CULTURA Introduzione all’antropologia - Mellillo, Pasquinelli

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CULTURA: Introduzione all’antropologia Carla Pasquinelli e Miguel Mellino CULTURA: lo strumento per la conoscenza dell’altro. Insieme dei valori, norme e abitudini collettive che regolano la vita quotidiana dei diversi gruppi sociali. Tra i tanti nomi spicca JOSEPH-FRANCOISE LAFITAU (1681-1747), un missionario francese che dopo un lungo soggiorno nel Nord America pubblicò nel 1724 I costumi dei selvaggi americani comparati con quelli dei tempi più antichi, dove dimostrava la presenza di tratti ricorrenti delle più diverse società, da quelle primitive a quelle dell’antichità classica. Finché è rimasta patrimonio esclusivo degli antropologi, la cultura è stata concepita come una categoria neutrale. PRIMA PARTE GENEALOGIE 1) ARCHEOLOGIA DEL SAPERE ANTROPOLOGICO 1.1 UNA NUOVA UNITA’ DISCORSIVA Una disciplina è fatta di un oggetto, concetti per studiarlo e metodi per rendere possibile tale studio. Questi elementi costituiscono “una unità discorsiva”. ANTROPOLOGIA significa discorso dell’uomo. Il termine designa un gruppo di discipline che vanno dalla antropologia fisica all’antropologia culturale o sociale. Per circoscrivere l’unità discorsiva bisogna focalizzarsi sull’aggettivo qualificativo: culturale. Sia l’antropologia fisica che quella culturale tentano di spiegare la diversità umana. Il primo fonda le sue premesse sulla natura, il secondo sulla storia. 1.2 LA RAZZA Da molto tempo per definire le differenze fisiche tra i vari gruppi umani si è fatto ricorso alla nozione di “razza”. Fu LINNEO, un naturalista del ‘700, a proporre una classificazione basata sui caratteri morfologici distintivi (naso, faccia, capelli etc.) e sull’appartenenza geografica. Ma questa classificazione continentale era basata solo sul colore della pelle. Le caratteristiche fisiche e mentali sono state concepite da GOBINEAU (considerato il padre del razzismo e autore del Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane - 1855), in quanto per egli è proprio questa disuguaglianza fisica e mentale che fa di ogni gruppo umano una “razza”. 1

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CULTURA: Introduzione all’antropologiaCarla Pasquinelli e Miguel Mellino

CULTURA: lo strumento per la conoscenza dell’altro. Insieme dei valori, norme e abitudini collettive che regolano la vita quotidiana dei diversi gruppi sociali.

Tra i tanti nomi spicca JOSEPH-FRANCOISE LAFITAU (1681-1747), un missionario francese che dopo un lungo soggiorno nel Nord America pubblicò nel 1724 I costumi dei selvaggi americani comparati con quelli dei tempi più antichi, dove dimostrava la presenza di tratti ricorrenti delle più diverse società, da quelle primitive a quelle dell’antichità classica.

Finché è rimasta patrimonio esclusivo degli antropologi, la cultura è stata concepita come una categoria neutrale.

PRIMA PARTEGENEALOGIE

1) ARCHEOLOGIA DEL SAPERE ANTROPOLOGICO

1.1 UNA NUOVA UNITA’ DISCORSIVAUna disciplina è fatta di un oggetto, concetti per studiarlo e metodi per rendere possibile tale studio. Questi elementi costituiscono “una unità discorsiva”.ANTROPOLOGIA significa discorso dell’uomo. Il termine designa un gruppo di discipline che vanno dalla antropologia fisica all’antropologia culturale o sociale. Per circoscrivere l’unità discorsiva bisogna focalizzarsi sull’aggettivo qualificativo: culturale.Sia l’antropologia fisica che quella culturale tentano di spiegare la diversità umana. Il primo fonda le sue premesse sulla natura, il secondo sulla storia.

1.2 LA RAZZADa molto tempo per definire le differenze fisiche tra i vari gruppi umani si è fatto ricorso alla nozione di “razza”.Fu LINNEO, un naturalista del ‘700, a proporre una classificazione basata sui caratteri morfologici distintivi (naso, faccia, capelli etc.) e sull’appartenenza geografica. Ma questa classificazione continentale era basata solo sul colore della pelle. Le caratteristiche fisiche e mentali sono state concepite da GOBINEAU (considerato il padre del razzismo e autore del Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane - 1855), in quanto per egli è proprio questa disuguaglianza fisica e mentale che fa di ogni gruppo umano una “razza”.Oggi la categoria di razza è screditata, in quanto è stata per lungo tempo il sostegno teorico della discriminazione e del razzismo e anche perché ha perso ogni validità scientifica.Con la scoperta dei fattori sanguigni trasmessi per via ereditaria si è favorito l’adozione dei metodi della genetica delle popolazioni. Da allora il problema della diversità umana non si è affrontato più in termini di razze ma in termini di distribuzione di geni. In altre parole la specie umana è formata da numerosi popolazioni che si differenziano in base alla struttura genetica.

1.3 L’ORIGINE: Un falso problemaDi solito si è abituati a dare una appartenenza, un’ origine alle cose. C’è chi sostiene che questo dell’origine sia un falso problema in quanto l’apparizione di un nuovo campo di sapere è spesso il risultato di circostanze casuali, che trova una collocazione solo a posteriori. Quasi sempre la nascita di una scienza risponde alla richiesta di conoscenza da parte della società, a seguito di modifiche nel paesaggio sociale che le discipline tradizionali non sono più in grado di interpretare.

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L’antropologia culturale ha segnato l’inizio della modernità: la scoperta dell’America. Il 1492 è vista quindi come la data di rottura di una visione monocentrica del mondo, e l’incontro con altre culture e altri popoli.Prima di essere riconosciuta come tale, ogni scienza attraversa un lungo periodo di gestazione nel quale si accumulano materiali, significati, concetti. Anche per l’antropologia ci vorranno tre secoli di storia e di riflessione prima di diventare una disciplina.

1.4 SUPERFICI DI EMERSIONEMICHEL FOCUCAULT sosteneva che le discipline non creano i loro campi di significato, ma legittimano una particolare organizzazione di significato.Al pari delle altre discipline, l’antropologia ha ereditato una serie di discorsi (pratiche discorsive che emergono all’improvviso e si materializzano all’interno del tessuto sociale a partire da esperienze quotidiane regolate da procedure di controllo, appropriazione, di mediazione e di esclusione, e che una volta costituite divengono potenti, poiché i discorsi sono fatti di parole, e le parole rappresentano il mondo) che precedevano la sua formalizzazione. La cultura ha convertito in un sapere i significati ereditati dall’antropologia culturale, delimitando un nuovo campo di indagine.Nel ‘500 con la conquista dell’America si sono stratificati informazioni su altri modi di viveri, racconti di usi e costumi.Questo vasto archivio di immagini dell’alterità costituirà le condizioni di una nuova unità discorsiva, che prenderà il nome di “Antropologia Culturale”.

1.5 APPROSSIMAZIONI SUCCESSIVE Anche per l’antropologia la formazione del suo oggetto di indagine ha richiesto un tempo lungo. Un primo movimento è costituito da un campo aperto di significati generali della scoperta dell’Altro (la messa in discorso dell’Altro). Vi è un secondo movimento che si fa strada lentamente e che consiste in un movimento di sospensione, in una precisa distanza dal proprio mondo che può indurre a un riposizionamento delle proprie categorie. Si tratta di un “sapere discorsivo” che è arrivato fino a noi attraverso la redazione di testi.STUART HALL ha spiegato che “Non c’è mondo esterno, che esiste in maniera indipendente dai discorsi che lo rappresentano. Quello che è la fuori è costituito in parte dalla sua messa in discorso.”Nel nostro caso ciò che è “la fuori” sono le descrizioni di un’umanità sconosciuta così come ignoti scrittori l’anno rappresentata nei loro scritti. Sono testi che parlano di eventi, credenze, costumi, pratiche, che lasciano testimonianza dell’esistenza di culture al di fuori del nostro mondo. E che sono costituiti da una parte dai giornali di bordo, resoconti di viaggiatori, e dall’altra da testi di filosofi, intellettuali, scienziati, che tentavano di spiegare la natura dei selvaggi americani e nel frattempo facevano una riflessione critica della propria società e cultura. Il risultato di questi studi è stata la nascita di una disciplina chiamata “antropologia culturale”.

1.6 LA SCOPERTA DELL’ALTROCon la scoperta dell’America (12 ottobre 1492) inizia l’età moderna, che rompe con la visione di un mondo che ha principio e fine con le Colonne d’Ercole.Questa svolta storica è anche il luogo d’origine dell’antropologia culturale, l’inizio di un processo di accumulazione di dati e conoscenze che a metà dell’ ‘800 sfocerà nella nascita di questa nuova disciplina.Le sorti dell’antropologia culturale sono legate alla progressiva scoperta di tutte quelle popolazioni che abitano n ei nuovi territori, la cui esplorazione contribuirà ad allargare i confini fisici, sociali e simbolici del nostro mondo.I messaggeri del Nuovo Mondo sono esploratori, conquistatori, missionari, viaggiatori, mercanti, scienziati etc. etc. che vanno alla conquista di nuovi territori e che sono legati da un sentimento di curiosità disinteressata per tutto ciò che quelle terre lontane sembrano promettere.Nei loro resoconti emerge una difficoltà nel descrivere e comunicare tale diversità.

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Nell’esplorazione della Cina, dell’India o dell’Africa c’è un diffuso senso del meraviglioso, ma non c’è mai stato quel sentimento di “estraneità radicale” che ha caratterizzato l’impatto con il Nuovo Mondo, in quanto di esso si ignorava perfino l’esistenza.

1.7 L’INVENZIONE DELL’ALTROQuando Cristoforo Colombo scoprì l’America era convinto di essere arrivato in Asia. Quanto si rese conto di aver scoperto nuove terre cercò parole per descriverle.TZVETAN TODOROV nel suo libro La conquista dell’America , riconduce il rapporto con l’Altro (tutte quelle popolazioni del globo che si sono sviluppate al di fuori dei confini dell’Occidente che a quei tempi coincidevano con l’Europa) a tre tipologie principali: 1 Assiologica: il nostro sapere dell’Altro è costruito a partire dal nostro sguardo;2 Prasseologica: si tratta di un sapere relazionale poiché la conoscenza dell’Altro si colloca all’interno della relazione tra noi e gli Altri;3 Epistemologica: è un sapere fondato su una relazione asimmetrica poiché si è costituito all’interno di pratiche di dominio e di assoggettamento.Nel suo giornale di bordo Cristoforo Colombo descrive tutta la sua meraviglia sulle nuove popolazioni incontrate, e in un secondo momento questa “impossibilità” di concepire l’Altro lo spingerà a ricondurre le cose viste nel Nuovo Mondo alle cose del Vecchio Mondo (etnocentrismo: la tendenza di considerare gli altri a partire dai propri parametri di valutazione e di giudizio).Questo artificio simbolico fu fatale per il re azteco Moctezuma II° che, credendo di riconoscere nello spietato e astuto conquistatore del Messico, Cortés, il mitico dio Quetzacoatl, lo accolse con tutti gli onori favorendo la caduta del proprio regno e la conquista spagnola del Messico.

1.8 LA CONQUISTA E IL GENOCIDIOCon i conquistadores cambia totalmente la forma di rapporto con l’Altro, che appare motivata esclusivamente da fini pratici.La vittoria degli spagnoli fu facilitata dalla loro conquista di decifrare la cultura indigena. Cortés riuscì a interpretare i codici locali di comunicazione, riconoscendo attraverso l’abbigliamento i capi che cercavano di mimetizzarsi.La conquista dell’America diede luogo ad un genocidio di proporzioni mai viste, riducendo a 10 milioni, gli 80 milioni di abitanti che popolavano il continente americano.Poco è rimasto della memoria dei vinti, poiché la storia della conquista è stata narrata dai vincitori.Le informazioni sugli abitanti del Nuovo Mondo provengono da una parte dalle cronache dei conquistatori, dall’altra dai resoconti di quei spagnoli che presero le difese degli indiani. Il più noto resta BARTOLOME’ DE LAS CASAS, un missionario domenicano, che oltre a prendere le difese degli Indios, è stato tra i critici più duri del sistema di colonizzazione spagnolo.

1.9 LE MISSIONIL’altra grande fonte di notizie sono le relazioni dei missionari che si trovavano nel Nuovo Mondo con lo scopo di diffondere il cristianesimo. Ciò permise loro di apprendere le lingue locali, stabilire un rapporto quotidiano con gli abitanti del luogo e conoscere i modi di vivere degli indigeni, contribuendo a meglio realizzare il proprio fine di conquista (tipologia prasseologica).L’opera di evangelizzazione ebbe inizio nel 1500. I primi ad arrivare furono i francescani e i domenicani, e in seguito i gesuiti che lasciarono le descrizioni più dettagliate degli usi e dei costumi degli indiani americani. Per i gesuiti l’idea di missione si ricollegava all’idea della crociata contro gli infedeli.L’evangelizzazione è stata una forma violenta di acculturazione, in quanto la cultura dei conquistatori fu imposta alle popolazioni autoctone, cancellando tradizione, memoria e identità. Uno sterminio che mirava a sostituire le antiche credenze con la nuova fede cattolica.Le conseguenze più vistose di questo processo di acculturazione furono di due tipi: da una parte il cristianesimo non riuscì a sostituirsi pienamente alle religioni autoctone, finendo così solo per delegittimare e distruggere la cultura tradizionale; dall’altra parte dette luogo a varie forma di sincretismo religioso

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pagano - cattolico, un amalgama di credenze e pratiche native e cristiane, dovuto al fatto che l’evangelizzazione era stata superficiale ma anche alla resistenza indigena.Buona parte dei propri simboli religiosi venne preservata dagli indios, che li riprodussero sui muri dei conventi e delle chiese, riuscendo a camuffare e a far sopravvivere le proprie divinità all’interno delle chiese.Ci furono anche indios che si convertirono, diventando per i missionari un modello di virtù cristiane. In questo contesto nacque il mito del buon selvaggio che sarà all’origine di quello settecentesco laico e illuminista .

2) IL SELVAGGIO NELLA COSCIENZA EUROPEA

2.1 DISPUTE TEOLOGICHEA partire dal ‘500 l’Europa si è dovuta confrontare con il problema di come inserire le popolazioni dei nujovi territori nel quadro di una visione del mondo sviluppatasi in un contesto fisico, sociale e morale assai più ristretto. Un problema che poteva trovare soluzione solo attraverso forme di conoscenza più sistematiche e che portò teologi, filosofi, moralisti e uomini di cultura del tempo a interrogarsi sulla natura di quelle genti lontane.Si tratta della terza tipologia (epistemologica) che fa della conoscenza il fine stesso del confronto con l’Altro. Una conoscenza non mossa da scopi pratici. Lo scopo era quello di catturarli all’interno della propria riflessione, per trovarne una collocazione nei principi e valori dell’Europa cristiana. Il loro status di esseri umani fu a lungo oggetto di contestazione, tanto che fu necessario un intervento delle gerarchie ecclesiastiche. Il Papa Paolo III° chiarì nella sua enciclica Sublimis Deus (1537) che per la Chiesa gli indiani erano “veri uomini che erano in grado di comprendere la fede cattolica e desideravano di riceverla”.La teologia si trattò di pensare “il selvaggio” attraverso il sistema di credenze e di valori al momento dominante. Il selvaggio sarà visto come l’espressione di un’umanità degradata, secondo cui esso non è altro che l’esempio della degenerazione dell’uomo dopo essere stato cacciato dal Paradiso terrestre a causa del peccato originale.Con il tempo questa forma di etnocentrismo andrà radicalizzandosi fino a diventare molto più esplicita. Era la loro stessa esistenza a portare la Chiesa e la cultura teologica di fronte a una questione radicale, la salvezza eterna.Fu proprio grazie al suo etnocentrismo se attraverso il confronto con i pagani dell’antichità si resero familiari e dunque pensabili i nuovi pagani. Il riconoscimento di uomini in possesso delle stesse doti dei popoli dell’antichità portò ad attribuire loro uno statuto di umanità e di uguaglianza.

2.2 LA MUTEVOLEZZA DEI COSTUMI: MONTAIGNEDopo i teologi furono i filosofi ad essere attratti dai selvaggi americani. Il primo a prenderli sul serio fu MICHEL DE MONTAIGNE (1553-1592) che dedicò loro due capitoli dei suoi Essais, e nei quali rivalutava l’umanità e l’intelligenza e condannava la ferocia della conquista spagnola.All’origine della sua riflessione vi è la percezione della mutevolezza del mondo, provocata dai sconvolgimenti della cultura nella storia europea che segnarono il XVI secolo. Il primo è l’affermarsi della rivoluzione copernicana (1543) basata sulla tesi che è la Terra insieme agli altri pianeti a ruotare intorno al sole (eliocentrismo); il secondo è la crisi del pensiero aristotelico che veniva sostituito dalla nuova concezione della natura basata sulla nascita di n sapere scientifico fondato sull’esperienza e sul rifiuto della metafisica. Si tratta quindi di due eventi che posero fine alla centralità che aveva avuto l’uomo nell’universo nella tradizione filosofica europea. Vanno ricordate anche le guerre di religione tra cattolici e protestanti che contribuirono ad aumentare il tasso di instabilità e incertezza.Montaigne decise dunque di ripartire dalla teoria del “dubbio universale” (Sesto Empirico). Dubitare di tutto, della nostra stessa religione. Egli sosteneva che ogni società avesse la sua legge e che non esistesse una morale fondata sul criterio assoluto di verità. Sono le consuetudini, su cui si basa una società, a decidere di ciò che è bene e di ciò che è male.

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2.3 UN DOPPIO REGISTROCon Montaigne inizia a delinearsi la figura del “buon selvaggio” sia nella rivalutazione dei costumi degli Altri che nella critica dei propri. E’ sempre con lui le società amerille non possono più essere considerate inferiori, in quanto il loro modo di vita è solo diverso dal nostro.Montaigne si muove su un doppio registro: la natura e la consuetudine. Da una parte l’arbitrarietà e la mutevolezza dei costumi lo spinge a ritornare alla natura nella sua purezza originale, quale principio unitario dell’uomo. Dall’altra la consuetudine resta la categoria centrale del suo pensiero che trova all’interno della sua concezione scettica il presupposto epistemologico per una formulazione ante litteram del relativismo culturale. Tale relativismo si trasforma in un’arma critica della società del suo tempo, come testimonia la sua paradossale tolleranza nei confronti del cannibalismo, che diventa una mossa strategica per denunciare la tortura praticata nelle guerre di religione tra protestanti e cattolici. Ma l’aspetto filosoficamente più rilevante di tale posizione relativista sta nell’avere anticipato una consapevolezza più ampia di cui sarà portatrice l’antropologia culturale: le consuetudini sono una particolare costruzione storico-sociale.

