Delitto al Passo Zovo

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Graziella Canapei, giallo

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Graziella Canapei

DELITTO AL PASSO ZOVO

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DELITTO AL PASSO ZOVO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Graziella Canapei ISBN: 978-88-6307-377-5

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Luglio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Ai miei preziosi sostenitori: Almireno, Michela

e Filippo.

Con affetto.

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Parte Prima

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Spesso, per timore di essere scherniti, perdiamo il coraggio di narrare

le cose straordinarie che ci accadono. Passo dello Zovo, 22 dicembre 2009 La mano gli era sbucata davanti all’improvviso fra le foglie bagnate e ormai marce a causa delle abbondanti piogge dei mesi di ottobre e no-vembre. Il guardiacaccia pensò a un pezzo di manichino; del resto in quella zona, pur se isolata, non era infrequente che venissero abbando-nati rifiuti di ogni genere, anche se, a dire il vero, un manichino non gli era mai capitato di trovarlo. Con lo scarpone smosse il fogliame leg-germente ricoperto di brina, scoprendo un braccio nudo, sporco di terra. Si accovacciò per vedere meglio. Caspita, li fanno che sembrano veri, borbottò fra sé. Poi notò alcuni peli, in mezzo ai quali correvano delle formiche e altri minuscoli insetti. «Accidenti – esclamò – ma questo è un cadavere». Raccolse un ramo secco da terra e usandolo come ramazza cominciò ad allontanare quanto copriva il braccio. Dopo qualche istante si fermò, ansimante. Cosa sto facendo? Pensò. Nei film americani direbbero che sto inquinando la scena del crimine. Devo lasciare tutto com’è. Il guardiacaccia buttò lontano il ramo, che rotolò sparendo in un picco-lo avvallamento fra le radici di un albero, e si guardò intorno. Gli era venuta una certa paura. Non era detto che chi aveva commesso quel crimine non si trovasse ancora lì vicino. Scrutò a lungo in lonta-

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nanza, senza però vedere nessuno. Attorno a lui c’erano solamente al-beri spogli. Poi udì il verso di un gracchio sulla cima della collina so-prastante. A parte quell’uccello il bosco pareva completamente deserto, e questa constatazione lo tranquillizzò un poco. Quel mattino, sia per farsi una passeggiata che per scrupolo, aveva de-ciso di controllare se fosse vera una segnalazione che aveva avuto da un suo informatore. Si trattava di un ex cacciatore, di nome Silvio, una specie di convertito alla non violenza nei confronti di tutte le creature. Lo aveva chiamato al telefono una sera per avvisarlo che lungo quel sentiero, più o meno a mezza costa, qualcuno aveva posizionato dei lacci d’acciaio per catturare i caprioli. Lui odiava quei sistemi, non tanto perché fuorilegge ma perché procu-ravano una morte terribile ai malcapitati animali. Si era alzato che era ancora buio e aveva camminato più di un’ora per raggiungere quel posto senza essere visto, pensando che, ammesso che i lacci ci fossero davvero, avrebbe avuto maggiori possibilità di sorpren-dere i bracconieri con le mani nel sacco. Secondo la sua esperienza, tut-te le mattine prima del sorgere del sole, quei criminali passavano a con-trollare le loro odiose trappole. Sua moglie si era lamentata. Stai a casa, mancano tre giorni a Natale, gli aveva detto quando la piccola sveglia sul comodino aveva suonato. Lui era stato per un attimo incerto, ma poi il ricordo di una povera ca-priola trovata strozzata un mese prima nella sua zona di sorveglianza lo aveva fatto scendere dal letto. Inoltre, se non avesse fatto quella verifi-ca, il suo informatore avrebbe potuto risentirsi e non chiamarlo più. L’ultimo buon motivo per alzarsi era stato che niente gli dava più sod-disfazione di beccare in flagrante un bracconiere e multarlo, anche se, per come la vedeva lui, la multa per certi reati era troppo poco; assolu-tamente sproporzionata al danno ambientale e alla sofferenza cui erano sottoposti gli animali prima di morire. Se avesse potuto, per certi reati avrebbe applicato la legge del taglione: occhio per occhio eccetera, ma non era consentito, così doveva accontentarsi di compilare un verbale. Lungo il sentiero, in mezzo a una leggera nebbia che saliva dalla valle, non aveva trovato lacci neanche dopo aver superato di molto il posto indicatogli. Decise, ormai che c’era, di salire fino alla cima della tozza collina. Non si poteva mai sapere, magari le trappole erano state sposta-te più avanti… Proseguendo aveva raggiunto quella radura dove una mano irrigidita dal gelo gli era apparsa fra le foglie cadute.

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Aveva il fiatone, più per l’agitazione conseguente al macabro ritrova-mento che per la salita a piedi. Dalla bocca gli uscivano nuvole di vapo-re. Prese la radio e chiamò il suo collega di zona. Sapeva che sarebbe stato più sensato chiamare subito i carabinieri o la polizia, ma voleva condividere prima con il suo compagno quanto gli era accaduto. Il suo collega aveva la radio spenta. Certo, a quell’ora forse ancora dormiva. A quel punto digitò sul cellulare il 113. Il piantone della caserma dei carabinieri rispose alla prima telefonata di quel giorno di dicembre. Fuori aveva cominciato a nevicare. Prima che il telefono squillasse aveva trascorso una decina di minuti a fissare i fiocchi che cadevano sui lampioni impolverati accanto al cancello d’ingresso. Il comandante, un mese prima, aveva dato ordine che qual-cuno pulisse ma, siccome non aveva specificato chi dovesse essere quel qualcuno, nessuno si sentì in dovere di farlo. Del resto a nessuno in ca-serma piaceva fare le pulizie. Adesso la neve avrebbe coperto la sporci-zia e magari poi, sciogliendosi, avrebbe lavato via tutta quella polvere. La caserma di Valdagno si trovava in una laterale della strada provin-ciale che collega Montecchio Maggiore a Recoaro, cittadina termale all’estremo nord della provincia di Vicenza. Si trattava di un edificio di costruzione recente, pitturato con un bel colore rosso mattone, vanto dell’intera vallata dell’Agno. Pochi mesi prima, davanti alla caserma, era stata posta una lapide in memoria di un giovane carabiniere ucciso verso la fine della guerra. Il carabiniere che guardava la neve, anche lui giovane, si era commosso nel corso della cerimonia cui avevano partecipato molti ufficiali in alta uniforme e i sindaci dei comuni limitrofi con tanto di fascia tricolore. Quando la banda aveva intonato l’inno di Mameli, preceduto da alcuni squilli di tromba, si era sentito un nodo in gola pensando a quel ragazzo morto sessant’anni prima. Il telefono lo aveva scosso da quella specie di rapimento in cui era ca-duto fissando la neve che cadeva oltre i vetri. Una voce rauca, agitata, aveva detto di aver trovato un corpo, anzi no, un braccio, in un bosco verso lo Zovo. Il tizio al telefono si era presentato come guardia pro-vinciale, e aveva dato le sue generalità. Un braccio? Aveva chiesto il piantone. Forse c’è l’intero corpo sotto terra, venite a vedere voi, io non ho toccato nulla, s’era affrettato a rispondere.

