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Anno LIV - n.5 / maggio 2015 - Poste Italiane SPA, Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv.in.L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, c.1, CN/BO - Filiale di Bologna – € 2 Amici di Follereau maggio 2015 Cibo, e salute, per tutti REPORTAGE In viaggio verso Kobane PROGETTI Comore: Fatima fa nascere i bambini per i diritti degli ultimi 5

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Amici di Follereaumaggio2015

Cibo, e salute, per tutti

REPORTAGEIn viaggio verso Kobane

PROGETTIComore: Fatima fa nascere

i bambini

per i diritti degli ultimi5

since 1961 with the poorest

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Lebbra e disabiLità: c’è ancora moLto da fareBasta poco, a te non costa nulla

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Editoriale

Fame di pane, fame di diritti

Anna Maria Pisano

are amiche,cari amici, C

Così leggiamo nella Dichiarazione universale dei diritti umani, firmata e diffusa in tante lingue fra tutte le Nazioni: dichiarazione ufficiale proclamata con decisione ed entusiasmo dopo la seconda

guerra mondiale. Tante altre dichiarazioni d’impegno internazionale l’hanno seguita, ma ancora 1 miliardo di persone soffrono la fame in questa nostra Madre terra, che generosamente può sfamare quasi il doppio degli abitanti del Pianeta.Non riusciamo nel nostro egoismo ad avere una visione mondiale, globale, anzi neppure a superare interessi locali e regionali che ci permettano di dare risposte concrete alle minime esigenze vitali di ogni uomo.“C’è cibo per tutti ma non tutti possono mangiare, mentre lo spreco, lo scarto, il consumo eccessivo e l’uso di alimenti per altri fini sono davanti ai nostri occhi” (Giovanni Paolo II – Conferenza sulla nutrizione del 1992).Ci dimentichiamo facilmente che il mondo è di tutti, dato in usufrutto per tutti con l’obbligo di rispettarne i tempi e le risorse, perché possa continuare a produrre anche

domani per i nostri figli e nipoti. Fame di pane, fame di diritti.La vediamo purtroppo molto spesso nei Paesi dove i nostri progetti ci portano ad incontrare tanti “ultimi del mondo”.Malnutrizione, malattie, povertà, disabilità: facce di un unico circolo vizioso, facilmente conseguenti l’uno all’altro.La malnutrizione vuol dire apatia, debolezza, minor capacità di lavorare e quindi di procurarsi il necessario. Vuol dire anemia e mortalità da parto nelle donne. Vuol dire alta mortalità nei bambini.Vuol dire che circa un miliardo di persone nel nostro mondo, mentre qualcuno di noi magari si lamenta perché al supermarket non trova un tipo particolare di formaggio, deve combattere tutti i giorni con la fame .

Quella fame che non tanti decenni fa procurava morte, sofferenza e malattia anche nella nostra Europa.“Ignobile e orribile congiura del silenzio”, dice Follereau “la sola cosa impossibile è che tu, che io, possiamo ancora mangiare, dormire e ridere sapendo che ci sono sulla terra donne di 22 anni che muoiono perché pesano 20 chili”.Speriamo che finalmente si riesca, con la presa di coscienza di tutti, a vedere le tante ingiustizie e i tanti errori che abbiamo fatto in questi anni nella politica del cibo: con l’ambiente, con l’arraffamento

delle terre, con i piccoli agricoltori, con l’eliminazione di tante biodiversità, che fanno bella la Terra, e, soprattutto col non riconoscere a tutti gli uomini il diritto di vivere e di vivere come uomini.

CI DIMENTICHIAMO FACILMENTE CHE IL MONDO È DI TUTTI, DATO IN USUFRUTTO PER TUTTI CON L’OBBLIGO DI RISPETTARNE I TEMPI E LE RISORSE, PERCHÉ

POSSA CONTINUARE A PRODURRE ANCHE DOMANI PER

I NOSTRI FIGLI E NIPOTI.FAME DI PANE, FAME DI DIRITTI.

“Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione,….” (art. 25)

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ProfeziaPrima del profitto, la persona

Primo pianoDire NO al ricatto del terrorismo

ProgettiFatima, che fa nascere i bambini delle Comore

DossierCibo, e salute, per tutti

CulturaUn musulmano, mio fratello?

ReportageIn viaggio verso Kobane

StrumentiRaccontare con il video

EsperienzeArriva Follereau!

di Franco Barigozzi

di Anna Contessini

di Saverio Grillone

a cura della Redazione

di Luciano Ardesi

di Giovanni Vassallo

Intervista a Elisa Mereghetti a cura di Nicola Rabbi

di Emma Patroni

Cara redazione di Amici di Follereau

di Luciano Ardesi

L’economia ha bisogno di un’etica centrata sulla persona, un mercato dove oltre a merci e denaro si scambiano emozioni, attenzione e affetti. Il guadagno non può

essere fine a se stesso

di Franco Barigozzi

Prima del profitto, la persona

Non ci può essere un’economia autonoma rispetto alla morale, perché ogni scelta economica ha dei riflessi sulla società. Quindi l’economia e l’etica

non rappresentano un binomio inconciliabile: basta esaminare infatti il significato delle due parole per rendersi conto della totale sintonia dei due termini.

Per cogliere il legame tra l’economia e l’etica occorre definire con chiarezza i termini nel loro più profondo significato. Economia: “Raccolta di norme per la buona amministrazione della casa, senza pretese scientifiche” (dal Dizionario di economia, di Sergio Ricossa). Etica: “Dottrina o indagine speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo di fronte ai due concetti del bene e del male” (dal Dizionario della lingua italiana, di Oli-Devoto).

QUANDO MANCA L’ETICAIn sostanza l’etica va intesa come attività della mente che

misura le nostre azioni domandandosi : “È bene o è male? È giusto o non è giusto? È vero o è falso? “. Ed è per tale ragione che, come per la medicina esiste un codice morale e un giuramento con cui il medico si batte per la vita del malato, anche per l’economia deve sussistere un codice

deontologico o carta dei doveri su cui giurare. “Infatti il peso delle decisioni e delle scelte economiche nella vita della gente è crescente; ci stiamo accorgendo che si muore per una diagnosi sbagliata o superficiale, ma si muore anche per un licenziamento fatto male, per un finanziamento che non arriva quando dovrebbe arrivare, per un consiglio sbagliato di un consulente. L’etica economica è ormai diventata un bene di prima necessità che quando manca fa anche morire” (Economia con l ’anima, di Luigino Bruni, ed. EMI).

L’economia di mercato di origine francescana si fonda sulla circolazione delle risorse con cui far crescere l’uomo in responsabilità, in creatività, in abilità progettuali acquisendo, attraverso il lavoro, dignità e benessere. Carismi o doni, sono le categorie da cui sono scaturiti i Monti di Pietà, banche destinate a sostenere le singole imprese, evitando che le persone cadessero vittime dell’usura. L’economia civile di impronta cristiana legata alla dottrina sociale della Chiesa e posta sul solco del pensiero francescano, poggia sul concetto di dono.

Il dono non è un regalo, parola derivante da “regale” (offerta al re, quindi contenente la dimensione dell’obbligo)

Fonte: archivio fotografico di AifoFonte: shutterstock.com

Profezia

5Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

Profezia

ma è una faccenda di gratuità, è un bene relazionale. È più facile fare dei regali, perché non c’è un investimento della persona, mentre il dono è costoso, perché richiede attenzione, cura della persona e tempo. Prendersi cura della fragilità non è cosa da tecnocrati del mercato capitalistico, ma del mercato civile, cooperativo, comunitario, in quanto non trasforma le relazioni in merci. Infatti oltre al contratto e al denaro, si scambiano emozioni, attenzione e affetti.

MODELLI FALLIMENTARIL’economia ha dunque bisogno di un’etica centrata sulla

persona, perché prima del profitto viene l’uomo; se non porta in sé l’elemento morale è senza futuro. Il modello marxista è fallito non solo perché il sistema economico era inefficiente, ma anche per la sistematica “violazione dei diritti all’iniziativa, alla proprietà e alla libertà nel settore dell’economia” (Giovanni Paolo II, Centesimus annus). È dunque la concezione antropologica la causa più profonda del crollo del marxismo, come di ogni regime totalitario: l’uomo non vive di sola economia.

