Dag Tessore: Ungheria, baluardo della cristianità

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UNGHERIA, BALUARDO DELLA CRISTIANITA’ di Dag Tessore (Medioevo, Anno VI, n. 4 (63), aprile 2002) I. De sagittis Hungarorum libera nos, Domine! Gli Ungari pagani nella prima metà del X secolo. Correva l’anno del Signore 953. I canonici di San Gaugerico, asserragliati nella loro basilica, cominciavano a riacquistare speranze: gli Ungari, non essendo riusciti ad espugnare la città di Cambrai, si erano accontentati di incendiare i sobborghi e di uccidere gli uomini che trovavano, ma giunti di fronte alla ricca e splendida basilica di San Gaugerico, che certo faceva gola alla loro brama di bottino, non erano riusciti a sfondarla. Almeno per questa volta sembrava che il pericolo fosse passato. All’improvviso però, proprio mentre i nemici stavano deliberando di ritirarsi, un chierico folle accovacciato sul campanile della chiesa ebbe l’idea di lanciare su di loro una freccia. La rabbia degli Ungari si riaccese all’istante, abbatterono il portale, irruppero nell’abbazia, fecero strage di religiosi. Intanto il fuoco cominciava a divampare da ogni parte, finché l’intera colossale struttura dell’edificio crollò su se stessa con immenso boato e il piombo delle tegole si riversò fuso in mezzo alle macerie e ai cadaveri. «Dopo di ciò – conclude la Cronaca dei vescovi di Cambrai -, radunati i prigionieri, con infinito bottino se ne andarono». Ormai da più di cinquant’anni le orde ungariche terrorizzavano l’Europa intera. Già nell’899 erano scese in Italia, chiamate dall’imperatore Arnolfo in aiuto contro il re Berengario I. Prestarono il soccorso richiesto, ma poi ne approfittarono per razziare e saccheggiare: Vercelli, Reggio Emilia, Modena furono tra le loro vittime. Tentarono persino, ma invano, di prendere Venezia, fabbricandosi appositamente delle barche con pelli di animali. «Alla loro violenza – scrive l’abate Reginone di Prüm – e al loro bestiale furore gli abitanti della terra, unitisi in un unico fronte, cercavano di resistere, ma una moltitudine innumerevole perì sotto le loro frecce e infiniti vescovi e

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Dag Tessore, "Ungheria baluardo della cristianità". Speciale pubblicato in: MEDIOEVO, Anno VI, n. 4 (63), aprile 2002.

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UNGHERIA, BALUARDO DELLA CRISTIANITA’di

Dag Tessore

(Medioevo, Anno VI, n. 4 (63), aprile 2002)

I. De sagittis Hungarorum libera nos, Domine! Gli Ungari pagani nella prima metà del X secolo.

Correva l’anno del Signore 953. I canonici di San Gaugerico, asserragliati nella loro basilica, cominciavano a riacquistare speranze: gli Ungari, non essendo riusciti ad espugnare la città di Cambrai, si erano accontentati di incendiare i sobborghi e di uccidere gli uomini che trovavano, ma giunti di fronte alla ricca e splendida basilica di San Gaugerico, che certo faceva gola alla loro brama di bottino, non erano riusciti a sfondarla. Almeno per questa volta sembrava che il pericolo fosse passato. All’improvviso però, proprio mentre i nemici stavano deliberando di ritirarsi, un chierico folle accovacciato sul campanile della chiesa ebbe l’idea di lanciare su di loro una freccia. La rabbia degli Ungari si riaccese all’istante, abbatterono il portale, irruppero nell’abbazia, fecero strage di religiosi. Intanto il fuoco cominciava a divampare da ogni parte, finché l’intera colossale struttura dell’edificio crollò su se stessa con immenso boato e il piombo delle tegole si riversò fuso in mezzo alle macerie e ai cadaveri. «Dopo di ciò – conclude la Cronaca dei vescovi di Cambrai -, radunati i prigionieri, con infinito bottino se ne andarono».

Ormai da più di cinquant’anni le orde ungariche terrorizzavano l’Europa intera. Già nell’899 erano scese in Italia, chiamate dall’imperatore Arnolfo in aiuto contro il re Berengario I. Prestarono il soccorso richiesto, ma poi ne approfittarono per razziare e saccheggiare: Vercelli, Reggio Emilia, Modena furono tra le loro vittime. Tentarono persino, ma invano, di prendere Venezia, fabbricandosi appositamente delle barche con pelli di animali. «Alla loro violenza – scrive l’abate Reginone di Prüm – e al loro bestiale furore gli abitanti della terra, unitisi in un unico fronte, cercavano di resistere, ma una moltitudine innumerevole perì sotto le loro frecce e infiniti vescovi e governanti furono massacrati». La Liturgia cominciò a pregare: «Dalle saette degli Ungari liberaci, o Signore!». Ma ciò non valse ad arrestarne le incursioni. Tra l’899 e il 958 circa, le loro truppe di cavalieri raggiunsero la Spagna, la Bretagna, la Danimarca, la Germania, la Puglia, la Grecia.

Chi erano questi uomini che riuscirono a mettere in ginocchio l’Europa e che si può dire rappresentassero, nella prima metà del X secolo, la potenza più temibile d’Europa? Non sappiamo molto sulla loro provenienza. Quel che è certo è che essi erano originari dell’Asia centrale, erano uno dei cosiddetti popoli della steppa. Di ceppo ugrofinnico (lo stesso da cui si dirameranno poi alcuni popoli del Baltico), essi duemila anni fa risiedevano probabilmente a sud dei Monti Urali. Più tardi, verso il VII o VIII secolo, si spinsero ad Occidente, nella regione del basso Volga, dove era stanziato l’impero dei Khàzari, un popolo seminomade e mercantile. Il re (o cagan) dei Khàzari era di religione ebraica, come pure i membri dell’aristocrazia, mentre i militari erano musulmani e il popolo in parte animista, in parte cristiano. Gli Ungari dunque convissero con loro per più di un secolo, come alleati o come sudditi: si misero anch’essi a praticare il commercio (soprattutto di pelli e di schiavi) e l’agricoltura, pur mantenendo la loro identità di pastori nomadi.

E’ curioso che il nome di Ungari derivi, molto probabilmente, dal termine turco onogur, con cui venivano designate le tribù bulgare. Ciò dimostra che gli Ungari (o Magiari, dal nome di una delle loro tribù) vissero in stretto contatto con i Bulgari, anch’essi per qualche tempo membri della “federazione” dell’impero khàzaro. I Greci però usavano la parola “Turchi” per indicare gli Ungari,

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i quali invero si erano notevolmente turchizzati proprio stando a contatto con i Bulgari e i Khàzari, entrambi di ceppo turco.

Nella metà del IX secolo i Magiari si avvicinarono ulteriormente all’Europa, stanziandosi in Moldavia (al confine orientale dell’attuale Romania). Gli imperatori d’Occidente, sempre in lotta con i re ribelli, trovarono interessante questa presenza di un popolo bellicoso ai confini dell’Europa: poteva servir loro da prezioso alleato. Fu così che, nell’862, Ludovico II il Germanico li invitò a prestargli aiuto contro suo figlio ribelle Carlomanno. E lo stesso fece, trent’anni dopo, l’imperatore Arnolfo, che chiese man forte agli Ungari per combattere quel fastidioso regno che si era venuto formando nell’attuale Slovacchia, con il nome di Grande Moravia. In tal modo essi cominciavano a frequentare e a conoscere quel territorio che diventerà la loro futura patria: l’Ungheria –l’antica Pannonia romana-. Del resto gli storici ungheresi moderni parlano proprio di una «conquista della patria».

