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40 - Avventure nel mondo 2 | 2018 Da un Dancalia Solo RITORNO IN DANCALIA Sono passate due ore dalla partenza da Addis Ababa e stiamo volando per andare ad Harar, in un ambiente di savana arida, dominato dalle acacie, mentre qua e là appaiono crostoni di lava; superata Awash ecco i binari della vecchia e nuova ferrovia che congiungono la capitale al mare. Molte capanne degli Issa, fatte di giunchi e paglia intrecciata, talora coperte di stracci: sono popolazioni seminomadi del vicino Somaliland . Corriamo fra i 2300 e i 2700 m di ottima strada, curve e controcurve, paesaggio mosso, montagne oltre i 3000 metri. Nei villaggi donne con vivaci shamma chiacchierano e lavorano; le più anziane portano grosse cataste di legna sulla schiena e procedono veloci nonostante il peso. Harar sta al centro di una fertile pianura agricola, sino a poco tempo fa specializzata nella produzione di buon caffè e ora più prosaicamente del ben più redditizio qat. Nonostante abbia giocato un ruolo preminente nei passati conflitti fra musulmani, cristiani e galla, oggi è estremamente tollerante e dal punto di vista religioso e da quello culturale: non è solo Patrimonio dell’Umanità per la sua struttura urbanistico- monumentale, ma ha anche avuto il riconoscimento UNESCO di “città della pace e della tolleranza” dato che vivono insieme famiglie di diversa etnia e credo religioso. Siamo alla Porta della Shoa davanti alla superba cinta muraria, alta ben 5 metri: la guida Benjamin ci illustra con grande entusiasmo il passato della città, fondata – dice la leggenda – nel X secolo da Sheikh Abadir, qui giunto con un gruppo di migranti arabi per fuggire dalle persecuzioni in patria. In breve tempo la città diventa nodo cruciale dei traffici, crocevia di commerci e culture, idealmente situatacom’è fra le highlands dell’Etiopia a ovest e le coste del golfo di Aden a est. Si pone come centro dell’Islam, con moschee frequentate dai grandi predicatori e mederse gestite da illustri teologi. La struttura attuale è del XVI secolo e fu data dall’Emiro Nur : cinta muraria per difenderla dalle incursioni dei cristiani e dagli Oromo con opportune fortificazioni e masti; sei magnifiche porte , che si chiudevano al tramonto, sempre sorvegliate; chi arrivava più tardi doveva dormire negli appositi spazi addossati alle mura. Non erano ammesse armi: ognuno doveva lasciarle alle guardie in ingresso Pesantemente oppressa da Menelik, come del resto tutte le aree “insubordinate”, conobbe maggiore libertà con il nipote Yiasu, che però fu deposto dall’imperatrice Zeiditu per “abiura della religione cristiana” in quanto Iyasu aveva adottato una legislazione permissiva nei confronti dei musulmani. Gli infedeli non poterono entrare qui dal 1500 al 1885, quando lo fece l’esploratore Burton travestito da mercante. Non è che la vita sia cambiata molto: addossate alle porte, le Oromo vendono legna e spendono poi i loro saperi Testo e foto della coordinatrice Marisa Da Re RACCONTI DI VIAGGIO | Etiopia www.viaggiavventurenelmondo.it/viaggi/2107

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40 - Avventure nel mondo 2 | 2018