2.4 LO STATO DI NATURA: ROUSSEAUJean-Jacques Rousseau (1712-1778) elaborerà una riflessione filosofica sull’uomo a partire da una migliore conoscenza della sua diversità. Egli può essere considerato il padre fondatore dell’antropologia culturale per due motivi: per aver posto “il problema dei rapporti tra la natura e la cultura” e per aver individuato l’oggetto proprio dell’antropologo distinguendolo da quello del filosofo.L’opposizione tra natura e cultura equivale per Rousseau a quella tra uguaglianza e diseguaglianza. Le diseguaglianze fanno parte dell’ordine della cultura, mentre l’uguaglianza fa parte dell’ordine della natura. Quindi gli uomini sono uguali per nascita, è la civiltà che li rende diseguali. Prima di pubblicare il contratto sociale (1762), Rousseau aveva scritto il Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini (1755), dove ricostruisce la storia dell’umanità a partire da un’epoca di armonia e di pacifica convivenza dovuta dal fatto che l’interesse personale di ciascun individuo coincideva con l’interesse comune. Questo equilibrio è stato rotto dalla nascita della proprietà privata che ha introdotto la disuguaglianza tra gli uomini.Secondo Rousseau lo Stato nasce per sanzionare la disuguaglianza e la sopraffazione dell’uomo sull’uomo mediante la stipula del “contratto sociale” che implica la rinuncia della propria libertà, ottenendo in cambio un’uguaglianza “morale e legittima” di cui si fa garante lo Stato come espressione della “volontà generale”.Quando si addentra nella descrizione di un ipotetico stato di natura, egli raffigura i lineamenti di particolari formazioni sociali, regolate da consuetudini, costumi, usanze che provengono da una conoscenza dettagliata delle popolazioni del Nuovo Mondo.In realtà Rousseau lascia intendere che lo stato di natura forse non è mai esistito; egli è interessato ai vantaggi che la rappresentazione ipotetica di questo stato primitivo gli ha offerto nel permettergli di criticare la disuguaglianza e l’ingiustizia della società dell’Ancien régime.

2.5 LA VOCAZIONE UNIVERSALISTA DELL’ANTROPOLOGIAPer Rousseau la legge morale è universale, nel senso che le regole della morale non dipendono dalle consuetudini, ma sono valide per tutti gli esseri umani.Mentre Montaigne era intento nel relativizzare la società, nel liberare le persone dal peso delle proprie consuetudini, Rousseau propendeva a riformare la società medesima.Introducendo la distinzione tra lo studio dell’uomo e lo studio degli uomini Rousseau ha differenziato l’oggetto proprio dell’etnologo da quello del moralista e del filosofo.Il sapere antropologico ha una doppia vocazione: da una parte il proverbio “paese che vai usanza che trovi” (analisi delle differenze), e dall’altra “tutto il mondo è paese” (ricerca delle uniformità).Per Rousseau è importante che l’analisi delle differenze non rimanga fine a se stessa, ma porti invece a cogliere l’universale che si cela dietro di esse.

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2.6 DAL SELVAGGIO AL PRIMITIVOPer società primitiva si intende quella società che ha come oggetto di studio le rappresentazioni testuali delle alterità selvagge.Mentre il selvaggio è il protagonista animalesco di un ipotetico stato di natura, il primitivo nasce sotto il segno della società, che lo inserisce all’interno del nostro stesso orizzonte di umanità e di storia. Quindi i primitivi non sono più visti come una somma di individui naturali ma come i membri di una società che condividono e rispetto le regole.

2.7 POTERE E SAPEREA favorire questa crescita è stato l’evoluzionismo britannico, che ha visto nella società primitiva la chiave di volta per spiegare l’evoluzione dell’umanità.Non c’è nessun rapporto di causa-effetto, che permetta al potere di manipolare il sapere degli antropologi. Questa è anche un pò la storia dell’evoluzionismo che invece di portarci a Darwin ha costretto l’antropologia culturale ad approdare a Spencer.

2.8 DARWIN O SPENCERQuando si parla di evoluzione, il primo nome che viene in mente è quello di Darwin, ma l’evoluzionismo che ha fatto da padrino alla nascita dell’antropologia non è riconducibile alla teoria darwiniana.I primi ad indicare la strada sono stati gli geologi, che hanno messo in discussione la cronologia delle Sacre Scritture. Successivamente gli archeologi e i paleontologi hanno sostenuto l’esistenza di un’evoluzione per stadi e hanno contestato gran parte della narrazione biblica.Lo scontro tra creazionisti ed evoluzionisti fu risolto dall’entrata in campo di Darwin che affermava, sulla base della sua “teoria della selezione naturale”, che le specie viventi si stabilizzano o mutano in seguito alla capacità degli individui di sopravvivere e di evolvere adattandosi alle trasformazioni dell’ambiente naturale.All’epoca Spencer aveva già elaborato la sua legge dell’evoluzione; rifacendosi anch’egli alla teoria di Malthus, “sopravvivenza del più adatto” trasse una conclusione che poi tradusse nella legge secondo cui l’evoluzione consiste nel “cambiamento da uno stato di omogeneità relativamente indefinita e incoerente a uno stato di eterogeneità relativamente definita e coerente”. Pertanto “l’evoluzione è progressiva perché in ogni situazione il più adatto sarebbe sopravvissuto e l’adattamento sarebbe stato nella direzione di una sempre maggiore complessità”.Si creerà una frattura fra Darwin e Spencer. Mentre per il primo l’evoluzione andrà configurandosi come una teoria scientifica fondata su materiali, osservazioni e prove della mutabilità della specie, per il secondo l’evoluzione diventerà il perno di una filosofia della storia. L’antropologia scelse Spencer perché in fondo era la sua teoria ad aver prefigurato l’antropologia stessa.

2.9 TELEOLOGIA E DISCONTINUITA’L’affresco dell’evoluzione culturale delineato da Spencer si basa sull’assunto che la storia umana segue un percorso unilineare che va dal semplice al complesso, in modo che ogni cultura è destinata a passare attraverso gli stessi stadi di sviluppo. Un unico percorso che si dispiega secondo tre tappe fondamentali: selvaggio, barbaro, civilizzato. Si tratta di un sistema chiuso basato su un principio di casualità lineare attraverso cui ogni cultura dovrà prima o poi transitare, diversamente dalla teoria darwiniana che predilige un sistema aperto. Infatti per Darwin l’evoluzione non implica una direzione o un progresso e non segue un piano prestabilito. Nonostante sia stato la personalità più influente del suo tempo, la sua tesi non fu accettata tanto facilmente, trovando soprattutto l’opposizione della Chiesa. Uno dei motivi che portò alla frattura tra Darwin e Spencer fu Lamarck. Darwin aveva accusato il naturalista francese di avere un’idea prescientifica dell’evoluzione, poiché era fondata sulla tesi di un processo continuo di perfezionamento della natura che culmina nell’uomo. Tuttavia ciò che seduceva Spencer della teoria di Lamarck era proprio questa idea di continuo perfezionamento. L’evoluzione veniva considerata come un processo di “trasformazione”.

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Nel riprendere le nozioni di “trasformazione” (Lamarck) e di “sopravvivenza del più adatto” (Malthus), Spencer elabora una teoria dell’evoluzione culturale secondo una visione ottimistica ma anche ideologica, fondata su un’idea di progresso che fa apparire la supremazia dell’Occidente sul resto del mondo “come il risultato naturale di una legge universale”.

2.10 L’ASSE PRIMITIVO/MODERNOGrazie Spencer sarò il primitivo a costituire l’oggetto principale della nascente scienza antropologica. La nozione di società primitiva sarà fondamentale perché, rappresentando un tipo di società semplice rispetto a forme più avanzate, essa stabilisce anche le condizioni di possibilità dell’idea stessa di società moderna.L’asse primitivo/moderno prima ancora di essere un’ideologia si è configurato come un presupposto epistemologico, poiché mette in gioco due nozioni che dipendono l’una dall’altra: il primitivo implica uno stadio originario che presuppone una serie successiva si stadi più evoluti al cui apice troviamo la Modernità imperiale.

PARTE SECONDAITINERARI

3) LA FASE CONCRETA

3.1 CIVILISATION E KULTURCultura è una parola antica che deriva dal verbo latino colere. Nella sua accezione originaria significava la terra coltivata. Verso la metà del XIV secolo il suo significato è slittato a l’atto del coltivare. Ma c’è un’altra accezione di cultura che si affermerà nel XIX secolo. Cultura come dimensione collettiva che designa l’insieme dei caratteri di una collettività. Avvicinandosi al termine di civiltà (civis, cittadino, da cui civitas, cittadinanza, e civilitas intesa come l’insieme delle qualità morali e sociali che formano il cittadino).Con Civilisation viene indicato un processo di portata universale che indica le differenze nazionali tra i popoli. Un concetto che si è affermato in Francia durante l’Illuminismo.Cultura è invece un concetto chiuso che si è sviluppato in Germania nel XIX secolo. La Kultur è un’idea di appartenenza fondata sulla coppia popolo/nazione che valorizza in modo particolare le differenze nazionali e la peculiarità dei gruppi.

3.2 ALTERITA’ INTERNEIlluminismo e Romanticismo sono i rispettivi padrini di civilizzazione e di cultura. La prima segnata dall’idea di progresso e proiettata in avanti, la seconda fondata sulla tradizione e rivolta al passato. Al contrario dell’Illuminismo che ha considerato le tradizioni popolari alla stregua di errori dello spirito umano, con il Romanticismo si è affermata l’idea che fossero quanto di più autentico e puro vi fosse in ogni nazione . a dare fondamento a questa narrativa ha contribuito anche una nuova disciplina come il folklore. Il folklore nasce come messa in scena di “una differenza culturale di tipo verticale”, cronologica e sociale.

3.3 POETI E FILOSOFII primi esploratori del primitivo sono stati i poeti in Germania Svizzera e Francia. In particolare il movimento preromantico dello Sturm und Drang, sviluppatosi negli ambienti culturali romantici segnati dalla ricerca dell’anima popolare. Anche la natura è plasmata dall’intervento umano, il paesaggio viene culturalizzato.JOHANN GOTTFRIED HERDER (1744 – 1803) è stato un filosofo romantico, sostenitore dell’idea di un’anima nazionale che si esprime nel linguaggio, nella poesia, nei canti, nelle fiabe, nei miti e nelle leggende. Con lui la ragione viene posta a fondamento delle tradizioni della nazione così come si sono depositate nel linguaggio, nella poesia, nei canti, nelle fiabe, nei miti e nelle leggende del popolo. A differenza degli Illuministi francesi, Herder usa la ragione per come un mezzo per recuperare e valorizzare la tradizione. ha contribuito a introdurre il concetto di “folk” nel pensiero europeo ed è considerato un geniale anticipatore del folklore.Herder ha coniato l’espressione “forme di vita”, che sarà usata per indicare a livello filosofico qualcosa di molto vicino alla nozione di cultura.

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3.4 UN PADRE FONDATORE: EDWARD B. TYLORAnche se nella prima definizione del concetto di cultura coniata da Edward B. Tylor compare ancora quello di civiltà, sarà poi il termine cultura a prevalere in maniera definitiva (comparirà nel suo libro Primitive Culture).Questa definizione fruttò a Tylor il titolo di “padre fondatore”. Con essa egli non solo ha prodotto le sue opere, ma nel produrle ha prodotto anche la possibilità e le regole per la formazione di altri testi.

3.5 UNA DOPPIA APPARTENENZANella prospettiva di Tylor “cultura” designa due fenomeni distinti: da una parte è il soggetto storico dell’evoluzion dell’umanità, dall’altra rappresenta il particolare patrimonio collettivo di un gruppo umano. In Primitive Culture “civiltà” è la parola cui ricorre Tylor ogni volta che si sofferma sull’evoluzione culturale. Mentre quando di sposta su scenari locali, per descrivere una tribù o un popolo, egli sa che può far conto solo sul termine cultura. In questo caso la figura di riferimenti è Gustav Klemm che fu il primo ad optare per il termine cultura e anche colui che gli conferì il suo significato antropologico “di costumi e credenze”.Anche Tylor nella sua definizione riprende e valorizza la nozione di costume, facendone il perno della proposta “autoriale”.

3.6 SOCIETA’ E COSTUMEIl concetto scientifico di cultura designa qualcosa di completamente diverso da quello che si intende per cultura nel linguaggio corrente. La concezione tyloriana si riferisce a una condizione collettiva, che riguarda tutti i membri di un gruppo sociale, per il semplice fatto di appartenere a quella determinata società. È un modo di essere collettivo. La cultura può realizzarsi solo all’interno di una società, non è una fatto privato, essa è pubblica.Mentre per il termine corrente di cultura il suo contrario è l’ignoranza, nella concezione scientifica di cultura il suo contrario è invece la natura. La natura universale in quanto tutti gli individui viventi hanno lo stesso corredo genetico e condividono lo stesso destino biologico.Mentre la natura p universale la cultura è invece particolare. È ciò che rende persone e gruppi sociali diversi tra loro. Responsabile di tanta mutevolezza è il costume. Se da sempre la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale e il diritto hanno da sempre fatto parte della cultura, il costume ne ha sempre rappresentato l’antitesi radicale.

3.7 UN INSIEME COMPLESSOLa cultura non è innata, ma è qualcosa che si apprende attraverso la trasmissione da un generazione all’altra, nel corso di un processo, “inculturazione”. Tylor capì che l’uomo apprende in un contesto sociale.Con l’espressione “insieme complesso” Tylor lascia intendere che la conoscenza, le credenza, l’arte, la morale, il diritto, il costume etc, costituiscono una totalità organizzata. Un insieme complesso, per l’appunto, ben demarcato e radicato in pratiche, tradizioni, abitudini, valori che rende ciascuna di tali parti ugualmente rappresentativa del tutto.A fare la cultura non sono dunque le credenze, i costumi, i valori di una società messa insieme, ma è la totalità che la loro coesistenza in qualche modo crea o rende manifesta. (Herbert)

3.8 UN MUCCHIO DI SPAZZATURA DI SVARIATE FOLLIELa storia dell’antropologia culturale può essere vista come una serie di tentativi più o meno riusciti di definire il concetto di cultura. Le diverse definizioni di cultura possono essere ricondotte a tre tipologie principali: fase concreta (spiegare), fase astratta (comprendere), fase simbolica (interpretare).Tramite il concetto di cultura il costume fa il suo ingresso nell’umanità, diventando la metafora stessa della cultura.Questa posizione centrale del costume ha dato l’impronta alla “fase concreta” del concetto di cultura, dove la concretezza sta nell’assunzione da parte di Tylor dei costumi nella loro evidenza dei fatti sociali.

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3.9 SPIEGARE E COMPARAREAl suo primo apparire l’antropologia si trovò a condividere l’opzione fatta dalle altre scienze sociale, che avevano adottato il medoto delle scienze naturali, fondato su: 1. Il principio di causa ed effetto; 2. La ricerca di uniformità; 3. la formulazione di leggi; 4. Il carattere oggettivo dei fenomeni indagati. Un modello elaborato da Comte.Tylor cerca quindi di estendere all’analisi della cultura gli stessi principi che hanno portato risultati positivi nel campo delle scienze sociali, per sostenere che anche l’agire umano è determinato da cause e leggi naturali. Ma risulterà molto difficile data la complessità del materiale empirico e l’imperfezione dei metodi di osservazione. A meno di non restringere il campo di ricerca alla cultura.Tylor è stato un grande cultore del metodo comparativo, attraverso cui cercò di classificare i fenomeni culturali in base alle somiglianze tra le varie culture, privilegiando le uniformità a discapito delle disuguaglianze.

3.10 SOPRAVVIVERETylor ha fatto della cultura il concetto - chiave per l’interpretazione della storia dell’umanità, concepita come una successione di stai culturali che evolvono dal semplice al complesso. Tra uno stadio e l’altro vi è solo una differenza quantitativa, dal momento che tutti fanno parte di uno stesso percorso culturale.Successivamente Tylor introdusse la nozione di sopravvivenza su cui sembra puntare molto perché vi vede la conferma empirica della sua teoria dell’evoluzione culturale. La sopravvivenza è un fossile sociale che consta di processi, costumi che sono stati conservati per forza dell’abitudine e che rimangono come esempi di una condizione precedente della cultura da cui se n’è sviluppata una nuova.

3.11 ETNOCENTRISMO E GERARCHIACon la cultura si compie il riscatto di quell’umanità che l’Occidente aveva sempre considerato contigua alla natura. Attraverso di essa di popoli primitivi vengono ricondotti all’interno della realtà.Il concetto di cultura tyloriana non esente dall’etnocentrismo.

3.12 MODERNITA’ E CULTURAIl concetto di cultura è un prodotto della modernità. Il moderno rinvia a quello che moderno non è, ha bisogno di un punto di riferimento rispetto al quale definirsi per differenza, è questo punto gli è stato fornito dall’antropologia culturale.Il moderno procede alla rovescia, ossia riclassifica le epoche e le civiltà lontane nel tempo e nello spazio ordinandole e denominandole a partire dalla propria centralità simbolica.Il concetto di cultura è la categoria che rende pensabili tutte le forme di alterità rispetto alle quali il moderno si definisce per differenza, come le società tradizionali e quelle primitive.L’antropologia quindi nasce come figlia della modernità.

4) DALLA CULTURA ALLE CULTURE

4.1 LE CULTUREIl concetto di cultura formulato da Tylor è stato per lungo tempo il punto di riferimento degli studi antropologici finché non è stato messo in discussione dalla crisi del paradigma evoluzionista.Ad essere criticate sono state soprattutto l’idea ottocentesca di evoluzione culturale e il metodo comparativo.Si deve a FRANZ BOAS la critica più argomentata dell’evoluzionismo, che egli condusse dal suo punto di vista del suo particolarismo storico. Egli è l’uomo che ha reso l’antropologia una scienza.Durante una sua spedizione artica egli scoprì che la popolazione locale degli Inuit possedeva un diversa serie di categorie cromatiche che influenzavano la loro percezione del colore dell’acqua marina. Si rese così conto di come persino le nostre percezioni fisiche posso essere influenzate da fattori culturali e si concentrò sull’analisi dell’interazione fra fattori geografici e culturali.