Intorno all’892 infatti l’emiro samanide Ismail ibn Ahmed sferrò un attacco contro il popolo degli Oguzi, i quali si rifecero delle perdite subite assalendo un altro popolo della steppa, i Peceneghi. Questi ultimi a loro volta, per sfuggire agli Oguzi, scacciarono gli Ungari dalla loro sede in Moldavia, spingendoli verso la Romania e l’Ungheria. Il capo-tribù ungaro Álmos, responsabile di aver disonorato il suo popolo non essendo riuscito a respingere l’attacco pecenego, fu destituito e rimpiazzato con il figlio Árpád (capostipite della dinastia, detta appunto árpádiana, dei re d’Ungheria fino al 1301). Lo stesso Álmos, mentre i Magiari, diretti in Pannonia, si trovavano a passare attraverso i densi e oscuri boschi della Transilvania, ogni notte preda di spaventosi agguati da parte dei Peceneghi e dei loro alleati Bulgari, fu solennemente immolato alla presenza dell’intero popolo e di suo figlio Árpád, in una sorta di macabra cerimonia sacrale. Ciò avvenne nell’895.

A dire il vero alcune tribù ungheresi si erano già stanziate in Ungheria l’anno prima, quando erano state chiamate dal principe della Grande Moravia, Svatopluk, in aiuto contro i Franchi e i Bavaresi (che continuavano a rappresentare, in teoria, l’autorità del Sacro Romano Impero in quelle regioni). L’arrivo degli Ungari in quella occasione ci è descritto dagli Annali di Fulda: «Gli Ungari sono venuti al di qua del Danubio e hanno compiuto molte azioni orrende. Hanno ucciso uomini e donne anziane, prendendo con sé solamente le ragazze, come fossero vacche, per soddisfare la loro libidine. Hanno devastato e massacrato tutta la Pannonia».

Pur non rinunciando alle loro abitudini nomadiche, i Magiari erano ormai stabiliti in Ungheria. Di lì cominceranno ben presto a scorazzare per tutta l’Europa, in parte chiamati da diversi re e signori per combattere altri re e signori, in parte soltanto per fare bottino e portarsi a casa gli ori e i tesori delle ricche abbazie e chiese d’Europa (come facevano, negli stessi anni, anche i Saraceni e i Normanni).

Nel 955 avvenne una grande svolta: Corrado il Rosso di Lorena, cognato dell’imperatore Ottone I, aveva invitato gli Ungari ad allearsi con lui e con molti altri principi contro l’imperatore, ma questi li sbaragliò tutti nella famosa battaglia del Lechfeld presso Augusta, il 10 agosto. Gli Ungari, sconfitti non solo militarmente ma anche e soprattutto nel loro orgoglio guerriero, non osarono più atteggiarsi a padroni e non si sentirono più imbattibili. Decisero di instaurare un nuovo rapporto con le potenze occidentali. Scelsero la via dell’alleanza e dell’amicizia. Ma a quei tempi l’alleanza politica implicava necessariamente l’alleanza religiosa: se volevano essere amici dell’Occidente, gli Ungari dovevano diventare cristiani. Già qualche anno prima alcuni capi-tribù ungheresi, alleati con i Bizantini, si erano fatti battezzare, ma la svolta decisiva si ebbe con Géza, capo dei Magiari dal 970 al 997 e con suo figlio Vaik, passato alla storia col nome di Santo Stefano. Con lui l’Ungheria diventerà un paese cristiano, anzi: cristianissimo.

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II. L’Ungheria e il Cristianesimo

Nella Legenda del vescovo Artvico di Győr si legge che una notte dell’anno 1000 a Papa Silvestro II apparve un angelo: «Sappi che domani, all’ora prima del giorno, verranno a te messaggeri da un popolo sconosciuto, che ti chiederanno per il loro principe la corona regia insieme alla benedizione apostolica. Concedi al loro principe, senza opporti, la corona che hai fatto preparare». Qualche mese prima infatti Boleslao di Polonia aveva mandato a chiedere al Papa una corona. Il Papa la fece predisporre, ma all’improvviso l’angelo gli comandò di non darla più al sovrano di Polonia, bensì al sovrano ungherese Stefano, il quale, come il suo collega polacco, aveva inviato messaggeri a Silvestro II per ottenere un diadema che lo elevasse alla dignità regale.

L’ambasciatore ungherese Astrico poté tornarsene in patria con la sacra corona donatagli dal pontefice. E con quella medesima, la notte di Natale del 1000, consacrò, in qualità di legato apostolico, Stefano re d’Ungheria. Fino a quel momento questi era semplicemente dux Hungarorum, come pure suo padre Géza e i suoi antenati. Assurgere al rango reale significava molto, significava entrare nella compagine delle grandi nazioni “civili” dell’Occidente. Ma significava soprattutto diventare membro riconosciuto di quella Christianitas che costituiva la vera identità dell’Europa medievale. Stefano non avrebbe potuto diventare re, e tanto meno essere consacrato tale dalla suprema autorità spirituale che era il Papa, senza essere innanzitutto cristiano. Sappiamo che ancora suo padre Géza, pur essendosi fatto battezzare (con lo stesso nome del figlio, Stefano), continuava a sacrificare agli idoli pagani e a mantenere consuetudini “ambigue”. Sappiamo che i nonni di Stefano erano quelli di cui Liutprando di Cremona scriveva che «distruggono le fortezze, devastano le chiese, sgozzano la gente e, per farsi temere ancora di più, si abbeverano con il sangue degli uccisi». Stefano iniziava i suoi pronunciamenti «nel nome della Santa Trinità», «nel nome del Signore nostro Gesù Cristo»; meno di cento anni prima suo bisnonno inaugurava i giuramenti e i patti solenni bevendo il sangue di un cane squartato per l’occasione, secondo il rito bulgaro. Non c’è dunque da stupirsi che la svolta di Stefano sia stata per il suo popolo una vera e propria rivoluzione.

Già Géza aveva cominciato ad invitare missionari, ma fu Stefano il vero creatore dell’Ungheria cristiana. Fondò chiese, monasteri e concesse al clero tutti i privilegi possibili. Per questo il Papa lo nominò non soltanto re, ma «re apostolico». Le sue antiche biografie si dilungano nel raccontarci il suo amore per i vescovi e per i monaci, le lunghe ore che trascorreva nei conventi inginocchiato in preghiera o a colloquio con i claustrali. «Quanto più uno era religioso, tanto più gli era gradito». Sua moglie Gisella, bavarese, non era da meno in fatto di devozione. Il loro figlioletto, poi, Emerico, passava le notti a pregare con i salmi: «suo padre lo sorvegliava spesso con molte cautele, anzi in segreto, attraverso una fessura fatta nel muro, ma non voleva farlo sapere a nessuno della famiglia». La profonda sincerità del sentimento religioso di Stefano ci è testimoniato dalle sue Esortazioni al figlio, che mostrano un animo incendiato dall’amore per la Fede cattolica e per la Chiesa.

