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Dante nella poesia di Montale

Nel discorso pronunciato a Firenze il 24 aprile 1965 in apertura del Congresso

Internazionale di Studi Danteschi per il settimo centenario della nascita dell’Alighieri1,

Eugenio Montale si domanda che cosa Dante possa rappresentare per un poeta d’oggi.

La conferenza, allora, si sbroglia seguendo il fil rouge di questo interrogativo proemiale.

In apertura, dopo aver messo in forte evidenza il suo rapporto più che personale

con Dante, la sua «... singolare esperienza dantesca...» (p. 2668), Montale parla di Dante

come di un «... patrimonio universale...» (p. 2668), e ci dice che, forse oggi più che mai,

e come forse mai potrà accadere in futuro, la sua voce ed il suo messaggio poetico

possono giungere a tutti noi, dall’iniziato al profano, in un modo sorprendentemente

nuovo. Ecco qui, da subito, il cuore di questo discorso montaliano su Dante: partendo da

se stesso, dalla propria esperienza poetica costruita su un persistente dialogo con

l’autore della Commedia, Montale pare realizzare che l’umanità, o perlomeno l’umanità

letteraria, stia entrando in un’epoca nuova, sorprendente ed inusitata; e che le

straordinarie peculiarità di questa nuova era possono − forse − aiutarci a penetrare il

messaggio della poesia di Dante. E tutto questo perché: «... Dante non è un poeta

moderno...» (p. 2670), col “non” sottolineato dal corsivo.

Montale struttura il suo intervento, come detto, intorno alla questione di ciò che

Dante può dire a uno scrittore del nostro tempo. Questa linea tematica è però

frammentata, continuamente spezzettata da diversi excursus che assumono l’aspetto di

veri e propri innesti ecfrastici sugli sviluppi della fortuna dantesca, sui fondamentali

contributi filologico-estetici del Novecento (da Barbi a Pietrobono, da Curtius a

Auerbach fino a Contini)2, su Shakespeare, sulle opere di Dante in sequela cronologica,

1 Pubblicato col titolo Dante ieri e oggi, in Atti del Congresso Internazionale di Studi Danteschi, Sansoni, Firenze, 1966, vol. II, pp. 315-333. Poi in E. Montale, Sulla poesia, a c. di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1976; e, col titolo Esposizione sopra Dante, in E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a c. di G. Zampa, Milano, Mondadori-I Meridiani, vol. I, pp. 2668-2690. Tutte le citazioni dalla relazione sono tratte da quest’ultima edizione; le citazioni dai testi lirici sono invece tratte da E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Milano, Modadori-I Meridiani, 2001.

2 Il tono del contatto che Montale stabilisce con la trafila dei critici danteschi qui presi in considerazione rivela marcati segnali di leggerezza ed ironia. Questa leggerezza e questa ironia dello sguardo si rivolgono, inoltre, anche verso lo stesso Dante: «Nell’epistola dedicatoria del Paradiso a Cangrande della Scala il Poeta spiega che il suo modo di trattare è poetico, fittizio, descrittivo, digressivo, transuntivo e insieme definitivo, divisivo, probativo, reprobativo ed esemplificativo. (Possiamo immaginare la sorpresa di Cangrande [...])» (p. 2680).

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sulle donne dantesche, e sulle riflessioni di poeti contemporanei. Appare allora evidente

che Montale ricerca, insieme al lettore, una risposta al suo tema; la ricerca attraverso

l’opera di Dante, attraverso il pulviscolo di discorsi depositati sopra di lui, attraverso

quanto di lui resta nei poeti d’oggi (se poi qualcosa resta), ed attraverso alcune sue

tematiche fondamentali. Montale richiamerà il suo tema per ben tre volte durante la

trattazione, sempre come scusandosi d’aver divagato, d’aver smarrito il filo del

discorso: «Ma mi avvedo che debbo tornare al mio argomento...» (p. 2671), «Ma il tema

che mi sono proposto [...] mi obbliga a lasciarmi alle spalle...» (p. 2679), «Si fa tardi ed

è ora che io chieda, non ai miei ascoltatori ma soprattutto a me stesso: che cosa significa

l’opera di Dante per un poeta d’oggi?» (p. 2687). Il poeta sembra quasi intessere qui una

trama argomentativa che sfrutta abilmente le diverse tecniche dell’entrelacement3.

Nonostante, quindi, il lettore sia messo in condizione di seguire lo sviluppo

dell’argomentazione, il progresso della quête, di intuirne i meccanismi, di afferrarne le

difficoltà, la risposta che darà Montale non mancherà di lasciarlo di stucco.

Montale indugia allora sugli aspetti della “fortuna” dantesca, dalla gloria

conferitagli dai suoi contemporanei, al lento ed inesorabile declino fino al Seicento (il

suo «... secolo nero...», p. 2668), ed al successivo “risorgimento” dell’interesse verso

l’autore della Commedia con l’avvento del Romanticismo e di una coeva “filosofia” (p.

2668)4 che vede nell’uomo il padrone e addirittura il creatore di se stesso. Il

Romanticismo − insoddisfatto del suo tempo razionalistico e illuministico − cerca in

Dante un’ispirazione, un paradigma, quasi un lontano antenato. La “filosofia”, che

invece accetta in toto il suo tempo ritenendolo la più alta fase del dispiegamento della

Ragione, stima Dante un mirabile prodotto della fantasia poetica, il perfetto riscontro di

3 L’entrelacement (il termine è stato coniato da Ferdinand Lot: Id., Étude sur le Lancelot en prose, Paris, Librairie Ancienne Honoré Champion, 1918) è una tecnica usata perlopiù dagli autori francesi nelle romance del “Ciclo Arturiano”, e consiste nel rendere possibile la narrazione continuamente sospesa e poi ripresa di più storie che avvengono contemporaneamente in modo da dare al lettore attento la sensazione che i fatti narrati stiano accadendo tutti intorno a sé, insomma con un grande dinamismo. L’entrelacement crea un insieme intricato di fili, di addobbi, che solamente da uno sguardo complessivo, cioè da lontano, abbracciando con l'occhio tutto il lavoro, mostra la sue fine e difficile arte, oltre alla sua bellezza. Così come nei romanzi Arturiani (e così anche nel poema del Boiardo) è necessario osservare la struttura completa dell’opera, e non semplicemente i singoli episodi che apparentemente sembrano davvero disgiunti.