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Con Boas il concetto di cultura incontra la storia. La cultura lascia il posto ad una pluralità di culture e la storia interviene il rigido scema evolutivo tyloriano in una molteplicità di percorsi. Il risultato è una coabitazione dove ogni cultura presuppone le altre.

4.2 IL PARTICOLARISMO STORICOBoas ha fatto un enorme lavoro di ricerca sul campo, dedicandosi all’analisi dei mondi degli indiani americani, concentrandosi ogni volta su uno specifico contesto culturale e raccogliendo più dati e informazioni possibili. Grazie al contatto con gli indiani è stato reso possibile delineare la fisionomia e gli orientamenti dell’antropologia culturale.Il particolarismo storico è quell’approccio che rende a mettere in luce e a valorizzare la particolarità di ciascuna cultura. Un procedimento basato sull’osservazione diretta di un gruppo ben localizzato nel tempo e nello spazio. Secondo Boas ogni cultura rappresenta una costruzione originale che merita di essere studiata. La cultura non esiste, esistono le culture, ciascuna è unica nel suo genere per il carattere irripetibile della sua storia.Egli non crede alla possibilità di reperire delle uniformità di sviluppo tra le culture. La cultura di ogni tribù può essere spiegata solo se prendiamo in considerazione la sua crescita intera e gli effetti delle relazioni con le culture dei altri popoli vicini e lontani.

4.3 ACCULTURAZIONE E CAMBIAMENTO CULTURALEPur essendo interessato alle situazione di cambiamento, Boas appare anche impegnato a individuare gli elementi di stabilità che assicurano l’equilibrio delle singole culture.L’unica eccezione la fanno gli indiani della Columbia Britannica, che sono passati attraverso trasformazioni relativamente rapide poiché sono stati esposti al contatto con le altre culture.A raccogliere l’interesse di Bas per il cambiamento culturale sarà uno dei suoi numerosi allievi, MELVILLE HERSKOVITZ che insieme a RALPH LINTON e ROBERT REDFIELD pubblicherà nel 1936 Memorandum per lo studio dell’acculturazione. L’acculturazione è qualcosa di ben distinto dal mutamento culturale, riguarda solo il contatto diretto e continuo tra gruppi di persone di culture diverse con modificazioni conseguenti nei modi originari di uno o di entrambi i gruppi.Mentre per Boas l’agente di cambiamento è l’individuo, che reagendo alla propria cultura contribuisce a modificarla.

4.4 LA CRITICA DELL’EVOLUZIONISMOBoas ha criticato molto l’evoluzionismo. Nel suo saggio sui Limiti del metodo comparativo in antropologia dimostra l’infondatezza del paradigma dell’evoluzione unilineare.Secondo lui, non è provato che ogni popolo in uno stadio progredito di civiltà debba essere passato attraverso tutti gli stadi di sviluppo. La sequenza dal semplice al complesso non è valida per tutti i fenomeni culturali, come ad esempio il linguaggio. Egli sosteneva che molte lingue primitive erano complesse.

4.5 IL METODO IDIOGRAFICOBoas ha adottato il metodo idiografico.Le scienze sociali hanno fatto propria la metodologia delle scienze naturali (fondata sulla ricerca delle leggi e sul principio di causa – effetto) durante il periodo del positivismo. Verso la fine del XIX secolo si forma soprattutto in Germania un movimento di pensiero chiamato storicismo tedesco che si oppone al naturalismo.È stato soprattutto DILTHEY il più importante rappresentante dello storicismo tedesco tra Ottocento e Novecento. In polemica con il positivismo di Comte, Dilthey distingue tra scienze naturali, che sono fondate sulla distinzione tra soggetto e oggetto, uomo e natura, e scienze dello spirito (storico-sociali), che sono caratterizzate dall’identità di soggetto e oggetto, nel senso che l’oggetto è opera del soggetto. Ad ognuna di esse corrisponde un metodo d’indagine: il metodo nomotetico, sulla base del quale le scienze naturali spiegano gli eventi naturali secondo leggi universali, e il metodo idiografico, mediante il quale le scienze storico – sociali tendono a comprendere i significati di ogni evento storico e sociale.

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4.6 IL CONCETTO DI CULTURABoas ha affermato che le differenze tra gruppi umani sono dovute alla cultura e non alla razza. Nel suo libro L’uomo primitivo ha dimostrato come non vi sia alcuna influenza dei caratteri biologici sulla cultura.Nel 1938, nonostante la sua critica all’evoluzionismo, egli riprende parte dell’interpretazione di Tylor, come l’idea di totalità. Anche per Boas i diversi elementi che fanno parte della cultura non sono indipendenti ma possiedono una struttura.Egli raggruppa i singoli aspetti della cultura sotto due costellazioni: da un parte le reazioni, le attività e i comportamenti degli individui, e dall’altra i prodotti di questa attività (cultura materiale).[La cultura abbraccia tutte le manifestazioni delle abitudini sociali di una comunità, le reazioni dell’individuo in quanto colpito dalle abitudini del gruppo nel quale vive, i prodotti delle attività umane in quando determinate da queste abitudini.]

4.7 INCULTURAZIONENegli ultimi anni della sua vita Boas si dedicò allo studio dei processi di inculturazione. Per egli sono le reazioni dell’individuo a promuovere il cambiamento culturale. Anche per Boas la cultura non è innata, bensì è qualcosa che si apprende attraverso la trasmissione da una generazione all’altra e attraverso l’interazione sociale. Questo processo sarà chiamato inculturazione.

4.8 LINGUA E CULTURABoas considera la lingua come una via di accesso privilegiata alla comprensione della cultura, crede che tra lingue e cultura ci sia un’influenza reciproca. Egli si è confrontato con un gran numero di questioni: lingua e razza, categorie grammaticali (impongono al parlante delle scelte obbligate), influenze dell’ambiente sulla lingua, rapporti tra linguistica ed etnologia, tra linguaggio e pensiero. Il rapporto tra lingua e cultura sarà ripreso dal suo allievo EDWARD SAPIR, che si è interessato al modo in cui il pensiero e la percezione sono strutturati dal linguaggio, e ha formulato l’ipotesi che il linguaggio e la cultura sono connessi tra loro.

4.9 LINGUA, CULTURA, INDIVIDUO: EDWARD SAPIRIn realtà Edward Sapir sembra essere più interessato al rapporto tra individuo e la sua cultura.La sua tesi è che tra fenomeni linguistici e fenomeni culturali vi sia una stretta parentela. Sia la lingua che la cultura: 1. Sono il prodotto della vita in società; 2. Sono diverse da una comunità all’altra; 3. Vanno incontro a modificazione nel corso della storia; 4. Hanno senso solo per i membri del gruppo che le hanno ricevuto in eredità.Vi è un’influenza reciproca tra grammatica e cultura, ma le categorie linguistiche non sono direttamente espressive dei lineamenti culturali.Secondo Sapir la vera sede della cultura è situata nelle azioni reciproche degli individui e nel patrimonio di significati che essi ne traggono da queste azioni. La personalità individuale diventa per Sapir il luogo dei fenomeni culturali.

5) LA FASE ASTRATTA

5.1 UN COSTRUTTO CONCETTUALENegli anni trenta con gli allievi di Boas l’attenzione degli antropologi si sposta dai costumi ai modelli. L’oggetto della cultura non è più qualsiasi capacità o abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società, ma viene circoscritto al sistema di modelli, valori e norme che regolano la condotta delle persone appartenenti allo spesso gruppo sociale. Nonostante ciò, il concetto di cultura continua a mantenere la sua connotazione di “insieme complesso”. In questa fase astratta si assiste ad un processo di astrazione, che fa della cultura un sistema concettuale, che sussiste indipendentemente da ogni pratica sociale.La cultura diventa un “costrutto concettuale”.

5.2 TRA SOCIOLOGI E PSICOLOGIIn questa seconda fase, la fase astratta, il concetto di cultura influenza maggiormente sociologi e psicologi.

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Sia per la sociologia che per la psicologia il concetto di cultura non è un presenza occasionale ma è diventato parte integrante dei rispettivi apparati disciplinari.Il caso del sociologo Talcott Parsons è il più emblematico di questo processo di interazione tra discipline diverse.La cultura intesa come modelli di valore che orientano l’agire sociale e che Parsons utilizza per spiegare la relazione tra sistema sociale e personalità, si è arricchita con la sua opera di nuove determinazioni.Anche tra antropologia e psicologia non sono mancate influenze reciproche. Il riferimento d’obbligo è alla “Scuola di cultura e personalità” di cui Abram Kardiner è stato il grande regista.

5.3 IL SUPERORGANICOALFRED KROEBER (1866-1960) è stato l’autore di uno dei libri più criticati dell’antropologia, Il Superorganico (1917) dove sostiene che la cultura costituisce un ordine di fenomeni a sé stanti, separati gli uni dagli altri. Questa interpretazione conferisce un carattere oggettivo alla cultura. Da una parte sottolinea la discontinuità tra ordine naturale e ordine sociale, e dall’altra fonda l’autonomia della cultura.Kroeber, allievo di Boas, ne ha condiviso l’interesse etnografico per le popolazioni indiane. Con il Superorganico si distacca al maestro per fondare l’autonomia della cultura, quale sfera separata alla natura e all’individuo. Kroeber ha ripreso la nozione di superorganico da Spencer, ma mentre per Spencer non vi è discontinuità fra organico e superorganico, Kroeber rifiuta ogni continuità tra l’ordine biologico e quello socio-culturale. Come il suo maestro anche Kroeber è stato un critico dell’evoluzionismo, impostando la sua critica come la contestazione della possibilità di estendere la nozione di evoluzione dai fenomeni fisici ai fenomeni culturali.A differenza di Boas, egli non rinuncia a cercare delle uniformità, delle irregolarità culturali. I suoi modelli sono la dimostrazione delle regolarità nei campi più diversi.Per Kroeber l’autonomia dei fenomeni socio-culturali ha come conseguenza una sottovalutazione degli individui dal punto di vista della formazione culturale.

5.4 ONTOLOGIA O METODOLOGIA?Il superorganico finisce per apparire come l’apoteosi della cultura, dotata di uno statuto ontologico che la separa dalla realtà, rendendola irriducibile da tutto il resto. Kroeber vuole sottrarre la cultura ad ogni possibile sostantivizzazione, per considerarla invece un costrutto concettuale.

5.5 LA PERSONALITA’ DI BASEBoas incoraggiò i suoi allievi RUTH BENEDICT e ABRAM KARDINER, a esplorare il complicato mondo dei rapporti tra l’individuo e la sua cultura. Durante questa ricerca Benedict l’ha individuata nei “modelli di cultura”, mentre Kardiner ha preferito la nozione di “personalità di base”, per indicare quegli aspetti della personalità che sono comuni a tutti gli individui cresciuti in una stessa cultura.Abram Kardiner (1891-1981) è stato allievo di Boas ma anche paziente di Freud. Insieme a Ralph Linton ha sviluppato, nel libro L’individuo e la sua società, la nozione di personalità di base, che significa soltanto che quali che siano le reazioni dell’individuo, esse saranno contenute dalla istituzioni e che quali che sia l’esito nei termini del carattere individuale, il complesso istituzionale è sempre l’asse intorno al quale ruotano le variazioni individuali. Quindi queste istituzioni devono assicurare la continuità sociale, mentre le istituzioni primarie contribuiscono a formare la personalità degli individui nella prima infanzia e le istituzioni secondarie hanno il compito di soddisfare i bisogni.La personalità di base, dunque, corrisponde all’Ego. E la sua struttura varia da società a società.

5.6 MODELLI DI CULTURARuth Benedict (1887-1948) in Modelli di cultura (1934) mette a confronto alcuni popoli primitivi, ricorrendo a nozioni della psicopatologia. Le culture da lei descritte non rappresentano dei tipi, ma ognuna di esse è un raggruppamento casuale di caratteri, e probabilmente non ha l’eguale nella sua interezza, in nessun luogo del mondo. La Benedict considera la cultura come una sorta di “personalità su vasta scala”, di cui cerca di mettere in luce il carattere distintivo individuale secondo alcune caratteristiche psicologiche.

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Ogni cultura è una particolare “configurazione”, che organizza le manifestazioni contraddittorie e complesse di individui incoerenti in un insieme coerente. Con il configurazionismo la Benedict ha sottolineato come ogni tratto si modifichi sulla base del modello culturale di cui entra a far parte. Ogni cultura ha già scelto alcuni tratti per farli propri e altri per ignorarli . Infine ella affermava che “una cultura, come un individuo, è un insieme più o meno coerente di pensieri e di azioni”.

5.7 IL “LUOGO COMUNE” ANTROPOLOGICOIl crisantemo e la spada è stato un libro cult della Benedict e prova del suo configurazionismo. Esso è stato il risultato do una ricerca commissionatale nel 1944 dal governo americano che era interessato a saperne di più di un avversario, in questo caso i giapponesi. La Benedict rinunciò ad una ricerca del campo, non potendosi recare in Giappone, con interviste e test psicologici. I giapponesi intervistati si dimostrarono disposti a collaborare anche se per ella fu difficile orientarsi nelle risposte ottenute da loro, in quanto trascuravano alcuni informazioni fondamentali. Per rispondere a queste domande la Benedict dovette cominciare dai luoghi comuni di cui è ricca la vita di ogni popolo. Un modo di apprendere chiamato “inculturazione”.

5.8 UN MONDO ALLA ROVESCIALa conclusione a cui giunse la Benedict è che a fare del Giappone una nazione di giapponesi sono la fiducia dimostrata nei confronti dell’ordine e il suo sistema etico. Secondo il sistema etico giapponese ogni individuo ha l’obbligo morale di tenere il giusto posto nella gerarchia sociale seguendo i doveri e un comportamento appropriato. Grazie a queste caratteristiche il Giappone è apparso agli occhi dell’Occidente come “il mondo alla rovescia”, visto come cultura della vergogna mentre l’America come cultura della colpa.

5.9 ADOLESCENZA A SAMOAMARGARET MEAD (1901-1978), allieva di Boas e Benedict pubblicò il suo primo libro nel 1928, risultato di una ricerca sul campo nell’isola di Samoa. Lo scopo del suo lavoro era di capire se le ragazze samoane condividessero le stesse turbe e di stabilire se quel tipo di inquietudine fosse un comportamento naturale di passaggio o fosse causato dalla società. Appartenendo ad una società semplice ed omogenea risultarono meno turbate delle loro coetanee americane. La conclusione fu che le culture diverse producono modelli educativi differenziati, che a loro volta formano individui con personalità e caratteri distinti.

6) LA FASE SIMBOLICA

6.1 UNA CATASTROFE E DUE EVENTICLIFFORD GEERTZ segnerà l’avvio di una revisione critica del concetto di cultura e con esso di una rifondazione dello statuto scientifico dell’antropologia.Nel 1958 si è tenuto il dibattito sul relativismo culturale tra filosofi e antropologi che porterà i relativisti a schierarsi contro gli universalisti, che avrà come risultato la messa in discussione di teorie, concetti e metodi.Nel 1967 la vedova di Malinowski, inventore dell’”osservazione partecipante”, pubblicò i suoi Diari. Uno sfogo privato che suscitò scandalo nella comunità degli antropologi, in quanto conteneva parolacce, grandi letture di romanzi, fantasie sessuali e una forte insofferenza nei confronti degli indigeni, di cui si era dichiarato amabile compagno di vita quotidiana. Passato lo scandalo rimase il disagio epistemologico, che investirà i fondamenti del lavoro antropologico: viaggiare, fare ricerca sul campo, scrivere.Il concetto di cultura arriva così alla sua terza fase, la fase simbolica. La cultura viene paragonata a “ragnatele di significati” (l’uomo è un animale sospeso tra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto, la cultura è essa stessa una ragnatela), ha “strutture di significati socialmente stabilite”, attraverso cui le persone conferiscono senso alle loro azioni.Una nuova versione proposta da Clifford Geertz, fondatore dell’antropologia interpretativa. Mentre nel pensiero antropologico è considerato l’erede del particolarismo storico. Geertz sosteneva che la

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conoscenza è sempre locale (local knowledge), nel senso che l’antropologo deve tenere conto delle caratteristiche di ogni cultura.

6.2 LOCAL KNOWLEDGEIl sapere degli antropologi dunque è un sapere locale. Geertz precisa che il compito dell’antropologo è di cogliere il punto di vista del nativo impegnandosi a decifrarne i significati.Per comprendere l’antropologia interpretativa bisogna partire dal fatto che essa si fonda sulla messa in scena del campo dove avviene l’incontro tra osservatore e osservato e dove sono in gioco le azioni e i comportamenti. Per Geertz l’accesso all’altro avviene solo mediante i suoi significati, che sono un prodotto sociale e sono condivisi da tutti quelli che fanno parte di una determinata cultura.Geertz prende in prestito dal filosofo inglese Ryle la contrapposizione tra thin e thick description (tra descrizione esigua e descrizione densa). La descrizione densa consiste nello scoprire le strutture di significati che non sono espliciti (una strizzatina d’occhio – mentre la thin description ci permette di registrare la contrazione dell’occhio, la thick description ci permette di interpretare i diversi significati).Per Geertz esiste una “circolarità ermeneutica” tra scienziato e oggetto della ricerca poiché ciascuno dei due è produttore di significati.

6.3 IL CIRCOLO ERMENEUTICOI Diari di Malinowski hanno influenzato la svolta ermeneutica di Geertz. Egli vede nel circolo ermeneutico la soluzione alle difficoltà di “tradurre” le altre culture nel nostro linguaggio rendendoli così di facile comprensione. L’ermeneutica si è rilevata centrale sia per l’interpretazione letteraria sia per quella etnografica. Per Geertz era fondamentale capire l’esperienza quotidiana di persone appartenenti ad altri mondi.

6.4 IL COMBATTIMENTO DEI GALLI A BALIGeertz affermava che per mettersi dal punto di vista dei nativi non bastava solo partecipare ma anche essere accettati. Nel suo famoso saggio il Combattimento dei galli a Bali racconta di come è riuscito a farsi accettare dai balinesi. Dopo circa dieci giorni egli non era riuscito a stabilire alcun rapporto con i nativi, quindi decise assieme alla moglie di assistere ad un combattimento di galli, una usanza molto sentita ma illegale. Egli racconta che nel bel mezzo dell’incontro arrivò la polizia; a quel punto tutti fuggirono compresi loro stessi che seguirono un fuggitivo sino a casa sua dove trovarono la moglie che offrì loro da bere. Da questo racconto Geertz fece capire che lui e la moglie furono accettati dagli abitanti solo perché erano stati in grado di partecipare alla loro vita (tutto il contrario di Malinowski).