Dopo la sua morte, avvenuta nel 1038, non mancarono rigurgiti, anche molto violenti, di paganesimo. Andrea I (1046-1060) fu costretto a proclamare una legge terribile: «Qualunque Ungaro, o straniero in Ungheria, che non deponga il culto pagano e non ritorni subito alla vera fede di Gesù Cristo, e non abbracci la sacra legge trasmessaci dal santo re Stefano, sia punito con la perdita della vita e dei suoi beni». Dopo di lui il regno ungherese continuò sempre a presentarsi come campione della cristianità. Nemmeno cinquant’anni dopo la morte di Santo Stefano, salì al trono Ladislao I, tanto devoto alla Fede da essere anch’egli canonizzato da Roma. Il suo successore, Colomanno detto il Bibliofilo, era addirittura un vescovo! Ma non bisogna lasciarsi ingannare dall’apparenza: c’è anche un’altra faccia dei re ungheresi. San Ladislao, in occasione del sinodo di Szabolcs, acconsentì ad accettare, seppur temporaneamente, il matrimonio dei preti, in contrasto con le disposizioni papali del 1074. Quanto a Colomanno, pur essendo stato vescovo (con l’incoronazione regale ricevette la dispensa dalle sue funzioni episcopali), ebbe un atteggiamento

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piuttosto arrogante nei confronti del papato durante la lotta per le investiture. Insomma, gli apostolici re d’Ungheria non corrispondevano sempre alle aspettative di Roma.

Spesso si verificava anche un contrasto tra il re e l’arcivescovo di Esztergom, che era il Primate d’Ungheria e quindi il rappresentante di Roma. In particolare l’arcivescovo Lucács Bánffy, uomo severissimo, che aveva studiato a Parigi insieme a Thomas Becket e che era impregnato delle idee della riforma gregoriana, giunse addirittura a rifiutarsi di incoronare Béla III (1172-1196), poiché questi era stato educato nella “eretica” Bisanzio. Fu allora il più mansueto arcivescovo di Kalocsa ad incoronarlo. Lucács, per tutta risposta, scomunicò il re. E quando gli fu portato il pallio arcivescovile, lo rifiutò, poiché suo fratello aveva dato come ricompensa al messo un cavallo, e per Lucács questo significava simonia!

Tra alti e bassi il cristianesimo ungherese dava comunque soddisfazione ai papi, che vedevano nei re magiari pur sempre dei validi alleati. Géza II affiancherà il papa nella sua rivalità con Federico Barbarossa. Andrea II diventerà perfino il capo della Quinta Crociata (fallimentare). Ma sarà soprattutto nella lunga e ardua lotta contro i Turchi che l’Ungheria assurgerà a vero e proprio baluardo della cristianità, anche in considerazione della sua posizione geografica. Quando divenne re d’Ungheria il futuro imperatore Sigismondo di Lussemburgo, gli Ottomani avevano già cominciato ad intaccare notevolmente la solidità dell’Europa. Lo stesso Sigismondo, che nel 1395 aveva proclamato, con il sostegno di Papa Bonifacio IX, una crociata contro gli infedeli, fu da questi battuto duramente a Nicopoli. Il re cercò di riaffermare il suo orgoglio di defensor christianitatis nella lunga e inutile guerra che mosse contro gli eretici ussiti, culminata con la condanna al rogo di Jan Hus e Girolamo da Praga, per decreto del Concilio di Costanza, presieduto da Sigismondo stesso. Dopo la morte di quest’ultimo (1437), l’Europa sempre di più guardava all’Ungheria come all’unica nazione che avrebbe potuto difenderla dai musulmani. Nel 1442 le truppe del sultano Mezîd avevano fatto irruzione in Transilvania. Il re d’Ungheria Vladislao I indisse contro il Turco una crociata e nel ’44 varcò il Danubio con l’esercito comandato dal celebre generale Giovanni Hunyadi. Ebbe il sostegno militare anche del voivoda di Valacchia Vlad III (padre del ben più famoso Vlad IV Drakula, detto l’Impalatore). Ma la vittoria dei Turchi fu schiacciante.

Il passo decisivo avvenne nel 1453: Maometto II conquistava trionfalmente Costantinopoli, la sacra, l’eterna, la “seconda Roma”; e l’ultimo imperatore romano d’Oriente, Costantino XI, moriva durante l’assalto. Ancora una volta l’Ungheria fu lo scudo per l’Europa intera, terrorizzata dal crescente successo degli Ottomani. Nel 1456 essi stavano già per espugnare Belgrado, che avrebbe aperto loro la strada per l’Ungheria e per il resto dell’Occidente, ma Giovanni Hunyadi, con un esercito di pochi soldati, aizzati però dagli infuocati sermoni del frate abruzzese San Giovanni da Capestrano (inviato dal Papa proprio al fine di propagandare la crociata), riuscì a respingerli. Lo Hunyadi, considerato in Ungheria un vero e proprio eroe nazionale (nonché campione della Fede), stornò in tal modo il pericolo islamico per altri settanta anni. Egli però non poté godere i frutti del suo successo: l’11 agosto dello stesso anno, sulle rive del Danubio, morì di peste.

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III. Le punizioni nell’Ungheria medievale

Ancora una volta la figura centrale è Santo Stefano. Fu egli infatti il primo a far redigere per iscritto un codice legislativo, servendosi di scribi che operavano in una apposita cancelleria. Prima di lui gli Ungari non usavano neppure la scrittura, se non sporadicamente. Le loro leggi erano basate sulla consuetudine, sulle tradizioni delle singole tribù e sull’arbitrio dei capi. Stefano invece volle che il suo popolo avesse un codice scritto, al pari delle altre nazioni “civili” dell’Occidente. Si ispirò pertanto alle raccolte legislative dei Carolingi: molti articoli del suo codice riecheggiano chiaramente la Lex Alamannorum Karolina o il Capitulare de partibus Saxoniae. Stefano prende quindi le leggi dell’Impero germanico e le trasmette, un po’ adattate e modificate, al suo popolo. Allo stesso tempo però la sua profonda religiosità cristiana lo spinge ad assorbire anche molti elementi di legislazione ecclesiastica, tanto che il testo delle sue Leggi comincia proprio con due lunghi brani presi alla lettera dagli Atti del Concilio di Magonza.

Anche le Leggi dei suoi successori, Andrea, Ladislao e Colomanno, sono impregnate di elementi religiosi ed ecclesiastici. Andrea e Ladislao, ad esempio, prevedono punizioni per chi compie sacrifici pagani. Colomanno (ex-vescovo) addirittura si preoccupa di questioni prettamente liturgiche: «Legge LXXII: La Solennità della Santa Trinità sia celebrata dopo l’Ottava di Pentecoste». Lo stesso Stefano punisce chi non adempie il precetto della messa domenicale e chi non digiuna il venerdì.

In alcuni casi però la pena è rimessa nelle mani dell’autorità ecclesiastica: «Le prostitute e le streghe – scrive Ladislao – siano condannate ad arbitrio del vescovo». Molti casi perciò erano lasciati aperti: «Ne giudichi il vescovo in conformità al diritto canonico». O addirittura erano lasciati al “giudizio di Dio”: ad esempio, se un uomo sorprendeva sua moglie in adulterio e la uccideva, non veniva punito in alcun modo; era tenuto solamente a «rendere conto a Dio» nella sua coscienza.