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Il giovane carabiniere chiuse la conversazione e chiamò immediata-mente il Capitano. Era ancora presto, ma sapeva che il comandante te-neva sempre acceso il suo cellulare per eventuali emergenze. In realtà accadeva raramente che ci fosse bisogno di chiamarlo fuori dall’orario di servizio. A lui, da quando era lì alla caserma di Valdagno, due anni circa, (era arrivato nello stesso mese del Capitano), non era mai succes-so di doverlo disturbare, ma questa pareva proprio una emergenza; an-che se era vero che se qualcuno era realmente morto, nemmeno il Capi-tano con la miglior buona volontà avrebbe potuto ridargli la vita… Sulla strada dello Zovo c’era un leggero strato di neve immacolata. Nessuna automobile era passata di lì, almeno non nell’ultima mezz’ora. Normalmente al mattino, il valico che collega le valli del Leogra e dell’Agno, era percorso dagli abitanti di Schio che lavoravano nella cit-tadina attraversata dal torrente Agno, da cui il nome Valdagno e, nel senso opposto, dagli abitanti di Valdagno che invece lavoravano nell’altra valle, quella di Schio. Spesso questi automobilisti incrocian-dosi tutte le mattine alla medesima ora in uno o l’altro dei tornanti, fi-nivano per conoscersi di vista, e dopo alcune settimane o qualche mese cominciavano a salutarsi con un cenno della mano o della testa. A tutte quelle persone era venuto almeno una volta il pensiero dell’assurdità di quello spostarsi da una valle all’altra. Non sarebbe sta-to meglio per gli abitanti di Valdagno e di Schio lavorare ognuno nella propria valle? Ci sarebbe stato meno traffico, meno inquinamento do-vuto allo scarico delle automobili, meno costi… Comunque, negli ultimi anni, il traffico lungo quella strada tortuosa era parecchio diminuito, esattamente da quando era stato aperto un tunnel che collegava le due cittadine. Nelle due valli ne parlavano da alcuni decenni. Nessuno aveva capito bene se a farlo sarebbe stata la Regione Veneto, una ditta privata, una società per azioni, i due comuni interessati, o tutti questi soggetti messi insieme; comunque fosse ad un certo punto era stato chiaro, sia ai val-dagnesi che agli scledensi, che c’era la ferma intenzione – non si sapeva da parte di chi – di realizzare un traforo per collegare rapidamente i pa-esi delle due vallate. A questa presa di coscienza dei cittadini era però seguito il nulla. Poi, ad un certo punto, quando ormai nessuno più ci credeva, erano iniziati i lavori.

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La montagna era stata scavata – qualcuno disse deflorata – e una como-da strada aveva cominciato a collegare Schio a Valdagno in meno di dieci minuti; una distanza che invece per il passo dello Zovo richiedeva almeno una mezz’oretta, soprattutto d’inverno. Quel mattino, a motivo della neve, nessuno si era ancora avventurato su quella strada. Evidentemente i lavoratori avevano preferito il tunnel che, pur avendo il difetto di essere a pagamento, consentiva di raggiun-gere in sicurezza il posto di lavoro. Il guardiacaccia aveva dato appuntamento ai carabinieri all’unico bar che stava sul passo, non era possibile che si sbagliassero. Mentre cam-minava infreddolito si pregustava il sapore di un buon caffè corretto grappa, ma ebbe la delusione di trovare il bar chiuso per riposo settima-nale. Per una ventina di minuti era rimasto là, nel bosco, accanto a quel brac-cio che con un dito sembrava indicare il cielo. Non avrebbe voluto la-sciare quel luogo, per un motivo piuttosto stupido in fondo. Semplice-mente si era ricordato di un film che aveva visto molto tempo prima, lui era ancora studente, dove ad un certo punto un tizio che aveva trovato un cadavere si allontanava per chiamare la polizia e al suo ritorno il corpo era scomparso, tanto che poi i poliziotti l’avevano preso per mat-to e quasi lo arrestavano. Prima, quando aveva chiamato, aveva lasciato il suo numero di cellulare al carabiniere che gli aveva risposto, il quale dopo un poco l’aveva contattato invitandolo a spostarsi dal bosco, a mettersi in bella vista, così da poter essere facilmente individuato dalla volante che sarebbe arrivata appena possibile. Come avrebbero potuto vederlo se lui se ne stava fra gli alberi? O trovarlo con le poche indica-zioni che poteva dargli? Aveva allora pensato che il luogo più adatto per l’appuntamento, perché sulla strada, era il passo dello Zovo. Così, un po’ a malincuore, si era incamminato con la neve che aveva comin-ciato a cadere. Fatti pochi passi tornò indietro. E se poi non fosse più riuscito a individuare il luogo a motivo della neve? Quindi aveva preso un grosso ramo caduto e ci aveva messo sopra il suo kway rosso, quello che usava per ripararsi dalla pioggia quando non era in servizio e che per qualche motivo era nella sua tasca dei pantaloni, così ben impac-chettato che subito neanche aveva capito cosa fosse. Doveva essere sta-ta sua moglie a infilarglielo, quando si era alzata per andare in bagno, perché nella medesima tasca trovò anche una barretta di cioccolato al latte, il suo preferito.

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Prima di allontanarsi aveva osservato di nuovo a lungo quella mano nu-da. Si ricordò di una poesia che cominciava con “L’albero a cui tendevi la pargoletta mano…”. Ecco, quella mano tendeva verso i rami di un grosso carpine spoglio. Certo non era proprio la mano di un bambino, ma era comunque una mano giovane, da ragazzo. E poi, ecco cosa gli ricordava quella posa delle dita, la mano di Dio nella volta della cappel-la Sistina, così almeno l’aveva vista nei libri e in televisione. Sulla ma-no che usciva dal fogliame fradicio avevano cominciato a posarsi i pri-mi fiocchi di neve. Provò una specie di pena per quell’estremità del corpo che pareva spuntare dalla terra come un germoglio di asparago selvatico, e quasi ebbe voglia di coprirla, di modo che non si bagnasse e non sentisse freddo. Si rese conto di non essere perfettamente in sé. Anche quando trovava degli animali morti provava una sensazione si-mile. Si ficcò tutta la tavoletta di cioccolato in bocca e si avviò a passi svelti verso il posto dove l’avrebbero raggiunto i carabinieri.

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2 Quando il Capitano dei carabinieri della stazione di Valdagno arrivò al passo Zovo erano le sette e trenta. Il comandante era stato molto sorpre-so, quasi incredulo, quando il giovane carabiniere di guardia l’aveva chiamato per dirgli che un guardiacaccia aveva trovato un cadavere in un bosco della zona. In quella valle, da quando c’era lui, non si era mai verificato nulla di simile. La delinquenza non era molta e si limitava a qualche furto nelle abitazioni e nei negozi. Poi c’erano le beghe fra vi-cini per le solite questioni dei confini delle proprietà, e le denunce per rumori molesti, soprattutto di chi abitava in prossimità di un paio di lo-cali che chiudevano tardi la sera. In tre o quattro occasioni aveva pizzi-cato piccoli spacciatori, niente di più. Un cadavere in un bosco era una cosa eccezionale. L’unico che aveva visto in quei due anni era quello di una anziana che si era impiccata a un ciliegio con una tenda da sole. Se non si fosse trattato di una tragedia la scena avrebbe potuto anche essere comica: in mezzo agli alberi di un frutteto, a motivo dei colori sgargianti della tenda, il corpo della donna sembrava uno spaventapasseri. Mentre saliva in auto verso il passo, a fianco del Brigadiere che guida-va, il Capitano pensava alla segnalazione ricevuta il giorno prima. In caserma, verso sera, era venuta una coppia; i due, entrambi sulla cin-quantina, avevano riferito che il loro figlio, uno studente di sedici anni di nome Sebastiano Boldrini, non era tornato a casa la sera precedente. Era la prima volta che il ragazzo non tornava a dormire. Loro si erano accorti della sua assenza solo il mattino successivo quando, verso le dieci, la madre era entrata nella sua camera e aveva trovato il letto intat-to. Il figlio aveva detto che sarebbe rincasato più tardi del solito, e loro si erano coricati tranquilli verso le ventitre. Il giorno prima, al mattino era stato a scuola e nel pomeriggio si era fermato a una festicciola in classe, quasi una tradizione prima delle vacanze natalizie. Il ragazzo

