Del mese - Newsletter 01 dicembre 2009

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WWW.ORSATTI.INFO Licenza Creative Commons 1 del mese L’anomalia Italia in mille pagine Esce in questi giorni il libro intervista a Gioacchino Genchi, il superpoliziotto consulente di “Why not” e di centinaia di altri processi. Che non si difende ma attacca. E cerca di spiegare i nodi oscuri del mondo giustizia di p.o. su Terra Esce in libreria Il caso Genchi, mastodontico libro intervista al consulente più discusso, più odiato e amato d’Italia, curato da Edoardo Montolli per Aliberti editore. Un libro di intrecci e indagini, di nomi e cognomi (l’indice dei nomi è impressionante) che ripercorre vent’anni di carriera da poliziotto e da consulente delle procure di mezzo Paese. «Ci sono solo due indagini che non mi hanno fatto terminare – spiega Genchi – quella a Catanzaro, “Why not”, e quella sulle stragi del 1992. Sarà un caso che ci fossero corrispondenze di nomi e ambienti fra le due inchieste?». C’è un nome che torna spesso nel suo libro, quello di Elia Valori, l’unico membro della P2 espulso “per indegnità” da Licio Gelli. Stavate per arrivare a lui a Catanzaro con De Magistris? E ci hanno fermato appena in tempo. Un personaggio molto interessante, collezionista di cariche pubbliche, e amicizie ed entrature nella politica, ai vertici tanto del Viminale quanto di Mediobanca. Senza poi parlare dei contatti con la magistratura. Le faccio un esempio, che risale ai momenti più caldi delle inchieste sulle concessioni Umts e sui casi Parmalat, Cirio e Unipol. Ci sono frenetici contatti di Valori con il procuratore aggiunto di Roma Achille Toro, perfino sui telefoni dei familiari, e poi con Latorre, Minniti, Cossiga, Ricucci, Geronzi, Benetton, Caltagirone, Gavio, Rovati, con i generali Cretella, Adinolfi e Jannelli della Guardia di finanza, il Viminale, Bankitalia e perfino con i centralini del Vaticano. Il procuratore aggiunto Toro è lo stesso che l’ha indagata per violazione della privacy? Esatto, lo stesso. Lo stesso che ha ordinato il sequestro della mia documentazione e che poi ha trattenuto parte della stessa nonostante ne fosse stato ordinato il dissequestro e la restituzione. Utilizzando il Ros dei carabinieri per eseguire il mandato di sequestro. Compresi quei documenti relativi alle inchieste che stavo facendo su di loro. Sugli uomini e gli ex uomini del Ros di Roma. Su quella squadra di carabinieri entrata e uscita dai servizi segreti con il generale Mario Mori. E su altri loro colleghi dirottati in Pirelli e in Telecom, rimasti comunque legati a doppia mandata ai riferimenti d’origine all’interno dell’Arma. Telecom. Uno scandalo, quello delle intercettazioni e dei dossier, che sembra essersi dissolto . Giuliano Tavaroli, ex capo della security della Telecom di Marco Tronchetti Provera, è imputato per aver accumulato migliaia di dossier su giornalisti, politici e imprenditori spiati illegalmente. Ne sta parlando qualcuno di quella vicenda? A che punto è quella inchiesta? Quei dossier, forse, rappresentano un’assicurazione. Come non si è mai chiarito quali siano stati i rapporti che intercorrevano fra Tavaroli e Pio Pompa e l’allora capo del Sismi Nicolò Pollari. Lei parla anche dei conflitti di interesse che toccano numerosi magistrati. Parlo dell’incompatibilità dei magistrati a ricoprire incarichi amministrativi e politici, comune e principale, unico, vero e più grave problema della magistratura italiana. Fino a quando ai magistrati sarà consentito di entrare e uscire dalle procure e dai tribunali per mettersi al servizio dei politici e poi ritornare a esercitare funzioni giudiziarie, penso non ci sarà mai una giustizia giusta. L’indipendenza della magistratura va difesa con i fatti e non con le parole. L’indipendenza dei magistrati non può essere solo uno slogan della casta, per fare quello che fa comodo. Non serve alcuna divisione delle carriere. Basta solo dividere i magistrati dalla politica. Appunti per un racconto sociale. Il meglio pubblicato sul sito web www.orsatti.info e le segnalazioni di altri pezzi e articoli da siti amici CrisiTv Nasce CrisiTv, un blog costruito dai lavoratori per raccontare gli effetti della crisi economica e sociale, le lotte, i conflitti. Un sito in continua espansione che mappa la realtà della crisi Pagina 4 e 5 E’ Mafiagate Inchiesta sui presunti rapporti fra i boss e Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi Pagina 6 America Latina, bilancio di un decennio. La crisi economica mondiale ha favorito la svolta verso l’indipendenza politica e l’autogestione di materie prime, petrolio, gas, terra coltivabile, acqua, rame e uranio Pagina 10 Caso Wind Dopo lo scandalo della security di Telecom scoppia quello della Wind Pagina 12 L’ultimo boss Nullam auctor enim quis nibh. Maecenas fermentum. Morbi placerat dign. Praesent fringilla sollicitudin neque. Fusce ipsum eleifend dolor. Pagina 14 Ricevere via mail Per ricevere automaticamente la newsletter sulla vostra mail iscivetevi alla mailing list su www.orsatti.info Newsletter mensile Edizione n.1 dicembre 2009 del mese

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L’anomalia Italia in mille pagineEsce in questi giorni il libro intervista a Gioacchino Genchi, il superpoliziotto consulente di “Why not” e di centinaia di altri processi. Che non si difende ma attacca. E cerca di spiegare i nodi oscuri del mondo giustizia

di p.o.su Terra

Esce in libreria Il caso Genchi, mastodontico libro intervista al consulente più discusso, più odiato e amato d’Italia, curato da Edoardo Montolli per Aliberti editore. Un libro di intrecci e indagini, di nomi e cognomi (l’indice dei nomi è impressionante) che ripercorre vent’anni di carriera da poliziotto e da consulente delle procure di mezzo Paese. «Ci sono solo due indagini che non mi hanno fatto terminare – spiega Genchi – quella a Catanzaro, “Why not”, e quella sulle stragi del 1992. Sarà un caso che ci fossero corrispondenze di nomi e ambienti fra le due inchieste?».

C’è un nome che torna spesso nel suo libro, quello di Elia Valori, l’unico membro della P2 espulso “per indegnità” da Licio Gelli. Stavate per arrivare a lui a Catanzaro con De Magistris? E ci hanno fermato appena in tempo. Un personaggio molto interessante, collezionista di cariche pubbliche, e amicizie ed entrature nella politica, ai vertici tanto del Viminale quanto di Mediobanca. Senza poi parlare dei contatti con la magistratura. Le faccio un esempio, che risale ai momenti più caldi delle inchieste sulle concessioni Umts e sui casi Parmalat, Cirio e Unipol. Ci sono frenetici contatti di Valori con il procuratore aggiunto di Roma Achille Toro, perfino sui telefoni dei familiari, e poi con Latorre, Minniti, Cossiga, Ricucci, Geronzi, Benetton, Caltagirone, Gavio, Rovati, con i generali Cretella, Adinolfi e Jannelli della Guardia di finanza, il Viminale, Bankitalia e perfino con i centralini del Vaticano. Il procuratore aggiunto Toro è lo stesso che l’ha indagata per violazione della privacy? Esatto, lo stesso. Lo stesso che ha ordinato il sequestro della mia documentazione e che poi ha trattenuto parte della stessa nonostante ne fosse stato ordinato il dissequestro e la restituzione.Utilizzando il Ros dei carabinieri per eseguire il mandato di sequestro. Compresi quei documenti relativi alle inchieste che stavo facendo su di loro. Sugli uomini e gli ex uomini del Ros di Roma. Su quella squadra di carabinieri entrata e uscita dai servizi segreti con il generale Mario Mori. E su altri loro colleghi

dirottati in Pirelli e in Telecom, rimasti comunque legati a doppia mandata ai riferimenti d’origine all’interno dell’Arma.Telecom. Uno scandalo, quello delle intercettazioni e dei dossier, che sembra essersi dissolto .Giuliano Tavaroli, ex capo della security della Telecom di Marco Tronchetti Provera, è imputato per aver accumulato migliaia di dossier su giornalisti, politici e imprenditori spiati illegalmente. Ne sta parlando qualcuno di quella vicenda? A che punto è quella inchiesta? Quei dossier, forse, rappresentano un’assicurazione. Come non si è mai chiarito quali siano stati i rapporti che intercorrevano fra Tavaroli e Pio Pompa e l’allora capo del Sismi Nicolò Pollari.Lei parla anche dei conflitti di interesse che toccano numerosi magistrati.Parlo dell’incompatibilità dei magistrati a ricoprire incarichi amministrativi e politici, comune e principale, unico, vero e più grave problema della magistratura italiana. Fino a quando ai magistrati sarà consentito di entrare e uscire dalle procure e dai tribunali per mettersi al servizio dei politici e poi ritornare a esercitare funzioni giudiziarie, penso non ci sarà mai una giustizia giusta. L’indipendenza della magistratura va difesa con i fatti e non con le parole. L’indipendenza dei magistrati non può essere solo uno slogan della casta, per fare quello che fa comodo. Non serve alcuna divisione delle carriere. Basta solo dividere i magistrati dalla politica.

Appunti per un racconto sociale. Il meglio pubblicato sul sito web www.orsatti.info e le segnalazioni di altri pezzi e articoli da siti amici

CrisiTvNasce CrisiTv, un blog costruito dai lavoratori per raccontare gli effetti della crisi economica e sociale, le lotte, i conflitti. Un sito in continua espansione che mappa la realtà della crisiPagina 4 e 5

E’ MafiagateInchiesta sui presunti rapporti fra i boss e Marcello Dell’Utri e Silvio BerlusconiPagina 6

America Latina, bilancio di un decennio. La crisi economica mondiale ha favorito la svolta verso l’indipendenza politica e l’autogestione di materie prime, petrolio, gas, terra coltivabile, acqua, rame e uranioPagina 10

Caso Wind

Dopo lo scandalo della security di Telecom scoppia quello della WindPagina 12

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U N A N O TA I N U T I L E

Famo na sveltina?

Oggi al senato sbarca il “processo breve”, o meglio la norma “processo niente”. Niente più feste e festine e festoni per la politica e la giustizia italiana, solo sveltine in ascensore.

arRotondamente rotolano a valle…

«La pausa pranzo è un danno per il lavoro, ma anche per l’armonia della giornata. Non mi è mai piaciuta questa ritualità che blocca tutta l’Italia», così disse Gianfranco Rotondi, ministro per l’attuazione del programma di governo. Ormai il brunettisimo, ovvero la gara a chi spara l’idiozia e il luogo comune più grosso, è diventato un fenomeno dilagante. Se la pausa pranzo è un danno per il lavoro, le minchiate che dice Rotondi che sono? Urge visita dall’andrologo per imminente distacco testicolare.

I genitori del bambino Rutelli sono pregati di…16/11/2009

Otto e mezza. Il bambino Rutelli si materializza in Tv. A tutto campo. Presenta il suo libro, “La svolta”. Ne sentivamo la mancanza. Unica notizia: si dimette del Copasir. Quando? Non si sa, ma prima o poi si dimette. Lo ha promesso. “Giuro, giurello…” .

“Din don… i genitori del bambino Rutelli sono pregati di venire a riprendersi loro figlio alla cassa 12″.

Domandina sul bambino Rutelli…19 dicembre 2009

Mi domandavo se ricordo bene… Ma Rutelli non aveva detto che si sarebbe dimesso, a giorni, dal Copasir? Mi ricordo male? E' passato più di un mese, si è dimesso?

Din Don!!

«Il genitori del bambino Rutelli sono pregati di venirselo a riprendere nell’anticamera della Commissione di controllo dei servizi!»

http://notainitile.wordpress.com

L’ultima tentazione di Massimo D’Alema"Se per evitare il suo processo devono liberare centinaia di imputati di gravi reati, è quasi meglio che facciano una leggina ad personam per limitare il danno all’ordinamento e alla sicurezza dei cittadini".