6.5 LA CULTURA: UN CONCETTO SEMIOTICOA questo punto Geertz rivisitò il concetto di cultura formulato da Tylor. Lan nozione di “insieme complesso” fu sostituito con “un concetto di cultura ristretto e teoricamente più efficace”. Questa proposta è legata alla necessità di rifondare lo statuto epistemologico dell’antropologia, dal momento che essa è sorta attorno al concetto di cultura.Il suo concetto di cultura è un concetto semiotico, essa è vista come un testo che l’antropologo si sforza di interpretare.

6.6 INTERPRETAZIONI DI INTERPRETAZIONINella sua Introduzione a Interpretazione di culture Geertz espone le linee guida di una teoria interpretativa della cultura, che sono: 1. La cultura consiste in strutture di significati socialmente stabiliti; 2. I significati vanno interpretati secondo il paradigma delle thick description; 3. La cultura viene costruita nel momento stesso in cui i significati sono interpretati.In realtà Geertz non è in grado di far fronte all’interpretazione di interpretazioni. Di fatto si tratta di due generi molto diversi, e l’interpretazione dell’antropologo è meramente soggettiva.Vincent Crapanzano, un antropologo americano, afferma che nel combattimento dei galli a Bali non c’è nessun tentativo di capire i nativi dal punto di vista dei nativi, e che le costruzioni sono più che altro proiezioni della sua soggettività (Geertz).

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6.7 UN AMMINISTRATORE OCULATOGeertz non si cura delle critiche, dà l’impressione di essere un amministratore oculato della tradizione antropologica e gli capita spesso di dire una cosa e il suo contrario. Pur mostrandosi contrario alla teoria tyloriana, finisce anche lui per ricorrervi. La sua è una posizione tra moderno e postmoderno. L’ambivalenza fa parte integrante della sua teoria.

PARTE TERZAQUESTIONI DI METODI

7) QUESTIONI DI METODO

7.1 LA SVOLTA ETNOGRAFICACLIFFORD GEERTZ ha contribuito a problematizzare i quadri concettuali della disciplina. Coloro che fanno etnografia, ovvero ricerca sul campo, vengono chiamati fieldwork per gli anglosassoni e terrain per i francesi di. Secondo Geertz l’etnografia è definita dal tipo di sforzo on cui consiste.L’etnografia si è costituita come il momento chiave più legittimante nella produzione del sapere antropologico, essa tiene insieme l’einfuhlen (partecipare) con il verstehen (comprendere). Ma dipende anche dal contesto epistemico in cui è inserita. Negli ultimi anni l’esperienza etnografica è stata vista come un’attività molto più problematica.Sarà con la messa a punto della postura dell’”osservazione partecipante” da parte di Malinowski che l’etnografia comincerà a configurarsi come il vero fondamento dell’intera ricerca antropologica.

7.2 IL VIAGGIO TRA SETTECENTO E OTTOCENTOIl Settecento è stato il secolo dei grandi viaggi. A fare da battistrada erano state tra il Cinquecento e il Seicento le esplorazioni di terre conosciute. Nel ‘700 il viaggio continuò a rappresentare un modo per impadronirsi del mondo attraverso la raccolta di informazioni. Lo sguardo del viaggiatore era diventato attento nella registrazione dei costumi e dei modi di vita di popolazioni distanti.La scoperta dell’America aveva portato allo riscoperta dell’Oriente. Grazie all’opera dei missionari questa riscoperta avrà degli effetti di ritorno sulla cultura europea. I popoli orientali diventano una pietra di paragone attraverso cui acquisire un distacco critico rispetto ai nostri usi e costumi (ricorsi a questa strategia pensatori dell’Illuminismo come Montesquie e Voltaire).EDWARD SAID nel suo libro Orientalismo ci chiede di considerare le rappresentazioni dell’Oriente in Occidente come il frutto di una geografia immaginaria, ossia spesso non è altro che una costruzione occidentale finalizzata all’assoggettamento politico ed economico e alla creazione di un immagine di Occidente come qualcosa di superiore.Dopo la scomparsa degli illuministi, molte cose cambiarono, tranne l’interesse per la geografia e per i viaggi. Ora si trattava di ottenere conoscenze più precise delle terre già esplorate. Questa sarà l’epoca delle spedizioni che condurranno alla ricerca scientifica.

7.3 La Société des Observateurs de l’HommeUn ruolo fondamentale fu svolto dalla Société des Observateurs de l’Homme, fondata nel 1799. Un istituzione che costituì una tappa importante nella nascita delle discipline antropologiche. Formata da filosofi, linguisti, geografici, viaggiatori, storici e naturalisti, aveva come programma di dedicarsi alla scienza dell’uomo esaminandolo dal punto di vista fisico, morale e intellettuale.L’obbiettivo del programma era di osservare le varietà di forme fisiche, linguistiche e sociali, studiando la storia delle epoche passate e esplorando le diverse nazioni. Il fine era quello di realizzare uno studio comparato dell’uomo.L’organizzazione delle spedizioni era organizzata prendendo in considerazione tutti gli interessi. Nascono i primi manuali di etnologia che contengono istruzioni per raccogliere materiale, come quelli di Degèrando e di Volney.

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Ben presto questi manuali non si rivelano di grande utilità, vengono quindi create delle commissioni incaricate di esaminare i risultati di viaggi.Viaggiare non basta a liberarsi dall’etnocentrismo, talvolta lo può incentivare. Ed è proprio per questo che nascono le prime inchieste sociologiche organizzate attorno a veri e propri questionari.Va ricordato che all’origine del colonialismo vi erano le guerre di conquiste. Saranno infatti le amministrazioni coloniali a garantire la sicurezza dei viaggiatori e la ricerca sul campo.

7.4 LA RICERCA ETNOGRAFICA PRIMA DI MALINOWSKINegli ultimi decenni dell’800 l’antropologo era ciò che alcuni hanno chiamato un armchair anthropologist, ovvero un antropologo da tavolino. Gli antropologi evoluzionisti fondavano le loro teorie su documenti o raccolte di dati di seconda mano, non sempre scientificamente affidabili. Materiali pieno di gravi giudizi etnocentrici. Infatti Tylor traeva le proprie conclusioni sulla storia dell’umanità da un insieme di materiali eterogeneo. Anche Frezer so serviva di materiali di “seconda mano”. Verso la fine dell’Ottocento le fonti si diversificarono: ai tradizionali resoconti dei viaggiatori si affiancarono ricerche più specialistiche da punto di vista scientifico. Nel 1892 venne lanciata l’Ethnographic Survey of United Kingdom che era un piano che aveva come obbiettivo la raccolta sistematica di dati di ogni tipo di tutte le isole britanniche. Qualche anno prima era stata lanciata The Imperial Gazetteer of India approntato da Sir William Wilson Hunter nel 1870 ma i primi volumi videro la luce solo nel 1881.Si trattava quindi di due tra le prime gradi “survey etnografiche”, ovvero di ricerche programmate in stretta collaborazione tra una parte dell’antropologia nascente e le amministrazioni coloniali. La survey è un tipo di indagine preliminare su un determinato territorio finalizzata al reperimento del maggior numero possibile di informazioni riguardanti la vita sociale, la cultura materiale e i sistemi di rappresentazioni dei gruppi etnici che fanno parte di un’area linguistica comune.

7.5 LA NASCITA DELLA MONOGRAFIA ETNOGRAFICAUn ruolo fondamentale nell’affermazione accademica dell’antropologia deve essere attribuito alla “spedizione allo stretto di Torres” del 1898-99 organizzata dalla università di Cambridge. Si tratta di un’impresa le cui modalità di ricerca sul campo vennero considerate per lunghi anni come quelle più idonee a una “raccolta scientifica di dati”. A questa spedizione ne seguirono altre dello stesso tipo in diverse parti del mondo.Questo tipo di ricerche segnò il destino della survey. La survey restava comunque una strategia di rilevamento generica, più quantitativa che qualificativa.Le ricerche che si proponevano come studi su un’unica popolazione diedero vita a ciò che fu definito “monografia etnografica”, un genere che mira ad approfondire la vita socioculturale di un singolo gruppo. La monografia etnografica non fece che rafforzare quelle concezioni coloniali secondo cui le società primitive erano caratterizzate da sistemi di rapporti sociali integrati e rimasti estranei alle pressioni della modernità. E segna il passaggio dall’antropologia evoluzionista a quella funzionalista.

7.6 L’OSSERVAZIONE PARTECIPANTEDopo un dottorato in fisica e in matematica e dopo aver letto il Ramo d’Oro di Frazer, Malinowski dedice di dedicarsi agli studi antropologici e dunque partire per la Nuova Guinea per svolgere la sua ricerca sul campo.Egli è rimasto famoso per la sua intensa partecipazione alla vita delle comunità da lui studiate, per il suo ruolo di “osservatore partecipante”. Fino a quel momento l’attività antropologica si limitava ad intervistare gli indigeni, ma con Malinowski si passa ad un coinvolgimento diretto nella vita della comunità studiata. Le fotografia con cui si apre Gli argonauti mostrano la tenda di Malinowki in posizione strategica, ossia in mezzo alle abitazioni trobiandesi che gli permetteva una “visione globale”, partecipante.

7.7 UN APPROCCIO OLISTICOPer comprendere meglio la natura della rivoluzione malinowskiana bisogna mettere a fuoco il contesto intellettuale in cui presero corpo le sue considerazioni. Un contesto dominato dalle idee del sociologo francese EMILE DURKHEIM tra le cui premesse epistemologiche presenti nel progetto complessivo

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malinowkiano troviamo: 1. Lo studio delle società umane deve essere condotto a partire da metodologie di ricerca simili a quelle della scienze naturali; 2. Le principali istituzioni attraverso cui si organizza la vita delle diverse società vanno considerate come “fatti sociali” oggettivi che esistono indipendentemente dalla volontà degli uomini e che appaiono come fenomeni naturali; 3. Ogni cultura costituisce come un insieme integrato, il prodotto dell’interrelazione di tutte le singole parti. Infatti Malinowski riteneva indispensabile la conoscenza approfondita di ogni singola funzione svolta da ogni singolo elemento come la vita familiare e quella religiosa, quella sessuale e quella politica.Lo scopo primario della ricerca etnografica era quello di lasciar parlare i fatti.

7.8 LA CULTURA COME “UN TUTTO INTEGRATO”Per Malinowski la cultura è un vasto apparato , in parte materiale, in parte umano e in parte spirituale con cui l’uomo può venire a capo di concreti problemi che gli stanno si fronte. Facendo propria la teoria tyloriana della cultura come un “insieme complesso”, Malinowski accentua l’aspetto organistico per trasformarlo in un tutto integrato. La cultura si costituisce in contrapposizione alla natura. Alla base ci sono i bisogni umani universali, basic needs, a cui ogni cultura fornisce le proprie risposte in modo da soddisfare tali bisogni. Questa soddisfazione crea bisogni secondari a cui la società dà una propria risposta scientifica.Vi è inoltre un altro livello di fenomeni che riguardano la sfera simbolica , le credenze, il linguaggio a cui la società darà risposte coerenti.A partire dalla rivoluzione della ricerca sul campo operata da Malinowki, l’etnografo non pretende più di occuparsi di tutti gli aspetti di una cultura ma solo di alcuni di essi.

7.9 UNA PARTE PER IL TUTTO: IL KULAMalinowski non ha studiato tutti gli aspetti della cultura trobriandese, ma su uno in particolare: il kula. Il kula è un fenomeno molto complesso. È una forma di scambio cerimoniale che consisteva in spedizioni fatte su canoe appositamente costruite che ogni gruppo organizzava per visitare le comunità delle altre isole dell’arcipelago delle Trobriand alle quali venivano offerti doni e con cui venivano scambiati deni di diversa natura. I doni consistevano in collane di conchiglie rosse (soulava) che venivano scambiate con braccialetti di conchiglie bianche (mwali). Il kula era affiancato da uno scambio profano, tipo baratto in cui venivano scambiati vari tipi di oggetti d’uso.Il kula era un’istituzione che permise a Malinowki uno studio approfondito della società trobriandese. Può essere considerato la metafora dell’osservazione partecipante.

7.10 LA CRISI DEL PARADIGMA ETNOGRAFICOAlla fine degli anni sessanta sono emerse critiche più radicali e decise al “paradigma etnografico” tradizionale inaugurato dal metodo dell’osservazione partecipante.L’antropologo postmoderno GEORGE MARCUS affermava che era impossibile separare l’osservatore dall’osservato e che un testo etnografico deve essere considerato come un testo collettivamente prodotto. E che non si può più parlare di “primitivo” e “altro esotico”.L’interesse tradizionale dell’etnografia per la cultura e il bisogno di analizzarla all’interno di una prospettiva globale si stanno traducendo nel tentativo di produrre “etnografie locali”, ovvero resoconti etnografici incentrati sulla comprensione dell’incontro/scontro delle identità singole e collettive con processi economici, politici e culturali transnazionali.L’emergere di correnti come quella dell’antropologia postmoderna può essere considerato come un sintomo della crisi irreversibile di questo paradigma.La presa d’atto di questa inadeguatezza può essere desunta, secondo Marcus, da alcune principali strategie critiche: problematizzazione delle dimensione spaziale; problematizzazione della dimensione temporale; problematizzazione della “prospettiva” e della “voce” dell’etnografo; auto-riflessività di un testo (enfatizzazione di un racconto); bifocalità e\o polivocalità (guardare in almeno due direzioni); procedere a partire da una sorta di “socioanalisi” (problematizzazione dei propri punti di vista).

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La crisi del paradigma etnografico ha spinto gli antropologi a reinventare i presupposti e i criteri delle loro ricerche etnografiche, sottoponendoli a un monitoraggio politico ed epistemologico.

8) IL RELATIVISMO CULTURALE

8.1 UN UNIVERSALISMO MOLTO PARTICOLARENel 1947 MELVILLE HERSKOVITZ invitò alla Commissione delle Nazioni unite, incaricata di elaborare lo Statemen on Human Rights. Herskovitz cercava di evitare che i diritti umani diventassero l’espressione di un universalismo molto particolare, in cui i confini coincidevano con quelli geografici e morali dell’Occidente. Egli raccomandava alla Commissione di tenere conto che l’individuo sviluppa la propria personalità attraverso la propria cultura e che il rispetto per le differenze individuali comporta il rispetto per quelle culturali. La Commissioni però adottò una concezione individualistica della società e della storia, fondata sulla neutralità dei diritti umani nei confronti delle differenze culturali e Herskovitz ricevette un duro attacco da parte dell’establishment dell’antropologia americana.

8.2 L’ETNOCENTRISMOIl relativismo culturale è quella prospettiva interpretativa fondata sul presupposto che ogni cultura possiede un proprio sistema di razionalità e di coerenza e che pertanto tutte le sue manifestazioni hanno significato e validità soltanto all’interno di tale contesto. Una prospettiva che si è sviluppata dagli anni venti nella scuola boasiana e che si divide in: relativismo etico e relativismo cognitivo. È stato dunque Boas a introdurre il relativismo culturale. L’impostazione particolarista ha messo in chiaro come le differenze tra popoli, etnie, gruppi umani sono considerata delle costruzioni storiche riconducibili ai caratteri particolari delle diverse culture che popolano il pianeta.Il relativismo culturale si fonda sull’assunto che ogni cultura ha la sua unicità e che può essere compresa solo dalla sua realtà interna. Esso è nato come correttivo dell’etnocentrismo, ovvero di quella tendenza a giudicare le altre culture in base ai criteri della propria. A coniare questo termine fu SUMNER. Per Sumner la cultura è costituita dai folkways (costumi collettivi) e i mores (il prodotto dell’adattarsi della cultura). Etnocentrismo è il termine tecnico che designa una concezione in cui il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto ad esso. In realtà il vero teorico del relativismo culturale è Sumner. Esso (relativismo) ha costituito una svolta importante, influenzando in maniera positiva l’etnografia.

8.3 IL RELATIVISMO ETICOPer Herskovitz la realtà è definita dai diversi simbolismi degli innumerevoli linguaggi dell’umanità. La sua posizione è orientata in senso etico. E si fonda sul richiamo ai valori della tolleranza e del rispetto reciproco. Egli cerca di recuperare una nozione universale affermando che alcuni valori umani sono presenti dappertutto.

8.4 RAZIONALITA’ OCCIDENTALE E SISTEMI CULTURALI ALIENI L’approccio al problema del relativismo culturale è diverso, così come è stato affrontato in un dibattito nel corso degli anni sessanta nella cultura anglossassone. Lo spunto è venuto a PETER WINCH che si è interrogato sull’utilità delle categorie della scienza occidentale per la comprensione dei sistemi culturali alieni, che lo porterà a mettere in questione la nozione stessa di razionalità occidentale.Nel libro Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande di EVANS-PRITCHARD compaiono due diversi approcci al problema delle credenze ritenute dall’Occidente irrazionali. Egli ne dà una lettura funzionalista classica ma si tratta anche di un’opera di sociologia della conoscenza fondata tra credenze e società.Evans-Pritchard non intende però darne solo una spiegazione scientifica in quando ritiene giusto l’approccio magico del selvaggio delle altre culture (ed: noi vediamo la pioggia come un semplice evento meteorologico, mentre i selvaggi credono che possa essere influenzata dalle divinità).

8.5 IL RELATIVISMO COGNITIVO

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Resta comunque di capire come mai delle persone che ci comportano razionalmente, poi basino dei ragionamenti su premesse errate.Evans-Pritchard affermava che per gli Azande (Africa centrale) quello che conta non è la verità, ma la coerenza interna nel loro sistema di credenze e pratiche magiche, assicurata da un tessuto di connessioni logiche.Nel riprendere questa riflessione, Winch prende atto di come nel comprendere il sistema alieno di credenze, possono essere messe in discussione le nostre stesse categorie cognitive-Nel dibattito si sono fronteggiate due posizioni: quella relativista, caratterizzata dall’idea che non vi sia nessun principio di razionalità in grado di comprendere tutte le culture umane, e quella universalista, che si fonda su una nozione oggettiva di razionalità da usare come tramite tra le diverse culture.In una ultima analisi per Winch il comportamento sociali è identificabile e comprensibile solo sulla base del sistema di concetti e di valori presenti all’interno della società che assumono senso solo sullo sfondo di particolari forme pratiche di vita.