C’è il problema del capitalismo che sta attraversando un periodo di crisi, avendo perso di vista il problema del bene comune, perché preso dall’individualismo, dal profitto fine a se stesso, dalla speculazione finanziaria; l’economia reale fondata sulla produzione di beni attraverso il lavoro, è stata superata dal mondo della finanza, dal capitalismo

selvaggio che ha trovato il sistema di far soldi spostando i capitali da un titolo all’altro. L’utile nell’attività economica è uno scopo legittimo ma, se diventa fine a se stesso, va contro l’uomo; per tale ragione non può essere separato dall’utilità sociale.

UNA TERZA VIASi impone dunque una terza via, quella della dottrina

sociale della Chiesa imperniata sulla centralità dell’uomo secondo una visione personalista e comunitaria. Grande interprete di questa nuova visione fu il sociologo ed economista cattolico Giuseppe Toniolo, il primo a parlare nel 1873 del rapporto tra economia ed etica e della necessità di fare dell’operaio un soggetto corresponsabile, attraverso la partecipazione agli utili dell’azienda, oltre alla garanzia di un salario giusto.

L’idea che la ricchezza di cose generi benessere, è superata dal concetto di beni relazionali, cioè di relazioni sociali, come l’amicizia , la famiglia, il clima di un’azienda e di un luogo di lavoro, le associazioni civili. Sono questi aspetti che migliorano la qualità della vita e possono diventare indicatori di un grado generale di soddisfazione. Raoul Follereau, rivolgendosi ai giovani nel suo testamento morale, diceva: ”Bisognerà che dominiate il potere del denaro, altrimenti quasi nulla di umano è possibile, ma con il quale tutto marcisce”. ■

Un esempio a favore della comunità

Alla ditta Alessi di Omegna (VB), un’industria del casalingo affermata nel mercato mondiale, è stato conferito nell’ottobre 2013 un riconoscimento nazionale per la crescita di una coscienza dell’etica, della solidarietà e della responsabilità sociale.

Anziché mettere in cassa integrazione i dipendenti nei momenti fisiologici di minor produzione, per sei mesi si è impiegato il personale a stipendio pieno in lavori socialmente utili al proprio Comune: tinteggiatura delle scuole pubbliche, pulizia del lungolago, giardini e sentieri nei parchi, assistenza ad anziani, disabili e bambini. L’85% dei 340 dipendenti ha aderito volontariamente al progetto. Quindi 286 tra impiegati, operai e dirigenti hanno prestato novemila ore al Comune di Omegna.

Il progetto non mirava tanto a fornire un contributo sociale, quanto a voler dare dignità ai dipendenti che, di fronte all’alternativa di un sostegno economico senza lavorare, potevano percepire una paga completa, con un impegno totale delle proprie energie a favore della collettività.

Fonte: shutterstock.com

6 Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

Il Forum sociale mondiale di Tunisi ha vinto la sfida che il terrorismo aveva poco prima lanciato al paese e al mondo. La società civile internazionale si è interrogata

sui modi di un futuro migliore e diverso

di Anna Contessini

Dire NO al ricatto del terrorismo

La sfida al terrorismo è pienamente riuscita. A una settimana dall’attacco terroristico al Museo Bardo, Tunisi ha accolto, dal 24 al 28 marzo, il Forum

Sociale Mondiale. La società civile internazionale, gli organizzatori e i volontari non si sono lasciati intimidire, non hanno avuto dubbi che fosse necessario mantenere l’appuntamento nella capitale tunisina.

Anche due anni fa, sempre a marzo, il Forum si era ritrovato a Tunisi, allora si era trattato di sostenere la società civile tunisina nella transizione alla democrazia che si preannunciava difficile, come aveva dimostrato un mese prima l’assassinio di un esponente politico dell’opposizione, Chokri Belaïd, seguito quattro mesi più tardi da quello di Mohamed Brahmi. Quest’anno il Forum si è aperto, sotto una pioggia battente, con una marcia proprio per respingere il ricatto del terrorismo, e si è concluso, come due anni fa, con un’altra marcia dedicata al popolo palestinese, cuore della questione mediorientale e mediterranea.

Descrivere o solo sintetizzare il Forum è semplicemente impossibile. Le centinaia di seminari organizzati nel campus universitario di Al Manar, su temi specifici, da parte di singole coalizioni di associazioni e di reti, e a cui hanno partecipato decine di migliaia di persone, non si lasciano

cogliere facilmente. Del resto oltre all’impossibilità di essere presenti ai tantissimi incontri contemporaneamente, era, come sempre accade ai Forum, difficile districarsi nel labirinto di sale ed aule sparse nel campus. Non a caso, complice anche la pioggia, molti incontri e coordinamenti si sono organizzati negli alberghi che hanno ospitato i partecipanti.

UN FORUM DI UMANITÀÈ il peregrinare tra luoghi diversi, stand, gazebo delle

associazioni presenti che rende interessante e imprevedibile il Forum. Incontri insospettati, anche nelle file per entrare il primo giorno e avere il pass, o per andare alla caccia di un panino per pranzo. Eppoi spettacoli e allegria lungo i viali del campus, il tè e la musica sotto la tenda frequentatissima dei sahrawi, le bandiere palestinesi ovunque tese al vento che non è mai mancato nei giorni del Forum, arricchiscono questa esperienza. Preparata con mail e social network, il Forum è anche soprattutto l’occasione di un confronto tra volti che si cercano, si riconoscono, e finalmente si parlano di persona.

La Siria in guerra era presente a Tunisi con coloro che si battono per il loro paese, che discutono anche su posizioni diverse e distanti, ma che danno una dimensione

Primo Piano

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Fonte: Anna Contessini

più concreta alle terrificanti immagini che vediamo ogni giorno. Un Forum di umanità, mi piace descriverlo soprattutto così, piuttosto che con la lista sterminata dei temi, anche se Mediterraneo, migrazioni, Palestina, clima (il prossimo appuntamento è la Conferenza internazionale a Parigi, in dicembre), finanza internazionale l’hanno fatta un po’ da padroni.

UN FUTURO NON SOLO VIRTUALESi sono visti molti africani, e questo è bene poiché

la società civile di questo continente è ancora molto debole, pochi latinoamericani e asiatici. Cinquantamila i partecipanti da 110 paesi diversi dicono gli organizzatori. Dopo il Forum, il Consiglio internazionale che lo gestisce ha fissato il prossimo appuntamento tra due anni in Canada, a Montreal nel Quebec, con una tappa preventiva ad Atene, per interrogarsi sull’efficacia dei movimenti.

Certo dal primo Forum mondiale, quello di Porto Alegre nel 2001 in Brasile, tante analisi, tante proposte sono state messe in campo. I risultati concreti di una vera alternativa sono stati pochi. È importante non accontentarsi solo delle belle parole. Ma uno spazio di incontri è comunque vitale. Le tecnologie che in questi anni ci sono servite per mantenere e accrescere i nostri contatti non devono diventare le protagoniste. Le donne e gli uomini che sognano un futuro diverso devono restare padroni dei loro strumenti di comunicazione e di lotta, se non vogliamo che gli effetti rimangano solo virtuali. ■

Tunisia: la sfida della società civile

Nella Medina di Tunisi, il giorno prima di partire trovo un bel po’ di gente che è venuta, come me, a cercare qualche ricordo e un’immagine della città da portare a casa. Il Forum però è anche il luogo per conoscere meglio la Tunisia, almeno quella non ufficiale. Tante naturalmente le associazioni tunisine che avevano i loro tavoli e gazebo sparsi nel campus. Un po’ più sguarniti l’ultimo giorno, ma occasione per capire meglio. Molte le donne presenti, e questo è un segno positivo, a me sembrano addirittura la maggioranza.