A proposito del giudizio di Dio, poi, vale la pena soffermarsi brevemente su un altro punto: la legislazione dell’Ungheria medievale prevedeva e sanciva ufficialmente la pratica dell’ordalia, chiamata semplicemente iudicium legale. Quando era incerta la colpevolezza di qualcuno, costui veniva sottoposto a “giudizio” legandogli le mani da dietro e gettandolo in acqua: se rimaneva a galla voleva dire che era colpevole. Oppure gli si applicava un ferro rovente sulla mano: se dopo qualche giorno di cura il segno dell’ustione rimaneva, era da considerarsi colpevole. La Chiesa, già nell’887, aveva condannato le ordalie in quanto consuetudine superstiziosa. Nel 1063 nuovamente il Papa Alessandro II le condannò: nonostante ciò, pochi anni dopo, il cristianissimo re San Ladislao accolse pienamente nel suo codice di leggi la pratica dell’ordalia, giudicando che il tempo non era ancora maturo per sradicare dal suo popolo questa plurisecolare abitudine.

Un altro aspetto tipico della legislazione dell’Ungheria medievale consiste nel principio della discriminazione tra classi di soggetti giuridici: e innanzitutto fra chierici e laici. Se un laico ruba per un valore superiore a dieci denari, deve essere – secondo le Leggi di Ladislao – impiccato. Se è invece un chierico a commettere simile furto, è sufficiente che il vescovo lo degradi dal suo rango. E ugualmente vi è disparità di trattamento tra nobili e plebei: se un nobile disturba durante la messa deve essere rimproverato e cacciato fuori dalla chiesa; se invece è un plebeo, «deve essere legato di fronte a tutti, frustato e rasato».

Vediamo ora brevemente in cosa consistevano le punizioni applicate. Si tenga però conto che vigeva il principio del “riscatto”: la pena cioè, soprattutto nella legislazione di Stefano, che era più mite, poteva spesso essere commutata. Ad esempio, la punizione per lo spergiuro era il taglio della mano, ma il reo poteva “riscattare” la sua mano pagando il prezzo di cinquanta giovenche. Così pure: «se uno schiavo commette una volta un furto, restituisca ciò che ha rubato e dia in riscatto del proprio naso cinque giovenche, se può; se non può, gli sia tagliato il naso». Questa è una legge di Stefano. Ladislao invece è più severo: «Se uno schiavo viene trovato ad aver rubato, non possa commutare il suo naso con nessun prezzo».

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Quali erano dunque le punizioni inflitte ai colpevoli? Innanzitutto vi sono le pene corporali. Si va dal semplice obbligo a digiunare, fino all’amputazione della limgua (per gli adulatori), del naso o delle orecchie (per gli schiavi ladri). La fustigazione poi è riservata agli stregoni e a coloro che vanno a letto con le schiave altrui. Alle streghe invece si applica la marchiatura con ferro rovente «in segno di croce: sul petto, sulla fronte e sulle spalle».

Non c’è da stupirsi che fosse in vigore la legge del taglione («Se qualcuno sguaina la spada e colpisce un altro a un occhio o ad una mano, subisca lo stesso danno nel suo corpo») e la pena di morte (per chi trama contro il re, calunnia un governatore e – secondo le Leggi di Andrea I – anche per chi fa sacrifici pagani).

Un’altra categoria di punizioni è rappresentata dalle “umiliazioni”: un nobile che, durante la messa, «si mette a mormorare o a disturbare gli altri raccontando frivolezze», deve essere «redarguito ed espulso dalla chiesa con onta». Tipica pena di umiliazione era poi la rasatura (dipilacio): un uomo a cui venissero pubblicamente rasati i capelli e la barba, se ne sentiva profondamente disonorato. Si tratta di una pratica usata anche fuori dell’Ungheria: lo stesso cognato di Stefano, il doge di Venezia Ottone Orseolo, prima di essere esiliato, fu punito con la pubblica rasatura.

Un castigo terribile era la perdita della libertà. Se un uomo commetteva fornicazione per la terza volta con una schiava altrui, doveva diventare anch’egli schiavo (a meno che avesse la possibilità di riscattarsi con denaro). Parimenti, se una donna sposata rubava per la terza volta, doveva essere venduta come schiava. Esistevano infine le pene in denaro; ma si tenga presente che per gli antichi ungheresi il denaro per eccellenza erano le mucche e solo raramente si parla di multe in soldi (monete d’oro).

Scorrendo le leggi di Stefano, salta subito all’occhio la disparità tra il nostro criterio di gravità dei reati e il suo. Per Stefano il furto, ad esempio, era un delitto gravissimo: a uno schiavo che rubava per la seconda volta venivano tagliate le orecchie; se rubava per la terza volta veniva messo a morte. L’uccisione della propria moglie invece non era considerato che un reato da poco: un plebeo che lo commettesse era tenuto solo a pagare cinque giovenche e a fare digiuno.

La cosa più sorprendente però è l’estremo inasprimento delle pene sotto il regno di San Ladislao (1077-1095). «Se un giudice – decretava – non taglia il naso allo schiavo o non impicca il libero [che abbia commesso furto], il giudice stesso venga per punizione venduto e tutte le sue proprietà siano disperse». Ladislao introdusse nuove pene: l’impiccagione, l’accecamento (a un occhio o ad entrambi, a seconda dei casi), ecc. e riformulò alcune leggi di Stefano, giungendo a livelli di severità inaudita: «Se una donna sposata ruba, le si tagli il naso e sia venduta come schiava (…). Se una ragazza nubile ruba, sia venduta e non riottenga mai più la libertà». Se un libero rubava, veniva impiccato, ma se si rifugiava in chiesa, veniva solamente accecato: in cambio però i suoi figli, se avevano più di dieci anni, venivano ridotti tutti in schiavitù!

Un’aria ben diversa si respira nel codice legislativo del re Colomanno (1095-1116), ispirato a una mansuetudine evangelica e ad un senso di moderazione che colpiscono per il contrasto con la ferrea giustizia di Ladislao. La bontà di Colomanno non gli impedì tuttavia di promulgare leggi crudeli contro gli ebrei. La Legge XLIX li costringeva addirittura, in presenza di ospiti, a mangiare carne di maiale!

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IV. Mattia Corvino e l’occidentalizzazione dell’Ungheria

Chiunque avesse passato qualche giorno alla corte del re Mattia Corvino, avrebbe creduto di essere in Italia, nel pieno dell’Umanesimo e ai floridi albori del Rinascimento. Nella reggia di Mattia a Buda si sentiva parlare ovunque italiano o latino. I nomi dei cortigiani? Antonio Bonfini da Ascoli Piceno, storiografo ufficiale; Marzio Galeotto da Narni, autore del libro Detti e fatti egregi, sapienti e giocosi di Re Mattia; Benedetto da Maiano, architetto; Aristotele Fioravanti da Bologna, anch’egli architetto (morto poi a Mosca durante i lavori di costruzione del Cremlino). E la regina? Era Beatrice di Napoli, figlia del re Ferdinando d’Aragona. L’unica nota “stridente” in questo ambiente tutto italiano è la passione di Mattia per la musica zigana.

Siamo nella seconda metà del ‘400. Nel ’57 era morto, non ancora diciottenne, il re d’Ungheria Ladislao V, un uomo che più che a governare si era dedicato a godersi la vita: appena sveglio beveva vino greco aromatizzato e mangiava frutta candita; a pranzo ancora robusti vini austriaci, cantanti, ballerine e saltimbanchi. Per fortuna a difendere il regno dai Turchi (che in quegli anni, con la presa di Costantinopoli, avevano messo fine all’Impero Romano d’Oriente) ci pensava il generale Giovanni Hunyadi. E fu proprio la fama di quest’ultimo che, alla morte di Ladislao V, portò al trono il giovanissimo Mattia, figlio del generale. Mattia però si trovava in prigione, perché suo fratello László si era macchiato dell’omicidio del capitano Cillei. Soltanto dopo lunghe trattative il futuro re riuscì a riacquistare la libertà e poi a sbarazzarsi della fastidiosa tutela di suo zio Michele (lo fece rinchiudere in un remoto castello).

