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“Delitti, rimorsi e vendette” Luigi Brasili Prima Edizione eBook: Marzo 2006 Realizzazione: La Tela Nera www.LaTelaNera.com [email protected] “Ponte degli angeli”, “Tu la ucciderai”, “CR e il lupo”, “Il condominio”, “Viaggio di notte”, “Lettere e farmacisti” © 2006 by Luigi Brasili Immagine di copertina © 2006 Fabrizio Brasili eBook distribuito gratuitamente da:

Questo testo può essere liberamente distribuito a mezzo internet, previa autorizzazione dell’Autore, in nessun caso può essere chiesto un compenso per il download dell’eBook che rimane proprietà letteraria riservata dell’Autore. Sono consentite copie cartacee di questo e-book per esclusivo uso personale, ogni altro utilizzo al di fuori dell’uso strettamente personale è da considerarsi vietato e perseguibile a norma di legge. Tutti i diritti di copyright sono riservati.

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Luigi Brasili

DELITTI, RIMORSI E VENDETTE

La Tela Nera Marzo 2006

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RINGRAZIAMENTI Ringrazio di cuore Alessio e lo staff de La Tela Nera per avermi dato la possibilità di pubblicare questo e-book, e per averlo realizzato. Ma voglio ringraziare anche tutti gli altri amici che frequentano il forum; in questi due anni ho avuto qualcosa da ognuno di loro, sicuramente più di quanto io abbia dato in cambio. Un grazie a mia moglie Anna, per la pazienza con cui sopporta il tempo che le rubo ogni tanto per scrivere le mie storie. Grazie a Falò, per avermi prestato il suo disegno per la copertina. Infine, grazie a quelli che si prenderanno la briga di leggere questo e-book.

Un abbraccio, Luigi Brasili.

7 marzo 2006 [email protected]

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SOMMARIO

Ponte degli angeli 7 Tu la ucciderai 9 CR e il lupo 19 Il condominio 23 Viaggio di notte 27 Lettere e farmacisti 29 L’autore 35

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PONTE DEGLI ANGELI

Vado avanti e indietro lungo il ponte, scrutando le facce sconosciute che si godono il

fresco della sera. Di lui non c'è traccia, ma non importa, ho tutto il tempo che voglio. Angeli di pietra ai lati del ponte vegliano su artisti e sogni colorati, sui turisti accalcati

di fronte alla paccottiglia degli ambulanti. Chissà quanta di quella roba andrà a raccogliere polvere dall’altra parte dell’oceano. Lui non si vede, sono settimane ormai che lo aspetto ogni notte. Prima invece non mancava mai, una birra ghiacciata, una canna e poi tutta la notte a

parlare, parlare. Era l'unico a parlare con me, gli altri facevano finta di non vedermi, proprio come

adesso. I musicisti alzano il volume sperando di racimolare abbastanza per pagare le topaie

dove dormono. Bella questa, è la stessa che suonavano quella sera. Perché non arriva? L'ultima volta diceva che mi amava, che non mi avrebbe più

lasciata. Siamo andati a casa sua e lui beveva, e mi spogliava. Beveva, e mi colpiva. L'angelo con la spada mi guarda in silenzio dal castello - che cazzo guardi? - mentre

continuo a fissare la gente. All'inizio mi ha fatto male... credo, ma poi non ho sentito più nulla, stavo bene. Potevo camminare, niente più sedia a rotelle. Mai stata così bene. Anche ora sto benissimo, è per questo che voglio rivederlo, per dimostrargli tutto il mio

amore. Voglio che lo provi anche lui. Ho imparato presto come si fa. Quando si alza la brezza, quella che chiamano "ponentino", devi soffiare e spingere,

soffiare e spingere insieme al vento. Cos'hai da guardare ancora? Pensa a fare la statua che a lui ci penso io! Devo solo aspettare che torni e che si sieda sul muretto, come faceva sempre. Allora attenderò che arrivi il ponentino, poi andrò ad abbracciarlo, e soffierò forte

insieme al vento. Così sentirà com'è fredda l'acqua del fiume. Scoprirà come mi sento bene adesso.

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TU LA UCCIDERAI

Il vento gelido spazzava i vialetti del piccolo cimitero, rendendo vano l’impegno delle donne in abito scuro, che si affannavano nel tentativo di liberare le lapidi dal terriccio bagnato e dagli aghi delle alte conifere, muti guardiani di innumerevoli vite interrotte.

In quella fredda domenica mattina di fine febbraio, la maggior parte degli scarsi visitatori si affrettava più del solito a compiere quei gesti abituali davanti alle tombe dei propri cari, rimandando indugi e riflessioni a giornate meno impietose.

In mezzo a quel discreto viavai, Giorgio sembrava ignorare il vento e le prime gocce di pioggia.

Se ne stava assorto, in piedi davanti all’ingresso della cappella della famiglia Gravina. Un’antiquata lampada a olio, in perfetta efficienza, pendeva oscillando per il vento dal

basso soffitto a volta, proiettando una luce incerta nell’angusta stanzetta. Erano passati tredici anni dal giorno del funerale, ma era la prima volta che lui si recava

in quel luogo. Completamente immerso nel mare della sua memoria, Giorgio tornava con la mente al

nefasto ricordo di quel giorno maledetto e poi ancora più a ritroso nel tempo, fino ai tre anni che precedettero quella tragedia…

“Il 1988 era stato un anno eccezionale per Giorgio Tagliaferri. Fresco di laurea in ingegneria elettronica con il massimo dei voti, esonerato dal servizio

di leva grazie all’influenza di un amico di famiglia, aveva ottenuto all’inizio dell’estate un buon posto di lavoro presso la sede italiana di una prestigiosa azienda informatica di livello internazionale.

L’incarico comportava un periodo formativo iniziale, della durata di sei mesi, nella città americana di Boston, nel famoso Massachusetts Institute of Technology, centro di ricerche meglio conosciuto come MIT.

Per il giovane ingegnere, che fino a quel momento non aveva mai messo piede fuori dall’Italia, il viaggio negli Stati Uniti era il migliore regalo che potesse ricevere.

Fin da bambino sognava di poter attraversare l’oceano e visitare quello che ai suoi occhi era una specie di paese delle meraviglie, con le città verticali (così gli piaceva definire i grattacieli delle grandi metropoli), i paesaggi sconfinati, gli immensi parchi a tema e tutti quegli incanti che film, libri e fumetti avevano scolpito nella sua fantasia.

Fu proprio nel corso di quel soggiorno americano, in quella magica estate dell’88, che conobbe Claudia.

Lei viveva a New York, dove insegnava italiano in un istituto cattolico frequentato dai rampolli di buona famiglia della Grande Mela.

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Giorgio aveva deciso di approfittare della festa del 4 luglio, quell’anno cadeva di lunedì, per regalarsi tre giorni in visita ai luoghi che più di tutti lo avevano affascinato.

Grazie a un collega, parente del direttore dell’albergo, aveva preso alloggio a prezzo stracciato in una camera di uno degli hotel più esclusivi della città, lo stesso dove aveva abitato per anni una famosa attrice, protagonista inconsapevole di molti sogni bagnati dell’adolescente Tagliaferri.

Il sabato mattina, giorno del suo arrivo, aveva posato i bagagli ed era uscito subito dall’albergo con una cartina della città, passeggiando fino alla Broadway, brulicante di auto e di gente sui marciapiedi. Dopo aver superato Times Square aveva deviato all’altezza della trentaduesima per dirigersi verso la sua meta, il grattacielo più famoso del mondo: l’Empire State Building. Salito, trepidante, fino alla terrazza panoramica, aveva scattato decine di foto mescolato fra la miriade di turisti che si aggiravano tutt’intorno.

Dopo oltre un’ora stava per andarsene, ma poi aveva pensato sorridendo di farsi immortalare in uno degli immancabili fotomontaggi a tema, scegliendo come cornice la copertina di una nota rivista cittadina che recava sullo sfondo l’immagine del grattacielo.

Proprio nel momento in cui si era messo in posa per l’ambito souvenir, vide Claudia per la prima volta.

Era impegnata a tenere sotto controllo un gruppo di ragazzini scalmanati, in gita con la scuola in cui lei lavorava.

«Ragazzi venite qui, non vi allontanate…» stava urlando disperata ad alcuni scolari che si stavano rincorrendo facendo lo slalom tra una comitiva di turisti spagnoli.

Mentre redarguiva spazientita gli alunni, il suo sguardo incontrò quello di Giorgio, impegnato nel tentativo di ottenere il massimo dal suo sorriso artificiale, modello foto ricordo. La vista dei rossi capelli ricci scompigliati di Claudia, ma soprattutto gli occhi verde smeraldo della ragazza, che esprimevano la rassegnazione quasi comica di chi sta per dire “ma chi me l’ha fatto fare”, produssero in lui un accenno di risata vera, con il risultato che la foto risultò un capolavoro di spontaneità.

Anche Claudia sorrise al suo indirizzo, forse per quella complicità, naturale quanto breve, che a volte scatena tra sconosciuti una sorta di empatia reciproca.

La piccola alchimia fu bruscamente interrotta dalle invettive di una corpulenta signora spagnola che, forse a causa del suo improbabile look da teen-ager – mini-shorts attillati, scarpe da ginnastica e t-shirt, il tutto di colore rosa – era stata presa di mira dalle risa di scherno degli alunni.

La ragazza sospirò, poi alzò le spalle e si allontanò per gettarsi, suo malgrado, nella mischia.

Giorgio la osservò a lungo discutere con la spagnola, fino a quando la situazione sembrò tornare alla normalità e la scolaresca fu di nuovo sotto il controllo degli insegnanti che iniziarono ad accompagnare gli alunni in file ordinate verso l’uscita.

Dopo aver ritirato la foto, compiacendosi del buon risultato insperato, Giorgio si concesse ancora qualche minuto per dare un’ultima occhiata al panorama che si godeva dal grattacielo, poi si avviò verso l’uscita mettendosi in fila davanti agli ascensori.

Proprio mentre stava per entrare, la voce di una bambina dietro di lui lo fece trasalire: «Tu la ucciderai. »

Si voltò cercando con lo sguardo chi potesse aver pronunciato quelle parole, ma vide solo persone adulte. Perplesso, si infilò nella cabina, convincendosi di essersi sbagliato.