C’è speranza ma non mancano le preoccupazioni dopo questi quattro anni che hanno finalmente portato a un parlamento e a un presidente eletti democraticamente secondo la nuova Costituzione del gennaio di un anno fa. Proprio la Costituzione, mi dicono tutte, è stato un terreno di scontro e di maggiore preoccupazione, con il tentativo da parte del partito fondamentalista Ennahda, che non tutte sono d’accordo di considerare “moderato”, di introdurre la charia, la legge islamica, che avrebbe inevitabilmente rimesso in discussione la parità tra uomo e donna, una conquista storica delle donne tunisine.

Parlando con loro mi accorgo che i concetti che noi abbiamo impiegato, e impieghiamo ancora, per descrivere il passaggio dalla dittatura alla democrazia in Tunisia, attraverso le parole di queste donne impegnate nella società civile, prendono un altro significato, una dimensione più concreta. Abbiamo ignorato in Italia e in Europa la resistenza delle tunisine affinché libertà, dignità, democrazia, giustizia, uguaglianza non si limitassero alle enunciazioni astratte cui la politica ha abituato la gente, qui come altrove, ma si materializzassero in passi concreti, quotidiani, mai definitivamente conquistati.

Mi pare di scorgere in molte di loro un rammarico: la rivolta popolare non ha portato non solo le donne della società civile ma in generale i protagonisti della “primavera” di quattro anni fa ad essere rappresentati nelle istituzioni. I partiti, al di là dei nomi nuovi che si sono dati, e le istituzioni vedono ai posti di comando un personale politico “vecchio” non solo di età. Pensano però che lavorare nel sociale, radicarsi nei territori dove la dittatura aveva fatto terra bruciata con la repressione e la stretta sorveglianza di qualunque movimento, possa contribuire a costruire un futuro migliore.

Primo Piano

8 Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

Fonte: Anna Contessini

Aifo promuove la sanità di base per venire incontro alle persone più vulnerabili, con una presenza diffusa sul territorio e l’attenzione all’educazione sanitaria

di Saverio Grillone

Fatima, che fa nascere i bambini delle Comore

Dopo il diploma al Liceo di Sima, e dopo quattro anni durante i quali avevo smesso i miei studi, ho ripreso a studiare grazie ad una borsa di studio triennale che

Aifo mi ha fornito. Mi sono trasferita nella capitale Moroni, all ’Università pubblica per il diploma di ostetrica. Durante questi tre anni, sempre grazie all ’Aifo, ho potuto effettuare, durante i periodi di vacanza nella mia isola natale, Anjouan, delle esercitazioni pratiche in vista della mia futura professione di ostetrica nell ’Ospedale di Pomoni, che è poi diventato il luogo dove lavoro attualmente.

Fatima Abdallah, questo il nome della giovane ostetrica, già nel periodo formativo al liceo, oltre alle capacità d’intelligenza e di apprendimento delle materie specifiche, aveva mostrato attitudini umane significative di sensibilità, accoglienza, capacità di analisi delle problematiche sul territorio, indispensabili per un esercizio pieno ed efficace della sua futura professione. Le risorse familiari non le avevano però consentito di continuare gli studi dopo il diploma del liceo, ed aveva dovuto interromperli. Per questo motivo Aifo, che nelle Comore conduce un Progetto volto a migliorare le condizioni di salute delle fasce vulnerabili della popolazione, nel distretto di Pomoni, ha deciso di

darle fiducia, selezionandola tra altre candidate. Così, dopo quattro anni di pausa, Fatima ha ripreso gli studi a livello universitario con la borsa messa a disposizione da Aifo.

La formazione, una scelta strategicaLa scelta si è rivelata particolarmente felice poiché

Fatima ha concluso il suo percorso di studio a pieni voti nel 2010. Nel semestre successivo al diploma di ostetricia è stata assunta dalla funzione pubblica comoriana e destinata all’ospedale di Pomoni, dove si era già esercitata, e di cui conosceva il territorio essendo nata e cresciuta in un villaggio vicino alla città. Due anni dopo, a seguito delle dimissioni della precedente ostetrica capo-sala, è stata nominata responsabile del servizio di maternità del Centro sanitario di Pomoni. Nel frattempo Fatima si è sposata con un professore di scienze naturali del locale liceo ed è mamma di due bambini.

Fatima oggi è una colonna del nostro progetto, se abbiamo ricordato brevemente la sua storia, è perché le tante mamme, ma anche i tanti bambini e tutte le persone vulnerabili di cui ci occupiamo, avrebbero una ben altra

Progetti

9Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

Fonte: Giovanni Gazzoli

storia se qualcuno come lei non si occupasse di loro. E tra le attività del progetto Aifo dedica particolare attenzione alla formazione del personale locale, ostetriche ed agenti comunitari, e supporto agli studenti universitari che contiamo collaborino poi con l’ospedale di Pomoni.

Quest’anno Fatima, in collaborazione con il medico capo dottor Mohamed Said, permette una copertura al 95% dei programmi di vaccinazioni, consente grazie a un collegamento con ambulanza tra l’ospedale e i villaggi sparsi nel distretto, il ricovero tempestivo delle partorienti in ambiente ospedaliero e coordina, grazie ad un accordo con l’Unicef locale, il programma di lotta alla malnutrizione sul territorio.

Uno degli aspetti più importanti ed impegnativi nel programma delle attività sanitarie realizzate dal progetto di sanità di base a Pomoni, è infatti l’attenzione particolare riservata a tutto quanto attiene alla salute della mamma e del bambino. Nel passato un elevato tasso di mortalità infantile caratterizzava statisticamente la mancata assistenza al parto per i casi necessitanti la presenza di un’ostetrica e l’esigenza di partorire in ambiente ospedaliero.

L’azione di prossimitàProgrammare un’assistenza sanitaria prima, durante e

dopo il parto è l’elemento indispensabile per migliorare le condizioni sanitarie della mamma e del bambino, per garantire l’osservanza ottimale del calendario delle vaccinazioni, e per prevenire le turbe nutrizionali legate ad una insufficiente e difettosa utilizzazione delle risorse alimentari presenti sul territorio.

Un contatto regolare e cronologicamente predisposto tra mamma e bambino e personale sanitario del distretto ha permesso in tutte le fasi progettuali di ridurre notevolmente la morbilità di tali fasce di popolazione.

Il fattore chiave capace di determinare il successo di queste attività specifiche è la presenza di ostetriche qualificate, capaci di intervenire, dialogare, accogliere, e messe in condizioni di programmare un’intensa presenza decentralizzata, vale a dire dal centro ospedaliero ai singoli villaggi.

Nella storia del progetto nel distretto di Pomoni, nella fase iniziale non sono mancate le difficoltà legate ad una presenza insufficiente di questa figura professionale.

Le ostetriche assegnate all’ospedale provenivano da altri centri distanti geograficamente dal luogo di lavoro, assegnate dalle autorità amministrative.

Per i responsabili Aifo in loco si è manifestata subito l’esigenza di investire in risorse umane presenti nel territorio del distretto al fine di meglio garantire un dialogo di vicinanza ed una presenza di maggiore servizio ed accoglienza, più aderente alla “mission” di Aifo. Questa è diventata poi una costante di tutto il Progetto.

Sanità di base a PomoniIl Progetto Sanità di base del Distretto di

Pomoni, nell’isola di Anjouan, è l’ultimo progetto in ordine di tempo realizzato da Aifo nell’Unione delle Comore, dove è presente fin dal 1991.

La priorità è data all’attenzione alle mamme e ai bambini, attraverso il Centro di salute di Pomoni e i Posti di salute ad esso collegati, con un’attività diffusa sul territorio anche grazie alla presenza nelle scuole per la medicina scolastica e l’educazione sanitaria.

Il Progetto prevede un ampio spettro di azioni, tra cui la diffusione di materiale informativo, la formazione del personale sanitario locale, con un’attenta supervisione, anche tecnica, per mantenerne la coerenza e l’efficacia.

Iniziato nel 2011, e cofinanziato dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI) per tre anni, il Progetto prosegue ora con fondi dei donatori Aifo.