Mattia, detto Corvino dall’animale araldico del suo stemma, regnò sull’Ungheria per 32 anni, fino al 1490. Per alcuni aspetti può essere considerato un sovrano “militare” e quasi un crociato medievale: era piuttosto dispotico e si faceva rispettare servendosi della sua temibile “Armata Nera” (a cui si ispirerà, pochi decenni dopo, lo zar Ivan il Terribile). Intraprese numerose guerre e, per mostrarsi impavido di fronte agli Asburgo, giunse perfino a conquistare Vienna (1485) e a trasferire lì la sua residenza per alcuni anni. Fu inoltre uno dei pochi coronati d’Europa che dava retta ai grandiosi progetti di crociata contro i Turchi che tanto stavano a cuore a Pio II e agli altri Papi.

Tuttavia in Mattia la concezione medievale della Christianitas europea e della Chiesa “intoccabile” era ormai tramontata. Egli non ebbe timore di allearsi con le truppe di Napoli contro il Papa e di prendere sotto la sua protezione la città di Ancona che, ribellatasi al dominio pontificio, aveva persino chiesto al re magiaro di poter inalberare sulla torre civica la bandiera ungherese. Del resto il suo stesso mecenatismo, di cui tutta l’Europa sentiva parlare e che attirava letterati ed artisti da numerosi paesi, si muoveva in una direzione che, dal punto di vista cristiano tradizionale, era piuttosto ambigua: è vero che quasi tutti gli umanisti ungheresi del periodo furono ecclesiastici, per lo più vescovi; ma è anche vero che i suoi prediletti, come il famosissimo poeta Janus Pannonius e il già menzionato Marzio Galeotto, si dilettavano indulgendo in dottrine neoplatoniche e gusti paganeggianti che non potevano che suscitare lo sdegno di quei cristiani all’antica, quali il frate francescano Pelbarto Temesvari (che fu anche prolifico scrittore e predicatore) e il polemista tedesco domenicano Petrus Nigri: Mattia, vistosi nel mirino degli “ortodossi”, fece atto di diplomazia nominando quest’ultimo rettore dell’appena fondata Università di Bratislava. Ma il Nigri, da spirito medievale e antiumanistico qual era, si mostrò ostile ad ogni manifestazione artistica, letteraria e filosofica. Si oppose anche all’uso della stampa, che cominciava a diffondersi grazie alla prima tipografia costruita in Ungheria (1473) per volere di re Mattia.

Il fermento culturale della corte reale portò comunque al trionfo dell’Umanesimo. Erano sempre di più i letterati che si recavano a studiare in Italia, soprattutto dopo l’intensificarsi dei rapporti con questa, dovuto al secondo matrimonio del Corvino con la figlia del re di Napoli, Beatrice d’Aragona. Il grande Janus Pannonius aveva studiato a Ferrara, Padova, Roma e Firenze, e nelle sue composizioni si ispira palesemente ai poeti italiani contemporanei e al Petrarca; fu inoltre amico personale di Marsilio Ficino. L’altro grande umanista, il vescovo Giovanni Vitéz, non

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potendosi recare personalmente nella “mitica” Italia, vi mandò un gran numero di suoi discepoli e nella sua corte di Várad ricreò una sorta di Firenze ungherese; anche a Buda, come ricorda il suo amico libraio fiorentino Vespasiano da Bisticci, egli «ordinò uno bellissimo Istudio, e fecevi condurre più dotti uomini che poté trovare in Italia, non guardando a salario ignuno».

Chi ovviamente era più di tutti in contatto con l’Italia era il re, ottimo conoscitore per altro della lingua italiana (già a dieci anni sapeva di latino e di greco, poi apprese anche il tedesco e un po’ di turco). Mattia aveva tra i suoi amici il poeta Angelo Poliziano e il pittore Filippino Lippi, allievo del Botticelli, il quale nel 1488 fece un ritratto a distanza del sovrano servendosi di una moneta recante la sua effigie.

In realtà l’Ungheria era entrata nel consorzio della civiltà europea e della cultura occidentale già prima del Corvino. Un ruolo importante aveva avuto soprattutto la corte di Sigismondo di Lussemburgo che, essendo allo stesso tempo re d’Ungheria e imperatore, aveva fatto della corte magiara una corte internazionale, “paneuropea”, frequentata da numerosi umanisti, particolarmente italiani: Ambrogio Traversari, Poggio Bracciolini, Pier Paolo Vergerio e molti altri.

Certamente un fattore determinante, ai fini dell’occidentalizzazione sempre più marcata dell’Ungheria, fu il progressivo legame di quest’ultima con le grandi famiglie dinastiche europee. Dopo la morte, nel 1301, di Andrea III, ultimo re della dinastia nazionale árpádiana, ottenne il trono d’Ungheria Carlo Roberto d’Angiò, nipote del re di Napoli. Gli Angioini regnarono sull’Ungheria per quasi tutto il XIV secolo. Poi fu la volta di altre grandi famiglie (sempre straniere): Sigismondo di Lussemburgo, Alberto d’Asburgo, Vladislao Jagellone. Gli Jagelloni di Polonia diedero tre re all’Ungheria, tutti abbastanza inetti. L’ultimo sovrano di stirpe ungherese fu proprio Mattia Corvino Hunyadi il quale, pur avendo avuto due mogli, non ne ebbe alcun figlio; gliene nacque uno solamente da una relazione illecita con una borghese di Breslavia. Ma questo figlio illegittimo non poteva essere suo successore al trono; perciò, quando la domenica delle Palme del 1490 Mattia morì (in seguito ad una indigestione di fichi), prese il potere Vladislao II Jagellone e poi il figlio di questi Luigi II, incoronato re d’Ungheria all’età di due anni e salito effettivamente al trono all’età di dieci.

Giunse infine l’anno 1526. Il sultano Solimano il Magnifico si mise personalmente alla testa di un grande esercito di 100.000 soldati e mosse da Costantinopoli, ormai Istanbul, il 23 aprile. Luigi II, allarmato dalla notizia, cercò di radunare, tra l’indifferenza e il disimpegno delle altre potenze europee, tutte le sue truppe, a capo delle quali pose l’arcivescovo Pál Tomori. Lo scontro fu inevitabile e la sconfitta immane. Era la mattina del 29 agosto. L’esercito ungherese, di sole 25.000 unità, costituito in gran parte da ecclesiastici e nobili, fu sconvolto e annientato dalla potenza ottomana. Lo stesso arcivescovo Tomori cadde in battaglia combattendo e con lui 15.000 morti.

Al tramonto di quel 29 agosto, mentre giacevano sul campo di Mohács gli infiniti cadaveri dell’Ungheria e mentre il giovinetto re Luigi, fuggito per terrore della morte dal tumulto dei cavalli e delle spade, periva annegando nelle acque di un piccolo affluente del Danubio, tramontava l’Ungheria medievale, l’Ungheria che in Santo Stefano aveva avuto il suo padre e fondatore e in Mattia Corvino il suo ultimo splendore.