RACCONTI DI VIAGGIO | East Africa

Da un Dancalia Solo

RITORNO IN DANCALIA Sono passate due ore dalla partenza da Addis Ababa e stiamo volando per andare ad Harar, in un ambiente di savana arida, dominato dalle acacie, mentre qua e là appaiono crostoni di lava; superata Awash ecco i binari della vecchia e nuova ferrovia che congiungono la capitale al mare. Molte capanne degli Issa, fatte di giunchi e paglia intrecciata, talora coperte di stracci: sono popolazioni seminomadi del vicino Somaliland . Corriamo fra i 2300 e i 2700 m di ottima strada, curve e controcurve, paesaggio mosso, montagne oltre i 3000 metri. Nei villaggi donne con vivaci shamma chiacchierano e lavorano; le più anziane portano grosse cataste di legna sulla schiena e procedono veloci nonostante il peso. Harar sta al centro di una fertile pianura agricola, sino a poco tempo fa specializzata nella produzione di buon caffè e ora più prosaicamente del ben più redditizio qat. Nonostante abbia giocato un ruolo preminente nei passati conflitti fra musulmani, cristiani e galla, oggi è estremamente tollerante e dal punto di vista religioso e da quello culturale: non è solo Patrimonio dell’Umanità per la sua struttura urbanistico-monumentale, ma ha anche avuto il riconoscimento UNESCO di “città della pace e della tolleranza” dato che vivono insieme famiglie di diversa etnia e credo religioso. Siamo alla Porta della Shoa davanti alla superba cinta muraria, alta ben 5 metri: la guida Benjamin ci illustra con grande entusiasmo il passato della città, fondata – dice la leggenda – nel X secolo da Sheikh Abadir, qui giunto con un gruppo di migranti arabi per fuggire dalle persecuzioni in patria. In breve tempo la città diventa nodo cruciale dei traffici, crocevia di commerci e culture, idealmente situatacom’è fra le highlands dell’Etiopia a ovest e le coste del golfo di Aden a est. Si pone come centro dell’Islam, con moschee frequentate dai grandi predicatori e mederse gestite da illustri teologi. La struttura attuale è del XVI secolo e fu data dall’Emiro Nur : cinta muraria per difenderla dalle incursioni dei cristiani e dagli Oromo con opportune fortificazioni e masti; sei magnifiche porte , che si chiudevano al tramonto, sempre sorvegliate; chi arrivava più tardi doveva dormire negli appositi spazi addossati alle mura. Non erano ammesse armi: ognuno doveva lasciarle alle guardie in ingresso Pesantemente oppressa da Menelik, come del resto tutte le aree “insubordinate”, conobbe maggiore libertà con il nipote Yiasu, che però fu deposto dall’imperatrice Zeiditu per “abiura della religione cristiana” in quanto Iyasu aveva adottato una legislazione permissiva nei confronti dei musulmani. Gli infedeli non poterono entrare qui dal 1500 al 1885, quando lo fece l’esploratore Burton travestito da mercante. Non è che la vita sia cambiata molto: addossate alle porte, le Oromo vendono legna e spendono poi i loro saperi