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frequentava l’Istituto Tecnico locale. Gli amici, contattati dai genitori, avevano asserito di non averlo visto e i compagni di classe più due in-segnanti avevano spiegato che il giovane se n’era andato via un po’ prima che la festa terminasse dicendo che non stava molto bene. Da quel momento nessuno aveva sue notizie. Con i genitori accanto, che col passare delle ore da preoccupati erano diventati disperati, il capitano aveva telefonato al vicino ospedale. Era venuto per caso un ragazzo, un metro e ottanta, piuttosto magro, con i capelli castani? Qualcuno lo aveva visto? Al pronto soccorso, il pome-riggio della scomparsa, avevano avuto cinque richieste di intervento: un incidente d’auto (una coppia di cui lei con il colpo di frusta), un taglio con sega circolare a una mano, una lipotimia, una bambina con febbre alta, una scheggia in un occhio, ma nessun ragazzo che corrispondesse alla descrizione, e così nemmeno la notte seguente. Poi lui aveva rivolto le solite domande ai genitori: aveva litigato in ca-sa? Poteva essersi allontanato volontariamente? Aveva una ragazza? Lo avevano chiamato al cellulare? Sì, avevano tentato almeno una decina di volte fino a quando il figlio più giovane, un bambino di dieci anni, si era accorto che il cellulare del fratello era vicino al letto sotto carica, spento. Quando l’avevano chiamato il suo pensiero era andato immediatamente al ragazzo scomparso. Sperava di sbagliarsi ma per esperienza sapeva che quasi sempre due più due fa quattro. Chi lo avrebbe detto ai genito-ri? Il carabiniere aveva prestato servizio per quasi dieci anni in un grosso comune vicino a Milano, ed era capitato in quella valle che non riusciva ad amare a causa di suo figlio di otto anni. Il piccolo soffriva di un’infinità di allergie, sembrava intollerante al mondo intero. Uno specialista, il quinto che assieme alla moglie aveva interpellato, gli aveva suggerito di cambiare ambiente. Secondo lui, un clima diverso, in una zona collinare, avrebbe giovato al bambino. Così aveva chiesto il trasferimento, ed era capitato in quella valle che a lui sembrava dimenticata da Dio. In realtà avrebbe dovuto essere aggregato alla stazione di Recoaro ma alla fine, chissà per quale motivo, lo ave-vano dirottato più in giù, a Valdagno. Per il figlio, Recoaro sarebbe sta-to meglio, più vicino alle montagne, meno graminacee, clima più fre-sco, ma la famiglia si era dovuta accontentare di quel comune dieci chi-lometri più a sud.

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A Valdagno aveva cercato un’abitazione in periferia e dopo vari ten-tennamenti di sua moglie, erano andati in affitto in una casa un po’ vec-chiotta verso una frazione di nome Castelvecchio. In quella valle si sentiva come in fondo a un imbuto. A volte, quando saliva a Recoaro, gli pareva di essere incastrato fra i monti, oltre i quali c’era il Trentino. Il figlio aveva avuto un sorprendente miglioramento, e di questo era na-turalmente molto felice, ma restava il fatto che lui, professionalmente parlando, era più soddisfatto in quella stazione lombarda dove stava prima. In quei paesi succedeva di tutto, al contrario di lì… A Milano era rimasto coinvolto anche in un conflitto a fuoco; classica rapina in banca cui erano seguite delle rivoltellate. Lui, ferito a una gamba, steso a terra a fianco dell’auto dei rapinatori, aveva esploso al-cuni colpi che avevano colpito, per fortuna non gravemente, i due ba-lordi mezzo drogati autori della rapina che continuavano a sparare alla cieca. Con un elicottero era stato portato in ospedale dove gli avevano estratto un proiettile che, però, nella sua corsa, gli aveva spezzato la ti-bia. Per alcuni mesi aveva zoppicato, ma poi la gamba era guarita. Solo un duro callo osseo che poteva sentire facendo scorrere un dito sulla gamba gli ricordava quell’episodio; di solito accadeva quando faceva il bagno e stava completamente immerso nella vasca un poco arrugginita vicino alla piletta di scarico. Intanto erano giunti al Passo dello Zovo. Il Capitano notò sotto una tet-toia un uomo dalla corporatura robusta che indossava la divisa delle guardie provinciali. Era evidente che cercava di ripararsi dalla neve che in quel momento cadeva fitta. Prima di scendere dall’auto il Capitano indossò il berretto. Di solito se poteva restava senza, ma in quel frangente il copricapo aveva una in-dubbia utilità: almeno non si sarebbe bagnato i capelli! L’uomo lasciò il suo riparo di fortuna sotto la tettoia e si avvicinò alla volante. «Buongiorno, insomma si fa per dire» disse cercando di scherzare. «È lei che ha chiamato?» «Sì». «Sono il capitano Lorenzo Guidi» disse tendendogli una mano attraver-so il finestrino. «Piacere, mi chiamo Bruno Righi». «Dove si trova il corpo?»

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«A una quindicina di minuti da qui». «Possiamo andare in macchina?» «In macchina? È impossibile, è proprio in mezzo al bosco» rispose pen-sando: ma che cazzo di domanda mi fa, non vede dove siamo? «Allora lasciamo qui la macchina e la seguiamo» ordinò. Il brigadiere si girò nel piccolo piazzale e parcheggiò di modo da poter ripartire senza ulteriori manovre. Con la neve che continua a cadere è stata una buona idea, pensò il guardiacaccia. Gli venne in mente una barzelletta sui carabinieri, ma allontanò quel pensiero, c’era poco da ri-dere in quel momento… I tre uomini si incamminarono. Il Capitano Guidi osservò meglio il guardacaccia. Notò che aveva gli occhi chiarissimi, origini cimbriche pensò, come molti in quelle zone, quasi tutti anzi. Aveva qualche chilo di troppo intorno alla vita, però doveva essere forte come un toro. «Lei che ci faceva qui?» gli domandò. «Facevo il mio lavoro». «Così presto e con la neve?» lo incalzò. «Controllavo che non ci fossero lacci d’acciaio». «Di che lacci parla?» «Li mettono i bracconieri, per catturare i caprioli». «Ah, è vero» fece il carabiniere, ma era chiaro che non sapeva di cosa si trattasse. «E ne ha trovati?» «No, ma forse sono più su, verso la cima del colle. Poi ho trovato quella mano, e ho lasciato perdere tutto il resto». «Già, immagino». «All’inizio pensavo si trattasse di un manichino» spiegò. Il brigadiere che camminava dietro ai due intervenne: «Un manichino nel bosco?» «Non sia così sorpreso, ho trovato abbandonati nei boschi oggetti di ogni genere. Sarebbe più comodo portarli alla discarica invece per qualche stupido motivo a volte li abbandonano in zone disabitate». «Davvero? Non pensavo fosse così» disse stupito. Camminavano da una decina di minuti quando si udì uno scricchiolio seguito da un rumore secco. Il ramo di un albero si era spezzato. «Sono le robinie» spiegò il guardiacaccia, «hanno rami fragili, basta un po’ di neve e di vento per romperle, vengono dall’America, non è stata una buona idea portarle in questo continente».

