio di posta certificata verso un destinatario dotato di posta certificata; b) l’invio attraverso un dominio di posta convenzionale verso un destinatario dotato di posta certificata; c) l’invio attraverso un dominio di posta certificata verso un destinatario dotato di posta

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convenzionale. La differenza tra i tre tipi di invio è intuitiva: nel primo caso si avrà la certezza e la prova sia dell’invio che della ricezione del messaggio. Nel secondo e nel terzo caso si avrà solo la certezza e la prova alternativamente dell’invio o della ricezione.

L’invio del messaggio o del documento con la P.E.C. non deve confondersi con l’invio del documento informatico sottoscritto con firma digitale. Infatti, l’invio certificato del messaggio o del documento come la raccomandata a.r. da piena prova dell’avvenuto invio e della ricezione del messaggio e/o del documento; l’invio del documento con firma digitale da prova non solo dell’invio e della ricezione del messaggio e/o del documento ma attesta l’attribuzione del documento e del messaggio al mittente. Si immagini l’invio attraverso una raccomandata di un documento non autenticato nelle firme che avrà valore legale diverso dell’invio con raccomandata di un documento autenticato nelle firme. Nel caso del documento informatico, nel primo caso esso è liberamente valutato dal giudice mentre il secondo fa piena prova fino a querela di falso (art. 2702 c.c. richiamato dall’art. 21 del codice dell’amministrazione digitale). Per quello che può riguardare il tema delle comunicazioni ai sensi dei novellati artt. 133, 134, 176 e 183 u.c. c.p.c. la comunicazione effettuata attraverso la P.E.C. non potrà essere facilmente disconosciuta dal destinatario e non potrà essere impugnata se non con la querela di falso. Invece le comunicazioni attraverso posta non certificate saranno liberamente valutabili dal giudice che potrà, anche in caso di contestazione circa la mancata ricezione del documento, consentire una rimessione in termini ai sensi dell’art. 184 bis c.p.c. sussistendone i presupposti.

4.2 - Notificazioni4.2.1 - Le novità della legge n. 80/2005

Sul tema delle notificazioni già con la legge n. 80/2005 il legislatore aveva innovato la disciplina dell’intimazione ai testimoni.

In particolare, a seguito delle modifiche del 2005, l’art. 250 c.p.c. consente al difensore di effettuare l’intimazione ai testimoni attraverso l’invio di copia dell’atto mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o a mezzo di telefax o posta elettronica nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e teletrasmessi. Per l’invio dell’intimazione ai testimoni a mezzo telefax o posta elettronica valgano le considerazioni formulate in tema di comunicazioni.

Per quanto riguarda l’invio dell’intimazione a mezzo raccomandata il legislatore ha recepito quanto previsto dall’art. 152 c.p.p. e dall’art. 56 disposizioni di attuazione del c.p.p. Infatti, l’art. 250 c.p.c. all’ultimo comma stabilisce: “il difensore che ha spedito l’atto da notificare con lettera raccomandata, deposita nella cancelleria del giudice copia dell’atto inviato, attestandone la conformità all’originale, e l’avviso di ricevimento”.

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Per gli altri atti, quali la citazione e le memorie, si ricordino soltanto le modifiche apportate all’art. 70-ter delle disposizioni di attuazione al c.p.c. che già consentiva al difensore dell’attore di integrare l’atto introduttivo con l’invito al convenuto di notificare la comparsa ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 5 e, nell’ipotesi in cui il convenuto acceda a tale invito, il processo prosegue nelle forme del rito societario. Orbene in tale ipotesi anche il regime delle comunicazioni e delle notificazioni soggiace al regime prescritto dal rito societario. In particolare, l’art. 17 del D.Lgs. n. 5/2003, in tema di notificazioni e comunicazioni nel corso del procedimento statuisce: “1. Tutte le notificazioni e comunicazioni alle parti costituite possono essere fatte, oltre che a norma degli articoli 136 e seguenti del codice di procedura civile: a) con trasmissione dell’atto a mezzo fax; b) con trasmissione dell’atto per posta elettronica; c) con scambio diretto tra difensori attestato da sottoscrizione per ricevuta sull’originale, apposta anche da parte di collaboratore o addetto allo studio del difensore. 2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano a tutti i procedimenti previsti dal presente decreto e le trasmissioni di atti ai sensi del comma 1, lettere a) e b), devono essere effettuate nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione e la trasmissione dei documenti informatici e teletrasmessi.”

Al di fuori di tali ipotesi il difensore poteva procedere alla notifica senza l’intermediazione dell’ufficiale solo se si avvaleva della disciplina dettata dalla legge 21 gennaio 1994 n. 53 che consentiva la notifica diretta a mezzo posta ovvero attraverso consegna al destinatario ovvero al suo difensore purché iscritto nello stesso albo del difensore notificante. Tale normativa non prevedeva una notifica a mezzo fax o a mezzo e-mail. Inoltre, tale forma di notifica non aveva avuto un grande successo per le incombenze a carico del difensore che non solo doveva farsi autorizzare dal proprio Consiglio dell’Ordine a notificare, ma doveva tenere un registro cronologico debitamente numerato e vidimato dal presidente del Consiglio dell’Ordine o suo delegato sul quale dovevano essere annotate tutte le operazioni effettuate. Ovviamente l’uso di tale forma di notifica era limitato agli atti diretti alle parti del processo e non anche per quelli diretti al giudice che dovevano comunque essere oggetto di deposito in cancelleria.

Il comma 1, dell’art. 54 della legge n. 69/2009 ha abrogato gli artt. da 1 a 33, 41, comma 1, e 42 del D.Lgs. n. 5/2003. La suddetta abrogazione è finalizzata alla riunificazione di tutti i riti speciali in quelli tipici del codice di procedura civile e comporta, in particolare, l’abrogazione del procedimento previsto in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia.

A norma del successivo art. 55, la possibilità di ricorrere al regime delle notificazioni degli atti civili, amministrativi e stragiudiziali previsto dalla legge n. 53/1994, si estende, invece all’Avvocatura dello Stato che, per effetto delle disposizioni di cui al successivo comma, dovrà dotarsi di un registro cronologico non diverso da quello di cui avrebbero dovuto dotarsi gli avvocati e da tenere secondo le modalità già prescritte per gli stessi.

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4.2.2 - Le novità della legge n. 133/2008

Le norme recate dalla legge n. 133/2008 stabilirono, poi, che le notificazioni e comunicazioni di cui al comma 1 dell’art. 170 (notificazioni e comunicazioni al procuratore costituito nel corso del procedimento) ed all’art. 192 del codice di procedura civile (notifica al CTU dell’ordinanza di nomina) nonché ogni altra comunicazione al consulente venissero effettuate per via telematica all’indirizzo elettronico comunicato dagli avvocati ai sensi delle norme concernenti la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici di cui al D.P.R. 13 febbraio 2001, n. 123.

Dal momento in cui è stata formulata tale nuova modalità di effettuazione delle suddette comunicazioni e notificazioni e fino alla presente riforma, per l’eventualità che il destinatario delle stesse non possedesse un indirizzo di posta elettronica certificato, gli operatori del settore hanno ritenuto che si potesse effettuare, in alternativa, il deposito in cancelleria, così come previsto dalla stessa legge n. 133/2008 per l’ipotesi di mancata comunicazione dell’indirizzo telematico.

Il mancato possesso della casella di posta elettronica certificata era trattato alla stessa stregua della mancata comunicazione di essa, non potendosi delineare altra migliore soluzione.

4.2.3 - Le notificazioni per via telematica

La legge n. 69/2009 ha introdotto un nuovo comma 3 all’art. 137 c.p.c :“Se l’atto da notificare o comunicare è costituito da un documento informatico

e il destinatario non possiede indirizzo di posta elettronica certificata, l’ufficiale giudiziario esegue la notificazione mediante consegna di una copia dell’atto su supporto cartaceo, da lui dichiarata conforme all’originale, e conserva il documento informatico per i due anni successivi. Se richiesto, l’ufficiale giudiziario invia l’atto notificato anche attraverso strumenti telematici all’indirizzo di posta elettronica dichiarato dal destinatario della notifica o dal suo procuratore, ovvero consegna ai medesimi, previa esazione dei relativi diritti, copia dell’atto notificato, su supporto informatico non riscrivibile.”

La nuova formulazione legislativa si inserisce nel corpo delle modifiche volte, più in generale, a razionalizzare le fasi processuali e accelerarne i tempi mediante l’eliminazione, quanto più possibile, delle diseconomie burocratiche che nel processo minano il buon funzionamento della giustizia.

A ben guardare con tale aggiunta la legge n. 69/2009 ha effettuato semplicemente un’integrazione alla rivoluzione informatica apportata dall’introduzione del c.d. processo civile telematico di cui alla legge 6 agosto 2008, n. 133 (che ha convertito il D.L. 25 giugno 2008, n. 112), il cui corpo normativo, sebbene già in vigore, come già detto, non può dirsi ancora del tutto operativo.

In buona sostanza, quindi, il nuovo comma 3 dell’art. 137 c.p.c. non fa che

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colmare il vuoto legislativo registrato, prima della riforma, proprio nel caso in cui il destinatario della comunicazione o notificazione non possedesse l’indirizzo di posta elettronica certificato.

A seguito della riforma, pertanto, il legislatore prevede, nell’ipotesi in cui l’atto da notificare si sostanzi in un documento informatico, che:

qualora il destinatario abbia un indirizzo di posta elettronica certificata1. , l’ufficiale giudiziario può inviare il documento informatico a quell’indirizzo;qualora il destinatario non abbia un indirizzo di posta elettronica certificata2. , l’ufficiale giudiziario gli consegna una copia cartacea conforme all’originale e conserva il documento informatico per due anni;infine, 3. qualora il destinatario chieda l’invio all’indirizzo di posta elettronica non certificata: in detta ipotesi può procedere all’invio del supporto informatico ovvero consegnare il documento su supporto informatico non riscrivibile.

La nuova previsione di cui all’art. 137 c.p.c. suscita così almeno due immediate considerazioni:

si tratta di un ulteriore tassello aggiunto dal legislatore in direzione del processo di semplificazione e velocizzazione degli adempimenti connessi alle attività di cancelleria. Nell’ottica più generale, infatti, della razionalizzazione del processo civile è chiara l’intenzione di snellire le attività di notificazione degli atti e ridurne i costi che gravano sull’amministrazione giudiziaria;in questo stesso senso sembra potersi leggere il carattere residuale, riscontrabile in prima battuta, assegnato dal legislatore alla consegna in forma cartacea di un documento che originariamente cartaceo non è: tant’è che pur in assenza di indirizzo di posta elettronica certificata, e sempre che venga richiesto dai destinatari, l’ufficiale giudiziario si potrà comunque avvalere degli strumenti telematici di notificazione: o inviandolo all’indirizzo di posta elettronica dichiarato dal destinatario della notifica o dal suo procuratore, oppure consegnando ai medesimi copia dell’atto notificato su supporto informatico non riscrivibile.

Le problematiche da segnalare, in caso di invio dell’atto per via telematica, riguardano principalmente quelle attinenti ai vizi di forma dell’atto di notifica che possano ripercuotersi sulla sua validità, salva sempre la possibilità di invocare il principio generale del raggiungimento dello scopo dell’atto processuale di cui all’art. 156 del c.p.c., nonché quelle attinenti al rispetto dei parametri normativi che consentano di pervenire ad un giudizio di certezza legale in ordine alla ricezione dell’atto.

Ciò sulla scorta della considerazione che la nuova modalità di notificazione non può prescindere dai valori recentemente affermati anche dalla Cassazione: la regolare osservanza delle prescrizioni formali, imposte dalla legge all’ufficiale giudiziario, in funzione del principio di recezione, è il fondamento degli effetti che dalla notificazione scaturiscono.

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Dette argomentazioni emergono con forza laddove si pensi che, ai sensi della nuova norma, nel caso in cui l’ufficiale giudiziario notifichi l’atto attraverso strumenti telematici all’indirizzo di posta elettronica dichiarato dal destinatario della notifica o dal suo procuratore, la relata di notifica sarà costituita, con tutta probabilità, dal messaggio inviato con l’atto notificato in allegato, non essendo possibile redigere, da parte dell’ufficiale giudiziario, la relazione di notifica con atto a parte, né il legislatore, ad oggi, ha previsto, per tali casi, una forma di relazione particolare.

Nell’attesa della piega che la prassi darà alla nuova norma ovvero di più formali norme regolatrici di provenienza legislativa, regolamentare o giurisprudenziale, ad oggi si registrano i dubbi sollevati dagli operatori del settore delle cancellerie e degli uffici notifiche dato che la nuova forma di notifica (la consegna su supporto informatico non riscrivibile) non consente, ad esempio, di avere contezza, per chi consegni il supporto digitale, che il ricevente sia in possesso della adeguata dotazione hardware per la lettura del supporto stesso; ovvero, ancora, nella medesima ipotesi di consegna del supporto non riscrivibile, il contenuto dell’atto stesso non è immediatamente verificabile né è verificabile la corretta indicazione circa il destinatario dell’atto.

Altre considerazioni vertono, ancora, sull’eventuale discordanza tra il contenuto testuale del documento e la copia notificata, nell’ipotesi di consegna al destinatario di copia dell’atto notificato su supporto informatico non riscrivibile.

Ma in tale ipotesi non si può che ritenere applicabile quanto già pacificamente asserito dalla giurisprudenza al di là del formato dell’atto da notificare: vale a dire la copia prevale sull’originale, senza che sia necessario impugnare di falso la relata di notifica apposta sulla copia stessa. Ciò sulla base della duplice considerazione che se è vero che l’onere di verificare l’esatta corrispondenza tra gli esemplari in originale ed in copia degli atti notificati grava sulla parte che promuove la notificazione, è vero, altresì, che, per una questione di certezza del diritto, occorre consentire al destinatario dell’atto notificato di non avere dubbi sull’attendibilità (in termini di rispondenza della copia all’originale) del contenuto testuale notificatogli. La Corte di Cassazione, in tal senso, sancisce l’obbligo di garantire l’affidamento del destinatario sul contenuto dell’atto scritto che gli è offerto a disposizione (Cass. 7/7/99, n. 7037 recentemente ribadito da Cass. 25/6/07, n. 14686).

Diversi sono i dubbi interpretativi sorti all’indomani dell’introduzione del processo telematico civile. Ci si è chiesti, ad esempio, se si tratti di un vero e proprio obbligo per l’ufficiale giudiziario di provvedere tramite mezzi telematici alle notificazioni di cui ai citati artt. 170 e 192 del c.p.c. nonché di ogni altra comunicazione al consulente. E’ stato evidenziato, infatti, che il mancato uso della forma verbale imperativa da parte del legislatore della legge n. 133/2008 (sono effettuate) fa sorgere il legittimo dubbio in ordine alla obbligatorietà o facoltatività di tale modalità di comunicazione per la cancelleria.

Da un lato l’imperatività della norma irrobustirebbe lo spirito che sottende alle norme di semplificazione e accelerazione del processo; dall’altro la facoltatività

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demanderebbe alle cancellerie il compito di optare, a seconda dei casi, per la notifica tramite mezzi ordinari (a conforto della più difficile impugnabilità per vizi procedurali, per le considerazioni prima formulate) ovvero per quella in via telematica (per scongiurare, a contrario, i maggiori costi della notifica a mezzo ufficiale giudiziario ed i possibili ritardi del processo).

In quest’ultima ottica, comunque va vista l’informatizzazione del processo civile, in genere, e, per quel che qui interessa, delle notificazioni: nell’ottica cioè dei benefici, ad oggi potenziali, che dette modifiche possano apportare al più celere e razionale funzionamento della giustizia civile. E’ chiaro che detto processo non può disgiungersi dal contemporaneo intervento di adeguamento degli uffici giudiziari in termini di dotazione di strumenti idonei al funzionamento del nuovo sistema.

In conclusione, appare opportuno fare un cenno alle recentissime disposizioni, aventi ad oggetto interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario, introdotte dal D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, pubblicato sulla G.U. n. 302 del 30/12/2009.

L’art. 4 D.L. n. 193/2009, rubricato misure urgenti per la digitalizzazione della giustizia, dà mandato, infatti, alla decretazione del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione e sentito il Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione ed il Garante per la protezione dei dati personali, per l’individuazione delle regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Lo stesso articolo sancisce che nel processo civile e nel processo penale tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica si effettuano, nei casi consentiti, mediante posta elettronica certificata, ai sensi del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, del D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, e delle regole tecniche da individuare con la anzidetta decretazione.

Ancora, l’articolo in esame modifica l’art. 51 del D.L. 25/6/2008, n. 112, convertito dalla L. n. 133/2008, stabilendo che le notificazioni e le comunicazioni di cui agli artt. 170, comma 1, e 192, comma 1, del c.p.c. e ogni altra comunicazione al consulente sono effettuate per via telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata di cui all’art. 16 del D.L. 185/2008 convertito dalla L. n. 2/2009.

In sostanza, se, da un lato, le nuove misure individuano la posta elettronica certificata quale strumento unico da utilizzare per le comunicazioni e le notificazioni da effettuare, nell’ambito dei processi civili e penali, per via telematica, dall’altro, subordinano il concreto avvio di tale nuovo sistema all’ulteriore regolamentazione tecnica oggetto di successiva decretazione ministeriale.

4.2.4 - Notifica e prova scritta della conoscenza

In tema di comunicazioni e notificazioni, non possono poi sottacersi le novità introdotte dall’art. 56 della legge n. 69/2009, in ordine alle modalità di proposizione e notificazione delle domande giudiziali. Tale articolo, infatti, aggiunge al comma

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2 dell’art. 23 della legge n. 689 del 24.11.1981, un ulteriore periodo stabilendo che “la prova scritta della conoscenza del ricorso e del decreto equivale alla notifica degli stessi”. Anche questa modifica normativa risponde all’esigenza di rendere più veloce e spedito il cammino dell’iter procedimentale che porta all’emanazione finale della decisione. Più in particolare, prima dell’intervento aggiuntivo, il comma 2 dell’art. 23 recitava che “se il ricorso è tempestivamente proposto, il giudice fissa la data dell’udienza di comparizione con decreto, steso in calce al ricorso, ordinando all’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato di depositare in cancelleria, dieci giorni prima dell’udienza fissata, copia del rapporto con gli atti relativi all’accertamento, nonché alla contestazione o notificazione della violazione. Il ricorso e il decreto sono notificati, a cura della cancelleria, all’opponente o, nel caso sia stato indicato, al suo procuratore e all’autorità che ha emesso l’ordinanza”.

Per effetto delle disposizione aggiunta, la conoscenza scritta del ricorso - unitamente a quella del decreto emesso dal giudice designato alla trattazione del procedimento -, equivale alla notifica degli stessi.

È evidente che, in base al sistema previgente, prima dell’instaurazione del giudizio di opposizione, non era possibile emanare il decreto con il quale era fissata la data dell’udienza di comparizione. Inoltre, solo dopo il deposito del ricorso e l’emissione del decreto, la cancelleria poteva procedere alla notifica degli stessi all’opponente o, nel caso fosse stato indicato, al suo procuratore e all’autorità che aveva emesso l’ordinanza. A seguito dell’integrazione normativa, l’acquisizione per iscritto della conoscenza del ricorso e del decreto equivale alla notifica e, pertanto, consente di procedere immediatamente con l’udienza di comparizione evitando l’assunzione di atteggiamenti di inerzia chiaramente finalizzati al semplice defatigare.

4.3 - Gli effetti della riforma sulla notifica degli atti tributari

La nuova formulazione dell’art. 137 del c.p.c. modifica in parte anche la disciplina delle notificazioni degli atti tributari aventi natura tanto sostanziale quanto processuale.

Per quanto concerne gli atti sostanziali, infatti, un ruolo fondamentale è rivestito dalla disciplina delle notificazioni emergente, in materia di imposte sul reddito, dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 cui fa richiamo, in generale, sia la normativa dedicata alle imposizioni indirette che le disposizioni sulla riscossione.

Ci si riferisce, più in particolare, all’art. 60 del D.P.R. 600/1973 che, nel regolamentare le modalità di notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, opera preliminarmente un generale rinvio alle norme stabilite dagli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile (ed è tale rinvio che qui interessa) e successivamente elenca le modifiche che, più nello specifico, integrano dette regole generali e che sono dettate dalla specialità degli atti oggetto di notifica e dei soggetti che la dispongono.

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Trattandosi di un vero e proprio rinvio formale, nel senso che l’art. 60 non procede direttamente alla disciplina delle notificazioni, se non in via d’eccezione, come detto, ma ne rimette la determinazione ad altra fonte, appunto il codice di procedura civile, l’effetto è quello di dare rilevanza a tutte le norme che la fonte di volta in volta è in grado di produrre e quindi a tutte le modifiche che queste subiscono29.

In questo senso il comma 3 oggi introdotto all’art. 137 c.p.c. dalla legge n. 69/2009 ha inevitabili ripercussioni sulla notifica degli atti tributari sostanziali. Dette ripercussioni risultano tanto più rilevanti laddove si pensi al raggio di azione che dispiega l’art. 60 del D.P.R. 600/1973 e più in generale i modi stabiliti per le notificazioni in materia di imposte sui redditi cui si agganciano, come accennato, i testi legislativi che fanno capo all’imposizione indiretta (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56) nonché alla riscossione delle imposte sul reddito (D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, art. 26).

Analogo rinvio formale alle disposizioni sulla notificazione contenute nel codice di procedura civile è possibile riscontrare in materia di notificazione degli atti tributari processuali dato che il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, innanzitutto, all’art. 16, comma 2, richiama in linea generale il dettato normativo che fa capo agli artt. 137 e seguenti del c.p.c., salvo sancire alcune modalità alternative nei commi successivi (utilizzo del servizio postale nonché messo comunale o speciale), ovvero fare salve le regole da adottare in tema di luogo delle comunicazioni e notificazioni di cui al successivo art. 17.

In più, il legislatore della riforma del contenzioso tributario si è discostato dalla precedente disciplina processuale speciale di cui al D.P.R. n. 636/1972, imponendo alle parti del giudizio, all’art. 38, comma 2, la notificazione della sentenza secondo il puro modello processuale civile (in quest’ultima ipotesi il rinvio formale non prevede neppure eccezioni).

Stando così le cose è evidente che le considerazioni più innanzi riportate concernenti le problematiche insorte in tema di utilizzo di strumenti informatici per la comunicazione o notifica di documenti digitali, non soltanto non esulano affatto dalla materia tributaria ma vanno analizzate alla luce delle già vigenti disposizioni che, proprio in detta materia, riguardano il processo di informatizzazione dei rapporti tra pubblica amministrazione e contribuente.

Si pensi agli obblighi introdotti dal decreto legge 29 novembre 2008, n. 185, e dalle successive modifiche introdotte dalla legge di conversione n. 2 del 28 gennaio 2009, che onerano, dal canto del contribuente, le imprese in forma societaria, in fase di iscrizione al registro delle imprese, di indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata ovvero analogo (nel senso indicato dalla norma) indirizzo di posta elettronica (art. 16 , comma 6, D.L. n. 185/2008) nonché le imprese dello stesso tipo già costituitesi di comunicare entro tre anni il proprio indirizzo PEC.

Si pensi ancora all’obbligo che lo stesso testo normativo (art. 16, comma 7) 29 Tale tipo di rinvio viene anche definito dinamico contrapponendolo al rinvio statico,

o recettizio, comportante una sorta di incorporazione della disposizione oggetto del rinvio in quella rinviante con la conseguenza che le vicende della disposizione oggetto di rinvio non si riflettono sul rinvio stesso.

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impone ai professionisti iscritti in albi di comunicare entro un anno l’indirizzo PEC o indirizzo analogo ai rispettivi ordini o collegi che trasmettono detti dati identificativi in via riservata alle pubbliche amministrazioni. Queste ultime, peraltro, dal canto loro, hanno l’obbligo di istituire una casella di PEC o analogo indirizzo (art. 16, comma 8).

Laddove si accosti detto vigente tessuto normativo con la novella introdotta all’art. 137 c.p.c, qui in commento, risulta evidente la possibile imminenza dell’utilizzo del formato digitale anche per gli atti tributari sostanziali e processuali oggetto di comunicazioni o notificazioni tra l’amministrazione finanziaria e i contribuenti.

In definitiva il processo innovativo che riguarda l’eliminazione del mondo cartaceo e la sua inevitabile sostituzione con il più efficiente archivio digitale, in cui si pone, quale ulteriore, seppure modesto, tassello la novella dell’art. 137 c.p.c., investirà in maniera non indifferente la materia tributaria in ragione dell’effetto a cascata determinato proprio dai segnalati rinvii e richiami presenti nei rispettivi testi normativi che regolano tanto il diritto tributario sostanziale quanto quello processuale.

Non sono trascurabili tuttavia le considerazioni che riguardano la reale operatività delle nuove forme di comunicazione alla luce, ad esempio, della circostanza che in parecchie ipotesi di cui al D.L. n. 185/2008 e considerata la recente vigenza di taluni degli obblighi dallo stesso imposti, deve ancora attendersi lo spirare del termine entro cui conformarsi, da parte dei rispettivi contribuenti a ciò onerati, per potere riscontrare la reale portata (sulla quale un ruolo determinante sarà rappresentato dalla regolamentazione in termini operativi delle nuove forme di comunicazione) dell’auspicata informatizzazione dei settori amministrativi interessati.