Testo e foto della coordinatrice Marisa Da Re

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Da un Dancalia Solo

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nei mercatini dei cibi e degli oggetti per la casa; all’interno di Jugol, la città vecchia, altre donne accoccolate davanti agli usci di case colorate offrono cestini di pomodori e qualche frutto. Visitiamo un’abitazione “adari” : attraversato il piccolo cortile, subito si entra nell’ambiente principale, di ricevimento e di incontro, disposto su quattro livelli, dove gli ospiti si accomodano per censo, posizione in città e cultura. La sala di ingresso ha un’unica grande finestra per la ventilazione ed un’ampia porta rivolta o a est dove nasce il sole o a ovest dove tramonta; sopra la porta uno o più tappeti indicano le figlie da sposare. Cucina e bagno sempre fuori. Alle pareti bellissimi cesti : quelli neri di sicomoro fatti dagli uomini, quelli colorati con disegni realizzati dalle future spose per testimoniare la loro bravura e serietà, ma anche i loro sogni, da donare alle suocere. Ora questi, così preziosi, sono sostituiti da vivaci catini cinesi appesi insieme. Dalla sala principale si passa, entrando a sinistra, alla camera nuziale: la sposa doveva andare nella casa della suocera e rimanere all’interno del talamo nuziale da 4 a 10 giorni; al massimo poteva uscire in cortile; per il cibo e l’acqua vi era una finestrella. Nel “transito” fra le due stanze vi è una nicchia con anfore speciali a collo lungo chiuse da un tappo; all’interno venivano messe le ricchezze della famiglia: nella prima le monete; nella seconda i gioielli; nella terza le sementi. In caso di pericolo erano sepolte. Al primo piano una stanza per gli anziani, che fungeva anche da magazzino per le granaglie. Continuiamo la nostra passeggiata per i 396 vicoli di Jugol (“fermati e guarda”) notando altre tipologie di case: quelle dei mercanti armeni con balaustra/balconcino sulla strada; le più ricche dei mercanti indiani dei primi XIX secolo e soprattutto inumerosissimi simboli islamici: ben 82 piccole, deliziose moschee e 438 Awaach, cioè sepolcri di importanti studiosi della religione di Allah. Un ottimo caffè tradizionale bevuto nel bel bar sulla grande piazza, la Feres Magala (= Piazza dei Cavalli), dalla quale si dipartono i cinque assi principali della città, ci rinfranca e ci permette di osservare un po’ di gente e di ambiente: la piazza è dominata dal monumento a coloro che combatterono Menelik e dalla chiesa, le persone si muovono con calma, è domenica, fa caldo, si contratta qualcosa soprattutto cibo. Passiamo poi per la famosa via Girgir Makina con i sarti e parecchi negozietti di stoffe per arrivare al mercato della carne di chiara impronta fascista. Gli Italiani, arrivati qui alla fine degli anni ’20 per costruire l’impero, hanno lasciato impronte architettoniche ben visibili ancora oggi. Gli uccelli aspettano numerosi che qualcuno perda un pezzetto di carne o glielo offra per scendere in picchiata e nutrirsi. Siamo invitati ad un pre pranzo di nozze da un amico di Benjamin: ci viene offerto un grande vassoio con ottimo riso e mucchietti di carne e verdura; festeggiamo con lui, ma anche con la sposa e i suoi elegantissimi amici, che occupano una dépendence vicina. E’ poi la volta della famosa casa di Rimbaud, il poeta/avventuriero francese, che visse ad Harar per dieci anni occupato in lavori poco raccomandabili; in realtà l’edificio è stato costruito da un ricco mercante indiano ed ospita una interessante mostra

fotografica. Continuando giungiamo al palazzo di Ras Tafari, il futuro Hailé Selassié, nato in un sobborgo di Harar, che nel palazzo passò la sua giovinezza: c’è una sua splendida foto a cavallo, capelli al vento, a 18 anni. Infine due luoghi emblematici: il piccolo shrine dell’emiro Nur, dove siamo accolti da un sufi, e quello ben più grande di Sheikh Abadir, dove è in corso una funzione collettiva con canti e preghiere. E’ il tramonto, tutto diventa più sfumato, anche il colorato cimitero islamico fuori della città o i piccoli mercati delle donne oromo, che continuano le loro attività sottovoce. Il pasto delle iene è una tradizione da cinquant’anni e due famiglie hanno questo rapporto speciale con gli animali; stasera è in tono minore, perché non c’è il loro amicoYusuf: anche se il sostituto le chiama per nome e mostra i bei pezzi di carne e osso, si avvicinano guardinghe, afferrano al volo il cibo e lo mangiano ai bordi dei cespugli; poi si nascondono.Un paesaggio di altopiano, aridità, laterite, qat e sorgo, gente in movimento, eucalipti infestanti, salite e discese, ci accompagna nel percorso per il famoso “Buffet d’Aouache”: è realmente un posto storico, dove la figlia della mitica Madame Kiki, consumata dal sole e dalla solitudine, vive in un altro tempo, quello del passato. I binari si perdono nelle sabbie, la stazione ferroviaria è cadente, il grande serbatoio dell’acqua arrugunito….in più vedere i propri edifici che hanno conosciuto tanta popolarità e gloria, che hanno fatto la storia di questa parte dell’Etiopia, che ospitavano l’imperatore, andare lentamente in disfacimento è terribile. Il parco di Awash in novembre non offre molto:vale solo per l’apparizione di 4 pastori Kereyu, alti, superbi nelle loro tuniche bianche, perfettamente inseriti nella savana arida, che non ci degnano i uno sguardo. Oggi dobbiamo andare al mercato di Asayta la vecchia capitale della Dancalia, sulla direttrice fra il porto di Tadjura sul mar Rosso e il fiume Awash; forse è fuori dal mondo, ma la sua posizione geografica era straordinaria: il fiume Awash, che qui si perde in mille rivoli, consente una buona agricoltura che dà un sostanziale benessere a tutta la zona. Gli autisti non sanno affatto dov’è il mercato, ma chiedendo un po’ in giro lo troviamo; il mercato degli animali è ancora in piena attività, perché un toro si è ribellato portando scompiglio, aizzando gli altri bovini e costringendo tutti alla massima attenzione. Sono begli esemplari di zebù, ben nutriti; le persone, uomini o ragazzi, inizialmente diffidenti davanti alle macchine fotografiche, si sono poi rilassati, anzi hanno apprezzato i primi piani scattati da Alice, Andrea e Gianni. Molte le case in costruzione con l’intelaiatura di eucalipto, che verrà poi riempita con argilla e paglia e “ripassata” con una mano di calce bianca . Sostiamo per uno spuntino al Bashe Amare Hotel e poi andiamo alla Moschea con il curioso piccolo minareto, in giro per le stradine dove si