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Quando uscì dal palazzo aveva già dimenticato l’episodio. Trascorse il resto della giornata gironzolando per la quinta strada, dove acquistò decine

di oggetti, piccoli souvenir per amici e parenti, dando fondo a buona parte dei suoi già esigui risparmi.

Il mattino successivo decise di dedicare l’intera giornata alla visita del Metropolitan Museum. Arrivò intorno alle dieci, dopo una bella passeggiata attraverso il fresco dell’enorme rettangolo verde del Central Park.

Raggiunse subito il settore dedicato all’antico Egitto, un altro luogo che un giorno o l’altro si era ripromesso di visitare.

Mentre gironzolava ammirando i reperti archeologici, vide alle sua spalle, riflesso nel vetro di una teca, un viso familiare. Si voltò e incontrò per la seconda volta gli occhi di Claudia.

«Buongiorno» le disse in inglese. Lei lo sorprese rispondendogli in italiano: «Buongiorno, come è venuta la foto? » «La foto? Ah sì, certo, è venuta benissimo e devo ringraziare lei» rispose Giorgio,

aggiungendo: «Complimenti per il suo italiano! » «Veramente io sono di Roma, mi chiamo Claudia Gravina, lavoro in una scuola come

insegnante madre lingua, e lei? » Rosso in viso, Giorgio le disse che era convinto che fosse americana, magari di origine

irlandese, a giudicare dal colore dei capelli. Poi aggiunse, sempre impacciato, che lavorava a Boston e si presentò. Dopo un silenzio imbarazzato, certo di un rifiuto, prese il coraggio a due mani dicendole che gli sarebbe piaciuto continuare la visita al museo in sua compagnia e lei lo sorprese ancora, rispondendo che accettava volentieri.

Trascorsero al museo diverse ore, scoprendo di avere molti interessi in comune, come la passione per la letteratura horror, per l’antico Egitto e soprattutto per i film di Totò.

Verso metà pomeriggio uscirono e lui le chiese se aveva voglia di accompagnarlo in un posto speciale.

«Si trova vicino Washington Square» disse lui mentre salivano in taxi «in realtà non so se esiste veramente, ed è proprio per questo che voglio togliermi la curiosità. »

Arrivati a destinazione scesero dal taxi e raggiunsero una piccola strada poco distante dalla piazza. Si fermarono davanti alla targa che riportava il nome della via e Giorgio le chiese di fargli una foto.

Poi si spostarono di qualche metro all’interno della strada fino a raggiungere il civico “8” e si fecero immortalare da un passante, abbracciati davanti alla porta.

«Ma sei sicuro che sia proprio la casa di un personaggio dei fumetti? » gli chiese Claudia perplessa mentre scendevano le scale della metropolitana.

«Calma» rispose lui «non sono mica impazzito, so benissimo che si tratta di un personaggio di fantasia, ma la strada e la porta sono veramente quelli del fumetto» concluse.

«Allora perché non hai provato a suonare? » lo incalzò lei divertita. «Preferisco rimanere con il dubbio, immagina che al posto del detective mi apre una

vecchia signora, incazzata per averla distratta dalla sua soap preferita. No, meglio continuare a sognare. »

Giorgio la accompagnò fino all’ingresso della linea sotterranea, tentennando tra il desiderio di baciarla e la paura di un rifiuto. Ci pensò Claudia a rompere gli indugi. Gli

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prese le mani e si alzò in punta di piedi premendo le labbra sulle sue. «Che ne dici di accompagnarmi fino a Brooklyn, a casa mia? Ci spariamo una pizza e una birra ghiacciata, ti va? ».

E senza aspettare la risposta lo prese per mano incamminandosi verso la biglietteria. Quella notte Giorgio non fece ritorno in albergo e rimase da lei per tutto il giorno dopo,

infischiandosi dei festeggiamenti per la ricorrenza nazionale e dell’aereo che avrebbe dovuto riportarlo a Boston il pomeriggio.

Il martedì mattina chiamò in ufficio dandosi malato e Claudia fece lo stesso. Passarono insieme anche quel giorno facendo più volte l’amore, come se temessero che

ogni volta fosse l’ultima. Invece si incontrarono quasi tutti i weekend successivi, facendo a turno il viaggio in

aereo tra New York e Boston. La loro storia andò avanti senza problemi apparenti fino a dicembre, quando era ormai

prossimo il momento in cui Giorgio sarebbe dovuto tornare in Italia…” Giorgio continuava a fissare la tomba, incurante della fitta pioggia che si avventava sul

suo impermeabile. A pochi metri di distanza, un uomo lo osservava con attenzione proteggendosi con un

ombrello. «Professore? » disse portando all’orecchio il cellulare. «Mi dica, Cardini» rispose la voce di un altro uomo, dall’abitacolo dell’automobile

parcheggiata vicino all’ingresso del cimitero. «Volevo sapere per quanto tempo ancora devo aspettare» chiese Cardini. «Se la pioggia non aumenta troppo le sarei grato di attendere ancora un po’. Ha notato

qualche cambiamento? » «No, nessuna reazione apparente» lo informò Cardini «comunque farò come chiede.

Dieci minuti ancora, va bene? » «Grazie» il dottor Mari infilò il portatile in tasca sospirando. «Onestamente non nutrivo molte speranze in questo esperimento, ma ormai le ho

tentate tutte, non so più che fare. E’ per questo che ho accettato la sua richiesta di incontrarci, dottor De Biase» disse, rivolto al collega seduto al suo fianco.

«Speravo di riuscire a scuoterlo dal suo torpore, farlo tornare dal limbo in cui si è rinchiuso per tutto questo tempo» continuò «lei lo ha tenuto in cura per sei anni, dopo che il suo avvocato è riuscito a ottenere il trasferimento dal manicomio criminale in cui era stato rinchiuso negli Stati Uniti. Ho letto dai suoi referti il tipo di terapie che avete tentato nel vostro istituto e ho provato con misure alternative, senza successo, purtroppo. »

De Biase attese alcuni istanti prima di rispondere: «Vede Mari, si tratta di un caso che

mi ha sconcertato al punto tale da farmi sentire in dovere di riconsiderare la storia da un altro aspetto, diverso da quello clinico. Come lei sa, dopo il trasferimento del paziente, io sono andato in pensione e, non avendo famiglia, ho trascorso parecchio tempo ad indagare sul passato di quell’uomo. Sono anche andato per qualche settimana a New York dove ho potuto analizzare gli atti del processo. »

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Fece una pausa prima di continuare, poi aggiunse: «Alla fine sono giunto ad una conclusione a dir poco inquietante. Ma prima di rivelarla è bene che le racconti una storia…»

“A pochi giorni dalla fine del suo periodo di formazione a Boston, Giorgio raggiunse

Claudia a New York. Prima di andare da lei era passato da Tiffany per comprare un anello da regalarle.

Arrivato a casa sua la abbracciò e la condusse subito in camera da letto. Più tardi, ancora ansimante per l’atto sessuale appena consumato, le porse il pacchetto e

le chiese di venire con lui in Italia per il periodo natalizio, sicuro che avrebbe accettato senza problemi.

«Mi dispiace, ma non posso» lo gelò lei. «Perché non puoi? Cosa ti trattiene? La scuola sarà chiusa per una decina di giorni! » le

disse contrariato. Claudia posò il pacchetto sul lenzuolo senza aprirlo. «Il punto è che non sono più sicura di quello che provo per te. Poche settimane prima di

conoscerti avevo interrotto una lunga relazione con un altro uomo, lui viveva in questa casa, anzi, la casa è sua. »

Giorgio restò senza parole, incapace di reagire. «Qualche giorno fa ci siamo visti…abbiamo parlato della nostra separazione e…non so

come dirtelo ma ho bisogno di riflettere sul nostro rapporto» concluse piangendo. Senza replicare Giorgio si vestì, raccolse il pacchetto e si avviò alla porta. «Buon Natale» le disse «e addio», poi se ne andò sbattendo la porta. Il giorno della partenza, mentre svuotava i cassetti per preparare i bagagli trovò il

rullino fotografico contenente gli scatti della sua prima visita a New York. Lo gettò in valigia ripromettendosi di portarlo a sviluppare appena arrivato in Italia. Non lo fece mai.

Poche ore dopo era in volo in classe economica su un aereo della TWA, diretto a Roma. Al suo fianco era seduta una bambina. Indossava degli abiti pittoreschi, simili a quelli

che i nomadi usano nei giorni di festa. Quando lei gli parlò, lui si stava appisolando, con l’auricolare nell’orecchio destro che

trasmetteva a ripetizione le canzoni di Lionel Ritchie. «Tu la ucciderai. » Si destò di colpo girandosi verso di lei, ma il sedile era vuoto. Ripensò sconvolto all’episodio dimenticato di cinque mesi prima e sentì il bisogno

impellente di bere qualcosa di forte. Si fece portare un brandy da una hostess e pian piano si tranquillizzò. Cercò di riflettere sull’accaduto. Scartò subito l’idea di chiedere agli assistenti di volo

dove fosse finita la bambina, certo che lo avrebbero preso per pazzo. Era sicuramente colpa dello stress accumulato tra il lavoro e la storia con Claudia, si

disse. In ogni caso decise che una volta a Roma si sarebbe fatto visitare da qualche strizza

cervelli, di nascosto dai suoi genitori, per non farli preoccupare inutilmente. Il volo procedette senza altre sorprese e una volta a casa, il caloroso abbraccio dei

genitori e la prospettiva di rivedere gli amici, produssero l’effetto di calmarlo, alleviando le sue preoccupazioni.

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Le settimane successive furono abbastanza serene e in breve Giorgio dimenticò il suo proposito di consultare un dottore e si immerse nel lavoro sperando di allontanare così il ricordo di Claudia.

Cominciò a frequentare una collega, un rapporto basato quasi esclusivamente sul sesso e con poco trasporto emotivo da parte di entrambi. Era soprattutto uno scambio reciproco, un tacito accordo legato al presente senza alcuna pretesa di guardare oltre le lenzuola.