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Capitolo 5 Rimessione in termini

5.1 - Rimessione in termini nel processo civile: abrogazione dell’art. 184-bis c.p.c. e riformulazione dell’art. 153 c.p.c.

Tra le novità introdotte dalla legge n. 69/2009 merita di essere segnalata la riformulazione della cd. rimessione in termini, prevista dal novellato art. 153 c.p.c.

Per effetto delle modifiche introdotte, il legislatore ha disposto l’abrogazione dell’art. 184-bis c.p.c., secondo cui “La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini”, riformulando, nello stesso tempo, l’art. 153 che in precedenza si limitava a prevedere l’improrogabilità dei termini perentori.

Nella sua attuale formulazione il nuovo comma 2 dell’art. 153 c.p.c., consente al giudice di rimettere in termini la parte che sia incorsa in decadenza per causa ad essa non imputabile.

A tal proposito, la nuova disposizione intitolata “Improrogabilità dei termini perentori” è adesso, così formulata: “I termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno sull’accordo delle parti. La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’art. 294, secondo e terzo comma.”

Come si rileva dalla relazione governativa al disegno di legge che ha introdotto le modifiche al codice di procedura civile, con il nuovo art. 153, il legislatore ha inteso generalizzare la previsione della rimessione in termini, sino al 4 luglio 2009 disciplinata dall’art. 184-bis c.p.c. del codice di procedura civile, allargandone l’ambito oggettivo di applicazione. Stante la generalizzazione del rimedio della rimessione in termini, si è proceduto all’abrogazione del citato articolo 184-bis 30.

La parte potrà richiedere al giudice di essere rimessa in termini, e quindi autorizzata al compimento di atti processuali, quando ha violato termini di natura processuale la cui osservanza è stabilita a pena di decadenza.

Per effetto del nuovo art. 153 c.p.c. e della relativa collocazione all’interno del codice di rito, il diritto della parte al compimento dell’atto tardivo si estende non solo agli atti da compiersi nel corso della trattazione della causa, ma anche

30 Camera di Deputati, Relazione al disegno di legge recante Disposizioni per lo sviluppo econo-mico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequa-zione tributaria, presentato il 2 luglio 2008, pag. 22.

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a quelli relativi all’intero processo che devono essere compiuti entro termini perentori a pena di decadenza.

Già dai primi commenti alla riforma del processo civile, la dottrina più attenta ha dato risalto alla portata innovativa della disposizione, soffermandosi sia in ordine al fatto che il nuovo comma 2 dell’art. 153 riproduce fedelmente il testo dell’abrogato art. 184-bis c.p.c., che sulla diversa collocazione della norma all’interno della codice di procedura civile.

Ebbene, a parere di alcuni autori, la scelta del legislatore di collocare l’istituto della rimessione in termini all’interno delle disposizioni generali e non più nella parte relativa al processo di cognizione evidenzia, come peraltro già indicato nella relazione governativa di accompagnamento al disegno di legge, che con la riforma del processo civile, la remissione in termini, da istituto eccezionale (previsto solo per la fase istruttoria) diviene un principio di carattere generale per la parte che è incorsa in decadenze senza colpa, che potrebbe essere applicato anche a situazioni esterne allo svolgimento del giudizio.31

Secondo la relazione del Servizio Studi del Senato dell’ottobre 2008 infatti, “il trasferimento dell’istituto della rimessione in termini dal libro II del codice di procedura civile al libro I determinerebbe una generalizzazione dell’istituto de quo che comporterà presumibilmente l’applicazione della rimessione in termini anche alle fasi di impugnazione”.32

Appare opportuno ricordare che sino all’entrata in vigore della nuova disposizione, ovvero nel periodo in cui l’istituto in esame era disciplinato all’interno dell’art. 184-bis c.p.c., la giurisprudenza di legittimità era dell’avviso che la rimessione in termini riguardasse solo la fase istruttoria del procedimento e non la proposizione delle impugnazioni.

In numerose sentenze, la Suprema Corte aveva affermato che l’applicabilità dell’istituto a tutte le decadenze va intesa nel senso di riferire la norma alle sole decadenze dei poteri processuali della parte interni al giudizio di primo grado, ma non anche alle decadenze relative ai poteri processuali esterni a tale giudizio, quali quelle derivanti dal decorso del termine per la proposizione dell’azione o dell’impugnazione.33 La norma, infatti, si riteneva applicabile solo alle ipotesi in cui le parti costituite siano decadute dal potere di compiere determinate attività nell’ambito della causa in trattazione, mentre, non era invocabile per le situazioni esterne allo svolgimento del giudizio. In tali ipotesi, a parere della Suprema Corte., vige il divieto dell’improrogabilità dei termini perentori di cui all’art. 153 c.p.c, che impedirebbe di utilizzare l’istituto della rimessione in termini anche

31 P.G. De Marchi, Il nuovo Processo Civile, Giuffrè, 2009 e A. Proto Pisani, La riforma del processo civile ancora una legge a costo zero, Il Foro Italiano, giugno 2009 secondo il quale, “ sarebbe occorso anche prevedere il termine perentorio( decorrere dalla cessazione dell’impedi-mento) entro il quale la richiesta di remissione va effettuata, e forse anche, in caso di rimessione dei termini per impugnare, la disciplina del relativo procedimento e il termine finale di sbarra-mento a garanzia della certezza del diritto”.

32 Servizio Studi del Senato, ottobre 2008, pag. 201. 33 Cass. civ. sez. III 25.05.1998 n. 5197 e Cass. civ. sez. I 23.10.1998, n. 10537

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per le decadenze relative al compimento del termine perentorio per instaurare il giudizio.34

Le predette interpretazioni sono state, di recente, confermate dalla Cassazione che, nel 2008, aveva ritenuto, stante il divieto di cui all’art. 153 c.p.c., inapplicabile la disposizione dell’art. 184-bis c.p.c. alla fase di proposizione delle impugnazioni, circoscrivendo l’ambito applicativo della stessa alla sola fase istruttoria.35

Nel merito, tuttavia, si deve segnalare che appare indubbio il fatto che le numerose sentenze intervenute sull’argomento abbiano avuto come presupposto del ragionamento la circostanza che l’istituto della rimessione in termini si collocasse all’interno della sezione II relativa alla trattazione della causa, e conseguentemente, stante il divieto di proroga dei termini perentori contenuto nell’art. 153 c.p.c., non potesse essere esteso a tutte quelle decadenze verificatesi fuori dal processo.

Alla luce della nuova disposizione dell’art. 153 c.p.c., l’orientamento fin qui espresso dai giudici di legittimità potrebbe essere riconsiderato, anche in ragione della nuova collocazione della norma all’interno del codice di rito.

Allo stato attuale la nuova formulazione della norma, e la relativa collocazione dell’istituto all’interno delle disposizioni generali, nonché la contestuale abrogazione dell’art. 184-bis c.p.c., introdurrebbe, come ritenuto da più parti, un’eccezione al divieto di improrogabilità dei termini perentori e la possibilità di un’eventuale applicazione anche ai procedimenti cc.dd. speciali.36

È interessante segnalare che, secondo alcuni autori, attesa la generalizzazione dell’istituto, la rimessione in termini potrà funzionare anche per i termini perentori di impugnazione dei provvedimenti con la conseguenza che questo potere del giudice, che potrebbe applicarsi per qualunque causa ritenuta non imputabile alla parte decaduta, potrebbe causare uno stato d’incertezza nei rapporti tra le parti.37

34 Cass. civ. sez. III, 27.08.1999 n. 8999 e nello stesso senso Cass. civ. sez. II 11.07.2000 n. 9178, secondo cui, l’art. 184-bis, c.p.c. consente, nella sua attuale formulazione, alla parte che sia incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile, di chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini.[…]l’art. 184 bis c.p.c. per la sua collocazione nel libro secondo, titolo I, capo II, sez. II sotto la rubrica “della trattazione della causa”, riguarda le sole ipotesi in cui le parti costituite siano decadute dal potere di compiere determinate attività difensive nel corso della trattazione della causa […]. Di recente anche Cass.civ. sez. III 27.07.2002 n. 11136 e Cass. sez. lav. ord. n. 12132 del 9.08.2002.

35 Cass. civ. sez. I. 07.02.2008 n. 2946. Nel caso di specie, la Corte aveva confermato la sen-tenza del giudice di merito che -dichiarando l’improcedibilità dell’appello per tardivo deposi-to dell’originale dell’atto di citazione- aveva negato che l’appellante potesse essere rimesso in termini deducendo che il ritardo del deposito era dovuto allo smarrimento dell’atto da parte dell’ufficiale giudiziario.

36 P.G. De Marchi, op. ult. cit. e Guida al Diritto, Processo civile vademecum della riforma, Il sole 24 Ore giugno luglio 2009.

37 C. Consolo, La legge di riforma 18 giugno 2009, n. 69: altri profili significativi a prima lettura, in Corriere Giuridico, 2009, n. 7 e dello stesso autore, Una buona “novella” al c.p.c. La ri-forma del 2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va la di là della sola dimensione processuale,in Corriere Giuridico , 2009, n. 6.

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Sul punto merita di essere segnalata la recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, dopo meno di un mese dall’entrata in vigore della legge n. 69/2009, se pur in via marginale, si è occupata della novella contenuta nell’art. 153 c.p.c., riconoscendo il carattere generale della rimessione in termini e la sua applicabilità anche ai termini d’impugnazione.38

5.2 - Operatività della rimessione in termini nel processo tributario

Passando ad esaminare la compatibilità con il processo tributario dell’istituto della rimessione in termini, si evidenzia che nel periodo di vigenza dell’art. 184-bis c.p.c., secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, il predetto art. 184-bis non poteva essere applicato al contenzioso tributario.

La Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, confermando l’orientamento espresso con numerose sentenze, aveva ritenuto l’estraneità al contenzioso tributario della cd. rimessione in termini e la non applicabilità, dell’art. 184-bis c.p.c..

A parere della Suprema Corte, “la rimessione in termini disciplinata dall’art. 184-bis c.p.c. riguarda le decadenze in cui le parti siano incorse nell’attività processuale davanti all’istruttore, senza possibilità di estensione alle decadenze relative al giudizio d’impugnazione, o comunque a quello costruito con caratteristiche impugnatorie, che non consente al giudice alcun intervento in ordine al decorso dei termini, se non nei casi tassativamente previsti dalla legge”.39

Le ragioni a supporto di tale tesi derivavano dalla circostanza che nel processo tributario era assente il giudice istruttore a cui compete la rimessione e dal fatto che l’istituto attiene a nullità determinatesi nel corso del processo, in cui le parti siano incorse per cause ad esse non imputabili, e non ad invalidità che investono il rituale instaurasi del rapporto processuale. Secondo la Corte di Cassazione, “ciò vale in particolare nel caso del contenzioso tributario, ove la proposizione dell’atto introduttivo del giudizio è sottoposto a formalità e termini previsti a pena di inammissibilità dell’atto stesso, sicché in proposito non può ritenersi consentita alcuna rimessione in termini del contribuente che tali formalità e termini non abbia osservato”. 40

L’inapplicabilità della rimessione in termini nei giudizi d’impugnazione è stata confermata anche dalla Corte Costituzionale che, chiamata a giudicare sulla legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1 del D.Lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 24 Cost., ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità del predetto articolo nella parte in cui non consente l’impugnazione tardiva dell’atto impositivo da parte del contribuente che non abbia potuto per caso fortuito o forza maggiore proporre ricorso entro il termine di sessanta giorni dalla notifica dello stesso.41

In senso critico alla posizione espressa dalla Corte Costituzionale, autorevole dottrina, evocando i principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. che si 38 Cass., SS.UU. civili, sent. 24.07.2009 n. 17352 39 Cass. civ. sez. V, 8.05.2000 n. 5778. Nello stesso senso Cass. civ. sez. I, 6.07.1999 n. 6954

e Cass. civ. 30.07.2002, n. 11218 .40 Cass. civ. sez. V 19.05.2003 n. 7814. Dello stesso avviso, Cass. civ. 29.09.2003 n. 14482 .41 Corte Cost., ord. n. 89 del 09.032004.

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manifestano, tra gli altri, nel diritto al contraddittorio, ritiene che nonostante il processo tributario sia di tipo impugnatorio, “l’inutile decorso del termine di decadenza per fatto non imputabile alla parte, sacrificherebbe ingiustamente il suo diritto ad interloquire in giudizio e quindi vulnera il principio del contraddittorio”.42

Ciò, secondo gli autori, porta a ritenere che il rimedio, al fine di garantire il diritto costituzionalmente riconosciuto al contraddittorio, dovrebbe consistere nel consentire al contribuente di impugnare oltre il termine perentorio di legge e, quindi, in una sorta di remissione in termini.

Inoltre, l’applicabilità dell’art. 184-bis c.p.c. alle situazioni relative a decadenze interne alla fase processuale in senso stretto deriva dalle caratteristiche del processo civile che non prevede termini di decadenza per instaurare l’azione ma solo termini di prescrizione per l’esercizio del diritto. Nel processo tributario, invece, la presentazione del ricorso è soggetta a termini stabiliti a pena di decadenza (art.21 D.Lgs. n. 546/1992) e pertanto la norma potrebbe trovare applicazione in tale sede.

In ordine alla questione in esame, non sono tuttavia mancate nel tempo pronunce giurisprudenziali orientate verso l’ammissibilità dell’istituto anche al processo tributario sebbene limitandolo alla fase istruttoria e, cioè dopo l’instaurazione del giudizio.

Per l’applicabilità dell’istituto della rimessione in termini al giudizio innanzi alle Commissioni Tributarie si può citare Cass. n. 11062/2006, secondo la quale “la cd. rimessione in termini di cui all’art. 184-bis c.p.c. concerne, […], la sola fase istruttoria del procedimento di primo grado, senza alcuna possibilità per il giudice di estendere tale fattispecie a situazioni esterne, quali l’impugnazione, non essendo consentito al giudice alcun intervento in ordine al decorso dei termini”.43

Ne deriva che, l’art. 184 bis, in forza del rinvio contenuto nell’art. 1, comma 2, del D.Lgs n. 546/1992, doveva pertanto ritenersi compatibile con il processo tributario, entro il limite della trattazione della causa ovvero nell’ambito di cause già introdotte.44

Ne era invece esclusa l’eventuale applicabilità per ciò che concerne la fase introduttiva del giudizio sorretta da termini perentori per i quali vige il divieto di cui all’art. 153 c.p.c.

Di recente, in ordine a quest’ultimo aspetto, si registra comunque in giurisprudenza un segnale di apertura verso l’ammissibilità dell’istituto per ciò che concerne la fase introduttiva del giudizio. Nel 2007 infatti, la sezione tributaria della Corte di Cassazione, ha ritenuto che “dall’eventuale mancata o erronea indicazione da parte dell’autorità amministrativa dei termini per impugnare, nonché dell’autorità giudiziaria adenda ai fini dell’impugnazione dell’atto amministrativo, possa discendere “errore scusabile” che valga rimettere in termini il destinatario dell’atto”.45

42 P. Russo, Il giusto processo Tributario, in Rassegna Tributaria, n. 1, gen.-feb 2004. Dello stesso avviso, Tesauro, Giusto processo e processo tributario, in Rassegna Tributaria, n. 1, gen-feb 2006.

43 Cass. civ. sez. V 12.05.2006, n. 11062. 44 A. Russo, I riflessi, nel processo tributario, della rimessione in termini, in il Fisco, 2008, n. 12.45 Cass. civ. sez. V 13.12.2007, n. 26116.

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In ragione di ciò, parte della dottrina ha ritenuto che, anche se la decisione non coinvolge direttamente l’art. 184-bis c.p.c., con la sentenza in esame la Cassazione avrebbe attribuito, di fatto, valore di principio generale alla rimessione in termini per errore scusabile.46

In senso conforme si colloca anche la recentissima ordinanza della Corte di Cassazione n. 15143 del 26 giugno 2009, mediante la quale la Suprema Corte, confermando l’orientamento espresso con precedenti sentenze, ha riconosciuto la possibilità di riammettere in termini il ricorrente, in presenza di un errore scusabile, qualora l’interessato sia in grado di dimostrare e il giudice di rilevare, la decisività dell’errore.47

Invero, al riguardo si deve ritenere che l’errore scusabile, come inteso dalla Cassazione, sarebbe riferibile a fatti o situazioni relative al comportamento di una delle parti (nel caso di specie l’amministrazione finanziaria aveva omesso di indicare il termine per impugnare) che, ove non venissero sanzionate, attraverso il riconoscimento all’altra parte del diritto ad impugnare anche oltre il termine perentorio decorrente dalla notifica del provvedimento, avrebbero come effetto quello di cristallizzare definitivamente una situazione in ordine alla quale il contribuente non ha potuto esercitare il proprio diritto costituzionalmente riconosciuto alla difesa.

Diversamente, l’art. 184-bis c.p.c. attraverso la locuzione causa non imputabile sembra volersi riferire a situazioni diverse non derivanti da un comportamento colposo della parte ma dipendenti da fattori esterni quali possono essere il caso fortuito o la forza maggiore.

Dopo aver brevemente ripercorso l’orientamento giurisprudenziale e dottrinario sulla compatibilità dell’istituto della rimessione in termini con il processo tributario nel periodo ante-riforma, è necessario soffermarsi sui possibili riflessi in ambito tributario delle modifiche apportate al codice di procedura civile.

46 A. Russo, op. ult. cit.47 Cass. civ. sez. V ord. 26.06.2009 n. 15143. Nel caso di specie, avente per oggetto una

sentenza della Comm. Trib. Reg. Sicilia che aveva confermato l’inammissibilità del ricorso della parte per tardiva impugnazione avverso le cartelle di pagamento e le ingiunzioni di pagamento, la Corte ha ritenuto che “in tema di opposizione a sanzione amministrativa, la mancata o l’erronea indicazione nell’atto da impugnare del termine di im-pugnazione e dell’organo dinanzi al quale può essere proposto il ricorso, non può considerarsi né una mera irregolarità priva di ogni effetto, né un’omissione che automaticamente rende il provvedimento impugnabile in ogni tempo, ma può, se del caso, e cioè in concorso con le altre circostanze della fattispecie concreta, comportare la scusabilità dell’errore eventualmente commesso dall’interessato, il quale, tuttavia, ha l’onere di dimostrare, e il giudice il dovere di rilevare, la decisività dell’errore (Cass. ci., sez. II, 16.05.2006, n. 14405)” e che “la mancata indicazione nell’atto amministrativo del termine d’impugnazione e dell’organo dinanzi al quale può essere proposto ricorso, prevista dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, comma 4, non inficia la validità dell’atto, ma comporta sul piano processuale il riconoscimento della scusa-bilità dell’errore in cui sia eventualmente incorso il ricorrente, con conseguente riammissione in termini per l’impugnativa, ove questa sia stata proposta tardivamente (Cass. civ. sez. trib. 6.09.2006, n. 19189)” .

56

Per effetto della collocazione della norma all’interno delle disposizioni generali sul processo, da più parti si è ritenuto che la stessa possa essere applicata anche al processo tributario.

La nuova collocazione infatti, permetterebbe di superare le obiezioni che impedivano di estendere l’istituto della rimessione in termini anche a situazioni esterne alla trattazione della causa in senso stretto.

Attraverso l’istituto in esame, quindi, il giudice può superare la decadenza nella quale è incorsa la parte qualora ritenga che il ricorso tardivo sia scusabile o non imputabile alla parte, evitando così che le preclusioni alle quali soggiace il rito tributario possano incidere eccessivamente sul diritto di difesa del contribuente.48

Secondo altra dottrina, oltre allo spostamento dal Libro II al Libro I, a favore della possibile applicabilità al rito tributario della norma contenuta nell’art. 153 c.p.c. depongono altre considerazioni.49

In primo luogo, la circostanza che il legislatore ha eliminato l’inciso “giudice istruttore” appare in linea con la presunta valenza generale dell’istituto e lascia propendere per la tesi secondo cui la norma potrebbe applicarsi anche al giudizio tributario in cui manca il giudice istruttore.

In secondo luogo, ritiene l’autore, a favore della predetta tesi depone sia il fatto che nel processo tributario il termine di decadenza ha carattere processuale, e ciò è dimostrato dalla circostanza che al rito in questione si applica la sospensione dei termini nel periodo feriale, che la considerazione secondo cui l’interesse oggetto del rito è l’eliminazione dell’atto che si estrinseca attraverso l’impugnazione dello stesso.

In ragione di ciò, ovvero indirizzandosi verso una lettura costituzionalmente orientata della norma, che tenga conto del diritto di difesa e dell’effettività del contraddittorio, conclude l’autore, si potrebbe invocare anche nel processo tributario, in forza del rinvio contenuto nell’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, la possibilità per il giudice di rimettere in termini la parte incorsa in decadenza per una causa ad essa non imputabile.

48 A. Buscema, Remissione in termini per decadenza verificatesi nella proposizione del ricorso, in il Commercialista Telematico, 26 giugno 2009, L’autore ritiene che l’istituto in esame potrebbe essere applicato, oltre ai casi di mancata indicazione del termine per impugnare o dell’autorità cui ricorrere, anche ai casi di decadenze derivanti da gravi motivi di salute del ricorrente.

49 F. Randazzo, Rimessione in termini per l’impugnazione del provvedimento impositivo, in Corriere Tributario, n. 33/2009.

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Capitolo 6 Istruzione probatoria

6.1 - La consulenza tecnica nel processo civile

La disciplina della consulenza tecnica è inserita nella sezione del codice di procedura civile dedicata all’istruzione probatoria - capo II, sezione III - precede quindi, nel codice, la disciplina dei singoli mezzi di prova nonché il paragrafo dedicato all’assunzione dei mezzi di prova in generale.

Se, in passato, la cd. perizia, era senz’altro inclusa tra tali mezzi, adesso - collocazione fisica a parte - la natura della consulenza tecnica è sicuramente controversa.

In concreto, il consulente tecnico integra l’attività istruttoria del giudice fornendogli conoscenze tecniche specifiche che, in alcuni casi, consentono di sviluppare e proseguire l’attività preparatoria del procedimento e che, in altri, influiscono sulla sua attività decisoria offrendo elementi diretti di giudizio o di valutazione delle risultanze di alcune prove.

Per tale ragione sull’argomento si sono formate opinioni opposte. La dottrina considera il consulente tra gli ausiliari del giudice e la giurisprudenza di legittimità vede nella consulenza tecnica un mezzo d’indagine, non un mezzo di prova vero e proprio, a disposizione dell’organo giudicante. Unica eccezione, i casi in cui la consulenza tecnica diventa lo strumento esclusivo per accertare fatti altrimenti non rilevabili assurgendo così a “fonte oggettiva di prova”.

Per il codice di rito civile (art. 61 c.p.c.), il giudice, quando è necessario, può farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica scelti, normalmente, tra persone iscritte negli albi speciali formati a norma delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile.

Accanto alle disposizioni generali (artt. 61-64 c.p.c.) in cui è delineata la figura del consulente tecnico e la sua attività - anche con riferimento agli obblighi ed alla responsabilità - la legge disciplina, negli articoli da 191 a 200 c.p.c., le modalità di designazione e lo svolgimento della sua attività.

Con riguardo a tali norme, la riforma introdotta dalla legge n. 69/2009, interviene relativamente alla nomina del consulente tecnico (art.191 c.p.c.) ed alla relazione resa dallo stesso al termine delle indagini (art. 195 c.p.c.). Un’ulteriore modifica riguarda infine l’art. 23 delle disposizioni di

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attuazione del codice di procedura civile che ha carattere prevalentemente organizzativo50.

Sostanzialmente, tali interventi legislativi, seppure in sintonia con l’obiettivo trainate della riforma, l’accelerazione dei giudizi civili, in molti casi hanno semplicemente recepito prassi già seguite in alcuni uffici giudiziari.

Ricordiamo brevemente la disciplina dell’istituto.La consulenza tecnica viene ammessa dal giudice istruttore nei limiti da

lui stabiliti, ma può essere disposta anche dal giudice decidente che può, con ordinanza, disporre la riapertura dell’istruttoria e incaricare il suddetto giudice di disporre una consulenza tecnica. Oltre che d’ufficio essa può essere richiesta o sollecitata dalle parti.

Il consulente tecnico (art. 191 c.p.c.) viene nominato con l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 183 comma 7, cioè quella con cui vengono assunti i mezzi di prova, o con altra successiva. Oltre alla nomina del CTU, quest’ultima contiene i quesiti, con cui si individua e delimita il campo d’azione del consulente, e la data dell’udienza di comparizione.

Questa nuova disposizione, rispetto alla precedente, ha il merito di anticipare la data dell’udienza di comparizione nella quale il CTU presta giuramento evitando inutili rinvii di udienza per la formulazione dei quesiti e per il dibattito sul contenuto degli stessi.

Entro tre giorni dalla data di comparizione (art. 192 c.p.c.), il consulente può fare istanza per astenersi e nello stesso termine le parti, se ne ricorrono i presupposti, devono proporre le istanze di ricusazione.

