Cultura e identità dalla Sardegna al mondo

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1 Vincenzo Pira “Mastros de paraula, mastros de vida” Cultura e identità : dalla Sardegna al Mondo Dorgali 2012

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Ogni terra ha i suoi poeti. La Sardegna tra queste. Poesie nate in una una cultura che tradizionalmente ha fatto del silenzio e della riservatezza il suo scudo protettore: “Allega pacu po non faddire meda”. Che ha sempre diffidato della scrittura . “Nde morit prus sa pinna chi non sa balla”. Cultura che ha ritualizzato, a modo suo, momenti fondamentali della vita: il nascere, l’innamorarsi, l’amicizia, il godere, il morire. E trova gli strumenti adeguati per poter esprimere adeguatamente questo: non con nude parole improvvisate ma con il canto, la poesia, la musica, il ballo. Che rispondono a regole condivise e permettono di vincere, nel rito, l’inadeguatezza personale, l’ignoranza, la vergogna, il timore di non essere all’altezza.

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Vincenzo Pira

“Mastros de paraula, mastros de vida”

Cultura e identità : dalla Sardegna al Mondo

Dorgali 2012

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A SOS MASTROS DE PARAULA POETAS E CANTADORES MASTROS DE VIDA ISCUSORZOS DE SARDINNA BENES DE S’UMANIDADE 1

1 Ai maestri della parola, poeti e cantori, maestri di vita, tesori della Sardegna, beni dell’umanità.

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Maestri della parola, maestri di vita “Sos contos si contan’a de notte, ca est a de notte chi su sacru s’amustrat; chie ischit a contare narat ca sa paraula est cussu chi sa paraula cheret narrere” .2 Alla fine ciò che conta è garantire la sopravvivenza dell’umanità. E per fare questo ogni comunità s’inventa comportamenti, stili di vita che propongono il miglior modo di esistere. Si creano regole di vita che hanno come fine il far sta meglio le persone e le comunità. Oggi non solo le comunità locali ma il mondo globale. E ogni comunità e società assume un codice di riferimento che diventano norme, leggi, abitudini, valori che ogni membro deve conoscere e rispettare. I genitori educano i figli; lo stato codifica e fa rispettare le leggi; le persone cercano tra loro serenità, benessere, libertà. E per far questo si comunica con i gesti, con le parole, con tutto ciò che si scrive o costruisce. L’insieme organico di tutto questo viene chiamato cultura. Che si elabora e impara in ogni luogo, non solo nelle scuole. Nelle società tradizionali il compito di educare, di trasmissione dei saperi, non avveniva in un posto specializzato per tale fine (scuola, università) e neanche vi erano persone incaricate specificamente a tale compito. 2 I racconti si narrano di notte, perché è di notte che il sacro si svela , chi sa narrare dice che la parola significa ciò che la parola vuol esprimere.

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Era una funzione, prima di tutto della famiglia, e poi di tutta la comunità, di educare, insegnare, condividere regole e modi di comportarsi. Nel progredire dei tempi e con l’acquisizione di nuove tecnologie tutto cambia. Gli spostamenti diventano più facili, i mezzi di comunicazione non sono più legati alla trasmissione orale e diretta. Si obbliga tutti ad andare per tanti anni a scuola, a seguire programmi che spesso sono decisi lontano dalle comunità locali, ad imporre nuovi contenuti e nuove esigenze che cambiano la vita. Nella mia scuola, non era scritto in un cartello, ma i professori lo ripetevano come fosse la norma più importante di condotta: “A SCUOLA NON SI PARLA IN SARDO”. Confesso che ho preso più volte sette in condotta e il marchio che mi porto impresso da allora: “studia ma è molto indisciplinato”. Un giorno, in una calda mattina del maggio 1968, nella Scuola Media Statale Salvatore Fancello di Dorgali mi succede qualcosa di inatteso. Alla Sorbona di Parigi e alla Cattolica di Milano esplodeva la protesta degli studenti. Noi della prima A, pensavamo ad altro: al Cagliari che stava per vincere lo scudetto, ai primi amori giovanili, ai sequestri di persona che coinvolgevano anche un paese tranquillo come il nostro, ai manifesti con le foto dei banditi e la taglia di cinque milioni di lire a chi aiutava ad arrestarli, alle poche prospettive di lavoro esistenti e alla possibilità di emigrare. Ma La novità la portò la professoressa Balzarini insegnante di educazione musicale. Per la prima volta ci chiede di cantare al registratore qualche canzone in sardo. La cosa ci sembrò così strana che nessuno trovava il coraggio di alzarsi. Dopo qualche minuto di titubanza, tra le risate dei compagni, uno di noi si alzò e con voce decisa cantammo una delle poche canzoni in sardo che avevamo imparato da bambini:

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Cando ippi minoreddu a tetteledda Aiamus unu porcu mannalitu Andau soe a li tocare su piritu E m’at tirau una mossa a sa pilledda. 3 A scuola, alla mia generazione non hanno insegnato a scrivere o a comporre né in italiano e tanto meno in sardo. Non ci hanno insegnato come si compone un racconto, un romanzo o una poesia. Non ci hanno insegnato le tecniche della composizione in nessuna lingua. Chi imparava a cantare o comporre poesie o canti in sardo lo doveva all’ovile, alla cantina o al focolare non alla scuola. Si è elaborato cultura “cumponende grobes” celebrando i luoghi, i simboli di tante vite, canti ripetuti per alleviare la monotonia del lavoro e per accelerare la percezione del tempo che fatica a passare. Poesie per segnare i momenti dell’esistenza fino agli ultimi canti funebri ‘sos Attitos’, alimento e pegno per favorire il passaggio a un altro modo di esistere che è più difficili da capire e accettare per chi resta. Per questo ci si affida a ‘sos mastros de paraula’ , cantori e poeti – uomini e donne – che sanno dire bene quello che si sente nel cuore e che le parole usuali del comunicare non possono dar conto. L’immenso sforzo della persona umana per afferrare il senso delle parole, condividerle come patrimonio culturale comune e usarle per migliorare la qualità della vita, personale e comunitaria, a livello locale e globale. E la poesia è una forma privilegiata per questa finalità. Perché è la forma ordinata più arcaica di comunicazione, prodotto della parte più antica del cervello. 3 Quand’ero in vestaglietta piccolino /avevamo un piccolo maialino / quando gli ho toccato il suo musino / m’ha dato un morso al pisellino.

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Poesie da recitare e poi ricordare e trasformare. Poesie che non solo descrivono il momento ma lo fanno vivere e rivivere con maggior intensità ed emozione. Poesie che nella loro forma (significante) trasmettono oltre il contenuto stesso delle parole (significato). Uno spazio di confine aperto tra il divino e l’umano, tra il concreto e l’astratto, tra l’emotivo e il razionale tra il sacro e il profano. Un ponte tra il cielo e la terra che attraverso il linguaggio della poesia, con le metafore che comunicano forma e contenuto in modo inscindibile, permettono un sentire e un coinvolgersi molto più di quanto può fare la condivisione di codici di riferimento basati su concetti razionali. Per questo non è eccessiva l’affermazione che soprattutto nella poesia è contenuta l’essenza della nostra identità. I riferimenti primordiali di quell o che siamo, il timbro originale di chi ha costruito la nostra forma comunitaria di essere. In esse, come anche nei proverbi tradizionali (dizzos) sto ricercando quei segni che contraddistinguono da sempre la cultura dei sardi. Ad iniziare dalla lingua per arrivare a conoscere alcuni modelli del modo di pensare, a qualcosa che non è del tutto definito ma che fa parte del modo di essere che lo psicologo Karl Jung ha denominato “inconscio collettivo” o miti di fondamento del modo di essere e di vivere meglio. Come diceva Gilbert Keith Chesterton (quello di Padre Brown) : “Le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, i bambini che i draghi esistono lo sanno già, le fiabe insegnano ai bambini che i draghi possono essere sconfitti!".

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IN SARDU “Sa limba est comente una emmina, si s’abbizat ca la chircas chin amore, si rendet, non si cuat”.(Paolo Pillonca) Sa prima limba c’appo imparau e chi m’at fattu connoschere sos primos sentidos est su sardu chi s’allegat in Durgali. In iscola m’an obricau a allegare in d’una attera limba. M’an imparau a iscriere e a lezzere in italianu. Apustis, a mannu, appo istudiau peri ateras limbas: inglesu, portoghesu, ispagnolu, franzesu. Medas limbas e sa gana de connoschere ene su sensu de sas paraulas e de sa vida. Appo lettu sos iscrittos de Tullio De Mauro, de Antonio Gramsci e de atteros istudiaos chi achen sa differessia tra limba e dialettu. Sa limba est s’istrumentu po podere numenare, cumprendere, allegare e iscriere de donnia cosa chi si pessat. Narant ca su dialettu, imbezzes, est fattu de paraulas de itianu, po sos travallos umiles, no balet po s’iscola, non si podet bortare in atera allega. O menzus, narant ateros, su dialettu è unu modu de interpretare una limba in d’unu locu minore. In su libru “Alice nel paese delle meraviglie” de Lewis Carroll appo lettu: “Cando impero una paraula custa cheret narrere propriu cussu chi cherzo ieo – nudda de prus e nudda de mancu. - Sa dimanda est si si podet fachere in modu chi sas paraulas cherzana narrere medas cosas, at rispostu Alice. Ma sa dimanda zusta est: Chie cumandat? E tottu finidi inoche.” Chie cumandat po dezidere comente allegare e in cale limba? Chie dezidit ghite mantennere e ite cambiare in su modu de narrere e de bivere?

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Sas limbas poden esser bortasas s’una chin s’atera dande contu de su sensu e de su valore de sos pessamentos; cosa chi sos dialettos, naram in medas, non be resessini o est meda prus diffizile. Sos mastros de limbas narant ca su sardu est una limba. At tottu sos trastes de grammatica, de sintassi po essere a su propriu livellu de s’ateras limbas naschias dae su latinu.Sas limbas sone unu produtu de sa vida e de su trattu de sas pessones in sociedade e in familia. S’imparana, si cambiana, s’allegana a pare, limba chin limba, e s’adattana sas paraulas a su modu de narrere de cada una. Su sardu s’allegat, si faedat, si questionat, in modu diversu in cada idda de Sardinna. E gasi depet essere. Oje est su documentu de identitade prus veru. Ieo non connosco prus a tottu mancu in bidda mia, ma intendende s’allega isco derettu si unu est durgalesu o si est de Baronia o de Uliana... No est prus su istire o s’andonzu; sos cuccos o sas zoicas; est sa limba chi narat de nue sese. Sos ischìos han cuncordau regulas de comente depet essere iscritta; sas regulas de sa grammatica de comente si narant sas parualas (fonetica) e creo chi siat una cosa zusta e chi servit a dare valore a custa prenda chi non depimus isperdere. Po podere dare contu de tottu sos pessamentos in modu zustu si mischian paraulas de ateras limbas (eris su latinu, s’ispagnolu, su catalanu, s’arabu; oje s’italianu, su franzesu e meda de prus s’inglesu). Comente in donnia sociedade moderna b’at diferessias in s’allega de sos tècnicos: medas modos de narrere non s’usan prus. Su mundu est cambiau e medas paraulas si son perdende, dae cando sos mannos chi bivian in cuile e in d’una idda inue quasi tottu ini pastores, massios o mastros artigianos. Sos prus de sos pizzinos chi istudian oje, forzis, no ischin

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prus chite est unu ettazou o unu paralimpu; una calavrina o una mannalita, unu odde o una pranita. O ateras paraulas chi sone sinzale de una vida colà o sone imperas in zertos travallos e non son prus connotas dae tottu. Appo intesu allegande pizzinnos chi imperant su sardu e un’italianu porcheddinu, chin paraulas inglesas bortas in sardu. Oje si podet intendere unu durgalesu narande osi: “Callia deddè, ca soe travallande in su computer e mi ses istressande chin cussa televisione” … Sa limba est s’anima de sa cultura. S’ispricu de s’identidade. Semus bivende irfidas noas de su locu, de sa idda, de sa Sardinna, chin sos problemas de s’Italia, de s’Europa e de su mundu. “Locale e globale” naramus in italianu, sa cussorza e su mundu. E una gherra inue una banda de su mundu nos cheret tottu uguales: allegande sa propria limba, mandicande sas proprias cosas, estinde uguale, in cale si siat banda de sa terra. E custu no andat bene. Depimus mantennere ìa sa cultura nostra, de Durgali e de sa Sardinna, imparande e imperande cosas noas ma dande valore a s’eressia chi nos ane lassau sos mannos : sa limba, su mandiconzu, sos ballos, sos cantos, sos dizzos, sas poesias. E non comente cosa de ammustrare a sos turistas istranzos, ma comente undamentu de su modu de bivere e de pessare. Chi sone s’unica cosa nostra. Non cambio, alu oje, unu tattaliu, una cordedda, unu cazzu, o unu canzu de casu muchidu e su pane carasau, chin nudd’atteru in su mundu. Medas cosas cambiant e est zustu osi. Ma sos cambiamentos depene essere seperaos chin liberdade e non depene essere impostos dae fora. Sa limba sarda, po mene su durgalesu, si depet appropriare de cantu de prus bellu e de prus interessante esistit in sas ateras limbas. Ischinde ca si podet narrere cale si siat cosa mischiande

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sas paraulas, ortandelas in poesia, in canzones, in dizzos o in grobes. Po cussu appo proau a iscriere in durgalesu e in italianu. A dare valore a cantu ane iscrittu sos poetas sardos e durgalesos. E a sa vine appo provau, belle che po jocu, a iscriere ieo, in durgalesu, pessande a poesias, canzones e dizzos de su mundu intreu. Cantu be sia resessiu non disco. Ispero chi interessen a calicunu. A mimmi m’es aggradau e serviu. Alternando italiano e sardo con uguale dignità e valore. Da dorgalese, sardo e da cittadino del mondo, Italia ed Europa incluse. Vincenzo Pira , marzo 2012

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IN ITALIANO “La lingua è come la donna, se s’accorge che la cerchi con amore, si svela, non si nasconde”. (Paolo Pillonca) La prima lingua che ho imparato, e che mi ha fatto conoscere i primi significati, è il sardo che si parla nel paese di Dorgali. A scuola mi hanno obbligato a parlare in un’altra lingua. Mi hanno insegnato a scrivere e leggere in italiano. Successivamente, da grande, ho studiato anche altre lingue : inglese, portoghese, spagnolo, francese. Molte lingue e il desiderio di conoscere bene il significato delle parole e della vita. Ho letto gli studi di Tullio De Mauro, di Antonio Gramsci e di altri esperti che analizzano le differenze tra lingua e dialetto. La lingua è lo strumento per poter nominare, capire, trasmettere e scrivere ogni pensiero. Dicono che il dialetto, invece, è fatto di parole del quotidiano, per i lavori umili, non serve per la scuola, non serve per le traduzioni da altre lingue. O meglio, affermano altri, il dialetto è una maniera di interpretare una lingua in una piccolo territorio. Nel libro “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carroll ho letto: Quando io uso una parola, questa significa quello che io voglio farle significare, nè più nè meno.” - Ma la questione è”, disse Alice, “se può dare alle parole tanti significati diversi…” - “La questione è” ripetè Humpty Dumpty, “chi è che comanda… ecco tutto.” Chi comanda e decide sul come si parla e in quale lingua? Chi decide cosa mantenere e cosa cambiare nei modi di dire e di vivere?

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Le lingue possono essere tradotte l’una con l’altra dando conto del significato e del valore dei pensieri; e ciò, dicono alcuni, non è possibile o è più difficile con i dialetti. I linguisti dicono che il sardo è una lingua. Ha tutti i riferimenti grammaticali, di sintassi per essere considerata al livello di tutte le altre lingue neo latine. Le lingue sono un prodotto della vita e delle relazioni tra le persone in società e nella famiglia. Si imparano, si cambiano, si parlano tra loro, lingua con lingua, e si adattano le parole ai modo di dire di ognuna di loro. Il sardo si parla in modo diverso in ogni paese di Sardegna. E così deve essere. È oggi il documento di identità più vero. Io non riconosco più neanche i miei paesani più giovani, ma ascoltando il parlare capisco subito se uno è di Dorgali, di Baronia o di Oliena… Non è più il modo di vestire o il modo di camminare; la pettinatura o i gioielli; è la lingua che indica la provenienza. Gli esperti in linguistica hanno proposto regole del come scrivere in sardo; codificato regole grammaticali e della fonetica e credo sia una scelta adeguata che aiuta a valorizzare questo tesoro che non dobbiamo disperdere. Per poter esprimere adeguatamente ogni pensiero si usano parole provenienti da altre lingue (in passato si faceva riferimento al latino, lo spagnolo, il catalano, l’arabo; oggi si usa l’italiano, il francese e, in modo più preponderante, l’inglese). Come in ogni società moderna vi sono modalità diverse nei linguaggi tecnici e modi di dire che non si usano più. Il mondo è cambiato e molte parole si sono perse, da quando i nostri avi vivevano soprattutto negli ovili, e tutti erano pastori, contadini o artigiani.

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La maggior parte degli studenti di oggi, forse, non sanno cos’è un “ettazou” o un “paralimpu”; una “calavrina ” o una “mannalita”, un “odde” o una “pranita” . 4 O altre parole che sono evocazione di una vita passata o che sono usate ancora nell’ambito professionale e tecnico e non sono più conosciute da tutti. Si sentono i ragazzi parlare usando il sardo o l’italiano pieno di sardismi, con parole inglesi tradotte in sardo. Oggi può succedere di sentire un dorgalese dire: “Stai zitto, ragazzino, perché sto lavorando al computer e mi stai stressando con quella televisione”… La lingua è l’anima di una cultura. Lo specchio dell’identità. Dobbiamo assumere nuove sfide locali, nel paese, in Sardegna, con i problemi dell’Italia, dell’Europa e del mondo. Locale e globale, il proprio territorio e il mondo. E un confronto in cui una parte del mondo ci vorrebbe tutti uguali : parlando un’unica lingua, mangiando gli stessi alimenti, indossando gli stessi vestiti, in ogni parte della terra. E ciò non va bene. Dobbiamo mantenere viva la nostra cultura, di Dorgali e della Sardegna, imparando ed utilizzando cose nuove ma dando valore all’eredità che ci hanno lasciato i nostri avi: la lingua, il cibo, i balli, i canti, i proverbi, le poesie. E non come oggetti da mostrare ai turisti, ma come fondamenta del modo di vivere e di pensare. In quanto sono il nostro vero capitale. Non cambierei, un tattaliu, una cordedda, un cazzu, o un pezzo di formaggio marcio e il pane carasau, con nessun altro cibo al mondo. Molte cose cambiano ed è giusto che sia così. 4 Ettazou e paralimpu: persone incaricate a verificare la possibilità di fidanzamento – Calavrina : cavallina – Mannalita:capra domestica - Odde : mantice – Pranita : piccola pialla.