E’ questa la frase clou dell’intervista [PDF] rilasciata da Massimo D’Alema a Maria Teresa Meli del Corriere giovedì scorso. Ed è la stessa frase che in molti hanno liberamente interpretato come un sottile segnale del "leader ad honorem" del Partito Democratico rivolto a Berlusconi e ai suoi più stretti collaboratori a Palazzo Madama e a

Montecitorio su tema "giustizia".Le interpretazioni "maligne" che vedono in questa posizione, di apparente buon senso se espressa da un esponente

dell’opposizione (meglio un Lodo che congeli i processi delle più alte cariche, piuttosto che una legge ad-hoc che distrugga i processi del Presidente del Consiglio assieme a quelli di altre decine di migliaia di cittadini italiani), l’apertura alla possibilità di un dialogo sul "legittimo impedimento" o ancora di più sul "Lodo Alfano costituzionale" si scontrano contro una realtà dei fatti ben nota e stranamente ignorata: Massimo D’Alema è da sempre favorevole ad una riforma costituzionale che blocchi i processi a Silvio Berlusconi.Non è un mistero, non è una posizione segreta dell’"abile calcolatore politico" e nemmeno uno sforzo istituzionale mirato ad una convergenza parlamentare per "le riforme".Volendo ignorare la realtà per cui il Lodo Alfano trova le proprie origini nell’alveo del centrosinistra, è sufficientemente esplicativa questa dichiarazione: "Se il Lodo viene sviluppato in termini costituzionali e limitato alle sole alte cariche dello Stato, l’intesa è possibile".Le parole sono quelle usate da Massimo D’Alema. E la data è il 28 maggio 2003.E danno comunque adito ad ipotesi d’inciucio meno di quanto facciano le recentissime, ma curiosamente ignorate, e limpide dichiarazioni di Franco Marini [PDF] ("Le riforme vanno fatte, anche il lodo costituzionale Alfano") e del beniamino di molti oppositori "duri e puri" del premier, Oscar Luigi Scalfaro [PDF] ("Non sono per nulla contrario ad un provvedimento che dia una tutela al premier a condizione che non ci sia danno a terzi").Ciò che colpisce in questo frangente è la tempistica di questa intervista di giovedì in cui l’esponente democratico si lascia andare a considerazioni sul mancato dialogo istituzionale e sulla deriva presidenzialista del paese (una deriva peraltro sostenuta e richiesta da D’Alema stesso durante l’intero periodo della bicamerale). Proprio in questi giorni il PD è impegnato nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato in una battaglia ostruzionistica, coordinata dagli "irriducibili" Felice Casson e Donatella Ferranti, finalizzata ad ostacolare con ogni mezzo l’approvazione dei

DDL su "legittimo impedimento" e "prescrizione breve" (comunemente ed impropriamente definito "processo breve").Per entrambe le leggi, stando alla stesura attuale (che il centrodesta non sembra intenzionato a lasciar modificare neanche di una virgola), emergono gli stessi profili di incostituzionalità ravvisati dalla Consulta nella disamina del Lodo Alfano, a partire dall’automatismo che dovrebbe caratterizzerebbe il diritto all’impedimento per il Presidente del Consiglio (una sorta di Lodo Alfano bis copia identica del precedente) per finire con la prescrizione automatica dopo i 24 mesi di dibattimento nella "prescrizione breve" (violazione del diritto alla difesa).In virtù di queste palesi incostituzionalità, ravvisate peraltro dagli stessi esponenti del Partito Democratico, negli ambienti dell’opposizione interna nel PD crescono profondi malumori e seri dubbi sul senso di uno scambio tra l’opposizione ad una legge incostituzionale e l’approvazione bipartisan di una riforma costituzionale salva-premier.Soprattutto se questo appello all’approvazione di una riforma costituzionale più che una strategia mirata alla riduzione dei danni sembra assomigliare ad una consulenza legale tesa ad evitare altre bocciature per Silvio Berlusconi.

Alessandro Taurowww.agoravox.it

http://alessandrotauro.blogspot.com/

Guinea. Una strage silenziosa. Human Rights Watch denuncia il massacroL'onu denuncia lo stato africano per crimini di guerra

I massacri e gli stupri perpetrati a Conakry (capitale della Guinea) costituiscono

verosimilmente dei crimini contro l'umanità. A sostenerlo è Human Rights Watch al termine di un' inchiesta sulla Guinea, culminata in un rapporto di oltre 100 pagine. " Il

governo e la comunità internazionale dovrebbero assicurarsi che gli autori dei crimini rispondano dei loro atti".Così si è espressa La Ong americana che durante la sua inchiesta ha intervistato centinaia di testimoni della strage avvenuta il 28 Settembre, su comando del capo del giunta militare Dadis Camara, il presidente “de facto”, recentemente sopravvissuto ad un attentato. Dadis Camara salito al potere con un colpo di stato nel dicembre 2008 chiamò la sua giunta militare CNND ( consiglio nazionale per la democrazia e lo sviluppo) e si autoproclamò presidente promettendo di lasciare il suo ruolo politico una volta che il paese fosse giunto a regolari elezioni.Contrariamente a quanto promesso, durante il suo insediamento, decise di volersi presentare alle elezioni e scattò la protesta dello stadio di

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C AT T U R A L AT I TA N T I . C O M P L I M E N T I E C O I N C I D E N Z E

Arrestati contemporaneamente due latitanti di rango di Cosa Nostra, a Palermo Gianni Nicchi e a Milano Gaetano Fidanzati. Sulle tracce di Nicchi, sfuggito alla cattura dopo l’operazione Gotha di tre anni fa, c’era da più di un anno la squadra Catturandi della poliziadel capoluogo siciliano, mentre Fidanzati, che era ricercato da solo un anno anche se la sua “potenzialità” di uomo d’onore era conosciuta fin dagli anni ‘70, è stato tratto in arresto dalla squadra mobile di Milano. Un ottimo risultato da aggiungere alla recente cattura dell’emergente boss di Altofonte Domenico Raccuglia. E soprattutto per quel gruppo di élite della Catturandi di Palermo, che dopo la cattura di Bernardo Provenzano più di tre anni fa era stata tenuta, in maniera incomprensibile, “fuori dal giro”, in secondo piano, affidando la maggior parte delle indagini sui latitanti a uffici diversi.Un grande successo, quindi. Ma c’è un aspetto in queste due operazioni che lascia perplessi. I tempi. Coincidenti con le accuse in aula a Dell’Utri e Berlusconi da parte del pentito Gaspare Spatuzza e con lo svolgersi della manifestazione No B Day, Un aspetto che avremmo volentieri tralasciato se il premier Silvio Berlusconi non si fosse afrettato a rilasciare questa dichiarazione: «Credo sia una notizia che fa piacere a tutti gli italiani nel buon senso dei quali e nella loro capacità di giudizio non ho mai dubitato». E fa bene, il premier, a non dubitare nella nostra capacità di giudizio: le coincidenze strane le vediamo ancora.

p.o

Conakry. Il rapporto di HRW è una testimonianza fondamentale per la verità e la giustiza che il popolo guineiano richiede con tutta la sua forza. Intorno alle 11,30 dello scorso 28 settembre centinaia di membri delle forze di sicurezza guineiane fecero irruzione all'interno dello stadio di Conakry ed aprirono il fuoco su decine di migliaia di sostenitori dell'opposizione che manifestavano pacificamente. Già nel primo pomeriggio almeno 150 civili morirono. Dozzine di donne subirono brutali forme di violenze e stupri di gruppo per mano delle forze di sicurezza. In alcuni casi le donne furono brutalmente violentate con oggetti, armi da fuoco, baionette e bastoni. Quattro donne morirono immediatamente dopo le violenze e a una di queste fu esploso un colpo d'arma da fuoco nella vagina. Nelle ore e nei giorni successivi alle violenze, i familiari dei manifestanti cercarono disperatamente i i loro cari, ma senza risultato. Le forze di sicurezza, dopo aver vietato l'ingresso allo stadio e agli obitori, avevano occultato diversi cadaveri bruciandoli in una fossa comune. Per diversi giorni, sempre ad opera delle forze dell'ordine, furono compiuti altri abusi, inclusi stupri, omicidi e razzie e torture ai Danni degli oppositori.Il governo guineiano, almeno fino ad oggi, ha continuauto a ritenersi estraneo ai massacri e nessun membro delle forze governative è stato incriminato per questo massacro. Human Rights Watch ha intervistato 240 persone fra le quali alcune vittime scampate miracolosamente alla morte, parenti di persone disperse, soldati che parteciparono all'inquinamento delle prove, medici, ufficiali umanitari, diplomatici,giornalisti e leader dell'opposizione.L'inchiesta ha stabilito che la maggior parte degli omicidi di massa e degli stupri non solo furono compiuti dalla polizia e da uomini in borghese erano armati di machete e coltelli, ma anche dai membri della guardia presidenziale, in particolar modo dall'unità militare del CNND, agli ordini diretti del presidente Dadis Camara.Il governo smentisce dichiarando che gli abusi furono opera di un gruppetto di soldati indisciplinati. Invece le cose, stando al rapporto di Human Watch appaionio ben diverse. Le forze dell'ordine di diverse unità, arrivarono

simultaneamente nello stadio e furono collocate strategicamente anche al di fuori dell'edificio per impedire la fuga ai manifestanti. Il modo in cui è stato compiuta

l'irruzione e la presenza stessa di un ministro incaricato della responsabilità della sicurezza, fa pensare che l'azione criminale era stata premeditata a tavolino.Dai particolari riportati da Human Rights Watch emerge che gli omicidi, gli stupri e gli altri abusi commessi dalle forze di sicurezza durante e dopo il 28 settembre raggiunsero un livello gravissimo, tanto da considerare questa operazione militare un vero e proprio crimine contro l'umanità.Nel frattempo Francia, Stati Uniti, Unione Europea, la Comunità economica degli stati

africani dell' Ovest ( ECOWAS) , l'unione Africana, le Nazioni Unite hanno denunciato la drammatica vicenda del 28 settembre in Guinea, vietando l'ingresso negli stati europei e sospendendo gli aiuti economici al paese africano.L'Unione Africana e la Ecowas hanno proposto una commissione internazionale d'inchiesta accolta il 30 ottobre scorso dal Segretario Generale dell' Onu BanKi- Moon. e oggi lo stato della Guinea è stato denunciato per crimini di guerra. Il procuratore della Corte penale Internazionale il 14 Ottobre ha confermato di aver iniziato preliminarmente ad esaminare la situazione. Tuttavia il mancato rispetto dell'embargo da parte della Cina e della Libia rischiano di vanificare gli sforzi della comunità internazionale.

Calasanzio aggredito dallo stipite della portaLorem ipsum dolor sit amet, consectetuer adiPascing elit. Pellentesque ipsum tur Pas, ullamcorper at, molestie vitae, malesuada id, tortor. Cras eget lectus. Quisque facilisis mattis eros. Vivamus felis augue, malesuada nec, congue nec, semper a, risus.

E' successo tutto d'improvviso, senza che nessuno potesse prevedere o fermare quello che di lì a poco sarebbe accaduto. Stamane, al suono della sveglia, Benny Calasanzio si alza e senza alcun preavviso lo stipite della porta gli si scaglia contro, colpendono violentemente sul sopracciglio destro. Prima Calasanzio quasi si accascia, ma poi si rialza per mostrarsi ai presenti (l'armadio, la scarpiera, la tv, lo specchio e il letto che fino a poco prima lo accoglieva). L'immagine, veramente impressionante, ha subito fatto il giro del mondo. Lo stipite è stato subito fermato e sottratto al

linciaggio dei presenti. Ora Calasanzio è ricoverato, è sofferente e fa fatica a nutrirsi. Fra i visitatori don Luigi Verzè, presidente del San Raffaele: «Ho trovato

Calasanzio umiliato, non tanto dal fatto traumatico ma da quello che esso rappresenta: l'odio. Mi ha detto: io voglio bene a tutti, voglio il bene di tutti, non capisco perché mi odino a questo punto". "Non sarà necessario intervenire chirurgicamente", lo ha detto il primario e medico di fiducia di Benny, Alberto Zangrillo, dopo aver letto il bollettino medico. «L'intervento chirurgico è stato scongiurato». Parole dure anche dal ministro degli Interni: «Stamattina Benny Calasanzio ha rischiato di essere ferito gravemente, di essere ucciso» ha detto Roberto Maroni, al termine del vertice in prefettura a Verona. Dello stesso tenore le parole di Angelino Alfano, Ministro della Giustizia: "non è il gesto di un folle". Il ministro si dice «molto preoccupato» per quanto successo oggi a Verona al Calasanzio. «Il fatto non può essere derubricato al gesto di un folle - ha detto il ministro - è un questione più complessa».

http://www.bennycalasanzio.blogspot.com/

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C O M E È N ATA C R I S I T V

Da anni la politica ha contato più del lavoro politico. Le dispute sulle alleanze possibili o inaccettabili hanno preso il posto della sana abitudine di frequentare i lavoratori. L’elaborazione di programmi ha soppiantato la definizione degli obiettivi praticabili da chi è messo sotto in questo sistema. Quasi a discolpa di questo andazzo ogni tanto qualcuno ha ritirato fuori dal cilindro il metodo dell’inchiesta, e giù citazioni dell’esperienza dei Quaderni Rossi, di Inchiesta, e via di questo passo. Ciclicamente, come le crisi, un convegno da una parte, un richiamo al “partito dell’inchiesta” dall’altra, hanno segnato questi anni del nuovo millennio. Come i cavalieri della Tavola Rotonda partivano alla ricerca del Santo Graal, alcuni militanti, qualche ricercatore, pochi lavoratori. Proprio come il Santo Graal nessuno dei nostri eroi sapeva bene cosa cercare, che cosa potrebbe sostituire l’operaio della grande fabbrica, l’operaio massa. Qualcuno ha pensato che Lancilotto dovesse trovare le “reti”, che la risposta fosse proprio nel modello organizzativo reticolare. Ma è difficile costruire reti orizzontali, partecipate e democratiche, se si vogliono tenere assieme alle esigenze di una organizzazione centralizzata. Ecco che allora il ceto politico tira a bordo le reti e non se ne occupa più, troppo complicate da gestire. Eppure questo metodo dell’inchiesta continua a riemergere ogni tanto, e si continua a chiamarla in causa, anche quando si cerca di fare le conclusioni prima di iniziarla. Poco più di un anno fa è stata richiamata in causa con grandi nomi (Mario Tronti, Elio Montanari, Aldo Carra, Dino Greco, Paolo Ciofi, Aldo Tortorella, Gianni Rinaldini, Vittorio Rieser, Francesco Garibaldo, Luciano Gallino, Valentino Parlato e altri) in quel di Brescia con un convegno sul Nord operaio. Una giornata di lavoro interessante ma ancora una volta il motore stentava a girare. Motore al minimo dei giri, poche inchieste che procedono e di nuovo la ricerca viene affidata a pochi cavalieri solitari. Ma certo, non poteva andare diversamente. L’inchiesta non ti permette di fare grandi progetti, di immaginare spiegazioni univoche. Prendi ad esempio le delocalizzazioni, devi verificare ogni passaggio, ogni più piccolo segnale: in che direzione vanno, quali sentimenti producono. (segue nella pagina accanto)

Odio, campagne mediatiche e regimeChe la situazione attuale del nostro paese abbia in sè i germi pericolosi del regime è più che una semplice sensazione . Ci sono delle similitudini che lasciano un brivido nella schiena.

