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PETER CARRAVETTA Dei Parlanti Studi e Ipotesi su Metodo e Retorica dell’Interpretare

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Dei Parlanti 1

PETER CARRAVETTA

Dei Parlanti

Studi e Ipotesi su Metodo e Retorica dell’Interpretare

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2 Peter Carravetta

Peter CarravettaDei ParlantiStudi e Ipotesi su Metodo e Retorica dell’Interpretare©Marco Valerio EditoreVia Sant’Ottavio, 5310124 Torino TO

La riproduzione, anche solo parziale, di questo testo, a mezzo di copiefotostatiche o con altri strumenti, senza l’esplicita autorizzazione dell’Editore,costituisce reato e come tale sarà perseguito.

ISBN 88-88132-??-?(edizione tradizionale)ISBN xx-xxxx-xxx-x(edizione in formato elettronico - ebook)

I edizione - marzo 2002Ristampa 1 2 3 4 5 6 7 8 9

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Indice

Avvertenza ..........................................................................7

Nota e Ringraziamenti ...................................................... 15

INTRODUZIONE

Riconoscere Hermes(Tesi su linguaggio e interpretazione) .............................. 17

1 Preliminari .............................................................. 172 Lessico, figure e modello interpretativo

del presente discorso .............................................. 203 A partire dai contemporanei ................................... 274 Non-detto e giudizio ................................................ 285 Ermeneutica e pregiudizio ...................................... 296 Paradosso della critica ............................................. 327 Il problema Teoria ................................................... 379 L’Interprete ............................................................. 40

10 Il viandante e la sua ombra .................................... 4311 Della luce ................................................................ 4512 Prima e dopo ........................................................... 47

PARTE PRIMAContesti

CAPITOLO UNO

La s/volta della retorica nella cultura italiana ................. 510 Preliminare ............................................................. 511 Sintesi ...................................................................... 532 Locus I ..................................................................... 54

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3 Locus II ................................................................... 574 Exemplum ............................................................... 595 Lectura .................................................................... 596 Scientia .................................................................... 637 Coda ........................................................................ 65

CAPITOLO DUE

L’erranza della Teoria tra Storia e Poesia:Problemi e prospettive nella critica americana................ 67

1 Preliminare ............................................................. 672 Di Hermes ............................................................... 683 Del fare teoria ......................................................... 704 Dell’erranza ............................................................. 765 Il problema della storia e il “New Historicism” ...... 786 Critica minore ......................................................... 817 Dell’antica diafora ................................................... 835 Il testo della filosofia ............................................... 887 Ancora sul fare teoria.............................................. 90

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PARTE SECONDA Testi e Versioni

CAPITOLO TRE

Valesio e la retorica dell’indicibile .................................... 95I Filosofia della retorica ............................................ 972 Al di là della linguistica (strutturalistica) ............. 1053 Retorica e filosofia ................................................. 1094 Retorica è filosofia ................................................. 112

CAPITOLO QUATTRO

Forme e aporie nella critica di G. Hartman ................... 119

CAPITOLO CINQUE

La sfida della retorica in Paul Ricoeur ............................ 1411 Premesse ............................................................... 1412 Sfondo filosofico .................................................... 1443 Pluralità e compiti dell’interpretazione ................ 148

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4 Tra testo e azione .................................................. 1555 La metafora e discorso .......................................... 1616 Temporalità e costruzione della storia .................. 1697 Retorica incompiuta o infinita?............................. 173

CAPITOLO SEI

Linguaggio e potere in Lyotard....................................... 1791 Declinazioni .......................................................... 1792 Torti e svolte.......................................................... 1833 Verso il Post Moderno ........................................... 1884 L’idea di linguaggio e potere tra parlanti .............. 1905 Le Différend .......................................................... 1926 La retorica delle frasi ............................................ 1967 Ripercussioni ........................................................ 1998 Aspetti ermeneutici .............................................. 2029 Conflitto, retorica, dialogo .................................... 208

10 Conclusioni ........................................................... 215

CAPITOLO SETTE

Metodo e Retorica nel pensiero di Pareyson ................. 219I Per una lettura ...................................................... 2192 Estetica e arte........................................................ 2213 Ontologia ............................................................... 2234 Interpretazione e Conoscenza .............................. 225

5. Conclusioni ........................................................... 231

CAPITOLO OTTO

Fondamenti del retoricoe interpretazione in Vico e Heidegger ........................... 235

1 Preliminare: il problema ....................................... 2352 Ipotesi ................................................................... 2363 Ermeneutica .......................................................... 2374 Epistemologia ridefinita ........................................ 2385 Tesi ........................................................................ 2396 Il problema Cartesio ............................................. 2397 Heidegger .............................................................. 2418 Prima considerazione ........................................... 2429 Seconda considerazione ........................................ 242

10 Crucialità di Vico .................................................. 243

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11 Probatio I ............................................................... 24412 Retorica ................................................................. 24613 Conseguenze I ....................................................... 24814 Probatio II ............................................................. 25115 Conseguenze II ..................................................... 25216 Conclusioni ........................................................... 254

CONCLUSIONE

Figure ermeneutiche ...................................................... 265

Opere Citate .................................................................... 267

Indice analitico dei nomi ................................................ 283

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Per Angela

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Avvertenza

Questa raccolta di studi intende esplorare e riconfigurareil complesso nodo tra metodo critico e teoria dell’inter-pretazione in base al loro risvolto retorico. A livello filo-sofico Dei Parlanti sviluppa e mette alla prova la propo-sta contenuta nel mio volume, Il Fantasma di Hermes.Saggio su metodo retorica interpretare (Lecce, Milella,1995), e in certo senso ne costituisce la continuazione eprovvisoria conclusione. Ho quindi ritenuto opportunoriportare in questa sede, ovviamente con lievi ritocchi, laparte introduttiva e la parte conclusiva dello Hermes inmaniera da incorniciare questa ricerca all’interno di unaprecisa idea e direttive di lavoro. La tesi di fondo riguar-da la linguisticità concreta sia dei metodi, cioè della com-ponente epistemologica della ricerca della verità e dellavalidità delle proposizioni e dei procedimenti per conse-guirla, sia della teoria, ossia della implicita o esplicitaontologia di qualsiasi posizione onnicomprensiva e legit-timante. Linguisticità che attraversa e informa modelliinterpretativi sia nelle scienze che negli studi umanistici,e che si scoprirà esigere un radicale ripensamento dellaattuale concezione del retorico e della persuasione.

Nell’epoca della fine o declino dei Metodi Generali dellaconoscenza, e dell’insufficienza o insostenibilità delle Teo-rie Generali dell’Essere, la mia proposta approda a una reto-rica ermeneutica consapevole dell’intersecarsi di metodo e

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teoria in ogni enunciato che voglia esprimere un senso oche intenda persuadere un interlocutore. Essa alla fine an-drà a parare sul terreno dell”etico e del politico. Detto altri-menti, si tratta di ripristinare o meglio ricostituire il valoreermeneutico dei referenti sociali e storici al di là delle «auto-nomie» di specifici campi del sapere o discipline, in partico-lare per ciò che riguarda gli effettivi interlocutori del discor-so critico, e le connesse problematiche ideologiche, esteti-che e pedagogiche che ne derivano.

Conseguenze pragmatiche saranno quindi, non più l’auto-nomia del significante, ma l’inevitabilità dei significati, non piùla generalità del simbolo ma la specificità e contestualitàeuristica e ideologica della simbolizzazione stessa. Da qui l’at-tenzione rivolta alla pragmatica della produzione del senso,all’inaggirabile figurazione presente in ogni atto linguistico, alrischio dell’attività interpretiva, alla consapevolezza che cisaranno sempre residui, echi o allusioni “altre” e che in ag-giunta queste comportano ideologie e allegorie sociali e po-litiche.

In questo ambito, si scoprirà che ago della bilancia tra meto-di critici e teorie della interpretazione è la dimensione retori-ca intesa come persuasione a un tempo etica e cognitiva, laquale nel determinare la direzione o senso dell’interpretareci ripropone la questione del perchè e del per chi si fa criticae quindi si interpreta qualsiasi fatto e fenomeno nel mondo.Questo ci consentirà di preparare il terreno per poter ripen-sare la nozione di prassi o di applicatio socio-politica delprocesso di interpretazione (oggetto di altre ricerche). Maciò richiede che la retorica venga intesa non già secondo imodelli scientifici, asettici, strumentali caratteristici dell’ot-to e primo novecento, ma ripensata in chiave ermeneuticaed etica, esistenziale e motivata, mai totalizzante, semprepredisposta a riformularsi e inventarsi “strada facendo”.

Questa prospettiva pone dei grossi problemi a chi persi-ste nel vedere le «discipline» dello scibile (e in particolare

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nelle materie umanistiche e nelle scienze sociali) comeautonome, a chi non crede che la filosofia abbia più qual-cosa da dire, e a chi intende la prassi dell’interpretazioneesclusivamente in termini agonistici o alla ricerca di unasempre più aleatoria «Verità». In effetti, peró, le parole-concetto che si dovranno rispolverare saranno invece re-lazione, ibridismo, fattualità, prevaricazioni interpretativeeffettive osssia discorsi di/del potere, lasciar entrare ilfantasma del relativismo, credere che tutto stia cambian-do in continuazione. Da questa prospettiva, concettiessenzialistici come Tradizione, Canone, Storia, la Verità,l’Unità del pensiero di questo e quel filosofo, l’Universali-tà di una data teoria, e altri affini, non ci interessano; seriappaiono nelle pagine di uno dei pensatori trattati neicapitoli che seguono, essi lo sono solo per ragioni descrit-tive e/o per comprendere come vengono decostruiti o mo-dificati alla luce della nostra lettura.

L’Introduzione espone sistematicamente questa proble-matica, definisce i propri termini e referenti metacritici,e riassume la proposta che precede il presente lavoro ecioè Il fantasma di Hermes. Saggio su metodo, retoricainterpretare (Milella 1996). Di taglio teorico e storico, loHermes interpella diversi pensatori del linguaggio e delfilosofare, da Platone e Descartes a Nietzsche, Husserl, eHeidegger; da Gadamer, Perelman e Grassi fino a Paul deMan. Il modello proposto, un particolare tipo di triangoloepistemico all’interno del circolo ermeneutico, servirà daguida alle letture che seguono e verrà modificato secon-do che la ricerca richiede. La chiave è di non fare leva sudiscorsi dicotomici o a base di logica duale o binaria, madi tener sempre presenti almeno tre punti di riferimento,e cioè L’Interprete, L’Opera, e la Società.

Il primo capitolo è di natura teorico-storiografico e racco-glie indizi, studi, e proposte sulla natura del fatto retorico in

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Italia attraverso e dopo la stagione strutturalistica e formali-stica. Si terrà conto di suggestioni provenienti da scrittipoetologici, cioè a metà strada tra critica letteraria edermeneutica, e da studi sulla dissoluzione del sapere scien-tifico, ossia sulla crisi delle metodologie e della retorica scien-tificamente intesa. Tra gli autori esaminati che principianoe sviluppano in maniera diversa questa “svolta” del pensie-ro retorico, si farà riferimento ad alcuni testi di ArmandoPlebe, Marcello Pera, Franco Bianco, Giovanni Bottiroli.

In maniera quasi analoga, il secondo capitolo esaminala crisi degli approcci formali al testo in ambito america-no negli ultimi quindici anni, con particolare riferimentoal dibattito sulla validità della teoresi critica medesima, ilcontributo proveniente da discipline non-umanistiche, laproposta dello New Historicism, e infine l’esigenza dimettere al centro dell’attività interpretativa la componentepubblica, istituzionale e pedagogica.

Dopo queste ricognizioni storico-critiche B parziali erappresentative, assolutamente non esaustive — in dueambiti in parte indipendenti ma tuttavia derivanti dalmedesimo e complessissimo tronco culturale europeo, icapitoli della Parte Seconda effettuano invece letture ravvi-cinate dell’opera di alcuni pensatori che hanno contribu-ito in maniera originale, problematica, a volte radicalealla riflessione sul rapporto linguaggio e interpretazione,e che rappresentano secondo l’autore casi esemplari diun nascente pensiero retorico-ermeneutico.

Nel terzo capitolo si studia l’evoluzione del pensierointerpretativo di Paolo Valesio, evidenziandone il supera-mento “interno” della linguistica e della retorica struttu-ralistica. Attraverso serrate letture di scuole di linguisticae di filosofie della cultura, corroborate da analisi di autorisia canonici che marginali e scomodi, e per via anche di

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una costante sperimentazioni scrittoria o creativa, Valesioaffronta e riformula il problema della retorica del non-dicibile, del silenzio e della figurazione, consegnandociuna retorica filosofica a tutt’oggi in fieri e ricchissima distimoli critici e prospettive alternative.

Il quarto capitolo esplora l’evoluzione del pensiero cri-tico di Geoffrey Hartman mettendone in rilievo le tappepiu significative. Dopo aver lottato contro la proposta for-malista e in seguito annegato nel magma derridiano,Hartmann consegue il suo equilibro con uno stile saggi-stico. Anche qui il rapporto linguaggio e interpretazionesi trova orientato verso una costruzione frastica, etico-conoscitivo, superando le stretture di qualsiasi imposta-zione metodologica e disponendosi ad accogliere nellavalutazione elementi etereogenei, materiali circoscritti,fluidi e passibili di riscrittura, quindi di re-interpretazio-ne. L’unica possibilità per la critica di resistere all’usuradel tempo e di aggirare i limiti imposti dalle circostanzeistituzionali della lettura sarebbe di ispirarsi all’arte stes-sa, cioè di non prendere più il testo critico testo seconda-rio, ma come risposta, come forma d’arte.

Il quinto capitolo ripercorre le tappe della riflessionelinguistica e filosofica di Paul Ricoeur, il quale smantellai metodi e le teorie del testo e della linguisticità del pro-cesso interpretativo, tenendo sempre per fermo la neces-sità di inquadrare il tutto in termini dello scambio tra gliesseri, e del rapporto dinamico ed effettivo tra il parlare el’agire, tra il sé e gli altri. L’analisi e la presa di coscienzadel “conflitto delle interpretazioni” conduce Ricoeur asviluppare una retorica ermeneutica che integra sì i risul-tati di diverse scuole di linguistica e di filosofia del lin-guaggio ma in base all’azione concreta e possibilitantedella coscienza del critico, e alla temporalità del senso. Apartire da La metaphore vive lungo Temps et récit, lalinguistica ermeneutica si rifonda sulla frase, sulla narra-

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zione e quindi sulla referenzialità empirica e figurale aun tempo del significato.

Il sesto capitolo esamina la filosofia del linguaggio diLyotard sullo sfondo della caduta delle teorie generali chelegittimano il sapere della Modernità. All’incrocio tra ilWittgenstein della crisi dei metodi linguistico-razionali dellaconoscenza e la Gertrude Stein della totale separazione trasegno e referente, e sullo sfondo dell’effettivo potere storico,sociale, politico del linguaggio, l’analisi che Lyotard conducene Le Différend fa pensare appunto a una retorica erme-neutica (anche se non fa uso di questi termini) in quantoribadisce la compartecipazione, originaria e agente, inter-soggettiva, nell’espressione linguistica, sia del ruolo dei siste-mi formali, o regimi di frasi in qualche modo codificati, sia(e in Lyotard instancabilmente) della conflittualità reale eimmanente ma comunque di potere dello scambio interper-sonale. In certo senso, anche se in maniera diversissima,Lyotard come Ricoeur pone a fondamento dell’interpreta-zione la responsabilità di un discorso diretto ad altri, la reto-rica appunto persuasiva e legittimante dell’agire sociale.Anche quando solo immaginaria o immateriale, il parlare sidà in un quadro etico, politico ed estetico a un tempo.

Il capitolo sette è una esposizione dei due libri principalidi Luigi Pareyson, l’Estetica del 1954 e Verità e Interpreta-zione del 1972 in cui si mettono in rilievo due cose: lalinguisticità dell’interpretazione e la sua necessaria concre-tezza nell’interazione sociostorica, cioè la componente inter-personale e dunque metodico-persuasiva di ogni propostainterpretativa. Scritto originalmente per un pubblico ameri-cano B il primo in assoluto su Pareyson in inglese B essoalla fine elenca le voci di una teoria onnicomprensiva del-l’interpretazione in cui la componente retorica riacquista ilsuo luogo centrale (anche quando, come nel caso di Lyotard,per esempio, il pensatore neanche fa utilizzo della parola«retorica»).

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Il capitolo otto propone un avvicinamento “interattivo”tra i massimi sistemi di Vico e di Heidegger. Qui vengonoesposti i principi di due concezioni del linguaggio alquantodiverse, per buona parte della tradizione critica e filosofi-ca non paragonabili o compatibili. Tuttavia, Heidegger nonè solo o esclusivamente il critico del pensiero umanisticoche culmina in Vico, ma anche il pensatore della crisiepocale dell’articolazione razionale, e quindi della validi-tà o legittimazione di qualsiasi metodologia esplicativa.L’unica possibilità di riscatto risiederebbe nella concezio-ne del linguaggio come essenzialmente poetico, creativo,e dischiudente l’Essere dell’essere umano anche di fron-te all’insostenibilità di qualsiasi fondazione ontologica. Maanche Vico aveva posto il linguaggio poetico come fonda-mento dell’essere umano, integrandovi però come co-possibilitanti esigenze materiali (economiche, di tipo an-tropologico), sociali (di interazione e sviluppo), e figura-tive (i miti, le invenzioni delle tradizioni, della memo-ria). Tutte componenti essenzialmente retoriche e erme-neutiche, cioè a un tempo strutturate e valutative, refen-zialmente circoscritte e simbolicamente eccedenti. Si pen-si che Heidegger predilige la poesia lirica, considerando-la più profonda od originaria (o più alta espressione del-l’essere umano secondo Leopardi, o contatto con gli deiassoluti e soprastorici secondo Hölderlin), mentre Vicopone l’elemento allegorico come primario e possibilitantesia alla poesia che al discorso umano interpersonale toutcourt. In sostanza, anche se entrambi ripensano la naturadel linguaggio a partire dalla metafora, Heidegger restalegato alla parola, mentre Vico, un po’ come Ricoeur, par-te dal sintagma, dall’enunciato, dal narrato. Per chiarezzaespositiva e comparativa, questa lettura — forse la piùradicale o sperimentale — riprende esiti provenienti daaltri miei studi su Descartes, Nietzsche e le poetiche delnovecento.

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La Conclusione riprende verbatim le pagine 339-354dello Hermes poichè, oltre a suggellare il presente lavorocome la continuazione formale e integrale del primo vo-lume, alla fine ci riconduce alla figura critica e portantedi Hermes, nume dell’interpretazione interminabile, del-lo scambio incessante della significazione, e dell’esisten-za come Divenire mutabile, politropo e plurivoco, gioco-so e leggero, slegato tra l’ossessione del Principio (Origi-ne, Essere, Creazione) e l’ansia della Fine (Destino, Non-Essere, Apocalisse).

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Nota e Ringraziamenti

Alcuni capitoli sono stati già pubblicati come studi osaggi su riviste specializzate, le quali vorrei ringraziareper il diritto a ripubblicarli in questo libro. L’Introduzioneriproduce le pagine 43-84 della Parte Prima de Il Fanta-sma di Hermes; il primo capitolo sulla retorica in Italia èuscito nell’annuario della American Association for ItalianStudies, Italian Culture, XVI, 1 (1999):39-56; il capitolodue, “Erranza”, uscì su Allegoria 19 (1995):26-53; il capi-tolo tre è apparso su Italica 72, 3 (1995):367-81; il capito-lo quattro è apparso nel volume a cura di J. Picchione, Lacritica americana (Roma, Bulzoni, 1994):74-94; il capito-lo cinque sulla retorica ermeneutica di Ricoeur è uscitosu Paradigmi 36 (1994):427-56; il settimo capitolo è usci-to originalmente in inglese nella rivista Differentia 3-4(1989): 217-243; l’ottavo capitolo è stato tradotto dal miolibro Prefaces to the Diaphora, (W. Lafayette, PurdueUniversity. Press, 1991):191-214; mentre la Conclusioneproviene originalmente dalla conclusione allo Hermes,le pagine (non modificate) 337-354.

Nel riassembrare questi materiali, essi sono stati sololeggermente ritoccati e aggiornati dove opportuno, matrattandosi in genere di lavori completi e a se stanti, horesistito all’impulso di riscriverli. Anche perché, in vistadella direzione che le mie ricerche hanno preso negli ul-timi cinque anni (verso questioni storiche e trans-cultu-rali), ne sarebbero stati sconvolti e diventati altra cosa.

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Vorrei ringraziare il Dott. Pierani per la traduzione delcapitolo su Lyotard, e il Dott. Saviani per la versione ita-liana del capitolo su Vico e Heidegger.

New York, settembre 2001Peter Carravetta

[email protected]

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Introduzione

Riconoscere Hermes(Tesi su linguaggio e interpretazione)

1. Preliminari

Ma come trovare il giusto inizio?Effettivamente, qui l’inizio è lacosa più difficile, e la situazionedel tutto inusitata.

E. Husserl

Alla ricerca di un ripensamento del rapporto tra linguag-gio e interpretazione, ci si può avviare da diverse stazio-ni. In vista della sua plurivocità e capacità di slargare inaltri territori del sapere e delle pratiche sociali, riteniamoopportuno partire dalla letteratura e dal discorso intornoalla creazione artistica. Che la critica letteraria e artisticasia stata, per la prima metà del nostro secolo, una provin-cia dell’estetica, è scontato e risaputo. Negli ultimi trent’an-ni, invece, essa ha esperito notevoli rinnovamenti e svi-luppi, per esempio, attraverso la fenomenologia,l’ermeneutica, la semiotica. Si può dire il medesimo perla scienze sociali: la prima metà del secolo all’insegna diteorie onnicomprensive, mentre dagli anni sessanta in

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poi esse hanno assistito a diverse fasi rivoluzionarie sia alivello di concetti, sia a livello di campi d’indagine. Ma inentrambi i casi — che prendiamo come sintomatici di unapiu‘ diffusa tendenza culturale a cavallo tra il declino del-l’epoca moderna e i primi ingarbugliati segni di una epo-ca postmoderna (perlomeno nell’occidente euronorda-mericano) —, si puó dire che esse si siano trasformate intempi più recenti in duttile metodologismo secondo prin-cipi e direttive scientifiche e razionalistiche, con crucialiconseguenze sull’interpretare. E’ quanto si intende conti-nuare a esplorare anche in questo libro. Che infine lacritica come metodo critico od estetico si debba persua-dere di mutarsi in filosofia dell’interpretare, in discorsoretorico-dialogico, è quanto si cercherà di sostenere nelcorso della ricerca. A tal fine, ricordiamoci che la criticaè già di per sé, in un’ampia accezione, un discorso multi-forme, plurivoco, sfuggevole e contemplante più parti.Per dirla con lo Starobinski:

Alla critica compete — ed è forse la sua fun-zione più degna di rilievo — di abbordare leopere di linguaggio nel nome di valori e diprincipi diversi, di chieder conto ai ‘poeti’ diciò che, a prescindere dalla bellezza propriadella poesia, s’impone come il fatto più im-portante o urgente. Le variazioni del pensie-ro critico, insomma, superano largamente ilcampo di quel che chiamiamo ‘teoria lettera-ria’ o ‘idee estetiche’.1

Si noti l’apertura alla plurivocità di approcci, l’attenzio-ne al linguaggio e l’esigenza di dover trascendere gli oriz-

1 Si vedano le bellissime pagine di Starobinski in Starobinski e Branca114 et infra, da cui citeramo anche più in avanti.

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zonti propri dell’opera d’arte e, per estensione, dell’ogget-to d’interesse all’interprete. Il pensiero critico deve infat-ti esser capace di occuparsi dell’arte, del fenomeno arti-stico in sé, ma esso deve contemporaneamente esser capa-ce e disponibile ad altro, a qualcosa di là del genere didiscorso chiamato ‘teoria letteraria’ oppure della discipli-na delle ‘idee estetiche’.

Poiché il significato delle parole, e delle parole-criti-che qui utilizzate, è anche costituito dall’uso particolareche se ne fa, per capire quanto segue il lettore dovrà in-tendere le parole metacritiche adottate nel senso delmodello che verrò svolgendo. Poiché è un dato incon-trovertibile dell’esistenza che le parole, dal punto di vistaempirico, scorrono una per una, una dopo l’altra, confer-mando almeno una verità: che il corpo umano, l’esseremateriale hic et nunc dei viventi (dei critici, di homosapiens) conosce un certo tipo di temporalità “fisica”.2 Peròè altrettanto vero che si consegue un senso, o si intende undiscorso, solo quando vi si è, come dire, “dall’interno”, eci si presta all’esperienza dei segni non solo in manieralineare e cronometrica ma anche seguendo e inseguendole coordinate semantiche — dunque metaforiche, simbo-liche, storiche e psichiche — fin quando il tempo instau-rato dal discorso non si compia o conclude in qualchemodo, fin quando, cioè, l’oratore abbia smesso di parlare(o di scrivere, in questo caso). Questo requisito al rettointendimento del discorso (meta)critico verrà rielaboratoin ciascuno dei capitoli che seguono, e verrà tematizzatocome la componente non tanto correlativa quanto piutto-sto fondante/legittimante dell’interpretazione, ossia se-condo ció che chiameremo la dimensione retorico-erme-neutica. E questa dimensione esige l’ascolto, l’espropria-

2 Alcuni studiosi hanno fatto di ciò il fondamento della loro metodologiacritica, per esempio, Cesare Segre ne Le strutture e il tempo.

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zione di sé, la disponibilità a — nel senso nietzschiano eheideggeriano al tempo stesso di volontà di volere — cam-biare, anzi, cambiarsi, trasmutarsi. E questo non è di tutti.

2. Lessico, figure e modello interpretativo del presente discorso

Nel corso della lettura dei capitoli che seguono, si tengapresente il modello qui presentato e in particolare la ma-niera in cui sviluppato. Per attualizzare un discorso nonsi sfugge al gioco delle metafore, e difficilmente -- salvocostruendo un’opera artistica visionaria, o rifugiandosi nelsilenzio, -- ci si pone al di fuori della dialettica molteplicee possibilitante della metafora stessa, cioè del linguaggioin quanto ontologicamente fondante.3 Bisogna dunqueche ci si metta fenomenologicamente d’accordo sul signi-ficato delle parole malgrado il fatto cbe esse possono es-sere interpretate da ciascun lettore diversamente (e adogni nuova lettura!). Per esempio, qualora si volesse in-terpretare, spiegare in maniera generica e ma succinta,questo medesimo testo (facendo, insomma, la metacriticadi se stessi!). Ne consegue che nostro malgrado ci si in-cammina in terra ermeneutica ipotizzando e comprovan-do, definendo e autodefinendosi.

3 Ricordiamoci di alcune osservazioni del Vico – che ritroviamo in diver-sa maniera sia in Nietzsche sia in Heidegger (cfr. Carravetta 1991:13-79,239-55) – in merito alla natura originaria e fondante della parola e deldiscorso poetico in particolare, da controbilanciare alla posizione piùtecnica e razionale sulla natura del discorso tout court, come per esempioabbiamo da Bloomfield e la sua scuola e in seguito da Chomsky. Si vedanoin merito nello Hermes l’intera Parte Quarta e il capitolo su ErnestoGrassi in Carravetta 1994. Per ció che riguarda invece la tematizzazionedella metafora come presunto ‘ostacolo’ e, al tempo stesso, come necessa-ria figura capacitante del discorso filosofico, si vedano le divergenti posi-zioni di Derrida 1972:247-324, Ricoeur 1975, e Grassi 1987; per alcuneriserve sulla nozione heideggeriana di metafora, si veda Rovatti 1987:7-50.

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Dunque. Ci si vuole interrogare sul problema del meto-do e sulla filosofia dell’interpretare tenendo presente al-meno tre punti nodali: l’OPERA, L’INTERPRETE (o il cri-tico), e quel qualcosa che ne rende possibile il collega-mento, ossia il Discorso Critico, o, meglio detto (e per ilresto di questo libro), l’INTERPRETARE.4 E= facile in-travedere come questi tre termini potrebbero definire loschema proposto nella Figura 1.

Figura 1.Triangolo Epistemico:

INTERPRETARE, INTERPRETE, OPERA

4 Le tre parole chiave seguiteranno a essere scritte in maiuscolo ogniqualvolta si riterrà opportune riassumere o sintetizzare l’indagine incorso e stabilire una sorta di progressione di marcia.

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Ora, eviteremo provvisoriamente di «problematizzare»la metafora geometrica, assumendola a scopi espositivi opedagogici. Si potrebbe obiettare che l’Interprete non vivenel vuoto e che non c’è predisposizione per un’analisi chetenga conto della società o del contesto in cui l’Interpreteopera. Rispondo dicendo che nessuno dei tre apici è avul-so da un qualche contesto e che quindi, volendo rispetta-re un minimo di materialismo o concretezza empirica,l’unico apice ove porre la Società è precisamente quellodove abbiamo messo in un primo tempo l’Interprete.Infatti, per il momento bisogna tenere i due concetti in-siemi, cioè Interprete & Società, poiché questo è il poloche rivendica la materialità, la datità, l’evidenza della co-appartenenza di individui reali in una società effettiva-mente esistente.5

Rispetto a questa diade, peró, terremo in ogni casoconsapevolmente presenti gli altri due vertici, ossia il pro-cesso (e le procedure) dell’atto interpretativo, o in brevedell’INTERPRETARE, e naturalmente dell’OPERA (chepuó all’atto pratico essere un artefatto, testo, reperto ar-cheologico, una performance, ecc.), come distinti, comecostituenti due campi d’interazione a parte.

E necessario adesso introdurre alcuni elementi i quali,estendendosi come forze o flussi lungo i lati del nostroipotetico triangolo, ne influenzano la propria costituzio-ne ontico-razionale. Mi riferisco alla components vitale oesistenziale entro la quale, come per ogni altro discorsofilosofico, il presente scritto acquista un senso. Senza di-menticare la direzione impressa alla conoscenza da Pla-tone, cioè come ricerca della Verità e quindi in certo sen-

5 Come si chiarirà strada facendo, questa diade slarga nella problematicadella prassi, cruciale sia all’aspetto ermeneutico della applicatio sia algiudizio di valore e all’agire. Questo argomento, verrà trattato in unlavoro a parte su prassi e storia.

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so al di fuori della storia (come attestano la storia dei variidealismi dell’occidente), diciamo che ci stiamo richiaman-do a quella svolta nel pensiero contemporaneo rappre-sentato dalla pubblicazione di Essere e Tempo.6 Poichése introduciamo la dimensione e dunque la questione dellatemporalità o meglio dell’infinità del de-corso inter-pretativo,7 il triangolo che abbiamo postulato comincia avibrare, a muoversi, a rotolare sempre più velocemente,si trasforma infine in un cerchio, va come dire ‘in giro’,connette e lega, si (auto)esplicita tramite costanti e can-gianti (auto)riferimenti, traccia degli archi, infine si com-porta come un circolo, quindi: Circolo Ermeneutico.

6 Su questo tema cruciale si ritornerà più volte nel corso del nostrolavoro. Per gli studi preparatorii allo sfondamento della fenomenologia,si veda di Heidegger Die Grundprobleme der Phänomenologie. Iparagrafi rilevanti di Essere e Tempo sono 5-7, tutta la sezione primasull’analitica del Dasein (in particolare il par. 17 su segno e referenza),oltre alle pagine dedicate all’essere-per-la-morte e al rapporto tratemporalità e storicità.7 Aspetto non già marginale B come vorrebbe la tradizione idealisticae kantiana, essenzialmente «atemporale» — ma anzi fondamentaleall’ermeneutica del novecento, e all’INTERPRETARE come inteso inqueste pagine, la temporalità è per noi il locus emblematicus doveincrociano sia le semiosi illimitata di Peirce, che l’interpretazione in-terminabile di Nietzsche e di Freud, e con caratteri tutti particolariDerrida e Deleuze. In merito a Nietzsche importanti le considerazionidi Pasqualotto 1988.

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Si considerino quindi le seguenti corollarie:

A) L’OPERA implica, anzi esige,i. l’Interpretare eii. la Società (o Interprete, in quanto suo elemento).

B) La SOCIETA e/o l’INTERPRETE non è referenzial-mente postulabile senzai. l’Opera (dove ‘Opera’ puó valere per oggetti, fatti,

eventi, il Testo) e, in piùii. l’Interpretare (cioè forme discorsive, scelte opera-

tive, valori, metodi, ecc.)C) L’INTERPRETARE, infine, non è possibile se non si

danno al tempo stessoi. l’Opera (messaggio, testo, oggetto estetico,

referenti, aspetto Aformale”) eii. la Società/Interprete (ossia il contesto, la memo-

ria, la storica, il critico,ecc.)

Essendo dunque chiaro che ciascuno dei nodi d’indagi-ne, o topoi, implica e/o rimanda agli altri due, il nostromodello investigativo B e dunque presupposto epistemicodel presente lavoro — tende a rivelarsi anche come circo-lo ermeneutico del processo conoscitivo, rivendicando unabase ontologica diremmo addirittura primordiale e neces-sitante a ogni pratica conoscitiva. Infatti, dal punto di vi-sta delta stessa possibilità del discorso critico o conosciti-vo ch’esso sia, non fa differenza alcuna dove ci collochia-mo, in quanto siamo sempre in rapporto contiguo e si-multaneo con gli altri nodi o topoi della ricerca. Questo ciconsente di evitare i trabocchetti delle gerarchie e deltatassonomia. Possiamo allora raffigurarci le connessioniriportate nella Fig. 2. Questo passaggio o ‘salto’ dal trian-golo al circolo corrisponde su per giù a un ponte o proce-dura connettiva tra la nozione di critica come tecnica, come

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modelli di metodo d’analisi, e la nozione di interpretarecome intendimento retorico-errneneutico.

Aggiungianio che si vuole inoltre tener conto della for-za, dell’energia, dei passaggi tra i due approcci, siano essiideali, esistenziali, cosmici o retorici. Detto altrimenti,anche dopo la problematica (e comunque provvisoria)suddivisione in tre campi semanticamente densi e circo-scritti, bisogna tener di conto che il plenum ultimo checonsente la significazione è 1’esistenza linguistica dell’uo-mo in quanto homo sapiens loqui,8 l’unico a priori, forse(se a priori si puo ancora legittimamente chiamare), delpensiero interpretante.

8 Si vedano le stimolantissime riflessioni sul linguaggio di GiorgioAgamben che sembrano porsi, tra l’altro, e per ció che riguarda il pen-siero contemporaneo, in uno spazio equidistante da Heidegger, daDerrida, e da Wittgenstein (con echi mistici à la Walter Benjamin).L’espressione ‘uomo che sa parlare’ è espunta dal saggio «La parola e ilsapere» del 1980, dal quale riportiamo l’intero passo: «Poiché forse lametafisica non è che questo intreccio, questa implicazione di sapere eparlare, per cui sapere (secondo la definizione platonica e aristotelicae, più tardi, leibniziana) è logon dounai, rendere ragione, cioè poterdire come si sa e che cosa si sa, e parlare sempre già saper parlare,conoscere la lingua. La scienza occidentale (che una superficialeproblematizzazione ci presenta divisa in scienze della natura e scien-ze umane, cioè filologiche) è allora, nella sua essenza, una filologia,amore della parola e riflessione sulla parola, e homo sapiens si costitu-isce in essa necessariamente come homo sapiens loqui.»

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Figura 2Circolo ermeneutico :

OPERA - INTERPRETE e/o SOCIETA B INTERPRETARE

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3. A partire dai contemporanei

In un libro che dopo più di vent’anni resta ancora unadelle più coerenti e succinte introduzioni all’ermeneutica,Palmer scrive — riassumendo la tradizione che va daSchleiermacher a Dilthey e dunque a Heidegger eGadamer, — che con Essere e Tempo si è aperto il carat-tere ontologico del comprendere, e che di conseguenza“il comprendere è il modo fondamentale di esistere almondo.”9 Ossia: esistenza e intendimento, o il vivere e ilcercare di capire il mondo, sono equiprimordiali e pres-soché fondanti; o ancora, il mero esistere in una modalitàconoscitiva è un interpretare. Secondo Vattimo e la scuo-la ermeneutica, non solo italiana, dobbiamo prendere attoche “ogni conoscere è interpretativo” (Vattimo 1968:11).Tra l’altro lo stesso Vattimo in seguito ci metterà in guar-dia dall’accettare in maniera troppo pacifica e rassicuran-te (o riduttiva) l’asse Heidegger-Gadamer, rivalutando erinnestando nell’ermeneutica il pensiero di Nietzsche.10

Ricordiamo solo di sfuggita che sulla falsariga di Nietzschegli studiosi, per limitarci solo all’ambito italiano, hannoaperto il discorso dell’interpretazione al suo intrinsecocarattere “infinito” o “interminabile,” argomento elabora-

9 Palmer 1980:227. Ci si ricordi delle formulazioni essenziali diHeidegger, Essere e tempo, par. 32: “Il progettare proprio della com-prensione ha una possibilità di sviluppo sua propria. A questo svilup-po del comprendere diamo il nome di interpretazione [Auslegung]. Inessa la comprensione, comprendendo, si appropria di cio` che ha com-preso. Nell’interpretazione, la comprensione non diventa altra da se’ma se stessa. L’interpretazione si fonda esistenzialmente nella com-prensione: non e` dunque questa a derivare da quella. L’interpretazio-ne non consiste nell’assunzione del compreso, ma nella elaborazionedelle possibilita` progettate nella comprensione.”10 Penso in particolare ai saggi su Nietzsche e il suo rapporto conl’ontologia ermeneutica contenuti in Al di là del soggetto 27-50 e Leavventure della differenza 71-94.

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to brillantemente da Pasqualotto (1988:9-52), e al fatto cheesso si manifesta nella società come maschera (Vattimo1974), come duplicità precostituente (Masini 1978), ecome movimento slittante e pregiudicante (Sini 1978:105-155; Rella 1975-76). Alzando lo sguardo, bisogna dunquedomandarsi per un verso se esistono luoghi privilegiati incui porsi per effettuare un’analisi critica, per fare dell’in-terpretazione, ammettendo la dimensione pragmatica eapplicativa, e per un altro se non sia il caso di tener diconto, anche, e nuovamente, dell’insidia del relativismo,visto che l’interpretazione è comunque anche Aopinioneprospettica.11 Infine, e più problematicamente, in unavicina e probante elaborazione, il conoscere persino inquanto mera percezione è già interpretativo.12

4. Non-detto e giudizio

Infatti, poiché il valore intrinseco del circolo ermeneu-tico consiste nel dare come fondante (e dunque agente,possibilitante) il costante e imprescindibile rapporto lin-guistico-esistenziale con gli altri termini di riferimento(diciamo, in quanto l’Altro o quantomeno gli altri),13 si dàil caso che la domanda vada riformulata in vista delle suepossibilità retoriche, ricorrendo cioè a forme basilari come

11 Si vedano di Nietzsche La Gaia Scienza, par. 124, 354 e 374; Al di làdel bene e del male, par. 39, 40, 278; e passi e rimandi nel terzo librodella Volontà di potenza (par. 493-529 nella ed. inglese di W. Kaufmann).12 In particolare Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception.13Per questa e le contigue affermazioni che ritroveremo, per un verso,nel pensiero di Levinas, per un altro nel pensiero di Gadamer, si veda-no i paragrafi 32, 33, e 34 di Essere e Tempo; in quest’ultimo leggia-mo: “Nella comunicazione si costituisce l’articolazione dell’essere-as-sieme comprendente. Essa realizza la “compartecipazione” della si-tuazione emotiva comune e della comprensione del con-essere.”

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l’asserzione, il dialogo, il canto. La dimensione retorica e`l’anello tra l’ontico e l’ontologico. Fare critica richiede chesi affronti non solo la tendenza della verità ad assolutizzarsi(e/o a nascondersi), ma anche ciò che si dà per scontato,il “Si” della quotidianità che rappresenta il mare magnumdegli uomini e delle donne fatti di “carne y hueso”, comediceva Unamuno, nella loro propria immanenza e parti-colarità.14 Ció implica che l’interpretazione porta con séinizialmente espressioni, nozioni e pensieri che volensnolens contraddistinguono qualsiasi scambio linguistico,e che di conseguenza legittimano l’inserzione del retoricoin qualsiasi tentativo di comprensione e di intendimento.

Per esempio, nel voler comprendere o interpretare untesto, nel voler dunque aprirsi ad esso, bisogna ricono-scere una idea preliminare di cosa sia o rappresenti questotermine,15 cioè Testo —, e dall’altro canto, come consta-teremo essere stata la tendenza nella storia, non si puònon badare, simultaneamente, a tutta una serie di mosseobiettivanti che consentono alla fine al suddetto Testo difarsi portatore di un valore, di rivelarsi (e di determinar-si) come legittimo Giudizio.

5. Ermeneutica e pregiudizio

Alla critica o, d’ora in avanti, all’Interpretare che, inquanto si dà o si istanzia come altro differente e differen-ziante e che attua un giudizio su un opera — quello che atutti gli effetti veramente fanno gli interpreti nelle disci-pline o campi del sapere — va subito abbinata la coappar-tenenza di una FUNZIONE giudicante, la quale deve sa-

14 Cfr. Heidegger, Essere e Tempo. par. 25,26,27 e 35.15Bisogna insomma rendersi conto del Pre-giudizio, nel senso elabora-to da Gadamer in Verità e metodo (1983:312-319). Si tornerà su questotema a più riprese.

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persi riappropriare appunto di ciò di cui non può fare ameno, ossia il pregiudizio. Prima ancora di applicare ungiudizio, di esporre una valutazione, “bisogna esser con-sapevoli delle proprie prevenzioni” perché il testo, che sipresenta nella sua alterità, venga riconosciuto come non-io, e abbia la possibilità effettiva di “far valere il suo con-tenuto di verità nei confronti delle presupposizioni del-l’interprete” (Gadamer 1983:316). Per soffermarci un istan-te su Gadamer, il cui pensiero costituirà un importanteambito di riferimento della presente ricerca, risulta cru-ciale che si faccia utilizzo del pregiudizio in quanto ogninostro contatto con un ente — sia esso testo o persona —di primo acchito pone già le basi sulle quali in seguitoavverrà il discorso e la comunicazione. Lo stesso Gadamerdedica diverse pagine per dimostrare in maniera si direb-be inconfutabile che la nozione di pregiudizio è stata in-dotta, storicamente, ad assumere una valenza negativa, ea denotare ciò che il “corretto” uso della ragione deve evi-tare ad ogni costo, dalla tradizione filosofica dell’Illu-minismo Moderno, che tanto si è operato a postulare —ed eventualmente a implementare, — l’Obiettività, la ve-rità in concreto (Gadamer 1983:319-325). Ciò che ci tornautile da questa postazione è la distinzione cruciale tra:A) un pregiudizio inteso come a priori morale (od esteti-

co), ossia il risultato della filosofia scientifica mutatain ideologia, e

B) un pregiudizio come a priori teorico-ontologico, ossiaun campo preliminare dell’intendimento che lasci aper-ta la strada alle tre funzioni equiprimordiali elaborateda Heidegger in Essere e Tempo, e cioè la pre-disponi-bilità, la pre-visione, e la pre-cognizione.16

16 Cfr. Heidegger, Essere e Tempo, par. 32: “Il senso è il `rispetto-a-chi’del progetto in base a cui qualcosa diviene comprensibile in quantoqualcosa; tale «rispetto—a—chi» è strutturato secondo la pre-disponi-bilità, la pre-visione e la pre-cognizione.”

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In maniera non cosi‘ diversa da Nietzsche (o da Piran-dello), che ci insegna che da dietro la maschera non si puòuscire, o che comunque non vi è niente di più “originario” o“primordiale,” Gadamer ci fa capire che il pregiudizio è ciòche è dato in principio, diciamo come potenza semprerealizzantesi dell’esperire-interpretare stesso. E‘ cio’ che cihanno insegnato, e/o che abbiamo ereditato dalla tradizio-ne e dal “si dice”. Dunque, perché negarlo, ignorarlo, setuttavia è dato? I pregiudizi come valori o motivi di critica edi esistenza sono infatti connessi, oltreché al manifestarsidell’Esser-ci, anche allo svolgersi della cultura e della storia,e quindi si aprono ad altri territori d’esperienza e d’indagi-ne.17 Per analogia, i pregiudizi sono simili a ciò che lafenomenologia critica chiamerebbe istituzioni (Anceschi1983), solo che i primi si danno come preconsci, i secondicome consapevolezza tetica di forme del pensiero (esteti-co). Infine i pregiudizi sono connessi agli stessi fondamentiinterpersonali e collettivi.18 Dunque, se pre-giudizio valecome funzione dell’interpretare, i pregiudizi come depositilinguistici e storici sono fondamentali per la comprensionedel passato e dei documenti che ne sono la testimonianzaprimaria:

17 Per esempio, alla storicita‘, alla inter-soggettivita‘, alla giusta deter-minazione del darsi dell’esserci in quanto connesso a un ente-esisten-te intramondano. Per due recenti aperture che rifiutano l’alterita‘ ra-dicale e fanno leva sull’arcaico come luogo d’incontro tra cultura einterpretare, si vedano Vattimo 1985:153-171 e Carchia 1982:123-222.18Da qui il fertile connubio di prospettive che si puo‘ generare ritor-nando indietro da Gadamer e da Heidegger verso Vico (sia pure attra-verso Nietzsche, Freud, e l’antropologia culturale), per cioe‘ che ri-guarda i proverbi, le strutture linguistiche della quotidianita‘, le mito-logie popolari, i caratteri poetici, le leggi e i riti di determinate fasinell’evoluzione delle culture.

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Un comprendere realizzato con consapevolez-za metodologica non deve tendere a portaresemplicemente a compimento le proprie an-ticipazioni, ma a renderle consapevoli perpoterle controllare, e fondare così la compren-sione sull’oggetto stesso da interpretare.(Gadamer 1983:317)

Nell’aprirci a questa dimensione del discorso critico,ancora una volta elaborata in chiave filosofica generale enon limitatamente alla critica letteraria o a forme circo-scritte d’applicazione del giudizio, dovremo tener benein mente che «non tanto i nostri giudizi quanto piuttosto inostri pregiudizi costituiscono il nostro essere». Questorapporto tra pregiudizio e giudizio critico è di natura dia-lettica, co-possibilitante, basilare.

6. Paradosso della critica

Ritorniamo adesso alla riflessione critico-letteraria. Ilsignificato dei termini “Critica” (e, nel senso lato finoravisto, Giudizio) e “Pregiudizio” comporta le seguenti va-lenze semantiche. Secondo il già citato Starobinski:

Se si riconduce il termine ‘critica’ al verbo gre-co crinein (abitualmente tradotto ‘giudicare’)non bisogna accentuarne il significato giudi-ziario e pensare alla formulazione di una sen-tenza. Se si vuole evocare la comparazionedavanti al giudice, bisognerà allora insisteresu ciò che precede il verdetto: il vaglio delleprove, la ripartizione dei torti. Perché crineindenomina fondamentalmente l’atto che distin-

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gue, separa, dà il voto decisivo. (In Latino, ilverbo cernere, il sostantivo cribnum, che desi-gna il vaglio del grano, appartengono alla stes-sa `famiglia’) (Starobinski 1970: 114)19

Lo spazio semantico della parola si dilata subito e tendea comprendere la storia della critica non solo come re-pertorio di opinioni formulate sulla letteratura, ma an-che

come storia della relazione differenziale cheunisce la creazione verbale e i modi di acco-glienza, di rifiuto, di consacrazione, d’interpre-tazione, di conoscenza oggettiva, con i qualisi è reagito a titolo individuale o collettivo.(ibid.)

Non dovrà risultare paradossale dunque che esistonotesti o opere d’arte solo nella misura in cui si costituiscedi fronte o intorno ad esse

un discorso di natura differente; e questo spie-ga come la nozione di testo sorga il momentoin cui, ai margini, un ‘non testo’ gli vieneaggiuno e opposto. (ibid. 115)

Quindi la critica, in una sua ideale genesi, è sempreanche una scelta iniziale (ibid. 116), una preferenza, ma-

19Sull’origine e storia della parola “critica” si veda inoltre Rene’ Wellek,Concepts of Criticism, 1973:22: “In Greek krites means ̀ a judge,’ krinein`to judge.’ The term kritikos as `a judge of literature’ occurs as early asthe end of the fourth century B.C. Philitas from the island of Kos whocame to Alexandria in 305 B.C. as the tutor of the future King PtolemyII, was called ̀ a poet and critic at the same time’,” con riferimento allericerche di Rudolf Pfeiffer (cf. Philologia Perennis).

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gari un desiderio di ripetizione o al peggio di cooptazione,ma in ogni caso, dice Starobinski, essa è sempre “iscrizio-ne nella memoria attuale”.20

Ora, abbiamo a che fare con il paradosso di applicareun modello quando di modelli non se ne vuole adottarenessuno. È qui che nasce il nodo del come se, su cui ritor-neremo più in avanti. Nel fare critica, nell’iscriversi nellamemoria attuale, nell’intessere un discorso sull’arte, ci tro-viamo dunque di fronte a una realtà — un testo, un’operad’arte — in cui i varî punti nodali sopra tematizzati, SO-CIETÀ/INDIVIDUO, OPERA, INTERPRETARE, si dannoin continuazione e simultaneamente. Per il momento, siterrà conto della costituzione interna di ciascuno solo nellamisura in cui questi verosimilmente influiscono sulladescrizione del loro inter-rapportarsi: l’enfasi rimarrà pre-valentemente sulla natura e sulla struttura del discorsointerpretativo, o INTERPRETARE, sulla sua funzione, o ilproprio manifestarsi. Il rapporto interno tra SOCIETÀ eINDIVIDUO, e la costituzione estetico-ontologica dell’AR-TE verranno trattati in altra sede, ma qualche indicazio-ne già si dà verso la fine del presente lavoro. (Per il restodi questa introduzione, si tenga comunque presente loschema del triangolo/circolo ermeneutico alla pagina 10bis).

20L’idea della scelta rimanda a quella della decisione anticipatrice del-la morte esposta in Essere e tempo, par. 62. Ma essa avra‘ anche unosviluppo esistenzialista-marxista con Jean-Paul Sartre a partire da L’es-sere e il nulla e negli scritti “impegnati” del secondo dopoguerra. Pro-blematico se non attuale rimane ancora, per lo scrivente, Che cos’è laletteratura, 1947.

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7. Il problema Metodo

È lecito dire che se esistono diversi modi in cui questomolteplice rapporto si realizza, esistono anche diversiMETODI che rendono coerente e legittimo ognuno diquesti modi di vedere e di ragionare intorno alla questio-ne. Il Metodo è, per definizione, “criterio e norma direttivisecondo i quali si fa, si realizza o si compie qualcosa,”(Starobinski 1970:116-131) ossia esso è un procedimentoregolato da assiomi prestabiliti. Ma uno sguardo alloOxford English Dictionary, o al Grande Dizionario dellaLingua Italiana, come pure a vari altri glossarî speciali-stici della scienza, della linguistica e della filosofia, ci mettebene in guardia dall’accettare questa generica “definizio-ne” acriticamente, e fermarci li` (anche perche’ essa e`gia` pronunciata in un ambito problematicissimo). Ladefinizione di metodo, come tutte le definizioni, come tut-te le parole, come tutte le cose, cambia nel tempo ossiamuta con la storia. Ma c’è di più. Infatti saranno sia ladescrizione autoconsapevole sia la concezione taciuta dimetodo che qui si vuole investigare in quanto i vari signi-ficati che la parola o nozione comportano si alternano, esi alterano, non solo rispetto al decorso storico in genera-le, ma anche e soprattutto all’interno delle singole disci-pline nelle diverse branche del sapere. Qui, in vista delleesigenze specifiche della nostra ricerca — che implica,cosa ormai del tutto naturale, il paradosso logico di fareuna ricerca “metodica” sul metodo! — ciò che verrà chia-mato metodo deve evidentemente assumere una caratte-rizzazione che ci consenta di astrarlo da qualsiasi acce-zione specifica in campi d’indagine determinati. E tutta-via, non volendo definire una formula metafisica e astrat-ta, o poggiare su qualche a priori categorico, bisogna chel’uso stesso della parola richiami costantemente la suacomponente materiale, applicativa, linguistica, contingen-

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te... ma non per questo meno vera, reale, importante, edeterminante. Ci atterremo quindi, per un verso, al sen-so della nozione più vasto e onnicomprensivo, ossia allospazio semantico circoscritto dall’etimo, dove meta indi-ca “fra”, “assieme” o ancora “oltre o dopo”; e hodós denota“strada”, “via”, o “percorso”; e per un altro, metodo saràquindi, figurativamente, l’itinerario critico-concettuale checi consente di andare da un luogo all’altro ma lungo undato percorso, consapevoli del cammino.

Questa figura metodica non è né neutra né innocentein quanto essa già implica — a fortiori — che la determi-nazione o assioma A e la determinazione B sono in con-nessione tra di loro. In aggiunta, questa figura connettivapotrebbe interpretarsi come qualcosa di necessariamentefrapposto — un ostacolo, un problema — al conseguireuna meta, necessario al rilievo del senso (intanto per “per-cepire” l’oggetto in discussione) ma in cui la meta stessanon è messa in discussione.21 Ad una più attenta lettura,

21Ci sarebbe da aprire una lunga parentesi sul significato della parola“figura”. Teniamo presente sullo sfondo il classico studio di Auerbach1984:11-78. Figura ha una storia complessissima. Ci atteniamo a unsenso in parte ispirato a Cicerone, il cui contributo “consisted mainlyin introducing the word in the sense of perceptible form to educatedlanguage” (19), e riassume il passaggio dal Greco schema al Latinoimago, effigies, species, e simulacrum. (15) Si veda l’uso che ne fa ne DeNatura Deorum. Ma si vuole anche cogliere il senso poliedrico che iltermine assume in Ovidio, dove accanto appunto alle “metamorfosi”(“se mentitis superos celasse figuris,” Met. 5,326; “sunt quibus in pluresius est transire figuras,” 8,730; “ex aliis reparat natura figuras,” 15,253;“animam...in varias doceo migrare figuras,” 15,172) emerge il senso di“copia”, di “riproduzione” o “immagine” basata sulla realtà. Ció passafacilmente all’uso “plastico” del termine che troviamo in Vitruvio. In-fine, essenziale al nostro discorso è la distinzione, per prima posta daQuintiliano, tra figura e tropo, dove quest’ultimo ha un utilizzo ristret-to e tecnico: “the aim of a figura is not, as in all tropes, to substitutewords for other words; figures can be formed from words used in theirproper meaning and order. Basically all discourse is a forming, a figure,

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la figura del metodo pare istituirsi qui come uno spazioda superare o comunque da attraversare, tuttavia inaggira-bile, il che darà adito — come vedremo — a nozioniconcettose, pragmatiche e strumentali della stessa, comese non fosse affatto importante riflettere su ciò che acca-de “strada facendo”. Infatti, si scoprirà che ignorare lafigura o figurazione dinamica inerente al metodo, e uti-lizzare invece il metodo come simbolo, come “mezzo” e,per estensione, “strumento”, avrà delle precise (a volteutilissime, a volte addirittura incredibili) conseguenze.D’altro canto, si può esplorare la figura medesima peraccedere a sconosciuti sentieri, a regioni ignote.

7. Il problema Teoria

Ma nel senso più “ordinario” di direttive ben definiteper ottenere certi risultati, o ancora per far sì che quelqualcosa che investighiamo possa venire alla luce persvelarsi alla nostra coscienza conoscitiva (o al nostro in-

but the word is employed only for formations that are particularlydeveloped in a poetic or rhetorical sense.” (26) Tra le figuraesententiarum che ci tornano utili perché inevitabilmente facciamo ri-corso ad esse, Quintiliano elenca: la domanda retorica, la prolessi, laprosopopeia, la fusione tra narrativa e fatti tramite evidentia o illustratio,e un aspetto cruciale agli sviluppi della nostra ricerca, cioè l’allusionenascosta, il rimando non esplicito, l’innuendo che incuriosisce o turbao stimola, la circumlocuzione premeditata. Saltando il contributo spe-cifico del Cristianesimo (in cui figura diventa il medio termine tralittera-historia e veritas), ricordiamo che figura e` a un dipresso di alle-goria (47,54), cioe` a quella forma linguistica in cui almeno due sensidi lettura sono presupposti. E ció è essenziale all’ermeneutica. Questisono gli spazi semantici in cui verrà adottato il termine figura. Per unacritica all’interpretazione di Auerbach di questi sviluppi storici e poiteoretici, e che risultano abbandonare una concezione triadica per unadicotomica, si veda Carravetta 1988.

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telletto) affinché lo contempliamo e ne possiamo dare(dopo il pregiudizio) un giudizio o comunque una caratte-rizzazione di qualche tipo, bisogna che vi sia la teoria.Cioè, sfruttando metaforicamente la nozione di metodoin quanto strada che ci consente di arrivare a una (pre)de-terminata meta, bisogna che questa strada sia ben illumi-nata e delineata, e che possa quindi permettere a qualcu-no — diciamo, all’interprete, al pensiero interpretante,magari a un personaggio! — di vedere dove porta e che,inoltre, gli imponga di (o lo solleciti a) stare all’erta affin-ché non ne fuoriesca o addirittura si smarrisca. Il meto-do richiede e non può fare a meno della teoria.

Teoria significa “formulazione e sistemazione dei prin-cipi generali di una scienza o di una sua parte, una dottri-na filosofica, un’arte o un’altra forma del sapere.”22 Ben-ché essa possa anche voler dire una serie di ipotesi relati-ve a una o più fenomeni, in generale teoria vale un com-plesso di precetti che servono da guida alla pratica. Eti-mologicamente theoria, che deriva da theorós, designa“colui che dà uno sguardo”, ossia uno “spettatore”. Se sipone mente al fatto che il teorizzare, ovverosia l’attivitàspeculativa in filosofia ma anche nelle scienze, si chiamateorèsi, la quale, definita come “attività conoscitiva” con-giunge quindi il “guardare” con l’ “esaminare”, ne conse-gue che tra teoria e metodo sussiste uno strettissimo rap-porto.