8.6 GLI UNIVERSALISTIIl versante universalista aveva come obbiettivo quello di sottrarsi alle aporie del relativismo e formulare dei criteri di razionalista che non dipendano dai contesti locali, ma che siano in grado di garantire l’accesso alle diverse forme di vita. Si stratta quindi di stabilire un nucleo epistemologico comune e di riconfermare una forma di razionalità condivisa tra culture diverse. Un bridge head, ossia una testa di ponte che si consenta di avere accesso alle espressione delle culture umane secondo i criteri di una razionalità universale, indipendente dai singoli contesti.Winch , a differenza degli universalisti che si considerano anti-relativisti, non può essere definito un relativista in senso stretto. Egli introduce alcune “nozioni fondamentali” o nozioni limite che definiscono i confini in cui sono inscritte le differenti forme di vita (vita, sesso, morte), costanti che sono caratteristiche importanti per ogni società umana.

8.7 ANTI-ANTI-RELATIVISMOClifford Geertz pubblicò nel 1984 un saggio dal titolo Anti-anti-relativismo. Nell’accettare la sfida che lo ha portato a mettere in discussione l’etnografia come possibilità di riuscire nell’opera di traduzione da una cultura all’altra, egli si è limitato a “sconfiggere le paure” ed “esorcizzare i demoni” evocati da entrambe le parti.Geertz si definisce un anti-anti-relativista, esprimendo così la sua insofferenza verso gli universalisti.Alla base dell’anti-relativismo ci sono secondo Geertz molte cose: la paura del relativismo per la sua tolleranza nei confronti dei costumi degli altri e la difesa di una conoscenza obbiettiva e di una morale universale. Egli condanna gli universalisti per l’avere posto la morale al di là della cultura e la conoscenza al di là di entrambe.Geertz affermava che la comprensione dell’Altro più lontano ci permetta di cogliere l’essenza di ciò che significa essere umani, ed è nelle caratteristiche dei popoli che si possono trovare le rivelazioni più istruttive su che significa essere umani, per l’appunto.

8.8 L’ETNOCENTRISMO CRITICOERNESTO DE MARTINO è stato un anti-relativista estremo. Ala base del suo relativismo ci sono la sua affiliazione allo storicismo crociano e la condivisione con esso di una ragione umana fondata sull’appartenenza a un mondo di valori che, in sintonia con Benedetto Croce, considera universali. De Martino sposta la sua riflessione dal relativismo all’etnocentrismo, che egli assume come un dato di fatto. E in secondo luogo distingue due tipi di etnocentrismo: l’etnocentrismo dogmatico, che considera l’Occidente come unica misura del mondo, e l’etnocentrismo critico, che assume l’incontro con l’etnos come un modo per problematizzare i limiti storici della nostra civiltà e che ci dà l’opportunità di mettere in causa il sistema in cui si è nati e cresciuti, sempre per comprendere maggiormente la nostra civiltà.De Martino concepisce l’etnocentrismo critico come una sorta di terapia a beneficio dell’Occidente, dal momento che l’etnologo occidentale guadagna la coscienza dei limiti della propria cultura e si predispone a una riforma di essa.

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8.9 LA REALTA’ DEI POTERI MAGICINel suo libro Il mondo magico del 1948, De Martino sembra un precursore delle posizioni relativiste emerse nel Rationality-debate. Al centro dell’attenzione di un antropologo c’è la magia, una categoria di proiezioni eurocentrice – la polemica cristiana contro il magico come usurpazione demoniaca, la polemica della nuova scienza contro la magia naturale – il cui utilizzo appare problematico in contesti culturali alieni per il rischio di proiettare su di essi la nostra vicenda storica.Ma c’è un problema pregiudiziale, che consiste nel fatto che l’idea corrente è che la magia sia soltanto un illusione e sia destinata all’insuccesso. Quindi come prima soluzione bisogna appurarsi se tali poteri siano reali, mettendo in discussione anche il nostro concetto di realtà, che deve essere interpretato da categorie che sono prodotti storici. Nonostante la sua impostazione storicista, il libro sarà duramente contestato da Benedetto Croce, maestro di De Martino.

PARTE QUARTAAL DI QUA DELLA CULTURA

9) LE RAPPRESENTAZIONI COLLETTIVE

9.11 LA SOCIOLOGIA “CLASSICA” DI FRONTE ALLE SOCIETA’ PRIMITIVEEMILE DURKHEIM (1858-1917) è stato una delle figuri centrali del pensiero sociologico moderno. I suoi studi mostrano un interesse costante per le società studiate dagli antropologi e molte sue concezioni resteranno un importante punto di riferimento nella ricerca etnografica sulle società non occidentali. Egli considerava di vitale importanza lo studio delle forme di organizzazione e delle logiche di funzionamento delle “società semplici” (primitive) per la comprensione della “diversità” e della “specificità” storica delle società industriali moderne.Per Durkheim la sociologia non doveva indagare sui principi del tutto astratti ma attraverso ricerche specifiche e mirate. Le preoccupazioni della sua sociologia riguardava questioni come la stabilità e la solidarietà sociale.

9.2 LA SOCIETA’ COME “FONDAMENTO MORALE”Nella prospettiva di Durkheim è la società a costituirsi come una vera e propria “autorità morale” nei confronti degli individui. È lo stesso gruppo di appartenenza a configurarsi come il vero “fondamento morale” di qualsiasi forma di vita sociale. Così al posto del concetto di cultura troviamo alcune nozioni: regole morali, coscienza collettiva, solidarietà meccanica, solidarietà organica, fatti sociali. Ciò che rende possibile l’esistenza sociale è la sua regolazione morale. Ossia, cioè che consente lo sviluppo della solidarietà sociale è una particolare regolazione morale (sistema di idee, credenze, rappresentazioni collettive). La solidarietà come fondamento di ogni forma di società.I presupposti della sociologia durkheimiana sono: a) alla base di ogni società vi è sempre un qualche “fondamento morale”; b) la società è un fenomeno diverso dalla semplice somma dei suoi membri (esiste già); c) queste regole sono dei prodotti oggettivi; d) la sociologia può essere definita come la scienza dei fenomeni morali, ovvero come lo studio scientifico dei fatti sociali.

9.3 SOLIDARIETA’ MECCANICA E SOLIDARIETA’ ORGANICAPer Durkheim la prima differenza tra questi due tipi di società riguarda il diverso grado di “solidarietà” e la diversa forma di “coesione sociale” che riescono a sviluppare.La solidarietà meccanica è tipica delle società semplici, poiché in esse vi è uno scarso sviluppo della divisione del lavoro e quindi una somiglianza delle funzioni. Nelle forme più primitive di società questa divisione del lavoro era limitata ad una divisione sessuale. L’unità di queste società dipendeva da un insieme di credenze e di sentimenti condivisi. In sostanza la solidarietà meccanica presuppone una somiglianza tra i membri della comunità.

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La solidarietà organica, invece, è tipica delle società complesse e dipende dall’alto grado di sviluppo della divisione del lavoro e dell’individualità, quindi da un’ampia differenziazione sociale dei membri. Durkheim quando parla di coesione sociale caratterizzata dalla solidarietà organica, si riferisce alla società industriale borghese in cui ogni singola parte contribuisce al mantenimento dell’insieme. Nonostante ciò, vengono anch’esse regolate da meccanismi morali che da un tipo di solidarietà.

9.4 I FATTI SOCIALIDurkheim definisce i fatti sociali in base a due caratteristiche essenziali: a) l’esteriorità; b) la costrizione. Egli parla dei fatti sociali come di fenomeni “esterni” agli individui in un duplice senso, perché ogni soggetto nasce all’interno di una società che esiste già e poi perché si tratta di fenomeni che posso funzionare indipendentemente dalle decisioni di ogni singolo soggetto, ma non che possano esistere delle società a prescindere dall’agire dei soggetti. Egli sottolinea più volte che la società è composta di soli individui.Per Durkheim la costrizione rappresenta un criterio empirico nella determinazione dei fatti sociali. Per spiegare questo aspetto è utile fare un esempio, come quello della paternità: essa è in primo luogo un fattao biologico, ma anche un fenomeno sociale in quanto un padre è obbligato a comportarsi in un certo modo (doveri morali) con i propri figli. Si può scegliere di violare tali oneri, ma in questo caso si sentirà lo stesso la loro forza costrittiva.Ed è proprio in virtù dell’esteriorità e della costrizione che Durkheim ci chiede di considerare i fatti sociali come cose, in quanto l’oggetto delle scienze sociali è l’attività umana stessa. Trattare i fatti come cose equivale a ribadire l’oggettività delle norme, delle norme e delle rappresentazioni che organizzano e definiscono ogni insieme sociale.

9.5 UNA TEORIA GENETICA DEL MONDO SOCIALEIn Le forme elementari della vita religiosa Durkheim cercherà di mettere in luce la natura della comunità esistente tra le forme tradizionali di società e quelle moderne, partendo dallo studio del fenomeno religioso. L’opera è basata su un’analisi approfondita di quella che Durkheim considera la religione più semplice e più primitiva che oggi conosciamo: il totemismo australiano.La caratteristica peculiare delle credenze religiose è che esse presuppongono una classificazione in due ordini di tutto ciò che fa parte della vita degli uomini: oggetti e simboli sacri e oggetti e simboli profani.Per Durkheim una religione è fatta di credenze e comprende anche delle pratiche rituali stabilite.Il totemismo corrisponde al sistema di organizzazione sociale tipico delle società semplici; la raffigurazione del totem è spesso considerata più sacra del totem stesso. La sacralità di questo simbolismo significa la sacralità del gruppo a cui appartiene.La teoria esposta da Durkheim in questo testo è una teoria genetica del mondo sociale, ma anche l’azione dinamica che intercorre tra le strutture sociali di una forma di vita e le idee o credenze sviluppate a livello collettivo (che possono avere comunque un carattere sacro).

10 LA MENTALITA’ PRIMITIVA TRA PRELOGISMO E RECIPROCITA’

10.1 UN “RELATIVISMO MORALE” ALQUANTO PROBLEMATICOLa teoria Durkheim, secondo quale l’alta coesione sociale delle società semplici era dovuta alla conoscenza collettiva, fu ripresa da molti studiosi, tra cui LUCIEN LEVY-BRHUL. Costui è stato il promotore di un tipo di relativismo – relativismo morale – altrettanto problematico e contraddittorio. Si tratta di un relativismo fondato su un’opposizione netta tra mentalità primitiva e mentalità moderna e che proprio per questo ha finito per riproporre gli stessi pregiudizi che cercava di superare nella comprensione di società molto diverse da quelle moderne e occidentali.Lévy-Bruhl è uno studioso di formazione filosofico che si è mostrato interessato allo studio sociologico. Il suo obbiettivo è di portare alla luce i meccanismi sovraindividuali che regolano l’agire sociale all’interno delle società primitive. Nel suo primo lavoro La morale la scienza dei costumi è interessato a mostrare come non esista nessuna morale oggettivo, in quanto l’agire dei soggetti dipende dalle regole e dal contesto a cui appartengono.

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10.2 PENSIERO LOGICO E MENTALITA’ PRIMITIVA Attraverso il suo concetto di prelogismo Lévy-Bruhl voleva mettere in luce la natura qualitativamente diversa del pensiero primitivo rispetto a quello occidentale. Infatti egli ha cercato di delineare una “teoria generale della mentalità primitiva” riaffermando la sua netta opposizione alle spiegazione evoluiste del pensiero primitivo. Lévy-Bruhl sostiene che le “credenze” o le “istituzioni” delle società primitive non possono essere comprese sulla base di criteri incentrati sulle motivazioni individuali dell’agire sociale, e non devono essere considerate insensate dato che non sono il prodotto di criteri sbagliati di valutazione.La mentalità primitiva non appare orientata da una logica che non corrisponde affatto a quella del pensiero moderno scientifico. La sua specificità può essere definita da tre caratteristiche: a) la sua origine mistica ed emotiva; b) la sua natura prelogica; c) la sua legge della partecipazione. Dunque, la vita delle società primitive è sempre determinata da un’esperienza mistica quotidiana, tradotta nell’istituzione e nell’esecuzione di culti.

10.3 IL PRELOGISMOÈ questo suo procedere stabilendo rapporti o connessioni di tipo mistico tra fenomeno a fare della mentalità primitiva una mentalità prelogica. Per Lévy-Bruhl, a costituire l’essenza prelogica della mentalità primitiva è ciò che egli chiama la “legge della partecipazione”, ovvero il fatto che nell’universo primitivo i rapporti di casualità non hanno importanza. Sono le partecipazioni mistiche ad occupare il posto più importante. La mentalità primitiva possiede una concezione della casualità diversa da quella moderna, essa cerca di stabilire le cause primarie degli eventi o dei fenomeni.L’obiettivo fondamentale di Lévy-Bruhl era quello di mostrare che l’universo dell’uomo primitivo non appare strutturato poiché procede in modo mistico. Diversamente da Durkhein, la differenza tra le società semplici e quelle moderne è più di natura che di grado. Successivamente egli correggerà la sua impostazione affermando che la struttura logica dello spirito umano è dappertutto la stessa e che anche nella società moderna occidentale vi sono tracce di prelogismo.

10.4 LA NASCITA DELL’ETNOLOGIA CLASSICA FRANCESESeguace di Durkhein fu MARCEL MAUSS (1872-1950), considerato il padre fondatore della “scuola etnologica francese”. I suoi principali scritti hanno avuto una enorme importanza per la configurazione di nuovi campi di indagine. Il suo Saggio sul dono è stato determinante per la nascita degli studi di antropologia economica. Il suo obiettivo era di offrire un contributo a una spiegazione sociologica universalista dell’agire umano, rifiutando la separazione tra sociologia ed etnologia. Quest’ultima aveva il compito di approfondire la conoscenza delle forme elementari dell’organizzazione sociale e di contribuire allo sviluppo della conoscenza scientifica. Inoltre egli rifiutava l’idea di mentalità primitiva contrapposta alla mentalità razionale moderna. Mauss ha affrontato la comprensione dei fenomeni sociali concependoli come parte di una totalità organicamente strutturata. In seguito la sua visione delle dinamiche sociali muterà e darà luogo ad una concezione più relativista della morfologia sociale.

10.5 LA DETERMINAZIONE SOCIALE DEI “SISTEMI DI CLASSIFICAZIONE”L’opera Su alcune forme primitive di classificazione (1901) di Durkhein e di Mauss è un lavoro pioneristico. Si tratta di uno dei primi studi che ha stabilito un rapporto di tipo sistematico tra i sistemi di classificazione (loro affermavano che erano un prodotto sociale determinato, in quanto è il sociale a costituire l’elemento fondante del sistema di rappresentazioni collettive dei gruppi primitivi. Quindi alla base dei primi sistemi di classificazione vi è la società) e il mondo reale.Va da sé ad ogni mutamento nella struttura dei gruppi ne conseguiranno mutamenti simili nel sistema di classificazioni. Cioè, più diventa complessa la struttura sociale dei gruppi più sono complessi i sistemi per catalogarli.Ciò che si propongono Durkhein e Mauss è di dimostrare in che modo la concettualizzazione scientifica moderna sia l’erede naturale dei sistemi di classificazione primitivi fondata sull’emotività dei rapporti sociali (i sistemi tipici del pensiero primitivo intellettualizzandosi diventeranno un metodo di classificazione scientifica senza mutare la propria natura). Ne deriva che il sociale e il simbolico appaiano sempre strutturati da principi di natura omologa.

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10.6 I “FATTI SOCIALI TOTALI”I fatti sociali totali sono per Mauss quelle pratiche particolari dei gruppi capaci di condensare in sé tutte le diverse sfere della loro vita sociale. Il fatto sociale totale rispecchia lo stile della società che ci mostra i veri principi che organizzano la sua esistenza sociale. L’obiettivo fondamentale di Mauss era di portare alla luce i principi morali. Egli costruisce il suo saggio, Saggio sul dono, su due sistemi primitivi di scambio: il kula (comprende numerose società presenti nelle diverse isole dell’arcipelago. Non dà luogo a pratiche economiche, ma implica delle cerimonie pubbliche e un rituale magico molto complesso. I beni scambiati nel kula non hanno nessuna praticità ma sono oggetti di prestigio, devo essere contraccambiati e non vengono conservati oltre un certo tempo) studiato da Malinowski nelle isole Trobriand e il potlach (un complesso sistema si scambio messo in atto da diversi gruppi dell’ex Columbia Britannica – Canada, e caratterizzato dalla pratica di distruzione di alcuni oggetti ritenuti di prestigio da parte di di alcuni individui che hanno come scopo quello di riaffermare in pubblico il proprio status o di riconquistarlo) analizzato da Boas nell’America del Nord.Queste pratiche suggeriscono a Mauss che la prima forma di contratto economico è stato il dono. L’obbligo di dare è presente in tutte le società non caratterizzate dalla logica del profitto in quanto che riceve un dono è obbligato a riceverlo e a ricambiare per paura che lo spirito contenuto negli oggetti possa vendicarsi nei confronti dei trasgressori. Attraverso il dono, inoltre, circolano dei beni all’interno del gruppo sociale e che veicolano delle forze magiche.I fatti sociali racchiudo in sé dimensioni diverse: quella politica, quella economica, quella sociale, quella morale, quella religiosa, quella estetica. La loro osservazione ci permette di cogliere il funzionamento dei sistemi sociali nella loro interezza.

10.7 CULTURA INCARNATA NEI CORPINe Le tecniche del corpo (1950) Mauss afferma che il corpo è il primo e più naturale strumento dell’uomo, che viene plasmato dalla tradizione al punto di rimanere prigioniero delle tecniche apprese nella prima infanzia (egli dichiarò di non essersi mai liberato del suo modo di nuotare appreso da piccolo).Mauss introduce in questo studio la nozione di habitus che è il modo abituale di comportarsi è attraverso l’educazione che si apprendono diversi modi di utilizzare il corpo, a seconda del sesso. Aggiunse inoltre che i mutamenti storici nelle tecniche del corpo finiscono per modificare la stessa struttura fisica degli uomini e delle donne.