4 Montale si riferisce qui all’idealismo, che, nella sua matrice hegeliana, segnerà profondamente la critica di Francesco De Sanctis, prima, e poi, soprattutto, di Benedetto Croce e della sua “filosofia dello spirito”; ricordo, in quest’ambito, l’importante saggio di Croce, La poesia di Dante (Bari, Laterza, 1921).

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uno Spirito che si va formando e che ancora non ha preso coscienza di sé. Insomma, in

entrambi i casi, potrei dire un Dante messo forzosamente al servizio dei suoi posteri e

delle loro differenti weltanschauungen. Entrambi i movimenti sono comunque

accomunati dal fatto di considerare Dante un moderno.

Nell’Ottocento l’interesse si sposta verso i misteri della creazione dantesca,

verso gli enigmi della sua allegoria con l’intento di svelarla: fioriscono gli studi sul «...

Dante esoterico» (p. 2669), templare, francescano, disseminatore, nelle sue opere, di

messaggi criptati, e così via. L’unico merito che Montale riconosce a questo particolare

(e bizzarro) aspetto della dantologia moderna5 è quello di affermare una grande verità:

Dante non è un poeta moderno, e gli strumenti della cultura moderna non sono del tutto

adatti a comprenderlo.

Ecco la prima correzione di rotta; Montale rientra dalla sua diversione e si

riporta nel perimetro del suo tema. Dante non è moderno, come detto, e proprio oggi noi

possiamo forse riuscire a sentirlo stranamente vicino a noi perché anche noi non

viviamo più in un’epoca moderna, ma in un «... nuovo medioevo di cui non possiamo

ancora intravvedere i caratteri» (p. 2670). E, col probabile trionfo della ragione tecnico-

scientifica, questo nuovo medioevo altro non sarà se non una nuova barbarie che

camufferà e stravolgerà le stesse nozioni di cultura e civiltà; ben diverso, quindi,

dall’età di mezzo della nostra storia, che non fu solo barbara, né sprovveduta di scienza,

né vuota d’arte6. Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del premio Nobel

5 E su un certo tipo di tendenza della critica e della cultura a ricercare a tutti costi in un autore (soprattutto “classico”) la sorpresa, la suspense, il misterioso, lo “sfizioso”, con lo scopo di renderlo più “interessante”, più attuale e più adattabile ai gusti contemporanei, cfr. M. Bettini, I classici nell’età dell’indiscrezione, Torino, Einaudi, 1995.

6 C’è stato chi, come Luperini (R. Luperini, Le forme del passato e la poesia del Novecento, “Allegoria”, n° 49, gennaio-aprile 2005), ha identificato il “nuovo medioevo” di Montale con il “postmoderno”. In effetti, il postmoderno, inteso come «logica culturale del tardo capitalismo» (nella definizione di Fredric Jameson in Id., Post modernism, or The cultural logic of late capitalism, Durham, Duke University Press, 1991), è caratterizzato da una immane dilatazione dello spazio della cultura, al punto da invadere lo spazio del consumismo. Il postmoderno è allora il processo capace di trasformare la cultura, che è anzitutto storia codificata, in prodotto. La cultura viene de-costruita e poi ri-costruita, in un processo per cui, fra l’altro, il brutto può diventare estetico, il male può diventare positivo, l’apocalittico può diventare decorativo. Feticci del postmoderno sono gli shopping malls, M.T.V., i parchi di divertimento, e, in ultimo, l’intera cultura del computer (dall’intelligenza artificiale alla realtà virtuale, dalle reti di servizi alla posta elettronica); tutti fenomeni che hanno in comune la “morte del soggetto”. Il postmoderno è l’era dei simulacri. Se il modernismo corrisponde all’era del medio-capitalismo in cui le funzioni di sviluppo tecnologico e sociale sono ancora squilibrate, il postmoderno corrisponde all’era del tardo-capitalismo in cui quelle funzioni sono perfettamente integrate. La tecnologia è stata tanto assimilata dalla società quanto la società è stata assimilata dalla tecnologia. La discussione attorno al

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per la Letteratura nel 1975, Montale riprende tutta una serie di spunti e di riflessioni, in

lui sempre presenti, contro la società contemporanea e contro la sua massificazione.

Parla, inoltre, di una nuova fase della storia umana, in cui «... una sorta di generale

millenarismo si accompagna a un sempre più diffuso comfort...», «... il benessere ha i

lividi connotati della disperazione...», e «... l’uomo civilizzato è giunto ad avere orrore

di se stesso»; in cui «... le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione,

hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di

riflessione...», e domina perciò, nella società e nella cultura, un «... esibizionismo

isterico...»; e in cui di conseguenza «... le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro

identità», entrando in una crisi strettamente legata al mutarsi della stessa condizione

umana7. Montale vive con viscerale sofferenza le implicazioni dell’individualismo e

dell’irrazionalismo moderni, e così ha la quasi fisiologica necessità di attingere a Dante

come ad un «Esempio massimo di oggettivismo e razionalismo...» (p. 2689), un «Poeta

concentrico, [...] [che] non può fornire modelli a un mondo che si allontana

progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione» (p. 2689).