All’udienza di comparizione (art. 193 c.p.c.) il giudice istruttore riceve il giuramento del consulente

Il consulente compie le indagini di cui all’art. 62 c.p.c., anche fuori dalla circoscrizione giudiziaria, da solo o con il giudice, assiste alle udienze cui è invitato e può essere autorizzato a domandare chiarimenti alle parti, assumere informazioni da terzi e ad eseguire piante, calchi e rilievi.

Anche alle parti viene indicata la possibilità di nominare un proprio consulente (CTP), che può presentare proprie osservazioni e istanze – scritte o orali - al CTU il quale è tenuto a farne menzione nella propria perizia. Le parti possono intervenire nelle udienze in cui è presente il CTU ed anche in quelle in camera di consiglio.

A proposito del contenuto dell’attività e dei poteri ad essa connessi riconosciuti al CTU si contrappongono due scuole di pensiero. La prima vede nell’attribuzione di tali poteri una contraddizione con il carattere dispositivo del processo e, quindi, uno strategia per aggirare quest’ultimo così come il termine

50 La nuova versione della norma citata, in sintesi, prevede che a nessuno dei consulenti possano esser conferiti incarichi in misura superiore al 10 per cento di quelli affidati dall’ufficio (tribunale) e che sia assicurata la trasparenza del conferimento. Di fatto, solitamente tra giudice e consulente vige un rapporto fiduciario. Come ha ribadito la Corte di Cassazione, l’art. 61 indica una linea di principio, non è quindi vincolante e la scelta non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. 12.04.2001 n. 5473).

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per il deposito dei documenti ed ancora un modo per far transitare mezzi di prova non ammessi (es. processo tributario). La seconda pur riconoscendo che si è in presenza di una “deviazione” dal processo dispositivo, la ritiene appunto una deviazione consentita e non pericolosa in considerazione della natura di tale strumento istruttorio, inteso come strumento che offre al giudice esclusivamente la possibilità di leggere meglio ciò che già si trova a sua disposizione.

Più significativa, alla luce della considerazione esposta circa l’esistenza di una prassi in tal senso, è la modifica relativa ai nuovi termini di deposito della relazione.

Se il consulente svolge le sue indagini insieme al giudice istruttore, recita e recitava, l’art.195, si forma processo verbale, tranne che il giudice istruttore non disponga che venga predisposta una relazione. Nei casi in cui, invece, il consulente tecnico operi da solo si forma una relazione che deve contenere anche le osservazioni e le istanze delle parti.

La relazione deve essere trasmessa alle parti costituite entro il termine fissato dal giudice con l’ordinanza di cui all’art. 193 c.p.c..

La nuova versione dell’art. 195 c.p.c. prevede che il giudice, nella stessa ordinanza, fissi anche il termine con cui le parti devono trasmettere al consulente le osservazioni sulla relazione ed il termine, anteriore all’udienza successiva, di deposito in cancelleria della relazione, delle osservazioni delle parti e di una sintetica valutazione delle stesse. L’obiettivo perseguito con l’introduzione di tale termine interno alle operazioni peritali è ancora una volta quello di non ritardare le udienze tecniche tra le parti, evitando le discussioni che di solito si svolgevano nell’udienza successiva al deposito e la conseguente, ulteriore, attività istruttoria.

Non è secondario, inoltre, che in tal modo assumono rilievo le osservazioni delle parti e dei loro consulenti avverso l’operato del CTU e che, peraltro, le stesse vengono riportate nell’ambito esatto cioè quello del contraddittorio con quest’ultimo.

Quanto alle risultanze di tali attività, sebbene il giudice non sia vincolato ad esse - tanto da poter trascendere dal loro contenuto o licenziare una nuova consulenza - tuttavia una decisone basata sul di esse non richiede un’apposita motivazione sul punto oggetto della consulenza da parte del giudice, in quanto si ritiene che egli abbia fatto propria quella del CTU 51.

6.2 - La consulenza tecnica nel processo tributario

Per affrontare il tema della consulenza tecnica nel processo tributario è opportuno inquadrare la questione dei poteri istruttori delle Commissioni tributarie.

Ai sensi dell’art. 1 del D.Lgs. n.546/1992, il giudice applica le norme del codice di procedura civile se, nel citato decreto non è disciplinato il caso ad esso sottoposto, e se le stesse sono compatibili con le norme del processo tributario. Valgono quindi, anche per il processo tributario i principi di cui all’art. 112 c.p.c.

51 Cass. 11.04.2001 n. 5413; Cass. 16.08.1989 n. 3711; Cass. 9.05.1986 n. 3085

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- corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato - e all’art. 115 c.p.c. - disponibilità delle prove. Il giudice tributario deve, così come il giudice civile, pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte solo dalle parti e, salvi i casi previsti dalla legge, deve porre a fondamento delle decisioni solo le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.

Il passaggio da un processo inquisitorio ad un processo di tipo dispositivo o tendenzialmente dispositivo, concretizzatasi con il D.Lgs. n.546/1992 e successivamente - nel 2005 - con l’abrogazione del comma 3 dell’art. 7 del D.Lgs. n.546/1992 (“le Commissioni tributarie possono sempre ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisone della controversia”), non è contraddetto nemmeno dal comma 2 dello stesso articolo che riconosce alle Commissioni tributarie – a fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, tutte le facoltà di accesso, di richiesta dati, di informazioni e di chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ente locale dalle singole leggi d’imposta.

I poteri delle commissioni tributarie, infatti, data la natura dispositiva o tendenzialmente dispositiva del processo tributario, possono essere legittimamente esercitati soltanto nell’ambito dei fatti dedotti dalle parti e delle prove dalle stesse fornite, ma non in via suppletiva. Il giudice tributario non può, cioè, sostituirsi alle parti che non abbiano assolto a tale onere probatorio e acquisire ex officio le prove. Può soltanto accertare l’esistenza di fatti utili alla decisione della controversia tramite l’integrazione delle attività delle parti stesse. Le facoltà riconosciute alle Commissioni tributarie (accesso,…) sono quindi considerati strumenti per la ricerca delle prove e non mezzi di prova.

Ciò per il principio della terzietà del giudice sancito dall’art 111 della Costituzione e ribadito, a tal proposito, dai giudici costituzionali 52.

Il comma 2 dell’art. 7 aggiunge, poi, che il giudice può, quando occorre elementi conoscitivi di particolare complessità, richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri Enti pubblici ovvero alla Guardia di Finanza, o disporre consulenza tecnica d’ufficio53.

La consulenza tecnica è, quindi, un’eventualità processuale. Il processo tributario è un processo scritto, a prova documentale, senza una vera fase istruttoria, finalizzato ad esaminare un’attività istruttoria preesistente, che è quella svolta dall’amministrazione che ha formato l’atto impugnato.

Inoltre non può essere discrezionalmente disposta dal giudice ma è un potere che va esercitato per acquisire, in caso di necessità, elementi di particolare complessità.

52 Corte Cost. sentenza 19.03.2007 n. 10953 Alternativa, ma differente, è la consulenza richiesta agli organi tecnici di altre ammini-

strazioni, enti o alla Guardia di Finanza. Dalla quale la consulenza tecnica si distingue per essere affidata solo a professionisti esterni, non essere gratuita (grava sulla parte soccombente), e perché è prevista la partecipazione delle parti. Il consulente inoltre può essere ricusato o astenersi, la sua attività è strettamente personale e riveste il ruolo di ausiliario del giudice.

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In assenza di ragioni d’incompatibilità, si ritiene che alla consulenza tecnica in diritto tributario si applichi la stessa disciplina dettata per l’analogo istituto del codice di rito civile ed, in particolare, gli artt. da 61 a 64 e da 191 a 197 sopra descritti. Non si applicano invece gli artt. da 198 a 200 (esame contabile54) in quanto, l’art. 48 del D.Lgs. n. 546/1992 detta una disposizione specifica sulla conciliazione giudiziale incompatibile con il potere riconosciuto al CTU.

Il D.Lgs. n. 546/1992 non disciplina la consulenza tecnica, contiene soltanto un riferimento ai compensi (disciplinati come nel processo civile, dalla legge n. 319/1980).

Tuttavia se si confronta il disposto dell’art. 61 c.p.c. con quello del comma 2 dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 si evince, come sostenuto da più parti, che i poteri del CTU nel processo tributario sono più ampi di quelli del CTU del processo civile.

Infatti, mentre l’art. 61 c.p.c. recita: “per il compimento di singoli atti”, l’art. 7 comma 2 D.Lgs. n. 546/1992, fa riferimento “all’acquisizione di elementi conoscitivi”. Da qui la considerazione che nel processo tributario la consulenza tecnica, oltre ad avere natura di strumento ausiliario di valutazione costituisca anche un mezzo di prova essendo gli elementi conoscitivi prevalentemente elementi di fatto.

Si tratta di una questione lungamente dibattuta nel corso dell’evoluzione normativa dell’istituto introdotto dal regolamento per l’imposta sui fabbricati (che ha previsto la possibilità delle Commissioni di farsi assistere da un perito) poi escluso dal D.P.R. n. 636/72, (che ha riconosciuto soltanto la possibilità di richiedere relazioni agli organi tecnici dell’ Amministrazione), reintrodotto dal D.P.R. n.739 del 1981 (che ha ammesso la possibilità per le parti di richiedere l’assistenza di un consulente tecnico d’ufficio) ed, infine, approdato nel D.Lgs. n. 546/1992 come consulenza tecnica ex officio.

La doppia funzione della consulenza tecnica sembra confermata anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione55 che, contemperando il principio del rispetto dell’onere della prova e quello dell’acquisizione di fatti comunque utili all’accertamento della verità, ha sostenuto che il consulente tecnico può avere affidato l’incarico di valutare i fatti da esso accertati o già ritenuti esistenti (consulente deducente) ma può anche accertare i fatti stessi (consulente percipiente) senza che però la parte possa astenersi dal proprio onere probatorio rimettendo i propri diritti all’attività del consulente.

Ormai giurisprudenza e dottrina concordano nel riconoscere doppia funzione alla consulenza tecnica.

Riconoscere però che il CTU abbia tali poteri comporta che anche nel processo tributario il consulente tecnico possa svolgere le attività previste dall’art. 194 c.p.c.

54 Gli articoli da 198 a 201 c.p.c. disciplinano l’ esame contabile. In tale ipotesi, il consulente può, con il consenso delle parti , consultare anche documenti e registri non prodotti in causa e solo con il consenso delle parti può farne menzione nella sua relazione. Può inoltre tentare la conciliazione giudiziale, limitatamente agli aspetti tecnici-contabili della controversia. Se la conciliazione ha esito positivo, il giudice attribuisce efficacia di titolo esecutivo al verbale che la recepisce.

55 Cass. SS.UU. 4.11.1996 n. 9522

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sia in qualità di consulente “deducente” che in quella di consulente “percipiente”. In quest’ultimo caso sembra eccessivo e in contrasto con il sostenuto carattere dispositivo del rito tributario, con l’art. 111 Cost. (terzietà del giudice) nonché con l’art. 112 Cost. (unicità della giurisdizione) poter riconoscere un potere così penetrante.

Chi sostiene tale preoccupazione ritiene opportuno che si tenga conto dei fatti oggetto di consulenza tecnica distinguendo tra fatti principali e fatti secondari o accessori.

Così, relativamente ai fatti principali (costitutivi, estintivi, impeditivi e modificativi della pretesa tributaria), che devono essere allegati e provati dalle parti, il consulente dovrebbe avere il ruolo di consulente deducente e integrare soltanto l’attività delle parti, mentre per i fatti secondari può svolgere anche una funzione percipiente, quindi di accertamento dei fatti, quando dal fatto secondario si può desumere la sussistenza di un fatto principale, grazie alle conoscenze ed alle competenze del tecnico.

6.3 - La testimonianza scritta nel processo civile

Una delle modifiche al processo civile decisamente innovativa è rappresentata dall’introduzione della c.d. testimonianza scritta prevista dal nuovo art. 257 bis c.p.c..

L’intento del legislatore è quello di velocizzare lo svolgimento dell’istruttoria mediante la possibilità per il giudice, previo accordo tra le parti, di assumere la deposizione consentendo al teste di fornire per iscritto le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato.

In quest’ottica, si colloca per l’appunto, la formulazione del nuovo art. 257 bis, c.p.c. che recita “Il giudice, su accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza, può disporre di assumere la deposizione chiedendo al testimone, anche nelle ipotesi di cui all’articolo 203, di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato.

Il giudice, con il provvedimento di cui al primo comma, dispone che la parte che ha richiesto l’assunzione predisponga il modello di testimonianza in conformità agli articoli ammessi e lo faccia notificare al testimone.

Il testimone rende la deposizione compilando il modello di testimonianza in ogni sua parte, con risposta separata a ciascuno dei quesiti, e precisa quali sono quelli cui non è in grado di rispondere, indicandone la ragione.

Il testimone sottoscrive la deposizione apponendo la propria firma autenticata su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza, che spedisce in busta chiusa con plico raccomandato o consegna alla cancelleria del giudice.

Quando il testimone si avvale della facoltà d’astensione di cui all’articolo 249, ha l’obbligo di compilare il modello di testimonianza, indicando le complete generalità e i motivi di astensione.

Quando il testimone non spedisce o non consegna le risposte scritte nel termine stabilito, il giudice può condannarlo alla pena pecuniaria di cui all’articolo 255, primo comma.

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Quando la testimonianza ha ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, essa può essere resa mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al modello di cui al secondo comma.

Il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato.” .

L’istituto in esame pur presentandosi come una novità nel panorama processuale, in quanto introduce nel nostro ordinamento uno strumento fino ad ora non previsto dal codice di rito, ha destato sia nella dottrina che nella giurisprudenza, non poche perplessità in ordine alla possibile violazione del principio del contraddittorio sancito dall’art. 111 Cost., a cui è ispirato il nostro sistema processuale.

A tal proposito, secondo alcuni autori “ove il giudice ritenesse di acquisire la testimonianza scritta, si porrebbe una delicata questione di legittimità costituzionale rispetto all’art. 111 della Costituzione, che, se da un lato sancisce il principio della ragionevole durata del processo, dall’altro richiede che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti ed in condizione di parità. È evidente che la testimonianza scritta lederebbe il principio del contraddittorio, non potendo la parte - contro cui la testimonianza è resa - controinterrogarlo e porre domande volte a farlo cadere in contraddizione o a ottenere dichiarazioni favorevoli” 56

Particolarmente interessante appare anche il contenuto della Relazione sull’amministrazione della Giustizia nell’anno 2008, nella parte in cui vengono poste alcune riflessioni in ordine al disegno di legge di riforma del processo civile.

In tale documento, il Primo Presidente della Corte di Cassazione, pur riconoscendo il carattere fortemente innovativo della disposizione non trascura di evidenziare i dubbi circa l’ammissione nel processo civile “di uno strumento probatorio non formatosi nel contraddittorio tra le parti, per di più con piena efficacia di prova legale ed idoneo a fondare da solo la decisione del giudice”.

Secondo altra parte della dottrina e della giurisprudenza, invece, la circostanza in base alla quale l’applicazione dell’istituto è subordinato all’accordo tra le parti sembra escludere l’incostituzionalità della norma, contribuendo alla semplificazione ed accelerazione del processo.57

Tra le principali caratteristiche della novella processual-civilistica, infatti, di particolare rilievo è la circostanza in base ala quale il legislatore ha voluto subordinare la possibilità di ricorrere all’istituto della testimonianza scritta al previo accordo tra le parti.

La norma prevede che il giudice possa disporre l’assunzione della deposizione solo a seguito del preventivo consenso delle parti: tale condizione permetterebbe di non violare il principio fondamentale del contraddittorio a cui è ispirato l’intero processo civile.

Proprio la previsione di tale requisito indispensabile, però, lascia prevedere 56 Rosario Di Legami, La riforma del processo civile e la testimonianza scritta, www.nel meri-

to.com, del 11 dicembre 2008.57 P.G. De Marchi, Il nuovo Processo Civile, Giuffrè, 2009 e Consiglio Superiore della Magi-

stratura, Parere sulle disposizioni in materia di riforma del codice di procedura civile.

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una limitata applicazione nei casi concreti essendo il nostro sistema improntato ad una forte contrapposizione tra le parti che porta a contrastare sempre e comunque le iniziative e le proposte dell’avversario58.

Al fine di chiarire cosa il legislatore abbia voluto intendere per parti, ovvero, se con tale locuzione abbia voluto riferirsi alle sole parti costituite o invece con il termine parti abbia voluto comprendere anche la parte contumace, i primi commenti alla riforma sembrano propendere per la seconda soluzione.

Da una lettura costituzionalmente orientata della disposizione, si ricaverebbe il principio secondo cui la testimonianza scritta, subordinata al consenso delle parti, costituisce una deroga del diritto costituzionale alla formazione della prova nel contraddittorio e di fronte al giudice naturale, e pertanto, non si può ritenere che tale deroga possa essere rimessa alla sola valutazione della parte costituita.59

L’ammissibilità dell’istituto è comunque mitigata dall’intervento del giudice a cui è rimessa una valutazione discrezionale in ordine alla convenienza o meno della necessità di assumere tale strumento di prova per l’accertamento dei fatti.

L’art. 257-bis c.p.c. prevede infatti che il giudice può disporre la testimonianza tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza, salva la possibilità di poter sentire oralmente il teste davanti a lui o davanti al giudice delegato (comma 8).

Tale previsione comporta per il giudice la necessità di effettuare una valutazione in ordine all’efficacia dello strumento di prova all’interno di quel procedimento, verificando inoltre le eventuali controindicazioni che questo può comportare.

Secondo alcuni autori, l’inciso tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza porta a ritenere che la testimonianza scritta “dovrà essere esclusa in procedimenti particolarmente delicati o complessi, ovvero dove ad essere complessa sia la deposizione che il teste deve rendere” .60

Come sopra evidenziato, il comma 8 dell’art. 257-bis c.p.c. riconosce al giudice la possibilità, una volta esaminate le risposte o le dichiarazioni del teste, di disporre che questo sia chiamato davanti a lui o al giudice delegato al fin di essere interrogato.

Tale strumento, se, in caso di dichiarazioni poco chiare, superficiali o che necessitano ulteriori approfondimenti, sarà utile per il giudice al fine di valutare la fondatezza della prova e fondare il proprio libero convincimento (art. 116 c.p.c.), rappresenta tuttavia un limite alla realizzazione degli obiettivi della riforma, poiché in taluni casi, la necessità per il giudice di dovere sentire deporre il teste in forma orale potrà comportare un allungamento dei tempi per la definizione del procedimento.

In merito alle modalità di attuazione della testimonianza scritta, la norma in esame, prevede che il giudice con il provvedimento che dispone l’assunzione del mezzo di prova, chiede al testimone di fornire per iscritto le risposte alle domande e fissa un termine entro il quale la deposizione dovrà essere recapitata.58 G. Finocchiaro, Un viaggio nelle nuove regole, in Il Sole 24 Ore, Guida al Diritto, giugno -

luglio 2009.59 G. Buffone, La riforma del processo civile, Buffetti, 2009. Di senso opposto, Guida al Dirit-

to, Processo civile vademecum della riforma, Il Sole 24 Ore giugno luglio 2009.60 P.G. De Marchi, op. ult. cit.

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Con lo stesso provvedimento il giudice dispone che la parte che ha chiesto l’assunzione predisponga il modello di testimonianza di cui all’art. 103-bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, indicando i capitoli di prova ammessi, e lo faccia notificare al testimone.

A tal fine il modello, redatto in conformità a quello approvato con Decreto del Ministero della Giustizia, dovrà essere sottoscritto in ogni foglio dal difensore che ne ha curato la compilazione e dovrà contenere otre all’indicazione del procedimento e dell’ordinanza di ammissione da parte del giudice procedente, idonei spazi per l’inserimento delle generalità del testimone.

Deve altresì, contenere l’ammonimento del testimone prevista dall’art. 215 c.p.c. e la formula del giuramento di cui al medesimo articolo, oltre all’avviso in ordine alle facoltà di astenersi di cui agli artt. 200, 201 e 202 del codice di procedura civile.

La norma inoltre prevede che il modello deve contenere le richieste di cui all’art. 252, comma 1 c.p.c. ivi compresa l’indicazione di eventuali rapporti personali con le parti e la trascrizione dei quesiti ammessi, con l’avvertenza che il testimone deve rendere risposte specifiche e pertinenti a ciascuna domanda.

Il modello dovrà essere poi sottoscritto dal testimone al termine di ogni risposta, senza lasciare spazi vuoti. Le sottoscrizioni devono essere autenticate da un segretario comunale o dal cancelliere di un ufficio giudiziario. Le stesse sono gratuite ed esenti dall’imposta di bollo.

Nel caso in cui la testimonianza ha ad oggetto documenti di spesa (fatture, scontrini) già depositati dalle parti, essa può essere resa mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al modello previsto dall’art. 103-bis disp. att. cod. proc. civ.

6.4 - Riflessioni sull’applicabilità della testimonianza scritta nel processo tributario

In ambito tributario, vige il divieto, codificato nell’art. 7, comma 4 D.Lgs. n.546/1992, di considerare tra i mezzi istruttori a disposizione delle Commissioni Tributarie, il giuramento e la testimonianza.

Per prova testimoniale, secondo quanto affermato dalla dottrina prevalente, s’intende riferirsi “a quelle narrazioni dei fatti della causa al giudice compiute nel corso del processo e con determinate forme, da soggetti che non sono parti nel processo stesso e che sono attendibili proprio in quanto e nella misura in cui provengono da terzi imparziali” .61

Al riguardo, l’art. 7 intitolato Poteri delle Commissioni Tributarie dispone che “Non sono ammessi il giuramento e la testimonianza”.

Tale esclusione, che deriva principalmente dalla natura documentale e dalle esigenze di speditezza che caratterizzano il processo tributario, è stata confermata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 18 del 21 gennaio 2000.

61 Mandrioli, Corso di Diritto Processuale Civile, vol. II, Il processo di cognizione, Giappichelli.

66

Con la citata sentenza la Consulta ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in ordine all’art. 7, comma 4, argomentando, tra i vari motivi, in ragione della spiccata specificità che caratterizza il processo tributario rispetto a quello civile e amministrativo, e in base alla circostanza che questo è in massima parte scritto e documentale.

Secondo la Corte inoltre, deve ritenersi insussistente la violazione dell’art. 24 Cost. in quanto l’esclusione della prova testimoniale nel processo tributario non costituisce violazione del diritto di difesa poiché, quest’ultimo, ai fini del convincimento del giudice, può essere regolato in funzione delle caratteristiche dei singoli procedimenti.

Con la medesima sentenza, la Corte Costituzionale ha invece ritenuto di potere attribuire valore alle dichiarazioni di terzi rese prima e al di fuori del processo tributario, quali strumenti indiziari da cui il giudice può trarre indicazioni ove queste siano corroborate da altri elementi62.

Sulla stessa linea della Consulta, anche la Corte di Cassazione ha negato l’ammissibilità della prova orale (testimonianza) nel contenzioso tributario, e, nello stesso tempo, ha riconosciuto all’amministrazione finanziaria la possibilità di produrre documenti acquisiti in via amministrativa contenenti le dichiarazioni di terzi, ed al contribuente, il diritto a contestare tali documenti attraverso dichiarazioni sostitutive dell’atto notorio.63

Sulla base dell’orientamento espresso dalla giurisprudenza costituzionale, confermato da numerose sentenze dalla giurisprudenza di legittimità, sembrerebbe che la testimonianza scritta, prevista dall’art. 257-bis c.p.c., non possa trovare applicazione nell’ambito del processo tributario.

Sennonché, secondo alcuni autori, tale orientamento andrebbe rivisto alla luce della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che nel 2006, ha espresso il principio, al quale può essere attribuita valenza generale, secondo cui in ogni ordinamento processuale il divieto di prova testimoniale è legittimo, e pertanto compatibile con l’art. 6, par.1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (equo processo), tutte le volte in cui, da tale divieto, non derivi per il ricorrente un grave pregiudizio sul piano probatorio. In tali casi, non può escludersi che le particolarità del caso concreto rendano necessario il ricorso a mezzi orali.64

Nello stesso senso della dottrina testè citata, altri autori hanno ritenuto che, proprio nel processo tributario la cui caratteristica è di essere in massima parte scritto e documentale, potrebbe trovare ingresso la testimonianza scritta.

62 In tale sede, la Corte ha ritenuto che “la limitazione probatoria stabilita dall’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 546/1992, non comporta poi l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiara-zioni di terzi eventualmente raccolte dall’Amministrazione finanziaria. Va infatti considerato che le dichiarazioni di cui si tratta – rese al di fuori e prima del processo – sono essenzialmente diverse dalla prova testimoniale, che è necessariamente orale e di solito a richiesta di parte, richiede la formulazio-ne di capitoli specifici, comporta il giuramento dei testi e riveste, un particolare valore probatorio.”

63 Cass. civ. 15.04.2003, n. 5957 e 26.03.2003, n. 4423. 64 Ennio Fortuna, il divieto della prova testimoniale e il giusto processo tributario, in Il Fisco n.

19 del 14 maggio 2007.