Nel famoso discorso del 3 gennaio 1925 alla Camera dei Deputati (due giorni dopo vennero definitivamente soppresse le attività parlamentari), Mussolini, nell’ avocare a sè la responsabilità morale, politica e storica dell’ omicidio di Giacomo Matteotti, avvenuto pochi mesi prima (16 agosto 1924), parla così degli attacchi ricevuti da parte dell’ opposizione, in relazione a quegli eventi:“Fu alla fine di quel mese, di quel mese che è segnato profondamente nella mia vita, che io dissi: “voglio che ci sia la pace per il popolo italiano”; e volevo stabilire la normalità della vita politica. Ma come si è risposto a questo mio principio? Prima di tutto, con la secessione dell’Aventino, secessione anticostituzionale, nettamente rivoluzionaria. (vive approvazioni). Poi con una campagna giornalistica durata nei mesi di giugno, luglio, agosto, campagna immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre mesi. (Applausi vivissimi e prolungati). Le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tutti i giornali! C’era veramente un accesso di necrofilia! (Approvazioni). Si facevano inquisizioni anche di quel che succede sotto terra: si inventava, si sapeva di mentire, ma si mentiva.E io sono stato tranquillo, calmo, in mezzo a questa bufera, che sarà ricordata da coloro che verranno dopo di noi con un senso di intima vergogna. (Approvazioni).E intanto c’è un risultato di questa campagna! Il giorno 11 settembre qualcuno vuol vendicare

l’ucciso e spara su uno dei nostri migliori (Armando Casalini, deputato fascista, viene assassinato a Roma; l’ omicida, il comunista Giovanni Corvi, dichiarò di aver agito per vendicare l’ on. Matteotti) , che morì povero. Aveva sessanta lire in tasca. (Applausi vivissimi e prolungati. Tutti i deputati sorgono in piedi).”Mussolini imputa un evento cruento, l’ omicidio del deputato fascista Casalini, ad una campagna mediatica costruita ad arte dalle opposizioni. E’ evidente che l’ omicidio di Casalini e l’ attentato subìto da Berlusconi sono eventi di portata diversa, ed in quel caso esisteva una reale ed esplicita correlazione tra due eventi cruenti.In quel caso, nei giorni che seguirono il discorso di Mussolini sopracitato, il fascismo cancellò dalla sera alla mattina il parlamento e, con esso, i diritti costituzionali degli italiani.In questi giorni, Eugenio Scalfari dalle colonne di Repulbblica, ci ricorda i proponimenti del governo: “…Nell’articolo pubblicato dal Giornale il 18 dicembre, Verdini elenca gli obiettivi che il Pdl si propone di realizzare nei prossimi mesi e descrive come meglio non si potrebbe il ruolo di Berlusconi. “Lui ha costruito la figura del leader moderno – scrive Verdini – anzi ha costruito la leadership come istituzione. Per affrontarlo, anche gli altri partiti dovranno affidarsi ad una leadership e se non riusciranno a farlo saranno sempre sconfitti.Ma anche i “media” non potranno esimersi dal concentrare sul leader la loro attenzione, se vorranno cogliere il vero significato di quanto accade”.Segue l’elenco degli obiettivi: smontare la Costituzione e adeguarla alla Costituzione materiale; cambiare il sistema di elezione del Csm e quello della Corte costituzionale; riformare la giustizia separando le carriere dei magistrati inquirenti da quelle dei giudicanti; concentrare nella figura del premier tutti i poteri dell’Esecutivo e sancire che tutti gli altri poteri siano tenuti a collaborare lealmente con lui perché lui solo è l’eletto del popolo e quindi investito della sovranità che dal popolo emana….”

L’ opposizione, nel 1925 era frantumata ed intimorita, incapace di unirsi di fronte all’ evidente incombente pericolo rappresentato dal fascismo.L’ opposizione, nel 2009, è composta di orti ed orticelli, incapace di unirsi su temi ed obiettivi comuni.

I padri costituenti scrissero la costituzione con un sistema forte di pesi e contrappesi basato sulla netta divisione dei poteri e la sovranità del popolo costituita non in un capo di governo, bensì in un parlamento democraticamente eletto.La costituzione, secondo i propositi dei nostri governanti diverrà solo un insieme di regole atte ad asseverare lo “status quo” di uno stato non più ad essa conforme.

Antonio Rossanohttp://socialblog.yurait.com

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(...) Cosa fare quando i lavoratori ti propongono le stesse soluzioni di Tremonti sull’innalzamento dei tassi doganali? È sicuramente più comodo parlare dei lavoratori che con i lavoratori, ma resta il fatto che se non ci parli assieme, loro non ti filano per niente. Loro in azienda non ci vanno a fare l’inchiesta. A questo punto succede qualcosa: la crisi. Le parole non bastano più. A ogni angolo del Paese, in ogni settore cercano di farcela pagare sta benedetta crisi. Quelli che ci avevano creduto a un sistema capace di assicurare prosperità e garanzie, magari a spese di altre zone del mondo, di altri donne e uomini, non ci crede più. Qualcuno inizia a pensare che forse i no-global non avevano del tutto torto, qualcun altro più serioso comincia a dire che in fondo Marx aveva anche ragione. La globalizzazione e la crisi sono una cosa sola, o meglio la crisi si globalizza. Ed è a questo punto che ritroviamo i lavoratori sulle reti del Web a costruire comunicazione tra stabilimenti del stesso gruppo, nascono i blog e gli scambi di esperienze, sui metodi di lotta e sugli obiettivi. Sta montando una richiesta di unità tra lavoratori dei vari siti, tra precari e fissi, tra categorie e coordinamenti territoriali.Questa richiesta è dettata dal fatto che il padrone sta costruendo un sistema in cui vuole trovare sempre qualcuno disposto a lavorare per lui a meno soldi e meno diritti. Per tutelare noi stessi dobbiamo aumentare i diritti di tutti. La moderna inchiesta nasce da qui, da crisitv.wordpress.com un luogo molto concreto sul Web (altro che second life, dove uno immagina di essere il vicino di casa di Berlusconi) dove i lavoratori prendono la parola, dove si possono confrontare esperti, lavoratori, giornalisti, completamente alla pari (dove le stupidaggini dette o scritte sono e rimangono stupidaggini senza gerarchia) dove i materiali d’inchiesta non rimangono come mute denunce ma sono i mattoni con cui costruire una nuova piattaforma di diritti e rivendicazioni. Astenersi perditempo.

http://crisitv.wordpress.com

Luigi de Magistris: Giustizia e Potere“Perché non hai posto un veto sulla mia persona?”“Perché avrei dovuto? Non ci conosciamo bene, ma se ti fai intervistare da chi ti fidi, da chi conosci, da chi fa giornalismo politico, che riposte vengono fuori? E poi mi faceva piacere che fosse qualcuno giovane”.

Questa è l’unica domanda off record del libro. Una domanda dovuta a livello personale. Come anche la risposta. Ho conosciuto Luigi De Magistris per merito del giornalista Pietro Orsatti. Un viaggio in macchina con destinazione Fano, dove ci aspettava Salvatore Borsellino. Siamo i primi a sapere che si candida. L’uomo del momento, il magistrato di cui tutti parlano, scende da un taxi con una borsa a mano. E cammina da solo. Quell’immagine mi è rimasta impressa. L’intervista è uno dei mezzi che prediligo nel giornalismo. Si ha la possibilità di domandare ma soprattutto di ascoltare. Le domande. Molte altre se ne sarebbero potute fare, sicuramente. Immedesimarsi nel lettore, dal precario all’avversario politico, e porre le loro domande, prima che le mie. Perché tutti, dal precario all’avversario politico, meritano indistintamente il rispetto del lettore.Per far ciò le domande devono essere dirette, non compromesse, sincere, interessate e curiose. Ho avuto piena libertà di porre questioni, senza esclusioni di temi. E non volevo risposte che mi annoiassero, perché avrebbero annoiato anche il lettore. E tra il lettore e l’intervistato, io propendo per chi paga di tasca propria un libro. Curioso di capire se De Magistris avesse un pensiero politico che si potesse definire tale. Curioso di capire se le sue battaglia sono un mezzo per ritagliarsi un posto al sole, o hanno una reale consistenza. Luigi De Magistris mi ha aperto la porta di casa sua. Non ha mai saputo in anticipo la domanda. E non ha avuto timore di dirmi: “devo pensarci, mi cogli impreparato”. Ho avvertito un grande rispetto per il mio lavoro. Che non ha evitato scambi accesi e risposte seccate.Un’intervista appassionata. Un’intervista possibile, anche in Italia. Senza legami politici potersi sedere di fronte ad un uomo politico e domandare, contestare. E, sempre in accordo al rispetto verso il lettore, sì, Luigi De Magistris mi incuriosisce. Mi piace umanamente. Sono con quei calabresi, soprattutto di Catanzaro che lo hanno votato, credendo che le inchieste condotte fossero lecite. E che c’è del marcio non solo in Danimarca, ma anche in Calabria, così come in Campania e in Italia. Da comune cittadino, ed anche da giornalista scrittore mi sono stancato di sentire la solita litania di sempre, quando la Giustizia cerca di fare luce sui politici e gli apparati di Stato. La solita litania di “come vi permettete!” l’abbiamo sentita durante Mani Pulite, l’abbiamo sentita durante le avventure dei “Furbetti del Quartiere”, durante l’emergenza rifiuti in Campania con Bassolino e la Iervolino, e di poi anche con Cosentino e i suoi aggregati.Perché c’è una sola differenza tra i lettori, quelli che vanno dal precario all’avversario politico o l’alleato politico: quando la Giustizia chiama,

risponde soltanto il primo. E la parola responsabilità non è mai presa in considerazione, perché nessuno si dimette mai.Dall’altra parte sono anche stanco di sentire parole come Massoneria, P2, poteri forti e

poteri occulti, senza che abbiano mai un volto, un nome e un cognome. Non mi interessa lo scoop. Capire, invece, è molto più interessante.La Calabria è una terra straordinaria. Dopo essere stato a Catanzaro, capisco perché De Magistris non se ne voglia andare. Ama la città e la gente. Sentirlo parlare di Calabria, beh non sembra quasi napoletano. E’ viscerale l’amore che ha per la Calabria e per la sua gente. Mi confessa che: “anche le persone a cui sono stato più antipatico qui, mi hanno sempre rispettato, perché hanno sempre saputo che avevo a cuore solo l’interesse di questa terra. Non perseguivo interessi personali. E me lo hanno riconosciuto”.Non tutti i calabresi sono con De Magistris, anzi. La mattina mi sveglio presto in hotel. Faccio colazione. Chiedo dove posso trovare un edicola aperta. Il responsabile dell’hotel mi chiede se ho fretta. Si offre di portarmi a comprare i giornali e mostrarmi la città all’alba. Accetto. Questa è l’accoglienza del Sud, della Calabria. Ci fermiamo sul Bel Vedere di Catanzaro. Una vista commovente sul mare, sul verde, sull’infinito. Gli chiedo cosa ne pensa di De Magistris: “Si sta sistemando in politica. E’ venuto qua, ha fatto tanto rumore per prepararsi un posto in politica. Si sa come vanno le cose qua. Qua ci sono tanti soldi e tanti interessi. Lui sta inseguendo il suo di interesse. Non mi piace per niente”. Poi mi parla della famiglia. “Ho una figlia con tre lauree, ha scritto anche per dei grandi giornali a Roma. E’ dovuta tornare per problemi di famiglia. Una ragazza brillante e intelligente. Cosa fa ora? Qualche ora di insegnamento nei corsi di formazione e la commessa in un negozio. Mi creda, questa è una coltellata al cuore, con tre lauree fa la commessa. Ma qua il lavoro non ci sta”.Guardo il panorama sporcato dal cemento che arriva fino al mare, penso al turismo che dura solo quaranta giorni e non tutto l’anno. Osservo il mare calmo di mattina e non riesco a trovare una riposta al fatto che con tre lauree si debba lavorare come commessi.Non tutte le domande hanno risposte. Ma un senso sì.

Dal libro “Luigi de Magistris: Giustizia e Potere”a cura di Sergio Nazzaro

Editori Riuniti

Sergio Nazzarowww.sergionazzaro.com

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Se Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi (il non imputato ma comunque convitato di pietra) si trovassero di colpo a essere al centro delle dichiarazioni di un solo pentito, Gaspare Spatuzza, e tirati dentro un presunto intreccio di interessi innominabili con Cosa nostra, si potrebbe sospettare che ci troviamo davanti a un possibile complotto.