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Ma i cambiamenti devono essere scelti liberamente e non possono essere imposti dall’esterno. La lingua sarda, per me la sua versione dorgalese, si deve appropriare di tutto ciò che di più bello e di più interessante esiste nelle altre lingue. Sapendo che si può esprimere qualsiasi cosa mescolando le parole, traducendole in poesia e canzoni, in proverbi o in cantici. Per questo ho tentato di scrivere in dorgalese e in italiano. Valorizzando quanto hanno scritto i poeti sardi e i poeti dorgalesi. E, infine, ho provato, quasi per gioco, a scrivere in dorgalese, ispirandomi a poesie, canzoni e proverbi del mondo intero. Quanto ci sia riuscito non lo so, Spero interessino ai miei quatto lettori. A me è piaciuto e mi è stato molto utile.

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POETA SI NASCE O SI DIVENTA ? “Il più umile canto popolare, se un raggio d’umanità vi splende, è poesia, e può stare a fronte di qualsiasi altra e sublime poesia” (Benedetto Croce) Che cosa è la poesia? Dice un dizionario di lingua italiana: “in senso generale è l’arte e tecnica dell'esprimere in versi una determinata visione del mondo”. Poi, da un manuale di poetica ho appreso che “Chiamasi poeta chi possiede la facoltà di concepire l'idea del bello e di renderlo sensibile ad altri. Quindi la poesia, considerata come produzione del poeta, altro non è che la manifestazione del bello da esso concepito. Il fine cui tende la poesia è di signoreggiare il cuore e la fantasia, ovvero l'una e l'altra insieme, rendendo sensibile ad altri il bello concepito dal poeta. Il mezzo con cui la poesia ottiene questo fine è il diletto. Così definita la poesia, si vede che regna su tutte le belle arti e che si può trovare in tutte le opere della parola, quindi è piaciuto a qualcuno, per contrapposto di chiamare 'prosaiche' quelle composizioni di qualsiasi arte sia, senza fuoco, senza sangue, senz'anima che sono frutto dell'esperienza più presto che dell'intero sentimento”. Parole messe insieme con musicalità, armonia, emozione. Con successive regole condivise dai poeti e spiegate nei manuali. Ma saper dosare, come ogni buon impasto riuscito, forma e contenuto, stile, impegno civile e sociale. Conta il parere di Giacomo Leopardi ? Eccolo : “Molti ripongono tutto il pregio della poesia, anzi tutta la poesia, nello stile, e disprezzano affatto, anzi neppure concepiscono, la novità dei pensieri, delle immagini, dei sentimenti; e non avendo né pensieri né immagini né sentimenti, tuttavia per riguardo dello stile si credono poeti, e poeti perfetti e classici; questi tali

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sarebbero forse ben sorpresi se a loro si dicesse, non solamente che chi non è buono alle immagini, ai sentimenti, ai pensieri non è poeta, il che negherebbero schiettamente o implicitamente, ma che chiunque non sa immaginare, pensare, sentire, inventare non può possedere un buon stile poetico, né tenerne l’arte, né giudicarlo nelle opere proprie ed altrui”.5 Benedetto Croce ci aiuta valorizzando la spontaneità e freschezza dei poeti popolari: “E poetici non sono solo gli Ettori e gli Aiaci e le Antigoni e le Didoni, e le Francesche e le Margherite, e i Macbeth e i Lear, ma anche i Falstaff e i Don Chisciotte e i Sancio Panza; e non solo le Cordelie e le Desdemone e le Andromache, ma anche le Manon Lescaut e le Emme Bovary, o le contesse e i cherubini del mondo di Figaro. E non solo il sentire di un Foscolo, di un De Vigny o di un Keats, ma anche quello di un Villon. E non solo poetici suonano gli esametri virgiliani, ma anche gli esametri maccaronici di Merlin Cocai, che hanno tratti bellissimi di fresca umanità. Non solo i sonetti del Petrarca, ma persino quelli pedantesco-burleschi di Fidenzio Glottocrisio. Il più umile canto popolare, se un raggio d’umanità vi splende, è poesia, e può stare a fronte di qualsiasi altra e sublime poesia. In particolare, una boria di falsa gravità rende ritrosi a siffatto riconoscimento dinanzi a opere in cui si vede dispiegarsi la gaiezza e il riso, quanto invece propensi dinanzi ad altre in cui si addensano il solenne, il doloroso, il tragico, il terrificante; se non ché accade non di rado che questi ultimi toni si presentino rigidi, crudi, violenti, impoetici, laddove quella gaiezza e quel riso scoprono, a chi ben le guardi, la venatura del dolore e la comprensione dell’umanità. A rendere l’impressione che la poesia lascia di sé nelle 5 Leopardi, Giacomo, Lo Zibaldone, Mondadori, 2004

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anime, è affiorata «malinconia»; e veramente, la conciliazione dei contrari, nel cui combattersi solamente palpita la vita , lo svanire delle passioni che insieme al dolore apportano non so qual voluttuoso tepore, il distacco dalla terrestre aiuola che ci fa feroci, ma è nondimeno l’aiuola dove noi godiamo, soffriamo e sogniamo, questo innalzarsi della poesia al cielo è insieme un guardarsi indietro che, senza rimpiangere, ha pur del rimpianto. La poesia è stata messa accanto all’amore quasi sorella e con l’amore congiunta e fusa in un’unica creatura, che tiene dell’uno e dell’altra. Ma la poesia è piuttosto il tramonto dell’amore, se la realtà tutta si consuma in passione d’amore: il tramonto dell’amore nell’euthanasìa del ricordo. Un velo di mestizia par che avvolga la Bellezza, e non è velo, ma il volto stesso della Bellezza”.6

6 Croce, Benedetto, La poesia, Laterza, Bari, 1953, pag. 3-12

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POESIA E SARDEGNA Ogni terra ha i suoi poeti. La Sardegna tra queste. Poesie nate in una cultura che tradizionalmente ha fatto del silenzio e della riservatezza il suo scudo protettore: “Allega pacu po non faddire meda”7. Che ha sempre diffidato della scrittura . “Nde morit prus sa pinna chi non sa balla”.8 Cultura che ha ritualizzato, a modo suo, momenti fondamentali della vita: il nascere, l’innamorarsi, l’amicizia, il godere, il morire. E trova gli strumenti adeguati per poter esprimere adeguatamente questo: non con nude parole improvvisate ma con il canto, la poesia, la musica, il ballo. Che rispondono a regole condivise e permettono di vincere, nel rito, l’inadeguatezza personale, l’ignoranza, la vergogna, il timore di non essere all’altezza. Diventa bene comune di tutti e non un privilegio aristocratico degli eletti per diritto divino. Di poter esprimere i propri sentimenti senza paura di sminuire la propria virilità e mantenere il giusto equilibrio di uomo lavoratore della campagna e di uomo di comunità e di cultura. Tentare di evitare la dicotomia tra natura e cultura ma cercare una equilibrata sintesi e simbiosi che non esasperi più rigidamente la divisione dei compiti di lavoro o la separazione dei ruoli basati sul genere – compiti che sono da donna e compiti dell’uomo. Problema ancora irrisolto nelle nostre famiglie : la modernità richiede pari opportunità e che se la donna lavora anche fuori casa l’uomo può occuparsi della cura dei figli e delle faccende domestiche. I nostri modelli di riferimento tradizionali fanno fatica ad accettare socialmente ciò. 7 Parla poco per non sbagliare tanto . 8 Ne uccide più la penna del proiettile

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L’avvicinarsi alla produzione poetica popolare ha appassionato tanti studiosi. Tra questi Antonio Gramsci che con grande lungimiranza ha scritto : “Si può dire che finora il folclore sia stato studiato prevalentemente come elemento ‘pittoresco’. Occorre studiarlo, invece, come ‘concezione del mondo e della vita’ implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita,meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo ‘ufficiale’ …”.9 La culture nazionali, egemoni, hanno storicamente teso a subalternizzare ogni cultura locale. Col disprezzo degli usi e costumi, con il deridere la lingua riducendola a dialetto, imponendo modelli e strumenti di comunicazione estranei alla comunità locale. E la cultura locale entra in crisi, perde la fiducia in sé stessa, muore nei suoi membri il senso di appartenenza di orgoglio e si rifugia nella folclorizzazione, nel mostrare aspetti pittoreschi in processi di spettacolarizzazione. Riti che non evocano più la vita ma la mercificazione dei miti di riferimento. In contrapposizione a ciò sorge un movimento spontaneo di resistenza e di difesa dell’identità originaria. Un rifiuto a ‘folklorizzare’, ‘mercificare come spettacolo pittoresco di varietà’ la propria identità cultura le. Non una semplice nostalgia della riscoperta, spesso a fini di mercato turistico, della produzione arcaica, ma una riproposizione rinnovata della memoria collettiva e un uso vitale, vivo, per capire e migliorare la propria esistenza. Chi sono ? Perché esisto ? Che senso e che fine ha la vita delle persone ? E su questo si definiscono alcuni aspetti fondamentali su cui anche i poeti sardi hanno discusso e cantato. 9 Gramsci, Antonio, Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, pag. 267

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Privilegiare la poesia nel contesto della narrazione orale (recitata o cantata) o anche scriverla ? A chi si pensa e a chi ci si rivolge nel comporre le poesie? E quindi in quale lingua ? In sardo o in italiano ? Le origini erano l’oralità, l’improvvisazione e l’u so esclusivo del sardo. Una produzione che è patrimonio di tutti; non occorre aver frequentato i licei o le università per fare poesia. Nasce anzi spontaneamente per incorniciare i momenti della vita quotidiana: il lavoro, i momenti di divertimento, le situazioni importanti della esistenza. Il legame con la terra in cui si è nati, il legame con la famiglia, gli affetti, l’amicizia, l’amore, il dolo re, l’allegria.

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Antioco Casula, Montanaru, poeta di Desulo (1878 – 1957) la pensava così: It’est sa poesia?… Est sa lontana bell’immagine bida e non toccada, unu vanu disizu, una mirada, unu ragiu ’e sole a sa fentana, Unu sonu improvisu de campana, sas armonias d’una serenada o sa oghe penosa e disperada de su entu tirende a tramuntana. It’est sa poesia?… Su dolore, sa gioia, su tribagliu, s’isperu, sa oghe de su entu e de su mare. Sa poesia est tottu, si s’amore nos animat cudd’impetu sinceru, e nos faghet cun s’anima cantare10. Sono bella poesia la spontaneità delle espressioni estemporanee che accompagnano la quotidianità - le nenie (anninnia), i canti funebri (attittos) i canti della trebbia o della tosatura, le serenate notturne o i canti della baldoria, i canti delle donne durante i lavori domestici. 10 Che cos’è la poesia ? / È la lontana bella immagine/vista e non toccata/ un vano desiderio, uno sguardo/ un raggio di sole alla finestra./ Un suono improvviso della campana/ le armonie di una serenata/ la voce penosa e disperata/ del vento che soffia a tramontana./ Che cos’è la poesia ? Il dolore, la gioia / il lavoro l’attesa/ la voce del vento e del mare./ La poesia è tutto, se l’amore/ ravviva questo impeto sincero/ e ci fa con l’anima cantare./

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Molto si è perso nella vita quotidiana. In molti casi non esistono più le attività lavorative che venivano accompagnate dai canti, in altri la lingua sarda ha perso la funzione primaria a favore dell'italiano con tutte le conseguenze comunicative che ciò comporta. Alla fine del secolo XIX si hanno, in Sardegna, le prime rappresentazioni pubbliche con un corrispettivo in soldi, regolamentate da una giuria e sono anche oggi ancora molto diffuse. L'apprendimento della arte estemporanea si affida ai sistemi tradizionali tipici delle culture dell'oralità:imparare praticamente a fare poesia, come si impara a suonare la musica anche se non si sa leggere il pentagramma. Comporre rispettando le regole metriche e la rima senza averlo imparato dai libri ma a orecchio. Ciò non significa che non sia possibile far riferimento alla cultura classica (greca, romana e sarda) che è patrimonio conosciuto e molto citato dei poeti. Come anche l’ispirazione a poeti loro contemporanei che compongono in altre lingue (latino, italiano o spagnolo) attingendo a parole “sardizzate” che meglio danno il senso del concetto che si vuole esprimere. Contaminazione positiva tra diverse lingue che è sempre avvenuto e porta a una migliore sintesi comunicativa tra locale e globale senza perdere troppo della identità originaria e favorendo una più universale comprensione. Alla graduale scomparsa dei sistemi tradizionali di trasmissione (quelli che l’antropologo Michelangelo Pira (Bitti, 1928 – Capitana 1980) definiva “Scuola Impropria”) non pare vi sia allo stesso tempo un simile sviluppo dei nuovi mezzi di formazione nella scuola formale o nei mezzi di comunicazione tradizionali. La cultura sarda, nel suo insieme, e la poesia o il canto in particolare, è poco presente nella programmazione didattica e nella formazione accademica. Lo spazio riservato, per esempio alla espressione poetica

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estemporanea o ai canti si trova oggi nelle tradizionali feste paesane e a disposizione, sempre, in internet nei video di “Youtube”. Chi vuole così trova, con il computer, la produzione poetica cantata, ma anche le nuove produzioni scritte in sardo in diversi siti nati con il fine di promuoverla e valorizzarla. Juanne Antoni Carta, poeta logudorese, recita in un video questo sonetto di Antoni Lugheddu, sulla questione del come fare poesia : http://www.youtube.com/watch?v=r3pzpyHqgF4 Basare la poesia sull’erudizione o sulla conoscenza delle tecniche (rima e metrica)? Zertos crene chi a forza de cultura diventare poetas sutta mastru ma a lu videre non naschit in cuss’astru e guerrat invanu contra a sa natura. S’arte pro mese unit s’innestadura cambiat in pira ona su pirastru ma si a pira iffertit su ozzastru perdet tempus, tassellos e fatura. Zuchent sa limba po impiastrare versos guastos cun rima forzada che a sa matessi cosa a vaidare. Una pianta de frutos ispozzada a che la cheres a forza falare ite nde falas si non b’indada?11 11 Alcuni credono che a forza di cultura/ si possa diventare poeti sotto il maestro/ ma a vedere chi nasce con questo astro/ e lotta invano contro natura./ L’arte al mese unisce l’innesto/ e cambia in buona pera l’albero infruttuoso/ma se vuole tirar pere dalla quercia/ perde tempo, tasselli e fattura./ Hanno la lingua per impiastrare/ versi guasti con rima forzata/ che è la stessa cosa che vigilare./ Una pianta spoglia dei propri frutti/ e la vuoi per forza raccogliere/ che cerchi se non c’è nulla ?

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Conoscere i temi ma anche saperli raccontare con metodo, spessore e serietà. Unire in una sintesi equilibrata sia forma e contenuti, sia temi e metrica. “ Unu tempus sa poesia fit cosa seria, po imparare a resonare. Oje cheren s’ispettaculu, sas barzelletas comente achen in televisione. Sa poesia no est ispettaculu comicu, sa poesia est cultura”. Medas poetas naran : “Chene rima, chene regula non si achet bella poesia”. 12 Tra questi cito il dorgalese Giovanni Antonio Mereu (Tottoi Cosaona, Dorgali, 1913 - 2008) che nella sua raccolta di poesie ha scritto : “Sa rima li dat prus valore”: Si d’essere poeta ti nde antas chi ses de poesia produtore e cantas chene rima o cantadore chin su cantonzu tou pacu incantas. Modas de bi cantare bind’hat tantas ma sa rima li dat prus valore però si cantas e no hat tenore est menzus cree a mie, si non cantas”.13 12 “Un tempo la poesia era cosa seria, per imparare, per ragionare. Oggi vogliono lo spettacolo, le barzellette come in televisione. La poesia non è spettacolo, la poesia è cultura”. “Molti poeti dicono: senza rima, senza regola non si fa bella poesia”. 13 Se ti vanti di essere poeta / di essere uno scrittore di poesie / e canti senza rima, o cantore/ con il tuo cantare poco incanti./ Modi di cantare ve ne sono tanti/la la rima gli da più valore/però se canti e non hai tenore/è meglio, credimi / se non canti./

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Nenie, preghiere, canti, proverbi e poesie. Consapevolezza del senso del tempo, di quello sacro e di quello profano; di quello serio e di quello in cui prevale la giocosità. Del caldo e del freddo, delle stagioni e dei suoi frutti; delle feste e del lavoro; del sole e delle luna, del giorno e della notte. Dell’amore e della ‘disamistade’. Di tante cose che si possono dire con le parole e di tante altre, più numerose e importanti, da scoprire nel silenzio, custodite nel cuore ed espresse solo nella poesia. O nel canto e nel ballo. L’ordinario vissuto in modo regolare e ripetitivo ogni giorno e lo straordinario che spesso irrompe cambiando strutturalmente le cose. “Dae s’Anninnia po drommire sos pipios a sas grobes de istima po s’amicu, po s’amorada o po s’isposa”.14 Il primo argomento significativo, che abbiamo già affrontato nelle pagine precedenti, è quello della lingua e della capacità espressiva. Tema che tocca la storia della letteratura sarda e dei suoi autori. E non possiamo che rifarci alla memoria popolare, alle fonti storiche, alle pubblicazioni, da quando si è iniziato a scrivere anche in sardo. Inizialmente la maggior parte di chi deve scrivere in Sardegna appartiene al clero o alla nobiltà. E quindi le composizioni sono traduzioni di preghiere o elaborazioni ispirate a fonti di riferimento colte. Il popolo, i pastori, i contadini e gli artigiani compongono e comunicano nell’ambito della sola oralità. 14 Dalla ninna nanna per addormentare i bambini ai canti di stima per l’amico, per la fidanzata e per la sposa.

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Alcuni di questi “intellettuali” diventano mediator i tra la produzione culturale dei subalterni e quella egemone dei colti. Tra questi ricordiamo, come il più importante, Giovanni,Spano (Ploaghe,1803–Cagliari,1878). In “Proverbi sardi” ha raccolto espressioni significative della vita quotidiana dell’Isola (dizzos), in molte delle quali si trova riflesso l’intero sistema di riferimenti morali, religiosi e simbolici che stanno a fondamento della cultura sarda. Pubblicò i risultati dei primi studi archeologici nel Bollettino archeologico sardo (1858-68). Pubblicò varie opere sulla lingua sarda: Ortografia sarda nazionale, ecc. (1840); Vocabolario sardo-italiano e Italiano-sardo (1851-52); Vocabolario sardo geografico, patronimico ed etimologico (1872) e la raccolta “Canzoni popolari inedite in dialetto sardo centrale ossia logudorese (1863 la Parte prima canzoni popolari inedite storiche e profane e nel 1865 la seconda parte – Canzoni sacre e didattiche). Nel 1873 pubblica “Canti popolari in dialetto sassarese. Ed è il Logudorese la lingua di riferimento per i poeti che iniziano a trascrivere poesie declamate nelle gare poetiche paesane. Gare che per tanto tempo si realizzavano senza regole precise. Oltre al cantare tra amici, spesso, i poeti più dotati si esibivano in pubblico in occasioni di feste e riti religiosi o civili. Fino a quando a Ozieri nel 1896, per iniziativa di Antonio Cubeddu (Ozieri, 1863 – Roma 1955) la gara in piazza venne regolarizzata quasi cosi come oggi la conosciamo noi.