All’ idea di teoria va congiunta l’idea di presenza, in sensoontologico. Chi fa della teoresi, fa dell’ontologismo dellapresenza e rientra pienamente nella più provata tradizio-ne metafisica.23 E ciò non è a priori una considerazione

22 Il Nuovo Zingarelli, 11ma ed., Bologna: Zanichelli, 1983.23 Ho naturalmente in mente la tradizione del pensiero moderno cheha sollevato questo problema, e che include Nietzsche, Heidegger eDerrida (al di là o al di sopra delle specifiche “letture” dell’assuntofatte da ciascuno di essi). Il denominatore comune, esposto, criticato,

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da scartare perché necessariamente “cattiva”, in quantopresenza vuol dire assistere a qualcosa, essere-con altro oaltri, dunque partecipazione. Nelle parole di Gadamer:

Chi ha assistito a qualcosa, è chiaramente alcorrente di come essa si sia svolta veramente.Solo in modo derivato, l’assistere significaanche un modo di comportamento soggetti-vo, l’esser presente al fatto. Essere spettatoreè dunque un modo autentico di partecipare.Si può capire ciò rifacendosi al concetto origi-nario greco di theoria. Theorós, come si sa, ècolui che prende parte a una delegazione in-viata a una festa. Chi partecipa a una delega-zione di questo genere non ha altra qualifica-zione e funzione che di assistervi. Il theorós èdunque lo spettatore nel senso autentico del-la parola, che prende parte agli atti della festaattraverso il fatto di assistervi e per ciò stessoacquista una qualificazione e dei diritti sacrali,per esempio l’immunità. (Gadamer 1983:157)

Nella metafisica greca, continua Gadamer, la natura dellatheoria e quella del noûs erano concepite in termini dipura presenza al cospetto del reale (o dell’idea del reale incui si riponevano tali certezze), e la capacità di agire teo-ricamente esigeva l’atto di concentrarsi in maniera taleper cui ci si dimenticava dei propri interessi immediati.Ci sono già le premesse per l’INTERPRETARE come “ab-

e infine “accettato” come imprescindibile dell’uomo dell’occidente, èriposto nella definizione aristotelica della prisca philosophia: “Vi è unascienza (episteme) che studia (theorei) l’essere come essere (on),” scri-ve Ripanti, Le parole della metafisica, 1984:41; e, più avanti, “la meta-fisica greca concepisce l’essenza della teoria e perció del nous (pensie-ro) come il puro assistere all’essere vero.”

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bandono” al gioco dell’esistente, come responso a un que-sito profondo. Le possibilità stesse di fare cultura, da unlato, e l’apertura fenomenologica del pensare dall’altro,sembrano dipendere (come vedremo) da questo dimenti-carsi, da questo essere virtualmente fuori di sé. È crucialerammentarsi che in questo contesto,

La theoria non va pensata però anzitutto comeun modo di determinarsi del soggetto, ma vavista anzitutto in riferimento a ciò che il sog-getto contempla. (ibid.)

Ne consegue dunque che

La Theoria è partecipazione reale, non un farema un patire (pathos), cioè l’esser preso ecome rapito [da ciò che uno vede]. (ibid.)24

9. L’Interprete

Superfluo aggiungere che la teoria contempla anche, eforse anzitutto, una persona, cioè un homo Humanus va-riamente determinato.25 Ed è in piena considerazione di

24In ambito americano negli anni ottanta si è parlato molto di “finedelle teorie” in vari ambiti, come nella critica d’arte, nelle scienze so-ciali, nella critica letteraria. E’ stata una violente reazione all’”esplosioneteorica” degli anni sessanta e settanta (cfr Carravetta 1984 e 1995 su deMan). In ambito italiano, invece, quasi nei medesimi anni c’è statauna “esplosione” metodologica”, che verrà studiata dettagliatamentenell’imminente Thresholds, o continuazione del presente lavoro (vediAvvertenza a Il Fantasma di Hermes)25 Gadamer 157-60. Senza voler per questo condividere l’intera sua fi-losofia, e tuttavia attestando i molti suggerimenti ermeneutici alla pre-sente ricerca (cfr. Carravetta 1989a), vale la pena riportare questo bel-lissimo passo di Pareyson, che riassume un atteggiamento variegato

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questo INTERPRETE che si lascia andare, che si dona,che si abbandona al dovere della compresenzialità, allaparousia, (e che quindi è qualcosa di diverso da, ma nonantitetico a, l’Interpretante peirciano) che si vuole quiriprendere la nozione di INTERPRETARE. Già Platone ciaveva fatto intendere, nel Fedro, come l’essere fuori di sé

“è la possibilità di esser pienamente pressoqualcosa, di ‘assistervi’. Un tale assistere ha ilcarattere dell’oblio di sé, ed è costitutivo del-l’essenza dello spettatore di esser preso dallacontemplazione in modo da dimenticarsi disè.” (ibid. 159)26

ma costante nella storia del pensiero: “Tutta la filosofia contempora-nea insiste nel dire che la filosofia e` opera dell’uomo e soltanto del-l’uomo. La filosofia e` teoria dell’uomo fatta dall’uomo per l’uomo: èpensiero che non ha altro oggetto che l’uomo, altro punto di vista chequello umano, altro interlocutore che l’uomo” (Pareyson 1985:227)26 Ció potrebbe dare adito a plausibili sconfinamenti nell’esperienzadionisiaca. Il Nietzsche de La filosofia nell’epoca tragica dei greci, peresempio, rimette quest’esperienza nell’economia dell’arcaico e nelladispossessione ontica, non ontologica, dell’esserci. Si dà il caso cheEraclito non ha bisogno del mondo, ma il mondo senza Eraclito non èpossibile. La stentata fiducia nel nous di Anassagora e di Eraclito liberal’individuo dalle imposizione del tu devi, cioè della morale “di man-dria,” per recuperare all’uomo l’estetico, ma il “distacco” o la lontanan-za dei “valori” o della “memoria” non potrà durare per molto. Nella suamaturità, questo homo humanus (hegeliano) sarà il principio e il finedei suoi scritti più “critici” e “distruttori” — per esempio, a partire daLa gaia scienza —. La preminenza dell’aspetto “cosico” dell’individuoinficia la percezione della sua possibile partecipazione nel dispiegarsidel nous (o dell’Essere), e si potrebbe dire del destino dell’uomo chenon è Zarathustra ció che Pompeo Magno ripreso da d’Annunzio asse-risce nelle Laus Vitae: “Navigare è necessario, non è necessario vive-re” (Proemio di Maia): vocazione teleologica del logos occidentale mo-derno e tecnologico che in versione popolare americana suona cosí:“the show must go on”. L’ente, in quanto è anche processo, un venirealla luce e all’agire delle cose, rivendica una sua intoccabile autonomia

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Quest’oblio, continua Gadamer, non è un mero atto psi-cologico-privativo ma un più profondo rapporto in cui l’og-getto non resta estraneo alla coscienza del teoretico, mavi riscontra un campo di attese e di reazioni le quali pri-mariamente sono marcate dall’ascolto, dalla pretesa di unadurata e dunque dal “perdurare di un appello”.27 Ripro-ponendoci di trattare più estesamente alcune delle impli-cazioni di questa dinamica di base più in avanti, possia-mo comunque gia` osservare che il critico-interprete-theoros non può concepirsi come colui/colei che mette inatto l’interpretazione in quanto soggetto che effettua unadata azione predicandola ma al tempo stesso giocandolacome separata da sé, perché questo sarebbe un ennesimoesempio di esercizio formale in cui le parti vengono sosti-tuite ma i giocatori (o le funzioni) restano inalterate. L’IN-TERPRETARE invece avrà qui per noi una sua prima spe-cifica determinazione come dinamica temporale che co-involge e muta di continuo il rapporto, le varie distanzeestetiche che lo spettatore esperimenta, i giocatori elabo-rando e sviluppando le regole stesse del gioco.

e posto in un sistema esige totale sottomissione o esclusività. Alla lucedi questi complessi sviluppi, si capiranno le ragioni per aprire il di-scorso dell’interpretare a questa tradizione che predica fondamental-mente la distanza e l’alienazione come irrevocabili, ma al fine di tra-passarle (decostruendole, sfondandole, riconfigurandole) per varcarela soglia dell’intendimento come contemplazione attiva, come attivitàsentiente-pensante, che è anche un accogliere l’”esser fuori di sé”.27Gadamer 1983:160: “Appunto perche’ l’appello sussiste puó in ognimomento farsi valere presso di lui. Ovviamente, peró, il concetto diappello implica anche che esso non è di per sé una esigenza stabilitain modo definitivo, il cui admepimento sia univoco; piuttosto, l’appel-lo fonda un’esigenza.” Si capisce come il teorico non è affatto “disinte-ressato” e anzi fare lo “spettatore” automaticamente pone una richie-sta, si attende qualcosa. Sono noti gli sviluppi di questa dinamica nellaPoetica di Aristotele.

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E‘ nello spirito di Hermes “agoreo”, ma anche “mac-chinatore”, e “inventore”, e “egemonio”, e “enagonio”...28

10. Il viandante e la sua ombra

Per ritornare alla nostra figura metaforica, la strada habisogno di chi la percorre, tuttavia questo qualcuno (lospettatore) ha davanti almeno due possibilita’ di scelta, ecioè, può di fatto “incamminarsi” lungo questa strada,oppure può contemplarla a distanza e quindi non accede-re mai a nessuna meta. In termini più concreti, si posso-no sfruttare i diversi metodi d’indagine alla ricerca di unoggetto, di una formulazione, e, nell’arte, di una caratte-rizzazione che sia la più esauriente e compiuta possibile;e, ad ogni prova, e per ogni risultato ottenuto, si potràenucleare la teoria che sovrasta o garantisce la legittimitàdell’indagine. Questo è possibile perché l’atto stesso delpercepire dati o risultati esige che ci sia un pensiero, —non più in quanto noûs, ma in quanto psyche e, in seguito,ratio — qualcuno appunto che “esamini” e dunque pongain seguito il tutto entro un sistema di relazioni, di princi-pi o formulazioni di vario tipo. In questa accezione, infat-ti, la teoria è prossima alla definizione datane dal vocabo-lario, e non riflette quella prospettiva ontologicamentepiù ampia e molteplice come derivata dall’opera diGadamer. D’altra parte, si possono avere delle teorie dovesi sistematizza, si specula e si predica, senza molto con-cedere alle esigenze che potremmo dire empiriche o con-crete del metodo, dove infatti non si intraprende nessunaricerca, e al massimo la si presuppone. Ciò interessa i

28 Caratterizzazioni dell’Ermes camaleontico di Gabriele D’Annunzio,in Maia (1903), Canto IX, rispettivamente ai versi 2353, 2416, 2470,2542, 2584 (dell’edizione curata dal Palmieri)

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casi in cui l’Interprete prima teorizza e fissa i concetti oreferenti fondamentali della propria visione, e dopo va acaccia di reperti, detriti e documenti, e continua snoccio-lando ipotesi e tracciando itinerarî che convalidino gliassiomi di partenza. Si pensi, per dare un esempio cheterremo come tipico, all’incipit dell’Estetica di Croce:

La conoscenza ha due forme: e‘ o conoscenzaintuitiva o conoscenza logica; conoscenza perla fantasia o conoscenza per l’intelletto; cono-scenza dell’individuale o conoscenza dell’uni-versale; delle cose singole ovvero delle lororelazioni; e‘, insomma, o produttrice d’imma-gini o produttrice di concetti. (Croce 1958:3)

E’ evidente come queste premesse teoriche siano an-che asserzioni assiomatiche e, alla fin fine, dogmatiche,che come sappiamo predetermineranno il metodo inve-stigativo e in genere caratterizzeranno per oltre unventennio le interpretazioni crociane. Questo fenomenosi verifica anche sul versante non-idealistico. Per KarlPopper, “le teorie sono reti che lanciamo per prenderviquello che chiamiamo ̀ mondo’; per razionalizzarlo, spie-garlo e dominarlo. E cerchiamo che le maglie siano sem-pre piu` fini.” (cit. in Ripanti 1984:42) Solo che, in questaversione, teoria viene ormai a confondersi con “procedi-mento” metodico-ipotetico, per cui e` piu` giusto parlaredi teorie speciali, o di metateoria. In entrambi i casi, co-munque, teoria è inteso in senso soggettivistico, come unricordarsi di sé in ultima analisi disinteressato29 a sentirel’altro, niente affatto propenso a uscire-fuori-di-sé: si ane-

29 Dis-interessato non nel senso della volizione dell’estetica kantiana,ma nel senso costitutivo della differenza tra essere e pensare, cioèsenza inter-esse. Si veda il paragrafo successivo.

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la tutt’al più alla propria, specifica (e speciale) verifica, ebasta. Ma l’ombra segue imperterrita il personaggio, laluce di cui si nutre trova il suo limite nell’arrivo dellanotte.

11. Della luce

È il caso di ricordare, tra l’altro, che la ricostruzioneetimologica della parola teoria può estendersi ancora al-l’indietro per ricavarne theòs ossia luce e dunque prima-rio onnipresente (eppur “invisibile”!) Dio. Si comprendecome questa particolare determinazione — la più ampiapossibile dal punto di vista semantico e la più originaria obasilare dal punto di vista (storico) ontologico — mano-vrata figurativamente può servire quale potente ausilioalla critica di tutta una tendenza del pensiero metafisicooccidentale, quella cioè che mira ad accentrare sotto i lumidella (propria) ragione tutto ciò che si può dire degli entie per estensione degli esseri. È quello che fa WilliamSpanos in modo abbastanza convincente quando riesumala medesima figura agente nel progetto della ragione“umanista-illuministica”, oppure, sulla falsariga di MichelFoucault, ne scopre la tendenza “archiviale” e repressivain atto ancora oggi. (Spanos 1985) Per noi l’ipotesi di unateoria che sia fondamentalmente luce-dio importa sottoun altro — e non totalmente irrelato — profilo, e cioè,quando si fa (o si procede secondo) teoria, ci si devecapacitare di tre cose:A) LIVELLO ONTICO: la luce, la visibilità dell’altro (del-

la traccia, del testo, dell’opera) è imprescindibile,costitutiva, non se ne può fare a meno;

B) LIVELLO RETORICO, SOCIALE-ANTROPOLOGICO:questa luce è emanata da qualcuno (anche se non èdio, lo sarà a livello simbolico-figurativo) e che quin-

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di è soggetta in qualsiasi dato momento della sua esi-stenza sia alle precondizioni già menzionate — pre-giudizio, percezione-come-interpretazione — sia adaltre che si verranno esplorando, quale ad esempio lastretta parentela tra teoria ed ideologia, tra teoria evolontà di potenza, infine tra teoria e sua linguisticitàossia aspetto retorico.

C) LIVELLO ONTOLOGICO: il darsi stesso dell’essercistesso va concepito come “luminoso [gelichtet] in sestesso”, essendo infatti già Lichtung, (come si spiegain Essere e Tempo). Infatti, come osserva LeonardoAmoroso, “la Gelichtetheit dell’esserci, la sua apertu-ra, e` la visione ontologica dell’uomo in quanto esi-stente. Essa si articola ek-staticamente come tempo-ralità.” (Amoroso 1984:145) Secondo Heidegger quin-di l’esserci e` “illuminato” non dalla luce di un altroente, ma dal suo essere stesso.30

Vogliamo ricordare qui che sussiste una parentelaquantomeno analogica tra questi tre livelli, ed i tre nodireferenziali del nostro (anti)modello ermeneutico, nelsenso che il livello ontico vuole rispondere dell’OPERAcome fatto, oggetto o esperienza concreta e materiale,empiricamente dimostrabile; il livello retorico o sociale-antropologico corrisponde chiaramente al polo dell’IN-TERPRETE/SOCIETÀ; e infine il livello ontologico si confaall’INTERPRETARE medesimo in quanto le resa ermeneu-tica riguarda anche e principalmente la comprensionedell’Essere stesso.

30Si vedano anche le stimolantissime pagine di Derrida sulla questio-ne della “luce della ragione” nel saggio “Cogito et folie”, ora in Derrida1978:31-63. Si veda anche Rovatti 1987.

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12. Prima e dopo

Il problema che sorge, a questo punto, si articola così:fino a che segno l’aver formulato la teoria prima — e nondopo — incide su, e anzi determina, i metodi della ricer-ca? o ancora, se ho già fissato le caratteristiche e la costi-tuzione del mio oggetto di ricerca; e ho nel contempo giàelaborato una gamma di valori e delle gradazioni possibi-litanti per il pensiero — dell’Interprete-Spettatore che deveappunto intessere un discorso (l’INTERPRETARE) sull’arte(o OPERA) —; quali saranno le ripercussioni sullo statutoe l’agibilità del metodo? Se io determino in partenza, apriori insomma, il significato di certi termini (dando lorouna essentia, un senso convenzionalizzato) quali, ad esem-pio, “conoscenza”, “intuizione”, “ragione”, “giudizio”, “me-todo”, e via discorrendo, in che cosa, sostanzialmente va-lida, può consistere la mia ricerca? Utilizzerò il metodosecondo la definizione datane dal vocabolario, ossia dimero strumento univoco e parziale da adoperare all’occa-sione, per dimostrare minime variazioni di forma e/o disostanza nell’oggetto o fenomeno già confezionato in pre-cedenza? O sarà esso metodo in senso etimologico, unsentiero della conoscenza dotato di una propria ontologia— come abbiamo visto essere il caso di theoria? Ci porte-rà esso metodo verso terre incognite, o ci riassicurerà adogni piè sospinto di quello che sappiamo già, di quelloche ci fu detto in precedenza? Ed è possibile, dicoconcepibile, uscire dalla strada, errare, non conseguire lameta?

Sono, queste, alcune questioni che hanno stimolato esostenuto l’interesse per il rapporto che intercorre fra imetodi critici come oggetto di riflessione e l’interpretarecome problema generale autonomo. Infatti, nel teneredebitamente conto delle esigenze e delle determinazionidel metodo, il ricercatore di solito deve far sì che non si

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fuoriesca dai circuiti tracciati, che si faccia un “corretto”e/o “buon” uso dei modelli operativi prestabiliti, e che adogni fase delle esplorazioni i “percetti”, i dati, o i risultatisi allineino e si instaurino entro apposite caselle, o co-munque entro riconoscibili codici semiotici e compor-tamentali varî. Ci si potrebbe infatti chiedere ulterior-mente se è poi cosa pacifica l’assumere che per ogni me-todo impiegato il ricercatore si renda sempre conto che,da un lato, con esso egli può indagare solo in (pre)deter-minati dominî; e dall’altro che egli, proprio in virtù delmetodo adottato, potrà accogliere soltanto un numero cir-coscritto di dati concreti e materiali, e non altri.31 Le do-mande non sono malposte perché si scoprirà che uno deiproblemi piu‘ intricati della dislettura o interpretazione“abusiva” deriva precisamente dall’ignorare questo feno-meno. Se invece si conserva come pre-giudizio d’origineuna nozione esistenziale-ermeneutica dell’atto stesso del-l’interpretare (in rapporto co-possibilitante, costante edequiprimordiale con l’OPERA e la SOCIETÀ/INDIVI-DUO), allora ci si avvierà lungo la strada dei metodi e conle lanterne delle teorie attraverso l’unico plenum possibi-le, ossia il linguaggio, ovvero il discorso pensante l’altro,primariamente creativo e storico, ma predisposto già al-l’etica.

31Qui ci sarebbe da fare un lungo elenco di ricerche e studi di caratterescientifico più che filosofico. Sulle fonti canoniche, le implicazioneteoriche ed i presupposti storici di queste ultime affermazioni si vedaIl fantasma di Hermes, parte terza..

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PARTE PRIMA

Contesti

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Capitolo Uno

La s/volta della retoricanella cultura italiana

Tisia e Gorgia sostennero cheil verosimile è più pregevoledel vero.Platone, Fedro 267a

Rhetorica”, si sua cum elegantia GraecaLatine verti liceret, “fluentia” sive “dicentia”diceretur. Neque enim “facundia” neque“eloquentia” ei Graecorum voci apte respondet.32

Vico, Institutiones Oratoriae, 1.

0. Preliminare

Nel corso della presente breve ma si spera utile rico-gnizione critica e descrittiva della situazione della retori-ca oggi in Italia,33 si sosterrà che la retorica deve essere

32... “Se la parola “retorica” potesse esser tradotta in latino con l’elegan-za greca che le è propria, si direbbe “le parole che scorrono” o “che sidicono”, poiché al vocabolo greco non corrispondono adeguatamentené “facondia” né “eloquenza”. Trad. di Giuliano Grifò33 ... Questo intervento è la prima parte di uno studio in corso. Laseconda parte conterrà elaborazioni teoriche in chiave ermeneutica,e tratterà di alcuni testi di Melandri, Raimondi, Bottiroli, e Pera.

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rivalutata in termini etici ed ermeneutici, e comunquecome filosofia prima. La prima citazione epigrafe verràripresa sotto per evidenziare l’insostenibilità sia di unaontologia metafisico-platonizzante - del tipo: L’Essere è...— sia di una epistemologia analitica o positivista a tut-t’oggi vessata dall’ipostasi della Verità, e troppo spessoimportata nelle discipline interpretative — tipo: il veroMetodo della critica è.... Quindi, non ci si occuperà dellaretorica per vedere se, vista così e così, conduce alla veri-tà, o al sapere, quanto piuttosto per evincerne le ancorainesplorate possibilità etiche, creative, non-tragiche.34 Inaltre parole, il verosimile, l’immaginario, il virtuale sonoassunti quali aspetti concreti decisivi, sia per l’arte cheper il linguaggio. E per la critica in particolare. Dunque,nell’epoca postmoderna (intesa senza ironia) è giocoforzaprendere sul serio il monito di Nietzsche secondo cui “ilmondo vero è diventato favola”. E la favole si narrano,esigono un sia pur piccolo pubblico, non possono non ri-guardare una nozione fondamentale del linguaggio e del-la sua articolazione, e cioè che si parla (o scrive, o si rac-conta) ad/con altri. E questo vale anche per la concezionidel linguaggio che aspirano a dichiararsi “scientifiche.”Non è il caso di rifare qui la storia delle scienze in quanto,al contrario, essenzialmente storia di scritture creative,invenzioni di saperi, strade ferrate per i discorsi di e sul’epistemologia (cf. Lyotard, Harvey). Per concludere, siritorna all’ipotesi che indaga se effettivamente si può par-lare di una “svolta” epocale della retorica, intesa comeripensamento della problematica del linguaggio, dei fon-damenti dell’agire umano, e con riferimento ad altri cam-pi del sapere.

34 L’assunto dietro queste descrizioni valutative poggia su altri mieistudi sulla nozione di post-moderno, che ritengo l’epoca della fine deltragico nell’occidente, e dell’esautorarsi dell’ironia del Modernismoletterario e artistico; vedi Carravetta 1984 e 1991 in particolare.

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1. Sintesi

Nell’immediato dopoguerra e negli anni cinquanta laretorica non godette di fortuna critica. Da una parte regna-va ancora, ormai a livello molecolare, il divieto crocianosul linguaggio ornato, sulla costruzione “artificiale” chetradirebbe l’utilizzo di concetti, di preoccupazioni di ordinelogico, dunque ontologicamente altre dalle intuizioni puredella poesia. Per Croce e tre generazioni di critici letterari(da Momigliano a Spongano, da De Lollis a De Robertis) lostudio della letteratura riguardava l’identificazione di co-strutti fondamentalmente estetici, autonomi, irrelati almondo se non in maniera contingente e strumentale. L’E-stetica in Nuce del Croce — tradotto subito in inglese einfluente nel periodo di formazione del New Criticismamericano — asserisce che l’arte è al di là del bene e delmale, e della storia, e che inoltre è universale, prelogica,partecipe dell’immagine pura. La componente retorica del-l’organizzazione del discorso veniva vista — secondo unfilo che si estende dal Rinascimento agli anni 50 — noncome segno di alta poeticità ma come “artificiosa” e dun-que inautentica, come “tecnica” o “artigianato”. Secondoquesta concezione, l’essenza del retorico sarebbe da ricava-re nella poesia lirica, la più “universalizzante” e “rimossa” o“indipendente” dalla realtà contingente. La lirica è dun-que, prevedibilmente, il genere privilegiato, mentre l’epicae la narrativa sarebbero più prone a ricadere nell’architet-tonico, a ricorrere a pezze o accorgimenti o “trucchi” cheservono da riempitivo, da incerto referente a un mondo— quello reale, economico, storico — che non gli è di com-petenza. Ne risulta che il discorso altamente strutturato,ripartito in sezioni formali conseguenti e premeditate vastudiato in sede piuttosto pedagogico, come organon dicomportamento e tipologia di codici da mettere all’operasecondo una gamma di contesti predeterminati.

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Ricordiamoci della trasformazione radicale avvenutaalla nozione di retorica per merito della nascente meto-dologia scientifica, tra quattro e seicento (cf Ong, Florescu,Barilli). Non che nell’antichità non si fossero attestate di-verse scuole, con diversissime concezioni sia della linguasia della conoscenza, ma queste hanno vissuto vita mar-ginale, rimossa, coltivata da pochi ed eccentrici poeti efilosofi.35 Quel che ci interessa stabilire, in via prelimina-re, è che la stessa trattazione della storia della retoricaesperisce, nell’ultima metà del XX secolo, un tacitorinascimento di sorta (Perelman e Tyteca, Vickers, Valesio1986), a giudicare tra l’altro dalle diverse e stimolanti ri-costruzioni che incominciano a circolare in Italia a parti-re dagli anni anni cinquanta in avanti.

2. Locus I

Appropriato luogo di partenza potrebbe indicarsi nelvolume Retorica e Poetica, pubblicato nei Quaderni delCircolo Filologico Linguistico Padovano (N. 10, 1979), cheraccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Bressanonenel 1975. E’ sintomatico che in questo caso la retoricavenga esplorata in rapporto alla poetica, nozione critico-interpretativa che tanta fortuna ebbe in Italia nel secon-do dopoguerra. Ci si ricorderà che nel novecento possia-mo rilevare almeno tre grosse correnti di poetica: quellaidealista-storicista (rappresentata da Croce, e con variantida Russo e Binni), quella fenomenologica (Anceschi e la

35La storia è troppo lunga e complicata per ribadirla in questa sede, masi vedano le diverse ma concordi ricostruzione del problema del meto-do nell’ermeneutica a scapito della retorica in Gadamer 1983, Gusdorf,Ferraris 1987 e Carravetta 1996.

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scuola di estetica di Bologna), e una più sfumata a im-pronta materialista (Della Volpe, Pasolini). Ma, nell’ordi-ne cronologico, fu la nozione di poetica strutturalistica aprevalere negli anni settanta e ottanta. In Italia la si ritro-va dietro brillanti letture da parte della Corti, di Segre,Marchese, Agosti, Avalle, Pagnini. Si tratta in particolaredell’adattamento a uso critico-letterari della rivoluzionerazionale-metodologica apportata negli anni sessanta dal-la linguistica moderna, quella storicamente derivante daDe Saussure, Jakobson, la scuola di Copenhagen (laglossematica), il formalismo praghese e la scuola france-se di Bailly, Benveniste, e infine, molto discussi in Italia,Barthes, Todorov, Genette. La novità del volume padova-no consiste quindi nell’esser dedicato a “fare il punto” sullaretorica in base ai successi concreti della poetica struttu-ralistica.

Sotto un certo profilo, i risultati non sono entusiasman-ti. Perché? Vediamo da vicino. Sappiamo che le poeticastrutturalista privilegia il significante e vede la poesiacome essenzialmente scarto dalla norma, come écart ri-spetto a un presunto asse normativo e sincronico.36 Maappunto in vista di questa derivazione, la retorica si rin-nova sì ma solo per esautorarne la sua adattabilità razio-nale-funzionale. In altre parole, essa è ancora “antica re-torica” aristotelica, pieghevole attraverso i secoli, capa-cissima di subire una verniciatura in chiave delle nuovemetodologie di estrazione scientifica e di filosofia analiti-ca del linguaggio. L’esplosione strutturalistica in fondoaveva riaperto nuove prospettive all’analisi del testo, maa costo di chiuderne altre. Per esempio, tramite la feticiz-zazione del testo-oggetto, l’esclusione dell’intenzione del-

36 C’è da dire, però, che già la “vecchia” stilistica a impronta storico-filologico aveva teorizzato l’importanza cruciale dell’idea di “scarto lin-guistico”, per esempio con Spitzer e Contini.

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l’autore nella valutazione dell’opera, e nel dare scarsa at-tenzione al problema del lettore, del pubblico. Tra l’altro,la maggior parte degli interventi sono in definitiva delle“letture” su determinati autori e testi della tradizione incui specifici problemi vengono riesaminati alla luce dellenuove metodologie e adoperando una terminologia ap-punto non-classica.

E tuttavia, qualcosa pur si muove. Troviamo così nelvolume padovano un intervento di Eco, “Per un’analisicomponenziale dei tropi” il quale, se per un verso rispec-chia il nuovo verbum — la parola analisi, la provenienzadella nozione di componenziale, e richiami agli studi difilosofi del linguaggio americani come Jerrod Katz[Semantic Theory, 1972] — per un altro contesta allapoetica strutturalistica l’abbandono del referente, ossial’esclusione metodologica dei fattori culturali e circostan-ziali che pure intervengono nella dinamica del testo emeglio ancora nella storia critica della sua ricezione einterpretazione. Durante questo periodo Eco, però, anda-va stilando il opus magnum. Trattato di Semiotica Gene-rale, nel quale se per un verso non sorprende ritrovarequi un modello che richiama le categorie aristoteliche,37

per un altro il referente, il terzo angolo del triangolo delsegno, viene eliminato (abbandonando Peirce per Morris),

37. Ib. p. 5, in particolare la quattro cause: Efficiente, Formale, Finale, eMateriale, le quali richiedono che per ogni termine dovranno esseregerarchizzate le marche corrispondenti così da poter dare, o far servi-re come interpretante, per ogni rappresentazione semantica, un Agen-te, un Oggetto, uno Strumento, e un Fine o proposito. Gli ultimi quat-tro termini si prestano anche come basi ontologiche di una nuova odiversa nozione di retorica. Si veda per esempio l’opera di Valesio e diGrassi, che esplorano in contesti particolari la necessaria componentemateriale e concreta, situazionale, o circostanziale, di ogni discorsolinguistico. La retorica, quindi, sarebbe sempre anche materialistica epragmatica, componenti non escludibile.

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escludendo tutto ciò che non potesse diventare segno-di-qualcosa. Ma per il suo tendere verso il pensiero angloame-ricano, Eco non si potrà dire che farà grandi contributi aun rinnovo o ripensamento della retorica.38

3. Locus II

Contemporaneamente, abbiamo la presenza dell’ormaiclassico Lausberg, Elementi di Retorica (1969, orig. 1949),il quale però dedica poco spazio all’inventio e alladispositio rispetto all’elocutio, e lo stimolante Florescu,La retorica nel suo sviluppo storico, Bologna, 1978, chemira a rinverdire l’importanza delle circostanze per cui laretorica ha avuto una cosi’ travagliata e tutto sommatoriduttiva storia nella cultura degli ultimi secoli.39

Nel capitolo “Retorica e poetica”, firmato da AndreaBattistini, del volume Guida allo studio della letteraturaitaliana a cura di Emilio Pasquini, si sottolinea l’inciden-

38 E’ solo negli anni ottanta che Eco incomincia a prestare più attenzio-ne alla componente del ricevente, dell’uditorio, si direbbe, ma solocome campo di possibilità semantiche, o scelte di codice valide, effet-tive, che chiudono la catena dei passaggi del messaggio. A meno chenon si voglia leggere il saggio “Intentio Lectoris” (ora in The Limits ofInterpretation, 1991) come sostenente, inconsapevolmente, di unaretorica pre-semiotica, cioè del “limite ragionevole” delle interminabi-li interpretazioni di un testo, che introdurrebbe la necessità del con-senso e della convalida simbolica da parte di un gruppo, o professio-ne, o partito politico. Aspetti retorici e indeologici fondamentali, aqualsiasi modello critico.39 Meno fortunati in questo periodo sono A. Del Monte, Retorica,stilistica, versificazione, 1955 e più volte ristampato, e L. Pestelli,Trattatello di retorica, 1985, il quale addirittura ripropone concetti dipurità, proprietà, eleganza e insomma suona la tromba del disagio deipuristi conservatori davanti allo scilinguato dilagare della societàmassmediatica.

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za degli studi stranieri — in particolare degli americani edei francesi — tradotti in italiano, ma la sintesi che si fadella retorica italiana risente di una disciplinarietà, di unasettorialità della retorica come ausilio alla critica e comevariante contigua alla poetica per cui non si riesce vera-mente a intravedere nulla di innovativo e/o tendenzial-mente filosofico, o ermeneutico. Nel corso della rassegnadei manuali terminologici40 Battistini dedica un’interasezione agli studi che riprendono in qualche manieral’elocutio, cercando di intravedere il valore, per larivalutazione della retorica, dei contributi di RolandBarthes, il Gruppo u, Todorov, Genette, Lotman e tra gliitaliani G. Conte e E. Melandri41 E’ soltanto nell’ultimocapitoletto dedicato alle “Prospettive multidisciplinari” (pp.151-54) che Battistini,42 menziona una serie di interventiche straripano dalle strettoie dell’accademismo parrocchia-le italiano per suggerire come lo studio della retorica ri-sulti importante in tanti altri campi dello scibile, per esem-pio nell’interpretazione dei mass media, negli sviluppidella metodologia della scienza, nella giurisprudenza enella filosofia. Ma si tratta di un breve repertorio biblio-grafico, niente di più, secondo anche la destinazione delvolume del Pasquini.

40 Tra i quali segnalo, a titolo appunto emblematico e sintomatico a untempo, Angelo Marchese, Dizionario di retorica e stilistica, 1981, chetra l’altro risulta utilissimo come strumento didattico per corsi univer-sitari.41 Melandri pero’ scrive esplicitamente sull’analogia, quindi su unosfondo appunto “logico-filosofico” come dichiara già nel titolo. È que-sta un’opera che merita una profonda riflessione a parte.42 Tra l’altro autore di un notevole studio su Vico, La degnità dellaretorica, 1975, che ha praticamente riaperto la problematica della re-torica nel pensiero di Vico e della filosofia tout court. Battistini è statoco-curatore di diversi volumi del Mulino che riguardano le poetiche ela critica letteraria.

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4. Exemplum

Nel 1988 escono due manuali di retorica che per la lorodiversità di impostazione e di obiettivi segnalano una pro-fonda divaricazione. Il volume di Bice Mortara Garavelli,Manuale di retorica, è eccezionale per ampiezza e utili-tà, e si incunea tra l’ormai assimilata proposta dellaNeoretorica di Perelman e Tyteca, e l’arida tassonomiadel Lausberg. Il suo schizzo storico introduttivo ciripropone l’ormai consueta e travagliata svalutazione del-la retorica, ma si sottolinea anche come ormai tutte lediscipline hanno bene o male fatto i conti con quella cheio chiamo “la sfida della retorica”. Retorica, ci ricorda l’au-trice, vuol dire due cose simultaneamente, distinte e tut-tavia complementari, ossia “pratica” e “teoria” (pg. 9), ilche ci consentirebbe di intraprendere una analisi filosofi-ca. Invece, il suo lavoro non intende andare oltre unacatalogazione appunto manualistica. Se c’è qualcosa diveramente “nuovo” e valido nel Manuale della MortareGaravelli, questo pregio risiede più che altro nell’aver fa-vorito, per la scelta degli esempi, testi contemporanei ecomunque tratti da diverse discipline, non escluse la po-litica, la televisione, la pubblicità. Era ora che i manualidi retorica andassero al mercatino a registrare le loro fi-gure.

5. Lectura

Nello stesso anno esce un Manuale di retorica di Ar-mando Plebe e Pietro Emanuele (II ed. 1989) il quale in-vece merita una discussione più dettagliata poiché sipropone di ripensare la retorica, ossia di riformularla invista di un vero recupero di prospettive insite nella suastoria antica. Allo stesso tempo, la proposta si vuole di-

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stanziare dalle proposte di questi ultimi decenni, e pri-mariamente dal Perelman. Il problema per Plebe risiedein questo: non si è riflettuto abbastanza sulla componen-te della INVENTIO, e infatti lo stesso Perelman, nel suoTrattato, l’aveva trattata in maniera “esecutiva” e noncreativa. Ossia, laddove a Perelman andrebbe riconosciu-to l’indiscusso merito di riproporre la retorica come fon-damentalmente una teoria dell’argomentazione (tesi so-stenuta anche da Valesio 1986, Carravetta 1996), basatasulla realtà del linguaggio in funzione attiva, dinamica,con intenzioni e finalità specifiche che trascendono lasupposta superficialità dell’elocutio e che poggiano su tec-niche tendenzialmente universali (e quindi atte a esseremutuate nelle diverse discipline, in primis nella giurispru-denza), Plebe e Emanuele gli rimproverano di aver travi-sato non solo Aristotele ma persino la Rhetorica adHerennium, dove, tanto per cominciare, la stessa elocu-zione non era mero alterare il linguaggio ordinario perdistaccarsene,43 altrimenti non si potrebbe fare della re-torica una disciplina intellettuale. Per gli antichi, “L’elo-cuzione è l’adattamento di parole ed espressioni alla ne-cessità dell’invenzione” (Plebe, p. viii). In più, nellaRhetorica ad Herennium, vi erano sei parti dell’invezione,mentre Perelman ne riesamina solo le ultime tre, ossia laconfirmatio, la confutatio, e la conclusio, tralasciandoquelle che i due filosofi invece ritengono fondamentali,ossia le prime parti:

La vera invezione retorica risiede invece nelle prime treparti: la proposta del tema scelto (prooimion), la suaesposizione (dièghesis) e soprattutto la sua intelaiatura

43 Nella critica letteraria, tale impostazione si ritrova negli studidannunziani. Cfr. per esempio Barberi Squarotti nel volume Retoricae poetica, cit., pp. 339-365.

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concettuale (prokataskeué, letteralmente: “allestimentodei materiali concettuali”. [Rhet. Her. 1,3,4] E’ quest’invenzione delle “intelaiature concettuali”, quelle chegli inglesi chiamano categorical frameworks, che può oggirilanciare la retorica come disciplina insieme anticae quanto mai attuale. (pp. vii-ix)

Infatti, continuano gli autori, è convinzione ormai dif-fusa oggi che le diverse filosofie non si distinguono tantoper le loro presunte diverse ideologie, “ma per le diverseassunzioni di un dato sistema categoriale oppure di unaltro”. Il che equivale a dire che la retorica può oggi riven-dicare il titolo di vera filosofia del linguaggio e/o di lin-guaggio fondamentale alla filosofia, ossia a tutte le disci-pline, teoria e pratica non solo dell’ordinamento del di-scorso ma della ricerca e invenzione dei concetti e dellepossibilità cognitive umane.44 La retorica dell’invezionedunque può abbracciare sia la problematica dell’argomen-tazione, come vorrebbe Perelman, sia l’esecuzione figu-rale/verbale come richiede la testologia. In effetti, si par-la di un’ars inveniendi. Di conseguenza, il libro è strut-turato in tre parti in cui si riprendono, per primo, le mo-dalità dell’arte di inventare temi concettuali, in seguitol’invenzione dell’ordinamento e la consequenzialità deipropri pensieri, e infine le tecniche di inventare determi-nate forme espressive. Detto altrimenti, abbiamo:

a) la prima parte dedicata all’invenzione delle idee o ca-tegorie,

b) la seconda alla tecnica degli argomenti o dimostrazio-ni delle strategie dimostrative,

e infinec) si tratta della tecnica dell’elocutio.

44 Ancora una volta, bisogna rimandare alle opere teoriche di PaoloValesio 1986 e di Ernesto Grassi 1985 e 1980.

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Il Manuale non è, alla fin fine, un vero manuale, mapropone una filosofia del linguaggio. Esso ci invita a unripensamento radicale, e anzi richiede che si ritorni stori-camente a rivedere la proposta di Isocrate e di Gorgia,che si ridimensioni la condanna platonica, la quale di-stacca fatalmente la retorica dalla dialettica e si concen-tra sulla questione del vero e del falso, mentre nello scam-bio umano non conta effettivamente l’universale in sé eper sé quanto l’universale “rispetto a” qualcosa o qualcu-no. Altrimenti detto, la filosofia (e sulle sue tracce la scien-za) si è arrogata il vanto e privilegio di darci la verità asso-luta mentre nella storia effettiva degli uomini, nella pras-si del quotidiano come nella politica, quel che conta è ilverosimile, il particulare, lo stile, l’agonismo reale e nonla purezza ideale e\o trascendentale.

Plebe e Emanuele dedicano un capitoletto alla presun-ta incompatabilita’ tra stile retorico e stile filosofico, men-tre in effetti si tratta di un falso problema, in quanto stori-camente il nemico della retorica é stata la dialettica, laquale è per sua natura collaborativa, risolutiva, e preten-de di assurgere a una metodologia infallibile — concilia-zione di contrari — che alla fin fine genera un vuoto for-malismo. Non si può non apprezzare la devastante criticaal platonismo metodologico. Mentre nella realtà abbiamoa che fare con agonismi specifici, globalità dei temi e deipensieri, questioni di inaggirabile prospettiva, polemica,concorrenza, creatività contenutistica (oltreché formaleo appunto “meramente retorica”) e innanzitutto finalità,obiettivo, si direbbe pragmaticismo (termine non usatodagli autori).

Da qui un ripasso delle varie tecniche dell’invenzionedialogica, del tira e molla di determinate situazioni, a par-tire dalla coppia modello-antimodello, discutendodell’iterazione persuasiva, ritornando sui problemi co-stituiti dal paradosso o contro-opinione, dell’estrazione

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del sorprendente che ingenera inusitate possibilitàdiscorsive, infine la meraviglia. Il volume raccoglie pa-gine dedicate alla definizione vista non come tecnicamatematico-logico ma come scelta ad hoc per evidenziarecio’ che non è chiaro e che contribuisce a far vedere, aridisegnare una visione, un concetto, una versione chesia efficace, ossia, definizioni circoscritte ma reali e nonuniversali ma meramente nominali. Che poi la filosofiastessa si sia storicamene appropriata delle tecniche dellaretorica senza ammetterlo è ormai cosa risaputa. Si veda-no i recenti studi, americani e francesi, sulla scia delladecostruzione in merito all’uso della metafora nei trattatie nelle dimostrazioni scientifiche.

6. Scientia

E si vedano, inoltre, e volgendo a un ulteriore ambitoannunciato all’inizio di questo intervento, a studi che ri-prendono non solo la dissoluzione dell’impeccabilità epresunta neutralità della ricerca scientifica — da Kuhn aPopper a Feyerabend — ma anche il problema dell’im-possibilita’ teoretica di fare filosofia e o filosofia della scien-za senza imbattersi nel problema dell’articolazione lin-guistica del sapere. In Italia il filosofo Giulio Preti avevagià avviato questo discorso nel suo piccolo ma pregia-tissimo libro Retorica e logica, 1968, e in cui nel rispon-dere alla facile distinzione disciplinare-epistemologica diE.P. Snow sulle “due culture”, ribadiva che la dicotomiz-zazione o contrapposizione tra le due sfere era una strava-ganza concettuale, insostenibile, apolitica e riduttiva. Sivedano in seguito gli studi di Aldo Gargani, che già neglianni settanta rivedeva la rivoluzione scientifica della finedel Rinascimento — Hobbes, Galilei, lo stesso Descartes— in termini di una ri-collocazione o ridefinizione della

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lingua della investigazione e dimostrazione ma in funzio-ne di una sua accettabilità o riconoscimento tra un noverodi esperti, nelle pieghe di una comunità che veniva manmano assumendo il ruolo di legittimare il sapere laicocontro il dogmatismo post-tridentino, scoprendo appun-to dall’interno della medesima storia della scienza ciò checon tutt’altri strumenti concettuali Michel Foucault veni-va chiarendo in merito al rapporto sapere/legittimazio-ne/potere. Coincidenza significativa tra discorsi culturalitransatlantici, il libro di Gargani Il sapere senza fonda-menti, del 1973, asserisce ciò che a sua insaputa venivascoprendo il filosofo americano Richard Rorty, il qualene Philosophy and the Mirror of Nature sostiene chel’epistemologia alla fin fine si risolve in una ermeneutica,ossia un’arte dell’interpretare, dunque una pratica scrit-toria (e/o letteraria). E l’ermeneutica è essenzialmenteuna pratica linguistica storicamente condizionata, inter-personale (Gadamer), cangiante e prospettica che ammet-te e annetta la sua linguisticità, la sua retoricità comefondante e co-possibilitante alla cognizione e all’azione.Per ritornare velocemente al libro di Plebe e di Emanue-le, la retorica come arte dell’inventare sta alla base dellemedesime possibilità sia della scienza che della filosofia:“che diritto hanno le categorie logiche di considerarsi piùimportanti delle categorie grammaticali?” (p. 84) In undiscorso, la capacità della retorica di generare categoriesi rivela più fruttuoso e “concreto” dell’ordinato e forte-mente deliminato dominio della logica, e dei Metodi Ge-nerali. Ciò è rilevabile sia tramite la fusione di riconsociutecategorie preesistenti — category fusion — sia tramite lasostituzione di una categoria per un altra. E’, quest’ulti-ma, la strada additata dal Kuhn di Structure of ScientificRevolutions del 1962, libro che destò tante polemiche eche qualcuno pensò di ritoccare o comunque di adattareanche ai cambiamenti poetologici, introducendo la no-

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zione di paradigm shifts per meglio comprendere le va-rie rivoluzioni culturali e disciplinari (Vattimo 1968).

In questo ambito di riflessioni, importante all’intendi-mento della retorica come capace di essere scientifica, dipoter “fare” scienza, è la riflessione di Marcello Pera, ilcui Scienza e retorica (Laterza 1991) si ripropone di ana-lizzare le strutture argomentative dell’epistemologia con-temporanea dimostrando che ormai nessun scienziato ofilosofo della scienza può esimersi dal tenere presente trepunti nodali nell’indagine: la mente che indaga — ergo ilretore, colui/colei che sceglie, organizza e struttura undiscorso con (pre)determinate intenzioni e finalità; lanatura o l’oggetto che risponde o meno ai quesiti (o spe-rimenti) e dunque esige una attenzione specifica, unacontinuata ri-inquadratura che rivendichi l’alterità oindissolubilità dell’altro come qualcosa di concreto e re-agente; e infine la comunità che dibatte sulla validità, eproprietà, e valore del senso del discorso scientifico me-desimo. Ne consegue che preoccupazioni di stile, metafo-ra, persuasione, politica del discorso entrano in scena (in-scenano l’atto comunicativo) in maniera perentoria e de-terminante. Ancora una volta leggiamo che è finita l’epo-ca della scienza che ci poteva consegnare LA verità, dellascienza wertfrei o immune da giudizi di valori.45

7. Coda

Attraverso questo tipo di ri-attraversamento, e ripensa-mento, la retorica rivendica il suo ruolo di philosophiaprima, poiché essa è per sua dinamica portata alla varia-

45 Questa preoccupazione e motivo di autocritica è riscontrabile nellasociologia (cf di Crespi suo intervento ne Il pensiero debole), nellapolitologia (cf. Barcellona), come pure nelle scienze umane in genera-le (vedi opere di Boniolo, Tullio Argan).

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zione possibile e continua, sempre in stato di s/fonda-mento, pratica reale e corporale della (ri)configurazionedelle possibilità sia estetiche che cognitive dell’agire uma-no.46

Nel concludere, provvisoriamente, s’intende, si tenga-no di conto gli sviluppi in altri settori della cultura. Sicomprenderà meglio come lo studio “dell’arte del discor-so umano” possa ritornare ad interessare studiosi forma-tisi in ambienti diversissimi, e questo anche quando lastessa parola retorica non venga esplicitamente utilizza-ta. Negli scritti sulla metafora di Rovatti, nei tanti articolisu Heidegger e la poesia pubblicati dalla rivista AUT AUT,nelle riflessioni palinsestiche-decostruttive di Rella, nel“passaggio” dalla prosa filosofica accademica alla scrittu-ra poetica da parte di Comolli, nell’enfasi posta sulla con-versazione nel trattato sulla Cittadinaza di Veca, nellacomparatistica storica di Riverso, in alcuni articoli diVattimo che rivendicano la co-appartenenza costitutivadel linguaggio poetico e della retorica come intrinsecaall’ermeneutica, in tutti questi scritti si registra una pro-fonda riflessione sulla natura del linguaggio, sulla neces-sità di rifare (o dimenticare) le teorie della retorica dellamodernità, di avviare altre prospettive. Forse è la voltadella retorica. Forse è in corso una svolta paradigmatica,una ri/fondazione dei tempi.

46 Una proposta che si muove tra strutturalismo ed ermeneutica e cherivendica in maniera diversa la centralità della inventio è quella diGiovanni Bottiroli, Retorica. L’intelligenza figurale nell’arte e nella fi-losofia. Per la filosofia, si veda anche Natoli 1996:39 et infra.

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Capitolo Due

L’erranza della Teoria tra Storia e Poesia:Problemi e prospettive nella critica americana

1. Preliminare

L’orizzonte culturale americano degli ultimi tre lustri simostra complesso e agitato, ricco e stimolante, non senzaalcune impennate peculiari alla sua storia, o senza altret-tante zone d’ombra non facilmente sondabili, almeno peril momento. Poiché sarebbe assurdo pretendere di poterparlare di tutte le sue manifestazioni, e non volendo, allostesso tempo, scrivere delle brevi schede critiche a unaventina di libri (ma si spera che i testi menzionati nellenote tornino utile come bibliografia selezionata nonchécome s/fondo al discorso), ho optato per la seguente stra-tegia retorico-metodologica. Prenderemo in esame quat-tro diverse aree o ambiti di discussione, e ne tratteremosia per indicarne protagonisti emblematici di determina-te problematiche della critica americana, sia come mate-riali da sottoporre ad analisi in termini del problema ge-nerale dell’interpretazione e dello status della critica let-teraria in particolare. Il procedimento verrà attuato pertramite di una tesi stipulata all’inizio del saggio, ai fini difissare alcune coordinate concettuali e dei referenti disignificazione. Infine ritorneremo al punto di partenza

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per confermare e/o elaborarare il nostro particolare mo-dulo ermeneutico o pratica di lettura.

Gli ambiti privilegiati e/o i materiali in questa esposi-zione saranno costituiti da:

a) Scritti e dibattiti intorno al problema del come e se sipossa ancora fare teoria critica, quindi essenzialmentescritti metacritici;

b) Il problema del definire, limitare, e s/vincolare le mo-dalità linguistica del fare critica, della sua scrittura;

c) L’emergenza di una eterogenea corrente chiamata NewHistoricism, e alcune implicazioni per la storiografia.

d) Scritti e dibattiti intorno al problema del rapporto trafilosofia e poesia, quindi concernenti l’antica diafora;

e) Alcune proposte e conclusioni.47

2. Di Hermes

Il modello critico per mezzo del quale ci addentreremoin questi territori, questi topoi, è predicato sull’assunto(magari da rivedere alla fine, e durante la discussione),che non si dà teoria senza metodo, e non c’è metodologiao strategia dimostrativa-espositiva che non celi, e non puòfar meno di, una teoria. Detto altrimenti, prendo il termi-ne TEORIA come l’insieme dei presupposti ontologici chenel dare coerenza essenziale a un enunciato (a una filo-sofia), riflettono le fondazioni metafisiche di un dato di-scorso interpretativo. Scopriremo infatti che la teoria si

47 Sulla medesima frequenza d’onda, si vedano i miei interventi, «Ma-linconia bianca: L’intermundium di Yale» e “Paul de Man e la fine/ifini della critica,” (Carravetta 1984 e 1995 rispettivamente), e uno stu-dio attualmente in progress sullo slittamento e in alcuni casi rotturadei paradigmi di fondo nell’antropologia culturale e l’etnografia

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collega a ciò che (una volta) si chiamava ideologia,48 oche comunque il suo denominatore comune implica unparticolare uso del linguaggio (utilizzo delle parole), unasua retoricità,49 infatti, la quale a sua volta può quindiessere, semanticamente esplicita o implicita. Deve, insom-ma, essere “spiegata”, col che si ricorda la dimensioneermeneutica di fondo. Con il termine METODO, d’altraparte, designo l’insieme di tecniche e procedure che per-mettono l’estensione, semanticamente e logicamente co-erente, di referenti (concettuali e sociali a un tempo) chechiamiamo epistemi o, detto altrimenti, il metodo è l’ap-parato epistemologico che realizza e legittima il sapere.Questa connessione ha assunto diverse forme storicamen-te, ma è ineliminabile. Essa non va intesa come un nuovotipo di Grund, quanto piuttosto come una dinamica, unaenergia, e una condizione possibilitante al darsi medesi-mo del linguaggio. E` sottinteso che lo schema, comples-sissimo, non può non assumere, in questo contesto, cheuna formulazione euristica se non addirittura didattica.Diversi aspetti verranno ampliati strada facendo. Per ilmomento, il luogo di incontro tra teoria e metodo corri-sponde per noi alla prassi retorico-ermeneutica di qualsi-asi discorso su o intorno a qualcos’altro e generalmentedi pubblico dominio. Hermes sarà sempre colui in-between, tra emittente e ricevente, tra critico e i suoi col-leghi e studenti, tra un punto di vista (intenzione) e l’in-sieme delle altre prospettive co-esistenti nella società

48 Nel senso globale e stratificato al tempo stesso, cioè tenendo contodella dinamica complessità della nozione di ideologia. Ferruccio Ros-si-Landi enuclea e descrive tredici distinti sensi dell’ideologia nel suoIdeologia del 1982.49 Sul complesso ma ineradicabile interconnessione tra retorica, ideo-logia e dialettica, si vedano le illuminanti riflessioni di Paolo Valesioin Ascoltare il silenzio, cit., pp.:109-204, su cui si ritornerà in manie-ra dettagliata nel terzo capitolo del presente lavoro.

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(estenzione) e co-possibilitanti al suo essere inteso (in-terpretazione, la storia).50

Si vedrà che l’ambito culturale americano degli ultimivent’anni offre diverse conferme che il modello schizzatoè valido e fruttuoso per intendere la letteratura e la cultu-ra, ma al tempo stesso anche diversi spunti per una futu-ra elaborazione e programma di marcia.

3. Del fare teoria

Nel loro polemico intervento del 1982, “Against Theo-ry”,51 Knapp e Michaels sferrano un attacco a quasi tuttele maggiori scuole critiche che si costruiscono e dispon-gono di una ontologia generale di base, ossia di una teoriapraticamente onnicomprensiva che viene prima dell’at-

50 Non si privilegia, nelle pagine che seguono, l’orizzonte psicologico enon si tratterà delle scuole e delle correnti psicoanalitiche, anche sequeste modalità di interpretare sono cruciali all’analisi della soggetti-vità interpretativa e le connessioni con le teorie del linguaggio e dellaretorica. Si veda, per esempio, Vincent Crapanzano, Hermes’ Dilem-ma and Hamlet’s Desire; On the Epistemology of Interpretation,1992, che sottolinea la componente autobiografica e la caratteristicadi intellettuale viandante (onde l’immagine di Hermes del titolo) ne-gli scritti dell’antropologia e dell’etnografia più recenti, colti sempretra differenti mondi linguistici e culturali. Nel mio lavoro ho inveceprivilegiato l’aspetto culturale, l’esteriorità concreta e storica del fattolinguistico, della retorica della persuasione, insomma, ripensata comediaforistica. Per una proposta che sviluppa la crucialità della compo-nente esistenziale/circostanziale del discorso interpretativo, sottoli-neandone la dimensione retorico-affettivo-figurale, mi sia concesso dirimandare al mio Prefaces to the Diaphora; Rhetorics, Allegory, andthe Interpretation of Postmodernity, 1991.51 Ora in W.J.T.Mitchell (a cura di), Against Theory; Literary Studiesand the New Pragmatism, 1985. Questo libro raccoglie vari interven-ti di una polemica tenutasi per diversi fascicoli della rivista CriticalInquiry tra il 1982 e il 1985.

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tuale messa in opera della critica, del suo manifestarsi.Prendendo in esame la tematica del rapporto tra signifi-cato e intenzione autoriale, i due giovani professori isola-no delle aporie nella teoria generale di Hirsch, Jr.52 Essiritengono che l’intenzione critica si dà simultaneamentecon il suo significato. Una teoria veramente coerente conle sue premesse si preoccupa principalmente di dimo-strare che senza la teoria la cosa, l’interpretazione, l’espe-rienza, non ha senso. Ma appena si scopre che in questasituazione non ci sono scelte veramente teoriche da fare,allora ci si chiede: a che serve la teoria? Se non a farcicredere che possiamo scegliere tra metodi interpretativialternativi (ib. 18). L’intenzione non è qualcosa che si de-cide di accendere o spegnere a volontà. Essa esiste nelsuo manifestarsi. Se io decido che un determinato testo èda considerare letteratura, ho gettato l’ancora per unreferente concettuale generale che informerà ogni stadiosuccessivo: non ho cambiato niente di interiore o intrin-seco al testo in questione (il quale rivendica - e ne rispet-to cosî - la sua alterità, inviolabilità, o autonomia), quindi

52 Il testo sullo sfondo è E.D.Hirsch, Jr., Validity in Interpretation(New Haven: Yale Univ. Press, 1967). Si veda la risposta di Hirsch allacritica di Knapp and Michaels nel citato Mitchell, Against Theory,pp. 48-52. In generale Hirsch chiarisce punti concordi — per esempio,che non si dà significato senza intenzione —, ma ribadisce l’esigenza,nel fare critica, di operare delle distinzioni (si direbbe di metodo!) tra,per esempio, i diversi momenti temporali dell’intenzione (per esem-pio, ciò che l’autore dice di intendere, e cosa effettivamente intendenel fare o rifare la sua opera anni dopo), praticamente difendendo unprocesso fenomenologico all’interno dell’ermeneutica. Oppure con ri-ferimento alla distinzione tra l’antiteoresi ontologica propugnata daKnapp e Michaels, e la sua retorica anti-ontologica, la quale considerail significato un fatto ipotetico o stipulato, una scelta discorsiva (ergosociale e dunque storico-contestuale) e non un’entità ontologica. Siintravede anche la distanza dalle posizioni della decostruzione, all’epocaancora particolarmente attiva nelle università.