affacciano decine di case colorate e in piazza dove, concluso il mercato, le donne rientrano piene di pacchi, stipate nei tuc tuc. Ripassiamo per Semera, la nuova capitale degli Afar, vera e propria cattedrale nel deserto di polvere, costruita in parte con l’aiuto dell’Unione Europea e dove otterremo i permessi per la Dancalia. Fra

nere rocce vulcaniche, sabbia ocra e uadi inariditi, arriviamo nel tardo pomeriggio con una luce straordinaria al lago Afdera, azzurrissimo. Il “Lago dalla Punta Lunga”, vulcano alle spalle che vi si riflette, isoletta nel mezzo, saline bianche ai bordi, è l’ex lago Giulietti, dal nome del nostro esploratore qui ucciso nel 1881, mentre, partito da Assab con 11

marinai e 2 compaesani, tentava di raggiungere l’Etiopia meridionale. Non si era fatto molto amare in loco, per i suoi modi arroganti e quel suo trattare tutti da servi. Fu Raimondo Franchetti, altro esploratore italiano, a trovarne le spoglie 50 anni dopo, come descritto nel bel libro di Andrea Semplici “Camminando sul fondo di un mare scomparso”. Il barone Franchetti partì il 3 marzo del 1929 da una località ai confini fra Eritrea ed Etiopia ed in soli 16 giorni arrivò al lago Afdera; vi rimase qualche tempo, salì sul vulcano Afdera considerato sacro dagli Afar e andò in barca all’isoletta, poi si portò sull’altopiano, scese e, riattraversando nuovamente la Dancalia, questa volta da ovest a est, si imbarcò ad Assab tornando in Italia. Noi arriviamo giusto alle sponde del lago, c’è una grande tranquillità: montiamo le tende rapidamente, desiderosi di immergerci nell’acqua semisalata prima e nella pozza calda poi. Lo sfruttamento delle saline è iniziato solo dalla fine degli anni ’90 del XX secolo: nei 45 kmq lavorano ben 506 piccole compagnie ed un numero imprecisato di operai. L’acqua del lago viene pompata in tre vasche, dove si deposita formando il pack di sale dopo 20/30 giorni. Il sale è quindi insaccato, portato nella fabbrica di Afdera, dove subisce una prima lavorazione e aggiunta di potassio; quindi viene spedito in camion ad Addis Ababa per ulteriore raffinazione e venduto in Etiopia, Somalia e Sudan. Gli operai vengono dall’altopiano nella pausa dei lavori agricoli oppure sono militari che hanno finito il servizio oppure disoccupati….e si riposano nel villaggetto dove noi arriviamo finito l’interessante giro. Qui ad Afdera affittiamo le due guardie e la road guide, che verranno con noi sino a Berhe Ale. Dopo 20 km lasciamo l’asfalto ed eccoci sulla pista per Ksrawat, feudo di Kylisa, il capo che controlla tutto: quanto si paga per salire sull’Erta Ale, che militari, quanti dromedari……..E’ in una stanza, dove regna un silenzio totale, in riunione con i suoi adepti: Netsi, il capo autista, gli si avvicina con modi deferenti, io aspetto di essere presentata e che Kylisa almeno si alzi in piedi se proprio non mi tenderà la mano. Ha sicuramente un aspetto autorevole, pistola al fianco e mi viene incontro con molta gentilezza (!), avrebbe bisogno di un paio di occhiali da vista 2,5! Gli do i miei di riserva e in un battibaleno