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Tra i poeti popolari, per più di 40 anni Raimondo Piras (ziu Remundu - Villanova Monteleone, 1905 – 1978) fu protagonista di memorabili gare con gli avversari del momento, in molte piazze di vari paesi delle Sardegna. Si ricorda il suo debutto nei palchi a 19 anni neppure compiuti. Resta vittima però della proibizione voluta da vescovi e fascismo ed è costretto al silenzio per tredici anni, dal 1932 al 1945, a causa del divieto a cantare imposto a tutti i “cantadores” di quel periodo. Riprende a cantare nel dopoguerra richiestissimo nelle piazze di tutta l’isola. La sua produzione non è stata solo orale. Piras ci ha lasciato anche delle poesie di genere più meditato che hanno avuto una larga diffusione dopo la sua morte. In particolare si ricordano più frequentemente “Misteriu”, raccolta di sonetti, “Bonas Noas”, satire e terzine, “Sas Modas”, canti lunghi che concludevano le gare poetiche e “A bolu”, raccolta di ottave improvvisate. Poco prima di morire, nel 1977, Remundu Piras ha pubblicato un sonetto dal titolo “Non sias isciau”, che è diventato in qualche modo il manifesto delle rivendicazioni culturali dell’isola in merito alla tutela e valorizzazione della lingua sarda. In internet si trova parte della sua opera: http://www.poesias.it/poeti/piras_raimondo/piras_raimondo.htm

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NON SIAS ISCIAU O sardu, si ses sardu e si ses bonu, Semper sa limba tua apas presente: No sias che isciau ubbidiente Faeddende sa limba ‘e su padronu. Sa nassione chi peldet su donu De sa limba iscumparit lentamente, Massimu si che l’essit dae mente In iscritura che in arrejonu. Sa limba ‘e babbos e de jajos nostros No l’usades pius nemmancu in domo Prite pobera e ruza la creides. Si a iscola no che la jughides Po la difunder menzus, dae como Sezis dissardizende a fizos bostros. 15 15 Non essere schiavo / O sardo se si sardo e buono/ abbi sempre in considerazione la tua lingua./Non essere come uno schiavo obbediente/ parlando la lingua del padrone./ La nazione che perde il dono/ della lingua scompare lentamente/soprattutto se dimentica/ sia la scrittura sia il ragionare./ La lingua dei nostri padri e nonni/ non l’usate più neanche in casa/ perché la ritenete povera e rozza./ Se non la portate a scuola/ per difenderla meglio da subito/ state distruggendo l’identità sarda dei vostri figli./

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Si ricorda una gara che ebbe luogo nel 1947, in occasione della festa di San Leonardo il poeta si rivolge al Santo, invocandolo per alcuni compaesani dispersi in guerra. Lenaldu sun tres annos chi ti prego pro sos dispersos de custa dimora. Sun otto o noe chi mancana ancora, chi no si nd'at ischidu fin'a oe: sas mamas s'isperantzia ana peldìdu e preghende a torrare oju non tàncana sun otto o noe chi ancora màncana chi non si nd'at ischidu fin'a oe sunu ancora chi màncana otto o noe chi fin'a oe non si nd'at ischidu. Sas mamas s'isperantzia ana peldìdu no tancana oju a torrare preghende. cando partidos sunu, adìu nende totu a s'altare tou sun bennìdos adìu nende cando sun partidos, sun tot'ennidos a su tou altare: ca tando isperain de torrare t'ana leadu a protetore issoro. Cando mai si tue asa unu coro su piantu 'e sas mamas lassas gai? Si de sos presoneris ses su santu, si non a tie, a chie pregan tando?

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Prevale per tanto tempo, anche in Sardegna, il riferimento al movimento letterario della Arcadia: un richiamo alla mitologia classica, alla vita pastorale idealizzata in paesaggi bucolici imbelliti da amori romantici in paesaggi sardi con ispirazione ai latterati nazionali e antichi classici (da Metastasio a Virgilio). Le immagini di bellissime ninfe che giocano e corrono in una rigogliose foreste, pastori che compongono musiche divine con le loro launeddas. Ragazze sarde paragonate a figlie delle Janas, simili a Diana e a Venere. Il principale esponente di tale movimento è Luca Cubeddu (Pattada,1748–Oristano,1828). Padre Luca è il poeta dell’Arcadia sarda. Figura discussa e poco amata dai suoi superiori. Si rifugiò per anni tra i monti di Dorgali vivendo con i caprai. Alterna temi di difesa della morale e della religione con argomenti più mondani e poco coerenti coi i voti religiosi. A una ragazza che gli chiedeva in dono dei fiori gli risponde declamando parole poco adeguate alla veste sacerdotale : A tie ti narant Rosa et dimandas rosas tres. Ma si tue Rosa ses? Dimandami atera cosa16. Assume e ripropone anche i modelli metrici che nell'ambito della poesia "in limba" influenzerà i secoli a venire. 16 Ti chiamano Rosa / e mi chiedi tre rose / Ma se tu sei Rosa / chiedimi un’altra cosa./

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Tra le sue opere più conosciute, i poemetti a sfondo morale che riprendono favole antiche o temi classici dell'edificazione morale e in difesa della religione. Tra i titoli più famosi " Su cucu e sa rùndine", "Su leone e s'ainu", "Si fit a modu de ti nde furare” e il più famoso e imitato “ Isculta Clori ermosa”. Isculta, Clori hermosa, si comente ses bella ses amante, isculta pro un istante; Clori, ch'in hermosura inches sa rosa, ses cara e preziosa pius de s'oro indianu et de s'arghentu: inantis de partire ti prego de ammittire de su amante tou cust'ammentu …17 Altri poeti sardi da considerare sono Sebastiano Satta (Nuoro,1867 – 1914, che ha scritto sia in sardo sia in italiano), il già ricordato Montanaru, Melchiorre Murenu, Paolo Mossa, Salvatore Poddighe, Diego Mele, Antonino Mura Ena e Peppino Mereu. Sono riusciti, usando il sardo, a svolgere un discorso modernissimo attribuendo maggiore dignità letteraria ad un codice nato e cresciuto nel contesto dell'oralità tipica delle società agro- pastorili. Assumere un punto di vista culturale che media tra il folklorismo evasivo e mistificatorio di fine Ottocento, in cui prevale l’immagine da cartolina della Sardegna arcaica e barbarica e l’esigenza di appartenere al movimento di unificazione nazionale non solo a livello politico ma anche culturale e linguistico. 17 Ascolta, Clori bella/ siccome sei bella sei amante,/ascolta per un istante;/Clori, con bellezza superi la rosa/sei cara e preziosa/più dell’oro indiano e dell’argento:/prima di partire/ti prego de ammettere del tuo amante questo ricordo./

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Riprendersi la propria dignità, non prostituirsi, come denuncia Sebastiano Satta: …linghende sos pratos mesu boidos che canes de isterzu. Istan menzus sos bandidos bellos, balentes e malos. Menzus su bisonzu Chi non custos Fizzos de semenes burdos. 18

18 Leccando i piatti /semivuoti / come cani da cortile / Stanno meglio i banditi/ belli, coraggiosi e cattivi./ Meglio la necessità/ che non questi/ figli di semi sterili./

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Melchiorre Murenu, (Macomer 1803-1854) celebrato come “Omero sardo”, era analfabeta e cieco. Proveniva da una famiglia originariamente non povera, caduta poi in disgrazia con l'arresto del padre e la sua probabile morte in carcere. I contemporanei celebrarono l’eccezionale memoria di Murenu, certamente favorita dal suo essere non vedente, che lo obbligò a imparare sui moduli e sui modelli proverbiali tipici della cultura orale. Il suo scrivere risente notevolmente dell'ascolto attento delle omelie dei predicatori ed anche la vena moralistica che attraversa i suoi versi è di chiara ispirazione della Chiesa cattolica. Cantò spesso il tema della povertà dovuta al sopruso del ricco, denunciando l'arbitrio con cui pochi privilegiati divenivano sempre più ricchi, e molti poveri sempre più poveri. Non andò, però, mai oltre la condanna morale, evitando di dare valenza politica o sociale ai suoi testi, nonostante l'avversione esplicita manifestata contro l'Editto delle chiudende del 1822. Esentes e ispozzados De 'ogni bene paternu, Cun su cor' e cun s'esternu Fattende cumparsa trista; E sos ch’haiant sa vida Cun sos affannos terrenos. A servidores anzenos Tottu frades sunt beidos. Gasi semus reduidos Ruinados in su tottu. Deo, privu de s’annottu, Cun lagrimas mi mantenzo. 19 19 Defraudati e spogliati / di tutti i beni paterni/ Con il cuore e l’esterno/ Facendo triste comparsa;/E coloro che avevano la vita/ con gli affanni terreni./A servitori degli altri/tutti fratelli sono visti./Così siamo ridotti/rovinati del tutto./Io, privo dell’eredità/Con lacrime sopravvivo. /

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Non manca, nelle sue poesie, il tema dello scherno del nemico, del dileggio del potente, costantemente additato al pubblico sotto mentite spoglie, o della satira campanilistica (sono notissimi i suoi versi contro Bosa): Su culu 'ostr'est meda volenteri Po ingrassare sos terrinos lanzos; Bois ischides dar'a sos istranzos De part' e cibu, pudidu fragheri. Chircadebos un'ateru merderi Cun d'unu carrettone ben’armadu… 20 Murenu fu veramente per formazione e pubblico a cui si rivolse un poeta popolare. Venne ucciso e i suoi assassini rimasero impuniti. Alcune sue poesie si trovano nel sito: http://www.poesias.it/poeti/murenu_melchiorre/murenu.htm 20 Il vostro culo molto volentieri/per ingrassare i terreni magri;/Voi sapete dare ai forestieri/parte del cibo putrido e maleodorante./ Cercateti un altro merdaio/ con un grande carro ben armato…/

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Paolo Mossa, detto “Paulicu”,( Bonorva, 1821 – 1892.) Rimase orfano che era ancora un bambino. Conclusi gli studi ginnasiali nello stesso paese natio, conseguì a Sassari il Magistero dove intraprese i corsi universitari. Prese parte a lotte politiche suscitando l’invidia degli avversari, possidentes, dalla mentalità grezza. Mossa subì due attentati; uno la sera del giugno 1886, mentre sedeva sull’uscio di casa e sei anni più tardi, precisamente il 6 agosto 1892 sulla strada di Nurapè, a pochi chilometri da Bonorva. Si tramanda che Paulicu aveva sin da bambino il dono dell’improvvisazione. Compone in logudorese: sciolto, scorrevole ed elegante, ha nella poesia un ritmo sonoro e piacevole. Mossa schiuse nuovi orizzonti alla lirica logudorese; o imitando Catullo in “Su Canariu de Flora”, oppure emulando Ovidio in “S’isula fortunata” o riproducendo i propri affetti e quelli dei contadini isolani in Baddemala, S’attitidu, Sa tempesta, oppure in quelle più liricamente significative come In morte de Gisella o in Dori Lontana. Si possono leggere le sue poesie in : http://www.poesias.it/poeti/mossa_paolo/mossa.htm

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S'isula de sa fortuna (a Flora) Ite pensamos fagher, Flor'amada, In custa terra ingrata traitora? Non bides cantos viles a un'ora Chircan s'amore nostru avvelenare? Flora mia ponzemus pe' in mare, Andemus a sa terra fortunada. Ispettende nos est de sa fortuna S'isula fortunada veramente, Ue in festa continua sa zente Vivet senza molestia peruna; Nè b'incontran sos rajos de sa luna Luttuosas iscenas de piantu: Inìe est tot'incantu e de s'incantu No si poden sos coros saziare. Flora mia, ponzemus pe' in mare. Est motivu de gioia e de consolu Cantu ti si reparat a sa vista: Su culumbinu, sa turture trista Cantend'amore leana su ölu; E-i s'armoniosu russignolu Pienat de lamentos sa campagna, Ma non tardat sa dozile cumpagna Cun versos de amore a lu giamare. Flora mia, ponzemus pe' in mare. S'abe brunda, sa pinta mariposa Sighin s'amante da-e rampu in rampu; Nè b'hat fiore in buscu, arvur'in campu Chi non ti mustret s'indul'amorosa: Su giorminu s'istringhet a sa rosa E s'abbrazzat a s'ulumu sa ïde,

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Immagine perfetta de sa fide Ch'inìe solen tennere in amare. Flora mia, ponzemus pe' in mare. Est pro vida s'amore professadu, Han sagros sos affettos già promissos; E pro cussu pioet subr'a issos Ogni grascia chi Deus hat formadu: Su terrinu produit senz'aradu Laores cantu nd'hat in bidatone; Sas arvures de fruttu ogn'istajone Dan fruttos de sabore singulare. Flora mia, ponzemus pe' in mare. Totu in cussu beneficu orizzonte Est abbundanscia e vera biadìa; Benit mancu sa ruzza limba mia Pro chi sas maraviglias tinde conte. Fina da-e sos chercos de su monte Be-i curret su mele a perdimentu E chito su manzanu andat s'armentu De per isse su latte a presentare. Flora mia, ponzemus pe' in mare. Ite piùs? S'ierru a larga manu Non bi ëttat da-e altu abbas e nies Ne-i s'istiu inzendiat sas dies Cun caldanas de sole fittianu ; Pezzi sempre in delissias d'ëranu Passan inìe su tempus insoro, Un'aeritta cun alas de oro Faghet solu sas fozas tremulare. Flora mia, ponzemus pe' in mare.

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Posca in totue padros e giardinos Sullevan de profumos una nue, Allegros puzoneddos in totue Cantan umpare, faghene festinos; In totue rizolos cristallinos Rinfriscan sa campagna fiorida... Vida de Paradisu est cussa vida, E proite tardamos a b'andare? Flora mia, ponzemus pe' in mare. Andemus, s'est ch'abberu m'has amore, Ma giuremus torrare in custa terra, Da chi no hat a fagher piùs gherra A columbos e turtures s'astore; Su leone de feras distruidore, Dare cazza non det piùs a fera, Nadare den sos pisches in s'aera, E in s'abba sas aes den bolare. Flora mia, ponzemus pe' in mare. Da chi pro maraviglias de avanzu Su rù hat a bundire senz'ispina E de sa giorva s'aspra raighina Fruttu det render su piùs liccanzu; Da chi nascher in mare det s'aranzu E brancas de coraddu in sa foresta; Tando mancari muat sa tempesta, Isolvemus sas velas pro torrare. Flora mia, ponzemus pe' in mare. Però custas aeras ti sun caras E da-e te traith abbisu so... Ahi! ch'in coro tou has nadu: no, Mancari non l'isplichene sas laras... It'has determinadu? ite mi naras?

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In modu risolutu ti cumporta: Ma de perder a mie t'accunnorta O chirca custos dubbios lassare. Flora mia, ponzemus pe' in mare. In s'istante sos dubbios ammella, Ca, si no, cantu prestu m'ïdes mortu: Allestrida sa nae est in su portu, Andemus como, Flora mia bella... Propiziu su ëntu e ogn'istella Nos faghen a partire violenzia… Oh gioja! tue has fissu sa partenzia E non cherzo un'istante durittare! Flora mia, ponzemus pe' in mare. Finis acconos intro a su navìu, Sa vel'est tesa e dadu est su segnale.. Adìu, dura patria fatale, Parentes e amigos totu adìu; Como bos lasso e cantu duro ïu, Cun Flora parto a logos differentes; In issa amigos, patria, parentes In Flora ogni contentu app'a lobrare! Flora mia, ponzemus pe' in mare.

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Salvatore Poddighe, (Sassari 1871 - Iglesias 1938) Poeta autodidatta. Nato a Sassari da genitori di Dualci fece ritorno nel paese di origine solo dopo poche settimane di vita. A Dualchi visse fino ai diciotto anni e da qui, attratto dalle possibilità di trovare lavoro nelle miniere dell'Iglesiente, si trasferì ad Iglesias dove lavorò come minatore nei pozzi di Monteponi e San Giovanni. A Iglesias Poddighe conobbe altri poeti con i quali si incontrava la sera nelle bettole per improvvisare. Poddighe è influenzato dal pensiero anarchico e socialista. Le sue convinzioni politiche sono radicali, fuori dagli schemi, con una decisa propensione alla giustizia sociale. La rivolta, i morti di Buggerru del 1904, la sindacalizzazione, hanno forgiato il carattere del poeta che nel frattempo non aveva mai smesso di leggere. L'opera che gli diede fama in tutta l'isola e a cui è legata universalmente il suo nome è “Sa Mundana cummedia”. De Dante su poeta de Toscana, sa Divina Cummedia leggimos; e noi sardos prite non faghimos un'attera Cummedia mundana? Pro dare lughe a sa zente isolana sos chi s'estru poeticu tenimos, pro chi non bastat sa Divina sola a sa Sardigna nostra a dare iscola. Dante, de una mente illustre e digna, tra sos poetas hat sa prima sedia; in versos hat descrittu una Cummedia; contra a sa setta perfida maligna, e nois cantadores de Sardigna nos istamos a morrer de inedia? no, no, frades, bintramos tottu in giostra, a fagher puru sa partida nostra.