67

Secondo tale orientamento, il divieto di cui all’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992, sarebbe limitato alla sola testimonianza orale, in quanto l’unica prevista al momento dell’introduzione del divieto e l’unica in linea con la natura documentale del processo tributario.

Per contro, un possibile limite all’utilizzo del nuovo strumento probatorio nel processo innanzi le Commissioni tributarie, deriverebbe dalla circostanza che il novellato art. 257-bis c.p.c., prevede il previo accordo tra le parti quale presupposto per l’applicabilità dell’istituto, e l’eventuale audizione orale del teste, qualora il giudice, in caso di dichiarazioni poco chiare, superficiali o che necessitano ulteriori approfondimenti, ritenga necessario che questo debba essere chiamato a deporre davanti a lui.

In dottrina65 si ritiene che l’accordo tra le parti si giustifica nel processo civile dove la testimonianza scritta è alternativa a quella orale, ma non nel processo tributario ove la mancanza di accordo precluderebbe all’origine l’ammissibilità della prova. In ordine al secondo aspetto, l’eventuale audizione orale del teste sarebbe preclusa dal divieto posto dall’art. 7 e pertanto, conclude l’autore, l’art. 257-bis c.p.c. sarebbe compatibile con il rito tributario nella parte in cui prevede la testimonianza scritta, ma contrasterebbe con il predetto rito con riferimento al comma 8.

Nonostante i limiti testè evidenziati, dottrina prevalente, espressasi in ordine alla novella processual-civilistica, ritiene che ammettere la prova testimoniale, anche solo scritta, nel giudizio tributario, oltre a contribuire all’attività del giudice nella verifica dei comportamenti contestati, potrebbe dare almeno in parte concreta attuazione ai principi espressi nell’art. 111 Cost. sul giusto processo (parità delle parti, formazione della prova nel contraddittorio e piena esplicazione del diritto di difesa) ai quali deve conformarsi anche il rito tributario.66

A tale argomentazioni osta comunque il dato normativo espresso di inammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario. Anche la rilevanza interna del principio espresso dalla Corte Europea dei Diritto dell’Uomo, è comunque subordinata al superamento del divieto attraverso un intervento correttivo di tipo legislativo sul D.Lgs. n. 546/199267.

6.4.1 - Le dichiarazioni rese da terzi

Altra cosa rispetto alla testimonianza scritta sono le dichiarazioni rese da terzi.In particolare, sia per le dichiarazioni raccolte dall’amministrazione (guardia

di finanza), trasfuse nel processo verbale di constatazione, che per quelle prodotte dal contribuente, la giurisprudenza è dell’avviso che le stesse, da sole, non possano essere utilizzate dal giudice a fondamento della propria decisione. Esse infatti, costituiscono dei semplici indizi che se supportate da altri elementi 65 A. Marcheselli, op. ult. cit.66 A. Marcheselli, op. ult. cit. e M. Villani, Divieto di testimonianza e dichiarazioni di terzo nel

processo tributario del 10 giugno 2008.67 Ennio Fortuna, Il divieto di prova testimoniale nel giudizio tributario dopo gli interventi della

Consulta sulla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in Il Fisco, 2008, n. 5.

68

potranno indirizzare il convincimento del giudice in un senso piuttosto che in un altro.

Con la sentenza n. 18 del 2000, la Corte Costituzionale ha ritenuto di potere attribuire valore alle dichiarazioni di terzi rese prima e al di fuori del processo, quali strumenti indiziari da cui il giudice può trarre indicazioni ove queste siano corroborate da altri elementi68.

Si tratta di quegli atti formatisi in sede di attività di controllo mediante le quali i verificatori acquisiscono e verbalizzano dichiarazioni rese da soggetti sottoposti ad indagini fiscali ovvero da soggetti terzi e che poi vengono trasfuse o nei processi verbali di constatazione o negli avvisi di accertamento.

Le dichiarazioni rese da terzi, a parere della Corte, mentre non sono idonee da sole a costituire il fondamento della decisone del giudice, insieme ad altri elementi, possono contribuire a formare il convincimento dell’organo giudicante.

Secondo l’orientamento prevalente tali dichiarazioni non sono qualificabili come mezzi di prova (testimonianza) e pertanto, la loro utilizzazione in sede giurisdizionale non violerebbe il divieto contenuto al comma 4 dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992.

Ed invero, attesa la formulazione letterale della disposizione contenuta nell’art. 7, si può ritenere che, mentre nel primo caso la norma esclude espressamente la possibilità di ammettere nel processo tributario quel tipico mezzo di prova costituito dalla testimonianza, nel caso delle dichiarazioni rese da terzi, la norma non vieterebbe alle parti di produrre in giudizio informazioni di soggetti informati sui fatti.

A favore dell’utilizzabilità delle dichiarazioni di terzi nel processo tributario si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità che in diverse occasioni ha confermato che l’esclusione della prova testimoniale non contrasta con l’utilizzo di dichiarazioni rese da terzi in quanto quest’ultime hanno un’efficacia diversa dalla testimonianza.69 Secondo la giurisprudenza infatti, le dichiarazioni raccolte dagli organi verificatori ed inserite nei processi verbali di constatazione non hanno natura di testimonianza bensì di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative attribuendo, quindi, alla stessa una sorta di valore documentale.

Al pari dell’amministrazione finanziaria, si è ritenuto che anche il contribuente può introdurre nel giudizio davanti le Commissioni Tributarie dichiarazioni rese da terzi in sede extra processuale ed aventi natura indiziaria per le quali può essere

68 In tale sede, la Corte ha ritenuto che “la limitazione probatoria stabilita dall’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 546/1992,, non comporta poi l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’Amministrazione finanziaria. Va infatti considerato che le dichiarazioni di cui si tratta – rese al di fuori e prima del processo – sono es-senzialmente diverse dalla prova testimoniale, che è necessariamente orale e di solito a richiesta di parte,richiede la formulazione di capitoli specifici, comporta il giuramento dei testi e riveste, un particolare valore probatorio.”

69 Cass. sez. trib. 19.06.2009, n. 14290, secondo cui “il divieto relativo all’acquisizione della prova testimoniale nel processo tributario, di cui all’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992, trova fonda-mento nell’esigenza di celerità e speditezza del rito. Tuttavia, le dichiarazioni rese da terzi e raccolte dalla polizia tributaria possono assumere valenza di indizi utilizzabili dal giudice non essendo annoverabili fra le prove testimoniali per difetto dei presupposti di sostanza e di forma”. Nello stesso senso, Cass. 18.03.2009, n. 6548 e Cass. 13.02.2009, n. 3569.

69

utilizzato l’atto notorio o la dichiarazione sostitutiva di atto notorio ai sensi del D.P.R. n. 445/2000. In tal modo, secondo la giurisprudenza, si darebbe attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 del Cost., per garantire il principio della parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa.70

Naturalmente, tali dichiarazioni, anche per il contribuente come per l’amministrazione finanziaria, non avranno valore probatorio ma solo il valore di elementi che da soli non potranno costituire il fondamento per la decisione del giudice.

In particolare, con riferimento all’atto notorio, la Suprema Corte ha avuto cura di precisare che a tale atto non può attribuirsi valore di prova legale in quanto precostituito senza alcun contraddittorio con l’altra parte, al di fuori del giudizio.71

Il pieno valore probatorio di tale genere di atto resta quindi limitato al fatto che la dichiarazione sia stata resa dal soggetto dichiarante in presenza del pubblico ufficiale ma non si estende alla rispondenza al vero delle circostanze richiamate nell’atto stesso.72

Interessanti, al riguardo, appaiono anche le considerazioni svolte da altri autori in ordine alla cd. verbalizzazione, ovvero la forma nella quale tali dichiarazioni nella quale tali dichiarazioni debbano essere rese al fine di venire prodotte nel giudizio.

A parere di tale dottrina, mentre non si pone alcun problema per le dichiarazioni rese all’Amministrazione finanziaria, in quanto queste vengono solitamente trasfuse in documenti redatti da pubblici ufficiali che rivestono quindi la forma dell’atto pubblico, per quanto riguarda le altre dichiarazioni dei terzi, il problema sussiste.73

Tuttavia, di recente, con sentenza n. 703 del 29 novembre 2006 (dep. 15 gennaio 2007), la Corte Cassazione ha affermato che la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, così come l’autocertificazione in genere, ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative essendo, viceversa, priva di qualsiasi efficacia in sede giurisdizionale, trovando ostacolo invalicabile, nel contenzioso tributario, la previsione dell’art.7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992 e ciò perché altrimenti si finirebbe per introdurre nel processo tributario - eludendo il divieto di giuramento sancito dalla richiamata disposizione - un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato ma, anche costituito al di fuori del processo.

Il valore probatorio delle verbalizzazioni è quindi rimesso al libero apprezzamento del giudice, il quale, di volta in volta, potrà o meno tenerne conto, quali ulteriori elementi a sostegno degli altri, già comunque acquisiti.74 70 Cass. civ. 16.05.2007, n. 11221 e 27.06.2007, n. 14879.71 Cass. civ. 6.04.2001, n. 5154, secondo cui “il processo deve svolgersi nel contraddittorio tra le parti,

in condizione di parità. Ciò comporta che le prove devono essere raccolte nell’effettivo contraddittorio delle parti, cioè nel processo e con la partecipazione del giudice; pertanto non può attribuirsi valore di prova all’atto notorio, precostituito al processo al di fuori di ogni contraddittorio con l’avversario.”

72 A.Riccioni, L’ammissibilità ai fini probatori delle dichiarazioni rese da terzi in ambito extraprocessuale in rapporto al divieto di prova testimoniale nel processo tributario, in Il Fisco, n. 14 del 14 aprile 2003.

73 G. Antico – M. Conigliaro – M. Farina, Il Contenzioso Tributario, il Sole 24 Ore, 2007.74 G. Antico - M. Conigliaro - M. Farina, op. ult. Cit.

70

Capitolo 7Istituti accidentali del processo:sospensione, interruzione ed estinzione

La drastica riduzione dei termini processuali, operata dalla legge n. 69/2009 nel rispetto del principio della ragionevole durata del processo, ha riguardato anche quelli relativi agli eventi sospensivi ed interruttivi del processo civile che si caratterizzano nell’essere anch’essi tendenzialmente ridotti ed uniformati ad un unico termine della durata di tre mesi.

In tale materia la legge n. 69/2009 interviene sugli artt. 296, 297, 300 comma 4, 305, 307 e 310 c.p.c. che, quindi, saranno oggetto dell’analisi che segue.

Le modifiche introdotte si applicano ai giudizi instaurati dal 4/07/2009.

7.1 - Sospensione del processo civile

L’istituto della sospensione è inserito nel Libro II - del processo di cognizione - capo VII del c.p.c. (artt. 295-297). Si distinguono: sospensione necessaria e sospensione concordata.

Secondo l’art. 295 c.p.c. (sospensione necessaria) “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa” .

Accanto alla c.d. sospensione necessaria il codice di rito prevede, all’art. 296, la c.d. sospensione concordata, cioè la sospensione su istanza delle parti.

Sebbene il legislatore, anteriormente alla riforma in argomento, l’avesse limitata ad un periodo, non prorogabile, di 4 mesi, nel corso del processo potevano essere concesse anche più sospensioni.

Inoltre, il giudice aveva la facoltà di stabilire i casi in cui ammettere la richiesta. L’istituto si trasformava, quindi, in un espediente per prolungare il processo. Così una norma, dettata anche in passato da esigenze di celerità, in concreto, poteva produrre l’effetto contrario.

L’art. 46 della L. n. 69/2009 apporta le seguenti modifiche all’art. 296 c.p.c.: sussistenza di giustificati motivi1. possibilità di ricorrere una sola volta all’istituto2. riduzione a tre mesi della durata massima della sospensione del processo3. contestuale fissazione dell’udienza di prosecuzione del processo 4. nell’ordinanza con cui il giudice dispone la sospensione.

71

Non si può trascurare di osservare che, al di fuori della riduzione dei termini, l’effetto innovativo della norma, che concretamente influirà sulla durata del processo, è rappresentato dall’aver previsto la sussistenza di giustificati motivi limitando la precedente facoltà del giudice di valutare la richiesta.

Si incentra, infine, sulla durata dei termini anche la modifica introdotta nell’art. 297 c.p.c. (Fissazione della nuova udienza dopo la sospensione) secondo cui le parti devono proporre l’istanza di fissazione dell’udienza dopo la sospensione, qualora non sia stata fissata ai sensi dell’art. 296 c.p.c., entro tre mesi e non più sei.

In sintesi, quindi, le novità in tema di sospensione sono:- la sospensione su istanza di tutte le parti può essere disposta dal giudice

istruttore una sola volta e solo in presenza di giustificati motivi. La durata è ridotta a tre mesi, da quattro, ed il giudice deve fissare l’udienza per la prosecuzione del giudizio, contestualmente, nel provvedimento di sospensione (art. 296 c.p.c.)

- se ciò non avviene le parti hanno tre mesi di tempo - dalla data di passaggio in giudicato della sentenza che ha definito la controversia di cui all’art. 295 c.p.c. - per proporre l’istanza di fissazione dell’udienza (art. 297 c.p.c.).

7.2 - Interruzione del processo

L’istituto dell’interruzione del processo (artt. 299-305 c.p.c.) assicura il rispetto del contraddittorio al verificarsi di specifiche situazioni inerenti le parti processuali - persone fisiche e non, del difensore o del rappresentante (morte, perdita della capacità di stare in giudizio delle parti, cessazione della rappresentanza).

Ai fini dell’interruzione, l’efficacia dell’evento è diversa a seconda della parte colpita e del tempo in cui lo stesso ha luogo.

Gli interventi della riforma riguardano esclusivamente il comma 4 dell’art. 300, c.p.c. (morte e perdita della capacità della parte costituita o del contumace) e l’art. 305 c.p.c. (mancata prosecuzione o riassunzione).

Riguardo all’art. 300 c.p.c., la modifica ha ad oggetto il processo contumaciale: alle precedenti previsioni normative che collegano il momento dell’interruzione a quello cui il fatto interruttivo è notificato o è certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti di cui all’art. 292 c.p.c., si aggiunge quello in cui esso è documentato dall’altra parte.

Anche in tema di interruzione la L. n. 69/2009, modificando l’art. 305 c.p.c., ha disposto l’abbreviazione del termine per proseguire o per riassumere il processo da sei mesi a tre.

In sintesi, quindi, le novità in tema di interruzione sono:- se uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. riguarda la parte dichiarata

contumace, il processo è interrotto da quando il fatto interruttivo è documentato dall’altra parte o notificato ovvero certificato dall’ufficiale

72

giudiziario (art. 300 c.p.c.)- il processo interrotto deve essere riassunto entro il termine perentorio di

tre mesi dall’interruzione altrimenti si estingue. (art. 305 c.p.c.).

7.3 - Estinzione del processo

Le novità in tema di estinzione sono:- il processo si estingue per inattività delle parti (art. 307 c.p.c.); in questo

caso, se il processo è stato cancellato dal ruolo, il termine per la riassunzione è di tre mesi, e non più di un anno. A prescindere dall’eccezione della parte interessata, l’estinzione può essere dichiarata anche d’ufficio dal giudice.

- l’estinzione del processo rende inefficaci gli atti compiuti ad eccezione delle sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e le pronunce sulla competenza che per intervento della L. n. 69/2009, si assumono con ordinanza, anziché con sentenza (art. 310 c.p.c.).

Sotto il titolo “Estinzione del processo”, sono riuniti due istituti, ben distinti

tra loro, “la rinuncia agli atti del processo” (art. 306 c.p.c.) e l’ “estinzione per inattività delle parti” (art. 307 c.p.c.) che sono accomunati concettualmente solo per essere entrambi causa dell’estinzione dello stesso.

Anche in questa ipotesi la nuova legge opera una drastica riduzione dei termini: tre mesi di tempo, e non più un anno, per la riassunzione del processo cancellato dal ruolo (comma 1 dell’art. 307) e non inferiore ad un mese né superiore a tre, (comma 3 dell’art. 307 c.p.c.) per eventuali rinnovazioni della citazione, prosecuzione, riassunzione o integrazione del giudizio.

Il nuovo comma 1 dell’art. 307 c.p.c. fa salvo, adesso, l’intero disposto dell’art. 181 e non solo il comma 2. Ciò comporta che il processo deve essere riassunto nel termine perentorio di tre mesi, a pena di estinzione, non solo nel caso di cancellazione dal ruolo per mancata comparizione dell’attore costituito (anche alla nuova udienza fissata dal giudice) ma anche nel caso di cancellazione dal ruolo per mancata comparizione di entrambe le parti alla prima udienza e alla successiva fissata dal giudice.

Inoltre, l’ultimo comma dell’art. 307 c.p.c. così come modificato, non richiede più che la parte interessata eccepisca, prima di ogni altra difesa, l’estinzione del processo. Viene, quindi, eliminata la contraddizione per cui l’estinzione operava di diritto e con efficacia retroattiva ma poteva essere dichiarata solo su eccezione di parte.

Le modifiche al comma 2 dell’art. 310 c.p.c. (effetti dell’estinzione del processo) specificano che l’estinzione del processo rende inefficaci gli atti compiuti ma non le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e le pronunce che regolano la competenza. La precisazione rispetto al vecchio testo sta nel riferimento generico alle pronunce, e non più alle sentenze, in quanto con la riforma le pronunce sulla competenza si assumono con ordinanza.

73

I NUOVI TERMINI

Istituto c.p.c. vecchio termine

Nuovotermine

Sospensione su istanza delle parti Art. 296 Quattro mesi Tre mesi

Fissazione nuova udienza dopo sospensione Art. 297 Sei mesi Tre mesi

Estinzione del processo per mancata prosecuzione o riassunzione

Art. 305 Sei mesi Tre mesi

Estinzione del processo per mancata costituzione delle parti o per inattività a seguito di cancellazione della causa dal ruolo

Art.307 comma 1 1 anno Tre mesi

Estinzione del processo per mancato compimento di attività ordinate dal giudice

Art.307 comma 3 Sei mesi Tre mesi

7.4 - Sospensione e interruzione nel processo tributario

Sospensione e interruzione del processo, i cc.dd. eventi accidentali, sono stati introdotti nel rito tributario dall’art. 30 della legge delega 30 dicembre 1991 n. 413 e quindi con la riforma attuata dal decreto legislativo n. 546/1992.

La disciplina dell’istituto della sospensione del processo deve essere coordinata con il principio di “autosufficienza” della giurisdizione tributaria sancito dall’art. 2 comma 3 D.Lgs. n. 546/1992 secondo cui “il giudice decide in via incidentale ogni questione, da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni di cui all’art. 39 d.lgs. 546/9275”.

Il decreto legislativo n. 546/1992 regolamenta la sospensione all’art. 39 (“il processo è sospeso quando è presentata querela di falso o deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone salvo che si tratti della 75 cfr. Cass. 29.04.2003 n. 6631- Le cause “pregiudiziali” pendenti in sede civile n compor-

tano automaticamente la sospensione del processo tributario posto che tali questioni, anche se oggetto di controversia dinanzi alla giustizia civile, possono essere decise incidentalmente in sede tributaria. Cfr., inoltre, Cass. sentenza 26.05.2005 n. 11140 che esclude che il processo tributario possa essere sospeso in ragione di una, ritenuta ne-cessità della risoluzione di questioni pregiudiziali devolute, di norma, alla cognizione del giudice ordinario o di quello amministrativo. In tema di rito tributario, infatti, vige il principio che il giudice debba sempre dare corso alla definizione della lite tributaria risolvendo, incidenter tantum, le questioni in argomento indipendentemente dal fatto che su tali questioni penda altro giudizio davanti ad altro giudice.

74

capacità di stare in giudizio”) che, dettato dall’esigenza di speditezza cui è stato informato il nuovo processo tributario, la ammette soltanto nelle due ipotesi espressamente contemplate. Siamo nell’ambito della sospensione c.d. necessaria76 che si concretizza, quando la legge, al verificarsi di specifiche situazioni, impone al giudice di sospendere il processo.

Invero la dottrina ha individuato ulteriori specifici casi in cui il processo deve essere sospeso, precisamente:77

ricusazione•regolamento preventivo di giurisdizione•sospensione per pregiudizialità costituzionale•sospensione determinata dalla necessità di risolvere questioni devolute •alla Corte di giustizia europea.

Nell’ambito del processo tributario, invece, non è prevista una disciplina di carattere generale per la sospensione necessaria né è previsto espressamente rinvio al codice di procedura civile. In base alla più recente giurisprudenza si ritiene, comunque, applicabile il disposto dell’art. 295 c.p.c. (“il giudice dispone la sospensione del processo ogni volta che egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”) anche in sede tributaria.

Infatti, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 14788 del 22.11.2001, pur accogliendo l’interpretazione restrittiva della Corte Costituzionale - data con sentenza 26.2.98 n. 3 78 - ha sostenuto che l’art. 39 D.Lgs. n. 546/1992 non può escludere l’applicabilità dell’art. 295 c.p.c. al processo tributario.

Dopo la sentenza Cass. civ. 6 settembre 2004 n.17937 sono intervenute le Sezioni Unite con sentenza n. 14814 del 4.6.2008 che hanno chiaramente sancito l’operatività in materia tributaria dell’articolo in argomento, ed in particolare, che l’art. 295 c.p.c. trova applicazione nei casi in cui non è possibile procedere alla riunione dei processi e sempre che vi sia un vincolo di connessione tra la decisione della causa pregiudiziale e l’esito di quella dipendente.

76 si distingue inoltre in:• sospensione impropria dovuta cioè a motivi processuali (es. questione di legittimità

costituzionale);• sospensione per “pregiudizialità interna”: il rapporto di pregiudizialità (cioè quel

rapporto tra i procedimenti per cui la definizione di un procedimento costituisce la conseguenza logica e giuridica della definizione di un altro) intercorre tra controver-sie tributarie;

• sospensione per “pregiudizialità esterna”: il rapporto di pregiudizialità intercorre tra cause rientranti in giurisdizioni diverse;

• sospensione concordata (art. 296 c.p.c.)77 Cfr. Santamaria, Diritto tributario, Parte Generale, Milano 2002, pagg. 502 ss.78 Cfr. Corte Cost. sentenza 26.02.1998 n. 31 che ha dichiarato non fondata la questione

di legittimità costituzionale dell’art. 39 d.lgs. 546/92, “ nella parte in cui non prevede la sospensione del processo tributario dove altro giudice debba procedere alla defini-zione di una controversia dalla quale dipende la decisione del ricorso”.

75

È stato inoltre chiaramente specificato che, in virtù del disposto dell’art. 1 del D.Lgs. n. 546/1992, l’art. 295 c.p.c. trova applicazione in ordine a processi tributari, mentre l’art. 39 trova applicazione nei rapporti tra processi tributari e non tributari.

Il processo tributario ignora, invece, la sospensione cd. concordata o facoltativa. Non si ritiene infatti applicabile l’art. 296 c.p.c. ( “il giudice istruttore, su istanza

di tutte le parti, ove sussistano giustificati motivi, può disporre, per una volta sola, che il processo rimanga sospeso per un periodo non superiore a tre mesi fissando l’udienza per la prosecuzione del processo medesimo ”).

Tale esclusione è motivata sia dalla natura pubblicistica di tale rito, e più precisamente, dall’interesse che viene in gioco, sia dalla necessità di non porgere alle parti l’opportunità di ritardare la riscossione dei tributi in pendenza del giudizio, riscossione la cui misura segue l’iter del processo79.

In merito al termine per la ripresa del processo sospeso o interrotto, l’art. 43 del D.Lgs. n. 546/1992 dispone:

“1. Dopo che è cessata la causa che ne ha determinato la sospensione il processo continua se entro sei mesi da tale data viene presentata da una delle parti istanza di trattazione al presidente di sezione della Commissione , che provvede a norma dell’art. 30.

2. Se entro sei mesi da quando è stata dichiarata l’interruzione del processo la parte colpita dall’evento o i suoi successori o qualsiasi altra parte presentano istanza di trattazione al presidente di sezione della Commissione quest’ultimo provvede a norma del comma precedente”.

Si evidenzia a tal proposito che il termine di 6 mesi previsto dall’ art. 43 commi 1 e 2 del D.Lgs. n. 546/1992 in tema di ripresa del processo sospeso o interrotto era uguale a quello civilistico ante riforma ma proprio l’autonoma previsione del termine da parte del D.Lgs. n. 546/1992 non consente allo stato attuale di ritenere immediatamente applicabile i termini ridotti riguardanti la prosecuzione del processo sospeso o interrotto.

7.5 - Estinzione nel processo tributario

Le cause di estinzione del processo tributario (artt. 44 – 46 D.Lgs. n. 546/1992) sono identificabili in tre categorie:

a) la rinuncia al ricorso (art. 44);b) l’inattività delle parti (art. 45);c) la cessazione della materia del contendere (art. 46).

In particolare, l’art. 45 D.Lgs. n. 546/1992 “Il processo si estingue nei casi in cui le parti alle quali spetta di proseguire, riassumere o integrare il giudizio non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge o dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo”, è una norma che ne rispecchia appieno la natura di rito informato sul c.d. principio dispositivo.

