Cultura Commestibile 114

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N° 1 14 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Più realista del re Cinquanta sono i motivi per venire all’Expo Italia. Tra i tanti io ne cito tre. La bellezza del nostro Paese [...] lo affianco a Dostoevskij con ‘la bellezza salverà il mondo [...] Firenze, attraverso le sue testimonianze di arte, cibo e stile di vita, farà parlare di un nuovo Rinascimen- to italiano Dario Nardella

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N° 114

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Più realista del re

Cinquanta sono i motivi per venire all’Expo Italia. Tra i tanti io ne cito tre. La bellezza del nostro Paese [...] lo affianco a Dostoevskij con ‘la bellezza salverà il mondo [...] Firenze, attraverso le sue testimonianze di arte, cibo e stile di vita, farà parlare di un nuovo Rinascimen-to italiano

Dario Nardella

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Da nonsaltare

Joan Nogué è il Direttore dell’Osservatorio del Pae-saggio della Catalogna. Ha

tenuto recentemente a Firenze una conferenza nell’ambito dell’ “Open Session”, un programma di alta formazione organizzato dal Dipartimento di Architettura di Firenze, sotto la direzione di Ludo-vica Marinaro e Enrico Falqui. Lo abbiamo intervistato. (Traduzione dallo spagnolo di Cecilia Caldini)Salve dott. Nogué la prima que-stione che le pongo è questa. Lei è il direttore dell’Osservatorio per il Paesaggio della Catalogna. Ci può dire, sinteticamente in cosa consiste il vostro, il suo, lavoro. È un organismo completamente pubblico? Chi sono i vostri committenti? Come operate?L’osservatorio del Paesaggio è uno spazio di incontro fra l’Ammini-strazione (in tutti i suoi livelli), le Università, gli Ordini professionali e la società nel suo complesso, in relazione a tutto ciò che ha a che vedere con il paesaggio.La sua creazione risponde alla necessità di elaborare proposte e far prendere coscienza alla società catalana della necessità di una più efficacie protezione, gestione e pro-gettazione del paesaggio, nel segno di uno sviluppo più sostenibile.L’Osservatorio del Paesaggio è pertanto un centro di pensiero e di azione sul tema generale del pae-saggio. Esso è organizzato in forma di consorzio pubblico e fa capo a più di trenta istituzioni pubbliche e private interessate a preservare la diversità e la ricchezza paesaggistica della Catalogna, e a contenerne i fenomeni di degrado. La struttura, in forma di Consor-zio con entità giuridica propria, presenta un carattere aperto e fles-sibile, connotato da una spiccata agilità di funzionamento e da una assoluta permeabilità, che consente lo svolgimento delle proprie fun-zioni senza alcun tipo di ostacolo.Nel concreto, le sue funzioni sono le seguenti: - stabilire criteri per l’adozione di strumenti di protezione, gestione e progettazione del paesaggio; - fissare criteri per stabilire obiettivi di qualità paesaggistica e azioni destinate a conseguire tali obiettivi;- stabilire meccanismi di osserva-zione dell’evoluzione e trasforma-zione del paesaggio;- proporre azioni dirette al miglio-ramento e restauro del paesaggio;

- elaborare un catalogo dei pae-saggi della Catalogna destinati a identificare, classificare e valutare i differenti paesaggi esistenti;- promuovere campagne di sensi-bilizzazione sociale in relazione al paesaggio, alla sua evoluzione, alle sue funzioni e trasformazioni;- diffondere studi e ricerche, e sta-bilire metodi di lavoro in materia di paesaggio; - stimolare la collaborazione scien-tifica e accademica in relazione al tema paesaggio, così come gli scambi di lavoro ed esperienze fra specialisti ed esperti delle Universi-tà e di altre istituzioni accademiche e culturali;- seguire da vicino le iniziative europee in materia di paesaggio;- organizzare seminari, corsi, esposizioni e conferenze, così come pubblicazioni e programmi specifi-ci di informazione e formazione sul tema del paesaggio;- creare un centro di documenta-zione aperto a tutti i cittadini e, più in generale, divenire un grande collettore a cui qualunque soggetto interessato al paesaggio possa fare riferimento.Per facilitare la diffusione, forma-zione e sensibilizzazione in relazio-ne al paesaggio, l’Osservatorio ha creato un sito web (www.catpai-satge.net) disponibile in quattro lingue (catalano, spagnolo, inglese

e francese). Dalla firma della Convenzione Europea di Firenze sul Paesaggio ad oggi sono passati 15 anni. In quella carta si fissavano le basi per una nuova concezione del Paesaggio. Si affermava, forse per la prima volta a livello europeo (come ha fatto nel 1948 la Costituzione Italiana), che il paesaggio è un patrimonio colletti-vo e ha un valore sociale, e soprattut-to che sono le popolazioni, i popoli, le persone anche singole che, con il loro sentire, con le loro percezioni, con la loro conoscenza permettono di definire, e di riconoscere, il paesaggio. La definizione di paesaggio nella convenzione è infatti: “Paesaggio designa una determinata parte di territorio, cosi come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalla loro interrelazione”. Lei ritiene che quanto affermato in quella convenzione, con riferimento alla riconoscibilità dei paesaggi, alla loro salvaguardia e alla partecipazio-ne dei cittadini alle scelte sulla loro trasformazione sia stato complessiva-mente attuato in Europa?No, la Convenzione Europea del paesaggio ancora non è stata applicata approfonditamente in Europa. È vero che è stata ratificata da molti paesi e che alcuni hanno recepito la filosofia che si desume dalla Convenzione nel proprio

corpus giuridico, ma rimane comunque ancora molto da fare su questo terreno.Molti paesi hanno ratificato la Convenzione ma di fatto anco-ra non la stanno applicando, o quanto meno stanno attuando solo l’essenziale e l’indispensabile, come ad esempio la definizione di stru-menti di riconoscimento, diagnosi e valorizzazione dei paesaggi, quali cataloghi o atlanti del paesaggio. Altri – di fatto la grande maggio-ranza – non hanno ancora previsto meccanismi seri e ben ragionati di partecipazione della cittadinanza nello sviluppo delle politiche del paesaggio. Per questo, in realtà ci troviamo ancora davanti un grande lavoro da fare!Sempre nella Convenzione del paesaggio, nella relazione esplicati-va si legge al punto 26: “Il campo di intervento delle politiche e dei provvedimenti qui sopra citati deve riferirsi alla totalità delle dimensio-ne paesaggistica del territorio dello stato.” In sostanza il paesaggio non è solo quello degli spazi agrari e delle montagne, o delle coste del mare e dei laghi, ma anche il paesaggio urbano. In questo senso come si è mosso il lavoro dell’Osservatorio? Può essere di aiuto il vostro lavoro anche per la riconoscibilità e la gestione dei problemi urbani?Questa è proprio una delle principali novità apportate dalla Convenzione: l’aver incluso il paesaggio urbano – e ancor più quello metropolitano – nell’ambito delle politiche del paesaggio e nello stesso concetto di paesaggio. Il che non è assolutamente un tema di facile comprensione, poiché di fatto continuiamo a essere vincolati a una concezione del paesaggio di carattere fondamentalmente este-tico, visuale, e associata per lo più agli ambienti naturali, o al limite rurali. La grande sfida che abbiamo davanti è senza dubbio quella della gestione e progettazione dei paesaggi urbanizzati e in parti-colare di quelli metropolitani. In

L’osservatoredel paesaggio

di Gianni [email protected]

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Da nonsaltare

Catalogna abbiamo portato avanti in prima persona questa sfida, dedicando uno dei sette cataloghi del paesaggio che copre il nostro territorio proprio alla Regione Metropolitana di Barcellona, una delle aree urbane più dense e com-plesse d’Europa. Non è stato facile convincere chi non lo aveva chiaro che anche questa regione dovesse disporre di un proprio catalogo del paesaggio che, come forse sa, non è solo uno strumento di ricono-scimento, analisi e diagnosi dello stato del paesaggio, ma anche uno strumento propositivo, che include la partecipazione da parte della cittadinanza ed è destinato a fissare obiettivi di qualità paesaggistica e azioni concrete per conseguire tali obiettivi. Il catalogo della Regione Metropolitana di Barcellona è da poco stato approvato ufficialmente e sta destando enormi aspettative.Sì, per noi la questione urbana è fondamentale. Ed è proprio per questo che abbiamo dedicato, per esempio, un seminario internazio-nale e un libro alla questione delle periferie urbane. Le periferie fun-zionano come frange, come inter-facce fra differenti realtà geografi-che e configurazioni paesaggistiche. Non sono solo il risultato – spesso imprevisto e indesiderato – di un centro che cresce e necessita di espandersi in modo del tutto ca-suale. La periferia è qualcosa di più del perimetro di un centro: è anche e soprattutto una soglia fra diffe-renti realtà territoriali – e talvolta mentali – che assume un ruolo sempre più rilevante nella nostra vita quotidiana. Per comprendere la sua logica e le sue idiosincrasie occorrono sguardi molto differen-ti: dall’arte alla letteratura, dalla musica al cinema, dalla fotografia all’architettura, dalla geografia alla sociologia, dall’urbanistica all’ecologia. E per lavorare con questi è necessario modificare in modo sostanziale la scala spaziale e temporale a cui siamo abituati, e comprendere che i suoi riferimenti sociali e simbolici, inclusi quelli paesaggistici, sono altri.Lei ha affermato recentemente in una conferenza tenuta a Firenze che ci può essere una terza via fra la proprietà privata e quella pubbli-ca dei suoli (e quindi anche del paesaggio). Questa terza via è quella dell’uso sociale del suolo, dell’uso collettivo programmato e concordato fra gli abitanti di un dato luogo. E questo uso è uno strumento per la riqualificazione e, in certi casi, per

la riappropriazione del luogo e del paesaggio. Ha citato il concetto di “bene comune”. Ci vuole spiegare più in dettaglio questa sua idea.Sì, ho parlato del bene comune applicato al paesaggio perché manca, non solo una teorizzazione, ma anche soprattutto un corpus giuridico di carattere territoriale che includa l’idea di bene comune. Come spiega molto bene Ugo Mattei (Ugo Mattei - Beni comuni - ed. Laterza), la modernità ha instaurato un sistema basato su due poli di potere e legittimità opposti: quello dello stato sovrano e quello della proprietà privata, presentati come le due facce di una stessa medaglia. La logica del positivi-smo scientifico cartesiano avvalora accademicamente questa dualità. Il peso specifico dell’uno o dell’al-tro polo cambia in funzione del contesto storico e geografico, però ambedue divengono storicamente i pilastri della retorica moderna, impregnando l’immaginario col-lettivo e annullando tutte le forme premoderne di gestione del bene comune che, dopo alcuni secoli, si affanna oggi per ricomparire, seppure in una forma diversa.La riscoperta dell’essenza del concetto di bene comune si scontra in pieno con questa retorica e con tutto il corpus giuridico e istitu-zionale che da essa deriva, il che spiega le difficoltà che il concetto ha ad aprirsi la strada. Però lo farà, e lo farà fra le altre ragioni, perché la crisi attuale ha reso manifesto che non era vero che non esistes-sero alternative, altri metodi di organizzazione e controllo sociale di ciò che è comune. Sta nascendo una diversa narrativa dello spazio pubblico e del paesaggio, basata proprio sull’idea di bene comune, e questa è davvero una bella notizia. Cosa implica realmente conside-rare il paesaggio come un bene comune? Di questo discuteremo il prossimo 10 di aprile, a Barcellona, in una giornata di studio sul tema “Il paesaggio come bene comune”. (http://www.catpaisatge.net/fi-txers/becomu_web.pdf).