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«Manca molto?» domandò il Capitano, per nulla interessato a quanto gli stava dicendo Bruno Righi. «No, solo cinque minuti». «Lei era venuto qui in seguito a qualche segnalazione?» «No, è stata una mia idea» mentì, pensando che se avesse detto la verità certamente il carabiniere avrebbe voluto sapere il nome del suo infor-matore. «Glielo chiedo perché, a volte, succede che chi ha commesso il crimine fa in modo che poi qualcun altro trovi il cadavere». «Ah!» Bruno pensò al suo cacciatore pentito. No, non era certo il tipo che fa fuori qualcuno. Un giorno gli aveva raccontato che quando in casa ron-zava un moscone, lui apriva la finestra e lo faceva uscire sventolando uno strofinaccio. E poi, comunque, non poteva rivelare il nome dei suoi informatori, nemmeno ai carabinieri. Se fosse corsa la voce che lui spif-ferava in giro le confidenze che riceveva e i loro nomi, nessuno si sa-rebbe più fidato a raccontargli nemmeno che una vacca aveva cacato in mezzo alla strada. Fra la neve intravide una macchia rossa. «Siamo arrivati» disse, soddisfatto fra sé per l’idea che aveva avuto di appendere il suo kway. «È suo quell’impermeabile?» chiese il Capitano. «Sì, l’ho messo per individuare il posto, pensando alla neve». I due carabinieri videro il braccio rivolto verso il cielo prima che il guardiacaccia glielo indicasse. «Uhm, naturalmente con la neve addio impronte, ammesso che ci fosse-ro» mormorò meditabondo Lorenzo Guidi. «Cerchiamo di tirarlo fuori?» chiese il Brigadiere. «No, facciamo fare questo lavoro a chi è pagato per farlo». Detto questo chiamò la caserma, per dare disposizioni in merito.

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3 Giulio Quadri si trovava nel Belize quando la suoneria del cellulare gli segnalò che aveva ricevuto un sms da un numero sconosciuto. Lesse: “Avrei veramente bisogno della tua collaborazione per un caso diffici-le. Ti chiamerò stasera, Lorenzo Guidi”. E questo chi è, si chiese per alcuni secondi, fissando il display. Poi, con gli occhi della mente, vide davanti a sé un bambino con le orecchie a sventola, che teneva sempre un berretto in testa, di lana o di cotone, a seconda della stagione. Ave-vano fatto le scuole elementari assieme, e poi si erano ritrovati alle su-periori, ma Lorenzo, ad un certo punto, aveva mollato tutto per diventa-re carabiniere. Lui lo aveva anche canzonato, perché aveva parlato di una specie di vocazione. Da alcuni amici qualche anno dopo aveva sa-puto che si trovava nel milanese, e poi più nulla. Cosa poteva mai vole-re da lui, professore universitario? Rilesse il messaggio. Un caso diffi-cile, diceva… di che cosa poteva trattarsi? E poi come aveva fatto ad avere il suo numero? Per l’ultima domanda si diede subito una risposta; non doveva essere stato difficile, la segreteria dell’Università aveva il suo numero per eventuali necessità, e se un carabiniere l’avesse chiesto, le gentili applicate dell’ufficio dei professori glielo avrebbero dato, si-cure di fare per il meglio. Del resto, come rifiutare una richiesta così semplice a chi ha una striscia rossa sui pantaloni? Comunque bastava aspettare e la sua curiosità sarebbe stata appagata. Speriamo che tenga conto del fuso orario, pensò prima di rimettere il cellulare nel taschino dello zainetto. Era arrivato da pochi giorni. Aveva scelto quel periodo dell’anno per evitare le piogge insistenti del mese di ottobre. Già a novembre il clima, per i suoi gusti, era buono, ma dicembre era speciale. Sapeva queste co-se perché aveva visitato parecchie volte quel piccolo paese, l’ultima era stata l’anno precedente.

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Preferiva comunque il clima più arido del Messico. Soprattutto gli pia-ceva la penisola dello Yucatan, e sarebbe andato direttamente là se non fosse stato molto motivato. Nel Belize aveva fatto un ritrovamento, o meglio un acquisto, veramente interessante. Si trattava di una tavoletta di pietra con un rilievo molto simile a quello ritrovato in un famoso sito archeologico messicano. I glifi incisi narravano delle cinque Ere cosmi-che, corrispondenti ad altrettante civiltà, e c’erano riferimenti al lungo computo, al termine del quale un immane sconvolgimento ambientale avrebbe posto fine all’Età dell’Oro governata dal dio Quetzalcoatl. Era tornato in Belize sperando di trovare altri oggetti collegati a quella tavoletta che, contravvenendo alle leggi di quel paese, aveva trafugato in Italia. In realtà era stato semplicissimo; l’aveva semplicemente tenu-ta nel bagaglio a mano, bene avvolta in una carta da regalo, accanto alla macchina fotografica. All’imbarco una signora che come lui stava tor-nando a casa, gli pareva di ricordare che fosse di Roma, gli disse che avrebbero controllato valigie e passeggeri, e quella prospettiva gli ave-va procurato un violento batticuore, ma poi era stato fortunato perché, aperti tre o quattro borsoni, gli addetti, annoiati, avevano fatto passare tutti senza ulteriori controlli. Nel suo studio di Padova aveva esaminato il manufatto con un’attenzione certosina, ed era arrivato alla conclusione che dovevano esserci almeno due tavolette. Quella, secondo lui, era la prima pagina di una specie di libro di pietra. Così, appena gli era stato possibile, era sa-lito su un aereo diretto a Belmopan. Aveva cercato subito di mettersi in contatto con il filibustiere da cui a-veva comperato la tavoletta, uno che di professione vendeva reperti maya ai turisti ma, per il momento, non era riuscito a rintracciarlo. Giu-lio aveva deciso di fermarsi in quel posto qualche altro giorno, poi sa-rebbe andato in Messico. Nel suo portafogli teneva già un biglietto per il Chiapas. Gli interessava in particolare visitare il sito archeologico di Palenque. C’era già stato tre anni prima ma aveva una voglia matta di tornarci. Anche lui, come altri appassionati di archeologia maya, era rimasto affascinato dall’enorme pietra tombale conosciuta come “Lastra di Palenque”, e voleva rivisitare con calma il luogo dove era stata rin-venuta nel 1952. Che fortuna aveva avuto Alberto Ruz Lhuillier quando l’aveva scoperta! Giulio si era oltremodo appassionato alle varie inter-pretazioni della lastra, che nel corso dei decenni erano state date da stu-diosi di tutto il mondo. Lui in particolare era affascinato dalla teoria

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chiamata “dell’astronauta”, per la quale l’uomo scolpito sull’imponente pietra starebbe pilotando, con mani e piedi, una sorta di razzo o capsula spaziale. Il sarcofago di pietra rossa era stato rinvenuto quasi per caso all’interno di una piramide coperta completamente dalla vegetazione. Dentro c’era lo scheletro di un uomo alto un metro e settantatre centimetri, un gigan-te presso i maya, che di solito non superavano il metro e cinquanta. Il volto era ricoperto da una magnifica maschera di giada. La cosa inte-ressante, era che l’uomo non pareva essere un indios, in quanto non a-veva la testa allungata. I maya, infatti, usavano allungarsi artificialmen-te la testa, ponendo e schiacciando il cranio dei neonati fra due assi, di modo da fargli assumere una forma considerata esteticamente migliore, in quanto simile a quella degli dei. Una storia eccitante! Giulio, come molti altri, si era scervellato guardando una foto che ri-produceva il rilievo impresso sulla lastra. Nel corso dell’ultimo anno aveva poi letto tutto quello che aveva trovato su quel singolare sarcofa-go. Conosceva la teoria di Adrian Gilbert e Maurice Cotterl per i quali sulla pietra sarebbe raffigurata la dea Chalchjuthlique assieme ad altri dei dai nomi altrettanto impronunciabili. Per quei due studiosi i segni rappresenterebbero il Popul Vuh, un libro di importanza capitale scritto in lingua maya ma con caratteri latini nel XVI secolo e che fornisce molte informazioni sulla religione e la mitologia di quel popolo. Sapeva di altre teorie, definite minori, ma neanche le prendeva in con-siderazione. Sulla base dei suoi ragionamenti, supportati dalle cono-scenze acquisite all’Università e dai suoi studi personali, l’unica spie-gazione plausibile era quella di un contatto extraterrestre. Di questa convinzione non aveva mai parlato ai suoi colleghi e men che meno ai suoi studenti, per una specie di pudore, temendo di essere deriso se non direttamente (nessuno studente del suo corso l’avrebbe fatto), ma alle spalle, che per lui sarebbe stato anche peggio. Era vero che non era il primo a dare interpretazioni ufologiche del rilievo, ma era stato uno di quelli che a quell’ipotesi aveva sorriso. Questo però era accaduto anni prima. Ora era convinto che il personag-gio raffigurato sul coperchio tombale fosse un astronauta preistorico. Del resto la storia e la mitologia di quasi tutti i popoli precolombiani erano costellate dalla presenza di viaggiatori stranieri, alcuni provvisti di “tappeti viaggianti”.