L’inattività delle parti deve concretarsi nelle seguenti omissioni:- mancata o intempestiva richiesta di proseguire il processo sospeso;

79 Cfr. circ. 98 del 23/471996: non si ravvisa una ratio che giustifichi la possibilità delle parti di concordare tra loro la sospensione del processo.

76

- mancata o intempestiva richiesta di riprendere il processo interrotto;- mancata o intempestiva integrazione del contraddittorio nel termine

perentorio fissato dalla legge o dal Collegio- mancata o intempestiva riassunzione del processo dinanzi alla Commissione

Tributaria competente a seguito della dichiarazione di incompetenza territoriale di quella adita.

In merito al termine oltre il quale si verifica estinzione si rileva che:per il termine fissato dalla legge, il rinvio è all’art. 43 per i casi di sospensione - e interruzione: tale termine è stabilito con norma specifica in sei mesi.per il termine fissato dal giudice, non essendo previsto un limite minimo - e massimo, non è possibile considerarlo applicabile per analogia ma rimane alla facoltà del giudica tributario uniformarsi o meno ai limiti previsti dal codice di procedura civile per analoghe fattispecie.

7.6 - Altri casi di riassunzione

7.6.1 - Rimessione al primo giudice per ragioni di giurisdizioneCome è noto, ad eccezione del regolamento preventivo di giurisdizione80 pre-

visto dall’art. 41, comma 1 c.p.c., le questioni di giurisdizione (cioè quelle che vertono sulla sussistenza o meno della giurisdizione rispetto ad una determinata controversia), rilevate d’ufficio o ad eccezione di parte, vengono risolte, in via preliminare, dal giudice ordinario adito per il merito.

La decisione del giudice adito sulla questione di giurisdizione può poi essere oggetto di impugnazione, con l’appello e poi con il ricorso alla Corte di Cassazio-ne, alla quale spetta dunque la parola definitiva.

Nell’ipotesi in cui la questione di giurisdizione si pone innanzi al giudice di appello, l’art. 353, comma 1, c.p.c., prevede che lo stesso (il giudice di appello), qualora riformi la sentenza di primo grado dichiarando che il giudice ordinario ha sulla causa la giurisdizione negata dal primo giudice, deve pronunciare, an-che d’ufficio, sentenza con la quale rimanda le parti davanti al primo giudice e ciò al fine di assicurare il doppio grado di giurisdizione di merito81.

Naturalmente la rimessione effettiva al giudice di primo grado non avviene d’ufficio, ma in applicazione del fondamentale principio dell’impulso di parte, viene lasciata all’iniziativa della parte che vi ha interesse, la quale provvede a riassumere la causa innanzi al primo giudice con la comparsa di riassunzione da notificarsi, ai sensi dell’art. 353, comma 2, c.p.c. (nella versione antecedente 80 Il regolamento preventivo di giurisdizione si caratterizza perché consente di ottenere una

pronuncia immediata sulla questione di giurisdizione da parte della Corte di cassazione, senza che sulla questione si pronunci il giudice adito. Quindi ha carattere preventivo per-ché deve essere proposto prima che la causa sia decisa nel merito in primo grado.

81 L’art. 353, comma 1, c.p.c. prevede: “il giudice di appello, se riforma la sentenza di primo grado dichiarando che il giudice ordinario ha sulla causa la giurisdizione negata dal primo giu-dice, pronuncia sentenza con la quale rimanda le parti davanti al primo giudice”. Se il giudice d’appello non rimandasse le parti al primo giudice e decidesse nel merito la causa darebbe luogo ad una sentenza nulla per violazione del principio del doppio grado di giurisdizione (Cass. civ., sez. lav., 3 luglio 1998, n. 6547).

77

alle modifiche della legge n. 69/2009), nel termine perentorio di sei mesi dalla notificazione della sentenza82.

L’art. 46, comma 19, della legge n. 69/2009, ponendosi nella direzione dell’at-tuazione del principio di ragionevole durata del processo civile, ha ridotto da sei a tre mesi il termine previsto dall’art. 353, comma 2, c.p.c. per la riassunzione della causa davanti al giudice di primo grado a cui sia stata rimessa per ragioni di giurisdizione.

Per quanto riguarda il regime transitorio le riduzioni dei termini processuali devono ritenersi applicabili, ai sensi dell’art. 58, comma 1, della L. n. 69/2009, soltanto ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore, cioè ai pro-cessi che non siano ancora pendenti alla data del 4 luglio 2009.

Simmetricamente, nel processo tributario, l’art. 59, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992 prevede che la commissione tributaria regionale rimette la causa alla commissione provinciale che ha emesso la sentenza impugnata quando dichiara la giurisdizione negata dal primo giudice.

L’art. 59, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992, dispone che “dopo che la sentenza di rimessione della causa al primo grado è formalmente passata in giudicato, la segreteria della Commissione tributaria regionale, nei successivi trenta giorni, trasmette d’ufficio il fascicolo del processo alla segreteria della Commissione tri-butaria provinciale, senza necessità di riassunzione ad istanza di parte”.

Nel contenzioso tributario, quindi, in presenza di una disciplina speciale che regola diversamente la fase della rimessione della causa al giudice di primo gra-do, in quanto non prevede - come nel processo civile - la riassunzione ad istanza di parte, ma la trasmissione d’ufficio del fascicolo del processo alla segreteria della Commissione tributaria provinciale, non si rende applicabile la disciplina posta dall’art. 353 c.p.c., così come modificata dalla legge n. 69/2009.

7.6.2 - Cassazione della sentenza di merito con rinvioTra i vari possibili esiti del giudizio di Cassazione vi è quello della sentenza

che cassa con rinvio che si ha quando la Corte, accogliendo il ricorso, elimina il provvedimento impugnato e, poiché occorrono ulteriori accertamenti di fatto, attribuisce la causa ad altro giudice di pari grado a quello che ha pronunciato la sentenza cassata.

L’introduzione di questa fase del giudizio avviene attraverso la riassunzione della causa mediante atto di citazione da notificarsi personalmente (non presso il procuratore costituito) ad iniziativa della parte che ha interesse alla prosecu-zione del giudizio e nei confronti di tutti coloro che furono parti nel giudizio di cassazione.

L’art. 392, comma 1, c.p.c., nella formulazione antecedente alla modifica ope-rata dalla L. n. 69/2009, in combinato disposto con l’art. 393 c.p.c., prevede, a pena di estinzione dell’intero giudizio, che “la riassunzione della causa davanti al 82 Tale termine verrebbe interrotto nel caso che contro la sentenza d’appello che rimette

la causa al giudice di primo grado venisse proposto ricorso per cassazione (353, com-ma 3, c.p.c.).

78

giudice di rinvio può essere fatta da ciascuna delle parti non oltre un anno dalla pubbli-cazione della sentenza della Corte di cassazione83”.

Analogamente, per il contenzioso tributario, l’art. 63, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992 prevede che “quando la Corte di Cassazione rinvia la causa alla commissione tributaria provinciale o regionale la riassunzione deve essere fatta nei confronti di tutte le parti personalmente entro il termine perentorio di un anno dalla pubblicazione della sentenza…”.

L’art. 46, comma 21, della L. n. 69/2009 ha modificato il comma 1 dell’art. 392 c.p.c. sostituendo il termine di un anno, previsto per la riassunzione a seguito di annullamento con rinvio, con quello di tre mesi (“la riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio può essere fatta da ciascuna delle parti non oltre tre mesi dalla pub-blicazione della sentenza della Corte di Cassazione”).

In base al principio di specialità delle norme del contenzioso tributario rispet-to a quelle del processo civile, sancito dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, non può ritenersi che il termine di riassunzione della causa di cui all’art. 392 c.p.c., così come ridotto dalla novella del 2009, possa esplicare effetti sull’analogo istituto della riassunzione nel giudizio tributario in presenza di una disposizione - quella prevista nell’art. 63, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992 - che stabilisce espres-samente un termine annuale di riassunzione.

La riassunzione della causa tributaria a seguito di una decisione della Cas-sazione di annullamento con rinvio continua pertanto ad effettuarsi nel termine speciale di un anno, espressamente stabilito dal comma 1 dell’art. 63 del D.Lgs. n. 546/199284.

83 La decorrenza del termine annuale per riassumere la causa avanti il giudice di rinvio inizia dal giorno di pubblicazione della sentenza della cassazione, pubblicazione che si perfeziona col deposito in cancelleria e non con la comunicazione che di tale deposito viene fatta alle parti costituite (Cass. Civ., 21.04.1983, n. 2738, FI, 1983, I, 1599).

Nonostante l’estinzione dell’intero giudizio, ai sensi dell’art. 393 c.p.c. la sentenza del-la Corte di Cassazione conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda.

84 In questo senso si è espresso anche Pistolesi Francesco, I termini processuali tributari alla luce della riforma del giudizio civile, in Corriere Tributario 33/2009, p. 2712.

79

Capitolo 8Il termine lungo di impugnazione delle sentenze

8.1 - Il nuovo termine lungo di impugnazione nel processo civile

Ai sensi dell’art. 323 c.p.c., i mezzi di impugnazione delle sentenze del processo ordinario sono, oltre il regolamento di competenza nei casi previsti dalla legge, l’appello, il ricorso per Cassazione, la revocazione e l’opposizione di terzo.

Tali mezzi di impugnazione sono classificabili in mezzi di impugnazione ordinaria, proponibili contro sentenze non passate in giudicato (regolamento di competenza, appello, ricorso per Cassazione e revocazione c.d. ordinaria per i motivi di cui ai numeri 4 e 585 dell’art. 395 c.p.c.) ed in mezzi di impugnazione straordinaria, così denominati in quanto straordinariamente ammessi contro sentenze passate in giudicato (revocazione c.d. straordinaria per i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 686 dell’art. 395 c.p.c. ed opposizione di terzo).

Le impugnazioni sono soggette a termini che lo stesso codice di procedura civile (art. 326 c.p.c.) definisce perentori, al fine di garantire certezza e stabilità dei rapporti giuridici. Sicché la decadenza dall’impugnazione è rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio87 e non è sanabile per accordo delle parti. Lo spirare del termine senza che l’impugnazione (ordinaria) sia stata proposta comporta il passaggio in giudicato della sentenza (art. 324 c.p.c.).

È opportuno accennare, poi, che nel codice di procedura civile sono previsti due termini per impugnare le sentenze: un termine c.d. “breve” (art. 325 c.p.c.), che 85 Rispettivamente, “se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o do-

cumenti della causa” (n. 4) e “se la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione” (n.5). Invero, poiché tali vizi (errore di fatto; contrasto con precedente giudicato) possono essere rilevati sulla base della sola sentenza non sussiste rispetto ad essi la necessità di garantirne la impugnabilità oltre i limiti del giudicato sicché, per espressa previsione degli artt. 323 e 324 c.p.c., l’impugnazione deve essere appunto proposta prima del passaggio in giudicato della sentenza.

86 Rispettivamente, “se [le sentenze] sono l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’al-tra” (n.1), “se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza” (n.2), “se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti de-cisi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario” (n.4), “se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato” (n.6).

87 Cfr. Cass. n. 11570/1999; Cass. n. 252/2001.

80

decorre nel caso di notificazione della sentenza, ed un termine c.d. “lungo” (art. 327 c.p.c.), che decorre indipendentemente dalla notificazione della sentenza88.

La riforma del processo civile, in un’ottica di razionalizzazione ed accelerazione dei tempi del processo civile, ha modificato molti termini processuali.

In questa sede, rileva la modifica al termine lungo di impugnazione, apportata dall’art. 46, comma 17, della legge n. 69 del 2009, che ha “dimezzato” il termine annuale previsto dall’art. 327 c.p.c..

A norma del nuovo art. 327 c.p.c, infatti, le impugnazioni ordinarie “non possono proporsi dopo decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza”.

Come annotato dai primi commentatori89, la riduzione a sei mesi del termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c. comporta che detto termine non fruirà della sospensione dei termini feriali di cui alla legge n. 742/196990 nel caso in cui la sentenza sia depositata fra il 16 settembre ed il 31 gennaio di ciascun anno (in tale circostanza, difatti, il termine semestrale di impugnazione viene a scadere anteriormente al primo agosto sicché non opera la menzionata sospensione dei termini feriali).

Si osserva, infatti, che, per effetto dell’applicazione della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, di cui alla legge n. 742/1969, il termine lungo risultava - prima della modifica introdotta dalla legge n. 69/2009 - di un anno e quarantasei giorni (e in tal caso la sospensione poteva financo operare due volte nell’ipotesi in cui il termine annuale non fosse decorso interamente al sopraggiungere del successivo periodo feriale91); adesso invece è bene tenere presente che il “nuovo” termine lungo è di soli sei mesi e solo occasionalmente beneficerà della sospensione feriale dei termini, in funzione della data di pubblicazione della sentenza.

88 Il termine lungo decorre comunque dalla data di pubblicazione della sentenza anche in presenza di notificazione della stessa, sicché in caso di sovrapposizione del termine “breve” (a seguito di notifica) e di quello “lungo”, prevale quest’ultimo. La decadenza dall’impugnazione si verifica indipendentemente dalla notificazione della sentenza e, pertanto, è inammissibile l’impugnazione proposta nel termine breve dalla noti-ficazione della decisione ma oltre il termine lungo dalla sua pubblicazione (Cass. n. 8857/1995); ciò in quanto “la notificazione risponde ad una ratio di accelerazione ed opera, quindi, esclusivamente all’interno del termine lungo, in senso riduttivo” (Cass. n. 8191/2000). Detto in altri termini, con la nota espressione “scolastica”: in caso di concorso del ter-mine breve e del termine lungo, il termine che “spira” per primo, “brucia” l’altro.

89 cfr. F. Pistolesi, “I termini processuali tributari alla luce della riforma del giudizio civile”; in: Corr. Trib. n. 33/2009.

90 L’art. 1 della legge n. 742/1969 ha stabilito la sospensione durante il periodo feriale (dall’1 agosto al 15 settembre) di tutti i termini processuali. Secondo consolidata giu-risprudenza, infatti, la sospensione feriale dei termini si applica anche con riferimento al termine lungo di impugnazione: Cass. n. 14496/2002; Cass. n. 15527/2002. Per co-stante giurisprudenza, infine, la sospensione dei termini nel periodo feriale si applica anche alle controversie in materia tributaria: Cass. 3438/80. La sospensione feriale non opera, per alcuni tipi di controversie espressamente escluse dalla legge, tra le quali è bene ricordare le cause di lavoro e previdenziali.

91 Cfr. Cass. 3110/83, secondo la quale la sospensione feriale di cui all’art. 1 della legge n. 742/1969 incide anche sul termine annuale di impugnazione previsto dall’art. 327 c.p.c. ed opera due volte qualora il termine medesimo, dopo una prima sospensione, non sia ancora interamente decorso al sopraggiungere del successivo periodo feriale.

81

Si annota, poi, che il nuovo termine semestrale di impugnazione vale per i “giudizi instaurati” dopo il 4 luglio 200992, data di entrata in vigore della legge n. 69 del 2009; tali intendendosi i processi iniziati in primo grado dopo tale data. Pertanto, la riduzione del termine non trova applicazione nei giudizi pendenti in primo grado al 4 luglio 2009. In merito, per i giudizi civili incardinati con citazione, deve farsi riferimento al momento di notificazione dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado93, sicché in caso di citazione notificata ante 4/7/2009 e sentenza di primo grado depositata dopo detta data, l’impugnazione in appello potrà essere proposta entro il vecchio termine annuale non trovando applicazione, per tale fattispecie, il nuovo termine semestrale.

Per completezza, si annota, infine, che il termine breve di impugnazione delle sentenze civili (art. 325 c.p.c.) non è stato interessato dalla modifiche introdotte dalla legge n. 69/2009. 8.2 - Il nuovo termine lungo di impugnazione nel processo tributario

Anticipando fin d’ora che il termine semestrale di cui al “nuovo” art. 327 c.p.c opera anche per le impugnazioni delle sentenze tributarie, si tracciano gli aspetti più caratteristici del sistema delle impugnazioni nel rito tributario per poi collocare in tale rito l’ambito e la portata del c.d. termine “lungo”.

Nell’ambito del processo tributario, per l’espressa previsione di cui all’art. 50 del D.Lgs. n. 546/1992, i mezzi per impugnare le sentenze sono l’appello, il ricorso per Cassazione e la revocazione. Non è, invece, ammissibile il regolamento di competenza per la espressa esclusione contenuta nell’art. 5, comma 4, dello stesso decreto legislativo94. Si annota, poi, che il D.Lgs. n. 546/1992 non contempla l’opposizione di terzo95, sicché il processo tributario conosce quale mezzo di impugnazione straordinaria soltanto la revocazione c.d. straordinaria.

Anche la legge del processo tributario prevede due termini per impugnare le sentenze: il termine c.d. “breve”, nel caso di notifica della sentenza, ed il termine c.d. “lungo”, nel caso in cui la sentenza non sia stata notificata.

Con riguardo al processo tributario, il principio generale della perentorietà dei termini di impugnazione non viene espressamente ripreso nell’art. 51 del

92 L’art. 58, comma 1, della legge n. 69/2009, testualmente recita: “Fatto salvo quanto pre-visto dai commi successivi, le disposizioni della presente legge che modificano il codice di proce-dura civile e le disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore”.

93 Cfr. Cass. sez. I n. 16347/2004.94 Cfr. Cass. n. 18815/2004, secondo la quale nel processo tributario non si applicano le

norme del codice di procedura civile sul regolamento di competenza ma solo le dispo-sizioni del D.Lgs. n. 546/1994. Tuttavia, la stessa Corte di Cassazione ha ritenuto che tale inapplicabilità deve essere interpretata restrittivamente, con la conseguenza che è ammissibile il regolamento di competenza nei confronti delle ordinanze di sospensio-ne del processo: Cass. n. 11140/2005; Cass. n. 8129/2007.

95 Tale mezzo di impugnazione si ritiene quindi inoperante nel processo tributario, stante il principio di tassatività delle impugnazioni (cfr. C.T.R. Bari, sez. I, 13/3/2008, n. 31).

82

D.Lgs. n. 546/1992, ma trova comunque applicazione nel rito tributario ad opera degli art. 326 (termine breve) e 327 (termine lungo) c.p.c., cui fa espresso rinvio l’art. 49 del medesimo decreto legislativo, secondo il quale “alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, libro II del codice di procedura civile [artt. 323-338], escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto del presente decreto”. Peraltro, l’art. 327 c.p.c. è espressamente richiamato nel processo tributario dall’art. 38, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992 (richiesta di copie e notificazione della sentenza) secondo il quale: “se nessuna delle parti provvede alla notificazione della sentenza, si applica l’art. 327 comma 1 del c.p.c.”

Ora, con riguardo al termine breve di impugnazione delle sentenze si accenna, in questa sede, in primo luogo, che la relativa disciplina è autonoma nel rito civile ed in quello tributario. Infatti, i termini di impugnazione delle sentenze tributarie sono espressamente disciplinati dall’art. 51 del D.Lgs. n. 546/1992, in difformità da quanto previsto dall’art. 325 c.p.c. In particolare, il termine breve di impugnazione della sentenza tributaria è (e resta) di sessanta giorni, decorrente dalla notifica della sentenza, per quanto attiene all’appello, alla revocazione c.d. ordinaria ed al ricorso per Cassazione, mentre nei casi di revocazione c.d. straordinaria, il termine decorre dal giorno in cui è stato scoperto il dolo della parte o sono state dichiarate false le prove o è stato recuperato il documento o è passata in giudicato la sentenza che accerta il dolo del giudice.

Con riguardo al termine lungo di impugnazione delle sentenze tributarie, incisivamente modificato dalla riforma, si ribadisce che la norma di cui all’art. 327 c.p.c., che espressamente disciplina detto termine con riguardo al processo civile, trova puntuale applicazione anche nel processo tributario per l’espresso richiamo contenuto nell’art. 38, comma 3, del D.Lgs. n. 546/1992. Pertanto, è pacifica l’applicabilità del “nuovo” termine semestrale di impugnazione nell’ambito del processo tributario.

Anche con particolare riferimento al rito tributario, infine, deve ritenersi che il nuovo termine semestrale di impugnazione non trovi applicazione per i giudizi già pendenti alla data del 4 luglio 2009, ossia nel caso di ricorsi introduttivi del processo tributario di primo grado “notificati” dal contribuente, nei modi e forme di rito (consegna diretta; spedizione a mezzo posta di plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento; notifica a mezzo di ufficiale giudiziario96), entro l’anzidetta data del 4 luglio 2009.

8.2.1 - Modalità di calcolo del termine lungo.

Per il calcolo del termine lungo annuale (o semestrale, dopo la legge n. 69/2009), in quanto termine processuale a “mesi” o ad “anni”, si osserva - ai sensi dell’art. 155, comma 2, c.p.c. - il calendario comune, facendo riferimento al nome e al numero attribuiti rispettivamente a ciascun mese e giorno (c.d. computatione ex nominatione dierum), sicché la scadenza del termine coincide con lo spirare

96 Per un puntuale commento all’art. 20 del D.Lgs. n. 546/1992, che disciplina le modalità di proposizione del ricorso, si rinvia alla circolare ministeriale n. 98/E del 1996.

83

del giorno numericamente corrispondente a quello di decorrenza del termine, senza tener conto del numero dei giorni intercorrenti97. Ne consegue, che per le sentenze depositate fra il 16 settembre ed il 31 gennaio, il termine semestrale di impugnazione viene a scadere anteriormente al 1° agosto, sì da non rendere operante la menzionata sospensione del termine feriale. Ad esempio, per una sentenza depositata il 16 settembre il termine semestrale di impugnazione scade il 16 marzo, senza beneficiare di alcuna sospensione feriale dei termini processuali.

Altra immediata conseguenza della riduzione a sei mesi del termine lungo di impugnazione, è quella che non può più verificarsi una doppia sospensione feriale, come, invece, può accadere in vigenza del termine annuale di impugnazione, quando il termine di un anno, prorogato dei quarantasei giorni della sospensione feriale, cada a sua volta in altro periodo feriale98.

Per costante giurisprudenza, poi, si evidenzia che si calcola, invece, ex numeratione il termine di sospensione feriale di cui alla legge n. 742/196999.

Si evidenzia, altresì, che, ai sensi dell’art. 155, comma 4, c.p.c. il termine è prorogato al primo giorno lavorativo se scade in giorno festivo100. Di contro, è bene tenere presente che se il deposito della sentenza è avvenuto durante la sospensione feriale (cioè tra l’1 agosto ed il 15 settembre) il termine decorre comunque dal 16 settembre, anche se festivo101.

Si evidenzia, infine, che ai sensi del comma 5 dello stesso art. 155 c.p.c., aggiunto dall’art. 2, comma 1, lettera f) della legge n. 263/2005, se il termine per il compimento degli atti processuali svolti fuori udienza scade nella giornata di sabato, il termine è prorogato al primo giorno successivo non festivo102.

Con l’avvertenza che i repertori di giurisprudenza sono ricchi di pronunce in materia di termini di impugnazione, per completezza di trattazione, con riguardo al computo del termine lungo, si reputano utili, infine, i seguenti richiami corredati da esempi:

97 Per tutte, cfr. Cass. n. 3758/1983; Cass. n. 5607/1987; Cass. n. 10765/2000.98 Cfr. Cass. n. 3110/1983, op. cit. e Cass. n. 7607/2001, secondo la quale la proroga di

diritto della scadenza del termine al primo giorno seguente non festivo trova applica-zione anche per i termini perentori quali sono quelli previsti per le impugnazioni.

99 Cfr. Cass. n. 3112/1998; Cass. n. 9068/2000; Cass. n. 3773/2001 (che reca una pratica appli-cazione della modalità di calcolo del termine lungo di un anno e della ulteriore sospensione feriale di quarantasei giorni:”sentenza depositata 25/11/1997; termine lungo (1 anno) + 46 giorni scade il 10/01/1999”); Cass. n. 5201/2003; Cass. n. 8850/2003 (che reca un’altra pratica applicazione della modalità di calcolo del termine lungo di un anno e della ulteriore sospen-sione feriale di quarantasei giorni: “sentenza depositata 12/02/1999; termine lungo (1 anno) + 46 gg scade il 29/3/2000 (n.b., l’anno 2000 era un anno bisestile)”); Cass. n. 15530/2004.

100 Cfr. Cass. n. 3773/2001.101 Cfr. Cass. n. 688/2006.102 Per approfondimenti sul punto si rinvia ai chiarimenti contenuti nella circolare dell’Agenzia

delle entrate n. 56/E del 2007. Si annota, peraltro, che l’art. 58, comma 3, della legge di rifor-ma del processo civile n. 69 del 2009, ha statuito che la proroga del termine in scadenza di sabato, di cui al comma 5 dell’art. 155 c.p.c., si applica anche ai procedimenti pendenti alla data del 1 marzo 2006.