Il paesaggio, Lei afferma, è fatto da luoghi. I luoghi formano il pae-saggio. E i luoghi sono vissuti dalle popolazioni. Quindi è la vita delle popolazioni che popola e fa vivere il paesaggio. In questa direzione vanno molte delle sue attività di coinvol-gimento delle persone, di gruppi sociali nella gestione dei processi di riconoscimento, di ricostruzione, di riappropriazione del paesaggio. Ci può fare qualche esempio concreto.A questo proposito sono ottimista. Osservo come in questi ultimi anni il paesaggio stia “penetrando” nelle agende politiche, sociali e culturali, e perfino economiche. Le persone sono sempre più coscienti del va-lore del paesaggio e reagiscono – a volte con indignazione – quando si degradano il loro immediato intorno, i loro paesaggi di riferi-mento, e soprattutto quando non vengono coinvolte, cosa che accade spesso. In questo senso, il nostro lavoro consiste nel continuare a sensibilizzare la popolazione e le amministrazioni attraverso la pub-blicazione di libri, l’organizzazione di seminari e la diffusione di tutti i tipi di informazione inerenti il paesaggio, attraverso azioni di con-sulenza presso gli enti e, soprattut-to prestando particolare attenzione al tema dell’educazione. In fondo la questione del paesaggio, come tante altre, è una questione cultura-le che ha molto a che vedere con il maggior o minor livello culturale di un paese. Per questo abbiamo dedicato molte energie al progetto educativo “Ciudad, territorio, paisaje”, elaborato per promuo-vere la sensibilizzazione al tema paesaggio nelle scuole secondarie inferiori e, al contempo, aumentare le conoscenze di base previste in questa tappa. I materiali didattici, elaborati da persone di riconosciu-to prestigio nella materia, includo-no dodici tavole che consentono agli alunni di lavorare in team, una guida didattica per il corpo docen-te e il sito web “Ciudad, territorio, paisaje”, che amplia e approfondi-sce i contenuti delle dodici tavole. Più di 450.000 studenti dell’Edu-

cazione Secondaria Obbligatoria, fra i 12 e i 16 anni, hanno ricevuto questo materiale, e parallelamente sono stati organizzati corsi di for-mazione per i docenti. Si tratta di un’esperienza pioniera in Europa, che introduce il concetto di paesag-gio e la questione delle trasforma-zioni territoriali nell’insegnamento delle scuole medie inferiori. Siamo molto soddisfatti che il Consiglio d’Europa abbia riconosciuto e premiato questo grande sforzo collettivo.Nella conferenza che si è tenuta a Firenze Lei ha affermato che è in corso una sostanziale modificazione del rapporto fra gli spazi urbani e le aree agricole. Ha parlato di una nuova ruralità che però ha le radici in città. Ci vuole illustrare in modo esteso questo concetto.Si tratta di un tema complesso, perché siamo nel bel mezzo di un processo e non abbiamo abbastan-za prospettiva per comprendere come evolverà, però sono convinto di quanto affermato. Stiamo assi-stendo all’emergere di un nuovo “neoruralismo” che va molto oltre il conosciuto fenomeno neorurale rilevante in buona parte dell’Euro-pa negli anni ‘70 e ‘80. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione stanno influendo nella comparsa di questi nuovi tipi e modelli di insediamento, met-tendo in dubbio nella loro totalità le tradizionali relazioni città-camp-agna (e lo stesso significato dei due concetti). Sociologicamente e mentalmente parlando, siamo davanti a una sfocatura pressoché totale dei tradizionali confini concettuali città-campagna. Ciò non è solo dovuto al fatto che le tecnologie dell’informazione e le nuove vie di comunicazione hanno avvicinato come mai prima questi due mondi, ma anche al fatto che le stesse comunità, le stesse persone - e in modo particolare i nuovi “colonizzatori” - appartengono, nello stesso tempo, a entrambi i mondi. Mentalmente, funzional-mente, ma anche in termini sociali. Siamo senza dubbio di fronte a un nuovo panorama. La cosa più interessante del fenomeno è che, dietro a tutto questo, soggiace il desiderio di sperimentare una nuova forma di territorialità, in altre parole un cambiamento delle relazioni esistenti fra le persone e il loro contesto bio-sociale; una nuova territorialità che implica una revisione radicale di categorie chiave quali il lavoro e il capitale.

Intervista al direttore dell’Osservatorio per il Paesaggiodella Catalogna Joan Nogué

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Questo fenomeno risulta molto chiaro se si osserva il proliferare dei circuiti alternativi di produzione e consumo, basati su cooperati-ve di produzioni di prossimità, cooperative di interscambio di servizi senza scambio di denaro, ecc. Il protagonismo che stanno acquisendo queste reti, in buona parte disconosciute dalla stessa Amministrazione, è straordinario. Di fatto, molti di questi circuiti sono urbani. Soltanto nell’area metropolitana di Barcellona stanno nascendo numerose pratiche di produzione e consumo alternati-ve, alcune delle quali sorte come conseguenza della crisi, ma molte altre già esistenti da diversi anni, anche se probabilmente non con la visibilità acquisita recentemente. È pertanto straordinario il numero e il dinamismo dei collettivi che esplorano modelli sostenibili di vita. Modelli che già si stanno affermando e che non provocano cambiamenti strutturali rimar-cabili, ma comunque migliaia di micro cambiamenti assolutamente disconosciuti alle amministrazioni. Micro cambiamenti sia in campa-gna che in città. E fra la campagna e la città... una campagna che a volte “già” è parte della città, attra-verso la pratica degli orti urbani o gli incolti periferici che tornano a essere coltivati. Il fenomeno degli “urbani” che si muovono in questi circuiti alternativi chiara-mente converge con quello dei “neorurali”. E di fatto, ambedue si oppongono alla contrapposizio-ne tradizionale città-campagna, rurale-urbano.Il paesaggio è il frutto di rapporti economici. Emilio Sereni nel suo libro “Storia del Paesaggio agrario italiano” ne parla in modo esempla-re. È quindi evidente che al mutare di tali rapporti anche il paesaggio su-birà modificazioni. Come si concilia secondo lei questa affermazione con le politiche di tutela del paesaggio? È possibile, e come, tutelare un pa-esaggio frutto di rapporti economici oramai non più attuali. Come avete affrontato il problema in Catalogna?Non è assolutamente facile e credo che né in Catalogna né in nessun altro luogo l’evidente contraddizio-ne che Lei espone sia stata risolta in modo soddisfacente. Esiste un rischio evidentissimo nella tra-sformazione di paesaggi a elevato valore patrimoniale che hanno cessato di esercitare la funzione che ha dato luogo alla forma che oggi si intende proteggere, in autentici

parchi tematici. E questo è esatta-mente quello a cui puntano alcune politiche turistiche: trasformare in parchi tematici all’aperto questi paesaggi di grande valore patri-moniale, cosa che si risolverebbe in un autentico disastro, anche se non certamente per questi soggetti economici. Noi interpretiamo la questione in questi termini: il mi-glior modo per evitare che accada quanto sopra descritto è fare in modo che i paesaggi si mantengano produttivi, utili, funzionali... con alcune precauzioni, sia in termini di sostenibilità che in termini di rispetto di quei valori paesaggistici ancora sussistenti e socialmente condivisi. Ed è dimostrato che que-sto sia possibile. Il caso della regio-ne vitivinicola del Priorat, nel sud della Catalogna, è paradigmatico a questo proposito. Con l’aiuto del progetto e con la sensibilità, con l’immaginazione e con la creatività è possibile evitare il rischio che ho paventato sopra.Pensa che sia possibile continuare a tutelare i centri storici delle nostre città, un paesaggio urbano molto delicato, se continua una emorragia di abitanti che vengono sostituiti da turisti, studenti, persone che utilizza-no la città in modo completamente diverso dai residenti stabili? Come a San Gimignano per esempio.Se il fenomeno a cui lei si riferisce procede molto oltre, sarà davvero difficile mantenere dei centri storici che abbiano una vita propria, e che non divengano dei meri scenari di cartongesso per i turisti. Voi cono-scete questo fenomeno molto me-glio di me, perché avete il caso di Venezia come esempio. Fatte salve le differenze con Venezia, qualcosa di simile si sta verificando in alcuni quartieri di Barcellona. Fortuna-tamente, la popolazione locale si ribella e mette in atto meccanismi di resistenza. A Barcellona, l’estate

scorsa, si sono tenute diverse mani-festazioni in piazza contro la massi-ficazione turistica e il proliferare dei cosiddetti “appartamenti turistici”. È certamente complesso coniugare interessi tanto opposti, per non dire contraddittori. Noi, nel nostro piccolo, attraverso l’Osservatorio del Paesaggio della Catalogna stia-mo cercando di mediare e dare un contributo al dibattito, apportando idee e possibili soluzioni.Pensa sia possibile conciliare le sue idee sulla necessità che siano i gruppi sociali, le popolazioni, anche i cittadini singoli, ad agire per tutelare, gestire e riappropriarsi del paesaggio, con la crescente disaffezio-ne dei cittadini stessi verso le attività sociali? Alain Tourain nel suo libro “Globalizzazione e fine del sociale” sostiene che proprio le spinte che provengono dalla globalizzazione portano al rifiuto del sociale, inteso come disponibilità alla partecipazio-ne, e indirizzano le persone verso la difesa quasi corporativa del privato (sintetizzato dalla sigla NIMBY). È possibile superare questa difficoltà? Ha esperienze che fanno sperare in una inversione di tendenza verso una maggiore, ed estesa, partecipa-zione attiva delle popolazioni per interventi di recupero di spazi urbani e per la costruzione di nuovi paesaggi urbani? Infine una delle frasi che sono state più usate nella sua conferenza di Firenze è il “cambio di paradigma”. Il suo libro del 2009 si intitola “La costruzione sociale del paesaggio”. È questo il cambio che si deve fare. Mettere al centro delle po-litiche di tutela e di ricostruzione del paesaggio nuove politiche sociali che servano a mettere in campo nuove forze sociali, o movimenti, o collettivi organizzati, capaci di essere i motori del cambiamento?Sì, è possibile superare questa dif-ficoltà. Abbiamo numerosi esempi raccolti durante questi primi dieci

anni di esistenza dell’Osservato-rio che dimostrano come ciò sia possibile. Credo sinceramente che si stia assistendo a un cambio di paradigma, nel senso più ampio del termine. Le classiche strutture materiali e ideologiche che credeva-mo infallibili si stanno incrinando, stanno perdendo la loro aura di solidità e consistenza. I pilastri del sistema di produzione e consumo egemonico scoprono le loro crepe e il modello di crescita e i valori sociali imperanti sono messi in crisi dalle nuove attitudini nei confronti del lavoro, delle risorse naturali, dei luoghi. Si esige una vita più completa, più piena di significato, in cui l’individuo sia padrone del proprio destino, possa controllare il proprio tempo, possa alimentarsi in modo più sano e possa vivere un’esistenza più completa. Inoltre, a tutto questo, occorre aggiungere il fatto che la società civile ha im-parato a organizzarsi per rispondere a un’Amministrazione spesso rigida e anchilosata e a un settore della classe politica che a volte pare vive-re su un altro pianeta. Questa con-dizione, unita ad altri fattori in cui adesso non intendo addentrarmi, si è acutizzata come conseguenza dell’attuale crisi economica, che ha reso manifesta la sfacciataggine e la perdita di controllo di un sistema finanziario che lucrava platealmen-te sfruttando i propri clienti, ossia gli stessi cittadini. Molte persone hanno perso la fiducia nel sistema, e di conseguenza i suoi pilastri e fondamenti hanno perso lo status di dogma. Qualcosa sta accaden-do, qualcosa si muove a livello culturale, sociale ed etico. Ed è proprio questo “qualcosa”, questo cambio di paradigma evidenzia-to, che in buona misura spiega come si guardi oggi ai luoghi con un’attitudine diversa, molto più emozionale. Sono del tutto certo che si stia assistendo a un rincontro fra persone e luoghi attraverso for-mule nuove e immaginifiche. Sto riscontrando, con una grande dose di illusione e speranza, la nascita di nuovi progetti e nuove attitudini, nuovi valori, nuove forme di orga-nizzazione sociale che in alcuni casi emergono quasi dal niente, mentre in altri hanno trovato impulso proprio dall’ecatombe economica, sociale e culturale provocata dalla crisi. Ho l’impressione che il territo-rio stia recuperando finalmente buona parte del suo protagonismo perduto.