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“E’ vietato al mondo dei mortali di biasimare i vescovi!”Dalle Esortazioni al figlio di S. Stefano d’Ungheria (cap. III):

«L’ONORE DA TRIBUTARE AI VESCOVI. L’Ordine episcopale è l’ornamento del soglio reale e perciò i vescovi occupano il terzo posto nella dignità reale. Considerali, figlio carissimo, come tuoi padri: abbine cura come delle pupille dei tuoi occhi. Se godrai della loro benevolenza, non dovrai temere nessun avversario; se avrai il loro rispetto, sarai sicuro in tutte le cose e la loro preghiera intercederà per te presso Dio onnipotente. Dio infatti li ha stabiliti come custodi del popolo divino e sentinelle delle anime, nonché amministratori ed elargitori di ogni ecclesiastica dignità e del sacramento divino. Senza di essi nessun re può essere costituito tale né può regnare. Ed è per la loro intermediazione che i crimini degli uomini vengono cancellati. Se li amerai perfettamente, farai senza dubbio un bene a te stesso e governerai il tuo regno con onore. Nelle loro mani infatti è riposto il potere di legarci nei peccati e di scioglierci dai peccati, poiché Dio ha stabilito con essi un’alleanza eterna, li ha separati dagli uomini e li ha resi partecipi del Suo nome e della Sua santità; per bocca del sacrosanto Re Davide ha vietato al mondo dei mortali di biasimarli: :”Non toccate i Miei consacrati!” (Salmo 104). Tocca i consacrati di Dio colui che, contro la legge sia divina che ecclesiastica, sporca con false accuse o trascina in pubblico i membri dell’Ordine sacro. A te, figlio mio, assolutamente proibisco di fare ciò – se vuoi vivere felice e fare onore al tuo regno -, poiché è soprattutto in queste cose che Dio viene offeso».

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Bibliografia ragionata

Ben poche sono le opere pubblicate in Italia concernenti l’Ungheria medievale. Merita di essere qui ricordata innanzitutto la Storia e cultura dell’Ungheria di A. Papo e G. Nemeth (Ed. Rubbettino, 2000), che dedica più di duecento pagine all’antichità e al medioevo, diversamente da un’altra Storia dell’Ungheria, a cura di P. Hanák (Ed. Angeli, 1996), che all’epoca premoderna riserva solo pochi paragrafi. Va ricordata inoltre la Storia religiosa dell’Ungheria, a cura di A. Caprioli e L. Vaccaro (Ed. La Casa di Matriona, 1992), opera di diversi autori, quasi tutti ungheresi: non si tratta di una storia sistematica, bensì di una raccolta di conferenze su temi quali “La Cristianità europea e l’inserimento degli Ungari”, “Gli Ordini religiosi nel Medioevo”, ecc.Senz’altro degna di menzione è poi la recente traduzione delle opere del primo re d’Ungheria: Stefano d’Ungheria, Esortazioni al figlio – Leggi e decreti, a cura di D. Tessore (Ed. Città Nuova, 2001). Vi sono contenuti, con il testo latino a fronte, gli interessantissimi scritti (spirituali, morali e legislativi) del fondatore dell’Ungheria cristiana, scritti che finora non erano mai stati tradotti se non in ungherese. Da menzionare è anche il breve saggio di L. Tricarico, Stefano I d’Ungheria. Un faro millenario sul Danubio (Ed. ERGA, Genova, 1993). Opera più specialistica e riservata a un pubblico accademico, ma cionondimeno di grande interesse, è L’arrivo degli ungheresi in Europa e la conquista della patria. Fonti e lettura critica, a cura di C. Di Cave (Ed. Centro Studi Alto Medioevo, 1995). Ormai difficilmente reperibile è invece Le incursioni ungare in Europa nel X secolo di G. Fasoli (Firenze, 1945).

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Cronologia

V sec. d.C. Fine del dominio romano sulla Pannonia (attuale Ungheria occidentale)424 Insediamento degli Unni in Pannonia527 Arrivo dei Longobardi nel Transdanubio566 Arrivo degli Avari in Pannonia796 ca. Sconfitta degli Avari ad opera di Carlo Magno. Fine del loro dominio sulla

PannoniaIX sec. La Bulgaria e la Grande Moravia estendono il loro potere sulla Pannonia865 Conversione della Bulgaria al cristianesimo, sotto Boris I895 Stanziamento degli Ungari in Pannonia, sotto la guida di Árpád899 Inizio delle incursioni ungariche in Occidente924 Gli Ungari danno alle fiamme Pavia955 Sconfitta degli Ungari a Lechfelde (presso Augusta) ad opera dell’Imperatore

Ottone I966 Conversione della Polonia al cristianesimo, sotto Mieszko970 ca. Géza diventa sovrano degli Ungari e avvia il processo di cristianizzazione988 Conversione della Russia al cristianesimo, sotto Vladimir997 Muore Géza e gli succede il figlio Vaik, battezzato con il nome di Stefano1000 (25 dic.) Stefano incoronato re d’Ungheria con una corona inviatagli dal Papa Silvestro II1038 Morte di Stefano e ascesa al trono del veneziano Pietro Orseolo1077-1095 Regno di Ladislao I1095-1116 Regno di Colomanno1241 I Mongoli invadono e saccheggiano anche l’Ungheria1301 Con Andrea III il Veneziano finisce la dinastia árpádiana, iniziata negli ultimi

anni del IX secolo1308-1382 Regno degli Angioini di Napoli (Carlo Roberto e Luigi I) sull’Ungheria1387 Sigismondo di Lussemburgo (dal 1411 imperatore) diventa re d’Ungheria1396 I Turchi sconfiggono Sigismondo a Nicopoli1437-1444 Regni di Alberto d’Asburgo e di Vladislao I Jagellone1456 Giovanni Hunyadi, divenuto reggente dell’Ungheria, difende eroicamente

Belgrado dai Turchi1458-1490 Regno di Mattia Corvino, figlio di Giovanni Hunyadi1478 Mattia Corvino conquista Vienna1521 Belgrado cade in mano ai Turchi1526 Battaglia di Mohács: schiacciante vittoria dei Turchi. Inizio del dominio

ottomano sull’Ungheria, durato fino alla fine del XVII secolo

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L’arrivo degli Ungari a Pavia secondo la Cronaca di Liutprando da Cremona (III,1):

«Il sole lucente, abbandonato l’emisfero notturno, cominciava, come sempre, a salire nel cielo e a disciogliere le gelide brine e il vento cominciava a soffiare le sue quattro correnti, quando la furibonda mano degli Ungari si scagliò con brama contro la città, mentre i venti li aiutavano a propagare le fiamme… Ma gli Ungari non si accontentarono di bruciare con le sole fiamme: accorrevano da ogni parte e minacciavano di portare la Morte, trafiggevano con le frecce quelli che già l’aspro fuoco aveva atterrito. Così fu data alle fiamme, infelice, la bella Pavia! Come un vulcano il fuoco innalzava i suoi arti ai venti e si ergeva sui templi di Dio e insieme sull’urbe tutta. Le madri, i bambini, le vergini fanciulle tentavano di estinguere l’incendio, mentre la santa plebe dei catecumeni periva a torme… L’oro che da secoli era stato custodito in scrigni, perché mano straniera non lo toccasse, ora giaceva al suolo e si spandeva fuso nelle immense cloache… Avresti veduto fiumi d’argento e galleggiarvi dentro scintillanti calici e qua e là i corpi arsi di uomini nobili… Fu data alle fiamme, infelice, la bella Pavia nell’anno dell’Incarnazione del Signore 924, il 4 delle Idi di Marzo, XII di Indizione, Venerdì, all’ora terza del giorno».