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sistemiamo l’aspetto finanziario e ci facciamo pure una foto! L’insediamento di Ksrawat ha qualche edificio pubblico in muratura (anche qui intervento UE) e numerose burre (tende) disperse in un’area indefinita, è un villaggio di discrete dimensioni con molti uomini in giro, ma pochissime donne…arriva un camion di aiuti alimentari. Un’ora e mezza di pista molto dura per fare i 12 km che ci separano dal campo base dell’Erta Ale, dove arriviamo alle 14: fa caldo e ci rifugiamo in una capanna dove consumiamo lo spuntino che ci ha preparato Tazfaye, il nostro cuoco. Arrivano anche i due dromedari col relativo conducente: carichiamo l’acqua per noi, per i militari di guardia, per la scorta e le guide; i materassini e i sacchi a pelo; i panini serali. Siamo impazienti di salire, il vulcano è, con il Dallol e la piana del sale, il motivo del viaggio: verso le 17 eccoci in cammino con i nostri zainetti, le macchine foto, le due guardie e le guide. All’inizio si procede su una distesa di sabbia e lapilli con parecchi cespugli, non fa nemmeno tanto caldo o almeno noi non lo sentiamo; poi si cammina su roccia vulcanica in leggera salita. Alle 18.15 il buio scende improvvisamente, ma non c’è nemmeno bisogno di accendere la frontale: la luna illumina bene il sentiero, siamo avvolti in un grande silenzio, non si parla, ognuno sta con i suoi pensieri assaporando la salita, mentre si intravvedono i primi bagliori rossastri. A sinistra ci pare di scorgere i tre hornitos, sentinelle dell’Erta Ale. A 50 metri dalla cima il sentiero si fa più ripido: eccoci arrivati, accolti dai militari, che mostrano a Roberto il deposito delle armi. I dromedari sono già lì, scarichiamo tutto e posizioniamo i materassini dentro gli igloo di pietra; poi scendiamo i 40 m verso la caldera dell’Erta Ale,camminando sul tappeto di fragile lava vetrificata e cercando di evitare le zaffate di zolfo che si alzano dal cratere. Ci affacciamo al bordo con prudenza …………. appare un mare rosseggiante in tempesta, lo strato di lava che scende e sale, ribolle, si inabissa e torna ad innalzarsi, spingendo ai lati la lava già presente. Quando tutto sembra tranquillo e si vedono “disegnati” solo i contorni del lago, improvvisamente ripartono le fontane di lava, mentre l’odore di zolfo si fa più penetrante. Non possiamo distogliere lo sguardo, è uno spettacolo incredibile, primordiale, la formazione della terra! La “Montagna che Fuma”, come la chiamano gli Afar, è alta 613 metri ed è caratterizzata da laghi di lava, a seguito del moto convettivo fra lago e camera magmatica, che consente la costante risalita della lava ad una temperatura di 1200°. Occupa una superficie di 2350 kmq: i sedimenti corallini e i depositi di sale intorno testimoniano che la depressione era un tempo occupata dal mar Rosso; il vulcano sta sull’asse principale della faglia, che attraversa la regione, e che evidenzia l’allontanamento della placca arabica da quella africana con la conseguente fuoriuscita di magma come nelle dorsali oceaniche. Sono solo cinque i vulcani al mondo con laghi di lava e l’Erta Ale è il più semplice da visitare: individuato nel 1906, fu sistematicamente studiato dal 1968 al 1974, poi – a seguito della guerra fra Etiopia ed Eritrea – le spedizioni cessarono sino al 2002. Noi abbiamo