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Le trattative sul nucleare dell’Eu-ropa con l’Iran entrano nel vivo, ma daun po’ di tempo le signore della diplomazia europee non si vedono ai tavoli. O che succede?Tutto si spiega. La baronessa Ca-therine Ashton, che Lady PESC la nostra Fede Mogherini aveva nominato come sua consulente, perché dice la PESC, “avendo lei seguito fin dall’inizio le trattati-ve con l’Iran sul nucleare, aveva una memoria storica di cui avevo ritenuto giusto avvaler-mi in caso di necessità. Ma da allora Lady Ashton non ha più partecipato ad alcuna riunione né tantomeno ad alcuna missio-ne”. La “baronessa” non si è mai fatta viva dal 24 novembre, né via mail, né al telefono. Perché? La Ashton, che volete, ha sangue blu e, noblesse oblige, ha dovuto partecipare a tre cacce alla volpe, due ricevimenti a Buckingham Palace, la serata di beneficienza della Croce Rossa a Windsor Ca-stle, una breve crociera sul lago di Lochness: proprio gli incontri con gli iraniani non le entra-vano in agenda. Ma la Moghe? Lei era impegnata su un altro fronte, di significato strategico incomparabilmente più alto di quello mediorientale. Infatti, lady PESC sta risolvendo la crisi diplomatica fra Tuvalu (stato di 26 kmq. in Polinesia) e Nauru (21 kmq. e 10.000 abitanti, indipendente dal 1968) a causa della installazione di un sonar subacqueo (realizzato da un con-sorzio USA-Australia-Europa, di cui la UE detiene il 2,04%) che devia verso Tuvalu i branchi di pesce blu che di solito nuotano al largo delle coste di Nauru. D’al-tra parte, Renzi è ghiotto di pesce blu e quelli di Tuvalu lo vendono al doppio di quelli di Nauru.

riunione

difamiglia

La vicenda di Cesare Battisti ha risvolti tragici che meritano ri-spetto e aspetti di diritto che meri-tano attenzione. Tuttavia ora che l’ex terrorista, ex giallista ed ex rifugiato è stato brevemente messo di nuovo in arresto e probabil-mente, grazie a un nuovo trattato di estradizione firmato tra Italia e Brasile, sta per essere rispedito in Italia, una preoccupazione ci coglie. Perché Battisti paga il prezzo di una rinnovata coopera-zione italo brasiliana in atto in questi mesi in molti campi (nulla avviene per caso), mentre noi non vorremmo pagare un prezzo ancora più alto trovandocelo tra qualche mese ospite fisso di talk show e protagonista di interviste sui massimi sistemi. Perché Batti-sti, oltre una faccia lombrosiona-mente da schiaffi, ha un passato nel suo esilio francese di maître à penser di quella gauche transal-pina affascinata dai “ribelli” che grazie alla dottrina Mitterrand popolavano Parigi. Ora non vorremmo che, grazie agli istituti di garanzia, come sconti di pena, buone condotte, ecc.. (strumenti sacrosanti da salvaguardare sia chiaro) la pena ce la infliggesse lui a tutti noi, perché pensiamo proprio non abbia la tempra e il rigore morale di una Baraldini per dire. Ecco ci sia risparmiato questo dal coraggioso latitante che si è sempre detto perseguitato dai salotti degli amici, ci bastano Signorini, la Santanché e la renziana carina di turno.

Le SoreLLe Marx i CuGini enGeLS

DiplomaziaPacificadi ladyPesc

Peneaccessorienon rischieste

BoBo

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MirellaBentivoglio

Arteal

femminile

L’estetica contemporanea al femminile possiede una sensibilità e una percet-

tibilità particolare nel rendere manifesti messaggi e riflessioni. L’artista domina l’opera d’arte con una profondità intellettuale che travalica i normali modi di intendere la speculazione dell’Arte, riuscendo a cogliere il presente nella propria intimità e portando il fruitore a leggere la personalità artistica al femmini-le come concretizzazione di un percorso di ricerca specifico e lontano da un Sistema domina-to da dogmi e tautologie. Mirella Bentivoglio ha operato, in qualità di critico e artista, seguendo i dettami dell’eman-cipazione e della trasgressione, mettendo in risalto l’identi-tà dell’artista (al femminile, appunto) in quanto portatrice di una segreta rivelazione e di una missione culturale degna di essere messa in luce, poi-ché superiore a qualsiasi altra visione estetica. Nelle sue opere – dai collage alle composizio-ni di parole e immagini – si esprime il profondo interesse per le potenzialità espressive del linguaggio e della scrittura, tese allo svelamento di un codice che ritorna e deve ritornare a una purezza primigenia, a un senso primo di esistenza e fondamento di ogni semantica. Su più versanti la sperimenta-zione di Mirella Bentivoglio si è posta il problema di altera-re e moltiplicare i significati contemporanei, trasgredendo la norma e mettendo in evidenza il netto divario esistente fra significato e significante visuale, ossia l’anello che non tiene fra due elementi costruttivi che necessitano di una rivalutazione e di una lettura nuova e inedita. In tal senso la poesia concreta le ha permesso di valorizzare gli aspetti visivi della scrittura; con la poesia visiva è riuscita ad as-sociare più liberamente parola e immagine in costruzioni formali e plastiche, la cui interpretazio-ne trasuda originalità e, infine, la poesia-oggetto le ha dato ampio raggio d’azione attraver-so gli interventi linguistici su oggetti e ambienti. Dal partico-lare all’universale, dalla sovrap-posizione alla manipolazione, le opere dell’artista sono dei veri e

A sinistra Gabbia (:HO), 1966, Serigrafia a due colori su cartoncino Scholler, cm. 73x51,3 A destra Società di massa, 1967, Legno sagomato rilevato su pannello ligneo, letraset e tinteggiature, cm. 59x46x0,7

A sinistra Il cuore della consumatrice ubbidiente, 1975, Per-spex e vernice rossa trasparente, cm. 50x50

Sopra Da segno a simbolo (dalla”O” l’uovo), 2001, Legno, bronzo, plexiglass, fotocopie, pietra venata, cm 82x100

Tutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di Laura [email protected]

propri giochi verbali, in cui l’ironia ha un impatto decisivo nella forma essenziale e razionale delle sue intuizioni e riflessioni contemporanee. Quella di Mirella Bentivoglio è una vera e propria celebra-zione della cultura in senso antropologico, poiché pone al centro di tutto l’identità del quotidiano e dell’uomo moderno, con una prassi estetica decisi-va e dotata di una sensibilità unica.

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Dopo la conquista del Polo Nord da parte dell’america-no Robert Edwin Perry nel

1909, il capitano di vascello della Royal Navy Robert Falcon Scott, che aveva vagheggiato di com-piere lui stesso l’impresa, decide di ripiegare sul Polo Sud, unica terra ancora inviolata, ingaggiando una sorta di gara a distanza con il norvegese Roald Amundsen. La nuova spedizione viene organiz-zata con un grande impiego di mezzi, ma con una fretta eccessiva ed una esagerata fiducia nelle nuo-ve tecnologie, fiducia che risulterà fatale. La spedizione, pensata per durare tre estati artiche, parte da Cardiff con il Terra Nova nel giu-gno del 1910, fa tappa a Melbour-ne nell’ottobre del 1910 e si instal-la a Capo Evans, nell’Isola di Ross, prevedendo di raggiungere via terra il Polo Sud entro la fine del 1911. Come è noto Amundsen è il primo a raggiungere il Polo Sud, il 14 dicembre del 1911, trenta-cinque giorni prima di Scott, il quale vi arriva solo il 17 gennaio del 1912. Mentre Amundsen torna indenne al suo campo base, Scott ed i suoi quattro compagni muoiono di fame e di freddo durante l’accidentato percorso di ritorno, ed i loro corpi non saran-no ritrovati fino al novembre dello stesso anno. Della spedizione Ross viene chia-mato a far parte un fotografo pro-fessionista specializzato in viaggi, l’inglese Herbert George Ponting (1870-1935), detto Ponko dai compagni di avventura. Pointing si imbarca fino dall’inizio sul Terra Nova e si installa al campo base di Capo Evans, allestendovi anche una piccola camera oscura per lo sviluppo delle lastre 13x18cm, nel numero di circa duemila, oltre ad alcune lastre Autochrome a colori. La stessa camera oscura verrà utilizzata anche dalle spedizioni successive, e viene conservata ancora oggi. Ponting realizza anche una ampia documentazione cinematografica, impressionando oltre 7.500 metri di pellicola. Il lavoro di Ponting è rivolto a do-cumentare, per la prima volta, in maniera sistematica e dettagliata tutti gli aspetti dell’Antartide, dai paesaggi alla fauna, immortalando se stesso, i compagni di avventura, gli animali, le attrezzature, la nave e gli insediamenti, fino al punto di meritare la creazione del neologi-

sia stato registrato a livello visivo in quelle regioni. Fotografo di scuola tradizionale, poco incline agli sperimentalismi, Ponting non nasconde una punta di narci-sismo, riprendendo se stesso in diverse circostanze, quasi sempre in compagnia di una fotocamera o di una cinepresa. Tradizionalista anche nelle composizioni, sempre molto raffinate, calibrate e ricer-cate, tratta il paesaggio antartico esaltandone gli aspetti monumen-tali e più appariscenti, descrivendo le grandi masse di ghiaccio come materia viva ed in evoluzio-ne, magnificandone gli aspetti scenografici, quelli che avrebbero certamente suscitato emozioni e curiosità al suo ritorno in Inghil-terra. In questo Ponting si lega idealmente alla scuola dei grandi paesaggisti americani di metà e fine Ottocento, che riproducendo gli spettacoli della natura, intende-vano celebrarne non solo l’intima bellezza, ma la discendenza diretta da una forza creatrice. In un certo senso Pointing, recandosi con le sue fotocamere nelle ultime terre inesplorate del pianeta, porta a compimento l’epoca dei grandi fotografi paesaggisti, chiudendo così un ciclo fotografico basato sulla documentazione di spettacoli naturali mai osservati in preceden-za. Con l’arrivo, quindici anni più tardi, delle prime riviste illustrate, cambia anche il modo di raccon-tare i viaggi di esplorazione ed i luoghi remoti. Ponting, facendo tappa a Capo Evans, non si spinge troppo nell’interno del continente antarti-co, non segue Ross sulla strada del Polo Sud, e decide di ripartire per l’Inghilterra nel febbraio del 1912, immaginando di non potere sopportare il rigore e le privazioni dell’inverno antartico. La notizia della morte di Scott e dei compa-gni lo raggiunge molto più tardi in Inghilterra, lasciandolo profon-damente turbato. Una parte del suo ricco materiale fotografico, conservato presso lo “Scott Polar Research Institute” dell’Università di Cambridge, viene pubblicato nel 1912, sull’ondata emotiva provocata dalla notizia della morte di Ross, in un libro dal titolo “The Great White South”. Il materiale cinematografico viene montato più tardi in due lungometraggi, uno muto del 1924 dal titolo “The Great White Silence”, l’altro sonoro del 1933 dal titolo “Ni-nety Degrees South”.