Per sostenere questo Progetto, si veda la quarta di copertina.

Progetti

10 Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

Fonte: Giovanni Gazzoli

I progetti Aifo, anche quando privilegiano i problemi sanitari, sono attenti all’alimentazione e alla nutrizione che costituiscono un complemento indispensabile della salute. Brasile,

Mozambico e Mongolia, sono tre esempi di come la dimensione della comunità sia particolarmente indicata per affrontare i problemi della malnutrizione, della formazione

agricola e dell’educazione alimentare

a cura della Redazione, con la collaborazione di Deolinda Bitencourt e Lidia Maria Riba (Brasile), Paulo Hansine (Mozambico), Tuki Damdimsuren (Mongolia)

CiBO, e sALuTe, PeR TuTTi

SALUTE E ALIMENTAZIONE

Una corretta alimentazione è una delle condizioni non solo per la salute di una persona, ma anche per affrontare con dignità

la vita quotidiana. La priorità data da Aifo agli “ultimi”, i malati di lebbra e tutti coloro che soffrono malattie e disabilità di diversa origine, i poveri, gli esclusi, comporta anche dal punto di vista dell’alimentazione soluzioni appropriate.

Queste vanno cercate e costruite all’interno delle comunità, affinché le persone che vi abitano non siano emarginate ulteriormente. A questo fine, Aifo adotta la metodologia della Riabilitazione su base comunitaria, dove le persone trovano, in una dimensione sociale, le opportunità per migliorare la

propria salute ed integrarsi in una vita collettiva, di comunità.

Benché l’aspetto salute sia preponderante, nei suoi progetti Aifo è particolarmente attenta al tema dell’alimentazione, della nutrizione, dell’educazione alimentare. In un’ottica comunitaria questi aspetti si coniugano talvolta con le attività agricole, di allevamento o pesca, che forniscono alla comunità i mezzi per una corretta alimentazione per i suoi membri.

Abbiamo selezionato tre progetti in tre paesi e continenti diversi, Brasile, Mozambico e Mongolia, per evidenziare questo aspetto che, in un modo più o meno accentuato, accomuna la quasi totalità dei nostri progetti nel mondo.

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DOSSIER

11Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

12 Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

BRASILE: UN’ALIMENTAZIONE ALTERNATIVA Maria era una bambina di appena un anno e due

mesi, magrissima, palesemente malnutrita quando è arrivata al Centro di Educazione e Recupero Infantile (CERI) di Porto Nacional, nello stato brasiliano di Tocantins. Triste, completamente apatica, scoprimmo subito che non era stata vaccinata. La mamma di 17 anni, con tre figli, di cui l’ultimo nato da appena due mesi, viveva in un situazione di povertà e di precarietà. L’abbiamo ospitata nella casa di transito, mentre la bambina è rimasta nel Centro per un paio di settimane. In questo periodo abbiamo potuto vedere già un miglioramento.

Maria è tornata a casa con la madre, e per due settimane non si è fatta più vedere. Siamo andati a casa sua e la madre ci ha detto di non poter portare la bambina al Centro perché doveva occuparsi degli altri figli. Ci sembrava indispensabile occuparci, malgrado tutto, della bambina, avvertendo il Consiglio di tutela. La madre però non voleva più ricevere visite e reagiva in maniera aggressiva. Alla fine Maria è stata affidata ad una zia, che poteva accompagnarla tutti i giorni al Centro per un trattamento adeguato. Dopo 7 mesi, con un’alimentazione appropriata e misurata, con un accompagnamento medico e la fisioterapia due volte alla settimana, ha ripreso vivacità, è aumentata di peso, ed è stata dimessa. La zia continua a prendersi cura di lei, e Maria oggi è una bambina di 5 anni, che ha cominciato a frequentare la scuola.

Questa è una delle attività del CERI, curate da

Comsaúde, la Ong parter di Aifo nel Progetto a Porto Nacional. La carenza nutritiva colpisce molti bambini delle periferie povere della città; all’origine, come nel caso di Maria, la precarietà economica delle famiglie. L’intervento sanitario è sempre indispensabile, ma è accompagnato da attività di informazione e formazione rivolto alle madri su l’alimentazione dei bambini, l’igiene e la preparazione degli alimenti, per prevenire la stessa malnutrizione. Attraverso visite domiciliari, la condizione delle famiglie viene tenuta sotto osservazione.

Poiché le famiglie hanno pochi mezzi a disposizione, la formazione è indirizzata a utilizzare opportunità di alimentazione alternativa, attraverso il recupero delle piante disponibili nelle zone dove vivono le comunità, o l’invito ad acquistare gli alimenti presso piccoli produttori a dimensione famigliare. Sulla base di questa esperienza, un primo importante Seminario sulla nutrizione si è tenuto alla fine di settembre dello scorso anno per formare gli operatori sanitari, ma anche le famiglie, ad orientarsi verso l’alimentazione alternativa.

A complemento di queste attività nel campo alimentare, il Progetto prevede una scuola, la Familia Agricola, dove gli studenti, figli di contadini, apprendono le tecniche di coltivazione delle terre, e dell’allevamento di diverse specie di animali, secondo un’ottica di sostenibilità ambientale. Su otto mesi di corso, gli studenti passano poi due mesi sulle terre di famiglia per applicare ciò che hanno imparato.

Le famiglie a loro volta incontrano gli insegnanti per rendersi conto dell’importanza del percorso intrapreso dai loro figli, anche ai fini dell’alimentazione della comunità. La scuola ha poi la funzione di recuperare i giovani al lavoro agricolo, sottraendoli alla migrazione nelle città, e ponendo un freno all’accaparramento dei terreni da parte delle coltivazioni industriali.

MOZAMBICO: FORMAZIONE AGRICOLANhararai fa parte di un gruppo di auto-aiuto nella

città Espungabera, nella provincia mozambicana di Manica. Il gruppo include anche persone affette dall’Hiv. Nel settembre di due anni fa aveva partecipato ad un seminario per la formazione in tecniche di coltivazione agricola. Dopo il corso ha piantato del mais e coltivato un orto. L’anno successivo ha curato due orti: nel primo ha usato i vecchi sistemi, nell’altro ha applicato le nuove tecniche apprese durante il seminario. Con le nuove tecniche il raccolto è stato particolarmente abbondante e ciò gli ha consentito non solo di nutrire la famiglia ma anche di vendere una parte dei prodotti. Per quest’anno Nhararai si aspetta una raccolta ancora più abbondante perché ha impiegato le nuove tecniche in entrambi i terreni.

La stessa esperienza è capitata ad un altro Fonte: Grethel Gianotti, Carlo Cerini

DOSSIER

partecipante al corso. Francisco Henze, detto Denja, uno dei membri più attivi di un gruppo di auto-aiuto nel distretto di Chimoio. Nel 2014 il raccolto più abbondante, ottenuto grazie alle tecniche apprese durante il corso, gli ha consentito di nutrire la famiglia durante tutto l’anno. Sulla base di questi risultati Denja ha deciso quest’anno di aumentare la superficie coltivata e si aspetta una produzione ancora maggiore.

Il Progetto nel settore agro-ecologico nella provincia di Manica, coordinato da Aifo è parte di un progetto più ampio, multisettoriale, nel campo socio-sanitario, finanziato con il contributo della Regione Emilia-Romagna. L’attività di formazione ne costituisce l’ossatura. I gruppi di aiuto-aiuto sono stati infatti coinvolti nella formazione in tecniche di coltivazione agricola innovative, in grado a loro volta di generare reddito, come abbiamo visto nei due esempi.

Per condurre la formazione è stato necessario costruire due strutture, semplici tettoie in legno, nei villaggio di Vanduzi e Guru, dove tenere la maggior parte degli incontri di formazione, e utilizzate anche

per organizzare incontri per sensibilizzare le persone alla comunità.