visto il lago di lava del cratere sud, ma è ampio anche quello del cratere nord e , da recenti foto, pare che una colata di lava ne sia “uscita” e sia scesa sulla pianura sedimentaria per ben 16 km, evento questo rarissimo che non si verificava da migliaia di anni. Dopo due ore i militari ci impongono di tornare agli igloo e nel mentre arrivano due gruppi di francesi. La notte passa velocemente, alle 5 siamo già in piedi, prepariamo tutto per i dromedari e ridiscendiamo verso il cratere: ma il vulcano è arrabbiato, solo grande vapore e due bagliori a mala pena visibili. Torniamo allora al campo base, fa caldo, apprendiamo che dovremo risalire sino ad Abala e poi scendere a Berhe Ale, perché la pista diretta per Ahmed Ela non si può percorrere. Per fortuna a Berhe Ale c’è il mercato settimanale, piccolo ma interessante: mulino molto attivo, sarti, calzolai, venditori di unguenti, oggetti particolari come le ghirbe grandi e piccole di pelle di capra, merci cinesi, donne attivissime, colorate, in fila per acquistare da un potente vecchiaccio gli aiuti umanitari del PAM e dell’ONU, che dovrebbero essere gratuiti. E’ un mercato duro, solo i bambini sorridono, giriamo banco per banco osservando tutto, ma la gente non vuole essere fotografata! Nel primo pomeriggio siamo ad Ahmed Ela, il villaggio base per l’area di Dallol: è un villaggio strutturato, di burre sì, ma con scuola primaria, moschea, un negozio e tanti luoghi di ritrovo dove si può bere qualcosa. Qui vengono i cavatori del sale a riposarsi e chiacchierare, passa il pulman che li porta al lavoro, parecchie famiglie vi abitano. Noi affittiamo i letti per dormire all’aperto , c’è una capanna per cucinare ed una veranda dove stare. Il lago Assale è vicino, ad una ventina di minuti di jeep: bisogna andare con militari e road guide; verso le 16:30 siamo in questa distesa di sale a perdita d’occhio, segnata da poliedri più e meno regolari, talora coperta d’acqua. In lontananza appaiono forme indefinite, quasi miraggi, man mano che si avvicinano riconosciamo carovane di dromedari e asini: procedono con calma, ma senza soste, seguendo ordini gutturali emessi dai guidatori, vengono a caricare le mattonelle di sale. Una luna gigantesca si è alzata, il cielo si va colorando di rosa, siamo fuori dal tempo. Ritorniamo alla piana il mattino dopo per vedere i cavatori del sale, che con temperature sui 50°, sotto un sole abbagliante, in un mondo senza colori, “estraggono” il sale. E’ un lavoro organizzato, dove ognuno ha un suo compito: gruppi di 3-4 tigrini cristiani ortodossi provenienti dall’altopiano sollevano con lunghe leve di legno le pesanti lastre di sale dalla coltre desertica; gli intagliatori, Afar musulmani, squadrano con corte piccozze mattonelle di dimensioni ben definite (2 o 6 kg); i cammellieri, che hanno ordinato il sale, le caricano sui dromedari, asini e muli per trasportarle sull’altopiano, seguendo sentieri antichi, che ripercorreranno con granaglie e cibo per i lavoratori. E’ un inferno dantesco, una fatica infernale: molti non hanno nessuna protezione, calzano sandali cinesi di plastica, le mani incartapecorite, gli occhi semichiusi, le gambe che barcollano quando si alzano: eppure sono sorridenti, gentili, chiedono solo occhiali da sole, calzettoni e