Ma mentre Montale sviluppa questa sua riflessione, ecco che di nuovo cerca di

sfuggirla, o forse solo di ritardarne abilmente, così da creare suspense, l’ultimo esito, il

responso definitivo. Prima di dirci chi è Dante per uno scrittore d’oggi, ci vuole allora

dire chi è Dante. E lo fa attraverso le sue opere, poiché massimamente nel caso di Dante

«.... vita e opere sono così associate che della biografia del poeta non potremo mai

disinteressarci» (p. 2671). Segue una dissertazione cronologicamente ordinata che parte

dalle rime estravaganti per proseguire con l’attribuzione del Fiore, le redazioni della

Vita Nuova, e la datazione delle cantiche della Commedia. Ad ogni modo, Montale

deplora chi, come De Sanctis (e poi, soprattutto, Benedetto Croce8), tenta di leggere

Dante come se fosse un poeta moderno, scegliendo le parti ritenute più “vive” ed attuali

“postmoderno”, comunque, si sviluppa verso la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta; il termine, infatti, viene sfruttato da critici letterari come Ihab Hassan (nel 1976), da sociologi come Daniel Bell e, soprattutto, da Charles Jencks nell’ambito della critica d’arte, inteso in modo particolare come citazione, riuso distaccato a volte ironico o pure parodico del patrimonio del passato. È quindi assai improbabile che Montale avesse, nel 1965, qualche sentore della discussione sui confini e sul tramonto della modernità e sull’avvento del cosiddetto postmoderno, al di là di una spiccata sensibilità personale, quasi profetica, sull’avvento di una nuova tendenza socio-culturale.

7 E. Montale, È ancora possibile la poesia?, in E. Montale, Il secondo mestiere, cit., pp. 3034-3040.

8 Cfr. B. Croce, La poesia di Dante, cit.4

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ed eliminando quelle più stagnanti nel Medioevo e nelle sue “superstizioni”9. Ma

consiglia, invece, di leggere la sua opera calandosi il più possibile nella sua vita, nella

sua cultura, nella sua formazione, nella sua arte, nel suo contesto. Ed il contesto di

Dante significa Stil Novo, significa la consapevolezza di appartenere ad una scuola, ad

una nuova “mainera”. E, a questo proposito, Montale chiosa: «Sempre, in ogni tempo i

poeti hanno parlato ai poeti, intrattenendo con essi una reale o ideale corrispondenza. I

poeti della nuova scuola si pongono problemi, sollevano questioni, attendono risposte

per le rime» (p. 2673). Nello stesso modo in cui, mi verrebbe da dire, il poeta Montale,

attraverso la sua opera, intrattiene una ricca conversazione col poeta Dante. Non a caso,

il passo successivo della trattazione montaliana, quello sulle donne di Dante, richiama

uno dei temi che sorregge, come un’impalcatura, la poesia dello stesso Montale: vale a

dire la presenza ed il valore delle figure femminili che l’affollano − la quaestio de

mulieribus (p. 2678) − e cosa esse sono andate via via rappresentando per l’evoluzione

della sua opera. L’esegesi del testo dantesco è ora matura per una simbiosi con la

poetica dello stesso Montale. Il poeta passa allora in rassegna le donne dantesche,

dedicando maggiore spazio, naturalmente, alla figura di Beatrice, per poi passare alle

«… altre donne […]: la pargoletta che alcuni identificano con la donna pietra e che in

questo gruppo sembra essere stata la più pericolosa per il poeta, e poi Fioretta, Violetta,

Lisetta, la donna di Guido ed altre ancora per giungere fino alle due donne-schermo che

troveremo nella Vita Nuova» (p. 2674). Riconosce alla donna Pietra ed alla “donna

gentile” la necessaria funzione dello “sviamento”, dell’errore indispensabile, unico

strumento attraverso il quale è possibile percorrere un reale processo, un iter, di

salvezza: «... non si può immaginare un processo di salvezza senza la controparte

dell’errore e del peccato» (2675). Va da sé l’accostamento con un’articolo su “La

Rassegna d’Italia”: «Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia (la chiami come

vuole) dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza

ragione; e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria»10; e Avalle, nel suo

celebre saggio, dice: «Che poi questa Selvaggia, Mandetta o Delia, aggiungeremo noi,

9 De Sanctis conclude così l’analisi dell’Inferno nella Storia della letteratura italiana: «Queste grandi figure, là sul loro piedistallo, rigide ed epiche come statue, attendono l’artista che le prenda per mano e le gitti nel tumulto della vita e le faccia esseri drammatici. E l’artista non fu un italiano: fu Shakespeare» (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a c. di B. Croce, Bari , Laterza, 1912).

10 E. Montale, Intenzioni (intervista immaginaria), in “La Rassegna d’Italia”, I, 1946, p. 88. 5

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prenda il nome di Iride-Clizia o di Volpe o di qualsiasi altra persona non fa nessuna

differenza»11.

Montale si sofferma, poi, su Beatrice e sulle dissertazioni intorno alla sua effettiva

esistenza storica, di cui «... non è lecito dubitare dopo le ricerche di Isidoro Del Lungo

che destarono grande entusiasmo nel 189112» (p. 2675). E le possibilità che seguono

questa consapevolezza storica determinata sono due: o il significato che Dante attribuì a

Beatrice non ha nulla a che vedere con la sua esistenza effettiva; oppure, come dice

Pietrobono13 − chiamato in causa dallo stesso Montale − la donna miracolosa non solo

visse, ma fu anche un effettivo miracolo. Ecco che, di nuovo, l’esperienza dantesca si

integra nella poetica montaliana14: «Per chi crede, come me, che i miracoli possono

essere sempre in agguato davanti alla nostra porta e che la nostra stessa esistenza è tutta

un miracolo la tesi del Pietrobono non può essere combattuta con argomenti razionali»

(p. 2675). Il miracolo insidia allora la vita stessa. E “miracolo” è una parola-chiave nel

sistema poetico linguistico montaliano, con un significato preciso: indica, infatti, la

condizione estrema di trascendenza prodotta dall’oggetto poetico (l’oggetto-talismano

nella definizione di Contini15). Sempre dall’articolo su “La Rassegna d’Italia”: «Il

miracolo era per me evidente come la necessità. Immanenza e trascendenza non sono

separabili»16. E ancora più chiarificatore ed esemplare è il commento alla condizione

interiore e psicologica di Federico in La casa delle due palme:

[...] quel tuffo fuori del mondo ormai abituale, quel recupero di un tempo ch’egli credeva quasi

11 D. S. Avalle, Alcune ipotesi su “Gli orecchini” di E. Montale, in Arte e Storia, studi in onore di L. Vincenti, Torino, 1965, poi edito come D. S. Avalle, “Gli orecchini” di Montale, Milano, Il Saggiatore, 1965.