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non sono intervenuto nel o sul testo (non ho contribuitoalla sua intenzione, insomma), ma solo su ciò che si dicedel testo e che circola in una data società o comunità (oassociazione professionale, ecc.) come un sapere autore-vole e autorizzante. Vediamo da vicino. Nel finire il sag-gio, Michaels e Knapp osservano che:

Finora il nostro argomento riguardava quelloche potremmo chiamare il lato ontologicodella teoria, ossia le sue particolari asserzionisulla natura del suo oggetto. Abbiamo sugge-rito che queste asserzioni prendono semprela forma di generatore di differenze là dove ineffetti non ce ne sono, immaginandosi unmodo di linguaggio scevro di intenzione —senza, cioè, di quello che lo rende linguaggioe distinguendolo dunque dagli accidenti o ru-mori meccanici e segni vari. Ma abbiamo an-che tentato di dimostrare come questo stranoprogetto ontologico è più di una spontaneaanomalia, poiché essa è infatti al servizio diun obiettivo epistemologico. Quell’obiettivo èl’obiettico del metodo, il governare la praticainterpretativa per via di una narrazione piùampia e sistematica. Infatti, le controversiateoretiche della tradizione Anglo-Americanaha molto più spesso preso forma di argomentisulla situazione epistemologica dell’interpre-te, che di argomenti sullo statuto ontologicodel testo. Se il progetto ontologico della teoriariguardava l’immaginarsi una condizione dellinguaggio che precede l’intenzione, il suoprogetto epistemologico riguardava l’immagi-narsi una condizione di sapere che precedel’interpretazione. (Mitchell 24-25)

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Il critico entra nel dibattito scoprendo che la spazio in-termedio tra teoria e metodo, tra generalità necessaria-mente astrattizzanti e specificità ripetitiva e codificata, èabitato da diverse ipotesi di interpretazione e comporta-mento. Posto che la teoria nel senso puro non può esiste-re, posto che una teoria non può avere una validità scolla-ta da un contesto concreto e politico, il dibattito in uncerto senso si trasforma sulla difesa della teoria, sulla suanecessità proprio quando scopre i suoi limiti.

La proposta trova aderenti ma anche critiche. Oltre aquella menzionata di Hirsch, c’è l’osservazione di Jona-than Crewe secondo la quale l’argomento di “AgainstTheory” pone una insormontabile distinzione di fondo trateoria e pratica, in certo senso semplificando eccessiva-mente, e perdendo di vista il fatto che qualora la teoriaerrasse nelle sue premesse, essa nasce proprio nell’erra-re (Mitchell 57). In più, si addita il problema (squisita-mente metateoretico e grammatologico) dei paradossi chesi creano quando si vuole effettuare una critica alla teoriae lo si deve fare... teoricamente. Come Crewe, ancheSteven Mailloux, nel suo intervento “Truth or Consequen-ces: On Being Against Theory” (pp. 65-79), richiama l’at-tenzione sulla contradditorietà di schierarsi polemicamen-te contro le distinzioni logiche o formali (anche se a tuttigli effetti “non-reali”) tra pratica e teoria, ma tramite unaanti-teoresi costruita con le stesse distinzioni che condan-na. Scrive Mailloux: “Like all theoretical discourse, “AgainstTheory” separates the inseparable — theory from practice— in order to prescribe practice — the abandonment oftheory” (p. 71). In “Theory of `Against Theory’” (pp. 80-88), Adena Rosmarin si sofferma sulla storia della separa-zione -- teoricamente necessaria, si potrebbe aggiungere— tra intenzione e linguaggio, o tra sapere e credenza, eaccusa Knapp e Michaels di scarsa conoscenza degli svi-luppi di queste postazioni, la quali rientrano nella conce-

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zione occidentale della rappresentazione. I due giovanicritici, insomma, avrebbero eletto a oggetto di discussio-ne una nozione di teoria fortemente riduttiva e determi-nistica, da cattivo kantiano del XIX secolo (p. 82). La po-lemica avalla una idea di teoria implicitamente costrit-tiva,53 mentre per Rosmarin la “vecchia” teoria della co-noscenza fondata sull’idea di rappresentazione offre mol-te altre possibilità di enunciazione, alcune tra le quali nonseparano affatto esperienza e unità formali di espressio-ne (per esempio Fish), né necessariamente “aggiungono”l’intenzionalità al significato di un testo (sarebbe un’ac-cusa rivolta a Hirsch e Juhl54 , interpreti marcati da unnichilismo “positivo”), o la “rimuovono” per garantirne l’as-soluta autonomia e fonte delle proprie letture (accusacontro Paul de Man, che sarebbe dunque un critico“nichilista negativo”). Benché non si tacciano Knapp eMichaels di fare dell’anti-ideologismo scopertamente ide-ologico — come farà qualche anno dopo il citato Bové e lacritica della sinistra —, si raccomanda loro per esempiouna lettura di Rorty in merito alla componente linguisti-ca dell’epistemologia della critica,55 e maggior attenzionealla eterogeneità delle teorie, alla loro natura contestata-ria, al loro essere non altro che “dei modi”56 implicita-

53 Si veda la critica, impostata su argomentazioni heideggeriane, del-l’intero “progetto” della polemica contro la teoria in Paul Bové, In TheWake of Theory , 1992:8-12 et infra.54 Di P.D. Juhl si veda l’importante Interpretation del 1980.55 Il riferimento è a Richard Rorty, Philosophy and the Mirror of Na-ture,1979, molto discusso proprio in quegli anni. L’intervento di Rortyal dibattito, “Philosophy without Principles” (pp. 132-138), reitira, d’ac-cordo con Mailloux, che la teoria si istanzia anche come formediscorsiva persuasiva, che mira a far cambiar nei suoi lettori la loroconcezione dei testi e del mondo.56 "All we need do is recognize this way of doing theory as just that —a way” (p. 88). E‘ da notare come il fare teoria tenda anche spontane-amente a coincidere con il suo metodo, nel senso che “way” richiama

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mente “pratici” di “fare teoria”, tutto sommato fruttuoso einteressante.

Levando lo sguardo momentaneamente dai dettagli spe-cifici della polemica, si nota comunque in quasi tutti que-sti critici un certo fastidio, una “resistenza” alle proposte(e/o imposizioni) della Teoria, ma anche l’esigenza e lavolontà di ricondurre il discorso della critica, l’atto stessodell’interpetrare, sul terreno del sociale e dell’ermeneu-tica, sulla sua validità politica ed euristica.57 Ma prima divolgere a questo aspetto, ci interessa sottolineare l’accen-to, evidente in tutti i saggi menzionati, sulla costituzionedel significato di un testo a partire dalla sua interpretazio-ne, o meglio, dall’effettivo numero di interpretazioni cheentrano nel giro di una comunità e che interreagisconocon tutte le susseguenti interpretazioni di un dato testo.Abbiamo qui la conferma della crucialità della comunitàdi lettori come origine e fine dell’ermeneutica secondoFish.58

l’etimo della parola methodus, da meta e hodos, “per” e “in mezzo” alla“via”. Per una dettagliata analisi del rapporto critico-figurativo tra teo-ria e metodo si veda il primo capitolo.57 La discussione creò le premesse per un altro incontro alcuni annisuccessivi, condotto sulle pagine della stessa rivista, su “The Politicsof Interpretation.” Teniamo presente che nei medesimi anni si rianimaparallelemente il dibattito su cosa è il postmodernismo, sulla influen-za del decostruzionismo nelle università, e si assiste a una revisioneinterna della sinistra. Nascono riviste che polarizzano i dibattiti, comeRepresentations, The New Criterion, Cultural Critique, Public Culturee altre, e si comincia a captare una tendenza conservatrice nell’interacomunità intellettuale, si direbbe nell’intero paese.58 Si veda di Stanley Fish, Is There a Text in This Class?, 1980, inparticolare i capitoli 13-16. L’ultimo capitolo, “Demonstration vs.Persuasion: Two Models of Critical Activity”, segnala e ridisegna loscontro tra metodo e retorica, tra il sapere filosofico in senso stretto ela discorsività come motore della storia. L’intervento di Fish al dibatti-to, “Consequences”, uscito nel 1985 su Critical Inquiry, è reperibileadesso in Mitchell 106-131.

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4. Dell’erranza

Per Stanely Fish, fare teoria è impossibile. Il che vuoldire che una ermeneutica generale è irrealizzabile, oppu-re si costruisce in base a grosse riduzioni concettuali e invista di un metodo che dà sempre, prevedibilmente, ri-sultati validi e corretti. Contro lo Hirsch di Validity inInterpretation, Fish sostiene che al massimo si dà una“ermeneutica locale” ossia un giudizio particolare basatosu questi e non questi altri dati, in questa e non altra cir-costanza, ecc. La sua nozione della costruzione del sensoin base al connubio tra credenza collettiva e dimostrazio-ne empirica tuttavia relativa a casi specifici è nota. PerFish esiste una pratica scrittoria storicamente e circostan-zialmente marcata, ma mai generale abbastanza da po-terne isolare elementi e modelli indipendentamente dal-l’oggetto o fenomeno da analizzare: “Il sapere linguisticonon è astratto ma contestuale, locale anziché generale,dinamico anziché invariabile; ogni regola è orientativa(“rule of thumb”); ogni grammatica di competenza è unagrammatica di performance travestita” (in Mitchell 111).

La posizione di Fish è stata molto dibattuta. Ricongiun-gendo il sapere critico, che si fonda inequivocabilmentesu dei presupposti,59 alla irriducibilità della credenza inquel sapere e in quella data circostanza di lettura (o rice-zione), Fish evita lo scetticismo della regressione — an-che il dubbio radicale è fondante: “...doubting is notsomething one does outside the assumptions that enableone’s consciousness...one does not doubt in a vacuum butfrom a perspective, and that perspective is itself immuneto doubt until it has been replaced by another which willthen be similarly immune. The project of radical doubt

59 Si veda Is There a Text in This Class?, cit., pp. 303-321, 356-361 etinfra.

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can never outrun the necessity of being situated; in orderto doubt of everything, including the ground one standson, one must stand somewhere else, and that somewhereelse will then be the ground on which one stands.” 60 Sot-tolineo alcuni fatti. Si rivendica l’importanza o megliol’inevitabilità della coscienza, in senso lato, ma comun-que in maniera da poter dialogare sia con la psicoanalisisia con la fenomenologia e sia con la dialettica della lottadi classe. Si contesta la possibilità al dubbio radicalecartesiano di porsi in un “qualche dove” (“somewhere”) aldi là e al di sopra, indipendentemente e autonomamentedal fatto concreto del significato che emerge durante l’in-terpretazione. In questo senso la teoria di Fish si alleaalle critiche della metafisica praticata dai ContinentalPhilosophers, come pure alle critiche della scienza e del-lo scientismo praticato nelle Human Sciences e nella in-terpretazione delle letteratura in particolare. Infine, essasi predispone a un maggior utilizzo politico e pragmaticodell’interpretazione perché se quest’ultima esiste prima-riamente come un sapere linguistico di cui un certo nu-mero di persone ha sancito la legittimità sociale e profes-sionale, discutendoloe, sottoscrivendolo o magari distrug-gendolo, ma in ogni caso contesto possibilitante, genera-tore dell’intellezione medesima. In questo senso, la suateoria è in sintonia sia con Stanley Rosen, che con RichardRorty, ma anche, per la sua predisponibilità ad accoglierela contingenza, addirittura materiale, del fatto interpre-tativo, alla politica della cultura nel senso di Jameson. Laletteratura “is in the reader” e bisogna partire da li, dalsuo emergere, dalla sua circostanza, fermo restando cheil critico non può presupporre di starsene avulso dal rap-porto.

60 Ibid., p. 360.

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5. Il problema della storia e il “New Historicism”

La soggettività, lo si può dire senza doverlo dimostrareancora una volta, è di certo una delle vittime della esplo-sione e crisi della teoria critica. Quando viene meno lateoria generale, viene a mancare il Grund a nozioniultrametafisiche come soggetto, identità, significato, sca-la di valori. Questo ci può tuttavia fornire lo spunto perpassare ad un altro e necessariamente connesso proble-ma. Questo riguarda la linguisticità dell’essere, o se vole-te, l’aspetto discorsivo della rappresenzatione. Nel 1980,Stephen Greenblatt pubblica Renaissance Self-Fashion-ing: From More to Shakespeare, in cui osserva che “lacostruzione di/del sé e l’essere costruiti dalle istituzioniculturali (come la famiglia, la religione, lo stato) si ritro-vano inseparabilmente intrecciati,” e che non esistonomomenti di “pura, sbrigliata soggettività: tutt’altro, il sog-getto umano incominciò a sembrarmi incredibilmente“non libero [unfree],” il risultato ideologico dei rapportidi potere in una data società.” La “poetica della cultura”di cui Greenblatt fu promotore mette il dico sulla piagaermeneutica: se l’idea del testo come autonomo e omo-geneo in tutti gli altri eventi testuali, posizione deidecostruttivisti, è falsa e illusoria, lo è anche quella deltesto autotelico. Influenzati da Michel Foucault, il cuipensiero si prestava alla rivalutazione interna della sini-stra, i teorici della critica della cultura — “CulturalCriticism” — riportano in vari modi la teoria a confron-tarsi con la sua rilevanza etica e politica. Per una serie dianaloghe preoccupazioni, dalla poetica della cultura sipassa facilmente al “New Historicism”, o nuovostoricismo. Negli States il Nuovo Storicismo ha connotatiparticolari, in gran parte connessi a quella che potrem-mo chiamare l’ultima sostenuta auto-rivalutazione dellasinistra di fronte al prorompere della destra reaganiana,

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da una parte, e l’ubriacatura strutturalista (il che equiva-le a dire l’eccessiva dipendenza dalle metodologie scien-tifiche) e post-strutturalista, dall’altra.

Il New Historicism è sensibile all’importanza dell’appro-priazione e dello scambio nei rapporti sociali e quindi du-rante la produzione di significato, ma non pone tassonomieo glossari specializzati o matrici epistemologiche. Nello scam-bio simbolico, per esempio, la transazione coinvolge soddi-sfazioni di piacere non quantificabili, o interessi nontraducibili in capitale finanziario (se non a costo di spropor-zionate mediazioni, o cattive ideologie!). Tuttavia resta lacreazione e circolazione del suo aspetto linguistico, non meramuta traccia, ma retorica intersoggettiva, pubblica.

Il dibattito intorno alle novità e lacune del New Historicismsi attaglia in ogni caso alla critica della modernità, ma nonsi comprende bene se esso rappresenta il passaggio o salto auna nozione di storicità genericamente postmoderna. Peresempio, se si pensa all’importanza che hanno avuto nozio-ni e dinamiche come prestigio, memoria, valore/valuta sim-bolica di scambio, creazione di frontiere e continua infra-zione di questi, produzione di complicati metalinguaggi egenerazione di indefinite fantasie o anarchie estetiche, siadduce che il declino della Modernità sembra irrevocabil-mente marcato e propulso da una energia che non si lasciacontenere, e di certo si lascia comprendere come filosofia ocritica solo a patto di una implicita rinuncia alla totalità eaccettazione dei limiti. Una teoria veramente contempora-nea, sostiene Greenblatt, non si colloca fuori dell’interpre-tazione, “ma nei luoghi nascosti della transazione [negotia-tion] e dello scambio”.61 Questa enfasi sulla messa in produ-

61 H. Aram Veeser (a cura di), The New Historicism, 1989, p. 13. E‘questo il testo principale cui si farà riferimento nel corso dell’esposi-zione.

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zione, sulle ramificazioni nei vari settori della società, sul-l’automatica presa di posizione ideologica una volta cheun testo circola tra determinati lettori, tutto ciò consenteal New Historicism di criticare alcuni presupposti teoricidel marxismo diventati ormai dogma, come la rigida ado-zione e impostazione del modello base/sovrastruttura.

Cruciale all’evolversi del New Historicism fu il lavorodi Edward Said, il quale, saldamente piantato in un credoetico — “la critica deve pensare se stessa come vitalizzante(“life-enhancing”) e costitutivamente contraria a qualsia-si forma di tirannia, dominazione e abuso; i suoi obiettivisociali sono il sapere non coercitivo prodotto nell’interes-se della libertà umana.”62 Said sviluppa ulteriormente latradizione marxista, allargandola a livello di storia delleidee (importanti suoi precursori sono Vico e Auerbach),esponendo i limiti della mera descrizione storica, che ri-schia di diventare feticismo delle tracce. Said addita inol-tre il problema e pericolo di una critica d’opposizione chemutua termini e modelli da un archivio la cui autorità èconnessa e/o complice del potere dello stato. Bisognaconfrontarsi con il linguaggio della critica, con il sensodel suo venire alla luce, e la possibilità stessa del poterfare critica come problemi d’interpretazioni di primariaimportanza. Lo stesso Jameson del resto, nella sua ampiateoria dell’inconscio politico,63 riserva molto spazio allaproblematica, sollevata e studiata primariamente in am-bito di ermeneutica, della storia effettiva delle interpreta-zioni medesime, che verranno infatti studiate con mag-gior coscienza politica. Infine, Said contribuisce notevol-mente alla presa di coscienza degli aspetti non soloepistemologici e d ontologici del nostro essere Eurologo-centrici, cioè non solo la Teoria, ma anche la pratica, la

62Edward Said, The World, The Text, The Critic, 1982, p. 29.63Frederic Jameson, The Political Unconscious, 1981.

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effettiva realtà storica, le conseguenze diciamo, del pensaresecondo le categorie e i metodi dell’europa moderna in par-ticolare. I suoi studi sulla “costruzione” dell’orientalismo sonoormai esemplari. In un altro mio lavoro, cerco di sviluppareun simile modello per comprendere sotto diversa luce laquestione della relativa assenza e invisibilità, degli emigrantidalla cultura nazionale italiana. Dall’altra parte dell’oceano,un approccio simile si può sfruttare per comprendere comemai nelle storie della letteratura americana non compaionoautori con cognomi italiani... eppure ce ne sono stati. Marimandiamo ad altra sede questa debacle.

6. Critica minore

Ciò spiana la strada per passare a due altri interessan-tissimi ambiti di dibattito questi ultimi anni, e cioé la cri-tica “minore” che (si) focalizza sul problema del razzismo,del femminismo, e l’etnocentrismo, e la critica pedagogi-ca, cioè quei discorsi focalizzati sullo statuto e ruole delcanone, dell’idea di storia letteraria nazionale, sui proble-mi del pluralismo e del multiculturalismo. Tutto ciò do-vrà rimanere sullo sfondo per il resto di questo discorso,ma la sua presenza sarà importante per meglio contestua-lizzare. Questo problema in particolare è stato oggetto didiversi interventi di critici di colore, i quali negli ultimianni vengono riconosciuti come costituenti un ambitoparticolare di ricerche — Black Aesthetics (cf. Leitch 332-365), Afro-American Criticism — e tra i cui leaders trovia-mo Cornell West e Henry Luois Gates, Jr. Cornell West,per esempio, nella sua particolare elaborazione del mar-xismo64 annette l’utilizzo di investigazione genealogiche

64 Basata su: classe (prestigio), esclusività (economismo), oppressione(nazionalismo), e razzismo (specificità del problema).

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sulle condizioni discorsive che permettono a una logicasuprematista di diventare egemonica, e loro capacità difornire spunti di discorso controegemonici; l’utilizzo dianalizi microscopiche dei meccanismi che sostengono eriproducono questi saperi e queste logiche di inclusione/esclusione nella scambio di valori e di soggetti, nei pre-giudizi morali come nei gusti estetici, nelle identità ses-suali come nella trasfigurazione tecnologica; infine unapproccio macrostrutturale che riveli forze globali di sfrut-tamento e repressione. Si intravedono alcune caratteristi-che di questo approccio: esso si situa tra gli estremi polidi filosofia poesia. La critica neostoricista americana nonsi appoggia su grandi valori e immutabili filosofici, prefe-rendo esaminare le manifestazioni parziali e corcoscrittedi determinate forme discorsive; ma allo stesso tempo siastiene dall’accessiva poeticizzazione del referente, la suaindecidibilità decostruttiva, la scettica reductio all’assur-do. Ci sarebbe da menzionare a questo punto che il NewHistoricism ha preso sul serio gli sviluppi critici all’inter-no dell’antropologia culturale, e dell’etnografia in parti-colare. Poiché più che descrizione istanziata e indiziata dimicrofenomeni nello stile degli Annali, bisogna pensarealla “thick description” etnografica, alla caratterizzazio-ne, DE-LIMITANTE ma in-aggirabile, dell’altro come ter-zo escluso. Non l’altro come Tu (o alter-ego), ma l’altrocome terzo persona, come idealità sociale e civile. L’occi-dente ha sviluppato una logica di esclusione, di guerracontro il terzo (cfr Serres), oppure una sua trasfigurazioneideale a tutti gli effetti ridicola e bugiarda (il platonismodell’illuminismo, del razionalismo il pià empirico) (cf.Vattimo, etc.).

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7. Dell’antica diafora

Intorno alla metà degli anni ottanta si va affinendo unasensibilità critica nei riguardi di due aree tradizionalmentetenute a incomunicabile distanza: la filosofia e la poesia.Critici e letterati che erano andati oltre l’infarinatura discientismo che ne aveva fatti di strutturalisti, approdaro-no alla cosiddetta “Continental Philosophy” — il che vuoldire al pensiero tedesco degli ultimi due secoli, e quellofrancese da Cartesio in poi —e furono costretti ad espan-dere i loro orizzonti. Alcuni rimisero l’intera loro attivitàin questione, come sappiamo dalla prima ondata didecostruttivisti (cf. il mio Postmoderno e Letteratura,1984). Non mancarono coloro i quali anche in ambito gal-lo-derridiano, preferirono starsene entro i pur sempreampii dominii dell’idealismo tedesco, o del pensiero anti-metafisico inaugurato da Nietzsche e Heidegger. Da parteloro, i filosofi continentali presero i loro autori alla lette-ra, e incominciarono a riflettere sulla poesia, sull’esteti-ca, sul farsi dell’opera, insomma, scoprirono che i lorocolleghi nei vari dipartimenti delle varie letterature forseerano a contatto di una forma di sapere che la filosofiapareva avesse perduto e da sempre anelava a ritrovarla.

Sin dal 1975, infatti, la International Association forPhilosophy and Literature (IAPL), organizza convegniannuali di tre giorni in varie città americane dove lettera-ti e filosofi di professione si incontrano per dibattere varitemi. Nell’introdurre la prima grossa raccolta sull’argo-mento, derivata appunto da una congresso IAPL, DonaldMarshall osserva che il motivo per cui tale problematicaviene (o ritorna) a galla nel dibattito odierno è dovutoalla famosa svolta” linguistica in filosofia teorizzata daRorty e facente riferimento sia a Heidegger che aWittgenstein, e sia naturalmente alla linguistica. Ma inparte è dovuta anche al riaffermarsi di una letteratura

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molto densa, linguisticamente spessa e molteplice, econcettualmente rigorosa: basti pensare ai capolavorimodernisti di un Joyce, di un Artaud, di Wallace Stevens,di Borges, insomma la poesia si è appropriate di tecnichee di linguaggi di stretta provenienza filosofica, costringen-do a ripensare al connubio di Mercurio e Filologia. E tut-tavia, anche a volerlo “amichevole” (“I would prefer tothink of the relation as one of long and deep friendship,”p. viii), il rapporto è teso e conflittuale: tra ratio e oratio ilfrutto va colto al momento giusto, e l’equilibrio si deveriassettare. Non che il curatore non avesse inoltre osser-vato che tutto sommato, malgrado la poesia fosse banditadalla repubblica ideale, Platone ne ammette quellaelegiaca per cantare uomini e dei; ne ammette l’utilizzo(tropologico si potrebbe dire) quando il monarca pronun-cia nobili bugie; e lui stesso si esprime per mezzo di favo-le e di allegorie per mediare tra le anime dei suoi ascolta-tori e le intuizioni o visioni verso cui vuole portarli. Mal-grado la sua condanna dell’interpretazione allegorica, imiti s’instaurano come insiemi discorsivi che tendono astabilire una gamma di significati. Ma il punto è un altro.Si profila la componente intermediaria tra le due formepure di discorso, e questo zwischen è la provincia dellavita sociale, del discorso tra gli esseri. Qui le ricerche di-vergono. Ci si può inoltrare verso analisi ontologiche elinguistiche minuziose, come per esmepio fa StephenWatson in un articolo intitolato “The Philosopher’s Text,”(Marshall 40-66), dove mette in risalto l’esigenza, diversa-mente espletata dai vari filosofi, di contenere e definire ilproprio linguaggio, in certo senso mostrandoci anchecome all’organizzazione di un metodo di ricerca corrispon-da una precisa impostazione retorica, oltre ovviamente aun meta-linguaggio o lemmario specifico accreditato oautorizzato in una comunità. Suresh Raval, in “Philosophyand Contemporary Theory” (Marshall 135-151) osserva che

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oggi siamo alla fine dell’epoca in cui l’epistemologia ave-va scalzato la metafisica e poteva parlare sicura e certa disé: l’ermeneutica dell’indeterminatezza ha spodestato ilpensiero scientifico nelle scienze umane, e riproposto laquestione della contestualità sociale e della storia.

In Consequences of Pragmatism (155) Rorty aveva os-servato che la poesia o la letteratura non può dimostraredi essere “superiore” alla filosofia perché sarebbe comedifendere la scienza galileiana con l’autorità della Bibbiao l’idealismo trascendentale sulla base di ricerche fisiolo-giche. Nel suo saggio “Philosophy and Poetry: The NewRapprochment,” (Marshall 120-34) Carl Rapp correttamen-te ne adduce che in effetti la critica non può dimostrareche la letteratura sia superiore o più veritiera o addirittu-ra “potente” della filosofia perché a tutti gli effetti le man-cano gli strumenti per tale prova, anzi, sarebbe un con-trosenso, in quanto dimostrare logicamente, deduttiva-mente, è proprio ciò che viene messo in questione. Lacritica deve quindi abbandonare la pretesa di rigore filoso-fico — ci si ricordi, per esempio, del modello neo-aristo-telico della scuola di Chicago, o del sistema di N. Frye —e al posto di dimostrare, dovrà “mostrare,” diventando“poetically playful” (Rapp 130). Viene in mente qui l’esem-pio di Geoffrey Hartman, il quale si tuffa nei marosi derri-diani di Glas con suo Salvare il testo (vedi sotto cap. quat-tro), anche se poi ritorna all’intervento saggistico nei suoiultimi lavori. Ancora più indicativo di questa esigenza diabbandonare le strettoie del metodo deduttivo e dimo-strativo (del resto preferito, almeno nella sua corrispon-dente veste retorica, dalle pubblicazioni ufficiali, quali laPMLA, che insiste sulla tradizione di “expository writing”molto lineare e geometrica) per avvicinarsi, accostarsi,incontrarsi con il poetico, con la possibilità della “criticacreativa,” sono poststrutturalisti della seconda generazio-ne, come Gregory Ulmer, e Alphonso Lingis. Ma non è

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una tipologia o elenco bibliografico che voglia proporvi,quanto il fatto che l’argomento è stato sollevato del tutto.Non è il più dibattuto problema nell’orizzonte nordame-ricano, ma comunque è preso sul serio.

Infatti, nel 1987 esce una altra antologia dedicata all’ar-gomento, Philosophy and the Question of Literature cu-rata da Anthony Cascardi e contenente saggi di CharlerAltieri, Arthur Danto, David Halliburton, Stanely Rosene altri. Tra le caratteristiche di rilievo, l’impossibilità, daparte della filosofia, di produrre una coerente teoria del-le differenze o della differenza che la separa e distinguedalla poesia. Come dimostra Peter McCormick nel suointervento, “Philosophical Discourse and Fictional Texts”(Cascardi 59-74), non ci sono teorie linguistiche appro-priate che ci permettano di distinguere tra un testo filoso-fico e un testo di fiction. La teoria degli enunciati verbali,anche con l’appello a una loi du genre, non ri-conoscedifferenza di fondo alcuna tra i due testi. Si esplora quin-di la terra vergine dell’aspetto testuale della filosofia, cioèlo si può analizzare con gli strumenti che i critici tipica-mente utilizzano per leggere la poesia! Quando si arrivaall’intervento di Stanely Rosen, “The Limits of Interpre-tation,” (Cascardi 213-41) ci imbattiamo nel muro del para-dosso: rievocando simili situazioni in Hegel e Wittgenstein,è impossibile entrare nel regno dell’assoluto ignorando ilmetodo o mezzo per accedervi. La pretesa di poter deli-berare con certezza su tutto, tipica della filosofia nellesue euforiche impennate da Descartes a Husserl, vienemeno: il discorso è circolare e cercare il metodo di tutti imetodi per creare i presupposti di giudizio per un ulterio-re metodo d’indagine diventa un obiettivo chimerico: seviene meno il metodo, però, viene meno anche la teoria...edi fatto Rosen scrive: “[today] a theory of interpretation isimpossible” (214), poiché non è data forma permanentené della lettura né della scrittura: ciò che abbiamo è solo

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la infrastruttura del lettore e dello scrittore. “Leggere escrivere confermano l’epigramma Nietzscheano secondocui l’uomo è un progetto incompiuto. Ma questa è preci-samente la natura umana, quella di essere incompiuta equindi di esistere solo parzialmente come l’animale pen-sante o teorizzante, l’animale alla ricerca della comple-tezza.” (215) Ma nell’epoca in cui l’essere viene percepitosolo come testo, e la natura umana ridotta a una teoriaontologica già da sempre non-finita, il senso di leggere edi scrivere svanisce. Ma l’essere non è un testo: esso simanifesta in qualche modo attraverso il testo, e dopo. Ladomanda, infatti, ricade nell’essenzialismo, mentre la te-oria deve oggi lasciarsi guidare dalla pratica (non dalmetodo, ricordiamoci, non dall’insieme pre-esistente dispostamenti semici e concettuali), cioè dall’emergere esdipanarsi in una comunità di parlanti di una formadiscorsiva, di una retorica, che ottiene un determinatoeffetto, che incide e inculca in tale e tale maniera. Di que-sto possiamo essere certi, però, e passando ad altri testidi questi ultimi anni, che la teoria non può limitarsi a untesto solo, un unico fenomeno microscopico, ma deveincludere nella sua messa in pratica discorsiva la rifles-sione o autoconsapevolezza della propria linguisticità, omeglio, della propria retorica. Altrimenti si ricade nellalogica delle teorie forti, assiomatiche e quindi riduttive ecostrittive.

Il pregiudizio contro la poesia è risaputo, ed è antico,anzi immemoriale in quanto già Platone parla di una “an-tico dissidio” (Repubblica, Libro 10:). Quasi tutti gli autoridelle due antologie in un modo o nell’altro avviano il lorodiscorso riesumando questa figura (Carl Rapp: “From Platoon, the complaint, when it has been made at all, has alwaysbeen more or less the same: poetry, when it seeks to bemore than a pleasing diversion, is mythmaking; and myth,however much it appeals to the imagination, is ultiamtely

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erroneous and misleading” (Marshall 121); Interessantequesta osservazione di Rapp: “Indeed, one way tocharacterize the history of Western culture would be tosay that in the course of that history philosophy has soughtto purify itself by divesting itself as much as possible ofthe trappings of poetry, while poetry, especially in recenttimes, has likewise sought to identify itself and even justifyitself by becoming increasingly independent of philo-sophy” (Marshall 121); osservo che, con un linguaggio di-verso e molto più tecnico, la medesima osservazione fufatta da Luciano Anceschi negli anni trenta e costituiscela figura critica-operativa del suo Autonomia ed etero-nomia dell’arte)

5. Il testo della filosofia

Claudia Brodsky, “Knowledge and Narrative in Kant’sLogic” (Marshall 185-204) osserva che persino in Kant, seuno riesce a leggerlo in un certo modo, si rileva che l’atti-vità di pensare nel linguaggio è definita propriamente fi-losofia (188), rispetto alle forme della ragione realizzateattraverso l’intuizione, come la matematica. In effetti sco-priamo che, anche per il filosofo di Königsberg (lo si leg-ge nella Prima Critica) i concetti della matematica sonodati come esistenti “a priori”, senza l’avallo dell’esperien-za, mentre quelli della filosofia, che sono essenzialmentedelle rappresentazioni dell’esperienza, sono costruiti “aposteriori” e quindi connessi con le percezioni empirichedel pensiero. Abbiamo quindi scoperto una strada perarrivare dentro l’arcigna architettura del pensiero secon-do Kant. Il problema, ci si ricorderà, era in parte quello difissare dei principi a una filosofia critica in maniera chele sue rappresentazioni potessero accogliere sia le formeintuitive a priori, sia quelle riguardanti questioni di feno-

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meni che si danno solo attraverso l’esperienza. L’eteroge-neità epistemologica che contraddistingue in definitivatutta la filosofia è chiamata da Kant “discorso” come silegge nella Logica, Intr. Parte V, pg. 30. E’ interessantenotare che nella serie di possibili distinzioni di base perinquadrare le due diverse forme della conoscenza, cioè,fra sensibilità e intelletto, per la logica la prima dà intui-zioni, la seconda concetti; per la metafisica, la prima èuna facoltà recettiva, la seconda è spontanea; per la mo-rale, la prima è inferiore alla seconda: “la sensibilità nondà che il mero materiale per il pensiero, mentre l’intellet-to dispone di questo materiale e lo mette sotto regole oconcetti.” E qui una prima osservazione che non sfuggealla Brodsky: “Sulla differenza suddetta fra conoscenzeintutive e conoscenze discorsive, ovvero fra intuizioni econcetti, si fonda la diversità fra la perfezione estetica e laperfezione logica della conoscenza” (pg 30). Qualcuno viriconoscerà l’archetipo dell’estetica crociana! Si vedrà cheKant stesso lascia la porta aperta a diversi modi distoricizzare la filosofia e quindi la critica, addirittura ren-dendola passibile di ermeneutico apprendimento. All’ini-zio dell’ottavo capitolo della Logica, leggiamo, infatti: “Laconoscenza umana è, dalla parte dell’intelletto, discorsiva;cioè ha luogo per mezzo di rappresentazioni che fanno diciò che è comune a più cose un fondamento conoscitivo:ha luogo, quindi, per mezzo di note in quanto tali. Noinon conosciamo dunque le cose che per mezzo di note[characteristics nella versione inglese, p. 64]; e ciò signifi-ca appunto Erkennen, che viene da Kennen.” [cog-noscere,che viene da noscere]. Tale situazione diventa palese an-che al di fuori della filsofia in senso stretto se solo ricor-diamo che per, sempre secondo Kant, le proposizioni fon-damentali sono o intuitive o discorsive. Le prime possonovenire presentate nell’intuizione e si dicono assiomi(axiomata); le seconde si lasciano esprimere solo mediante

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concetti e possono venire chiamate acroami (acroamata)”(Logica ‘ 21, p. 104). Acromata vuol dire recita, o discorso.

E’ evidente come il critico riesce, come dire, a “pescare”l’aspetto linguistico o discorsivo del fare filosofia, anzi,del fare critica (come voleva lo stesso Kant quando neiPrologomeni abbandona la parola “transcendentale” perutilizzare solamente la parola “critica”), e come in seguitoesplica la logica kantiana in termini della sua a-referen-zialità: le definizioni servono solo a chiarire il significatodi una parola, mentre le forme di discorso miste e nonintenzionalmente epistemologiche, anche se realistiche,sono delle finzioni...finzioni che a loro volta sono all’ori-gine del progetto della ragione, che mira a fermare, isola-re, edulcorare l’esperienza per tradurla in termini preci-si, cioè in parole, essendo il sapere discorsivo e ciò che siintende con una certa parola: was man unter einem Worteversteht.(ib. 202)

E tuttavia, nel riportare il discorso della critica a con-frontarsi con la sua essenziale e originante linguisticità —e questo neanche nei termini decostruttivisti, per esem-pio, di un Paul De Man, l’autrice consiglia che si riportil’enfasi sull’aspetto pubblico, politico, dialogico, indeter-minato.

7. Ancora sul fare teoria

La tematica dei limiti della teoria si surriscalda verso lametà degli anni ottanta e connota un preciso filone neldibattito degli ultimi dieci anni. Nel 1985 e poi di nuovonel 1986, Thomas Kavanagh organizza dei seminari al-l’Università del Colorado a Boulder, i cui atti diventano inseguito il volume antologico The Limits of Theory, e checomprende anche interventi dei francesi Rosset, Roussel,Serres, oltreché a Girard e Descombes. Il valore di alcune

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delle osservazioni fatte da Kavanagh ci consentirà anchedi sintetizzare l’argomento e volgere a una conclusionenecessariamente provvisoria.

La teoria è (ri)entrata come argomento, como topos, neldibattito accademico americano. Essa sappiamo ha avutoampia se pur contrastata fortuna. Si è parlato finanche diuna “egemonia” della teoria nelle scienze umane, nellaContinental Philosophy, nella critica letteraria post-strut-turalista. A vari convegni di anglistica, o comparatistica,o nel corso delle intensissime conferenze annuali patro-cinate dalla Modern Languages Association, nasconomovimenti e testi anti-teorici, severi nei confronti di im-pegni e credenze intellettuali flessibili e progressive. Maalcuni esiti di ampia risonanza tra discipline affini o pa-rallele si possono enucleare come figure di una erranzainterpretante, una forma di catalogo animato e preferibil-mente instabile. Ma ricordiamo che qui la parola limitedel sintagma “limiti della teoria” va presa nel senso mate-matico, di là del quale una entità o funzione cambia natu-ra, diventa qualcos’altro. Una crisi del pensiero teoretico,si potrebbe dire, lo consegna al suo limite, cioè al rischiodi diventare altro. Chissà, forse anche letteratura!

Dunque:1. Nella sua variante post-strutturalista, la teoria promet-

te libertà e gioco. Il testo non è visto come un archivioo ripostiglio di significati prefissi e ansiosi di lasciarsidecodificare dal lettore assiduo, ma come una mappa,un network, un mare di significanti tutti pronti aimmisurabili ricambi e smistamenti e insomma a daril senso di estrema libertà, giocosità, e qua e là oppor-tunismo. Aspetto negativo di questa situazione è chesi è creata una spontanea idolatria del testo, deltestualismo avant tout chose.

2. La teoria si trasforma, va oltre il suo limite, quandodiventa politica, intersoggettiva, istituzionale. Teoria

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significava per l’appunto un particolare modo di vede-re e di rapportarsi al mondo. La theoria designa il sor-gere di una fonte di sapere basato sulla testimonianza(dei theoros), su un insieme di versioni, coerentemen-te con il suo opposto diacritico, che non è praxis, comesi potrebbe essere tentati di pensare, ma aesthesis oaspetto risolutamente soggettivo della percezione(Kavanagh 8).

3. Sulla falsariga di Paul de Man, se si annulla la funzio-ne mimetica del linguaggio all’interno del testo lette-rario, si postula una critica che non potrà mai autenti-care un significato che rimane racchiuso e condiziona-to dal testo e se ne stat indipendentemente dell’inter-prete. Questa teoria ha dei grossi problemi, alcuni deiquali ho esposto altrove. Resta la condizione che unateoria è valida solo perché ha convinto, ha riprodottose stessa, si pluralizza. Emerge una dimensione retori-co-persuasiva, ancora una volta interpersonale, di cuidobbiamo dar conto.

4. Quando si insegna teoria critica, bisogna far capire aglistudenti che l’apparente divorzio tra teoria è realtà èstato storicamente sfruttato per vincolare la costruzio-ne del reale a visioni (moralisticheggianti) preparate atavolino, o sul un campo di battaglia.

5. Sulla falsariga di stimoli provenienti dal New Histori-cism, quando la teoria critica si ri-incontra con la lette-ratura, quando il pensiero si manifesta poieticamente,è necessario narrare. L’interpretazione si puo ancherealizzare attraverso un racconto.

Ritornano le figure mitologiche.Ritorna Hermes.

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PARTE SECONDA

Testi e Versioni

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Capitolo Tre

Valesio e la retorica dell’indicibile

La ripresa, negli ultimi trent’anni, degli studi sulla reto-rica va ben al di là di un accademico “rilancio” (o peggio“riflusso”) di una antica disciplina in una società, in unaepoca storica come quella attuale, la cui caratteristicagenerale potrebbe descriversi come sfaldamento e impre-vedibile mutevolezza dell’intero scibile del sapere, deivalori e delle pratiche di comunicazione, e una strabilian-te pioggia di ulteriori moduli di scambio autonomi eppurconnessi e interdipendenti. 65 A prescindere dal fatto chela stessa retorica in particolare ha esperito un progressi-vo svuotamento del suo potenziale comunicativo, etico econoscitivo inversamente proporzionale all’ascesa e im-posizione della scienza, del metodo potremmo dire, nel-l’epoca moderna.66 Tuttavia, le varie “crisi” di questa o

65 Variamente descritto, si tratta del postmoderno. Il contesto di sfon-do della mia posizione o versione include riflessioni provenienti dal-l’opera di Lyotard, Vattimo, Heidegger, Foucault, le poetiche delle avan-guardie e la decostruzione (cfr. Carravetta 1991a e 1991b).66 Se ne fa menzione in vari passaggi nelle ricostruzioni storiche dellaretorica per mano di Vickers, Barilli e di Plebe e nel primo vero con-fronto diretto tra pensiero scientifico e pensiero retorico con GiulioPreti. Per uno studio sulla trasformazione formale e trapasso ontologicodella retorica in metodo adeguato alle nascenti costruzioni matemati-che e logiche, si veda l’ormai classico lavoro di Walter J. Ong.

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quella disciplina, forma discorsiva, o “sapere,67 spessoannunciate dal secolo scorso (penso a Nietzsche) eripetutamente e diversamente rielaborate durante il no-stro ultimo cinquantennio, manifestano, a ben vedere, unacostante attenzione al fattore linguistico, al problema dellinguaggio.68 Come si è cercato di mostrare in altra sede,69

e come il lavoro di Paolo Valesio e altri che verremo men-zionando effettivamente dimostrano, la retorica di questiultimi decenni registra una svolta necessaria nel modo diripensare il linguaggio e l’interpretazione tout court, eprospetta di fornirci ulteriori e spesso radicali indicazioniper la lettura e comprensione nella nostra epoca. 70

67 Valga, a titolo di esempio, e contestuale all’ambito italiano in cui sicollocano queste pagine, l’antologia di Aldo Gargani.68 Di nuovo, a titolo emblematico, si pensi alla tradizione della metafi-sica che confluisce e si dissolve in Heidegger, e alla tradizione delpensiero logico e razionale che naufraga nel pensiero di Wittgenstein.In entrambi i casi, fu proprio il problema lingua/comunicazione, l’at-tenzione al linguaggio, al dire, ecc., che costrinse a ri-pensare nonsolo la tradizione ma il medesimo pensiero pensante.69 Ancora una volta è importante ribadire come il presente interventofosse nato originalmente come capitolo del mio libro Il fantasma diHermes (1996), in cui si traccia l’ascesa del metodo a scapito dellaretorica, e il “ritorno” del problema (e delle possibilità) della retoricaquando varie discipline «metodizzate», varie epistemologie, dissolvo-no il metodo classico proprio per far largo a ulteriori riflessioni sullinguaggio. Per cui si sostiene che varie “nuove” retoriche nasconodal/nel dissolvimento dello strutturalismo, del funzionalismo, e dellalogica positivista e formale.70 Oltre naturalmente a Chaim Perelman, si veda per esempio il bellibro di Plebe e Emanuele (che non è affatto un “manuale”, ma unaretorica in quanto filosofia del linguaggio), oltre ai diversi ripensamenti,provenienti sintomaticamente da ambiti non-letterari, per mano diGiovanni Bottiroli, Gianni Carchia, Enzo Melandri e Marcello Pera.

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I. Filosofia della retorica

In questo ambito si colloca autorevolmente l’opera diPaolo Valesio, la quale può inquadrarsi come rappresen-tativa di uno “sfondamento” ermeneutico,71 come praticacritica di una ricca vena per l’indagine letteraria,72 e ov-viamente come tappa cruciale all’intendimento e apprez-zamento del sinuoso e ramificato lavoro del critico.73

Ascoltare il silenzio è un’opera ambiziosa, tormentata emagmatica. Essa è in parte la traduzione e rielaborazionedella versione inglese, Novantiqua, uscita sei anni pri-ma, nel 1980, ma in parte è un’opera nuova, non soloperché scritta in italiano — fattore tutt’altro che insignifi-cante per un autore come Valesio e per un libro che trattadel linguaggio74 — ma perché essa contiene un lunghissi-mo capitolo che dà il titolo alla nuova edizione e che co-stituisce una vera e propria svolta nel modo di pensare il

71 E’ interessante ed emblematico a un tempo notare che sono molti ifilosofi italiani che si “voltano” verso il linguaggio e la retorica comeproblema cruciale alle loro investigazioni, per esempio in GianniVattimo, Pier Aldo Rovatti, Salvatore Natoli, Giorgio Agamben, CarloSini, e Gianni Carchia, per dirne solo alcuni.72 A parte il manuale di Mortara Garavelli, e qualche pubblicazionedell’ateneo Bolognese (cfr. Ritter Santini e Raimondi), non si può vera-mente dire che la critica letteraria italiana abbia contribuito gran chealla riabilitazione della retorica. Essa infatti non compare né comemetodo né come teoria nelle antologie di Ottavio Cecchi e EnricoGhidetti.73 Nell’elenco delle Opere Citate, non registro le voci della produzioneartistica o creativa di Valesio, che è notevole e che merita separataanalisi.74 La traduzione ha occupato Valesio a vari livelli d’indagine, a partiredalla difesa della versione strutturalistica del tradurre (in 1976a), finoal suo utilizzo (post-Ascoltare il silenzio) come strumento di storialetteraria (in 1992b), e in seguito dalle figure che la traduzione generaper contestualizzare/collocare lo scrittore espatriato (1989) fino allemetafore richieste per schizzare una letteratura emergente (1993).

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rapporto tra linguaggio e pensiero. Per meglio compren-dere questi sviluppi, e svilupparli sullo sfondo del pro-blematico rapporto tra Teoria e Metodo che informa lanostra ricerca, vediamo brevemente cosa proponevaNovantiqua che resta essenzialmente invariato nel libroitaliano, e cosa invece viene eliminato in funzione dellenuove postazioni.

Il primo capitolo di Novantiqua tratta dell’ontologia dellaretorica. Qui apprendiamo che il discorso non è diretta-mente connesso a ciò che possiamo chiamare cose o eventi“reali” e tuttavia, se la retorica è coestensiva al parlareumano allora niente è estraneo allo studio della rettorica,non esiste un terreno extra-retorico.75 Beninteso che ciònon equivale talis et qualis all’affermazione, di Quintilianoprima e D’Annunzio in seguito, di una retorica scienzadel tutto, come Teoria e Metodo o prassi del linguaggiotout court (la (per)versione moderna di tale arroganteverità risulterebbe essere questa: “Language is a tool”),anche se la versione umanistica implicava infatti un “pa-droneggiare il linguaggio” che idealmente corrispondevaa un “padroneggiare la vita”. Ma a conti fatti, osservaValesio, “(questa è l’illusione ideologica di ogniumanesimo). Il massimo risultato del nostro apprendi-mento linguistico è (cosa ben diversa) parlare della vita; èun come se.” (Ascoltare 345) Osserviamo di passaggio lapresenza delle particelle come se, e quell’esigenza fenome-nologica di “parlare-di”. Puntualizzando che il suo mede-simo metodo di ricerca è (si direbbe: necessariamente)

75 Si sente sullo sfondo il pensiero di Edward Sapir, il cui fondamentaleLanguage [1921] Valesio tradusse alla fine degli anni sessanta perEinaudi. “Language is a purely human and non-instinctive method ofcommunicating ideas, emotions, and desires by means of a system ofvoluntarily produced symbols...the feeling, entertained by so manythat they can think, or even reason, without language is an illusion.”(Sapir 1949:8,15)

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“rizomatico”76 e che la forma stilistica adoperata è quelladel saggio “semantico” che dipende anche da (r)accorditaciuti e/o latenti, rimandi storici e riprese dei medesimitesti campione su diversi piani d’analisi, Valesio ci con-segna una veritiera retorica vivente che è anche una sor-ta di autobiographia fenomenologico-letteraria che attra-versa meandricamente le parole e i parlari del logos del-l’occidente elleno-giudeo-cristiano per condurci, allafine...alle soglie del silenzio!

Nel secondo capitolo troviamo un’asserzione quasi ca-tegorica, che non muta dunque sostanzialmente nella tra-versata dalla scrittura americana a quella italiana:

Ogni discorso considerato nel suo aspetto fun-zionale è fondato su di un insieme relativa-mente limitato di meccanismi — la cui strut-tura resta essenzialmente la stessa da testo atesto, da lingua a lingua, da periodo storico aperiodo storico — un insieme che riduce ogniscelta referenziale a una scelta formale.(Ascoltare 43)

Le implicazioni che ne derivano sono utili onde evitareabbagli critici: quando trattiamo del discorso bisogna ineffetti che il nostro interesse s’incentri sui meccanismi (osulle “strategie”) da impiegare o meno ancor prima che sipossa discettare su ciò che è reale e ciò che non lo è, ciò

76 Valesio ha sempre tenuto una cauta distanza dagli entusiasmi dimolto pensiero francese contemporaneo, tuttavia l’aver caratterizzatoil suo stesso scritto come rizomatico riflette di per sé l’abbandono del-l’organizzazione del discorso lineare, geometrico, logico del trattato, odel manuale, e la necessità e/o volontà di inseguire il linguaggio se-condo che si muove il pensiero, o di pensare attraverso cio’ che linguae linguaggio coordinano. Da ciò la sua spontanea dinamicità, e capaci-tà di far convivere la filologia con una tonalità saggistica e autoriflessiva.

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che è vero e ciò che è falso, cos’è bello o brutto, giusto omeno. Perché, continua l’autore,

La scelta è solo: quali meccanismi impiegare; equesti meccanismi condizionano ogni discor-so, in quanto essi costituiscono rappresenta-zioni semplificate della realtà, inevitabilmen-te e intrinsicamente piegate in una direzionepartigiana. Tali meccanismi sembrano esseregnoseologici...ma in realtà sono eristici: essicioè danno una connotazione positiva o nega-tiva all’immagine dell’entità che descrivono,nel monento stesso in cui cominciano a de-scriverla. (Ascoltare 43-44)

Ritroviamo anche qui (ma elevato a bussola critica)l’ubiquo come se che ci impone di riflettere sulla differen-za tra la funzione eristica (essenzialmente materiale epragmatica) e quella, imprescindibile alla filosofia, allapedagogia e quindi anche all’interpretazione, dell’euristica(necessariamente teorica, sorta di visione spesso poeti-ca).77 Ora, fermo restando che quest’ultima potrà rive-dersi in chiave appunto retorica, o meglio, topica, perchérientra nell’ars inveniendi, se riflettiamo sulla datità, l’ac-cadere e ancora la prerazionalità dell’assetto fondamen-talmente eristico del linguaggio, scopriamo che lo spaziofra lingua e linguaggio è poco meno di un misterioso, in-

77 Si paragoni a quanto scrivono Perelman & Olbrechts-Tyteca: “Il dia-logo euristico nel quale l’interlocutore è un’incarnazione dell’uditoriouniversale, il dialogo eristico che si propone di dominare l’avversario,non costituiscono che casi eccezionali; nel dialogo abituale gliinterlocutori tendono semplicemente a persuadere il loro uditorio conlo scopo di determinare una azione immediata o futura; su questopiano pratico si sviluppa la maggior parte dei nostri dialoghi quotidia-ni” (41-42).

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quietante, e niente affatto trascurabile baratro ove spessointravediamo, ognuna travestita da voler sembrare l’al-tra, e la poesia e la filosofia.78 Ed è un abisso in cui altret-tanto spesso sprofondano anche le più sottili articolazionidel pensiero linguistico-letterario, per esempio, quello diPaul de Man che fa della retorica una disciplina rigorosa-mente epistemologica, proprio quando si incominciava acapire che l’impostazione decostruttiva non fuoriesce dalfilone strutturalista, costituendone un rovesciamento sìma sempre riflessivo della medesima (sia pure “arbitra-ria”) logica (cfr. Carravetta 1995).

Le implicazioni della posizione di Valesio hanno ampieripercussioni: non esiste, in una tipica gerarchia dei trat-ti linguistici, una coesione interna del linguaggio, nétantomeno si potrà più, effettivamente, pensare in termi-ni di una comunicazione pura, poiché questa altro non èche una astrazione, folle utopia quasi. Valesio osservache le tante scuole di linguistica79 hanno proceduto a co-struire i loro castelli epistemici sul presupposto che sipossa dare una comunicazione tra gli esseri che non siaretorica — “unrhetorical” in Novantiqua — laddove, sepur bisogna utilizzare il metalinguaggio ma fuori di con-testo, non è mai primariamente una questione di compe-tenza quanto di dura e inaggirabile esecuzione — “perfor-

78 Mi sia concesso di rimandare al mio libro Prefaces to the Diaphora(1991) in cui il rapporto tra poesia e filosofia, e sue varie incarnazionio figurazioni, costituisce l’asse portante della ricerca.79 Aggiungerei che diverse scuole di linguistica sono direttamente im-pegnate sul fronte di una filosofia del linguaggio in senso appuntorazionale, epistemologico. e logico. Si veda per esempio l’ottima anto-logia di Jerrold Katz, The Philosophy of Linguistics, che raccoglieinterventi di Z. Harris, W.V. Quine, N. Chomsky, J.A. Fodor, P.M.Postale altri. Si tenga presente, sul versante italiano, la notevole attenzioneper questi materiali negli anni sessanta e settanta (cfr. Andrea Bonomi,La struttura logica del linguaggio, che esce nel 1973).

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mance” —, il che conduce a tener di consapevole contoper ogni data situazione locutoria anche elementi non pro-priamente linguistici (cioè della lingua), ma spazi e colo-ri, posa e rumori, temperatura ambiente e umori e in-somma una pletora di moventi che in qualche modo inci-dono, sia anche subliminalmente, sul dicitore e sull’udi-torio. E’ chiaramente una retorica che vuole ricuperare lapersuasione. La preoccupazione di fondo alimenta l’ipo-tesi secondo la quale nel profferire parola, la Ur questio-ne diventa quella di stabilire se una data situazione è pia-cevole o meno. Questione metafisica che informa anchel’estetico nella sua accezione più ampia, e che riguarda ladimensione esistenziale degli interlocutori,80 Ne conse-gue che la parcellizzazione dei saperi tecnici — delle va-rie “linguistiche” — non può procedere senza una disci-plina filosofica generale che riesca a riflettere appunto suqueste poche isolabili condizioni di fondo, o meglio det-to, su questi topici, e che infine la retorica tramutatasi infilosofia riapra le porte all’etico, al politico, al luogo comu-ne in cui gli esseri con-vivono, e a qualcosa di piò vastonel linguaggio che forse non abbiamo neanche captato.

Una importante considerazione da riprendere a più tappeè che, dal punto di vista retorico, tutto è stato già detto! 81 Siha qui un validissimo punto d’appoggio per arginare i fiu-mi di prosa versati alla ricerca o in difesa di presunti “ori-

80 Metafisica rinconducibile all’Aristotele della Etica Nicomachea se-condo il quale ogni individuo desidera la felicità “e le sue componen-ti”, e che tra l’altro ci ricorda della inaggirabile connessione che l’as-setto retorico del linguaggio trama tra l’etico e il politico.81 Ma ciò non nel senso suggestivo ma parziale di un Harold Bloomper cui rispetto ad uno scrittore qualsiasi, e colui che ci interessa-ossessiona in particolare, siamo sempre in ritardo, siamo sempre figliindecisi se commettere il parricidio o meno, quanto piuttosto in virtùdel nostro stesso venire al mondo, che ci inserisce (meglio: ci “getta”)in un universo di simboli e di significati preesistente.

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ginali”, sproloqui di inequivocabile taratura ideologica chelo stesso Valesio, in un capitoletto dedicato alla “retoricadell’antiretorica”, (75-108) e altri luoghi denuncia e scom-pone. Il fatto che veniamo sempre dopo, che diciamo inessenza una variazione di quello che è stato già da sem-pre detto, se per un verso ci costringe a ridimensionarel’egolatria dell’autoproiezionè e la spropositata fiducia el’ottimismo delle sorti progressive, per un altro, sotto unprofilo più strettamente critico e filosofico insieme, ciimpone di ripensare cosa vogliano dire nozioni come“superamento”, oppure “nuovo”, in un ambito che, se simostra di non aver ignorato questi concetti di rottura, sottosotto è essenzialmente circolare e orizzontale. Tuttavia, eValesio — d’accordo sotterraneamente con Heidegger,Gadamer e Grassi — è il primo ad ammetterlo, è precisa-mente ciò che si fa all’interno dei luoghi ereditati, ciò chesi rilegge, si ri-disegna e si dice ancora una volta che rive-ste interesse per noi, poiché in questo dire ancora unavolta subentrano la memoria, il ricordo, la ripetizione conla differenza, e in fondo, l’ascolto dopo che la parola èstata appunto già detta...o volutamente taciuta. Ecco chela retorica ci invita a ri-scoprire la dialettica, forse la piùautentica e comunque storicamente originaria retorica.Infatti, tenendo presente quanto sopra riportato in meri-to all’essenza eristica del linguaggio, la dialettica procedeper proposizioni antitetiche, proposizioni che sonoepistemologiche ed ontologiche al tempo stesso in quan-to se sono rivolte al mondo esse affermano simultanea-mente cosa se ne pensa, o qual è l’atteggiamento dellocutore, e allo stesso tempo come si può conoscere e com-prendere questo medesimo mondo in base alla serie diesclusioni e accettazioni che si fanno, nel senso che con-tinuare con il discorso implica procedere secondo un iti-nerario di possibilità (piacevoli o desiderate, bisogna ag-giungere, o da decidersi strada facendo). Dialettica in

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questo contesto non è da intendere in senso hegeliano,quanto come movente o fulcro per passaggi conoscitivi, ein quanto equivalente alla retorica medesima. Nella ver-sione italiana di Novantiqua, la definizione restaimmutata:

la dialettica non è un complesso di leggi con-cernenti processi che obiettivamente si svol-gono nel mondo; più tosto, la dialettica è lamiglior descrizione del modo in cui le perce-zioni sono costruite linguisticamente. (Ascol-tare 164)

Scopriamo quindi che il linguaggio è dialettico in quan-to si manifesta sotto forma di discorsi essenzialmente co-struiti con “affermazioni antitetiche”, e che inoltre il lin-guaggio è dialettico anche “a causa della tensione conti-nua tra il suo disegno generale (competenza) e il suo mododi realizzarsi (esecuzione).” (Ascoltare 174)

E’ il terzo capitolo di Novantiqua che troveremo tra-sformato in Ascoltare il silenzio. Abolendo e ridimen-sionando taluni riferimenti filologici, alcuni schemi (il“rema”) e la legittimazione di una complessa analisi —che riguardava l’interpretazione paranomastica di un fram-mento di Eraclito — Valesio ci induce adesso a individua-re un modificarsi, una sorta di metamorfosi di pensieroche non ritengo errato parafrasare così: nel ricercare lemotivazioni più ampie e complesse della retorica in atto(quella che non perde mai di vista i testi o gli interlocutori),le più sofisticate metodologie non consentono di formu-lare certe domande, per cui bisogna optare per un atteg-giamento teorico-ontologico diverso che sussuma i risul-tati delle analisi a una visione più vasta, non dico onnicom-prensiva, ma certamente ai limiti degli amorfi perimetridella medesima disciplina. Solo così si può pretendere —

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nel senso etimologico-figurato di un pensiero che stendedinanzi a sé, — di formulare domande su questioni per lequali o mancano documenti, o sono queste rimaste obliatenella storia (perché scomode, o “sorpassate”), oppure, emolto più significativo per una filosofia dell’interpretare,orientarsi e cogliere ciò che sfiora il linguaggio ma nonriesce ad articolarsi in esso, cioè qualcosa non divenutomai fatto di lingua, cifra testo o costrutto simbolico chesia. Ed è verso questa zona d’ombra che Valesio sembravoglia incamminarsi con la sua retorica divenuta filosofiadel linguaggio. Prima di addentrarci in questo intrigantepanorama teorico, forse è utile ponderare il passaggionecessario.