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Opera che però creò non pochi problemi al suo autore. Sa mondana commedia è infatti un’opera di forte denuncia sociale dello sfruttamento del povero e in cui non manca un acceso anticlericalismo. “Deus chi est sapiente e bonu mastru sende unu babbu zustu e imparziale hat dau a tottu dirittu uguale e no hat fattu unu izzu e unu izzastru. No est po nascere in bonu o mal astru si istamus chie ene chie male tuttu dipendet dae sa faccenda de no esser in comune sa sienda” Nel 1924 il Concilio dei vescovi sardi aveva vietato ai poeti estemporanei di trattare argomenti di dottrina ecclesiastica. E in un crescendo di multe e divieti, Chiesa e fascisti erano riusciti a bandire le gale poetiche dal '32 al '37. Salvatore Poddighe soffrì profondamente per questo ignobile atto di censura, cadde in una forte depressione e morì suicida ad Iglesias il 14 novembre 1938. http://www.poesias.it/poeti/poddighe_salvatore/poddighe.htm

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Diego Mele (Bitti 1797 - Olzai 1861) prete, poeta e amico di Giovanni Spano. Autore di poesie aspre e mordaci, dovette fuggire dal suo paese per le inimicizie che i suoi versi gli avevano procurato. “Accusato di avversare la Legge delle Chiudende e di incitare il popolo a sostenere il bestiame girovago, e a diffondere il comunismo territoriale”, fu mandato per punizione dall’Arcivescovo Bua, in esilio ad Ozieri presso i padri Cappuccini. Inviato poi a Lodè, a Mamoiada e infine ad Olzai, visse tranquillamente in questo paese sino alla morte. La sua poesia, specie quella satirica, è schietta espressione della società agro-pastorale in cui visse, dando spesso voce ai suoi conterranei nei dialoghi in cui lamentavano le tristi condizioni di vita e degli abusi che subivano da parte dei potenti. Anche se erano della sua stessa chiesa. Alcune sue poesie nel sito web: http://www.poesias.it/poeti/mele_diego/mele.htm

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Como diventat riccu su Rettore Como diventat riccu su Rettore ca s'est fattende bonu negoziante, in breve tempus diventat mercante ca tenet prinzipale su Duttore. Tenzende su Duttore prinzipale un'e atteru restat vantaggiadu, chi perdonet li naran a Viale e a Rossi, mancari nominadu: a su riu interesse e capitale han che bonu custode incumandadu, isse hat sas mercanzias trasportadu a mare, babbu sou e genitore. Gasi sa mercanzia incumandada non si tenet de perdita paura, sende bene sa sorte assegurada sa fortuna dêt esser pius segura: simizante negoziu non b'hada ch'est de fraude liberu e d'usura, su Rettore non perdet congiuntura ca s'est fattende un'ispeculadore…

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In Olzai non campat pius mazzone Ca nde l'hana leadu sa pastura, Sa gente ingolumada a sa dulcura Imbentat sapa dae su lidone. De nou hana bogadu cust'imbentu Pro sedare veementes appetitos, Leadu han’a mazzone s’alimentu Però l'han a piangher sos caprittos, No li faghent a isse impedimentu Nemancu de Dualchi sos iscrittos: De mazzone aumentant sos delittos Non codiat porcheddu ne anzone. Sas puddas et caprittos et porcheddos Pianghent de sa gente sos errores, Et de sos affliggidos anzoneddos Mi paret de intender sos clamores; A dolu mannu de sos pastoreddos Chi nde provant et sentint sos dolores, Custos suni sos gustos et sapores De sa sapa de noa invenzione. Tottu canta sa gente est post'in motu Pro fagher sos coccones de ghennargiu, Ch'hana isperimentadu et han connottu Chi superat sa sapa de su vargiu, Pera Marras accudi a s'abbolottu No istes pro fatica et pro incargiu, Ischi chi tue puru ses porcargiu Non ti dormas in custa occasione...

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Antonino Mura Ena (Bono,1908 – Roma,1994) Dopo le scuole primarie frequentate a Lula, Mura termina gli studi superiori a Cagliari e nel 1938 si laurea in Pedagogia all'Università di Roma. Alla fine dell'insegnamento intensifica la sua attività creativa di poeta e di narratore. Raccoglie schede, vocaboli, massime e detti sardi, traduce L'Apologia di Socrate in lingua sarda, compone poesie e ne progetta la raccolta in volume. Nel 1988 vince un premio speciale al Concorso nazionale di Letterature dialettali "Pompeo Calvia" di Sassari e riprende a lavorare con maggiore intensità ai racconti “Le memorie del tempo di Lula” e alla revisione della “Raccolta di poesie Recuida”. Recuida significa grande ritorno, riappropriazione dell'identità e rivelazione di verità non illusorie. Quattro sillogi in cui il più grande poeta in lingua sarda del Novecento è riuscito a valorizzare la tradizione melodica della lirica sarda, confrontando l'universo antropologico e culturale sardo con la cultura umanistica, da Platone a sant'Agostino, ad Hegel, ai classici della letteratura europea.

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Peraula Bia Una peraula bia cando est offerta e nada ed est sa prima orta chi dae bucca bessit, in s'istante matessi est accabada. Est cunsumida e morta. E gai naraian chin milli arresionos sabidores antigos, e serios e bonos. e sos appentados fideles, bi creian. Ma eo, chi non so sabidore ne antigu e ne nou, ma cunsideradore de bonu cunsideru darelis potto prou chi 'onzi umana peraula nada a omine biu, e ascultada in risu o in piantu, tando solu incomintzat a vivere. Ed est de pensamentu eternu bolu.

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Banditore chin trumba Su chimbe de su mese 'e sant'Andria, Corittu, su poeta banditore, a sas otto 'e manzanu, at bocatu sa trumba armoniosa. E at ghettatu su bandu ch'it 'inita sa gherra vittoriosa. Et a cantatu in poesia goi: -Si avertet sa populassione chi 'erisero est 'inita sa gherra in chelu, mare e terra. E in tottue. -Si avertet sa populassione sas troppas nostras an picatu a Trento e 'nche son irbarcatas in Trieste. S'Austriacu a fine 'e tantu istrughere tzedit sas armas e benit a rughere. -Si avertet sa populassione chi venzat tottucanta a su Tedeu. e a sa portessione. -Si avertet sa populassione chi 'eris a manzanu, a s'essita 'e sa missa m'an datu notissa chi est mortu Bostianu, su 'izu meu. Si avertet sa populassione chi venzat tottucanta a su Tedeu.

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Peppino Mereu (Tonara, 1872 -1901), fu un poeta che seppe unire una ricca, consapevole e aggiornata cultura letteraria, col forte radicamento rurale e paesano rappresentato proprio della lingua sarda. Affronta i temi della inquietudine, della precarietà della vita (era tisico), della malinconica nostalgia dei piccoli orizzonti affettivi del paese che caratterizzano i suoi testi. Il sardo, lingua povera di nomi astratti esprime i sentimenti, la lode e lo scherno con metafore e similitudini tratte col lessico rustico. Peppino Mereu, riuscì a svolgere un discorso modernissimo con una lingua arcaica, ossia riuscì ad attribuire dignità letteraria ad un codice nato e cresciuto nel contesto dell'oralità tipica delle società rurali. http://www.poesias.it/poeti/mereu_peppinu/mereu.htm L’amore per i posti in cui si è nati o in cui si vive è tema comunemente affrontato.

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A Tonara O gentile Tonara, terra de musas, santa e beneitta, Patria mia cara, cand'est chi b'happ'a benner in bisitta? E m'has a dare sa jara abba de Croccoledda tantu fritta? A cando 'ider sas nies, sas c'happo appettigadu ateras dies? Ah dura lontananzia! a sa chi m'hat sa sorte cundennadu. Mi 'enit s'arregordanzia de unu tempus ispensieradu, s'onesta comunanzia de amigos chi happo abbandonadu; mi torrat a sa mente unu tempus passadu allegramente. A' cussu pensamentu già' m'abbizo de cantu happo perdìdu, e vivo cun lamentu che puzzone ch'est foras dae nidu; proende un'isgumentu chi mai happo proadu ne sentìdu. Su pensamentu 'olat a tie, terra gentile, e si consolat…

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Aritzo Post’in alt’a sa tua capitale, dispensera de abbas cristallinas; poetica, gentile industriale, terza de sas alturas montaninas. De cor’aperta, franca e liberale, a su progressu curres e camminas: ses una zittadedda geniale, in te s’isprigant sas biddas bighinas. Onesta tue trivaglias e divignas; de s’onestade tu’andas fiera, ismentinde de Dante sas iscritas. Fentomada, sas tuas carapignas faghent su giru s’Isul’intera, cunfirmende sa fama chi meritas.

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Come anche solidarietà e condivisione di chi lotta e pena per sopravvivere : S'ambulante tonaresu Cun d'unu cadditteddu feu e lanzu sa vida tua a istentu la trazas; da’una ‘idda a s’attera viazas, faghes Pasca e Nadale in logu istranzu. A caldu e frittu girende t'iscazas pro chimbe o ses iscudos de 'alanzu, dae s'incassu de sett'otto sonazas chi malamente pagant'unu pranzu. Sempre ramingu senza tenner pasu, de una 'idda a s'attera t'ifferis aboghinende inue tottu colas: «Discos nobos pro fagher su casu e chie leat truddas e tazeris e palias de forru e de arzolas!».

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Antioco Casula “Montanaru”, nato a Desulo nel 1878 e scomparso nel 1957. Poeta che ha saputo rinnovare il modo di comunicare dando al sardo dignità e una originale capacità espressiva. Convinto assertore del valore della lingua sarda e dell'importanza del suo insegnamento nelle scuole, partecipò, nel 1925 a Milano, per rappresentare la Sardegna, al primo congresso nazionale dei dialetti d'Italia. Conobbe la sofferenza: la morte prematura dei figli e della prima moglie; nel 1928, l'umiliazione del carcere, con l'accusa di legami con i banditi barbaricini, accusa pretestuosa, orchestrata dai gerarchi fascisti che mal tolleravano questa emblematica figura di intellettuale non conformista e soprattutto impegnato nella difesa dell'isola e della sua lingua. Tradizione e innovazione, difesa del territorio e della sua gente e della sua cultura. http://www.poesias.it/poeti/casula_antioco%28montanaru%29/casula_antioco%28montanaru%29.htm

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A SOS AMIGOS DE DURGALI Amigos mios fortes e bellos de Durgali ieo sempere bos’amo d’affettu naturale, e bos’amento sempere, cantu istis vonos, che i sa terra ostra de cantos e de sonos. Oh! Durgali graniticu, sa perla de sa Sardinna, cando curriat a rios su inu in donnia inza e passaian superbas comente ’e imperadoras de oriente sas tuas brunas binnennadoras. E a sos ultimos seros, lenos e luminosos, de capidanni enian sos carros gloriosos de achina niedda e mustu, de mustu prepotente, buddinde chei su sambene de custa brava zente. E dae amicu amicu, a fine de Sant’Andria, mudaos andaian in manna cumpannia a istupare cuntentos sas nòdidas carradas de inu veru, de annos e annos aragaddadas. In sos frundacos friscos nieddos aranzolados mai dae sa lughe e su sole disturbaos. E monte Ardia avvesu a tottu cussas festas dae sas altas biancas e poderosas crestas, che unu Deus anticu de forza e d’energia beneighiad’a tie terra de Baronia. Beneighiat sas serras lontanas de Nuoro desoladas comente su nostru forte coro. E cantaian cuntentas sas bellas durgalesas de cuddas’anticas e liberas impresas

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contr’e sos Corsaros crudeles de Turchia, cando pesad’in armas curriat Baronia. Abochinande in sos montes chin ira e maiestade morte a su Turcu! O frades, vivat sa libertade! Oje però sas vinzas sone isperdias malamente. Prus che a prima alligra no est sa bona zente; oje prus non buddit su inu in sos cupones e sas binnennadoras non cantan prus canzones. Ma isperae, isperae frades de Baronia ca mai eterna durat nessuna maladia. Coment’in donnia coro sicau in su dolore a frorire torrad’isplendidu s’amore. Gasi sas vinzas vostras a nou ane a torrare e i su inu famosu in summa de buffare a sos frundacos friscos, nieddos aranzolados mai dae sa lugh’e su sole disturbaos. De nou in sas binnennas brunas binnennadoras comente una troppa de Janas incantadoras depen passare ponende in briu sa cussorza ettande coizzolos de achina a sa corcadorza. Inue lizeru, siccu, fieru e cambi nudu unu catticadore ezzu, arvi canudu, serenu che i s’atonzu lenu de Durgali li s’hat a narrer: «Bellas mai bos tocchet male e sien sos fizzos vostros ricos de coro e fide, comente ricca de achina occannu fit sa ide!».

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A BADDORE ISPANU Carissimu Baddore, de torrare mi enit su disizu frequente, a su mont’e Durgali risplendente a monte Ardia bellu facc’ a mare; E intender su dulche faeddare de sa baroniesa cara zente inue hapo passadu allegramente sas mezzus dies de su militare. Cando det esser chi hap’a cumprire su disizu ’e torrare in Baronia, raessende sas serras de Nùoro? De in dì in die mi bido fuire sos mezzus annos de sa vida mia e mai cuntentadu hapo su coro.

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NOTTE ‘E LUNA Est una notte ‘e luna de cuddas lunas de atonzu craras, chi cando tue t'affazzas a sa ider'andare, isperas novamente in sa fortuna. At propiu meda tottu sa die. Pariat sa terra in s'adde e in sa serra, tra sos fenos siccaos, bestia de antichissimu prantu. Ma ecco in su serenu avanzare sa notte; craru su chelu risplendere e che velu de isposa, sa luna, bestit de biancore donnia terrenu.

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Adiosu ochile anticu In domo mia mischina una cucina moderna m’an piazzau; est bella tott'in ferru verniciau, elegante che una sinnorina. E tanta zente appenas chi l'han bista: «Ateru che a tenner su ochile!…». Chin cussu trastu lùchidu e gentile podes narrer chi passas bella vida!… E zeo imbezes triste pesso a tie foghile antigu, inue mamma mia si seiat chin babbu in cumpanzia filande lana candida che nie. Cando chin ocros santos de amore, po non perder faina miraiada, e chin su pe' su brozzolu mofiada inue dromiat su prus minore. Ite caros sos seros, in sos frittos ierros de Barbagia, s'istare, in ziru a su oghile a resonare allegande de anzones e crapittos; Cando chi sa framma a su cannizzu si pesaiat che lama lughente colorande de ruiu sa zente, e traessas pesantes de sartizzu.

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Zeo de cussos seros bido tantos nd'hapo chin ispetaculos gentiles. Mi soe pesau in ziru a sos fochiles e poto narrer chi sos mios cantos Nàschios sone in mesu 'e sas brasas e a su umu in nottes tempestosas tra miradas de virgines isposas e serenos contos de massaias. E su ochile nostru praticau fit dae zente meda in allegria; ca po intendere sa bona mamma mia tott'accurrian dae ichinadu. In foras fit su entu e i s'iscuru chin s'abba forte. E babbu in mes'istoa buffande inu de s'annada noa, e zeo sighinde umbras in su muru. Ite dulzura!… Fit su mundu miu su ochile chin babbu e mamma mia, sos amigos; nè ater'e'ischia, si no chi prus de tottu be siat Deu. Mamma sich'est anda e poi babbu e gasi atera zente ch'amaia. Tue solu arrumbau ses ebbia oghile ludu semplice irgrabbu. E po mi narrer'omine civile m'hapo leau noa sa cucina. Ma s'anima in segretu poverina pranghed'a tie rusticu ochile.

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A su inu Naran chi ses velenu, o sardu inu, puru deo ti buffo e vivo sanu. So arrivadu a omine anzianu e ando senza baculu in camminu. Non possido unu mannu magasinu chei cuddos chi sunu in Campidanu, ma però tenzo semper a sa manu unu barrile de cudd’ozastrinu. Mi si riscaldat su samben in venas e si coloran sas cosas in bonu finzas in dies mannas de tristura. Intono tando bellas cantilenas pro gloriare custu santu donu chi a s’omine offerit sa natura.

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Molte delle tematiche espresse da Montanaru furono in tempi successivi riprese da Michelangelo Pira, il quale, a proposito di coloro che criticavano una certa "impurità" del sardo usato dal poeta, eccessivamente inquinato da acquisti dell'italiano, scrisse: «Essi non sapevano o non sanno quello che Montanaru aveva capito d’istinto: che nel nostro secolo il sardo, venuto a contatto con la lingua italiana, è venuto modificandosi nelle sue strutture lessicali, sintattiche, morfologiche, fonetiche e semantiche. Egli tentò in definitiva l’integrazione possibile con la lingua italiana all'interno della lingua sarda, facendo brillare in ogni vocabolo di questa quel che "nell'esausta lingua italiana aveva perduto ogni sapore. Con Montanaru il sardo fu ancora una volta lingua, mentre già nelle poesie nuoresi del Satta aveva un sapore dialettale».

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DONNE IN POESIA Guardando indietro nella storia pochi, pochissimi nomi di donne poeta si sono affiancati a quegli degli uomini e di alcune di coloro che avrebbero potuto essere alla medesima altezza è rimasta appena una traccia. Non è sufficiente ne consolatorio ricordare i nomi di Saffo, di Ada Negri, di Alda Merini e per la Sardegna, con elaborazioni letterarie diverse, Eleonora d’Arborea, Anna Maria Falchi Massidda, Grazia Deledda, Tetta Becciu,Paola Alcioni, Milena Agus, Michela Murgia, … Ho difficoltà a capire, se non per le analisi culturali legate ai ruoli femminili nella società e nella famiglia, perché non si valorizzi la qualità della produzione poetica femminile che c’è ed è diffusa. Anche in Sardegna. Mi faccio aiutare da Camilla Bisi, giornalista femminista, che nel 1916 pubblica un opera dal titolo “Poetesse d’Italia” dove ha scritto: “Mai come oggi, penso, scrivere poesia significò, per una donna, rivelare tutto di sè; mai come oggi colei che è o che si crede chiamata nascose con tanto pudore, talvolta come una colpa, i suoi versi che la esporrebbero denudata alla critica ... Forse perchè ieri ancora abbiamo visto ricercare nella vita di una nostra poetessa tutto quanto fosse celato o si prestasse all’ equivoco, per smania di scandalo, sapore più sapido, per alcuni, della schietta ignoranza?

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Certo, mai come oggi si disse e si affermò che la poetessa è, necessariamente, creatura di passione e di senso; certo con nessun altro che con la donna il pubblico si mostra più severo: le critiche ai libri femminili di prosa e di poesia sono vivisezioni… Ma di questo le donne non si lamentano: troppo buon seme fu gettato nel vasto campo della poesia perchè anch’ essa non voglia raccoglierne, a messe matura, un manipolo; e per una che cade altre vengono innanzi e raccolgono a piene mani… Siete create per la maternità e per la casa: è forse necessario che cantiate? Siete essere passivi: perchè gridate le inutili parole di rivolta? Ci sono tanti uomini che scrivono, che bisogno abbiamo delle donne? Ma una donna che scrive poesia è una donna che canta! Ma non credete dunque che i figli da lei nutriti, da lei cresciuti al ritmo armonioso che è dentro di lei, non credete ch’ essi debbano essere i più belli, i più buoni, i più armonicamente felici?” Ecco dunque la testimonianza di alcune poetesse sarde ambasciatrici di un nuovo che deve crescere e diffondersi, vincendo ogni discriminazione :

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Anna Maria Falchi Massidda (1824 – 1873) Una delle pochissime poetesse sarde. Era nata a Bortigali in famiglia nobile e benestante. Intorno ai 20 anni sposò Don Pietro Paolo Massidda, un ricco possidente di Santulussurgiu. La sua produzione poetica (ora raccolta in una importante pubblicazione) è ricca di liriche raffinate; la sua fama varcò i confini dell’isola. Lenta sonat sa campana Lenta sonat sa campana, tristu de morte un’ispiru, sonat de dantza unu giru, una chitarra profana. Sa chitarra armoniosa dat pro su ballu trasportu, nos avvisat chi ch’at mortu, sa campana lamentosa e, sonende luttuosa, mustrat ch’ogni pompa est vana: ca cando si crêt lontana sa morte messat in giru, già chi de morte un’ispiru lenta sonat sa campana. Fusu e a cordas filadu, unu e atteru est metallu, unu at sonadu unu ballu s’atteru a mortu at toccadu: su coro meu affannadu, ch’appena traet respiru, non pius da danza in su giru dêt sigundare su pe, ma dêt sonare pro me tristu de morte un’ispiru. Chissà, Su chi hat formadu

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s’unu e s’atteru sonu, s’in cuss’ora su perdonu m’at a dare s’appo erradu, cando su coro, portadu de giovanile regiru, de su ballu in su deliru currìat s’ora festosa, ca sa chitarra briosa sonât de dantza unu giru. Ca cando in sa gioventude sas festas nos faghen corte, no si pensat a sa morte, no si curat sa salude: bi cheret troppu virtude e fortza pius che umana, pro chi sa trista campana sa morte a pensare ispingat, cando su coro lusingat una chitarra profana.