Il fotografo del Polodi daniLo [email protected]

smo “to pont”, nel senso di posare immobili fino quasi all’assidera-mento e nelle posizioni imposte

dal fotografo. Le sue immagini ed i suoi documentari filmati sono quanto di più spettacolare

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del Comune, dovremmo allestire un’altra mostra più vicina al centro storico.Ci parli della zona del Macrolotto 0La zona del Macrolotto 0 fu individuata da Bernardo Secchi - professore ordinario di Urbani-stica all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia - come emblema di tutta la zona indu-striale che porta lo stesso nome. È la zona con più alta densità di strutture per presenza di indu-strie tessili e complessi residen-

ziali. Secchi la chiamò mixité, - termine poi diventato molto comune nel linguaggio architet-tonico – ovvero una zona in cui confluiscono produzione, com-mercio e nuclei abitativi. Questa zona si è poi ampliata, coinvol-gendo più aree che attualmente sono centri produttivi occupati, per la stragrande maggioranza, da imprenditori cinesi. È un’area strategica, in quanto si trova a pochi passi dal centro storico e potenzialmente funzionale a diventare qualcosa di più di un

Si può immaginare la ri-qualificazione della città di Prato a partire dalla zona

del Macrolotto 0? Sì, se a farlo sono dei giovani studenti di architettura. Si tratta dell’ambi-zioso piano di lavoro che porta il nome Hybrid Hutong e che ha coinvolto gli studenti del terzo anno della facoltà di architettura di Ferrara - giunti a conclusione dei Laboratori di Progettazio-ne Architettonica LAP3 - e la nascente associazione Chì-na, con il patrocinio del Comune di Prato, dell’Ordine degli Archi-tetti di Prato e il contributo dell’azienda pratese Pratofrangia. Quella di riconvertire le zone industriali a rischio degrado in luoghi di aggregazione sociale e culturale è un’idea che è partita da altre città del mondo, si pensi a quelle d’oltreoceano, e che ora tocca anche il fulcro dell’indu-stria tessile dell’Italia centrale. Come recita il nome, per la par-ticolare conformazione del Ma-crolotto, il progetto ha voluto omaggiare la Cina: gli Hutong sono gli stretti vicoli, tipici della città di Pechino, formati dall’u-nione di più abitazioni sistemate a corte. È un aspetto peculiare dell’urbanistica, e difatti negli ultimi anni sono state prese mi-sure per preservare questi angoli della città. Abbiamo parlato con il professore dell’Università di Ferrara Guido Incerti, che ci ha illustrato in cosa consiste esatta-mente questo progetto.Professor Incerti, da chi è partita l’idea di Hybrid Hutong?È partita dall’Università di Ferra-ra. Conosco i ragazzi di Chì-na da prima ancora che nascesse questa Associazione. Io insegno a Ferrara ma vivo a Firenze e devo dire che l’interesse per la città di Prato è sempre stato molto alto. È un’idea nata informalmente, davanti a una cena fra amici. Del Macrolotto si può parlare bene o male, questo non toglie che sia una parte fondamentale della città di Prato. La nostra idea è stata quella di ripartire da questa area chiedendo aiuto agli studenti, riqualificandola con l’allestimento di una mostra. Ab-biamo creato una tavola rotonda con i ragazzi, buttato giù le idee e così è nato Hybrid Hutong. Tra qualche mese, previo beneplacito

luogo di semplice produzione. Perché scegliere proprio questa zona?Molti degli edifici di quest’area, a parte il valore dei singoli che per noi architetti è prezioso ed estremamente interessante, hanno una forte potenzialità dal punto di vista estetico. Tuttavia negli ultimi 40 50 anni questo luogo è rimasto come congelato entro certi parametri urbanistici. L’ambizione è quella di riuscire ad affiancare all’impresa che pro-duce un’impresa commerciale, un’impresa di carattere artistico e culturale e perché no, valutare l’idea di renderla una zona quali-tativamente allettante dal punto di vista abitativo. L’intenzione è quella di tornare alle origini. La funzione del Macrolotto in fondo è duplice: abitare e produrre, ciò costituisce il Dna di questa zona della città.Chi sono i ragazzi di Hybrid Hutong?Sono ragazzi al terzo anno di architettura, che vengono da tutta Italia e dal resto del mondo. Nessuno all’inizio aveva idea di cosa si trattasse, ma vista l’area di interesse tutti hanno intra-visto un’effettiva potenzialità : si vorrebbe fare di Prato la città del XXI secolo. La sorpresa di tutti è stata quella di trovarsi di fronte a un pezzo reale di Cina dentro una città italiana. Due cuori pulsanti, uno dentro l’altro. I progetti presentati sono in tutto 44, gli studenti che hanno partecipato al concorso circa 150. l’Università di Ferrara ha firmato un protocollo con il Comune di Prato e per alcuni anni l’univer-sità svilupperà progetti anche per altre zone della città, per esempio l’ex ospedale. Qual è stato il concept dietro la presentazione di questo progetti?Molti di questi portavano con sé l’idea di un mercato come elemento accentratore delle varie culture; nel Macrolotto infatti quello che manca sono proprio gli spazi di aggregazione. Sono progetti che cercano di far capire al cittadino pratese che le due culture, quella italiana e quella ci-nese, possono incontrarsi in una logica di condivisione. Abbiamo lavorato su quello che unisce e non su quello che divide. Abbia-mo quindi cercato di immaginare un luogo che diventasse “comu-nità”.

Hybrid HutongInterpretazionearchitettonica di un’avanguardiaindustriale dimenticata

di Letizia [email protected]

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abbiamo posto alcune domande a Paul Chalmer, Canadese di nascita ma fiorentino di ado-

zione, che è stato un primo ballerino di fama internazionale e in seguito coreografo con diverse esperienze nelle compagnie di vari paesi, mâitre de ballet e per 6 anni direttore del Ballo dell’Opera di Lipsia. Tu che hai lavorato a lungo all’estero e a Lipsia, dove sei stato direttore del ballo, ma hai esperienze di coreografo anche in Italia con L’Opera di Roma e con il Maggio Musicale, quali differenze vedi nell’attenzione verso la danza da parte del pubblico e da parte dei teatri d’Opera in Italia e nelle altre nazioni europee?Posso garantire che nel mondo l’interesse per il balletto e la danza in tutte le sue forme è molto forte e comprende un pubblico molto vasto di gente desiderosa di vedere spettacoli di danza. Purtroppo, a volte, all’interno di strutture come gli enti lirici italiani, la danza è considerata meno rispetto agli altri complessi artistici che ne fanno par-te. L’affascinante figura del danzato-re è sempre stata oggetto di stupore, ammirazione e desiderio da parte del pubblico, come se fosse qualcosa di magico, etereo e quasi irraggiun-gibile…Credo che all’estero rispetto che in Italia, i danzatori hanno di sicuro un rispetto maggiore a livello artistico e umano. In Russia addirittura, dove la danza ha uno spessore come quello che ha il calcio in Italia per esempio, i danzatori vengono insigniti di riconoscimenti nazionali e rappresentano un vero fiore all’occhiello per il paese intero. È un peccato che in Italia non sia veramente così visto che la danza è nata qui: i migliori maestri di ballo alla corte di Re Luigi XIV erano italiani, Gaetano Vestris, il grande Enrico Cecchetti in Russia e poi con i Ballets Russes, il coreografo Filippo Taglioni e sua figlia Maria la prima Sylphide, tutte le grandi ballerine che hanno interpretato alla Prima in Russia o in Francia i primi ruoli nei balletti classici del reperto-rio : Pierina Legnani, Carlotta Grisi, Carlotta Brianza, Antonietta Dell’E-ra ecc. Fino alle ultime grandi star internazionali come Roberto Bolle, Alessandra Ferri, Federico Bonelli, Viviana Durante e i grandi Paolo Bortoluzzi, Luciana Savignano, Carla Fracci, Liliana Così eccNegli anni abbiamo visto la progressi-va chiusura dei corpi di ballo di molti

Intervista al coreografo

di danieLe [email protected] tutta la sua grandezza

non possa più ospitare un Corpo di Ballo Stabile anche non per forza di molti elementi. Quindi

assolutamente non considero la chiusura

di Maggiodanza una scelta inevitabile. Facile sì, ma inevitabile, no!Quale soluzione proporresti per salvare la danza all’Opera di Firenze?Sempre di più sembra che l’Italia stia cer-cando di disfarsi dei propri complessi artistici, con l’intento di usare i teatri d’Opera come “scatole vuote”, magari con l’intenzione d’invitare compagnie da fuori a esibirsi. Basti pensare a quello che è successo recentemente a Roma, dove hanno cercato di licenziare coro e orchestra, non rinnovano da anni i contratti a posti fissi nel corpo di ballo ecc. Questi esempi fanno ben capire quali siano le intenzioni dei capi…MaggioDanza è solo un altro esempio di questa tendenza. Forse nel caso dell’Opera di Firenze, una soluzione potrebbe essere quella di riuscire a mantenere un piccolo corpo di ballo stabile, che lavori su creazioni dei migliori coreografi contemporanei invitan-do come ospiti, allo stesso tempo, prestigiose compagnie di balletto, come il Mariinsky o il Bolshoi per eseguire i grandi balletti di reperto-rio che sembra Firenze non intende finanziare, i quali sono molto conosciuti dal pubblico e riempiono sempre i teatri. Qualunque sia la soluzione che trovano, si può solo sperare che la mediocrità non faccia parte del futuro di Maggiodanza. Il pubblico merita di vedere spettacoli di qualità. Se Maggiodanza deve sopravvivere, può farlo solo con un livello di eccellenza che possa portare la compagnia su un livello internazionale. Una compagnia di ballo che possa essere strumento dei migliori coreografi contemporanei d’avanguardia, per produrre nuovi e rilevanti spettacoli di danza per Firenze e per il mondo.Allo stesso tempo, se le compagnie ospiti dovessero essere chiamate dall’Opera di Firenze durante la stagione, dovrebbero essere di alto livello e non di certo le compagnie “russe” di secondo grado che girano frequentemente l’Europa con pro-duzioni molto discutibili dei grandi classici di Tchaikovsky.