Ma non è così, non è solo Spatuzza che parla, anzi, a parlare sono in parecchi e da parecchio tempo. Perché emerge dalle carte di quel processo in primo grado a Marcello Dell’Utri, con tanto di condanna a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, un rapporto consolidato, continuo, fin dai primi anni Settanta, cioè da quando Silvio Berlusconi, affiancato dai suoi più fidi collaboratori Marcello Dell’Utri e Felice Confalonieri, è solo un costruttore milanese che non si sogna ancora di buttarsi nel grande mondo delle televisioni e dell’editoria, e ancor meno della politica. Silvio è un giovane imprenditore di successo, in una Milano dove era approdata Cosa nostra, dove gli imprenditori erano diventati “vacche da mungere”, dove i rapimenti e le estorsioni erano cose di tutti i giorni, anche grazie alla consolidata presenza di Luciano Liggio e di gruppi di catanesi e messinesi. Dobbiamo, quindi, andare indietro nel tempo di almeno 35 anni per ricostruire una vicenda che da lì, dalla paura dei

rapimenti, ci porterà all’oggi, alle accuse di Spatuzza e ai sospetti (già emersi negli anni Novanta sia a Firenze che a Caltanissetta) di un coinvolgimento di Berlusconi in una presunta trattativa. Con le stragi del 1992-93 a fare da “facilitatori” di un possibile accordo fra mafia e pezzi della politica e dello Stato. Si tratterebbe, perciò, di andare a vedere quale sarebbe stato, secondo le ricostruzioni fornite da numerosi pentiti e uomini d’onore, il primo incontro diretto fra uomini di Cosa nostra e l’allora costruttore lombardo Silvio Berlusconi.

Comincia a raccontare Gaspare Mutolo, amico di Liggio e Riina e boss dei quartieri Partanna e Mondello di Palermo, del clima che avrebbe portato Marcello Dell’Utri per conto di Silvio Berlusconi a contattare qualcuno in Sicilia, qualcuno che lo proteggesse dai rapimenti che in quel periodo (siamo negli anni Settanta) erano un fatto quasi quotidiano a Milano. L’obiettivo era diventato «l’uomo che aveva fatto la Milano 2», racconta Mutolo e spiega che «eravamo pronti diciamo… già c’era un gruppo di persone pronte per sequestrarlo. Non è che sono state parole così… eravamo là a Milano perché eravamo pronti da un momento all’altro che davano il via per sequestrare questa persona, che dopo io ho capito che era Berlusconi perché molto spesso la sera

andava negli uffici che ci sono nella Milano 2 e questi battuti li aveva presi un certo Antonino Grado, un «uomo d’onore» della famiglia di Stefano Bontade, una persona che abitava là a Milano. Tutta assieme non se ne fece più niente, ma addirittura siamo rientrati tutti e mi ricordo che io non ho partito più per alcuni sequestri e dopo ho saputo così, insomma, che quell’impresario che aveva fatto la Milano 2 era Silvio Berlusconi, che era entrato in contatto con alcuni personaggi importanti in cui i mafiosi avevano il compito che investivano e questo Berlusconi era tranquillo, pacifico che non veniva più né minacciato e né… cioè che non correva più la minaccia che potesse essere sequestrato o lui o qualcuno dei suoi familiari».

E l’incontro, a quanto spiega un altro pentito, Antonino Galliano, la cui testimonianza è inserita anche lei nelle motivazioni della sentenza Dell’Utri, è diretto fra Silvio Berlusconi e Stefano Bontade che all’epoca era a capo della Commissione di Cosa nostra, ovvero a capo della mafia siciliana. «Quindi con Stefano Bontade fissano l’appuntamento a Milano e si… si recano a Milano il Tanino Cinà con Stefano Bontade e con Mimmo Teresi. A questo appuntamento vanno a trovare il Dell’Utri e il Berlusconi e mi dicono che c’erano anche altre persone; lo Stefano Bontade

È MafiagateTutta la difesa di Marcello Dell’Utri, e di conseguenza di Silvio Berlusconi,

dalle accuse di Spatuzza è nel negare la credibilità del teste. Ma a raccontare di rapporti con Cosa nostra sono tanti, e da decenni

Pietro Orsatti - anche su left/Avvenimenti - 10 dicembre 2009

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aveva ascoltato, diciamo, il problema e li rassicurò che non sarebbe successo più nulla e che per maggiore sicurezza avrebbe mandato un suo uomo nella…diciamo, per guardare le spalle alla famiglia Berlusconi, cioè nella villa di

Arcore e gli manda, dicevano, il Vittorio Mangano, che era un esperto, diciamo, molto pratico di animali. Fece anche una precisazione il Tanino Cinà, disse che il signor Berlusconi rimase, diciamo, affascinato dalla figura di Stefano Bontade, che non si immaginava di avere a che fare con una persona così intelligente e così, diciamo, affascinevole, diciamo. Cioè… s’immaginava di avere a che fare con un uomo rozzo, cioè un mafioso tipico che… che si leggeva nei libri o si vedevano nei film a quei tempi. Quindi, quando poi, il Mangano prende servizio alla villa di Arcore, dopo poco tempo, per, diciamo, accattivarsi maggiormente la fiducia del Dottor Berlusconi, organizza un finto se, diciamo… un finto furto di quadri all’interno della villa e lui fa finta di adoperarsi per il recupero di questo maltolto». Così racconta Galliano, uomo d’onore del clan della Noce, in relazione a un incontro avvenuto nel 1975 nella sede della Edilnord, la società di Silvio Berlusconi costituita per edificare Milano 2. E poi prosegue: «Il Berlusconi, diciamo… dice allo Stefano Bontade che vuole fare un regalo… un regalo, diciamo, alla… diciamo a loro. E per questo, diciamo, incarica lo Stefano Bontade il Tanino Cinà. Il Tanino Cinà si reca, sin da quel momento, ogni… due volte l’anno per ritirare dei soldi nello studio di Marcello Dell’Utri. A quei tempi questi erano venticinque milioni a volta e quindi cinquanta milioni l’anno. Questi soldi poi lui, diciamo, lo Stefano… il Tanino Cinà li faceva avere allo Stefano Bontade; però questi soldi, quando succede la guerra di mafia e quindi lo Stefano Bontade viene ucciso, questi soldi il Tanino Cinà li consegna a Pippo Di Napoli, che a sua volta li faceva avere ad un uomo d’onore della famiglia di Santa Maria di Gesù, che è anche nipote di Tanino Cinà, Pippo Contorno».

Poi è la volta di Salvatore Cuccuzza, membro del mandamento di Porta Nuova retto proprio da Mangano “lo stalliere”, che spiega che «Mangano Vittorio aveva rapporti molto intimi con Stefano Bontade e con Rosario

Riccobono che in quel periodo diciamo che erano molto in auge interno a “cosa nostra”, però il suo diretto capo era Pippo Calò. Avevano un rapporto buono, ma diciamo che Mangano essendo un tipo un po’ egocentrico preferiva l’amicizia anche di queste persone che andavano alla grande in quel periodo, quindi erano molto intimi con Bontade, con Inzerillo, con Riccobono». Amico quindi di quello che era, all’epoca, il Gotha di Cosa nostra prima della mattanza avviata da Totò Riina.

E poteva mancare il pentito Antonino Giuffrè, uno degli accusatori principali di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi? Certo che no. Anche lui ricorda perfettamente la circostanza che portò Dell’Utri a organizzare l’incontro fra Berlusconi e Bontade. « Sì, signor Presidente, vado un pochino a stento, perché sono discorsi molto vecchi e se ricordo bene, addirittura di questi discorsi ne ha parlato Michele Greco, cioè come le dicevo siamo nella metà degli anni Settanta e a Milano e nei dintorni vengono fatti molti sequestri da parte della mafia siciliana ed uno degli obiettivi cioè… ed appositamente il signor Berlusconi», racconta Giuffrè.

Quindi, Berlusconi era preoccupato di un possibile rapimento suo o di un suo familiare. Marcello Dell’Utri perciò si fa tramite, grazie a Gaetano Cinà, di un incontro con Stefano Bontade, incontro che sarebbe avvenuto nella sede della Edilnord. Qui si trova un accordo e Cosa nostra offre protezione, addirittura si parla di affari, di possibili costruzioni in Sicilia. A fare da “garante” della protezione di Silvio Berlusconi sarebbe stato individuato Vittorio Mangano. Questo il primo “approccio”. Poi la questione si fa ancora più complessa. Mangano è amico dei Graviano, in particolare c’è un patto fra il mandamento di Porta Nuova retto dallo “stalliere” e quello di Brancaccio retto dai Fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Spatuzza oggi racconta che addirittura i Graviano gli ordinarono di andare a dare “una controllata” al territorio di Mangano mentre questi era in carcere. Insomma i Graviano erano legati a Mangano, erano latitanti a Milano e non solo, si erano dimostrati interessati precedentemente anche a un altro affare che interessava Berlusconi, quello di Euromercato/Standa a Palermo. Si legge nella sentenza in primo grado a Dell’Utri che anche i Graviano intervenissero nell’affare. Quindi è improbabile che Dell’Utri non fosse a conoscenza di questa circostanza, come concludono i giudici.

C’è un passaggio, oggi, nel confronto fra Gaspare Spatuzza e il “ragioniere” Filippo Graviano avvenuto il 20 agosto scorso, un passaggio che forse anticipa se non un pentimento almeno una dissociazione da parte del più giovane dei due fratelli. Spatuzza si rivolge al suo ex capo: «Nessuno mi può dire (incompr.) perché non mi sto (incompr.) e non mi sto inventando niente». E Graviano gli risponde: «Assolutamente, vedi che io, dal primo momento, l’ho detto ai magistrati, oggi te l’ho detto davanti. Io non ho nulla contro le tue scelte». E Spatuzza insiste: «Nessuno mi può dire infame perché non sto infamando nessuno». E ancora Graviano: «Ma assolutamente». E visto che uno dei possibili “infamati” è proprio Filippo, è facile trarre delle conclusioni.

P R O C E S S O D E L L ' U T R I : A S C O LTAT I I B O S S , M A I L P E N T I T O N O N È A M M E S S O

Sembra un paradosso, una storia scritta al contrario: tre boss di Cosa Nostra chiamati a fornire un improbabile riscontro alle dichiarazioni del

pentito Gaspare Spatuzza e un collaboratore di giustizia lasciato alla porta. Questa mattina la Corte presieduta da Claudio Dall'Acqua che giudica il senatore Marcello Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa ha deciso di non accogliere la richiesta del procuratore generale Antonino Gatto e di non chiamare a deporre Salvatore Grigoli. Ex picciotto della cosca di Brancaccio, assassino reo-confesso di Padre Puglisi, già implicato nelle stragi del '93 e collaboratore di giustizia fondamentale in diversi processi di mafia. I suoi ricordi - hanno dichiarato oggi i giudici dopo aver letto il verbale di interrogatorio reso il 5 novembre scorso ai pm di Firenze – sarebbero imprecisi e la sua conoscenza dei rapporti tra i Graviano e Dell'Utri non diretta. Niente di strano, per la verità, considerata la posizione di Grigoli all'interno dell'associazione criminale: killer di professione, ma non inserito nei ranghi più alti della cosca e quindi per nulla tenuto a conoscerne decisioni e strategie. E non certo il primo pentito a riportare fatti appresi de relato. Cosa che invece, per la Corte, ha rappresentato un ostacolo insormontabile.Eppure le dichiarazioni rese da Grigoli ai pubblici ministeri fiorentini Crini e Nicolosi in molti punti confermano quelle di Spatuzza: la presenza del “gruppo di fuoco” di Cosa Nostra a Roma, poco prima del fallito attentato all'Olimpico; l'arrivo nella capitale di Giuseppe Graviano; le stragi realizzate “per convincere lo Stato a scendere a patti”. Quello stesso Stato che anni prima “sotto pressione, aveva contattato gente di Cosa Nostra per fare da tramite con gruppi terroristici, come le Brigate Rosse, per trovare un accordo”. Circostanze apprese dal boss Nino Mangano, riferisce il pentito - con il quale aveva un “rapporto molto stretto e di assoluta fiducia” - che da lui avrebbe saputo anche dell'interessamento dei Graviano a far ingaggiare il giovane D'Agostino nel Milan,

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mentre tra i boss girava la voce che Marcello Dell'Utri era in contatto con Cosa Nostra. “Effettivamente”, spiega, “Mangano mi disse che i Graviano avevano un canale diretto con Dell'Utri”. Prima di collegare il ricordo a “Sicilia Libera”, “un movimento che doveva rappresentare una sorta di lega meridionale, con presenze dirette di esponenti di Cosa Nostra” e che si concluse con un nulla di fatto “perché tutti noi fummo orientati verso il nascente movimento di Forza Italia”.“Dopo le elezioni – continua - tutti confidavamo in Berlusconi e si diceva che solo lui ci poteva salvare”. Ma se ci fosse una relazione tra tali contatti politici e le stragi Grigoli non è in grado di dirlo: “Non rammento – risponde ai pm – (se Mangano ndr.) me ne parlò in occasione di un discorso che mi fece a proposito dello scopo delle stragi, com'è più probabile, ovvero se se ne parlò in relazione all'aiuto dato ad Agostino”. Ma è certo, sottolinea, che il periodo in cui apprese “di questo contatto politico con Dell'Utri” era proprio quello delle bombe. “Sia prima che dopo l'arresto dei Graviano”. Un periodo nel quale l'odierno collaboratore non era per sua ammissione in grado di apprezzare il valore di quel rapporto: “Da sempre Cosa Nostra ha cercato contatti con politici a vari livelli. Quello di Dell'Utri per me, era in quel momento un nome conosciuto ma neppure particolarmente importante”. Importante lo sarebbe diventato successivamente e il motivo per cui il pentito avrebbe deciso di rivelare il suo nome solo dopo 12 anni si nasconde proprio li. “Nelle mie dichiarazioni – dice ancora Grigoli - ho sempre detto la verità. Però una cosa è parlare di un omicidio, fornendo tutti i necessari riscontri, altra cosa è parlare di queste tematiche. In sostanza ho sempre temuto che affermazioni come quella che ho fatto stamani potessero finire col far mettere in dubbio tutte le mie precedenti dichiarazioni”. Al processo Dell'Utri le rivelazioni di Grigoli non sono servite. Ora resta da capire se altre procure decideranno di utilizzarle e quali ulteriori particolari si nascondano dietro gli immancabili “omissis”.