12 I. Del Lungo, Beatrice nella vita e nella poesia del secolo XIII, Milano, Hoepli, 1891.13 L. Pietrobono, Il poema sacro, saggio d’una interpretazione generale della Divina

Commedia, Bologna, Zanichelli, 1915.14 Con le opportune divergenze: la Beatrice montaliana, infatti, è una Beatrice del tutto incapace

di garantire il paradiso, in quanto la sua alta e salvifica funzione è continuamente (e inesorabilmente) minacciata dall’irrazionalità della storia. I valori superiori rappresentati dalla donna-angelo sono resi vani da un lato dalla violenza della storia e, dall’altro lato, dal fatto di essere ascoltati e recepiti da una élite intellettuale di cui il poeta, come isolato contestatore, è parte. Sulla poesia di Montale, tra i moltissimi studi, cfr.: M. Forti, Eugenio Montale. La poesia, la prosa di fantasia e d’invenzione, Milano, Mursia, 1973; G. Contini, Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Torino, Einaudi, 1974; P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Milano, Feltrinelli, 1975; A. Jacomuzzi, La poesia di Montale. Dagli “Ossi” ai “Diari”, Torino, Einaudi, 1978; R. Luperini, Storia di Montale, Roma-Bari, Laterza, 1999.

15 G. Contini, Dagli “Ossi” alle “Occasioni” , in Una lunga fedeltà, cit.16 E. Montale, Intenzioni, cit., p. 86.

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immaginario avevano veramente qualcosa di miracoloso.17

Il senso, la percezione del “miracoloso” è legata all’impressione di sospensione e pure

reversibilità dell’ordine temporale, all’opera quasi magica della memoria. O, ancora,

all’evento inatteso e inimmaginabile, che scaturisce dalla quotidianità e che ci trascina a

forza (volenti o nolenti) verso uno stato di consapevolezza altro e superiore, ma per

questo forse profondamente infelice in quanto isolato e solitario, come nell’”osso”

Forse un mattino andando in un’aria di vetro...:

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,

arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:

il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro

di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto 5

alberi case colli per l’inganno consueto.

Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto

tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.18

Quando il miracolo manca, come in Crisalide, le conseguenze di questo fallimento sono

la «... tortura senza nome...» di chi è condannato al «... limbo squallido | delle monche

esistenze»19; l’identità mancata, l’angoscia straziante, e comunque inevitabile,

dell’impossibilità della ninfa di trasformarsi in farfalla:

Ah crisalide, com’è amara questa

tortura senza nome che ci volve

e ci porta lontani − e poi non restano 60

neppure le nostre orme sulla polvere;

e noi andremo innanzi senza smuovere

un sasso solo dalla gran muraglia;

e forse tutto è fisso, tutto è scritto,

17 E. Montale, La casa delle due palme, in Farfalla di Dinard, Milano, Mondadori, 1961, p. 51. 18 E. Montale, Forse un mattino andando in un’aria di vetro..., in Ossi di seppia, da E.

Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Milano, Modadori-I Meridiani, 2001, p. 42.19 E. Montale, Crisalide, in Ossi di seppia, da E. Montale, Tutte le poesie, cit., p. 87, v. 59 e vv.

37-38.7

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e non vedremo sorgere per via 65

la libertà, il miracolo,

il fatto che non era necessario!20

Nei passi successivi della sua trattazione, Montale si discosta ulteriormente dal

tema che s’era prefissato; incomicia qui, piuttosto, una serrata disamina della

produzione dantesca della quale vengono approfonditi sia gli aspetti più strettamente

formali che quelli tematico-contenutistici. Il corteggio inizia con la Vita Nuova «... che

racconta in prosa e in rima la storia del suo amore per Beatrice» (p. 2675); segue il

“luogo intermedio” della raccolta di rime, impossibili da disporre in un preciso ordine

cronologico, e che rappresentano «... il periodo di oscuramento interiore e di

traviamento che Dante attraversò in seguito alla morte di Beatrice...» (p. 2676); poi le

esperienze incompiute, al tempo dell’esilio, del Convivio e del De Vulgari Eloquentia;

infine, Montale chiude questo sguardo sull’esperienza dantesca introducendo alcune

teorie critico-filologiche sulla datazione delle cantiche della Commedia.

L’attenzione di Montale si sposta poi sugli aspetti più strettamente formali del poema

dantesco, individuando in esso «... l’entità degli apporti che la cultura retorica, filosofica

e teologica del medioevo latino ha dato al poema [...] [che costringe] a mettere in

dubbio l’iniziale impressione che Dante potesse scrivere a briglia sciolta» (p. 2678). In

altre parole: la Commedia trasmette in prima istanza al lettore l’impressione d’esser

stata scritta «… di getto con pochi pentimenti…» (p. 2678). Ma poi questa impressione

iniziale viene messa in dubbio; il lettore non deve allora cadere nell’errore di leggere la

poesia dantesca ritenendola assolutamente spontanea e “istintiva”; essa resta infatti il

frutto di una somma “sapienza” retorica, linguistica, filosofica e teologica, di un

fenomenale enciclopedismo costantemente mediato da un attento labor limae.

Siamo alla seconda correzione di rotta, introdotta attraverso una piccola praeteritio:

«Ma il tema che mi sono proposto: la poesia di Dante di fronte a uno scrittore del nostro

tempo, mi obbliga a lasciarmi alle spalle le opere dottrinali del poeta, le due accennate,

la Monarchia, da assegnarsi a data successiva, e la Quaestio de acqua et terra, estranea

al mio intento. Basti dire che...» (p. 2679). Montale tarda qualche attimo sulle opere che

aveva promesso di “lasciarsi alle spalle” e si concentra poi in toto sulla Commedia.