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Rosalba Satta Ceriale, insegnante elementare in pensione, è nata a Nuoro, nel rione antico di San Pietro, nel 1948. Da oltre trent’anni risiede a Budoni, dove è stata Assessore alla Pubblica Istruzione , alla Cultura e allo Spettacolo. Figlia d’arte – il padre è il famoso poeta in lingua sarda Franceschino Satta, scomparso nel 2001. Ha iniziato a scrivere da adolescente.In seguito alla pubblicazione di alcune sue poesie nel settimanale "L’Ortobene", viste le sollecitazioni e i riconoscimenti ricevuti da parte di lettori più o meno conosciuti, ha pubblicato, nel 1986, a cura delle Arti Grafiche AR.P.E.F di Nuoro, il suo primo libro “Poesie”, con prefazioni dello scrittore Mario Lodi e del poeta nuorese Giovanni Piga. Convinta da sempre che la poesia sia un’opportunità in più per contribuire a costruire u n mondo a misura d’uomo, ha portato avanti nel suo "fare scuola", per oltre vent’anni, un progetto di sperimentazione alla scrittura poetica dei bambini – che comprendeva anche l’insegnamento della lingua sarda nelle sue varianti – raggiungendo risultati di rilievo a livello e prestigiosi riconoscimenti a livello regionale e nazionale . Nel mese di febbraio 2011 ha pubblicato (a cura della casa editrice Terza Pagina Edizioni) il suo secondo libro “A scuola con la poesia”, con prefazioni di Albino Bernardini e Federica Morrone.

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Ma sa poesia non morit Mi cubo inintro a tie terra istimada… Su tempus - nigheddu - imbruttat su chelu de malesa e de fele. M’arrimo inintro a tie terra pistada …chin s’astragu in su coro. Commo tue ses pranghende …e deo chin tecus. Su manzanu paret notte in s’ifferru ’e sa vida. Male assortau, ferit tottube, e tottube frorin tristura e tejos . Ma sa poesia non morit: juchet ocros d’incantu e gana d’amistade. Irfaghinat ischintizzas de pache e de recreu. Secat cadenas… Ischidat sas bertudes bentulande banderas ’e libertade. Cheret battire prendas de lucore chin sa frusa de sa luche ’e su coro

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Unu tempus credio… Unu tempus credio chi fin fundos raros sa malissia e tottu sos irbirgos pro cuffunder s’onestu. Unu tempus credio chi a tessere sas tramas de s’ingannu fit un’aranzoleddu maladiosu e solu. Oje bio fundos de cada casta chi si nutrin de petta e aranzolos a isumbru in tottube maladios…de gana ’e cumandare! Ma sa chichera cantat. E-i sa tirìa, a laddara ’e luche, tinghet sa die de grogo…

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A un’anzelu ( A frade meu, Paulu ) Non ti chi ses andau… Tue ses bolau -prus liberu ’e su bentu- a firmare su tempus. E su tempus abbellu abbellu s’est firmau …e intinghet de frina sa caminera mea. S’affranzu ’e sa terìa mi fachet cumpannia. Su gravellu pimpirinau ’e chelu isparghet s’alinu durche e m’accasazat. Hapo intesu toccheddare a su coro… Ses torrau!

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Tetta Becciu è nata ad Ozieri il 1952 e qui vive. Scrive dal 1993, fino ad oggi ha sempre partecipato ai vari Concorsi letterari dell'isola e del continente, riscuotendo numerosi riconoscimenti. Le sue poesie sempre in limba-sarda logudorese sono pubblicate nelle migliori antologie dei premi letterari e in riviste del settore. Ha collaborato con l'Università Cattolica di Madrid e l'Università di Berlino per l a pubblicazione di un antologia "Bentu 'e terra manna", una raccolta di poesie di poetesse sarde. Le poesie sono state tradotte in tedesco, galiziano e inglese. La Becciu ha tradotto dal napoletano al sardo-logudorese due commedie di Eduardo de Filippo, 'Filomena Marturano" e "Natale in casa Cupiello", e dallo spagnolo la commedia "L'estanquera de Vallecas" di Luis Alonso de Santos.

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Sa Poesia Sa poesia est un'alentu, un'aeresitta, a bortas un'allutta 'e fogu, un'ardore chi t'azzendet sos cavanos e ti supuzat s'anima... Sa poesia est musica chi non si podet leggere a libru ispartu, a bortas est abbile chi ti che pijat a chimas de incantu, subra pentumas chi sa resone podet solu affinare. Sa poesia est binu ch'imbreagat, est piantu chi ligat su coro, attìtu chena consolu… ... peraulas che alas de mudesa.

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Pianghet sa Terra... Pianghet sa Terra sos fizos chi pianghene ... a boghe manna jubilat sos turmentos suos de mama ... in s’orizonte serradu ue no brotant in libertade sos fiores ... sas mamas cantant attittidos de dolore ue naes de sole carignant de travessu sa Terra. Finzas su ‘entu non trazat pius sas nues e sas arvures mujant sas chimas abbrazzadas in d’una istrinta ‘e fogu. S’inghenia ‘e su male appeddat in biddas ischirrioladas ue sa morte a sa zega ferret, chena seberu ... In chelos chen’isteddos, hat a brotare una die su semene ‘e s’ispera, su semene ‘e sa vida pro su mare ‘e s’incrasa ... ... ... e non hat a sambenare pius su sole, non s’han’a appojare intro sos coros sas lagrimas su sambene su risu attogadu de sos pitzinnos.

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Paola Alcioni, nata a Cagliari il 1955, è laureata in Giurisprudenza. Ha vinto numerosi premi di poesia in lingua sarda e tra questi si ricordano i primi premi più importanti: Ozieri, Romangia, Posada; alcune sue poesie sono state pubblicate e tradotte in inglese, in tedesco e in galiziano. Nel 2003 ha pubblicato il romanzo "La stirpe dei Re perduti" con la casa editrice Il Maestrale e nel 2004 il romanzo per ragazzi Il segreto della casa abbandonata e il romanzo Addìa scritto con il poeta di Torpè Antonimaria Pala, entrambi per le edizioni Condaghes. Totu est poesia Castia, intzimiat a proi. Annuadas a bentu arrevesciu nais de ghisciu trassant in sa bizarra 'e su celu sinnus chi no cumprendu. Ma no ddi fait nudda: totu est poesia. Proit, fillu miu, sa dì afrigia stiddiendi in pous di annugiu arraminadas lagrimas de grunda. Fintzas in su stugiu 'e is sentidus tzivinat e s'unda de Maistrali incrubat acuzzas tzinnigas de dolori. Po m'avesai a su marigosori 'e sali de custu mali de bivi, deu, sossoìni de pena, in s'arena arrexinis emu postu. Nùas mi ddas lassàt 'onnia sbentuliàda e no 'nd allebiàt s'acua s'asciutori.

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Imoi, candu sa mannària 'e su celu in cascias de umbra is neas s'aguantad asurìa, de sa manu mia si strobint arannias sintzieddus i arrandant tirinnia de fueddus in sa trama tirada de s'abetu. Aici sciortu su spantu de sogas di apretu totu si fait cantu e poesia in custa 'ia de nebida e de vida. E mancai si scurighint is bisus in is trobeas de su tempus no lassu prus chi arrisus axedint che binu intristau. Tui mi dd'as imparau, limbichendi de pixidas currentis de axìu su prexu di essi biu. Castia maìstu miu piticu, bisadori, de bisus mannus mannus: no proit prus. Nais de craboni trassant in sa pruinca 'e su celu bolidus chi si stesiant. Ti 'nd'as andai tui puru? Si strobint de sa manu mia in su saludu de cilixia caus e de ressinniu. De sa tua arrundilis chi lestras torrant in carinniu di allirghia narendi: est berus, totu -totu! - est poesia.

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Anna Cristina Serra è nata il 1960 originaria di San Basilio. Scrive lingua sarda, inizia a partecipare ai concorsi letterari nel 1993. Tra i tanti ha vinto il Premio Ozieri per ben due volte, il Premio Michelangelo Pira, il Premio Premio S.Antoni de su 'ou di Mamoiada nel 1994 e nel 1997, a Milano il Premio Internazionale nel 1997, Olmedo nel 1993, 1994, 1995, Tissi nel 1993, il Premio Partigiani nel 1995, Silius nel 1994, Porto Torres nel 1998, Cossoine nel 1999, Osilo nel 1996, il Premio A.C.L.I. nel 1997, Dolianova nel 1993, il Premio Colleziu nel 1997, il Premio "Paolo Mossa" (Bonorva) nel 1999, il Premio "Benvenuto Lobina" (Villanovatulo) nel 1996, il Premio "Se Fermentu" (Marrubiu) nel 1995, Premio S. Caterina di Mores nel 2001, Il 4° Premio della Circoscrizione n° 2 del comune di Sassari nel 2010. In prosa ha vinto il Premio "Sa terzina" nel 1998. Ha pubblicato con la Tema Editrice la silloge "Su fragu 'e su 'entu" vincitrice del Premio Michelangelo Pira 1996. tante sue poesie sono state pubblicate in "S'Ischiglia", nella "Grotta della vipera", in "Nur ", nel "Notiziario", su "Nae".

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Tempus nostru No ddu sciu chi est cust’enna aberta in su crofu ’e su scuriu a sbeliai is bisus de notesta o si est ancora s’umbra impostada in sa luna bagamunda candu s’ora si stitillat e no est totu su chi ti nau. In cust’ànima chi tzérriat no ddu at babbu e no ddu at fillu: ddoi at unu titillu imbriagu e cantadori peliendu ancora a tui. No ddu scit ca ses mori chi si pendit tra pitzioleddas e lutzinas in is orus cuaus de un’andera antiga ancà t’incraras timarosu. In su tempus aresti fust nasciu che spiga po obrescidroxus de arrosa. E imoi ses dònnia cosa chi mi ndi torrat una stòria arrèscia de ancà si spannat un’àlidu ‘e memòria. No Apu Postu Cosas Medas No ddoi apu postu cosa meda in sa bertula prima ‘e saludai ca est apretu ‘e sciri custa stula arregordu ‘e trigu e immoi fogu chi abruxat fogu. Movu, de sa perda manna posta a castiu siguin ateras tundas e avrigadas chi m’amostant su mori. Tenint sabori de memorias e di erriu e de cuddu niu fungudu che –i– s’anima de s’acua

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ancà nascit vida. Ma si custu est dolori ‘e dispidida est semini ch’inzeurrat candu no nascit ebra frisca in terra noas e custu viagiu tra coru e inferru est liaga chi trigat a sanai. Aditziu aditziu una cantzoni Fortzis furiat s’arrosu de is follas iscarescias o fortzis is istiddius de s’acua tua di aiseru, is chi m’ant sciustu is ogus notesta in su scuriu. Aici ti pregontu, erriu, de is pannus mius e mi nas ca oi no funt beridadis e parint sciacuaus cun acua ‘e mari che is chi, scarescius, nci tragas tui. E deu chi pannus de pannus no sciu scerai ma’catu ca acua di acua no sciu pratziri ni sali de sali. Ma tui deretu andas facias a cuss’acua manna chi in sali acollit donnia durciura ‘e obrescidroxu. De tui a mimi, In custu scurigadroxu Chi in coru si fait perdaxu, aditziu ditziu una cantzoni circat de ponni’ paxi in custu tretu.

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ITE CANTAN SOS POETAS DURGALESOS “Soe naschiu poveru ma appo biviu liberu. Su chi iscrio est sinzale de sa libertade mia, de su pessamentu, de sa vida. “La poesia per me è il segno più alto di libertà. Scrivendo quello che penso e comunicandolo agli altri”. Queste parole sono di Pietro Sotgia (Predu Lana, poeta dorgalese – 1925-) e riassumono bene il perché della poesia e della sua funzione principale di risposta all’esigenza di libertà, condizione indispensabile per poter parlare anche del resto. I poeti dorgalesi, come quelli di tante altre parti della Sardegna, attingono alle due fonti principali: la composizione spontanea trasmessa oralmente e la lettura dei grandi poeti locali e del mondo. Come tutti i poeti “cantadores” si cimentano in diversi temi che toccano la vita delle persone e prevale quello che il tema predominante del genere umano : perpetuare la specie, garantire la continuità dell’esistenza della vita in comunità. E quindi il canto per l’amore, l’attenzione particolare alla donna e alle donne, l’innamorarsi, sposarsi. La famiglia come appartenenza, come fonte di riferimento per le regole di comportamento, per poter vivere in comunità. Il definire il cibo per il corpo e quello per l’anima. Per questo è importante riproporre e studiare in ogni scuola sarda quanto i poeti e cantadores hanno scritto. Cercare di esprimere compiutamente la condizione perenne dell’uomo sardo, proporsi come fatto culturale locale e globale allo stesso tempo, produrre cultura, non solo studiarla, interpretare i segni dei tempi e trasformalrli in vita vissuta.

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Evitare le banalità, il ripetere gli stessi temi, reazionari e qualunquisti, di fondamentalismi di opposte fazioni, procedere nella difesa e innovazione della lingua sarda continuando un processo di comunicazione in grado di esprimere i bisogni dell’uomo sardo come cittadino del mondo. Billia Fancello ha curato una Antologia di poesia dorgalese e risale alla metà del secolo XIX per trovare le prime poesie di dorgalesi. L’oralità e la memoria hanno avuto una funzione preziosa e possiamo leggere con diletto il sentire dei nostri nonni. L’Antologia propone due categorie iniziali: “s’Amore ducau” e “S’amore a sa grussa”. Alla prima appartengono le poesie che proclamano l’amore “educato”, puro, romantico, bucolico, con richiami dal dolce stil novo a Leopardi. Nella seconda troviamo componimenti in cui si lasciano da parte le buone maniere e prevale l’insulto, il risentimento per offese subite o per dinieghi a offerte amorose. Poeti dorgalesi, del secolo scorso, alcuni colti (Giuseppe Angelo Fancello Brotza, Giovanni Mulas, Ignazio Serra) altri cresciuti nella scuola impropria (Antonio e Pantaleo Cucca, Antonistene Branca, Chiricu Marras, Chiricu Lai, Jacu Pira) che ci hanno lasciato un patrimonio letterario che merita di essere conosciuto e valorizzato. Qui ne diamo solo alcuni cenni, come invito ad andare a leggere e studiare nelle pubblicazioni originali.

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Il più celebrato è don Zuanni Mulas (Dorgali, 1864 – 1945); nel 1906 pubblica a sue spese la raccolta “Riflessos” , ristampata nel 1962 e nel 1995 (con la bellissima commedia teatrale “zia Bernarda”). L’amore, le donne, il lavoro, le amicizie, il vino sono i suoi temi prediletti. Scrive con sapienza e competenza seguendo stile e metrica dei grandi poeti regionali e nazionali. Il richiamo alla luna nel sonetto intitolato Incantu, ripropone i temi della sofferenza del vivere, della fatica dell’esistenza di leopardiana memoria : Supra monte luminosa, s’alzat piena sa luna de maju simile a una selenada candida rosa. Ed est de latte dogni cosa Dae Bardia a Monte Pruna Solu una tinta bruna Pesistit a badde ombrosa. Zeo la sigo in sa sia Funda de su firmamentu Chin totu s’anima mia, e dogni pena e turmentu de su coro angustìa po issa olvido unu momentu.

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Salvo poi, giocosamente, come già fece Montanaru, celebra il nettare che rasserena il cuore e la mente: O soave e belisimu licore Chi rasserenas coro e mente accendes, nettare purissimu risplendes ed as de su belludu su colore, e cale terra ‘eneitta su sapore e profumu ti desit chi cumprendes? Dae cale logu mai est chi dipendes O nettare armoniosu che fiore? Ah! L’isco: sa risposta mi l’est dande Allegru e soavissimu su coro Chi po tene in su sinu palpi tende: Baunei tue ses, ‘inu chi adoro, ‘inu gentile ch’istas alzande In valore sas perlas e i s’oro.

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Zosepe Anzelu Brotza (Dorgali 1842 – Viterbo 1875) magistrato emigrato in continente, ripercorre gli stessi temi di Don Zuanni: la luna, la fatica del vivere, l’amore, il viaggiare… Disisperu Est iscritta in su destinu Pro me bida de agonia; certos travaglian continu ma pustis an allegria. Ogni cosa de natura Cambiat sempre de aspettu; in mesu a ogni malgura brillat lughente s’ispettu. Solu pro mene est negadu De ottener unu reposu Ca mi bido abandonadu Dae s’oggetu diciosu. Sa terra est ottenebrada De sa notte dae su mantu; ma benit illuminada de candida luna intantu. Passada s’oscuridade Risplendet in terra su sole; ma sa mia infelicidade prus s’accreschet de mole. Si pesat burrasca in mare Si calmat passada s’ora; solu non deen acabare sas penas mias ancora…

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S’amore a sa grussa est che a sa mola ezza, ocat prus talau … Una proposta di fidanzamento respinta, un bisticcio tra vicini, sono occasione per cantare e divertirsi anche con versi satirici. Francesco Marras (Tanazeri – vissuto nella seconda metà del ‘800) così si vendica per una bocciatura amorosa nella poesia Adios : Sa cumpanza de mannai Chin sa cara mesu sica, si mi nche pones sas fricas a mimi ingrussat su cazu; ca as dadu a su baratu cosas chi non cumbenian. Regala ti troddiona Adios cunnispilìa. A ti l’amentas in s’àidu de s’ortu Cando ti l’apo bistu tentu a pare ? De s’allegria azomai soe mortu, ca podio lomper a ti lu tocare, ca che juchias s’acadedu isortu a jai ti lu podias cucuzare. Adios cunnispilìa / Regala ti troddiona! Cando ti das a tussire Po non t’intender ca tròddias, e sas ancas imbòddias po no lu lassare bessire, pones sa zente a fuire ca tròddias a tulungrones Adios cunnispilìa / regala ti troddiona ! …

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Un posto importante tra i poeti dorgalesi è occupato da Pantaleo Cucca e da Antoni Cucca. Pantaleo Cucca (Dorgali 1884 – 1979) partecipò alla prima guerra mondiale e lavorò per alcuni anni come guardia di finanza. Lavorò poi come contadino e condusse una vita poco agiata non avendo possibilità, come invece desiderava, di pubblicare le poesie che scriveva. Si rivolse al vice parroco, don Nunzio Calaresu, che pubblicava a Dorgali un periodico ciclostilato dal titolo “Ziri ziri” per chiedergli di pubblicare il libro con le sue composizioni. L’edizione esce nel 1962 con il titolo “Sutta sa ruche ‘e Monte Bardia” . Poesie dedicate all’amore: Rosa Superba Carchi die lu disizas E lu sospiras invanu Rosa superba in beranu Mira chi in s’istiu allizas! Cantas zovanas s’at bidu E intesu nominare Chi po cherrer seperare Sun restàas chene maridu …

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In difesa dell’amico lasciato dalla fidanzata : S’amore de Andria … ma lassamus sa bria E torramus amicos Comente cheret e cumandat Deu; intendo chi po Andria b’at àpiu impiricos chi proibin s’amorosu impreu … O l’immancabile sonetto sulla richiesta di aprire la porta della cantina alla compagnia assetata di vino : Disizu de binu Ah, ite avversu destinu Soe divertinde unu luttu Che frore dae bentu jutu Dae in caminu in caminu. A totus dimando binu Ma chene perunu fruttu Apan doppiu produttu Sos che nd’an in magasinu. Dae tene o caru frade Ispeto unu consolu A custos lamentos mios; Aperi, ajò, tene piedade Semus tantos, non soe solu, ma semus todos sidìos.