Monica Centofantewww.antimafiaduemila.com

Addaura: indagato Salvino MadoniaEra il 21 giugno del 1989 quando all'Addaura, presso la villa affittata per il periodo estivo dal giudice Giovanni Falcone, dagli uomini di Cosa Nostra vennero piazzati 58 candelotti di esplosivo..

Un attentato che era stato pianificato nei particolari e che fallì per un fortunato caso (si suppone un malfunzionamento del detonatore).Le bombe, presumibilmente controllate da un comando a distanza, non esplosero e al mattino gli agenti di polizia addetti alla protezione personale del magistrato rinvennero l'ordigno. Per questo attentato sono stati condannati, con sentenza definitiva della Cassazione nel 2004, il boss Totò Riina come mandante, Salvatore Biondino e Antonino Madonia come esecutori.Adesso, oltre vent'anni dopo, ci sono nuovi sviluppi. La Procura di Caltanissetta ha iscritto nel registro degli indagati il boss mafioso Salvino Madonia, ritenendolo tra i responsabili. Salvino Madonia, 53 anni, è stato condannato come esecutore materiale dell'omicidio di Libero Grassi, l'imprenditore palermitano che si era ribellato al racket del pizzo ucciso nell'agosto del 1990. Il procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari, che non ha smentto la notizia, ha disposto alla Direzione investigativa antimafia degli accertamenti tecnici da effettuare sulla muta da sub utilizzata per sistemare l'esplosivo sugli scogli vicino alla villa del giudice, poi ucciso nella strage di Capaci. A parlare di un coinvolgimento di Madonia nell'attentato sarebbe stato il pentito Angelo Fontana che, con le sue dichiarazioni, ha dato diversi input alla nuova indagine. Dalle precedenti era emerso che Falcone non era l'unico obiettivo di Cosa Nostra. Secondo le rivelazioni fatte dal collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, quel giorno avrebbero dovuto morire anche altri due giudici: gli svizzeri Carla Dal Ponte e Claudio Lehman.

Aaron Pettinariwww,antimafiaduemila.com

I verbali inediti di Falcone sull’AddauraProcura della Repubblica di CaltanissettaVerbale di Istruzione Sommaria

L’anno millenovecentottantanove il giorno 12 del mese di luglio in Palermo ore 12,46 avanti di Noi Dott. Celesti Salvatore Procuratore della Repubblica, assistiti dal sottoscritto Segretario è comparso: Falcone Giovanni nato il20-05-1939 in Palermo, giudice Istruttore presso il Tribunale di Palermo, al quale, a norma dell’art.357 del Codice di Proc.Penale, viene fatto avvertimento dell’obbligo di dire tutta la verità, null’altro che la verità e vengono rammentate le pene stabilite dall’art.372 del Codice Penale contro i colpevoli di falsa testimonianza.

Interrogato sulle sue generalità e intorno a qualsiasi vincolo di parentela o di interesse che abbia con le parti provate nel procedimento di cui trattasi

Risponde: Ritengo che tra i possibili moventi che hanno determinato il collocamento dell’ordigno esplosivo davanti la mia residenza in via Cristoforo Colombo all’Addaura possono essere indicati i seguenti fronti:1) La mia nomina a Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo, incarico che Cosa Nostra aveva tutto l’interesse di impedire o ostacolare;2)Le importanti indagini che allo stato sono da me condotte in relazione ad un grosso fenomeno di riciclaggio di denaro proveniente dal traffico di stupefacenti; dette indagini si riferiscono ad una vicenda giudiziaria che vede imputate numerosissime persone di grosso spessore mafioso e da cui potrebbero emergere anche conseguenze ed implicazioni di natura istituzionale, così in Italia come anche all’estero.Dico ciò perché la vicenda ha interferenza con il procedimento penale pendente nello Stato elvetico ed i cui giudici, qualche giorno prima dell’attentato, erano venuti a Palermo per espletare una rogatoria internazionale.Non vedo altre causali all’infuori da quelle indicate. In particolare, in relazione alla campagna di stampa relativa alle circostanze dell’arresto di Totuccio Contorno, nego che io sapessi della sua presenza in Sicilia prima che fosse arrestato e contro il quale ho emesso mandato di cattura.[...] avevo preso in locazione la villetta all’Addaura nel maggio u.s. e mi ero trasferito tra la fine di maggio e i primi di giugno.Non avevo l’abitudine di prendere il bagno nello specchio d’acqua antistante la villa nel corso della giornata e tantomemo in orario prestabilito. Solamente un paio di volte ed in orari diversi ciò era accaduto. Debbo dire al riguardo che il giorno 19 giugno 1989 in occasione della presenza a Palermo dei colleghi svizzeri impegnati nell’espletamento della rogatoria, avevo loro proposto di prendere insieme un bagno nelle acque dell’Addaura il giorno successivo e cioè il 20 giugno dopo le ore 14.Ciò però non fu possibile perché l’espletamento

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della rogatoria si protrasse più del previsto.Null’altro allo stato ho da aggiungere.

Procura della Repubblica presso il tribunale di Caltanissetta

Verbale di assunzione di informazioni

L’anno 1990 il mese di dicembre il giorno 4 alle ore 12.05 in Caltanissetta in relazione al procedimento n.204/B/89 innanzi al procuratore Salvatore Celesti assistito per la redazione del presente verbale dall’Ausiliario Sig. Coll. di Cancelleria Gaetano Polizzi è comparso Giovanni dott. Falconeche richiesto delle generalità, risponde: Falcone dott. Giovanni n. Palermo 20/05/1939 res. Palermo - Procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo.Avvertito dell’obbligo di riferire ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito, dichiara:Richiesto di fornire eventuali utili indicazioni circa il movente e l’esecuzione dell’attentato dinamitardo posto in essere nel giugno 1989 contro di lui, risponde: la coincidenza dello attentato con la presenza dei giudici svizzeri in Palermo che sarebbero rimasti sicuramente coinvolti dall’esplosione dell’ordigno, mi inducono a una seria riflessione ove si consideri che, ben conoscendo [ la metodologia di] Cosa Nostra, quasi sicuramente non sarebbero stati uccisi due magistrati di un altro Paese ove ciò non fosse stato ritenuto opportuno e necessario. Vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che ove si fosse voluto prendere di mira solo la mia persona, avrei potuto essere oggetto di attentati in mille altri modi e in mille altri luoghi. Ed ancora, il mio perdurante collegamento coi magistrati svizzeri in tema di indagini inerenti il riciclaggio di denaro rafforza ancora di più il sospetto che si sia inteso in qualche modo lanciare un avvertimento per rendere «meno pronta» l’assistenza giudiziaria da parte della Svizzera. Né mi sembra da trascurare il fatto che proprio i colleghi svizzeri in quel periodo stavano occupandosi di indagini soprattutto finanziarie riguardanti notissimi esponenti della mafia siciliana.In quel procedimento, allora in corso in Svizzera, non tutto è chiaro circa i ruoli di Vito Roberto Palazzolo, Leonardo Greco, Salvatore Ammendolito e Oliviero Tognoli; né credo che soprattutto quest’ultimo abbia detto per intero la verità sui suoi collegamenti con la mafia siciliana su inquietanti vicende riguardanti la sua fuga da Palermo subito dopo l’emissione di un ordine di cattura nei suoi confronti. In sostanza egli ha ammesso di essere stato avvertito da qualcuno che non può non essere un uomo delle istituzioni, ma sul punto ancora il Tognoli è reticente. Aggiungasi che ben poco egli ha detto sui lunghi anni da lui trascorsi in latitanza, nemmeno singolare appare la sua riapparizione in Svizzera per essere arrestato. Ho già espletato una commissione rogatoria internazionale, ma l’interrogatorio del Tognoli ancora non ci viene trasmesso per l’opposizione del suo difensore e per il gran timore palesato da Tognoli che le sue dichiarazioni vengano in qualche modo conosciute in Italia.[...] Affermo ciò per tutta una serie di considerazioni che comunque si riassumono nel fatto che ove l’attentato avesse avuto una matrice

diversa, in un modo o nell’altro, l’organizzazione mafiosa mi avrebbe fatto sapere di essere estranea.Per completezza, faccio presente che in atto a Palermo il mio ufficio sta compiendo indagini circa l’uccisione dell’agente Agostino avvenuto nel settembre 89 e circa la scomparsa, avvenuta dopo diversi mesi, di tale Piazza Emanuele, già agente della Polizia di Stato e in qualche modo successivamente in contatto col SISDE. Dalle indagini non è emerso nulla di particolare che possa far ritenere questi due fatti delittuosi collegati con il mio attentato, ma devo registrare che, specie a livello di stampa, è ricorrente l’ipotesi che i due fossero in qualche modo collegati col mio attentato. Le indagini in questione, tuttora condotte con impegno e scrupolo, non hanno dato tuttavia alcun concreto riscontro a questi sospetti.

DR

Mi sono doverosamente astenuto dal chiedere ufficialmente alcuna notizia in merito al mio attentato a Francesco Marino Mannoia, il quale, anzi, dal carattere ombroso e sospettoso in un primo tempo pensava, e me lo ha esternato, che io non volessi chiedergli nulla per chissà quale ragione. Posso dire che, chiaritogli che io nulla potevo chiedergli in quanto persona offesa, il Marino, che mi ha ribadito di non sapere nulla di preciso al riguardo, mi ha comunque spontaneamente detto di essere assolutamente certo che all’attentato non poteva essere estranea la famiglia di Madonia di Resuttana, in quanto la zona in cui è ubicata la villa ricade nella « giurisdizione» di costoro, dopo che per le note vicende della guerra di mafia, la famiglia di Partanna Mondello è anch’essa controllata da quella di Resuttana il cui capo è anche il capo mandamento. Il Marino mi ha detto di ricordare che i Madonia da decenni si occupano di esplosivi per attentati con cui hanno particolare dimestichezza e che sarebbe interessante confrontare l’identikit con le fotografie dei componenti della famiglia Madonia ed in particolare con Salvatore Madonia.

DR

Visto il luogo ove era stata ubicata la borsa con l’esplosivo (dietro uno scoglio in prossimità del mare e in una zona che deve necessariamente essere attraversata per chi, proveniente dalla villa, va a prendere il bagno) e sono sicuro che l’esplosione dell’ordigno avrebbe provocato effetti letali solo per le persone che stazionavano nei pressi, ma avrebbe provocato danni solo eventuali alla villa e ai suoi abitanti.

signori. Ma la partita, a dispetto di tutto, è ancora aperta. Le cose quando precipitano succedono tutte in una volta. Che, in bene o male, il sistema stia andando a una decisione è evidente. Dal nostro punto di vista – dell'antimafia sociale – gli eventi più importanti sono due: la crisi industriale e l'integrazione ufficiale di pezzi di mafia nel sistema.

La crisi industriale (la produzione dei beni, l'occupazione, ecc.) è ormai al suo culmine, e comincia a prendere connotati diversi dalla crisi finanziaria. Quest'ultima, dal punto di vista delle banche, è data oramai per “superata”; ma non lo è affatto, e tende anzi a diventare stabile, per i consumatori e i produttori. Il sistema industriale che ne risulta, innestandosi sugli outsourcing degli ultimi dieci anni e sulle delocalizzazioni degli ultimi cinque, è completamente diverso da quello di prima della crisi: adesso è puro Ottocento.

Le fabbriche occupate (con i padroni che cominciano ad attaccare le occupazioni con squadre armate) diventano sempre più un elemento “normale”, ancorché censurato, del panorama (qui in Sicilia, a Termini, gli operai hanno occupato il comune e eletto un loro “sindaco”).Rompere il silenzio dei media sulla crisi industriale è ora un obiettivo essenziale dell'informazione dal basso. In questo senso vanno appoggiate iniziative come quelle di CrisiTv.

L'altro elemento catastrofico, l'integrazione ormai aperta di pezzi di mafia nel sistema, è ormai evidentissimo in una serie di fatti: la candidatura alla regione Campania, e la difesa a oltranza su tutti i fronti, di un camorrista accertato; la restituzione alla mafia, mediante un giro di compravendite, dei beni sequestrati; il tentativo di abolire il concetto stesso di concorso esterno in associazione mafiosa (fondamentale per colpire imprenditori e politici del Sistema); il tentativo insomma aperto e dichiarato di tornare a prima di Falcone. Non è un'offensiva qualunque di una qualunque destra più o meno rinnovata; è la resa dei conti, l'uscita programmata e cosciente dalla democrazia.