20 E. Montale, Crisalide, in Ossi di seppia, da E. Montale, Tutte le poesie, cit., p. 87, vv. 58-67.8

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Traendo spunto da essa, il poeta cerca di definire il rapporto che potrebbe intercorrere

tra Dante ed uno scrittore d’oggi (non un poeta, perché «… di fronte e Dante non

esistono poeti», p. 2671) attraverso due considerazioni. Da un lato, la profonda e

irrinunciabile umanità dell’avventura dantesca, garantita dalla sovrapposizione tra il

personaggio che compie il viaggio ultramondano ed il poeta stesso in quanto essere

umano. Dante-personaggio è anche Dante-poeta e uomo reale. E così nella Commedia

vengono pienamente rappresentati ed esplicitati i sentimenti ed i risentimenti propri

dell’uomo, meglio ancora: propri di tutti gli uomini. D’altra parte, il “miracolo” della

visione dantesca che «… da un lato si apre sul paesaggio dell‘eternità, dall’altro su

vicende terrene che occupano pochi anni di tempo e un luogo determinato, la vita del

comune fiorentino e i suoi avvenimenti negli anni dell’impegno civile del poeta e la

parte che il personaggio Dante ebbe in quelle vicende» (p. 2680). Sopra il Dante uomo

dell’età di mezzo, irretito dai pregiudizi della scienza e della fede d’allora senz’altro

muti e privi di significato per l’uomo d’oggi, si innesta la poesia dantesca, poesia fuori

dal tempo come ogni vera poesia. Dante rappresenta il concreto21, il molteplice

dell’umana esperienza, ma mai perde di vista o si sottrae all’eterno; la sua poesia, così,

attraverso il concreto ed il contingente, riesce a parlarci attraverso i secoli, proprio in

virtù di questo suo sfondo assoluto e di questa sua capacità di rendere concreto e

materiale anche l’eterno e l’immateriale.

Montale dice che i poeti, in ogni tempo, parlano ai poeti. Ed ecco che, a questo

proposito, introduce ora una lezione su Dante «… ancora accettabile…» (p. 2684)

condotta da un moderno poeta, T. S. Eliot, in un suo saggio del 192922. Secondo Eliot, il

procedimento allegorico della Commedia crea la condizione necessaria

all’accrescimento di quell’immaginazione sensibile, corposa, che è propria di Dante.

Insomma: le immagini ultramondane descritte da Dante (da quelle massicce

dell’Inferno, a quelle più composte del Purgatorio, a quelle immateriali del Paradiso)

21 «Chi ha il senso della poesia non tarda ad accorgersi che Dante non perde mai la sua concretezza...» (p. 2683).

22 In edizione italiana come T. S. Eliot, Dante, a c. di L. Berti, Modena, Guanda, 1942. In questa dissertazione Montale riprende, amplifica ed approfondisce alcuni spunti di due suoi precedenti articoli: E. Montale, Eliot e noi, in “L’immagine”, 5, nov.-dic. 1947, pp. 261-264; E. Montale, Invito a T. S. Eliot, in “Lo smeraldo”, IV, 3, 1950, pp. 19-23. T. S. Eliot, inoltre, avrebbe anch’esso dovuto partecipare al Congresso Internazionale di Studi Danteschi di Firenze, aprendo i lavori. Il poeta, però, scomparve proprio in quell’anno 1965, poco prima dello svolgersi del Congresso.

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possono mutare nei colori e nelle forme, ma restano sempre accessibili ai nostri sensi. È

necessario, però, che il lettore moderno sospenda temporaneamente il giudizio, così da

poter comprendere appieno, pur non condividendola, la fede che l’allegoria dantesca

sottende in funzione della poesia che esprime. Il Belief di Dante sottende tutta la sua

poesia, ha come sfondo l’eternità, ma ricerca costantemente una controprova nel

contingente, nel concreto; e così Dante lo rappresenta, lo mette in evidenza, lo utilizza

come veicolo per l’assoluto. Eliot dice che, senza riuscire ad afferrare questa chiave di

lettura, non si può comprendere appieno la portata della poesia dantesca.

E, su questa stessa linea, Montale prende a secondo esempio l’interpretazione di

una studiosa nel complesso poco conosciuta in Italia, Irma Brandeis, autrice di The

Ladder of Vision23. La Brandeis pone l’accento sull’aspetto didascalisco e didattico della

Commedia. Dante è allora un apprendista che deve compiere la sua iniziazione a un

immenso patrimonio di cultura universale. Osservare, soffermarci sugli aspetti di

insegnamento della Commedia è l’unico modo per comprendere, ad esempio, il discorso

di Stazio sulle generazioni umane, dal momento che il punto di vista di Dante non può

coincidere con quello del lettore; o meglio: «… il lettore non può pretendere che il poeta

percorra altro cammino con altri mezzi» (p. 2687). Superata quindi la fase d’una lettura

ingenua, l’interesse del lettore continua a crescere di pari passo col crescere del

groviglio di simboli (sempre, però, tenendo fortemente presente il senso letterale,

primario in Dante).

Ma eccoci infine giunti al terzo, ed ultimo, richiamo all’ordine: «Si fa tardi ed è ora che

io chieda, non ai miei ascoltatori ma soprattutto a me stesso: che cosa significa l’opera

di Dante per un poeta d’oggi? Esiste un suo insegnamento, un‘eredità che noi possiamo

raccogliere?» (p. 2687). È la stretta conclusiva. Secondo Montale, le condizioni per

23 I. Brandeis, The Ladder of Vision. A study of Dante’s Comedy, London, Chatto & Winders, 1960. Irma Brandeis incontra Montale, allora direttore del “Gabinetto Vieusseux” a Firenze, nel 1933. Ebrea americana di origine austriaca, la Brandeis, che a quell’epoca aveva 28 anni − nove meno di lui − ed era una scrupolosa italianista, francesista e anglista, oltre che traduttrice ed essa stessa scrittrice, venne in Italia proprio per conoscere il poeta. L’amore fra i due scocca a prima vista, come testimoniano le più di centocinquanta missive che lui le scrisse (ora raccolte in E. Montale, Lettere a Clizia, a c. di R. Bettarini, Milano, Mondadori, 2006). Già Montale conviveva con la “Mosca”, soprannome di Drusilla Tanzi, da lui sposata nel 1963, poco prima che morisse. Irma Brandeis, come personaggio di Clizia, attraversa quasi tutta l’opera di Montale a partire dal 1933. Quella giovane ebrea americana colta e intraprendente, col suo alone di misteriosa lontananza, fu capace di far vibrare le corde più profonde del poeta.