La storia andò avanti fino alla fine di maggio, quando Giorgio, rincasando, trovò Claudia ad aspettarlo davanti alla porta…”

La pioggia era aumentata d’intensità, i vetri dell’automobile cominciavano ad

appannarsi. «Come avrà sicuramente notato, dottor Mari, i documenti relativi al quadro psicologico

del paziente si limitano alle osservazioni fatte da me dopo il ricovero nell’istituto in cui lavoravo. »

Il professor Mari annuì: «Infatti non sono riuscito a trovare informazioni su eventuali manifestazioni di turbe mentali pregresse. A dire il vero neanche il suo medico curante dell’epoca in cui viveva a Roma ha saputo darmi indicazioni. So che il paziente si trasferì nella capitale con la famiglia dopo il diploma e che in precedenza aveva abitato in diverse città. »

«Esatto» disse l’altro «anch’io ho avuto difficoltà a reperire informazioni sulla vita del Tagliaferri prima del trasferimento dalla Svizzera, suo luogo di origine. Come sa i genitori morirono pochi anni dopo il delitto, quando lui era ancora internato nel manicomio criminale. L’avvocato che ha seguito il suo caso non ha voluto darmi nessuna informazione, come mi aspettavo. Dopo la pensione però, come le ho già accennato, ho fatto delle indagini. Sono andato per alcuni giorni nella zona in cui il paziente è vissuto fino all’età di dieci anni. Dagli archivi di un quotidiano ho scovato una notizia molto interessante: alcuni mesi prima del loro ritorno in Italia, nel paese in cui viveva la famiglia Tagliaferri avvenne un fatto di cronaca nera. Tre persone persero la vita in un incendio doloso. Dopo lunghe indagini la polizia del luogo archiviò il caso senza risalire ai colpevoli. Inizialmente però le indagini avevano portato a quattro bambini, tutti sui dieci anni, le iniziali di uno di loro erano G. T…»

“La gioia di rivedere Claudia fu tale che Giorgio non si preoccupò minimamente di

chiederle cosa ci facesse davanti a casa sua. Si limitò ad abbracciarla, quasi soffocandola. «Ti amo» disse lei «voglio stare con te per sempre, se anche tu mi ami ancora. » Lui la baciò e la fece entrare in casa per presentarla ai suoi genitori: «Per sempre» le

sussurrò all’orecchio mentre chiudeva la porta. I giorni seguenti furono frenetici. Giorgio chiese e ottenne il trasferimento nella sede di

Newark, il mese successivo si sposarono e passarono la luna di miele in Egitto. Fu proprio in quella terra magica, quasi all’ombra della grande piramide, che concepirono una nuova vita.

Una notte, quattro mesi più tardi, nel corso di una trasferta a Chicago, lui sognò la bambina dell’aereo che lo tormentava con l’ormai familiare ammonimento.

Si svegliò ansimando e sentì il bisogno irrefrenabile di sentire la voce di sua moglie.

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Il telefono squillò a lungo senza risultato. In preda all’angoscia si vestì e andò di corsa all’aeroporto. Cinque ore dopo, trovato l’appartamento vuoto, suonò al campanello della vicina di casa, una tranquilla pensionata di nome Emma che aveva stretto amicizia con la giovane coppia.

«Giorgio, finalmente! Claudia è in ospedale al Mount Sinai, si è sentita male verso mezzanotte, ho cercato il numero del tuo albergo a Chicago ma non l’ho trovato, mi spiace» gli disse Emma.

«Come sta? » chiese lui. «Non lo so, ho provato ripetutamente al centralino dell’ospedale ma non c’è stato verso

di prendere la linea! » La donna non aveva ancora finito di parlare che Giorgio era già a metà scale. Quando arrivò era tutto finito. Claudia riposava sotto sedativi. Aveva perso il

bambino…” «Intende dire che il nostro paziente aveva già ucciso qualcuno? A quell’età? » Il dottor Mari attese con ansia la replica del suo collega. «Esattamente. Si trattò di una bravata da ragazzini. Almeno io credo che le cose siano

andate in questo modo…» Si interruppe per accendere una sigaretta, poi proseguì «…diedero fuoco a una catapecchia abitata da una famiglia di nomadi. Padre, madre e figlia di 7 anni. »

Mari fissò per qualche istante un punto indefinito in direzione dell’ingresso del cimitero.

I lumi accesi sulle tombe più vicine davano una sfumatura minacciosa ai rigagnoli di pioggia che correvano sul vetro dell’auto.

«Quindi lei ritiene che la faccenda sia stata insabbiata per via della giovane età dei responsabili» chiese all’anziano collega.

«Certo. Oltre al fatto che uno dei ragazzini era il figlio del capo della polizia locale. » Mari chiamò Cardini per chiedergli la gentilezza di attendere ancora. Gli disse che lo

avrebbe richiamato presto, scusandosi per il protrarsi della fastidiosa incombenza. Dopo aver chiuso la comunicazione si rivolse al suo collega: «Mi perdoni De Biase,

non riesco però a capire il nesso di questo ‘incidente’ con l’omicidio di cui si è macchiato il nostro uomo... »

“La perdita del bambino aveva segnato molto la giovane coppia. Occorse un po’ di

tempo prima che entrambi si riprendessero dalla triste esperienza. Ma a poco a poco ritornò il sereno.

Alla fine dell’anno successivo Claudia era di nuovo in dolce attesa. Le visioni di Giorgio tornarono in quel periodo. Vedeva la bambina in sogno ma anche

per strada, in metropolitana, addirittura in ufficio. La scena era sempre identica. La vedeva per pochi istanti, lo stretto necessario per ascoltare il monito accusatore: “Tu la ucciderai”.

Lo strano fenomeno andò avanti per alcuni giorni, finché Giorgio decise di rivolgersi ad uno specialista, ma senza rivelare nulla a Claudia, preoccupato per l’andamento della gravidanza.

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Il giorno della prima seduta, mentre si stava recando dallo psicologo, passò davanti ad un negozio di armi. Spinto da un bisogno irrazionale, entrò e acquistò un lungo coltello da caccia che mise in una tasca della ventiquattrore.

Uscito dal negozio aveva già dimenticato di averlo comprato. La terapia durò molte settimane ed ebbe dei buoni effetti, le visioni scomparvero dopo

le prime sedute. Giorgio effettuò l’ultima seduta in concomitanza con la fine del sesto mese di gravidanza della moglie…”

De Biase accese la seconda sigaretta, prima di rispondere. «Dopo la scoperta di quel fatto di cronaca ho ampliato le ricerche sulle famiglie degli

altri tre ragazzini. A confermare i miei sospetti, ho saputo che anche loro si trasferirono poco dopo l’accaduto. Purtroppo non sono riuscito a risalire alle loro destinazioni. Più tardi sono andato in America e ho avuto modo di scoprire dagli atti del processo, che il paziente era stato in cura per alcuni mesi presso lo studio di un nostro collega di New York.

L’ho incontrato e gli ho raccontato quello che lei ha appena sentito, ne fu molto sorpreso, durante le sedute il fatto non era emerso, neanche con l’ipnosi. Io penso che abbia semplicemente rimosso il ricordo, un sorta di meccanismo di protezione a livello inconscio. Comunque il professor Smithson, così si chiama, in cambio mi ha fatto una rivelazione sorprendente: Giorgio Tagliaferri era tormentato dalle visioni di una bambina, una nomade dell’età apparente di sette anni! »

«Pazzesco» commentò Mari, «un uomo tormentato dal suo passato, che non riesce a ricordare. »

«A quel punto avevo qualche altro elemento in più ma la mia curiosità non era ancora sazia» riprese De Biase.

« Tornato in Italia ho contattato una mia, diciamo, conoscenza, per fare ulteriori ricerche sugli altri ragazzi. Ho potuto così consultare il database dell’Interpol. Il risultato è stato sconvolgente. Mi lasciò letteralmente di sasso. »

Si interruppe per spegnere la sigaretta, poi proseguì: «Tutti e tre gli amici d’infanzia del Tagliaferri si sono macchiati, da adulti, dello stesso delitto…»

“Il giorno dell’ultima seduta Giorgio uscì dallo studio euforico. Claudia lo attendeva

dal ginecologo per un’ecografia. In precedenza lui non era mai stato presente durante le visite, Claudia preferiva andare da sola, diceva che lui la rendeva nervosa. Ma quella visita era speciale: la sera prima avevano deciso insieme di farsi rivelare il sesso del bambino. Fino a quel momento avevano preferito aspettare per una sorta di scaramanzia, visti gli esiti della prima gravidanza. Stavolta però erano in dirittura d’arrivo ed entrambi erano pieni di eccitazione.

Giorgio arrivò in ritardo per via del traffico. Parcheggiò l’auto a un centinaio di metri dall’ambulatorio e prese una manciata di monete che teneva nel cruscotto. Mentre contava i soldi necessari per il tassametro vide di nuovo la bambina. Sempre vestita in stile bohemienne, era ferma sul marciapiedi, dall’altro lato della strada e lo fissava. Giorgio gettò le monete sul sedile e senza riflettere tolse il coltello da caccia dalla borsa e lo tenne in mano, la lama nascosta nella manica della giacca…”

Mari rimase a bocca aperta come un idiota invitandolo a continuare.

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«Inoltre, tutti e tre, soffrivano dello stesso disturbo. Vedevano la bambina dell’incendio. L’ho scoperto in seguito, recandomi nelle città in cui si erano svolti gli omicidi e contattando i rispettivi psicologi che li hanno seguiti. Io non penso che possa essere soltanto una coincidenza. Sono convinto che siamo davanti a fatti che sono al di fuori del razionale. »

Mari lo guardò perplesso: «Vuole dire che pensa a fenomeni paranormali? Francamente, non mi aspettavo di sentire simili baggianate. Trovo che questi argomenti…»

«La prego, mi faccia finire» lo interruppe De Biase, «ho ancora un paio di cose da rivelarle…»

“Giorgio scese dall’auto per seguire la bambina che si stava allontanando. Dopo

qualche decina di metri entrò in un palazzo e lui fece lo stesso, affrettandosi per non perderla di vista. Ma appena superò il portone, della bambina non c’era traccia. Notò che l’ascensore stava salendo. Quando il display indicò che la salita era terminata, controllò il numero del piano e salì per le scale ad ampie falcate, senza curarsi del portiere dello stabile che lo osservava perplesso.