Riccardo Orioleswww.ucuntu.org

L ' A N N O D E L L A R E S A

D E I C O N T I

La crisi, da finanziaria, è diventata industriale; e tocca il massimo adesso. Gli elementi mafiosi, da truppa di complemento, diventano componente essenziale del sistema. Nell'economia, tornare a prima di Keynes; nella società, tornare a prima di Falcone. Questi sarebbero gli obiettivi di lor

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America Latina, bilancio di un decennio. Dai Forum di Porto Alegre ai tanti presidenti progressistiL’America Latina, con poche eccezioni, è governata da qualche anno da leader di una sinistra rinnovata. Il primo slancio è venuto dal Brasile di Lula, ma ora il fenomeno riguarda Bolivia, Venezuela, Argentina, Paraguay, Ecuador, Nicaragua, Uruguay. La crisi economica mondiale ha favorito la svolta verso l’indipendenza politica e l’autogestione di materie prime, petrolio, gas, terra coltivabile, acqua, rame e uranio. Oggi i Paesi latinoamericani, se uniti, possono fare concorrenza a Europa, Stati Uniti, Cina e India. Ecco perché la destra si riorganizza

C’è un momento nella storia dell’America Latina degli ultimi dieci anni che fa capire quanto sia cambiato lo scenario politico del continente dopo decenni di difficoltà e di colonialismo politico, economico, culturale statunitense (il famoso “cortile di casa”). L’episodio avviene nella fase iniziale, e più virulenta, della crisi economica e finanziaria: il 2008. George W Bush è a fine mandato e dopo gli innumerevoli fallimenti in politica estera, il debito pubblico che ha raggiunto livelli inimmaginabili perfino per Ronald Reagan, il clima di disfatta che attraversa gli ambienti del Partito repubblicano, si trova ad affrontare il crack delle Borse e la crisi dei mutui. Anche le altre Borse mondiali accusano il colpo, compresa quella di Sao Paulo in Brasile, la principale del continente latinoamericano, ma complessivamente quello di Sao Paulo è fra i sistemi che reggono meglio. Le pressioni interne ed esterne su Bush per mettere mano al sistema borsistico/finanziario e sulle banche “d’affari” con sede a Wall Street sono pesantissime. Bush ha bisogno di soldi, molti soldi. E non li ha. Proprio in quei giorni Luis Inacio “Lula” Da Silva, il presidente del Brasile, durante una conferenza stampa rilascia una dichiarazione che a prima vista sembra una battuta: «Se il presidente Bush ha bisogno, il Brasile è pronto a intervenire con un prestito».

Non era una battuta, era tutt’altro. Perché uno dei primi “atti ufficiali” di Lula appena insediatosi come presidente era stato quello di cambiare la

moneta di riferimento, passando dal dollaro all’euro. E poi nei primi quattro anni di mandato era riuscito a mettere in atto un vero e proprio miracolo, viste le condizioni economico/finanziarie ereditate dal suo predecessore Cardoso: cancellare di fatto il debito estero. Il Brasile, colpito come tutti dalla crisi economico/ finanziaria, ha superato la fase più acuta ripartendo più velocemente dei propri concorrenti diretti – in particolare l’India – superando il tasso di crescita del gigante asiatico e affiancando la Cina. Ma non solo. Economicamente il Brasile di Lula è diventato egemone in gran parte del continente, contendendo il primato energetico perfino al Venezuela di Hugo Chávez, con un tasso di crescita industriale e di esportazioni da periodo pre-crisi.

Ma l’origine di quella che potremmo definire “la svolta brasiliana” non ha origine a Sao Paulo o a Brasilia. L’origine di queste politiche “vincenti”, di questa trasformazione dei punti di riferimento politico/economici inaugurati sotto la presidenza Lula, è da ricercare nella grande crisi argentina del 2000. Gli effetti di quella che fu, analizzando i dati di quegli anni, una bancarotta nazionale, in cui il Paese più “europeo” del continente finì sull’orlo di una crisi sociale e umanitaria di dimensioni inimmaginabili, si riproiettarono anche nei Paesi vicini, sia in termini geografici che linguistici, dando forza a un “movimento di movimenti” non solo politico/culturali ma anche popolari e sociali. Un movimento che emerse a livello internazionale l’anno successivo della fase bancarottiera argentina, a Porto Alegre con il primo grande Forum sociale mondiale.

Quella fu la prima pietra, visibile, della trasformazione della politica continentale, con una repentina svolta a sinistra di gran parte dei governi latinoamericani e con lo sdoganamento di una serie di personaggi già accreditati “nel movimento” ma che da lì emersero come leader politici e poi di governo. Lula, Chávez, Morales, Correa, Lugo, Mujica. Sono loro, con la loro storia, la nuova faccia del continente. Sindacalisti, socialisti, indigeni, bolivaristi, cocaleros, tupamaros e sem terra. I movimenti sociali, dopo cinquant’anni di neo colonialismo e sfruttamento, di destra golpista e giunte militari, hanno segnato il cambiamento dell’ultimo decennio.

«Um outro mundo é possìvel», ecco lo slogan di Porto Alegre. Ma se non si poteva da subito realizzare un altro mondo possibile, perché non partire dal continente? Il Forum della “capitale”

del “sur” brasiliano, a un passo da Uruguay e Argentina, non è un semplice happening di movimentisti radicali. In particolare il primo forum di Porto Alegre ha rappresentato un laboratorio di maturazione dei movimenti di resistenza latinoamericani, trasformando anni di lavoro politico e sociale in politica di governo. Con l’introduzione nella politica di temi come l’ecologia, la sostenibilità, l’inclusione e l’eguaglianza sociale.

Ci sono due termini brasiliani che simboleggiano il cambiamento: parceria e misturar. Accordo e miscelare (inteso come atto di consapevole ibridazione, ascolto). Lula e Chávez sono stati i primi, poi a cascata sono arrivati tutti gli altri. Ognuno con i suoi modi e la propria storia, ognuno con il suo stile. Si passa infatti dai due estremi più evidenti, dal programmatico Lula che unisce temi sociali e liberismo al bolivarismo populista di Chávez (e i due sono in diretta concorrenza alla ricerca di un’egemonia continentale), per arrivare alle politiche di inclusioni sociale di Lugo in Paraguay e all’indigenismo di Morales e Correa, rispettivamente in Bolivia ed Ecuador. E poi c’è il fenomeno del neo presidente tupamaro dell’Uruguay, José Mujica, vicino politicamente a Lula. Per la prima volta, infatti, un ex guerrigliero, un rivoluzionario, ha vinto le elezioni a Montevideo. Una vittoria simbolica, che in qualche modo controbilancia la virata a destra che sta prendendo il Cile negli ultimi mesi.

C’è anche un altro dato che dall’Europa è difficile da individuare. Ancor meno dagli Stati Uniti. Tutti questi nuovi leader hanno, nonostante le differenze, due riferimenti ideali e culturali in comune. La rivoluzione cubana, incarnata in Fidel Castro, e l’utopia sociale del guevarismo. Non si tratta di un dato semplicemente simbolico in chiave anti-colonialista. Si tratta di un dato concreto, di una chiara scelta politica comune che vede nell’indipendenza della rivoluzione cubana un segno tangibile di autonomia culturale latinoamericana. Perfino la “destra” continentale non riesce a fare a meno del riferimento cubano, nel bene e nel male.

Vi sono anche due momenti chiave di questo decennio, a dimostrazione di un’unità non solo ideale dei leader continentali definibili come “a sinistra”. Il primo è il bombardamento del marzo 2008 ad Angostura, con cui l’esercito colombiano ha colpito le Farc sul territorio dell’Ecuador. È stata recentemente dimostrata dal governo ecuadoriano

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che ci fu un assenso, se non una collaborazione diretta, degli Stati Uniti all’operazione. Nel rapporto conclusivo della Commissione di inchiesta si afferma che il bombardamento è stato condotto dalla base statunitense di Manta, in territorio ecuadoriano. L’esercito colombiano avrebbe inoltre goduto di un importante supporto da parte dell’intelligence di Washington per individuare il campo di Angostura. Il governo di Rafael Correa ritenne, fin da subito, l’attacco una violazione della sovranità territoriale e dopo l’episodio ha interrotto le relazioni diplomatiche con la Colombia. Seguito dal Venezuela e accompagnato dalle proteste della maggioranza dei Paesi della regione.

Il secondo momento chiave è quello del massacro di Pando, in Bolivia, dell’11 settembre 2007. In quell’occasione ventisei contadini schierati dalla parte del presidente boliviano Evo Morales furono uccisi da gruppi facenti riferimento alla destra secessionista boliviana, senza che le forze di sicurezza (locali) si muovessero di un centimetro. Almeno altri quaranta restarono feriti, alcuni di loro in modo serio. E si tratta di cifre, a più di due anni di distanza, ancora parziali. Anche in questo caso sarebbero poi emerso il ruolo che ebbero alcuni membri dei servizi statunitensi e perfino di un esponente neofascista italiano, Marco Marino Diodato (ex parà, mercenario, legato al narcotraffico e alla destra eversiva boliviana). Anche in questo caso il continente si mosse all’unisono. La commissione d’inchiesta istituita dall’Unasur, l’organizzazione embrione dei Paesi latinoamericani sul modello della Unione europea, denunciò da subito la possibile presenza di interessi statunitensi nella strage. Washington appoggiò direttamente i latifondisti locali, motore del movimento eversivo, cercando di colpire così Morales e le sue politiche di nazionalizzazione delle risorse minerarie ed energetiche. Perché è proprio il fattore risorse a rendere strategico, oggi ancora di più in questa fase di tiepida ripresa dalla crisi economica mondiale, l’intero continente. Perché questo pugno di leader di sinistra governano la cassaforte continentale: petrolio, gas, terra coltivabile, acqua dolce, rame e uranio. E la tentazione di alcuni settori economici e militari statunitensi di riprendersi il “cortile di casa” è tornata ad essere evidente.

Pietro Orsattianche su Terra

della domenica

Libera Rete in Libero StatoL’attacco alla rete da parte dell’esecutivo di destra inizia mesi fa, attraverso un tam tam mediatico televisivo/estivo sugli effetti collaterali di internet , ovviamente a suon di talk senza alcuna validità scientifica hanno sfilato psicologi che mettevano in guardia dall’internetdipendenza , ed è poi proseguito con l’allerta Alfaniana di ottobre sui gruppi che inneggiavano contro B. su facebook, fino ad arrivare ai vari pdl di Pecorella e Carlucci sull'equiparazione del web alle leggi sull'editoria, con il finale sul "livestreaming" di Romani,un'autorizzazione al Governo per ogni sito o blog che trasmetta video in diretta come se fosse una televisione commerciale.

Oggi il link delle strepitose menti del Governo di centrodestra è: Statuetta del Duomo --> facebook.

E’ evidente che non conoscano non solo il concetto ipertestuale del link sul web, ma neanche il concetto della sua natura nella logica mentale. A fondamento della costruzione dei nostri pensieri infatti, tutti i concetti che maturiamo sono collegati tra loro da un ipertesto naturale mentale, dove le varie idee sono unite tra loro da link logici .

Ed è proprio la logica il vero bug del rapporto della politica, sia di destra che di parecchia opposizione, con il web. Come tutti i processi culturali il potere se non li comprende allora preferisce abbatterli, in questo caso tacciandoli di terrorismo e nefandezze varie, ed è così che sono nate le folli idee di mettere filtri al web di Maroni o le affermazioni del Consigliere Innocenzi dell'Agcom che, al seminario Bordoni affermava speranzoso l'auspicio che dall’estero arrivassero fondi per finanziare la rete. E chi, supponiamo noi, se non i soliti amici Berlusconiani dell’Egitto o della Dacia? Non è da sottovalutare poiché

consegnare le dorsali web agli “ amici” per avere il controllo degli ip sarebbe mostruoso.

È di ieri l’ultima invettiva di Capezzone che si prodigava a descrivere l'esistenza di un microterrorismo fatto di video su Youtube . Purtroppo non può bastare una gradassa risata in faccia a codesti signori e per questo è lodevole e gradita l’iniziativa promossa da Guido Scorza Presidente dell’Istituto per le politiche dell’Innovazione nonché autorevole giurista in materia , che per il giorno 23 dicembre insieme ad altri illustri esperti della rete come Alessandro Gilioli e il moderno Pippo Civati del PD sta mobilitando il popolo della rete, come ad esempio gli audaci ragazzi del Popolo viola, per lanciare un urlo “ Libera rete in Libero Stato”!

Il manifesto che riassume le idee ed i principi ispiratori della manifestazione è questo:

“Internet è una piazza libera. Una sterminata piazza in cui milioni di persone si parlano, si confrontano e crescono. Internet è la libertà: luogo aperto del futuro, della comunicazione orizzontale, della biodiversità culturale e dell’innovazione economica.

Noi non accettiamo che gli spazi di pluralismo e di libertà in Italia siano ristretti anziché allargati.

Non lo accettiamo perché crediamo che in una società libera l’apertura agli altri e alle opinioni di tutti sia un valore assoluto.

Non lo accettiamo perché siamo disposti a pagare per questo valore assoluto anche il prezzo delle opinioni più ripugnanti.

Non lo accettiamo perché un Paese governato da un tycoon della televisione ha più bisogno degli altri del contrappeso di una Rete libera e forte.

Non lo accettiamo perché Internet è un diritto umano.

Libera Rete in libero Stato."