Per sviluppare e diffondere la formazione, è stato organizzato un corso per formatori locali in agricoltura organica e rigenerativa. L’idea di fondo è un’agricoltura che prenda in considerazione non solo la dimensione produttiva, pure importante, ma anche quella ecologica e socio-culturale. L’obiettivo è migliorare l’efficienza biologica e produttiva dell’ecosistema locale, la conservazione della biodiversità, anche attraverso lo sfruttamento delle conoscenze locali.

Il personale così formato è a sua volta impiegato nel trasferimento delle conoscenze teorico-pratiche a tecnici locali che formano i membri dei gruppi di auto-aiuto. Il monitoraggio del progetto ha permesso di constatare i buoni risultati ottenuti e di raccogliere le due storie che vi abbiamo raccontato.

MONGOLIA: SOPRAVVIVERE ALLO ZUD BIANCOMi chiamo Narantsetseg (Fiore del sole) e sono una

pastora. Abito con mio marito e tre figli nella zona tra la provincia dello Zavhan e dell’Uvs, nel nord ovest della Mongolia. Per raccontare la mia storia devo ritornare indietro con la memoria, all’inverno del 2010.

Quella mattina quando sono uscita dalla mia gher, non riuscivo ad aprire la porta di legno: aveva nevicato tutta la notte e la neve si era accumulata lì davanti. Non era stata una semplice nevicata, ma una tormenta durata giorni: noi la chiamiamo zud.

Ce ne sono di tipi diversi di zud, quello del freddo, quello del ghiaccio, il nostro è stato uno zud della neve, ma anche le temperature sono rimaste per giorni a 40 gradi sottozero. Quando finalmente sono uscita dalla gher e mi sono guardata attorno, ho capito che i nostri animali non ce l’avrebbero fatta a sopravvivere e, se loro non ce la facevano, anche noi non avremmo avuto da mangiare.

Alcune capre erano già morte per il freddo e le altre non avevano più un prato dove brucare l’erba; per via della neve non potevano più mangiare. Non siamo stati i soli della zona ad aver avuto questo problema, senza animali una famiglia di pastori non può sopravvivere.

Io ho avuto la fortuna di essere in contatto con una feldsher (un’infermiera nomade che si sposta con il cavallo, ndr) che lavora assieme a tante altre persone che a loro volta si occupano di salute.

Dei miei tre figli uno non ha mai camminato, nemmeno adesso che ha 15 anni e per via di questo figlio faccio parte anch’io di questo gruppo dove si parla dei problemi dei figli con disabilità, di salute, alimentazione e lavoro. Lì ho imparato che ai figli non bisogna dare solo carne e latte ma anche delle cose diverse che sono importanti per farli crescere bene, come le verdure e la frutta, prodotti che da noi sono rari per via del clima.

13Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

Fonte: Archivio fotografico di AIFO

DOSSIER

Ma adesso il nostro problema era più grave, non si trattava di scegliere cosa mangiare, non avevamo nemmeno più la carne. Sempre lì ho saputo che era possibile avere in prestito degli animali, farli riprodurre, vendere latte e lana e poi ridarli indietro tenendoci i capi in più. È quello che abbiamo fatto io e mio marito e siamo stati bravi nel farlo; ora abbiamo di nuovo le nostre capre, adesso posso anche pensare a dare delle verdure ai miei figli.

Aifo è presente in Mongolia da 24 anni ed è stata la prima Ong italiana ad arrivare là dopo la fine del comunismo. “Promozione dell’autosufficienza economica delle famiglie nomadi con presenza di persone con disabilità in Mongolia” è il Progetto finanziato dalla Fondazione Prosolidar (Solidarietà da Lavoratori e Aziende del Settore Credito) e con il contributo dell’Unione Europea. Questo progetto aiuta economicamente le famiglie di pastori grazie ad un prestito di bestiame che viene restituito dopo un certo periodo. Le famiglie vengono inserite in una

rete di riabilitazione su base comunitaria, dove si promuovono anche le buone prassi per una corretta alimentazione.

In questo grande e poco popoloso paese centroasiatico l’eliminazione della fame sta facendo dei progressi; nel 1999 il 38% della popolazione era sottoalimentato, nel 2012 la percentuale era scesa al 24%, quasi un quarto della popolazione, un dato comunque preoccupante. La fame in Mongolia è dovuta non solo alla povertà ma anche a un clima poco clemente. Le temperature sono sottozero per nove mesi l’anno, con punte in cui si scende sotto i 50 gradi. In particolare il paese è soggetto alle tormente di neve o ghiaccio (gli zud) che possono uccidere gli animali dei pastori nomadi che rappresentano ancora un quarto della popolazione. Un’altra causa della malnutrizione è dovuta alla particolare dieta, basata per lo più sulla carne, che priva i bambini dei micronutrienti (sali minerali e vitamine) essenziali per il loro sviluppo fisico e mentale. ■

Fonte: Archivio fotografico di AIFO

DOSSIER

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Dalle Lettere alla redazione emergono le grandi preoccupazioni del nostro tempo. Cerchiamo di dare strumenti per comprenderle. Non sempre è facile, a questo serve il dialogo con i lettori

di Luciano Ardesi

Un musulmano, mio fratello?

Quando abbiamo iniziato a pubblicare la nuova veste editoriale di Amici di Follereau, abbiamo messo a disposizione dei lettori un indirizzo

di posta elettronica cui inviare le lettere alla redazione ([email protected]).

Ne sono arrivate diverse su questioni puntuali, anche con segnalazioni di errori, e di questo non possiamo che essere grati ai nostri lettori che sono più attenti di noi nel rivedere i testi degli autori.

Altre hanno sollevato questioni di grande interesse, legate all’attualità, e abbiamo deciso di ospitarle nelle nostre pagine della Cultura. Perché? Abbiamo ritenuto che alla base di quelle questioni ci fosse un problema di fondo, vale a dire il modo in cui la rivista si è posta per fare informazione, per consentire di comprenderle, per fare “cultura” appunto.

L’islam, il terrorismo, la pace sono problemi che, tra i tanti che AdF ha voluto affrontare, hanno suscitato più di altri la reazione dei lettori. Ciò non stupisce perché sono anche quelli di grande attualità che sollevano nell’opinione pubblica, nei mezzi di comunicazione, un vivace dibattito, in cui peraltro non è sempre facile orientarsi.

Anche per questo motivo li abbiamo proposti, per capirli meglio.

La violenza in nome di DioElena di Torino è rimasta sconvolta dal modo di

nascondere “la realtà dell’islamismo”, e si scandalizza che una teologa musulmana possa chiamare il Corano “libro divino”. Su questo punto la risposta è semplice: il credente di ciascuna religione ritiene che il Libro che ha ispirato la propria fede sia “divino” o comunque “sacro”, e non c’è altra possibilità che rispettare la fede degli altri, restando fermi nella fede propria. Il dialogo tra le religioni serve proprio a questo: conoscersi, capirsi, rispettarsi, ma restando nella propria fede, come aveva fatto notare Benedetto XVI col famoso, ancorché contestato, discorso di Ratisbona.

Quanto alla realtà dell’islamismo, è proprio per far emergere la sua natura che abbiamo più volte parlato di islam. Quest’ultimo è una religione, l’islamismo è l’uso politico dell’islam, che con questa religione non ha nulla a che fare, anche se chi se ne serve pretende di interpretarne i “veri” precetti. È un’operazione strumentale che tocca non solo l’islam, ma anche altre religioni, cristianesimo Fonte: Archivio fotografico di AIFO

Fonte: shutterstock.com

Cultura

15Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

Cara redazione di Amici di Follereau

Cultura

compreso. Per fare maggiore chiarezza ospiteremo nel prossimo numero un articolo sulla violenza in nome di Dio, ispirato da padre Kizito Sesana, missionario comboniano.

Mai chiamerò “fratello” un musulmano, scrive ancora Elena. Ma Gesù Cristo è morto e risorto affinché tutti si possano ritrovare sorelle e fratelli. Non mettiamolo in un piccolo recinto a nostro esclusivo servizio. Lo sa Elena che alcune chiese di paesi musulmani dove i cristiani sono una infima minoranza sono frequentate, al di fuori delle celebrazioni eucaristiche, quasi esclusivamente da musulmani? Anzi da musulmane, poiché sono le donne musulmane che vanno a invocare, e ad accendere le candele, a Meriem, Maria che il Corano cita frequentemente e di cui parla con grande rispetto.