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La tavoletta, che ora si trovava nella cassaforte di casa sua, doveva es-sere correlata in qualche modo alla lastra di Palenque, e più precisa-mente alla visita sulla terra di esseri intelligenti, fatta migliaia di anni prima. In che cosa consistesse il nesso non lo sapeva, ma sperava di scoprirlo. Camminava ai margini di una strada piena di buche che molti anni pri-ma qualche volonteroso aveva tentato di asfaltare. Del catrame rimane-vano pochi blocchi, sollevati qua e là. Meglio sarebbe che li togliessero, almeno sarebbe una normale sterrata, pensava mentre le rare auto gli passavano accanto quasi sino a sfiorarlo, strombazzando. Non era anco-ra riuscito a capire il motivo di quei colpi di clacson, ma probabilmente c’erano più spiegazioni. I colpi potevano voler dire: fatti da parte che altrimenti ti tiro sotto; ciao gringo (per quella gente tutti gli stranieri e-rano gringos, cioè americani); ma che aspetto strano che hai, e forse an-che altre cose che nemmeno immaginava. Per quello che concerneva il suo aspetto, sì, si rendeva conto che per quelle latitudini i suoi capelli rossi risultavano oltremodo strani. Già in occidente, dove i colori per così dire “nordici” non erano poi così infre-quenti, avere i capelli pel di carota costituiva comunque un particolare di non poco conto, figuriamoci lì dove tutti avevano capelli e carnagio-ne scuri. Si era incamminato che il sole era già alto e ora grondava di sudore. L’ombra dei rari alberi che fiancheggiavano la strada gli era di poco sollievo. Avrebbe dovuto fermarsi a riposare ma aveva un appuntamen-to a cui non voleva arrivare in ritardo. Alla fine era riuscito a trovare il tizio che l’anno prima gli aveva venduto la tavoletta. Lo aveva sentito al telefono e, dopo un’infinita serie di giri di parole, con tono voluta-mente misterioso, così almeno a lui era sembrato, gli aveva rivelato che esistevano altre due tavolette in qualche modo legate a quella che già possedeva. Giulio non sapeva se credergli o no, anche perché l’anno precedente il tipo gli aveva giurato ripetutamente, almeno una decina di volte, che la tavoletta era un pezzo singolo, unico. Ora questo voltagab-bana lo lasciava perplesso. Era chiaro che l’uomo era un mentitore in-callito, come tutti i ladri di reperti archeologici del resto; il problema era capire se aveva mentito quando gli aveva dato la tavoletta, l’anno prima, o se invece gli stava mentendo adesso. Giulio, pur essendo con-vinto dell’esistenza di altre tavolette collegate a quella che possedeva, era propenso a credere che gli stesse mentendo in quel momento. Come

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deludere un europeo, disposto fra l’altro a pagare bene, dicendogli che non aveva nulla di interessante da offrirgli? L’uomo, tale Carlos e qual-cos’altro, sapeva che lui non era uno sprovveduto e che, con ogni pro-babilità, avrebbe saputo distinguere un reperto falso da uno autentico, ma Giulio sapeva anche che non bisognava sottovalutare i falsari, che nelle riproduzioni erano divenuti bravissimi. A volte anche a lui risulta-va difficile distinguere un pezzo originale da uno falso, costruito magari in un laboratorio improvvisato dietro casa. Carlos inoltre, consapevole che era caduto in palese contraddizione con quanto giurato dodici mesi prima, gli aveva tirato fuori una storiella divertente che poteva essere così sintetizzata: non aveva potuto dirgli la verità, la volta precedente, per una serie di ragioni astrologiche. Che cazzate, aveva pensato l’archeologo. Fintanto che pensava a queste cose, a pochi passi dal ciglio stradale polveroso, vide un albero di mango. Senza smettere di camminare si chinò a raccogliere un frutto caduto che pulì sommariamente strofinan-dolo contro i pantaloni. Con i denti incise la buccia e poi la strattonò via. Così, caldo, non era propriamente una specialità ma gli calmò la sete crescente. L’acqua l’aveva già finita da un pezzo e quel mango gli parve quasi provvidenziale. Individuò in lontananza il luogo dove era stato fissato l’incontro. Erano alcune rovine di nessun interesse archeologico, poco più che quattro sassi in croce. Intravide anche Carlos. Almeno doveva trattarsi di lui, considerato che quello non era assolutamente un luogo né per turisti né per contadini. Man mano che si avvicinava vide che l’uomo era seduto su di una pietra. Era proprio Carlos. Si era lasciato crescere i baffi oltre la linea del mento in un modo che a Giulio parve ridicolo. Baffi alla messicana, pensò sorridendo. Quando Giulio fu a pochi passi si alzò con aria riverente. «Señor Julio, come sta?» «Bene, e lei?» «Ringraziando la Vergine Maria sto bene. La vedo sudata, si sieda qui all’ombra» disse indicandogli un sasso vicino a quello su cui stava se-duto fino a un attimo prima. Giulio accettò volentieri l’invito. Era stanchissimo. Negli ultimi mesi non aveva fatto nessuna attività fisica e si sentiva le gambe di piombo. Intanto Carlos aveva infilato una mano sotto il suo gilet di tela logora e aveva tirato fuori una minuscola bottiglia.

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«Tenga, le darà un poca di energia!» «Cos’è?» «È un distillato di frutta tropicale, lo fa mio fratello, di nascosto natu-ralmente». «No, grazie, con questo caldo mi pare che sia meglio evitare gli alcoo-lici». «Cosa dice? Non lo sa che sono anzi consigliabili?» insistette. «Sì, forse ha ragione, ma preferisco non bere adesso». Carlos strizzò un occhio. «Non avrà mica paura che voglia farla ubriacare? Siamo amici, no?» Giulio non si sarebbe mai nemmeno sognato di considerare Carlos un amico e pensò che, naturalmente, era tutta una sceneggiata. In quello l’uomo che gli stava seduto al fianco era uno specialista. «Allora andiamo al dunque» continuò quando gli fu chiaro che l’archeologo non avrebbe dato seguito ai suoi convenevoli, «è sicuro che le interessano anche le altre due tavolette?» Giulio si asciugò il sudore con un fazzoletto di tela già fradicio, prima di rispondere. «Mi interessano solo se sono autentiche». Gli occhi scuri di Carlos parvero allargarsi per lo stupore e il disappun-to. «Tutto quello che le offrirò è assolutamente autentico, guardi glielo giu-ro con una mano sul cuore» disse mettendosi le dita dalle unghie spor-che sul petto coperto oltre che dal gilet da una camicia azzurra di coto-ne cui mancavano due bottoni. Poi, con le stesse dita, visto che c’era, approfittò per grattarsi il torace e le ascelle. Teneva ancora l’aria imbronciata quando Giulio gli rivolse nuovamente la parola. «Ha già le tavolette? Posso vederle?» Il tizio si alzò e sparì per pochi secondi dietro il cumulo di pietre da do-ve tornò con un oggetto quadrato avvolto in un pezzo di tessuto che sembrava essere stato un maglione per bambino. «Eccone una» disse con un’espressione fiera sul volto. Se non fosse stato per la stanchezza che sentiva e per l’autentico inte-resse per quel reperto, l’archeologo avrebbe riso per quella pantomima da persona onesta. Carlos gli allungò il fagotto. Giulio provò una leggera emozione, quasi una vibrazione al contatto con il tessuto. Con attenzione lo aprì. Vide