2. Al di là della linguistica (strutturalistica)

In Novantiqua Valesio sottoponeva il frammento diEraclito: “L’arco (bíos) è chiamato vita (biós), ma la suaopera è la morte”, a una dettagliatissima analisi che sfrut-ta al massimo la linguistica di Kenneth Pike, la tagmemi-ca.82 Ora questa scienza è quanto di più raffinato la lin-guistica americana aveva da offrire, agevolissima nelmutuare i risultati più cospicui della logica simbolica, dellericerche sul linguaggio pre-verbale, e delle scienzecapeggiate dalla fisica post-einsteiniana. Nella descrizio-ne dello stesso Pike:

The list and kind of things men will find varyradically if they adopt different theories as toolswith which to search for these units. Thetheory is part of the observer; a differenttheory makes a different observer; a different

82 Per brevità, si farà riferimento solo alle due opere di Pike elencate.

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observer sees different things, or sees the samethings as structured differently; and thestructure of the observer must, in some senseor to some degree, be part of the data of anadequate theory of language. A particularlanguage, of a particular culture, in relationto a particular person with his particularhistory constitutes an implicit theory for thatperson.Tagmemic theory is, in this respect, a theoryof theories which tells how the observeruniversally affects the data and becomes partof the data. (1982:3)

Possiamo osservare: ammissibilità di una serie o reteinfinita di situazioni dei parlanti; il mondo è fatto di coseed eventualmente di “unità” o “dati”, ma non per questovengono eliminati i fenomeni, le credenze, la coscienzadel parlante/ascoltatore. I fondamenti della teoria dellinguaggio di Pike rivelano due luoghi o pulsioni co-esi-stenti e co-possibilitanti: il darsi del linguaggio tout courtnecessariamente in un contesto, o situazione, o intersog-gettività (ripresa in 1992:6 et infra); e la possibilità direalizzarsi in quanto e sistematica e funzionale.83 Svinco-

83 Altrimenti detto, “a theory must be useful”, e “No statement can bemade seriously unless preceding it there is in the speaker’s thoughtsan underlying set of beliefs which he holds firmly, but cannot prove”(Pike 1982:10). L’impossibilità di eliminare il mito come costruzionespuria e non-scientifica fa si che la tagmemica (il cui fondatore hastudiato a lungo lingue non-alfabetiche e esotiche) si renda utile al-l’analisi della comunicazione tra sistemi linguistici (ergo contestuali,culturali) assai diversi tra di loro. Come per il mito, anche la traduzio-ne non deve rispecchiare una verità pura o trascendentale (malgradoil kantismo di Pike 1992:17), ma essere relativa, efficace, si direbbepersuasiva e organica: “But for either paraphrase or translation, identityof words is unnecessary, identity of particular grammatical focal

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lata la soggettività o la Weltanschauung del linguista (delparlante) da qualsiasi assoluto metafisico, e lasciandolaquindi libera di inserirsi in una rete di rapporti e funzioniin chiave di scambio concreto (e potenzialmente radica-le), la tagmemica fa leva sulla teoria dei campi e la teoriadella relatività,84 e sviluppa una complicata grigliaepistemica che informa diversi modelli o approcci di com-prensione.85

Ma per l’analisi del testo di Eraclito, Valesio scopre chele gabbie sono comunque strette. Il modello d’analisi dellinguaggio derivante dalla teoria di Pike non consente diattraversare gli schemi in maniera eterodossa od obliqua.

mechanism is unnecessary, and the exact same degree of detail isunnecessary. Truth, in such a statement, is not dependent upon theexact degree of precision obtained, if the generalizations are acceptableto both speaker and hearer”. (1992:11) Il pericolo del relativismo vienecosì aggirato ancorando qualsiasi analisi a situazioni reali e circoscrit-te, quindi in qualche modo de-finite. Questa premessa non è in disac-cordo con la Sapir-Whorf Hypothesis.84 Tra i filosofi del linguaggio Pike riconosce una parentela con W.V.Quine (1993:6), per la filosofia della scienza cita volentieri Einstein(1993:9).85 Sinteticamente, il Metodo tagmemico consente di scandire una fra-se come se fosse composta, alternativamente, di: A) elementi in quan-to particelle; B) elementi in quanto onde; C) elementi in quanto cam-pi. Da ciò se ne compone una “Unità” strutturata ancora una voltatriadicamente, ossia 1. con tratti identificativi-contrastivi; 2. con ma-nifestazioni variabili; 3. con distribuzioni tipo classe, sequenza, siste-ma. Le gerarchie lungo cui distendere queste coordinate sono quellefondate sui tre concetti (o categorie!) della I. Fonologia; II. Grammati-ca; III. Referenzialità. Il terreno della prova viene assicurato da un’al-tra triade che si può dire serve per puntellare i loci o punti archimedicida non contestare, ma in effetti in cui credere, come assiomi, e cioè i“contesti” intesi secondo che riguardano: d. composti; e. cambiamen-to; f. universo di discorso. L’architettonica di questo multimetodo èdecisamente poliedrica e segmentata, ma consente tuttavia di lavora-re con due soli precetti generali, l’identità EMIC e la divergenza ETIC.(Cfr. 1993:18 et infra).

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Ci sono domande cosiddette “retoriche” cui rispondereche nascondono zone dell’essere, come la forza semanticadi una parola che si riversa su un’altra nelle stessa lista(Novantiqua 214), oppure il fatto che una specifica paro-la — in questo caso, bios — possedeva all’epoca un signifi-cato aggiuntivo e che gli interpreti per secoli hanno igno-rato. Ne consegue che di fatto il senso dell’epigrammacambia o si trasforma per noi adesso che aggiungiamotutta una nuova area di interessi e di riferimenti conte-stuali (i.e.: il fatto che bios fosse paranomasticamente con-nesso oltre che a [vita], e [arco], anche a [(un) nome pro-prio d’uomo]). Si dischiudono insomma valide indaginicognitive, speculative e persuasive. Per esempio, Valesioscopre a questo livello d’indagine che tra i possibili signi-ficati intratestuali s’inserisce un discorso di autoriflessivitàdel linguaggio.86 L’analisi continua, nel testo americanodi Valesio, con una minuziosa ripartizione del frammen-to secondo lo schema tagmemico, e per ogni “risultato” siavvia una riflessione sul proprio fare, un chiedersi per-ché le cose stanno così e non altrimenti. Se “ogni rifles-sione tecnica è una riflessione ontologica”, bisogna dun-que sfondare l’ontologia dei tecnicismi e ricuperare la di-mensione del discorso in senso lato.

86 Valesio spiega che: “tale aggiunto ha un significanza più che tecni-ca: essa concerne l’analisi semantica del nostro periodo. Ora infattipossiamo vedere che questo testo implica un giuoco di parole a duelivelli, il cui oggetto è l’atto stesso di assegnare un nome”. (Ascoltare 215)L’autocoscienza linguistica, la pulsione metapoetica, insomma, nonsono scoperte o invenzioni del Medio Evo, o del Rinascimento, o delRomanticismo!

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3. Retorica e filosofia

La risultante di questo incontro si intravede cinque annipiù tardi in Ascoltare il silenzio. Valesio ci fa compren-dere come sia la struttura del glossema sia quello dell’ideo-loghema possono coesistere parallelamente sotto la ru-brica della paranomasia: e tramite questa figura recupe-rare e/o isolare un contenuto che riguarda anche l’ideo-logia, cioè un aspetto fondamentale della realtà del par-lante, e comunque del frammento in quanto enunciatolinguistico. Ma c’è di più: la distinzione oppositiva trametafora e metonimia, dice lo studioso, ha stravissuto lasua utilità o importanza cognitiva (e quindi anche metodo-logica), non riuscendo a poter sondare aree (perché ap-punto non le pre-vede o non le immagina, o pro-getta)esteriori allo schema della spartizione del mondo-campoche implica: o metafora, o metonimia. La metonimiaresterà — anche in successivi scritti di Valesio, per esem-pio in 1992:108 & 174, — sempre intesa in senso tecnico,ma non copre più l’arco semantico-concettuale del suorovescio, o della sua negazione-opposizione binaria, cioèdella metafora. Ebbene, questo spazio fuoriuscente puòrecuperarsi all’attenzione critica attraverso la retorica-di-ventata-teoria, all’epoca in cui tutte le filosofie e le ideo-logie della cultura si dichiarano in bancarotta e abbando-nate alle incertezze, alla contraddizione vivente del me-desimo poter dire. Il frammento di Eraclito dice di qualco-sa al di là e indipendentemente della sua composizione(e struttura, coesione, unitarietà, e referenzialità): essopre-dispone alla consapevolezza di vari livelli o quadridiscorsivi, mettendo in rilievo delle icone, il sacro, l’Eros,quindi Thanatos, infine l’essere medesimo.

Nel testo italiano vengono quindi espunte le microanalisitagmemiche e vi si vanno sostituendo le collocazionitopiche e figurali di tutta una serie di questioni “retori-

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che,” cioè di domande che riguardano le sorti dell’epistemanel mare della doxa, che riguardano la forza (della per-suasione) tra i soggetti in quanto persone. Ciò è impor-tante a una filosofia dell’interpretare e dell’intendimentoper diversi motivi.

Lo sviluppo fin qui tracciato della problematicizzazione“metodologica” della linguistica moderna (quella che pen-sava la retorica in quanto grammatica, e era disgiunta dallaverità effettiva del mondo in quanto “mera” parola, o se-gno) induce dunque di andare al di là del Metodo e del Si-stema, di andare al di là della parola, del lessema, della no-minazione, e di rivolgere l’attenzione alla predicazione, al-la frase, al narrato, alla figurazione. Questo sarà possibilesolo se si pensa la retorica come filosofia del linguaggio:

dovrebbe esser chiaro...ciò che questa teorianon è: non si tratta qui primariamente di unafenomenologia di effetti e strutture retoriche(anche se dettagliate analisi empiriche sononecessaria all’intrapresa generale), né di unastoria della retorica, né di una filosofia dellaretorica; quel che è in giuoco è la retorica comefilosofia. (Ascoltare 296).

Ciò che è in giuoco, di riflesso, è il futuro dell’interpre-tazione metodologisticamente intesa.87 E quindi della re-torica metodica tradizionale, da Aristotele a Lausberg aMortara Garavelli. Ma poiché quest’ultima è stata intesasolo a metà — cioè solo dal versante che richiedeva anali-si appunto empiriche, e cataloghi, e nozioni della suaessentia materiale, convenzionale — quel che ci vuole èuna esplorazione dell’altro versante, quello che farebbe

87 La Kehre linguistico-filosofica di Valesio incomincia intorno a pg.370 di Ascoltare il silenzio.

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della retorica non più o non solo una “scienza” ma una“filosofia”, non più una disciplina epistemologica strictusensu (à la de Man, per un verso, à la Pike, dall’altro), maanche una ricerca ontologica sulla possibilità di dire chesi cela ancora nel linguaggio. A questo punto Valesio devecongedarsi dalla semiotica,88 anche se non abbandoneràl’idea di una semiostoria della cultura (cfr. 1992:5-7 etinfra). Per il momento, a metà degli anni ottanta, egli siconfronta con limiti inerenti a un “esaurimento o estenua-zione della lingua” percepibile non appena questa ha ces-sato di mostrare le sue massime capacità di genio espres-sivo. E qui di dischiude il silenzio che subito l’avvolge eche ci consegna all’ansia e alla meraviglia di una “consa-pevolezza che —oltre questo trionfo del verbo— esistonoancora tante “cose” (sentimenti, sensazioni, idee, eventi,entità (meta)fisiche) che “non si possono dire.” (296).

A questo punto, la retorica ripiega su stessa e si autoa-scolta: e non sente che un silenzio profondo. Ma anzichéignorarlo o pensarlo come ciò che delimita la espressivitàdella lingua, questo silenzio viene pensato in termini diun “serbatoio o fonte di ispirazione per un più profondouso del linguaggio”. Si dice: le parole parlano chiaro. Masi intendono solo in quanto segni. Eppurtuttavia, vi sussi-ste un universo non segnicamente indiziato, proprio per-ché impensabile e impossibile a una filosofia della parolaempirica e/o modellizabile; e questo cosmo si nomina

88 Il “disagio” che Valesio registra vis-à-vis la semiotica (e lo strutturali-smo linguistico) si manifesta in maniera sempre crescente, a partireaddirittura dal suo primo libro, Le strutture dell’allitterazione (1968),e diventa oggetto di successive articolazioni e rifinimenti (cfr. 1976 e1978). Benché ancora utilizzata in Novantiqua, essa diventa necessa-ria di “superamento” o ripensamento in maniera da farne una discipli-na sostanzialmente diversa. Il libro su D’Annunzio (1992) ne mutuaspesso i termini, ma buona parte dei capitoli erano stati scritti anniprima.

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appropriatamente silenzio. Se è silenzio, vuol dire che nonha la parola, ma ciò non vuol dire che la parola (la frase)non possa in-venire, inter-venire (o: s/velarsi) nel decor-so temporale del parlato (o scritto) ed emergere come unacomponente del discorso. Dicendo questo è ovvio che stocercando di adeguare la riflessione di Valesio a una ideadi discorso interpretativo che recuperi sia l’allegoria sia ildialogo.89 Tuttavia, rispettando il suo testo, la nozione diuna retorica come filosofia, conduce alla riflessione dellascelta (e dell’evento che coordina) di una espressione lin-guistica, e quindi a ciò che non si è detto perché non si èpotuto ma che comunque traspare.

4. Retorica è filosofia

Dunque, la retorica s’incontra finalmente, pla-smandola, con la filosofia dell’interpretare:

E’ (lo si è già chiarito) la retorica che succedealla filosofia. la retorica dunque che sottentraalla filosofia esaurita. (Ascoltare 349)

Valesio offre materiali sui quali appunto riflettere ulte-riormente: la parola [silenzio] è la nozione o etichetta“che marca il campo della ‘esperienza-e-linguaggio-al-li-mite’” (355). Il silenzio è chiaramente una metafora, e vacompreso in termini della visione — operando via figurasinestetica. In seguito egli passa prima attraverso una let-tura delle metafore esplicite (Iconografia), poi per via diquelle “ricostruite”. Questa concezione non si considerafuori della metafisica: tutt’altro: essa intende di fatto sca-varvi ancora per edulcorarne l’aspetto ineradicabilmente

89 Si vedano i miei lavori 1991 e 1995a.

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teologico ma soppresso e obliato. Allo stesso tempo, siricusa il confronto con la domanda fatale sul “che fare”nell’epoca della babele totale, e nel trovarci paradossal-mente ridotti al silenzio.90 Prima di tutto, abbandonatal’altra canonica distinzione epistemica tra sincronico ediacronico, l’autore procede ad analizzare la statua di AuroMetello tramite passaggi pan-cronici e volutamentetransdisciplinari, secondo varie specole. Poiché si trattaormai di una ricerca a tutti gli effetti ermeneutica, ciritroviamo a dover dare conto del molteplice Grund dellaretorica e quindi del linguaggio retoricamente inteso. Inche senso? Nel senso che il silenzio, oltreché contenerequello “che non si può dire”, ospita anche la dimensionedel “non voler dire” cioè del rifiuto da parte di chi decidedi tacere. Questo tacere non è più comprensibile comeillustrato dalla psicopatologia o dal manierismo,91 anchese la raffinata strategia della secretezza è sempre rivela-trice. Per esempio, si pensi all’uso della reticentia nell’an-tichità, tipica dei cultori e idolatri che servono una ritualità

90 L’associazione tra retorica e filosofia “esaurita” è interessante perchéconsona a teorizzazioni sulla fine della storia, del pensiero forte, e deivalori illuministici e modernisti. Tra le varie strade intraprese dai filo-sofi italiani in seguito all’appello heideggeriano, “che cosa significapensare?”, o ancora, “qual è il compito del pensare?” (e non piò intermini appunto di una “disciplina” o “sapere” finora chiamato filoso-fia), si veda il libro Rovatti 1987 sul silenzio. Qui leggiamo che se “ilsilenzio...indica lo scarto che separa, nella parola stessa, il significatoche crediamo di poter subito afferrare dall’alone di insignificanza dicui riteniamo di poter tranquillamente fare a meno”, e ancora, se il“...silenzio [è] come sospensione della validità della parola filosofica”,(1992:8) allora, in questo orizzonte, “i temi della metafora, della narra-zione in rapporto alla filosofia, dell’incontro-divaricazione tra parolapoetica e parola filosofica, rientrano in ciò che propongo di individua-re come un utile tentativo di far silenzio”. (ib.)91 Il tacere è invece inquadrato in termini ontologico-politici nell’ope-ra del filosofo Jean-Francois Lyotard.

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dell’esclusione, un tabù, e parlano silenziosamente an-che di ciò che escludono, di ciò che è stato lasciato nelnon-detto, o silenzio. Nell’epoca cristiana, Valesio sostie-ne, si è venuta evolvendo una nozione oggettiva del se-greto: una persona vuol dire qualcosa, ma non può farloperché è nella natura di questo “qualcosa” di non esseredicibile, allora non si può fare a meno di iperboli, ripetizio-ni, anafore, ecc. Da qui l’inevitabilità di dover ritornaresulla figure retoriche come figure del pensiero!

Ma il silenzio in quanto tacere è intransitivo e riguardanon chi vuole mantenere un segreto, ma chi segreti nonne ha e addirittura si trova nella condizione di poter direqualsiasi cosa o tutto e non lo fa. E’ chiara l’ammissione diuna coscienza ponente, di un inaggirabile immaginariovolitivo. Si tratta comunque di un silenzio che implicauna radicale negazione, un non-dire che non può esplo-rarsi per tramite di canoniche opposizioni (dialettica enon, strutturali e non), come per Eros e Thanatos, Vita eMorte, il sacro e il profano, e giù di lì. Beninteso checome abbiamo già ripetutamente osservato, con questimeccanismi concettuali si esplorano territori in cui solometà (per cosi dire) della realtà (dell’immaginario, delpensiero tout court) può pervenire alla conoscenza, quel-la che le dicotomie consentono, e si attua spesso per viadi (un giuoco di) contraddizioni. Per Valesio invece si deveora passare attraverso le mille voci della metafora e attra-verso le mille perplessità del paradosso.

Per ciò che riguarda la metafora, Valesio è d’accordo chenella lingua tutto è metafora, cioè tutto è “tras-lazione” o“shifting”, e, come a mio parere i poeti hanno sempre sa-puto riguardo alla collocazione della “parola metaforica”e gli scrittori riguardo allo snodarsi del “discorso metafo-rico” (o “allegorico”) nel suo insieme, anche le anticheparticelle minori della grammatica normativa acquistanoimportanza. Infatti tutti gli elementi morfosintattici con-

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giuntivi hanno funzione forica, il che ci lascia liberi di pen-sare a questo: che il senso si può comprendere non soloe tanto come salto da un registro all’altro92 ma come cau-sa sua, come un noûs eracliteo recuperato dopo aver rivi-sto i limiti normativi e convenzionali (o convenzionati)della “spiegazione” o meglio legittimazione centrata sullapsiche e più recentemente sulla ratio cartesiana. Se il sensoo il tono del discorso qui rimanda a plausibili avvicina-menti all’idea di spirito, la cosa non soprende più di tanto.Il secondo importante rilievo da tener presente è che, traEraclito e Einstein, “in principio era il paradosso” (370 esgg). Che cosa vuole veramente dire, si chiede l’autore,che per il linguaggio-nella-realtà è tanto difficile dimo-strare la verità quanto la falsità del paradosso? (371). In-fatti, parlare del silenzio è paradossale, non contradditorio.La riflessione retorica sul silenzio, accorta sia ai limiti del“non dicibile” sia all’illimitato del “tacere” scopre delletensioni che vibrano intorno alla evocazione del silenzioche sono via d’accesso al sacro (357). E sappiamo che lateologia si realizza, si predica fin dal suo nascere nel ocon il macchinario della retorica. Osservazione parallelaa quella più rigorosamente filosofica che ritrova le radicidella teoresi nella teologia! L’enfasi posta sulla letteralità,sulla testualità, sulla concrezione del fatto linguistico inquanto “già accaduto” è poi uno sviluppo tipico del cristia-nesimo, che s’incentra sulla lettera/letteralità come mor-te. Non è possibile riportare, riducendoli, tutti i risultatidel lavoro di Valesio: ma bisogna segnalarli come auten-tici campioni di esegesi ermeneutica che cerca dentro lefigure, (che sono la “presenza-in-linguaggio” in cui siamo,

92 Si pensi per esempio all’influente e paradigmatico (ma anche ormaisemplicistico) modello dell’atomo con le sue orbite di elettroni attor-no, e in cui l’azione fisica-chimica-elettrica avviene il momento cheuno o più elettroni “saltano” da una orbita all’altra, rilasciando quantao varie forme di energia.

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se mi si permetta, im-medesimati). Per esempio, quelladi Eros, e la presenza “discreta” ma sfuggente di Agape,“da sempre aliena dalla rappresentazione”. (332)

Ricapitolando: all’inizio, dunque, la retorica ripresa inchiave aristotelica viene “sfondata” dall’interno per via diuna esautorazione dei propri sviluppi metodologici nellalinguistica moderna. In un secondo tempo — che coinci-de con la pubblicazione del libro italiano, 1986 — la reto-rica di Valesio opta per una svolta “teorica” che però è giàconsapevole dello scacco della teoria in quanto “visioneaccentrante” che rimanda al theós invisibile, e che inten-de pertanto riportare il compito della ricerca — delfilosofare, dell’interpretare — sul sacro e sul teologico. Ilsacro che è invisibile, cioè abitatore della oscurità, è an-che quel sacro che vive nel silenzio, che tace. Questariflessione può accostarsi, a tratti, sia a Gadamer e aRocoeur, sia ad Agamben: ne suggerisce la proprietà ilfatto che laddove in Novantiqua Valesio pareva a mala-pena tollerante di certa linguistica heideggeriana, in Ascol-tare il silenzio la presenza di Heidegger si fa più cospi-cua e ponderata. (cfr. 368 sgg). Ma per detta dell’autorestesso, la ricerca è solo all’inizio (cfr. Valesio 1991b) e ciresta molto lavoro da fare, per esempio, sulla Kabbala, latradizione Hermetica, e la storia del pensiero religioso, laquestione della spiritualità.

Alcuni anni più tardi, leggiamo:

La retorica del silenzio come ineffabilità è unaretorica gnoseologica (anche se insiste sui li-miti insuperabili della conoscenza umana;anzi, essa è gnoseologica proprio perché ponel’accento su questi limiti). Quella del silenziocome ineffabilità, dunque, è una retorica delmistero e della conoscenza — del mistero del-la conoscenza. (1992b:21)

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La retorica, dunque, come filosofia del linguaggio nel-l’epoca della fine della filosofia, del discorso della filoso-fia. Sulla scia di Heidegger, pensare e pensare il linguag-gio e pensare il linguaggio della conoscenza, è tutt’uno:retorica del mistero della conoscenza.

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Capitolo Quattro

Forme e aporie nella criticadi G. Hartman

Nato a Francoforte sul Meno, Geoffrey H. Hartmanemigra quale profugo ebreo nel 1939 e vive in Inghilterrafino al 1945, quando si trasferisce negli Stati Uniti. Hainsegnato in diverse università prima di approdare allaYale University, dove ottenne il titolo di Karl YoungProfessor of English and Comparative Literature. Egli èfondatore e direttore del Video Archive for HolocaustTestimonies a Yale, e si è impegnato in diversi settori del-la cultura quasi sempre in maniera innovatrice e militan-te. É probabile che tra i quattro cavalieri dell’Apocalisseche costituivano l’ex Scuola di Yale Geoffrey Hartman siameno citato di de Man e di Bloom, ma non per questo egliè meno importante e stimolante come critico letterario eteorico dell’interpretazione. Intanto con almeno uno diessi, Harold Bloom, egli divide interessi specifici, in par-ticolare la costante frequentazione dei testi del Romanti-cismo e del novecento, e si può dire che insieme hannocreato una corrente e una svolta nella storia della criticain queste due aree. Se aggiungiamo il notevole impegnoeditoriale e militante, e la costante riflessione sulla com-ponente biblico-ebraica nell’ermeneutica contemporanea,il parallelo diventa calzante, anche se poi, a vedere da

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vicino, le loro rispettive teorie divergono alquanto (si ve-dano i profili dedicati a Bloom e de Man in questa antolo-gia). Ma l’opera di Hartman è in certo senso ancheemblematica di una più ampia curvatura nell’evolversidello statuto della critica americana e del ruolo del criticoin questo ultimo trentennio. Hartman infatti si muove inun orizzonte di tematiche che possiamo raccogliere sottol’ampia egida del dibattito culturale moderno/postmo-derno, e quella ad essa connesso della natura e strutturadel metodo della critica. Inevitabilmente, le due si incro-ciano e si accavallano, creando una tensione di spunti edi idee proficue all’intendimento di entrambe.

Nell’introduzione al suo primo libro, The UnmediatedVision (1954), dopo aver preso atto delle “diverse, se nondiscordanti, interpretazioni” (ix) presenti all’orizzonte delcritico, Hartman dichiara che i saggi del libro tendono a una“critica con metodo” (x) in cui si vuole restare fedeli sia aisingoli autori e alle loro opere individuali, e sia, al tempostesso, “a un principio di sintesi applicabile a tutti gli autorie a ogni opera letteraria” (x). Il libro si concentra sull’analisidi una poesia di ciascuno di quattro autori — Wordsworth,Hopkins, Rilke, Valéry — e ne studia il problema della rap-presentazione, la crisi del sistema simbolico di espressioneletteraria, e finalmente la crisi dei valori a testimonianza diuna profonda rottura con le tradizioni giudeocristiane. Sullosfondo, la certezza che la letteratura costituisca un modoparticolare di inquadrare la realtà, ma anche, e piùproblematicamente, che essa esige di essere interpellata infunzione di se stessa. In questo modo il critico opera unadoppia giustificazione, poiché per un verso rivendica l’auto-nomia dell’arte, ma per un altro egli assegna ai poeti unruolo privilegiato per ciò che riguarda l’immediatezza delsentire e la comprensione dell’esperienza. Si intravede giàuna forte tensione che si espliciterà in successive tappe del-la sua produzione critica.

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I poeti che Hartman analizza hanno in comune la ricer-ca della rappresentazione pura attraverso la diretta intui-zione sensuale della realtà. C’è stata un’epoca in cui ilpoeta, come Perseo, poteva guardare nello specchio diMinerva e, vedendo sia il pericolo incombente che l’obiet-tivo predeterminato, agire in funzione di una sfida e diun superamento, mentre nell’epoca post-romantica lospecchio si e‘ infranto e il poeta deve guardare in faccia ilsuo nemico, la sua nemesi, l’orribile prospettiva che nonc’è niente o che non c’è altro (1954:156). Questa condizio-ne fa da molla e da mappa per vagliare le diverse manife-stazioni della poesia. C’è da aggiungere, però, che alcunianni più tardi, con il grande libro sulla poesia di Words-worth (1964), Hartman allarga ancora l’orizzonte di com-prensione per identificare quella che per lui sarà lapulsione fondamentale nella cultura moderna, e cioèl’autocoscienza (self-consciousness). Con riferimento a unverso di “Tintern Abbey”, in cui la voce narrante, colta dauna particolare immagine, si sofferma non tanto sull’im-magine in sé quanto sul fatto, sul fenomeno, che ne èrestata sorpresa, Hartman osserva:

Esiste una situazione più archetipa per lamente autocosciente di questa figura del viag-giatore il quale, arrestatosi di fronte a unepitaffio, e a tu per tu con l’idea della morte,trasalisce al sentirne ‘il peso del mistero?”(1964:13).

Se Milton, Spenser, Donne, Jonson si possono leggereattraverso le tradizioni che continuavano o riformavano,motivati anche dal bisogno di “umanizzare l’immagina-rio”, con Wordsworth si arriva alla malinconia esistenzia-le, all’epoca in cui l’unico raccolto è possibile solo attra-verso la morte. Emerge così una tensione di fondo tra

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una “struttura eternizzante” (1964:15), e una “pulsioneapocalittica” (1964:xii, 17). “Una poesia di Wordworth,” scri-ve Hartmann, “è dunque da leggere come una reazionealla coscienza di questa [tensione], ma anche come unasua espressione”. (ib. 16) All’analisi ravvicinata, i testi delgrande laghista delineano una poetica della congettura(“surmise”) che trasformano la retorica descrittiva deimodi di essere, per esempio l’idillio o l’elegia, in una de-scrizione degli umori e dei sentimenti (“feelings”), e quindiin una autoconsapevolezza del proprio sentirsi vivere. Daqui la sottile ma costante attrazione al polo apocalittico(che egli aveva in parte già individuato nel suo primo la-voro, e che in parte continuerà a illustrare nei poeti difine secolo e oltre), cioè quel “desiderio di cacciar fuori lanatura e di arrivare al contatto diretto (“unmediated”) conil principio delle cose.” (ib. x) Le vicissitudini di questadialettica tra nichilismo e utopismo rappresentano uncomplessissimo nodo nell’interpretazione della criticaamericana (ed europea) nel novecento.

Nel saggio “Il dedalo del modernismo” (ora in 1970:258-81), Hartman osserva che il modernismo ha dato alla luce,tra l’altro, due modi di far poesia: la poesia cosiddetta “ac-cademica”, che utilizza un frasario chiaro e concetti bendefiniti, e in cui il poeta è primariamente uno scrittore,non uno che vive poeticamente; e una poesia che reagi-sce “apotropaicamente” alla storia e a cui non interessané di meditare né di mediare alla maniera di Joyce, Pounded Eliot. Questa seconda corrente, che annovera tra glialtri A.R. Ammons, W. Stafford, C. Olson e D. Jones, e chesi snoda attraverso la poesia oracolare di Graves, quellacorporale di Hope e quella stoicistica di MacNeice perarrivare all’ansia temporale di un Lowell, è difatto contra-stata da una forte tendenza alle forme “classiche” degliepigoni di Eliot. Tuttavia, è l’eccessiva disponibilità e uti-lizzo di forme nuove e miste distribuite per così dire oriz-

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zontalmente che alla fine sbocca in quella “decadenza” o“declino” rappresentato dalla Beat Generation. In questocontesto, Hartman rileva che ormai quel che conta di piùè la proiezione della voce, l’insinuazione profetico, l’ef-fetto shock, l’intrusione della tecnologia. Di conseguenzala poesia diventa la propria occasione, non elabora unadimensione spirituale e, benché l’enfasi sensorio-percet-tiva sia brillante, il risultato è “superficiale”.

Questo orizzonte di situazione ha un effetto diretto sul-la critica, poichè la pulsione nichilista, l’esplicita volontàautodistruttiva negano le stesse funzioni e distinzionidell’interpretazione letteraria e qualsiasi concezione ge-rarchica della cultura. Per il critico di Yale, l’indifferenzaper le istituzioni sacre, l’anarchia del significante, l’im-perversare della mediocrità sono diventati ormai intolle-rabili. É dunque conseguente che nello studio “Per unastoria letteraria” (1970:356-386), Hartman non si sottrag-ga all’esigenza etico-critica di una “difesa dell’arte” aridosso di una indagine su cosa è un fatto artistico. Quialcuni assunti cominciano a modificarsi. Chiamare l’artefilosofica anziché storica è un modo di strapparla alle pinzedei sociologi e degli storici puri, e in ogni caso c’è sempreun principio autoriale che sfugge al genio e alle conven-zioni di un’epoca. L’individualismo, insomma, non si toc-ca. D’altro canto, tuttavia, l’autonomia tanto anelata edecantata nella modernita` corre il rischio costante dicalcificarsi dentro sterili e solipsistici monumenti. Tra ledue esigenze, s’incunea il problema di come rispettarel’autore senza che questo diventi l’interprete prevaricantedi se stesso, situazione reminiscente di pratiche criticheche spesso rischiano di sopraffare l’opera. Una teoria let-teraria, sostiene Hartman, deve ridare all’arte la fiducianella forma e nella vocazione storica.

In questo ambito di problemi, Hartman lascia momen-taneamente il polo dell’opera e si rivolge a quello della

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critica in sè, facendo i conti con le più influenti teoriecontemporaneee. Scopriamo qui che la posizione diNorthrup Frye ha il difetto di rimuovere la distinzione trasacro e mondano, e tra aristocratico e popolare, e quindinon si può considerare né dialettica né realistica, anzi,nell’assenza di una integrazione tra forma dell’arte e for-ma della sua coscienza storica, l’idea dell’arte comedepistamento all’insegna di categorie preesistenti è inso-stenibile. Queste riserve fanno tutt’uno con una criticaallo gnoseologismo kantiano di Frye, poiché il canadesenon si accosta allo specifico delle differenze tra mito, ritoe testo, e non è ricettivo al darsi dell’autocoscienza speci-fica. La critica a Levi-Strauss fa perno invece sulla conce-zione metodica del mito che resta costante indipendente-mente dalla società presa in esame. Infatti per lo struttu-ralismo di Levi-Strauss il mito ha una dimensione ester-na che riflette le tradizioni locali e può formularsi in ter-mini matematici. Ma come per Frye, il mito e la matema-tica sono correlati in maniera misteriosa, rimandando piùa Platone che ad Aristotele: “Ciò che manca in questadescrizione è precisamente il terreno intermedio (“middleground”) tra mito e matematica, occupato dall’arte”(1970:364). Verrebbero così a mancare le descrizioni del-le qualità narrative che più interessano al critico, o checomunque egli ritiene principali espressioni in una poe-sia, e cioè tono, umore, ritmo, sorpresa, rimozione, il con-getturare, ecc. Nello stesso periodo Hartman riprende ecritica la concezione elitaria della letteratura propugnatada I.A. Richards, la cui retorica e` nostalgica di una archi-tettura neoclassica irrimediabilmente lesionata. Un ulte-riore esempio di questa tendenza lo si vede realizzatonella poesia di MacLeish, per il quale la poesia non deve“significare” quanto “essere”, con il rischio che la demo-craticità minimale (ossia: tutto può essere detto in poe-sia) si traduca in aristocratica esclusività (la poesia serve

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a purificare l’animo da impulsi all’azione, e tra l’altro sipreoccupa di universali, come le emozioni, o feelings, lacui espressione esige raffinate astrazioni). L’apertura diRichards alla partecipazione dell’ascoltatore/lettore, chefu determinante per una rivalutazione della retorica daparte del suo contemporaneo Kenneth Burke, è viziata daun presupposto filosofico che richiama, secondo Hartman,la nozione di dialettica in Platone. Il valore terapeuticodell’arte in Richards è infatti analogo al valore intellettua-le della dialettica di Socrate: purgare le idee fisse condu-ce verso l’alta e unica forma di verità. Ma l’assunto socra-tico di una fondamentale identità tra chi pone la doman-da (e al di là della sua struttura retorica), e chi ascolta (aldi là dei codici convenzionali di recezione) evita di con-frontarsi con diversi problemi astanti, e cioè, l’esserci diquesto o quell’interlocutore, il dubbio che questa identitàpossa venire meno, e maggiormante il problema di classee di nazionalità, poiché presuppone una società egalitaria,di uguali “la cui mobilità è essenzialmente intellettuale”,ossia interattivamente, ideologicamente costruita. La dia-lettica platonica sposata a una teoria della comunicazio-ne dà luogo a un’idea dell’arte e dunque della poesia comemezzo di comunicazione speciale, privilegiato, infine eli-tario. Hartman riprende qui il suo tema: ciò che la teoriadi Richards non può porre in luce “è una concreta com-prensione di come questo mezzo medî, di come in effetti,nella storia, riconcilii e unifichi persuasioni differenti.”

Si pone qui il primo requisito ontologico: la forma lette-raria è funzionale nel senso che induce ad esercitarci vol-ta per volta verso la risoluzione di certi complessi portan-do così la vita ad armonizzarsi con se stessa. Ma questafunzionalità non è poi essa stessa così duttile e pacifica,in quanto l’arte oltre a “risanarci” ci divide, e “il suo pote-re terapeutico può anche complicarsi col potere di ferire”.Volgendo a quell’inesauribile granaio di idee, di perora-

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zioni e di promesse che sono le Lyrical Ballads, Hartmansi appropria della nozione wordsworthiana di poeta, se-condo la quale è il poeta a definire l’uomo e il suo mondocome agenti e reagenti reciproci, in modo da “produrreun’infinita complessità di dolore e di piacere”. Non si dàpiù una olimpica tranquillità né una speranza di supe-ramento o risoluzione. Si può dire dunque che rientria-mo nella duplice pulsione di fondo, la tendenza all’apo-calisse, da una parte, e quella dell’immimente autodis-soluzione, dall’altra. Per sopravvivere a questa torsioneed affermarsi, pari all’arte, come autonoma, la critica sirivolge ancora più disperatamente all’intuizione dei poeti:

Un grande artista ha l’ambizione di imposses-sarsi (e di trasmettere) la fiamma dell’ispira-zione, di identificare il genio dell’arte con ilproprio genio o con quello di una data epoca(genius loci). (1970:367)

L’esasperazione della crisi dell’autocoscienza si tramutapertanto nel problema della propria presenza e funzionee dell’impegno a essere ciò che si è, creatori mediatori etestimoni al tempo stesso. Sorge qui l’ipotesi di una “teo-ria della vocazione letteraria” che però s’incammina fa-cilmente verso la strada già additata come pericolosamenteelitaria, poiché intrisa com’è di nozioni romanticiste essaingenera le possibilità di una forza motrice nell’idea dielezione (evidence for election). Emergono qui le premes-se per un discorso “di parte” che legittima l’auto-elezione,a partire da quella, psicologicamente storicamente estilisticamente travagliatissima, del poeta che sfida gli dei:

Le convenzioni a sua disposizione non ridu-cono l’agonia dell’auto-elezione: se egli am-mira gli antichi, trema al pensiero di rivaleg-

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giare con loro; se non li ammira, trema da-vanti al vuoto che deve riempire. (1970:368)

Quando l’arte mette in questione se stessa e sopravvivetuttavia alla propria ironia e negazione, il discorso della sto-ria letteraria coincide (almeno in parte) con quello dellafenomenologia della storia delle idee, come lo stesso lessicodi Hartman ci induce a pensare: termini quale apparenza,manifestazione, individuazione, emergenza, essere-nel-mon-do, integrati a sollecitazioni (e presupposti) antropologici esociali, impongono una presa di posizione che si rivolge allascienze umane in quanto primariamente “umanitarie”. Sot-to o attraverso le sottili ipotesi sull’ingenium e l’ingenu e lemicroscopiche analisi testuali, Hartmann è dichiaratamentealla ricerca di uno “stadio intermedio” (middle ground), chescopriamo essere minacciato da un lato e l’altro dal parricidioe dall’infanticidio. La problematicità della fine del Settecen-to, per esempio, scrive Hartman, può attribuirsi al fallimen-to dell’universalismo francese, universalismo nazionalee temporale, per cui il Genio, scacciando un “falso geniusloci”, o scoprendone uno vero, rivela se stesso e ci arricchi-sce. (ib. 378)

Queste ipostasi del genio e della razza o perfino dellapatria, in un’epoca che guarda con sospetto ai miti del-l’identità nazionale o etnica, addita per un verso all’inso-stenibile attuale condizione in cui, anche tra gli intellet-tuali, si notano conflitti di fiducia, identità sfilacciate etravisamenti culturali in una caotica ridda; e per un altrol’esigenza, tra i “malori” del pluralismo (anche di como-do, o esagerato), di riprendere le fila di un discorsoautoconsapevole e mirato, espunto dai testi di Herder,Arnold, Cournot, Emerson e, nel nostro secolo, Curtius,Malraux e Auerbach. Viene in mente di chiedersi qualipotrebbero essere gli autori italiani che, mutatis mutandis,rispondono a questa genealogia? ipotizziamo: Vico (ma

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quello degli idealisti), De Sanctis, Croce, Spirito, Pasqua-li. La conflittualità della situazione può anche dar luogoalla stasi, all’impasse. Ma siamo a un passo da una svoltanecessaria.

Quando, nel saggio omonimo, “Al di la` del formalismo”,scritto nel 1966, Hartman osserva che il formalismo èsoltanto un “metodo” che rivela il “contenuto umano” diun’opera tramite lo studio delle sue proprietà formali, eglinon è tanto interessato a riproporre il logoro binomio “for-ma/contenuto”, quanto a ribadire che l’apporto del discor-so interpretativo, il lavoro del critico, insomma, è crucia-le, imprescindibile, ha un suo valore e funzione co-possibilitante al significare dell’opera, anche perché al dilà della dicotomia di base, “il grande critico” può esprime-re entrambi, l’umano e il formale, visto che “oltrepassareil formalismo potrebbe risultare contrario alla natura del-l’intendimento”. Sotto un profilo strettamente storiografico,l’ordine dei problemi discussi fa pensare a un grovigliodibattutissimo nell’ottocento, da Schleiermacher a Dilthey.Ma Hartman rimane, diciamo così, pre-ermeneutico:

L’unico tipo di interpretazione ideale o ogget-tiva è quella in cui si possono comprovare re-ciprocamente i nostri termini (invece di unaparticolare esegesi o conclusione) rapportan-doli a quelli del poeta o comunque vigenti nelsuo milieu. L’interpretare vuol dire portareavanti nel presente la poesia, che vuol direriconoscerne la storicità, fondando quindi i no-stri termini nella storia. Per attuare ciò biso-gna andare al di là sia di Brooks che di Batesone descrivere in maniera storica al massimo ladifferenza tra il “non-stile” di Wordsworth el’imbellettato stile che minava. (1970:45)

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Alcuni anni più tardi, quando stende i saggi che confluisco-no ne Il destino della lettura (1975), la crisi del critico si ac-centua poiché tutte le opposizioni, le categorie trascendenta-li, l’idealismo elitario, il moralismo professionale e l’insoffe-renza di fronte alla plurivocità delle manifestazioni artisticheodierne che mettono in continuo scacco le formulazioni“comprensive” della critica, vengono sempre più prepotente-mente a insidiare il discorso di Hartman. Egli osserva che“in principio fu la Parola, alla fine sarà la Megafiche”.(1975:251) L’irrequietezza di questa fin de siecle suggeriscel’emblema dell’Ebreo Errante: la critica non è più capace direcingere un argomento, o qualsiasi investigazione: “la chiu-sura (closure) è la morte”. E infatti, benché l’albero della co-noscenza non sia quello della vita (sulla base di uno spuntoche risale a Byron), continuiamo a “trasformare la vita insapere”. Bisogna dunque andare oltre la Modernità:

Pater o Nietzsche: che strana scelta ci offre ilbuon Dio della Storia. Da un lato, la transizione,o la promessa di entrare in un’epoca (“moder-na”) veramente nuova; dall’altro, la puratransitività. Da un lato, la perpetua adolescen-za, un moratorium che tenga aperto il futuro;dall’altro, il piacere della presenescenza, di unacoscienza `prolettica’ per cui non c’è nulla dinuovo sotto il sole eccetto il rinnovarsi di quelpensiero. L’ascetismo baroccamente elaboratodella scuola di Derrida, in particolare, affrontala vita come un panorama nietzschiano di ripe-tizioni o differimenti. Com’è strano che lavernale o spermatica Parola diventasse, in que-sta filosofia ispiratasi alla parola, il modello perun anti-rinascimento, una de-nascenza di me-raviglia. Prepariamoci alla fine...della Moderni-tà. (1975:252)

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Come si comporta il critico di fronte a questa conturbantesituazione? Additando subito le contraddizioni: filosofi im-pregnati di mortalità cercano di uccidere l’antico fuorilegge,ossia la Meraviglia, ma restano imbrigliati nelle maglie chela meraviglia-errante (wonder-wandering) ha sempre trama-to. In sintesi, Hartman torna all’ipotesi, centrale al suo me-todo, dei middle terms o termini intermedii, i quali ben siintegrano con la teoria degli stadi intermedii teorizzati anniprima, e che vertono appunto sulla mediazione da parte delcritico dei “forti inizi” vis à vis le “forti chiusure” dell’opera.In un’epoca di eccessivo pluralismo alle soglie dell’indiffe-renza, non è cosa pacifica per il critico osservare che persi-no nelle aule universitarie non si distingue più tra analisigrammaticale e spiegazione genetica, tra finzione e sfrutta-mento ideologico, e dunque tra “classico” e “non classico”,tra canonico e apocrifo, tra insegnamento (mishnah) emarginalità (baraitah). Sollevando l’ipotesi di una doppiastrada dell’interpretazione, che si identifica comemetalinguaggio e come paralinguaggio, il critico insiste chebisogna percorrere la prima come “grammatica storica” omeglio, come un latino mentale, insomma, o codice specia-lizzato, mentre per la seconda via si rischia di degenerarenella parafrasi o nella “glossolalia intellettuale”. E tuttavia,malgrado l’esplicito richiamo a una via di mezzo, il suo stes-so stile oscilla tra queste due tendenze e manifesta l’irre-quietezza di chi, come i suoi poeti, è consapevole del dram-ma esistenziale tra la vanità del tutto e l’improrogabile esi-genza di foggiarsi gli strumenti in vista della rivelazione.Nel saggio “dal sublime all’ermeneutico” (1975:114-123), peresempio, egli si allontana da ogni tutela essenzialista delcogito, ribadendone la mera strumentalità metodica, ben-ché subito dopo incalzi sostenendo che la testualità potreb-be istituirsi come la forma di una “alterità” (otherness) datemere — in sintonia, su questo, con Edward Said e Paul deMan —, e che “l’interpretazione che riduce le parole a indi-

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zio (clue) o sintomo rischia di trasformarsi in nosologia e difare di noi critici spie, medici, smascheratori, archeologi(1975:121). Si percepisce la titubanza davanti alla dupliceinsidia, quella dello sdoppiamento dell’arte in dueirriconciliabili metà, e quella della vanità di ricondurre ildiscorso interpretativo sotto l’egida di una forma sicura ecoerente, quantomeno nella sua istanza pedagogica e mora-le.

L’incontro o meglio scontro con Derrida e il post-struttu-ralismo non può quindi essere differito ulteriormente, inparticolare negli anni settanta (Carravetta 1984). Dopo lademolizione a tappeto delle diverse teorie all’orizzonte, e lefrequenti punzecchiature ai parigini, tutte volte appunto adeterminare quale è o potrebbe essere il destino della lettu-ra, Hartman approfondisce la tematica nel suo susseguentelibro, Criticism in the Wilderness (1980, e di recente tra-dotto in italiano), con ovvio richiamo al pellegrino sperdutonella selva oscura e in cui si anela a una luce, a una propriateoria, che illumini la strada, che dia coerenza e legittimitàai metodi d’indagine. E ancora una volta il nostro criticos’avvia lungo nuovi itinerari. A un certo punto egli parago-na il commento critico a un romanzo giallo, ma presto nerileva i pericoli, in quanto la finzione è seducente, e la sedu-zione equivale alla persuasione, cioè all’assoggettamento dellinguaggio in quanto tropologia. Un’altra strada, quella deldialogo, è prospettata nel saggio “Autoanalisi dell’Interpre-te” (1980:3-19), ma Hartman subito la scarta poiché questoimplicherebbe una teoria del “personalismo”, cui egli è av-verso, come avverso è agli eccessi di oggettività, all’enfasisull’unità, e qualsiasi forma di psicologismo. In una secon-da perorazione sulla decostruzione, egli scrive:

Il movimento perpetuamente auto-rimoven-tesi e decentrante del nuovo stile filosoficodimostra che il valore non dipende dall’idea

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di un qualche testo primario o privilegiato: ilvalore risiede intrinsecamente nel dominio delsecondario, dell’écriture. La scrittura, come hafelicemente osservato Derrida, è una ‘secon-da navigazione’. Con questa evidenziazione delsecondario sono sostanzialmente d’accordo”.(1975:13)

Ma anche a tener presente l’altro caposaldo della criticadi Yale, che cioè l’interpretazione è sempre già in ritardo,o tardiva (belated), nozione che dovrebbe avallare l’ipote-si della convalida metodologica del ‘secondario’, Hartmannon può esentarsi dal pensare che l’interpretazione richie-da quel qualcosa che è l’opera come altro, vale a dire, eglinon concepisce la riflessione critica se non in termini diun discorso che si contra-oppone a un qualcos’altro, testoo fenomeno che sia. Ne consegue che la visione della co-munione integrale fra critica e opera (in quella che l’erme-neutica chiamerebbe “l’esperienza estetica”), o dell’annul-lamento tra un prima e un dopo, viene apotropaicamenteallontanata, per sostituirvi la concezione ricorrente del-l’anaclitica, ossia l’arte di poggiarsi su qualcosa di dato:“laddove la critica letteraria non è commercio, esse ren-de tuttavia l’arte negoziabile da generazione a generazio-ne, o ne determina il valore”. Tuttavia, non ci si dimenti-chi che, “qualsiasi cosa sia l’arte, essa viene prima neltempo (earlier) dell’interpretazione”.

É necessario questo referente, questo “terzo incluso”nella dialettica tra testo e interpretazione? Di certo l’epo-ca del post-strutturalismo ha dimostrato che il sistemacartesiano e dualistico non regge più come metodo, poi-ché esso è già in partenza non solo in ritardo, ma evidenziaanche la propria “secondarietà”, l’elemento diciamo ri-produttivo, ripetitivo, destinato a riconfigurarsi come si-mulacro di se stesso, o meglio, della propria assenza. La

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poesia sì, può pretendere di conseguire la “visione imme-diata” o meglio, “non-mediata” (la unmediated vision delprimo libro), anche se poi, a ben vedere, non fa altro chedischiudere il baratro del nulla. E adesso, sembra pensa-re Hartman mentre contempla la scena artistica attuale,la poesia ha varcato le soglie del sapere, del referente, enon si sa più dove trovarla, come distinguerla dalle altreforme della cultura. In questo libro che, secondo EdwardSaid (1983:149), si articola, assieme a After the NewCriticism di Frank Lentricchia, quale rara e profonda me-ditazione sulla storia della critica, Hartman avverte la fru-strazione di un’attività che o brancola nel buio o si perdein un labirinto di specchi senza fine. Tra le due stradeaperte alla critica americana negli anni settanta, traccia-te da Edward Said, ossia quella della testualità pura fuoridel tempo e dello spazio, e quella mondana e sociale eche accetta il verso referenziale della moneta del linguag-gio (Said 1983:140-57; corroborato dagli scritti di Donato,Harari e Leitch), nei saggi qui raccolti Hartman non sem-bra aver deciso ancora e, per quanto si mostri aperto auna pletora di nuovi stimoli e idee, non manifesta moltasimpatia né per l’ermeneutica né per il pensierosociologico. Si potrebbe dire che non è solamente Hermesche sprona il critico, ma il fantasma di Hermes cheumbratile e sfuggevole lo costringe a un serrato confron-to con i mostri sacri della giungla, in un tentativo non piùdi distruzione o di decostruzione, quanto di ricupero,rivalutazione, aggiornamento quasi. Così egli rileggeCarlyle, Eliot, il collega Bloom; il suo linguaggio si fapoliedrico, le citazioni non vengono virgolettate, e si par-la sempre più di mito, di filosofia, di esigenza storica, maanche, purtroppo, della necessità di “anglicizzare” — dun-que: “americanizzare” — talune voci o impulsi latini, me-diterranei, mediorientali. Queste aperture sono ancoratutte da studiare. Poi ci sarebbe da menzionare le letture

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particolareggiate di Coleridge, Kafka, e Benjamin. Ma allafine, il suo ideale propende per un cultural criticism cheoscilla tra Matthew Arnold e Lionel Trilling.

Quando vede la luce La sopravvivenza del testo (Savingthe Text, 1981), s’intuisce che il compito del critico chesbuca dal bosco o dal deserto è in ultima analisi quello disalvare il salvabile, cioè, ancora, riprendendo e riadattandouna forma di difesa della poesia che però includa anchela critica. Questo libro infatti vuole essere una sorta di“avventura” nell’aspetto appunto scrittorio, o artistico, deltesto interpretativo, un tentativo di abolire la distanza tratesto primario e testo secondario. La critica, nota il criti-co di Yale, non deve essere più considerata il “supplemen-to” di un testo presumibilmente primario o centrale (quin-di in parte ripensando quanto abbiamo visto sopra circale distinte autonomie, quella dell’arte e quella critica). Lacritica, dunque, è sostanzialmente un practical criticismche si libra ed esiste ormai a livello di texte-milieu, un ge-nere a sé ma come artefatto “primario”, originale, che nonha bisogno di appoggiarsi o fare da supplemento a un al-tro testo.

L’esigenza di coerenza critico-morale costringe Hartmana tuffarsi nell’esperimento stesso, attraverso una micro-scopica e ipercritica lettura di Glas di Derrida. Il risultatoè sconvolgente, e ci rivela di Hartman una vena critico-creativa o meglio scrittoria che con pochissime eccezioninon ha eguali nella scena americana contemporanea.Quali le conferme, quali le novità? Intanto non è dato unlogos solo e unificante; esiste, al massimo, una divinaparaprassi imitata alla maniera del giullare medievale odel moderno grammatologo. La decostruzione è una svol-ta attuata contro la volontà dell’autore, il quale purtuttaviavi si trova inscritto, ed è contraria alla volontà di chiun-que voglia esprimere quest’esperienza o impersonifi-cazione eccetto a costo di un utilizzo delle parole che punta

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sui suoni, i quali sarebbero, poi, volens nolens, mistiche,come una teologia rimossa o negativa (1981:7). Tutto ècitazione, plagio, furto, assimilazione coatta: ma questoperché le parola sono già da sempre mediate (1981:14).Emerge il problema della testualità ici-maintenant e dellasua immediata negazione: la scrittura di Derrida è un con-tinuo in-cidente, un Beispiel che non cambia nulla, mache tuttavia radicalizza le possibilità significanti della “sce-na della scrittura”. Per Hartman Glas è la scienza dei resi-dui (1981:16), oppure un’antiscienza o, ancora, come lachiamava Bataille, una eterologia: “è facile scivolare dametafora a metafora nel descrivere quest’opera” (1981:24).E come per Nietzsche, e a conferma della sua giovanileintuizione in merito alla presenza schiacciante delnichilismo nella tarda modernità, anche tramite il testoderridiano il critico riconosce che “è il vuoto che rimaneche diventa fondamento” (1981:24). Senza neanche forza-re i termini dell’impostazione hartmaniana, ci sarebberoqui le premesse per uno sviluppo anche ontologico-ermeneutico, nel senso gadameriano, oppure verso un’on-tologia debole, nel senso di Vattimo, o ancora, in direzio-ne di quell’heideggerismo di sinistra praticato dalla scuo-la di Binghamton negli anni settanta (Spanos, Bové,O’Hara, Finsk). Sono, queste correnti, debitrici del mede-simo impulso, cioè il nichilismo, e rispondono, in diversimodi, alla medesima decostruzione, ma a Hartmanquest’ermeneutica “laica” e post-liberalista non interessaoltremodo. Vedremo che alla fine l’unica ermeneuticapossibile sarà quella sacra, o rabbinica, di cui egli è culto-re. Ma in questo torno di tempo, è già un’impresa notevo-le attraversare il minato terreno derridiano. Tuttavia, nel-l’osservare che non c’è Aufhebung possibile, che la disse-minazione non è “formalizzabile”, che la figura dominan-te per comprendere è l’equivoco, che ci si trova nostromalgrado nel regno delle contaminazioni interminabili,

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e che in fondo si è perennemente sull’orlo del regressostorico ad infinitum, Hartman alla fine non può non al-lontanarsi dalla decostruzione. L’intero viaggio inter-te-stuale è stato effettuato con una disponibilità intellettua-le e una generosità critica esemplare, ma non per questoil critico non era anche pre-disposto a captare un cennodi risposta, a conseguire una meta più alta, e solida:

Il mio desiderio, in questo saggio, di imitare odi sapere è anche una manovra estetica perdomare un’intollerabile paura-del-discorso,per trasformarla in atti di volontà che cerca,dopo Socrate, di stabilire l’ideale della scienzacome pura conoscenza o sapere disinteressa-to. (1981:157)

Ma, ci si può legittimanente chiedere, non è, questa,una affermazione da alta modernità? Va bene il candoredi evidenziare la portata personale e autoriflessiva dellostudio, ma non si rientra nell’illuminismo, nel kantismopiù prevedibile quando — a dispetto del proprio attraver-samento grammatologico di Glas — si punta consapevol-mente verso la conoscenza pura (come se fosse possibileal di fuori di una convenzione circoscritta, un predeter-minato stile narrativo, di un settore delimitato), o il sape-re disinteressato (come se il sapere non fosse già per co-stituzione una forma discorsiva sociale interessata, cioèmotivata e interrelazionata). Se le parole sono anonime etrasmettono impressioni di origine impersonale o di unessere autonomo, o “altro”, ebbene, insiste il nostro, forseè proprio questo l’effetto letterario o estetico: la “temibileVoce” esiste in quanto poesia o non esiste affatto, richia-mandosi a Keats e Blake.