enti lirici italiani. secondo te quali sono le cause che hanno portato a questo risultato?Lavorando come freelance, ho avuto modo di vedere spettacoli in importanti centri di danza come New York, Londra, Parigi, ecc…e trovo che al momento, purtroppo, le compagnie di danza italiane non abbiano un livello internazionale, paragonabile a quelle estere. Quindi questo stato di declino del balletto in Italia è anche spiegabile: è diffici-le difendere qualcosa che non sia di grande qualità. Purtroppo le cause sono svariate e alcune dipendono ovviamente dal costo che richiede mantenere una compagnia di danza in un periodo di crisi economica. Eppure ci sono i soldi, e tanti!… ma, a mio parere, sono in gran parte sprecati ovvero spesi piuttosto che investiti! Sembra esserci una man-cata visione da parte dei direttori di compagnie e da parte del governo sul balletto e sul suo futuro qui in Italia.Anziché collaborare alla costruzione di una solida base per la compagnia di danza, dai contatti, alla legislazio-ne e al repertorio, sembra che ci sia un modo casuale e apparentemente incompetente di riuscire appena ad arrivare dal lunedì al martedì, che mantiene il balletto in Italia in continua lotta per la sopravvivenza.Come se la domanda “Dove sarà questa compagnia tra dieci anni?” non venisse mai posta…Un enorme pozzo di ballerini di talento rimane innutrito mentre artisti ospiti sono continuamente portati a ballare ruoli principali a caro prezzo. Nuove produzioni di balletto di discutibile valore artistico scompa-iono dopo pochi spettacoli e non lasciano repertorio solido per il fu-turo. Inoltre, penso che i coreografi di tendenza a capo di importanti compagnie rappresentino un errore. Se si guarda l’attuale panorama del balletto internazionale, il successo dei direttori cha hanno diretto per un lungo periodo è che non hanno reso le proprie coreografie il perno del repertorio della compagnia. Un coreografo di solito non è sempre una buona scelta come direttore di una compagnia con un grande repertorio. Ci sono rari casi in cui un indiscusso coreografo “genio” ha portato una compagnia da un trionfo all’altro per decenni (George Balanchine, John Cranko). Sfortunatamente, di questi “geni” ne esistono pochi, e sembra che i “coreografi direttori” di oggi li usino

come strumento per la loro creativi-tà o, nel peggiore dei casi, semplice-mente come trampolino di lancio per auto promozione con poco riguardo verso il pubblico e che rappresentano una

preoccupa-zione per la compagnia

stessa.Il direttore è di vitale importanza e ha bisogno di esperienza e una pro-fonda conoscenza sia artistica che amministrativa sul funzionamento di una compagnia e, soprattutto, sulle esigenze dei suoi ballerini. La sua presenza quotidiana è richiesta per assicurare che un ambiente di sana creatività sia sempre conser-vato, garantendo che la compagnia possa raggiungere il suo massimo potenziale così tenendo tutta la compagnia su un livello di eccellen-za. In realtà è un lavoro enorme, sia a livello di orari che di responsabili-tà; secondo me molto meno adatto al temperamento spesso egocentrico di un coreografo.Ma onestamente credo che i problemi non siano solo e soltanto legati ad una gestione sbagliata o cattiva del’Ente o del direttore, ma che sia un 50 e 50 con gli artisti e o dipendenti.Purtroppo in Italia maggiormente, a differenza dell’estero, i sindacati e la politica siano subentrati troppo all’interno del mondo artistico non svolgendo sempre il loro vero compito, complicando anziché migliorare le possibilità di lavoro.Diciamo che in Italia si è un po’per-so il senso del vero significato della nostra professione che raggruppa Corpo-Mente-Anima ed è un peccato perché è un paese pieno di talenti e di tanti giovani talentuosi e volenterosi che hanno bisogno di esempi e situazioni corrette e sane qui per poter rimanere a ballare in Italia e non scappare all’estero.Stiamo assistendo in questi giorni al tramonto del Maggio Danza. scio-glierlo è una scelta inevitabile?Mi rattrista molto quello che sta succedendo al Maggiodanza, non solo per Firenze e per la sua com-pagnia ma anche perché, secondo me, rappresenta un precedente che indica il probabile destino di altre compagnie di danza in Italia.Recentemente ho lavorato con la compagnia come maître per le classi di danza e mi sembra impossibile che un teatro come quello dell’Opera di Firenze, in

Paul Chalmer

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Questo film di Abderrah-mane Sissako , regista originario della Maurita-

nia, è abbagliante, di luce , di sole, dell’oro della sabbia del deserto e delle mura della città e delle case con cui sono costru-ite, dei colori vivaci degli abiti delle donne, dei loro monili. E’ come sempre in bilico fra la serena lentezza e semplicità legata ai luoghi e alla vita da essi decisamente improntata per chi colà nasce e trascorre il percorso che gli è dato e l’incombente violenza dell’insensato, dell’esa-sperazione, dell’errore interpre-tativo. Vivevano tranquilli a Timbuktu, con poco si direbbe, però sapevano godere del loro bel thè versato dall’alto, della propria musica e di quella di altri, del gioco, degli affetti familiari e dell’amore infine. Arrivano con le armi in pugno e le probizioni assurde i mili-ziani dell’Isis: proibito giocare a pallone, proibita la musica, proibito, per le donne, non solo mostrare faccia e capelli, ma an-che mani. Velo quindi e guanti, anche se una deve lavorare e vendere del pesce. Miliziani armati arrancano sui tetti alla ri-cerca della casa da cui esce della musica, miliziani con il mitra spiano, senza poterla inter-rompere, una partita di calcio, proibitissimo, mimata, giocata cioè senza pallone, miliziani con le armi spianate irrompono nella locale moschea inseguendo un qualche reo di una qualche assurda cosa e vengono fer-mati con la grazia delle parole ragionevoli e della religiosità, profonda e vera, dall’Imam che ivi prega con altri fedeli, equilibrati ed innocui, e medita. Il capo dei miliziani spara ad un cespuglio che si intravede al limitar di una duna....troppo suggestivo del sesso femminile e della sua peluria, fuma di nasco-sto , guida senza sapere e mai sa spiegare nulla di ciò che ordina. Possibile solo negli occhi della gente, nel loro distante silen-zio, la resistenza. Una donna viene arrestata perchè sorpresa a telefono con un uomo che non è suo sposo. Tutti e due sepolti nella sabbia fino al collo e lapidati, sempre nel sole abbagliante, in luoghi magici di silenzio e bellezza. Fuori dalla

città, su una collina, una bella tenda ed una famiglia berbera, padre, madre, figlia, vivono, si vogliono bene, allevano animali, hanno un ragazzo che conduce la piccola mandria, lo stimano e proteggono. Sembrerebbe possibile stare fuori dalla vio-lenta repressione, arriva anche lì il capo ossessionato dal sesso, vorrebbe imporre alla donna di coprirsi il capo....Satima, questo è il suo nome, risponde che se i suoi capelli gli sembrano il male non li guardi...Un pescatore uccide la più bella bestia delle mucche, rea di aver rotto una sua rete nel fiume, mentre va ad abbeverarsi, questo sopruso avvia non tanto un chiarimento e un farsi delle ragioni, ma uno scontro che si conclude con la morte del pescatore. Quando la follia dell’eccesso e della intolleranza avviano crudeltà e violenza e le definiscono giuste, esse si propagano, contaminano, e, infine, distruggono tutto. Il pastore berbero viene imprigio-nato, si finge di ascoltarne le ragioni, mentre viene desti-nato a morte certa, Satima lo raggiunge per l’ultimo, mortale per entrambi, abbraccio. La loro figlia, Toya, oggetto di amore tale da dare senso alla vita sua e dei suoi genitori, resterà sola, il film si chiude sulla sua corsa disperata fra le dune e nell’oro della fine sabbia del deserto. Ci rende felici sapere che nel 2013 gli invasori opprimenti sono stati cacciati via da Timbuktu, pare abbiano bruciato preziosi manoscrtti antichissimi che vi erano da secoli e secoli conser-vati. Peccato, ma la libertà vale su tutto.

Timbuktu

di CriStina [email protected]

di davide [email protected]

Contaminature

Popolazione di bambù inserita tra le colline della campagna toscana nei primi anni del ‘900

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un compositore che nasce nel 1947 a Fresno, la città della California che ha già dato i natali a Sam Peckinpah e William Saroyan. La vicinanza della Sierra Nevada isipirerà il suo pseudonimo. Mentre com-pie gli studi di musica Jordan entra in contatto col fervido ambiente dove spiccano Terry Riley e La Monte Young. Il primo ha già scritto la celebre In C (Sony, 1968), mentre il secondo ha già iniziato a com-porre The Well-Tuned Piano,

una monumentale improvvi-sazione pianistica che Young continuerà a sviluppare fino ai nostri giorni.Il contatto con i due minima-listi avvicina il giovane artista alla musica classica indiana: all’epoca Riley e Young colla-borano con Pandit Pran Nath, che nel 1970 si stabilisce a New York, dove fonda il Kira-na Center for Indian Classical

Music. Questi contatti influen-zano De La Sierra in modo decisivo.Alcuni anni dopo il giovane musicista conosce Stephen Hill, un produttore che cura il programma musicale radio-fonico Hearts of Space. Hill decide di sostenerlo e produ-ce Gymnosphere: Song of the Rose (Unity Records, 1977), il doppio LP che segna il suo debutto. Il titolo è un chiaro omaggio alle Gymnopédies (1888) di Erik Satie. Il lavoro,

Dobbiamo essere grati alle piccole etichette che stanno pubblicando

ristampe di opere introvabili e materiale inedito. Molte di loro sono gestite da appassio-nati e collezionisti: la passione è molta, ma i mezzi, come si può immaginare, sono scarsi. Naturalmente non pubblicano sempre capolavori, come i loro comunicati stampa vorrebbero farci credere. Il panorama di queste ristampe è molto vario, perché accanto a composi-tori noti ce ne sono molti di nicchia e altri assolutamente ignoti. In quest’ultimo caso, quindi, portare alla luce il disco equivale a strappare dall’oblio l’autore.Inutile dire che c’è materia-le per tutti i gusti, anche se un’attenzione particolare viene riservata alla musica contem-poranea. In questo ambito si inserisce Gymnosphere: Song of the Rose, uscito originariamente nel 1977 e ristampato recente-mente dall’etichetta Numero Group. L’autore è Jordan de la Sierra (al secolo Jordan Stenberg),

Una meteora minimalista

una lunga composione mini-malista per piano, è diviso in quattro parti e dura oltre 100 minuti. Accanto alle influenze suddette emergono certi umori della nascente New Age, anche se ben lontani dai toni zucche-rosi che verranno poi associati a questa etichetta.Il CD contiene l’opuscolo originale con i testi dell’autore, ricchi dei rilievi cosmico-mu-sicali cari alla New Age. Oggi possono suonare un po’ inge-nui, ma dobbiamo considerare che sono stati scritti 38 anni fa. Dopo Gymnosphere De La Sierra resta in ambiti margi-nali, prima trasformandosi in un cantautore dalle influenze dylaniane, poi tornando alle origini minimaliste con Valen-tine 11 (Global Pacific, 1988). Dopodichè sembra scomparire nel nulla. Riapparso in occa-sione della ristampa, l’artista Sierra continua a lavorare nel suo studio situato nella valle di San Joaquin. Non è escluso che riemerga con nuovi lavori, ma per ora lo ricordiamo come una meteora che ha illuminato il cielo con la sua musica ipnotica e affasci-nante.