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una pietra sottile incisa finemente, a prima vista uguale in tutto e per tutto a quella che possedeva. Si trattava però solo di una impressione. Appena cominciò a decifrare i glifi capì che era tutt’altro. Poteva proprio essere la seconda pagina, se così si poteva chiamare, di un libro di pietra. «Señor, non vuole sapere perché le ho dovuto mentire lo scorso anno?» «Magari un’altra volta, grazie Carlos. Piuttosto avevi parlato di due ta-volette». «È vero, ma la terza non ce l’ho. Però so dove trovarla». «Uhm, fra un anno?» Da sotto i baffi da messicano uscì il suono di una risata trattenuta. I denti non erano visibili, per cui Giulio immaginò il sorriso dell’uomo. «Non lo so, señor. L’attuale proprietario forse non è interessato a ven-dere, pare ci tenga molto… bisognerà cercare di convincerlo, e questo le costerà un poco più del solito». «Per questo oggetto quanto vuoi?» Carlos esitò, come se non ci avesse ancora pensato, ma Giulio era sicu-ro che non doveva essere così. Il mercante stava ancora giocando a cre-are la giusta suspense. Dopo alcuni minuti di silenzio durante i quali l’archeologo aveva conti-nuato a esaminare la tavoletta, disse una cifra. Giulio si fermò. «È una bella somma» fece guardandolo dritto in faccia. «Sì, però il pezzo vale molto di più. Giusto ieri un altro professore pro-veniente dagli Stati Uniti mi ha offerto una cifra più alta, ma io avevo già dato parola a lei e ho rifiutato». Giulio rise, non credeva assolutamente a una cosa del genere. Se qual-cuno gli avesse offerto anche un solo dollaro di più di quello che pen-sava gli avrebbe dato lui, in quel momento Carlos non sarebbe stato lì, in barba alle promesse e agli accordi presi. L’uomo era un mercante e forse anche un ladro che vendeva al migliore offerente. «Va bene, Carlos, non ho voglia di mercanteggiare. Vieni domani al mio albergo e ti darò il denaro che chiedi». «Non hai i soldi con te?» Carlos gli diede improvvisamente del tu. «Non sono mica pazzo a girare con una cifra simile in tasca». «Hai ragione, ti ucciderebbero per molto meno. D’accordo, verrò do-mani. E adesso come ritornerai indietro?» «A piedi, almeno che tu non abbia qualche altro mezzo da suggerirmi». «Se vuoi ti accompagno, ho una moto».

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«Non ti sapevo così attrezzato» ammise, davvero stupito. «Mi sottovaluta señor». Carlos recuperò una motoretta scassata nascosta fra le rovine, comple-tamente invisibile da dove si trovavano. Il tragitto del ritorno Giulio lo ricordò come il viaggio più disagevole di tutta la sua vita; fortunatamente la tavoletta, ben avvolta nel vecchio maglioncino, non subì alcun danno.

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4 Il cellulare squillò mentre Giulio se ne stava sdraiato sul divanetto della sua stanza d’albergo. Si era steso lì per pigrizia. Se si fosse coricato sul letto, certo più confortevole, si sarebbe sentito in dovere di togliere le scarpe, e non ne aveva alcuna voglia. Si sentiva ancora tutto indolenzito a causa del terribile viaggio in moto. Carlos non aveva nemmeno tenta-to di evitare le buche, cosa del resto piuttosto difficile, e quando le ruo-te sottili del trabiccolo vi finivano dentro, entrambi ricevevano delle au-tentiche legnate sul fondo schiena. Preso dai suoi affari, si era completamente scordato che l’ex compagno di studi l’avrebbe chiamato. Quando era in viaggio spesso gli accadeva di estraniarsi da tutto il resto. Vivi nel presente, gli aveva detto anni prima una specie di santone che aveva frequentato. Lui aveva seguito quel suggerimento quasi senza fatica. Gli veniva abbastanza naturale concentrarsi su quello che stava facendo. Questa attitudine aveva dato i suoi frutti, negli anni. Si era laureato presto e con ottimi voti; aveva ot-tenuto una cattedra di discreto prestigio, e ora stava facendo delle inte-ressantissime scoperte che, oltre a dargli una personale gratificazione, probabilmente lo avrebbero fatto conoscere nel suo ambiente di studi. A volte immaginava il suo nome accanto a quelli di famosi archeologi quali i gemelli Alfredo e Angelo Castiglioni, Zahi Hawass e, nei mo-menti di maggior delirio, Heinrich Schliemann. Senza alzarsi prese il cellulare posto sul tavolino accanto al divano. «Pronto». «Pronto, sono Lorenzo Guidi». «Che sorpresa! È un bel po’ che non ci sentiamo». «Sì, e sono anche imbarazzato per averti chiamato solo ora, dopo tanti anni». «Non preoccuparti, del resto anch’io non ti ho mai telefonato. Mi fa molto piacere sentire un vecchio compagno di scuola. Come stai?»

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«Sto bene grazie, e tu?» «Non c’è male. In questo momento sono nel Belize per alcune mie ri-cerche e fra pochi giorni andrò in Messico». «Ah! Ti invidio, qui fa un freddo cane. Hai ricevuto il mio messaggio?» «Sì, mi hai incuriosito». «Ecco vedi, mi sono ricordato di te nel corso di un’indagine che sto compiendo e che per la verità non sta andando tanto bene. Ho pensato che forse tu potevi aiutarmi». «Volentieri, ma di che cosa si tratta?» «Poco tempo fa è stato trovato il cadavere di un ragazzo scomparso. Il corpo era stato seppellito alla meglio in un bosco su di una collina. Beh, per farla breve, al povero giovane era stato aperto il torace e tolto il cuore, una cosa orribile…». Ci furono alcuni secondi di silenzio. «Come posso aiutarti?» «Ci arrivo subito; durante la rimozione del corpo gli addetti hanno tro-vato sotto terra anche la carcassa di un gallo e un oggettino, una specie di spilla, che secondo il parere del mio Brigadiere, che è un appassiona-to di cose sudamericane, sarebbe di fattura maya. Ho cominciato a se-guire la pista delle sette sataniche perché tempo addietro avevo avuto una segnalazione; una contadina che si era recata prestissimo nel bosco in cerca di funghi, ha riferito di aver visto un gruppetto di persone in mezzo agli alberi in un posto molto suggestivo, occupate, secondo quanto aveva potuto vedere, ad ammazzare una bestia, forse un piccolo maiale. Il luogo è molto particolare. Ci sono grandi alberi piantati in cerchio. Probabilmente qualcuno aveva progettato di costruirci in mez-zo un roccolo, uno di quei rustici per la cattura degli uccelli. Lì intorno ce ne sono alcuni… Poi per qualche motivo non è stato fatto nulla, così sono rimasti solo gli alberi in cerchio, a delimitare uno spazio vuoto». Il Capitano si schiarì la voce prima di proseguire. «Da questa pista delle sette però non è sortito nulla, così pensavo di ca-pire, col tuo aiuto, che collegamento può esserci fra l’oggetto trovato e l’omicidio, ammesso che ci sia un collegamento…». «Beh, dovrei vedere quella spilla. Non per dubitare del tuo Brigadiere, ma ormai fanno della bigiotteria, chiamiamola etnica, che imita molto bene i monili maya». «Uhm, capisco. Quando torni in Italia?» «Fra una settimana».