Non sarebbe errata l’impressione che Hartman stia an-cora procedendo a tastoni nella giungla o nel deserto

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dell’interpretazionee, cercando di adunare alcuni concet-ti sotto una generica categoria o meglio detto una teoriacritica. In un saggio uscito nel 1983, “ReconnoiteringChaos” e adesso in Scritti d’occasione (Easy Pieces1985:199-218), Hartman ritorna a confermare come ogginon sussistono più demarcazioni o frontiere tra la criticae la poesia, tra generi letterari e idioletti e linguaggi gergalipresi bruscamente a prestito da altri ambiti. Egli separadue tendenze generali nella critica contemporanea, di cuila prima è paragonabile al metodo filosofico di Sarte inte-so come “riflessione purificatrice”, od anche all’erme-neutica del sospetto di Ricoeur. In quest’ambito ogni te-sto viene scrutato all’insegna di un desiderio di voler estrar-ne una divinità, di “umanizzare” la letteratura. La secon-da tendenza invece conduce il testo a pericolosi entusia-smi, i quali possono contagiare in maniera redentiva oquantomeno simpatetica i rapporti tra testo e lettore alpunto da spostarne l’asse centrale verso ciò che a tutti gliaffetti è una nuova creazione: “il testo che riguarda il te-sto (the text about the text)” (1985:204), quello del critico.Ma stabilito ancora una volta che la critica non è secondaa niente e nessuno, il problema di Hartman rimane peròsempre quello dello statuto della “terza via”, poiché eglichiaramente non potrà adottare le le distinzioni neoclas-siche ed esclusiviste à la Croce o à la Eliot, né tantomenopotrà accogliere pacificamente la sovradeterminazione deisignificanti liberati dal testo critico-creativo. Quello checi vuole è un tipo di critico il quale, flessibile nei suoi nonpiù metafisici presupposti, riesca tuttavia a sfruttare “l’ele-mento creativo nella critica” (1985:206). E dove può emer-gere questo aspetto critico-creativo meglio che nell’inter-pretazione dei testi sacri, del Vecchio Testamento in par-ticolare? Poiché agli occhi di Hartman il gran meritodell’esegesi testuale e del correlativo commentario consi-ste precisamente nell’individuazione di possibilità di senso

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le quali, per un verso, tengono sempre presente unaunitarietà di fondo (il verbo divino), e per un altro sonochiamate a costruire le finzioni possibilitanti a partire dal-l’assegnazione dei nomi, dei valori semantici, infine dal-la stesura medesima del testo che s’inserisce nelle magliestoriche dell’interpretazione (1986:12-17). Nozione, que-sta, che ritroviamo negli ultimi saggi sul “suo” Wordsworth(1987:213), dove allo stile piano, zeppo di cliché e quasiprosastico se non addirittura parlato del poeta romantico— e che tuttavia riesce a infondere quella sua spontaneamirabile suggestività —, il critico è chiamato a rischiareuna sua valutazione, indicando e nominando le possibiliinflessioni, finzioni, i riverberi. Infatti nel caso specificodi Wordsworth, poeta canonico sottoposto da sempre aprevenute (e quindi prevedibili) letture dai vari NewCritics, dagli strutturalisti, e dalla psiconanalisi, il proble-ma ermeneutico è costituito proprio dalla chiarezza e dalmistero di una dizione la quale, benché “non rimarchevo-le” (unremarkable), lascia trapelare rapporti e ipostasi chesovrastano il testo, in certo senso ricuperando la sobrietàe nobiltà del dettato biblico, ed esigente quindi dall’inter-prete lo sviluppo di una trama di rimandi significanti maanche significativi, cioè meaningful, attuali, pragmatici,da utilizzo quotidiano. Per un poeta come Wordsworth chescrive con un esplicito tono e ritmo “di responso” sia allepercezioni naturali e sia, parimenti, all’affacciarsi di posi-zioni mentali, in cui tutto tende a una sintesi senza riso-luzione, a una affermazione indefinita, diventa necessa-rio per il critico Hartman di “rispondere” anch’egli con lapropria versione, rientrando così nell’ottica tracciata du-rante tre decenni e che contempla un’impegno profondoe militante ma sempre a metà strada tra testo e significa-to. E tuttavia, egli non si addentra nel terreno del retoricoe del figurale, aspetti che verosimilmente potrebberodischiudere ulteriori ipotesi interpretative del testo

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wordsworthiano. In merito proprio a Wordsworth,Hartman aveva bene intuito, già nel libro del 1964, che siaveva a che fare con quel “suo stile inimitabile in cui lametafora (trasferenza) è una struttura generalizzata anzi-ché una figura verbale particolare” (1964:xi). Allora il com-pito del critico rimane precisamente quello di scandirequesta metafora generale, che chissà potrebbe riferirsi allinguaggio tout court, o alla poesia come manifestazionespeciale del linguaggio, e di trarne o di esporne laimplicanze, poiché quando diciamo metafora siamo a undipresso della figurazione e dell’allegoria. Resta confer-mato, però, anche nella sua ultima raccolta (1991) che difronte alla tensione poetica di base tra apocalisse eautodissoluzione che torna e ritorna con mille volti, lacritica a sua volta oscilla costantemente tra l’esigenza difissare un valore che trascende l’opera singola, e la ne-cessità di rispondere con precisione alle specifiche do-mande poste (o non poste, che è lo stesso) dal testo inquestione. In virtù della componente interpersonale esociale della critica, la forma letteraria o il genere chemeglio si attaglia a questo compito resta il saggio critico,cioè quel tipo di intervento che sappia giocare tra analisie sintesi, tra testualismo e latente figurazione, tra specu-lazione e dubbio pragmatico, e su tutto sulle prospettivedinamiche del rapporto tra soggetto e oggetto. E del sag-gio critico Hartman è un indiscusso maestro.

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Capitolo Cinque

La sfida della retorica in Paul Ricoeur

1. Premesse

Una ermeneutica che voglia riscattare lo Zwischennietzscheano, realizzandosi nel luogo dell’incontro tra me-todo e teoria, e che si pone emblematicamente sotto l’egidadi Hermes,93 incontra profondi stimoli di riflessione edipotesi di sviluppo nell’opera di Paul Ricoeur. I primi duepresupposti si allacciano alla problematica ricoeurianadella dialettica della mediazione tra tutta una serie didualismi e dicotomie ch’egli ha studiato, criticato e nonsempre superato nel corso degli ultimi quarant’anni. Sitratterà di quel “qualcosa” e/o “qualcuno” tra due poli otermini di qualsiasi analisi che sfugge, che lascia residuo,che ritorna come una ossessione, un fantasma, e che incerto modo è cruciale tanto all’esistenza quanto alla suacomprensione. Per Ricoeur questo ha significato, tra l’al-tro, un confronto serrato con le varie metodologie di estra-zione scientifica e comunque a stampo razionalista, e inseguito tra queste e la legittimazione o coerenza teoretica

93 Come quasi tutti i capitoli di questa senza parte, il presente inter-vento doveva originalmente costituire un capitolo della parte V, «Inda-gini su retorica ed ermeneutuca» del mio libro Il fantasma di Hermesdove appaiono analoghi interventi su Gadamer e Grassi. Esso fu espuntoper ragioni di spazio e pubblicato in versione rimaneggiata su Paradigmi36, 1994.

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del discorso. Chiamiamo questo secondo polo l’ontologico.La premessa qui è che l’interpretazione si dà all’incrociotra metodo e teoria, cioè tra un sistema di regole che go-vernano, coordinandole e subordinandole, una serie diazioni o procedure che chiamiamo conoscitive, insommauna coordinata epistemologica, e un insieme di principifondativi e legittimanti tipicamente assiomatici, atempo-rali, eternizzanti, teologocentrici, che riguardano i valorie che chiamiamo la coordinata ontologica. Entrambi i ter-mini vanno presi nel loro senso più ampio, al di sopradelle specifiche varianti effettivamente riscontrabili nel-la storia del pensiero. Detto altrimenti: si sostiene chenon si può applicare un modello interpretativo rigorosa-mente “razionale” a un’opera d’arte o ad un avvenimentodi cultura, spiegandocelo secondo metodi “scientifici,”senza al contempo tener di conto della sottostante, o me-glio, sovrastante componente ontologica, cioè dei suoipresupposti teorici, della visione unificante che istruiscea garantisce la proprietà, correttezza e infine legittimitàdella procedura medesima. In breve, l’applicazione di undeterminato metodo dimostra in parte che il metodo fun-ziona, e in parte che i risultati erano già pre-visti dallateoria — esplicita o implicita che sia — che la sottente.Viceversa, chi parte da una teoria, non può non fare ameno di determinati metodi per realizzare il progetto insitonella medesima costruzione teorica. La mia ricerca mi hacondotto sul terreno della retorica come tertium in cuisia il metodo, sia la teoria, devono per forza incontrarsi.Considero questo il luogo di partenza per poter ripensarelo statuto e il valore della pratica, o della prassi, interpre-tativa. Compito del presente lavoro è in parte appuntoricercare in che maniera e in seguito a quali altri proble-mi connessi Ricoeur risolve o sviluppa questa premessa.Di certo, la seguente osservazione promette una confer-ma quantomeno della prima parte della nostra tesi:

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L’ontologia della comprensione rimane impli-cata nella metodologia dell’interpretazione,secondo l’ineluttabile ‘circolo ermeneutico’che Heidegger stesso ci ha insegnatoa tracciare...ciascuna ermeneutica scopre ognivolta l’aspetto dell’esistenza chela fonda come metodo. (1977b:33)

Da qui la necessità di ripercorrere, sia pure per velociaccenni, l’opera del pensatore francese per comprendereil perché e il come egli arrivi a questa posizione. Tuttaviaè la seconda parte, quella riguardante l’aspetto retorico,che secondo me occuperà il Ricoeur degli ultimi tempi,senza che egli la tematizzi in quanto tale e persistendonell’utilizzo di un metalinguaggio di analisi (narratologia,semiotica) che ne ha eviscerato la potenziale funzioneermeneutica. Si scoprirà che esiste nel pensiero ricoeu-riano una problematica ma dinamica prospettiva o possi-bilità del dire e della comunicazione la quale ci riconsegnasì, ciò di cui si parla, ma che questo qualcosa, nell’impos-sibilità di esserci restituito nella sua immanente integritàe datità — in particolare quando si tratta di idee e imma-gini, i.e., di letteratura, di testi scritti, e non di oggettiempirici, o dominii della cosicità — si manifesta in ma-niera indiretta, a volte invisibile, a volte inenarrabile, inogni caso sdoppiata, obliqua, parziale e circostanziale —sarebbe la soglia dell’allegorico. Ma sempre come un fat-to di linguaggio, come un parlare o un dire che non puòesimersi dal di/mostrare la propria condizione retorica,cioè interpretativa ed esistentiva.

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2. Sfondo filosofico

Ricoeur si muove con straordinaria agilità sia tra le pastoiedelle microanalisi sia negli spazi profondi delle macrosintesi,e questo attraverso varie discipline. Nei suoi primi lavori,egli si è occupato della costituzione dell’io e del soggetto inchiave tecnicamente fenomenologica. Tuttavia, mosso an-che dai problematici risultati di questi studi sulla questionedel tempo e la storia, egli era già predisposto a più ampicampi di riflessione e interpretazione, come la colpa, il male,e la volontà. In Husserl egli aveva ravvisato dei precisi “pro-gressi” rispetto ai presupposti kantiani — per esempio, sullaconcezione del tempo come connessa in qualche modo aun mondo o dimensione non solo precategoriale ma anchesociostorico esistenziale (1967:111). Ma nell’analisi dellaQuinta delle Meditazioni Cartesiane, Ricoeur si era anchesoffermato sul problema della storia, che la riduzione eideticadi Husserl sembrava mettere, per così dire, fuori parentesi(1967:146).94 Poiché la esigenza inter-soggettiva del suo pen-siero richiedeva ch’egli si misurasse costantemente con il94 Nel saggio su “Husserl e il senso della storia” (del 1949), Ricoeur ricavaalcune premesse per una interpretazione della storia dai medesimi testihusserliani, elaborando i cambiamenti di registro e di tematiche deglianni trenta, e della Krisis in particolare. Nel sintetizzare gli aspetti utilio interessanti della nozione di ragione che sta a monte della nuova con-cezione husserliana dell’uomo, come per esempio la sua dinamicità, ilsuo essere-diveniente, la congenita capacità progettuale che si unifiche-rà più tardi alla tematica della volontà e dell’etica, Ricoeur mette anchein evidenza alcuni limiti o rischi della ragione (husserliana), e cioè, l’esi-genza di completezza di tutte le intenzioni, il compito di unificare tuttele attività significative, speculative, etiche ed estetiche (cfr 1967:156-60).In questo senso, e in una maniera affatto diversa da quella di Derrida odi Lyotard, egli percepisce il potenziale “negativo” della Teoria e inco-mincia a smontarne la sua architettura “forte” parimenti ai “dogmi”metodologici del pensiero moderno, ponendosi già dagli anni cinquantacome una possibile soglia del postmoderno interpreativo debole eplurivoco, linguistico e locale.

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problema dell’agire, dello scambio reciproco tra soggetti, ecioè quindi delle possibilità appunto dell’intendersi, nonpoteva mancare una riflessione sul linguaggio.

In un saggio del 1957, “Existential Phenomenology,” (orain 1967:202-212) Ricoeur sottolineava come nelle primeopere di Husserl coscienza e parola coincidessero, mentrenegli inediti degli ultimi dieci anni è la percezione che vie-ne fatta diventare l’origine di tutte le operazioni della co-scienza (1967:204). Questo introduce a una possibilità deldiscorso interpretativo di intervenire fattualmente, di agirerealmente, nel mondo95 , e in un certo senso preannuncia lanecessaria presenza, nel circolo della comprensione, nonsolo dell’altro come destinatario o interlocutore privilegiato(e privato), ma degli altri come detentori di significato e dipossibilità (pubbliche) che vanno al di làdell’onnilegittimante io fenomenologico-trascendentale.

Oltre alla percezione, e su un piano diametricamente op-posto, Ricoeur aveva anche indagato la struttura e funzionedel sogno nella creazione e interpretazione della cultura. Ilsaggio su Freud, che risale al 1961-62, riguarda innanzituttoil linguaggio, ed è contemporaneo ai lavori sul simbolismodel male e su finitudine e colpa. L’ermeneutica di Ricoeurnasce in seno all’esistenzialismo e ne sviluppa in seguito lecomponenti che danno significazione non solo all’iocartesiano-husserliano, all’autocomprensione del sé, maanche e soprattutto alla comprensione del senso, alladisamina e ricostruzione dei significati che gli esseri di unasocietà si scambiano o si sono scambiati. Nel saggio su Freudegli ci offre una definizione di interpretazione e di simbolosulla base di una osservazione sulla natura del linguaggio comeessenzialmente duplice, doppia, biforcuta: le parole sono sem-pre distorte, nascondono il significato o ne hanno due allo

95 Diversamente dalla distanza e separazione che invece si invocavanonelle Ricerche Logiche e fino a molto tempo dopo le Ideen I.

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stesso tempo: non c’è da fidarsi. La teoria linguistica che nederiva è elementare, ma efficace e fruttuosa. In sintesi:

a symbol is a double-meaning linguisticexpression that requires an interpretation, andinterpretation is a work of understanding thataims as deciphering symbols. (1970:9)

Il simbolo non è inteso nel senso di Cassirer, per il qualela dimensione di mediazione universale connaturata allafunzione simbolica comprendeva sia la non-immediatezzadella nostra ricezione della realtà, sia la totalità di tutti ifenomeni dotati di significato. Ricoeur osserva che questafilosofia ingrandisce la nozione di simbolo fino a renderloindistinguibile dai concetti di realtà e di cultura. Quello cheinvece bisogna esplorare, e che mette in moto il procedi-mento ermeneutico, è precisamente la distinzione tra espres-sioni univoche ed espressioni plurivoche, su cui torneremopiù avanti. Ricoeur dilata lo schema cassireriano introdu-cendo la nozione di segno come base o supporto concretodella significazione (che può quindi motivare sia l’espres-sione, sia la designazione di qualcosa: “signs [] already havea primary, literal, manifest meaning” (1970a:13)), e si rivol-ge al simbolo per poterne cogliere la sua specificità, la qualesi trova consistere innanzitutto nella capacità di dire qual-cosa in più, tipicamente nascosto ma sempre connesso auna rete di significati. Il simbolo è contrassegnato da undualismo di fondo —analogo ma sovrastante quello del se-gno — che gli consente di farsi portatore di diversi significa-ti: esso è semanticamente plurivoco. E il simbolo fa scattarel’interpretazione perché esige di essere interpretato,96 ha96 Si osservi l’inevitabile circolarità: “Thus a symbol is a double-meaninglinguistic expression that requires an interpretation, and interpretationis a work of understanding that aims at deciphering symbols.” (1970b:9)Il saggio su Freud è del 1961-62. Alcuni anni dopo, egli reitera quasi

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bisogno cioè di completare e realizzare la sua pienezza at-traverso la rimessa in moto in un insieme di possibili signi-ficati che rivelano una struttura intenzionale.

Naturalmente, introducendo quest’ultima componente,siamo anche già al Ricoeur più recente (TR II:263-332)97 ,ma questo forse anche a testimonianza della continuità ecoerenza del pensatore francese.98 L’intenzionalità è dicerto una componente altrettanto basilare nell’ermeneu-tica di Ricoeur quanto la particolare nozione di simbolicoch’egli sviluppa e che inerisce alla medesima pratica del-l’interpretare: “to interpret is to understand a doublemeaning” (1970a:8); come sappiamo, il simbolo ha sem-pre come minimo un doppio senso, uno convenzionale,l’altro alluso o mancante. L’ermeneutica quindi si confi-gura come disciplina sdoppiata a sua volta, poiché in quan-to esegesi, analisi testuale, essa mira a decifrare espres-sioni equivoche, in quanto costruzione di un discorso espli-cativo e comprensivo a un tempo indaga e conferisce si-gnificato al simbolo o simboli di un dato contesto. Perché,alla fin fine, si interpreta? si chiede Ricoeur. Per qualcu-no, è ovvio, cioè vogliamo scambiare un discorso signifi-cativo con altri. Sullo sfondo si intravede già da adesso ilconnesso problema del referente, del qualcosa di cui ildiscorso parla o del qualche-altro sul quale il discorsopoggia per poter andare avanti. Il problema si risolvevain maniera determinata con la fenomenologia trascen-

testualmente: “Simbolo ed interpretazione divengono così concetticorrelativi; c’è interpretazione là dove c’è senso molteplice, ed è nel-l’interpretazione che la plurità dei sensi è resa manifesta.” (1977b [ma:1965]:26, “Esistenza ed ermeneutica”).97 Tutti i riferimenti ai tre volumi di Tempo e racconto verranno incor-porati nel nostro testo tramite l’indicazione TR seguito dal volume epagina.98 Sulla “unità” del pensiero ricoeuriano dalla fenomenologia fino allib ro sulla metafora ha insistito persuasivamente la Cazzullo.

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dentale del primo Husserl, dove ancora si poteva speraredi individuare misurati noemi e stabili essenze, ma conl’attenzione al linguaggio e ai suoi modelli interpretativi,e la conseguente svolta verso una ermeneutica razionalistae storica a un tempo, le cose si complicano.

3. Pluralità e compiti dell’interpretazione

Spartiacque, in questo panorama, è il volume Il conflittodelle interpretazioni. Qui Ricoeur effettua il passaggio de-finitivo dalla fenomenologia all’ermeneutica, e più precisa-mente incomincia a delineare quell’aspetto ontologico-esi-stenziale che sta a monte e a valle della sua nozione di lin-guaggio dell’intera trilogia Tempo e racconto. L’ermeneuticaattinge per un verso all’ontologia come luogo in cui le diver-se e contrastanti interpretazioni esistenti nella culturacontemporanea possano dispiegarsi, e per un altro versoalle diverse metodologie, l’economia del desiderio,l’esplicitazione di figure religiose. Ma se per mediare e con-ferire un senso ci rivolgiamo all’ermeneutica, cosa fare delproblema del significato di un testo o evento? Ora è qui chescopriamo che un termine che emerge e riemerge manmano che se ne possono dare tratti distintivi è proprio quel-lo di semantica. Si parla di un asse di riferimento per tuttol’insieme del campo ermeneutico (1977b:25). Il luogo dovesi pone la domanda sul significato diventa il terrenopossibilitante per l’interazione tra segno e simbolo, costrin-gendo il pensatore ad attuare una divisione (di campo e dimetodo) tra il livello ermeneutico e il livello semantico.(1977b:77-92) A loro volta, questi si sdoppiano ulteriormen-te: il piano dell’ermeneutica si sdoppierà per dar conto siadella spiegazione sia della comprensione, mentre quello dellasemantica si articolerà in semantica lessicale e semanticastrutturale. Schematicamente:

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Bisogna seguire le due strade separatamente. Intantoperò bisogna tenere sullo sfondo la parte giocata dal sog-getto, in cui si riannodano le varie componenti. Nel sag-gio “Heidegger e la questione del soggetto,” (1977b:239-50), Ricoeur dimostra come non ci siano fratture radicalitra lo Heidegger di Sein und Zeit, in cui si dà preminenzaall’analisi dell’Esserci, e quello posteriore alla Kehre e chesi preoccupa del linguaggio come messa in opera dellaverità. Si potrebbe dire che l’analisi si sposta dall’esisten-ziale all’esistentivo, dalle strutture dalla distruzione delCogito come essere che pone se stesso (come principioepistemologico) e che è costretto a ignorare o dimentica-re la questione dell’essere (fondamento ontologico),99 al-l’articolazione di come l’essere venga al linguaggio, cherichiede comunque di fare i conti con un “io sono”: “IlDasein autentico nasce dalla risposta all’essere; rispon-dendo, esso preserva la forza dell’essere per mezzo dellaforza della parola” (1977b:250). Che si intenda come sub-stratum ossia come un raccogliere per farne “un basa-mento”, o come sub-jectum ossia come un io di fronte acui si dispiega l’oggettività degli enti, il soggetto pone ladomanda del chi di questo essere-al-mondo. Ciò sollevasubito la possibilità dell’attribuzione di senso, la configu-razione dell’identità, e la dimensione di un dire che rima-ne precariamente sull’orlo del silenzio o dell’inascoltabile.

ERMENEUTICASpiegazioneComprensione

SEMANTICA LessicoStruttura

99 Vedi sopra il capitolo su Descartes e su Husserl.

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All’epoca del mondo concepito come immagine (Ricoeurusa “quadro” per Bild), assumere o conferire una posizio-ne al soggetto esige che si dia una proposizione della rap-presentazione, del porre innanzi a sé (vor-stellen). Comesi vedrà in seguito, il chi è anche una funzione del dire, omeglio: del come si dice, del linguaggio che dà (un) sen-so, un orientamento specifico e circostanziato. In ognicaso, anche quando, come nell’ultimo Heidegger, si spo-sta l’asse (si direbbe semantico) dalla domanda all’ascol-to, dalla Urdichtung verso e attraverso la Gelassenheit, sitratta sempre di un dono della vita poetica e riflessivache trova il suo principio e fine nel dire, cioè nella messain linguaggio, cioè ancora, la sua retoricità.

Ho fatto riferimento a questo saggio (del 1967-68) nonper vagliare l’interpretazione ricoeuriana di Heidegger,ma per sottolineare la costante preoccupazione, nel pen-satore francese, non solo di fondere fenomenologia edermeneutica, ma di affrontare di petto la messa in evi-denza del problema del linguaggio quando si tematizza ilsoggetto e il suo rapporto con l’interpretazione. Ciò vienefuori con maggiore forza in un altro intervento del mede-simo periodo, “La sfida della semiologia” (ora in 1977b:251-81), nel quale si rileva anche un particolare atteggiamen-to del filosofo che lo contraddistingue dai suoi contempo-ranei, anche all’interno della cosiddetta “ermeneuticametodica”.100 E cioè: non indietreggiare davanti alle pro-poste di una “verità senza soggetto”, né trincerarsi dietrogli assiomi delle proprie convinzioni, ma accettare la “sfi-da” delle molteplici proposte — emergenti in particolarenegli anni sessanta, sia in Francia che altrove — invitan-do la filosofia riflessiva “non a mantenersi identica a sestessa, respingendo gli assalti dell’avversario, ma ad ap-

100 Si veda su ciò le osservazioni di Jervolino 37-45.

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poggiarsi a lui, ad accoppiarsi con ciò che più la contesta”.(1977b:252)

Queste proposte, che si pongono in generale sotto l’egidadel segno, intendono mettere definitivamente in crisiqualsiasi riflessione sul soggetto, o del soggetto su se stes-so. Non sarebbe esagerato asserire che sin da allora Ricoeursi è cimentato costantemente con praticamente tutte leteorie e le metodologie linguistiche all’orizzonte, in unaserrata indagine che ha poco dell’antagonismo che po-trebbe trapelare dalla frase sopracitata e molto dell’invitoa dialogare attraverso ordini semantici e prospettiveinterpretative non sempre permutabili o compatibili. Ead ogni tappa, osserviamo la riconsiderazione e riconfi-gurazione del proprio pensiero interpretante. Per caren-za di spazio, non ci addentreremo nella contestazione conla scuola psicanalitica,101 preferendo di soffermarci bre-vemente sulle osservazioni che riguardano l’allora dila-gante e a tutt’oggi ben arroccata prospettiva semiotico-strutturale.

Ricoeur traccia le posizioni di base che caratterizzanola fenomenologia e il motivo per cui diventa il bersagliodella critica strutturalista. Egli osserva come le posizionihusserliane dovranno essere sviluppate in maniera daminimizzare la componente transcendentale, e si soffermain seguito sul contributo di Merleu-Ponty in merito allacostituzione del segno e alla sua componente diciamo cosìcorporale o in ogni caso di rilevanza per il “soggetto par-

101 La quale non è più una riduzione alla coscienza, scrive Ricoeur, mauna “riduzione della coscienza” a sistemi di segni e di rappresentazio-ni che non hanno niente a che vedere con la coscienza del vissuto edella storia. A differenza dell’ermeneutica, in cui il momentodell’appropriazione è fondamentale, la psicoanalisi è secondo Ricoeurun’attività di costante espropriazione, in maniera che alla fine il sog-getto “vero” è proprio quello svuotato, incosciente, fantasmatico eirrimediabilmente “bugiardo”.

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lante” (1977b:262-4). Ma il razionalismo dualistico non haspazio per il corpo, né per la nozione di soggetto. Di con-seguenza lo strutturalismo linguistico impone una “sfida”alla filosofia del soggetto, la quale “consiste nel fatto chela nozione di significazione è posta in un campo diverso daquello delle mire internazionali d’un soggetto” (1977b:265,enfasi mia). La “sfida” lanciata dallo strutturalismo allafenomenologia va raccolta, è chiaro, pena il rinchiudersiin desueti dogmatismi idealistici. Ma è questo “campo di-verso” che ci interessa.

In un altro suo importante saggio, “La struttura, la pa-rola, l’avvenimento”, (ora in 1977b:93-111 ma originalmen-te 1967),102 Ricoeur enuclea i postulati di base da cuimuove la sfida:

1. la dicotomia langue/parole;2. subordinazione del diacronico al sincronico;3. riduzione degli aspetti sostanziali del lin-guaggio

ad aspetti formali; e4. citando Hjelmslev, “è scientificamente le-gittimo

descrivere il linguaggio come se fosseessenzialmenteuna entità autonoma fatta di dipendenzeinterne,in una parola, una struttura”(1977b:265).

102 In questo periodo Ricoeur è ancora disposto a salvaguardare laprimarietà della parola rispetto alla frase, ma questo solo nell’accezionein cui la parola, una volta che non è partecipe dell’avvenimento (o del-l’evento) della frase, può essere riutilizzata (1977b:107). Tuttavia, l’enfasifinale resta sul “cammino...nel passare dalla chiusura dell’universo deisegni all’apertura del discorso” o ancora, “l’essenziale del linguaggio co-mincia al di là della chiusura dei segni” (ib. 110), poiché “il `dire’ è quan-to io chiamo l’apertura, anzi, `l’apertura permanente’ del linguaggio”(ib. 111).

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Per cui il linguaggio, “non ha più un fuori, ha soltantoun dentro”. Il nocciolo della “sfida” consiste dunque inquesto, e cioè, che per la fenomenologia il linguaggio èmediazione, “consiste nel dire qualcosa su qualcosa; inquesto modo sfugge in direzione di ciò che dice, si superae si stabilisce in un movimento intenzionale di riferimen-to” (1977b:265). Delle tre componenti di base della feno-menologia, ossia la riduzione, il soggetto e la significa-zione, Ricoeur, che aveva in parte ridimensionato la pri-ma (spostando l’asse dall’io penso all’io sono) scopre ades-so che la sfida semiologica riguarda a tutti gli effetti ilrapporto tra la seconda e la terza componente, la neces-saria ma oramai “assente” correlazione tra soggetto esignificazione. Poiché, se la significazione diventa adessoun problema la cui giusta analisi, secondo la semiotica diispirazione fonologico-semiotico, è informata dalle quat-tro caratteristiche sopra elencanta, che ne è del soggetto?come può una ermeneutica realizzare il proprio compitose non si dà conto dell’incidenza del soggetto, della me-diazione, della possibilità dell’altro? A differenza però dellamaggior parte dei critici e filosofi che propendono peruna delle due tradizioni di pensiero ignorando l’altra,Ricoeur cercherà di continuo di sottoporre l’una, per esem-pio la fenomenologia, alle aperture interpretative dell’al-tra, per esempio la semiotica, e viceversa, modificandoed estendendo l’orizzonte di possibilità di entrambe.

Ci sarebbe da fare una disamina a un tempo parallela eintegrativa per ciò che riguarda la nozione di interpreta-zione e di testo ai fini di poter meglio comprendere comeil tortuoso itinerario ricoeuriano arrivi, anzi non può nonimbattersi, dopo la sfida semiologica, a ciò che io chiamola sfida della retorica. Coerentemente con quanto abbia-mo osservato circa il suo atteggiamento verso i problemidel linguaggio sollevati dalle varie scuole della linguisti-ca, i saggi dei primi anni settanta offrono ampia evidenza

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di quanto Ricoeur cerchi diciamo così di “salvare” dallepunte più impegnate e radicali della filosofia del linguag-gio.103 Questi elementi si vedrà saranno cruciali a unanozione di retorica che superi le aporie delle filosofie dellinguaggio e si configuri come fondamento (teoria) epropedeutica (metodologia) dell’interpretazione. Nel sag-gio del 1972 sulla “Creatività nel linguaggio”, per esem-pio, egli si sofferma sulla nozione, che risale a Humboldt,secondo la quale il linguaggio è contraddistinto dall’usoinfinito di mezzi finiti, per cui è la frase e che rappresental’unità minima del discorso, non più la parola. In que-st’ambito viene sollevata la dinamica della polisemia, in-quadrata a metà tra l’ambiguità del linguaggio ordinario,e l’univocità del discorso scientifico.104 Ma nello stessocontesto, si tematizza la metafora, e lo si fa con riferimen-to alla retorica classica. Secondo Ricoeur, il motivo percui la retorica non è riuscita a dare una spiegazione plau-sibile del processo che genera la metafora è radicato nel-l’esclusiva enfasi accordata al nome: come vedremo, egliscrive,

103 Si veda per esempio 1971b in cui si tiene di conto del contributodella scuola dell’”ordinary language philosophy” come propedeuticadifesa critica contro i linguaggi ideali o idealizzanti e come sfida allafenomonologia linguistica. Quest’ultima dovrà adesso rivolgersi conmaggior cognizione di causa all’uso del linguaggio e come ciò si riflet-te sul problema dell’intenzionalità: “Inasmuch as ordinary languagediffers from an ideal language in that it has no fixed expressionsindependent of their contextual use, to understand discourse is tointerpret the actualizations of its polysemic values according to thepermissions and suggestions proposed by the context.” I terminiattualizzarsi, polisemia, contesto depongono a favore di una compo-nente schiettamente retorica della comprensione.104 Questa tripartizione era stata già avanzata, sia pure entro un ambitonon ermeneutico, ma sempre come. critica revisionistica dello strut-turalismo, dall’ultimo Della Volpe.

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il processo metaforico occorre a un altro livel-lo, quello cioè della frase e del discorso in ge-nerale. Ecco perché la retorica poteva soloidentificare gli effetti della parola, l’impattolessicale, per così dire, e classificare la meta-fora alla stregua di altre figure come lametonimia, la sineddoche, l’ironia e via dicen-do. (1978:131)

Queste osservazioni sono centrali sia per comprenderelo sforzo del libro, chiaramente già in gestazione, sullaMetafora viva, sia per inquadrare, parallelamente, lo svi-luppo della questione del testo e dell’interpretazione, allaquale momentaneamente ritorniamo.

4. Tra testo e azione

In un suo scritto del 1970, “Qu’est-ce qu’un texte”, leg-giamo che un testo, in quanto scrittura, sta alla parolacome la lettura sta all’interpretazione. Il testo non è meratrascrizione di un discorso anteriore, ma l’iscriversi di undiscorso che non è stato detto e che per l’appunto viene asostituirsi all’atto di parola. Non esiste un dialogo con untesto perchè, paradossalmente (ma anche: a rigor di logi-ca) non c’è interlocuzione, e quindi non si può dire che ilrapporto scrittura-lettura sia un caso particolare del rap-porto parlare-rispondere. Il libro separa l’atto dello scri-vere dall’atto della lettura, in certo senso vietandone lacomunicazione: il lettore è assente dalla messa in scenadella scrittura, dello scrivere, mentre lo scrittore è assen-te dall’esperienza della lettura. Il testo dunque è solo inapparenza il parallelo del discorso parlato, mentre in effet-ti interseca la parola viva e la rimpiazza, istituendosi comesuo doppio, o riflesso, o fantasma. In questo senso, il testo

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contiene le intenzioni di un discorso ma al tempo stesso èlibero dalle costrizioni reali del discorso parlato. Qui en-tra in scena la cruciale componente della referenza. Lafunzione referenziale si espleta come ciò di cui parla. Quiancora una volta Ricoeur sottolinea come sia la frase l’unitàsignificativa di base di qualsiasi discorso. Citando GustaveGuillaume, egli scrive che è attraverso la funzione refe-renziale che il linguaggio rimette di nuovo nel mondoquei segni (e dunque quei significati) che la funzione sim-bolica aveva inizialmente separato o meglio strappato dallecose. Possiamo schematizzare nel modo seguente:

SEMANTICA grammé/phoné MONDO

Funzione Referenziale

In una veloce ripicca all’ideologia del testo assoluto (i.e.:Derrida), Ricoeur sottolinea che il testo non può non ave-re una referenza extra-testuale, anzi, sarà proprio compi-to della lettura qua interpretazione di realizzare questareferenza o di mettere in evidenza i possibili luoghi diriferimento del senso. E se il discorso parlato mostra isuoi punti di riferimento, il testo scritto li dimostra e liripresenta (o rappresenta). In più, il testo è dotato di unasua forza o energia che sbocca nella sfera extra-testuale:poiché esso è “principally the production of discourse aswork”. (1979:219, enfasi mia) Ed eccoci alle porte del pro-blema dell’interpretazione come dinamica e scambio disegni/senso, diretta verso l’”esterno” e quindi come ine-vitabile mediazione, traduzione, versione.

Ripercorrendo velocemente alcuni capisaldi della sto-ria dell’ermeneutica in cui siamo messi in guardia da al-cuni eccessi di zelo quali per esempio il postulato, di stam-

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po psicologico, che si possa rifare a ritroso il camminodella produzione del testo e stabilire le “vere intenzioni”di un autore, Ricoeur non esita a ribadire che l’interpreta-zione è mediazione tra significati, valori e obiettivi che sifondano sulla dialettica io-altri (o, a un diverso livello, trasé e mondo). Di fronte a un testo, dunque, possiamo sce-gliere due strade: la prima, di ispirazione razionale/strut-turale, esige che si resti come sospesi di fronte al testo elo si tratti come se fosse senza mondo, un oggetto senzacreatore: in questo caso noi spieghiamo il testo in terminidei suoi rapporti interni, delle sue strutture, quali che si-ano i significati tecnici di questi due termini. La secondastrada invece ci consente anche di uscire da questo vuotoartificiale e realizzare il testo come discorso parlato, re-staurandone la sua viva dimensione reale e storica,evidenziandone le sue capacità di comunicazione, pos-siamo, quindi, comprenderlo. Infatti, la lettura del testo,in quanto interpretazione, esige sia la spiegazione che lacomprensione. Ed è quest’ultima a rivendicare (o comun-que ad offrirci le possibilità critico-espositive per ripor-tarci) le altre componenti che nella storia dell’ermeneuticasono state mano mano tematizzate come compresenti alrapporto io-mondo e cioè: l’appropriazione, l’autore-ferenzialità del soggetto interpretante, la connessione dia-lettica tra testo e discorso, l’attivazione di una serie diplausibili analogie tra sistemi formali e modalità esisten-ziali, sintassi e semantica, ripetizione e differenza, even-to e tradizione.105 E su queste ultime che si concentrerà ilfilosofo negli anni ottanta. Ma il punto cruciale, e che amio avviso getta le basi per il suo successivo lavoro, è chel’interpretazione implica una costruzione, un agire e quin-

105 Per l’individuazione di queste componenti e il loro complesso svi-luppo storico, si vedano le opere fondamentali di Gadamer, Gusdorf,Ferraris, e Szondi.

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di un intervenire — modificandolo — nel mondo reale estorico in cui siamo calati. Quando, in un suo scritto del1971 (vedi 1971a), Ricoeur ci ricorda che il senso primariodella parola “ermeneutica” riguarda le regole per la correttainterpretazione dei documenti scritti della nostra cultura,egli resta fedele al concetto di interpretazione elaborato daDilthey; infatti, laddove il Verstehen — comprensione, in-tendimento — poggia sulla ricognizione di ciò che un sog-getto estraneo intenda in base a un complesso di segni cheesprimono la vita psichica stessa, l’Auslegung — interpreta-zione, esegesi — implica qualcosa di più specifico, ossia unalimitata categoria di segni fissati dalla scrittura (e per esten-sione anche dai monumenti, in quanto qualcosa di stabile einalterabile). Posta questa distinzione che è terminologicae teoretica insieme, l’ipotesi da sviluppare viene stesa informa di una domanda: esistono dei problemi specifici sol-levati dal fatto che l’interpretazione riguarda testi scritti enon il linguaggio parlato?

Se questi problemi risultano investire l’intero progettodell’ermeneutica, allora le scienze umane (e, per esten-sione, la critica letteraria) si possono dire ermeneutichein quanto,

A) il loro “oggetto” esibisce dei tratti costitutividei testi in quanto testi, e,

B) in quanto la loro “metodologia” coinvolgeprocedure identiche a quelle della Auslegungdell’interpretazione testuale.

In effetti, il problema si ricompone così: in che modo sipuò considerare la nozione di testo valido paradigma peril preteso oggetto d’analisi delle scienze sociali, e ancora,fino a che punto si può adoperare la metodologia dell’in-terpretazione dei testi per l’interpretazione generale del-le scienze umane?

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È qui che Ricoeur deve affettuare una cruciale mossaontologica: la distinzione preliminare tra linguaggio scrit-to e linguaggio parlato esige ch’egli ritorni ancora unavolta, sviluppandolo ulteriormente, sul concetto o termi-ne intermedio che comprenda entrambi, e cioè il discor-so. Ora la nozione di discorso deve per forza collocarsi aldi fuori di ciò che i linguisti — Ricoeur ricorda Saussure,Hjelmslev, Chomsky — intendono per codice linguisticoin quanto quest’ultimo è retto dal presupposto episte-mologico dualistico (tipo: langue-parole, schema-uso, com-petenza-performance), come abbiamo visto sopra. Ma viè un’altra linguistica, continua Ricoeur, che fa capo al-l’opera di E. Benveniste, la quale si fonda non sull’unitàfonologica o lessicale, ma sulla frase (“sentence”), la qua-le diventa l’elemento portante di una teoria del discorso.Schematicamente, i tratti basilari di questa posizione sonoriducibili a quattro voci:

1. Nel suo attualizzarsi, il discorso avviene in unpresente ed è marcato temporalmente (mentre lalinguistica del codice è virtualmente “fuori del tempo”).

2. Laddove nella linguistica della langue non si dàsoggetto (anch’esso segno arbitrario, funzione), inquesta nozione di discorso si fa necessariamenteriferimento a un soggetto (parlante riconoscibileattraverso indicatori come il pronome, ecc).Quindi il discorso è autoreferenziale, riflessivo di sé.

3. Laddove il segno nella lingua si riferisce esclusivamentead altri segni ed è carente di temporalità e disoggetto (o soggettività), il discorso è semprediscorso-di-qualcosa: esso si riferisce a un mondoche intende descrivere, esprimere o rappresentare, equindi anche interpretare. È‘ nel discorso che si attuala componente simbolica del linguaggio umano, e in cuisi fa leva su ciò che si ha in comune.

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4. Nella lingua si dà il codice segnico per la comunicazione,me è nella realtà del discorso che i messaggi vengonoeffettivamente scambiati: il discorso non presupponesolo un mondo, ma un altro o altri cui è destinato.

Ciò che caratterizza questo schema come predispostoall’ermeneutica di Tempo e racconto è che, presi tuttiinsieme, questi tratti definiscono un orizzonte entro cuicollocare, e giustificare, il senso di ulteriori componenti ecomportamenti i quali di per sé risulterebbero parziali epregiudicanti. Così formulato, l’interpretare sembra rive-larsi come una ermeneutica a forte incidenza retorica fon-data sulla frase, e che riesce a spiegare diversi fenomenisimultaneamente:

a. l’evento del parlare concreto, materiale, la phonè;b. la sua iscrizione, la grammé o il “detto dell’evento

del parlare”;c. la teoria degli enunciati verbali (in quanto appunto

enunciati, ossia locuzioni, che si fondanoancora una volta sulla frase);

d. il noema del dire;e. la componente del vouloir-dire, sia essa quella occasio-

nale-situazionaleimplicita nel dialogo; infine,

f. il fulcro su cui poggia il rapporto tra retorica einterpretare: la referenzialità. Infatti il linguaggioè fondamentalmente un rapporto con il mondo, con unprogetto-gettato, con una rete di discorsi altriche parlano di qualcosa e/o per qualcuno.

Non è necessario continuare con l’esposizione dellamessa in pratica di questo modello. Per Ricoeur il faredell’individuo e l’azione sociale possono inquadrarsi allastregua della lettera scritta, come inesorabilmente sepa-

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rata dal suo agente, e può quindi — metodologicamenteparlando — autonomizzarsi. Tuttavia ciò non vuol direche essa diventi neutrale o equiparabile a qualsiasi altroevento in maniera indiscriminata. È‘ in funzione del qua-dro sopra abbozzato — cioè del chi esamina, per chi lo fa,perché lo fa, secondo quale articolazione, insomma, pos-siamo interpolare, secondo un implicito nostro presup-posto di partenza, con riferimento a individuo-e-società,— che si deve passare attraverso le strettoie della scelta edel giudizio, della valutazione e dell’attribuzione di signi-ficato. Per Ricoeur, almeno in questo contesto, la que-stione richiede di determinare la rilevanza e l’importan-za in un ambito critico in cui l’agire umano è concepito —metaforicamente! — come “opera aperta”. Da qui il suc-cessivo passaggio (non in ordine ascendente o discenden-te, o in base a gerarchie di primarietà e secondarietà) dalcomprendere allo spiegare e, infine, chiudendo il circolo—ch’egli chiama “arco” —, di nuovo dalla spiegazione, allareintegrazione significativa della compresione.

5. La metafora e discorso

Molto più problematico, e meritevole di uno studio ap-profondito, è il libro La métaphore vive, del 1975, luogoin cui convergono stratificandosi i diversi interessi lin-guistici del filosofo. Per ciò che ci riguarda, qui Ricoeursembra svicolare su un terreno non eccessivamente radi-cale e in cui la tripartizione di fondo, ossia parola, frase, ediscorso, viene fatta corrispondere alle tre diverse bran-che chiamate, rispettivamente, retorica, semiotica-e/o-semantica, e infine ermeneutica. Per Ricoeur la metaforasi iscrive in uno spazio tra finzione e ridescrizione, percui essa in ultima istanza non è riducibile a nessuna delletre branche o aree menzionate, partecipando a tutte e tre,

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o essendo spiegabile secondo le regole di ognuna di esse.Negli otto studi del libro vengono prese in esame teoriedella metafora provenienti dal gruppo di Liegi, dalla criti-ca formalista, dalle varie branche della filosofia analitica,dalle diverse scuole di linguistica, dalla filosofia ermeneu-tica e dalla grammatologia. Tra i temi affrontati dal filoso-fo pertinenti al nostro discorso abbiamo la distinzionecentrale tra semiotica e semantica, la questione della ras-somiglianza, e il problema della referenza. La metaforatrova la giusta dimora nell’essenza della copula sottesa alverbo essere, e ciò è di grande portata speculativa. Infattila metafora sussume la nozione di schema, di modello, edi conseguenza introduce una componente epistemo-logica. Ma vediamo da vicino.

Ci si ricorderà che Ricoeur, nella sua attenta lettura dellaPoetica, mette in rilievo come per Aristotele il fulcro sucui poggia la metafora è la lexis, la quale ha diverso svolgi-mento nella Retorica. La lexis rivela una doppia anima,quella di poter trasferire un significato, di poter cambiaregli schemi (skhêmata), per cui come metafora diventa unasua “struttura”; e quella di organizzazione del discorso,delle sue parti (mérê), cioè come “funzione”. Ricoeur os-serva come il testo aristoteliano è malleabile abbastanzaper suggerire nuove prospettive, per esempio, il terminelogos è utilizzato in maniera da sussumere sia la frase(nome + verbo) che la definizione (combinazioni dinomi), per cui la sua vera resa (e dunque senso), sarebbequello di locution. In quanto tale, egli recupera la dinami-ca dell’atto del discorso, la sua locuzionarietà nel senso diAustin, dall’interno di un logos concepito storicamentecome eloquenza. In più, egli nota il fatto che tra le ottoparti della lexis, quella del “verbo” è l’unico nome (onoma)contraddistinto dalla temporalità. Il filosofo si chiede senon sia il caso di attribuire maggior importanza al verboanziché al nome, e contempla la prospettiva di una “criti-

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ca allo status privilegiato del nome [su cui si fonda lametafora]” (1979:16). Ci sono altri spunti diciamo così“revisionistici” nello studio di Ricoeur, come quando os-serva che sebbene tra le caratteristiche della metafora cisia anche quella di essere la “sostituzione” di un nomeper uno allotrio, non per questo l’originale è più appro-priato, valido o veritiero: tutto ciò si spiega benissimo conuno sguardo alla storia (vedi Cap. 2), in cui la Retoricadiventa una tropologia, un allineamento tassonomico difigure tutto sommato ad uso sintattico o stilistico. Oppurequando la nozione di “prestito [lessicale]” coincide con loscreditare, nel pensiero moderno, la metafora in quanto,secondo una versione del passo 1457b7, “la metafora con-siste nell’attribuire un nome a una cosa che appartiene aqualcos’altro”, legittimando una distinzione tra una lexis“propria” o “significato corretto” e una “figurativa” o“incorretta”. Questo doppio registro fa da sfondo alle variesemantiche elaborate negli ultimi due secoli a forte incli-nazione razionale, analitica, positivista, e prevalentementein ambito angloamericano. Qui come altrove fedelissimoal testo originale — il che in parte spiega la sua prolissitàespositiva —, il pensatore vuole portare alla luce aspetti eproblemi passati inosservati o sotto silenzio nel corso del-la storia. Tra questi il problema della temporalità e dellareferenza esterna. Ma ci si arriva faticosamente. Per pri-mo, contro la tradizione tropologica (da Fontanier al Grup-po ì), egli nota che, anziché considerare la metafora comeuna “denominazione deviante”, bisognerebbe parlare diuna “predicazione impertinente”, di una “produzione disenso”, per cui l’asse interpretativo si sposta dal nome alverbo, e dalla struttura alla funzione (semantica oltrechésintattica). Così pure in un capitolo dedicato alla semanticadel discorso, Ricoeur introduce una distinzione, di cui l’in-terpretazione dovrà giovarsi, tra una teoria della tensioneo interazione (appunto semantica), e una teoria della so-

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stituzione (come nelle semiotiche del codice). In effettiegli sviluppa le letture critiche di Benveniste e di Richardse ridimensiona il contributo critico di Black, Ullman andla scuola di Liegi, per riproporre una teoria del discorsoin cui è la frase, o meglio, in italiano, il periodo sintattico,l’unità di base sia per una semantica — in quanto si pre-serva la componente cognitiva, informativa, e inventivadella metafora — che per una ermeneutica — poiché sipuò partire da un luogo linguistico contestualizzato cheaccoglie le istanze temporali, predicative, mediatrici e sto-riche.

Per attuare l’ultimo passaggio, quello dalla semanticaall’ermeneutica (cf. Cap. 6), Ricoeur ancora una volta deveprendere le distanze da un altro dei grandi linguisti delsecolo, Roman Jakobson, contestandogli l’identificazionetra rassomiglianza e sostituzione. L’importanza di questadistinzione critica non può sottovalutarsi. A rigore dellemedesima logica che la informa, una semiotica struttura-lista considera la metafora uno spostamento sinonimico,una variante, una strategia per mettere in risalto una opiù delle funzioni del linguaggio tra emittente e riceven-te, ma in fondo non dotata di nuova o diversa informazio-ne da quella del messaggio che ricupera, sotto la metafo-ra, la parola appropriata, corretta, o scontata. Ma Ricoeuraveva sin dall’inizio della ricerca posto l’enfasi sulla dina-mica dell’interazione tra campi semantici (determinatidall’onoma) distinti, cioè sulla produzione stessa del nomee del suo inevitabile senso. E‘ il venire alla luce del sensoche interessa. Ebbene, la rassomiglianza rompe con lateoria della sostituzione (che è principalmente radicatanella denotazione) perché, in base a una lettura di LeGuern, l’aspetto connotativo del discorso non sempre èisomorfico, addirittura la metafora stessa è contraddistinta,nel suo passaggio semantico, dal cambiamento nellaisotopia dei due termini. In altre parole, e parafrando lo

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stesso Ricoeur, a differenza del paragone logico (giocatosull’analogia proporzionale), il quale per definizione nonfuoriesce dall’isotopia del contesto — solo ciò che è para-gonabile si può quantitativamente comparare — l’analo-gia semantica istituisce un rapporto tra un elemento cheappartiene all’isotopia del contesto e un elemento che èal di fuori di questa isotopia e perciò produce una imma-gine. (1979:186) Oltre a salvaguardare il ruolo formativodell’immaginazione nella costruzione di qualsiasi ogget-to del sapere, Ricoeur sottolinea che con la rassomiglian-za implicita nella metafora si evidenziano gli attributi deipredicati, e si (ri)dà nuova pertinenza a significati sconta-ti. Anche quando si prendono in esame strategie e “truc-chi” discorsivi rappresentanti le varie modalità del diremetaforico, come per esempio l’ossimoro — la morte vi-vente, l’oscura chiarezza —, il senso e valore dell’espres-sione non va misurato (o non eslusivamente) come con-traddizione logica o controsenso, ma come enunciato si-gnificante o significativo appunto per aver accostato duetermini il cui senso standard è distante. E‘ ben vero cheAristotele (e in seguito anche i latini) si cimentarono an-che nel darci delle liste esemplari di come costruire eutilizzare le “buone metafore” (Rhet. 3:1404b3), e di comenon abusarne, ma questa tendenza venne subito incana-lata in quella filosofia o ideologia che voleva la retoricacome tassonomia di tropi ed esterna alla dialettica, almetodo, alla ricerca della verità. In effetti, però, secondoRicoeur il “far senso,” il “costruire un significato” sonouna caratteristica della metafora che antestà o è sottinte-sa alla stessa teoria della sostituzione, poiché il contro-senso, la contraddizione, l’associazione di opposti non sonoche il rovescio di quella riconciliazione operata dall’attodi comprensione. (ib. 195) Come effetto della predicazione,la rassomiglianza si situa proprio in quello spazio che lacontraddizione logica (denotativa, statica, del nome) te-

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neva separato, ma in cui non poteva non lasciar trapelareuna tensione o forza. All’atto della trasposizione, dellatrasferenza che associa e unisce idee distanti e aliene,all’epifora, fa seguito la diafora, cioè la costruzione, l’ordi-namento, l’articolarsi nello spazio frammezzo, dischiu-dendo un suo momento irriducibilmente discorsivo. Nel-lo studio su “metafora e referente,” Ricoeur dichiara final-mente che la semiotica è una sottocategoria della semanticain quanto la prima si occupa di differenze tra segni, men-tre la seconda si preoccupa del riferimento a un mondoextra-linguistico, un ambito di cose chiamato il mondo.

Il salto dal regno del segno a quello del referente gliconsente di studiare la metafora sotto altra ottica,innanzitutto in chiave filosofica, cioè con particolare at-tenzione allo statuto ontologico della metafora, alle suepossibilità di dire il vero, o meglio, i fatti, secondo unaaccezione wittgensteiniana che implica il correlato di unatto predicativo (ib. 235). Il punto cruciale per noi consi-ste nell’assumere come centrale all’intendimento del di-scorso la potenza molteplice della rassomiglianza racchiu-sa nella copula: è la costituzione tensionale o tensiva delverbo essere che riceve la marca grammaticale da “l’esse-re come” della similitudine referenziale ricavata dallametafora, mentre the tensione tra uguale e altro è marca-ta dalla copula relazionale.106 Si può leggere sullo sfondoun tentativo di valorizzare il discorso come dimensionelinguistica che riguarda profondamente il non-linguisticoossia gli altri aspetti della realtà che vanno tenuti di con-to nell’interpretazione. La metafora è portante in qualsia-si fase dell’enunciato, ma non inficia la determinazione

106 Benché non menzionato in questo specifico contesto, si sente sullosfondo il Benveniste dei Problémes de linguistique générale, in parti-colare i saggi dedicati al verbo essere, alla soggettività nel linguaggio,alla nozione di persona e ai tempi grammaticali (nell’edizione inglese1971, cf. i capp. 16, 18, 19, e 21).

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semantica a priori. Non si può fare uno sbalzo associativoe omologante tra metafora e metafisica, come in parte faDerrida (cf. cap. 8), poiché la filosofia manifesta una suaautonomia. Qui Ricoeur, nel concludere il formidabile li-bro, una vera “Critica della metafora”, tradisce una forteinfluenza Kantiana e Husserliana, quando insiste cheladdove l’imaginatio è il regno del simile, l’intellectio lo èdell’identico (ib. 301), issando quindi un muro tra metafo-ra e concetto in quanto ciascuno partecipa di un livello eordine di discorso.

E’, quest’ultimo, un limite anche dell’ermeneuticaricoeuriana,107 poiché dopo aver effettuato tutta una se-rie di passaggi integrativi e possibilitanti — come il riva-lutare l’elemento temporale del verbo, esplicitare la dop-pia dinamica della metafora, additare l’esigenza del refe-rente, ed enucleare la necessità dell’asimmetria o comun-que delle connessioni non isotopiche o isomorfe — egliinfine insista sulla distinzione di fondo tra dimensionedella metafora e regno del concetto. E’ vero che, in quan-to copula, la metafora significa sia A “è come” B che A“non è” B (ib. 7), ma non effettua l’ulteriore passaggio,all’ipotesi che “è” coincida con “e”, come in parte faHeidegger. Sarebbe, quest’ultimo, uno sbalzo troppo radi-cale, e secondo Ricoeur Heidegger non fornisce nessunospunto di critica storica o su come “ricondurre [all’]epistemologia delle scienze umane” (1981:68). L’appelload accettare una pluralità di modi di discorsi è seguitodall’affermazione, sorprendente a mio avviso, che “la fi-losofia non procede mai direttamente dalla poesia” e anzi,neanche “indirettamente” (ib.). Non è data spiegazioneper questa posizione. Inoltre, malgrado le minute letturedi diversi libri di retorica e l’esplicita intenzione di rivalu-

107 Si vedano anche le riserve in merito a questa “rottura irriducibile”tra i due piani avanzate da Thomas P. Hohler.

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tarla come campo d’indagine, se non altro mostrando comela linguistica e la semiotica moderne l’avevano dimezza-ta e condizionata ancora di più di quanto non lo fosse giàin Aristotele, Ricoeur svolge la sua indagine sulla metafo-ra passando dal livello della parola a quello della frase einfine a quello del discorso sulla base di una gerarchiaascendente costituita dalla retorica, dalla semiotica/semantica e infine dall’ermeneutica. L’aver conseguito,alla fine della ricerca, un superamento della interpreta-zione del mondo come simbolo verso una visione tripartitain cui interprete e autore stanno da parti diverse del te-sto, non approfitta fino in fondo delle sue medesimeconstatazioni in merito alla natura del discorso. Poiché sela retorica va vista come linguaggio vivente (e Ricoeur hapolemizzato contro i ricercatori di “metafore morte” giàdal titolo del suo libro), ciò che egli chiama discorso mo-stra tratti essenzialmente “retorici”, come la “logica”sequenziale degli argomenti, la coerenza del referente,l’appoggio sul contesto, la possibilità se non propensitàall’invenzione, la motivazione di persuadere, l’implicitadialettica verso un altro (persona). Si potrebbe dire che aifini di salvaguardare la legittimità di “un modo di far filo-sofia”, egli ripensa la retorica ma sul terreno suo “pro-prio” o della parola, il che vuol dire in pratica grammati-cizzarla ancora una volta. La nozione di retorica vienecosì fatta “rientrare” dove l’aveva lasciata Aristotele, scien-za delle figure dell’argomentazione, e storicamentetassonomia delle funzioni stilistiche. Questa incapacitàdi congiungere retorica ed ermeneutica viene fuori nel-l’elaborazione del rapporto tra discorso e temporalità.

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6. Temporalità e costruzione della storia

Lo schematismo degli anni settanta,108 si ritrova, mutatismutantis, nel primo volume di Tempo e Racconto, in cuila tripartizione, essenziale alla nostra ricerca, tra PARO-LA, FRASE, DISCORSO, fa da sfondo alla nuovatematizzazione del tempo nel racconto e nella storia. Ri-troviamo qui inoltre ulteriore conferma alla nostra tesi dibase in vari luoghi — per esempio, nella sezione “Tempoe Racconto”, dove leggiamo:

La mia tesi è che la storia, anche la più lonta-na dalla forma narrativa, continua ad esserelegata alla comprensione narrativa medianteun legame di derivazione che si può ricostrui-re gradualmente mediante un metodo adegua-to. Questo metodo non dipende dalla meto-dologia delle scienze storiche109 bensì da unariflessione di secondo grado sulle condizioniultime di intelligibilità di una disciplina che,in forza della sua ambizione scientifica, tendea dimenticare il legame di derivazione checontinua comunque a preservare tacitamen-te la sua specificità come scienza storica.Tale tesi ha una immediata implicazione perciò che riguarda il tempo storico. Sono perfet-tamente convinto che lo storico abbia il privi-legio di costruire dei parametri temporali ade-

108 Mi riferisco in particolare ai sopramenzionati Conflitto, Freud, eMetaphore vive.109 Si pensi ai suoi commenti riguardo l’approccio positivista degli sto-rici francesi. Tuttavia, malgrado le riserve sulle tradizioni di stamposcientifico, l’elemento epistemologico non è mai dimenticato poichéesiste appunto un “sapere” storico.