«Sono sempre stato uno strenuo sostenitore di Internet e dell'assoluta mancanza di censura». (Barack Obama, discorso agli universitari cinesi, Shanghai, 16 novembre 2009)

L’auspicio degli organizzatori, è che sia una manifestazione che non divida ma che, piuttosto, unisca nel segno della volontà di dimostrare che battersi per un uso libero e responsabile della Rete significa solo aver a cuore le sorti del futuro del nostro Paese e della nostra libertà.

Articolo21 aderisce con convinzione, e parteciperà con una propria rappresentanza, perché come sempre ovunque c’è libertà noi ci saremo. Appuntamento quindi 23 dicembre 2009 alle 17.30 a Piazza del Popolo per dar vita ad un sit-in pacifico nel corso del quale lanciare un messaggio tanto semplice quanto fondamentale, per il futuro di Internet in Italia e del nostro Paese: LIBERA RETE IN LIBERO STATO

Tania Passawww.articolo21.org

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Dopo Telecom esplode il caso Wind. Politici e servizi coinvoltiSe si pensava che il cosiddetto “caso Tavaroli” fosse un’eccezione, che di dossier, depistaggi e reti di complicità innominabili fra apparati dello Stato (in particolare alcuni soggetti dei carabinieri e dei servizi) e imprenditori e politici fosse limitata all’ufficio “speciale” che si era insediato in Telecom, oggi la cronaca giudiziaria racconta ben altro. In azione non c’era solo il sistema messo in piedi dall’uomo della security di Telecom.

La procura di Crotone, in relazione alle indagini condotte dal pm Pierpaolo Bruni che ha ereditato alcuni frammenti delle indagini condotte anni fa da De Magistris (Poseidone e Why Not), ha ordinato gli arresti domiciliari per Salvatore Cirafici, direttore della Asset Corporate Governance di Wind, responsabile, fra l’altro, dell’organizzazione con piena autonomia gestionale, delle richieste di intercettazioni telefoniche, di informazioni e ogni altra

prestazione richiesta dall’autorità giudiziaria e dalle forze dell’ordine rivestendo di fatto il ruolo di pubblico ufficiale con funzioni di ausiliario di polizia giudiziaria e di consulente dei pm. Lo si accusa di aver abusato gravemente dei propri poteri utilizzando per altri scopi da quelli leciti le informazioni di cui, per il suo incarico, era entrato in possesso. Addirittura nascondendo informazioni, informando almeno un indagato che la sua utenza era sotto controllo, creando utenze “coperte”, fuori elenco, non rintracciabili, di cui una a sua disposizione. Ex ufficiale dei carabinieri, commercialista e docente all’Università de L’Aquila, Cirafici sembra essersi posto al centro di un intreccio di interessi e di depistaggi per proteggere uno status quo e vari affari che coinvolgevano in Calabria, e non solo, politici, imprenditori, uomini delle forze dell’ordine e dei servizi.

Per arrivare all’attuale ordine di misure cautelari, firmato dal Gip Gloria Gori, si era partiti da tutt’altra inchiesta, quella relativa all’indagine su un presunto giro di tangenti dietro la realizzazione della centrale Turbogas di Scandale e di altri tre impianti, sempre in Calabria. e che vede indagati, tra gli altri, il sottosegretario Pino Galati, l’ex presidente della Regione Calabria Giuseppe Chiaravalloti e l’imprenditore Aldo Bonaldi. I

sospetti scattano quando lo scorso 16 settembre la Wind di Roma risponde in modo anomalo ad una richiesta di verifica su un’utenza. «Lo stato dell’utenza per cui si chiede l’intestatario – si legge nella mail indirizzata agli inquirenti – risulta “disattivo” dal 21/07/2008». Ma quell’utenza è in uso. Patruno ne è certo perché è entrata in contatto con altre utenze controllate. Quindi qualcosa non funziona. Dopo altre verifiche si scopre che l’utenza in questione è riconducibile proprio a Salvatore Cirafici.

Intanto nello stesso periodo la procura sta indagando su un ufficiale dei carabinieri. Si tratta del maggiore dell’Arma Enrico Maria Grazioli, uomo di fiducia dello stesso Cirafici e a sua volta indagato dal pm Bruni per rivelazione del segreto istruttorio e favoreggiamento. «A cagione del suo ruolo presso la Wind», spiega ai pm Grazioli il 7 novembre, Cirafici «la disponibilità di schede telefoniche Wind non intestate e non riconducibili ad alcuno: erano quindi delle schede coperte, pertanto di pressoché impossibile riconducibilità ad un soggetto qualora fosse stata inoltrata specifica richiesta di intestatario da parte dell’autorità giudiziaria». E non si tratterebbe di un caso isolato, visto che questo tipo di sim non rintracciabili gli inquirenti le hanno trovate più volte a partire dall’inchiesta Why Not. Grazioli la

Caso WindTelefoni non rintracciabili, depistaggio, dossieraggio, gestione dubbia di informazioni originariamente richieste dalla magistratura. Secondo il pm, Salvatore Cirafici usava dati riservati per condizionare politica e affari Pietro Orsatti

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scorsa estate viene avvisato da Cirafici che è intercettato, e la situazione precipita. Dopo il primo interrogatorio Grazioli sarebbe stato perfino minacciato dall’uomo della Wind.

Emerge dall’inchiesta come il fatto che Grazioli fosse indagato per Cirafici fosse una grana non di poco conto. In primo luogo perché questo sarebbe stato a conoscenza delle attività “extra” dell’uomo della Wind, e poi perché proprio Grazioli era stato individuato come suo uomo da inserire nei servizi. In pratica Grazioli viene indagato ma dietro di lui c’è Cirafici. Si legge nella richiesta di Bruni al Gip: «Il Cirafici rivelando tali fatti coperti da segreto al fine di evitare al Grazioli conseguenze pregiudizievoli e quindi una mancata attribuzione di un più prestigioso incarico pubblico presso i Servizi di sicurezza, che il Cirafici si impegnava procacciare al Grazioli, attraverso segnalazione favorevole al generale Paolo Poletti (vice direttore dell’Aisi, l’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna), che già gli aveva garantito il buon esito del trasferimento al quale il Grazioli non avrebbe potuto accedere in caso di pendenze penali a suo carico». E poi bisognava distogliere l’attenzione dei pm da quella che a tutti gli effetti era una fonte d’informazione inestimabile, proprio perché Grazioli era uomo che faceva parte della polizia giudiziaria su molti casi. Lo stesso Grazioli ha dichiarato, infatti, di aver ricevuto l’assicurazione da Cirafici che questi si sarebbe mosso verso il generale Poletti e il senatore Pdl Giancarlo Pitelli per avere informazioni sulle inchieste in corso da parte del pm Bruni. A controprova di quante il sistema Cirafici fosse radicato.

Volevano fermare i pm di Why NotSeconda puntataL’obiettivo era smontare Why Not. Questo emerge dalle rivelazioni relative all’inchiesta Wind condotta dalla procura di Crotone, titolare il pm Pierpalo Bruni. L’indagine ha portato all’esecuzione degli arresti domiciliari per il capo della Security del gestore telefonico Salvatore Cirafici, e coinvolge anche il maggiore dei carabinieri Enrico Maria Grazioli, uomo di fiducia di Cirafici e che proprio da questi veniva avvisato di essere indagato e intercettato.

Per capire cosa è davvero accaduto nell’ufficio riservato della Security Wind dove arrivavano

tutte le richieste dell’autorità giudiziaria bisogna analizzare anche alcune persone non indagate, fra le quali emerge il commercialista Giuseppe Carchivi «soggetto capace di intessere, macchinare, architettare, mantenere unito e garantire una fitta rete amicale con personaggi di indubbia levatura – dichiara il maggiore Grazioli – sia privatistiche che pubblico istituzionale ». Carchivi, secondo gli accertamenti, era in contatto telefonico proprio con il maggiore dei Carabinieri, che, ricordiamolo, fino a pochi mesi prima aveva ricoperto l’incarico di comandante del Nucleo Investigativo di Catanzaro, occupandosi anche delle inchieste condotte dall’ex pm Luigi De Magistris, “Poseidone” e “Why Not”.

Le intercettazioni raccontano come Carchivi avesse messo in contatto Grazioli con il parlamentare Pdl Giancarlo Pittelli, all’epoca uno dei principali indagati delle due inchieste catanzaresi. I due si incontrarono anche a Roma, per scambiarsi informazioni sulle indagini cui lo stesso Grazioli aveva preso parte e che vedevano interessati Pittelli, oltre ad altri soggetti come il Presidente della Regione, Chiaravalloti Giuseppe. Il maggiore Grazioli, interrogato dal pm Bruni, descrive uno scenario inquietante: «Ritengo che Pittelli e Carchivi volessero utilizzarmi come strumento per colpire appartenenti alle istituzioni che, secondo un loro distorto giudizio, compivano e compiono attività investigativa nei confronti di soggetti a loro vicini». Sempre Grazioli racconta che Cirafici lo sollecitava ad informarlo «se il dottore Bruni avesse avanzato la richiesta (d’indagine ndr). Non solo, voleva altresì sapere se il Genchi fosse consulente tecnico di Bruni nell’ambito del presente procedimento penale». Ecco qui, come era prevedibile, la paura che oltre alle carte ereditate da De Magistris, il pm Bruni si potesse avvalere proprio di quel consulente che era stato uno dei protagonisti nell’inchiesta Why Not, Gioacchino Genchi. Cirafici, sempre secondo Grazioli, era

preoccupato del fatto che nel corso dell’indagine Why not erano emersi contatti con alcuni uomini delle istituzioni. Nello stesso periodo Genchi, infatti, segnalava al pm Bruni che proprio Cirafici era in contatto, tra gli altri, con gli uomini della security Telecom Fabio Ghioni e Luciano Tavaroli, e con Marco Mancini del servizio segreto militare. è in questo snodo delle indagini che emerge il legame diretto con l’altra “centrale informativa”, quella messa in piedi da Tavaroli in Telecom. «Il timore paventato da Cirafici – racconta agli inquirenti Grazioli – era determinato dal fatto che aveva, a cagione del suo ruolo presso la Wind, la disponibilità di schede telefoniche non intestate e non riconducibili ad alcuno; erano quindi delle schede “coperte”». Schede che Cirafici aveva «date per l’uso – aggiunge – anche a soggetti ricoprenti ruoli istituzionali di primo piano». I nomi di questi “soggetti istituzionali” è ancora riservato.

La paura del consulente del pm, Genchi, e il continuo informarsi sia con Grazioli che con altri di come stesse andando l’inchiesta Why Not: sono questi i fattori che fanno concentrare i sospetti della procura su Cirafici. «So che è andato anche in Procura a chiedere informazioni – prosegue Grazioli – ma non mi ha chiesto di accompagnarlo perché sapeva già a chi rivolgersi ». Quando la procura giunge a individuare una scheda fantasma usata dallo stesso responsabile della sicurezza, Cirafici non ha più dubbi e, rivolgendosi a Grazioli, afferma:«Bruni va fermato». Quando poi Grazioli viene e interrogato per la prima volta dal pm di Crotone, l’uomo della Wind lo convoca e cerca di intimidirlo per spingerlo a ritrattare. Ma ormai Bruni è andato avanti e la situazione, nel giro di poche settimane, precipita. A questo punto lunedi scorso giunge inevitabilmente l’ordinanza del Gip per la misura cautelare nei suoi confronti: arresti domiciliari.

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L’ultimo bossDopo la cattura di Domenico Raccuglia, Gianni Nicchi e Gaetano Fidanzati rimane solo un uomo che possa guidare Cosa Nostra. Matteo Messina Denasro

Nella provincia (Trapani), cosa nostra continua ad essere organizzata secondo una struttura gerarchica e verticistica, ramificata sul territorio con i noti schemi classici delle famiglie e dei mandamenti.L’assenza di mutazioni strutturali è dovuta non solo alla mancanza di situazioni di conflittualità interne, ma anche agli equilibri da tempo stabilizzatisi, grazie alla leadership mafiosa del noto latitante MESSINA DENARO Matteo, che continua ad essere il capo indiscusso di uno dei più consolidati mandamenti mafiosi, quello castelvetranese, nonché il rappresentante provinciale di cosa nostra trapanese.Il ruolo del MESSINA DENARO Matteo, all’interno di cosa nostra, risulta acquisire un forte spessore, grazie anche al momento congiunturale negativo attraversato da cosa nostra palermitana, dovuto all’incalzante azione repressiva attuata dalle Forze di Polizia.(Relazione Dia al Parlamento secondo trimestre 2008)

Ora potrebbe davvero succedere di tutto in Sicilia. L’ultimo boss è Matteo Messina Denaro, da quanto ne sappiamo, non ha rivali che lo possano contrastare nella sua ascesa. Non c’è più Domenico Raccuglia e neppure l’ambizioso Nicchi, entrambe arrestati dalla Catturandi di Palermo. Uomo di “peso”, latitante da 16 anni, stragista e contemporaneamente imprenditore, con un intreccio di rapporti con i colletti bianchi e perfino una infarinatura intellettuale che emerge non dai suoi “pizzini” ma dalle numerose lettere che sono state ritrovate nel corso degli anni. Lettere dove azzarda perfino acrobatiche citazioni di Toni Negri.