11) DALLA NATURA ALLA CULTURA

11.1 LA PROIBIZIONE DELL’INCESTOIl rappresentate più importante dell’antropologia strutturalista è CLAUDE LEVI-STRAUSS (1908-2009), che ha aperto una nuova frontiera di riflessione. La sua è una prospettiva universalista che ha come obbiettivo una conoscenza generale dell’uomo, partendo dalle invarianti strutturali a livello inconscio, strutture dello spirito umano. Nel suo libro Le strutture elementari della parentela, riprende un tema classico della disciplina su cui erano misurati antropologi appartenenti a correnti di pensiero molto diverse. La parentela è stata centrale per gli studi antropologi poiché le società primitive e quelle tradizionali attribuiscono alle relazioni di parentela una certa importanza, in quanto perno intorno al quale ruota tutta la società. Per parentela si intende l’insieme delle relazioni sociali fondate sui legami di discendenza e di matrimonio. Nonostante si collochino tra natura e cultura, le relazioni di parentela sono costruzioni sociali in cui rientrano le modalità di come ciascuna di esse concepisce i legami culturali.Con la sua opera Lévi-Strauss ha ristabilito l’equilibrio a favore dell’alleanza matrimoniale, fondata sul sistema di reciprocità e o scambio delle donne, analizzando chi potessero essere i “coniugi proibiti” (chi non può sposare chi). Non vi è società in cui non sussista la “proibizione dell’incesto”. Questa questione, la proibizione, si tratta di una regola universale molto particolare, poiché è l’unica di tutte le regole sociali a partecipare sia della natura che della cultura. L’origine dell’incesto non è di origine puramente culturale, né

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di origine puramente casuale. Essa appartiene alla sfera della cultura in quanto regola, ma in quanto fenomeno universale è radicata nella natura.

11.2 ESOGAMIA E SCAMBIO DELLE DONNELévi-Strauss non si è mai spiegato come mai le proibizioni dell’incesto siano presenti in tutte le società e in tutte le epoche. Successivamente egli sposta la sua attenzione dagli aspetti negativi a quelle positivi: impedirsi un unione con le donne del proprio gruppo significa renderle disponibili per gli uomini di altro gruppo, che dovranno comportarsi nello stesso modo con le loro donne. Quello che tale proibizione ordina è l’esogamia, ovvero l’obbligo di scegliere il coniuge all’esterno del proprio gruppo, mentre per endogamia si intende l’obbligo di scegliere il coniuge all’interno del proprio gruppo di riferimento. Per Lévi-Strauss l’endogamia non è altro che l’espressione sociale allargata della proibizione dell’incesto.È stato lo scambio delle donne ad aver reso possibile il passaggio dalla natura alla cultura. L’esogamia come il dono, si basa sul principio di reciprocità (dare, ricevere, cambiare).Lévi-Strauss opera una ripartizione fra due sistemi principali, distinguendo tra strutture elementari e strutture complesse. Le strutture elementari prescrivono il matrimonio con certe categorie di parenti distinguendo coniugi possibili e proibiti (matrimonio tra cugini incrociati. Quello tra cugini paralleli è proibito). Le strutture complesse di limitano a proibire il matrimonio tra determinati individui (fratello e sorella).Lévi-Strauss assimila le donne ai segni (comparando l’esogamia al linguaggio), ma le considera anche un valore dal punto di vista biologico e sociale, senza le quali la vita non è possibile. A conferire valore ad una donna è il fatto che essa può essere scambiata (questa cosa non è piaciuta affatto all’antropologia femminista del 1970).

11.3 ETNOLOGIA E STORIATra le molteplici ascendenze che hanno contribuito alla formazione del pensiero di Lévi-Strauss, ci sono anche la geologia, la psicoanalisi e il marxismo, che lo hanno accompagnato nel’interessamento dell’etnologia.Il modello epistemologico ricavato dalle tre discipline contiene i tratti salienti che hanno caratterizzato il pensiero di Lévi-Strauss: il rifiuto dell’approccio storico (non totale), l’esigenza del superamento del vissuto e del concreto, l’opposizione della realtà vera delle strutture all’apparenza sensibile. La nozione centrale che tiene insieme queste molteplici suggestione è quella di struttura, che è il fascio di possibilità di cui i sistemi concreti e storici non sono altro che realizzazioni particolari.Lévi-Strauss ha tenuto ben distinti i livelli di indagine dell’etnografia e dell’etnologia. L’etnografia è il momento dell’analisi, dell’osservazione e della descrizione di specifici gruppi umani che comprende il fieldwork, la storia e la dimensione del vissuto. L’etnologia invece è il livello dell’analisi strutturale , caratterizzato da un procedimento di astrazione, dai condizionamenti storici e dal rifiuto della soggettività. Ad un livello superiore si colloca l’antropologia che mira alla conoscenza globale dell’uomo. Lévi-Strauss si scontra con la difficoltà di separare l’etnografia dell’etnologia nell’elaborare un solido modello teorico. Così sembra la ricerca etnografica sia di fatto incompatibile con l’applicazione dell’analisi strutturale.

11.4 STRUTTURA E MODELLIPer l’antropologo francese Lévi-Strauss la struttura sociale è una categoria dello spirito umano. Resa manifesta soltanto dai modelli costruiti con il materiale empirico offerto dalle relazioni sociali. Il modello serve ad operare una riduzione della complessività empirica della relazioni sociali, altrimenti impenetrabili. Solo i modelli elaborati dall’antropologo appaiano in grado di accedere alla struttura come una realtà a sè stante.I modelli possono essere consci, la cui funzione consiste nel perpetuare le credenze e gli usi e che si interpongono come ostacoli tra l’osservatore e il suo soggetto, o inconsci.

11.5 L’INCONSCIO STRUTTURALEL’insieme delle strutture forma ciò che Lévi-Strauss chiama l’inconscio, che non è il depositario di una storia unica che rende ciascuno di noi un essere insostituibile, bensì è concepito come una funzione

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simbolica umana che si esercita con le stesse leggi in tutti gli uomini. La caratteristica principale dell’inconscio è quella di essere privo di contenuti, essendo costituito da strutture atemporali universali, l’inconscio si configura come il terreno in cui si realizza l’incontro tra noi e gli altri.

11.6 IL RIMORSO DELL’OCCIDENTECon il passare degli anni il nucleo teorico dell’antropologia di Lévi-Strauss diventa obsoleto. Ciò perché l’antropologia è molto cambiata ma anche a causa del carattere involuto delle sue opere più impegnative.Secondo FRANCESCO REMOTTI, invece Lévi-Strauss ha indicato una via di salvezza per l’antropologia. Grazie alla nozione di struttura intesa come l’insieme delle possibilità di connessione tra un sistema locale e altri sistemi.“Se l’Occidente ha prodotto degli etnografi è perché il rimorso doveva tormentarlo, obbligandolo a confrontare la sua immagine con quella delle altre società, nella speranza di averne un aiuto per spiegarsi come i propri elementi si fossero sviluppati.”

11.7 RAZZA E CULTURALévi-Strauss si è distinto anche per la sua denuncia e critica del razzismo. La prima volta nel 1952 in una conferenza intitolata Razza e storia, su incarico dell’Unesco, sostenendo l’inconsistenza scientifica della nozione di razza. Anche perché le culture sono molto più numerosi delle razze e perché i caratteri razziali sono l’effetto dei fenomeni culturali. Nella sua conferenza dichiarò che per dissipare i pregiudizi razziali fosse necessario prendere le distanze dal linguaggio degli organismi internazionali che rischiavano di fare di ogni erba un fascio.Mentre il razzismo è riprovevole, non lo è per nulla porre un modo di vivere e di pensare al di sopra di tutti gli altri, e provare scarsa attrazione per determinati individui. Quindi essere etnocentrici non significa in sé per sé essere razzisti.In Razza e storia Lévi-Strauss insisteva sull’importanza di una coalizione tra culture diverse per far progredire la civiltà. Vent’anni dopo la sua posizione si ribalta; pertanto ciascuna cultura dovrà imparare per restare unica nel suo genere a praticare una certa sordità al richiamo di altri valori, che può giungere fino al loro rifiuto.Infine si chiede se allontanarsi sia realmente il modo per sfuggire alla tolleranza del cosmopolitismo dell’Unesco. La risposta sarà data dalla destra razzista francese di Le Pen che riprenderà a proprio vantaggio gli argomenti portati da Lévi-Strauss a tutela delle differenze (razzismo differenzialista).

11.8 PROSPETTIVE MARXISTEL’interesse verso il marxismo da parte dell’antropologia risale agli anni sessanta del Novecento. Soprattutto per saggiare le possibilità di un utilizzo delle categorie marxiste nell’analisi delle società primitive. Sennonché le società primitive sembrano sfuggire a uno dei fondamenti della concezione materialistica della storia, ovvero il carattere determinante della struttura economica.Per MAURICE GODELIER questo non è un problema. Dalla tesi di Lévy-Strauss sul carattere dominante che le relazioni di parentela hanno nelle società primitive vi trova una conferma. Nelle società primitive i rapporti di parentela funzionano anche da rapporti di produzione, nel senso che controllano l’accesso alle risorse, ai mezzi di produzione e al prodotto del lavoro.In questo modo di Godelier riesce a mantenere fermo il carattere dominante delle relazioni di parentela nelle società primitive e nello stesso tempo le recupera a una interpretazione marxista, per concludere che esse funzionano sia come rapporti di produzione e come sovrastrutture (tra quest’ultime vi è una distinzione di funzioni). Per Godelier è solo con la società capitalista che queste funzioni vengono asunte da istituzioni diverse, mentre nelle società precapitaliste una stessa istituzione può assolvere a diverse funzioni.Questa equivalenza tra relazioni di parentela e rapporti di produzione non è piaciuta a EMMANUEL TERRAY, un marxista, per cui la parentela costituisce un tipico caso di surdeterminazione, una categoria

condotta dal filosofo LOUIS ALTHUSSER. Nel caso specifico delle società primitive a influenzare l’economia sarebbe la parentela.

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Forse l’autore più determinato nella ricerca di un incontro tra marxismo e antropologia è stato CLAUDE MEILLASSOUX, che ripropone la centralità della struttura economica a quella di riproduzione. Al centro della sua analisi c’è la famiglia, ovvero il modo di produzione domestico, dove il problema predominate è quello dell’appartenenza della pro genitura. Questo fa si che le donne siano ricercate per la loro qualità di genitrici e i figli per quella di futuri produttori. Il tal modo nemmeno le società primitive si sottraggono al materialismo storico.

12) L’ECONOMIA DELLE PRATICHE

12.1 UNA SCIENZA TOTALE DELLE PRATICHE SOCIALIPIERRE BOURDIEU è uno dei maggiori sociologi della seconda metà del Novecento. Buona parte del suo lavori si fonda sulla ricerca etnografica sulla popolazione Kabyla condotta tra il 1956 e il 1060. Ed è in quegli anni che prende corpo l’ “economia delle pratiche”.A differenza di Burkheim, per Bourdieu la conoscenza scientifica della realtà sociale non può fondarsi sulla messa a fuoco di fatti sociali, poiché nel mondo sociale non esistono fenomeni che siano osservabili indipendentemente dalla soggettività dell’osservatore. Il sociologo deve tenere presente che anche egli è socialmente situato. Per questo, il lavoro del sociologo esige una vigilanza epistemologica sulla costruzione del proprio oggetto e sulle proprie categorie interpretative cui ha dato il nome di socioanalisi.La socioanalisi appare a Bourdieu come una strategia indispensabile per porre rimedio al rapporto incontrollato del ricercatore con il propri oggetto(che costituisce uno dei principali ostacoli alla costruzione di una “scienza dell’agire”).

12.2 L’HABITUS O LA GRAMMATICA DEL SOGGETTOL’economia delle pratiche si propone come una scienza in grado di restituire l’unità fondamentale dell’agire umano: un agire che è allo stesso tempo individuale (soggettivo) e collettivo (oggettivo), autonomo (indeterminato) e condizionato (determinato), simbolico (culturalmente plasmato) e materiale (socialmente imbricato). Perciò Bourdieu definisce la sua economia delle pratiche come un “costruttivismo strutturalista” o “strutturalismo genetico”. Con “strutturalismo” intende affermare che nel mondo sociale vi sono strutture oggettive che riescono ad orientare le pratiche e le rappresentazioni. “Costruttivismo” sta a significare che sia gli schemi di percezione, azione, pensiero sia le strutture sociali, hanno origine nell’agire dei soggetti.Lo strutturalismo genetico di Bourdieu si propone come una scienza sociale totale. Contro il soggettivismo degli approcci fenomenologici, l’economia delle pratiche sostiene l’esistenza di strutture oggettive nel mondo sociale capaci di condizionare l’agire sociale e collettivo. Contro l’oggettivismo dello strutturalismo, l’economia delle pratiche sottolinea il ruolo attivo dei soggetti nella produzione della loro realtà sociale. In sintesi per Bourdieu l’impossibilità di considerare soggetto e società come entità autonome l’una dall’altra. Bourdieu spiega il rapporto tra strutture sociali e soggettive attraverso gli habitus. Gli habitus sono sistemi di disposizioni durevoli e trasferibili, che vengono acquisiti dai soggetti durante il processo di socializzazione. Questi sistemi di disposizioni sono “strutture strutturate” (in quanto rappresentano il prodotto di determinate condizioni materiali d’esistenza) ma predisposte a funzionare anche come “strutture strutturanti” (principi generatori delle pratiche e delle rappresentazioni che definiscono quelle stesse condizioni oggettive).Quindi gli habitus rappresentano il nesso tra la realtà esterna dei soggetti e le loro strutture interne, e sono il prodotto di due dimensioni del processo di socializzazione: ethos (un insieme sistematico di disposizioni allo stato pratico – schemi etici che nella vita sociale sono principi pratici) e hexis (tecniche del portamento del corpo, al modo e allo stile con cui gli attori portano se stessi nella loro vita sociale).Ethos e hexis costituiscono dimensioni soggettive separabili sono dimensioni soggettive separabili solo analiticamente. Habitus non può essere considerato come un concetto astratto e in quanto abitudine del corpo, si costituisce come un sistema di conoscenze pratico-materiali.

12.3 UNO STOCK TACITO DI CONOSCENZE

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Bourdieu inoltre distingue tra “habitus primario” e “habitus secondari”.L’habitus primario viene incorporato durante l’infanzia. So tratta delle prime disposizioni acquisite che spesso sono le più efficaci e durevoli, e in cui il gruppo familiare ha un ruolo centrale. L’acquisizione dell’ habitus primario deve essere considerato come un momento decisivo o determinante dell’esperienza sociale. Gli habitus secondari tendono a innestarsi sull’ habitus primario.L’ habitus è il prodotto della nostra esperienza passata e presente. Per Bordieu ciò che mette in risalto è che le nostre pratiche non posso essere considerate né totalmente determinate né totalmente libere. Sarebbe più esatto definire l’ habitus come un principio generatore di strategie capace di consentire ai soggetti di affrontare le esigenze della vita sociale quotidiana in modo attivo e creativo. Il sistema di disposizioni degli habitus percepisce ogni stimolo secondo categorie già costruite in esperienze precedenti: privilegiando le esperienze originarie ne segue sempre una tendenza alla chiusura.Attraverso l’ habitus la storia appare ai soggetti (agenti sociali=è agito allo stesso tempo che agisce. Le sue azioni inseguono scopi particolari. Sta qui la premessa per parlare di un’economia delle pratiche) come data per scontata.

12.4 LA LOGICA DEI CAMPI TRA MERCATI E CAPITALIIl sistema di classificazioni e di disposizioni pratiche dell’ habitus viene acquisito in particolari contesti che Bourdieu definisce “campi sociali”. È solo attraverso l’esistenza di questi campi che può essere compresa la natura strategica delle pratiche sociali, ovvero il loro essere orientate verso un certo tipo di profitto.Bourdieu definisce un campo sociale come uno spazio delimitato e caratterizzato dalle lotte tra diversi gruppi e agenti per l’accesso a delle risorse o a dei compensi. Così ogni campo è definito da una posta in gioco che determina la natura della lotta.Nelle società altamente differenziate dove coesistono un complesso di campi interrelati, la posta in gioco vengono definite come tipi specifici di capitali. In ogni campo particolare le lotte tra gli individui o tra i gruppi hanno come scopo finale la conquista del capitale simbolico, mentre i capitali economico-sociale-culturale costituiscono i mezzi che posso essere mobilitati per conseguirlo.

12.5 IL CAPITALE SIMBOLICOI campi si costituiscono come mercati poiché riescono a imporre una logica concorrenziale ai soggetti come se si trattasse di un atteggiamento.Bourdieu chiarisce che appartenere a un campo significa essere investito dalle sue proprietà. Tale investimento produce nei soggetti un esperienza doxica, nel senso che tutto appare evidente, scontato. Un campo può funzionare soltanto se genera negli attori che vi fanno parte una sorta di illusio.La condizione perché il capitale simbolico eserciti a pieno il suo potere di persuasione è l’esistenza di un processo preliminare, capace di inculcare negli agenti quel sistema di disposizioni e di classificazione affinchè ubbidiscano. Possiamo dunque parlare di capitale simbolico come di un complesso di motivazioni e di desideri insito nelle strutture emotive e nelle aspettative dei soggetti. Il potere del capitale simbolico appare legato a particolari rapporti di forza esistenti tra classi dominanti e le classi subalterne.Ciò che l’economia delle pratiche cerca di mettere in luce è che nelle società contemporanee le classi e le identità si costituiscono in rapporto alle altri classi e identità.

12.6 VIOLENZA SIMBOLICA: LA CULTURA TRA RIPRODUZIONE, EGEMONIA E RESISTENZALa realtà sociale si costituisce a partire da determinati “rapporti di senso”, o dalla lotta tra diversi “arbitri culturali”: poiché ogni autorità politica dovrà apparire come legittima ai propri subordinati per garantirsi la propria riproduzione. Ed è a questo processo di costruzione dell’egemonia culturale da parte delle classi sociali che Bourdieu ha dato il nome di “violenza simbolica”, intendendo quel processo attraverso cui l’ordine e il controllo vengono prodotti da meccanismi culturali indiretti che nascono la propria arbitrarietà.Per violenza simbolica dobbiamo intendere il processo di naturalizzazione di un sistema arbitrario di significati, ovvero l’imposizione di un sistema arbitrario di valori culturali su gruppi e classi che vivono tali significati come legittimi. In questo modo la cultura può rafforzare il proprio dominio.

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Ogni ideale di potere riproduce la propria doxa (esperienza doxa=quando vi è una corrispondenza tra l’ordine oggettivo e i principi soggettivi di classifica), e quando questa viene contestate emergono l’eterodossie. Le eterodossie irrompo sullo scenario sociale come “potere costituente”.La teoria della violenza simbolica pur condividendo alcuni aspetti del concetto di egemonia, predilige i meccanismi della riproduzione sociale. Questo limite rappresenta una delle critiche più frequenti alla prospettiva di Bourdieu.