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guati al suo oggetto e al suo metodo. Mi limitoa sostenere che il significato di tali costruzio-ni è preso a prestito, che deriva indirettamen-te da quello delle configurazioni narrative cheabbiamo descritto sotto il nome di MIMESISII110 e, mediante quest’ultima, si radica nellatemporalità caratteristica del mondo dell’azio-ne. La costruzione del tempo storico sarà unadelle principali poste in gioco del mio lavoro.(TR I:143-44)

Si intravede subito come alcune aporie lasciate in so-speso alla fine del libro sulla metafora sono qui sottopo-ste a un ulteriore sforzo di comprensione. Ma in vistadella ricerca che stiamo svolgendo in queste pagine, nonpossiamo che soffermarci su alcuni punti solamente. Perprima cosa, la retorica. Fedele all’Aristotele della Poetica(e della Retorica e della Fisica), Ricoeur non apre, peresempio, la Topica, né vi si trova, nelle mille a passa pa-gine, alcun riferimento a Erodoto, Cicerone, Orazio,Quintiliano, Valla, Machiavelli, Guicciardini, Hobbes,Humboldt, Ernesto Grassi e Paul de Man, a Vico un riferi-mento sfuggevole in nota, e ancor più sospetto nessunrimando a Derrida quando tratta della traccia (TR III:178-191). Questo elenco non è da intendersi come una gratui-ta critica, ma come campionario per illustrare che il pro-blema della retorica è stato trattato e profondamente dadiversi pensatori in diversi contesti storici, e per fare unaprima veloce ricognizione sulla diversa genealogia quitracciata. In questo ambito, però, ci sarebbe da precisare

110 Vedi Tempo 1:109, dove ritorna la questione della mediazione ne-cessaria, attuata per via del come-se, e l’ operazione di configurazioneche implica “costruzione” e “connessione” in vista di una “sintesi del-l’eterogeneo.”

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che sto lavorando entro un orizzonte in cui si pone sì ilproblema dell’enunciazione retorica ed esistenziale, edunque quello del tempo, ma non ancora quella della sto-ria in quanto tale.

Il nesso con il recente lavoro di Ricoeur, facilmente in-tuibile, è costituito dalla nozione di racconto, o meglio, ein funzione attiva e, appunto, temporale, del raccontare.É infatti significativo che uno dei pensatori con i qualiRicoeur entra in dialogo è proprio Paul Veyne, per il qua-le la storia non-événementiel è costituita dagli eventi nonancora riconosciuti come tali: storia dei territori, dellementalità, della pazzia o della ricerca della sicurezza at-traverso i secoli.111 Si etichetterà dunque come “non-événementiel la storicità di cui non abbiamo coscienzacome tale” (cit. in TR I:256). Al di là della questione dellacronologia, e della idea stessa di tempo, non più ritenutaessenziale allo stesso intrigo, ciò rientra, dice il filosofo,nell’arco della sua nozione di “sintesi dell’eterogeno” (ib.110). E tuttavia, quando Veyne afferma che la storia “hauna critica e una topica, non un metodo”, Ricoeur sdipanai concetti sottesi a questi termini ai fini di mostrare chein fondo questa ipotesi non regge, che la necessità deidistinguo critici rimanda comunque alla vigilanza kantianasul maneggio dei propri concetti, per cui si può dire che ilnominalismo di Veyne è addirittura acritico, e che almassimo stiamo parlando di tipi ideali à la Weber, di stam-po euristico. Con ciò egli passa alla disamina della nozio-ne di Topica, anch’esso riduttivamente letto come elencodi meri luoghi comuni, espedienti che permettono l’al-lungamento del questionario, “l’unico progresso di cui la

111 Si veda di Paul Veyne Come si scrive la storia, trad. ital. 1973, p.xxv et infra; che si contrappone in parte a posizioni del tipo di E.H.Carr, Sei lezioni sulla storia, trad. ital. 1977, e H.-I. Marrou, La cono-scenza storica, trad. ital. 1962.

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storia sia capace” (TR I:260), insistendo su una visioneappunto evolutiva e risolutiva dei vari procedimenti con-cettuali del passato. “Ma la topica”, si domanda il filosofo,“resta racchiusa nell’euristica senza riversarsi sulla spie-gazione?” Apparentemente no, in quanto per la storiaevenementielle, o strutturale, la topica permette allo sto-rico di distanziarsi dall’ottica delle fonti e di concettua-lizzare gli eventi in modo diverso rispetto agli agenti sto-rici o ai loro contemporanei, “e quindi di razionalizzare lalettura del passato” (ibid.) Ma perché distaccarsi tanto?perché questo preponderante esigenza di “razionalizzare”?perché non vedere nel “luogo comune” il luogo del darsidel linguaggio, l’aspetto eristico ancor prima che euristico,l’aspetto rivolto a un reale altro essere-nel-mondo? An-che se Veyne tentava di re-introdurre lo specifico umano(p. 258) [caso, causa materiale, libertà], per Ricoeur rima-ne suprema l’esigenza dell’intrigo, ovvero la necessità dellacostruzione e comprensione di intrighi — che vengonotematizzati nel secondo volume di Tempo e Racconto —e che in qualche misura sfidano l’inenarrabile. Del primovolume ci torna utile la tematizzazione, intesa comeMIMESIS II, del come se a fondamento dell’operazione diconfigurazione connaturata a qualsiasi narrazione, e inparticolare al racconto di finzione. Per Ricoeur, sia il rac-conto di finzione112 che il racconto storiografico fannoperno sulla trasposizione del come se, ma la referenza èincrociata in quanto la fiction può ricostruire eventi an-che inesistenti, giocandoseli poi nelle stratificazioni del-l’intrigo, mentre la storiografia, benché anch’essa parte-cipe del lavorio di ri-simbolizzazione e de-simbolizzazione,deve fare ricorso a tracce o avvenimenti radicati nell’em-

112 Racconto di finzione include tutto ciò che la critica letteraria inten-de come racconto popolare, epopea, tragedia, commedia e romanzo,ma con enfasi sulla “struttura temporale” (cf Tempo II:13 et infra).

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piria. Il plenum che contiene le due diverse mediazioni èrappresentato dalla temporalità dell’agire umano.

7. Retorica incompiuta o infinita?

La figurazione o meglio, nel linguaggio di Ricoeur, lapratica del raccontare consente all’esperienza dell’agireumano di costituire un terzo tempo, un’immagine poeti-co-discorsiva sostanzialmente altra rispetto al tempo vis-suto della coscienza e al tempo cosmico. Ma questatemporalità è accessibile solo per via indiretta, il che co-stringe il filosofo ad addentrarsi nelle teorie della media-zione simbolica letteraria e nella narratologia. E tuttavia,questa temporalità a suo modo elusiva e potenzialmentefantasmatica, allegorica,113 si pone come anello di con-giunzione tra le aporie speculative e filosofiche del tem-po. Teniamo presente che sullo sfondo si agita il proble-ma di una nozione di ermeneutica fortemente radicatasul modello testuale — come abbiamo visto sopra — el’altrettanto forte esigenza di trovare uno sbocco praticoall’interpretazione dell’uomo, della sua condizione stori-ca e sociale e che concerne l’agire, una dimensione non-linguistica. Per cui diventa cruciale rilevare chi agisce, vistoche storia e racconto condividono in buona parte gli stes-si strumenti linguistici. Nella sintesi di Hohler (cit. 137),l’azione narrativa stabilisce una identità per l’individuoall’interno di una data società, differenziando però tra l’ipse

113 In Carravetta 1991 il come se viene interpretato come il ponte teori-co e metodologico insieme che tipicamente dimentica (platonismodel razionalismo) che gli stessi riferimenti, cioè le stesse modalità lin-guistiche utilizzate per effettuare il passaggio semantico, sono anch’essedelle figure, e quindi implicitamente grumi di senso comprensibilisolo allegoricamente, come finzioni di significati marcati da rischio,tempo, luogo, e valori.

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di una identità narrativa e l’idem dell’identità sostantiva.Ma l’ipseità, in virtù della sua appartenenza a un diversodominio formale, assume una struttura temporale model-lata sulla dinamica della composizione del narrato stesso,a sua volta fondata sulla mimesi II, che ne garantisce lareferenza concreta. Questa identità non si può dire diappartenere a una categoria teorica, e ri-configura per noiun agire, un vissuto, una identità concreta. Il “chi” insom-ma è radicato nella vita, nel pratico, nel dialogico. Si puòdire che Ricoeur riannodi quindi i due piani, quello delconcetto filosofico e quello della metaforica poetica, at-traverso la mimesi (II) della configurazione (I:109), la qualeimplica sia la “costruzione dell’intrigo” (e quindi l’ordina-mento dell’azione), sia la messa in gioco di una “connes-sione” (rispetto a un sistema). Il ricongiungimento è assi-curato anche dal fatto che la stessa referenza è comun-que sempre co-referenza, dialogica o dialogale. (I:127-28)Sarebbe utile, ma chiaramente fuori posto in questa sede,vedere da vicino come Ricoeur tesse la sua trama erme-neutica attraverso serrate letture e ipotesi operative cheegli utilizza spesso in maniera didattica. Non diversamenteche nel libro sulla metafora, anche nella trilogia di Tem-po e racconto egli si misura pazientemente con tutta unaserie di scuole e di teorie solo che qui ci troviamo a unlivello più alto o più ampio proprio in virtù del fatto che ilnodo critico è costituito dal passaggio dalla frase al di-scorso tout court. Ricoeur analizza i suoi autori, alcunidei quali abbiamo già visto l’occuparono in passato, comeLevi-Strauss, Propp, Bremond, Greimas, Genette, Weinrich,quasi sempre per trarne spunti operativi (o di metodo)per la sua ermeneutica nel momento stesso in cui ne cri-tica le aporie e forti limiti (di teoria) interpretativi per lescienze umane.

Ora anche a questo livello abbiamo visto che egli nonabbandona una distinzione di fondo tra il creativo e il cri-

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tico, tra il dominio dell’immagine e quello del concetto.Quando ritorna all’ambito filosofico e storico, in partico-lare nel terzo volume di Tempo e racconto, egli trovaspazio per un capitolo sulla retorica, ma questo non èmolto di più di una recensione alle opere di Wayne Boothe Michel Charles114 e il loro contributo a una teoria dellettore. Ma non è più il linguaggio in quanto tale che inte-ressa, né la sua scienza o riflessione filosofica (o rettorica),quanto alcuni referenti non-linguistici e la loro rilevanzaper l’interpretazione. Questi sono la responsabilità dellettore (del critico), la sua libertà, il suo esser necessariosia alla costituzione ontologica del testo, sia al processo diri-figurazione che informa l’interpretazione (TR III:241-78). Le osservazioni sulla dialettica della rifigurazione sonoutili e fruttuose (complementano quelle, anch’esse discus-se da Ricoeur, di Jauss e di Iser), ma servono solo a pre-parare all’incrocio chiasmico tra storia e finzione. Il ter-mine di arrivo rimane la questione della coscienza deltempo storico, con cui conclude il volume.

Ricoeur ha sostenuto che la retorica rimane il luogo diincontro tra finzione e storia, tra metafora e concetto, tracomprensione e spiegazione, come possiamo leggere peresempio in un saggio dedicato esplicitimanente all’argo-mento:

La scienza stessa, di fatto, è culturalmente ef-ficace solo attraverso la retorica, la qualeattinge alle risorse di comprensione depostenel linguaggio ordinario. E alla medesima fon-te ricorre l’ermeneutica allorché si rivolgeall’atopon del nostro orientamento nel mondo

114 The Rhetoric of Fiction (1961) e Rhétorique de la lecture (1977)rispettivamente.

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e si propone di portare a buon fine l’appro-priazione della tradizione. (1987:82)

E tuttavia, non si ha l’impressione che egli consideri lamedesima disciplina dell’interpretazione una pratica in-trinsecamente retorica, o meglio, non eleva la retorica adisciplina filosofica, come per esempio faranno PaoloValesio ed Ernesto Grassi. Il che tradisce una sorta di ce-cità della visione, per usare la celebre frase-titolo di Paulde Man, in quanto nell’elaborazione della sua idea di di-scorso Ricoeur ha ripristinato, come elementi necessari epossibilitanti (saremmo tentati di dire: fondanti) all’inter-pretazione:

a) l’ordinamento del testo-discorso,b) il contesto socio-storico,c) la consapevolezza delle diverse temporalità che si pos-

sono dare in un dato evento,d)la dialettica dell’azione o dell’agire umano, il quale

comprende sempre:i) la scelta,ii) la mediazione, eiii) la produzione di senso.

Bisogna subito dire che tutti questi elementi si trovanonon solo in Aristotele, ma anche in Cicerone, Quintilianoe nei retori umanisti. In un’epoca in cui la regina dellafilosofia e cioè la metafisica sembra tramontare, e si pro-spetta un profondo ripensamento dell’etica,115 la retoricadovrebbe dunque ripensarsi come disciplina di base a tuttele branche del sapere e della riflessione in quanto essa

115 Qui ci sarebbe da commentare il volume di Ricoeur, Soi mêmecomme un autre, Parigi, Seuil, 1991, il quale tratta proprio dell’eticae dell’alterità.

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riguarda l’altro del polo dialogico, la società, la con-vivenza,la ri-creazione della (propria) storia se non altro a livellodi valori, di pretesti e contesti per uno scambio simbolicosignificativo. In questo si muovono anche alcune delleconclusioni dello Swearingen, il quale riscontra nell’ope-ra di Ricoeur una retorica a un tempo aperta al contesto,alle motivazioni dietro un testo, all struttura del testo e acome è stato inteso in passato. In più, le retorica, “histo-rically, has been a weak hermeneutic model even thoughit attempts to predict audience responses to differentrhetorical forms”. (Swearingen 269) L’unico limite di que-sto studio è di natura estrinseca, poiché esso fu scritto nel1983 e non poteva tener di conto Tempo e racconto; diconseguenza la retorica di Ricoeur è studiata con forteenfasi sulla testualità. Alla fine troviamo questa caratte-rizzazione: “Rhetoric and discourse, at the level of theory,are approaching a point of merger”. (ib.)

Quello che ci interessa rilevare, in conclusione, èl’interpenetrarsi e necessaria co-incidenza, tra teoria ge-nerale dell’essere (del linguaggio, della storia) e metodoapplicato, o se vogliamo, praxis, messa-in-esposizione,realizzazione. In più, abbiamo visto i diversi tentativi divenire a capo di una nozione di linguaggio ad un tempointegrativa e molteplice, che riscatta il ruolo attivo del-l’immaginazione nel decorso storico. La linguistica me-desima non sarà più, per Ricoeur e molti altri suoi stu-denti e seguaci, quella basata sulla parola, l’identità, lametà presente o assente del segno, ma quella del discours,cioè della frase, del ri-conoscimento della non-totalizza-zione dell’enunciato, proponendoci una linguistica debol-mente retoricizzata in chiave appunto cognitiva-interpre-tativa, rispettosa della alterità come messa in atto, essere-lì e essere-con, e capace inoltre di ricuperare e/o ricavarel’esperienza temporale-interpersonale del significato.

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Capitolo Sei

Linguaggio e potere in Lyotard

1. Declinazioni

Apparso in America, cinque anni dopo la pubblicazionedell’originale francese, corredato da una prefazione diFredric Jameson e dall’appendice «Answering the Que-stion: What is Postmodernism?»,* La condizione postmo-derna di Lyotard si rivela a tutt’oggi capace di suscitareplauso critico e vivace dissenso. La brevità del testo è in-versamente proporzionale all’ampiezza e all’estensioneprospettica dell’analisi, che continuerà certamente a rap-presentare un punto di riferimento nel corrente dibattitosugli orizzonti e sulla natura di questa nostra età «post-moderna». Riassumendone i contenuti, si può dire che ilsaggio rifletta soprattutto sul lungamente annunciato de-clino della giustificazione metodologica che fa da soste-gno alle pretese della scienza - tradizionale nemica diquella che è la «narrazione» per antonomasia, vale a dire,la letteratura - e sul problema della migrazione delsapere«razionale» verso regimi non-scientifici, quali lacritica, la politica e la burocrazia, migrazione che tende aoccupare l’intero territorio della speculazione teorica pas-sata e minaccia di inscrivere ogni futuro discorso nelparadigma dell’efficienza e della performatività. Il mon-

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do postmoderno non sarebbe più aperto alla teoria masoltanto alla prassi.

Ora, se ciò che viene descritto come la «condizione» - ulteriore, posteriore o, comunque, differente rispetto alprogetto della Modernità - si identifica con l’immanenzadelle pratiche (sociali, linguistiche, artistiche, politiche...)che si esercitano senza la legittimante autorità del sapereteorico, quale potrà essere lo statuto del discorso interpre-tativo? Sarà ancora possibile parlare di o riguardo a untesto B o un’opera d’arte, o una situazione socio-storica, Bal fine di stimarne l’importanza e attribuirgli un valore?In questo saggio Lyotard non affronta esplicitamente iproblemi relativi al potere pubblico, all’arte e alla criticad’arte116: tuttavia, le considerazioni riguardanti la crisi deigrands récits e, soprattutto, lo studio della storia del sape-re, dovrebbero essere letti con attenzione per la luce chegettano sull’istituto della critica, nella prospettiva di unalezione decostruzionista diversa da quella attualmentevulgata, e nell’accoglimento di un’etica e di un’esteticache solitamente non allignano nei circoli culturali ameri-cani. Ma, prima di discutere di tali particolari implicazio-ni, sarà opportuno delinearne brevemente il quadro ge-nerale.

La Modernità è caratterizzata dalle «grandi narrazioni»che mirano alla legittimazione del sapere sia a livello so-

116 Fra le opere di Lyotard che si occupano esplicitamente di arte, Desdispositifs pulsionnels (1973a), Discours, Figure (1971), La pittura del se-greto (1982a), e «La peinture et la philosophie à l’âge de leurexpérimentation» (1982b). Le traduzioni dei testi lyotardiani che cite-remo in questa prima parte sono: La condizione postmoderna (trad. dalfrancese di Carlo Formenti, Milano: Feltrinelli, 1985), che abbreviamocon PM, e La pittura del segreto (trad. dal francese di Maurizio Ferraris,Milano: Feltrinelli, 1982), che abbreviamo con PS. Nella seconda par-te, citeremo invece da Il dissidio (trad. dal francese di Alessandro Ser-ra, Milano: Feltrinelli, 1985), abbreviato con D.

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ciale che politico. Nel primo caso, il sapere necessita diconsenso; nel secondo, richiede l’omologazione di verità egiustizia (ciò che è vero viene anche considerato giusto).Un tipico esempio è costituito dall’illuminismo, che so-stiene quel principio «umanista» in base al quale si ritie-ne che, grazie al sapere, l’umanità si elevi in dignità e siemancipi dall’oscurantismo. Con l’avvento dell’idealismotedesco, invece, il sapere trova legittimità in se stesso:non ha più bisogno dello Stato, dell’umanità o della natu-ra (ovvero, di un referente empirico) per definire ciò chesiano lo Stato, l’umanità o la natura. In questo caso, siricorre a Aun metaprincipio che fonda contemporanea-mente lo sviluppo della conoscenza, della società e delloStato nel compimento della «vita»di un Soggetto che Fichtechiama «Vita divina» ed Hegel «Vita dello spirito» [PM 64].Una volta identificata con il gioco del sapere, la legittima-zione è divenuta puramente speculativa, o indiretta, ed èpersino potuta apparire disinteressata. L’università si con-figura, ancora oggi, come sua istituzione esclusiva. Ilmarxismo costituisce una sorta di anello di congiunzionefra queste due «metanarrazioni»: esso rappresenta un ri-torno verso le concrete condizioni storiche, un camminoin cui l’emancipazione (ovvero, l’epopea della libertà) siaccompagna alla capacità di discernere ciò che è verascienza da ciò che è soltanto ideologia. Tale «narrazione»si fonda sul principio in base al quale è possibile suppor-re che il soggetto si dia leggi giuste Anon perché confor-mi a qualche natura esteriore, ma perché i legislatori siidentificano per costituzione con i cittadini sottomessi alleleggi, e quindi perché la volontà, che è quella del legisla-tore, che la legge sia giusta, è sempre identica alla volon-tà del cittadino che consiste nel volere la legge e quindinell’osservarla [PM 66].

Questi tre grands récits pongono tutti il fondamentaleproblema della legittimazione del sapere. Tale problema

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viene analizzato da Lyotard mettendo l’accento sui fattilinguistici e, particolarmente, sulle regole del giocoperformativo, nel quale, come è noto, gli enunciati nonsono soggetti a discussione o verificazione da parte deldestinatario, dato che questi Aviene ad essere immedia-tamente posizionato nel nuovo contesto creato dall’enun-ciazione del performativo [PM 22]. Si dà ormai per scon-tato che, nell’ambito della tradizione occidentale, il sape-re venga esclusivamente veicolato da enunciati di tipodenotativo - ovvero, attraverso un gioco linguistico chepermette al destinatario di accordare o negare il proprioassenso, e che, soprattutto, esige che il referente vengacorrettamente identificato, nel totale rispetto di una seriedi regole normative e descrittive. Ma è pur vero che, nel-le «grandi narrazioni» dell’illuminismo, dell’idealismo te-desco e del marxismo, le strategie di legittimazione deglienunciati denotativi hanno subito un notevole cambia-mento, al punto che i discorsi conoscitivi sono talvoltaricorsi a enunciati di tipo imperativo, prescrittivo e, piùdi recente, constativo, con il conseguente stabilimento diregole, principi e programmi - giochi linguistici giocatiall’insegna dei valori, del consenso, della coerenza e del-la necessità assiologica, in conformità con un fondamen-tale presupposto teorico: «la società costituisce un insie-me funzionale» [PM 24], o anche, «la società è una totalitàorganica, una unicità» [PM 26]. Nel mondo postmoderno,nella realtà della telematica e dell’informatizzazione, as-sistiamo invece al tramonto della prospettiva unitaria.Non più improntato a modelli organicisti, ma ispirato alle«metaprescrizioni» della teoria dei sistemi, il legame so-ciale non sostiene nessun discorso totalizzante, e desistedalla ricerca di relazioni globali ottimali, in considerazio-ne degli esempi di legittimazione locale realizzati attra-verso gli imperativi della performance: miglior rapportoinput/output, acceleramento della produzione, più effi-

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ciente immagazzinamento delle informazioni («l’Enciclo-pedia del domani sono le banche dati» [PM 94]), eguaglia-mento di potere e uso, infinito sviluppo dei mezzi. Sem-bra ormai sopraggiunta l’era della «piccola narrazione»(petit récit). Ma, come è avvenuto tutto ciò?

2. Torti e svolte

L’operazione compiuta da Lyotard diagnosticando edissezionando l’endogena cancrena che - ultima malattiadella Modernità e causa della sua lenta agonia - ha pro-gressivamente svuotato il sapere dei suoi fondamentalipresupposti teorici e delle sue molteplici strategie di le-gittimazione, non ha mancato di suscitare l’interesse deisociologi, degli epistemologi, degli storici della scienza edegli altri esponenti delle varie discipline filosofiche.Jameson non è stato certamente l’unico a sollevare alcu-ne questioni riguardanti le prevedibili conseguenze chederiverebbero dall’adozione del determinismo locale (R.Thom) e dell’anarchia epistemologica (P. Feyerabend) comeipotesi praticabili, per esempio, in vista di una ridefini-zione del campo sociale. Attraverso la lettura di questolibro, si scopre che il pensiero postmoderno non si è inte-ramente sviluppato nell’alveo delle arti e della filosofia,ma ha portato avanti la propria gestazione congiuntamenteal lento sviluppo socio-storico che ha trasformato la scienzain tecnologia - o, in altre parole, congiuntamente alla pres-sante esigenza di autolegittimazione e di fondamento che,pur inscrivendo il metodo scientifico all’interno di un giocolinguistico traducibile, ha, paradossalmente, rivelato l’im-possibilità di omologare teoria, etica ed estetica. Baste-rebbe pensare alla semiotica per vedere come «la più per-fetta delle scienze» traduca tutto in altri termini e, pre-supponendo che ogni cosa sia segno di qualcos’altro, fini-

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sca sempre per dislocare la realtà. Secondo quanto di-mostrano gli odierni principi della performatività localeimmediata, il sapere non è più un’idea, un metasoggetto,una positività trascendente: esso non prevede alcunaBildung, ma si attualizza come verità immanente (Gestell),come gioco composto da regole intraducibili, come téchneche dovrebbe essere compresa nel suo fare, nel suo pre-sentarsi, piuttosto che venire concepita come assenza.Contrariamente a Derrida, Lyotard non crede che la no-stra condizione sia unicamente esprimibile come traccia,come mero testo. Dopo aver attuato una propria deco-struzione del logocentrismo (prima, attraverso la rivalu-tazione del «figurale» e, successivamente, attraverso l’esal-tazione del «libidinale»)117, Lyotard ha cercato di eviden-ziare la datità del reale, la sua opacità di corpo che generadifferenza: in tale prospettiva, la realtà non appare piùcome qualcosa da leggere/scrivere, ma come qualcosa davedere118.

Questa concezione del «visibile» come empirico e con-creto sapere la cui comprensione non richiede né teoriené metadiscorsi è, in buona parte, anteriore a La condizio-ne postmoderna. In un’intervista rilasciata a breve distan-za dall’esperienza del maggio 1968, Lyotard afferma che«tutto ciò che ha a che fare con un processo, una genesi,un passaggio dall’oggettivo al soggettivo - in sensohegeliano - deve in effetti essere rigettato come unamistificazione di carattere religioso, una fantasia di ricon-

117 Vedi Economie libidinale (1978b) e Lyotard 1973b (trad. it. 1979, conprefazione di Gianni Vattimo).118 Ibid. 9. L’interesse per la pittura sembra suggerire un’interpretazio-ne prettamente sensoriale del concetto lyotardiano di «visione», ma,d’altro canto, non si possono nemmeno escludere implicazioni di por-tata fenomenologica, soprattutto in considerazione del fatto che il pri-mo lavoro di Lyotard, pubblicato nel 1954, costituisce proprio una va-sta ricognizione sul campo della fenomenologia.

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ciliazione». Più oltre, criticando Althusser per aver privi-legiato il pensiero politico e favorito il Partito Comunista,aggiunge: «la posta in gioco non è una critica di tipomeramente concettuale, ma una critica di tipo pratico»4.E, in un passaggio chiave, che rappresenta una possibileriapertura in direzione esistenziale (oltre che una «rispo-sta» a quella «ansietà di influenza» così (pre)occupata daformazioni non meno storiche che astratte), Lyotard dice:«l’alienazione può essere descritta come l’esperienza diuna universalità astratta; infatti, l’universale risultaestromesso dalle situazioni concrete». Alienazione e teo-ria non paiono inclini alla conciliazione. In cambio, siavvertono gli impulsi e le possibilità di un movimentoche riesce ancora a cogliere qualche segno di vita reale,qualche indizio che addita una nuova esplicazione di ciòche non può essere semplicemente ridotto a «meta-racconto». Ecco dunque che, al «necessario abbandonodella dialettica marxiana», Lyotard cerca di sostituire l’at-tività dell’artista, il quale, essendo diventato decostruttore,è, necessariamente, critico. Sembra infatti che,

tutte le decostruzioni, che potrebbero sembra-re formalismi estetici, sperimentalismi avan-guardistici, ecc., in realtà costituiscano il solotipo di attività efficace, dal momento che sitrovano funzionalmente - brutta parola, sareb-be meglio dire ontologicamente - collocati al difuori del sistema; la loro funzione è, per defi-nizione, quella di decostruire tutto ciò chepertenga all’ordine, per mostrare come tuttoquesto «ordine» nasconda sempre qualcos’al-tro, qualcosa che è stato represso. [1984b, 29]

119 Cfr. 1984a, 19-33. Il testo, che s’intitola «Sur la théorie», è un’intervista ri-lasciata a Brigitte Devismes apparsa la prima volta su VH 101 (estate1970).

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Negli anni successivi, Lyotard ha ampiamente rielabo-rato le sue posizioni (ne La condizione postmoderna [29-30], il «sapere critico» appare soltanto come con uno deimolteplici giochi di legittimazione): in particolare, met-tendo l’accento sul significante, Lyotard ha avviato unaprofonda riconsiderazione del significato. Lo si rileva an-che dall’intervista rilasciata a Devismes, dove, fra l’altro,dichiara apertamente: «ciò a cui siamo interessati è la di-mensione dell’alterità, l’alternanza» [1984b]. L’alterità vie-ne dunque tematizzata come matrice delle infinitedifferenziazioni del mondo sensibile - mentre, nei primilavori, si insisteva soprattutto sul contrasto fra registrofigurale e registro discorsivo.120 Al pari di Derrida, Lyotardsi dedica a interrogare il discorso filosofico attraverso ilconfronto con certe espressioni delle avanguardie artisti-che: il saggio «Freud selon Cézanne» (1973) rappresentaun ottimo esempio di quella che verrà successivamenteesaltata come pratica discorsiva autenticamente postmo-derna. La chiara consapevolezza del divario che distin-gue le proposizioni descrittive dalle proposizioni prescrit-tive, ovvero l’innegabile differenza delle situazioni esisten-ziali vissute da coloro che impartiscono gli ordini e dacoloro che devono eseguirli - con buona pace della recen-te mistificazione narrativa che, giocando a livello dimetadiscorso, si propone di evidenziare soprattutto la re-versibilità dello schema, B inducono Lyotard a maturareuna concezione secondo la quale la «giustizia» sociale tro-va sostegno in un principio di radicale eteronomia. Talevisione rimette in gioco una costellazione di concettiaristotelici quali la «giusta opinione» o la «saggezza delgiudice», concetti di valore pratico e contingente, risalen-

120 Ibid. 70. Ci riferiamo all’articolo «Notes on the Critical Function ofthe Work of Art» apparso la prima volta su Revue d’Estétique, vol. XXIII,n. 3-4, dicembre 1970.

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ti all’Etica Nicomachea, dunque anteriori - anche se dipoco - alla formulazione di quell’idea di un fondamentometafisico del «giusto» che avrebbe segnato in modo de-terminante il successivo cammino della storia occidentale.

Nei due saggi Instructions païennes e Rudiments païens,entrambi pubblicati nel 1977, viene approfondito l’aspet-to della trasmissione dei giochi prescrittivi. SecondoLyotard, il messaggio della legge può essere percepitocome istruzione, come oracolo, e, pertanto, del tutto al difuori della tensione che si instaura fra l’autonomia dellavolontà e l’obbligo cogente di un’astratta, onnifondatricevisione della Verità. Ecco che, ancora una volta, vieneenfatizzata la non-reversibilità dei ruoli (come nel caso diinsegnante e allievo), la differenza e non l’indifferenzadel metadiscorso critico [discerning metadiscourse]. Saràbene evidenziare come, lungo questa linea di indagine,Lyotard finisce per circoscrivere un campo di esperienzeimplicanti una nozione di differenza non del tutto ricon-ducibile alla différance derridiana.

La sua ultima opera va sotto il titolo di Le différend, chetradurremo come la controversia, il conflitto o la vertenza,non tanto per rivelare l’ascendenza giudiziaria del termi-ne francese (il quale, ovviamente, viene anche inteso nelsenso di «comporre le differenze», o «appianare i contra-sti»), quanto per evitare confusioni con il succitato termi-ne derridiano. In sintesi, quest’ultimo libro si occupadell’impossibilità di stabilire una norma universale di giudi-zio capace di dirimere le «controversie» che nascono frageneri discorsivi eterogenei o fra differenti «famiglie difrasi», vale a dire, fra diversi tipi di giochi linguistici o«metanarrazioni».

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3. Verso il Post Moderno

L’enfasi posta sulla «vertenza» ci richiama a La condizio-ne postmoderna, la quale puntava in parte sulla rivalorizza-zione della pratica del significante come una delle molte-plici strategie messe in atto nel tentativo di fare allusioneall’«impresentabile» [PS 55]. Ora, data la situazione dellascienza, che, avendo fallito il suo estremo tentativo ditotalizzazione, si prova ora alacremente a passare in ras-segna l’imponente schieramento delle catastrofi acciden-tali, dei paradossi e dei paralogismi; dato che il sapere,dopo aver ammesso come sola procedura legittimante ladelegittimazione di ogni ipotesi che possa essere avanza-ta contro di esso, si ritrova continuamente auto-destabi-lizzato; data questa serie di condizioni, il progetto del di-scorso interpretativo non potrà più essere quello di deter-minare le strutture, l’unità e la coerenza di un’opera sullabase di un rigido paradigma referenziale. L’interpretazio-ne non potrà più fingere - come ha fatto nell’ultimo seco-lo - di tradurre i significati testuali nei termini di un’altrascala di valori - siano essi estetici, sociali, politici o di qua-lunque altra natura. L’omologia ha maturato i suoi frutti,ma la stagione volge ormai al termine, e già si profilanoorizzonti alternativi. Con il sorgere del pensiero scientifi-co, la critica si è inutilmente sforzata di stare al passo deitempi provandosi a mettere in gioco tutta una serie distrumenti di legittimazione presi a prestito dalle più va-rie discipline scientifiche. Nel corso dell’ultimo secolo,con disappunto dei molti critici che hanno faticato adadattarvisi, tale processo ha accelerato il passo cercandodi conquistare credito e consenso sotto l’egida di unmetadiscorso finalmente capace di assicurare unità, prin-cipi e risposte soddisfacenti alle domande: «Che signifi-ca?» e «Che vale?» Nella sua attuale situazione, il discorsoscientifico si trova come in un circolo vizioso: in tali fran-

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genti, non manifesta soltanto la propria infondatezza, maanche il proprio intrinseco, insidioso eppure inevitabileprocesso di delegittimazione, processo che, a livelloontologico, non conosce né luogo né tempo, ma che, sem-plicemente, opera, produce e riproduce.

A differenza di quanto si sia potuto congetturare, le pro-spettive del discorso interpretativo non paiono affattocupe, né tantomeno apocalittiche. Piuttosto, sembra giu-sto evidenziare come il paradigma stesso, ovvero il referenteo, meglio ancora, l’ideologia, inseguiti attraverso i secolinon siano altro che fantasmi, finzioni, riflessi di un giocolinguistico palesemente asservito al potere e al capitale.Il cielo appare limpido e l’esperienza pronta a ricomin-ciare. C’è parecchio lavoro da intraprendere e, frattanto,qualcuno si è già messo all’opera, non più in teoria ma inpratica, non più attraverso metalinguaggi ma attraversoeventi linguistici, non più attraverso dicotomie, dialettiche,epistemologie, ma attraverso paralogismi, procedimentidiegetici e retorici. Soprattutto, ciò che sembra opportu-no fare è evitare che si concentri troppa enfasi sulle umi-liazioni e le interdizioni della realtà praticate attraversocerti artifici espressivi (quali, ad esempio, le tecniche avan-guardiste [PS 56]). In cambio, si dovrebbe cercare di for-mulare «ciò che sarà stato fatto», inventando allusioni chefacciano segno verso ciò che, pur essendo concepibile,non può tuttavia essere presentato [PS 59].121 Certo, sipotrebbe argomentare che la prospettiva attraverso cuiLyotard considera la tecnologia, la rappresentazione e il(dis)credito della storia risulta alquanto parziale (nell’am-bito de La condizione postmoderna non si fa mai cenno adHeidegger, né tantomeno a Foucault) e, in effetti, l’osten-tato confinamento dell’ermeneutica nel regno delle gran-

121 Lyotard vi aveva già fatto allusione nel suo «Intervento italiano»,Alfabeta, n. 32, gennaio 1982, 9-11.

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di metanarrazioni sembrerebbe testimoniare in questosenso. Eppure, il punto di vista lyotardiano non è maitanto pessimista quanto, poniamo, quello di Baudrillard:non tutto è perduto. Metalinguaggi e capitali hanno en-trambi bisogno di istituzioni e, se il sapere postmodernoricerca regolarità governate da un «antagonismo catastro-fico», la stessa ermeneutica postmoderna può allora defi-nirsi come «vertenza», come disputa perturbatrice edecostruttiva sull’alterità.

4. L’idea di linguaggio e potere tra parlanti

Veniamo ora a considerare il modo in cui Le différend — testo che si colloca piuttosto problematicamente nell’am-bito concettuale del Post Moderno — affronta alcuneimportanti questioni di filosofia del linguaggio fra cui,inevitabilmente, il problema dell’interpretazione.122 In ef-fetti, ogni volta che si prospetta una qualche alternativadi ridisposizione dell’ordine del discorso, si pone subito ilproblema di come ciò possa influenzare la nostra inter-pretazione dell’universo (in particolare, l’interpretazionedell’universo artistico). Lyotard, attraverso la sua perso-nale rilettura dei testi istituzionali della cultura occiden-tale, esprime tutta una serie di denunce e rivendicazioni:la sua opera, complessivamente considerata, manifestaun persistente atteggiamento di sfida verso le gerarchieprestabilite e verso alcune forme sociali (di discorso) che,

122 Il libro è troppo ricco e complesso per uno spazio così angusto: Ledifférend rappresenta probabilmente la più importante opera diLyotard. Molti interessanti passaggi relativi a questioni storico-politi-che di grande rilevanza per la critica delle istituzioni dovranno essereesaminati in altra sede: accenneremo soltanto ad alcuni problemi diermeneutica giuridico-legale.

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pur coinvolte in intensi rapporti dialettici, si mantengo-no comunque incontestate. Sembra dunque possibile rin-tracciare una certa linea di continuità con il criticismokantiano, a cui pare direttamente improntato il procedi-mento analitico di Lyotard. Ma ciò non significa cheLyotard debba essere identificato come kantiano,123 piutto-sto rileva la sua fede negli aspetti critici e razionali delpensiero.

Più specificatamente, in questo nostro tentativo di cor-relare alcuni topoi dell’opera lyotardiana con varie altreproblematiche - fra cui quelle della Diaphora, della conte-sa (e del contesto) in cui si dibattono Poesia e Filosofia -accadrà spesso (o, almeno, sarebbe nostra intenzione) chele considerazioni a cui ci dedicheremo vìolino il principa-le asserto filosofico di Lyotard, il quale nega ogni possibi-lità di comunicazione fra differenti famiglie di frasi [D11]. D’altronde, ciò su cui verte l’ermeneutica è proprioquesto: la differenza, l’écart, la reciproca incommensu-rabilità degli ordini di discorso (o codici semiotici), i qua-li, nell’entrare in azione, come realtà vissute, produconoeffetti che sono, volta per volta, storicamente determina-ti,124 ma che possono soltanto essere percepiti come di-storsioni,125 come interpretazioni fuorvianti e tardive[belated misreadings],126 oppure come manifestazioni di

123 A questo proposito, sarebbe utile esaminare la rilettura di Kant inLyotard 1986a e l’intervista, rilasciata a Omar Calabrese, «E se ci entusia-smassimo?» (1986b, 194).124 Ci riferiamo, ovviamente, all’ermeneutica gadameriana di Verità emetodo (trad. it. 1983, 352 et infra). Nell’edizione italiana, l’espressionewirkungsgeschichtliches Bewusstsein viene tradotta come «coscienza sto-rico-effettuale».125 Ci riferiamo alla particolare accezione con cui Gianni Vattimo usa iltermine heideggeriano Verwindung, cfr. «Verwindung: Nihilisme etPostmodernité en Philosophie», Krisis, n. 3-4, 1985, 43-53.126 «Belated misreading», pregnante espressione coniata da Harold Bloom.

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quell’ontologia dell’inesauribile teorizzata da Pareyson.127

Data la potenziale problematicità di tali implicazioni, cilimiteremo al modesto compito di delineare la concezio-ne lyotardiana del linguaggio attraverso una duplice pro-spettiva. In primo luogo, vedremo di stimare la «novità»o, quantomeno, l’innovatività delle idee lyotardiane ri-spetto ad altre teorie filosofiche più o meno contempora-nee; successivamente, ci soffermeremo su alcuni argo-menti a cui Lyotard spesso fa riferimento nel corso delsuo dialogo con i testi e/o le teorie della Tradizione. Du-rante tutta la discussione, ma prevalentemente nella par-te conclusiva, presteremo orecchio alle molteplici riper-cussioni che le idee lyotardiane producono nell’ambitodella teoria dell’interpretazione.

5. Le Différend

Ne Le différend, Lyotard sgombra subito il campo dalleteorie fondate su principi o regole universali: egli sostie-ne l’impossibilità di una regola universale di giudizio frageneri eterogenei [D 11] e afferma recisamente che, quantoall’essere certi di qualcosa, l’unica cosa di cui si possaessere certi è la frase. In linea di massima, Lyotard attri-buisce a questo termine un significato tecnico più o menosovrapponibile alla nozione linguistica di sintagma, ma viaggiunge però delle connotazioni filosofiche innovativeche - come vedremo meglio più avanti - delineano unworking concept al tempo stesso flessibile e radicale. Lafrase di cui parla Lyotard non è semplicemente un’artico-lazione linguistica, ma un evento indubitabile in quantoimmediatamente presupposto. Una frase avviene (arrive):è qualcosa che accade - là dove il quod (il «caso») è più

127 Cfr. Luigi Pareyson 1974, 166 et infra, e 1972.

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importante del quid («ciò che accade»). In tale prospetti-va, persino il tacere (se taire), in quanto non-voler-parla-re, viene riconosciuto come frase. Passiamo ora a consi-derare quelli che Lyotard chiama «regimi» o «famiglie difrasi». Ad ogni regime corrispondono precise regole diformazione e di convalida che governano le frasi ad essoascrivibili. La tipologia dei regimi è ricca e variegata: in-terrogare, descrivere, raccontare, prescrivere... sono tut-te modalità enunciative identificabili con un particolareregime. Il significato di una frase dipende in gran parte dalregime a cui essa obbedisce: ciò comporta che non possa maiessere del tutto svincolato dalla modalità enunciativa attra-verso cui è stato originariamente espresso. Cercando di tra-durre il significato di frasi soggette a determinati regimiattraverso frasi soggette a regimi differenti non si fa altroche incorrere in enormi difficoltà: ci si espone al rischiodi gravi incomprensioni e, spesso, esercitando qualcheviolenza, si producono controversie insanabili. La comu-nicazione fra discorsi eterogenei si rende unicamente pos-sibile in vista di un fine prestabilito (fin fixée): è fonda-mentalmente questo il modo in cui la filosofia occidenta-le ha proceduto attraverso i secoli. Volta per volta, si ècercato di istituire un discorso di legittimazione che po-tesse riuscire estraneo («in-differente») a ogni altro gene-re discorsivo o regime di frasi. Altrimenti, si è cercato diridurre certi generi ad Argomento di certi altri, stabilen-do diversi ordini di pertinenza. Tali sono state, grossomodo, le strategie messe in atto rispettivamente dallecorrenti filosofiche di indirizzo trascendentale e dal razio-nalismo dualistico di ascendenza cartesiana. Lyotard paredisposto a concedere che, adottando tali procedimenti, sipuò effettivamente conseguire il «concatenamento»(enchainement) di frasi soggette a regimi differenti. A que-sto punto, sarebbe interessante osservare come tale im-postazione possa venire applicata in campo etico, politi-

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co e giuridico, ma - conformemente ai nostri proposti -valuteremo per prime le implicazioni afferenti ai linguaggicritici ed estetici.

Come aveva già teorizzato in Au juste, Lyotard affermache «concatenare si deve», ma che il «modo» di conca-tenamento non è mai necessario [D 49]. In altre parole,quando si prende parte alla trasmissione di un discorso,occorre - in qualche modo - concatenare una serie di fra-si. Ma ciò non costituisce un obbligo, un Sollen, costitui-sce piuttosto una necessità, un Müssen [D 93]. In tale ne-cessità si rimane pur sempre liberi di decidere come ef-fettuare il passaggio da un regime all’altro: la libertàsembra dunque consistere nella possibilità di scegliere ilmodo in cui coprire la distanza che separa frasi soggette aregimi differenti. La distanza, ovvero il divario aperto trale frasi (che tuttavia si possono e anzi si devono in qual-che modo concatenare), manifesta una natura comples-sa, suscettibile di molteplici approcci ed interpretazioni.Secondo Lyotard, il «conflitto» si instaura necessariamen-te ogni volta che un enunciato soggetto alle regole di unparticolare gioco linguistico viene forzosamente articola-to su una catena di enunciati pertinenti ad un altro gioco.Vi sono poi le «vertenze» che si aprono all’interno di unastessa famiglia di frasi, dove ogni singola occorrenzaenunciativa (ogni «frase-evento») si oppone a tutte le al-tre possibili ma inattualizzate. Sembra insomma che l’av-vento di una frase, quale che sia, non possa fare a menodi dar luogo a contrasti (e dissensi) che coinvolgono altrefrasi teoricamente attualizzabili o, cosa ben più impor-tante, praticamente attualizzate.

Conviene ora prestare un attimo di attenzione alla ter-minologia, per osservare il modo in cui Lyotard utilizzacerti termini metacritici che prende a prestito da discipli-ne istituzionali ma che, parzialmente, risemantizza al finedi formulare la propria rivoluzionaria idea di linguaggio.

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Tale mossa «epistemologica» comporta che Lyotard affermila sua posizione in diretto contrasto con quegli stessi indi-rizzi di pensiero da cui trae i suoi strumenti analitici: eglimostra infatti di respingere alcune pretese ontologiche checostituiscono il canone stesso della Tradizione filosofica oc-cidentale. Sintetizzando, possiamo dire che Lyotard si pro-pone di confutare i pregiudizi metafisici sostenuti dalle«scienze umane» (particolarmente quelli legati a una certavisione totalizzante dell’Uomo e del Linguaggio [D 13]). Comeabbiamo visto, già ne La condizione postmoderna, l’uma-nesimo e gli altri grands récits erano stati descritti come fa-vole trite e obsolete non più credibili né proponibili.13 Taliaffermazioni lasciano immediatamente trasparire quel ra-dicale scetticismo che, ne Le différend, si applica anche allosmantellamento dei numerosi preconcetti ideologici radicatinelle più affermate teorie epistemiche contemporanee. L’im-pianto argomentativo poggia prevalentemente su una con-cezione aristotelico-kantiana del tempo come dialettica pri-ma/dopo, ovvero come necessario avvicendamento che de-termina la problematica concatenazione degli eventi. PerLyotard, l’essere si dà solo come «evento», come occorrenza:esiste solo un Il y a, un C’è che non ha neppure bisogno direferente. Il referente può essere presentato, e viene infatticontinuamente evocato dai discorsi filosofici, ma non costi-tuisce affatto una necessità: insistere sulla necessità delreferente significa obliterare la più intrinseca necessità deltempo (il tempo della frase) sottomettendosi a una posizio-ne totalizzante e, potenzialmente, totalitaria (l’ideologia delReferente non richiede solo di adeguarsi ma, soprattutto, dicredere). Ad ogni modo, dal momento che la storia del pen-siero occidentale si è interamente scritta come tentativo ditrovare, definire e utilizzare un (qualsiasi) referente, non ècerto prescindendo da tale istanza che si continueranno a

128 Cfr. quanto osserva a proposito Maurizio Ferraris 1986, 81-101.

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considerare le molteplici questioni di natura sociale, poli-tica ed estetica: i discorsi sulla realtà sembrano destinatia combinare l’avvento di nuovi significati e l’indeclinabile«persistenza del referente» [D 70, enfasi mia].

Comunque ci si voglia porre nei confronti del problemadel referente, si deve riconoscere che la prospettivalyotardiana del «conflitto» interdiscorsivo inquadra chia-ramente l’orizzonte esistenziale su cui si definisconodiatribe filosofiche, campagne elettorali, accordi diploma-tici e qualunque altro tipo di fenomeno culturale. Stabi-lendo un dialogo fra l’antropologismo trascendentale diKant (terza Critica e testi storico-politici) e l’empirica con-cretezza di Wittgenstein - con la sua concezione del si-gnificato come uso (cf le Ricerche filosofiche), Lyotard aprela strada verso una «decorosa postmodernità», da noi es-senzialmente intesa come diaspora o dispersione [D 14].

6. La retorica delle frasi

Ma a prescindere per un momento dalle sue riserve sullostato e necessarietà del referente, osserviamo un po’ più davicino alcuni aspetti messi in luce da Lyotard nel suo con-sueto mode reflexif. In ambito giudiziario, il «conflitto» o me-glio «dissidio» riguarda soprattutto la competenza del giudi-ce, ovvero il codice attraverso cui egli si esprime e sulla basedel quale è legittimato a giudicare. Lyotard nota come, inun tipico caso conflittuale (quello che oppone forza-lavoroe capitale), l’attore si trova nell’impossibilità di provare leproprie accuse in quanto esse sarebbero solamenteesprimibili in un «idioma» differente dal «codice dei magi-strati» (in effetti, non si vede come il giudice - unicamentelegittimato a esprimersi in termini di diritto economico-so-ciale - potrebbe mai riconoscere il danno «ontologico» sof-ferto dai lavoratori [D 26-27]). Il problema della competenza

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giuridica viene dunque identificato da Lyotard con un pro-blema di linguaggio, e quindi ricondotto nella sfera del «con-flitto interdiscorsivo». In quest’ottica di problematizzazionedel giudizio, il «metodo» sembra quasi fluttuare a mezz’aria:slegati da ogni sicuro fondamento, argomenti e deduzionisembrano come articolati nel vuoto, e l’ambiziosa pretesadi stabilire leggi universali appare quantomai inattualizzabile.Bisogna riconoscere che tutto ciò si riflette manifestamentenella nostra vita quotidiana, dove nessun tribunale si mo-stra capace di regolare i contrasti linguistico-ideologici e dove— come si evidenzia negli esempi portati dallo stesso Lyotard— un attore può effettivamente essere privato dei mezzinecessari a suffragare la propria querela. Le conseguenze ditale situazione sono assai gravi: ridotto al silenzio, l’attorediventa vittima del codice legale a cui è sottoposto, e il dan-no subito, invece di trovare riparazione, acquista i caratteridel torto (dal lat. tortus, «rovesciato»). Viene infatti definitocome torto il danno accompagnato dall’impossibilità di te-stimoniare del danno stesso o, più semplicemente, «il casoin cui la frase della testimonianza viene privata di ogni au-torità» [D 21].

La contrapposizione delle parti processuali rappresentain sé la canonica espressione di un différend. Ciò appare intutta evidenza se si considera la struttura dialettica del con-trasto: occorre pertanto osservare che i principi assiologici ei procedimenti retorici a cui si improntano le argomentazionidell’accusa non sono omologhi a quelli di cui si avvale ladifesa.129 L’accusa descrive l’accaduto (la fattispecie) attra-verso una serie di frasi tese a stabilire l’esistenza di un

129 Sebbene Lyotard non li citi mai direttamente, dimostra spesso di ave-re presenti alcuni studi di eminenti cultori della scienza del diritto e,soprattutto, dimostra di conoscere molto da vicino le implicazioni reto-riche e logico-formali relative al problema della legittimazione politica egiuridica. In particolare, notiamo qualche affinità con gli studi di ChaïmPerelman: 1979, 3-16, e 1977.

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referente che si vorrebbe configurare come infrazione delleleggi di cui il tribunale è garante ed esecutore. La difesa,invece, mette in atto una strategia retorico-argomentativadi tipo «nichilista» [D 25] per la quale è sufficiente contraddirele tesi accusatorie, confutando le testimonianze e ricusandole prove, al fine di persuadere la corte che il «caso» (o l’even-to) non esiste (o che, comunque, la colpevolezza dell’impu-tato non è dimostrabile in sede legale). Ora, può darsi benis-simo che i discorsi di entrambe le parti rivelino una struttu-ra compositiva per molti versi parallela (le confutazioni del-la difesa sono infatti generalmente speculari agli asserti del-l’accusa) e dimostrino persino di possedere uno stesso an-damento logico-deduttivo: tutto ciò rientra nella feno-menologia del genere forense e non oscura affatto la naturaprettamente pragmatica del contrasto. Il différend verte in-fatti sulla contrapposizione dei giochi linguistici (o regimidi frase) all’interno dei quali si inscrivono i discorsi delledue parti: mentre il discorso dell’accusa cerca di stabilire ifatti attraverso procedure attinenti al gioco descrittivo, il di-scorso della difesa ricorre abilmente alle prescrizioni dellalegge (sbandierando la presunzione di innocenza, richieden-do il trasferimento della sede processuale, cavillando sullacompetenza giuridica del caso...). Dal momento che ilreferente stabilito dall’accusa viene sostanzialmente negatodalla difesa, risulta evidente che non vi è mediazione possi-bile, e che la contrapposizione delle parti implica soprattut-to un problema di legittimazione e di potere. SecondoLyotard, che lo rilevava già nei suoi primi lavori, la filosofiadel linguaggio finisce sempre per misurarsi con l’abisso chedivide la descrizione di un evento dalla prescrizione di comelo stesso evento debba essere accolto e interpretato.130 In130 Lyotard sembra rivolgere una particolare attenzione alle teorie lin-guistiche anglo-americane: ricorre spesso alle categorie stabilite daAustin, mentre, come Derrida, assume posizioni piuttosto critiche neiconfronti del più recente pragmaticismo searliano.

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altre parole, non si può fare a meno di incappare in una«disputa» (di carattere teorico ma, spesso, anche dolorosa-mente pratico) ogni qual volta si confrontino i dicta (e gliscripta!) di coloro che si dedicano a formulare imposizioni egli inesprimibili (o irrecepibili) discorsi di coloro che a taliimposizioni si devono invece sottomettere (se non voglionoandare incontro a spiacevoli conseguenze). Il différend sidefinisce insomma come frontiera dell’inesprimibile, ovve-ro come «lo stato instabile e l’istante del linguaggio in cuiqualcosa che deve poter essere messo in frasi non può an-cora esserlo» [D 30].

7. Ripercussioni

Avviciniamoci ancora di più. Qual è l’impostazione for-male di questa teoria del linguaggio? Prima di tutto, bisognaconsiderare il modo in cui Lyotard seziona gli universi difrase distinguendovi quattro istanze (altrimenti definite come«valenze di concatenamento» [D 104-5]): destinatore,referente, significato (sens) e destinatario. Appare subitochiaro che tale schema costituisce una versione semplifica-ta del modello funzionalista teorizzato da Jakobson. Ma vi sinota anche l’influenza della cosiddetta teoria degli atti lin-guistici (Speech Acts Theory). Lyotard spoglia il pragmaticismosearliano della sua pretenziosa impostazione categorizzante(«perlocutionary») e, soprattutto, polemizza con ciò che eglichiama «il pregiudizio della pragmatica», secondo cui «unmessaggio va da un destinatore a un destinatario che “esi-sterebbero” senza di esso» [D 105]. Tale posizione comportaun’esaltazione dell’autoreferenzialità della frase in quantoavvento di significato (occorrenza). In effetti, l’istanza cheappare maggiormente enfatizzata è il «senso» (der Sinn), che— com’era già stato messo in luce da Frege — si veicola«indipendentemente dal contesto e dal locutore» [D 56]; al

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contrario, le istanze del destinatore e del destinatario appa-iono evidentemente abbassate di rango e, per così dire,inscritte all’interno della frase [D 28-9] e fatte dipendenti daparti minori del discorso. In sintesi, la disposizione di ununiverso di frase dipende dalla situazione delle istanze leune in rapporto alle altre: le situazioni possibili comprendo-no i casi in cui una frase comporti uno o più referenti, unoo più sensi, uno o più destinatori, e anche i casi in cuiqualcuna delle quattro istanze non sia affatto marcata nellafrase [D 31].

Secondo Lyotard, riconoscere l’importanza della pragma-tica non significa dover anche accettare la categorizzazionedegli atti illocutivi (specie se questa si propone come una sor-ta di crivello tassonomico): Lyotard non accetta che la com-plessa tipologia delle relazioni interdiscorsive (o, meglio, «in-terfrastiche») possa venire costretta entro un rigido para-digma, una griglia teorica predeterminata che verrebbe sol-tanto a costituire l’ennesimo metarécit o addirittura ideolo-ghema (palesemente contraddistinto da propositi normati-vo-autoritari o capziosamente mascherato da finzione, co-munque estraneo alle frasi su cui pretenderebbe di imporre ipropri criteri). In buona sostanza, l’applicazione di una tas-sonomia discorsiva di carattere «forte» (stabilita su fondamen-ti ontologici) non farebbe altro che oscurare l’infinita poten-zialità creativa del linguaggio, arrivando persino a contra-stare il continuo avvento di frasi innovative, o differenti.131

131 Nei testi citati alla nota 14, Perelman discute di come, storicamente,il discorso del giudice (ovvero, l’ermeneutica giudiziaria) ha dovuto abban-donare la prova di tipo matematico per orientarsi verso la «norma consue-tudinaria» (ovvero, i topoi della tradizione) e verso altre strategie affini,allo scopo di concatenare in modo coerente le divergenti presupposizionidel dibattito e le differenti interpretazioni dei fatti in questione. Nellaprospettiva di Peirce, altro autore difficilmente citato da Lyotard, lapragmatica (più nel senso pragmatistico che pragmaticistico) cerca pro-prio di rispondere alle domande: A che vale? e A chi vale?

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Collocandoci su un diverso punto di osservazione, po-tremmo dire che la teoria linguistica lyotardiana favori-sce il superamento della semiotica del codice132 e contri-buisce al recupero della retorica (termine di cui Lyotardnon fa quasi mai uso esplicito ma che sembra spessosottendere la sua descrizione dei generi discorsivi).133 Ve-diamo ora in dettaglio come si estrinseca tutto ciò:innanzitutto, il referente, che in ambito semiotico venivasemplicemente descritto come una componente dellastruttura segnica (Ogden e Richards) o come una funzio-ne del linguaggio (Jakobson), riacquista in Lyotard valoreesistenziale definendosi come polo dialogico provvisto diun «codice» proprio, incommensurabile rispetto ai codicipertinenti al polo del linguaggio e, quindi, assolutamenteirriducibile nelle formule logiche del campo semiotico.Possiamo inoltre notare che il referente viene ripetuta-mente indicato come oggetto del différend, pomo delladiscordia fra «presupponenza» [assertiveness] e legittimi-tà, argomento di innumerevoli controversie in cui ciascu-na delle parti, attraverso il dispiego di ogni possibile stra-tegia retorica, cerca di far apparire «ingiusti» (inappro-priati, errati, irrilevanti...) i principi su cui si fondano idiscorsi della parte avversa. Quest’ultima osservazione siricollega a un punto cruciale: il significato di una frase ap-pare inestricabilmente connesso alla mossa retorica che essarealizza con il proprio occorrimento (il proprio «avvento»sulla scena del discorso); sembra dunque che ogni frasepossa unicamente essere interpretata in base alle strategieche mette in atto, ovvero in base alle regole del genere

132 Nel considerare tale argomento non pare possibile prescindere daEco 1975. Bisogna però tenere presenti le successive evoluzioni delpensiero di Eco, cfr. Carravetta 1988, 108-111.133 Oltre a quella di Perelman, abbiamo in mente l’idea di retorica illu-strata da Valesio 1980. In entrambi i casi, restiamo comunque nell’am-bito della tradizione aristotelica.