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«Allora ti richiamo fra una decina di giorni, e ci mettiamo d’accordo per vederci». «Volentieri! Mi farebbe molto piacere incontrarti, e poi questa storia è così intrigante…» «Senti, vorrei chiederti una cosa». Il Capitano esitò. «È vero che i maya facevano sacrifici umani?» «Sì, è assolutamente provato. Sinceramente, però, mi sembra inverosi-mile che ai nostri giorni, in Italia, ci sia qualcuno che emuli quei riti propiziatori». «Anche a me sembra incredibile… però non ho altri indizi, perciò sono costretto a seguire quella pista, con il tuo aiuto, naturalmente». «Va bene, allora ci sentiamo quando torno. Ciao Lorenzo, mi ha fatto davvero molto piacere averti parlato». «Anche a me, grazie fin d’ora, ciao». La comunicazione fu chiusa contemporaneamente. Il capitano Guidi si trovava nel suo studio. Sorrise soddisfatto all’idea che il suo ex compagno di scuola lo avrebbe aiutato in quel caso che non lo faceva dormire la notte. Rivedeva il volto dei genitori dello sfortunato studente, quando gli ave-va comunicato che il loro figlio era stato trovato morto. La madre era caduta a terra colta da un malore, e il padre aveva cominciato a sin-ghiozzare così convulsamente che pareva soffocasse. Avrebbe proprio voluto consegnare alla giustizia il criminale o, più probabilmente, i criminali, che avevano commesso quell’orribile delit-to. Lui aveva visto il cadavere all’obitorio, una cosa raccapricciante. Nella ferita, che andava dal torace all’addome, erano entrati terra, foglie e insetti. Come era possibile fare simili cose? Era evidente che si trattava di un delitto premeditato. Il ragazzo, in qualche modo, era stato attirato in quella zona. Secondo il medico legale era stato ucciso altrove e portato là, dov’era stato trovato, successivamente. La mano che stava sotto ter-ra faceva il pugno, come se il giovane avesse voluto stringere qualcosa, forse la spilla. Poi magari gli era scivolata fra le dita ed era andata a fi-nire fra le foglie… Sentiva che dietro a quell’oggetto si nascondeva qualcosa, ed era sollevato al pensiero che di lì a pochi giorni un vero esperto l’avrebbe esaminato. Ma, forse, ho letto troppi libri gialli, pen-sò.

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Giulio, nel suo minuscolo salottino in albergo, era perplesso. Che sto-ria, pensava mentre si prendeva una bibita dalla celletta del frigorifero. Fu grazie a quel pensiero che dimenticò il dolore alle natiche che, anche se poco nobile, lo infastidiva parecchio.

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5 Il Capitano Guidi era tornato più volte nel bosco dove era stato rinvenu-to il corpo dello sventurato studente. Un giorno era salito fino alla cima della collina soprastante, chiamata Spigolo Grosso; poi era sceso, sco-prendo che si poteva arrivare giù, in valle, per un sentiero poco fre-quentato che passava per la contrada Lure. Riteneva comunque poco probabile che gli assassini avessero usato quel sentiero per portare il cadavere nel bosco. Troppa strada. Il morto pesava un’ottantina di chili perché, nonostante fosse magro, era piutto-sto alto. Secondo lui era dal Passo dello Zovo che qualcuno era partito in cerca di un luogo dove abbandonare il corpo. Il posto scelto non era niente male. Se non fosse passato quel guardiacaccia, avrebbero potuto passare dei mesi prima che venisse trovato. Magari un giorno un taglia-legna sarebbe inciampato in quella mano, ma chissà quando… Nel corso di quelle uscite sullo Zovo aveva parlato con tutti quelli che incontrava. Si trattava perlopiù di boscaioli e cacciatori. I primi non e-rano chiacchieroni e mentre lui gli rivolgeva delle domande continua-vano il loro lavoro rispondendo a monosillabi. A un tizio aveva dovuto chiedere di spegnere almeno la motosega perché, in mezzo al rumore e al fumo puzzolente della miscela di benzina e olio, non riusciva a capire nulla. Poi aveva notato che, se prima domandava spiegazioni sul lavoro che stavano facendo, i taglialegna si dimostravano più propensi a parla-re di altri argomenti. A un vecchio, cappello di feltro in testa e guanti di tessuto per riparare le mani, aveva chiesto con che criterio sceglieva gli alberi da abbattere, e questi si era dimostrato contento di spiegargli il suo metodo. Si trattava di tener conto che, primo: si tagliano gli alberi più grandi in quanto da questi si ricava più legname; secondo: quelli che rimangono devono essere preferibilmente diritti; terzo: tutti gli al-beri per crescere bene hanno bisogno del sole, quindi dal taglio del bo-sco deve conseguire un beneficio in questo senso alle piante che riman-

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gono. Quando il Capitano era poi passato a domande relative al ritro-vamento del cadavere di cui tutti, anche il vecchio, erano a conoscenza, questi era stato disponibile a raccontare quanto sapeva e a dare la sua opinione. Due o tre volte gli era capitato di vedere da lontano un grup-petto di persone, secondo lui ubriache o drogate, che girava in cerchio nella zona dei roccoli. Lui quel giorno si era attardato nel bosco perché voleva coprire con un nylon una catasta di tronchi; il tempo era cupo e il meteo locale prevedeva nevicate fino a quote collinari. Senza farsi vedere aveva osservato quei balordi, tutti vestiti di nero, girare attorno ai carpini. La sua idea era che il ragazzo stesse con quella brutta com-pagnia di drogati, e che questi l’avessero fatto fuori in seguito a qualche disaccordo. I drogati uccidono anche per motivi banali, gli aveva detto. Il Capitano aveva annuito. Nessuno più di lui lo sapeva. Quante volte aveva constatato che sotto l’influsso delle droghe venivano commessi delitti di ogni genere. Ma in quell’indagine era diverso. C’erano il gallo sventrato e la spilla. Di questo però il boscaiolo non sapeva nulla. Quei dettagli li conoscevano poche persone cui aveva dato ordine di tacere. Aveva mostrato la spilla solamente ai coniugi Boldrini per sapere se l’oggetto fosse appartenuto a Sebastiano. I due avevano scrollato la te-sta dicendo che non l’avevano mai visto. Non aveva reso pubblici quei particolari per impedire, per quanto possibile, che la gente delle contra-de vicine si spaventasse e, soprattutto, per il timore che qualcuno co-minciasse ad ammazzare e gettare galli nel bosco per il solo piacere di intorbidire le indagini in corso. Il mondo era pieno di idioti, questo era certo. I cacciatori invece erano più inclini a parlare, ma per ottenere le infor-mazioni bisognava adottare una speciale tattica: prima chiedere se ave-vano fatto una buona caccia, poi di che razza era il loro cane e, solo do-po aver ascoltato le prodezze dell’amico a quattro zampe, si poteva pas-sare ad altri argomenti. Un pomeriggio il Capitano aveva incontrato nuovamente il guardiacac-cia. Si erano stretti calorosamente la mano con quel sentimento di com-plicità che nasce fra persone che hanno condiviso un fatto eccezionale. Quel mattino che tutti e due ricordavano benissimo, la neve cadeva ed erano infreddoliti, ognuno aveva visto riflessa sul volto dell’altro l’espressione del proprio, come in uno specchio. Bruno Righi gli aveva chiesto a che punto erano le indagini. Lui era sta-to evasivo, non perché non si fidasse di quell’uomo, ma proprio perché