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Antoni Cucca (Dorgali 1881 – 1972) è stato giustamente celebrato con la la pubblicazione delle sue poesie, nel libro “Antoni Cucca poeta durgalesu”, curato da Nanneddu Corrias e Billia Fancello. Gli autori ci informano che il poeta era solito, come altri pastori della zona, leggere la Gerusalemme Liberata, i libri di Deledda, i poeti logudoresi. Nell’introduzione Blasco Ferrer richiama ai “sinnos”, la simbologia significante dell’identità della comunità locale dell’epoca: “Sa Grotza” rustica giacchetta trovata nella spiaggia e diventa un piccolo bene del poveraccio che l’ha trovata nonostante la derisione dei nipoti. Il rituale del saluto sardo con l’italiano di ziu Bonassera, il rispetto verso gli adulti, i rapporti tra vicini. Ziu Antoni Cucca non celebra Ulisse, Paride, Elena, Venere, ma ziu Portoledda, ziu Bonassera, sa ichina che guarda i rattoppi del vestito e deride un povero sventurato o il poco decoro dell’ufficio pubblico postale di Dorgali diventato un immondezzaio. Un libro che vale la pena di leggere e meditare. Ziu Portoledda est unu chene casile e chene amparu, uno senza casa che vive di sotterfugi. Ha la sorte di trovare una vecchia giacca da marinaio, impermeabile, trovata nella spiaggia di Gonone , una grotza che gli sarà utile sia per il freddo sia per la pioggia. Rimpiange che qualcuno gli abbia rubato i pantaloni impermeabili, avrebbe avuto la divisa completa. E chiede ai nipoti rispetto e riconoscimento non derisione e presa in giro.

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“ … Ohi sa grotza de isposu Isperdia chin mecus. Deppo parrer unu pecus A dainnantis e a palas E de visura mala Cantu mai ! E ite nde narais : bella m’at a istare ? … Custu est su cappotto De sa betzesa … Non miro sa bellesa Pezis su cumbeniu; mi la besto a inzeniu timende a mi tazare e nemos nd’at a bocare yanchetta che a issa… Ziu Antoni Cucca,ha scritto anche una poesia dal titolo “S’Orassione”, ricordando zia Mallena che guarisce con una orazione che il poeta ripete immediatamente a memoria. La curatrice meravigliata commenta : “ Umbra at bistu custu pitzinnu!” - Credo che né zia Mallena né ziu Antoni Cucca avevano in mente il concetto elaborato da Karl Jung di Ombra, ma lo utilizzano allo stesso modo.

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Peri Sisinni, sante Sisinni, sante Simone… Anna de cannone, cannone de canna, misura manna a s’isperradura. Santu Bonaentura ti crescat sa natura Sant’Anastasia sa mundia. Comente ti l’assinno yeo ti l’assinnet Su Babbu, su Fizu, s’ispidu ruyu santu de Tillai Sas tres pessones, sos tres maimones, Sos tres pistapones de s’anima tua. Si custu non ti yuat Ya mi-nch’apo a torrare, ya mi-nche torro… Tàppulos e ifforros cosias a bussedda, in die de oye est séttia Paschichedda, in die de oye Pasca de Nadale… A largu e a intundu Ti colet su male, fizu mi’ ! Tzia Mallena:Umbra at bistu custu pitzinnu!

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Lodes a una bichina Su tàppulu male postu T’at dadu ite matulare E zeo a ti venerare A tie mi soe dispostu. Za chi tue ses in gala Rìdeti de s’isventuradu Ch’est tota vida ispozadu Marcande s’annada mala, obrigadu a zucher a pala custu pesu a dogni costu; ma custu est s’istare nostru e de ogni malassortadu e tue m’as appuradu su tàppulu male postu. … Infine cherias presa, pezis apo male cumpresu; tristu a chie t’at a pesu s’abarras a sa betzesa; a cando in sa pitzinnia ses gosi a cherveddu tostu, conca de cocher a orrostu e canes a la rosicare; custas lodes a ti dare a tie mi soe dispostu.

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Ignazio Serra (Dorgali 1872 – Vercelli 1949) pubblica nel 1923 una prima raccolta di poesie “Rosas d’atonzu” , che viene riproposta dalla associazione culturale don Milani in una versione arricchita nel 2000. Il legame ai luoghi dell’infanzia, gli amici e l’amicizia, l’ori gine mitica del paese di Dorgali, i paesi vicini, la celebrazione di grandi poeti sardi, per ognuno ha una poesia che vale la pena scoprire e con diletto, declamare. Origine di Dorgali Tra sa Costa e Sant’Elene Sutta Bardia in d’una altura Chi sovrastad sa pianura Contr’a Sòvana e Oméne… Sas elighes de Bardia, sas attas de Tului, De Pranos sos laores, sas baddes de Gustui, Miran pienas de ispantu s’iscena armoniosa… Sas campagnas dan tricu, orzu e pastura Mele dae s’ape e casu dae s’armentu Sas vinzas binu brundu e podulentu Senza misura. Orga manna! Orgale! Ecco sa pura Raichina de Durgali, patria mia! Origine impastada de allegria E de vriscura.

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A don Zuanni Mulas poeta durgalesu Anima fortemente innamorada De dogni umana virtude e de su bene, andad orgogliosa oe de tene sa nostra bella patria adorada; s’arte tua che nie immaculada contra dogni bassesa si mantened ca s’altu coro tou la sustened dae dogni bruttura sullevada. Su cantu tou misuradu a fundu Ogni sublime altesa, ogni dolore, luttos e allegrias de su mundu. Zuighe serenu e forte pensadore, istudiosu d’animas profundu, cignu de sa bellesa e de s’amore.

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Sa Boboa de Lussurgia In s’aspra punta, bianca e solitaria Fantasma de presentes e passados, sos pizzinnos ti miran timorados misteriosa in sa massa calcaria; isfinge dura, muda e milenaria ch’ischis cantu in sos seculos andados operes in sos nostros antenados in s’esistenzia insoro tantu varia. Nos narad sa legenda chi unu die Tue puru de carre ses’istada; ma pro aer fattu (non s’ischid a chie), male, de preda dura ses restada, indifferente a sole, a abba e nie ue sa mala sorte ti ad firmada.

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Pietro Sotgia Nato a Dorgali nel 1925, dovette abbandonare gli studi subito dopo il ciclo elementare e seguire la famiglia che si era trasferita nella vallata di Oddoene per coltivare un appezzamento di terreno. E iniziò da presto a dedicarsi alla poesia. Nel 1997 ha raccolto nel volume “Per un istante almeno” (Nuoro, Il Maestrale) una prima scelta dei suoi versi sardi e italiani. Antonio Fancello (Tonino Errina) ha curato per le edizioni N’UR la pubblicazione di una antologia di poesie di Sotgia dal titolo “Ulisse es’ toccheddande” con una bella introduzione di Felì Secci, che tanto avrebbe voluto vedere il completamento del lavoro per cui aveva tanto lavorato. Scrive Secci : “Per Pietro il poeta è quindi un messaggero, colui che ricorda all’uomo la sua relatività, regalandogli contemporaneamente le ali mentali per intuire il valore della Vita e realizzare un mondo migliore. Per assolvere questo mandato, le parole, unico strumento del poeta, devono non essere solo parole, come scriveva Pietro nella premessa del suo primo libro pubblicato (Per un istante almeno, Maestrale 1997), ma trasformarsi nell’essenza stessa di quel sogno da cui promanano. È proprio per questo che, in questa nuova raccolta di poesie, Pietro Sotgia risolve, supera, dissolve ogni alibi linguistico. Le sue poesie si susseguono libere, non più classificate e raggruppate per capitoli in lingua sarda e in lingua italiana. La lingua sarda cessa di essere una bandiera e un’ossessione e, come la lingua italiana, come tutte le lingue, si rivela solo un mezzo e non un fine espressivo. Il suo atto d’amore per la Sardegna non cessa di essere autentico e struggente, ma egli non si identifica più con una lingua, con un popolo, con una Patria. Non può più farlo chi, come lui, si sente un cittadino dell’Universo.

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La sua univa vera Patria è li, a due passi a lui, è il suo stesso pensiero. Un pensiero che è capacità d’intendere l’essenza delle cose, della natura, degli uomini, della storia, della vita. Tutte le sue poesie ci rivelano questa consapevolezza che diventa grido di dolore, monito e insieme estremo atto di amore, quando rivolge il suo sguardo alla follia umana, al suo camminare senza scopo, al fallimento di tutte le utopie, alle rovine e alle macerie seminate lungo il suo cammino, alla continua profanazione della vita perpetrata in nome di qualsivoglia bandiera o ideale, a quel sibilo di morte che mai si è spento nel cuore dell’uomo”. In una intervista video Pietro Sotgia commenta il suo essere poeta : “Non lo ho imparato a scuola. Ho imparato leggendo gli altri poeti, ascoltando i poeti tradizionali come si usava in Sardegna. Poi ho iniziato a partecipare ai Concorsi e qualcuno lo ho anche vinto. Ho pubblicato le miei poesie in un libro. Ho voluto con questo affermare il sentimento è più profondo, quello della famiglia, della vita in campagna, del lavoro. E poi i temi di oggi. Scrivo una protesta affinché anche i poeti diano il loro contributo per migliorare la società. Scrivo in sardo e in italiano. La lingua sarda è povera di vocaboli. Serviva bene in una certa epoca e serve ancora fino ad un certo punto. Oggi mi sembra che non sia abbastanza comunicativa. Oggi riesco ad esprimermi meglio in italiano. E così la lingua viene capita da più persone. Io continuo a scrivere anche in sardo ma per esprimere i temi di oggi mi sembra meglio l’italiano. Certe traduzioni non sono possibili tra le due lingue. La poesia è un modo efficace di comunicare quello che l’uomo ha in mente. E’ come la musica un linguaggio universale”.

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Ulisse est tocchedande In sos campos predosos Caddos han curtu un’istoria ligà E frottas de massaios chene pane Han sighiu chimeras in s’ aera In millennios de mùtria Han fattu festas A Deus istranzos Pregadorande in limbazu de teracos Trazzande una miseria de vida E sa dignidade de s’anima catticà Dae millennios de iscuridade Ma cale notte durat eterna ? E cale ispada diat truncare sa aera Chi oje s’est pesande in su desertu Surcau solu de arados de ocu ? Custa terra diat istendere in su mare Sos brazzos de una mamma Chene edade. Naschinde a unu chelu non connotu Sos frores appassios in nottadas de tumbas Ane a mandare isticchizzas de ocu Ulisse est tocchedande Cheret ponnere pè in custa terra E po sa prima orta At a tremere Antinoo E su tessinzu de una tela noa.

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A mare, a mare! “E commo tott’a corcare! - narà mamma - ca cras pesammus chitto po idere da-e su monte s’ispantu ‘e su sole essinde da-e mare po dare luche a su mundu”. Ed ecco chi s’aperit s’orizzonte a s’infiniu. E mare e chelu si ettan ‘a pare. Ajò! A mare, a mare! E fi’tott’una ettada umbrosa d’eliche antica, e undada nuscosa ‘e romasinu fin’a mare. E chietu, fit su mare, e umanu. Undicheddas de seda, a s’iscusiu si sizin’ a pare chi pariana sa tunica allibrà d’isposa andande a festa. Vaporosu sapore ‘e cozzula in lavras sidias. E zocos de leccucos in s’ispiaggia predosa chi parian (chissai) sos primmos conzeddos chin su semmene ‘e sa vida, in fundue ‘e mare; e-i sa Fa Marina chin sa cara ‘e lazzìna, terrestre divinidade,

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‘e sa bellesa umana. E cando, chi sos gravosos lecuccos de sa vida nos aggrucan sa carena, zeo torro, chin s’ammentu, a sa maghia ‘e cussos zocos de preda d’un’ispiaggia luntana. Al mare al mare “E adesso tutti a dormire! - diceva mamma - Domani ci alziamo presto per assistere, dal monte, allo stupore del sole che sorge dal mare per illuminare il mondo!”. Eccolo l’orizzonte che si allarga, che si stende all’infinito dove mare e cielo si confondono. Andiamo! Al mare! Al mare! La discesa è un manto ombroso di leccio antico e l’onda inebriante del rosmarino ci ricongiunge al mare. Quieto ci accoglie il mare, e umano. Minuscole onde di seta si inseguono in silenzio e si allibrano: come tunica di sposa che và alla festa.

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Vaporoso sapore di freschi molluschi sulle labbra assetate. Giochi di ciottoli, nella spiaggia, che sembrano, ma chissà, i primi crogioli con il seme della vita in fondo al mare. E quel viso marmoreo nella pietra, sulla Fà Marina: dipinto primigenio e terrestre divinità della bellezza umana. Ora che altri ciottoli appesantiscono il mio corpo e la mia vita, rammento ancora la magia di quei giochi di pietra in quella spiaggia lontana.

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Beni Bènimi chin su sole de sar miradas tuas po chi sos ocros mios si pàscan de cuss'incantu ch'aperin chelos a iscaccallios de risu. Bènimi chin cuddos passitteddos chi mi dànzan in coro furisteras melodias e bisiones d'astros lontanos Bènimi chin su cantu che codda 'oche tua chi s'anima m'inundat de cantones de vrores naschinde. Bènim' e porrim' in manos su donu 'e sa vida, che un'Ostia d'amore. Bàttumi su chi su sole non connoschet.

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Gonario Carta Brocca Nato nel 1943 a Dorgali, ha frequentato poche scuole e ha conosciuto l’emigrazione. Tornato a Dorgali ha avviato un’attività artigianale e ha iniziato a coltivare più intensamente la poesia, passando dalla rima al verso libero e distinguendosi nei concorsi di tutta l’isola e vincendone centinaia. Scrive anche in prosa, ha vinto il “Casteddu de sa fae” di Posada col romanzo Sa sedda de sa Passalitorta (2004). Vincendo il premio “Romangia” ha ottenuto la pubblicazione della raccolta di versi Sos cantos de s’ae (Sassari, TAS, 1996). La motivazione parla dell’impiego di «una lingua dorgalese senza logorii di tempo e di stagioni»; e di componimenti animati dalla «freschezza di chi vuole cogliere i problemi alle radici, in meravigliosi congiungimenti di uomo paese terra natura che conducono, spesso, alla speranza». In una intervista in sardo, così commenta il suo fare poesia : “Su tipu de poesia chi iscrio ieo est sa poesia de su mundu, de sa vida, de s’oje, de su crasa. Dae nue enimus, a nue andamus, s’omine, sa divinidade, su bene e su male.Custu est su tipu de poesia chi m’agradat de prus. Chi mi creat prus emozione.Po iscriere una poesia cheret a ischire ite est una poesia. E po custu cheret a nde lezzere medas; e non solu poesias ma peri ateras cosas. Cheret a iscriere e a lezzere.Sa poesia mia, po mene, est unu sognare. Unu disizzare unu mundu menzus chi ispero b’at a essere.Ieo appo iscrittu poesias peri in italianu, ma s’italianu lu ido comente una cosa anzena, de ateros.Imbezzes su sardu est su miu.

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Cando soe nechidau abbochino in sardu, frastimo in sardu. Mi emoziono in sardu. Una poesia iscritta in sardu e bortà in italianu non dat sa propria resa. No est sa propria cosa. Ma podet rendere s’idea de cussu chi cherimus narrere. B’at cosas chi andat bene a narrere in sardu e ateras chi est menzus a narrere in italianu.Pesso chi in sardu si podet fachere tottu.Si podet iscriere unu romanzu, unu trattau, unu discursu politicu, tottu. Sa poesia de oje est una poesia de dae intro, de s’anima. Comente a fachere un’ispogliarello de s’anima. Tra chent’annos sa poesia at a essere una cosa differente in su modu de narrere e in sas cosas chi contat. Peri sa poesia sarda est cambà non solu sa italiana. Intas a trinta anos fachet sa poesia sarda idi solu in rima. Chene rima non fit poesia. Oje sos poetas de Durgali son connotos po sa poesia chene rima.

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Una poesia de frinas carinnosas Un'urtima poesia cherzo pintare chin arrodaos chintales e isprumas de mare furiosas chi irfranchien sas dozas de su mundu. Una poesia chi drinnat tra montes de ispera: chi cantet sa zustissia de sa vida sa zustissia 'e sa morte e cudda veridade chi chircan chene pasu sonniadores armados de paraulas in lacanas de notes e de dies e in disintzertas lacanas de coros. Una poesia de frinas carinnosas chi cruset sas praas de su discodiu e illughidet sas demos de 'isiones caentes; una poesia braghera chi intritzet sas tramas de s'iscuru chin frumenes de lughe chin padentes de omines chi allegan de vida a manu tenta e prenden in s'artare de sa luna sas allegas de brunzu. Una poesia chi azuet a si pesare cuddos chi medas bortas sone rutos e meda an batallau a caddu 'e Ronzinante cumbatende sas umbras de su mundu o chircande in su coraddu allutu de sos chelos s'amore 'e Dulcinea: donnia passu unu sonniu donnia sonniu un'isteddu chi galanias promintet su manzanu. Una poesia chi ponzat alas levias e in buzacca un'urtimu dilliriu de durcura.

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Una poesia di tenere ariette Un'ultima poesia voglio dipingere con bagliori affilati e spume di mare furiose che artiglino i dolori del mondo. Una poesia che squilli fra alture di speranza: che canti la giustizia della vita la giustizia della morte e quella verità che instancabili cercano sognatori armati di parole in frontiere di notti e di giorni e in ambigui limiti di cuori. Una poesia di tenere ariette che rimargini le piaghe di solitudine e illumini le case di festose visioni; una poesia elegante che tessa le trame delle tenebre con fiumi di luce con foreste d'uomini che fra di loro parlano di vita e annodano sull'altare della luna i discorsi di bronzo. Una poesia che aiuti a rialzarsi quelli che tante volte son caduti e moltissima duellarono a cavallo di Ronzinante combattendo le ombre della terra o cercando nel fiammante corallo dei cieli l'amore di Dulcinea: ogni passo un sogno ogni sogno una stella che incanti promette l'indomani. Una poesia che ponga ali leggere e in tasca un ultimo delirio di dolcezza.