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discorsivo e del regime linguistico a cui si informa. Eccoallora che si mette nuovamente in luce la difficoltà di ar-ticolare un discorso d’accusa, giacché, per ottenere giu-stizia, la parte lesa dovrebbe riuscire ad esprimere ciòche, de facto, ha subito, in termini tali da farlo riconosce-re, de iure, sanzionabile dal tribunale, dovrebbe insommacimentarsi nel faticoso tentativo di concatenare l’accerta-mento del reato e la comminazione della pena, cercandoin qualche modo di coprire il profondo divario che separail gioco descrittivo dal gioco prescrittivo. A differenza del-l’accusa, la difesa non ha bisogno di accertare i fatti (ilcaso specifico), stabilendo con rigore quale sia il referentein questione:134 gli è sufficiente respingere le tesi dellaparte avversa e ricusarne le prove attraverso una serie diefficaci contro-esempi [D 25]. La situazione appare chia-ramente delineata: siamo stretti nel confronto tra filoso-fia e linguaggio, tra metodo e retorica.

8. Aspetti ermeneutici

La complessa problematica del concatenamento di fra-si eterogenee viene analizzata da Lyotard con riferimen-to a testi platonici (Gorgia e Protagora) e aristotelici (so-prattutto il De Interpretatione). Ed è proprio da Aristoteleche Lyotard ricava la distinzione fra ciò che è buono e ciòche è giusto, fra necessità e contingenza, rimarcando quel-la linea di confine sulla quale si può chiaramente perce-pire la consonanza di etica e ragione. Scendendo un po’più sul tecnico, Lyotard ricorda che non tutti gli enuncia-ti sono riconducibili alla logica dei denotativi e, richia-

134 Sempre nell’ambito dei lavori succitati, Perelman spiega come nelXX sec. l’approccio «legalistico» e «positivo» avesse lasciato spazio a unconcetto di legge più «naturale».

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mando direttamente l’originale aristotelico, ribadisce che«pophantikós [denotativo] è non già ogni discorso, ma quel-lo in cui sussiste un’enunciazione vera oppure falsa. Taleenunciazione non sussiste certo in tutti: la domanda [lapreghiera, euché] per esempio è un discorso, ma non ri-sulta né vera né falsa (De Int., 4, 17a)» [D 152]. Ora, nonc’è bisogno che ci tratteniamo a considerare il fatto che, aloro volta, le proposizioni si dividono in logiche (vere an-che se «non significative») e cognitive (vere «solo se signi-ficative»), dal momento che, comunque, entrambe rien-trano nel gioco vero/falso. Quelli che ci interessano sonoi discorsi «né veri né falsi»: in poche parole, ci chiediamocome si possa definire lo statuto della preghiera e, soprat-tutto, quello della poesia. Tali quesiti vengono tradizio-nalmente affrontati sotto l’egida della Poetica e della Re-torica, ma nella prospettiva di Lyotard essi si collocanosu un orizzonte di contrapposizioni, di «conflitti» o «dis-sensi», e vanno quindi affrontati tenendo anche conto deiprincipi etici (particolarmente, quelli espressi nell’EticaNicomachea). Non possiamo fare a meno di notare comela problematica del linguaggio ci conduca al cuore stessodella speculazione filosofica: ripensare l’idea di linguag-gio significa infatti rivisitare tutti i topoi della nostra tradi-zione di pensiero, ridefinendo i contorni concettuali delmondo e dell’uomo, dell’esistere e dell’interpretare, del-l’estetica e dell’etica. Lyotard devia dal pensiero aritotelicoquando mette in discussione il privilegio ontologico con-cesso all’omologia: in questo modo, si discosta ulterior-mente dalla semiotica contemporanea135 inquadrando ilproprio discorso nell’ambito dell’ermeneutica e della filo-

135 Per esempio, non possiamo fare a meno di notare la distanza dallostudio di Ferruccio Rossi-Landi 1983, nell’ambito del quale l’omologiagioca un ruolo fondamentale ai fini del concatenamento fra linguag-gio ed economia.

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sofia della storia. L’istituzione dell’omologia come princi-pio regolatore dei discorsi sulla realtà comporta che glistorici e i pensatori (i «probiviri delle scienze umane»)credano di poter amministrare il meaning (il «voler-dire»)come unità di scambio indipendente dai bisogni e dallecredenze di coloro che — come Lyotard tiene sempre asottolineare — non solo comunicano (ovvero scambianoinformazioni) ma, soprattutto, si esprimono attraverso illinguaggio. L’omologia, che si colloca nell’ambito dellestrategie analogiche, si definisce come una sorta di rap-porto neanche algebrico, forse geometrico, un rigorosoparadigma compositivo a cui si informa una specifica (enient’affatto secondaria) famiglia di tropi. Ma come ricor-so figurale, l’omologia partecipa della finzione [fiction], con-tribuisce cioè ad alimentare quegli effetti di illusionereferenziale che stanno alla base della fiducia in una sup-posta Teoria della Corrispondenza alla Realtà.

Esaltando gli aspetti espressivi del linguaggio e critican-do la concezione dello scambio comunicativo, Lyotardtrova anche il modo di aggirare l’imperativo kantiano (ov-vero, l’ipotesi di un soggetto che sia insieme destinatore edestinatario delle prescrizioni morali): evidentemente, lacontemplazione dell’abisso che separa i differenti regimilinguistici e, soprattutto, l’accoglimento della frase come«evento» indipendente dalla volontà del soggetto, nonhanno niente da spartire con la ricerca di un Fondamen-to universale (sia esso un Ideale Trascendente o la LiberaVolontà). Prendiamo un esempio chiarificatore: la frase«vota per X», soddisfando una certa serie di requisiti logi-ci, si può considerare un’espressione ben formata e, cometale, può assumere valore universale, ma non può tutta-via esserle riconosciuto alcun valore specifico, in quantotale valore potrebbe solamente essere definito attraversol’osservazione dell’intero universo della frase, ovvero at-traverso la considerazione delle quattro istanze (desti-

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natore/destinatari3/senso/referente) e dei loro reciprocirapporti (che, in concreto, possono porre molteplici pro-blemi etici, giuridici e ideologici). L’impostazionefenomenologica con cui si distinguono i generi discorsivie, soprattutto, si valutano le particolari strategie messe inatto dalle differenti famiglie di frasi, fanno somigliare illibro di Lyotard a una sorta di Manuale di Retorica [PracticalRhetorics], un modello d’indagine che — come abbiamogià avuto modo di osservare — si colloca molto lontanodalle ricerche del campo semiotico, perlustrando orizzontiin cui le tecniche di persuasione (i «cavilli») e le procedu-re di stabilimento della realtà (le «prove») interagisconocostantemente. Leggiamo per intero uno dei paragrafi piùemblematici:

Lei vuol forse dire che gli interlocutori sonole vittime della scienza e della politica del lin-guaggio considerato come comunicazione cosìcome il lavoratore è trasformato in vittimagrazie all’assimilazione della sua forza-lavoroa una merce? Dobbiamo immaginare che esi-sta una «forza-frase», analoga alla forza-lavo-ro, che non riesce ad esprimersi nell’idiomadi questa scienza e di questa politica? Comun-que stiano le cose per ciò che riguarda taleforza, il parallelo non resiste più di tanto. Cheil lavoro sia qualcosa di diverso dallo scambiodi una merce è cosa nient’affatto inconcepibi-le e che si può esprimere solo in un idiomaaltro da quello dei benpensanti. Che il linguag-gio sia qualcosa di diverso dalla comunicazio-ne di un’informazione è cosa nient’affatto in-concepibile e che si può esprimere solo in unidioma altro da quello delle scienze umanedel linguaggio. Ma è qui che il parallelo si in-

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terrompe: nel caso del linguaggio, si ricorre aun’altra famiglia di frasi, mentre in quello dellavoro non si fa ricorso a un’altra famiglia dilavori, bensì, ancora una volta, a un’altra fa-miglia di frasi. La stessa cosa avverrebbe pertutti i dissidi [différends] che si celano nelle liti[litiges], quale che ne sia il contenzioso. Ren-der giustizia al dissidio, equivale a istituirenuovi destinatari, nuovi destinatori, nuovi si-gnificati, nuovi referenti, in modo che la vitti-ma abbia modo di esprimersi e l’attore cessidi essere una vittima. Tutto ciò comporta nuo-ve regole di formazione e di concatenamentodelle frasi. Nessuno dubita che il linguaggiosia capace di accogliere queste nuove fami-glie di frasi o questi nuovi generi di discorso.Ogni torto deve poter essere messo in frasi.Occorre trovare una nuova competenza(o«prudenza»).136

Tale prospettiva consente di introdurre la questione del«silenzio» imposto alle vittime - per esempio, agli ebreisopravvissuti allo sterminio nazista [D 31-32, 81-83 etinfra]137 — e, conseguentemente, suggerisce di rimettere

136 Abbiamo integralmente riportato il ventunesimo paragrafo de Il dis-senso. La prima traduzione americana di questo passo, realizzata dalVan De Abbeele, era apparsa su Diacritics nell’autunno del 1984.137 Sull’olocausto, Lyotard si è anche espresso in un saggio intitolatoDiscussions, or Phrasing after Auschwitz (Milwaukee: University ofWisconsin - Milwaukee [Center for Twentieth Century Studies, «WorkingPapers»], Autunno 1986), originariamette redatto come testo di unacomunicazione tenuta a Cerisy-la-Salle nell’ottobre del 1980. Sembraevidente che il “frasare” descritto da Lyotard sia, mutatis mutandis,assimilabile al «parlare» inteso come “evento” (Fall o token), all’espres-sione linguistica intesa come un «indicare» o un «fare segni» in modiin cui la voce umana può anche non essere affatto necessaria (il silenzio

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in discussione i pricipali indirizzi di filosofia della storia[D 190-227]. Le critiche di Lyotard prendono a bersaglioquelle forme di discorso che presuppongono un rapportodi strumentalità fra pensiero e linguaggio, e che — peggioancora — si arrogano il diritto di bandire dal regno delsapere qualunque enunciato palesemente ascrivibile alregistro dei sentimenti, delle impressioni, delle lacrime,dei lamenti soffocati o ignorati, delle emozioni. La teoriadella storia ha, fino ad oggi, erroneamente eluso il pro-blema del sentimento vantando la pretesa di «aderire allarealtà» o, comunque, di dimostrare i fatti (quelli che po-tremmo chiamare i Grands Référents): ciò significa che ildiscorso storico si è posto, e in molti casi si pone ancora,sotto l’egida di una logica proposizionale che, pur lontanadalla sfera dello «scambio» linguistico, esercita comunqueuna forte influenza legittimante. Quella che manca è, se-condo Lyotard, «un’etica del sentimento» che faccia dacontrocanto o, magari, si sostituisca all’etica dei fatti: AI«segni di storia» richiedono una risposta diversa da quella«oggettiva» e «quantitativa».138 In altre parole, occorrereb-be contrastare quella tecnologizzazione delle attività uma-ne a cui collaborano i récits della psicologia, della socio-logia, della pragmatica e di una certa filosofia del linguag-gio [D 36-37], i quali costituiscono le ultime formemimetiche [representational] di intendimento.139 Considera-

è pur sempre una frase); in effetti, la questione centrale attorno a cuiruota il discorso di Lyotard rimane quella dello statuto dell’enuncia-zione che esprime un ordine (la frase prescrittiva) senza rendersi re-sponsabile (ovvero senza doversi giustificare) o persino comprensibiledi fronte alle frasi (o «atti linguistici») normativi e speculativi che adessa succedono (e che su di essa devono trovare il modo di concate-narsi).138 A questo proposito, cfr. David Carroll 1984, particolarmente a p. 79.139 Sui problemi sollevati dall’idea di mimesi espressa da Lyotard, cfr.P. Lacou-Labarthe 1984.

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zioni di questo genere spingono Lyotard ad abbandonare laprospettiva della logica proposizionale per intraprendere unacritica del rapporto arte/politica concentrando la propriaattenzione sui discorsi che tentano di esprimere (ovvero«mettere in frasi») tale rapporto.

9. Conflitto, retorica, dialogo

Ricorrendo ai parametri del rapporto teoria/metodo, rile-viamo come il destinatario di un messaggio non possa maiessere assolutamente certo di ciò che il destinatore cerca dicomunicargli per il semplice motivo che un qualunque mes-saggio è valido (ovvero trasmette dei significati specifici)solo se si conforma ai fini - e quindi ai mezzi - di una strate-gia linguistica che, in forza della propria legittimazione, è ingrado di ammettere (o di escludere) la stessa definizionedei significati di quel messaggio. In buona sostanza, unmessaggio viene generalmente riconosciuto come «signifi-cativo» se si esprime in conformità alle tradizionali leggiepistemologiche che ancora vigevano indiscusse prima cheil sistema della legittimazione entrasse in crisi, o anche se siattiene al dettato teorico di una qualunque visione totaliz-zante (o Weltanschauung) che sembri ancora assumibile comefondamento. Ecco quindi che il lavoro di Lyotard deve pren-dere in considerazione quelli che, in termini gadameriani,si definiscono come «pregiudizi»,140 ovvero i presupposti te-orici che pre-esistono alla discorsivizzazione del pensiero eche sarebbe sempre opportuno tenere in conto durante lefasi preliminari dell’interpretazione, dal momento che essisono già lì e che prendono parte attiva in quella primariastrutturazione dell’esperienza che finisce poi per informareil discorso. In Lyotard, questi «pregiudizi»— di indubbia per-

140 Cfr. Gadamer trad. it. 1983, 312-357.

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tinenza per le questioni del linguaggio — vengono elencatisotto il nome di «idee di Homo, di Homo faber, di volontà e dibuona volontà»[D 37].

A questo punto, sembra proprio che il testo chiave sia laRetorica di Aristotele. Ma, che dire della sua complessaWirkungsgeschichte? E della sua ambigua relazione con laconcezione platonica del linguaggio? Lyotard ricorda che,dopo Platone, l’ontologia non viene più intesa nel senso diuna «composizione» delle differenze che separano le frasi,ma nel senso di una «dimostrazione» delle differenze mede-sime. Possiamo dire che la fondamentale natura del discor-so si conformava al principio eristico26 e che, effettivamen-te, certe elaborate stilizzazioni miravano soprattutto a preve-nire l’enunciazione di frasi avverse (che potessero esprime-re un qualche tipo di attacco o di minaccia). Nei dialoghiplatonici, il liguaggio supera il «divario» (différend) in duemodi diversi. Nel primo caso, si confutano gli argomenticontrari forzandoli ad assumere una posizione difensiva checonsenta di mettere in atto tutta una serie di strategieomologiche e/o analogiche (i tipici procedimenti del gene-re deliberativo e forense) tese a postulare la referenzialitàdel discorso nel momento stesso in cui viene pronunciato.Tuttavia, non bisogna però dimenticare che, nell’arco delmedesimo token (occorrenza o evento linguistico [D 93]),l’interlocutore che si trova in difficoltà non si chiude al con-fronto con la dialettica socratica ma ne accoglie l’opposizio-ne (gli avversari sembrano pertanto condividere, almeno,le regole del dialogo). Bisogna anche ricordare che, in que-sti dialoghi, le analogie socratiche si realizzano soprattuttoattraverso exempla e referenti (procedimenti «retorici», otropi), i quali — come osserva Ernesto Grassi142 — fungono

141 Cfr. Valesio 1980, 21-40, e Carravetta 1991, 169-188.142 Benché Grassi, che ha studiato i rapporti fra logica e retorica nel-l’ambito dell’umanesimo italiano, si sia concentrato su problemi al-quanto diversi da quelli affrontati da Lyotard. Cfr. Grassi 1980.

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bene da sostegno dei vari passaggi inferenziali e deduttivi.Questi rilievi sono molto utili per contestualizzare laproblematizzazione lyotardiana del genere «narrativo» che,paradossalmente, sembra essere qualcosa da abbandona-re fra i cimeli della Modernità — insieme a tutti i metarac-conti — e, al tempo stesso, qualcosa con cui possiamoancora orientarci in questa Età Postmoderna! L’altro modoin cui i dialoghi platonici superano il «divario» consistenel giudicare i discorsi come se appartenessero al genereepidittico: in questo modo, le affermazioni vengono po-ste alla stregua delle frasi elegiache, poetiche o quasi-fan-tastiche, e l’interlocutore viene condotto sull’orlo del si-lenzio. Ecco che, ancora una volta, Lyotard si avvale del-l’analisi logica e paralogica al fine di far risaltare conclu-sioni che proprio non possono essere considerate inno-centi né, tantomeno, indifferenti. Il silenzio del pathos B«la vertigine descritta da Socrate»— deriva dall’ubiquitàdelle collocazioni dei nomi sulle istanze: in una situazio-ne particolare (quale quella del lógos epitáphios [D 38-40]),il destinatario comprende ciò che si dice di lui come senon si trovasse lì, quasi fosse vivo come destinatario emorto, o immortale, come referente. Si tratta di una si-tuazione che descrive il declino dell’ontólogos e l’afferma-zione dell’autorità del logólogos, con la conseguenza che ilreferente umano finisce discusso e barattato a secondadel contesto e, soprattutto, a seconda della pragmatica delpotere. In un passaggio del Gorgia (471e-476a), gliinterlocutori richiedono espressamente che la loro discus-sione non venga giudicata secondo le norme della dialet-tica politica o giudiziaria, ma venga piuttosto consideratapertinente al gioco del dialégesthai (del «disputare dialo-gico»; vedi. anche Resp. I 454): in effetti, in quanto occor-renze dialogiche, le loro frasi non si iscrivono tanto nelgioco del persuadere quanto nel gioco della verità, dove ilreferente si definisce gradualmente con il raggiungimento

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di un reciproco accordo (homología). In un altro caso (Resp.I 348a-b), per soppesare i pro e i contro degli argomentidibatutti, c’è invece bisogno di un giudice che dirima laquestione (diacrinon): in tale circostanza, sia il giudice chel’avvocato dovrebbero essere obiettivi. Il fatale scardi-namento del referente come incrollabile Assioma che assi-cura le fondamenta del discorso e la sua paradossale, manecessaria, reintroduzione come principio di obiettivitàdeterminato volta per volta, localmente, secondo le rego-le di formazione delle frasi, dimostra come la costruzionedel consenso non si possa stabilire sull’ideale propriodell’eristica (ovvero, sull’ideale della vittoria a tutti i co-sti) né su quello della sofistica (che è, in fondo, un’eristica«venale») e nemmeno su quel tipo di dialettica sperimen-tale («peirastica») che tenta di vagliare tutte le opinioni. Ilreferente viene ammutolito o tenuto in silenzio attraver-so molteplici strategie: per esempio, lo si eleva al rangodi divinità (la quale viene a soppiantare la figura dell’inter-locutore) o lo si confina nell’ambito della scrittura (laquale, evidentemente, non ha possibilità di controbatte-re). In questo modo, l’agón che oppone le frasi — animae corpo dell’agire politico — origina un doppio ordine diprincipi: da una parte, sulla pubblica piazza (ovvero, incampo istituzionale), ciò che conta è il raggiungimento diun accordo; dall’altra, in campo filosofico, valgono soprat-tutto le procedure con cui si perviene alla conoscenza ele regole di formazione, le quali sembrano dipendere ri-gorosamente dai modelli dei mathematikoí (gli iniziati deicenacoli orfico-pitagorici).

Tuttavia, per quanta luce possano ancora gettare, nonintendiamo qui soffermarci sulle osservazioni riguardan-ti l’interpretazione dei testi platonici. Siamo piuttosto in-teressati alla perspicacia e alla metodicità con cui Lyotardisola dal corpus platonico certe specifiche modalitàdiscorsive. L’esame di alcuni procedimenti che, nel lessi-

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co platonico, prendono il nome di metabolé, mímesis,metálepsis, pátheia (la capacità di farsi coinvolgere), o dinumerose altre strategie quali la metamórfosis e l’occul-tamento, consiglia una rivalutazione delle tradizionalicategorie retoriche e una radicale riconsiderazione del«come fare cose con le parole». L’enfatizzazione dell’ap-proccio retorico è anche attestata dall’attenzione cheLyotard rivolge al concetto di phrónesis (la «saggezza delgiudice»), il quale non deve essere semplicemente intesonell’accezione aristotelica di «giudizio pratico» (Nic. VI 5),in quanto la validità degli argomenti o delle frasi che en-trano in «scena» (tópos, secondo il metalinguaggio che ab-biamo ormai scelto di usare) dipende dalla presentazioneostensiva [D 63] attuata da specifiche famiglie di frasi nonnecessariamente intese a dimostrare, per l’ennesima vol-ta, che l’uomo è un animale razionale o che il giudizioteorico costituisce la somma istanza arbitrale. Ricordia-mo che, in Aristotele, il giudizio pratico controbilancia ilgiudizio puramente teorico accettando la possibilità chela norma non sia di per se stessa un principio infallibile.In effetti, la phrónesis consiste precisamente nella capa-cità di determinare, per ogni singolo caso, quale sia lagiusta linea d’azione: essa implica una serie di scelte(proaíresis, vd. Nic. III 2), che preparano l’enunciazionedi un discorso attentamente «deliberato». Benché abbiaun obiettivo, un proposito in cui riuscire, il giudizio prati-co «non è un’arte né una scienza» (Nic. V 5 1140b).Aristotele prosegue affermando che tale capacità intellet-tiva pertiene all’ontologia dell’uomo in quanto animalerazionale, e illustra come la migliore manifestazione dirazionalità da parte dell’uomo sia — proprio in forza delgiudizio pratico — quella di aspirare al «bene». Per svi-luppare tali argomenti, Aristotele deve ricorrere all’ana-logia e all’omologia, e deve fare anche incursione in varialtri regimi della produzione di frasi (dei destinatori, dei

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referenti, del messaggio e dei destinatari) «dimostrando»in effetti ciò che Lyotard ha sempre sostenuto.143

Vi sono, in verità, alcuni «indecidibili». Sembra che, contutto il suo insistere sulla Retorica aristotelica, Lyotard tra-scura il fatto che, sin dalle origini, tale «arte consiste solodi prove [persuasioni]» (Rhet., I 1 1354a), e che essa, già diper sé, interdice la libera espressione degli interlocutori,inquadrandola nell’ambito delle possibilità formali. Mapuò anche darsi che Lyotard intenda resuscitare la «lette-ra morta» della metodologia retorica, liberandola da uncerto schematismo e trovandole nuova applicazione incampo sociopolitico: in tal caso, buona parte della suacritica, a cui poco sembra essere giovato il ricorso all’ap-proccio logico-formale, potrebbe essere più efficacemen-te formulata attraverso modalità analitiche esistenziali,performative e, soprattutto, persuasive. Per esempio, quel-lo che in Platone viene identificato come un procedimen-to discorsivo quotidiano, la metálepsis, ovvero il continuoscivolare di registro in registro a seconda delle rispostedell’interlocutore, viene inteso da Lyotard come uno spo-stamento delle istanze di frase, «un cambiamento di livel-lo nella presa sul referente» [D 44]. In Aristotele, la stessa

143 Sembra che Lyotard sia molto interessato all’aspetto tecnico dei pas-saggi da un regime ad un altro e della selezione delle possibili strate-gie discorsive (come nei casi in cui l’oratore deve decidere se pronun-ciare una frase prescrittiva o una frase deliberativa), ma non sembraaltrettanto interessato a ciò che tali scelte comportano in termini etici(almeno, nei termini dell’etica tradizionale). Lyotard sembra sempresulla soglia dell’applicazione ermeneutica dei principi della phrónesis(quali sono stati elaborati, per esempio, da Gadamer 1960, 1963, e1977), ma rifiuta sempre di addentrarsi su tale terreno a causa dellapiù volte ribadita ripulsa (motivata da critiche radicali) di quelle fami-glie di frasi che prendono il nome di Verstehen, Interpretazione, Co-scienza, Storia... le quali, come abbiamo già avuto modo di osservare,vengono tutte relegate nella soffitta dei «Grandi Metaracconti dellaModernità».

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figura si definisce come translatio disputationis (Top., II111b 31), un improvviso passaggio attraverso diverseargomentazioni. In tale prospettiva, osserva Lyotard, la«presa» di cui viene descritto il cambiamento si esercitasull’argomento, e non sugli interlocutori.

Ma qui cominciamo a intravedere come, se vogliamoportare fino in fondo la nostra lettura, e «salvare» ilreferente in qualche modo, Lyotard sembra frenarsi. Gliinterlocutori non sono altro che frasi? E allora che ne fac-ciamo di tutto quell’insistere, per tutto il libro, sulle si-tuazioni locali delle istanze [D 98] (enfasi mia)? Ci vienedetto che, sulla «scena» del dialogo (che appare come unadrammatizzazione della dialettica hegeliana), il «terzoescluso», per quanto rappresenti un termine ambiguo eproblematico, dev’essere comunque incluso (o «indotto atestimoniare» [D 46]), evitando interdizioni e appiattimentidel dibattito. Il dialogo può ben essere «un gioco a tre»,ma la tensione fondamentale pare sempre originata dalla con-trapposizione diadica degli antagonisti, mentre il terzo esclu-so, il termine fantasma, sembra piuttosto identificabile con ilreferente, che, elusivo ma imprescindibile, costituisce il per-no attorno a cui ruota il dibattito. Ad ogni modo, la lungacatena delle frasi, la quale descrive una dimensione tem-porale ricca di suggestioni cartesiane («il tempo ha luogocon il prima/dopo implicato nell’universo delle frasi, comemessa in serie ordinata delle istanze» [D 102]), richiedeche vi sia qualcos’altro che gli garantisca autorità, rappre-sentatività [agency], legittimazione, significatività [signi-ficance], e che, in generale, funga da scenario del «conflit-to». Ma tutto ciò non suona vagamente kantiano, o me-glio, peirceano?

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10. Conclusioni

In questo rapido abbozzo, abbiamo quasi sempre evita-to di confrontare Le différend con altre teorie del linguag-gio, rinunciando metodologicamente alla ricerca di ciòche potesse apparire più o meno valido o più o meno con-forme a un ideale preesistente. Il nostro obiettivo è statoquello di riprendere alcuni degli argomenti essenziali,principalmente negli stessi termini usati da Lyotard e,secondariamente, tramite occasionali riferimenti esterniad alcuni altri testi che, per effetto di uno spontaneo pa-rallelismo, potessero riuscire di qualche utilità ai fini del-la «comprensione» o della giusta «collocazione» di un’ope-ra tanto straordinaria quanto complessa e suscettibile dimolteplici letture. Una più dettagliata analisi dei vari tipidi enunciazione e dei differenti generi discorsivi avrebbepotuto delineare un «sistema» o una sorta di «parase-miotica» che avrebbe necessariamente portato alla distor-sione e al tradimento del senso originale del testo, fino allimite dell’illecita espropriazione (proprio ciò che siamosempre stati intenzionati a evitare). Sarebbe facile mette-re in evidenza come l’idea lyotardiana di linguaggio nonsia semiotica né ermeneutica né altro, ma ci è parso piùinteressante osservare come tale formulazione teoricaobblighi quelle stesse discipline a ripensare se stesse inconsiderazione della nascosta — ma spesso anche mani-festa — incommensurabilità delle differenti famiglie difrasi, e anche in considerazione del fatto che, in fondo,tutte le discipline non sono altro che una forzosa ed arbi-traria concatenazione di discorsi sulla realtà, modi di par-lare configurabili come abusi, piuttosto che come usi dellinguaggio. Non si può certo negare che un filo dinichilismo si insinui fra le trame di questo testo. D’altraparte, quella che viene teorizzata da Lyotard è una conce-zione del linguaggio che rompe con le più recenti

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formulazioni riguardanti il ruolo del significante e le va-rie dialettiche dicotomiche del tipo presenza/assenza (in-clusione/esclusione, affermazione/negazione e via discor-rendo). Sembrerebbe che il concetto di «fraseggio» abbiaessenzialmente a che fare con il significato, o meglio col«voler-dire», ma senza più tirare in ballo il consunto appa-rato del Grande Immutabile.

Il n’y pas que des phrases, potremmo dire a mo’ di con-clusione provvisoria: ovvero, esiste solo un fraseggio, cheè poi l’universo, assolutamente infinito e indefinito, un«frasare» che non si identifica come attività umana e chenon si iscrive affatto fra le ampiamente diffuse nozioni distoria, ideologia, estetica, linguistica... Anzi, si può direche gli stessi metalinguaggi non siano altro che modi di(para)frasare catalogabili come appartenenti al generecognitivo e al tipo autoreferenziale. Ci troviamo insom-ma di fronte a una semio-retorica [linguistics-cum-rhetorics],una teoria radicalmente innovativa che potremmo descri-vere come immanente, atemporale, astorica, lucreziana,fisica, materialista, circostanziale... ma il cui tratto prin-cipale resta comunque quello di evidenziare costantemen-te il dissenso, il conflitto, l’ineguaglianza e l’impossibilitàaddirittura di un accordo o trasparenza di senso che nonsia a priori destinato a raffiunfere quell’accordo. Attra-verso l’analogia, essa traduce l’intero universo (con tuttociò che attiene alla sfera dell’umano e del mondano) inoccorrenze di un «fraseggio» il quale consente che le stes-se idee di Homo sapiens, di storia, di linguaggio e così viasi possano esprimere, seppure scontando un certo prez-zo. Ciò che l’Idealismo concepiva in termini di Coscienzae di Spirito Assoluto, ciò che l’Esistenzialismo ontologicoindagava come Essere, e ciò che la Semiotica descrivevacome Segno, Le différend lo esprime tutto nella Frase. Masempre con un’unica avvertenza: nozioni quali quelle dicomunicazione, meaning, mercato, i cosiddetti «valori»...

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non sono altro che generi discorsivi e famiglie di frasi! Sitratta di un’idea di linguaggio pratica, viva e destabiliz-zante, capace di esercitare una critica radicale di ampioraggio su tutte le forme istituzionalizzate di discorso: cipropone un modello di riflessione che sa riconoscere comela propria stessa esistenza e la propria coesione linguisti-ca siano indici di qualcosa di ineffabile (o, in Lyotard,«impresentabile»), e che sa quindi illustrare come gli eventisi realizzino necessariamente avvicendandosi gli uni a glialtri, in un concatenamento che, già in sé, prevede l’in-sorgere di una situazione conflittuale, un sotterfugio, unamistificazione, una prepotenza.

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Capitolo Sette

Metodo e Retoricanel pensiero di Pareyson

I. Per una lettura

Nel corso delle esplorazioni in terra ermeneutica, si èvisto che “La diritta via” non è l’ideale cui tendere in quan-to ciò delimita fortemente le possibilità di comprensionee si espone a vettori accentranti ed esclusivi al tempostesso. Si potrà, al massimo, parlare di un orizzonte, diuna “idonea” od “appropriata” mappa di riferimenti incostante e reciproco relazionarsi. Del resto, anche quan-do si è cercato di isolare dei principi ermeneutici, abbia-mo avuto cura di restare “obiettivamente” disponibili alledirettive del metodo e ai presupposti della teoria simulta-neamente, in certo senso giocando tra immediatezza eimmanenza dell’esperire e mediata reflessione discorsivacon un massimo di senso critico. Ciò che si vuole adessoporre innanzi alla lettura delle due opere di Pareyson checi riguardano è un complesso di luoghi critici, o meglio,di topoi dell’interpretare, che abbiamo visto emergere concostanza e coerenza. Essi riguardano in verità la possibili-tà di una teoria dell’interpretare, ma vogliono tuttaviaevitare di istituirsi come assiemi o inderogabili dominipossibilitanti all’interpretare.

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Tirando le somme dell’ancora utile Palmer — che delresto offre una “mappa” diversa da quella, per esempio,di un Murray — e riducendo a dieci le sue trenta voci otesi sull’interpretazione, si può dire che l’esperienzaermeneutica è:

1. Intrinsecamente linguistica2. Necessariamente storica3. Dialettica4. Ontologica5. È un evento (del linguaggio, del suo apparire)6. È “obiettiva” e “soggettiva” al tempo stesso7. Deve rispettare il testo, farsi “guidare” da esso8. Comprende alla suce del presente9. È una apertura alla verità10. L’estetico deve tramutarsi in ermeneutico

Non credo sia necessario, a questo punto della nostraricerca, esplicare commentando e qualificando ognunodi questi loci di riferimento. Ancora una volta l’enume-razione non sottintende una scala di valori o gradazionegerarchica, e del resto basti pensare a come la voce 2,cioè la componente storica di qualsiasi interpretare, sia ilrisvolto della voce 8, che cioè la storicità parte da e co-munque ritorna e arriva al presente personale-culturaledell’interprete; oppure come la voce 1, 4 e 7 siano diversiaspetti della medesima cosa, ossia il darsi concreto delfatto linguistico.

Beninteso che in questa sede questo schema vale comefunzione metacritica, l’unico caveat resta tuttavia che essoandrebbe messo alla prova con testi artistici o poetici.Però, anche gli scritti degli ermeneutici sono, alla fin fine(basti pensare alla tradizione rabbinica), testi passibili d’in-terpretazione.

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2. Estetica e arte

L’Estetica di Luigi Pareyson è stata la sola grande esteti-ca in Italia dopo quella di Croce (e di Gentile), e vide laluce in un momento quando si credeva che tale ambito diricerca avesse esaurito tutte le sue possibilità di esistenza.Il valore di quest’opera per il nostro studio consiste nel fat-to che si cimenta ad affrontare la costituzione dell’esseredell’interprete e dell’essere dell’arte, ed a porli in rapporto tra-mite la stessa interpretazione, la quale viene descritta edefinita in termini esclusivamente ontologici. La parolachiave in Pareyson è forma (con le sue varianti) e secon-do che si esprime un movimento di produzione-inclusio-ne, essa è intesa come forma formante; se invece essaesprime contemplazione, allora si dice forma formata.

Pareyson radica la sua visione nel cuore stesso dell’esi-stenza umana, sostenendo che l’uomo in generale è pro-duttore di forme. In questa prospettiva, la forma esiste“come organismo vivente di propria vita e legalità inter-na, conclusa e aperta insieme nella sua definitezza cheracchiude l’infinito”. Notevole è il modo in cui l’operad’arte viene descritta, cioè attraverso la fenomenologiadel suo farsi, dove risulta che l’arte è insieme produzionee invenzione, che “fa” inventando il “modo di fare” ossia sirealizza tramite “tentativi verso la riuscita”. La formativitàsi specifica dandosi un contenuto, una materia, e una leg-ge, che le sono proprie:

L’arte è un facere ch’è perficere, e l’opera svelala propria insostituibile perfezione solo a chisa coglierla nel processo con cui si adegua ase stessa. (Estetica, p. 23)

Per Pareyson l’arte è formatività specifica e intenziona-le, ma poiché la formatività è comune a tutta la vita dello

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spirito e costitutiva di ogni azione determinata, come sidistingue, si chiede il filosofo, l’arte da altre opere specifi-che e intenzionate, quali la pratica, i sistemi filosofici o leazioni morali? Ebbene, l’arte non ha un fine prestabilito,non è formatività-di qualcosa, ma forma che intende es-sere forma e null’altro. Infatti, il pensiero come la mora-lità, benché subordinati ai fini della formazione,interagiscono con l’arte, ne guidana la direzione, senzaperò cessare di essere quelle che sono; in questo senso, ilpensiero non può essere fine a se stesso, ma può al mas-simo portare il proprio contributo all’esito della formazio-ne, “ma resta pur sempre pensiero, che non cessa di com-pier la propria funzione critica”. Cioè in questo tipo dioperazione, si opera per agire, ed è necessario formareper poter formare il pensiero e l’azione; nell’opera d’arte,invece, il formare è intenzionale e prevaricante, perchénell’arte si forma per formare, e il pensiero e l’azione sonosubordinati e contingenti al fine specifico della formazio-ne. Ne consegue che, benché ogni operazione èformatività, l’opera d’arte è formazione,

nel senso che si propone intenzionalmente diformare, e in essa il pensare e l’agire interven-gono esclusivamente per renderle possibile dinon essere che formazione. (Estetica, p. 23)

L’opera d’arte è anche intrinsecamente materia, in quan-to essa è concreta, qualcosa cui formare che non ridà ilgenitivo all’arte perché la materia si deve presentare comeforma pura. Uno dei risvolti di questa connessione è chel’opera si identifica, nel suo farsi, come puro tentare, chepoggia su se stessa e sulla riuscita cui aspira. Tentare vuoldire aprirsi una strada, guidati da una forma che non c’èancora e che quindi è ignota, e non la si trova o coglie,quanto piuttosto la si attende, la si divina:

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la divinazione della forma si presenta perciòsoltanto come legge d’un’esecuzione in corso:non legge enunciabile in termini di precetto,ma norma interna dell’operare teso alla riu-scita; non legge unica per ogni produzione,ma regola immanente d’un singolo processo.(Estetica, p. 75)

Pareyson riprende il tradizionale concetto di arte comefare, o poiein; e ricupera il vecchio motto di Buffon, lo stileè l’uomo. La sua filiazione ideale include Goethe, Poe,Valéry, Schelling, Bergson e Dewey; in Italia riferimentosi fa ad Augusto Guzzo, per il quale la vita umana in séera invenzione di forme. Si puó dunque anticipare che laproposta di Pareyson si allontana sia da Kant che da Croce,e si traduce quindi non in una estetica della contempla-zione distaccata e disinteressata, ma in una estetica dellaproduzione, non dell’espressione ma della formatività.

3. Ontologia

Se L’intera vita umana e quindi la vita spirituale stessa èanche la conoscenza, anche quella sensibile, la quale co-glie la ‘cosa’ “producendone e cioè ‘formandone’ l’imma-gine, in modo che questa sie ‘riuscita’, e cioè riveli e cap-ti, anzi sia la ‘cosa’”. L’esperienza umana riveste dunqueun carattere estetico, perché tutto nella vita dell’uomobisogna sia “fatto con arte”, con invenzione, e tendendoverso la riuscita di qualsiasi fare di una data operazione.Il modus operandi è che ogni specificazione di una attivitàè concentrazione di tutte le attività. Lo stesso stile diPareyson, la sua stessa scelta di forme verbali, sono indi-cative di questo processo: si forma “facendo” e “inventan-do” il modo di fare:

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L’artista deve fare ciò che non esiste ancora, equindi deve inventare eseguendo, mentre il let-tore deve cogliere ciò che esiste già e quindi deveeseguire riconoscendo. (Estetica, p. 249)

Le possibilità di manifestazione dell’opera sono infiniteperché essa si fonda sull’ uomo, il quale oltre a esseredunque inesauribile, è in principio originario.. Ma l’uomoè sempre una persona, per cui non esiste filosofia dell’uo-mo che non sia innanzitutto una filosofia della persona,dove il genitivo è soggettivo e oggettivo; e la stessa essen-za dell’uomo poggia su questi principi:

non il nulla, ma l’essere, non l’assenza ma laridondanza...non l’Abgrund, mal’ Urgrund...(Verità, p. 28)

e l’uomo, oltre a essere dunque inesauribile, è in princi-pio originario. L’uomo, però, va distinto dal soggetto. L’uo-mo è sempre una persona, per cui non esiste filosofiadell’uomo che non sia innanzitutto una filosofia della per-sona, dove il genitivo è soggettivo e oggettivo; e la stessaessenza dell’uomo poggia su questi principi:

anzitutto il principio per cui ogni operare uma-no è sempre insieme ricettività e attività, e insecondo luogo il pri cipio per cui ogni operareumano è sempre personale. (Estetica, p. 180)

Questo fondamento dell’uomo assume toni esistenzia-listici, poiché la struttura primigenia dell’uomo è tale che:

Io devo si agire e decidere, ma anche non pos-so non decidere: v’è, nella mia libertà, nellalibertà, nella libertà ch’io sono a me stesso,

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una necessità iniziale, ch’è il segno del mioesser principiato, del mio limite, della miafinitezza, d’una recettività iniziale e costitutivaper cui io sono dato a me stesso e la mia ini-ziativa è data a se stessa. (Ibid.)

Il discorso ci pare che poggi su modelli bioecologici, percui ne consegue che “la forma stessa della recettività èl’attività” e l’operare non è mai, in partenza, creativo. Sti-molo e responso sono quindi fondanti, ma non nel sensodi una deterministica passività, bensì nel senso che lacoppia dialettica recettività-attività sono sempre in movi-mento di sviluppo e nell’operare umano coinvolgonol’intenzionalità. Ne segue che “nell’uomo, come larecettività non è mai passività, così l’attività non è maicreatività”.

4. Interpretazione e Conoscenza

La conoscenza sensibile riesce a cogliere la realtà soloin quanto ne figura, “e quindi ne produce e ne forma”,l’immagine: “più precisamente, un’immagine così ben riu-scita che riveli anzi sia la cosa stessa”. In altre parole,l’intento di cogliere e penetrare le cose implica, sollecitaed esige la produttività che ne deve figurare le immagini.Logica conseguenza è che la conoscenza umana in gene-rale ha carattere interpretativo. L’interpretazione è

un tipo di conoscenza squisitamente attivo epersonale: la sua natura attiva spiega il suo ca-rattere produttivo e formativo, e la sua naturapersonale spiega come essa sia movimento, ir-requietezza, ricerca di sintonia, insomma inces-sante figurazione. (Estetica, pp. 179-180)

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L’interpretazione è quindi basata sulla persona, che èconoscente, cioè formante, mentre l’opera è il conosciu-to, cioè il formato. Ancora una volta dunque:

L’interpretazione per un verso è risonanzadell’oggetto in me, cioè recettività che si pro-lunga in attività: dato, ch’io ricevo e insiemesviluppo; e per l’altro è sintonizzazione conl’oggetto: un agire che si dispone a ricevere,un far parlare per ascoltare, attività in vista direcettività. (Estetica, p. 183)

L’interpretazione è, in senso traslato, un “vedere che sifa guardare, e un guardare che mira al vedere...l’udire sifa ascoltare e l’ascoltare che vuol farsi udire”. Per evitareil puro arbitrio bisogna comunque che l’interprete si apraalla proposta che l’oggetto suscita, e che si pone in ma-niera di costruire liberamente, “sviluppando e svolgendo,cioè interrogando, aprendo e rivelando l’interpretando”.

La caratterizzazione dell’interpretazione, strettamenteconnessa a quella di persona, è sviluppata meglio in Veri-tà e Interpretazione, dove vengono elaborate le premes-se dell’Estetica, e dove troviamo la formulazione dellanozione centrale di pensiero rivelativo. Secondo Pareyson,dire, rivelare, ed esprimere coincidono:

che la parola sia rivelativa è segno della vali-dità pienamente speculativa d’un pensieronon dimentico dell’essere, e che la parola siaespressiva è segno della concretezza storicad’un pensiero non dimentico del tempo. (Ve-rità, p. 23)

Agli echi heideggeriani segue la precisazione che biso-gna sostituire il pensiero storico col pensiero ontologico,

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in quanto così si eviteranno tutte le peripezie che condu-cono al pensiero strumentale, al culturalismo, albiografismo, allo storicismo che riduce tutto a mera espres-sione della situazione storica, quindi al pragmatismo. Etuttavia, l’aspetto rivelativo non può fare a meno di quel-lo espressivo e storico, perché della verità non si da evi-denza se non attraverso la storicità e il parlare della sto-ria, e quindi esige che vi sia l’interpretazione personale sto-ricamente e linguisticamente intesa.

In questa prospettiva, non conta più la ragione quantola verità: la ragione senza la verità sfocia nell’ irrazionalein quanto soltanto tecnica e soltanto storica, per cui

anche gli aspetti più ‘teoretici’ quali l’interessepuramente culturale della storia delle idee o ilrigore strattamente scientifico delle ricerchemetodologiche, non resistono a una radicaliz-zazione che li spinge inevitabilmente all’esitoirrazionalistico d’uno storicismo integrale e d’unesplicito prassismo. (Verità, p. 24)

Il pensiero ontologico rivelativo è fondamentalmentenecessario per vedere in questa teoresi la più completaed esauriente concezione dell’interpretazione, secondo icanoni da noi prefissati al principio di questo studio.

L’essere, dice Pareyson, non è un valore, perché allorasarebbe subordinato ai valori dell’uomo, e tendrebbe aclassificarsi come durevole o momentaneo. Ma, invece,

L’essere non ha nessun motivo per prefarireil durevole al momentaneo...Il problema è diriconoscere nella storia la presenza dell’essere, equindi distinguere - in ciò che è tutto egual-mente storico ed espressivo del proprio tempo- fra ciò ch’è solamente storico e espressivo e

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ciò ch’è anche ontologico e rivelativo, fra ciòla cui natura e il cui valore si esauriscono nel-la storicità, e ciò la cui storicità è apertura etramite dell’essere, e quindi sede della sua ap-parizione. (Ibid. p. 42) (prima sottolineaturanostra)

Non ci può essere presenza dell’essere che non sia storica-mente configurata, e infatti l’essere non può apparire se nonnella storia. È qui che prende rilievo la nozione di ine-sauribilità, e ciò per un verso tramite la presenza, per unaltro tramite l’ulteriorità che non permette a nessuna dellesue apparizioni di essere contenuta in maniera esclusiva.

A questo punto viene teorizzata la Tradizione, la qualegià nell’Estetica era vista come inglobata nell’opera d’ar-te, dove sussistevano contemporaneamente la scuola dicui l’opera s’è nutrita, la sua realtà vivente, “e il risultatooriginale dell’interpetazione operante ch’essa ne dà”.(Estetica, p. 166) La tradizione, sostiene Pareyson, è l’esat-to opposto della rivoluzione, non perché le contrapponela conservazione, ma perché la rivoluzione vuole ricomin-ciare dall’inizio, il suo oggetto è il passato; mentre l’inter-pretazione nella e della tradizione è rigenerazione d’unaesigenza ontologica, essa vuole ricuperare l’origine, e ilsuo oggetto è l’essere.

Per arrivare, finalmente, ai presupposti dell’interpreta-zione, si tenga presente che interpretare vuol dire, inPareyson, “trascendere”, che originalità - novità della per-sona e del tempo - è uguale a originarietà - che provienedal primitivo rapporto ontologico -, e che infine

l’interpretazione è quella forma della cono-scenza che è insieme e inseparabilmenteveritativa e storica, ontologica e personale,rivelativa ed espressiva. (Verità, p. 53)

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Sotto questa prospettiva, nell’interpretare un testo, peresempio, si ha la conoscenza di esso solo se lo stesso sirivela, ed esso si rivela solo nella misura in cui il soggetto- ossia l’interprete - si esprime, e, cosa essenzialissima,nell’interpretazione non vi è analisi, bensi sintesi. Conciò, poiché l’interprete non si “oggettiva”, egli non puòricadere nell’arbitrarietà e nell’opinabile, nello scettici-smo come nel relativismo del metodismo.

Il discorso sulla verità ci porterebbe lontano. Basti direche esso è connaturato all’essere, e come per l’essere, nonesiste verità di cui si posse cogliere l’essenza in modo as-soluto; ma si possono captare e interpretare le sue concre-zioni storiche quali si manifestano in dati eventi appuntostorici o in ogni caso della cultura. L’unicità della varietào molteplicità e della verità nelle loro rispettive formu-lazioni, è, secondo Pareyson, un falso dilemma, poiché lediverse formulazioni non esistono nella storia, quasi con-tenuti calati in una forma astratta, ma sono la storia, percui ogni interpretazione è una formulazione singola,compossibile con infinite altre. Lo stesso vale quindi perle interpretazione di un’opera d’arte, la quale non si dis-solve nella molteplicità di esecuzioni arbitrarie, ma rima-ne identica a se stessa nell’atto che ci consegna a ciascu-na di queste esecuzioni:

Le esecuzioni, al pari delle interpretazioni,sono sempre nuove e diverse, non mirano adessere uniche e esemplari e totalizzanti, maparlano a tutti nella maniera in cui ciascunosa meglio intenderle. (Verità, pp. 67-68)

Un ultimo schiarimento prima di passare alle conclu-sioni. Per Pareyson, l’interprete non è un “soggetto” chesi dissolva nell’opera e che dissolva l’opera nel proprioatto, o infine che debba spersonalizzarsi all’eccesso ai fini

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della presunta “fedeltà” e dell’òggettività”, ma egli è pri-mariamente una persona, aperta e sempre dischiusa adaltro. Conformemente a questo, l’opera non è un “ogget-to” a cui l’interprete debba la propria rappresentazionedall’ esterno: l’opera è piuttosto caratterizzata da una suainoggettivibilità, che le deriva dall’essere inseparabilmen-te esecuzione che la fa vivere (anche la lettura è esecu-zione, secondo Pareyson), e al tempo stesso irriducibile aciascuna delle proprie esecuzioni. Questo “superamento”del soggetto implica neutralizzare la dimensione soggetti-vistica che risolve ogni aspetto in attività propria univer-salizzando l’impersonale, ponendolo come fondamentodel pensiero, come si vede nel pensiero scientifico, e, inparte, anche nella fenomenologia. La nozione di personaco-involve invece la distanza irreducibile dell’opera, manel contempo si serve della sua irripetibile e singolarissi-ma sostanza storica. In realtà, anziché spersonalizzarebisogna rendere l’apertura al testo personalissima, evitan-do dunque l’impersonalismo con la sua astrattezza, e ilsoggettivismo con la sua arbitrarietà. Al cospetto diun’opera, bisogna ascoltare,

giacché la verità non è cosa che l’uomo in-venti o produca, o che si possa in generaleprodurre o inventare; la verità bisogna lasciarlaessere, non pretendere d’inventarla; e se lapersona si fa organo della sua rivelazione, è so-prattutto per riuscire ad esser sede del suo av-vento. (Verità, p. 84)

L’interpretazione è pura teoria, e deve restare teoria,secondo Pareyson, e non risolversi in prassi poiché essa èdi sua natura contamplativa, ossia istitutrice di situazio-ni, di storia, quindi principio di valida trasformazione.

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5. Conclusioni

Con Pareyson siamo arrivati alla piena formulazione diuna ermeneutica paragonabile a quella di Gadamer, [e con-forme alla nostra definizione operativa del Cap. I.] Infattidal breve excursus che abbiamo or ora intrapreso, non cidovrebbero essere dubbi che l’interpretazione, così radicatae anzi indistinguibile dalla vita formante, consiste in unavera e propria esperienza ermeneutica, per cui si può dire,velocemente, riprendendo il dacalogo dell’inizio, che inPareyson, l’interpretazione è:

1. intrinsecamente storica, in quanto l’essere, la verità,l’opera, sono essenzialmente storici, pur conservandouna ulteriorità e costituzione ideale;

2. intrinsecamente linguistica, in quanto essa è la sua for-mulazione linguistica, a livello di teoria, del dire dopol’ascolto.

3. dialettica per il complesso di rimandi tra presenza edato, tra tempo ed essere, infine perché l’inperpretare èun puro dialogo tra opera e interprete, dove all’ascoltofa seguito il dire.

4. ontologica per definizione, come abbiamo visto a più ri-prese, un continuo recupero dell’essere come manifesta-tosi nelle concrezioni storiche e nell’opera d’arte specifi-camente.

5. l’opera, l’interprete, sono la sede dell’avvento dell’esse-re, il quale non si crea artificiosamente, ma bisognaaspettare finché esso “si posi”, o “si dia”.

6. è obiettiva nella misura in cui non è soggettiva, costruen-do l’altro riconoscendolo, e in più si basa sull’opera con-creta, materiale, sulla sua datità.

7. avviene sempre a partire dal testo, anche se Pareysonnon lo dice esplicitamente. Ma basta leggere le pagine

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nell’Estetica dedicate alla “lettura”, 219-272, per con-vincersene.

8. comprende ciò che vien detto alla luce del presente,perché nel fondarsi nell’irrepetibilità della persona,l’esperienza interpretante intende solo alla luce delsuo presente. I suoi rilievi e le sue ricerche, malgra-do il distacco cronologico, non possono non conver-gere nella temporalità del suo essere quello che è inun dato momento.

9. è questo il punto dell’intero secondo libro di Pareyson,l’interpretazione è apertura all’essere, dischiudersi diverità, potremmo dirlo per antonomasia.

10. qui potrebbe sembrare che Pareyson voglia al contra-rio che l’ermeneutica rientri nell’estetica; ma se silegge la stessa Estetica come esercizio ermeneuticodi descrizione e intendimento dell’essere dell’arte, sicapirà come ciò è solo questione terminologica: i dueorizzonti si compenetrano e giustificano reciproca-mente.

Ci sono degli aspetti interessanti per la critica letterariae artistica? Alcune indicazioni le dà lo stesso filosofo: poi-ché non si pone il problema dei contenuti - non si ponecome essenziale - la ricerca dei temi, soggetti, o argomentiva vista come intrinsecamente legata al suo stile, che èinvece elemento ontologicamente importante. Aperturaalla retorica: può essere arte senza contenuto o argomen-to, mentre lo stile è l’opera. In secondo luogo, Pareysonritiene che le poetiche siano importanti, in quanto l’arti-sta è il primo critico di se stesso, esercitato non nelle pau-se della formazione, ma proprio all’interno di essa e du-rante il suo corso. In più, Pareyson ci dice esplicitamen-te che la critica è una lettura in cui s’accentua l’aspettodel giudizio e che per garantire la fondatezza delle pro-prie valutazioni intende definire e darsi un metodo, sì

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che il critico sia metodologicamente consapevole dei pro-pri giudizi. Ma più avanti egli chiarisce che la critica nondeve “sopraggiungere” all’opera, e che essa può essereconsiderata essenziale all’arte solo se la si concepisce come“lettura ed esecuzione”. Basta ricordarsi che l’opera è altempo stesso “oggetto e criterio di giudizio che se ne da”ma nel senso che oggetto - equivale a opera qual è stataeffettivamente realizzata dall’artista, e criterio equivale aopera in quanto formante, cioè l’opera come norma a sestessa. In effetti il critico cerca di cogliere, nell’opera for-mata, la forma formante che in essa si è placata e chenell’esperienza ermeneutica instaura la contamplazionee la cognizione della bellezza.

Se ritorniamo alla nostra tesi originaria, si vedrà chePareyson convalida la ricerca pienamente: ogni interpre-tare è sotteso da una teoria dell’essere e una teoria dellaconoscenza, tutti e due punti esplicitamente formulati,mentre negli altri testi abbiamo dovuti cercarli o attraver-so la teoria, o attraverso uno studio del metodo. Que, in-fatti, una volta fissati i termini del discorso in sensoontologico, e dunque anche, necessarianente, costituti-vamente, in termini epistemologici, la teoria diventa tra-sparente, agibile e liberatoria, andando al cuore del pro-blema dell’arte, e ritornando all’INTERPRETE vero inquanto persona, trasformandosi così essa stessa, non spet-tatore guardingo dagli spalti, ma commensale partecipe eincantato al cospetto del senso e dell’avvento dell’essere.Lo stesso valga per il metodo, strumento di piccola consi-derazione ma praticamente essenziale: la partecipazionesecondo teoria non richiede il metodo come qualcosa diaggiuntivo, ma è metodo: guardare e camminare insie-me.

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Capitolo Otto

Fondamenti del retoricoe interpretazione in Vico e Heidegger

«L’acqua ch’io prendo già mai non si corse»Dante

1. Preliminare: il problema

Durante questi ultimi venticinque anni Vico ha godutodi rinnovato interesse, particolarmente negli Stati Uniti,come i convegni, antologie di studie e bibliografie orga-nizzati e pubblicate da Giorgio Tagliacozzo e i saggi in NewVico Studies chiaramente attestano. Vico è stato compara-to a, oppure spiegato in connessione con, alcuni tra i piùprofondi e influenti pensatori della Modernità - da Herdera Hegel, da Marx a Freud, da Weber a Levi-Strauss - ed èemerso come un precursore in molteplici e differenti di-scipline. Tuttavia l’ermeneutica, specialmente in Italia,ha teso ad ignorarlo. Perché, potremmo chiederci. Era l’in-terpretazione idealistico-storicistica del filosofo napoleta-no così pervasiva e inattaccabile che, quando venne tem-po di refutare Croce e Gentile, immediatamente dopo laseconda guerra mondiale, Vico fu per necessità gettato

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nell’oblìo insieme ai due suoi «forti» esegeti? O fu che lostrutturalismo e il marxismo, le due maggiori forme dicritica che emersero negli anni Cinquanta e Sessanta edmonarono negli anni Settanta in Italia (ma simile discorsosi puó fare per il Nord America), in ultima analisi trovaro-no molto poco (con rare eccezioni) di quanto di rilevantee di contemporaneo potesse essere nel suo pensiero?Entrambe queste ipotesi storiografiche possono essere so-stenute piuttosto coerentemente, ma tutto ciò ancora nonspiegherebbe perchè l’ermeneutica, italiana o europea oamericana, non volse il suo sguardo interpretativo su quel-l’autentico continente che ha per nome Giambattista Vico.

2. Ipotesi

Sarebbe relativamente facile e criticamente rilevante -ed è stato in parte fatto - prendere il testo di Vico e porloaccanto a singoli pensatori della tradizione ermeneuticamoderna, da Herder a Schleiermacher, da Dilthey aRicoeur a Gadamer, e osservare impressionanti similarità,percorsi paralleli nel concepire l’interpretazione stessaoppure esaminare la cura nel porre distinzioni di ampiorespiro tra filologia e filosofia, tra storia e mitologia, tra leprimarie, potremmo addirittura dire fondative, attività diuna società - come religione, giurisprudenza, politica - e iproblemi cruciali che esse sollevano in termini di disci-pline e di linguaggi elaborati per sistematizzarle e spie-garle in un modo intrinsecamente interdisciplinare. Tut-tavia, proprio perché una comparazione uno-a-uno è didubbia utilità, tenterò di «triangolare» Vico con due figu-re emblematiche, ossia Cartesio e Heidegger, il più radi-cale dei filosofi razionalisti, da una parte, e il più radicaledei pensatori ermeneutici dall’altra. Questa parallasse nonè elaborata giusto per amore di indulgenza metodologica

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e perspicuità: il metodo non è mai scisso dalla teoria e unapproccio appropriato rivelerà, volens nolens, un princi-pio guida legittimante. Così, laddove il mio approccio èuna critica implicita di tutti i dualismi e particolarmentedelle concezioni di analisi strutturalista e semiotica, nonpuò fare a meno di porre (fenomenologicamente) alme-no alcuni riferimenti o assunti preliminari (pregiudizi,secondo Gadamer; precedenti, secondo la giurispruden-za romana; luoghi di memoria, nei termini della psicoa-nalisi e della letteratura).