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ripetere oggi il prodigio della poesia dantesca, ed in modo particolare della Commedia,

semplicemente non esistono più. Il nostro oggi (ricordo che il titolo originale

dell’intervento montaliano era appunto Dante ieri e oggi) è rappresentato da una civiltà

soggettivistica e irrazionale, in cui la voce dell’oggettivismo e razionalismo poetico

dantesco appare come appaiono i miracoli. La conclusione, il punto di vista che Montale

ha sviluppato in questo suo saggio del 1965, è che Dante non può più parlare ai nostri

contemporanei, ad uno scrittore di oggi. La Commedia è, e resterà, l’ultimo miracolo

della poesia mondiale. E questo è, in somma misura, imputabile alla cecità ed alla

barbarie priva di dignità della nostra epoca; insomma, se Dante non può più riuscire a

parlarci è colpa della nostra pochezza, della miseria della nostra società: «Che la vera

poesia abbia sempre il carattere di un dono e che pertanto essa presupponga la dignità di

chi lo riceve, questo è forse il maggior insegnamento che Dante ci abbia lasciato […] E

se è vero ch’egli volle essere poeta e nient’altro che poeta, resta quasi inspiegabile alla

nostra moderna cecità il fatto che quanto più il suo mondo si allontana da noi, di tanto si

accresce la nostra volontà di conoscerlo e di farlo conoscere a chi è più cieco di noi» (p.

2690). La volontà di conoscerlo e di farlo conoscere ad un contesto cieco e

impermeabile ai valori ed alla bellezza della poesia, un mondo, ripeto, imbarbarito, resta

forse un’utopia, una speranza disperata. In questa sua risposta, credo si manifesti in

pieno la separatezza intellettuale di Montale, la sua profonda disillusione di fronte alla

sua epoca; e così il dono della poesia dantesca può essere recepito solo da pochissimi. In

Anniversario scriveva:

[…] il dono che sognavo

non per me ma per tutti 10

appartiene a me solo, Dio diviso

dagli uomini, dal sangue raggrumato

sui rami alti, sui frutti.24

E alla Commedia come un “eccellentissimo dono” si riferisce pure il primo grande

scrittore che commentò il poeta, Giovanni Boccaccio, nell’Accessus alle Esposizioni

sopra la Comedia di Dante, in cui il nome stesso di Dante è assorbito nell’immagine del

24 E. Montale, Anniversario, in La bufera e altro, da E. Montale, Tutte le poesie, cit., p. 272, vv. 9-13.

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dono:

Ma del suo nome resta alcuna cosa da recitare, e pria del suo significato, il quale assai per se

medesimo si dimostra, per ciò che ciascuna persona, la quale con liberale animo dona di quelle

cose, le quali egli ha di grazia ricevute da Dio, puote essere meritatamente appellato “Dante”. E

che costui ne desse volentieri, l’effetto nol nasconde. Esso, a tutti coloro che prender ne

vorranno, ha messo davanti questo suo singulare e caro tesoro, nel quale parimente onesto diletto

e salutevole utilità si truova da ciascuno che con caritevole ingegno cercare ne vuole.25

Ma ora credo opportuno verificare il dialogo intertestuale che Montale instaura

con Dante attraverso la sua opera; e, nel caso, tentare di accertarne gli eventuali

mutamenti, e la loro portata, in modo particolare alla luce di quanto sopra esposto. Il

campione di testi presi in esame qui di seguito intende avere soprattutto un valore

paradigmatico, per quanto possibile, e rappresentativo delle permanenze o dei richiami

di varia portata della poesia dantesca in quella di Eugenio Montale26.

Montale volge il suo sguardo a Dante come al referente fondamentale della

nostra tradizione poetica e linguistica, oltre che, come detto, al rappresentante di un

immenso patrimonio di valori sia morali che civili. Della presenza continua ed assidua

di Dante in Montale per buona parte della sua opera − come vedremo − si è parlato

come di «... qualcosa che oltrepassa la memoria involontaria e che tende, piuttosto, a

costituirsi come fondamento della struttura compositiva»27; è stato anche detto, però,

che la persistenza della “memoria” dantesca in Montale «... è assimilabile a una

componente biologica, o se si preferisce esistenziale, ancor prima che cultural-

letteraria»28. Le relazioni intertestuali, i recuperi di carattere tematico o linguistico, si

25 G. Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante. Accessus, a c. di G. Padoan, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a c. di V. Branca, vol. VI, Milano, 1965, par. 37.

26 Su questo rapporto esiste una cospicua letteratura. Ricordo solo alcuni dei contributi più significativi: G. Cambon, Montale e l’Altro, in G. Cambon, Lotta contro Proteo, Milano, Bompiani, 1963, pp. 113-137; M. Martelli, Il rovescio della poesia, Milano, Longanesi, 1977; A. Jacomuzzi, Alcune premesse per uno studio sul tema “Montale e Dante”, in AA. VV., Dante nella letteratura italiana del Novecento, Atti del Convegno di Studi, Roma, Casa di Dante, 6-7 maggio, 1977, pp. 217-227; G. Lonardi, Il Vecchio e il Giovane e altri studi montaliani, Bologna, Zanichelli, 1980; G. Ioli, Dante e Montale, “Letture classensi”, vol. XIV, Ravenna, Longo Editore, 1985; L. Blasucci, Dantismo e presenze dantesche nella poesia montaliana, in L. Blasucci, Gli oggetti di Montale, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 73-86.