13) CULTURA VERSUS NATURA

13.1 UN ANTROPOLOGO ITALIANO: ERNESTO DE MARTINOL’antropologia culturale è arrivata tardi in Italia, e quando fece il suo ingresso nel secondo dopoguerra si trovò in una posizione marginale. A pesare era ancora la critica fatta da Benedetto Croce al positivismo, e alle scienze sociali che lui riteneva fossero prive di autonomia teorica, il ché le considerava una scienza di secondo livello che non poteva competere con lo storicismo crociano.Il risultato fu la messa la bando delle scienze sociali dalla cultura italiana per quasi mezzo secolo. Quanto all’etnologia , la situazione non era migliore. La maggior parte degli etnologi che conducevano ricerche in Africa, si era schierata con la politica razzista del regime fascista. Lido Cipriani fu uno dei teorici della “razza pura” che contribuirono alla stesura del Manifesto sulla razza. Pubblicamente, l’antropologia veniva connessa con la politica coloniale.ERNESTO DE MARTINO è la figura di maggior rilievo degli antropologi italiani. Ha avuto una personalità complessa, segnata da interessi molteplici. Fu anche un intellettuale impegnato politicamente a sinistra a sostegno di quella campagna dei braccianti che occuparono i grandi latifondi del Meridione, che diverrà il fulcro delle sue ricerche sul campo.

13.2 STORICISMO VERSUS NATURALISMOIl primo libero di De Martino, Naturalismo e storicismo nell’etnologia è un attacco alle scuole antropologiche. Il suo scopo era quello di rifondare l’etnologia, depurandola dalle incrostazioni naturalistiche e riconducendola a un sapere storico. In altre parole la sua proposta è quelle di un etnologia storicista. Questa proposta non piacque a Benedetto Croce. De martino ci rimase molto male, poiché riteneva che far rientrare in seno alla storia l’etnologia, fosse l’unica via per far acquisire alle società primitive uno statuto scientifico.La seconda guerra mondiale era già in corso quando scrive Introduzione a Naturalismo e storicismo, che inaugura uno stile molto personale nella scrittura e nel pensiero.Ciò che De Martino persegue è “una ragione altra”, attraverso cui ampliare il nostro “ristretto umanesimo”. Ritornò anni dopo su questo tema, che diventerà il filo conduttore de Il modo magico e La fine del mondo, precisando che l’apertura verso la comprensione delle società primitive (analizzando le condizioni storiche) significava porre in causa quella borghese.

13.3 UNA NATURA CULTURARLMENTE CONDIZIONATALa comparsa nel 1948 de Il mondo magico suscitò polemiche e discussioni. Il libro introduceva temi e indirizzi culturali estranei alla tradizione italiana.La discussione finì per concentrarsi sulla “storicizzazione” che egli aveva fatto delle categorie crociane.Con quest’opera aveva inizio quell’esplosione del “diverso”, delle culture “altre”, che analizzava il mondo magico e accostava quelle occidentale ad esso.De Martino parte dal problema della realtà dei problemi magici, un problema che viene eluso con troppa disinvoltura, in quanto si assume come ovvio il fatto che essi siano irreali e destinati all’insuccesso.Egli, dunque, si chiede se in qualche misura questi poteri possano essere reali.

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Secondo De Martino i poteri magici non possono essere considerati come se fossero dei fenomeni dati, essi sono intrisi di proiezione psichiche del soggetto. La magia è dunque una natura culturalmente condizionata e come tale rappresenta una sfida la nostro concetto di realtà.Le categorie storiografiche sono inadeguate a comprendere le realtà del mondo magico, la magia per essere compresa va ricondotta alle società primitive dove la presenza (senso di sé) non è garantita.A questo punto De Martino si immerge nell’universo “magico” con il supporto di un’ampia letteratura etnografica che comprende Siberia, Nord America e Melanesia, dove è diffuso uno statuto psichico molto particolare ( si tratta di una sorta di paralisi della persona che rinuncia a ogni scelta nella forma di “essere-agito-da” forze esterne con cui si identifica. Questo stato psichico è scatenato da uno choc o da un evento inaspettato e caratterizzato da una coazione a imitare gesti e parole di chiunque sia presente in qual momento).

13.4 IL RISCATTO DELLA PRESENZALa perdita della presenta rappresenta solo uno dei due poli del dramma storico del mondo magico. L’altro polo è costituito dal momento del riscatto della presenza che vuole esserci nel mondo. A questo punto interviene la cultura. Al centro del mondo culturale magico sta “colui che sa andare oltre di sé” (mago), che si fa mediatore dell’esserci nel mondo come riscatto dal rischio di non esserci.Il mondo magico è quell’epoca in cui l’esserci viene rifondato da una creazione culturale che lo riscatta dal rischio della perdita della presenza. Anche nella nostra cultura sono diffuse credenze e pratiche magiche (fattura, malocchio) e fenomeni paranormali (lettura del pensiero). Nel mondo magico la salvezza si compie per un sforzo che dell’individuo in quanto partecipe di una dramma culturale a carattere pubblico.La conclusione a cui giunge De martino è che il mondo magico è un’età precategoriale, che ha fondato l’autonomia della persona, riscattandola dal rischio di non esserci.

13.5 GRAMSCI E IL MONDO POPOLARE SUBALTERNONel 1959 verranno pubblicate le Osservazioni sul folklore di Gramsci, che permetteranno a De Martino di riprendere da un prospettiva più ampia la riflessione sulla cultura popolare. Secondo Gramsci il folklore è una concezione del mondo e della vita di determinati strati della società in contrapposizione con le concezioni del mondo ufficiali che si sono successe nello sviluppo storico.Quindi folklore come concezione del mondo delle classi subalterne.Per Gramsci lo Stato è solo una trincea avanzata dietro cui sta una robusta catena di fortezze e casematte. Tra queste casematte rientra anche il folklore con la sua arretratezza ma anche con caratteristiche innovative.

13.6 Le “Indias de por acá”Il folklore fa parte della storia della cultura dominate ed è quindi già vicenda storica. È la presa di distanza da quelle concezione di civiltà contadina sviluppatasi in isolamento , confinato oltre Eboli – dove secondo Carlo Levi si è arrestata la civiltà occidentale. Inoltre oil folklore ha un’immediata valenza politica, che lo avrebbe portato a teorizzare “il folclore progressivo”, la proposta consapevole del popolo contro la propria condizione subalterna.Furono proprio le condizioni in cui vivevano le plebi rustiche del Meridione che spinsero De Martino a organizzare una serie di spedizioni etnografiche, principalmente in Lucania e nel Salento. Con lui l’antropologia culturale resta la scienza dell’Altro, il diverso è in casa propria , in quelle “Indias de por acá”, come era chiamato il Meridione dai gesuiti nel Seicento.Ed è proprio questa esplorazione delle culture antagoniste che interessa De Martino. Durante le sue ricerche giungerà alla conclusione che la modernità può convivere con la magia, in quanto quest’ultima risolve sul piano simbolico quello che le classi dirigenti non sono in grado di assicurare.

13.7 L’INGES SYLVA DELLA NATURA

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Dopo la critica ricevuta da Croce, De martino aveva capito che era impossibile pensare ad un’epoca precategoriale come il mondo magico, in cui la presenza non è ancora fondata, in quanto sono le categorie che permettono alle categorie di spiegarsi.Questo ripensamento mise in crisi alcuni dei lettori più entusiasti di De Martino, come Renato Solvi e Cesare Cases che videro, nella rinuncia alla storicizzazione e alla relativizzazione delle categorie, un ritorno alle posizioni di Naturalismo e Stioricismo.Per De Martino la presenza coincide con il suo proiettarsi sempre oltre l’esistente. Laddove la perdita della presenza coincide con l’incapacità di realizzare la propria progettualità, il rischio è quello di inabissarsi nella in gens sylva della natura.La natura è il negativo della storia, egli la definisce un’alienazione. In genere i riferimenti alla natura sono solo finalizzati a valorizzare la cultura. È sull’antinomia fra natura e cultura che De Martino ha costruito il dramma di perdita e riscatto della presenza: “è solo con la morte che la natura irrompe nella storia e ne sovverte i fini, svelandosi per quello che è”.

13.8 DESTORIFICAZIONE E ALTRE TERAPIE CULTURALIL’interesse di De Martino va alle terapie “culturali” messe in atto dalle popolazioni locali per superare la crisi, e vincere l’angoscia di non esserci.Di particolare efficacia si rileverà la categoria di “destorificazione”. Con questa espressione si allude a una sorta di sospensione della storia che permette alla persona a rischio di rifugiarsi fuori della storia.La prima fase è quella della destorificazione irrelativa che consiste nell’evasione totale della storicità dell’esistere. La seconda fare è quella della destorificazione istituzionale, dove due potenti sistemi simbolici, la religione e la magia, sostano il conflitto su un piano metastorico, attivando un particolare regime di esistenza protetta che offre gli strumenti per il riscatto della presenza. Dunque la crisi viene superata attraverso la ripetizione di episodi esemplari che di personaggi che vengono reinseriti nella storia.Questa tecnica di superamento della crisi della presenza appare in Morte e pianto rituale, dove De Martino affronta la crisi del cordoglio causato dalla morte di una persona cara e racconta il lamento come unica pratica per distaccarsi dal morto e recuperare la propria presenza.

13.9 L’ETHOS DEL TRASCENDIMENTONel suo ultimo libro La fine del mondo il rischio della perdita della presenza irrompe scandalosamente dall’interno della stessa cultura occidentale, insidiandone la razionalità e l’ordine per trasformarsi in una universale condizione umana.Il tema della fine del mondo ha preso il posto del tema della perdita de mondo. A minacciare di andare in pezzi è la società occidentale, per la quale non si profila alcuna possibilità di riscatto.La risposta è una concezione che nasce dal concetto di presenza. Si tratta di una spinta valorizzante che riscatta individui e comunità dalla loro datità naturalistica, cui darà il nome di “ethos del trascendimento”. Ad esso spetta il compito di fondare e garantire la presenza del mondo ma anche quello di rendere possibile che ci sia un mondo.

PARTE QUINTADOPO LA CULTURA

14) IL DISAGIO DELLA CULTURA

14.1 LA CULTURA COME TESTONell’aprile del 1984 si svolge alla School of American Research di Santa Fe un “seminario avanzato” di una settimana, a cui prendono parte antropologi, storici e letterati, e che passò alla storia dell’antropologia come “la svolta testuale”. A promuoverlo sono Jamesn Clifford e George Marcus che pubblicheranno gli anni nell’opera Writing Culture”. La nozione tyloriana di “insieme di complesso” viene messa da parte. Il vero protagonista è “l’io narrante” dell’antropologo, che sostituisce il proprio testo alla cultura.

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Per Clifford l’Altro è la rappresentazione antropologica dell’Altro. Egli è interessato alla scrittura su cui l’antropologo si concentra in maniera esclusiva. Nella stesura dei testi, gli antropologi passano dagli appunti alla vera è propria costruzione, nella forma di una monografia che è il genere letterario più diffuso.La scrittura etnografica è determinata da sei dimensioni: il contesto, la retorica, le istituzioni, il genere letterario, la politica e la storia. Con Clifford il testo diventa l’unica cosa che conta e la cultura è ridotta a fiction, poiché non è un oggetto da descrivere.

14.2 SCENARI POSTMODERNIIl postmoderno è la fine delle grandi narrazioni che hanno rappresentato la modernità, e coinvolge in esso anche il concetto di cultura poiché esso ha nella modernità il proprio fondamento e poichè è stato lo strumento delle grandi narrazioni. Questo concetto di cultura è l’artificio che ha permesso l’accesso all’immaginazione di insiemi coerenti. La scrittura antropologica è sempre stata una sorta di filtro che seleziona le esperienze dell’antropologo per depurarle dalla sua soggettività, inserendo l’uso della terza persona e il ricorso al genere maschile.Quello che non passa per il punto di vista dei nativi non è altro che il punto di vista dell’antropologo, che traducendolo con il linguaggio lo fa coincidere la cultura descritta con il testo.

14.3 L’AUTORITA’ ETNOGRAFICA.Clifford successivamente ha criticato il fatto che gli antropologi avessero presentato la monografia etnografica come la registrazione oggettiva di una determinata cultura.Il suo fondamentale saggio sull’ “autorità etnografica” (1983) si apre con l’illustrazione di una fotografia scattata da Malinowki (osservazione partecipante) durante il suo soggiorno nelle Isole Trobriand. Nella fotografia si vede un capo in piedi sulla soglia della sua casa mentre riceve in dono una collana di conchiglie, mentre alle sue spalle si intravede una fila di sei giovani che si inchinano, tranne uno che sta guardando verso la macchina fotografica. Con questa foto Clifford certifica la presenza della scena davanti l’obbiettivo e la presenza dell’etnografo. Con ciò afferma che il fatto che fosse stato la ad effettuare una ricerca sul campo avesse fatto di lui un etnografo. Ed è questa certezza che rende veritiero il testo dell’antropologo.Con Malinowski si profila una nuova figura data dalla fusione dell’antropologo e dell’etnologo, ossia dell’etnografo di professione che ha tra le varie peculiarità:1. una accurata preparazione teorica e tecnica;2. la capacità di usare le lingue locali;3. la capacità di osservare e registrare comportamenti;4. la capacità di giungere al cuore di una cultura in tempi rapidi;5. la concezione della cultura come una totalità complessa;6. il presente etnografico ( si parte dal presente, dal momento in cui la ricerca ha avuto luogo per tornare ad un ipotetico passato tradizionale).

14.4 DAL DISCORSO AL TESTOL’autorità etnografica è coincisa con l’emergere della figura dell’etnografo professionale, poiché la sua esperienza valeva come fonte unificante dell’autorità sul campo.Questa forma di “autorità esperienziale” verrà criticata dagli antropologi per la vaghezza dei suoi criteri di autorità. Secondo Geertz la difficoltà sta nel costruire dei testi scientifici partendo da esperienze ampiamente biografiche. Per Clifford invece la difficoltà sta nella profonda estraneità della forma di vita cui l’etnografo si deve adattare.Ma l’esperienza in sé non basta a costruire l’etnografia, bisogna che il discorso si traduca in testo. Perché avvenga ciò deve diventare autonomo, separato dal suo interlocutore. Dopo di che l’antropologo ne diventa l’autore indiscusso mentre al posto degli informatori compare un autore generalizzato, che può essere il punto di vista indigeno.

14.5 DIALOGO E POLIFONIA

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Nonostante le critiche all’antropologia interpretativa, Clifford gli riconosce il merito di aver contribuito in misura significativa allo straniamento dell’autorità etnografica. Dietro a questo riconoscimento c’è un problema politico dovuto dall’impraticabilità di questo modello.A questo punto Clifford mette l’antropologia modernista con le spalle al muro, sollevando due questione, la prima riguarda l’atteggiamento coloniale che ha influenzato il modo di ritrarre la realtà culturale di altri popoli senza mettere prima in discussione la propria, la seconda, invece, tratta dell’esclusione di quelle figure di mediazioni cui si deve una parte della produzione etnografica. Da qui la proposta di un nuovo modello di autorità etnografica che sia dialogico (il dialogo si sostituisca allo sguardo) e polifonico (dove l’etnografo rinunci a parlare al posto dell’Altro e smetta di filtrarne i discorsi).Una proposta che non troverà un gran riscontro. Di fatti, di testi dialogici e polifonici se ne vedranno pochi, in quanto assomigliavano più a reportage che a delle etnografie.

14.6 CONTRO LA CULTURALe scienze sociali si contrappongono alle scienze della natura in virtù della diversità del rapporto tra il soggetto dell’indagine e la realtà studiata.Lo scontro tra moderno e postmoderno si inserisce nel vuoto lasciato aperto dalla crisi del concetto di cultura. Ed è la prima volta che l’antropologia sembra poterne fare a meno.La fine delle grandi narrazioni ci condanna a un sapere locale, anche se nella ricerca sul campo la categoria di cultura continua a essere un polo di riferimento che da ordine e senso ai materiali empirici. Avendo favorito la costruzione dell’Altro e irrigidendo le differenze, l’antropologia deve fare a meno del concetto di cultura e sostituirlo con categorie diverse, anche se senza la cultura è difficile pensare l’esistenza stessa dell’antropologia culturale.

14.7 CULTURE IN VIAGGIOIn anni più recenti si è tentato di sostituire il termine il cultura con l’aggettivo culturale da affiancare alla nozione di identità culturale, con i risultato che si finisca per parlare appunto di identità culturale e quindi indicare l’appartenenza comunitaria.L’opzione del multiculturalismo è apparso come una nozione descrittiva che non va oltre una cartografia delle diverse appartenenze culturali e che fa di ogni cultura un mondo a parte.Più adeguata a rappresentare il mondo della convivenza culturale appare la nozione di interculturalità, dove prevale il carattere poroso delle culture che interagiscono tra di loro in un processo di traduzione e di contaminazione.Nella metafora “culture di viaggio” di James Clifford, le culture in traduzione ci portano ad andare e venire tra un mondo e un altro, la traduzione è una questione di comunicazione interculturale.

15) DALLA CULTURA AI CULTURAL STUDIES

15.1 LINEAMENTI DI UN’ANTI-DISCIPLINA Cultural Studies: autori appartenenti ad un nuovo sapere emergente. Si tratta di un tipo di sapere particolare, strutturalmente “aperto” e caratterizzato da un approccio transdisciplinare che si è intrecciato con molte delle problematiche sociali classiche.L’essenza e la forza dei Cultural Studies risiedono nella loro irrequietezza. Ciò che unisce tutti colore che praticano Cultural Studies è unicamente il tentativo di proporre analisi teoriche, indagini testuali e ricerche etnografiche impegnate su fenomeni riguardanti la produzione culturale contemporanea. Come suggerisce il sociologo Stuart Hall, figura centrale nella formazione dei Cultural Studies britannici, si può solo asserire che fare Cultural Studies significa portare alla luce le contraddizioni tra cultura e potere nelle moderne società di massa. Quindi mettere a fuoco testi, immagini, istituzioni e discorsi attraverso cui il potere esercita il proprio dominio sulla società, e identificare quelle pratiche culturali che producono gruppi e soggetti subalterni nei loro tentativi di sottrarsi all’universo diffuso dalle ideologie dominanti.

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L’oggetto di studio dei Cultural Studies è rappresentato da un qualsiasi fenomeno culturale politicamente significato per l’analisi dei rapporti tra potere e cultura. Chi fa Cultural Studies seleziona dalle altre discipline soltanto ciò di cui ha bisogno per poter sviluppare meglio il proprio lavoro.