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per i termini mensili o annuali, fra cui è compreso quello di decadenza ex •art. 327 c.p.c., si osserva, a norma degli artt. 155, comma 2, c.p.c. e 2963, comma 4, cod. civ., il sistema della computazione civile, non ex numero bensì ex nominatione dierum, nel senso che il decorso del tempo si ha, indipendentemente dall’effettivo numero dei giorni compresi nel rispettivo periodo, allo spirare del giorno corrispondente a quello del mese iniziale (Cass. 3758/83). Pertanto, la scadenza del termine coincide con lo spirare del giorno numericamente corrispondente a quello di decorrenza del termine, senza tener conto del numero dei giorni intercorrenti (Cass. n. 5607/1987);nel computo a mesi o ad anni (che - si ricorda - va effettuato ex nominatione •dierum), se nel mese finale manca il giorno corrispondente, il giorno di scadenza è l’ultimo giorno dello stesso mese (art. 2963, ultimo comma, cod. civ.). Ad esempio, il termine di sei mesi decorrente dal 31 ottobre spira il 30 aprile (e non l’1 maggio);con riguardo alla sospensione feriale dei termini processuali, ai sensi •dell’art. 1, comma 1, secondo periodo della legge n. 742/1969, “ove il decorso abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo”; sicché, ad esempio, nel caso in cui la sentenza venga depositata nel periodo feriale (cioè fra l’1 agosto ed il 15 settembre), il termine lungo di impugnazione inizia a decorrere dal 16 settembre compreso (anche se festivo)103 ed il semestre spira il 16 marzo;in tema di impugnazioni, al termine annuale (o semestrale, dopo la legge n. •69/2009) di decadenza di cui all’art. 327 c.p.c., che va calcolato ex nominatione dierum, devono aggiungersi i 46 giorni di sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (1 agosto - 15 settembre), calcolati ex numeratione dierum, nella misura appunto di quarantasei giorni (Cass. 8850/2003). I 46 giorni di sospensione feriale devono essere considerati “tamquam non essent” ai fini del decorso dei termini processuali (così ancora, Cass. 8850/2003).

Ne consegue, ad esempio, che il termine di sei mesi che inizia a decorrere il 10 luglio spira il 25 febbraio, perché alla data del 10 gennaio (individuata computando il semestre ex nominatione dierum) occorre poi aggiungere i quarantasei giorni di sospensione feriale (calcolati ex numeratione). Analogamente, il termine di sei mesi che, ad esempio, inizia a decorrere il 15 febbraio spira il 30 settembre, perché alla data del 15 agosto (individuata computando il semestre ex nominatione dierum) occorre poi aggiungere i quarantasei giorni di sospensione feriale.

103 Si veda, al riguardo, l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il termine “breve” di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per Cassazione, quando la sentenza impugnata sia stata notificata nel periodo di sospensione feriale dei termini, ai sensi della legge n. 742/1969, inizia a decorrere dal 16 settembre (e scade il 14 novembre); e ciò perché “il giorno 16 settembre deve essere compreso nel novero dei giorni concessi dal termine” (Cass. SS.UU. n.4814/1983; Cass. 7720/90). Si segnala altresì Cass. SS.UU. n. 3668/1995 secondo la quale, in caso di sospensione feriale dei termini, “il giorno 16 settembre non può essere considerato come dies a quo”.

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Capitolo 9Deposito di documenti nuovi in appello

9.1 - Lineamenti generali del giudizio di appello

L’appello, sia nel processo civile che in quello tributario, è un mezzo di impugnazione ordinario della sentenza di primo grado104 ed ha natura di gravame in senso stretto. È, infatti, proponibile unicamente avverso le sentenze che non siano passate in giudicato105 e può essere proposto anche solo per sottoporre ad altro giudice la (stessa) controversia decisa in primo grado perché la esamini nuovamente, senza che si renda necessario denunciare un particolare vizio della sentenza (com’è richiesto, invece, nelle azioni di impugnativa quali il ricorso per cassazione e la revocazione), essendo sufficiente eccepire anche soltanto una mera ingiustizia della decisione assumendo che il provvedimento sia il risultato di un’ingiusta valutazione delle prove o dei fatti o del riferimento dei fatti al diritto106.

Il carattere illimitato dell’appello in contrapposizione agli altri mezzi di impugnazione, consente di definire tale rimedio come impugnazione a critica libera.

Con l’appello, la parte (totalmente o parzialmente) soccombente chiede, al secondo giudice, un riesame totale della controversia e la rimozione degli effetti della sentenza di primo grado, sicché il giudizio d’appello non dà vita ad un nuovo processo ma rappresenta la continuazione del primo giudizio che si arricchisce di una nuova fase decisoria.

104 Nel processo civile, “i mezzi per impugnare le sentenze, oltre al regolamento di compe-tenza nei casi previsti dalla legge, sono: l’appello, il ricorso per cassazione, la revocazione e l’opposizione di terzo” (art. 323 c.p.c.). Nel processo tributario, “i mezzi per impugnare le sentenze (…) sono l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione” (art. 50 del D.Lgs. n. 546/1992). Non è ammissibile, nel processo tributario, il regolamento di competenza per la espressa esclusione contenuta nell’art. 5, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992. Il D.Lgs. n. 546/1992 non contempla, infine, l’opposizione di terzo.

105 L’appello (principale) deve essere proposto entro il termine breve che decorre dalla data di notifica della sentenza a cura delle parti (entro 30 giorni per la sentenza civile, ai sensi dell’art. 325, comma 1, c.p.c.; entro 60 giorni per la sentenza tributaria, ai sensi dell’art. 51, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992). Nel caso in cui la sentenza non venga notificata, si applica il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., che - per espresso richiamo contenuto nel combinato disposto degli art. 51, comma 1 e 38, comma 3, del D.Lgs. n. 546/1992 - si applica nel processo tributario. Questo ultimo termine è stato dimezzato con la recente riforma del processo civile, introdotta con la legge n. 69/2009. Decorso il termine peren-torio per l’appello, la sentenza di primo grado passa in giudicato ai sensi dell’art. 324 c.p.c. Anche il termine per appellare, così come ogni termine processuale, resta sospeso di diritto nel periodo feriale e cioè dal 1 agosto al 15 settembre (cfr. legge n. 742/1969).

106 cfr. Cass. n. 2335/1998, sia pure adottata con riferimento all’appello nel processo civile.

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Il giudizio d’appello, tuttavia, non si configura come un novum iudicium, aperto a nuove eccezioni e prove e da trattarsi con cognizione piena al di fuori di ogni preclusione.

Ed invero, il sistema di preclusioni processuali vigente (sia nel processo civile che in quello tributario) non consente al soccombente di ottenere un “integrale” riesame della controversia.

Il divieto di domande ed eccezioni nuove in appello (art. 57 del D.Lgs n. 546/1992; art. 345, commi 1 e 2, c.p.c.) ed il divieto di nuove prove (art. 58 del D.Lgs. n. 546/1992; art. 345, comma 3, c.p.c.) caratterizza, infatti, l’appello (sia civile che tributario) come revisio prioris istantiae.

Tali preclusioni restituiscono al giudizio di appello il valore (più limitato) di controllo e revisione del giudizio sulla base di quanto dedotto e provato in primo grado. Il giudizio d’appello, dunque, è un riesame (“revisio”) del primo giudizio. Il giudice d’appello è chiamato a riesaminare la stessa causa che si è svolta in primo grado, così come istaurata dalle parti; l’effetto devolutivo dell’appello attribuisce al secondo giudice la cognizione dello stesso rapporto sostanziale giudicato dal giudice di prima istanza. Si tratta di una rinnovazione del primo giudizio, non di un “nuovo” giudizio a cognizione piena ed autonoma rispetto al primo.

Peraltro, anche l’effetto devolutivo non è integrale ed automatico per la regola della decadenza dalle domande e dalle eccezioni non riproposte (art. 56 del D.Lgs. n. 546/1992; art. 346 c.p.c.). L’effetto devolutivo si produce nei limiti delle “domande ed eccezioni” che siano espressamente riproposte in appello, mentre le “domande ed eccezioni” o, come statuisce l’art. 56 della legge sul processo tributario, le “questioni ed eccezioni” non accolte, se non riproposte espressamente in appello, si intendono rinunciate e non possono, pertanto, formare oggetto di riesame da parte del giudice d’appello107.

L’appello non è un mezzo di impugnazione completamente devolutivo, perché la devoluzione della causa al secondo giudice avviene nei limiti dei motivi dell’impugnazione e delle domande ed eccezioni riproposte al secondo giudice (tantum devolutum quantum appellatum).

Come evidenziato, sia pure nelle linee essenziali, i caratteri dell’appello civile e di quello tributario sono comuni e finalizzati a strutturare siffatta impugnazione come mezzo per ottenere una rinnovazione del primo giudizio (revisio prioris istantiae).

Tale affinità, peraltro, non è affatto occasionale, ma il risultato di una scelta voluta dal legislatore che disciplinando il processo tributario ha introdotto, con gli articoli 57 (“Domande ed eccezioni nuove”) e 58 (“Nuove prove in appello”) del D.Lgs. n.

107 Ad esempio, con riguardo al processo tributario, si consideri l’impugnazione di un accer-tamento tributario con un ricorso dinanzi la Commissione Tributaria Provinciale articolato sull’eccezione pregiudiziale della nullità della notifica dell’atto impositivo e, nel merito, sulla doglianza per erronea o illegittima o infondata determinazione dell’imposta. Il giudi-ce di primo grado rigetta ricorso. Con appello dinanzi la Commissione Tributaria Regiona-le, la parte impugna solo il capo della sentenza relativa al merito dell’accertamento. In tal caso, il giudice regionale non può riesaminare la questione pregiudiziale della nullità della notifica dell’atto impositivo e su tale capo della sentenza si formerà il giudicato.

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546/1992, rigorose limitazioni circa la proponibilità di nuove domande, eccezioni e prove, seguendo, in linea di massima, le indicazioni dell’art. 345 c.p.c.108

9.2 - Produzione di documenti nuovi in appello: differenza tra appello tributario e appello civile riformato

Il divieto dei nova in appello109 è connaturale con i caratteri dell’appello sopra delineati e coerente con la precisa scelta legislativa, in ossequio al principio del doppio grado di giurisdizione, di strutturare tale gravame come strumento di riesame della “stessa” controversia e quindi delle stesse domande ed eccezioni che hanno formato oggetto del giudizio di primo grado.

Anche il divieto di nuove prove, in via di principio, si fonda, non solo sull’esigenza di concentrazione dell’attività processuale a fini di celerità ed economicità, ma soprattutto sull’esigenza di limitare al processo di primo grado l’acquisizione di tutti gli elementi utili ai fini della decisione, in modo tale da rimettere al giudice d’appello solo il riesame della decisione.

Tuttavia, l’affinità tra i due mezzi di impugnazione viene meno proprio con riguardo al regime delle prove in appello, in quanto, come vedremo, nel processo tributario permane, comunque, la possibilità di produrre nuovi documenti in secondo grado mentre nel processo civile “riformato”, il legislatore del 2009 ha sancito inequivocabilmente il divieto di produzione di nuovi documenti.

In deroga al divieto di nuove prove in appello, infatti, l’art. 58, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, espressamente ammette la “facoltà delle parti di produrre nuovi documenti” nell’appello tributario. Per tale “inequivocabile deroga”110 al divieto di nuove prove in appello, i documenti possono essere liberamente prodotti in sede di gravame, ancorché preesistenti al giudizio svoltosi dinanzi la Commissione tributaria provinciale.

Anche nell’ambito dell’appello civile, invero, sulla base dell’art. 345, comma 3, c.p.c., nel testo vigente prima della recente modifica introdotta con la legge n. 69/2009, parte della dottrina e talune pronunce della stessa Corte di Cassazione111 ritenevano ammissibile la “libera” produzione di

108 Così espressamente nella Relazione Ministeriale allo schema del decreto legislativo sul processo tributario, adottato in attuazione alla delega contenuta nell’art. 30 L. n. 413/1991, che alla lettera g) espressamente ha assegnato al legislatore delegato il criterio direttivo dello “adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile”.

109 Possono tuttavia essere chiesti gli interessi maturati dopo la sentenza impugnata (così espressamente sia l’art. 57, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 546/1992 sia l’art. 345, comma 1, secondo periodo, c.p.c.), “i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa” (art. 345, comma 1, secondo periodo, c.p.c.).

110 Cfr. Cass. n. 16916/2005.111 Cfr. Cass. n. 12130/1997; Cass. n. 13343/2000; Cass. n. 13670/2000; Cass. n. 5133/2001;

Cass. n. 5463/2002; Cass. n.60/2003; Cass. n. 6756/2003; Cass. n. 1048/2004; Cass. n. 8235/2004; Cass. n. 16995/2004. In radicale contrasto con le sentenze appena cita-te, cfr.: Cass. n. 5133/2001; Cass. n. 15716/2000; Cass. n. 2027/2003; Cass. SS.UU. n. 8203/2005; Cass. n. 9274/2008.

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nuovi documenti in appello, argomentando che il divieto di nuove prove fissato dall’anzidetto comma 3 dell’art. 345 c.p.c. riguardava sole le prove “costituende” (ad esempio, la testimonianza) e non anche le prove “costituite”, quali appunto i documenti.

Ma tale orientamento giurisprudenziale è venuto meno a partire dalla storica sentenza della Corte di Cassazione n. 8202 del 20/04/05112, con la quale le Sezioni Unite, risolvendo il conflitto giurisprudenziale formatosi sul punto, hanno fissato il principio che il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello riguarda anche le c.d. prove “costituite”, quali i documenti, sicché anche per tali mezzi di prova, la loro ammissibilità in appello è subordinata, al pari delle prove c.d. “costituende”, alla condizione che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile, che abbia impedito alla parte di produrli in primo grado.

Con la recente riforma del processo civile, infine, il legislatore ha modificato il comma 3 dell’art. 345 c.p.c. (“non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”) recependo il più recente orientamento giurisprudenziale in ordine all’inammissibilità di nuove prove, anche documentali, nell’appello civile.

Ai sensi della disposizione transitoria contenuta nell’art. 58, comma 2113, della legge n. 69/2009, la modifica introdotta è applicabile ai giudizi pendenti in primo grado alla data del 04/07/2009 ma, considerato che tale modifica recepisce il precedente orientamento giurisprudenziale, la portata della norma appare meno dirompente nel “diritto vivente” rispetto alla sua novità in termini di diritto positivo.

Come annotato dai primi commentatori114, pertanto, la modifica introdotta nel comma 3 dell’art. 345 c.p.c. ha semmai il pregio di risolvere una volta per tutte la questione, evitando il possibile risorgere di orientamenti contrari, da poco abbandonati dalla giurisprudenza.

Si annota, infine, che in ambedue i processi, non sono ammissibili nuove prove “costituende”, salvo che il giudice non le ritenga “necessarie”115 ai fini della decisione ovvero che la parte dimostri di non averle potute fornire nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.

Con riguardo ai mezzi di prova ammissibili in appello, dunque, la disciplina

112 Con riguardo al divieto di nuove prove in appello nel rito del lavoro, le Sezioni Uni-te, nello stesso giorno, hanno pronunciato la sentenza n. 8202, dello stesso tenore di quella adottata con riguardo al rito ordinario.

113 Art. 58, comma 2, legge n. 69/2009: “Ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entra-ta in vigore della presente legge si applicano gli articoli (…) 345 del codice di procedura civile, come modificati dalla presente legge”.

114 Cfr. Paolo Giovanni Demarchi, “Il Nuovo processo civile”; Giuffrè - 2009, pag.243. 115 Così nel testo dell’art. 58, comma 1, del D.Lgs. n. 546/92, laddove, con riguardo al

rito ordinario del processo civile, l’art. 345, comma 3, c.p.c. fa riferimento alla circo-stanza che le nuove prove siano “indispensabili” ai fini della decisione.

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positiva può essere schematizzata come segue, evidenziando, oggi, la significativa differenza tra il processo civile ed il processo tributario116:

Appello civileArt. 345, co. 3, c.p.c. come

modificato dalla legge 69/2009

Appello TributarioArt. 58 del D.Lgs. n.

546/92

Ammissibilità nuove prove (c.d. costituende)

Nosalvo i casi eccezionali

previsti dallo stesso comma 3 dell’articolo in esame

Nosalvo i casi eccezionali previsti dal comma 1 dell’articolo in esame.

Ammissibilità nuovi documenti (c.d. prove costituite)

Nosalvo i casi eccezionali

di cui sopra

Si(art. 58, comma 2)

Si osserva che, alla luce del principio di specialità fatto salvo dall’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546/92, nel rapporto tra norma processuale civile ordinaria e norma processuale tributaria, prevale quest’ultima117, sicché la modifica apportata all’art. 345 c.p.c. non può avere, sul piano positivo, alcuna refluenza sulla espressa ammissibilità di nuovi documenti nell’appello tributario.

Si osserva, infine, che - com’è noto - il processo tributario si atteggia come un tipico procedimento documentale, sicché la facoltà di produrre nuovi documenti in appello (ad esempio, scritture contabili, quietanze di pagamento; giustificativi di costi), indipendentemente dall’impossibilità dell’interessato di produrli in prima istanza per causa a lui non imputabile ed a prescindere dalla valutazione del giudice di seconda istanza sulla “necessità” ai fini della decisione, rende più agevole l’attività probatoria delle parti (sia essa la parte priva sia essa la parte pubblica) e ridimensiona notevolmente l’incidenza del divieto di nuove prove in appello118.

Tuttavia, è bene evidenziare che tale facoltà non è del tutto libera, incontrando precisi limiti, oltre che nelle preclusioni espressamente previste dalla legge119 per la fase istruttoria in genere, anche per i caratteri propri dell’appello tributario.

In primo luogo, il divieto di domande ed eccezioni nuove preclude, comunque, la produzione di nuovi documenti che amplino la materia del contendere fissata in primo grado. A fortiori, non può essere consentita la produzione di documenti a supporto di nuove domande o eccezioni.

116 Avuto riguardo al profilo probatorio, si ricorda che altra significativa differenza tra i due processi è costituita dalla circostanza che nel processo tributario, ai sensi dell’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/92, “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”.

117 Cfr. Cass. n. 3611/2006118 In tal senso, cfr. anche la circolare ministeriale n. 98/E del 1996, nel commento

all’art. 58 del D.Lgs. n. 546/92.119 È in genere preclusa al contribuente la produzione (sia in sede amministrativa sia nella

fase contenziosa) di “atti, documenti, libri e registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’Ufficio” (art. 32, comma 4, del D.P.R. n. 600/1973 ed in senso sostanzialmente conforme art. 52, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972), salva la causa non imputabile.

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Pertanto, è consentita la produzione in grado di appello solo di documenti che abbiano una mera funzione di supporto probatorio delle pretese e delle considerazioni già svolte da una delle parti e non invece di documenti che determinino la necessità di ulteriori contestazioni o deduzioni120.

In secondo luogo, alla luce della giurisprudenza della Suprema Corte121, tale facoltà va esercitata - stante il richiamo operato dall’art. 61122 del D.Lgs. n. 546/1992 alle norme relative al giudizio di primo grado – entro il termine previsto dall’art. 32, comma 1 dello stesso decreto, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza, e con l’osservanza delle formalità di cui all’art. 24, comma 1, ossia i documenti devono essere elencati negli atti processuali cui vengono allegati ovvero, se prodotti separatamente, devono essere elencati in apposita nota sottoscritta da depositare in originale ed in tante copie quante sono le altre parti.

Ad avviso della Suprema Corte, il termine per il deposito dei documenti, anche in assenza di espressa previsione legislativa, deve ritenersi di natura perentoria123 e quindi sanzionato con la decadenza, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie (rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio), con la conseguenza che resta inibito al giudice d’appello fondare la propria decisione sul documento tardivamente prodotto.

120 Così si esprime puntualmente Cass. n. 9224/2007.121 Cfr. Cass. n. 2787/2006122 Art. 61 del D.Lgs. n. 546/92: “nel procedimento d’appello si osservano in quanto applicabili

le norme dettate per il procedimento di primo grado, se non incompatibili” con le disposizio-ni dettate dagli art. 52-60.

123 Cfr. Cass. n. 2787/2006 op. cit.; sulla natura perentoria del termine vedi anche Cass. n. 9511/2008.

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Capitolo 10Giudizio di legittimità

10.1 - La funzione nomofilattica e la riforma del codice di rito

Per funzione nomofilattica o di nomofilachia si intende comunemente il compito di “garantire l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale” che l’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941 n.12), attribuisce alla Corte Suprema di Cassazione.

Come chiaramente indicato dall’art. 65 del Regio Decreto citato, la funzione nomofilattica della Cassazione si articola in due sottofunzioni ben distinte: da un lato garantire l’attuazione della legge nel caso concreto, realizzando la giurisdizione in senso stretto, dall’altro fornire indirizzi interpretativi “uniformi” per mantenere, nei limiti del possibile, l’unità dell’ordinamento giuridico, attraverso una sostanziale uniformazione della giurisprudenza.

Il controllo degli indirizzi interpretativi obbedisce all’elementare esigenza di garantire la certezza del diritto; tuttavia, stante la grande complessità della materia giuridica, la naturale mutazione dei tempi, delle idee e dei giudici persone fisiche chiamati a ricoprire incarichi nella magistratura di legittimità, non è infrequente osservare mutamenti nella giurisprudenza della Cassazione.

Su queste premesse, è da tempo in corso il dibattito sulla c.d. crisi della funzione nomofilattica, cui si è tentato di porre rimedio con il D.Lgs. n.40/2006, che ha mirato sostanzialmente a dare maggiore peso alle pronunce a Sezioni Unite della Corte di Cassazione, impedendo alle sezioni semplici di discostarsi da esse, se non rimettendo motivatamente la questione problematica ad una nuova pronuncia delle Sezioni Unite (cfr. art. 374 c.p.c.).

Con il medesimo provvedimento citato, si è anche dato ampio spazio al principio di diritto enunciato nella sentenza di legittimità, attribuendo in tal modo un ruolo essenziale all’Ufficio del massimario che, in seno all’organizzazione della Corte di Cassazione, si occupa della redazione delle massime delle pronunce emanate dalla Corte Suprema di Cassazione.

Malgrado tali importanti innovazioni, tuttavia, la funzione nomofilattica conserva un ruolo autorevole, ma non acquista alcuno spazio autoritativo. Il nostro ordinamento resta ispirato ad una struttura di civil law e il valore giuridico delle sentenze resta quello di risolvere le controversie fra le parti, i loro eredi ed aventi causa e non quello di fissare nuovi principi di diritto vincolanti, come avviene grazie al criterio dello stare decisis negli ordinamenti di common law.

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Si consideri tuttavia che la vera forza nomofilattica non sta tanto e solo nel ruolo istituzionale dell’autorità giurisdizionale che ha emanato la sentenza, ma risiede piuttosto nella capacità di quest’ultima di disegnare un percorso argomentativo solido e convincente e - quel che più conta - in aderenza con le esigenze giuridiche del momento storico124.

Nel tentativo di ridare smalto al corretto esercizio della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, il legislatore è intervenuto a correggere le disposizioni del codice di rito attraverso l’abrogazione o la modifica mirata di talune norme.

Le novità rilevanti in merito al giudizio di Cassazione sono:l’inserimento dell’art.360-bis c.p.c. che introduce nuove ipotesi di - inammissibilità del ricorsol’abrogazione dell’art. 366-bis c.p.c. che prevedeva la formulazione del - quesito di diritto;la modifica dell’art. 376 c.p.c. che disciplina l’assegnazione dei ricorsi - prevedendo la preliminare investitura ad apposita sezione che verifica la sussistenza dei presupposti per l’esame in camera di consiglio;l’introduzione dell’art. 380-bis c.p.c. che delinea il procedimento;- la introduzione dell’art. 67-bis dell’Ordinamento Giudiziario che detta le - disposizioni per la composizione del nuovo collegio.

Una delle novità di maggiore rilievo introdotta dalla L. n. 69/2009 è rappresentata dall’elaborazione di una nuova procedura riguardante l’accesso al grado di legittimità.

Pur non volendo anticipare l’esame del contenuto del nuovo art. 360-bis c.p.c. che, verrà svolto nel prosieguo, non può non sottolinearsi che la norma ultima citata, al comma 1, dispone che “[…]Il ricorso è inammissibile: 1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”.

La sanzione di inammissibilità del ricorso per cassazione, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe avere una duplice finalità: 1) fornire alla Suprema Corte uno strumento che le possa consentire di rendere più stabile la giurisprudenza della Corte stessa; 2) deflazionare l’accesso al giudizio di legittimità.

L’obiettivo del rafforzamento della funzione nomofilattica della Suprema Corte è desumibile dai lavori parlamentari preparatori alla legge.

Tale obiettivo dichiarato va confrontato nei fatti con l’ulteriore esigenza di decongestionamento dei ruoli della Corte di Cassazione, criticità derivante dalla mancata previsione nell’ordinamento italiano di un meccanismo preliminare di selezione delle quaestiones juris da sottoporre al vaglio di legittimità.

Sul punto, tuttavia, va rilevato che con il D.Lgs. n.40/2006 il legislatore aveva tentato una modifica normativa volta a filtrare i ricorsi meritevoli di accedere al giudizio della sezione giudicante.

124 Svolgono anche un’essenziale funzione nomofilattica le sezioni riunite della Corte dei conti e l’adunanza plenaria e quella generale del Consiglio di Stato

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L’art. 366-bis introdotto dal D.Lgs. n.40/2006 prevedeva, infatti, la necessità di indicazione dello specifico quesito di diritto, pena l’inammissibilità del ricorso, previsione che, stante la rigida interpretazione della Corte, ha dato luogo ad una lunga serie di pronunce di inammissibilità causando le critiche della classe forense.