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riprendono subito il massacrante lavoro a cottimo, che consente loro di sopravvivere. Cerchiamo di familiarizzare attraverso gli autisti nel piccolo “bar” dove si può bere un the o un caffè, mentre due musulmani si inchinano per la preghiera rivolti alla Mecca. E’ anche il giorno di Dallol: superato il breve tratto di massi neri, restiamo attoniti di fronte ad uno scenario, visto più volte nelle foto o su you tube, ma dal vivo eccezionale: una distesa di concrezioni gialle, arancio, verdi; cloruri ferrosi ed emissioni di ossido di ferro che si accumulano nelle pozze; un terreno che ha tutte le sfumature del marrone…….è una visione incredibile, che appartiene ad un altro pianeta! Dallol, vulcano collassato, si è formato nel Miocene per effetto di eruzioni freatiche dovute all’attività idrotermale per l’incunearsi del magma basaltico sotto depositi di sale. La sottile crosta del terreno copre piscine di acidi colorati, ognuna delle quali ribolle attraverso minuscoli hornitos; piccoli geysers sono ovunque ed emettono fumi tossici; è un fiorire di conetti vulcanici che borbottano instancabili: un’attività frenetica sta sotto ai nostri piedi, camminando si teme di distruggere qualcosa che si è formato durante migliaia di anni. Dallol sta a -130 m slm e non riceve nemmeno 200 mm l’anno di precipitazioni; le temperature sono roventi da maggio a settembre, non è solo il sole a causare il caldo, ma il complesso di vapori e odori da cui si è circondati. Seguendo la nostra bravissima guardia Abdul, che ci indica come muoverci per limitare i danni, giungiamo a quello che è oggi il “villaggio fantasma”: su una superficie abbastanza vasta sono abbandonati, erosi dalla ruggine e dal tempo, scheletri di camion Fiat, pezzi di binario, cisterne, una caldaia di locomotiva senza motore, costruzioni con mattoni di sale semicrollate: è l’insediamento della Compagnia Mineraria Coloniale, che qui scavava potassio ai primi del XX secolo. In realtà la concessione era stata data dal Negus ai fratelli Pastori, i primi a vedere l’inferno di Dallol, e ad intuire che la ricchezza era il potassio. Questo nel 1912. Erano però troppo piccoli per poterla gestire, così la concessione passò alla CMC creata in Libia, ma con sede a Torino, controllata dalla Banca Italiana di Sconto, il cui principale azionista era Giovanni Agnelli. Durante la Prima Guerra Mondiale la fame di potassio era enorme e quindi furono fatti affari d’oro dai tycon italiani! Nell’aprile del 1918 fu persino creata una ferrovia a scartamento ridotto per portare il minerale al porto di Mersa Fatma in Eritrea. Finita la guerra, la Compagnia non realizzò più i profitti attesi e fu liquidata nel 1929, lasciando lì operai italiani ed etiopi. Ma Tullio Pastori ebbe una seconda concessione, un anno prima dell’invasione fascista dell’Etiopia, ma l’impero italiano finì con la sconfitta all’Amba Alagi nel 1941. Dopo la II guerra, gli Inglesi eliminarono la ferrovia e smantellarono parte del villaggio italiano: senza l’accesso al mare, per giunta in un’area così problematica, nessuna estrazione mineraria risultava conveniente. Invece venne poi l’americana Ralph Parson Co. come ci ha detto Alì la nostra guida e poi la Allana canadese, sempre per il potassio utile come

concime, per aumentare la resistenza delle piante alle malattie e il loro rendimento………….ma la Allana è stata venduta nel 2015 al gigante Israel Chemical Ldt per l’impossibilità di avere i capitali necessari da investire qui. Attualmente comunque, ironia della sorte, viene estratto sempre e solo il sale! Oggi è l’ultimo giorno in Dancalia e siamo impegnati nel trekking da Asso Bole a Melabdy: alle 7:30 siamo alla partenza ed attendiamo l’asino e il suo conduttore per il trasporto dell’acqua; ci accompagna il fedele Abdul con il suo bel kalashnikov lucidato. Camminiamo sul greto del Saba, il fiume carsico che garantisce l’acqua agli abitanti di Ahmed Ela. Incontriamo subito un paio di carovane ferme a riposare: alcuni uomini stanno ancora facendo colazione con the e pane, mentre altri assicurano il carico di sale ai dromedari, già pronti a ripartire; ciascun cammelliere controlla dai 10 ai 12 animali più gli asini. Noi procediamo con calma nella gola, siamo spesso all’ombra, non fa affatto caldo, ci godiamo la passeggiata in un ambiente straordinario: acqua azzurrina, greto bianco, montagne dalle mille sfumature ocra, beige, marrone, giallo, cicogne nere che svolazzano intorno ai nidi per evitare qualche rapace, si chiacchera piacevolmente. Dopo tre ore una sosta insieme con i pastori in riva al fiume : alcuni impastano la farina, altri preparano il the, una ragazza scende da una capanna con un bricco di caffè, si fraternizza. Ora l’orizzonte si è allargato, il letto del fiume è maestoso, anche se l’acqua scorre solo al centro. Decine e decine di dromedari e molti asini attendono, sono più carovane insieme. Riprendiamo il cammino, seguendo le tracce di Abdul, che lancia richiami vari perché è del posto; poi chiede il permesso di allontanarsi ed incontra un paio di bambinetti, forse suoi figli. Ad una biforcazione lasciamo il Saba, prendendo a sinistra uno dei suoi rami, che ha potentemente modellato a gradoni il terreno; un uomo sta setacciando le sabbie e ci mostra le pagliuzze d’oro trovate. E’ una bellissima giornata, sono passate cinque ore, il caldo comincia a farsi sentire. Quasi improvvisamente arriviamo al villaggio di Melabdy, accolti da un turbinio di bambini e ragazzi increduli. Ci fermiamo alla capanna che vende bibite, dove incontreremo gli autisti. Paghiamo il padrone dell’asino e il bravo Abdul, mentre si materializzano all’orizzonte le tre jeep. Si è conclusa la nostra permanenza nel territorio degli Afar, popolo fiero e indipendente, che abita e si muove in questa regione di scarse risorse. La loro leggendaria ostilità va vista nel contesto culturale: sono stati “forgiati” da un ambiente durissimo; le regole tradizionali dicono che il capo tribù è responsabile di quanto avviene nel suo territorio; le strade passano attraverso aree che appartengono a loro; le decisioni del governo centrale sono state prese senza interpellarli