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Poeta Cantu mi so imbriacau in sas muscosa andalas de ‘eranu bufande in sa ‘upada de sos nuscos chi visiones daian. Cantu discodiu lassande sos fedales a assiendare terras e palatos; atatos colan in sas carreras de sa vida. Custas buzaccas mias nudda an aorrau in su contu currente de su tempus: ne istimas nen cosa. Ap’amorau chimeras chi mi jamain chin boghes de amaju e miradas de luna chi in sa carre su fogu mi ponian e pistichinzu in coro cando chircao cosas de pacu asore chi nessunu cheriat e pessao d’aere perdiu sos sinnos de s’umanu colare. Ma tando ‘ipi minore e no ischio d’essere ieo etotu cussu ‘entu chi ‘e durcuras che di dolcezze at cust’andare miu populau semenande iscusorzos chi si mustrain sos seros irrajande promintas e poemas de leporeddas candidas de prata naschias dae s’isteddu luchente ‘e chenadorzu po colorare una pazina noa de su coro de s’omine prus riccu: unu piseddu coro de poeta. Poeta

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Quando mi inebriai su sentieri odorosi bevendo dalla coppa degli odori che facevan sognare. Quanta trascuratezza nel lasciare i coetanei a fare incetta di terre e palazzi; sazi passano sulle strade della vita. Queste mie tasche niente conservarono nel conto corrente del tempo: né amori né beni. Ho amato chimere che mi invitavano con voci accattivanti ed occhiate di luna che il fuoco nel corpo m’infondevano e frenesia nel cuore quando cercavo cose senza valore che nessuno voleva e pensavo d’aver perso la bussola dell’essenza dell’uomo. Ero giovane allora e non sapevo d’essere io stesso quella brezza che di dolcezze ha questo mio vagare popolato seminando tesori che ogni sera apparivano regalando promesse e poemi di farfalline candide d’argento nate dalla stella più fulgida per colorare una nuova pagina del cuore dell’uomo più ricco: Il cuore d’un poeta bambino.

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Paraulas cuadas Sa terra mia de litos sa terra mia de preda in su coro' e carchina unu bisu secretu at isticchidu: unu sonniu de bragas de istimas e de fides ue craros e iscuros che omines colamus sutta su toccu 'e sas fainas nostras; unu sonniu 'e balentes armados de s'allega de sos mannos e leppa 'e dinnidade chi a s'anzena e nostra identidade cara noale intregat. Sa terra mia de sole sa terra mia 'e siddados unu fogu de fide at in su sinu e visiones de babbos afainados e mammas chin su risittu in laras e cussorzas fecundas inue in luna 'ona creschene sos pitzinnos chene deper fuire a logos isconnottos a pedire su pane a pedire s'orgogliu d'essere su chi semus. Unu sonniu de zente 'e bonu 'ettu e prufessones mannas de zente de tottue in carreras de sole e portales apertos a s'allega connotta 'e sos amigos a s'allega 'e s'istranzu a paraulas cuadas in su coro

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Parole nascoste La mia terra di boschi la mia terra di pietra nel suo cuore calcareo un sogno segreto ha nascosto: un sogno/di gioia di amori e di fede dove i chiari e gli scuri da uomini viviamo al ritmo delle nostre consuetudini; un sogno di balentes armati della lingua degli avi e spada di dignità che all'altrui e nostra identità regala un nuovo volto. La mia terra di sole la mia terra di tesori un fuoco di fede ha nel suo cuore e visioni di padri affaccendati e madri col sorriso sulle labbra e campagne feconde dove senza problemi crescono i ragazzi senza dover fuggire in posti sconosciuti a chiedere il pane a chiedere l'orgoglio d'essere ciò che siamo. Un sogno di gente cordiale e grandi processioni di tutti quanti popoli su strade di sole e porte spalancate alla voce conosciuta degli amici alle parlate aliene alle parole nell'anima nascoste.

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Tonino Fancello (Dorgali, 1953) e suo fratello Salvatore Fancello (Dorgali, 1955)- Sono numerose le affermazioni che le stanno giungendo nei vari concorsi di tutta l'isola. Tonino con l'Associazione Culturale "Bardia", promuove con successo il prestigioso "Premiu 'e Poesia Sarda Durgali”. nel 1997 durante l’anno vince il (premio del Campidanu) a Selargius, (il salotto letterario di Osilo) ed il premio (Remundu Pira a Villanova Monteleone). durante gli anni seguenti si conferma in altri concorsi come primo classificato vincendo quasi tutti i premi di poesia sarda dell’isola. inserendosi con la sua bravura nella prima rosa dei migliori poeti della Sardegna. A Ottobre 2011 con la poesia (Sonnios de pratta) vince il primo premio del (Logudoro) a Ozieri. Lunas de trigu (Tonino Fancello) Eremittas antigos... perdios... in scura dinnidade soliana 'e sa cria 'e sa terra, arrennadores de entu... travican galu sas lunas allatadoras innidas e piedosas de lacrimas arestes, intessias in sos miliares passilenos de su tempus. Mimulas de entu... trasportan sas lunas de trigu iffustas de pruere 'e nuraghe jumpande sas tramas de neula in su chelu faghendeli s'ispola a sa terra.

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Aerzos antigos... a ispassu in sos surcos fulanos semenados, trambugan...sos ojos...sa mirada in s'istincu lughente 'e s'impudile, seperande in s'adrommu 'e sas nottes su suntu 'e sa paristoria intessia in sas siendas antigas de Sardigna. Lunas de trigu... trisinan galu su fragu contomosu 'e sa tula murmuttande su tempus mustrencu 'e s'antigu valore... 'ue si son perdios sos bezzos cussizos. Lassande... s'antiga berritta chin s'arche manzàs de sudore, solas...solas... chin su diliriu 'e sos tunchios de suttaterra.

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Poetas (Tonino Fancello) Semus sos leones de vastu valore in su predariu sardu disitzadu inue sas grobes bocana s'amore e chircana su versu temperadu. Peri in s'ifferru in mesu su calore cherimus ponne timbru appaneddadu d'attarzu interi framma iscarfeddadu chi su dimoniu timmat su cantore. Predas de terra ch'impastan sa vida fizas de tempus cumpanzas de pricas mantenen galu muros a irfida. Semus su pruere in mesu sa sida ammus fraicadu casteddos d'ispicas chin d'una luche a imprestu chida chida.

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E Proet (Salvatore Fancello) Andan tazos de nues in s’aera supra terras de fogu lentinande, e chin sos pagos gutzos paren dande sas primas abbas de sa primavera. Falat marinu durche dae monte cugutande sas domos ei sas ghìas e illampizadas mandana maìas in tottu sa cussorza a s’orizonte. E selenos bentos de lentore paren torradas chircande sa luna, sas fozas d’una rosa a un’a una ispossiada chin pinzos d’amore. Rosa chi m’est restada sa talea a m’ammentare antigas bisiones, innotzentes pitzinnas passiones perdias in sos ojos d’una dea. Eppuru in su fumu ‘e sos ammentos no intendo una lagrima falare, solu durches losingas carinnare su coro a delicados sentimentos. Proet! E sos gutzos in cust’ora paren prellas lughidas e craras, e unu risu limpidu sas laras iscansan a s’incantu ‘e s’aurora. S’abba paret chi intonet a tenore unu cuntzertu ‘e tronos e de lampos, riden sos padentes, e in sos campos mudadu est a festa onzi fiore. Ma resta ‘alu chin megus a disora chin sas abbas de gosu oh temporada! S’irvoettare in sa notte ammantada caros mementos m’ischidat ancora. Chin tegus oje ballat su ‘eranu riden sas tancas, e ruppin sas enas, cantan sos rios, s’apperin sas venas, e si ‘estit de vida su pianu. E chin tegus tristuras e allegrias chin milli riitzolos si cunfunden; no isco si son abbas chi m’iffunden.

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Cantone si ‘olares (Salvatore Fancello) Cantone si ‘olares che saeta a ferre coros chin s’arcu ‘e s’amore in logu ‘e martirizu e de dolore a bardia dias ponne una cometa. De lughes d’oro e isteddos a coa che annuntziu de naschida divina in pruvereras de sa Palestina chi dae tempus ispettat bida noa. E dias bide muros de piantu fraigados, ruende a su lugore de sa manu gaddada ‘e su Sennore mortu po sa paghe in logu santu. Po iscrarire chelos oscurados supra terras de odiu chene sensu, inue creschet un’omine propensu d’azungher a sa rughe atteros craos. Si affundares sas francas che astore inue son moribondas sas isperas, dias aperre sas alas in aèras immensas de sentidu e de valore dias pesare cantigos d’affettu po chie gherrat in bratzos de s’ostinu peri argas chircande unu paninu e unu cantzu ‘e cartone a cadalettu e intonare ninnidos ebbia dae s’animu nobile profundu po sos minores de tottu su mundu vittimas mannas de pedofilia. E dias togare arcanu un’orizzonte illacanadu cantu s’universu si bastaren bellesas d’unu versu a semenare paghe in donzi fronte e zughere selenu chin sos cantos po los pesare in artu sos sentidos, in sos trettos immensos infinidos padrona che reina ‘e sos incantos. Imbentu fantasia ‘e su poeta chi la chircat s’essentzia de sa vida… In s’anima ‘e valore impoverida cantone si ‘olares che saeta.

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Chiudo questa piccola antologia con una poesia di Titinu Mereu (Dorgali, 1929 – Sassari 1984) da ragazzo lavorò come servo pastore e da adulto come muratore. Dotato di forte senso dell’umorismo recitava in sos magasinos e zilleris da vero attore. PIPIEDDU – Cand’ippi minoreddu a primu olu Po bisonzu appo attu su teracu Su mere de istrintonia imbriacau Mi trattadat che unu bestiolu. Sempere lamentosu fit in dolu Ca ippi debile e rendio pacu Chin su reccattu che idi in su sacu Li restat de appettitu a s’aranzolu. Mesu iscurtu drominde in sa lapinna Pacu istire e pacu nutrimentu Ea de die a sa roba e a sa linna E ne mai pacau a cumplimentu Istrapazzau in edade pizzinna Solu a mi l’ammentare m’es tormentu. Sarebbero tantissimi altri i poeti dorgalesi del passato e contemporanei che meritano di essere letti e ricordati : tra questi ricordiamo ziu Larettu Loi, ziu Tottoi Cosaona, i fratelli Paolino e Michele Pireddu, Paolo Delussu, Antonio Dettori, Mario Fronteddu, Maristella Fancello, Elena Monni, Angelina Sotgia, ecc. ecc. A tutti l’invito di cercare e leggere le loro opere, alcune citate nella bibliografia finale.

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COME SE … “Non mi dispiachet ca m’inche morzo ma ca no appo isperimentau”. Quanto avrei desiderato. Tali parole assumono un aspetto particolare quando a dirle è una persona ultra novantenne. Quando la memoria ritorna verso l’infanzia è perché il futuro si è raccorciato e la mente trova compenso allungando il passato all’indietro, il più indietro possibile. È quello che l’esistenza ci chiede, ricordare e richiamare alla memoria fatti, persone ed esperienze. Far tornare alla coscienza quanto l’inconscio collettivo dei sardi di Dorgali ci hanno regalato, senza che ne percepissimo la profondità, come persone nate e cresciute in queste terre. Ripenso spesso a miei nonni uno pastore l’altro capraio a Monte Omene. Alle invocazioni recitate da mia nonna vicino al focolare; mi ripenso da quando occupavo “su brozzolu” e ascoltavo le prime parole. E sognavo, come se ….

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COME DA “ITACA” DI KOSTANTIN KAVAFIS Itaca è un’isola del Mediterraneo. Un mito, un ricordo, un richiamo a una eterna nostalgia. La necessità di tornare a casa, nel posto dove si è nati. Sulle orme di povertà di Itaca e sui sentieri austeri di Dorgali in Sardegna. Riflessioni sul senso della vita, concepita come viaggio verso una meta, che si raggiungerà dopo lunghe peregrinazioni. Non bisogna avere fretta di giungere a destinazione, ma bisogna approfittare al meglio del viaggio (e quindi della vita) per esplorare il mondo, crescere e ampliare il proprio patrimonio di conoscenze. In ultima analisi, il senso è proprio quello di valorizzare più il viaggio che il destino. "Itaca" come “Sardegna” è il riferimento alla propria origine e identità, al la propria terra, che non può essere mai dimenticata. E il regalo più grande che ci ha fatto, la Sardegna nella sua povertà e umiltà, è proprio quello del viaggio, reale o metaforico, che ci ha permesso di vivere e di amarla. Anche se lontani.

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ITACA E SARDIGNA Cando cuminzas a viazzare disizzati chi duret meda, oro, timanza e seda de Bisanzio o Itaca as’amare. Muntones de isiones as a pessare non timas sas abbas nechidàs ca sas tantas penas acatàs dae su coro as’ a poder inneddare. Lassa chi t’intren in manos contos, libros e papiros impara peri sos sospiros de sos savios e marranos. E si su sufrimentu est in totue dolorosu ista sempere disizzosu de donnia isperimentu. Sardigna t’at dau su mare E unu iazzu tribolau In cussu c’as imparau Ch’est sa richesa de abalorare. (Vincenzo Pira)

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Come nel CANTO DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA – di Giacomo Leopardi Gli umili e gli esclusi diventano protagonisti della storia e della letteratura. Una scelta che anche Leopardi ha fatto volendo dimostrare come tutti, ricchi o poveri, intellettuali o analfabeti, si pongono le stesse domande senza un’unica risposta sul significato della vita e sull'esistenza del male. Anzi, sulle labbra di un semplice pastore, sia dell’Asia o della Barbagia, questi interrogativi acquistano una forza particolare, primordiale e assoluta, che esprime la "radice" comune della condizione umana. Il pastore immagina che la luna , contemplando dal cielo lo spettacolo della vita terrena , possa vedere ciò che al pastore appare misterioso ; la luna , infatti , dovrebbe essere in qualche modo consapevole di ciò che l'uomo ignora. La bellezza della primavera e del cielo stellato devono giovare a qualcuno, non possono essere semplici apparenze di un universo indifferente. Ma lo sconforto emerge nell'ammissione finale, in cui i dubbi fiduciosi lasciano spazio a una certezza terribile: a me la vita è male. Il pastore si rivolge anche al suo gregge, che invidia in quanto esso, a differenza dell'uomo , sente la vita solo istante per istante , dimentica subito ogni stento e così non soffre.

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Cussorzas de chelu Ite aches tue, luna, in su chelu? Narami silenziosa luna. Naschis su sero chene velu Peri po chie hat pacu vortuna. Ti ch’istichis in s’andare illuinande sas vias istraca de pompiare sas matessis rias. Sa vida de cadena in su chelu serenu su pastore chin pena igualas a prenu. Pesat chito a s’impuddile moffet su tazzu in su campu untanas, pasturas e cuile che li moffen su prantu. Si pasat su sero istracu ghite l’hat mai ispantau narami, o luna si es pacu a bivere ispramau. A nue lompet s’andonzu terrenu, e su camminu de su pastore sanu, cuntentu e serenu, o istrazzolau chene onore?

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Chin d’unu pesu in s’ischina , po montes, tancas e rios , li punghet in conca un’ispina, disizzu de amores proibios. Collinde abba e bentu uidi innedda isalenau, urruet e s’arrizat lentu, irmenticande su colau. Chene pasu ne reposu, perdiu in su camminu chircande isaperanzosu s’ originale sinu. O luna virzine lamentosa, asi est sa vida de su mortale. Naschit pranghende dolorosa chircande zustamente sa morale. Cosa prus zusta in contu non poden facher sos mannos che a sos fizzos su cossolu procurare medas annos. Si sa vida est patimentu meda peus de sa presone o luna chin sentimentu ti dimando sa resone. Non connesches sa morte emina chene edade de su pastore sa sorte disizzali chin piedade.

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Tanca manna silenziosa, a lacana chin su chelu cara triste e dolorosa pérdia chene velu. Cando luchen sos isteddos lompet su pessamentu a prenare sos cherveddos de donnia suffrimentu. Dae chelu e dae terra chene pasu immortale in s’eterna guerra po su ene e su male. Non connosco ene s’istoria de s’umana miseria ziros eternos e memoria son po mene cosa seria. Tue luna ses chene affannu e andas chene cadenas a nois lassas su prantu e tottu s’ateras penas. Cando mi drommo in terra o in sa preda dura fastidios a caterva no acatan cura. No acato pache in locu uinde dae su vrittu abba, laore e focu mi sian de dirittu.

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Sa tristura est de pesu in sa vida pastorile si sus tempus at resu miseru su cuile. Si appapiu sas alas e in sas nues potiu olare annadas vonas o malas podia ieo seperare. Ma a tie luna su cantu ti siat de dilettu a su pastore su incantu daeli chin affettu. (Vincenzo Pira)

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COME “IL CANTO DEL SERVO PASTORE” DI FABRIZIO DE ANDRÈ Sardegna terra di pastori e del rosmarino che fa rima con destino. Dove la fontana oscura (che richiama “sa tristura”) da un suggerimento di vita: "prendi la t ua tristezza in mano e gettala nel fiume..." L’eterna ricerca di senso del pastore travolto dalla vita e dai suoi eventi. Figlio della natura alla ricerca di una propria identità (qual è il mio vero nome, ancora non lo so). Non c'è lieto fine; la vita del servo pastore è e rimane sempre la stessa. L'unico conforto è il ricordo di quanto si è imparato e conosciuto : la luna, la notte, gli alberi in cui incidere, il dolore addolcito da qualche gesto di calore e di affetto. E poi si può anche morire. La vita dei tanti servi pastori hanno costruito l’inconscio collettivo della nostra cultura. E ancora la ritrovo che batte nei miei pensieri.

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SU CANTU DE SU TERACU PASTORE In nue frorit su romasinu b'at una untana iscura a nue andat su destinu unu ilu de tristura. Cale est sa manu zusta non mi l'ane mai imparau cale est su numene eru alu non mi l'han contau. Cando sa luna perdet sa lana e su puzzone sa gana donnia anzelu in cadenas e donnia cane appeddat. Pica sa tristura in manos e ghettachela a frumene esti de ozzas su dolore e prenalu de prumas. In donnia ozza de lidone dae neco a mare c'appo lassau carchi pilu in donnia eliche un'iscrittu de sas resorzas mias. S'amore de domo s'amore de biancu istiu no l'appo mai connotu no l'appo mai traiu .

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Babbai astore, mammai pazzarzu in pittu de sa collina sos ocros chene undu accumpanzan sa luna. Notte notte notte sola sola che su ocu de domo pone sa conca tua in su coro miu e a pacu a pacu lassalu morrere.