27 G. Ioli, Dante e Montale, cit., p. 100. 28 G. Lonardi, Il Vecchio e il Giovane, cit., p. 106.

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susseguono impregnando buona parte dell’opera in versi montaliana.

Negli Ossi di seppia (1920-1927), ad esempio, è possibile riconoscere le

influenze ed i prestiti danteschi in modo particolare nel paesaggio che domina la

raccolta. Un paesaggio bruciato, petroso, sterposo, “figura” − parlando con Auerbach −

dell’aridità dell’umana esistenza, e pure della sua dimensione infernale. Questo

paesaggio, immagine, evidentemente, di un paesaggio psicologico ed interiore, è come

attraversato da sprazzi di luce, dall’aprirsi di spiragli fra alte mura, dall’attesa, insomma,

del compiersi del “miracolo”29. La dannazione è già messa, nella raccolta, in rapporto

polare con la salvezza. La prima, però, è una certezza assoluta, mentre la seconda può

solo configurarsi come un’attesa, intensa, disperata e, disperatamente, illusoria.

Uno dei testi degli Ossi più ricco di incidenze dantesche, e che più

compiutamente può essere considerato come paradigmatico dei temi e della visione del

mondo della raccolta, è senz’altro Arsenio30. Il tema dominante è quello del viaggio

della vita, dell’iter animae, attraverso una città infernale, una moderna Dite, luogo

dell’inidentità e dello smarrimento interiore. Ecco la strofa finale:

Così sperso tra i vimini e le stuoie

grondanti, giunco tu che le radici

con sé trascina, viscide, non mai

svelte, tremi di vita e ti protendi

a un vuoto risonante di lamenti 50

soffocati, la tesa ti ringhiotte

dell’onda antica che ti volge; e ancora

tutto che ti riprende, strada portico

mura specchi ti figge in una sola

ghiacciata moltitudine di morti, 55

e se un gesto ti sfiora, una parola

ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,

nell’ora che si scioglie, il cenno d’una

vita strozzata per te sorta, e il vento

29 Come, ad esempio, i “gialli dei limoni” in I limoni.30 La Ioli (G. Ioli, Dante e Montale, cit., p. 110) osserva che lo stesso nome di Arsenio potrebbe

forse avere una radice lessicale nel XIV canto dell’ Inferno, dove si ha una accumulazione di parole come arida (v. 13), ardore (v. 37), arsura (v. 42), arsiccia (v. 74), arsi (v. 141), tutte poi presenti con forte rilievo nei testi di Montale.

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la porta con la cenere degli astri.31 60

L’immagine del giunco del v. 47, che trascina con sé le sue radici e si protende verso un

vuoto risonante di lamenti | soffocati vv. 50-51, richiama quella del giunco schietto di

Purg. I, 95, e dei giunchi sovra ‘l molle limo di Purg. I, 102. E l’onda antica che ti

volge del v. 52 è un richiamo a voltommi per le ripe e per lo fondo di Purg. V, 128, e

alla schiuma antica dello Stige di Inf. IX, 74, nello spazio degli accidiosi; quest’ultimo

rapporto intertestuale ci aiuta, inoltre, a meglio comprendere il testo di Montale,

dandoci la cifra dell’accidia come condizione esistenziale di Arsenio. Infine, la

ghiacciata moltitudine di morti del v. 55, le vite condannate ad un’esistenza monca,

evoca fortemente i gelati guazzi di Inf. XXXII, 72, e la condizione dei traditori

condannati per l’eternità al gelo del Cocito.

Nelle Occasioni (1928-1939), la poetica eliotiana del “correlativo oggettivo”

veicola una serie di prelievi danteschi, sia semantici che lessicali, con forte

connotazione oggettuale. Farò solo un breve catalogo di esempi tratti dai Mottetti. Già

nel primo: Lo sai: debbo riperderti e non posso..., i richiami vanno da selva (Paese di

ferrame e alberature | a selva..., vv. 7-8), a smarrito (Cerco il segno | smarrito..., vv.

10-11), fino al perentorio verso conclusivo: E l’inferno è certo (v. 13). In Non recidere,

forbice, quel volto..., la forbice del tempo è una ripresa di Par. XVI, 9: lo tempo va

dintorno con le force; e la belletta di Novembre del v. 8 richiama la belletta negra di Inf.

VII, 124. In Il fiore che ripete..., l’orlo del burrato del v. 2 rimanda all’alto burrato di

Inf. XVI, 114. E mettiamo a confronto i primissimi versi di Il ramarro, se scocca...32

con i vv. 79-81 di Inf. XXV:

Il ramarro, se scocca

sotto la grande fersa

dalle stoppie −

Come ‘l ramarro sotto la gran fersa

dei dí canicular, cangiando sepe,

folgore par se la via attraversa...

Il ramarro di Montale si concentra sulla sua azione, sullo “scoccare”. Molto forte è,

inoltre, la comunanza delle qualità foniche tra i due poeti; porto ad esempio soltanto il

31 E. Montale, Arsenio, in Ossi di seppia, da E. Montale, Tutte le poesie, cit., p. 83, vv. 46-60.32 E. Montale, Il ramarro, se scocca..., in Le occasioni, da E. Montale, Tutte le poesie, cit., p.

147, vv. 1-3.14

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verbo scoccare utilizzato da Dante in diversi luoghi della Commedia (ad esempio: Inf.

XXV, 96; Purg. VI, 130; Purg. XXV, 17; Purg. XXXI, 16; Par. I, 126) e ripreso, nel

nostro confronto, da Montale quasi ad evidenziare l‘”intonazione dantesca“ del

mottetto. Così, attraverso una densa concentrazione fonica oltre che tematica, Montale

reinventa Dante mantenendone la forza e l’efficacia immaginative ed espressive.