concretamente e spesso non li hanno favoriti; non sono asserviti al turismo, certamente oggi lo sfruttano e se ne avvantaggiano, ma non sembra interessare loro il rapporto “umano” con il turista. Non si conosce molto degli Afar per la mancanza di una lingua scritta: sono circa un milione e mezzo in Etiopia, trecentomila a Gibuti, più di mezzo milione in Eritrea; la loro società fu storicamente strutturata in sultanati indipendenti come quello

di Aussa; si erano stanziati soprattutto intorno al porto di Suakin sul mar Rosso, mantenendo stretti legami e consistenti scambi non solo culturali con le coste arabe; vi era e forse vi è tuttora la presenza di due classi: gli Asayahamara (o i Rossi) più legati alla terra e gli Adoyahamara, (i Bianchi) allevatori e operai, in posizione subalterna rispetto ai primi. In gran parte pastori seminomadi di zebù, dromedari, asini e capre, si muovono seguendo il ritmo delle piogge, con le loro burre (tende) di giunchi intrecciati, che si smontano velocemente; alcuni sono agricoltori nella fertile zona del fiume Awash; altri cavatori di sale; altri ancora occupati nella burocrazia locale e centrale. Sono musulmani sunniti, ma il loro islam ha accolto le credenze e le tradizioni pre-islamiche; pensano che certi alberi abbiano sacri poteri; credono che lo spirito dei morti sia influente e ne celebrano la giornata; fanno offerte al mare perché protegga i loro villaggi; molti portano amuleti di cuoio che contengono erbe e versetti del Corano; potrebbero avere quattro mogli, ma sono per lo più monogami. Non paiono interessati all’Islam radicale, certo però ne sono a conoscenza! I I nostri autisti hanno tenuto atteggiamenti deferenti nei confronti dei “capi”, formali con guide e militari, mai familiarizzato; non capiscono (né tentano) gli Afar, li trovano esosi nelle loro richieste, che variano anche da un gruppo all’altro.Noi li abbiamo apprezzati, ci sono sembrati fieri delle proprie usanze, consci della specificità di un ambiente che può dare loro migliori condizioni di vita, indifferenti all’estraneo, che non mettono a proprio agio, l’ostacolo maggiore essendo rappresentato dalla lingua, per cui il rapporto diretto è impossibile. Siamo stati un gruppo in sintonia, desideroso di vedere e soprattutto di capire; abbiamo condiviso tutto: cibo e birra, letture e mappe, aspettative e discussioni, situazioni e informazioni, incontri ed emozioni ed apprezzato ogni momento di questa Dancalia a lungo attesa. Non capita sempre!

RACCONTI DI VIAGGIO | Etiopia