Fra le tante strade fiorentine, Via dell’Anguillara è una di quelle la cui etimologia è più controversa.Alcuni fanno risalire il nome all’anno 1000, quando la zona era completamente occupata da una palude: non a caso lungo Via dei Benci e Via Verdi correva, ai tempi della quinta cerchia mu-raria, il fosso di difesa della città, che andava dalla Porta ai Buoi (in corrispondenza del Ponte alle Grazie) alla Porta a San Piero (Piazza Salvemini), e non a caso l’antico nome di Via Ghibellina era Via del Fosso. Niccolò Tom-maseo scrive: “Luogo pantanoso dove si trovano molte anguille”, da cui il nome della strada. A sostegno di questa ipotesi sta il fatto che l’anguilla era un piatto prediletto dai fiorentini: Paolo Petroni, storico della cucina fio-rentina che già abbiamo incon-trato, cita almeno quattro piatti a base di anguilla (alla fiorentina, arrosto, con i piselli e in umi-do). Parente stretta dell’anguilla era la lampreda che, marinata,

non mancava mai sulla tavola di Cosimo I. Solo i Medici, all’epoca, si potevano permettere di sostituire la più umile anguilla con la “nobile” lampreda; infatti al mercato del pesce le massaie fiorentine potevano acquistare le anguille a un soldo la libbra e pesci oggi pregiati come l’orata e il branzino a tre soldi: ma se volevano la lampreda dovevano scucire trenta soldi.Altri, fra i quali Vincenzo Borghini, filologo fiorentino del ‘500, sostengono invece che “E’ così chiamata questa Via per dichiarare incidentemente l’origine di questo nome, non delle anguille, sebbene vi è assai vicino Arno, ma da quelli ordini di viti che si mettono diritti in

su le vie e viottoli, e li diciamo Anguillari”; e, neanche a farlo apposta, lì accanto c’è Via della Vigna Vecchia.Un’ultima, sia pur minoritaria, scuola di pensiero, attribuisce in-fine l’origine del nome a messer Baldaccio d’Anghiari, al secolo Baldaccio Bruni, conte dell’An-guillara, noto capitano di ventura che aveva casa in quella strada all’angolo di Via dell’Acqua.

Questo Baldaccio visse una vita movimentata assai, al soldo di cento bandiere, dalla Repubblica Fiorentina agli Sforza, dal papa ai Malatesta. Intorno al 1440 decise di ritirarsi a vita privata a Firenze, ma la sua grande popolarità face-va ombra a Cosimo, che, tramite il gonfaloniere di giustizia Barto-lomeo Orlandini, gli fece tendere un agguato in Palazzo Vecchio dove Baldaccio fu scaraventato giù da una finestra e, sul selciato di Piazza Signoria, decapitato. In suo onore, la squadra di calcio di Anghiari, che milita nel cam-pionato di Eccellenza toscano, si chiama “Baldaccio Bruni”.Ma un altro grande avventuriero, qualche secolo dopo, ha avuto casa in quella Via. Citiamo dalla sua biografia ufficiale: “Settem-bre 1970: si trasferisce in Italia, a Firenze, dove si iscrive a Belle Arti; risiede in un appartamento di Via dell’Anguillara 2 dove resterà fino al 1972”. Chissà se, passando di lì in quegli anni, ave-te avuto occasione di incontrare Martin Mystere

di faBrizio [email protected] Via dell’Anguillara

Pescatori,avventurieri e contadini

di aLeSSandro [email protected]

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“Questa impresa sarebbe stata impossibile se avessi voluto rimanere ostinatamente at-

taccato alle mie origini, ai ricordi di gioventù. Il primo coman-damento che m’imposi, fu la rinuncia ad ogni ostinazione. Io, libera scimmia, mi piegai sotto quel giogo: ma, in compenso, i ricordi si fecero più remoti”. Le affermazioni di Pietro il Rosso, la scimmia protagonista del racconto kafkiano “Una relazio-ne accademica”, fanno chiarezza su come l’umano si rapporti al regno animale. Ancora una volta, è il segno a stabilire un cambio di testimone, quel “segno rosso sulla guancia” tale da divenire non solo cicatrice, ma quasi una marchiatura, il salvacondotto che sigla l’ingresso in un altro dominio. Un mutamento cui fa da contraltare la privazione, ché “oggi” – prosegue Pietro dinanzi al consesso – “posso tradurre solo nel linguaggio umano quello che allora sentivo come scimmia, e quindi, di necessità, lo deformo”. Traduzione, quindi, come stor-piatura e processo deformante, dove lo spettro del lògos induce il soggetto a una trascenden-za forzata, al fuoriuscire della natura animale, perché “s’impara quando si è costretti; s’impara quando si cerca una via d’uscita; s’impara a corpo perduto”: il cor-po, appunto, si perde, si annulla e cede il passo a una struttura artefatta, fittizia ma necessaria per condividere il proprio spazio vitale con l’Homo Sapiens. Con-divisione mai paritetica, pronta a sfociare nel ridicolo e nel grottesco: lo scotto pagato dall’a-nimale per la propria liberazione e che vede Pietro salire sul palco del teatro di varietà e divenire protagonista di un Freak show in piena regola. Opposta, invece, la vicenda di Gregor Samsa in “La metamor-fosi”: evoluzione all’inverso e quasi teratogenesi, dove all’u-mano subentrano “il mostro”, il “coso”, la “bestia”, in un continuo degradarsi della catena dell’essere. Emerge la natura uni-voca del processo metamorfico e se Pietro, entrando in pos-sesso del linguaggio, riusciva a guadagnarsi la libertà; Gregorio, privato ormai della parola (nel passare da uomo a insetto), va

Pietro e Gregortrasformazionie deformazioni

incontro alla propria morte. Cer-to: in entrambi i casi vi è sempre una liberazione, ma mutano i referenti, i modi narranti, ché all’arte oratoria della scimmia si oppongono il silenzio remissivo dell’umano fattosi scarafaggio, la sua sporcizia, il suo costante ri-concepire e ri-abitare lo spazio vivente. Le parole, insomma, cedono il passo al corpo, alla carne, ma nonostante tutto impossibilitati a parlare, estromessi dalla macchi-na antropogenica: il procedimen-to mediante cui l’essere umano trascende l’immanenza animale, per porsi in uno stato di eccen-tricità. Si tratta di una via a senso unico, agevole per Pietro il Rosso (pronta a passare dallo “stadio scimmiesco” a quello umano), mortale per Gregor Samsa, in un continuo passaggio di stati, fino all’ultimo: quello di “roba”.

Il miglioredei Lidipossibili

Ho cambiato il mio profilo su facebook

Disegno di Lido ContemoriDidascalia di Aldo Frangioni

di Lido [email protected]

di dieGo [email protected]

ecoletteratura

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Una domenica sono entrato alla mostra “Van Gogh Ali-ve”, nella chiesa sconsacrata

di Santo Stefano al Ponte - a due passi dal Ponte Vecchio -, e ne sono uscito ancora in credito di quelle emozioni che essa aveva promesso e che non mi avevano neppure sfiorato. Dove si erano perdute? Forse nelle angustie di una coda durata un’ora e venti minuti oppu-re nell’ammucchiata di gente che pareva dover entrare al luna park? Nella percezione di un’iniziativa tutta giocata a fare cassa che ti fa sentire l’ennesimo pollo spennato o nella inopportuna promiscuità tra l’inizio del percorso (si fa per dire) ‘espositivo’ e le frequentatis-sime toilettes? No, a ben riflettere nulla di tutto questo - per quanto già significativo - avrebbe potuto irretire il mio patrimonio emotivo, normalmente pronto ad accogliere sollecitazioni anche le più diver-se e impensate. Cos’era dunque successo? Avevo, semplicemente, metabolizzato un evento insignifi-cante, di nessuno spessore. Essendo la nostra una civiltà im-perniata sull’imperversare di comu-nicazione e tecnologie, “Van Gogh

Sono tanti i motivi che possono spingere un uomo ad accumulare libri, da quello comune ad ogni altra passione, cioè l’amore per il possesso in se stesso e il piacere nell’ammirare la propria collezio-ne, a quelli più specifici come il culto per l’ oggetto libro (bibliofi-lia), o l’interesse verso un preciso tema o epoca o tecnica; o ancora, l’utilità di avere a portata di mano gli strumenti per soddisfare le proprie o altrui curiosità intellet-tuali (adesso venuta meno con l’avvento di Internet), come pure il desiderio di racchiudere dentro le mura di casa i capolavori prodotti dalla mente umana, e, last but not least, semplicemente l’amore per la conoscenza.E’ senz’altro quest’ultimo impulso che ha spinto il fiorentino Antonio Magliabechi (1633-1714) a racco-gliere una biblioteca eccezionale e a dedicare tutta la vita alla lettura e allo studio, unito alla recondita ambizione di impadronirsi delle conoscenze racchiuse nei libri tanto da identificarsi con essi,

tanto da divenire una biblioteca ambulante, un’enciclopedia viven-te, come lo definirono i contem-poranei. Risultato impossibile per chiunque, ma non per lui, dotato di straordinarie capacità mnemo-niche e di concentrazione che gli facevano ritenere tutto ciò che leggeva (è un mostro, dicevano di lui i fiorentini, e non si riferivano solo al suo aspetto fisico) e al caro prezzo di dedicare alla lettura ogni minuto del giorno e della notte, in questo aiutato dal suo impiego di bibliotecario alla corte dei Medici, trascurando di mangiare, dormire, lavarsi. “A me mi pare impossibile come voi possiate aver letto tanti libri et così bene spolpati delle erudizioni migliori e delle c… maggiori”, gli scrive il granduca Cosimo III, stupefatto dalla pron-tezza e dall’esattezza con cui il bi-bliotecario rispondeva ai suoi que-siti letterari. Come Magliabechi abbia potuto raccogliere 30.000 volumi è un mistero: non era né

ricco, né nobile né aveva potuto contare su una biblioteca familiare di partenza, eppure questo suo “piccolo Museo”, come amava definirlo con falsissima modestia, che riempiva fino all’inverosimile la sua casa in via de’ Canacci in un disordine divenuto proverbiale, era decisamente superiore perfino a quello del granduca: la biblioteca palatina non raggiungeva infatti i 15.000 volumi. Spendeva in libri ogni suo soldo, e non ne aveva

molti: spesso i suoi padroni si ‘di-menticavano’ di pagarlo, e lui era così trascurato da non richiedere nemmeno quanto gli era dovu-to; moltissimi libri poi gli erano inviati da autori, editori, librai, che volevano aiuto a smerciarli o un suo consiglio, o raccomandazione presso i principi. Era un’autorità indiscussa, un centro di informa-zione a cui si rivolgeva tutta la secentesca Repubblica letteraria: In un’epoca in cui i giornali letterari non erano molti né molto diffusi, era preferibile entrare in corri-spondenza col bibliotecario per avere una veloce e esatta risposta; lo scambio di epistole era comu-nemente utilizzato coma la posta elettronica o il telefono adesso. Il numero delle lettere di/a Antonio Magliabechi sparse per le biblio-teche ed archivi di tutta Europa, oltre al nucleo più consistente conservato alla Biblioteca Na-zionale di Firenze, fanno del suo epistolario uno dei più cospicui ed importanti del nostro continente. “Segretario dell’Europa colta” è la calzante definizione per lui coniata da Eugenio Garin.