Come chiamare un terrorista?Non è vero che i terroristi islamici siano un’infima

minoranza, non riuscirebbero a fare tutti quei disastri! dice convinta Elena, ed Ennio, anche lui da Torino, si chiede come sia possibile che AdF li possa considerare “persone”.

La forza del terrorismo è, purtroppo, questa: un singolo individuo, o piccoli gruppi possono fare danni enormi. Lo abbiamo sperimentato nel nostro paese nella stagione del terrorismo, di qualunque colore si fosse mascherato.

Ma un terrorista, o colui che si fosse macchiato di crimini contro l’umanità, rimane una “persona”, e questo non per “garantismo sfrenato”, ma perché proprio come “persona” è chiamato a rispondere, e a pagare, per i suoi crimini. Troppo comodo non considerare “persone” i criminali, li avremmo già in parte assolti considerandoli estranei a noi. E invece i criminali, e i terroristi sono in mezzo a noi, siamo noi a portarli al potere (Hitler ci ha insegnato anche questo), siamo noi - voglio dire alcuni governi, alcuni apparati - ad armare e finanziare i terroristi (da Bin Laden al cosiddetto Califfato, come la storia recente ci ha rivelato).

Come usare le bandiere della pace?E dopo tanto terrore e tante guerre, abbiamo cercato

di dare spazio anche alla pace. A Massimo non piace l’esibizione delle bandiere arcobaleno e lo spazio che abbiamo dato all’Arena di pace di un anno fa. Quell’arcobaleno è servito troppo spesso, secondo Massimo, a contrastare i comizi dei leader del centrodestra e a sostenere quelli del centrosinistra. Per quale motivo un’organizzazione “benefica” come Aifo dovrebbe mai occuparsi di cose politiche?

Senza entrare nel merito di che cosa sia politica e cosa non lo sia, ricordiamo che il nostro fondatore Raoul Follereau non ha mai smesso di gridare alla politica, anzi ai grandi della politica, americani e sovietici, di smettere di farsi la guerra, di rinunciare per un giorno, o privandosi di un bombardiere ciascuno, alle enormi spese per mantenere il mondo sotto la continua minaccia della distruzione totale. Gli scenari sono cambiati (la minaccia nucleare c’è ancora, però), ma le guerre continuano. Come dice papa Francesco, siamo di fronte a una Terza guerra mondiale a pezzetti. La pace richiede impegno, e le bandiere non bastano. Delle bandiere della pace, come di tutte le bandiere, si possono fare usi buoni e meno buoni, l’importante è credere ed agire per la pace. ■

Fonte: fanpage.it

Fonte: ilmoralista.it

Fonte: vice.com

16 Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

Alla frontiera tra Turchia e Siria, la resistenza kurda contro lo Stato islamico, di cui Kobane e diventata il simbolo,

sperimenta nuove forme di autorganizzazione popolare

di Giovanni Vassallo

In VIAGGIo VerSo KobAne

Sono cresciuto con l’immaginario del guerrigliero. Ragazzi con le scarpe sfondate e l’AK47 a tracolla, contadini che preferivano morire ammazzati, ma

come uomini, piuttosto che di dissenteria, di tifo, di disperazione, come bestie.

Oppure studenti che sentivano bruciare nella loro stessa carne l’ingiustizia fatta ad un altro e non avevano altra scelta che combatterla. Li ho conosciuti in Nicaragua, in Salvador, li ho sentiti raccontare i loro sogni e le loro speranze.

Poi, ed è stata una fortuna, nelle rivolte la parola è passata alla politica, alle manifestazioni di piazza. La prima Intifada, l’insurrezione in Chiapas son stati momenti in cui lo scontro violento era del tutto simbolico (pietre contro carri armati, guerriglieri che invece di combattere organizzano riunioni “intergalattiche” in uno dei posti più isolati del mondo, la Selva Lacandona).

Fino a far dire a quelli di Otpor (che hanno rovesciato il regime del dittatore serbo Milosevic) che l’unico confronto che un movimento popolare può perdere contro

un governo autoritario è proprio quello armato.

LA reSISTenZA DI KobAneMa la cronaca di questi mesi ci ha riproposto le

immagini dei giovani con il fucile che combattono per una causa giusta. I ragazzi e soprattutto le ragazze di Kobane, la città dove i kurdi della Rojava, il Kurdistan occidentale in territorio siriano, hanno fermato i fanatici dello Stato islamico, i guerrieri del Califfato nero, che fino ad allora sembravano invincibili. Dovevo andare a vedere.

Così sono partito a marzo insieme ad altri 70 italiani della rete Rojava Calling per Saliurfa, la città in territorio turco di fronte a Kobane, la città del nord della Siria alla frontiera con la Turchia. Questo è il racconto della nostra visita sul posto, di quello che abbiamo sentito e imparato dai profughi e dai reduci di quella battaglia, dei nostri tentativi, falliti, di entrare nella città liberata, ma distrutta.

I 44 milioni di kurdi sono divisi fra quattro stati, Turchia, Siria, Iraq e Iran. I kurdi turchi e siriani sono stati vittime nel recente passato dei durissimi nazionalismi kemalista e

Fonte:Giovanni Vassallo

Reportage

17Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

Reportage

baathista. La loro resistenza è stata organizzata dal Pkk, un partito marxista che ha via via rivisto le sue posizioni, privilegiando la lotta politica rispetto a quella armata (che ha praticato senza mai cadere nel terrorismo) e abbandonando la richiesta di uno stato indipendente per quella di una larga autonomia (all’interno dei due stati nazionali) di territori retti con il sistema del confederalismo democratico.

I CAMPI ProFUGHII profughi di Kobane li incontriamo a Suruç, cittadina

sulla frontiera, abitata e amministrata da kurdi. I campi profughi sono gestiti dalla municipalità che si fa in quattro per i fratelli di oltrefrontiera. Le tende sono montate su basamenti isolanti, acqua e luce sono garantite, come scuola e assistenza medica. Senza prendere un soldo dal governo. Si cerca di riprodurre nei campi lo schema del confederalismo democratico, si decide tutto riunendosi in assemblea, per file di tende o tutti assieme, se è il caso. In ogni campo c’è la casa delle donne, perché il confederalismo democratico ha tra i suoi obiettivi la loro valorizzazione e ci credono davvero.

Facciamo un bel po’ di scoperte molto gradite, la prima è che i campi, a soli due mesi dalla liberazione di Kobane sono già vuoti per la metà. Questa gente caparbia preferisce prendere la tenda e montarsela vicino alla vecchia casa distrutta, cominciando subito a ricostruire. Il punto è che nella città martoriata manca tutto: luce , acqua, fognature. In compenso è piena di mine e di proiettili inesplosi. Bisognerebbe aprire un corridoio umanitario per far arrivare gli aiuti e il materiale da costruzione, per far intervenire gli sminatori, ma la Turchia (a cui non pareva neanche vero avere qualcuno che gli eliminasse il problema di una minoranza riottosa) non autorizza.

La seconda scoperta è che questi kurdi sembrano fatti apposta per smentire i nostri più radicati pregiudizi sulle popolazioni islamiche. Ci lamentiamo che in Medio Oriente non c’è democrazia e loro tirano fuori un sistema dove la popolazione si autorganizza e decide in assemblee di livello crescente, dal quartiere al cantone. A quelle di livello inferiore partecipano tutti, a quelle di livello superiore rappresentati eletti per l’occasione, senza distinzione di etnia e religione, perché in Rojava i kurdi sono il 40 % e il resto è un mosaico di micro comunità.