3. Ermeneutica

I presupposti di quanto segue sono:

A) L’ermeneutica è l’impresa intrinsecamente retoricache mira alla comprensione della natura delle cose -rerum natura -siano esse sonetti, allucinazioni, o i prin-cipi della cibernetica;

B) L’ermeneutica sottende e legittima tutti i modelli dianalisi critica;

C) L’ermeneutica è una forma di discorso storica, ideo-logica ed etica;

D) L’ermeneutica è anche, cooriginariamente, sia esisten-ziale che consciamente epistemica. Essa deve essere- e tipicamente è - segnata dal gesto linguistico delDa-sein, l”ontico-ontologica datità in cui il parlareumano ha luogo, una situazione in cui «futurità»(Zukünftigkeit) e «ripresa» (Wiederholung, che coinci-de con recognitio) sono espressi insieme e nello stes-so tempo.

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Tuttavia, in connessione con - e in parte come risultato di- questi principi c’è manifesta una volontà, un desiderio, oun telos, di stabilire un terreno comunicativo comune, inaltri termini, un insieme o sistema di punti (parole, signifi-cati) che possono essere chiamati epistemi.

4. Epistemologia ridefinita

Qui dobbiamo fermarci un secondo e chiarire ciò che èsignificato mediante questo termine. Generalmente l’epi-steme è compreso come l’aristotelica «vera conoscenza del-le cause» le quali sono «necessariamente vere» (Anal. post.I.76b; cfr. anche Meta. V-VI:1025b-1026b, e XII:1069a18, dovel’oggetto della conoscenza è «ciò che è» e «domina» ovun-que) ed è alla fine fatto coincidere con la logica proposi-zionale e il sillogismo (cfr: Sull’interpretazione). Ma c’è unanozione più ampia di episteme che, andando a ritroso oltrel’equivalenza platonica di conoscenza ed eidos (Menone, nelFedone 75b-76, e naturalmente nella Repubblica 509d-511e e514a-521b) include la concezione eraclitea dell’aisthesis (per-cezione e sensazione) come opposizione - invece chesimilarità, homoion, che fu sviluppata da Parmenide,Empedocle e, poi, da Platone - insieme all’integrazione tar-do-stoica della phantasia (impressione e immaginazione)come necessaria zona intermedia tra percezione e pensiero(nous, noesis), un valore che porta la «vera conoscenza» inuna stretta anche se scomoda prossimità con la doxa, senzala quale essa sarebbe pura contemplazione auto-trasparen-te. In questa prospettiva, ciò con cui dobbiamo esercitarci èun episteme costituito da una costellazione di elementi: Idea,Percezione, Sensazione, Fantasia e Immaginazione. L’insie-me di questi elementi deve essere spiegato e compreso nel-lo spazio sospeso tra pensiero e realtà. In breve, voglio pro-spettare il caso di un episteme che non produce alcun senso al

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di fuori della sua dimensione relazionale, contestuale,egemonica, del suo spazio-tempo retorico, un luogo in cuila ricerca del sapere non ignora l’essere-con-gli-altri e l’esse-re-per-qualcosa (o qualcuno).

Il razionalismo in generale ha scelto la strada verso ciòche è dichiaratamente e puramente logico, escludendo si-stematicamente le feconde connessioni di opinione, circo-stanza, prudenza, narrazione, visione. Eppure il razionalismoè tanto retorico quanto ogni disciplina idealista, materiali-sta o trascendentale. È per questa ragione che, come discu-to altrove, l’ermeneutica non può dimenticare la sua dina-mica fenomenologica: esiste anche una relazione nascostae problematica tra l’epistemologia e la retorica che solo lafenomenologia ci permetterà di sondare con prudenza inampiezza e in profondità.

5. Tesi

La mia tesi è che sia l’epistemologia di Cartesio chel’ontologia di Heidegger possono essere meglio compresese noi configuriamo il nostro modello in base all’ermeneuticaretorica non scritta di Vico. Cercherò di dimostrare comel’ermeneutica retorica di Vico esprima e racchiuda il recto eil verso di una relazione teoria-metodo da cui non c’è viad’uscita e le cui varie configurazioni, riallineamenti e rottu-re attraverso la storia costituiscono la fibra autentica dell’es-sere interpretativo dell’Homo Humanus.

6. Il problema Cartesio

Il padre riconosciuto del Pensiero Moderno, Cartesio,suppose di adoperare il linguaggio «aretoricamente», con-dannando gli ornati e sinuosi scritti umanisti che lo pre-

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cedettero nelle tenebre dell’ignoranza. Nel Discorso eglisi spinge fino a suggerire che per la giusta condotta dellaragione lo studio dei classici, dei racconti e del senso co-mune è effettivamente controproducente e nocivo ad unvero pensiero razionale. Tuttavia pensatori contempora-nei come Hintikka, Derrida e Bruns hanno evidenziatouna quantità di casi in cui il linguaggio è coscientementemetaforico, pregiudiziale, condizionante e involontaria-mente ambivalente, “metafisico”, o ciò che quaranta annifa sarebbe stato etichettato come ideologico. In breve,Cartesio, nel suo cammino verso il metodo perfetto, è tantoretorico quanto Demostene; basti pensare alla finzionedella tabula rasa e alla apologia autodecostruttiva delmotivo autobiografico, che precisa che egli sta cercandociò che funziona per lui e solo per lui, mentre allo stessotempo sta esplorando ed eventualmente ponendo ciò chedeve essere il caso per qualsiasi ed ogni coscienza, stacercando il pre-logico, l’indiscusso primato dell’ego cogito.Cartesio fece ampio uso di espressioni riguardanti la lucedella ragione, la chiarezza delle idee, la necessità di vede-re le cose nella giusta luce, e così via. Tuttavia egli riuscìa porre soltanto una differenza formale, strutturale, traciò che è chiaro e ciò che è distinto, vale a dire tra il pianoontologico e la sua controparte ontica.

Ciò non vuol dire che egli non fosse cosciente della na-tura biforcuta del linguaggio, come quando nel Discorso Vrifletteva con qualche perplessità sul fatto che, pur ten-tando come meglio potesse di essere corretto e concisonell’articolare i suoi pensieri, egli spesso avrebbe sentitopersone parlare di cose che aveva detto ma in un modotale da farlo rabbrividire, perché non avrebbe potuto rico-noscere il suo pensiero nel loro resoconto.

Ma al di sopra e al di là di questo terreno di nutrimentoper decostruttori e psicologi, il risultato della sua fonda-mentale nozione di un metodo che è «certo» e unico sen-

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tiero valido verso il vero è che, laddove egli ha generatoteorie e metodi potenti, storicamente riusciti e filosofi-camente opposti come il razionalismo e l’empirismo, egliha anche sbarrato il cammino a due ordini di discorso,vale a dire quello storico e quello esistenziale: pensatorialle prese con il problema Mente-Corpo, la semantica for-male, le scienze sperimentali e così via, raramente per-corrono questi ultimi sentieri.

7. Heidegger

Heidegger, dall’altro lato, impegnato principalmente conla questione dell’essere e con una nozione di linguaggiocome linguaggio intrinsecamente poetico, elaborò unaconcezione della luce e della chiarezza in termini non-formali, evitando una distinzione netta - vale a direepistemologica - tra l’ontico e l’ontologico, dal momentoche l’uno deve di necessità andare con l’altro. È il tipo dispeculazione mentale che Cartesio intraprende che fa direa Heidegger, ad un certo punto - cfr. Concetti fondamentali- che quando si giunge alla questione dell’essere e dellasua relazione con gli enti Cartesio è tanto metafisico quan-to Tommaso d’Aquino (Gilson lo ha infatti dimostrato conriferimenti ai testi). La Lichtung heideggeriana non è ilprodotto di una res cogitans e certamente non è un Altroin rapporto all’effettivo venire alla presenza dell’esserequa essere. Piuttosto, afferma Heidegger, la «schiarita» aprela possibilità di un esistere autentico (non: l’esistenza) inuna dimensione temporale che non è oggettivabile néquantificabile. L’essere porta con sé la sua propria luce enon può quindi essere posto, o compreso, come una chia-rezza esteriore da percepire «obiettivamente».

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8. Prima considerazione

Ad ogni modo, in Heidegger non abbastanza viene de-dotto da quella stessa capacità oggettivante di conoscen-za che partecipa dell’atto linguistico, quella consapevo-lezza che ha luogo con il semplice atto del percepire, edal fondamentale paradosso della comunicazione che larende alternatamente eristica ed euristica. Un approccioda «ontologia debole» ci direbbe che noi non possiamonon tenere in considerazione quella alienata, materiali-stica, monumentale sedimentazione di significati che,seppur dimentica dell’essere in quanto tale, ha nondime-no costituito grossa parte della storia, specialmente nelleepoche post-rinascimentali. Per questa ragione è statospesso sottolineato come sia stato Gadamer ad «urba-nizzare» l’ermeneutica e a dotarla di una teoria della co-scienza storica effettuale, della tra-dizione, della forma-zione del canone, della ricchezza di significati nella rela-zione tra arte ed esperienza.

9. Seconda considerazione

Dalla prospettiva di Heidegger, allora, Cartesio non hacompiuto alcuna rivoluzione di sorta, dal momento che ilsuo dualismo è essenzialmente una riformulazione delpensiero aristotelico e scolastico; esso costituisce una svol-ta decisiva in una tradizione filosofica che testimoniò illento ma costante sorgere dell’epistemologia (del meto-do, potremmo aggiungere) ma ottenuto a spese dell’Esse-re, Heidegger reclamerebbe - o della retorica e dell’esteti-ca, aggiungerei - dimenticandoli, reprimendoli o subliman-doli, qualsiasi formula metalinguistica appropriata unovoglia adoperare. Tuttavia possiamo anche asserire, que-sta volta dal punto di vista di Cartesio, che l’«ontologia

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esistenziale» di Heidegger, sebbene ovviamente ricettivadi differenti interpretazioni, utilizza quella che è stata chia-mata una mistificazione dell’idea dell’essere, suonandopiuttosto come una ontologia poetica che, nel suo intran-sigente primato della parola poetica, è decisamente nonsensibile alla questione del che cosa è conoscibile - ed èstato ritenuto esser tale - almeno formalmente, il che si-gnifica che rifiuta di considerare la stessa possibilità delconoscere, sia essa storica, ideologica, scientifica, e cosìvia. Il contributo di Heidegger si fonda sulla profondaconsapevolezza dei gradi di oblìo dell’Essere che coincidecon il primato dell’(oggettivato) essere (come ente, dasSeiende, ens) e come espresso e rappresentato nella cor-rente “configurazione” tecnologica del mondo.

Ho fatto qui uso di una parola chiave, rappresentazione,che deve essere tematizzata in maniera tale da permette-re di muoverci verso un altro punto di connessione. Èmio convincimento che Cartesio e Heidegger stanno comeemblematici ermi sui cancelli di due visioni del mondoreciprocamente esclusive che possono al meglio esserecomprese e spiegate in termini di una loro relazione allinguaggio, vale a dire in termini di una loro implicita-esplicita retorica.

10. Crucialità di Vico

Il pensatore che integra l’uno e, retrospettivamente senon proletticamente, completa l’altro è Vico, che assimi-lò il contributo cartesiano sul piano epistemologico e pro-cedette ad immetterlo in una concezione ontologica del-la natura umana nella quale il linguaggio è originariamen-te fondante. Nell’idea vichiana di linguaggio, il formale e ilpoetico - langue e langage - INSIEME sono all’origine e per-mettono la fondazione, la trasmissione e lo sviluppo delle istitu-

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zioni umane, dei valori e dei significati. Noi siamo di colposulla soglia della storia, dell’antropologia, della letteratura,dei rapporti sociali e politici del Postmoderno senza doversopprimere o dimenticare sia la formale(istica) distinzioneepistemologica tra essere ed enti (Cartesio) sia la differenzaontologica tra essere ed enti (Heidegger).

11. Probatio I

Guardiamo più da vicino. In risposta alle critiche al suoDe antiquissima Italorum sapientia, Vico scrive di essersi oc-cupato esclusivamente delle tre facoltà della mente, ossiaPercezione, Giudizio e Ragione e che le loro funzioni con-nesse sono tali da essere impostate in termini di Topica,Critica e Metodo. Ne consegue che l’interprete si rivolgealla Topica al fine di valutare l’arte della comprensione, op-pure alla Critica al fine di formulare un giudizio e, infine, faricorso al Metodo per la corretta articolazione della facoltàdel ragionamento. Ma sotteso a questo schema triadico (cheè misteriosamente trascendentale) sta il convincimentoontologico a priori che ancor prima che si possa valutare oformulare un giudizio su qualcosa, si debba conoscere que-sto qualcosa! Ricordiamo qui l’assioma vichiano del verumipsum factum. La circostanziata «risposta» di Vico a Cartesioo alla corrente cartesiana non occorre ci trattenga qui, es-sendo più pedagogicamente e ideologicamente motivata chestricto sensu filosofica; alla fine, Vico ha inteso evidenziareche il metodo in sé e per sé non era sufficiente, che esso erarestrittivo e riduttivo, quantunque ovviamente «utile» pertrattare-di determinati tipi di problemi. Sono queste limita-zioni, argomentava Vico, che dimostrano quanto insensata-mente ardito sarebbe concedere alla Ragione, forte del suometodo, di formulare giudizi sulla realtà. Tutte le teoriedella conoscenza che si sono ricavate un grosso spazio cul-

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turale nei due secoli dopo il Vico — razionalismo, empirismo,fenomenalismo, positivismo, ecc. — che interpretano il trian-golo epistemico come una gerarchia verticale, con Ragione“Metodo al vertice, Critica” “Giudizio al centro, e Topica”Comprensione alla base, lo hanno trovato inadeguato a «con-tenere» l’infinita variabilità della realtà, a meno che esse,sistematicamente, non separassero o ignorassero determi-nati aspetti di esso. Ed è questo uno degli argomenti cheabbiamo cercato di smantellare strada facendo, perché essesi sono mostrate parziali, rigide, e costrittive. I rapporti traqueste tre funzioni o ripartizioni dei rapporti dovrebberoessere, in parte o in tutto, invertiti, in accordo con Vico. Ilprocesso, allora, si leggerebbe come segue:

A) Gli uomini, in un primo momento, conoscono attraver-so la costruzione di una preliminare interpretazione,passano poi a riconoscere la potenza dei sensi e dei sen-timenti, che sono elementi fondanti, come scopriamopiù tardi nella Scienza Nuova. In breve, gli uomini pre-stano ascolto all’esperienza come se fosse essa stessaun essere vivente, un processo vivente, il che significache noi cominciamo dalla “base”.

B) In un secondo momento, gli uomini formulano un giu-dizio su quanto è stato sentito ed esperito, ciò che noifacciamo nella realtà coscientemente o inconsapevol-mente: nel momento in cui noi diciamo ciò che qualco-sa è, la stessa articolazione della descrizione è un giudi-zio, una valutazione, una fiducia in un ordine comun-que provvisorio dell’universo, come la fenomenologiaesistenziale ha dimostrato oltre ogni dubbio nel corsodi questo secolo.

C) Infine, l’essere umano cerca la legge «razionale» che puòspiegare quanto più è possibile, il principio che servecome guida futura e organizzante.

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Questa è la sintesi più scheletrica che io possa fare perquanto noi qui ci proponiamo. Ma abbiamo abbastanzaelementi per osservare che il fattore più importante nelraccogliere conoscenza, nel com-prendere, è il linguag-gio, e che è la Ragione/Metodo che ora rimane collocataall’altra estremità. Messa in altri termini, il linguaggio vi-vente, la parola parlata, è più cruciale che... il metalin-guaggio. E poiché le gerarchie comunque impongono unordine e dunque stabiliscono una sequenzialità nel tem-po fisico-cartesiano, sarebbe più opportuno riorganizzarelo schema epistemico-ontologico-linguistico in manieraconforme allo schema dei primo capitolo, e cioè in que-sta maniera.

Ragione(Metodo)

Topica(Comprensione)

Critica(Giudizio)

dove si puó intravedere infatti i tre termini che abbia-mo elaborato sin dall’inizio, e cioè Opera (la Topica, cióche si deve comprendere), l’Interpretare (ossia il Meto-do e l’articolazione linguistica-conoscitiva), e l’Interpre-te/Società (Critica e giudizi esistenti e interagenti nellospaziotempo culturale in cui i tre apici si interpenetranoe si significano a vicenda).

12. Retorica

Per linguaggio vivente io intendo una diversa idea dellaretorica retorica, ossia: il venire all’essere, nella realtà,

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dell’espressione/enunciazione, la prima formulazione diparola nel più primitivo (elementare) scambio linguisti-co. Questo momento deve essere compreso anche — comeho discusso altrove — nel senso fenomenologico, secon-do il quale parlare-a o parlare-con è già un precaricare ildiscorso con un pregiudizio interpretativo risultante del-la percezione, o dell’esperienza, del linguaggio. L’elementoeristico fa il resto: lascia che il parlante assegni, e l’ascol-tatore determini, il valore positivo o negativo dell’evento-in-lingua, influenzando tutti gli aspetti non-linguistici dellacomunicazione (voce, tono, allusione, echi, contesto, gra-na, intensità, ecc.). Se noi poniamo questa nozionericoncettualizzata di retorica su di un piano heideggeriano,essa sarà coerente soltanto in parte con il pensiero stessodi Heidegger, poiché è precisamente in questo iniziale,inaugurale dire che il Da-Sein perviene ad una realizza-zione più profonda del suo statuto. Il tutto richiede checomprendiamo cosa voglia dire Il Dire e lo si possa svi-luppare in maniera socio-culturale. Sschematizzando sul-la base di Essere e Tempo, possiamo osservar le seguenticaratteristiche principali:

Dire finché è possibile dire di fronte alla pos-sibilità della morte;Dire al fine di far chiarezza nella confusionedella gettatezza degli enti;Dire al fine di soddisfare la realtà dell=essere-con (Mit-sein);Dire come esercizio della facoltà di decideretra possibilità contrastanti;Dire, infine, perché questo è il solo modo diottenere accesso alla parola poetica,la parola che Esprime e realizza la pienezzadell’Essere.

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Ho detto “in parte” coerente con Heidegger perché ilmomento materiale dell’ espressione/enunciazione è ineffetti minimizzato, e rimane problematico piuttosto comel’elemento dell’ascolto, del ricordo e del silenzio sianocostitutivi del parlare.

13. Conseguenze I

Dovremmo ora cominciare ad osservare la reciprocitàtra Heidegger e Vico attraverso la nostra riconfigurataermeneutica retorica. Data l’importanza cruciale della no-zione di dire in entrambe i filosofi, e a dispetto di alcuneovvie differenze, noi possiamo ora usare Vico per critica-re Heidegger e sottolineare ciò che era mancante in que-st’ultimo.

È ben noto che nella seconda metà degli anni TrentaHeidegger curvò la sua attenzione verso Nietzsche, iPresocratici e la poesia, facendo sempre meno filosofia«tradizionale». Ad ogni modo, egli lesse e commentò qua-si esclusivamente i grandi poeti lirici tedeschi. La poesialirica — che, secondo Leopardi, dà forma alla più alta enobile espressione possibile del linguaggio umano — in-dica una poesia in ultima analisi implicata con la parolacome con un cosmo che tutto comprende, non concostrutti verbali o con il raccontar-miti. Molto simileall’aforisma in filosofia, la lirica nella poesia è realmentenon destinata a qualcuno in particolare, oppure è desti-nata ad un iniziale tutto per tutti i tempi e per tutti i luoghi.

Diametralmente opposta a ciò sta la profonda riflessio-ne di Vico sulla retorica: qui il discorso umano, la poesiainclusa, è riportato giù sulla terra, per così dire, e la diffe-renza ontologica deve scontare interamente la sua dimen-sione ontica umana. Così, laddove sia per Vico che perHeidegger ciò che dura è fondato dai poeti, per Vico il

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linguaggio poetico è anche dotato di una forza e di unacapacità d’effetto che risuonano sulla comunità, sull’ordi-ne sociale, sull’ascoltatore, ma non necessariamente o esclu-sivamente come un dictum estetico o metafisico. Molto pri-ma che Jakobson lo ricavasse dalla quarta delle RicercheLogiche di Husserl, solo per tradurlo dal piano eidetico aquello della logistica e considerarlo come semplice de-viazione vis-à-vis di un’idea di linguaggio come codiceconvenzionale, Vico aveva portato la poesia lirica giù dal-le altezze celestiali ad un universo plurale in cui essarappresentava una variazione della linguisticità degli es-seri umani. È questa visione retorica fondamentale chepermette a Vico di considerare ogni singola volta non tantoo non solo chi scrisse la poesia e quale potesse essere ilsuo originario universale significato, ma cercare il proba-bile ascoltatore della poesia, l’altro del dialogo che la poe-sia istituisce: emozione o fatto, sogno o saggezza, la poe-sia che fonda l’ordine sociale è di necessità un esercizioretorico e interpretativo, teologico e mitopoietico all’ini-zio, ma un gesto ermeneutico preliminare che richiedeuna tribù, una città, una nazione. Ed è lungo questa lineadi ragionamento che possiamo concepire differenti “poe-sie”, vale a dire, differenti “generi” o meglio ancora rela-zioni al linguaggio a cui corrispondono differenti ascolta-tori, differenti epoche della società e della storia del mon-do. Così, in una società primitiva, quando le prime aristo-crazie vengono in essere, la poesia, il linguaggio fondan-te, assolve ad una funzione specifica e concretizza se stessaper mezzo di indici, modelli, stilemi, generi riconoscibili:epica teologica, poi epica cavalleresca, rappresentazionesacra, dramma eroico, quindi la storio(geo)grafia dellenazioni, e così via e ancora avanti fin quando raggiungia-mo distinzioni sofisticate, reificazioni di significanti, e lafilosofia ci introduce nell’età della ragione, seguita dalla«non ragione» o decadimento e dissoluzione.

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Nei cicli storici costantemente declinanti di Vico, si po-trebbe leggere, proletticamente se non profeticamente, ilNietzsche della Seconda Inattuale, dove l’eccessiva coscien-za storica, la malattia del diciannovesimo secolo, venivaletta come sintomatica del bisogno di sopprimere la sto-ria nel suo insieme, in un certo modo agognando l’iniziodi un corso o di un ricorso. E proprio come fu per il giova-ne Nietzsche (cf. Su verità e menzogna in senso extramorale),anche per Vico il linguaggio umano è essenzialmente,ineluttabilmente metaforico, quindi una trasposizionesemantica costantemente dif-ferente.

Le metafore possono rap-presentarsi come grandiosimiti, come istituzioni. Laddove il linguaggio poetico èsempre produttore di metafore, o linguaggio che le ponein azione conscia (persino quando ritualizzate), il linguag-gio convenzionale ri-produce metafore, le moltiplica edissemina fino a che la maggior parte delle persone inun dato gruppo o cultura concorda con ciò che determi-nati slittamenti semantici possono significare; esse diven-tano così «metafore morte», luoghi comuni: la giustizia ècieca, Achille è un leone, persino sintagmi come «il collodella bottiglia» o «il piede del tavolo»: la catacresi non fuinventata dalla linguistica strutturale. Le istituzioni qui siriferiscono sia a ciò che è visibile - dipartimenti di poliziae chiese - sia a ciò che non lo è - il New Criticism in Ame-rica, la potenza del negativo presso i Romantici, ecc. Nonc’è nulla del genere né in Descartes né in Heidegger, seb-bene questi problemi ed altri correlati siano discussi oggitra i teorici della ricezione, tra i decostruzionisti e, potreiaggiungere, dalla poetica fenomenologica di Anceschi, cosìcome dall’ermeneutica gadameriana.

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14. Probatio II

Ancora un’osservazione per illustrare i non semplici pa-ralleli e le altrettanto complicate differenze. Consideria-mo il problema della temporalità nel contesto di quantoabbiamo detto prima riguardo al linguaggio. Sia per Vicoche per Heidegger la temporalità non è correlata né allacoscienza (come era per Descartes e come più tardi è sta-to per la fenomenologia) né ad alcuna effettiva e realeappercezione di essa. Piuttosto, la temporalità è dinami-ca e cooriginaria alla coincidenza di Essere e Linguaggio,e dunque essa è concepita come una forza possibilitantedi tutto l’agire umano , la realtà della sua possibilità disignificazione. Per quanto riguarda il nostro ricercare l’in-tima connessione tra retorica ed ermeneutica, questatemporalità che in Heidegger de-finisce il Da-Sein è an-che ciò che de-termina l’esporsi e il ritrarsi del linguaggioparlato nei tempi primordiali di Vico, vale a dire, dandoforma alla presenza-attraverso- il tempo(o per un certoperiodo di tempo), della reale possibilità di un parlante diparlare e di un ascoltatore di ascoltare. Detto altrimenti,ciò che in Vico emerge come una condizione possibilitanteè precisamente ciò che permette il passaggio, nella suacosmologia, dalla metafora all’allegoria, dal nome al ver-bo, dalla parola alla proposizione. Di nuovo, è la discorsivitàche assume una posizione privilegiata in Vico, e latemporalità è quindi misurata anche nei termini dell’esi-stenza di queste connessioni di proposizioni, di un rac-contare più che di un dire. Questa è la ragione per cui, dalpunto di vista della storia e dell’etica, come pure da unpunto di vista in cui ciò che qualcosa è è originariamentelegato a ciò che può essere percepito, o ascoltato, l’allego-ria è una modalità poetica più fondamentale, anteceden-te e oserei dire più importante, della lirica.

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15. Conseguenze II

Possiamo ora argomentare una critica nei riguardi dellalinguistica e della retorica di Heidegger, sebbene ciò do-vrebbe esser fatto non sulla base della sua esuberanteinventività lessicale - l’«heideggerese» come un codicesemiotico o stilistico: è tipico di tutti i pensatori originalicreare, in qualche modo, il loro proprio linguaggio, - nèattaccando le sue «insostenibili» etimologie, cosa che i lin-guisti e in egual misura i semiologi strutturalisti non glihanno perdonato, come pure a Vico, per ciò che riguardail nostro disorso. La critica deve seguire un percorso di-verso, per la ragione che quanto questi critici scientisticie/o razionalistici spesso dimenticano è che se noi spo-stiamo appena un po’ le nostre osservazioni muovendociverso un punto di vista retorico, ci accorgiamo che la spe-culazione attraverso l’etimologia è sempre stata da Plato-ne a Isidoro di Siviglia, a Pico e a Bruno, un esibire lafigura dell’elocutio che mira ad espandere l’ampiezza del-la comprensione di un dato concetto attraverso l’utilizza-zione della derivatio come movimento organico per in-tensificare la forza semantica, contribuendo anche, inquesto modo, alla sua conoscenza. In breve, l’etimologiaè il veriloquium come tropo, non (o non solo) ciò che glistudiosi di semantica ci dicono. Piuttosto, i punti più de-boli nella linguistica di Heidegger e, di conseguenza, del-la sua teoria dell’interpretazione, sono:

A) come abbiamo prima ricordato, il suo accordare unostatus privilegiato alla poesia lirica (le sue letture, comun-que, fanno e devono fare ricorso ad una consecutivitàsemantica di sorta);

B) il suo pregiudizio nei confronti di ciò che il pensieropost-rinascimentale chiama retorica, e dunque contro in-

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tere epoche della storia umana, tali come la latinità ro-mana e, nel suo risveglio, l’umanesimo rinascimentale(lo stesso pensiero di Heidegger può ora essere piegatoverso queste aree con risultati sorprendenti);

C) il suo non aver esplorato l’allegoria al momento del-la tematizzazione del mito (questo è sicuramente un ca-pitolo non scritto).

In Vico, invece, l’allegoria è cooriginaria al darsi stessodel linguaggio umano. Per Vico l’allegoria è quel diversilo-quium che da solo può parlare del mito, definito comevera narratio. L’allegoria è ciò che conferisce alla dizionepoetica la sua temporalità umana, poiché le favole sonosempre dette a qualcuno; inoltre, l’allegoria come parlard’altro è ciò che permette a qualcuno di parlare di ciò dicui non può parlare, o perché le parole in quel caso nonsono disponibili, come nel caso dei bestioni e dei famulinelle foreste - o perché non si sa ciò che qualcosa è in unmodo concreto, razionale, ma in un modo percepito, sen-tito o divinato. L’allegoria ci dice di quel mondo reale so-ciale lì, fuori, esterno e trascendente il singolo individuoe tuttavia che richiede che lui/lei siano lì per dire e/oascoltare. Dovrei anche sottolineare in questo contestoche l’allegoria non è un semplice tropo, ma è ed è semprestata una figura del pensiero, il che vuol dire che se, attra-verso la metodizzazione della retorica che ebbe luogo dalRinascimento in poi, può essere studiata oggettivamentecome un genere, come un codice semiotico (per esem-pio, vis-à-vis Dante), essa è anche stata spiegata come unastrategia metodologica (si pensi a Blake), e infine può es-sere ripensata come una filosofia retorica (Nietzsche, D’An-nunzio, Garcia Màrquez). Tutto ciò è coerente con quan-to è stato detto prima riguardo al capovolgimento dellagerarchia cartesiana, poiché nel privilegiare il Topos, il

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linguaggio vivente o le espressioni contestuali effettivecome il primo passo verso una comprensione più alta,noi accordiamo alle modalità linguistiche della narrazio-ne e alle mitologie primitive, tutte allegoriche, di esseretrattate simultaneamente come finzioni poetiche e come,anche, depositarie di saggezza e conoscenza, la prima evera conoscenza che gli esseri umani possono avere e ciòche impone i paradigmi delle generazioni seguenti cheprocedono attraverso i corsi.

16. Conclusioni

Per concludere, l’anticartesianismo di Vico non è tota-le, poiché anche Vico cercava un ordine intelligibile perspiegare la condizione umana e ciò che è conosciuto econoscibile; dall’altro lato, l’enfasi dell’ultimo Heideggersul primato della parola poetica deve essere estesa perdar conto di quegli aspetti del tentativo umano che o sisottraggono o sono tacitamente co-presenti al dischiudersidell’Essere puro, e questi sono elementi come l’aìsthesis,l’immaginazione, l’usus, la comunità e la memoria stori-ca che solo nella versione di Vico del destino metafisicodell’umanità sono esplorati in un modo significativo.L’anello mancante per una più completa teoria dell’inter-pretazione è quello retorico, ma un nesso retorico chedeve letteralmente essere sottratto dai pregiudizi non-ermeneutici della tradizone epistemologica (Cartesio) cosìcome dalle denigratorie osservazioni della tradizioneontologico-metafisica (Hegel-Heidegger), accogliendo unaidea di linguaggio che, con poche eccezioni (Nietzsche,Ricoeur, Valesio, Grassi, Lyotard, Foucault, Burke), andreb-be contro le opinioni dominanti del nostro tempo.

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Conclusione

Odimi, precipite Nunzio,alto messaggero celeste.L’aere notturno e diurnopalpita di umani messaggi.

G. D’Annunzio, Maia

1. Del metodo. A un certo punto, mentre tratta delsuperamento della metafisica, Heidegger, nel suo Finedella filosofia e compito del pensare, abbandona l’uti-lizzo del metalinguaggio critico-espositivo e incominciaad esprimersi per metafore. L’irruzione di questo scartoprofondamente retorico l’abbiamo già constatato nell’operacartesiana, in Nietzsche, e si registra oggi nella presenzasempre più diffusa di opere “letterarie” scritta da “filosofi(di professione, si dovrebbe aggiungere)”, con gran scan-dalo tra i filosofi e glaciale indifferenza tra i letterati. L’ar-gomento in Heidegger riguarda il fallimento del metodo,e l’implicito sillogismo di qualsiasi discorrere che ambi-sce a chiarire profonde verità, viene meno. La presenza,il dire reclamano la loro parte, mentre l’assenza, l’imma-gine, un’economia di concetti e ricordi e proiezioni si sen-tono maggiormente esclusi dalla scena della significazione.Si ricusa l’esigenza di un linguaggio che renda giustizia a

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entrambe le tendenze o pulsioni. La retorica incalza,l’esprimersi rasenta il silenzio: il pensiero, il cui compitosarebbe di pensare l’apertura dell’Essere in quanto Luo-go, non ha più referenti discorsivi concreti su cui poggia-re o con cui tracciare un iter....coerente, ragionevole, ap-punto; viene meno la comunicazione, ci si trova in terradi nessuno.

Contestualizziamo un attimo. Si ricorderà che Heideggeraveva appena parlato del circolo chiuso del discorso dellametafisica, utilizzando come campioni (o, nel lemmariodi altri schemi critici, referenti di significazione, topoiculturali, metadiscorsi autorevoli), Hegel e Husserl. Ilpensiero che si preoccupa del riconoscimento e della le-gittimazione dell’ente e dunque dell’altro (in quanto ente)procede sicuro e rigoroso solo perché alla base, come polod’attrazione e lanterna emanante i raggi della ragione, sidà una soggettività trascendentale. E la natura di questaultima è di essere Metodo. Nella Prefazione del 1807 alSistema della scienza, Parte Prima, nella Fenomeno-logia, il vero in filosofia deve essere inteso ed espressonon come sostanza ma come soggetto: per cui tema emetodo coincidono. Il richiamo alle cose stesse vuol direl’idea di ciò che si dà nel presente: “solo il movimentodell’idea, del metodo, è la cosa stessa” (Heidegger1980:381). Così anche per Husserl, il principio di tutti iprincipi non riguarda il contenuto, ma il metodo. PerAntonio Banfi, per esempio, la filosofia è essenzialmentericerca del metodo.

Si direbbe quindi che, aspirando a diventare Il MetodoGenerale di Tutte le Science e di Tutte le Conoscenze, ilmetodo tendesse a identificarsi con una sorta di TeoriaGenerale dello Spirito o del Tutto o dell’Essere... A rigordi prove storiche, però, la teoria a sua volta non ha fattoaltro che dividersi e suddividersi per accontentare, sottole varie e colorate lampade, ossia all’interno della sfera

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del suo potere dominante e rassicurante a un tempo, nuo-ve esigenze e nuovi saperi. Ma il paradigma per il pensie-ro critico resta sempre quello. Mentre, dopo il nostroviandare, si prospetta la possibilità che il vero in filosofiadebba ora essere inteso ed espresso come processodiveniente, come forza o movimento figurativo mutabile,anche là dove la sua forma diventa (socialmente e stori-camente parlando) ora mitica, ora inconscia, ora“meramente” immaginaria. Solo in seguito e in connes-sione con altri sviluppi storici/concettuali, se non addi-rittura primariamente ideologici, il vero in filosofia sipensa possibile/realizzabile in soggetti (col perenne ri-schio di metamorfosi in Soggetto).

Che non sia il caso di obliterare il soggetto e la soggetti-vità, lo sostengono sia Rovatti che Vattimo: è solo que-stione di indebolire, si direbbe ottemperare, le pretese fortiautoritarie e centripete del soggetto moderno e/o trascen-dentale. Anche la dialettica, dice Vattimo, non è il caso diignorarla e/o abbandonarla (anche perché non si potreb-be), basti solo ripensarla come differenza interpretativa,ineludibile scarto critico, come distorsione (della riscrit-tura), come Verwindung. Infatti: non si fa mai lo stessoviaggio due volte.

2. Della retorica. La retorica come linguaggio-scambio(del) vivente ci consente di trovare un terreno comunesia al metodo sia alla teoria. La retorica ci consente dirappresentare il dramma della metafisica per via dei pre-supposti ontologici di ogni espressione linguistica; e altempo stesso ci consente di addentrarci nel labirinto del-la ragione, dei suoi metodi e modelli, nella misura in cuila struttura immanente, il darsi, il concretarsi di un enun-ciato è di per sé un “metodo”, una via, un modo di attribu-ire un senso all’universo o di cogliere il senso del discor-so di un altro. L’utilizzo stilizzato, convenzionale, idioma-

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tico di un linguaggio, perfino della lingua comune, puòessere inteso e adoperato come metalinguaggio (si pensial “parlare comune” di Rossi-Landi), cioè ancora comecomponenti strumentali e razionali per analizzare e giu-dicare un’opera o un evento. Tutto ciò rientra nell’oriz-zonte della retorica come atto linguistico interattivo einterpretativo. Cogliere il senso vuol dire costruire, inter-rogare, subire, ricevere, rispondere.

Tuttavia, il viaggio interpretativo si può, sì, fare metodi-camente, ma si rischia di non sentire, di perdersi l’espe-rienza del viaggiare medesimo, degli incontri in cui con-fluiscono attimo ed eterno, l’irripetibile parola, la descri-zione del luogo (locus, topos) vivente (Erlebnis), la narra-zione specifica dello scambio. Il viaggio è dunqueinnanzitutto un viaggio scrittorio, una questione di lin-guaggio, un trasferimento nelle parole, un tramutarsi inparole, un darsi all’esterno, una produzione di simboli edi forze, ma in ogni caso un discorso per gli altri ordinatodi conseguenza.

3. Dell’interpretare. A parte e forse in virtù delle diffe-renze specifiche tra i diversi viaggiatori, il viandante comeil nomade, l’esploratore come il trasferito, il fuoriuscitocome il bandito, l’emigrante come l’espatriato, qualsiasiimmagine (e referente di vita) si prescelga per de/conno-tare l’attraversamento del logo/locus, in maniera da evita-re la sclerosi e l’accentramento congelante e dogmaticodei sistemi logici e di valore dualistici e predicati sull’(im-possibile) identità, sull’ineffabile eternità, tutte questeimmagini fanno appello a una molteplicità dell’esserediveniente che non è più il caso di dimostrare, elencare ediffondere: questa molteplicità bisogna porre come datumdi base alla stregua dell’aria, del dolore e delle tasse! Quelladella metafisica non è molteplicità, polivalenza, metamor-fosi esistenziale, ma tragica (e sia pure mera) doppiezza

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sistemica, sia di forme che di concetti. Essa pretende disapere e possedere, perché le pre-vede, tutte le possibilimosse dell’itinerario esplorativo, cognitivo, memorabile,di tutto ciò che può accadere e/o accade nel tragitto trapunto A e punto B. Questo incamminarsi ed errare, que-sto continuo varcare di confini e di soglie bisogna pensar-lo secondo che ha dimostrato la nostra ricerca, cioè mar-cato da una componente temporale ed esistenziale nonfacilmente accoglibile dalle formalizzazioni (o quanti-ficazioni, o schematismi) della evoluzione storica delmetodo e della nozione di ragione (di pensiero) che l’haguidata. Il viaggio si può rappresentare con figure che perforza di cose nascono e/o dipendono dal darsi e dal dirsidell’attimo esperiente/interpretante, cioè dall’atto e azio-ne del discorso. L’interpretazione, in certo senso, ècostitutivamente una retorica-ermeneutica (o un’erme-neutica-retorica).

Il cammino critico, l’interpretare come un rispondere/rischiare assorbendo/reagendo, è già una figura, una me-tafora, un exemplum che a sua volta si può sviluppare inuna gamma di presenze...simboliche, per esempio, attra-verso le varie immagini artistiche del nume Hermes (oMercurius), o i vari racconti nelle diverse circostanze dicultura, o ancora all’interpretazione dell’interpretazioneche si è data nei secoli. Il metodo critico (o, se vogliamo,l’itinerario filosofico dell’interpretare) dovrà fare maggio-ri concessioni alle figure...retoriche, perché esse, in virtùdella loro costituzione, origine, funzione, sono cognitive,sono immagini del mondo (quindi: teoretiche), e sono vieall’intendimento (quindi: metodologiche...e metodiche nellaloro realizzazione! anche quando, come di recente si èfatto, si parla di fra-intendimento anziché di comprensio-ne: cambia solo la direzione di marcia).

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4. Di Hermes. Gettato nella variabilità del gioco tra lucee ombra, a un tempo crepuscolo e alba, Hermes ritornacome la maschera trascolorante, mutevole, instancabile,imprevedibile: egli è il nume dell’epoca postmoderna, ilfantasma non più nostalgico né nichilista ma amico dellatenebra e amante del sole.

Con Hermes voglio evocare il limite, il margine, la fron-tiera, la seduzione dell’esclusività e l’ansia dell’esclusio-ne. Hermes è un personaggio-simbolo di poliedrica es-senza che spazia in un dominio d’interessi sufficientemen-te esteso da renderlo quasi inavvicinabile se non attra-verso le serie di attributi o significazioni di carattere sto-rico, mitologico e artistico (Cf. Kerényi, Doty, Serres, Jung,Stein, Paris). Le sue molte tradizioni lo vedono indossarediversi abiti, rappresentare diversissimi ruoli, significaretutta una gamma di simbologie parziali che connotanospecifici comportamenti o valori.

Senza pretendere di farne la filologia in questa sede,sarà utile ricordare che il camaleontico Hermes è stato,nella cultura europea, considerato (o gli sono stati attri-buiti poteri e ruoli da farne, in vari momenti):

a) Il messaggero degli Dei;b) trismegisto, ossia tre-volte grande (forse: al di là del

misurabile? al di là del massimo, del limite?) comeMercurio trinus et unus (forse: costitutivamente molte-plice, irriducibile all’unità dedotta dai sistemi raziona-li dualistici?);

c) il dio della scrittura;d) protettore dei ladri e dei commercianti (“ladro” è me-

tafora per colui che “prende” quando può, anche pergioco, come nel caso delle mucche di Apollo; e per ilcommercio, si tratta del buon affare, dello scambio van-taggioso; in inglese di un grande acquisto a buon pres-so si dice che «it is a steal!»);

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e) metamorfosi e trasformazione di soggetto, tipo, masche-ra (nei versi dannunziani “O macchinatore (...) una po-tenza / che non falla, simile al sano /cuore nel pettodell’uomo, / pulsa in quelle ossature” (Maia IX, 127,140-43), in seguito “Inventore” (179), “Alipede” (235),“Egemonio” (253), “Enagonio” (295), “Precipe Nunzio, /alto messaggero celeste” (378-79), “Viale” (400), “Citaredoprimo” (421), “Maestro dei Sogni” (484)).

f) imparentato con Eros, simbolo fallico, l’anti-Apollo;g) l’androgino, l’ermafrodito, quindi l’incarnazione degli

opposti o meglio, della differenza fondamentale tramaschio e femmina (“Padre d’Ermafrodito, / non crea-sti l’oscuro / Androgino al far della notte?” (Maia IX505-07), oltreché “Intercessore benigno” (652) e infi-ne “Ermerote” ( 660)).

h) il nume dell’interpretazione;i) guide delle anime nell’al di là;j) agente della coniunctio alchemica tra coppie quater-

narie (la quaternità dello Hermes più antico si intra-vede nella forma quadrata delle erme; altrove egli ètetracefalo, ma nel Seicento si scrive di un Hermestricefalo);

k) privatio lucis, ossia necessaria (anche se apparentemen-te contradditoria) conpresenza di luce e buio; quindiintroduzione al paradosso;

l) accompagnatore delle dee (Hermes ha avuto comples-si rapporti con Ecate, Artemis, Persefone; e significa-tive collaborazioni e/o scambi con Afrodite e Atena);

m)lapis elevatus cum vento;n) ma anche simbolo del lapis philosophorum, l’obiettivo

del processo di individuazione;o) Hermes è anche nume della notte, quella dimensione

che può terrorizzare il viaggiatore solitario, ma che puòessere anche amica, aiutante, conforto (W. Otto in Kerényi100):la filosofia nasce di notte, partorita dal vuoto dell’Eros.

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p) ma egli è anche nume solare, perché senza di lui ilmondo resterebbe invisibile, cioè non si svelerebbenella sua propria luce, mostrando ciò che sfugge almondo riflesso delle scienze naturali; Hermes è “origi-ne del proprio mondo”, “egli non è l’origine della lucenella maniera del sole, bensì l’origine di quest’origine,”per cui “nelle profondità dell’origine della vita la lucee il suo specchio vengono generati contemporaneamen-te” (Kerényi 116 e 137)

q) Hermes non é territoriale, autoritario, inflessibile, esu tutto, non è violento;

r) Hermes sa incontrare, trovare, relazionare, inventare,fa divenir manifesto; egli muta e si tramuta, imperso-nificandoli, in dei, uomini, animali; aggiungiamo: fi-gure critiche o ancora modelli interpretativi.

s) A Hermes sono stati attribuiti l’invenzione dell’alfabe-to, dei numeri, della lira.

t) Hermes si può quindi intendere come interprete esofista, annunciatore e mediatore, soglia tra essere enon-essere.

u) Hermes è sempre enodios, sulla strada, “on the road”, èhodios, cioè appartiene a un viaggio, egli è colui/coleiche si incontra durante un viaggio; esperienza che nonrichiede legittimazione di Zeus ma è radicata nella suaoccasionalità, transitorietà, una sorta di gioco (dell’esi-stenza) nel e dell’incontro.

v) Infatti Hermes non è un viandante o un nomade poi-ché anche se questi sono in continuo movimento, essirestano in qualche modo legati al suolo, alla sua cono-scenza e presa di possesso (psichica o mitica), ma unviaggiatore per il quale restare sospesi, l’essere in viag-gio, rappresentano il modo di essere fondamentaledell’esperienza; l’aspetto da “vagabondo” fa sì che casasia qualsiasi luogo ove ci si trovi a passare la notte, maallo stesso tempo pre-dispone alla compartecipazione

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pressoché totale, all’immersione profonda, al gioco sepossibile, alla prudenza se necessaria, allo scambio adogni momento..

z) Hermes infine è scaltro e ingegnoso e ricuce la com-plessa maglia mitologica che precede storicamente econcettualmente l’apparato scientifico, l’epistemologia.

Per concludere, quindi, Hermes é la figura critica pre-cursore della teoria dell’informazione, emblema della retedelle telecomunicazioni, dei gangli del sistema nervoso,delle stazioni ferroviarie e degli aereoporti. Eredi dellafolgorante verità: “il mezzo è il messaggio”, bisognerebbeadesso pensare: “la figura comprende mezzo e messag-gio”. Ché il significato vi sprigiona attorno, e sarà ener-gia, dislivello, salto di quanta, osmosi e matematica(Hermes è anche il nume delle misure e dei geometri).

5. Del fantasma di Hermes. Riflettiamo un momento:Hermes alla fin fine non è stato mai amato tanto. Figlio diGiove e di Maia, nella storia dell’occidente gli abbiamosempre preferito i suoi fratelli e sorelle, da Afrodite a Ares,da Minerva ad Apollo, perché nella loro pur complessamanifestazione simbolica e allegorica, questi ultimi man-tengono una identità, una riconoscibilità, quindi al peg-gio una prevedibilità, alla meglio celano un luogo di ri-conoscimento. Hermes, invece, è l’imbarazzo dell’Olimpo.Egli non è un titano, non un nume del mondo dell’Iliade,cioè della realtà della guerra, ma di quello dell’ Odissea,o meglio, della fine dell’odissea di prove, rinascite e con-quiste sovraumane. Ulisse è polytropos, versatile nelle artie nel linguaggio, ma egli ha un telos, un luogo cui ritorna-re, ha un compito, dei ricordi e dei timori motivati e ra-gionati e inseriti in una visione del cosmo in cui sussiste-va una gerarchia di valori, un ordine di affetti, di principi

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e di fini. Il viandante Hermes non è più un segmento checonnette due luoghi sul globo, non sarà un’astratta cordatesa tra concetti e desideri, tra teorie e metodi: egli è latransizione stessa, il passaggio (per esempio, nel mondodelle ombre, nell’anarchia inventiva), la traversata nellasua globalità, quindi è il cambiamento necessario, l’inter-minabile manifestarsi dell’esser-ci stesso, colui/colei chenon può, nel riferire di altro (o altri) non narrare di sestesso, o colui/colei che narrando di se stesso inevitabil-mente sta parlando di dove viene e dove va solo comeorientamento... Tutte le nozioni “negative” della nostramodernità — la nozione di segreto, di furto, di ipocrisia,di tradimento, di bugia, di incostanza, di giocosità creativae comunque non-produttiva, di passioni sbrigliate e disensualità vivente, — tutto quell’insieme di peccati e dicolpe e di atteggiamenti (appunto anche critico-interpretativo) che la nostra prima ecclesiastica e cattoli-ca e in seguito borghese e secolare ideologia ha ereditatoda altri tempi e religioni, tutte quelle incoerenze che altrinumi più omogenei e politicamente, egemonicamente piùutili escludevano (si pensi a Ercole, Prometeo, Sisifo,Marte, Orfeo, Venere, Minerva) perché man mano inter-pretati “scientificamente” secondo che convalidassero unteorema e si potesse dimostrare utile e profittevole condegli esempi o casi o corollari, ebbene, Hermes tutto que-sto mette a scompiglio, ne rivela il volto oscuro e terroriz-zante (se non terroristico), ne sdipana la nichilistica vo-lontà a non affrontare e accettare la diversità reale, effet-tiva delle cose, delle cose del mondo, dell’interpretazionedelle cose del mondo. Per attuare questa svolta è necessa-rio ascoltare e rispondere alla frase, alla retorica dello spa-zio-tempo dell’esserci-con-gli-altri.

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6. Figure ermeneutiche

Il discorso e l’esperienza cui rimanda sono istanzeinscritte nel decorso temporale, ed è quindi una caratte-rizzazione linguistica sul limitare, su una soglia che, a ri-fletterci, si ritroverà inesorabilmente attraversata, e la cuiconfigurazione più idonea è forse proprio quella di unvoler aver detto, seguitando comunque a disegnare ulte-riori passaggi, equilibri precari, e inenarrabili allegorie.Quando il mondo vero diventa favola, ed è abitato da unapletora di immagini-tipo, e/o metamorfosi, a noi non re-sta che prendere sul serio i vari fantasmi, le figure dellafavole che ci raccontiamo, i diversi palinsesti, gli echi e letracce lasciate dietro da un dio da sempre evanescente. Sirichiede di guardare e divinare, rischiare e agire di conse-guenza, con-vivere nei luoghi semi-illuminati, ai marginidella radura del lumen naturale, ai margini della medesi-ma Lichtung, nel corso di un racconto, camminando ecorrendo (metodi) sotto luci tinte di blue, e bianche, efievoli (teorie). Quest’esperienza di un filosofare critico ecreativo che accetta la sfida di un iter da cui non si ritor-na (o non si ritorna uguali a se stessi), dicibile solo peroblique vie e forme sospese e staccate dai referentimetafisici, e molto spesso anzi velato di silenzio, non de-pone contro il gioco ossia contro l’incrociare, al momentogiusto, la maschera appropriata.

Tutt’altro.

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Dei Parlanti 277

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282 Peter Carravetta

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Dei Parlanti 283

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284 Peter Carravetta

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Dei Parlanti 285

AAfrodite 261Agamben 25, 97Agosti 55Althusser 185Altieri 86Ammons 123Amoroso 46Anassagora 41Anceschi 54, 88, 250Argan 65Aristotele 42, 110, 124, 162, 165, 168, 170, 176, 202, 209, 212, 213Armando Plebe 10Arnold 127, 134Artaud 84Artemis 261Atena 261Auerbach 36, 37, 80, 127Austin 162, 198Avalle 55

BBailly 55Banfi 256Barberi Squarott 60Barberi Squarotti 60Barcellona 65

Barilli 54, 95Barthes 55, 58Bataille 135Bateson 128Battistini 57, 58Baudrillard 190Beispiel 135Benjamin 25, 134Benveniste 55, 159, 164, 166Bergson 223Bianco 10Binni 54Black 164Blake 136, 253Bloom 102, 119, 120, 133Boniolo 65Bonomi 101Booth 175Borges 84Bottiroli 10, 51, 66, 96Bové 74, 135Bremond 174Brodsky 88Brooks 128Bruno 252Bruns 240Buffon 223Burke 125, 254

Indice analitico dei nomi

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286 Peter Carravetta

Byron 129

CCarchia 31, 96, 97Carlyle 133Carr 171Carravetta 54Carroll 207Cartesio 83, 236, 239, 240, 241, 242, 243, 244, 254Cascardi 86Cassirer 146Cazzullo 147Cecchi 97Cézanne 186Charles 175chleiermacher 27Chomsky 20, 101, 159Cicerone 170, 176Coleridge 134Comolli 66Conte 58Contini 55Corti 55Cournot 127Crapanzano 70Crespi 65Crewe 73Croce 44, 53, 128, 137, 221, 223, 235Curtius 127

DD’Annunzio 111, 253d’Annunzio 41Dante 253Danto 86d’Aquino 241Dasein 23De Abbeele 206De Lollis 53

De Robertis 53De Sanctis 128De Saussure 55Del Monte 57Deleuze 23Della Volpe 55, 154Demostene 240Derrida 20, 23, 46, 129, 131, 132, 134, 135, 144, 156, 167, 170, 184, 186, 198, 240Descartes 9, 63, 86, 250Devismes 185, 186Dewey 223Dilthey 27, 128, 158, 236Donato 133Donne 121Doty 260

EEcate 261Eco 56, 201Einstein 107Eliot 123, 133, 137Emanuele 60Emerson 127Empedocle 238Eraclito 41, 104, 105, 109Erodoto 170

FFerraris 54, 157, 180, 195Feyerabend 63, 183Fichte 181Finsk 135Fish 74, 75Florescu 54, 57Fodor 101Fontanier 163Formenti 180Foucault 45, 64, 78, 95,

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Dei Parlanti 287

189, 254Franco Bianco 10Frege 199Freud 23, 31, 145, 146, 169, 186, 235Frye 85, 124

GGadamer 9, 27, 30, 31, 40,54, 64, 107, 157, 208, 213,231, 236, 237, 242

Galilei 63Garavelli 59, 97, 110Garavelli, 59Garcia Màrquez 253Gargani 63, 64, 96Gates 81Genette 55, 58, 174Gentile 221, 235Geoffrey Hartman 11Gertrude Stein 12Gestell 184Ghidetti 97Gilson 241Giovanni Bottiroli 10Goethe 223Gorgia 62, 210Grassi 9, 20, 56, 61, 107, 170, 176, 209, 254Graves 123Greenblatt 78Greimas 174Grifò 51Gruppo u 58Guicciardini 170Guillaume 156Gusdorf 54, 157Guzzo 223

HHalliburton 86Harari 133Harris 101Hartman 11, 85, 119, 121, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 139Harvey 52Hegel 86, 181, 235, 254, 256Heidegger 9, 13, 16, 27, 31, 66, 83, 95, 96, 103, 116, 117, 149, 150, 167, 189, 235, 236, 239, 241, 242, 243, 248, 250, 252, 253, 254, 255, 256Herder 127, 235, 236Hermes 7, 133, 141, 259, 260, 261, 262, 263Hintikka 240Hirsch 74Hirsch, Jr. 71Hjelmslev 159Hobbes 63, 170Hohler 167, 173Hölderlin 13Hope 123Hopkins 120Humboldt 170Husserl 9, 17, 86, 144, 145, 148, 249, 256

IIser 175Isidoro di Siviglia 252Isocrate 62

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288 Peter Carravetta

JJ. Picchione 15Jakobson 55, 164, 199, 201, 249Jameson 77, 80, 179Jauss 175Jervolino 150Jones 123Jonson 121Joyce 84, 123Juhl 74Jung 260

KKafka 134Kant 88, 191, 196, 223Katz 56Keats 136Kerényi 260Knapp 70Königsberg 88Kuhn 63

LLacou-Labarthe 207Lafayette 15Lausberg 110Le Guern 164Leitch 133Lentricchia 133Leopardi 13Levi-Strauss 124, 174, 235Lingis 85Lotman 58Lowell 123Lyotard 12, 16, 52, 95, 113, 144, 179, 180, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 189, 190, 191, 192, 193, 194, 195, 196, 197, 198, 199,

200, 201, 202, 203, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 213, 214, 215, 217, 254

MMachiavelli 170MacLeish 124MacNeice 123Magno 41Mailloux 73Malraux 127Man (de) 9 111, 119, 120,130, 170, 176Marcello Pera 10Marchese 55, 58Marrou 171Marshall 83, 84Marx 235Masini 28McCormick 86Melandri 51, 58, 96Menone 238Mercurius 259Merleau-Ponty 28Merleu-Ponty 151Michaels 70Milton 121Mitchell 70, 71Momigliano 53Morris 56Murray 220

NNatoli 97Nietzsche 9, 23, 31, 83, 129, 135, 248, 250, 253, 254, 255

OOgden 201

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Dei Parlanti 289

O’Hara 135Olbrechts-Tyteca 100Olson 123Ong 54, 95Orazio 170Otto 261Ovidio 36

PPagnini 55Palmer 27, 220Palmieri 43Paolo Valesio 10Pareyson 12, 41, 192, 219, 221, 223, 227, 228, 229, 230, 231, 232Paris 260Parmenide 238Pasolini 55Pasquali 128Pasqualotto 23, 28Pasquini 57, 58Pater 129Peirce 23, 56, 200Pera 10, 51, 96Perelman 9, 54, 59, 60, 96, 197, 200, 201Persefone 261Perseo 121Pestelli 57Pfeiffer R. 33Pico 252Pierani 16Pike 105, 106, 107, 111Pirandello 31Platone 9, 51, 84, 124, 125, 209, 213, 238, 252Plebe 10, 60, 95Poe 223Popper 44, 63Postal 101

Pound 123Preti 63, 95Propp 174

QQuine 101, 107Quintiliano 37, 170, 176

RRaimondi 51, 97Rapp 87Raval 84Rella 66Richards 124, 125, 164, 201Ricoeur 11, 137, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 151, 154, 156, 157, 158, 159, 160, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 170, 172, 173, 174, 175, 176, 177, 236, 254Rilke 120Ripanti 39, 44Ritter Santini 97Riverso 66Rorty 64, 74, 77, 83Rosen 77, 86Rosmarin 74Rossi-Landi 69, 203, 258Rovatti 20, 46, 66, 97, 113, 257Russo 54

SSaid 80, 130, 133Santini 97Sapir 98Sartre 34Saussure 159Saviani 16

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290 Peter Carravetta

Schelling 223Schleiermacher 128, 236Segre 19, 55Serra 180Serres 260Sini 28, 97Siviglia (di) 252Snow 63Socrate 125, 210Spanos 45, 135Spenser 121Spirito 128Spitzer 55Spongano 53Stafford 123Starobinski 18, 32, 33Stein 12, 260Stevens 84Swearingen 177Szondi 157

TTagliacozzo 235Thom 183Todorov 55, 58Trilling 134Tyteca 54, 59

UUllman 164Ulmer 85

VValéry 120, 223Valesio 10, 54, 56, 60, 61, 104, 106, 108, 109, 110, 111, 114, 116, 176, 201, 209, 254Valla 170Vattimo 27, 66, 82, 95, 97, 135, 184, 257

Veca 66Veeser 79Veyne 171, 172Vickers 54, 95Vico 13, 16, 31, 51, 58, 80, 127, 170, 235, 236, 239, 243, 244, 245, 248, 249, 250, 252, 253, 254Vitruvio. 36

WWatson 84Weber 171, 235Weinrich 174West 81Wittgenstein 12, 25, 83, 96, 196Wordsworth 120, 121, 128, 138, 139Wordworth 122

YYale 68, 123, 132

ZZarathustra 41

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Dei Parlanti 291

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292 Peter Carravetta

Marco Valerio Editorestampato in proprio

marzo 2002