Gran Luna Park Van Gogh

Antonio Magliabechi,biblioteca vivente

e sensibilità) verso l’opera (che non parla, non suona, è inerte), mentre in questa ‘avventura’ multisenso-riale è l’arte, in un certo senso, che si mette in moto e gli va incontro, o addosso, onde avvolgerlo. Con il particolare – davvero non banale - che nel primo caso si realizza una forma, inevitabilmente parziale e soggettiva quanto si vuole, di conoscenza di un manufatto d’arte; nel secondo si attua piuttosto una specie di sortilegio, uno stordimen-to del visitatore, il quale è relegato ad un atteggiamento per lo più passivo, orlato di qualche stupore ma senza elaborazione. E’ anzi-tutto la presunzione o comunque il cattivo gusto di chiamare tutto questo ‘approccio’ o ‘avvicinamen-

to all’arte’ che aveva seccato in me ogni possibile sussulto, ispirandomi al contrario un certo disappunto. Vana e colpevole pretesa è quella di trasformare l’esperienza estetica per addomesticarla al calpestìo delle masse. Potrà in tal modo compiersi un’impresa di successo, del tutto legittima; non si potrà, tuttavia, chiamarla evento d’arte solo perché le immagini rimandano ai quadri e alle parole di un grande artista. Per quanto ne so, non è l’arte che si deve piegare all’uomo, bensì l’uo-mo che ha l’opportunità di elevarsi, nello sforzo di comprendere il linguaggio e il significato dell’arte. Dunque, con il dovuto rispetto, “Van Gogh Alive” sta all’arte come l’omogeneizzato sta alla carne. D’altronde, se Vincent Van Gogh ebbe a scrivere: “Faccio sempre ciò che non sono capace di fare per imparare farlo”, l’idea stessa di “Van Gogh Alive” lo smentisce, poiché chiama le persone a fare ciò che già fanno ogni giorno, se è vero - come è vero – che passano il loro maggior tempo davanti a schermi di pc, tablet, telefonini e apparec-chi tv. Per tutto questo riterrei appropriato chiamare “Van Gogh Alive” non già “the experience”, bensì “the non-experience”.

di PaoLo [email protected]

di Maria ManneLLi [email protected] 

Alive” (nel logo detta altrimenti “the experience”) ci conferma che anche l’arte può essere ridotta ad una poltiglia luccicante buona ad avvicinare – come si dice - grandi masse di visitatori. Senonché, a cosa vengono avvicinate orde su orde... piuttosto disordinate di visitatori? Quale differenza passa tra l’essere dinanzi ad una tela ‘in carne ed ossa’ di un grande pittore ed entrare in un immenso spazio buio, un ambiente multi-screen ove girano centinaia di immagini una dietro l’altra, con luci e suoni a scandire suggestioni e rapimenti? Donde nasce la magia dell’arte, dalla tecnologia o dalla creatività umana? Van Gogh Alive” non è quel “nuovo modo di vivere e conoscere l’arte” che gli organizza-tori pretendono che sia. Nell’ap-proccio immediato all’opera d’arte l’individuo può scegliere di essere ‘attivo’, il movimento promana da lui (con la sua percezione, cultura

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I fiorentini sono un popolo di pigri? Se ne potrebbe parlare a lungo. Se si tiene conto della

scarsa presenza di persone sui sen-tieri che passano per le colline che circondano la città, si può rispon-dere in maniera affermativa. Meri-ta comunque richiamare l’atten-zione sull’Anello del Rinascimento che di per se stesso rappresenta un prezioso invito ad andare a spasso per i sentieri che circondano dall’alto Firenze e per godere di un paesaggio unico, dalla valle dell’Ar-no al Chianti, alla val di Sieve, al Mugello, al Pratomagno. Nel corso di questo anno la Sezione Toscana di “TrekkingItalia”, un’associa-zione di promozione sociale che conta quasi 7000 soci in Italia, ha in programma il percorso dei sentieri dell’Anello, un’esperienza già svolta con successo nove anni fa. L’itinerario in questione, che fu organizzato dall’Apt di Firenze insieme a tredici comuni dell’area, conta una lunghezza di oltre 150 Km ed è facilmente raggiungibile con mezzi pubblici. E’ segnato con i colori tradizionali bianco e rosso, attrezzato con pannelli, documen-tato con una carta che riporta la descrizione del tragitto, reperibile presso gli uffici turistici o sulle pagine internet. Il simbolo è la Cu-pola del Brunelleschi, una presenza quasi costante guardando, mentre si percorre l’Anello, verso il centro di Firenze. La forma ad anello dell’itinerario permette facilmente di frazionare il lungo percorso e di progettare tappe intorno ai 15-20 km - come è stato fatto nel caso di “TrekkingItalia”, con la previsione di sette tappe - da percorrere cia-scuna in un giorno partendo dalla città, in sintonia con la rete ed i tempi dei mezzi pubblici, piuttosto rari nei giorni festivi. Il percorso ri-serva sorprese, anche per i fiorenti-ni, ad ogni tappa: il paesaggio della campagna della mezzadria, le pievi e le case torri, gli antichi conventi, le vie della transumanza per le Ma-remme, le testimonianze etrusche e le strade lastricate del Medio Evo, le fornaci dell’Impruneta, le architetture delle ville rinascimen-tali. Ed ancora i sentieri lungo gli argini del Bisenzio dove riecheggia la poesia di Mario Luzi (Magma), i boschi “impenetrabili” di Monte Morello, il Mulino a vento di Monte Rifrassine e le memorie della guerra e della Resistenza.. La prima tappa può iniziare da Pon-

Un giro sull’Anellodel Rinascimento

tassieve, raggiungibile facilmente con il treno. Il percorso passa per Rosano, San Prugnano, Incontro, Poggio Crociferro, Monte Cucco, Ospedale del Bigallo, Bagno a Ripoli, la lunghezza è di circa 15 km che si percorrono, a passo normale e con le prevedibili soste, in circa sette ore. Bisogna tener conto per questa tappa – e per le altre di cui parleremo in seguito - del dislivello, che è di circa 500 m. in salita, con diversi saliscendi, che richiedono di essere affrontati con un minimo di allenamento. E’ comodo, di domenica, prendere il treno per Arezzo delle 7,55 e scendere a Pontassieve. Al ritorno si raggiunge, a Bagno a Ripoli, La Fonte (1,5 km dopo l’ospedale del Bigallo), dove passa il bus urbano. Lungo il percorso, passato Rosano, non vi sono esercizi pubblici per un ristoro. Si può dire che questa passeggiata è quella dei panorami più belli su Firenze e la Cupola, dall’Incontro, Poggio Crociferro, l’Apparita; degli antichi conventi ed ospedali (l’Abbazia di Rosano, delle monache di clausura, il con-vento francescano dell’Incontro, l’ospedale del Bigallo); del pae-saggio creato dalla mezzadria; dei resti dell’antica strada selciata che scendeva da San Donato a Firenze. Buona passeggiata!

di roBerto [email protected]

Spazio vuoto, punti di sospensio-ne, nel bianco il nulla, l’inizio e la fine di tutto, la vita e la morte. Luce, silenzio assoluto impalpa-bile e ovattato, colore e bagliore, possibilità infinite. Bianco dei fogli e paura del gesto poi il timido balbettio che si fa sempre più forte, enfatico e ancora traccia e ritmo, disegno e pittura, colore e amore. Lo spazio bianco azzera, cancella per ricominciare dal principio, è essenza e purez-za, è anarchia. Le parole sono divise, le sillabe allontanate, il suono diventa armonia e bellezza nella diversità, il ritmo cambia, si aggiusta, è sincopato, dolce o sommesso, è difficoltà, è un accenno a un dolore remoto, è l’urlo nell’incubo. Emicicli è lo spazio dove nuove situazioni pos-sono accadere. Rivelare lo spazio bianco fra le parole e nelle parole è lasciare affiorare altri significati nascosti, è incontrare musica, gesti, colori, immagini, voci. Se

Emicicli

facciamo spazio bianco, riuscia-mo a scorgere altre dimensioni occultate dal “fitto delle parole”, i confini si estendono, le frasi diventano spaziose, si spezzano e si perdono creando bianchi vuoti

accettanti di tutto ciò che è di-verso da noi. Emicicli è il luogo/non luogo aperto, è un abbraccio che non costringe come quando allarghiamo le nostre braccia per accogliere l’altro.

di anGeLa [email protected]

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Si afferma che: Per” tutti gli uomini”, la condi-zione conviviale rappresenta un arcaico momento catartico di positiva comunione sociale. - Da questo assunto ne conse-gue che: - Il “cibo” se debitamente interpretato, può divenire la più sublime delle “arti” (se pur effimera). Gli alimenti trasfor-mati da un processo “alchemico-cultura-le” divengono “cibo trascendentale”. Doverosa è l’assun-zione di coscienza del potere insito nel manipolare alimen-ti. Il cibo entra nei corpi con la capacità dualistica o, di dare vita a corpo e anima in perfetta sincro-nia, con emozioni coinvolgenti tutta l’umana percezione sensoriale o, dare la morte. - Affermiamo dun-que che: - “Solo il cibo”, se artisticamente inter-pretato, è capace di stimolare non solo il gusto, ma parimenti olfatto, vista, udito e tatto, per-meando l’uomo con appaganti messaggi. E’ “linguaggio ancestrale”, uni-versalmente decodificabile. Con questa premessa, si inten-de gestire, con una accurata e attenta regia, tutte le arti in simultanea partecipazione, così da ingenerare un grande evento di pura “ “arte emozionale” L’evento troverà in un video clip definito “documento di memoria” la sua proiezione temporale. Tutti gli attori ne saranno firmatari Vediamo dunque sinteticamen-te come procedere Stabilito il “tema” (titolo) dell’evento, ad esempio, il fuoco, le quattro stagioni, l’ar-monia negli opposti, si indivi-duano tutte le componenti utili a dare vita al “Copione” del momento arti-

Il manifestodi “arti e sensia convivio

stico la cui partitura è affidata alla sensibilità dell’artista” regista” Iniziamo impostando la base fi-sica del progetto individuando, Gli “spazi” scenografici conte-nitori,-una o più sale in palazzi, alberghi, ristoranti, teatri, castelli…,- all’aperto, giardini, spiagge, strade, piazze…. Le “superfici” funzionali ad ottimizzare la percezione dell’e-

vento, sedie, divani, poltrone, tavoli…… Gli uomini necessari saranno: Gli “attori”: così individuabili: - squadra di cuci-na,-poeti,-musici,- scultori,-letterati,-fo-tografi,- pittori,-sti-listi,-danzatori, I “tecnici”: sono gli addetti alla sceno-grafia -alle luci,- alle immagini, - ai suoni, Tutti saranno inviati a fornire il loro “apporto creativo” in funzione del “copione” Il “cibo” sarà dun-que connotato non solo in relazione al “gusto”, ma dovrà tener conto anche della forma e del

colore(vista), dei suoni (udito) prodotti prima e durante la presenza in bocca, degli aspetti generati dalla manipolazione diretta (tatto) o mediata da posate, delle perce-zioni aromatiche(olfatto) Le “portate “avranno defini-zioni (titoli) che travalicano lo specifico delle componenti alimentari perché legate priori-tariamente al concetto tematico della serata. Potremo dunque avere grandi portate da sporzionare o sin-goli piatti serviti da “camerieri indossatori” abbigliati dallo stilista di turno Le tavole e/o i piatti potranno avere a corredo opere scultoree elementi grafici e/o pitture. Le coreografie per i ballerini, le partiture per i musici, le sceno-grafie e i giochi di luci, tutto in funzione del predefinito coordinamento registico

di toMMaSo aGujari

Scav

ezza

collo

di MaSSiMo [email protected]