Ciò nondimeno, deve osservarsi che con decreto del 9 maggio 2005 del Primo Presidente della Corte è stata costituita una “Struttura Unificata”, composta da membri appartenenti a tutte le sezioni giudicanti, che ha il compito di effettuare l’esame preliminare dei ricorsi per indagare sulla eventuale sussistenza di cause di improcedibilità o inammissibilità e valutare la possibilità di addivenire ad una pronuncia in camera di consiglio.

Oltre che al ripristino della funzione nomofilattica, la novella legislativa appare diretta a costituire un filtro per l’accesso al giudizio di legittimità consentendo alla Suprema Corte di esaminare i casi più meritevoli in punto di diritto.

10.2 - L’inammissibilità del ricorso alla luce della L. 69/2009

Il perno attorno al quale ruota l’intero intervento legislativo di riforma del ricorso per cassazione consiste nella previsione di due ipotesi di inammissibilità del ricorso contemplate dal nuovo art. 360-bis c.p.c..

Nella sua prima formulazione contenuta nel DDL 1441 – bis – C (progetto di legge approvato nel secondo passaggio alla Camera) la nuova norma prevedeva che il ricorso fosse dichiarato ammissibile in quattro ipotesi tassative:

quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in 1) modo difforme da precedenti decisioni della Corte;quando il ricorso ha per oggetto una questione nuova o una questione 2) sulla quale la Corte ritiene di pronunciarsi per confermare o mutare il proprio orientamento ovvero quando esistono contrastanti orientamenti nella giurisprudenza della Corte;quando appare fondata la censura relativa a violazione dei principi 3) regolatori del giusto processo;quando ricorrono i presupposti per una pronuncia ai sensi dell’art. 363 c.p.c..4)

La definitiva approvazione di una formulazione in termini positivi (ammissibilità) avrebbe potuto comportare una drastica riduzione delle ipotesi violazione di legge suscettibili di essere sottoposte all’esame della Suprema Corte.

Altre perplessità riguardavano l’eccessiva discrezionalità attribuita al collegio, peraltro in composizione ridotta (tre magistrati), chiamato a pronunciarsi sull’ammissibilità.

L’attuale formulazione dell’art. 360-bis c.p.c. tiene conto anche dei suddetti dubbi ed adotta la formula negativa dell’inammissibilità.

Il testo dell’art. 360-bis c.p.c. licenziato in ultimo dal legislatore è, infatti, il frutto di un compromesso tra l’esigenza di introdurre un filtro ai ricorsi per cassazione e la necessità di rispettare il principio sancito dal comma 7 dell’art. 111 Cost. che prevede la generale impugnabilità dinanzi alla Corte di Cassazione

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per violazione di legge di ogni sentenza pronunciata dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali.

Sotto la rubrica “Inammissibilità del ricorso” la nuova norma, così recita: “il ricorso è inammissibile:

quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in 1) modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa; quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione 2) dei principi regolatori del giusto processo.”

Tuttavia, dubbi di compatibilità costituzionale sono stati profilati anche con riferimento al teso approvato della riforma. Ma, al di là dei possibili rischi connessi alla applicazione pratica delle nuove norme non può che condividersi l’opinione di quanti hanno sottolineato che garantire sempre la ricorribilità in Cassazione per violazione di legge non significa diritto ad ottenere in ogni caso una pronuncia nel merito.

L’introduzione delle due nuove ipotesi di inammissibilità a mezzo dell’art. 360-bis c.p.c. va necessariamente correlata con le modifiche apportate all’art. 375 n.1) e n.5) c.p.c., disciplinante la “pronuncia in camera di consiglio”.

La novella interviene sulla norma introducendo al n.1) il riferimento alle ipotesi di inammissibilità conseguenti all’assenza, in seno al ricorso, degli specifici motivi di impugnazione ex art. 360 c.p.c. ed eliminando, invece, dal n.5) la causa di inammissibilità derivante dall’inosservanza dell’art. 366-bis (formulazione dei motivi) ormai abrogato.

Tale intervento modificativo interviene sul tenore letterale della norma attribuendole una più logica sistematicità. Infatti, l’innovazione immediatamente percepibile dalla lettura della norma consiste nella concentrazione delle cause di inammissibilità del ricorso innanzi alla Corte di Cassazione al n.1) dell’art. 375 c.p.c. Secondo questa interpretazione, il n.5) viene oggi a contemplare le valutazioni di merito attinenti la fondatezza o meno del ricorso.

L’apposita sezione prevista dall’art. 376 c.p.c. dovrà verificare, quindi, la possibilità di pronunciarsi in camera di consiglio per dichiarare:

- l’inammissibilità (art. 375 nn. 1 e 5 c.p.c.) del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, anche ex art. 360 c.p.c.;

- accogliere o rigettare il ricorso principale e l’eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza.

Appare evidente che si tratta di esaminare la possibilità di definire il ricorso mediante una procedura “semplificata” - camera di consiglio – pronunciando l’inammissibilità per vizi attinenti al rito ovvero la manifesta fondatezza o infondatezza nel merito.

La Corte emette comunque un provvedimento motivato, dal momento che se il relatore della sezione filtro ritiene definibile il giudizio in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375, comma 2, nn. 1 e 5, deposita una relazione contenete la concisa esposizione delle ragioni.

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10.3 - Le categorie processuali della inammissibilità e della infondatezza.

La nuova formulazione dell’art. 375 c.p.c. ben si confà alla tradizionale impostazione dogmatica che distingue le fattispecie di inammissibilità e di infondatezza.

Per meglio chiarire tali concetti, vale la pena di considerare che, tradizionalmente, si considerano condizioni generali per l’impugnazione:

l’esistenza di un provvedimento impugnabile;- l’interesse ad impugnare; - la legittimazione processuale (costituisce condizione necessaria, infatti, - l’essere stati parte nella precedente fase del giudizio);l’obiettiva impugnabilità del provvedimento.- Il difetto di uno dei suddetti requisiti, riscontrabile in via pregiudiziale,

conduce ad una pronuncia “sul processo” che nega la possibilità di svolgimento della relativa fase dell’impugnazione (pronuncia di inammissibilità).

Trattasi, dunque, di un vizio dell’impugnazione avente carattere preliminare, che investe profili processuali e di forma dell’atto impugnatorio proposto, sostanziandosi nella declaratoria dell’inesistenza del diritto alla celebrazione del processo.

Sull’infondatezza dell’impugnazione stessa non può, invece, esserci pronuncia senza valutazione del merito della questione.

Siffatto equilibrio concettuale risulta, però, turbato dallo specifico contenuto dell’art. 360-bis c.p.c., che, seppur rubricato “Inammissibilità del ricorso”, introduce due fattispecie riguardo alle quali la valutazione pregiudiziale dell’impugnazione involge aspetti sostanziali.

Da un punto di vista formale, tale norma conferisce nella sua formulazione un contenuto concreto alla disposizione generica di cui al n.1) dell’art. 375 c.p.c.

Da quanto è dato evincersi dalla lettura del codice così come novellato, le specifiche ipotesi di inammissibilità sembrerebbero ricorrere quando:

il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo 1) conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa; è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi 2) regolatori del giusto processo;sono assenti i motivi di cui all’art. 360 c.p.c..3)

Tuttavia, ciò che non può sottacersi è che appare così sovvertita la tradizionale concezione che contrappone le ipotesi di inammissibilità alle pronunce sul merito del ricorso.

Infatti, la decisione relativa all’inammissibilità di cui all’art. 375 n.1) viene ora a comprendere non solo i casi riferentisi alla c.d. inammissibilità formale (mancanza dei motivi di ricorso), ma anche quelli di tipo sostanziale ex art. 360-bis. Tale valutazione viene effettuata dalla sezione filtro, appositamente costituita al fine di vagliare preliminarmente i ricorsi proposti nell’ottica deflattiva della riforma.

Dunque, in termini sistematici, le due nuove ipotesi si collocano su un terreno

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quanto meno inedito alla categoria dell’inammissibilità, considerato che il relativo controllo verte sulla valutazione nel merito delle censure e non sull’esteriore verifica della regolarità formale del ricorso.

Tali rilievi non sono sfuggiti a quella parte della dottrina che muovendo da una ricostruzione sistematica del nuovo rito ha ritenuto di ridimensionare la portata innovativa della modifica codicistica.

Da una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 360-bis c.p.c. deriva che non possono ridursi i motivi per i quali è esperibile il ricorso per Cassazione, anche in considerazione dell’immutato testo dell’articolo 360 c.p.c..

Dunque, l’articolo 360-bis si limiterebbe ad introdurre un esame preliminare dei ricorso con procedura semplificata (camera di consiglio), qualificando come inammissibili i ricorsi manifestamente infondati.

In altre parole, l’infelice formulazione adottata dal legislatore della riforma fa propendere alcuni autori per una interpretazione restrittiva del nuovo filtro, stante l’utilizzo atecnico dei termini “inammissibilità” e “infondatezza”.

Diversamente opinando si dovrebbe concludere per una estensione dei casi di nullità della sentenza o del procedimento (vedi violazione dei principi regolatori del giusto processo) oltre la previsione dell’art. 360, comma 1, n. 4 e quindi in violazione dell’articolo 111, comma 7, Cost.

La norma prevede che contro tutte le sentenze e i provvedimenti altrimenti non impugnabili sia possibile ricorrere in cassazione per violazione di legge.

Evidenti appaiono, dunque, i dubbi di incostituzionalità della legge di riforma anche con riferimento all’art. 24 della Costituzione che prevede come inviolabili in ogni grado e stato del giudizio il diritto di azione e di difesa in quanto la distinzione tra violazioni delle norme processuali che attentano o meno ai principi regolatori del giusto processo risulterebbe affidata a una ampia discrezionalità decisoria e non sufficientemente sindacabile.

Altri ritengono che l’articolo 360-bis c.p.c. introduca due nuove specie di inammissibilità che si aggiungono a quelle già previste. Si tratterebbe, secondo tale ricostruzione, di due ipotesi sui generis di inammissibilità che vanno oltre i controlli di rito sulla sussistenza dei requisiti formali del ricorso.

L’estensione del controllo rimesso alla sezione filtro riguarda in effetti elementi ulteriori rispetto a quelli attinenti agli aspetti strettamente processuali, coinvolgendo valutazioni sulla meritevolezza delle censure sollevate nel ricorso.

Nell’ottica del potenziamento della funzione nomofilattica della Suprema Corte la sezione filtro esamina i ricorsi indagando se i motivi estesi possano condurre ad un eventuale mutamento di indirizzo giurisprudenziale.

Laddove all’esame preliminare il ricorso proposto appaia “non meritevole”, dunque non presenti potenzialità nomofilattica, la sezione filtro definisce la causa senza investire la sezione giudicante.

Così ricostruita la novella appare di portata ben più ampia, introducendo un nuovo procedimento di selezione dei motivi ritenuti meritevoli di essere esaminati dalla Suprema Corte.

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10.4 - I motivi di inammissibilità del ricorso

Art.360-bis n.1: Questioni di diritto decise in modo conforme alla giurisprudenza della Corte.

Come già detto in precedenza, il primo dei motivi di inammissibilità del ricorso consiste nell’impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali che abbiano deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offra elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa.

Secondo tale formulazione letterale è da ritenersi che i requisiti, lungi dall’essere alternativi, debbano coesistere e, conseguentemente che la ricorrenza di uno soltanto di questi non determini la declaratoria di inammissibilità.

In altri termini, laddove la pronuncia impugnata si sia espressa in senso conforme alla giurisprudenza della Suprema Corte, il ricorso è dichiarato inammissibile, salvo che i motivi in esso contenuti non riferiscano elementi tali da suggerire una conferma o da determinare un possibile mutamento di orientamento giurisprudenziale.

Il nuovo art. 118 disp. att. c.p.c. secondo cui “la motivazione della sentenza di cui all’art. 132, secondo comma, n. 4) consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione , anche con riferimento ai precedenti conformi” si gemella con il nuovo articolo 360-bis c.p.c. che prescrive, tra le ipotesi di inammissibilità del ricorso, proprio il caso in cui il provvedimento impugnato abbia deciso “le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte”.

L’obbligo in parola, che costituisce un valido contrappeso alla succinta motivazione della sentenza, consentendo di risalire più agevolmente alla ratio decidendi, è l’unica ragionevole giustificazione del filtro che consiste proprio nella speculare ricerca dei precedenti giurisprudenziali difformi dalla pronuncia impugnata.

La parte che decide di impugnare deve valutare preventivamente l’orientamento tenuto dalla Cassazione su fattispecie analoghe a quella trattata nella sentenza contro cui si ricorre: di fronte ad una giurisprudenza di inequivocabile segno opposto alle proprie ragioni l’introduzione del ricorso per cassazione è consentito solo se il difensore è in grado di argomentare opportunamente le motivazioni per le quali ritiene che quella giurisprudenza meriti di essere abbandonata.

Tale previsione si potrebbe rivelare pericolosa in quanto potrebbe verificarsi un appiattimento di orientamento su questioni errate o non adeguatamente approfondite.

Inoltre, tale meccanismo, in apparenza semplice, presenta non pochi aspetti problematici relativi alla sua concreta applicazione.

Il primo attinente alla reale possibilità di ricondurre una pronuncia giurisdizionale nell’alveo di un precedente orientamento senza incorrere in alcun dubbio interpretativo: la verifica circa la conformità delle decisioni da impugnare alle questioni di diritto già enunciate dalla giurisprudenza della Corte non costituisce opera di facile attuazione pratica.

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Infatti, a parte l’ovvia considerazione riguardante la diffusa sussistenza nell’ordinamento di contrasti giurisprudenziali, costituisce pratica invalsa tra gli operatori del diritto quella di sussumere la fattispecie, oggetto del ricorso, nell’ambito giuridico di ipotesi in diritto già esplorata dalla giurisprudenza della Suprema Corte, ovvero, in alternativa, basare la propria tesi impugnatoria sulla dimostrazione del fatto che il principio di diritto, utilizzato dal giudice di merito alla fattispecie ad esso sottoposta non è in concreto applicabile al caso esaminato.

Le possibili soluzioni adottabili a fronte di siffatte problematiche di natura strettamente operativa esplicano effetti ben differenti sulla concreta applicazione della riforma e sul reale perseguimento del fine alla stessa preposto.

In altri termini, proprio in sede di valutazione dell’ammissibilità o meno del ricorso emergerà la reale idoneità della riforma a dare attuazione concreta agli obiettivi perseguiti.

Infatti, laddove la sezione filtro si lasciasse ispirare dalla logica deflativa delle nuove norme, dovrebbe operare nel senso di una più severa limitazione dell’accesso dei ricorrenti alla pubblica udienza, se del caso circoscrivendo tale accesso alle sole ipotesi non ancora sottoposte al giudice di legittimità ovvero alle questioni controverse, vale a dire sulle quali sussistano irrisolti contrasti giurisprudenziali o recanti in sé argomenti utili a mutare i precedenti orientamenti.

Il rischio implicito che un siffatto atteggiamento recherebbe sarebbe, tuttavia, quello di condurre ad una sorta di “cristallizzazione” del diritto e della relativa interpretazione.

Verrebbe in tal caso rispettata l’idea dell’uniforme esegesi del diritto e di una maggiore coerenza interna all’ordinamento, ma diventerebbe quantomeno difficoltosa la revisione di tutti quegli orientamenti giurisprudenziali già consolidatisi.

In sede di vaglio di ammissibilità, potrebbe, altresì, accadere che la scelta concreta della sezione filtro si orienti verso un’interpretazione meno rigorosa della lettera della legge.

Così facendo, si renderebbe necessario un esame accurato della fattispecie concreta, volto a verificare l’“affinità” della stessa con il principio enunciato o l’effettiva idoneità delle questioni prospettate a riformare la precedente tendenza giurisprudenziale.

Va da sé che tale atteggiamento, auspicabile per mantenere una più sana modificabilità del diritto vivente, tradirebbe nella sua attuazione la ratio deflattiva della norma - forse traducendosi addirittura in un appesantimento procedurale - pur concretizzandosi in una condotta più conforme ai principi costituzionali.

Art.360-bis n.2: Violazione dei principi regolatori del giusto processoLa seconda delle ipotesi di inammissibilità del ricorso innanzi alla Suprema

Corte (art. 360- bis n. 2) si rinviene nella manifesta infondatezza della censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo.

In termini esegetici, costituisce forse uno dei passaggi maggiormente problematici della riforma.

Infatti, per risalire ad una definizione normativa del “giusto processo”, occorre

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fare riferimento alla Carta Costituzionale, che, al comma 2 dell’art. 111, così recita: “Ogni processo si svolge in contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità,

davanti ad un giudice terzo ed imparziale.La legge assicura la ragionevole durata.”Fermo restando tale unico appiglio di diritto positivo, va, però, precisato che

la ricostruzione di paletti normativi a tutela del relativo diritto non è di semplice rinvenimento all’interno dell’ordinamento, così come non è facile il recupero di pronunce giurisdizionali, di qualsivoglia provenienza, sull’argomento.

Relativamente a tali premesse, la novella avrebbe potuto rappresentare un’occasione proficua di determinare, tramite la giurisprudenza di legittimità, i canoni interpretativi, ma anche di applicazione concreta, di un concetto, quello del giusto processo e dei relativi principi regolatori, rimasti finora evanescenti.

Proprio la definizione puramente concettuale del principio del giusto processo pone l’interprete dinnanzi a diverse e differenti interpretazioni possibili della norma tra le quali, senza pretesa di alcuna esaustività, si segnalano quelle appresso descritte.

Da un canto, infatti, distinguendo tra violazioni che incidono o meno sulla giustizia del processo, la disposizione inciderebbe sull’elenco dei motivi del ricorso per cassazione (art. 360 c.p.c.) e si porrebbe la necessità di individuare quelle norme processuali attuative dei principi del giusto processo.

D’altro canto, l’interpretazione alternativa sembra essere quella secondo cui tutte le norme processuali concorrono a determinare il “giusto processo” così come regolato dalla legge, ossia con le specifiche sanzioni per le relative violazioni. Tale interpretazione permetterebbe di dichiarare inammissibili quei motivi di ricorso recanti censure manifestamente infondate per i casi di errores in procedendo non sanabili in quanto diretta emanazione di principi costituzionalmente garantiti (ad esempio nullità della sentenza o del procedimento o integrità del contraddittorio).

Conseguentemente, non tutti gli errores in judicando o in procedendo dovrebbero condurre alla cassazione del provvedimento impugnato ma soltanto quelli che hanno determinato un concreto pregiudizio dei diritti garantiti dall’art. 111 della Carta Costituzionale125.

Pur in assenza di orientamenti consolidati, si riscontra come la più recente giurisprudenza di legittimità sembrerebbe condividere tale ultima interpretazione.

A titolo meramente esemplificativo la Corte di Cassazione126, nel pronunciarsi in tema di vizio della procura al difensore (sottoscritta dal contribuente e non seguita dalla relativa autentica), ha affermato il principio di diritto secondo cui la sussistenza di un error in procedendo che dà luogo a mera irregolarità formale alla quale non può collegarsi la comminatoria di inammissibilità.

Va rilevato, inoltre, che nell’esplicitare la suddetta ricostruzione ermeneutica la Suprema Corte ha esplicitamente sottolineato l’intenzione di “dare continuità al consolidato indirizzo espresso da Questa Corte”.

125 (Cass. civ. 21 dicembre 2007 n. 13593: l’impugnazione è inammissibile allorché sia diretta all’emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico).

126 Cass. sez. trib. Sent. 20.01.2010 n. 859

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10.5 - L’abrogazione del quesito di diritto

Altra modifica al rito in Cassazione è data dall’abrogazione dell’art. 366-bis c.p.c. (introdotto con D.Lgs. n. 40/2006), che così recitava:

“Nei casi previsti dall’art. 360, primo comma, nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”.

La norma prevedeva che ad illustrazione dei motivi di ricorso fosse redatto un quesito di diritto, adempimento previsto a pena di inammissibilità.

L’obiettivo del legislatore del 2006 era consentire un’indagine preliminare dei ricorsi ed estendere le ipotesi di rito camerale descritto dall’art. 375 c.p.c.

Si considerò utile alla causa l’introduzione di un adempimento apparentemente formale, quale la redazione del quesito, volto a consentire un rapido esame degli atti difensivi e l’immediata individuazione della quaestio juris sottoposta al giudizio della Corte.

L’applicazione della riforma del 2006 ha dato luogo a numerose pronunce di inammissibilità per omessa formulazione del quesito di diritto o per vizi attinenti alla descrizione del fatto controverso in relazione al quale si censurava la motivazione della sentenza impugnata (art. 360 n.5 c.p.c.).

In particolare, le censure ex art. 360 n.5) rappresentano una larga percentuale dei ricorsi presentati, soprattutto perché tale strumento si presta alla riproposizione di questioni di fatto altrimenti non sottoponibili al vaglio del giudice di legittimità.

Il legislatore dell’attuale riforma, abrogando l’art. 366-bis c.p.c., recepisce le decise critiche mosse dagli operatori del diritto che lamentavano l’atteggiamento eccessivamente rigoroso della Suprema Corte nell’interpretazione della norma.

Invero, se la riforma del 2006 era incentrata sulla tecnica di redazione dei ricorsi, in modo da metter il giudice nelle condizioni di inquadrare la fattispecie già con la sola lettura del quesito di diritto, le ultime modifiche al codice di rito sembrano volte ad esaltare la funzione nomofilattica della Suprema Corte.

Tuttavia, vale la pena di sottolineare che, nell’ottica di uno snellimento del lavoro della Cassazione a favore del consolidamento di principi di diritto di fonte giurisprudenziale, la previsione dell’art. 360-bis non appare incompatibile con la formulazione del quesito di diritto.

L’ipotetica convivenza delle due norme (artt. 360-bis e 366-bis) avrebbe potuto, verosimilmente, migliorare la chiarezza espositiva dei ricorsi nel rispetto del principio di autosufficienza.

Partendo da questa riflessione qualche commentatore ha già previsto un atteggiamento rigido della Corte in sede di vaglio di ammissibilità, che

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produrrebbe l’effetto di riproporre il problema del numero elevato di pronunce di inammissibilità nonostante l’abrogazione del “formalistico” art. 366-bis c.p.c..

10.6 - Il procedimento per la decisione in Camera di consiglio

I passaggi procedurali sono scanditi dagli artt. 376 e 380-bis c.p.c..In particolare, salvo che non ricorrano le condizioni per investire della causa

le Sezioni Unite (previste dall’art. 374 c.p.c.), i ricorsi sono assegnati dal primo presidente ad un’ “apposita sezione”, che verifica l’eventuale sussistenza dei presupposti per la pronuncia in camera di consiglio nelle due ipotesi indicate dall’art. 375 comma 1 nn. 1) e 5) c.p.c..

Dunque, la sezione composta da cinque membri – come le sezioni giudicanti delle sezioni semplici - secondo le previsioni del nuovo art. 67-bis del R.D. n. 12/1941, verifica se si possa giungere ad una pronuncia che definisca contestualmente rito o merito.

Esaminando, infatti, le ipotesi dei nn. 1) e 5) dell’art. 375 c.p.c. si vede come si tratti di inammissibilità per vizi di procedura (definizione del rito) ovvero pronuncia di accoglimento o rigetto in termini di fondatezza o infondatezza (definizione del merito).

La valutazione preliminare compete al relatore della “sezione filtro”, che, ai sensi del 380-bis c.p.c., deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia, definitoria del giudizio.

In questa ipotesi il presidente, con decreto, fissa l’adunanza della Corte in camera di consiglio ed ordina gli adempimenti necessari all’instaurazione del contraddittorio descritti dal comma 2 dell’art. 380-bis (comunicazione al pm e notificazione ai difensori; conclusioni e memorie; eventuale comparizione delle parti).

Il compito dell’ “apposita sezione” è limitato alle verifiche sopra indicate che possono portare alla definizione del giudizio in camera di consiglio.

Diversamente, se la sezione non definisce il giudizio (ad esempio, perché il relatore non ritenga sussistere una delle ipotesi di cui ai nn. 1 e 5 dell’art. 375 c.p.c. oppure perché sia il collegio a ritenere non sussistenti tali ipotesi all’esito dell’esame degli atti processuali della parti), gli atti sono rimessi al primo presidente il quale procede all’assegnazione ad una delle sezioni semplici (art. 380-bis comma 3).

Il relatore della sezione alla quale il ricorso viene assegnato (nominato dal presidente della stessa sezione semplice ai sensi dell’art. 377 comma 1) verifica l’eventuale sussistenza delle altre ipotesi di cui all’art. 375 c.p.c. (nn. 2 e 3) che ugualmente consente la pronuncia in camera di consiglio.

Se il relatore ritiene di non potere pervenire alla pronuncia in camera di consiglio, si ripete lo stesso iter previsto innanzi alla sezione filtro, poiché il comma 3 del novellato art. 380-bis c.p.c. rinvia al omma 2 (deposito di relazione in cancelleria; fissazione dell’adunanza in camera di consiglio; comunicazione al pubblico ministero; notificazione agli avvocati delle parti; eventuali conclusioni scritte e memorie; eventuale comparizione delle parti per essere sentiti).