Giunto al piano dove si era fermato l’ascensore si trovò davanti a una porta socchiusa. La spinse senza bussare e vide la bambina in piedi al centro di un salone, lo sguardo fisso su di lui, l’espressione stranamente sorridente. Non parlò, ma la sua voce lo raggiunse inesorabile direttamente nel cervello: ‘Tu la ucciderai’…”

La voce del dottor De Biase diventò più flebile, quasi un sussurro: «Vede queste due

foto?» Mari inforcò gli occhiali per osservare, incuriosito: «Sì ma non capisco…?» «Quella in bianco e nero l’ho trovata nell’archivio della scuola elementare dove era

iscritta la bambina morta nell’incendio. L’altra l’ho sviluppata io stesso da un rullino che faceva parte degli oggetti personali del paziente quando fu ricoverato da noi. Si tratta di una foto scattata a New York, in una strada dalle parti di Washington Square. I due in primo piano sono Tagliaferri e la futura moglie. La figura sfocata sullo sfondo è la stessa bambina! »

Mari restò per l’ennesima volta senza parole. «Guardi questo ingrandimento» disse De Biase tirando fuori una terza foto da una

busta. «E’ stato realizzato al computer. Come vede, è in bianco e nero, si nota meglio che il

vestito della bambina è lo stesso che indossa nella prima foto. » «Tutto questo è assurdo» disse Mari scuotendo la testa. «Deve trattarsi di uno scherzo,

non è possibile.» «E’ la stessa cosa che ho pensato io all’inizio. Ma ora me ne sono fatta una ragione»

concluse il suo collega e accese l’ennesima sigaretta, mentre Mari continuava a studiare le foto.

«C’è un’ultima cosa che devo dirle» continuò, con un tono di voce quasi circospetto. « Tutti e tre si sono suicidati, dandosi fuoco. E sempre nello stesso giorno, a quattro anni di distanza l’uno dall’altro. Il primo si uccise il 29 febbraio 1990, l’ultimo quattro anni fa, sempre il 29 di quel mese. Lo stesso giorno e lo stesso mese della morte della bambina. E oggi…è il 29 febbraio…»

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“Giorgio si avventò su di lei come una tigre. Affondò il coltello decine di volte,

ignorando le grida che provenivano da qualche parte nella stanza. Si fermò solo quando non aveva più neanche la forza di tenere in mano il pugnale, gocciolante di sangue...”

Mari sembrava non avere sentito, concentrato sulle foto. «Secondo lei» chiese, «cos’è l’oggetto che ha in mano la bambina nell’ingrandimento?

E’ qualcosa che ho già visto ma non riesco a ricordare…» «Mi faccia vedere, che strano, non l’avevo mai notato…mi sembra uno di quei vecchi

lumi ad olio…» Mari trasalì: «Ma certo! Come ho fatto a non riconoscerlo subito? E’ uguale alla

lampada all’interno della cappella! » I due si guardarono sconvolti, illuminati dalla stessa intuizione… “All’arrivo della polizia, una buona parte della sala d’attesa dell’ambulatorio era

affrescata di rosso. Giorgio era inginocchiato davanti al corpo immobile di Claudia. Da sotto la gonna le sgorgava un torrente di sangue e liquido amniotico. Dai verbali degli agenti risultò che prima di essere portato via, il marito le disse: «Che

tu possa bruciare all’inferno, maledetta zingara! » Erano state le ultime parole pronunciate da Giorgio Tagliaferri in tredici anni…” Mari scese dall’auto, armeggiando nervosamente con la tastiera del cellulare: «Cosa mi

stava dicendo a proposito della data…» Lo squillo della chiamata di Cardini lo interruppe. «Professore! Non ci crederà, ma ha parlato! » «Chi? Tagliaferri? Cosa le ha detto? » domandò ansioso mentre correva verso il

cimitero. «Mi ha chiesto se potevo offrirgli una sigaretta. Non sapevo che fumasse, comunque ho

pensato che non ci fosse nulla di male. Adesso è entrato nella cappella per accendere…» “«Giorgio sei un fifone…Giorgio sei un fifone…» «Basta smettetela! Io non ho paura! E’ solo che non mi va di farlo! E se poi gli succede

qualcosa? » «Ma dai. Non succede nulla. Walter ha detto che li ha visti uscire. Saranno andati

sicuramente a chiedere l’elemosina giù in paese. Sanno fare solo quello, quei sudici pezzenti! »

«Ma se poi gli bruciamo la casa dove andranno a dormire? » «Tranquillo…Cosa vuoi che bruci con questa poca benzina? Forza, passami i

fiammiferi! » «Ve bene, ma se succede qualcosa, dico tutto a tuo padre. Lui è un poliziotto e non sarà

contento di scoprire una cosa del genere. Ti avverto! » «Tranquillo, non lo scoprirà nessuno. Ci facciamo solo quattro risate. Allora, sei

pronto con i fiammiferi? » «Sì, sono pronto…»”

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CR E IL LUPO

“E mi raccomando, stai alla larga dal parco” aveva detto la nonna a CR. “Sì nonna, stai tranquilla” aveva risposto lei. E così, era andata a scuola camminando sempre sul marciapiedi lungo la strada

principale. CR stava sempre molto attenta alle raccomandazioni della sua adorata nonna; era una

ragazzina giudiziosa. Frequentava la terza elementare, ma era molto più grande dei suoi compagni di classe:

aveva undici anni e fisicamente ne dimostrava anche un paio di più. Ma la sua mente era quella di una bambina di sette o otto anni.

Era nata ‘normale’ ma la situazione familiare in cui aveva vissuto nei primi anni di vita, fatta di percosse e violenze psicologiche quotidiane, aveva provocato a un certo punto una specie di blackout nel suo sviluppo mentale: ieri una bambina di cinque anni come tutte le altre, oggi non più.

I medici non erano stati in grado di trovare una cura per il suo stato, gli esami erano tutti negativi, non c’era niente che non funzionasse secondo i loro parametri; rassegnati, dissero che secondo loro bisognava solo attendere, prima o poi sarebbe stata lei stessa ad uscire fuori dal guscio.

Il padre di CR era morto per un’overdose di eroina. Il corto circuito mentale della bambina cominciò a manifestarsi in quel periodo, il suo corpo cresceva, ma la testa procedeva molto più lentamente.

Pochi mesi dopo la madre era andata a stare in testacomio: “Un posto dove si curano le malattie nella testa delle persone” diceva CR a chi chiedeva spiegazioni sul significato di quella parola. Da allora viveva con la nonna materna.

CR andava a trovare la mamma tutte le domeniche, però non sempre riusciva a vederla, perché certe volte sua madre stava troppo male e allora non la lasciavano entrare.

Invece, quando la mamma stava meglio, se era bel tempo, andavano tutti insieme nel grande giardino del testacomio e CR era felice perché la mamma stava bene, sorrideva, e non aveva più quei brutti segni sugli avambracci e sul dorso delle mani.

In quelle giornate gli occhi della sua mamma erano più luminosi e il cuoricino di CR batteva forte quando vedeva quella bella luce nello sguardo della sua bellissima mamma.

Allora lei faceva il gioco che tanto le piaceva; si nascondeva dietro un albero o una panchina in attesa che la madre cominciasse a chiamarla; poi, quando la mamma invocava il suo nome, lei sgusciava fuori dal nascondiglio e si tuffava letteralmente in grembo alla madre, facendo sobbalzare la carrozzella, sotto lo sguardo severo della signora vestita di bianco che accompagnava sempre la mamma.

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Quando “non era una buona giornata”, così dicevano sua nonna e la signora se la mamma non stava bene, CR aspettava nel giardino del testacomio che era pieno di bambini e di belle signore vestite di bianco.

Si metteva a giocare con loro, oppure restava da sola sull’altalena, sognando ad occhi aperti il giorno in cui la mamma sarebbe guarita e sarebbe tornata a casa insieme a lei e ai nonni.

Qualche volta, se non c’erano altri bambini, le faceva compagnia il lupo. Quando suonò la campanella che segnava la fine delle lezioni, CR uscì sul cortile

insieme agli altri bambini. Pioveva forte, e lei aveva dimenticato l’ombrello. Attese riparandosi sotto la tettoia della scuola, mentre il piazzale si svuotava man mano

che i suoi compagni salivano nelle automobili dei genitori. Quando la pioggia cominciò a diminuire, era rimasta da sola nel cortile; allora decise di

passare per il parco per tornare a casa; il tragitto sarebbe stato molto più breve e nel caso in cui la pioggia fosse tornata, avrebbe potuto ripararsi sotto gli alberi.

Era appena entrata nel parco che una voce familiare la chiamò: era la voce del lupo. Lei fu contentissima della sorpresa, avrebbero attraversato il parco insieme e lei sarebbe

stata al sicuro con lui. Si addentrarono nel parco deserto tenendosi per mano. A metà tragitto, il lupo si fermò per accendersi una sigaretta. “Ti dispiace se facciamo una pausa?” disse, “oggi al lavoro è stata una giornata molto

faticosa e vorrei riposarmi un poco” concluse, aspirando la prima boccata di fumo. “Va bene”, rispose CR, “ma non troppo a lungo altrimenti la nonna si preoccupa”. “Non ti preoccupare, solo cinque minuti e poi ce ne andiamo” rispose l’altro,

appoggiando il soprabito in terra, all’ombra di una grande quercia. “Vieni, siediti qui accanto a me, così non ti bagnerai” disse il lupo e CR si accoccolò al

suo fianco, tirando fuori dallo zaino una bambola con lunghi boccoli corvini, proprio come quelli della bambina.

“Come si chiama?” chiese il lupo indicando il giocattolo. “Camilla”, rispose CR sorridendo, e poi aggiunse: “ti piace?”. “E’ bellissima, e i suoi capelli sono stupendi, quasi come i tuoi” rispose il lupo,

passandole una mano tra i riccioli. Continuò a passarle le dita fra i capelli per alcuni istanti poi disse: “Ti va di fare un

gioco?” “Che gioco?” rispose CR aggrottando le sopracciglia in quel modo irresistibile che solo

i bambini riescono a fare. Il lupo sorrise poi disse ”Facciamo finta che Camilla è malata, e io sono il dottore che

deve guarirla, ti piace, come idea?” “Certo è bellissima, ma come funziona?” domandò la bambina incuriosita. “Per prima cosa le togliamo il vestito” rispose il lupo, “così posso controllare la sua

pancia” concluse, sbottonando la camicetta e i pantaloni della bambola. “Vediamo un po’…e sì, ha proprio un brutto mal di pancia, ora glielo facciamo

passare…ecco, un bel massaggio qua, un bacino là e passa tutto…vedi? Ora sta bene” disse il ‘dottore’ a CR.

“Grazie!” esclamò la bambina, “ora posso rivestirla?”