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non aveva ancora scoperto niente di importante e provava un misto di vergogna e imbarazzo. E i lacci dei bracconieri? Gli aveva domandato per cambiare argomento. No, niente lacci. Del resto dopo quello che è successo nessuno sarebbe così stupido da metterli, col rischio di venir scoperto dai carabinieri che ispezionano i boschi in cerca dell’assassino, troppo rischioso, gli aveva risposto. Si erano lasciati do-po aver bevuto un caffè nel bar sul passo. Il Capitano Guidi andò per la seconda volta all’abitazione del ragazzo assassinato. La famiglia viveva in una zona silenziosa vicina all’ospedale vecchio; case modeste dipinte di giallo, costruite intorno agli anni quaranta durante il boom economico e inserite nel progetto della città sociale voluta dal Conte Gaetano Marzotto, indiscusso bene-fattore della cittadina. Negli appartamenti, tutti uguali, alloggiavano perlopiù dipendenti o ex dipendenti della fabbrica di manifattura lane. La prima volta che si era recato in quella casa il carabiniere aveva avuto il tristissimo compito di riferire ai coniugi che il figlio era morto. Si era fatto accompagnare da uno psicologo che esercitava presso il locale centro di igiene mentale, suo amico, pensando che avrebbe potuto risul-tare utile la presenza di una persona abituata a trattare con chi è in stato di forte stress emotivo. Si era rivelata una buona idea. Il suo amico ave-va usato delle bellissime parole per cercare di confortare i genitori, frasi che a lui non sarebbero mai venute in mente. Poi aveva somministrato alla madre, che aveva avuto un breve svenimento, una ventina di gocce di un calmante e, di comune accordo col marito, l’aveva portata con l’auto al vicino ospedale, dove il medico del pronto soccorso aveva constatato che le si era alzata di molto la pressione sanguigna. La signo-ra era una ipotesa ma, in quel frangente di dolore, i valori pressori erano schizzati. Quando era tornato in caserma Lorenzo Guidi si sentiva uno straccio. Adesso, a distanza di un mese, stava tornando in quella casa non pro-prio a cuor leggero, ma con una discreta tranquillità. Gli dispiaceva moltissimo però pensare che, sicuramente, i familiari della vittima gli avrebbero fatto delle domande a cui, purtroppo, non sarebbe stato in grado di rispondere. Gli aprì il padre. Lo guardò al di sopra degli occhiali, posizionati bassi, quasi sulla punta del naso. «Buongiorno Maresciallo Guidi, ci sono novità?»

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Alfredo Boldrini chiamava Lorenzo Guidi Maresciallo, anziché Capita-no. All’Ufficiale questo errore seccava un po’, ma ritenne di non dire niente anche perché era probabile che l’uomo credesse che il grado di Maresciallo fosse superiore a qualunque altro e che volesse in quel mo-do omaggiarlo. «No, mi dispiace, non ci sono ancora novità. Sono tornato perché vorrei dare un’altra occhiata alla camera di suo figlio, ma farò in fretta». «Non si preoccupi. Entri pure e si prenda tutto il tempo che le serve. Io intanto le preparerò un caffè». «Sua moglie è in casa?» «No, è ad Asiago da sua sorella. Non vuole più stare qui… dice che non sopporta di vedere le cose che appartenevano a Sebastiano. Spero che le passerà». «Vive da solo?» «No, l’altro figlio è rimasto qui. Adesso è a scuola». L’uomo aveva sospirato prima di aggiungere: «Ogni sera mia moglie ci chiama e io ogni volta cerco di convincerla a tornare a casa con noi». «Mi dispiace». «Anche a me. Inoltre la prossima settimana devo tornare al lavoro. Ho finito tutte le ferie che avevo e lunedì devo riprendere. Lo sa anche lei, non si può vivere senza lavorare». «Già, sono in pochi a poterselo permettere, son cose da ricchi...» Alfredo Boldrini accompagnò il Capitano nella camera del figlio e lo lasciò da solo. Il Capitano si guardò attorno. La stanza era una normale cameretta con una finestra che dava su un piccolo cortile ghiaioso. Nessun manifesto alle pareti. Tutto bene in ordine. Guardò con cura sotto il letto del gio-vane, nel nascondiglio classico di quell’età, cioè fra il materasso e la rete, ma non trovò nulla. Ispezionò bene i cassetti sperando di trovare un diario o delle lettere, ma le uniche cose che trovò furono un pacco di spartiti musicali e un clarinetto chiuso in una custodia rigida di plastica. Aveva già rovistato in quella stanza, senza trovare nulla di interessante, la prima volta che era stato lì mentre il suo amico psicologo si occupava dei genitori sotto shock, ma sperava di trovare qualche utile indizio per le sue indagini, magari sfuggitogli. Nella stanza c’erano due mensole piene di libri, ma nessuno che parlasse di sette sataniche o di storie ma-ya.

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Vide una grossa conchiglia, probabile souvenir di una vacanza al mare, e una di quelle sfere di vetro che capovolte creano l’effetto della neve che cade. Guardò meglio anche fra gli abiti del ragazzo senza trovare nulla, a parte due calzini sporchi di terra dimenticati in fondo a un cas-setto, assieme alla biancheria pulita. Sorrise pensando che anche suo figlio ogni tanto riponeva le cose nel posto sbagliato. Certo, Sebastiano aveva sedici anni e suo figlio solo otto, ma gli uomini non imparano, così diceva paziente sua moglie. Lasciò le calze sulla sedia accanto al letto e uscì. Nello stretto corridoio gli giunse il profumo del caffè. Alfredo Boldrini aveva messo sul tavolo della cucina due tazzine color cioccolato che al carabiniere parvero molto natalizie. Si ricordò che dove era vissuto da bambino, era consuetudine la notte di Natale bere una cioccolata calda dopo aver assistito alla messa. Le tazzine gli sembrarono identiche a quelle che usava la signora che gestiva il bar parrocchiale accanto alla chiesa. Lorenzo pensò che la famiglia doveva avere un reddito molto modesto. Non gli risultava che la signora lavorasse e col solo stipendio di un semplice impiegato alla Marzotto la famiglia non poteva certo fa-re follie. Quasi tutto quello che vedeva era di seconda mano, roba da centro dell’usato, anche quelle tazzine. Il caffè comunque era buonis-simo, come piaceva a lui, bollente e nero. «Ha trovato qualcosa di utile?» chiese Alfredo Boldrini con una certa ansia nella voce. «No, purtroppo. Non sa se suo figlio tenesse un diario?» «Non lo so, ma non credo. Non gli piaceva scrivere. L’unica cosa che gli interessava davvero era la musica. A scuola se la cavava, ma consi-derava lo studio come una medicina cattiva che è necessario prendere. A lezione di musica invece andava volentieri». «Che lei sappia in quell’ambiente aveva degli amici?» «Sì, un coetaneo che studia percussioni, la batteria insomma». «Si ricorda come si chiama?» «Mi pare Andrea, però non ricordo il cognome». «Mi informerò alla segreteria della scuola». «Ha parlato con i compagni di classe dell’Istituto Tecnico?» «Sì, l’ho fatto subito, anche perché era l’ultimo posto dove è stato vi-sto». «Che ha saputo?»

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«Che era un ragazzo tranquillo, amico di tutti e di nessuno e che amava stare per conto suo». «È vero, Sebastiano era così, un poco tiepido con le persone». Il carabiniere notò che pronunciando il nome del figlio gli occhi del si-gnor Boldrini si erano fatti lucidi. «Adesso devo proprio andare, grazie per il caffè». «Torni, se ha bisogno ancora». L’uomo accompagnò il Capitano verso l’uscita. «C’è una cosa che le vorrei chiedere...» Alfredo esitò. «Dica pure». «Non mi è facile domandarlo, ma volevo sapere se è stato trovato il cuore di mio figlio». «No, il terreno è stato ispezionato ma il cuore non c’era. A volte in que-sti omicidi rituali l’organo strappato viene conservato. Sono addolorato di dirle queste cose. Adesso devo andare. Spero che sua moglie torni presto». «Lo spero anch’io. Buongiorno, e grazie per quello che sta facendo». Il portoncino si chiuse con un colpo secco alle spalle di Lorenzo Guidi. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...

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