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Un italiano sul trono d’Ungheria: Pietro Orseolo

E’ davvero curioso che già il secondo re d’Ungheria sia uno straniero: il figlio del doge di Venezia. Il re Stefano era morto senza lasciare eredi; sperava che sul suo trono sarebbe salito l’amatissimo figlio Emerico, ma il giovinetto perì durante un incidente di caccia. Il vecchio re scelse allora come successore Pietro, figlio di sua sorella Elena (o Grimelda) e del doge Ottone Orseolo. Alla domanda del perché un doge abbia deciso di sposare la sorella del re della neonata Ungheria, è facile trovare la risposta: egli voleva legarsi ad una casata di rango reale e l’Ungheria ormai lo era, anche se solo da pochi anni; inoltre tale nazione avrebbe potuto essere l’unica seria rivale di Venezia nella lotta per la supremazia sulla costa dalmata. Insomma, Ottone aveva buoni motivi per prendersi in moglie una principessa ungherese. Ma la situazione politica all’interno della Serenissima volse a suo sfavore. L’ostilità della famiglia Flabianico e del patriarca Poppone di Aquileia gli fu fatale: nell’autunno del 1026 il doge fu, in segno di umiliazione, rasato pubblicamente, deposto e spedito a Costantinopoli. Colà visse in pace con la moglie e il piccolo Pietro, finché Stefano decise di far venire alla sua corte il nipotino e gli si affezionò tanto da sceglierlo a suo successore. Alla morte del re dunque, nel 1038, l’italiano Pietro Orseolo divenne re d’Ungheria, osteggiato naturalmente dalla nobiltà magiara. I magnati ottennero persino di detronizzarlo nel 1041, mettendo al suo posto il capo-tribù ebreo Samuel Aba. Ma dopo tre anni Pietro riguadagnò il trono, finché nel 1046 Andrea, figlio di un cugino di Stefano, riuscì a farsi eleggere re d’Ungheria e subito provvide ad accecare Pietro e a rinchiuderlo in carcere, dove questi morì miseramente.

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Quando fu usata per l’ultima volta la Sacra Corona d’Ungheria?

Il 30 dicembre 1916 entrò processionalmente nella cattedrale di Budapest l’imperatore Carlo I, nipote di Francesco Giuseppe e suo successore, per farsi incoronare re d’Ungheria. Fu l’ultima volta nella storia che ebbe luogo la solenne cerimonia che si ripeteva da quasi mille anni, da quando cioè il fondatore del regno ungherese, Stefano, fu incoronato re la notte di Natale dell’anno 1000. Ora quella stessa corona (se prestiamo fede a una tradizione non del tutto inaffidabile), tanto venerata da essere stata sempre chiamata Sacra Corona d’Ungheria, veniva posta sul capo di Carlo. Quel fatidico 30 dicembre l’incoronazione si svolse secondo l’antico rituale, se si eccettua un episodio orrendo e inaspettato: il conte Bánffy, che aveva organizzato la cerimonia, fece entrare senza preavviso nella cattedrale una folla di reduci dal fronte, uomini insanguinati, piagati, zoppicanti, che, quasi spettri di morte, impressionarono e terrorizzarono tanto il novello re, che questi, al dire dei testimoni oculari, fu quasi sul punto di perdere i sensi. Nonostante ciò la solennità si concluse con la sua consacrazione a re d’Ungheria. Dopo la proclamazione della Repubblica, nel 1918, Carlo tenterà ancora ben due volte di riprendersi il trono legittimo, ma invano: morirà in esilio nell’isola di Madera, il 1° aprile 1922. Suo figlio Ottone d’Asburgo, tuttora vivente malgrado il peso degli anni, dopo essere stato eurodeputato a Strasburgo, si presentò nel 1990 come candidato alla carica di presidente della Repubblica d’Ungheria. Quanto alla Sacra Corona, essa non ha più re sul cui capo brillare e giace ora nel Palazzo del Parlamento a Budapest.

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La condizione degli schiavi nell’Ungheria di S. Stefano

Stefano accolse nella sua legislazione cristiana le regole e le consuetudini del suo popolo concernenti la schiavitù. Nelle Leggi sancì ufficialmente la distinzione giuridica tra uomini liberi e uomini schiavi (in latino servi). Lo schiavo poteva essere comprato e venduto. Ognuno aveva un prezzo, a seconda delle sue qualità e abilità. Tuttavia Stefano cercò di limitare il dilagare della schiavitù; nella Legge I,22 infatti proclama: «E’ sancito per decreto regale che d’ora in poi nessun governatore o militare osi ridurre in schiavitù una persona libera». E chi era schiavo poteva diventare libero (libertus), se il padrone voleva. Allo stesso tempo però il re ordinava di ridurre in schiavitù i liberi che avessero commesso certi reati, come il furto o la fornicazione (per la terza volta) con una schiava. E se un libero decideva di sposarsi con una schiava, doveva diventare anche lui schiavo. La conversione dell’Ungheria al cristianesimo non comportò affatto l’abolizione della schiavitù, anzi essa fu confermata e “ufficializzata” – in un certo senso sacralizzata – dalla nuova religione.

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La Biblioteca di Mattia Corvino

Una delle creazioni più illustri del mecenatismo di Mattia fu la famosa Biblioteca Corvina, da lui fondata a Buda e arricchita di pregiatissimi codici miniati. Dell’acquisto dei libri dall’Italia (soprattutto da Firenze) era incaricato Taddeo Ugoleto da Parma; altri testi invece venivano copiati direttamente a Buda da un gruppo di esperti amanuensi. I codici della Corvina, rilegati in velluto, ornati di fermagli d’oro e d’argento, splendidamente illustrati, sono tra i prodotti più eccelsi dell’arte miniaturistica medievale e rinascimentale. Il loro numero si aggirava intorno ai mille volumi (secondo in Europa soltanto alla Vaticana). Oggi ne restano appena 164, di cui 28 in Ungheria: gli altri sono dispersi in varie biblioteche, soprattutto italiane e austriache.

La Biblioteca di Mattia era luogo di studio, ma anche e soprattutto ospitava le dotte conversazioni tra gli umanisti, i cortigiani e il re stesso. Vi si svolgevano inoltre i fastosi concerti per strumenti e cori, voluti dalla regina Beatrice, appassionata di musica.

Mattia aveva l’abitudine di portarsi qualche bel manoscritto miniato sul comodino e di leggerlo a letto prima di addormentarsi. Nonostante gli impegni politici e militari, trovava tempo anche per questo. In una sua lettera scrive: «Ovunque si sente ripetere che tra le armi le Muse tacciono. Ma Noi, pur continuamente impegnati in guerre, concediamo alle lettere, con grande piacere e consolazione, il tempo che ci resta».

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V. Governo e giustizia nell’Ungheria medievale

Ancora una volta la figura centrale è Santo Stefano. Fu egli il primo a dare all’Ungheria un assetto amministrativo ben organizzato e una codificazione legislativa. Prima del suo avvento il potere era tenuto da vari capi-tribù, dei quali uno riusciva generalmente ad imporsi come signore di tutti gli Ungari; ma era un primus inter pares, non un sovrano istituzionalmente riconosciuto. Per il resto, il potere era gestito in modo “personale”, senza che vi fosse bisogno di particolari strutture amministrative. Stefano invece, che con la fede cristiana aveva abbracciato anche il modello politico dell’Occidente latino, volle riprendere da quest’ultimo tutto ciò che riteneva idoneo a fortificare il suo Paese e ad inserirlo a pieno titolo nel solco prestigioso della cristianità europea. Suddivise pertanto il territorio in contee (megye) sul modello carolingio e prepose a ciascuna un governatore o “conte” (ispán). Sotto il governatore di ogni contea vi era poi un “visconte” (alispán) e, per l’amministrazione dei villaggi e dei borghi, diversi villici, incaricati anche delle questioni giudiziarie minori. Quanto al governo centrale, esso era nelle mani del re, figura sconosciuta agli Ungari prima dell’anno 1000. Il re aveva un potere in teoria quasi assoluto, essendo il suo “Senato” o “Consiglio” un organo puramente consultivo. Se si eccettua l’autorità fortissima esercitata sulla sede reale dall’alto clero, il secondo nel regno dopo il sovrano era il conte palatino (nádorispán), anch’esso istituito proprio al fine di rafforzare la centralizzazione politica.