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“No aspetta, prima devo visitare anche te, hai un aspetto che non mi piace, su togliti il vestito” la esortò il lupo.

“Non mi farai male, vero?” chiese perplessa CR. “Prima vediamo come stai, forse ci vorrà una medicina” rispose il lupo gettando

lontano le mutandine della bambina, “all’inizio potrebbe fare un po’ male ma poi passerà tutto, non preoccuparti” concluse cingendola con le sue braccia irsute.

Un’ora più tardi CR entrò in casa passando dalla porta che dava sul giardino, cercando di non fare rumore.

Sentiva freddo e le facevano male le gambe, però non voleva che la nonna la vedesse in quello stato; aveva promesso al lupo che non le avrebbe raccontato nulla del loro gioco e non voleva che lui si arrabbiasse.

Ma appena entrò in bagno iniziò a sentire dei forti dolori dentro la pancia e il sangue riprese a scenderle tra le gambe. “Nonna!” chiamò, mentre scivolava sul pavimento.

La nonna arrivò subito, la aiutò ad alzarsi e a entrare nella vasca da bagno. “Stai calma, cara” disse in tono comprensivo, “non è niente, sono cose di donne” concluse tranquillizzandola.

“Tranquilla, tesoro, domani ti porto dalla dottoressa, lei saprà spiegarti tutto meglio di me” le disse più tardi, dopo averle portato la cena a letto; “Ora dormi, domattina sarà tutto passato, buonanotte piccola mia” la salutò spegnendo la luce.

Quando il marito rientrò dal lavoro, la nonna non disse nulla a proposito dello stato della bambina (quelle erano cose da donne), gli disse soltanto che era andata a dormire presto perché si era stancata a scuola.

Dopo cena, la nonna baciò il marito su una guancia e si alzò per andare in camera sua, a guardare la televisione.

“Caro” disse, “è meglio se fai un salto dal dottore appena puoi, ieri mentre le mettevo in lavatrice, mi sono accorta che le tue mutande erano di nuovo macchiate di sangue.”

“Non ti ho detto niente per non metterti in pensiero, a quanto pare quell’infezione non era guarita del tutto; ti prometto che domani vado dal medico” disse lui.

“Mi raccomando, buonanotte caro, e vedi di non bruciare le coperte con quelle maledette sigarette, e domattina ricordati di aprire la finestra…”

“Sì, stai tranquilla, non brucio niente, buonanotte” la interruppe lui, andando a sua volta nell’altra stanza da letto.

Nonostante le rassicurazioni della nonna e il diminuire del dolore, CR non riusciva a prendere sonno, si sentiva strana, non solo fisicamente.

Ripensava al gioco fatto con il lupo e qualcosa dentro la sua testa le diceva che quel gioco era sbagliato, che i giochi sono divertenti e quello non lo era per niente; anzi quello non sembrava affatto un gioco…

Piu tardi, finalmente, la stanchezza prevalse sulla tensione e si addormentò. Fu un sonno agitato, quasi un dormiveglia, coscienza e incoscienza si alternavano a

intervalli regolari; ma che dormisse o meno le immagini che si formavano nella sua mente erano sempre le stesse: stava male per colpa del lupo, lui non l’aveva curata, ma le aveva fatto male, molto male.

Lui le aveva mentito, non le voleva bene, e lei non doveva fare tutto quello che lui le chiedeva, no: lei doveva ribellarsi, doveva dirlo alla nonna e alla dottoressa, perché il lupo era cattivo, cattivo, cattivo!

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Mentre CR era immersa nella sfida tra sogno e realtà, il lupo dormiva tranquillo nel suo letto; e sognava. Sognava di giocare al dottore con CR e si sentiva felice, quel gioco gli era piaciuto e lo avrebbe fatto di nuovo, sì, lei era così bella, così indifesa…

Quando la battaglia interiore di CR terminò, era ancora buio. Il sonno e i suoi sogni erano stati sconfitti, a vantaggio della verità e di tutti gli orrori che si riversarono spietati nella memoria di CR.

Piangendo per le fitte di dolore fisico e mentale, scese dal letto e si guardò nello specchio: oltre il suo viso vide danzare le immagini sfocate della sua breve vita, i suoi genitori, i suoi nonni, la sua infanzia durata troppo a lungo; ma soprattutto vide il lupo, che sorrideva mentre giocava al dottore nel parco.

Poi lo specchio scomparve, insieme al resto della stanza, e CR vide se stessa come in un film; ecco CR che entra in cucina, prende il coltello per tagliare il pane, esce dalla cucina, entra nella camera del nonno…

Il lupo stava ancora sognando quando la lama del coltello recise le arterie del suo collo. Oggi CR è andata a trovare sua madre, non è più in testacomio. E’ guarita, e vive tranquilla in una bella casa di fronte al mare, insieme alla nonna,

ormai sorda e cieca. CR va da sua madre tutte le domeniche, come quando era bambina. Qualche volta fanno lunghe passeggiate sulla spiaggia insieme al marito di CR e alle

loro due figlie. Qualche volta invece CR si reca sulla spiaggia da sola, ma non c’è nessun lupo a tenerle compagnia.

Allora ripensa a quella notte, quando la sua infanzia innaturale si interruppe di colpo, quando una bambina chiamata Cappuccetto Rosso incontrò il lupo per l’ultima volta, quando quella bambina si guardò nello specchio… e quel lupo sognò di giocare al dottore per l’ultima volta.

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IL CONDOMINIO

Il bar era sempre uguale a come lo ricordava. Stessi arredi, stessi avventori, stessa cameriera sguaiata, stesso proprietario. Erano passati quasi sei anni dall’ultima volta che Giovanni aveva messo piede in quella

via di mezzo tra una bettola e un bar dello sport. Quelle erano le descrizioni che più o meno corrispondevano alla realtà per la maggior

parte di coloro che ci capitavano per caso, turisti o residenti che fossero. Ma per Giovanni e per la maggior parte dei clienti fissi, quel locale che si affacciava su

un vicolo nel cuore di Trastevere, con i tavolini di legno traballanti impregnati di nicotina e di grasso, era soprattutto una bisca clandestina.

La sala da gioco si trovava nel retro, per entrarvi bisognava essere presentati da qualcuno del giro, oppure conoscere personalmente il titolare, che tutti chiamavano semplicemente Eto perché non aveva mai rivelato a nessuno il nome per esteso né tanto meno il cognome.

“Ciao Giova’, come stai? E’ una vita che non ti fai vedere! Cosa ti posso offrire?” gli chiese Marcellina, la donna tuttofare che da quarant’anni lavorava nel locale e che non cambiava vestito da altrettanto tempo, a giudicare dalle macchie sbiadite che coprivano camicia e pantaloni a fare da base per quelle fresche.

“Ho cambiato casa, mi sono trasferito in periferia” rispose Giovanni. Mentre gli porgeva un bicchiere di cognac, la donna disse: “Lo so, me l’hanno detto

qualche settimana dopo che te ne sei andato. Però pensavo che almeno ogni tanto ti facevi vivo, giusto per venire a salutare gli amici…”

Giovanni considerò con amarezza quell’ultima parola. Si sedette ad un tavolo e chiese a Marcellina un altro giro.

“Amici” disse tra sé, un termine non facile da attribuire a quelli che per dieci anni aveva frequentato nella stanza sul retro. Per lo più era gente che non aveva mai visto fuori dal bar, forse l’unico che si avvicinava un poco a quella descrizione era Germano. Con lui, in effetti, non aveva condiviso solamente interminabili notti davanti alle carte da poker, alla bottiglia vuota e al posacenere stracolmo. Per diversi anni erano andati insieme allo stadio a vedere quasi tutte le partite casalinghe della “magica” Roma. E spesso, l’estate, uscivano con le rispettive consorti a mangiare un gelato dalle parti di Torre Argentina oppure una pizza dall’”incinto” dietro al Pantheon.

Poi, dopo la morte della moglie di Germano, erano finite anche quelle serate e le partite le vedevano alla pay-tv, sullo schermo gigante che Eto aveva installato nel locale. Le giocate a carte però erano durate per parecchi mesi ancora. Dopo qualche tempo anche Giovanni era rimasto da solo. La moglie, stanca della compagnia di un attore fallito, un beota nullafacente che passava il tempo a sperperare il loro conto in banca con il gioco e l’alcool, se n’era andata a vivere con un altro, nell’appartamento all’Eur che le aveva

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lasciato la sorella. Se non altro, era stata abbastanza umana da lasciargli la casa di Trastevere, che a conti fatti valeva una fortuna, visti i prezzi assurdi del mercato immobiliare della capitale.

Quella casa era stata la sua salvezza. Vendendola, era riuscito a pagare tutti i debiti di gioco, a comprarsi un’auto nuova e acquistare un monolocale vicino al raccordo anulare, in un piccolo condominio di sei appartamenti. Da allora, non era più tornato a Trastevere.

Si era ormai fatto buio e la bottiglia di cognac che alla fine Marcellina gli aveva lasciato sul tavolino era quasi vuota, quando entrarono Eto e Germano.

Dopo i saluti di rito, Germano lo invitò sul retro “per fare una partita come ai vecchi tempi”.

Ordinarono qualcosa da mangiare e cominciarono a “scaldarsi” con qualche mano a briscola contro un’altra coppia, 10 € di piatto ogni giro.

Poi più tardi fu il turno del poker, tre ore di oblio per un totale di mezzo litro circa di liquore e almeno 15 sigarette in più nel corpo di Giovanni. Ma anche 500 € di meno, che insieme a quelli di Germano facevano un totale di 800 €, tutti nelle tasche del solito Martella, altro “socio” storico.

Uscirono insieme e Giovanni accompagnò per un pezzo di strada l’amico. La serata era tiepida e invitava a passeggiare. Camminarono in silenzio per qualche minuto, poi si fermarono sul ponte Fabricio, appoggiati con i gomiti sul travertino a guardare il fiume, in piena per le piogge torrenziali dei giorni precedenti.

“Come mai non ti sei fatto più vedere?” chiese Germano all’improvviso, interrompendo il silenzio.

“Dopo avere venduto la casa e acquistato quella nuova ho provato a rimettermi in carreggiata” rispose Giovanni, aggiungendo: “Avevo deciso di smetterla con il gioco e con l’alcool e di provare a dare un senso agli anni che mi restavano da vivere.