L’ascesa di U SiccuVediamo chi è il mafioso senza mafia (secondo una provocazione del sindaco mediatico di Salemi, Vittorio Sgarbi), che governa da anni l’intera provincia di Trapani, Salemi compresa. I suoi soprannomi sono “U Siccu” e “Diabolik”, latitante dal 2 giugno 1993 e condannato all’ergastolo per le stragi del 1992 e 1993. Latitante ma certo non attivo: fra una seduta di playstation e l’altra conta “piccioli” (è un appassionato di videogiochi come emerge da alcune intercettazioni), traffica armi e droga, fa patti con la massoneria deviata, e quando serve si è dedica a qualche scaramuccia con il rivale Domenico Raccuglia con cui, alla fine, sembra aver fatto un’alleanza. Matteo Messina

Denaro è alto circa un metro e settanta, stempiato, capelli castani (all’epoca del mandato di cattura del 1993), ed è strabico all’occhio sinistro. La trasmissione televisiva della Rai “Chi l’ha visto?”, nel 2006 ha scoperto che per correggere il suo strabismo, il 6 gennaio del 1994 Matteo Messina Denaro si è recato in Spagna per una visita di controllo nella clinica “Barraquer” di Barcellona, registrandosi come Matteo Messina e dichiarando data e luogo di nascita veri. In precedenza, all’epoca delle stragi del 1993, il boss si sarebbe fatto chiamare Paolo Forte ed ha vissuto in una villa lussuosa di Forte dei Marmi (Lucca) insieme a una donna austriaca. Un particolare che corrisponderebbe alla sua fame di viveur e play boy internazionale. Recentemente sono state messe in giro voci, mai verificate, che definiscono il boss gravemente malato e in dialisi. Se le voci fossero vere, la rete di copertura della sua latitanza dovrebbe avere dimensioni impressionanti. Ma è molto più probabile che le voci le abbia messe in giro lui stesso per creare l’illusione di una debolezza che, nei fatti, per ora non si è mai vista.

La vecchia e la nuova Cosa nostra«Matteo Messina Denaro è l’uomo che rappresenta l’anello di congiunzione tra la vecchia e la nuova mafia», dichiarò nel 2006 il capo Squadra Mobile Trapani, Giuseppe Linares. Figlio di Francesco, che è stato per vent’anni capo del mandamento mafioso di Castelvetrano nel trapanese, come ipotizza Massimo Russo, pm della D.d.a. di Palermo, secondo il quale Messina Denaro «ha ucciso decine e decine di persone per mano sua e forse un centinaio sono state uccise su suo mandato. Se già non lo è, è sicuramente il candidato numero uno a diventare il capo di Cosa Nostra». Tra i crimini per cui è indagato anche la vicenda del sequestro e dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino, affidato dopo il rapimento da febbraio ad agosto del 1995 proprio a dei picciotti di Matteo Messina Denaro, che durante il giorno lo tenevano legato e imbavagliato appeso a un gancio. Sin da giovane dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti, Messina Denaro può vantare importanti contatti con i cartelli sudamericani ed è considerato dall’Fbi statunitense uno dei protagonisti nel commercio

mondiale della droga. Ed ha interessi anche nell’ambito del traffico di armi e della macellazione clandestina, senza poi parlare della “tradizionale” (per Cosa Nostra) attività dell’estrazione di inerti. Da recenti inchieste emerge anche un suo interesse nella gestione dei rifiuti avviata durante gli ultimi anni di latitanza di Provenzano di cui, in questo settore, era l’esecutore.

Il mito di don FrancescoC’è da fare una breve parentesi sul padre di Matteo, sul mito di Francesco Messina Denaro, il ministro degli esteri di Totò Riina. Sconosciuto alla giustizia per quasi vent’anni, nonostante il suo ruolo di raccordo con gli Stati Uiti e “formatore” alle tradizioni di Cosa Nostra dei picciotti nati all’estero. Francesco muore in casa propria nonostante siano stati spiccati per lui diversi mandati di cattura; i parenti fanno trovare il cadavere pulito e composto su un vialetto di campagna. Il figlio Matteo, già latitante come il padre, acquisterà annunci sui giornali locali che puntualmente li pubblicheranno. Francesco è stato l’uomo che ha gestito per almeno 20 anni i rapporti con i marsigliesi e i cugini americani. E che in particolare trasformò Castellammare del Golfo nel porto del traffico dell’eroina negli anni ’70 e ’80. Per decenni questo porto, e la sua flotta di pescherecci, rappresentò il centro del traffico mondiale di droga.

Subito dopo la seconda guerra mondiale Castellammare del Golfo divenne, con un accordo fra i boss palermitani e trapanesi e i cugini negli Stati Uniti, uno dei centri potenti della nuova mafia emergente. Luogo di coincidenza di interessi tra mafiosi siciliani e boss siculo-americani. In una riunione del 1957 al Grand hotel et des palmes, uno dei più prestigiosi di Palermo, e a cui partecipò anche Lucky Luciano, venne sancito il patto di investitura di Castellammare come porta verso l’esterno dei clan, strappando di fatto il controllo del traffico degli stupefacenti ai clan marsigliesi fino ad allora “leader” incontrastati in questo businnes. Il summit, storicamente documentato in vari processi e sentenze, avvia quel processo di trasformazione della mafia tradizionale in quella dei corleonesi. E dimostra i

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legami mai troncati fra clan siciliani e cugini d’oltre Atlantico. Da quel momento Castellammare del Golfo è la base delle attività criminali legate al traffico dell’eroina. E viene scelto come quartier generale dei clan il Motel beach della vicina spiaggia di Alcamo Marina, di proprietà del boss Vincenzo Rimi. Nel 1985, la scoperta della grande raffineria di eroina di contrada Virgini, nelle vicine campagne di Alcamo, conferma la solidità e stabilità dell’attività criminale.

Matteo il managerMa torniamo a Matteo e alla sua capacità imprenditoriale. Nel novembre 2008 il tribunale di Trapani ha posto sotto sequestro dodici società, 220 tra palazzine e ville, 133 terreni per un totale di 60 ettari, tutti riconducibili a Giuseppe Grigoli, considerato il re dei supermercati in Sicilia e ritenuto un prestanome di Matteo Messina Denaro. Beni per 700 milioni di euro. Grigoli, 60 anni, arrestato il 20 dicembre 2008 per concorso esterno in associazione mafiosa, controllava 60 esercizi commerciali in Sicilia, in gran parte supermercati della catena Despar, di cui aveva la gestione in esclusiva per le province di Palermo, Trapani e Agrigento. Un uomo importante Grigoli per Cosa Nostra. All’arresto di Provenzano, l’11 Aprile 2006, nei pizzini ritrovati nel covo di Corleone figurava spesso proprio il nome dell’imprenditore. In un accordo, mediato proprio da Binnu, tra le Messina Denaro e Giuseppe Falsone, boss agrigentino che si era lamentato con la Commissione perché non capiva perché la Despar fosse “esentata” dal pizzo, si era deciso che le holding finanziarie riferibili a Grigoli, la “6Gdo” e la “Grigoli Distribuzione”, avrebbero avuto l’esclusiva del marchio Despar. E, da quanto risulterebbe dall’inchiesta, Cosa Nostra “parlava” anche sulle assunzioni, centinaia delle quali su diretta indicazione dei clan.

Matteo Messina Denaro non è il solito boss che litiga con i congiuntivi come Riina, Provenzano o i Lo Piccolo. Non sarà un intellettuale, ma per anni ha frequentato i salotti buoni non solo siciliani. Prima della latitanza era “uno in vista”, che amava farsi notare: auto sportive, vistosi orologi Rolex Daytona e guardaroba firmato Armani o Versace. Apparenza che non gli impedisce di essere assassino feroce come nel caso del mancato attentato a Maurizio Costanzo, o come in due casi del 1992, ovvero uccisione del boss di Alcamo Vincenzo Milazzo, contrario alla strategia stragista adottata in quegli anni da Riina, e lo strangolamento della sua fidanzata, Antonella Bonomo, incinta di 3 mesi e sospettata di avere legami, attraverso parentele, con servizi segreti. O come quando il 14 settembre 1992, ordina l’omicidio di Calogero Germanà, commissario di Polizia di Mazara del Vallo, che però fortunatamente non va in porto.

Un boss di “penna”Scrive a un tal “Svetonio” il 28 giugno 2006. «Se lo avessi davanti gli direi cosa penso e, dopo di ciò, la mia amicizia con lui finirebbe. Oggi posso dire che se la vede con la sua coscienza, se ne ha, per tutto il danno che ha provocato in modo gratuito e cinico ad amici che non lo meritavano. Chiudo qua

che è meglio». Svetonio è Antonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, arruolato dai servizi per fare da esca al latitante e tendergli una trappola. La lettera, lo sfogo di Messina Denaro, è contro Bernardo Provenzano al quale erano stati sequestrati centinaia di pizzini il giorno del suo arresto nel covo di Montagna dei Cavalli. «D’altronde non avevo a che fare con una persona inesperta ed ero tranquillo – si legge nella lettera in mano agli inquirenti – anche perché io non ho lettere conservate di alcuno. Quando mi arriva una lettera, anche di familiari, rispondo nel minor tempo possibile e subito brucio quella che mi è arrivata, Tutto mi potevo immaginare, ma non questo menefreghismo da parte di una persona esperta. E forse ci sono le copie di quello che lui diceva a me, ma questa è solo un’ipotesi. Ormai c’è tutto da aspettarsi; siccome usava la carta carbone, può anche darsi che si faceva le copie di quello che scriveva a me e se le conservava, ma ripeto, questa è solo una mia ipotesi poiché ormai mi aspetto di tutto». E lo sfogo continua, perché il boss è preoccupato, e molto, dell’effetto domino del ritrovamento di una parte dell’archivio dell’anziano boss corleonese: «ci sono persone a me vicine e care che sono nei guai e sono imbestialito, troppo addolorato e dispiaciuto. È una cosa assurda dovuta al menefreghismo di certe persone che non si potevano permettere di comportarsi così».

Lo sfogo di Messina Denaro è ancora più comprensibile visto che il secondo pentito Antonino Giuffrè, ex braccio destro di Bernardo Provenzano, Messina Denaro sarebbe diventato il custode del più importante archivio della mafia siciliana, affidatogli, per volontà di Leoluca Bagarella e di Totò Riina, dopo esser stato portato via di tutta fretta dal covo di quest’ultimo (vicenda quella del covo di via Bernini a Palermo che ha scatenato una tempesta sull’Arma dei Carabinieri), in seguito all’arresto di Riina avvenuto il 15 gennaio del 1993. Un leader, il castelvetranese, molto consapevole di sé: «È anche vero che ancora si sentirà molto parlare di me, ci sono ancora pagine della mia storia che si devono scrivere. Non

saranno questi “buoni e integerrimi” della nostra epoca, in preda a fanatismo messianico, che riusciranno a fermare le idee di un uomo come me. Questo è un assioma». Altro che gli sgrammaticati Lo Piccolo, altro che i pizzini macchiati di sugo di cicoria. Denaro “intellettualizza” Cosa Nostra, ne fa parte politica, una politica non di schieramenti, ma di Stato contro Stato, di Italia contro Cosa Nostra, identità, entrambe, alla pari. Secondo Denaro addirittura in termini giuridici, morali, etici.

I nuovi scenariOra che “il veterinario” (Raccuglia) e Gianni Nicchi sono in carcere, Matteo Messina Denaro è, come abbiamo già detto, solo. L’unico che lo potrebbe frenare è l’agrigentino Giuseppe Falsone, latitante dal gennaio 1999 e ricercato per associazione mafiosa, vari omicidi e traffico internazionale di sostanze stupefacenti. La mafia agrigentina, la più sommersa e invisibile dopo la guerra con la “Stidda” alla fine degli anni ’80, è anche quella più specializzata nella penetrazione degli appalti e nel riciclaggio. Messina Denaro ha bisogno di un alleato se vuole diventare davvero egemone nella Sicilia occidentale e se intende fare quella scalata a Palermo che lo porterebbe davvero a essere il nuovo capo di Cosa nostra, incontrastato, dopo il lungo regno di Totò Riina. Raccuglia sia da avversario che da alleato ha impedito di fatto l’ascesa di Denaro, prima fermandolo e poi diventando con il suo territorio di confine che da Altofonte e San Giuseppe Jato arrivava fino a Partinico e Borgetto una sorta di cuscinetto fra Trapani e Palermo. In realtà Messina Denaro nel palermitano c’è già arrivato, penetrando nel territorio di Bagaria e creando una specie di testa di ponte pronta a entrare in azione in vista di una scalata alla “grande” città o di una guerra di mafia. Passando perciò dalla “guerra fredda” dei tempi di Sandro e Salvatore Lo Piccolo e Domenico Raccuglia a una vera e propria conquista.

Pietro Orsatti

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Un anno di reportage e inchieste sulla riorganizzazione di Cosa nostra dopo i clamorosi arresti di Bernardo Provenzano e Salvatore Lo Piccolo. Partendo dai clan “periferici” della mafia rurale di Partinico, ai massimi sistemi e alle inquietanti connessioni con pezzi dello Stato. Un viaggio in una Sicilia che tenta di reagire e di modificare un percorso di emarginazione sia dal punto di vista sociale che sul piano della legalità. Un’inchiesta che punta anche all’emersione e all’analisi di figure criminali considerate erroneamente marginali e che, alla luce di una vera e propria guerra di mafia in atto in questo periodo, si rivelano come ai vertici del sodalizio criminale.

L’immagine di copertina è di Maura Pazzi

formato: 13,5x21

pagine: 228

prezzo: € 18,00

ISBN: 978-88-95265-26-1

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