Il re Stefano, però, non si accontentò di creare solide istituzioni amministrative nel suo Paese: gettò anche le basi del sistema legislativo. Fu infatti il primo in Ungheria a far redigere per iscritto un codice, servendosi di scribi che operavano in una apposita cancelleria. Si trattò di una grande innovazione, dal momento che gli Ungari fino ad allora non usavano neppure la scrittura, se non sporadicamente. Le loro leggi erano basate sulla consuetudine, sulle tradizioni delle singole tribù e sull’arbitrio dei capi. Stefano invece volle che il suo popolo avesse un codice scritto, al pari delle altre nazioni “civili” dell’Occidente. Si rivolse pertanto alle raccolte legislative dei Carolingi: ma ne riadattò e modificò le leggi sì da renderle consone alle esigenze del suo popolo. Molti suoi articoli riecheggiano chiaramente la Lex Alamannorum Karolina, ad esempio, o il Capitulare de partibus Saxoniae. Allo stesso tempo però la sua profonda religiosità cristiana lo spinse ad assorbire anche molti elementi di legislazione ecclesiastica, tanto che il testo delle sue Leggi comincia proprio con due lunghi brani presi alla lettera dagli Atti del Concilio di Magonza.

Questa fusione tra legge civile e legge religiosa, che era del tutto consueta anche fuori dell’Ungheria, portò Stefano e i suoi successori Ladislao e Colomanno a prevedere pene per chi trasgrediva il precetto della messa domenicale o il digiuno del venerdì. In alcuni casi addirittura la sentenza è rimessa nelle mani dell’autorità ecclesiastica: «Le prostitute e le streghe – scrive Ladislao – siano condannate ad arbitrio del vescovo».

Un tratto peculiare della mentalità medievale, che trovò il suo posto nelle leggi di diversi Paesi, nonostante l’opposizione della Chiesa, era rappresentato dalla pratica delle ordalie. Già nell’887 Papa Stefano V e poi nel 1063 Alessandro II condannarono questa “superstizione”, ma essa fu dura a morire. In Ungheria era chiamata semplicemente iudicium legale. Quando la colpevolezza di qualcuno era incerta, costui veniva sottoposto a “giudizio” legandogli le mani da dietro e gettandolo in acqua: se rimaneva a galla voleva dire che era colpevole. Lo stesso cristianissimo re San Ladislao, pochi anni dopo la condanna di Alessandro II, accolse pienamente nel suo codice la pratica dell’ordalia, giudicando che il tempo non era ancora maturo per sradicare dal popolo questa plurisecolare abitudine.

Un altro aspetto della legislazione medievale, e quindi anche ungherese, consisteva nel principio della discriminazione tra classi di soggetti giuridici: e innanzitutto fra chierici e laici. Se un laico rubava per un valore superiore a dieci denari, doveva essere – secondo le Leggi di Ladislao – impiccato. Se era invece un chierico a commettere simile furto, era sufficiente che il vescovo lo degradasse dal suo rango. E ugualmente vi era disparità di trattamento tra nobili e plebei: se un nobile disturbava durante la messa doveva essere «redarguito ed espulso dalla chiesa con onta»; se invece era un plebeo, «doveva essere legato di fronte a tutti, frustato e rasato».

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Vi è molta somiglianza tra le leggi ungheresi e quelle del resto d’Europa. Tuttavia ciò che caratterizza in particolare le Leggi di Santo Stefano è la loro “mitezza”: se la Lex Burgundionum (una delle cosiddette Leges Romanae Barbarorum) prevede che il ladro, appena ruba, sia messo a morte, il codice di Stefano prescrive la stessa pena solo se il reo viene sorpreso per la terza volta a commettere un furto. E ugualmente si può notare che Stefano cerca di alleviare la severità della giustizia ricorrendo spesso (molto più spesso che altri sovrani europei e i suoi stessi successori) al principio del “riscatto”, ovvero della commutazione della pena. Ad esempio, la punizione per lo spergiuro era il taglio della mano, ma il reo poteva riscattare la sua mano pagando il prezzo di cinquanta giovenche.

Quali erano dunque i principali castighi inflitti ai colpevoli? Innanzitutto vi sono le pene corporali. Si va dal semplice obbligo a digiunare, fino all’amputazione della lingua (per gli adulatori), del naso o delle orecchie (per gli schiavi ladri). La fustigazione poi è riservata agli stregoni e a coloro che vanno a letto con le schiave altrui. Alle streghe invece si applica la marchiatura con ferro rovente «in segno di croce: sul petto, sulla fronte e sulle spalle».

Un’altra categoria di punizioni è rappresentata dalle “umiliazioni”. Tipico esempio è la rasatura (dipilacio): un uomo a cui venissero pubblicamente rasati i capelli e la barba, se ne sentiva profondamente disonorato. Si tratta di una pratica usata anche fuori dell’Ungheria: la subì lo stesso cognato di Stefano, il doge di Venezia Ottone Orseolo.

Un castigo terribile era poi la perdita della libertà. Se un uomo commetteva fornicazione per la terza volta con una schiava altrui, doveva diventare anch’egli schiavo (a meno che avesse la possibilità di riscattarsi con denaro). Parimenti, se una donna sposata rubava per la terza volta, doveva essere venduta come schiava. Esistevano infine le pene in denaro; ma si tenga presente che per gli antichi ungheresi il denaro per eccellenza erano le mucche e solo raramente si parla di multe in soldi (monete d’oro).

Scorrendo le leggi di Stefano, salta subito all’occhio la disparità tra il nostro criterio di gravità dei reati e il suo. Per Stefano il furto, ad esempio, era un delitto gravissimo: a uno schiavo che rubava per la seconda volta venivano tagliate le orecchie; se rubava per la terza volta veniva messo a morte. L’uccisione della propria moglie invece non era considerato che un reato da poco: un plebeo che lo commettesse era tenuto solo a pagare cinque giovenche e a fare digiuno.

La cosa più sorprendente però è l’estremo inasprimento delle pene sotto il regno di San Ladislao (1077-1095). «Se un giudice – decretava – non taglia il naso allo schiavo o non impicca il libero [che abbia commesso furto], il giudice stesso venga per punizione venduto e tutte le sue proprietà siano disperse». Ladislao introdusse nuove pene: l’impiccagione, l’accecamento (a un occhio o ad entrambi, a seconda dei casi), ecc. e riformulò alcune leggi di Stefano, giungendo a livelli di severità inaudita: «Se una donna sposata ruba, le si tagli il naso e sia venduta come schiava (…). Se una ragazza nubile ruba, sia venduta e non riottenga mai più la libertà». Se un libero rubava, veniva impiccato, ma se si rifugiava in chiesa, veniva solamente accecato: in cambio però i suoi figli, se avevano più di dieci anni, erano ridotti tutti in schiavitù!