“Per un po’ è andata bene, ho fatto qualche buona comparsata a Cinecittà e il mio conto in banca è rimasto stabile per parecchio tempo.”

“E la nuova casa com’è, ti trovi bene?” chiese l’amico. Giovanni fece una strana smorfia prima di rispondere: “All’inizio, sì, mi sono trovato

bene, il condominio era piccolo, gli inquilini erano brava gente e la zona era fornita di tutti i servizi. La macchina non la usavo quasi mai, e alla fine l’ho venduta. Ogni tanto partecipavo a gite di gruppo organizzate dal parroco della chiesa locale. Ho avuto anche una storia con una donna, è durata un paio d’anni poi lei si è trasferita a Milano per lavoro e non l’ho più sentita.”

Germano non disse nulla, ma lo guardò invitandolo a continuare. “E’ andata bene fino a sei mesi fa, fino a quando tre degli altri appartamenti sono stati

venduti. “All’inizio io ero l’unico a non essere in affitto, poi il proprietario della palazzina ha sfrattato gli inquilini e in poche settimane ha venduto tre appartamenti, solo due sono ancora disabitati. Da quel momento è cominciato l’inferno.”

“Perché, cos’è successo?” lo incalzò Germano. “Non riuscivo più a vivere tranquillo.” rispose lui. “Io sto al secondo piano” continuò “Sopra c’è l’appartamento occupato da una tizia, il

marito fa la guardia notturna, e ogni notte, escluso il lunedì perché il marito aveva il turno di riposo, lei riceveva in casa un amante diverso, anche più di uno alla volta. Per sei mesi

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mi sono sorbito gli orgasmi di quella zoccola, ti giuro, un vero incubo. Le prime volte la presi a ridere ma alla lunga ho cominciato a non riuscire a dormire per molte ore.”

L’amico stava per replicare ma si interruppe nel momento in cui Giovanni riprese il racconto.

“Ho provato a spostare il letto in un’altra stanza ma non c’è stato verso, sembrava che a quella donna non bastasse una stanza sola per scopare. No, lei doveva usare tutta la casa. Da mezzanotte per ore sempre la solita solfa.”

“E tu non hai provato a rivolgerti a qualcuno, alla polizia per esempio?” gli domandò l’incredulo Germano.

“L’ho fatto” rispose “Ma non è servito a niente. Anzi, ho scoperto che alcuni dei suoi amici erano proprio dei poliziotti. Alla fine qualche settimana fa ho parlato con il marito. Non ci crederai ma lui sapeva tutto e ha detto che non erano affari miei!”

“Pazzesco” commentò Germano. “E gli altri condomini?” chiese. Giovanni abbozzò un sorriso amaro. “Con quelli era anche peggio. Al confronto il chiasso della notte era quello minore. Al

piano di sotto c’era un ragazzotto che per tutto il pomeriggio, fino al ritorno dei genitori, sparava musica con il volume dello stereo a manetta. Il pavimento di casa mia sembrava sempre sul punto di esplodere.

“A completare il lavoro, ci pensavano quelli dell’appartamento di fronte. Una coppia di mezza età, lui ubriaco tutte le sere e lei vittima predestinata. Ogni sera dopo cena le urla e gli schiamazzi mi costringevano a sentire la televisione con le cuffie…”

“E’ incredibile, io al tuo posto avrei cercato subito un’altra casa. Non ci hai pensato?” gli chiese Germano.

“Certo, ma non avevo abbastanza soldi, inoltre la mancanza di riposo e lo stress mi portavano a dimenticare le battute e dopo un po’ non mi hanno più chiamato a lavorare” disse, in tono rassegnato, poi aggiunse: “Ma non preoccuparti, adesso ho risolto, sono riuscito a sistemare tutto.”

Germano guardò l’orologio, era passata da un pezzo la mezzanotte. “Scusami” disse, “Ora devo andare altrimenti domani in ufficio dormo sulla scrivania.

Senti, sono curioso di sapere il seguito di questa storia, quindi fatti vivo presto, ci conto, d’accordo?”

Giovanni si accese l’ultima sigaretta rimasta nel pacchetto, inspirò a fondo e poi rispose emettendo una nuvoletta di fumo: “Buonanotte, stai tranquillo, avrai presto mie notizie.”

Mentre l’amico si allontanava, lui camminò per qualche metro lungo il ponte allontanandosi dal lungotevere. Si affacciò di nuovo a guardare il fiume impetuoso, aspirò l’ennesima dose di nicotina e gettò il mozzicone in acqua. Poi salì sul parapetto e si sedette con le gambe penzoloni, guardando quel che restava della sua ultima sigaretta scomparire tra i flutti.

Come tutte le mattine Germano comprò il giornale prima di andare in ufficio. Il traffico

sul lungotevere era caotico, come sempre nelle ore di punta dei giorni lavorativi. Con gli anni aveva imparato a leggere il giornale con un occhio e a controllare il semaforo con l’altro, per essere pronto a partire ogni volta che il rosso passava il testimone al verde.

Quel mercoledì, però, a uno dei semafori impiegò parecchio tempo prima di lasciare la frizione e spingere l’acceleratore. La prima pagina della cronaca cittadina riportava la

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notizia di una strage, scoperta il giorno prima, in un piccolo condominio in periferia. Gli inquilini di tre appartamenti, sei adulti e un ragazzo, erano stati trovati morti dai vigili del fuoco, avvisati dalla donna che puliva le scale del palazzo, che aveva avvertito un forte odore di gas provenire dagli appartamenti. Gli inquirenti erano alla ricerca di un altro residente, tale Giovanni Rossi, 45 anni, proprietario di un appartamento al secondo piano, nel quale erano stati rinvenuti lunghi tubi ancora collegati al rubinetto del gas della cucina.

Sconvolto, Germano impiegò diverso tempo per realizzare che il rumore che avvertiva come un lontano brusio, era quello dei clacson delle automobili dietro la sua.

Come un automa, ingranò la prima e superò sgommando l’incrocio, poi accostò il mezzo direttamente sul marciapiedi, noncurante del vigile che si trovava a pochi passi.

Riprese a guardare il giornale, scuotendo la testa, poi uscì di scatto dall’auto e si diresse a piedi sullo stesso ponte dove poche ore prima aveva ascoltato il racconto del suo amico. Lo sguardo andava dal fiume al fondo della pagina. Un piccolo trafiletto riportava la notizia che le squadre dei sommozzatori erano impegnate nella ricerca del corpo di un uomo, che alcuni testimoni avevano visto cadere nel fiume dal ponte Fabricio dopo la mezzanotte. Le ricerche erano difficoltose a causa…

Germano gettò rabbioso il giornale nel fiume, poi tornò verso l’automobile. Prese il verbale dalla mano del vigile senza dire una parola, entrò in macchina e con gli occhi velati di lacrime riavviò il motore.

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VIAGGIO DI NOTTE

Il convoglio oscillava dolcemente, conciliando il sonno dei pochi viaggiatori. In piena

notte, la vigilia di Natale, il treno dei pendolari era quasi deserto, ma Silvia aveva percorso tutti e cinque i vagoni, prima di sedersi. Aveva scelto l’ultimo, occupato da un solo passeggero. L’uomo, un assistente di volo, sui quaranta, era seduto sull’altro lato, una fila più avanti. Lei si tolse il soprabito e si sfilò le scarpe, poggiando i piedi sul sedile, poi si mise a leggere una rivista, sbirciando lo steward che l’osservava attento.

“Scommetto che tra poco si avvicina con una scusa” pensò lei sorridendo. Mentre la donna leggeva, l’uomo guardò l’orologio. “Gran pezzo di gnocca. Ancora

meglio della puttana che voleva mandarmi in gabbia. Mezz’ora, bene, c’è tutto il tempo per conoscerla a fondo. Scommetto che non aspetta altro… un bel modo di festeggiare il Natale…”. Si alzò e le chiese se aveva da accendere. «Sì, ma qui non è vietato?» rispose lei, spostando gli occhiali con una mano.

«Ha ragione signorina, ma se non le dà fastidio, avrei proprio voglia… di fumare» disse lo steward.

«Vede» continuò, «con il mio lavoro le occasioni… per fumare, sono poche, con tutti questi divieti, e poi a quest’ora, in questo giorno di festa , il capotreno avrà altro da pensare che controllare i biglietti, non crede?»

«Se è così, le faccio compagnia, anch’io ne ho voglia…» concluse Silvia maliziosa. Lui si sedette di fronte e le porse una sigaretta che lei accettò ringraziando.

Restarono in silenzio per un po’ guardandosi negli occhi mentre il fumo saliva in lente spirali nel vagone. “Adesso ci prova”.

“Vediamo se si mette facile o se devo essere più convincente”. L’uomo, senza dire una parola, prese ad accarezzarle la gamba destra, partendo dal

ginocchio fino ad arrivare all’altezza del pube. Silvia sospirò, gli occhi fissi su di lui. “Bene ora ci divertiamo, piccola”. Le prese la mano guantata e l’appoggiò alla patta dei suoi pantaloni, facendola strofinare sul suo pene.

«Non qui, magari arriva qualcuno» sussurrò Silvia, «che ne dici di andare lì?» disse, indicando la toilette. Lui si alzò subito senza lasciarle la mano e si diresse al bagno dandole appena il tempo di infilare le scarpe. La fece entrare per prima, diede un’occhiata in fondo al vagone e la seguì.

Chiuse la porta alle sue spalle e cominciò a palpeggiarla e a leccarle il collo, poi la fece voltare per farle prendere il suo posto dietro la porta.

Le spinse le spalle per farla abbassare, tirandosi indietro per farla inginocchiare in quello spazio angusto. “Adesso mi faccio fare un bel lavoretto”.

Silvia gli abbassò pantaloni e mutande fino alle caviglie, poi strinse il membro con la sinistra muovendola ritmicamente. «Non togli i guanti? Non hai paura che si bagnino?» le

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chiese il suo eccitatissimo partner. «Preferisco tenerli, sono molto freddolosa e questa carrozza è gelida» gli rispose tossendo, «Scusa, devo prendere un fazzoletto».