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10.7 - Efficacia della decisione della sezione filtro

La previsione di una disamina preliminare del ricorso per cassazione, seppure limitata alle indagini previste dal combinato disposto dell’art. 360-bis e 375 c.p.c., impone una riflessione in ordine al confronto tra la competenza della sezione filtro e quella della sezione semplice alla quale la causa venga eventualmente devoluta.

Se, infatti, l’ “apposita sezione”, pronunciandosi ai sensi del 360-bis c.p.c., ritenga di non potere definire il giudizio in termini di inammissibilità o rigetto per manifesta infondatezza, il ricorso verrà rimesso al primo presidente, che procederà all’assegnazione ad altra sezione decidente.

In questa ipotesi la sezione semplice dovrà procedere all’esame dei motivi di ricorso.

Ci si chiede, dunque, se l’ordinanza della sezione filtro debba ritenersi vincolante per la sezione semplice riguardo all’insussistenza di ipotesi di inammissibilità del ricorso.

Non può, infatti, escludersi che l’esame delle eccezioni sollevate dalla parte implichi una valutazione della sezione giudicante difforme rispetto al contenuto dell’ordinanza della sezione filtro.

Probabilmente la tesi più fondata è quella che propende per la non vincolatività dell’ordinanza emessa in camera di consiglio sulla pronuncia che definisce il giudizio, considerato che la novella al rito in Cassazione, se da una parte mira al decongestionamento dei ruoli della Suprema Corte, dall’altra tiene conto (come dimostra l’iter parlamentare della legge n. 69/2009) della fondamentale esigenza di assicurare il terzo grado di giudizio, garantendo il vaglio di legittimità dinanzi la Cassazione.

Il compito della sezione filtro sembra, dunque, destinato esclusivamente alle verifiche previste dall’art. 360-bis c.p.c..

In tal senso, deporrebbe anche un indizio terminologico desumibile dal confronto tra il testo definitivo del nuovo art. 380-bis c.p.c. e il previgente comma 4 dello stesso articolo.

Non è stata, infatti, riprodotta la previsione secondo la quale: “Nella seduta la Corte delibera sul ricorso con ordinanza”.

Alcuni commentatori, partendo dal dato letterale, ritengono che lo stralcio del comma 4 dall’art. 380-bis c.p.c. sia indicativo della ratio della novella: la Corte, in sede di esame preliminare sul ricorso ex art. 360-bis c.p.c., non è tenuta a ad una decisione intesa come “delibera” sul ricorso quando non intende definire il giudizio.

In altre parole, l’esame preliminare rimesso all’apposita sezione si conclude con una pronuncia solo quando definisce in quella sede il ricorso in termini di inammissibilità, manifesta fondatezza o manifesta infondatezza.

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10.8 - Il giudizio di legittimità e la giurisprudenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea

La funzione nomofilattica non opera soltanto nel diritto interno. Tralasciando i profili di diritto comparato, si deve quantomeno tener presente che svolge una sostanziale funzione nomofilattica, per il settore di relativa competenza, anche la Corte di Giustizia delle Comunità Europee. La c.d. competenza a titolo pregiudiziale, infatti non è altro che l’esplicazione “ante iudicium” di una funzione nomofilattica collegata all’applicazione del diritto comunitario e centralizzata - come per la Corte di Cassazione con le Sezioni Unite - in una particolare formazione operativa della Corte medesima, la Grande Camera. Si tenga presente peraltro che, sulla base delle più recenti riforme della struttura della Giustizia comunitaria anche il Tribunale di Primo Grado è adesso competente a rendere pronunce a titolo pregiudiziale in taluni settori di materie.

Una certa funzione nomofilattica è svolta anche dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja nell’ambito del diritto internazionale pubblico. Si rinvia sul punto all’art. 38 dello Statuto della Corte. Merita, quindi, attenzione anche il rapporto tra diritto comunitario e diritto interno e la relativa influenza della Corte di Giustizia Europea sulla giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Ebbene, anche su questo versante non può non sottolinearsi una linea evolutiva che porta a riconoscere una valenza principalmente nomofilattica alla giurisprudenza della Corte di Giustizia che, in quanto organo di interpretazione del diritto comunitario, assume addirittura una valenza sovraordinata rispetto alla stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Ed invero, mentre in un primo momento la giurisprudenza della Corte di Giustizia venne ritenuta vincolante principalmente per i legislatori degli Stati membri oggi esistono elementi tangibili che consentono di poter affermare che la Corte di Giustizia esercita una fondamentale funzione nomofilattica non soltanto nei confronti delle legislazioni dei paesi membri ma anche nei confronti degli organi giurisdizionali degli stessi.

Ciò si è reso particolarmente evidente in ambito tributario con l’elaborazione in sede di giurisprudenza comunitaria del principio dell’abuso del diritto.

L’esistenza di un principio di divieto di pratiche abusive è stata da sempre affermata dalla giurisprudenza comunitaria secondo cui i singoli non possono avvalersi abusivamente delle norme comunitarie. Tale principio, applicato in diversi settori del diritto comunitario, è stato ritenuto operante dalla Corte del Lussemburgo anche nel campo doganale, nel senso che non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi tali agevolazioni.127.

Una pietra miliare nella ricostruzione della nozione di abuso del diritto è costituita 127 Nella sentenza 14.12.2000 in causa C – 110/1999, la Corte ha ritenuto abusive le c.d. ope-

razioni di esportazione a U nelle quali, al fine di usufruire della restituzione di dazi do-ganali per l’esportazione di prodotti agricoli, le merci vengono consegnate al destinatario estero e da questi immediatamente restituite, senza alcuna utilizzazione, all’esportatore.

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dalla pronuncia della Corte di Giustizia del 21.02.2006, c.d. sentenza Halifax. In tale sentenza, la Corte ha elaborato una nozione di abuso del diritto in modo autonomo dalle ipotesi di frode. La Corte rileva che la Sesta direttiva osta al diritto del soggetto passivo di detrarre l’IVA assolta a monte allorché le operazioni che fondano tale diritto integrano un comportamento abusivo. Perché possa configurarsi un comportamento abusivo occorre che le operazioni controverse, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della Sesta direttiva e dalla legislazione nazionale che la traspone, siano dirette ad ottenere un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo di tali disposizioni. Ove si constati un comportamento abusivo, le operazioni implicate devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni costitutive di tale comportamento abusivo.

Altra importante pronuncia della Corte di Giustizia è la sentenza C – 425/06 del 21.2.2008 in cui si afferma che l’abuso può ricorrere anche quando lo scopo di conseguire un vantaggio fiscale sia essenziale ma non esclusivo concorrendo anche altre ragioni economiche. Inoltre, la Corte afferma che pur essendo la materia dell’imposizione diretta attribuita alla competenza degli stati membri, gli stessi sono, comunque, vincolati al rispetto dei diritti e principi fondamentali dell’ordinamento comunitario. La nozione di abuso del diritto è, quindi, applicabile sia nel campo delle imposte armonizzate o comunitarie (IVA) sia nel campo delle imposte non armonizzate come le imposte dirette.

In ambito nazionale, un primo orientamento della Corte di Cassazione era quello di negare l’esistenza di una clausola generale antielusiva nell’ordinamento fiscale italiano. Tale indirizzo è stato riveduto con le importanti sentenze n. 20398 del 21.10.2005 e n. 22932 del 14.11.2005 relative ai casi di dividend washing (acquisto e rivendita di azioni) e dividend stripping (costituzione o trasferimento di usufrutto su azioni) in cui si afferma che la mancanza della ragione economica che investe nella sua essenza lo scambio tra le prestazioni contrattuali attuato attraverso il collegamento negoziale, costituisce, a prescindere da una sua valenza come indizio di simulazione oggettiva o interposizione fittizia, un difetto di causa, il quale da luogo ai sensi degli artt. 1418, comma 2, e 1325 n. 2 c.c., a nullità dei contratti collegati di acquisto e rivendita di azioni, in quanto dagli stessi non consegue per le parti alcun vantaggio economico all’infuori del risparmio fiscale. A seguito di una tale ricostruzione giuridica dell’operazione, la Corte afferma l’inefficacia dei contratti nei confronti del fisco e la riqualificazione dell’operazione col corretto regime fiscale applicabile.

Ulteriore importante arresto giurisprudenziale si è avuto con la sentenza n. 21221 del 29.09.2006 in cui, ripercorrendo la giurisprudenza nazionale e comunitaria in tema di abuso del diritto, si afferma che la nozione di abuso del diritto prescinde da qualsiasi riferimento alla natura fittizia o fraudolenta di un’operazione, nel senso di una prefigurazione di comportamenti diretti a trarre in errore o a rendere difficile all’ufficio di cogliere la vera natura dell’operazione. Il proprium del comportamento abusivo consiste proprio nel fatto che, a differenza

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delle ipotesi di frode, il soggetto ha posto in essere operazioni reali assolutamente conformi ai modelli legali senza imputazioni del vero o rappresentazioni incomplete della realtà.

Con recenti sentenze si sono espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentt. nn.30055, 30056 e 30057 del 23.12.2008) affermando che è inopponibile all’amministrazione finanziaria uno strumento giuridico idoneo ad ottenere un risparmio fiscale in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio. La fonte di tale generale principio antielusivo va rinvenuta, per i tributi non armonizzati quali le imposte dirette, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano (non in quello comunitario) ossia, nell’art. 53 Cost. L’esistenza di questo principio insito nell’ordinamento non contrasta né con tutte le norme specifiche antielusive sopravvenute che appaiono mero sintomo dell’esistenza di una regola generale, né con la riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost., in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali.

Ancora, si è espressa la Cassazione con sentenza n. 1465 del 21.01.2009 in cui si afferma che è onere dell’Amministrazione finanziaria - non solo - prospettare il disegno elusivo a sostegno delle operate rettifiche ma - anche - le supposte modalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici rinvenute come irragionevoli in una normale logica di mercato se non per pervenire a quel risultato di vantaggio fiscale così come incombe al contribuente allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore che giustifichino operazioni così strutturate.

Per completare l’excursus giurisprudenziale che ha portato alla enucleazione del principio dell’abuso del diritto nonché a delinearne nel tempo gli aspetti caratterizzanti, si accenna alla sentenza C-2/08 del 03.09.2009 della Corte di Giustizia UE128 riguardante un caso in cui più avvisi di accertamento per periodi di imposta diversi e vertenti sulla medesima configurazione ed interpretazione di fatti e norme avevano avuto conseguenze differenti. In particolare, per alcune annualità si era giunti a sentenza definitiva che accertava la non ricorrenza di ipotesi di abuso del diritto, mentre, altre annualità, per l’appunto, erano ancora all’attenzione della Corte di Cassazione che ha investito la Corte del Lussemburgo con una domanda di pronuncia pregiudiziale sull’applicazione del principio dell’autorità di cosa giudicata in materia di IVA.

128 La Corte di Giustizia ha stabilito il principio secondo cui “Il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come quella di cui all’art. 2909 c.c. italiano, in una causa vertente sull’IVA e concernente un’annualità fiscale per la quale non si sia ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta”.

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La sentenza, pur ribadendo l’importanza del principio dell’autorità di cosa giudicata al fine di garantire la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, afferma che tale principio non può comportare la impossibilità di correggere una erronea interpretazione (contenuta in altra sentenza) delle norme comunitarie relative a pratiche abusive in materia di IVA in contrasto con il diritto comunitario. Il pronunciamento giurisprudenziale dinnanzi riportato, quindi, rappresenta, insieme al altri parimenti importanti profili, una pietra miliare in tema di esercizio della funzione nomofilattica della Corte di Giustizia UE indicando come il diritto comunitario ovvero i principi di rango comunitario possano addirittura travolgere le norme processuali del diritto interno.

Diretto corollario di quanto indicato è la circostanza che la Corte di Giustizia UE, in quanto organo deputato istituzionalmente al presidio ed alla tutela dell’integrità del diritto comunitario, svolge e, probabilmente, sempre più svolgerà un ruolo decisivo nell’omogeneità degli orientamenti giurisprudenziali anche di legittimità.

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Capitolo 11translatio iudicii

11.1 - La natura

L’art. 59 della legge n. 69/2009 ha introdotto nell’ordinamento processuale la disciplina positiva della cd. translatio iudicii ovvero le norme tendenti a disciplinare la comunicabilità dell’azione tra diverse giurisdizioni che, in tal modo, assurge a principio di carattere generale.

In forza del citato principio, ogni qual volta un giudice declina la propria giurisdizione, indicando il giudice che ne è fornito, il processo prosegue in riassunzione innanzi al nuovo giudice, rimanendo salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta dinanzi al giudice privo di giurisdizione.

Il legislatore, in tal modo, ha posto fine ad un’annosa questione, di non poco conto, che ha impegnato tanto la dottrina che la giurisprudenza in un dibattito avente ad oggetto la possibilità, in caso di difetto di giurisdizione, di riassumere il processo dinanzi al giudice competente, ancorché di diverso ordine giurisdizionale, senza incorrere in prescrizioni e decadenze.

Il precedente assetto (ante legge n.69/2009) del codice di procedura civile era infatti informato al principio della incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi, e la translatio iudicii era ammessa esclusivamente in caso di difetto di competenza nell’ambito dello stesso ordine giudiziario ex art. 50 c.p.c., o in sede di regolamento di giurisdizione quando la Cassazione riteneva sussistesse la giurisdizione del giudice ordinario ex artt. 41 e 367 c.p.c.

L’operatività della translatio iudicii era quindi affidata ai singoli giudici di merito, i quali, non avendo un orientamento uniforme, potevano liberamente ritenere di applicare la translatio alla sola ipotesi di difetto di competenza.

La querelle giurisprudenziale e dottrinaria, con il prevalere di volta in volta dell’indirizzo garantista ovvero di quello intransigente, ha trovato un argine nell’interpretazione giurisprudenziale contenuta in due sentenze, emanate nel giro di pochi giorni da parte della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sent. n. 4109 del 22.02.2007 ultima di una copiosa produzione) e dalla Corte Costituzionale (sent. n. 77 del 12.03.2007) secondo le quali, seppur con diverse argomentazioni, l’errore sulla giurisdizione in cui è incorsa la parte, non deve compromettere l’esercizio dell’azione dinanzi al giudice competente, conservando, nella riassunzione, gli effetti interruttivi della prescrizione e impeditivi della decadenza connessi alla domanda originaria del giudizio promosso dinanzi al giudice dichiarato privo di giurisdizione.

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Il legislatore della novella in esame, dunque, come già precisato in premessa, è intervenuto, su sollecitazione della Consulta per fissare, de iure condito le modalità, i termini e le condizioni di operatività dell’istituto.

Ed invero, la norma in discussione ha un chiaro intento ricognitivo talché l’applicazione della translatio, era già stata resa operativa per via giurisprudenziale.

Esempio emblematico della concreta applicazione dell’istituto è rappresentato proprio dalla materia tributaria..

In particolare, in ambito tributario, la questione è stata di recente affrontata, a seguito delle modifiche operate dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 130/2008, in tema di giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto gli atti di irrogazione di sanzioni amministrative per l’utilizzo di lavoratori irregolari.

Per tali controversie, infatti, la giurisdizione è transitata dalle Commissioni Tributarie al Giudice ordinario e, per i giudizi instaurati dinanzi al giudice tributario, la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 56 del 2008, riprendendo il consolidato orientamento giurisprudenziale, statuisce che la riassunzione innanzi al Tribunale, a seguito di declaratoria di difetto di giurisdizione, comporta la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda introduttiva del giudizio tributario.

In questo panorama, dunque, l’art. 59 L. n. 69/2009 viene a configurarsi come una norma di natura meramente ricognitiva.

La norma è strutturata in cinque commi, all’interno dei quali, vengono disciplinate le condizioni essenziali di operatività dell’istituto.

Innanzitutto, nel primo comma viene resa obbligatoria, contestualmente alla pronuncia di difetto di giurisdizione, l’indicazione del giudice che ne sia munito.

La norma, forse in maniera pleonastica, specifica che il giudice ad quem deve essere un giudice nazionale.

D’altra parte l’indicazione della giurisdizione di un giudice di altro ordinamento avrebbe solo un effetto indicativo, non potendo vincolare un giudice “straniero”, il quale potrebbe a sua volta declinare ulteriormente la giurisdizione, senza che gli si possa imporre in alcun modo di considerare salvi gli effetti della domanda originaria.

Il quesito da porsi, sarebbe invece quello di individuare le conseguenze, in caso di omessa indicazione nel dispositivo del giudice ad quem, sulla piena operatività della translatio.

Da un lato, infatti, si potrebbe argomentare che l’indicazione del giudice competente può anche essere desunta dalla motivazione, quale parte integrante della statuizione del giudice, anche se, trattandosi di una sentenza di natura meramente processuale, si potrebbe obiettare a una siffatta soluzione, e rinnovare la mancanza assoluta dell’indicazione (cfr Cass n. 360/2005 e Cass. n. 11104/1993)

Appare tuttavia eccessivo, come espresso dalla dottrina nei primi commenti

alla novella, penalizzare gli effetti della translatio quando l’integrazione tra le parti della sentenza avrebbe un effetto risolutivo, fermo restando in ogni caso la possibilità per la parte di avvalersi eventualmente della procedura di correzione dell’omissione dell’errore materiale (artt. 287 e 288 c.p.c.).

Di contro, in caso di totale assenza dell’indicazione del giudice anche nella motivazione, la parte può sempre ricorrere all’impugnazione ordinaria della sentenza per violazione del disposto dell’art. 59 L. n. 69/2009.

La seconda parte del primo comma stabilisce la vincolatività della pronuncia sulla giurisdizione resa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, vincolo valido per le parti e per il giudice anche in altro processo.

Conseguenza di tale formulazione, sembrerebbe essere che non tutte le sentenze declinatorie della giurisdizione hanno la stessa valenza, infatti solo quelle rese a Sezioni Unite sarebbero vincolanti, di contro quelle rese dalla Cassazione a sezioni semplici e dal giudice di merito potrebbero essere derogate dalle parti o disattese dal giudice ad quem .

Di fatto, una tale interpretazione ha creato non poche perplessità nei primi commenti alla norma, facendo propendere taluni per un’interpretazione estensiva della stessa e considerare di conseguenza vincolanti anche le sentenze della Cassazione emesse a sezioni semplici.

Tale ipotesi ermeneutica, tuttavia, è comunque da correlare con il dettato del comma 3 dell’articolo in esame, il quale stabilisce che il giudice dinanzi al quale è riassunta la causa, entro la prima udienza fissata per la trattazione del merito, può sollevare d’ufficio con ordinanza la questione di giurisdizione, solo se sulla questione non si è pronunciata la Corte di Cassazione a Sezioni Unite.

11.2 - Le regole procedurali

Condizione irrinunciabile di operatività della translatio iudicii, è la riassunzione nel termine perentorio di tre mesi, dal passaggio in giudicato della pronuncia di declinatoria, dinanzi al giudice indicato (art. 59 comma 2 L. n. 69/2009).

Occorre a questo punto soffermarsi, ponendo alcuni spunti di riflessione.In primo luogo la parte interessata a riassumere il processo è senza dubbio

alcuno l’attore, il quale in ambito tributario coincide con il contribuente, di conseguenza ponendosi l’Amministrazione sempre come parte resistente non avrà mai l’interesse a riassumere, d’altra parte come sottolinea la terminologia usata dal legislatore, si tratta di “riproporre la domanda” e non semplicemente di riassumere un processo sospeso o interrotto, di conseguenza ci si potrebbe spingere ad affermare che si tratti di un atto che rientri nell’esclusivo dominio dell’attore.

Secondariamente il giudice ad quem, che è sempre un giudice di primo grado, anche quando la declinatoria di giurisdizione provenga da un giudice dell’impugnazione, deve essere quello indicato nella sentenza.

Infatti, se la parte dovesse riproporre la domanda dinanzi ad un giudice

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diverso da quello designato, non si avranno gli effetti tipici della translatio ed inoltre il nuovo giudice potrebbe nuovamente pronunziarsi con una declinatoria di giurisdizione.

Ritornando dunque al termine per riassumere la domanda, i tre mesi perentori previsti dalla norma decorrono dal passaggio in giudicato della pronuncia sulla giurisdizione, di conseguenza il dies a quo verrà individuato allo scadere del termine breve o lungo di impugnazione a seconda che la parte si sia resa attiva o meno nella notifica della sentenza (cfr. artt. 326 e 327 c.p.c.).

Relativamente al dies ad quem, questo verrà individuato secondo i criteri previsti dal codice di procedura civile ai sensi dell’art. 155 c.p.c. per i termini indicati in mesi, il termine ultimo andrà quindi a cadere nello stesso giorno in cui divenuta definitiva la pronuncia sulla giurisdizione, trasportato in avanti di tre mesi, fatta salva l’eventuale applicazione della sospensione per il periodo feriale, dal primo di agosto al quindici di settembre, prevista ai sensi della legge n. 742/ 1969.

Determinante è naturalmente la modalità prevista per l’instaurazione del nuovo giudizio. Nel caso, infatti, di riassunzione dinanzi alle commissioni tributarie, questo coinciderà con il deposito del ricorso presso il giudice tributario (di contro nei giudizi introdotti dall’atto di citazione il termine ultimo coinciderà con la notifica dell’atto alla controparte).

L’eventuale assenza, nella pronuncia sulla giurisdizione, del termine per la riassunzione, non comporta alcuna integrazione in quanto questo è espressamente disciplinato dalla legge, né di contro si può dotare di alcun valore l’eventuale indicazione di un termine diverso.

L’infruttuosa decorrenza del termine previsto dal comma 2 dell’art. 59 L. n. 69/2009, determina quindi la l’inoperatività della translatio, senza ledere tuttavia il diritto di azione dell’attore che, se non sono intervenute decadenze, potrà sempre esercitarlo senza tuttavia conservare gli effetti sostanziali e processuali del precedente giudizio.

Giova sottolineare che nel giudizio tributario l’eventuale estinzione del processo, in caso di mancata riassunzione con contestuale scadenza dei termini per impugnare l’atto, comporta una definitività dell’imposizione fiscale, a nulla valendo dunque la prima impugnazione dinanzi al giudice dichiarato privo di giurisdizione, ai fini di un’eventuale successiva impugnazione degli atti successivi con i quali si attua la riscossione.

Il terzo comma dell’art. 59 L. n. 69/2009 stabilisce che, una volta riassunto il processo entro i termini dinanzi al giudice indicato nella pronuncia sulla giurisdizione, le parti rimangono vincolate e non possono successivamente riproporre la questione di giurisdizione dinanzi al giudice ad quem, il legislatore ha dunque voluto “recintare” la questione di giurisdizione all’interno del processo riassunto, onde evitare pretestuose e defatiganti eccezioni processuali.

Rimane aperta una possibile ulteriore questione di giurisdizione, solo in caso di proposizione d’ufficio del giudice, sempre che non vi sia stata una pronuncia

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della Corte di Cassazione a Sezioni Unite nell’ambito del processo, e che non si sia svolta la prima udienza per la trattazione nel merito.

Il quarto comma statuisce l’estinzione del processo in caso di mancata riassunzione nei termini, mentre il quinto ed ultimo comma prevede, in caso di riproposizione nei termini dinanzi al giudice ad quem, la possibile valenza come argomento di prova delle prove raccolte dinanzi al giudice a quo.

11.3 - Gli effetti

Ultimato dunque l’esame delle condizioni di operatività della translatio volgiamo l’attenzione agli effetti da questa determinati.

Il legislatore prevede che siano “fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio”.

Questo comporta, per quel che interessa in ambito tributario, che viene fatta salva la tempestiva impugnazione dell’atto, seppure effettuata dinanzi ad un giudice (a quo) privo di giurisdizione.

L’effetto conservativo d’altra parte si realizza per l’avvenuta riassunzione del processo nei termini, senza che necessiti alcuna ulteriore pronuncia dichiarativa da parte del giudice ad quem, trattandosi di effetti legali.

A discrezione del giudice è invece l’utilizzo o meno delle prove raccolte dinanzi il giudice a quo, queste potranno essere valutate dal giudice della riassunzione come “argomenti di prova”, ciò comportando che la singola prova raccolta dal primo giudice non potrà da sola essere a fondamento della decisione in quanto in qualità di argomento di prova dovrà essere valutata in modo sistematico, rapportandola all’intero materiale probatorio.

Qualche dubbio ha suscitato in dottrina la possibile riduzione a mero argomento di prova anche delle prove documentali, in questo caso, infatti, trattandosi di documenti che vengono prodotti senza che necessiti alcuna assunzione da parte del giudice, sembra discutibile che non possano avere la valenza di piena prova.

Infine per quanto riguarda l’entrata in vigore dell’istituto, come già detto in premessa, la disciplina della translatio troverà applicazione anche ai giudizi pendenti al 4 luglio 2009, in quanto l’art. 59 L. n. 69/2009 non determina alcuna modifica delle disposizioni del codice di rito o delle disposizioni attuative del c.p.c.

Finito di stamparenel mese di marzo 2010

presso la tipografia SeristampaPalermo

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