15.2 STRATEGIE MOBILI E “NUOVI” CAMPI DI STUDIOE’ sempre l’oggetto e il tipo di tematica che si vuole affrontare a determinare che tipo di strategia di ricerca risulterà più adeguato per lo svolgimento del lavoro. I Cultural Studies promuovono un’ottica transdisciplinare nell’approccio ai fenomeni culturali. Più che una nuova disciplina, essi designano un campo collettivo di riflessioni sulla cultura capace di racchiudere al suo interno progetti intellettuali diversi. Stuart Hall affermò che i Cultural Studies sono costituiti da discorsi molteplici, essi sono il prodotto di diversi momenti e hanno avuto a che fare con differenti tipi di lavoro.Lo sviluppo dei Cultural Studies ha favorito l’emergere di una grande quantità di nuovi campi di studio (Film Studies, Music Studies, Race Studies etc.). La prospettiva transdisciplinare in cui si collocano i Cultural Studies critica e sfida le discipline umanistiche tradizionali, che vengono considerate come veri e propri pilastri dell’eurocentrismo e che procedono attraverso categorie affatto neutrali promosse da una filosofia coloniale storica.

15.3 LA CULTURA NEI CULTURAL STUDIESNelle società globali contemporanee i discorsi e le rappresentazioni culturali vengono a configurarsi come il luogo della lotta politica per l’egemonia. E questo perché si tratta di società che producono essenzialmente “cultura”, ovvero beni che sono simboli culturali. I Cultural Studies si propongono di mettere a fuoco i conflitti innescati da questa missione culturale del capitale globale contemporaneo. La cultura è diventata un elemento centrale della conflittualità sociale non solo per motivi economici. Il trasformarsi delle migrazioni in un fenomeno strutturale del nostro presente hanno fatto dell’uso politico dell’identità culturale uno dei principali strumenti per il riconoscimento sociale dei diversi gruppi, classi e soggetti.Le politiche sociali ed economiche discriminatorie dello stato britannico venivano legittimate da un’idea di cittadinanza fondata su una nozione di “Britishness” di origine coloniale e quindi razzialmente connotata. Ed è in contesti come questi che le politiche dell’identità sono diventate elementi chiave della lotta politica. I Cultural Studies consideravano le espressioni culturali come testi. Enfatizzare la natura testuale della cultura significare che le espressioni culturali non potevano essere intese come fenomeni indipendenti dall’agire individuale e collettivo. Per i Cultural Studies la sfera culturale riguardava quindi la dimensione simbolica dell’agire individuale e sociale, la produzione di significati e la costruzione di senso da parte dei soggetti.

15.4 UNA PLURALITA’ DI DISCORSI IRRIDUCIBILII Cultural Studies intendevano la cultura come un fenomeno di produzione continua, quindi il loro oggetto di studio erano le pratiche culturali, ossia quelle pratiche attraverso cui i gruppi costruiscono in contesti specifici i loro significati. Ed è proprio per questo che nelle società contemporanee la cultura non può essere vista come un oggetto, ma come un insieme di discorsi di ogni tipo che vengono vissuti e investiti di senso in modi diversi.I Cultural Studies partono dalla premessa secondo cui è impossibile comprendere una certa pratica culturale e un certo testo culturale senza prendere in considerazione le condizioni materiali (pluralità di fattori che è irriducibile all’altro) entro cui vengono prodotti.Quindi possiamo ridefinire l’obiettivo dei Cultural Studies come il tentativo di mettere a fuoco i rapporti esistenti tra esercizio del potere e soggettività culturale, cerando di superare sia l’economicismo delle scuole marxiste tradizionali, sia l’oggettivismo della sociologia e dell’antropologia.

15.5 ALTA CULTURA, CULTURA POPOLARE, CONTRO-CULTURANell’ottica dei Cultural Studies l’obiettivo era l’analisi del modo in cui diversi soggetti producono i propri significati, poiché “la gente vive attraverso la cultura e non a fianco ad essa”. Ogni gruppo ha le proprie risorse interpretative come i propri bisogni e desideri, quindi un’espressione culturale può avere significato

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solo in riferimento ad un soggetto particolare. Ciò che determina i significati dei prodotti culturali è il gioco di relazioni e di distinzioni, usi e pratiche sociali, entro cui si costituiscono. Il motivo per cui i Cultural Studies si propongono come un sapere politico è diverso da tutti gli altri, è perché il loro obiettivo finale è quello di produrre degli effetti sulla società, contribuendo allo sviluppo di progetti e politiche di emancipazione.

15.6 UNA NUOVA TEORIA MATERIALISTA DELLA CULTURA: dai CULTURAL STUDIES ai cultural studiesL’esperienza dei Cultural Studies britannici è legata alla storia del Center for Contemporary Cultural Studies dell’Università di Birmingham, fondato da Richard Hoggart nel 1964. I lavori del CCCS erano orientati nel mettere a punto una teoria materialista della cultura libera da ogni tipo di determinismo. Il termine cultura sarà inteso come quel processo sociale attraverso cui gli uomini costruiscono giorno dopo giorno i propri significati.L’attività di ricerca del CCCS si è mossa attraverso quattro campi diversi: a) l’emergere delle sottoculture giovanili operaie urbane; b) la produzione ideologica dei mezzi di comunicazione di massa; c) la reazione dell’audience ai significati veicolati dai media; d) l’irruzione della questione della “razza”. Sono queste le tematiche affrontate dal Resistance through Rituals, (un testo che aveva come obiettivo la messa a punto di un approccio teorico allo sviluppo del fenomeno delle sottoculture giovanili (class-less society) che avevano una forte carica ideologica. Ma che ben presto furono oggetto di angosce e paure sociali, in quanto nella Gran Bretagna contemporanea non esisteva una “cultura giovanile” ma “sottoculture giovanili”) e dal Policing the Crisis.

15.7 LE SOTTOCULTURE GIOVANILILa cultura, pur essendo il prodotto di determinate condizioni storiche, costituisce una forza attiva nella riproduzione della realtà storica dei soggetti e dei gruppi. Unità analitiche come “sistema”, “classe”, “struttura” o “cultura” esistono solo nelle pratiche quotidiane dei soggetti o dei gruppi.Nelle società capitalistiche avanzate non esiste un’unica cultura ma “culture di classe”. La cultura dominante presenta se stessa come l’unica cultura legittima.Ed è a partire da queste premesse che in Resistance through Rituals si mette a punto un concetto di “sottocultura”.1. le sottoculture sono frazioni più piccole e localizzate di formazioni culturali maggiori. Si fa riferimento a stili di vita giovanili che coesistono con la cultura della classe alla quale appartengono. Le sottoculture giovanili operaie esprimono autonomia nei confronti della cultura dei genitori e al contempo riaffermano le proprie radici operaie.2. le sottoculture giovanili operaie vanno analizzate anche nel loro rapporto con la cultura dominante alla quale si contrappongono ma dalla quale sono pervase.3. alcune sottoculture si costituiscono a partire da legami forti tra i loro membri, da confini simbolici rigidi e da certe attività piuttosto chiare. Alcuni compaiono per un certo periodo storico richiamando l’attenzione pubblica per poi scomparire. E non tutti i giovani le vivono in modo totalizzando.4. le sottoculture forniscono strategie particolari ai loro membri per negoziare la loro esistenza collettiva. Sviluppano rituali sociali che definiscono le loro identità.5. ciò che le definisce è lo stile (organizzazione di oggetti, segni e cose in funzione di una identità collettiva) di vita di cui si fanno promotrici. The Meaning of Style offre alcuni definizioni di stile prodotte dal CCCS: a) crimine nei confronti dell’ordine naturale delle cose; b) un gesto di sfida o disprezzo dell’ordine; c) oltraggio del senso comune; d) sfida indiretta all’egemonia della classe dominante; e) contraddizione del mito del consenso.Dick Hebdige afferma che non c’è stile senza shock, senza panico morale.

15.8 UN’ANTROPOLOGIA PER LE SOCIETA’ DI MASSALo sviluppo di una cultura popolare di massa non produce individui manipolati che vivono in un mondo falso. Nessuna industria culturale, nessuna egemonia può garantire la chiusura dei significati veicolati dai propri apparati. Nulla può assicurare la passività o la manipolazione totale delle masse.

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Resistance through Rituals getta le premesse per un’antropologia per le società di massa. La sfera di competenza di questa antropologia metteva in luce la lotta ingaggiata da soggetti per la conquista dei propri significati. I Cultural Studies individuavano nella cultura popolare il luogo del consenso e della resistenza, ma anche dove emerge e si afferma l’egemonia. La tesi del Policing the Crisis era che la diffusione del panico morale da parte dei media aveva come scopo quello di rafforzare il controllo e il ruolo repressivo dello Stato, ma al contempo aveva creato figure come i folk-devil nemici pubblici, ossia i delinquenti. Definendo così un panorama di crescente tensione e l’arresto dei delinquenti si trasforma per l’opinione pubblica in uno dei simboli della ricostruzione e della rinascita popolare.

16) LA CRITICA POSTCOLONIALE

16.1 UNA GENEALOGIA COMPLESSAAnche se i Cultural Studies costituiscono una delle più importanti radici, la critica postcoloniale presenta quella che possiamo definire una “genealogia complessa”. In effetti affonda le radici nel pensiero anticoloniale classico, nella critica dell’imperialismo occidentale portata da diversi movimenti di liberazione nazionale, ma anche nei Black Studies e nel radicalismo politico afro-americano e caraibico, così come nel movimento antirazzista e in quello delle femministe nere e non occidentali nei confronti dell’eurocentrismo tipico del femminismo bianco.La critica postcoloniale comprende un insieme di prospettive collegate, anche in modo contraddittorio. Non minore è stato il contributo apportato alla critica postcoloniale da parte di numerosi scrittori neri e/o di origine non occidentali. Forti sono le suggestioni che trasmettono i loro romanzi sugli effetti della schiavitù, del colonialismo e del postcolonialismo. Ad esempio quelli di Edward Said, Gayatri Spivak e Homi K. Bhabha (the Holy Trinity). Ma in questo contesto merita una menzione particolare EDWARD SAID il cui Orientalismo (1978) occupa una posizione chiave nella costituzione della critica postcoloniale.

16.2 ORIENTALISMO O LA COSTRUZIONE OCCIDENTALE DELL’ORIENTEIn Orientalismo Said si prefiggeva si prefiggeva un obbiettivo piuttosto chiaro: mettere a fuco la totale dipendenza dei discorsi sull’Oriente prodotti dall’Occidente dai rapporti di dominio dell’Europa sulle società orientali. Sais vuole dimostrare che il dominio dell’Occidente sull’Oriente ha sempre funzionato, e la considerazione che il primo aveva sul secondo ,per la maggior parte stereotipi, o rappresentazioni negative, che hanno avuto come risultato la formazione di ciò che egli chiama Orientalismo, ovvero un corpus di conoscenze sulle società orientali del tutto funzionale all’egemonia politica dell’Occidente sull’Oriente. In Orientalismo Said non intende solo dirci che è stato l’Occidente ad aver prodotto l’Oriente, ma ciò che gli interessa è rendere evidente che l’Oriente è stato costituito come “Altro” dell’Occidente. E proprio come l’Occidente, l’Oriente è un’idea che ha una storia e una tradizione di pensiero, immagini e realtà che gli hanno dato realtà e presenza per l’Occidente.

16.3 LA VIOLENZA EPISTEMICA DELL’OCCIDENTEOrientalismo si trattava di un testo davvero innovativo e quindi certamente “spartiacque”. La grande originalità del lavoro di Said stava nell’aver esteso il concetto di discorso e l’analisi della costituzione del sé e della ragione moderna al rapporto Occidente-Altro coloniale.Dopo Orientalismo è diventato sempre più chiaro che l’Europa non avrebbe potuto rappresentare la propria storia come un percorso universale senza la violenza costitutiva dell’espansione coloniale.È in virtu di questi presupposti che Orientalismo ha contribuito a plasmare lo spazio politico-epistemologico della critica postcoloniale. In particolare ha consentito lo sviluppo del “discorso coloniale”.

16.4 IL DISCORSO COLONIALESono stati HOMI K. BHABHA e GAYATRI SPIVAK ad aver contribuito con le proprie analisi alla diffusione del concetto di “discorso coloniale”.

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Per Bhabha “discorso coloniale” sta a indicare quel complesso di simboli, rappresentazioni e pratiche ha hanno organizzato l’esistenza e la riproduzione culturale all’interno delle società coloniali. È proprio attraverso la proliferazione dei “discorso coloniale” che si è consolidato nella storia il dispositivo del potere colonialista. Il “discorso coloniale” posso essere definiti come i veicoli fondamentali di un sistema di credenze e di conoscenze presente in tutte le sfere della cultura occidentale moderna finalizzato alla produzioni di concezioni sul Sé e sull’Altro non-europeo, e sul rafforzamento delle strutture sociali. La sua funzione principale è creare uno spazio materiale adatto alle popolazioni soggette e il loro potere è dato dalla loro capacità di produrre o costituire tipi determinati di soggettività culturale.Anche per Spivak la funzione principale del “discorso coloniale” è di legittimare a livello politico l’espansione imperiale e l’esercizio del potere da parte dei governi coloniali. Il suo ragionamento è che la scrittura e alcuni testi occidentali sono stati fondamentali per la produzione e disseminazione globale della missione civilizzatrice occidentale.Il potere di alterizzazione dell’Altro colonizzato ci fa capire il carattere traumatico dell’esperienza coloniale.Spivak tende a mettere in luce anche la violenza epistemica attuata nella politica di colonizzazione. Questo concetto di violenza serve a rimarcare due presupposti della critica postcoloniale: il primo è non si può dissociare la volontà di conoscere una società dalla volontà di dominarla, il secondo è che non si può considerare l’istituzione storica dell’Europa come “soggetto sovrano”.

16.5 LA RESISTENZA DEI COLONIZZATIBhabha ci chiede di considerare il “discorso coloniale” come l’espressione fondamentale di un rapporto conflittuale e instabile tra colonizzatori e colonizzati. Egli si concentra su quelle che lui definisce le tre caratteristiche: l’ambivalenza (perché è determinato da una volontà di dominio imperialista e da complesse dinamiche psicologiche inconsce tra colonizzatori e colonizzati; perché vede l’Altro sia come oggetto di desiderio che di derisione), l’eterogeneità (il colonialismo ci apparirà sempre di più come un fenomeno caratterizzato da una pluralità di discorsi eterogenei)e quello della sua perenne inefficienza.

16.6 IL “TERZO SPAZIO”DELL’IBRIDAZIONE: MIMICRY, DISSENSO, DISSONANZALa terza caratterista de “discorso coloniale” come detto precedentemente è la sua perenne inefficienza, o meglio la sua impossibile “chiusura”. Secondo Bhabha ambivalenza ed eterogeneità derivano anche dall’impossibilità del “discorso coloniale” di replicare sé stesso, ovvero di riprodursi o inscriversi nella coscienza dei colonizzati.Attraverso il concetto di minmicry, Bhabha designa quella situazione in cui i nativi, sollecitati dai “discorsi coloniali” a imitare i comportamenti e le credenze dei colonizzatori, danno luogo a fenomeni culturali di sincretismo o di ibridazione che rappresentano una brutta copia dell’originale. Egli si sofferma su due fenomeni in particolare: sulle distorsioni subite dalla Parola cristiana durante il processo di diffusione della Bibbia nell’India coloniale. Tali fenomeni rivelano per Bhabha il limite del “discorso coloniale”, la cui ambivalenza contiene in sé i germi della propria distruzione . in effetti l’uomo che imita non è un soggetto rassicurante per i colonizzatori.Per Bhabha mettere in luce la “mimicry coloniale” significa identificare il sito in cui emergono con chiarezza le dinamiche di riappropriazione, di resistenza e di agency dei nativi nei confronti dei colonizzatori. Questi processi di ibridazione culturare danno vita ad un “terzo spazio” che è lo spazio postcoloniale per eccellenza, che ci permette di trasformare l’osservatore in osservato.

16.7 CAN THE SUBALTERN SPEAK?Secondo Spivak gli archivi storici e culturali non possono contenere nessuna traccia autentica del vero subalterno-coloniale. Nel suo Can the Subaltern Speak? ci propone una lettura femminista della storia coloniale in cui la reale figura della subalternità è costituita dalla donna del terzo mondo.Le sue conclusioni si basano sull’analisi storica di un caso particolare: quello della Rani (regina) di Simur (regione della parte meridionale dell’Himalaya). A causa dei suoi apparenti costumi barbari decide di disobbedire alle disposizioni delle autorità imperiale comunicando la sua volontà la sua volontà di farsi bruciare viva sulla pira alla morte del marito. Scandalizzato da una decisione così primitiva i funzionari tentarono di dissuaderla. Così il suo desideri non fu mai avverato. Il suo apparve come un caso indicativo sia

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della condizione dei subalterni sia della loro assenza nei registri storici. Spivak ci chiede di pensare a tutte quelle donne del sud che non hanno potuto parlare di sé ( non è che loro non abbiano potuto parlare, è che i regimi dominanti non sono stati in grado di ascoltare la loro voce).Quindi secondo Spivak il primo compito di cui l’intellettuale postcoloniale dovrà farsi carico è quello di mettere in crisi i sistemi di rappresentazione che hanno reso le donne più emarginate a Sud, o che hanno impedito di far emergere la loro voce.La soggettiva subalterna appare agli occhi di Spivak come un qualcosa di profondamente intraducibile e irrecuperabile.

16.8 LA CONDIZIONE POSTCOLONIALELa critica postcoloniale si è sviluppata sul fatto che l’esperienza coloniale moderna è uno degli episodi chiave della storia dell’umanità. Con questa nuova narrazione postcoloniale, per colonialismo dobbiamo intendere l’intero processo di espansione, esplorazione, conquista, colonizzazione ed egemonia imperiale che ha rappresentato “l’esterno-costitutivo” della modernità capitalista dopo il 1492.Il colonialismo è il prodotto di un sistema globale di sfruttamento dei popoli non-europei. Si può sostenere che l’originalità, così come la forza politica ed epistemologica, dell’aggettivo “postcoloniale” derivi dal prefisso post, che vuol significare un distacco dal colonialismo.Definire il mondo contemporaneo come postcoloniale non significa collocarlo in un periodo cronologicamente successivo a quello del colonialismo. In quanto la cultura coloniale non si è dissolta con la fine del vecchio sistema colonialista, i cui effetti non sono stati del tutto cancellati. Inoltre il colonialismo costituisce il punto di partenza di ogni analisi politica, in quanto è considerato l’unico passato possibile.

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