Continuò a muovere la sinistra armeggiando con la destra nella borsetta. «Vuoi aiuto?» «No grazie» rispose, stringendo in mano un oggetto cilindrico. «Come ti chiami?» le chiese. «Silvia» disse lei, premendo la siringa ipodermica direttamente nel pene. «Silvia Rossi, per la precisione» aggiunse alzandosi, e lo spinse a sedere sul water. Paralizzato dal potente veleno, l’uomo cercò di parlare ma la voce era poco più di un

rantolo, il respiro sempre più affannoso. Si limitò a fissarla, il viso paonazzo, mentre associava il viso e il nome della donna. Lei si tolse la parrucca bionda che copriva i capelli neri cortissimi e l’infilò nella borsa. «Ricordi adesso, vero? Tre anni fa, la notte di Natale, mi hai umiliato nel corpo e nello spirito, hai rovinato la mia vita, e non hai passato un giorno in galera… ti avevo promesso che mi sarei vendicata, e io sono una persona di parola.»

Lui la fissò inorridito e tremante togliersi la parrucca, e rivoltare il soprabito dupleface. Prima di andarsene si avvicinò e lo spinse di lato; gettò la siringa nella tazza

sussurrandogli all’orecchio: «Buon Natale, pezzo di merda.» Poi spinse il pulsante dello scarico e se ne andò, canticchiando Jingle Bells.

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LETTERE E FARMACISTI

La lettera arrivò con la distribuzione del pomeriggio. Il postino posò prima sul banco,

come al solito, il fascio versicolore delle stampe pubblicitarie; poi con precauzione, quasi ci fosse il pericolo di vederla esplodere, la lettera: busta gialla, indirizzo a stampa su un rettangolino bianco incollato alla busta.

"Questa lettera non mi piace" disse il postino. Il farmacista levò gli occhi dal giornale, si tolse gli occhiali; domandò "Che c'è?" seccato e incuriosito. "Dico che questa lettera non mi piace." Sul marmo del banco la spinse con l'indice, lentamente, verso il farmacista.

Senza toccarla il farmacista si chinò a guardarla; poi si sollevò, si rimise gli occhiali, tornò a guardarla.

"Perchè non ti piace?" Il postino squadrò il farmacista con un'aria di cospirazione: "L'ultima volta che mi è

capitato di consegnare una busta come questa, è stata 15 anni fa. Era identica a questa, anche il destinatario era lo stesso: 'Antica farmacia dell'Archetto - via dell'Archetto, Tiburnia', senza aggiunta di nome e numero civico. All'epoca lei, dottor Balsamo, non si era ancora stabilito qui in paese. La lettera era indirizzata al professor Quintiliani, un suo collega che aveva avuto una onorata carriera, non solo nel campo medico. Era stato primario in diversi ospedali e per anni aveva svolto l'incarico di docente universitario. Questa farmacia, come la casa in cui abita, dottore, era la sua."

Balsamo si tolse di nuovo gli occhiali e si sporse sul bancone: "Interessante, Sergio, ma non mi hai ancora risposto" disse, senza riuscire a dissimulare lo strano nervosismo che il racconto del postino gli aveva stimolato.

Sergio sospirò: "Un attimo di pazienza, dottore, arrivo subito al punto. Il professore era appassionato di criminologia, aveva scritto anche dei libri in merito ed era molto conosciuto anche lontano dalle nostre parti, al punto che carabinieri e polizia di mezza Italia ricorrevano spesso alla sua consulenza per le indagini più complesse."

"Ma cosa c'entra tutto questo con la lettera?" lo incalzò Balsamo. Visibilmente contrariato, il postino volse lo sguardo verso l'esterno della bottega, sulla

strada battuta dal vento invernale, come cercando di restare calmo prima di rispondere. Poi, senza guardare il farmacista, raccolse la corrispondenza, lasciando la busta gialla sul bancone. "Cosa fai adesso?" chiese il medico, "Prima fai tutte quelle chiacchiere e poi te ne vai così all'improvviso?"

"Dottore", rispose Sergio, "Si è fatto tardi, devo sbrigarmi, altrimenti non faccio in tempo a terminare il giro di consegna, ci vediamo domani", e si diresse verso la porta.

"Aspetta!" esclamò il farmacista, "Scusami per l’insistenza, per farmi perdonare che ne dici di passare a casa mia stasera dopo cena, ci beviamo un bicchiere di quello buono e mi racconti la storia fino alla fine."

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"Non saprei, avevo un mezzo impegno per stasera" disse il postino, "ma forse riesco a liberarmi, buona giornata, dottore."

La campanella sopra lo stipite della porta d'ingresso trillò per la folata di vento che accompagnò l'uscita del postino, facendo rabbrividire Balsamo, nonostante la vicinanza della stufa ellettrica accesa al massimo della potenza. Il farmacista girò intorno al bancone, prese la busta gialla con due dita, come temendo che fosse avvelenata, soppesandola; fece per aprirla ma in quell'istante la campanella suonò di nuovo all'ingresso di una cliente. Allora infilò la busta nella tasca del cappotto, dove rimase per tutto il resto della giornata.

Lo studio di Balsamo era molto accogliente, le poltrone su cui sedevano lui e il postino

erano di fronte al caminetto, che diffondeva un confortante tepore, a contrastare il vento gelido all'esterno che tendeva i suoi tentacoli di neve intorno alla casa.

Sergio posò il bicchiere vuoto sul tavolino tra le due poltrone. Mentre Balsamo lo riempiva di nuovo, stirò le braccia e si appoggiò con la testa sul morbido velluto della poltrona.

"Il professore riceveva molta posta; aveva contatti con gente importante. Con il tempo eravamo diventati buoni amici e io ero sempre al corrente delle indagini in cui veniva coinvolto. Il giorno in cui gli consegnai la lettera, era stata da poco chiusa un'indagine alla quale lui aveva collaborato; un caso di violenza carnale, roba non molto frequente in posti come questo, al contrario del capoluogo, dove avvenne il fattaccio. Una ragazza era stata violentata e uccisa in casa da uno sconosciuto che vi si era introdotto notte tempo."

Sollevò il bicchiere e bevve un lungo sorso, poi riprese: "Il colpevole non fu mai trovato, nonostante mesi di indagini. A differenza dei casi precedenti, il professore lavorò con un impegno che non gli avevo mai visto, ma solo dopo la morte del professore ne compresi il motivo. Grazie all’amicizia con il maresciallo Salvi, all'epoca comandante della stazione dei carabinieri qui in paese, seppi che la ragazza era una nipote del professore; lui le era molto affezionato, per questo si era impegnato così tanto nella ricerca del colpevole. Allora capii anche il motivo della profonda depressione in cui era caduto nei giorni successivi alla chiusura delle indagini."

Il farmacista si alzò e si avvicinò alla finestra, osservando i primi fiocchi di neve trasportati dal vento, poi si girò, invitando con un cenno il suo ospite a continuare il racconto.

"Ricordo che il professore aprì la lettera davanti a me, poi mi congedò quasi di fretta, con un'aria sospresa."

Il postino interruppe il racconto per alcuni minuti, contemplando la legna che bruciava nel caminetto, quasi a voler risvegliare la memoria tra le scintille della brace. Ma non ne aveva alcun bisogno, ricordava perfettamente ogni singolo istante di quei giorni: "Fu l'ultima volta che lo vidi vivo. Due giorni dopo la governante lo trovò impiccato proprio qui, in questa stanza; il suo corpo penzolava da una corda legata a quella grossa trave al centro dello studio."

Il farmacista rimase in silenzio, continuando a fissare la neve oltre i vetri della finestra, come intuendo che il postino non avesse ancora concluso la storia; e infatti, Sergio aggiunse: "La governante era la stessa che ora lavora per lei, la signora Gelsi. Disse che quando scoprì il cadavere, il caminetto bruciava ancora, proprio come adesso".

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Balsamo tornò lentamente a sedere, riempiendo di nuovo i due bicchieri. Vuotò il suo in una sola sorsata e lo riempì ancora.

"Non crede che sia il caso di andarci piano dottore? Questa roba è ottima, ma non sono certo io a doverle dire quando è il momento di darci un taglio" lo redarguì Sergio, "mi sembra quasi di essere tornato ai tempi del professore, anche lui aveva la tendenza ad esagerare con l'alcool e spesso mi toccava accompagnarlo a letto perchè da solo rischiava di cadere. Devo dire che ho notato anche una certa somiglianza fisica tra lei e il professore...le confesso che la prima volta che l'ho vista per poco non mi prendeva un colpo, ho pensato di aver visto un fantasma!".

Si interruppe per prendere a sua volta il bicchiere. "Ma sì, al diavolo i buoni propositi" concluse svuotandolo.

Trascorsero parecchi minuti in cui il dottore e il suo ospite rimasero in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri.

Verso le undici, all'ennesimo bicchiere riempito generosamente da Balsamo, il postino disse, con la voce impastata: "Daccordo, ma questo è l'ultimo, poi vado a dormire finché riesco a restare in piedi, ma prima vorrei che mi togliesse una curiosità, se non sono troppo indiscreto."

"Dimmi pure" rispose il farmacista. "Vede" disse Sergio, "io sono un appassionato di romanzi, in particolare di

polizieschi...c'è uno scrittore americano che narra spesso di un detective, Connery mi pare...oddio non mi ricordo più se quello è lo scrittore o il detective...che sostiene che le coincidenze non esistono..."

"Block" lo interruppe Balsamo, "è il nome del poliziotto." "Esatto!" esclamò il postino, "lo conosce anche lei allora, proprio quello volevo

dire...insomma, per farla breve, lei non solo vive nella stessa casa del professore e dirige la stessa farmacia, ma possiede anche le due auto d'epoca che appartenevano a lui e anche l'orologio d'oro...ecco, ha capito a cosa mi riferisco" disse indicando il rolex in bella vista sul polso destro del farmacista.

Balsamo si alzò lentamente, con il bicchiere in mano e andò di nuovo alla finestra: "Immagino che quello che sto per dire ti sorprenderà" disse con aria stanca, "il professor Quintiliani era mio padre" concluse, sempre fissando qualcosa oltre il vetro.

"Ha immaginato bene, dottore, sono sorpreso" disse Sergio, poi aggiunse: "Sta scherzando, vero?".

"Nessuno scherzo" lo assicurò il farmacista, "sono il frutto di una cosiddetta scappatella fuori dal matrimonio del professore, mio padre, con una sua assistente. Lui non ha nai voluto riconoscermi, neanche dopo la morte della moglie, per questo porto il cognome di mia madre" concluse con amarezza.

Sergio rimase a guardarlo a bocca aperta per alcuni istanti, poi si riempì ancora il bicchiere e lo svuotò d'un fiato.