Un MoSAICo CHe SI rICoMPoneCi sono arabi, ceceni, turcomanni, yezidi, ci sono pure gli

assiri che io credevo fossero rimasti solo nei libri di scuola delle mie bambine. Qualcuno è musulmano, qualcuno è cristiano, qualcuno, come gli yezidi professa una religione gnostica, di quelle che andavano per la maggiore ai tempi di Cristo, ma non ha importanza. Qui siamo preoccupati della sorte dei cristiani e loro integrano questi e gli yezidi

nelle loro unità militari, con reparti autonomi, dandogli la possibilità di difendersi.

Il Califfato nero distrugge le biblioteche e i reperti del passato mesopotamico, loro trovano il tempo di farci visitare un antichissimo sito archeologico e le biblioteche le costruiscono in terra cruda nei villaggi, piene di libri e foto di ragazzi e ragazze morti in quella che loro considerano una lotta contro la barbarie e per l’umanità. E la condizione della donna? Aver creato unità di autodifesa femminile, le YPJ, è stata una svolta, le donne combattendo accanto agli uomini guadagnano ruolo sociale e sicurezza in se stesse. E se una di loro è ufficiale, i soldati maschi devono dire signorsì e sissignora. Anche nella vita quotidiana penso che un marito kurdo d’ora in poi ci penserà due volte prima di picchiare una moglie che è anche tiratore scelto.

I dirigenti che abbiamo incontrato sono stati molto onesti, sono consapevoli che il loro è tutto un work in progress e la guerra, se da una parte crea enormi problemi, dall’altra facilita l’unità tra diversi contro il nemico comune. Ma il poco che abbiamo visto è abbastanza per lasciarti una voglia matta di tornare, a vedere come procede l’esperimento degli unici che, nella zona, sono stati in grado di pensare una terza via tra dittatura e stato islamico. Arrivederci Rojava. ■

SIRIA

TURCHIAKOBANE

18 Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

Fonte: Procyk Radek/shutterstock.com

Attenzione alla luce e all’audio, sintesi e soprattutto avere un’idea chiara di quello che si vuole comunicare: ecco la ricetta per realizzare un buon video

Intervista a Elisa Mereghetti a cura di Nicola Rabbi

RaccontaRe con il video

Tra tutti gli strumenti di comunicazione che possiamo usare, quello audiovisivo sembra essere il più seducente. In una società basata

sull’informazione video, dove s’impara sempre di più “vedendo”, utilizzare una videocamera per raccontare quello che si sta facendo o per promuovere le proprie iniziative, sembra essere la scelta più efficace e facile da realizzare.

Sulla facilità d’uso degli strumenti audiovisivi per comunicare però bisogna andare cauti, perché se è vero che sono sempre più perfezionati e facili da usare, è anche vero che occorre avere una formazione di base, per evitare gli errori più comuni cui vanno incontro le persone con meno esperienza.

Come realizzare allora un buon video per la propria associazione, per il proprio gruppo? Ne abbiamo parlato con Elisa Mereghetti, regista e documentarista che ha diretto oltre 40 documentari, con particolare attenzione alle tematiche antropologiche, della condizione femminile e dello sviluppo nel Sud del mondo.

Cosa ti ha portato a occuparti di sviluppo e di tematiche sociali del sud del mondo?

Dal 1984 al 1989 ha lavorato presso la RAI Corporation di New York come produttrice e assistente alla regia,

quando sono tornata in Italia, ho cominciato a lavorare per le Ong e la prima è stata Aifo. Raccontare lo sviluppo attraverso i documentari, documentare i propri progetti con i video non era un’idea diffusa agli inizi degli anni ’90 e posso dire che Aifo è stata un’antesignana in questo settore.

In quegli anni abbiamo lavorato molto assieme, oltre agli spot per la Giornata mondiale dei malati di lebbra e altri video di tipo più istituzionale, abbiamo girato dei documentari sui progetti in Guyana, Brasile e Indonesia, dove abbiamo realizzato un lavoro dal titolo “Il mugnaio, il contabile e altre storie”, dove si parlava delle persone con disabilità dell’isola di Sulawesi e delle esperienze di riabilitazione su base comunitaria là realizzate.

Se si vuole realizzare un video, di quali strumenti si deve disporre?

Oggigiorno è possibile acquistare videocamere a basso prezzo e di buona qualità, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Poi oltre a una macchina per riprendere bisogna dotarsi di un programma per fare il montaggio video al computer. Anche di questi software ve ne sono diversi buoni e a un buon prezzo. Il problema fondamentale da affrontare non è economico ma tecnico: bisogna saperli usare o almeno avere un minimo di competenze tecniche.

Strumenti

19Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

Fonte: shutterstock.com

Strumenti

Quali sono gli errori cui si va incontro più di frequente e che cosa possiamo fare per evitarli?

Gli errori dipendono dal tipo di video che si vuole realizzare, ma se proprio vogliamo pensare a una serie di errori tipici durante le riprese il primo riguarda la luce. La luce è essenziale, un’immagine buia o dove la luce fa comunque un cattivo servizio, significa rovinare il nostro lavoro. Il problema della mancanza di luce si fa sentire più negli ambienti chiusi, in questo caso potremmo avere bisogno di faretti; adesso si possono acquistare quelli con le lampadine a led di cui puoi variare l’intensità. L’altro errore comune, di cui di solito si sottovaluta l’importanza, è l’audio. Anche se ho delle riprese video buone ma il parlato non si riesce a comprendere, il lavoro finale sarà di scarsa qualità; quindi bisogna avere una grande attenzione a dove si posiziona il microfono o dove si mette la videocamera se ha il microfono incorporato.

Se un volontario o un socio decide di realizzare un video su un evento che ha organizzato che consigli avresti da dargli?

Se immaginiamo di voler filmare un evento come una conferenza, un dibattito o una presentazione bisogna posizionare la videocamera non lontana dai relatori; è meglio avere dei piani più ravvicinati delle persone che parlano. Filmare un evento non è facile, perché è tutto un parlato, si rischia di avere alla fine un video noioso. Occorre allora sintetizzarlo, occorre lavorare sulla sintesi più che sulla documentazione e nel montaggio bisogna utilizzare le riprese fatte nell’ambiente circostante, dei dettagli che possono diventare interessanti o dei personaggi curiosi.

Se invece vogliamo realizzare un’intervista a una persona, o addirittura a un personaggio noto, allora dobbiamo riprendere il suo mezzo busto o anche un primo piano. Nel linguaggio delle immagini più si mette in primo piano una persona e più ci si avvicina a un discorso intimo, personale, comunque importante.

Filmare un evento significa anche programmare qualcosa prima o ci si può affidare al caso?

È sempre meglio pianificare ogni cosa, andare là un po’ preparati, non dico di scrivere una sceneggiatura ma avere ben chiaro cosa vogliamo comunicare. Il passo successivo è quello di decidere come comunicare il nostro tema. Vogliamo dare al tutto un senso di dinamismo? Allora possiamo raccontare un evento a partire dai soci Aifo che fin dalla mattina cominciano a organizzarsi, escono da casa, s’incontrano e allestiscono la sala. È solo un esempio, quello che importa è che come si pianifica l’organizzazione di un evento, così si dovrebbe anche pianificare la sua parte video. Occorre avere fantasia, invece di documentare l’evento, si può prendere spunto da esso per raccontare una storia, inventarsi qualcosa, fare finta di essere un giornalista

ad esempio: basandosi su questo modello narrativo si realizzerà un video simile a quelli realizzati nei telegiornali.

E a proposito della durata dei video che tempi ci dobbiamo dare?

Adesso i video passano tutti per il web e lì la gente non è disposta a vedere qualcosa che dura di più di qualche minuto. Noi dobbiamo regolarci di conseguenza, riuscire a rendere la nostra idea con dei filmati che stanno nei tre minuti. Anche questo però non può essere una regola generale, se vale per un video fatto su evento, magari può non valere se si intervista una persona che dice cose molto interessanti. Penso comunque che i filmati brevi siano più efficaci, dobbiamo riuscire a essere sintetici; se si vuole fare della documentazione, è meglio farla con documenti scritti, non con un video.

Ma siamo tutti video maker, come siamo tutti giornalisti grazie alla tecnologia digitale?