Nel La bufera e altro (1940-1954) la presenza testuale e fonica di Dante si

amplia ulteriormente. I richiami danteschi accentuano il carattere “infernale” della

raccolta, frutto della cieca ed irrazionale volontà distruttiva della guerra, la bufera, e

dell’angosciosa condizione del dopoguerra. La Primavera hitleriana, in Silvae,

rappresenta l’aspetto storico-politico del mito di Clizia: la donna è però qui

“disincarnata”33, passa, in altre parole, dall’oltrecielo all’oltretempo, e questo passaggio

marca l’impossibilità di conciliare il divino con l’umano. Nella Primavera, la donna è

presentata per la prima volta col suo nome, il nome di «quella ch’a veder lo sol si gira |

e il non mutato amor mutata serba»34. Il primo verso dantesco, posto ad epigrafe,

annuncia il centro tematico della poesia: la donna guarda verso l’oggetto del suo amore,

il sole. Il secondo è inserito nel corpus della poesia, nel momento più alto ed intenso

della preghiera a Clizia:

[...] Guarda ancora

in alto, Clizia, è la tua sorte, tu

che il non mutato amor mutata serbi, 35

fino a che il cieco sole che in te porti

si abbàcini nell’Altro e si distrugga

in Lui, per tutti [...].35

Ed anche la Beatrice dantesca era rivolta a riguardar nel sole (Par. I, 47). Clizia, la

Beatrice montaliana36, deve portare a termine la sua missione e oltrepassare il tempo

33 R. Luperini, Storia di Montale, cit., p. 150.34 I due versi sono tratti da un sonetto delle Rime dedicato a Giovanni Quirini (Nulla parve mai

più crudel cosa), nella sezione delle rime dubbie. 35 E. Montale, La primavera hitleriana, in La bufera e altro, da E. Montale, Tutte le poesie, cit.,

p. 257, vv. 33-38.36 E, nella mitologia classica, Clizia è una delle figlie di Oceano che si innamora di Elio, il Sole.

Disperata per il tradimento di quest’ultimo con la bellissima Leucotoe, svela i loro amori e fa sì che la rivale sia uccisa dal proprio padre, seppellita viva in una fossa sotto un tumulo di macigni. Il Sole, allora, rifiuta di incontrarla di nuovo e di giacersi di nuovo con lei. Per nove giorni e nove notti Clizia resta

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(l’ oltretempo) e lo spazio (l’oltrecielo), così che un tempo ed un futuro siano possibili

per tutta l’umanità. Solo allora gli orrori della guerra e la morte che essa porta con sé

(rappresentati a Firenze, “scena” del componimento, dal passaggio del messo infernale,

v. 8) potranno, forse, giungere ad una fine: «[...] un’alba che domani per tutti | si

riaffacci, bianca ma senz’ali | di raccapriccio, ai greti arsi del sud...» (vv. 42-44).

Veniamo, infine, a Satura (1962-1970), ovvero alla raccolta di componimenti

che cronologicamente si sovrappone alla stesura del discorso montaliano su Dante sopra

considerato. In modo assolutamente significativo − ed in concomitanza con il

raggiungimento, da parte di Montale, dell’opinione che Dante ormai non può più parlare

ai nostri contemporanei ed alla nostra società vile e meschina − la presenza di Dante

incomincia qui (e nelle raccolte successive) a diradarsi sensibilmente. Il clima storico in

mutazione, l’avvento di una nuova epoca, una nuova barbarie, di cui neppure Montale

riusciva a scorgere la portata ed i confini, e comunque di un’epoca caratterizzata

dall’edonismo consumista, dall’alienazione di massa, dal falso mito del progresso,

spingono il registro espressivo della sua poesia verso la discorsività e la prosasticità

ironiche-satiriche. Dante non parla più con noi. Gli uomini di Satura sono uomini-

bestie, schiavi della falsa realtà effimera, chiusi nel tempo e nello spazio. Le metafore

più ricorrenti sono quelle dell’escremento, del fango, della spazzatura. Resta come

appiccicato a Montale, Dio diviso dagli uomini, qualcosa della grande lezione dantesca;

ma questo può capitare solo a lui, appartenente ad un’élite intellettuale, altra cosa, altro

stampo, dalla massa informe e vile che si agita nel fango dei tuguri. E, comunque, anche

le (poche) espressioni dantesche sono straniate in nuovi, allucinati, contesti: ad esempio

verbi come infuturarsi in Gerarchie, o indiarsi in Piove, o sintagmi come l’angelica

farfalla in L’élan vital, sono tutti adoperati con evidenti intenti ironici. Si è conclusa

l’epoca in cui il grande paradigma dantesco aveva la forza di seminare rigogliosi frutti

nella cultura della nostra contemporaneità, nella nostra civiltà soggettivistica.

L’evoluzione, o meglio: l’involuzione, della nostra società hanno per sempre impedito,

tranne a pochissimi, la possibilità di un contatto con Dante, vale a dire con tutto il nostro

all’aperto, immobile, seduta a terra, scarmigliata e discinta, nutrendosi soltanto della rugiada e delle proprie lacrime e fissando senza sosta il Sole che trascorre imperturbabile nell’alto del cielo. Infine, è trasformata nella pianta dell’elitropio, la quale «[…] Illa suum, quamvis radice tenetur, | vertitur ad Solem, mutataque servat amorem» (Ovidio, Metamorfosi, 4.269-270).

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passato, con le nostre immense radici culturali; la memoria è breve, e l’infanzia è finita;

In Diario postumo è compreso un componimento intitolato Nel Duemila:

Eravamo indecisi tra

esultanza e paura

alla notizia che il computer

rimpiazzerà la penna del poeta.

Nel caso personale, non sapendolo

usare, ripiegherò su schede,

che attingano ai ricordi

per poi riunirle a caso.

Ed ora che importa

se la vena si smorza

insieme a me sta finendo un’era.37

37 E. Montale, Diario postumo. 66 poesie e altre, a c. di A. Cima, Milano, Mondadori, 1996, P. 21.

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