"Incredibile" disse poi, "non avrei mai immaginato una cosa del genere, chi lo avrebbe mai detto? L'integerrimo professor Quintiliani che se la fa con le infermiere...oh mi scusi dottore, senza offesa, non volevo sembrare irrispettoso..."

"Stai tranquillo, capisco cosa intendevi, non mi hai offeso" rispose Balsamo, con un'aria assente.

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"Però non capisco una cosa, se non l'ha riconosciuta legalmente come ha fatto a diventare proprietario dei beni del professore?" chiese perplesso il postino.

"Possedevo alcune carte conservate da mia madre che costituirono parte delle prove utilizzate in sede legale contro i miei 'cugini' oltre alla prova basata sul test del DNA" rispose Balsamo, "è stata una vera battaglia in tribunale, ma alla fine sono riuscito ad ottenere quello che era mio di diritto, a ciascuno il suo, ha scritto qualcuno" concluse con una strana luce negli occhi.

Sergio riflettè su quelle ultime parole poi si alzò. "Mi scusi" disse "ma ora devo proprio andare, altrimenti finisce che domani non ce la faccio ad alzarmi in tempo per andare al lavoro".

"Prego, permettimi di accompagnarti alla porta" rispose il farmacista. Sergio indossò il cappotto, prese l'ombrello e aprì la porta ma invece di andarsene si

fermò sull'uscio e rivolse un'ultima domanda al padrone di casa: "Chiedo ancora scusa per la mia imperdonabile curiosità, dottore, ma mi stavo domandando se per caso lei avesse mai conosciuto la ragazza, la nipote del professore..."

"Sì, la conoscevo" rispose il farmacista, "spero di avere soddisfatto la tua curiosità, buonanotte Sergio" disse infine, con un tono che non ammetteva repliche.

"Buonanotte dottor Balsamo" rispose il postino allontanandosi sul vialetto imbiancato dalla neve, mentre la porta si chiudeva alle sue spalle.

Cinque anni dopo quella notte, in un tiepido pomeriggio di fine settembre, Sergio

Baldini, sedeva su una panchina del parco, accanto al suo vecchio amico, il maresciallo Salvi, tornato dopo tanti anni ai luoghi natii. "Perchè il posto migliore per morire è quello dove sei nato" aveva detto quando, rimasto solo, venduta la casa in città tanto voluta dalla povera moglie, si era stabilito di nuovo in paese.

"...E il giorno dopo, la signora Gelsi, sempre lei poveraccia, lo trovò morto, impiccato alla stesso trave dove si era tolto la vita il padre" disse Sergio.

"Quella donna deve avere un cuore d'acciaio, molti al posto suo ci sarebbero rimasti secchi già dalla prima volta" considerò il maresciallo. "Quando lessi del fatto sui giornali pensai a uno scherzo" continuò, "padre e figlio che si impiccano nella stessa stanza a quindici anni di distanza, roba da romanzi; ricordo che mi venne l'idea di venire in paese per saperne di più ma Giulia si era già ammalata e allora..." si interruppe, tornando con il pensiero all'amata consorte.

Sergio tirò fuori da una tasca della giacca un libro con le pagine ingiallite dal tempo e cominciò a sfogliarlo.

"Vedo che non hai perso le vecchie abitudini" disse il maresciallo, "che libro è?". Sergio lo richiuse mostrandogli la copertina. "A ciascuno il suo, di Leonardo Sciascia"

rispose; "me lo consegnò la signora Gelsi dopo la morte del professore, disse che proprio il giorno prima del fatto si era raccomandato con lei di farmelo avere".

"Pensi che sia una sorta di messaggio da parte del professore?" chiese Salvi. "No, non credo, è semplicemente un regalo ad un amico, niente di più". "Capisco, ma non mi hai ancora detto della lettera che avevi consegnato al figlio, cosa

c'era scritto?" domandò ancora il maresciallo. "Il contenuto preciso non l'ho mai letto, la lettera fu trovata aperta nel taschino della

vestaglia del farmacista e naturalmente venne sequestrata dalla scientifica; però il

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maresciallo Canetti, tuo degno successore, dopo la chiusura del caso mi raccontò qualche particolare".

Sergio fece una pausa ad effetto per solleticare la curiosità del suo amico, poi continuò: "La lettera dimostrava che il professore si era convinto che l'autore della violenza sessuale sulla nipote, e dell'omicidio, fosse proprio il figlio."

"Pazzesco" esclamò il maresciallo, "e come lo aveva capito? E perchè si era ucciso? E perchè anche il figlio dopo tutti quegli anni si è...scusa ma chi la spedì questa lettera? Mi sto perdendo..." concluse perplesso.

"In effetti la faccenda è talmente complicata e per certi versi assurda che viene da domandarsi se tutto sia da attribuire al caso oppure no. Vedi, sono venticinque anni che faccio questo mestiere, ma quella è stata la prima e l'ultima volta che mi è capitato di imbattermi in un simile caso di negligenza da parte delle Poste Italiane."

"Scusami ma non ti seguo, che c'entrano le Poste adesso...?" "Ci arrivo subito. Ti riassumo i fatti così come li ho ricostrutiti in base al contenuto

della lettera e dai ragguagli che mi ha dato Canetti. Dunque, abbiamo il professore e il figlio che discutono per l'ennesima volta sulla questione del riconoscimento e dell'eredità. L'alterco è tale che il professore informa il figlio che ha intenzione di lasciare tutto alla nipote. Il figlio lo prende a male parole, insinuando oltretutto che la nipote, che a quanto pare conosce bene, è una persona di dubbia moralità e che lui piuttosto la ammazza pur di non farle avere quello che spetta a lui di diritto. Poi la ragazza viene uccisa e Quintiliani, convinto che l'omicida sia il figlio, si trova combattuto tra il denunciarlo con il conseguente scandalo e il rimorso per non essere stato un padre degno di tale nome. Alla fine decide di togliersi la vita, ma prima manda una lettera al figlio in cui parla del suo rimorso e gli chiede scusa per non essere riuscito a dimostrargli il suo amore. Conclude la lettera chiedendogli perdono per quello che è stato e per l'atto estremo che si appresta a fare. E qui entrano in ballo le Poste: il figlio riceve la lettera ma quando vede che è del padre non la legge nemmeno, la infila in un'altra busta senza preoccuparsi di scrivere il nome del mittente e la indirizza alla farmacia del padre, che però non la riceverà mai; non solo, la lettera si perde nel limbo di qualche magazzino delle Poste e solo dopo quindici anni dalla spedizione arriva al destinatario che a quel punto è lo stesso mittente!”.

“Decisamente una storia che ha dell’incredibile” commentò il maresciallo, “vediamo se riesco a intuire il seguito: Balsamo, dopo la chiacchierata con te rimane da solo e apre la lettera; leggendo le parole accorate del padre viene assalito dal rimorso oppure dopo tanto tempo l’entità del delitto di cui si è macchiato, e che probabilmente aveva rimosso dalla coscienza, torna a tormentarlo e lo investe in pieno; oppure tutte e due le cose. A quel punto decide di farla finita come il padre, lasciando la lettera come testimonianza dell’accaduto”.

“Esattamente, vedo che non hai perso lo smalto, amico mio” confermò Sergio, “aggiungo per tua informazione che sul tavolino dello studio Balsamo lasciò un testamento, poi impugnato dai famosi ‘nipoti’ del professore, nel quale riportò la volontà di lasciare tutti i suoi beni alla signora Gelsi. Nel frattempo anche lei è morta e ad oggi è ancora in corso la causa tra gli eredi di ambo le parti” concluse.

Salvi restò in silenzio per alcuni minuti, fissando un piccione che zampettava a pochi metri da loro, poi disse: “Mi è venuta fame, che ne dici di cenare insieme?”.

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“D’accordo, però si va a casa mia: pizza, birra e poi ci vediamo una videocassetta. Hai mai visto Il giorno della civetta? L’ho preso ieri mattina col giornale”.

“Aggiudicato” rispose il maresciallo. Appena entrati a casa di Sergio, Salvi si bloccò all’improvviso. “Che succede? Non ti senti bene?” chiese l’amico. “Niente, mi è venuto in mente che non mi hai parlato del contenuto della prima lettera,

quella che portasti al professore”. Sergio posò il libro regalatogli tanti anni prima dal professore, poi allargò le braccia:

“A saperlo, mi sarebbe piaciuto tanto scoprirlo, ma purtroppo quella resterà un mistero…” “Egregio signor Quintiliani, ci è gradito comunicarle che ha avuto luogo il sorteggio

del concorso settimanale pubblicato nel numero 3742 della nostra rivista e che lei ha vinto il libro ‘A ciascuno il suo’ di Leonardo Sciascia. A breve le invieremo il premio suddetto, che ci auguriamo sia gradito.

Voglia gradire i nostri migliori saluti. Il settimanale degli enigmisti.”

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L’AUTORE

Sono nato a Tivoli, dove vivo tuttora, il 21 ottobre 1964. Sono sposato con Anna e ho due bambini, Lara e Luca, i miei piccoli tesssori.

Per vivere, lavoro in una società di informatica con sede a Roma. La scrittura e la lettura costituiscono parte integrante della mia vita

quotidiana. Ho sempre amato la parola scritta, fin da bambino. In un'epoca in cui la televisione era quasi un tabù per i bambini, era bello

immergersi nelle magie evocate da libri e fumetti. Ho iniziato a scrivere con regolarità ai tempi delle superiori, per puro piacere personale. Più tardi, per alcuni anni, il lavoro e la vita privata mi hanno portato a trascurare questa passione.

Ma da qualche anno grazie al web ho scoperto alcuni siti dedicati alla letteratura, frequentati da persone sconosciute che condividono la mia passione. Così mi è tornata la voglia e ho ripreso a scrivere e, dal dicembre 2003 ho iniziato anche a partecipare ai concorsi letterari, togliendomi parecchie soddisfazione.

Oltre ai racconti, ultimamente mi sono cimentato nel produrre soggetti cinematografici., dopo aver seguito un corso di sceneggiatura.

In genere prediligo le storie di genere, spaziando dall’horror alla fantascienza e al noir, ma scrivo anche storie “normali”, che a volte si rivelano più crude di quelle “fantastiche”.

Ad oggi, una decina di queste storie sono state pubblicate in vari eBook, un paio in pubblicazioni cartacee.

Sito web: mjolneer.altervista.org

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