Tutti possono fare dei video, ma non da professionisti. In un ambito di volontariato e di associazionismo ci si può comunque organizzare, soprattutto grazie ai più giovani che sanno usare le tecnologie multimediali. Occorre coinvolgere i giovani nella comunicazione. Occorre coinvolgere i figli dei volontari per realizzare dei servizi video. ■

20 Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

Fonte: Nicola Rabbi

Un’esperienza teatrale in una scuola media di Arezzo per raccontare la vita del grande umanista francese e per sensibilizzare le nuove generazioni. Silenzio dai

media locali, ma un impegno arricchente per tutti

di Emma Patroni

ArrivA FollereAU!

Sono da anni in pensione, ma nel mese di gennaio continuo a frequentare la mia vecchia scuola Media Cesalpino di Arezzo, con la collega di Religione

Annarita Sinatti per sensibilizzare i ragazzi sui problemi dei Paesi in via di Sviluppo. Proietto fotografie sulla fame, la mancanza d’acqua, le baraccopoli, la scarsità di medici e medicine, il lavoro minorile. Poi parlo della lebbra e dell’attività di Aifo per combattere la povertà che è concausa della diffusione della malattia.

Quest’anno ho fatto leggere alla collega un testo teatrale che racconta l’attualità delle idee di Raul Follereau. Lei ne ha parlato in Consiglio di Classe e hanno deciso di far fare alla classe III C un’esperienza di teatro che abbiamo iniziato a produrre a novembre. Dopo un primo incontro con i ragazzi, abbiamo distribuito le fotocopie del copione e abbiamo cominciato a leggerlo; ogni ragazzo aveva la propria parte da studiare a memoria. Nei mesi di dicembre e gennaio ci siamo incontrati solo qualche volta per vedere se imparavano la propria parte, poi a febbraio abbiamo

cominciato le prove vere e proprie, sia in classe che in Aula magna, utilizzando ore di varie materie: Italiano, Storia, Spagnolo, Educazione artistica, Educazione musicale.

Man mano che si presentavano dei problemi pratici riguardanti la scenografia, le musiche, i costumi, abbiamo avuto l’aiuto di qualche insegnante. Roberto Valisi, il professore di Educazione artistica, ci ha costruito lo sfondo usando del cartone, realizzando in questo modo anche il frigorifero e i fornelli per la cucina, l’automobile di Follereau nel deserto, le palme dietro le quali si dovevano nascondere i lebbrosi. Enza Castagna, l’insegnante di Musica, si è occupata invece degli stacchi musicali tra una scena e l’altra. Finalmente il 3 marzo siamo andati in scena alla presenza di altre classi e di alcuni genitori degli “attori”.

Ascoltando il telegiornale“Arriva Follereau!”: è questo è il titolo dello spettacolo

che inizia mostrando una moderna famiglia italiana

Esperienze

21Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

Fonte: Google.com

Esperienze

I commentI deI ragazzIl giorno dopo la recita alcuni alunni hanno scritto i

seguenti pensieri: “E’ stato il momento più significativo dei tre anni di

scuola media perché abbiamo collaborato tutti insieme per raggiungere un obiettivo comune: la riuscita della recita. In quel momento ci siamo sentiti proprio come una vera classe, unita.”

“Ci siamo resi conto che per far funzionare bene le cose, ognuno ha bisogno dell’altro”.

“E’ stata un’opportunità per mettersi in gioco e abbiamo dimostrato che, con un po’ d’impegno, si ottengono molte cose”.

Una ragazza che si era personalmente impegnata in mercatini per la GML, ha scritto: “Questa recita mi ha fatto capire con quanto impegno e dedizione le persone di Aifo contribuiscono a portare avanti i loro progetti e ciò è stato per me un incipit per contribuire a questo scopo”.

22 Amici di Follereau N. 5 / maggio 2015 |

davanti alla tv durante l’orario di cena. Sentono parlare al telegiornale della Giornata Mondiale per i malati di Lebbra, del Papa che ha ricevuto in udienza i soci di Aifo e l’annuncio della consegna a una dottoressa indiana del Premio Raoul Follereau. Alla nonna, incuriosita da questo nome, risponde il figlio liceale che ne ha sentito parlare a scuola dall’insegnante di Geografia.

L’altro figlio undicenne ha invece studiato a scuola una poesia di Follereau che critica i quotidiani “pieni” di notizie, ma “vuoti” di contenuto, che danno molto spazio a notizie relative a delitti, scandali, curiosità, mentre relegano nelle ultime pagine o non ne scrivono affatto, argomenti ben più importanti, come la fame nel mondo e in generale i problemi dello sviluppo. La nonna chiede ai nipoti un libro su questo personaggio così interessante e, finita la cena, si mette in poltrona e comincia a leggere il libro che le ha portato il nipote diciassettenne.

Una storia tira l’altraDa questo momento si alternano brevi scene che

accennano ai principali fatti della vita di Follereau: dal primo incontro con i lebbrosi nel deserto africano, all’incontro con Madre Eugenia che cerca fondi per costruire un villaggio per i lebbrosi in Costa d’Avorio, alle numerose conferenze in tutta Europa per raccogliere i soldi necessari.

Quando si venne a conoscenza della costruzione del primo villaggio per lebbrosi ad Adzopé, arrivarono lettere da tutto il mondo per denunciare la presenza di ammalati non curati, rinchiusi o abbandonati. Così Follereau e la moglie iniziano i cinquanta giri del mondo che faranno per andare a cercarli in sperduti villaggi africani, indiani o brasiliani.

Nelle ultime due scene viene rappresentato un banchetto con i soci Aifo che raccolgono offerte in cambio di barattoli di miele durante la Giornata Mondiale per i malati di Lebbra, come avviene in tutta Italia nell’ultima domenica di gennaio. Tra i passanti c’è un insegnante che invita un volontario ad andare in classe per sensibilizzare i ragazzi ai problemi dei Paesi in via di sviluppo. La scena successiva mostra una classe di alunni intenti ad ascoltare una dottoressa indiana invitata come testimone.

l’attenzione dei mediaTerminato lo spettacolo, due ragazzi del Corso musicale

hanno suonato brani di Beethoven e di Clementi al pianoforte, come stacco prima della Premiazione ufficiale degli alunni che l’anno scorso hanno partecipato al Concorso scolastico di Aifo, arrivando terzi e sesti a livello nazionale. La mattinata è terminata con un ensemble di 5 flauti su un brano di Giacomo Carissimi.

L’eco che il nostro spettacolo ha avuto sui mass media locali ha dato conferma della critica fatta da Follereau ai mezzi di informazione. Dell’articolo che avevamo portato a un giornale locale sul nostro impegno per coinvolgere i ragazzi nell’attività dell’Aifo, sensibilizzandoli alla solidarietà, non è stata pubblicata neppure una riga, mentre c’era una pagina intera su un fatto di cronaca nera di cui si parlava da mesi. ■

Amici di FollereauMensile per i diritti degli ultimi, dell’Associazione Italiana

Amici di Raoul Follereau (Aifo)Via Borselli 4-6 – 40135 Bologna

Tel. 051 4393211 – Fax 051 [email protected]

Lettere alla Redazione: [email protected] www.aifo.it

Direttore ResponsabileMons. Antonio Riboldi

DirettoreAnna Maria Pisano

RedazioneLuciano Ardesi (Caporedattore), Nicola Rabbi

Progetto Grafico e Impaginazione Swan&Koi srl

Hanno collaborato a questo numeroFranco Barigozzi, Deolinda Bitencourt, Anna Contessini, Tuki

Damdimsuren, Saverio Grillone, Paulo Hansine, Elisa Mereghetti, Emma Patroni, Anna Maria Pisano, Lidia Maria Riba, Giovanni Vassallo

Fotografie Anna Contessini, Simona Del Re, Giovanni Gazzoli, Giovanni Vassallo,

Procyk Radek, Per la copertina: Grethel Gianotti, Carlo CeriniAbbonamenti - Amici di Follereau

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