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COME “I PASTORI” DI GABRIELE DA’ANNUNZIO In Abruzzo come in Sardegna : “Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all’Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti. Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d’acqua natía rimanga ne’ cuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via… La nostalgia e il rimpianto portano a concludere : Ora lungh’esso il litoral cammina la greggia. Senza mutamento è l’aria. Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquío, calpestío, dolci romori. Ah perché non son io cò miei pastori? “

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PASTORES Capidanni. Tempus de tramudare. Moffen, su tazzu lentu, sos pastores andande in chirca de menzus laores dae sos artos montes a mare. Sentimentos e cantos a s‘andare Azuan a irmenticare sos dolores Isperanzas, ammentos e valores Acumpanzan su disuzzu e su precare. Dae innedda ammento custa zente Lamentos de lontananza chin’amore De esules chi biven tristemente. Cantu dolet s’ammentu in malumore de su nostalgicu ponner a mente de Sardinna su prus bellu viore. (Vincenzo Pira)

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COME “CIAO AMORE CIAO” DI LUGI TENCO Quando le strade erano tutte uguali, bianche come il sale, e non grigie di catrame. Quando facevano contorno al giallo dei campi di grano e il pane si sfornava in ogni casa, frutto del sudore e del lavoro dei contadini. Quando la natura era lontana dalla cultura. Quando la vita preparava alla morte. E poi ancora il viaggio. Un bel giorno piantare tutto e andare via. Con il rischio di perdere ciò che si ama e di perdersi. Senza mai sapere se domani ci sarà la pioggia o il sole, se si deve ancora vivere oppure se è arrivata l’ora di morire… Senza nostalgie inutili, in continua ricerca, difendendo la memoria e innovando il presente. Tra natura e cultura. In un dolce e continuo rimescolio. Come ha recitato in sardo, per noi, Michelangelo Pira in “Morte a Sanremo”. http://www.youtube.com/watch?v=wQseeznS3eU

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ADIOSU Sa matessi andaledda, bianca che sale, su tricu alu a creschere e sas tancas de arare. Mirande donnia die Si proet o si b’est su sole, po ischere si crasa si bivedet o si morit. E una bella die che piantas tottu e t’icandas. T’icandas a innedda a chircare ateros mundos pedinde perdonu a sa terra chi lassas, comente in d’unu isione. E poi milli camminos chi paren fumu in d’unu mondu de luches in nue non ti connosches. Bivende chent'annos in d’una die, dae sos montes de Ghivine a sos chelos chene vine. Chene cumprendere nudda Semper chin gana de amorare. Chene ischire a facher nudda In d’unu mundu chi ischit tottu e chene unu sisinu po podere torrare. Adiosu.

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COME NELL’ ULISSE DI UMBERTO SABA La sfida e la difficoltà del viaggio, la bellezza del tempo che svela ostacoli insormontabili, dal piccolo fiume del paese natio ai grandi fiumi del mondo. Il tema del viaggio arriva direttamente al primo verso “Appo cumenzau dae pizzinnu a biazzare in su mundu” – e proietta subito il pensiero alla grandezza degli oceani, come un cumulo di esperienze, un viaggio attraverso una vita, a tratti calma ma piena di insidie. E la stanchezza del viaggio porta a desiderare il porto in cui trovare sicurezza. In cui poter spendere le conoscenze e la saggezza accumulate dimenticando la solitudine e la vita senza amore. E Ulisse metafora condivisa di tutto questo.

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ULISSE Appo cumenzau dae pizzinnu a biazzare in su mundu ma de Sardinna su sinnu arrumbau m’est in fundu. Dae terras predosas de pacos colores supportande dolores de zentes zelosas. Imparande dae tottu dae pizzinnas e bezzas dae bellas e lezzas s’amore isconnottu. Lompet s’umbra iscura E t’acatat istracu chene pache, teracu de ninfas de tristura. Oje no appo domo affocau in sos amentos bivo in sos lamentos e chene pache dromo. (Vincenzo Pira)

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COME UGO FOSCOLO IN “ZACINTO” La precarietà della condizione di esule e il sentimento nostalgico nei confronti dell’isola del mar Ionio, molto amata, dove lui è nato. Ripensando a quando era bambino e ricorda le bellezze del clima e della vegetazione dell'isola, creata dalla dea Venere – nata dalle acque del mare – che lei rese fertile con il suo primo sorriso. Mentre Omero celebrò i viaggi di Ulisse, che potè a ritornare a baciare la «petrosa Itaca», mentre a lui non riuscirà di ritornare nella sua piccola isola. Il fato avverso lo costringe a peregrinazioni senza sosta e sente che e stata stabilita per lui una perenne nostalgia e una lunga ricerca di pace.

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A DURGALI Cando appo torrar a bidere S’ispricu d’abba inue soe naschiu Locu galanu dae tottu est ischiu Menzus non b’hat po morrere e bivere. Po medas annos m’as pesau Imparandemi sa bramosia su travallu e s’allegria de s’eressia tua app’amirau. Riconnotu hat meda zente De izzas tuas sa belesa nudricas de pacu richesa ma de zeniu prus valente. Dae pizzinnu a sa ezzesa Su mundu intreu appo connotu Irmenticande s’ abolotu E de tramperis sa pretesa. Zai su tempus est colande soe alu innedda dae chentu De torrare conca a bentu Su disizzu est aumentande. Ti regalo custu cantu De izzu prodigu e disizzosu De torrar a bidda isperanzosu po non connoscher prus su prantu.

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COME “ALLE FRONDE DEI SALICI " DI SALVATORE QUASIMODO Alle fronde dei salici” è stata scritta durante il periodo della guerra contro i nazisti. Si esprime l’avversità verso gli “oppressori” e il sacrificio che le vittime di ogni tempo subiscono. L’eterno significato simbolico del “piede straniero”, inteso come gli invasori di sempre che calpestano i sentimenti ( il cuore ) di tutto il popolo. Come il popolo della Bibbia, ogni popolo oppresso non può cantare. Non si può calpestare la dignità della gente obbligando all’allegria quando si vuole solo piangere.

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S’urtimu cantu E nos pediat a cantare Sas grobes de Sardigna In d’una terra indigna Locu ‘e ifferru de brusare. Chene gana de precare Cuss’ anima maligna Non baiat sorre benigna po nos poder attittare. Imbolaos in sa serra respirande malasorte e entos pudidos de gherra. Tocà nos est sa morte Urtimu cantu ‘e sa terra de chie pranghet prus forte. (Vincenzo Pira)

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Come il Don Chisciotte di Gianni Rodari Lento, ma inarrestabile, cavalca nei secoli il cavaliere errante, dietro il suo scudiero saggio e timoroso. Dalla Mancha al mondo, con il ricordo di Dulcinea, la compagnia di Ronzinante e di Sancho Panza, a lottare contro le ingiustizie. Il viaggio, il desiderio di conoscere il nuovo, eroe di paese sconosciuto che vuole conquistare il mondo. “O caro Don Chisciotte, o Cavaliere dalla Triste Figura girasti il mondo in cerca d'avventura, con Ronzinante e Sancio il tuo scudiere, pronto a combattere senza paura per ogni causa pura. Maghi e stregoni ti facevano guerra, e le pale incantate dei mulini ti gettavano a terra; ma tu, con le ossa rotte, nobile Don Chisciotte, in sella rimontavi e, lancia in resta, tornavi a farti rompere la testa. In cuore abbiamo tutti un Cavaliere pieno di coraggio, pronto a rimettersi sempre in viaggio, e uno scudiero sonnolento, che ha paura dei mulini a vento... Ma se la causa è giusta, fammi un segno, perché - magari con una spada di legno - andiamo, Don Chisciotte, io son con te!

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A ziu Pascale Crodazzu Cadderi fieru e sognadore naschiu in locu isconnotu po su zustu as fattu votu d’essere balente lottadore. De connoschessias chircadore chin s’anima in abolotu lassau as su locu notu e su primu amore. Tropu dies de itianu de una vida intristìa de unu inchidore metzanu. Bramande tempos d’armonìa circaos in locu lontanu po su ene de s’umana zenìa. (Vincenzo Pira)

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Come nella Bibbia, Qoelet, 3, 1-8 : Tempus po tottu B’at unu tempus po istimare E unu tempus po naschire Unu tempus po partire E unu tempus po ispettare. B’at unu tempus po briare E unu tempus po finire Unu tempus po muttire E unu tempus po calliare. B’at unu tempus po mòlere Unu tempus de allegria E unu tempus de morrere. B’at unu tempus de bria E unu tempus po pranghere Ca est longa sa ria. (Vincenzo Pira)

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Salvatore Fancello (Dorgali 1916 – Bregu Rapit Albania 1941)

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A Salvatore Fancello, giovane artista dorgalese, morto in guerra, con altri soldati che avevano lo stesso umore ma la divisa di un altro colore. Colores in biazzu In sa costa de mare erva zalla brusà colores de chelu in sa tanca pintà. Chin manzas de erveches biancas che su manzanu montes frittos che nie s’oro de su eranu. De ocu ruiu s’aneddu che ocrosos istracos brunetinas sas lavras che mare nechidau. Carena bianca che latte rosa de maju ifriscà ulias ispricu de nues anzande abba arzentà. Pilos nieddos che piche Umbra iscura de s’eternu Arva longa canuda Luchente che isteddu. Mele ranchiu irruiau che sa uca tua un’urtimu asu po acatare pasu. (Vincenzo Pira)

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ISCHIDANDE Unu sonnu profundu chi che canzellat su tempus e ti che leat a innedda po chircare un’imposta. Miradas arcanas chi àtunu sol’ispantu umbras de animas mortas in ispera de attitu. Timende sos misterios chin no acatan crarore isperande in sa prominta de una paraula zentile. Anima suferente iscarvatà in su profundu ispettande dae sempere sinzales de luche. Peso chitto a s’impuddile po m’ammentare unu isione alanzande cussorzas de vida perdias in sa notte. (Vincenzo Pira)

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Innedda Cant’est innedda cust’innedda de bisos non crompios chi irvettan sa die cando s’eternidade s’abeliat de sas fainas de su tempus. No, no est innedda cust’innedda peri chene fruttos bales sa galania ‘e su frore su ‘isione ‘e su semene s’ispettatia ‘e s’istajone noa po podere sempere torrare a cumentzare. (Vincenzo Pira)

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COME FARE POESIA ? La poesia è fatta da strofe che indicano un raggruppamento di versi caratterizzato da : • Numero e tipo dei versi usati • disposizione delle rime. La rima Componente importante del fare poesia, la rima è l’identità dei suoni della parte finale di due parole; si presenta in varie forme, tra le quali ricordiamo: • la rima baciata, quando unisce due versi consecutivi secondo lo schema AA; • la rima alternata, quando appunto le rime si alternano, secondo lo schema ABAB; • la rima incrociata, quando si presenta con un ordine speculare, secondo lo schema ABBA; • la rima incatenata, tipica della terzina dantesca, secondo lo schema ABA.BCB.CDC.; • la rima invertita, quando le rime di una strofa tornano uguali ma in ordine inverso, secondo lo schema ABC.CBA; • la rima replicata, quando le rime di una strofa tornano uguali e nello stesso ordine in una strofa successiva, secondo lo schema ABC.ABC. Il RITMO è il movimento creato dall'andamento degli accenti all'interno del verso. Questo andamento può rendere ritmicamente differenti versi metricamente uguali.

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Ad esempio un endecasillabo può avere gli accenti sulle sillabe 1-4-6-8-10, oppure 2-4-6-8-10, o ancora 3-6-8-10. Quanto al numero dei versi impiegati e alla disposizione delle rime, le strofe più comuni sono: • il distico (schema AA ): Su sinnore balente in bidda est perdente • la terzina (schema ABA.BCB.CDC) Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore; fecemi la divina potestate la somma sapïenza e 'l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterna duro. Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate. (Dante Alighieri, Inferno III 1-9 – poeta di Firenze 1265-1321) • la quartina (schema ABAB oppure ABBA) Tancas serradas a muru A Fattas a s'afferra afferra B Si su chelu fit in terra B L'aiant serradu puru A (Melchiorre Murenu)

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• la sestina schema ABABCC - non si chiamano sestina o sesta rima tutte le strofe di sei versi, ma solo il tipo ABABCC. Pertanto, nell'eventualità in cui si dovessero riscontrare, per esempio, strofe con schema: ABABAB o ABCCDD si dovrà semplicemente parlare di strofe di sei versi. • l'ottava (schema ABABABCC) • la nona rima (ABABABCCB). Misurare il verso significa “contare le sillabe” per garantire sia la vocalità e musicalità della poesia sia il rispetto della metrica. Molti poeti contemporanei, con l'impiego del verso libero, usano solitamente strofe senza alcuno schema fisso di versi o di rime. IL SONETTO Il sonetto è un breve componimento poetico, tipico soprattutto della letteratura italiana e ripreso anche da quella sarda. Nella sua forma tipica, è composto di quattordici versi endecasillabi (contrariamente a quanto si potrebbe dedurre dal nome, è bene chiarire subito che la nota distintiva del endecasillabo non è il numero effettivo di sillabe, bensì il fatto che in tutti i casi l'accento dell'ultima parola del verso cada sempre sulla decima sillaba. È errore comune dunque pensare che tutti gli endecasillabi debbano avere sempre e comunque undici sillabe. Ciò, se pure nella maggior parte dei casi è vero, non costituisce una regola).

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Molto vario è lo schema ritmico del sonetto, quello originario era composto da rime alterne ABAB.ABAB sia nelle quartine che terzine CDC.DCD, oppure con tre rime ripetute CDE.CDE. Quello in vigore nel Dolce Stil Novo introduceva nelle quartine la rima incrociata: ABBA/ABBA, forma che in seguito ebbe la prevalenza. Ecco un sonetto di ottonari (verso con gli accenti sulla terza e sulla settima sillaba – ABBA.ABBA CDC.DCD) di don Zuanni Mulas: A Eleonora S’ischires cantu ti bramo Fada bella de su coro S’ischires cantu ti adoro Narrer mi dias: si t’amo. Ti chirco continu e giamo Si non t’incontro m’acoro Ca ses s’unicu tesoro Pro su cale m’infiamo. Ses che lughente aurora Chi s’altzat serena in mare Ses che fada incantadora. Non ti devo ismentigare Pura e bella Eleonora Finas a mi sepultare.

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Sos Mutos, sono composizioni sarde, sia dall’uomo che dalla donna, per dichiarare il proprio amore ma utilizzato anche con funzioni ludiche e conviviali, di sfogo e di scherno in base alla circostanza. Cantati solitamente a voce sola o anche accompagnati da chitarra od organetto. La versione su tematiche religiose è chiamata Gosos e ha la stessa forma. La struttura compositiva dei Mutos prevede solitamente s’isterrida, normalmente di tre versi (ma possono essere anche di più) che poi vengono ripresi in sa torrada a formare tante strofe, sas cambas, quanto sono i versi de s’isterrida. Talvolta non tutti i versi de s’isterrida vengono ripresi in sa torrada in altrettante cambas ma solo alcuni. S’istérrida non è mai sottintesa ed è invece sempre enunciata integralmente all’inizio del componimento e non presenta mai ripetizioni di versi.Sa torrada ha sempre la forma «ampliata» e l’ampliamento è sempre del tipo «per cambas». Il verso generalmente adottato nei mutos è il settenario (verso nel quale l'accento principale si trova sulla sesta sillaba). SETTENARIO. Verso di sette sillabe metriche o posizioni, con accento fisso sulla sesta posizione e uno o due accenti mobili sulle prime quattro. Si alterna spesso all'endecasillabo, come nella canzone A Silvia di Leopardi.

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Altra forma molto usata nella poesia sarda è l’ottada torrà di più semplice fattura. Possiamo distinguervi due tipi: • quella di ottonari, che chiameremo ottada torrà minore, ottenuta con la farcitura di un distico cc nello schema della sesta torrà : ABBAACCX; • quella in endecasillabi, ottada torrà maggiore, che parte dallo schema dell’ottava rima (ABABABCC, in sardo ottava serrà) per ottenere la formula: ABABABBX. L'ottada è costituita da strofe di otto versi endecasillabici, sei a rime alternate iniziali (schema ababab o ababba o abbaba o abbaab) e due a rima baciata finali. Sa Battorina È costituita da una quartina di settenari a rima alternata. La quartina è a sua volta suddivisa in isterrida e torrada o cobertanza, composte da due versi. È in genere un canto d'amore, ma può avere anche altro argomento. A dispetto del nome, la battorina (dal sardo battoro, ‘quattro’ più il suffisso -ina) non è però direttamente assimilabile alla pura ‘quartina’ di schema ABBA, come alle strofe libere in genere, per una sua caratteristica costante che va dunque presa con la dovuta considerazione: la ripetizione del primo verso dopo il quarto (A1BBAA1):

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Suspiros mios bolade A1 privos de d’ogni recreu; B s’infelice istadu meu B a su ch’istimo li nade. A Suspiros mios bolade. A1 Ecco un esempio di una gara fra tre poeti estemporanei : Zizi, Sotgiu e Piras. SOTGIU: Como cantamos una battorina Pro appagare un'atter'una idea Mi non è legge bella o legge fea Ch'est de legisladores sa faina Como cantamos una battorina PIRAS: Como cantamos una battorina Chi est de sa duina sa corona Cando s'agattada in duna terra ona Pone fina sa lande raighina Como cantamos una battorina ZIZI: A la cantamos una battorina Sas legges la lassamos a coa Como e timere già est sa legge noa Una tantum, su preziu e sa benzina Goi si cantada una battorina SOTGIU: Alla cantamos una battoretta Su preziu e sa pastura est in ribassu Ma aumentadu est su trigu e s'ammassu E preziu leadu non ha sa petta Como cantamos una batto retta PIRAS: Como cantamos una battoretta Già semus pianghinde tottu umpari Ma basta chi si fina su inari Calicunu leadu has sa recetta Como cantamos una battoretta

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Bibliografia AA.VV. I^ raccolta di poesie del concorso Ferragosto dorgalese, Tip. Su Craminu, Dorgali, 1988 AA.VV. II^ raccolta di poesie del concorso Ferragosto dorgalese, Tip. Su Craminu, Dorgali, 1989 AA.VV. premio di Poesia sarda Tiscali, I^ Edizione, Tip. Su Craminu, Dorgali, 1998 CARTA BROCCA, Gonario, Vocabolariu, durgalesu – italianu, italiano – dorgalese, 2010 • Sos canticos , de s’ae, TAS,sassari, 1996 CIRESE, A.M. Struttura e origine morfologica dei mutos e dei mutettus sardi, Gallizzi, Sassari, 1964 CUBEDDU, Luca, Cantones e versos, E.della Torre, Cagliari, 1982 CUCCA, Pantaleo, Sutta sa ruche ‘e Monte Bardia, ed. Ziri ziri, Dorgali, 1962 CORRIAS, Nanneddu e FANCELLO, Billia, Antoni Cucca – poeta durgalesu, Edizioni delle Torre, Cagliari, 1998 DEPLANO, Andrea, Rimas, suoni versi sgrutture della poesia tradizionale sarda, Artigianarte editrice, Cagliari, 1997 • Tenores, Am&D, Cagliari, 1994 MEREU, Giovanni Antonio, Incontru chi sa Musa, Artigrafiche Su Craminu, Dorgali,

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