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Non è da molto tempo che nei programmi sinfonici e da camera figura la musica

di Šostakovic. Spesso il pubblico rimane ancora disorientato per l’enorme varietà del suo linguag-gio, ora molto complesso, ora addirittura popolare.La difficoltà di una definizione dello stile della sua musica è il prodotto dell’enorme vocabo-lario per mezzo del quale egli desiderava farsi intendere sia dalla massa che dagli addetti ai lavori: critici e musicisti suoi contemporanei.Franco Pulcini, musicologo esperto della sua opera, ci dà una delle possibili caratteristiche di Šostakovic. Egli scrive nel suo libro dedicato al musicista: “Nato russo, cresciuto sovietico e tornato ad essere più russo nella maturità, Šostakovic ha portato con sé il mistero di una natura complessa, contraddittoria ed impenetrabile, sulla quale gli storici potranno fare un po’ di luce forse nei prossimi decenni, dopo aver eliminato l’abnorme chiacchierio giornalistico che ha sempre avvolto il musicista e la sua opera, non meno enigmatica della sua vita”.Ho voluto trascrivere un passo di un articolo scritto a quattro mani dai figli, Galina e Maxsim: “Nato in uno spaventoso Novecento e sopravvissuto nonostante tutto, in nostro padre si riflette la tra-gedia terribile del suo tempo nel linguaggio della sua creatività, come in uno specchio spietato”.Ma qual era il potere del dittato-re nei confronti degli artisti (in particolare i musicisti)? Stigma-tizzava la loro opera, la criticava, la faceva cancellare dai program-mi e isolava gli Autori. Annullava anche nelle altre arti tutto ciò che poteva distrarre dall’ideologia imperante. Un pensiero costante di Stalin e dei suoi collaboratori era lo sradicamento del forma-lismo, termine difficilmente comprensibile; il formalismo in arte era l’opera complicata e incomprensibile alle masse e, perciò, inutile alla costruzione della cultura sovietica.Al dittatore piaceva l’etichetta “realismo socialista” e trovava una relazione con la grande tradi-zione russa del “realismo critico”, quello di Dostoevskij, Tolstoj e

Cechov. Koechlin, compositore e teorico francese, lamentava di non ritrovare più ciò che avevano tanto amato, ciò che sembrava tipicamente russo: le sottigliezze sognanti delle armonie croma-tiche di Borodin, l’atmosfera modale di Mussorgkij e neppure il pittoresco della suite sinfonica ShéhérazadeSintetizzo uno scritto di Sofia Chentova, la più accreditata biografa di Šostakovic, che affer-mava con grande profondità: “La musica di Šostakovic ha ripro-dotto la vita popolare nelle sue tappe cruciali: la Rivoluzione del 1905 e la Prima Guerra Mondia-le, la Rivoluzione di Ottobre e la Guerra Civile, la Formazione della Società Socialista e le Lotte con il Fascismo nella grande guerra. Si può dire che l’opera di Šostakovic è diventata, pertan-to, la cronaca di un’epoca” (cfr. Pulcini).Come è stato detto fin dal primo incontro del corso, queste quat-tro lezioni sono solo uno spacca-to di alcune opere del musicista, inquadrate in uno scenario sociale e politico che non rese facile il suo lavoro di composizio-ne. Scegliamo la Quinta Sinfonia (1937), dando alcune indicazioni sulla struttura e sul contenuto dei cinque movimenti.A proposito della Quinta l’autore scrisse: “Il Tema della mia Sinfo-nia è il processo di stabilizzazione di una personalità. Al centro di questa composizione (concepita liricamente dall’inizio alla fine) vedevo un uomo, con tutte le sue esperienze. Il Finale risolve gli impulsi tragici ed inquieti dei

primi movimenti in ottimismo e gioia di vivere”. A Šostakovic piaceva parago-nare la Sinfonia ad un romanzo; la Quinta era una Sinfonia-Roman-zo. Alla prima esecuzione (no-vembre 1937) il pubblico rimase sconvolto (ve ne sono parecchie testimonianze);

molti piansero, alla fine della sinfonia tutto il pubblico era in piedi e applaudiva in modo sfrenato. Il direttore Mravin-skij, girandosi verso il pubblico, rispose agli applausi alzando la partitura sopra la testa, tra grida di approvazione.Altro capolavoro che esaminiamo è la Settima Sinfonia (detta “Le-ningrado”). Per ciò che riguarda quest’opera, scritta nel 1941 all’i-nizio del terribile assedio da parte dei nazisti alla città di Leningra-do, mi riferisco a quanto scritto da Šostakovic stesso nell’articolo I giorni della difesa di Lenin-grado del 9 ottobre 1941, nel giornale “Sovetskoe Iskussitvo” e riportato da Pulcini: “L’espo-sizione del primo movimento parla del popolo che vive una vita pacifica e felice […] che ha fiducia in se stesso e nel proprio futuro. Questa è la vita semplice e pacifica che prima della guerra era vissuta da migliaia di guardie civili leningradesi, dalla città intera, dal paese. Nello svilup-po del primo movimento la guerra irrompe improvvisamente nella vita pacifica. Non voglio costruire un episodio naturali-stico con tintinnare di sciabole, esplosioni e così via. Cerco di comunicare l’impatto emotivo della guerra. La ricapitolazione è una marcia funebre, o piuttosto un Requiem per le vittime della guerra: la gente onora la memo-ria dei suoi eroi. Il secondo e il terzo movimento non hanno un programma definito: si tratta di una musica lirica, incaricata di ridurre la tensione. Shakespea-re sapeva bene che non si può

tenere l’uditorio in tensione per tutto il tempo e, a questo pro-posito, ho sempre ammirato la scena dei becchini dell’Amleto”. Se Šostakovic decise di utilizzare una forma variata, molto simile a quella efficacissima del Bolero di Ravel, la quale mima, secondo la tradizione di ascolto, l’invasione nazista, fu per la necessità di produrre una pagina sinfonica efficace per ogni orecchio. Stupi-sce che questa scelta non venga spesso compresa da commentato-ri sempre pronti a sottolineare il palese plagio. In un primo tempo la sinfonia portava un titolo per ogni movimento: La Guerra, Il Ricordo, Gli spazi sconfinati della Patria, La Vittoria; in seguito decise di sopprimere questi titoli. All’estero la Settima Sinfonia ebbe un grande successo. Dal 1941 direttori come Stokowski, Ormandy, Mitropulos, Monteux la diressero, ma per la prima esecuzione americana “vinse” Toscanini. I giornali americani parlarono diffusamente di questa circostanza e, scrive Pulcini, “questa sancì da un punto di vista culturale l’alleanza militare tra USA e URSS”.Esamineremo in questi quattro incontri anche la Sonata per vio-loncello e pianoforte, il Concerto per pianoforte,archi e tromba e due quartetti: il n. 3 e il n. 8. Le opere Il Naso e Lady Macbeth del Distretto di Mzensk richiede-rebbero una lunga trattazione a parte: queste, specie la Lady, riscossero un grande successo internazionale.Rifacendoci al primo commento dei quattro incontri, che parlava di una difficile comprensione della musica di Šostakovic da parte del pubblico, possiamo suggerire che i suoi lavori più complessi richiedono una par-ticolare disposizione per l’ascol-to, ma anche nelle opere più elaborate la sua musica “suona” sempre e i suoi effetti sono infallibili.I prossimi incontri si terranno, nella sede del Lyceum Club Inter-nazionale di Firenze (Via Alfani, 48 – 50121 Firenze, primo piano) domenica 15 marzo e domenica 19 aprile alle 11-12.30

di a. riCCardo LuCiani Musica e potere

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Un anno fa moriva lo storico Ivano Tognarini, fondatore della rivista Ricerche Sto-riche, Presidente per molti anni dell’Istituto Storico della Resistenza. La sua opera di studioso del periodo illuminista, della Resistenza e della valorizzazione e tutela dei reperti della rivoluzione industriale, verrà ricordata domenica mattina presso il la sala del Basolato a Fiesole.

Riccardo III di e con Michele Sinisi al Teatro Studio Mila Pieralli sabato 14 marzo alle ore 21.00 Il testo di Shakespeare si apre con un monologo di Riccardo che vale la bellezza dell’intera opera e che condensa tutta la vicenda. La narrazione che ne segue apre all’aspetto più profondo, all’ani-mo del personaggio e di chi gli sta intorno, degli altri personaggi, ahimè di noi. Riccardo annuncia cosa farà, il perché, e con la sua teatralità, la sua deformità, alimenta in segreto il desiderio di conoscerlo. Il posticcio e la finzione, l’artificio che induce a credere, in questo personaggio sem-brano trovare una delle occasioni più emblematiche e la magia del teatro diventa una grande bugia. Il lavoro è costruito sul monologo iniziale di Riccardo e su cosa serve per realizzare i personaggi, per farli vivere agli occhi dello spettatore. Lui diventa cattivo perché la vita gli ha tolto tanto. La cattiveria con cui invade la storia non è comodamente assoluta ma è generata dalla vita vissuta sotto il cielo, con le aspettative che questa tradi-sce, i sogni che non ci permette di realizzare. Le sottrazioni dell’animo di Riccardo si somatizzano e le ferite mostrano una diversa evoluzione della bellezza. C’è una forte nostalgia in quell’inizio perché niente è più dolo-roso della coscienza di ciò che non sarà più. Lo spettacolo non racconta una storia, la fa vedere e il testo ha un ruolo musicale, da sentire più volte fino a comprenderlo sulla scena più di quanto il foglio non possa fare.

aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexL’ennesima scultura di carta di della Bella (anche questa finanziata dalla Kimber-ly-Clark Corporation) si confronta con capolavori di identico soggetto realizzati da Bernini, da Bacon e da Manzù. Artisti diversissimi fra loro, il primo ci propone un Richielieu simbolo di potere assoluto, il secondo, invece, fa esplodere i suoi pre-lati come segno della dissoluzione estre-ma, per il terzo i cardinali trasmettono un’alta pomposità metafisica, invece, per il nostro artista, l’uomo di chiesa sta fug-gendo o forse rincorrendo qualcuno, ma cosa sta facendo non ci interessa poiché ci trasmette un senso di grande tranquillità: sicuramente, si sta allontanando da noi.

Sculturaleggera

In memoria Riccardo III a Scandicci

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di aldo Frangioni

Il mondo occidentale

cristiano ha molte respon-

sabilità, antiche e recenti,

di quanto sta avvenendo in

Medio Oriente, ma l’orrore

dei bambini boia, azzera

ogni senso di colpa dalla

Prima crociata ai frettolosi

bombardamenti in Libia di

Sarkozy.

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L

Da queste parti, in un paese dal buon clima - anche se non è questo il caso nel giorno di queste riprese - e dai grandi spazi, l’interesse per le automobili e i motori era molto diffuso e quasi morboso. Era sempre possibile vedere auto di tutti i tipi e di tutte le dimensioni, di fabbrica e modificate, tradizionali, vintage e spesso anche abbastanza “di fantasia”. I luoghi delle corse, tanti e diversi, erano molto diffusi e c’era solo

l’imbarazzo della scelta. Qui siamo appunto a San Jose in un pomeriggio stranamente nuvoloso e orde di spettatori pieni di adrenalina si affollano attorno al circuito mentre i vari “teams” dei piloti danno un’ultima occhiata a motori e sospensioni prima del momento fatidico della partenza.

San Jose, California 1973

Dall’archiviodi maurizio Berlincioni

[email protected]

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